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Ottobre - Dicembre 2010 - n.4
Bollettino
Direttore responsabile: Baffoni don Redeo
Sped. in abbonamento postale 70%
Filiale di Forlì
Direz. Amministr.: Curia Vescovile, via IV Novembre, 35
Rimini – Tel. 0541. 24244
Pubblicazione Trimestrale
Con approvazione ecclesiastica
Progetto grafico e impaginazione - Kaleidon
Stampa: Tipolito Garattoni - Rimini
Bollettino
Ottobre - Dicembre
2010
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Bollettino
Ottobre - Dicembre
2010
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Indice
Atti del Vescovo........................................................................................................................5
Omelie.......................................................................................................................................... 6
Lettere e messaggi.................................................................................................................. 45
Decreti e Nomine.................................................................................................................... 56
Agenda....................................................................................................................................... 57
Attività del Presbiterio........................................................................................................67
Incontri Presbiterio..............................................................................................................68
Settimana di aggiornamento del Clero..........................................................................69
Relazione di Mons. Domenico Pompili.............................................................................70
Organismi Pastorali..............................................................................................................81
Avvenimenti Diocesani....................................................................................................... 93
Atti del Vescovo
• Omelie................................................................................................6
• Lettere e messaggi................................................................... 45
• Decreti e nomine....................................................................... 56
• Agenda............................................................................................ 57
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Diaconi:
la perfetta letizia del servizio
Omelia tenuta dal Vescovo nel corso dell’ordinazione diaconale di
Antonio Giustini, Massimiliano Zamagni e Daniele Missiroli
Rimini, Cattedrale, 3 ottobre 2010
Cade giusto a proposito l’ultima parola del Signore Gesù, che ci è stata appena proclamata nel santo vangelo. Riascoltiamola con attenzione: “Così anche
voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi
inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). Ma per quanto si inserisca a pennello nella solenne, commovente cornice della vostra ordinazione diaconale – carissimi Daniele, Antonio e Massimiliano – non per questo la parola
del vangelo ci giunge meno provocatoria, se non addirittura irritante.
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1. In verità il breve paragone del ricco proprietario terriero, che spreme
senza tanti complimenti il suo servo, ci contagia quella sensazione sgradevole,
che inevitabilmente si prova di fronte all’antipatico ritratto di un boss arcigno
e intrattabile. Viene da chiedersi: ma Dio rassomiglia davvero a certi padroni
fiscali e incontentabili che stanno lì sempre pronti a ordinare e a pretendere, e
non danno un attimo di pace ai loro servitori? Non è questa la prospettiva del
paragone sconcertante, pennellato a tinte grosse da Gesù. L’obiettivo di questo
insegnamento quanto mai inedito e paradossale del Maestro di Nazaret non è
di rivelarci il comportamento di Dio verso l’uomo. Tale comportamento infatti
risulta già del tutto trasparente nello “stile” dello stesso Gesù, il quale è venuto
a servire e non a farsi servire (Lc 12,32). Ed è venuto a vivere una vita simile a
quella del cameriere, sempre pronto a scattare agli ordini del signor padrone,
che invece se ne sta beatamente seduto a mensa, anzi adagiato placidamente
su un confortevole divano, secondo il noto costume orientale (Lc 22,27). La
piccola parabola del padrone dai modi bruschi, sgradevoli, se non urticanti,
che comanda puntigliosamente a bacchetta, e del servo puntuale e ossequiente, che obbedisce a un solo battito di ciglia del suo signore – mi permetto di
ripetere – non vuole descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo. Vuole
piuttosto rappresentare il comportamento dell’uomo verso Dio, che dovrebbe
essere di totale disponibilità al suo benevolo volere, una disponibilità senza
pretese e senza riserve, senza calcoli e a “interessi zero”.
Ma torniamo a quella parola dal suono stridente e dal tenore brutale: “Siamo servi inutili”. Se si fa una rapida ricerca sinottica sulle varie traduzioni del
passo, anche in Bibbie in altre lingue, si nota che l’espressione viene resa con
“siamo dei semplici servi”, o “siamo dei poveri servi”, o ancora “siamo soltanto
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
servi”. In alternativa, quando viene tradotto letteralmente con la resa tradizionale – “siamo servi inutili” – il nostro passo viene spiegato a piè di pagina con una
nota del tipo: questo aggettivo “inutili” è “la traduzione letterale (e tradizionale)
del termine greco, ma pare adattarsi molto male al contesto” (così nella vecchia
Bibbia di Gerusalemme). In realtà il contesto mostra chiaramente che, nonostante tutto, il servitore non è niente affatto inutile, e comunque l’espressione
– che pure è e resta eccessiva – si adatta perfettamente ai discepoli: nessuno
è indispensabile al servizio del Signore. Difatti in italiano l’aggettivo inutile significa buono a nulla, che non serve a niente, incapace, superfluo, di cui si può
fare a meno. Ma non è questo il senso della parola originaria: in-utile significa
letteralmente senza-utile, cioè senza guadagno.
Infatti i discepoli del Signore prestano il loro servizio non come dei soldati
così chiamati appunto perché riscuotono il soldo, o dei mercenari che si vendono per una pingue mercede, o dei salariati che si aspettano la busta-paga a
fine mese. I discepoli sono servi che prestano la loro opera senza rivendicazioni
amare o acide recriminazioni, e senza secondi fini. Non mirano a ricompense, a
gratifiche lusinghiere o a esaltanti successi. Non agiscono per il miraggio di lauti
guadagni o di brillanti carriere. Non sono degli accaniti rampanti. Non vogliono
altro che servire, e servire gratis: umilmente e disinteressatamente.
2. Ecco il tratto obbligato della vostra carta di identità, carissimi diaconi:
gratuità. Stampate questa parola luminosa in testa ad ogni capitolo del vostro
ministero, scrivetela in ogni pagina delle vostre giornate, declinatela in ogni riga
dei vostri molteplici servizi, e sarete beati. Non fate mai da padroni della fede
dei fratelli, mettetevi a disposizione della loro gioia, e conoscerete la perfetta
letizia.
Questo pensiero della perfetta letizia merita di essere ripreso. Siamo ormai
ai primi vespri della festa di s. Francesco d’Assisi. Come oggi, il 3 ottobre di quel
lontano 1226, in uno dei tramonti più dolci della storia, frate Francesco, dopo
essersi fatto deporre nudo sulla nuda terra – perché “al suo corpo non volle
altra bara” (Dante) – l’umile servo dell’altissimo, onnipotente e bon Signore si
lasciava abbracciare da “sora nostra morte corporale” e rendeva la sua giovane
vita a Dio. Gli storici non sono del tutto sicuri e concordi nel ritenere Francesco
come un diacono della santa Chiesa, ma Giotto lo raffigura con la dalmatica
e noi pure così, questa sera, lo vogliamo contemplare. Pensando al diacono
s. Francesco e al celebre fioretto sulla perfetta letizia, permettetemi di indirizzarmi ad ognuno di voi tre – carissimi Antonio, Massimiliano e Daniele – e
lasciatemi tradurre per voi, adattandole, le parole di s. Francesco a frate Leone.
“Frate” diacono, quando non avrai trattenuto nulla per te, nella sciocca presunzione di essere proprietario di qualche bene; quando avrai servito il Signore
e avrai speso nel servizio suo e degli altri tutte le forze, le doti e le risorse ricevute in dono; quando non faticherai troppo a vederti ridotto nella passività;
quando, dopo aver dato tutto, non ti ritroverai nell’abbigliamento del V.I.P. ma
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con il grembiule del servo che ha fatto solo e tutto quello che doveva fare…
allora scrivi: quivi è perfetta letizia.
Fratello diacono, quando non ti sarai messo alla sequela di Cristo per realizzare un tuo progetto, e sarai talmente disponibile da non avere più tempo
per pensare ai tuoi progetti; quando ti sarai messo totalmente a disposizione
per la sua causa e non sarai più tentato di strumentalizzare Lui per la tua causa;
quando non punterai più ad asservire i molti per te, ma ad asservire te stesso
per i molti… allora siediti e scrivi: quivi è perfetta letizia.
Fratello diacono, se non ti approprierai dei frutti del tuo lavoro, perché altrimenti li ruberesti a Dio; se lavorerai unicamente perché il pensiero di Dio, la
parola di Dio, l’azione di Dio, la potenza di Dio operino attraverso di te, umile e
docile strumento della sua grazia; quando non ti sentirai più né indispensabile
né insostituibile, e accetterai ogni incarico non come un merito o un premio,
ma come un dono e solamente, semplicemente come una chiamata a servire…
allora scrivi: quivi è perfetta letizia.
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Permettetemi in conclusione, carissimi, di girarvi un testo, a me molto caro,
che può aiutare a fare sintesi dei pensieri che ho provato a comunicarvi. È il
“testamento spirituale”, trovato dopo la sua morte, tra alcune poesie del nostro
indimenticabile padre spirituale nel seminario regionale di Anagni: “Tu l’hai
letto, o Signore, tra le pieghe del mio spirito / il mio ultimo sogno: / morire in
silenzio, uscire dal mondo, in punta di piedi!
È un sussurro d’un cuore sereno, che canta sommesso tra i molti fragori
d’un mondo in subbuglio. / È un profumo di fiore nascosto che accarezza i gelidi venti dei miei mesi invernali.
Vorrei uscire dal mondo, come una larva di servizio, che da una sala di
convito / quando tutti sono allegri / chiamata altrove / s’eclissa, frettolosa,
inosservata, silenziosa…
Vorrei uscire dal mondo, come una figura amica, che da una stanza d’ospedale / quando tutti sono assopiti / finito il suo turno / scompare, senza saluti,
senza sorrisi, in punta di piedi” (Mario Rosin, S.J.).
Che Maria, l’umile serva del Signore, la dolcissima madre di noi poveri servi,
accolga l’offerta della vostra diakonia, la metta nelle mani del suo Figlio Gesù, e
ve la restituisca trasfigurata nella vita del Servo dei servi del Signore, intessuta
di umile limpida gratuità, profumata di gioia e di perfetta letizia.
+ Francesco Lambiasi
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Dov’è Dio quando noi
soffriamo?
In occasione della festa del beato Alberto Martelli, il Vescovo ha scritto, a
nome del Beato, la seguente lettera ai giovani cristiani riminesi
Rimini, cattedrale, 12 agosto 2010
Carissimi Gaia e Mattia, Carissimi tutti,
oggi sono sei anni esatti dal giorno in cui venni iscritto nell’albo dei beati dal
grande papa Giovanni Paolo II, a Loreto. Quel giorno c’era anche il vostro Vescovo nella piana di Montorso. Perciò – se proprio lo volete sapere – chiedete
a lui come ha fatto a trascrivere il messaggio che io stesso gli ho trasmesso e
che ora vi è stato recapitato tra le mani…
Non pretendo da voi una memoria da elefante, ma forse vi ricorderete che
l’anno scorso vi parlai della prima delle otto beatitudini, quella sulla povertà:
Beati i poveri in spirito! Ora vorrei parlarvi della seconda: “Beati quelli che
sono nel pianto, perché saranno consolati”. Sono sicuro che se tu, Gaia,
o tu, Mattia, vi presentaste domani mattina a scuola con una frase del genere
scritta sulla maglietta, fareste sbellicare dalla risate il 99,9 per cento dei vostri
compagni, o perlomeno vi rifilerebbero abbondanti dosi di risolini compiaciuti,
accompagnati da qualche “Ma va’!” di commiserazione.
In effetti bisogna francamente ammettere che dire “Beati gli afflitti” significa spararla davvero grossa. Come si può essere beati, cioè felici, se si è afflitti,
cioè infelici? Eppure io vi posso dire che ancora una volta Gesù è OK e ha tutte
le sacrosante ragioni per proclamare felici gli infelici. Sia chiaro: non perché
sono infelici, ma perché saranno felici! Per convincersene, basta guardare in
controluce questa beatitudine e leggerla come in filigrana sul volto dello stesso
Gesù di Nazaret. Perché anche lui ha pianto: ha sentito a pelle il brivido della
compassione quando si è imbattuto nel dolore della vedova di Nain, mentre
portavano alla sepoltura il suo unico figlio giovanissimo. Ha pianto alla vista
della Città santa, sul suo degrado morale e spirituale, sul male che dilaga nel
mondo. Ed è scoppiato a lacrimare a dirotto quando ha condiviso lo strazio
delle sorelle di Lazzaro per la morte del giovane fratello, suo intimo amico. Ma
ha pianto anche nella sua agonia al Getsemani ed è morto tra “forti grida e
lacrime” (Ebrei 5,7).
Anch’io, Alberto, ho sperimentato la solitudine, la paura, e tanti momenti
di atroci sofferenze. Anch’io ho pianto: quando è morto in Russia mio fratello
Lello, quando dopo gli orribili sfregi dei bombardamenti mi è toccato raccogliere i tronconi dei corpi dilaniati dalle granate e soccorrere tanta povere gente in
fin di vita.
Omelie
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Anch’io ho pianto quando ho sperimentato il rifiuto di Marilena, la ragazza
che sognavo di sposare. Ecco quanto le scrivevo: “Amo troppo il Signore per
ribellarmi o piangere su quella che evidentemente sarebbe la Sua volontà, ed
infine amo te tanto, che desidero solo la tua felicità, a costo anche di miei sacrifici e rinunce”.
Ma anch’io ho riscontrato la verità di Gesù quando ho sperimentato la consolazione del “piangere con chi piange” (Romani 12,15) e la compassione per il
dolore altrui. Ecco ad esempio quanto scrivevo ad un amico, per la scomparsa
della mamma, nonostante avessi nutrito fiducia che il Signore la salvasse: “Abbi
fede, Vittorio, il Signore manda le prove e visita col dolore chi più ama: piangi,
perché anche la parte nostra umana soffre e soffre atrocemente sotto la sferza
del dolore, ma sappi renderti una ragione di questo dolore. Solo attraverso la
sofferenza, possiamo giungere alla vera vita. […] Sono passato anch’io attraverso momenti di dolore, quando più volte la morte ha portato via con sé in
Cielo il babbo e i fratelli, e so quanto poco servano le parole umane a lenire la
ferita profonda dell’anima nostra; ma sempre mi ha confortato sentire gli amici
vicini” .
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Così ho capito che cosa significhi “Beati coloro che sono nel pianto, perché
saranno consolati”. Gli afflitti sono i discepoli di Gesù che sognano un mondo
nuovo e si addolorano per il marcio che c’è nel mondo. Portano la croce dietro
a Gesù e ce la mettono tutta per riparare e compensare i propri peccati e quelli
degli altri. Dio li consola in ogni tribolazione e li rende capaci di consolare gli
altri.
Ma dove se ne sta Dio quando a noi tocca piangere?
Dov’è il buon Dio? Dov’è Dio? si chiedeva qualcuno ad Auschwitz, mentre i
prigionieri assistevano impotenti all’impiccagione di tre loro compagni, tra cui
un bambino. “Dietro di me – ricordava lo scrittore ebreo Elie Wiesel, che assisteva all’esecuzione – udii un uomo domandare: Dov’è dunque Dio? e io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo, è appeso lì, a quella forca”.
Anche voi vi siete chiesto negli ultimi giorni dov’era Dio quando a Milano,
in viale Abruzzi, le mani di Oleg, ragazzo di 25 anni, hanno spappolato la vita di
Emilu, donna di 41 anni con l’unica colpa di passare da lì. Dov’era Dio quando
l’impiegato in odore di licenziamento ha sparato ai suoi colleghi? Dove era,
quando il ragazzo neolaureato ha sparato alla fidanzata sedicenne che lo aveva
appena lasciato? Insomma dov’era Dio quando Caino ha massacrato Abele?
Dio era là, Dio è sempre là, ma non dalla parte dove noi guardiamo e vorremmo che fosse. Dalla parte dell’onnipotenza, della forza, ma dal lato meno
visibile, dal lato fragile. Dio è presente come vittima e nelle vittime. Ecco dov’era
Dio. Ecco dov’è. Cristo c’era quel 14 di nisan dell’anno 30, sul Golgotha, faccia a
faccia con il male, una volta per tutte e ha vinto.
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Lo sgomento del male senza senso ci costringe al faccia a faccia con Cristo
in croce: in lui vediamo la nostra croce e la croce degli altri. E capiamo che non
c’è altra soluzione all’enigma del dolore innocente. La croce di Cristo non elimina il chiaroscuro della fede, ma trasforma l’enigma in mistero. L’enigma è un
giallo; il mistero è un’avventura. È una traversata con una fragile barca a vela,
su un mare, spesso in tempesta. E Dio ci chiede di salire in barca con noi. Noi
non siamo padroni del vento, e non sempre Lui placa la tempesta. Ma ci aiuta
ad orientare la vela e a non affondare.
Vi lascio con una preghiera che vi può essere utile per non sprofondare
nelle sabbie mobili della depressione. È un testo composto da un gruppo di
disabili, inciso nel bronzo, in un istituto di riabilitazione a New York)
Avevo chiesto a Dio la forza per raggiungere il successo, ho ricevuto la debolezza affinché imparassi umilmente a ubbidire.
Avevo chiesto la salute per fare cose grandi, ho ricevuto l’infermità perché
facessi cose vere
Avevo chiesto la ricchezza perché potessi essere felice, ho ricevuto la povertà perché potessi essere saggio.
Avevo chiesto il potere per avere l’ammirazione degli uomini, ho ricevuto la
debolezza perché potessi sentire il bisogno di Dio.
Avevo chiesto le cose che potessero rallegrare la mia vita, ho ricevuto la vita
perché potessi rallegrarmi di ogni cosa.
Non ho ricevuto nulla di quello che avevo chiesto, ma ho ricevuto tutto
quello che avevo sperato.
A dispetto di me stesso le mie preghiere silenziose sono state esaudite. Tra tutti gli uomini sono colui che è stato maggiormente arricchito.
Vi lascio con queste parole di s. Paolo: “Lodiamo Dio, Padre di Gesù Cristo,
nostro Signore! È il Padre che ha compassione di noi, e ci consola in tutte le
nostre sofferenze, perché anche a noi sia possibile consolare tutti quelli che
soffrono, portando quelle stesse consolazioni che Lui ci dà”.
Vi guardo dal cielo con simpatia e affetto e vi accompagno con la mia preghiera
per Alberto Marvelli
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Don Oreste mistico
Contemplativi nel mondo
Marebello - Rimini 6 ottobre 2010
In occasione della Due Giorni per i consacrati dell'Associazione papa Giovanni XXIII, il Vescovo ha proposto la seguente riflessione.
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Ho sollecitato io stesso questa riflessione, su don Oreste mistico, perché voi
ne siete convinti più di me: questo è il vero don Oreste. Negli ultimi anni della
sua vita nell’immaginario collettivo circolava l’immagine di un Don Oreste operatore sociale. Lui stesso era consapevole di questo rischio che correva. Succede come per i film su Gesù, su S. Francesco, su Giovanni Paolo II: È difficile che
un regista, uno scrittore, un giornalista riescano a cogliere l’anima segreta di
Gesù o di un grande santo. Ma voi sapete bene che se decurtiamo don Oreste
della sua dimensione mistica, ci troveremmo un “Don” irriconoscibile.
Mentre venivo con Maria e Simone, sul cruscotto della macchina, ho rivisto
la foto del Don che abbraccia un bambino africano. Penso che “don Oreste
mistico” sia tutto qui: se io dovessi scegliere una foto per esprimere con una
immagine il Don Oreste mistico, non sceglierei l’immagine del Don che celebra
la Messa, sprofondato nel mistero. Sì, la foto più appropriata è questa, perché ci
aiuta a non distorcere il messaggio di don Oreste e a non farlo passare per un
sognatore, o uno spiritualista.
Per entrare in argomento, anticipo lo schema che seguirò: Don Oreste testimone, Don Oreste maestro, Don Oreste educatore.
Alcune brevi premesse:
1. Che cosa è la mistica?
Sono andato a riprendere un testo che è un classico, che anche don Oreste
citava, di Royo Marin: “Teologia della perfezione cristiana” e sono andato a vedere la parte riservata alla mistica. Cosa si deve intendere per mistica, secondo
questo autore? Innanzitutto bisogna distinguere tra mistica e fenomeni mistici
straordinari: estasi, visioni, bilocazioni e fenomeni paranormali. Questi ci possono stare o non stare; sono fenomeni per lo più molto rari, ma la mistica non si
può identificare con questi fenomeni. Un esempio, tra tanti, è s. Teresa di Gesù
Bambino, dottore della chiesa, che diceva di non avere mai avuto una visione
se non da piccola, quando una statua della Madonna le avrebbe sorriso. Nel
Carmelo non ha mai avuto visioni, estasi, stimmate, che invece ha avuto padre
Pio. Quindi la mistica non va identificata con i fenomeni mistici straordinari.
Atti del Vescovo
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2. Il “costitutivo essenziale” della mistica
Ciò che distingue la mistica e la separa da tutto il resto è dato dalla “‘attuazione dei doni dello Spirito Santo al mondo divino, sovrumano, che produce
una esperienza passiva di Dio. È una definizione precisa, ma fredda, come tutte
le definizioni. Vedremo che le definizioni che darà Don Oreste non sono cosi
precise e taglienti, ma sono molto più calde e coinvolgenti. (Non so perché, i
libri di teologia sono di una noia insopportabile, mentre si può fare, come dice
Hans-Urs von Balthasar, altissima teologia con opere come la Divina Commedia.
Che cosa dunque costituisce la mistica? Mistica è un’ esperienza passiva di
Dio. Ciò significa che il soggetto umano, il credente, non si trova più come nella
fase ascetica, cioè impegnato in prima persona, che agisce in modo umano.
La mistica è un’esperienza soprannaturale di cui Dio è il soggetto. Si parla di
“esperienza passiva” perché la persona l’accoglie come un dono. Il Catechismo
degli adulti della CEI, in modo molto semplice, descrive la mistica così: “Non
l’impegno personale, ma l’azione dello Spirito Santo introduce nella contemplazione mistica”. Non è un impegno, un dovere, un sacrificio da fare, ma un
dono, è l’azione dello Spirito Santo. È un’esperienza di Dio senza concetti, senza
immagini e senza parole. L’uomo non può né raggiungerla né farla durare a volontà, ma solo prepararsi a riceverla. Non si prende, non si conquista, non è un
merito, non è una sfida da vincere, ma un dono da accogliere.
Questo dono ineffabile è difficile da descrivere. Descriverlo è come sezionare un quadro di un autore; quando lo sezioni l’ammazzi. Così è per la
mistica: se cerchi di elaborarla concettualmente, con formule precise, senti che
questa esperienza ti sfugge. Questa esperienza ineffabile, nelle notti mistiche,
comporta la dolorosa impressione di essere abbandonati da Dio; implica l’intuizione diretta, indubitabile della presenza delle Persone divine e dell’unione
d’amore con esse; viene, accompagnata da una gioia superiore a tutti i beni e a
tutte le soddisfazioni del mondo. Così parla s. Teresa d’Avila, una delle più grandi mistiche. L’esperienza mistica può essere accompagnata da vari fenomeni
paranormali conoscitivi: rivelazioni, visioni, profezie, chiaroveggenza, scienza
infusa, o fenomeni psicosomatici come estasi, lievitazioni, bilocazioni, stimmate, profumi, luminosità. Questi fatti, sebbene attirino l’attenzione o destino
meraviglia, hanno un valore secondario non paragonabile alla sublimità della
contemplazione.
3. Tutti siamo chiamati alla unione mistica con Dio
Questo ce lo dice il Catechismo della Chiesa Cattolica al n° 2014. Tutti siamo chiamati, non è privilegio di un’elite di persone e non è detto che tutti ci
arrivino. Il mio padre spirituale del seminario sosteneva che il momento della
morte è come una sorta di “alba mistica”: se non ci si è arrivati prima all’unione
mistica, ci si arriva tutti a quel punto, in extremis. Forse è proprio così. Ad ogni
modo non possiamo rischiare di intendere la vita cristiana soltanto come: ascetica, come impegno, mortificazione, distacco, liberazione dal peccato, dall’egoismo; poi si arriverebbe alla mistica per i più bravini. La vita cristiana non si può
sezionare in questo modo. È indubbio che è una vita che deve essere sempre
accompagnata dall’impegno ascetico: il cristiano deve costantemente vigilare,
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perché la vigilanza e la prudenza sono virtù che devono essere sempre presenti.
Ciò che mi preme sottolineare è che “tutti siamo chiamati all’unione mistica
con Dio”.
Fatte queste premesse, veniamo al percorso che vi propongo e che sarà
scandito in tre tappe: 1. Don Oreste, testimone di esperienza mistica; 2. maestro di vita spirituale; 3. Don Oreste, educatore.
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1. Don Oreste testimone
Ritorno alla foto che vi ho mostrato. Don Oreste non è stato un “tecnico”
della vita spirituale, pur essendo stato padre spirituale in seminario a Rimini per
15 anni, ragione per cui gli abbiamo intitolato il nuovo seminario diocesano.
Don Oreste è stato padre spirituale, e quindi prete che ha fatto esperienza di accompagnamento spirituale, ma non è stato un professionista; è stato piuttosto
un innamorato di Dio. Diceva spesso che “Dio non ha bisogno di facchini, ma di
innamorati”. E ripeteva che “il prete o è un mistico o non è un prete”.
Un altro tratto che identifica Don Oreste come testimone di esperienza
di unione con Dio è il fatto che non era un narcisista; non si metteva in vetrina.
Era stato un uomo totalmente decentrato da sé, non autocentrato, ripiegato su
se stesso. Parlava pochissimo della sua preghiera personale. La sua esperienza
spirituale la oggettivava sempre col pudore che non lo faceva salire mai sul
piedistallo. È stato un cristiano e un prete “estatico”. Non so se ha avuto esperienze di estasi, forse sì. Sappiamo solo che spesso veniva colto in flagrante
preghiera. Don Elio lo sentiva pregare ad alta voce. Bene, quando la preghiera
arriva a questo slancio - che è segno di un decentramento totale da sé e di uno
sbilanciamento in Dio - per cui tu parli e vedi, e gli altri non vedono niente di
quello che vedi tu, significa che ti senti afferrato da una presenza che ti attira a
sé, altrimenti sei matto. Don Oreste è stato un uomo “estatico”, secondo l’etimologia del termine che deriva da “ek-statico” (= fuori di sé), non nel senso di
“alienato”, ma nel senso di “proiettato” in Dio. Estasi significa uscir fuori di sé,
non per follia, ma per esperienza dell’amore di Dio. Questa estasi non necessariamente arriva a una levitazione del corpo (livello psico-somatico), ma implica
sempre uno “sbilanciamento” in Dio (livello spirituale o “pneumatico”).
2. Don Oreste maestro
Vengo al punto centrale: don Oreste maestro, non un cattedratico né un
teologo; ma maestro in quanto testimone e testimone in quanto maestro. Io mi
baso su due lezioni di Don Oreste del ‘91-‘92.
Il titolo è: Fanno dell’unione con Dio una dimensione di vita. Nella lezione del 6 dicembre ‘91 don Oreste ha preso come tema: L’unione mistica con
Gesù e ha proposto una riflessione di grande attualità. Si pone anzitutto una
domanda preliminare: È possibile esistere con tutto se stesso in un altro? Ecco
l’estasi: esistere in un altro. Don Oreste risponde: È possibile esistere con tutto
se stesso nell’Altro e rimanere se stessi, non più come prima, ma in un’unione
che fonde la vita di due originalità in una unità totale. Il Curato d’Ars diceva che
la preghiera ci fa arrivare ad un’unione con Dio come due pezzi di cera, che, per
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
il calore, si fondono in uno, e formano una unica candela. Questo avviene per
un intervento soprannaturale della grazia, e non è un risultato dei nostri sforzi.
Il Signore ci comanda di pregare, certo, ma non ci obbliga, non ci dà l’unione
con Lui come un dovere, come un cammino obbligato da fare. Royo Marin
caratterizza così l’unione con Dio: L’unione mistica dell’uomo con Dio, che poi
diventa l’unione mistica con Gesù, è esistere in Dio in un rapporto di due realtà
concrete, viventi”.
Continua don Oreste: “Esistere in Dio significa essere trasferiti in Lui e raggiungere quell’amato che il nostro cuore cerca. Esistere in Dio amandolo, esistere in Dio sentendosi amati. Ma è perché ci si sente amati che si esiste in Dio
amandolo. La prima esperienza dell’unione mistica con Dio è “sentirsi profondamente amati”.
Vediamo un po’ di entrare dentro questa descrizione, anche a rischio di
perdere quella incandescenza che ha il racconto di un’esperienza fatta in prima
persona singolare da chi la vive, don Oreste in questo caso.
a. La prima legge: la verticalità discendente
Unione mistica significa amare Dio e sentirsi amati da Lui. Don Oreste conferma, con la vita, che l’amare Dio viene dopo; la prima cosa che avviene è
sentirsi amati da Dio, è credere di essere amati da Lui.
Ecco la prima legge dell’unione mistica con Dio: “la verticalità discendente.
Don Oreste combatteva l’orizzontalismo, la riduzione del cristianesimo a filantropia, a un semplice volersi bene: questa è simpatia, affetto umano. Non si può
assorbire il primo comandamento (amore verso Dio) nel secondo (amore verso
il prossimo). Ma prima ancora dell’amore verso Dio, c’è l’amore di Dio verso di
noi. Noi ci amiamo perché Dio ci ha amati per primo (1Gv 4). Prima di amare
viene il sentirsi amati. È perché siamo amati che noi siamo chiamati ad amare; il nostro è un amore di risposta; l’iniziativa ce l’ha Dio che ci ha amati per
primo. Si tratta quindi una verticalità discendente, non ascendente, non sono
io che salgo questa montagna. A Santa Teresa di Gesù Bambino piaceva molto
s.Giovanni della Croce, e, da carmelitana, ha citato più s. Giovanni della Croce
che s. Teresa d’Avila. Però l’immagine della montagna (cfr La salita al monte
Carmelo) non le piaceva e diceva: “No, Signore, io sono piccola, piccola: non ce
la farò mai a salire da sola verso di te! Solo tu puoi discendere verso di me”. E
portava l’esempio dell’ascensore, perché quando a 15 anni venne in Italia per
un pellegrinaggio a Roma. A quel tempo negli alberghi italiani si montavano i
primi ascensori. Allora un giorno scrisse: “Ho trovato il mio ascensore: sono le
tue braccia, Gesù, che si protendono fino a me: ecco il mio ascensore! Io da
sola non ce la farei mai a salire, ma ho trovato l’ascensore: è la fiducia nella tua
misericordia, sono le tue braccia che mi sollevano fino a te!” Ecco la verticalità
discendente: è Dio che si abbassa, è lui che ci porta in braccio e che ci alza fino
a sé, e ci porta in alto come fa un’aquila con i suoi piccoli.
b. La seconda legge: l’indicativo precede l’imperativo
La seconda legge della vita mistica è la seguente: l’indicativo precede l’imperativo. Noi siamo amati, dunque non possiamo non riamare. Noi siamo santi,
Omelie
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cioè siamo santificati nel battesimo, perciò dobbiamo essere santi, dobbiamo
tradurre la santità donata da Dio in santità vissuta e testimoniata. Insomma,
mettendo insieme due frasi che troviamo pari pari nell’Antico Testamento, possiamo dire: “siete santi! siate santi!” “Siete santi” è l’indicativo, “siate santi” è
l’imperativo. Prima dell’imperativo, viene l’indicativo. Quando ero in seminario,
mi sentivo sempre dire: devi…!devi…! devi…! Questo doverismo in un ragazzino, timido e sensibile come era il sottoscritto in quegli anni, creava dei traumi,
perché dovevo sforzarmi fino allo spasimo, e non ci riuscivo mai. Era come dover
spalare una montagna con la carriola. È molto bello quel libretto di Ernesto Olivero: “Amati, amiamo”: questa è la regola del Sermig. Prima viene “amati”, poi
“amiamo”!
Ancora, dice don Oreste: “Amare significa essere nella gioia per la gioia
dell’altro. È la gioia della gioia dell’altro. Sembra un gioco di parole, ma è così. È
dire a Dio: Io sono contento che Tu ci sei, che Tu mi ami. La parola che esprime
l’amore è ti voglio bene, non è mi voglio bene in te! Da grande comunicatore,
don Oreste sapeva dire in una battuta quello che nei trattati teologici si dice in
pagine su pagine! Io ti voglio bene, non vuol dire mi voglio bene in te, cioè strumentalizzo te! Quando incontro i fidanzati, faccio una battuta: Tu ami lui, o ami
lei, perché ne hai bisogno, o ne hai bisogno perché lo ami? Tu ami Dio perché
ne hai bisogno o ne hai bisogno perché lo ami? C’è differenza! L’amore di Cristo
porta all’essere disarmati. Questo è molto importante: lasciarsi disarmare, perché
se tu ti difendi, tu non ami, devi lasciarti disarmare! Sentite ancora cosa dice don
Oreste: “Questa potenza d’amore, che è dentro uno che è disarmato, diventa il
percussore che fa esplodere la potenza d’amore che è nell’altro”. Se tu hai un
contenitore di dinamite, la dinamite non spara se tu non la percuoti. O come il
colpo al grilletto, che percuote quella pallottola che poi esplode. Il percussore è
l’amore in te che fa esplodere l’amore nell’altro. La gioia che tu provi per l’esistenza dell’altro. Questo per quanto riguarda l’amore orizzontale. Ma il primo ad usare
il percussore è Dio nei miei confronti, sempre per questa verticalità discendente.
Se l’amore di Dio è dentro di me, è in me, quell’amore di Dio mi compenetra, mi
passa dentro, e arriva al fratello.
Non so se don Oreste quando ha scritto o ha detto queste cose stava pensando alla cosiddetta trasverberazione. Nell’ estasi di s. Teresa d’Avila, scolpita dal
Bernini, nella chiesa dei carmelitani a Roma, c’è un angelo bellissimo, che ha una
freccia pronta per scagliarla, per colpire il cuore. Io vengo da un paesino vicino a
Sezze romano, dove è nato un frate minore, nel Seicento, s. Carlo da Sezze, che
ha avuto il fenomeno della trasverberazione: un raggio, che è partito dal tabernacolo, lo ha trapassato, e quando è morto è stato trovato il suo cuore con una ferita, per cui non avrebbe potuto vivere. Non so come avvenga questo fenomeno…
Dice Don Oreste: Dio mi compenetra, mi passa dentro, e lasciandomi trapassare
dal suo amore, faccio esplodere in te, fratello o sorella, la potenza di amore di
Dio che è dentro di te. Nel momento in cui questo amore di Dio da me passa
a te, fratello o sorella, allora fa da percussore e quindi quell’amore da possibile
diventa reale. Allora vedete che il sentirsi amati porta a lasciarsi disarmare e arriva
alla gratuità dell’amore. Io non ti amo perché ho bisogno di te, ma ho bisogno
di te perché ti amo! Questo è l’amore gratuito: ho bisogno di te perché ti amo!
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Nel nuovo rito del matrimonio è cambiata la formula del consenso. Mentre
fino a qualche anno fa si diceva: Io Giuseppe prendo te Maria, ora si dice: Io
Giuseppe accolgo te, Maria! Il verbo latino è accipio, ma un conto è prendere
l’altro, un conto è accoglierlo. L’altro non è un oggetto da prendere e possedere,
ma una persona da accogliere e ospitare. Una mamma non ama il bambino
perché il bambino le è utile, perché ne ha bisogno, ma lo ama gratuitamente.
Don Oreste diceva: Noi abbiamo un dono, non siamo i potenti della vita spirituale – ecco il titanismo spirituale: una tentazione molto pericolosa - non siamo i potenti, perché c’è una potenza nella vita spirituale che fa allontanare da
Dio, siamo piccoli, poveri, dobbiamo imparare la preghiera della povera gente.
Ecco, Madeleine Delbrèl: la povera gente, i poveri! Non hai una vita spirituale da
imporre, hai soltanto una realtà di amore! – Ecco: la mistica è amore! Se noi ci
mettiamo fuori da questo raggio, non capiamo la vita di Gesù. Hai soltanto una
realtà d’amore che ti invade dentro e quella realtà d’amore, nella misura in cui
ti invade, diventa il percussore che fa esplodere l’amore di Dio che è nell’altro.
Non sei salvatore di nessuno, nemmeno di te stesso.
Ma allora, dimenticarsi cosa vuol dire? Vuol dire essere pieni! Bellissimo
questo essere pieni! Non c’è bisogno di fare lo sforzo per dimenticarsi: basta
essere pieni. È quando si è vuoti che si incomincia a preoccuparsi di sè. Don
Oreste continua: “Ma io sto balbettando su queste cose…” e non poteva che
balbettare perché queste cose si vivono, le capisci se le vivi: “Vieni e vedi!”. Nel
momento in cui le teorizzi, non si capiscono più. “Ad ogni modo io so che nella
misura che io amo, per grazia del Signore, divento il percussore che fa esplodere l’amore che è nell’altro. Di qui, allora, i poveri sono rivelatori di Dio perché
sono disarmati, perché sono semplici, indifesi, perché sono il nulla sotto l’aspetto umano. Chi ha paura del povero? di un handicappato gravissimo? Chi ha
paura di un sordo, di un cieco e muto? – perché non si ha paura? Perché lo vedi
disarmato! - “Siate sempre i semplici di Dio, spregiudicati nell’amore – la follia
nell’amore - senza limiti; non andatevi a preoccupare troppo di ciò che mangerete, di ciò che berrete”. L’esperienza mistica comprende questa esperienza
dell’amore che Dio ha per noi. Ecco il punto fondamentale, il gancio che tiene
unita tutta la catena. Se non c’è questo primo gancio, la catena non si regge.
Insomma qui c’è tutto s. Paolo; l’esperienza mistica è l’anima della vita: “Io vivo,
ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me!”. È il massimo dell’esperienza mistica: “per me vivere è Cristo!” Cristo, quindi non è una formula, non è
un grande valore astratto, ma è una persona. Non una formula ci salverà, diceva
Giovanni Paolo nella Novo millennio ineunte, ma una Persona e la certezza che
essa ci infonde: “Io sono con voi”. Il mistico dice: Cristo non è solo con me, ma è
in me. Quindi si tratta di passare dal vivere per Cristo, al vivere di Cristo, meglio
al lasciarsi vivere da Cristo: ecco la passività.
3. Don Oreste educatore
Sapete che questa è stata una costante nella vita di don Oreste. Qualcuno
dice che l’esperienza che ha fatto nella Papa Giovanni, ha messo in ombra questa sua propensione. Stefano Zamagni mi ha raccontato che, se lui è arrivato
dove è arrivato, è per don Oreste, perché don Oreste, quando Stefano stava
Omelie
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preparandosi all’esame di maturità, gli chiese: “E adesso che fai? - Vado all’università! E dove vai?” - A Bologna. “No, a Bologna tu non ci andrai mai, perché
là ci sono i tuoi compagni,e se anche tu vai a studiare a Bologna, lì farete la
little Rimini. Tu vai a Milano, alla Cattolica, perché tu non fai l’università a tuo
piacimento, ma perché ti devi preparare per qualcosa di importante da fare a
vantaggio dei poveri”. Don Oreste era uno che intuiva il valore e l’intelligenza di
un ragazzo, e se ne faceva educatore.
Sapete quello che, a suo tempo, lui voleva fare della Madonna delle vette;
la sognava come centro di studi per l’educazione degli adolescenti. La sua “fissa”
erano gli adolescenti e diceva: “Se noi non riusciamo ad intercettare gli adolescenti, noi li perdiamo, e così finiamo per perdere tutto il lavoro che abbiamo
fatto”. Vi porto due esempi che conoscerete più voi di me, perché voi ne avete
fatto esperienza diretta, sulla vostra pelle.
Come don Oreste ha imparato a scoprire la strada di ogni giovane che seguiva spiritualmente? Ci sono dei preti che raccontano la loro storia di vocazione,
per esempio don Marzio Carlini, il parroco di Misano. Don Marzio racconta che
la sua storia di vocazione è iniziata durante un viaggio con don Oreste a Roma.
Durante il viaggio il Don lo ha fatto parlare. Arrivati a Roma, don Oreste gli dice:
“Bene, siamo arrivati, abbiamo finito dei parlare. Ora hai capito o no che tocca
a te: o dici sì o dici no alla chiamata del Signore”. Un educatore non impara
all’università come si fa ad intuire il tesoro che ogni persona si porta dentro.
Ho tra le mani una lettera di don Oreste, che voi non avete, perché la persona che me l’ha consegnata, me l’ha data come un dono preziosissimo da custodire. “Carissimo, ti scrivo mentre volo a 7000 m. di altezza, all’alba, dopo ben 17
ore di notte. Siamo in prossimità di New York - quando è andato la seconda volta
in America per raccogliere i soldi per Madonna delle vette - sopra un immenso
mare di nubi. Permetti che ti parli francamente; penso così di rimediare un po’
alla mancata direzione spirituale. È evidente che in te c’è una crisi che intendo
come lo stato d’animo di chi passa da una fase di sviluppo ad un’altra. In questa fase di passaggio è logico che l’uomo sia insoddisfatto, il suo essere, infatti,
è insoddisfatto perché avverte la necessità di raggiungere nuove posizioni e di
esplicare le nuove urgenti possibilità o capacità. L’uomo che si trova in questa
situazione interiore corre un grave rischio, quello di cambiare attività”. Poi la
lettera continua, ma ora ritorno su quanto dicevo poco fa: Don Oreste educatore
era un innamorato di Dio che credeva fino in fondo che solo Dio salva la tua
vita, e la realizza, la riempie, la rende bella, la rende un capolavoro! Don Oreste
fa questa esperienza su di sé, e proprio perché fa questa esperienza, la vuole far
fare agli altri, perché un innamorato fa così!
Voi sapete che, all’inizio la Madonna delle vette era stata affidata a dei diciottenni: Aldo Amati, Luciano Chicchi e altri. Il Don intercetta la sete di Dio in
un giovane educatore e si pone a lui in questi termini: questo giovane si porta
dentro un grande tesoro, ma sta in crisi e la crisi è il passaggio da una fase
all’altra. Quale è il segno? È l’insoddisfazione. Questo rientra nella strategia che
Dio usa nei nostri confronti. Quante volte la ricerca di una vocazione nasce da
un’insoddisfazione. Non mi basta, c’è qualcosa che manca…come il giovane
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
ricco! Dio ci pungola con la spina dell’insoddisfazione. C’è una pagina molto
bella di Aldo Moro in cui dice: “Guai a quel politico che non si sente più pungere
dalla spina dell’insoddisfazione”. Allora, qual è la tentazione? Quella di cambiare
attività, cambiare posto. Perché oggi si gira tanto? Perché siamo insoddisfatti e
quindi ci si illude che cambiando posto, cambiando casa o lavoro, cambiando
moglie, si risolva il problema. “Inquietum est cor nostrum” diceva S. Agostino: Il
nostro cuore è inquieto. Don Oreste dice: Attenzione, non ti illuderti che se tu
cambi attività, risolvi la tua crisi. Queste cose le sa dire solo uno che è educatore
di razza, uno che non ha studiato pedagogia all’Università salesiana o Scienze
dell’educazione e della formazione all’Università di Rimini, ma uno che ha vissuto l’esperienza, si è fatto le ossa da solo, forse aiutato da qualcuno, non so;
però è diventato un allenatore, non un manager. Un allenatore sportivo dà l’idea
dell’educatore, di uno che deve fiutare il talento di questo ragazzino che fino
adesso hanno fatto giocare in porta, ma che, messo a giocare come mediano o
centravanti, diventa un giocatore di serie A…
Il secondo esempio di Don Oreste educatore è la lezione da lui tenuta nel
‘92: L’unione mistica dei nostri piccoli con Dio e la nostra attraverso loro. Don
Oreste mistico scrive: “Questi che a noi sembrano handicappati, che non prenderanno mai una laurea, questi sono i mistici perché fanno l’esperienza di Dio,
sono amati da Dio e non sono capaci di peccare”. Poi porta l’esempio di Nicola:
“Se andiamo a fondo nella contemplazione misteriosa di Dio, la mistica, voi
sentirete che Nicola (parliamo di lui per parlare di tutti); per Nicola intendo dire
Stefy, Milli, ecc… Cosa c’è dentro di lui? Io so e non lo so! Che cosa so? Entrando
dentro di lui, prima di tutto, sappiamo che Nicola è immerso nello Spirito santo:
ecco la grazia: la grazia santificante; è stato battezzato. Quindi lui è il luogo
dove Dio abita, la casa di Dio, è il tempio di Dio. Questa è la tesi che io sostengo:
è immerso in Dio, è immerso nella pienezza della grazia, che non gli è mai tolta
e il fatto che lui non possa peccare non è un limite, ma è una perfezione. Questi
sono i santi perfetti”.
Il messaggio che don Oreste ha dato è che questi “fratellini” non sono dei
poveretti che noi dobbiamo aiutare, ma dei maestri da cui dobbiamo imparare;
loro devono salire in cattedra, loro sono gli specialisti dell’unione mistica con
Dio! La vera libertà, l’uomo ce l’ha solo nella scelta del bene; nella scelta del
male non esiste mai libertà, mai, mai! Anche su questo a volte si danno delle
risposte teologiche o bibliche non esatte. La libertà non esiste mai nel male, la
libertà è solo nel bene. Libertà è solo nella totale impossibilità di fare il peccato.
Una mamma non può ammazzare il proprio bambino, perché lo ama! Prendiamo il caso di una mamma che aspettava di rimanere incinta; passa un anno, ne
passano due, dieci e intanto diventa una fumatrice incallita. Finalmente il test
di gravidanza risulta positivo. Il ginecologo le dice: Signora, lei è al terzo mese,
ma ora deve smettere di fumare. Ma certo, risponde la mamma, l’ho desiderato
tanto questo bambino, come faccio a continuare a fumare?! Quella prossima
mamma non sente l’indicazione medica come una costrizione, ma la assimila e
la condivide come una sua personale convinzione.
È l’amore che ci libera dalla costrizione e ci porta alla convinzione.
Omelie
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Pastore di tutti
Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della concelebrazione
eucaristica in occasione della solennità di San Gaudenzo, patrono
della Diocesi
Rimini, Basilica Cattedrale, 14 ottobre 2010
Dischiude uno squarcio di cielo l’immagine, sempre forte e sempre tenera,
del buon Pastore, affrescata da Gesù nel vangelo di s. Gaudenzo (Gv 10,11-16).
Con la risurrezione del Crocifisso la vicenda del “Pastore grande delle pecore”
(Ebr 13,20) non si può archiviare in un passato remoto, morto e sepolto, ma
racconta una vicenda in corso, che mette in comunicazione cielo e terra. Mentre
si fa festa in terra per una sola pecorella ritrovata, in cielo c’è gioia per un solo
peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno
bisogno di conversione.
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1. È l’avventura del Pastore buono, meglio del “Pastore bello”, come si coglie nel suono di sottofondo dell’originale testo greco. La bellezza del Pastore, il
suo fascino irresistibile stanno nella gioia di vedere fiorire la vita brano a brano
in tutte le sue forme più esuberanti, di farla cantare sillaba per sillaba in tutte le
sue note più acute e squillanti. Per far fiorire e cantare la vita, il Pastore grande,
buono e bello deve offrire la propria. Il vangelo di Giovanni, dentro e intorno al
nostro brano, per ben cinque volte in poche righe martella l’espressione: “Io do
la mia vita”. Dare la vita non significa per prima cosa morire, ma far vivere, seminare futuro. Concretamente significa contagiare libertà, infrangere solitudini,
dilatare recinti, dischiudere orizzonti, trasmettere luce, pace, gioia. Il Pastore
bello insegna: solo se si comunica vita nella vita – durante la vita, goccia a goccia, giorno dopo giorno – si può comunicare vita anche nel giorno della morte.
Commenta il nostro s. Padre, Benedetto XVI: “Donare la vita, non prenderla. È
proprio così che facciamo l’esperienza della libertà: la libertà da noi stessi, la
libertà dell’essere. Proprio così, nell’essere utile, nell’essere una persona di cui
c’è bisogno nel mondo, la nostra vita diventa importante e bella. Solo chi dona
la propria vita, la trova” (7 maggio 2006).
Due note in particolare scandiscono lo stile del buon Pastore: l’universalità
dei destinatari, l’unità del gregge. Permettetemi, fratelli e sorelle, di indugiare
questa sera con voi sulla prima nota, quella della universalità, come orizzonte
di destinazione del servizio pastorale. Il pastore – vescovo o presbitero – non si
appartiene, ma appartiene a tutti: cerca tutti, pensa a tutti, si fa “tutto a tutti”.
Il vero pastore deve essere disponibile a tutti, capace di abbattere muri, di
sbriciolare steccati, di lanciare ponti, di tessere costantemente una fitta rete di
relazioni con tutti; deve essere un pastore esperto nel presiedere alla comunio-
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
ne di tutti. È questa la prima forma di universalità che occorre vivere. Ma non
possiamo illuderci: una concreta disponibilità ad omnia e ad omnes – a tutto e
a tutti – non è un idillio. Se si vuole essere il pastore di tutti, non basta fare di
tanto in tanto proposte aperte a tutti, e poi…”chi ci sta ci sta”. La ricerca delle
novanta pecorelle smarrite non può ridursi alla estemporanea preghiera da parte delle dieci rimaste nell’ovile, non può limitarsi a qualche sporadica iniziativa
diretta ai molti lontani, da parte di un pastore, rimasto impigliato nella siepe
dei pochi vicini. La ricerca di tutti deve invece essere un obiettivo immancabile
che anima ogni attività pastorale, ispira ogni iniziativa, addita mete alte, apre
strade nuove, disegna passi possibili e concreti. Non si tratta infatti di inventare
un nuovo vangelo, ma di ripensare un modo nuovo di annunciarlo, per riuscire a
intercettare l’uomo qualunque, lontano o vicino che sia. Non è questa la nuova
evangelizzazione?
2. Essere pastore di tutti abbraccia un secondo cerchio – ma non è un cerchio secondario, bensì decisamente prioritario – il cerchio degli ultimi. A prima
vista potrebbe sembrare, questa, una scelta selettiva e discriminante: in realtà
è una scelta che unisce, non che divide. Ed è una scelta evangelica, e perciò
sacrosanta, indiscutibile, irrinunciabile. Il buon Pastore ha fatto sulla propria
pelle questa scelta. Non ha valicato i confini della Palestina, ma ha frantumato
tutti i muri di divisione che ha incontrato: tra giudei e greci, tra schiavi e liberi,
tra uomini e donne. E soprattutto si è preso cura delle pecorelle più povere,
più emarginate e indifese. Anche questa è una scelta che costa sangue. Essere
pastore di tutti significa lasciarsi percuotere dalle povertà – da tutte le povertà
– degli ultimi. In questi anni nella nostra Chiesa riminese abbiamo maturato
una discreta sensibilità alle povertà materiali: alla povertà di pane, di acqua, di
benessere, di progresso, e anche a diverse povertà morali: di cultura, di libertà,
di pace. Ma occorre recuperare anche una cordiale e concreta sensibilità nei
confronti delle povertà spirituali: di fede, di speranza, di amore .
È urgente ricordare che il cerchio degli ultimi comprende anche quei fratelli
che ci affliggono e ci causano sofferenza e contrarietà: quanti ci assillano con richieste esorbitanti e sproporzionate; quanti ci rattristano con critiche malevole
e pretestuose; quanti non condividono la nostra personale spiritualità, il nostro
carisma particolare, le nostre devozioni private; quanti non si ritrovano nel nostro modo di condurre la parrocchia. In questi casi occorre vigilare, perché nel
cuore di noi pastori non si depositi quella ruggine di amarezza che ci induce a
recriminare e ad aggiungere altri capitoli e versetti al libro delle Lamentazioni!
“Un pastore – ammoniva Dietrich Bonhoeffer – non deve lamentarsi della sua comunità, tanto meno davanti agli uomini, ma neppure davanti a Dio;
essa non gli è stata affidata perché se ne faccia accusatore davanti a Dio e agli
uomini” (Vita comune). Anziché lamentarci – è sempre Bonhoeffer – dovremmo piuttosto ringraziare “quotidianamente” per la comunità cristiana in cui ci
troviamo, “anche nel caso che non si tratti di una grande esperienza, di una
ricchezza visibile, ma piuttosto di un aggregato di debolezze”.
Omelie
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
3. E c’è un terzo cerchio che un pastore, modellato sul buon Pastore di tutti,
non può assolutamente scartare: è la Chiesa diocesana, che è sempre più grande della singola comunità parrocchiale o dell’ambito ristretto in cui un presbitero esercita il ministero. Un pastore non può lasciarsi catturare nell’ombra del
campanile, non può pensare alla propria parrocchia come ad una cellula autonoma e autosufficiente. Vale per ogni comunità cristiana, e quindi anzitutto per
il presbitero che la guida, quanto afferma s. Paolo: “Rallegratevi con quelli che
sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi
sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza” (Rm 12,15s).
Questi versetti vanno declinati non solo sul versante interpersonale, ma anche
su quello interparrocchiale, nei rapporti tra comunità e comunità, a cominciare
da quelle più prossime, incluse nella medesima zona pastorale e nella stessa
forania.
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Per quanto riguarda personalmente il pastore, che voglia essere affettivamente ed effettivamente aperto all’insieme di tutti, uniti in un solo corpo nella
Chiesa diocesana, è indispensabile che consideri la comunità che gli è stata
affidata come un dono, non come una proprietà privata. E che quindi si spenda
per essa come se ci dovesse restare fino al giudizio universale, ma che sia sempre pronto ad andare a servire altre comunità, quando la decisione ponderata
del vescovo lo giudichi necessario e opportuno. Solo un cuore così grande nel
donarsi, senza mire e senza miraggi, permette al pastore di amare persone e
popolo nella vera carità, senza che un’ombra di possessività invecchi il suo
cuore.
4. Perché questo ideale alto ed esigente, ma anche intimamente pacificante
– essere pastore di tutti – si possa realizzare, è indispensabile che si verifichino
due condizioni, che s. Tommaso d’Aquino nel commento al vangelo odierno
formulava così: “Non si può essere buon pastore se non diventando una cosa
sola con Cristo e suoi membri mediante la carità” (In Ioh. cap. 10, lez. 3).
“Una cosa sola con Cristo”. Nella storia della pastorale è da tutti riconosciuto che i parroci più vivacemente ed efficacemente missionari sono stati coloro
che erano animati dalla ferma convinzione di dover portare ai fedeli una bella
notizia attesa. Questa: “Cristo ci ha amati e ci ha salvati a prezzo del suo sangue”. Non sempre, però, si osserva che quello slancio missionario – chiamato
con espressione classica “zelo pastorale” – non nasceva anzitutto dall’incontro
con le molte emergenze della gente del tempo. Certo, la disponibilità a spendersi per la cosiddetta “promozione umana” è centrale, ma non è il centro del
cuore dei santi sacerdoti. Al centro c’era e c’è sempre l’incontro con lui, il Pastore primo e supremo, Cristo Signore. Non dei “facchini” che sgobbano per Cristo,
ma solo pastori innamorati di lui, Pastore buono, riescono a fare innamorare di
lui il gregge loro affidato.
Un’altra condizione imprescindibile per essere pastori di tutti è quella della
fraternità di ciascun pastore con il vescovo e l’intero presbiterio. Lo sappiamo:
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
lo spessore della nostra efficacia pastorale è dato dall’altezza della nostra fede
e dalla larghezza della nostra fraternità. Questa è la santità che ci è richiesta
oggi, se vogliamo essere fedeli al Concilio, al Papa e alla Chiesa: una santità di
comunione, una santità di fratelli uniti affettivamente ed effettivamente nello
stesso presbiterio. Se mai c’è stato un tempo in cui un pastore poteva fare il
pioniere solitario o il battitore libero, oggi lo è meno che mai. Un pastore che
non vive la fraternità con i confratelli pastori, prima o poi vede la propria attività pastorale e la sua stessa vita piombare nell’assurdo. La parola “assurdo” ha
la stessa radice di “sordo”. Il pastore, sordo alla voce del buon Pastore che lo
chiama a seguirlo insieme ai confratelli, entra nell’assurdo. Esce dalla sordità e
dall’assurdo chi ascolta la voce del Pastore che chiama a comunione, e invita ad
entrare in una relazione amorosa e fraterna con lui e con tutti e ciascuno degli
altri “con-pastori”.
Che s. Gaudenzo ci ottenga di ascoltare la parola del buon Pastore e di
muovere nel nuovo anno pastorale altri passi concreti verso il grande orizzonte
della comunione. E la Parola del santo evangelo correrà (At 20,24). E anche noi
correremo, senza peraltro correre invano, ma come correva l’apostolo Paolo
(1Cor 9,24). Non saremo noi a far correre la Parola, ma sarà la Parola a far correre noi.
+ Francesco Lambiasi
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Omelie
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Servi del Servo
Omelia tenuta per la Conferenza Nazionale Animatori R.n.S.
Rimini, Palacongressi, 29 ottobre 2010
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1. La Parola di Dio è sempre un grande fuoco, e come il fuoco è formato da
tante fiamme, anche le parole più brevi sono come delle fiammelle che accendono un pensiero e risvegliano sentimenti. Abbiamo ascoltato dall’intestazione
della lettera ai Filippesi, l’auto-definizione di Paolo e Timoteo: “servi di Cristo
Gesù”. Questo titolo scolpisce la nostra identità: siamo servi del “Servo”. Contempliamo anzitutto Cristo come colui che ha assunto la condizione di servo,
il Servo del Signore, che per amore del Padre, si è fatto servo dei fratelli. Gesù
stesso ha presentato la sua carta d’identità, evidenziando il tratto del servizio come particolare segno di riconoscimento, quando ha detto: “Non sono
venuto per essere servito, ma per servire”, e ancora: “Io sono in mezzo a voi
come colui che serve”. Per Gesù il servizio non è tanto qualcosa da fare o un
compito da svolgere; non è neanche soltanto un semplice modo di concepire
l’autorità. È ancor prima una dimensione che attraversa tutta l’esistenza; non
ne ricopre solo qualche minuscolo segmento, ma l’abbraccia nella sua altezza,
lunghezza, profondità. Il Servo dei servi e Maestro del servizio ci vuole dire che
solo se si parte dall’essere, il fare cambia segno. Se pensi alla vita come al tuo
tesoro geloso, da sfruttare a tuo uso e consumo, anche l’attività da compiere,
l’incarico da esercitare, il compito da svolgere li vedrai come rampe da scalare
per affermarti sopra gli altri, non invece dei gradini da discendere per piegarti a
lavare i piedi ai fratelli.
È la vostra esperienza, carissimi fratelli e sorelle: alcuni nei ministeri istituiti,
altri in quelli di fatto, tutti a servizio del vangelo, della santa Eucaristia, della
comunità. Anche voi siete stati guardati con occhio di predilezione dal Signore,
che vi ha scelti, purificati, chiamati ad indossare il camice del servizio, da rendere a Cristo e alla sua santa Chiesa. Ora, prima di richiamare i compiti che vi
sono affidati e gli impegni che vi vengono richiesti, permettetemi di passare
brevemente in rassegna alcune tentazioni a cui siete – siamo – esposti tutti noi,
destinatari dei vari ministeri nella comunità cristiana.
Una prima tentazione dei ministri-servi è l’attivismo. È la tentazione di Marta, sorella di Maria: c’è il rischio che il darsi da fare per l’ospite non lasci più
tempo per l’ospite. Ma il servizio non deve assillare al punto da far dimenticare
l’ascolto della Parola. Diceva un vecchio rabbino parlando di un collega: è talmente indaffarato a parlare di Dio da dimenticare che Dio esiste! Non si può
confondere l’urgente con l’importante. Il troppo è sempre a scapito dell’essenziale. Fare molto può essere segno d’amore, ma può anche far morire l’amore.
Questo vale anche per il prossimo: gli uomini hanno certamente bisogno di
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
servizi e di servizio, ma anche e forse più hanno fame di ascolto, di accoglienza,
di amicizia; hanno fame di comunione.
Un’altra tentazione è il vittimismo: ci si impegna allo spasimo, ma sotto
sotto ci si aspetta considerazione, visibilità e una qualche ricompensa. È la reazione del fratello maggiore, nella parabola del padre misericordioso, riportata
nel vangelo di Luca: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito
a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i
miei amici”. Quando il cuore va in automatico e funziona come un “calcolatore”
infallibile, costantemente alle prese con la partita doppia del dare e dell’avere;
quando nell’intimo si ripete implacabile il disco rotto della lagna continua e del
mugugno acido e ricorrente, allora la fine è vicina: è il segno che le lancette del
tempo stanno girando sempre più vertiginosamente fino a spostarsi sull’ora in
cui si scoppia e si molla tutto.
Parente stretto del vittimismo e dell’attivismo è, poi, il narcisismo. È la tentazione di chi presta il servizio specchiandosi a ripetizione in quel che fa. Narciso vive col continuo sospetto che la vita gli chieda troppo senza ripagarlo
adeguatamente; sente la diocesi o la parrocchia più come matrigna che come
madre; ritiene che il vescovo o il parroco non lo valutino abbastanza; avverte
l’impegno affidatogli come un abito o un ambito troppo stretto per le sue possibilità. E alla fine, se qualcosa non funziona, è sempre colpa del sistema, della
struttura o degli altri.
La terapia più mirata ed efficace per queste patologie acute è quella di
esercitare il ministero come un dono da spendere secondo le finalità oggettive
del ministero stesso che viene affidato.
2. Viviamo un lungo inverno di sentimenti inariditi e di narcisismo asfissiante, i cui miti seducenti sono l’autorealizzazione ad ogni costo, l’autogratificazione a qualsiasi prezzo, l’autogiustificazione con qualunque scusa. Sempre
più diffuso appare il contagio da “ego-patia”: affermarsi per non morire; gli altri
si arrangino pure. Io posso anche sbagliare, ma la colpa è sempre degli altri.
Insomma Io, Io, Io e dopo, ma solo dopo, gli altri…
La spiritualità del servizio è il vaccino più efficace contro il morbo di Ego.
È una spiritualità di buona lega, nella Chiesa e nella società. Eppure oggi sembrano circolare più dichiarazioni di servizio che veri servi. C’è chi parla della
dignità del servizio quando è in posti di comando e chi rivendica la dignità
della persona umana quando viene richiesto di svolgere un compito, a suo dire
“umanamente poco dignitoso”. Il servo, che appartiene alla vera compagnia dei
servi di Gesù, è colui che fa quello che ai più non piace fare, che nel suo intimo
non si porta un registro di cassa con la partita doppia del dare e dell’avere. Il
servo secondo il vangelo è uno che scrive sulla sabbia quello che dona e incide
sulla pietra quello che riceve; è colui che appartiene alla razza di quanti dopo
aver fatto il loro turno, dicono: “Siamo soltanto dei poveri servi; abbiamo fatto
quanto dovevamo fare” (Lc 17,10).
Questa è la strada della perfetta letizia. Se, dopo esserti consumato in un
lavoro oscuro e logorante, non ti affliggi perché nessuno ti ringrazia, ma resti
sereno e non perdi la pace, allora lì è perfetta letizia. Se non fai del successo
Omelie
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
– neanche di quello apostolico – il tuo dio, ma consideri Dio e il suo amore immeritato come la tua fortuna più grande; se ti ritieni beato perché sei contento
del Signore e non stai sempre a fare le lagne per come lui ti tratta, allora lì è perfetta letizia. Se non entrerai nel servizio del vangelo con lo spirito del salariato,
ma in piena disponibilità, senza accampare pretese e senza rivendicare diritti;
se penserai che c’è più gioia nel sentirsi amati che nel venire pagati; se riterrai
il tuo premio più prezioso l’interiore certezza di ascoltare un giorno le parole
del Signore, al quale unicamente hai servito: Bravo, servo buono e fedele, entra
nel gaudio del tuo Signore, allora si può esserne sicuri: lì, solo lì, proprio lì, è
perfetta letizia.
+ Francesco Lambiasi
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Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Una vita fatta di cielo
Omelia pronunciata dal Vescovo in occasione del 1° centenario
della morte della Serva di Dio, Madre Teresa Zavagli, Fondatrice
delle Suore Francescane Missionarie di Cristo
Rimini, Chiesa di s. Agostino, 6 novembre 2010
Gesù ci ha parlato, ed è esplosa la nostra acclamazione esultante: Lode a
te, o Cristo! Gesù ci ha parlato di risurrezione e di vita intramontabile, e si è
spalancato al nostro sguardo rapito l’incredibile orizzonte di cieli nuovi e terra
nuova. Gesù ci ha parlato del Padre dei cieli, che intreccia il suo nome con
quello dei suoi figli, e si è cancellata dalla nostra mente spesso farneticante
la balzana, anzi malsana idea di un monarca che regna gelido e triste su uno
sterminato cimitero di cadaveri. Gesù ci ha parlato e ci ha detto che il Dio di
Abramo, di Isacco e di Giacobbe non è il Dio dei morti, ma dei viventi. Pertanto
non lo possiamo abbigliare con la divisa di general manager della più grande
agenzia funebre della storia. Cantava padre Turoldo: “Dio, per te non esiste la
morte / noi non andiamo a morte per sempre /il tuo mistero trapassa la terra /
non lascia il vento dormire la polvere”.
1. Cancelliamo ogni squarcio d’azzurro al di sopra delle nostre teste, e ineluttabilmente la terra si riduce a una steppa mesta e desolata, e la vita si fa
malinconicamente incolore, inodore, insapore. Eliminiamo ogni traccia di cielo,
e fatalmente ci diventa incomprensibile la vita di madre Teresa Zavagli, che come recita con tocco poetico il titolo del libretto commemorativo del 1° centenario del suo transito - “coglieva fiori di Cielo sull’arduo sentiero”.
Noi oggi siamo chiamati a non archiviare troppo in fretta il libro della sua
vita e a tenerci al riparo dalla deriva di due pregiudizi fatali: scambiare la semplicità con la banalità; allontanare la santità dalla vita ordinaria. Il rotolo del
cammino di fede di madre Teresa li smentisce entrambi, in modo netto e inequivocabile. La banalità - lo sappiamo - è una caratteristica dei messaggi superficiali, che sono come figure piane, cioè del tutto prive di profondità; basta
ispezionarne la superficie, e dopo la prima volta non c’è più niente da scoprire,
niente da esplorare. Madre Teresa ha scritto poco; è stata donna di contemplazione, ma di una contemplazione, che non si perdeva tra le nuvole, ma si
traduceva immediatamente in azione. Per il giorno del suo funerale, il settimanale riminese l’Ausa scriveva: “Le vie più remote della nostra Rimini, le contrade
che mettevano all’Ospedale o alle case dei sofferenti furono quelle da lei più
di sovente battute, come le chiese più modeste della città, accoglievano i suoi
segreti colloqui col suo Dio in Sacramento”.
In secondo luogo l’autentica santità non mette mai lo straordinario in conflitto con l’ordinario: per vivere la pienezza vertiginosa dell’intimità con Dio e
la totalità della comunione fraterna non si richiede di affossare la vita. È vero
Omelie
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
che la storia di madre Zavagli è interamente abbracciata dalla spiritualità della
rinuncia e del distacco dal mondo, ma sempre nella lucida consapevolezza che
non si tratta tanto di fuga quanto di purificazione. È appunto l’involucro della
banalità che deve cadere, perché si possa riguadagnare la vita in modo diverso
e più alto. Ed è così che la voce di madre Teresa ha alzato il volume della storia
della nostra città, e non solo.
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2. A un secolo esatto dalla sua nascita al cielo, l’attualità del messaggio di
madre Teresa si può misurare con il metro dell’ultimo nome della Congregazione, suggerito dalla sua figlia più luminosa, la beata Maria Rosa Pellesi: Suore
- Francescane - Missionarie - di Cristo. Sono quattro note che cesellano il profilo genuino del vostro Istituto, carissime Sorelle “di s. Onofrio”, e per coglierne lo spessore di senso, dobbiamo partire dall’ultima nota: “di Cristo”. Anche
se questo complemento di specificazione viene a chiudere la denominazione
dell’Istituto a cui appartenete, logicamente e teologicamente esso è prioritario
e sorregge tutto l’essere e l’operare della vostra Congregazione. “Di Cristo”: in
quel “di” è contenuto il motivo ultimo della vostra famiglia religiosa, il segreto
della sua vera vitalità. Una sillaba breve come un respiro, quel “di” contiene la
forza di un legame indistruttibile e bidirezionale: significa che voi appartenete
a Cristo e Cristo appartiene a voi. Come quando nel vangelo si dice che Dio è il
Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Come quando Teresa di Gesù Bambino
o Charles de Foucauld - solo per fare due nomi di santi contemporanei della
serva di Dio Teresa Zavagli - parlano del “Gesù di Teresa o di Charles”: se quel
legame si spezza, è il nome stesso di Cristo che si dissolve. Se io-tu-noi non ci
lasciamo salvare da Cristo, io-tu-noi rendiamo vana la sua croce e la sua morte
e Cristo per me-te-noi non è più il Salvatore e noi non disegniamo più in modo
credibile il suo santo volto di Redentore.
Da qui discende il radicalismo della consacrazione religiosa, nota essenziale di ogni sequela evangelica. La radice, la qualità e la misura della radicalità evangelica non è tanto originata dal distacco dal mondo, ma dalla appartenenza all’unico Signore. Si comprende così che il distacco evangelico non
significa necessariamente separazione. La totale appartenenza al Signore va
intesa secondo la splendida forma paolina della 1.a Lettera ai Corinzi: “Tutto è
vostro: il mondo, la vita, la morte, il presente il futuro, ma voi siete di Cristo e
Cristo è di Dio” 3,21-23). Questa espressione non rivendica soltanto la libertà
di fronte a Paolo, Apollo, Cefa, ma di fronte a tutto. E dice con chiarezza l’unica
relazione di cui il cristiano debba gloriarsi: “Voi siete di Cristo”. L’affermazione
di Paolo è attraversata dalla tensione dell’appartenenza: è dalla totalità e dalla
radicalità dell’appartenenza che discende l’esigenza e la misura della libertà di
fronte a tutte le cose.
È dall’appartenenza a Cristo che discende la nota della fraternità-sororità della vita consacrata. Voi siete “suore”, cioè sorelle, perché siete di Cristo, e
non il contrario. Voi non state assieme per motivi di efficienza apostolica. Può
essere in parte vero che l’unione fa la forza, ma non è sufficiente. Ciò che giustifica pienamente la vita fraterna è l’amore di Cristo: “Congregavit nos in unum
Christi amor”. Voi vivete insieme perché vi ha riunito l’amore di Cristo. All’inizio
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
della vostra fraternità c’è l’amore di Cristo per voi e l’amore vostro per lui. Voi
state assieme perché Cristo vi ha amate e vi ha chiamate, e anche perché avete
risposto a questo amore. Così vi voleva la vostra Madre: “Le Sorelle abbiano
un vero spirito di carità, di unione, affinché, tutte insieme, siano un cuor solo
e un’anima sola; investite tutte di un medesimo sentimento, di una medesima
volontà”.
3. Carissima Sorella Missionaria Francescana, l’amore di Cristo ti ha fatto
dono delle tue sorelle, perché, con la loro stessa presenza, ti sorreggessero
nella fede, nel tuo cammino di amore, con Cristo, nello Spirito, verso il Padre. A
differenza della fraternità di sangue, per cui uno le sorelle o i fratelli se li trova,
non se li sceglie, la fraternità religiosa deve positivamente scegliere - non nel
senso di selezionare o, peggio, di discriminare, ma nel senso di accogliere positivamente e di accettare quotidianamente i fratelli o, nel vostro caso, le sorelle
che ti trovi affianco. Ogni giorno il tuo occhio deve diventare limpido e, guardando le sorelle, devi vederle e trattarle come vedessi e trattassi il tuo Signore.
Ogni giorno si deve acuire il tuo sguardo di fede e, guardando le sorelle, devi
dirti: ci ha riuniti qui, per diventare una cosa sola, l’amore di Cristo! E potete
restare riunite e unite, solo riamando Cristo in queste sorelle!
Così abbiamo già detto molto della nota francescana che vi qualifica. Che
cosa significa essere oggi suore francescane? Significa che la vostra è una fraternità francescana, che suppone cioè una coltivata spiritualità di comunione e
si traduce nella forma della vita a piccole comunità, riunite in conventi. Ma qui
vorrei provare a declinare la nota della “francescanità” sul piano inclinato della
povertà. Voi volete vivere la vita delle Missionarie Francescane per i poveri, con
i poveri, come poveri. Per i poveri: i poveri devono essere costantemente tenuti presenti, mai dimenticati. In qualsiasi ambiente si lavori, gli sforzi saranno
orientati a loro favore. Con i poveri: in solidarietà con loro, una solidarietà che
è tale quando non è episodica o intermittente, ma continua e permanente,
sia nel campo dell’assistenza che in quello della promozione umana e sociale.
Come poveri: è la testimonianza della condivisione della stessa vita. L’esperimentare nella propria carne le sofferenze, le umiliazioni, le insicurezze, le rivolte
dei poveri, è un vero fermento di quella rivoluzione di cui ha parlato il nostro
Don Oreste e il nostro santo padre Benedetto XVI. Con semplicità disarmante
Madre Teresa diceva alle sue prime: “Ricordatevi che siete le Poverelle di Cristo”.
Ma oggi non bisogna dimenticare che i poveri più poveri sono coloro che
non credono e che sono i consapevoli o, più spesso, inconsapevoli cercatori di
Dio. Se il povero di pane o di dignità è l’immagine umiliata di Dio, il povero di
fede è l’immagine depauperata di Dio. Se il povero è la copia reale e quasi “fisica” di Cristo povero, il non credente ne è una immagine mutila, che va restituita
alla sua potenziale pienezza. Noi oggi viviamo in un mondo che ha bisogno di
una nuova evangelizzazione. Allora si deve ricordare che l’evangelizzazione accade quando un povero - il credente - dice ad un altro povero - il non credente
- dove insieme potranno trovare il pane da mangiare: il pane della fede.
Carissime, siate sorelle innamorate di Cristo fino alla follia e sarete donne
felici. E sarà proprio la vostra perfetta letizia il linguaggio più credibile ed effica-
Omelie
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
ce per amare quelli che non credono e contagiare loro il messaggio del vangelo.
A voi, Suore-Francescane-Missionarie-di Cristo, io oggi riconsegno il piccolo
testamento di Rimini: “Vi raccomando caldamente di essere sempre fedeli alle
promesse fatte, di amarvi sempre scambievolmente, di volere sempre bene ai
sacerdoti e di obbedire ai pastori della santa Chiesa di Dio”.
Che la beata Vergine Maria, il modello più alto delle donne consacrate, vi
guardi, e madre Teresa, insieme alla beata Bruna Rosa, vi sorrida.
Buon cammino!
+ Francesco Lambiasi
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Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Il folle radicalismo dell'Amore
Continua a Rimini l'avventura di Chiara d'Assisi…
Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della concelebrazione eucaristica
in occasione del XXV di presenza delle Clarisse a Rimini
Cattedrale, 21 novembre 2010, Solennità di Cristo Re
Santi non si nasce; si “ri-nasce”. Santi si diventa, o almeno si comincia a
diventarlo, quando ci si decide una buona volta a imboccare il ripido sentiero
della conversione. Ma come avviene una conversione? Posta in astratto, la domanda rischia di farci deragliare. Tentiamo di declinarla in concreto, nella storia
di Chiara di Assisi, figlia primogenita di Favarone di Offreduccio e di donna Ortolana. Poche figure come quella di Chiara hanno colorito l’immaginario collettivo dell’agiografia cristiana. Poche ci si affacciano davanti così fresche e vivaci,
così attuali e coerenti in una trama di linguaggi e di messaggi che la grazia di
Dio intreccia con la travagliata avventura dei suoi figli.
1. Riandiamo dunque alla conversione di Chiara. Era la domenica delle Palme dell’anno del Signore 1212. Venuta l’ora della Messa solenne - racconta
Tommaso da Celano - “la fanciulla, radiosa di splendore festivo, entra in chiesa
tra il gruppo delle nobildonne”. Ma al momento di andare a ricevere dalle mani
del vescovo Guido la palma benedetta, prima della solenne processione, Chiara
restò assorta al suo posto, probabilmente perduta dietro quel folle sogno di vita
a misura del santo vangelo, che da qualche tempo le stava incendiando il limpido cuore. Si vide allora il vescovo discendere i gradini dell’altare, per andare
a portare la palma alla fanciulla “bella de la faccia”. Agli occhi di tutti parve un
atto di paterna, affettuosa condiscendenza, ma Chiara ebbe la riprova lampante
che Cristo veniva, per mezzo del suo ministro, a sceglierla come Sposa. La notte
seguente fuggì di casa, da un uscio secondario, per non essere vista. Ed eccola
sola nel buio, scendere in fretta la collina di Assisi verso s. Maria degli Angeli
dove l’attendono Francesco e i suoi frati con le torce accese. Dopo aver cantato
mattutino, Francesco le taglia i lunghi capelli biondi, li copre con un velo nero, e
ricopre le sue bianche vesti con un saio ruvido e scuro. Comincia per Chiara la
vita nuova: nel campo della Chiesa era spuntata “la pianticella” - come lei stessa
amava definirsi, o “la ramicella”, come la definì il Celano - del poverello di Assisi.
Vanno riportate a margine due osservazioni. Anzitutto quella fuga notturna
al chiaro di luna non va letta come la prima puntata di una stucchevole telenovela, grondante tenerume dolciastro. Il salmo - scelto e fatto cantare appositamente da Francesco durante la tonsura di Chiara - parlava di Dio come di un
generale imbattibile e travolgente, che scende in campo per incenerire eserciti
nemici e schierarsi a protezione dell’anima fedele. Quel salmo equivaleva a
una vera e propria dichiarazione di guerra alla città. Se era stata traumatica e
aspramente contestata la scelta di Francesco di “uscire dal mondo”, che cosa
Omelie
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
sarebbe accaduto ora che perfino una fanciulla di alto rango e ammirata da tutti
si lasciava travolgere dalla follia del figlio di Pietro di Bernardone, aprendo un
varco che nessuno avrebbe potuto più chiudere? Si deve però anche riflettere
che la scelta di Chiara non era stata neppure un focoso sconsiderato colpo di
testa, ma la conclusione di un lungo tormentato cammino fatto di scatti, di
ritorni, di attese, di slanci.
L’avventura di questa “mendicante” del divino Amore - è l’altra annotazione
- era cominciata quando aveva circa dodici anni. La famiglia di Offreduccio e di
Ortolana era appena rientrata dal lungo esilio di Perugia, assieme ad altre famiglie nobili che avevano inutilmente osteggiato la nascita del governo comunale
di Assisi. Ma trovarono la città messa a gran rumore dalle strane gesta di quel
giovane borghese - impazzito? scapestrato? - che, trascinato in giudizio dal padre furibondo in pubblica piazza davanti al vescovo Guido, si era letteralmente
spogliato di tutto, rinunciando a ogni eredità e scegliendo di vivere come uno
straccione. Aveva gridato di non voler avere altro Padre se non quello dei cieli.
Il clamore della folla e lo scalpore della “piazzata” doveva essere salito fino alle
stanze del palazzo di Chiara, i cui balconi si affacciavano proprio sulla piazzetta
di s. Rufino.
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2. Il resto della storia di Chiara d’Assisi lo conosciamo. Ma qui mettiamo
punto per coglierne l’intreccio con il vangelo di Cristo Re. Colpisce nel brano
appena proclamato la solenne dichiarazione della regalità di Gesù il Nazareno.
Nella mente dei capi e dei soldati, come nel testo dell’ambiguo cartiglio posto
sulla croce, la provocatoria identificazione di Gesù come “re dei Giudei” vorrebbe significare il paradossale rovesciamento di quella assurda pretesa. Ma in
bocca al ladrone pentito diventa l’affermazione che proprio lì, sulla croce, nel
momento della più umiliante sconfitta risplende la gloria dell’amore più vero
e più grande. Il tema della regalità di Cristo è molto caro all’evangelista Luca,
che l’aveva evidenziato sia nel processo davanti a Pilato (Lc 23,2) sia nella volgare pagliacciata orchestrata da Erode, che aveva trattato il Galileo come re da
strapazzo (Lc 23,11). Ma non meno caro al terzo evangelista è anche il tema di
Cristo-Sposo, come si evince non solo dalla dichiarazione sul digiuno, che ha
senso solo “quando lo Sposo verrà tolto” (Lc 5,35) - condivisa con Marco e Matteo - ma anche dal confronto sinottico del versetto di Mc 13,33, che descrive
il ritorno del padrone che vuole trovare i servitori pronti ad accoglierlo, con il
parallelo di Lc 12,35, che identifica quel padrone con lo sposo che “torna dalle
nozze”. E come espliciterà in modo ancora più netto il quarto evangelista, Cristo in croce è insieme re e sposo dell’umanità redenta, e la croce è il suo trono
regale e insieme il suo talamo sponsale.
Qui incrociamo il punto di tangenza tra il vangelo della croce e la vocazione
di Chiara: è il fascino struggente del Re crocifisso, lo Sposo divino, da cui Chiara
si lascia perforare il cuore. L’autore della Legenda, parlando dei colloqui segreti
intercorsi tra “l’araldo del gran Re” e la sua prima seguace - che si autodefiniva
“l’ancella dell’altissimo sommo Re” - riferisce che “il padre Francesco instillava
nelle sue orecchie la dolcezza delle nozze con Cristo, persuadendola a serbare
intatta la gemma della castità verginale per quello Sposo beato, che l’amore ha
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
incarnato tra gli uomini”. Ecco il segreto di Chiara: come Francesco non scelse
tanto di venire in soccorso degli ultimi - erano già in molti a farlo - ma decise
di farsi uno di loro e, per dirla con una immagine desunta dai nostri tempi, più
che prestare soccorso ai “barboni” si fece barbone egli stesso, così fece Chiara.
Ascoltando Francesco, il quale le raccomandava “che se convertisse ad Iesu
Cristo” - secondo la testimonianza di Bona di Guelfuccio resa nel processo di
canonizzazione - è dall’appassionato amore a Cristo, Sposo povero e Re crocifisso, che Chiara è spinta a farsi radicalmente povera e accanitamente legata alla
concezione francescana della povertà. Francesco richiedeva ai suoi compagni di
seguirlo sulla strada classica dei tre voti: castità, obbedienza, e paradossalmente, sostituiva la parola “povertà”, con l’espressione “senza nulla di proprio”. In
effetti farsi padroni di sé è la più grande menzogna. Perciò è solo quando finalmente ottiene da papa Innocenzo IV il privilegium paupertatis che, Chiara può
finalmente andarsene da questo mondo in pace e rallegrarsi con se stessa per
essere stata benedetta da Dio che l’aveva creata per farla eternamente felice.
3. Abbiamo così centrato il fuoco che brucia e non si consuma nel cuore
di Chiara: è il fuoco dell’amore, un amore forte e dolce che conosce lo struggimento e la tenerezza di una vergine-sposa e che lei stessa esprime con parole
prese in prestito dal Cantico dei cantici: “Trascinami dietro a te, corriamo!” (1,3).
Attirami, Sposo celeste! Che il tenero, appassionato abbraccio e il bacio ardente
dicano ciò che le parole non ce la fanno a dire. Che il fuoco dell’amore per Te
non bruci per le pagliuzze di poche idee deboli e rarefatte, ma arda della legna
robusta di una vertiginosa implacabile passione. Che la risposta della fede non
venga ritmata da languori e vaghi sospiri, ma conosca il cantus firmus del giubilo irrefrenabile della perfetta letizia, in una perseverante consegna nell’amore,
in un abbandono senza se e senza ma, in una libertà disarmata da ogni pretesa,
felice di ogni stupore, disponibile ad ogni sorpresa dello Sposo diletto. Attirami! questo è l’anelito bruciante di Chiara, l’indomita passione dalla quale si è
lasciata schiantare il cuore, in una corsa folle dietro lo Sposo, senza stanchezze,
senza inversioni, senza rimpianti, ritorni o ritardi. La vita di Chiara, scandalo per
intellettuali e benpensanti e assurdo per i soliti maestri del sospetto, si può
intendere seriamente soltanto a partire da qui, dall’aver lei creduto caparbiamente all’amore. Da qui, dall’amore, scaturisce la povertà, perché il cuore non
ce la fa a contenere altre ricchezze all’infuori dell’unico vero tesoro, lo Sposo
crocifisso. Da qui, dall’amore, la preghiera, perché il cuore ad ogni risveglio non
riesce ad accendersi senza “mattinar lo Sposo perché l’ami” (Dante). Da qui,
dall’amore, la fraternità, perché il cuore della sposa non resiste al bisogno di
condividere l’amore dello Sposo celeste con le altre “spose e ancelle” del gran
Re. Da qui, dall’amore, la clausura, come ambito privilegiato per inoltrarsi nei
meandri dell’unico Amore, che non sfiorisce e non muore. Insomma da qui,
dall’amore, tutta la vita clariana, “acciocché nulla cosa transitoria separi l’amante dall’Amato” (Celano).
Innamorata e felice è Chiara, come lo è stato Francesco, che il primo biografo sorprendeva “molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore,
Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù
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in tutte le altre membra” e che quando pregava “si leccava le labbra”, al solo
ripetere il nome dolcissimo del suo Gesù. Alla scuola di Francesco, Chiara già di
nome, è diventata “più Chiara per grazia, chiarissima di spirito”.
4. A questo punto, Sorelle carissime, Figlie di Chiara e Francesco, non ci resta che pregare con voi, per chiedere per tutte e ciascuna di voi una sola grazia,
la grazia della fedeltà. Una fedeltà, non come fiacca annoiata ripetizione di azioni e affetti sempre uguali, ma come inossidabile crescente adesione all’unico
Sposo e padrone della vostra vita. Una fedeltà lucida e appassionata allo spirito
della regola francescana in versione clariana, regola da voi consapevolmente
scelta e liberamente accolta. Ma non abbiate paura di aderire anche alla lettera
della regola, perché quando il fuoco arde, la lettera non uccide l’amore, ma lo
tiene in vita; quando le maiuscole della “lettera” brillano, anche le minuscole
splendono.
Carissime Sorelle, che il Signore vi guardi e vi rallegri per questi 25 anni di
presenza tra di noi! Continuate ora ad assicurarci la vostra testimonianza, ma
ricordateci che dobbiamo essere testimoni dell’amore di Dio, non di noi stessi;
indice puntato sul volto di Lui, non sul nostro. Agli uomini della nostra città e
della nostra Chiesa non basta la nostra testimonianza, neppure la testimonianza della nostra santità. Il desiderio, spesso inconsapevole o per lo più inespresso, di ogni uomo è di incontrare Dio, di sentirsi da Lui amati e accolti. La vostra
accoglienza di Sorelle consacrate all’unico Sposo deve rinviare oltre, sempre
oltre. Perché non basta ciò che noi discepoli di Cristo possiamo dire e dare al
mondo: è cosa troppo piccola. Non basta il nostro dire e il nostro fare. Non basta la testimonianza: occorre la trasparenza. Nella vostra risposta d’amore a Dio,
rendete leggibile, quasi in filigrana, e immediatamente palpabile, “l’ampiezza,
la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo”: per voi, per noi, per
tutti (cfr Ef 4,18s). Che il fuoco del carisma di Chiara, riacceso qui a Rimini 25 anni fa,
non si spenga mai sotto il nostro cielo, ma arda ogni giorno di più, sempre di
più!
+ Francesco Lambiasi
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Figli affascinati dalla Sposa-Madre.
L'impagabile fortuna di appartenere alla Chiesa
Omelia tenuta dal Vescovo nella Messa per le Aggregazioni Laicali
Cattedrale di Rimini, 26 novembre 2010
Nell’immaginario collettivo l’Apocalisse passa come il libro della fine. In realtà è il libro dei nuovi inizi, degli inizi senza più fine. La sequenza proiettata poco
fa al nostro sguardo incantato dall’apostolo Giovanni, ci sommerge con una cascata di scintillanti fotogrammi che inquadrano l’aurora della nuova creazione e
“riprendono” la discesa regale della Sposa, bella e pronta per lo Sposo:
“E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo
sposo” (Ap 21,1-2).
Lasciamoci abbagliare gli occhi del cuore, lasciamoci rapire i sensi dell’anima
da questa visione estasiata, e sostiamo, almeno per qualche frammento di tempo, in ammirata, commossa contemplazione della Chiesa che scende dall’alto,
la Sposa incantevole e incontaminata, fatta di cielo, vestita di sole, agghindata
di stelle. Ma nessuno di noi può ritenersi appagato per avere avuto il dono di
vagheggiare la bellezza raggiante della Vergine-Sposa. Nessuno di noi può rimanere “contento ne’ pensier contemplativi” (Dante), se non proviamo a declinare
insieme alcuni “riverberi” esistenziali di tanto splendore. Ecco dunque alcuni fasci di luce che piovono dall’alto ad illuminare e a rendere divina la nostra umana
“commedia”.
1. Innanzitutto la visione radiosa del veggente di Patmos ci fa vedere la
Chiesa come luce del mondo, sfavillante dello splendore della verità (veritatis
splendor). Oggi, delle spinte a inciampare sulla strada viscida dei relativismi e
dei problematicismi più esasperati, ne riceviamo fin troppe. Abbiamo piuttosto
fame di certezze, più delle vitamine e delle proteine per nutrirci, più dell’ossigeno per respirare. E la Chiesa è “il luogo dove tutte le verità si danno appuntamento” (Chesterton). È “colonna e sostegno della verità”, come leggiamo nella
Prima Lettera a Timoteo (3,15): espressione, questa, paradossale e sconcertante.
Noi ci saremmo aspettati di sentirci dire piuttosto che è la verità la colonna e il
sostegno della Chiesa. E sarebbe stata affermazione logica e del tutto coerente:
la verità infatti è signora e non serva, mentre la Chiesa non è la padrona della
verità, e non lo può essere “per la contradizion che nol consente” (Dante). Qui
però viene affermata un’altra verità a proposito della... verità. Ma “perch’io non
proceda troppo chiuso” (Id.), provo a spiegarmi meglio, e arrivo a dire che la verità - quella che riguarda Dio e tutto quello che solo Dio può rivelarci e di fatto ci
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ha rivelato - ha un recapito sicuro: la Chiesa, che lo stesso versetto paolino prima
citato identifica come “la casa di Dio”. Insomma è solo nella Chiesa che posso
trovare la verità sulla Chiesa. Infatti se busso alla porta giusta - quella, appunto,
della “casa di Dio” - scopro che la Chiesa non è il “palazzo”, la fredda, mastodontica struttura di una istituzione ormai sorpassata e retrograda, ma è realtà viva
e dinamica. E quando debbo rispondere alla domanda: ma quand’è che è nata
la Chiesa? sono autorizzato a rispondere: oggi. La Chiesa è nata oggi, e dunque
non è né vecchia né antiquata, ma è giovane, fresca e vivace:
“La Chiesa è un unico grande movimento animato dallo Spirito Santo, un fiume che attraversa la storia per irrigarla con la grazia di Dio e renderla feconda
di vita, di bontà, di bellezza, di giustizia, di pace” (Benedetto XVI).
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Sì, dopo duemila anni la Chiesa è giovane, perché non è il prodotto di una,
per quanto saggia e solida, organizzazione, ma è generata dall’amore. La Chiesa non è la somma algebrica delle nostre iniziative più o meno riuscite, ma è
la sintesi compiuta della santa alleanza tra Cristo e l’umanità redenta. Noi, da
soli, potremmo tutt’al più formare una valle sterminata, stracolma di scheletri
calcinati, le cui ossa potranno rivivere alla sola condizione di essere rivivificate
dal soffio creatore dello Spirito. Perché “dove è lo Spirito, ivi è la Chiesa, e dove
è la Chiesa, ivi è lo Spirito e ogni pienezza di grazia” (s. Ireneo). Non possiamo
però dimenticare che il concepimento pre-natale della Chiesa è stato un atto di
amore drammatico, che si è consumato sulla croce. È per questo che il sommo
poeta definiva la Chiesa come “la bella Sposa / che (Cristo) s’acquistò con la
lancia e coi clavi”. Ma resta pure vero che la Gerusalemme nuova è già presente,
anche se la sua piena manifestazione non è ancora avvenuta e l’attendiamo con
intensa, impaziente speranza. San Giovanni scrive che ciò che già siamo non è
ancora stato manifestato, ma siamo già ora immersi nello splendore della nuova
Gerusalemme. Dio ci dà questa grazia, la dà alla Chiesa, che è al di là di tutte le
debolezze umane, e la trasfigura in attuazione palpabile, in immagine esuberante e smagliante della nuova Gerusalemme.
Resta però un’ombra sulla figura della Chiesa-Sposa che merita di essere
cancellata. Noi gente del terzo Millennio, giustamente allergici alla pur minima, fastidiosa impressione di antifemminismo, ci domandiamo se il simbolismo
dell’immagine sponsale della Chiesa non veicoli tracce di una concezione maschilista che privilegia il ruolo dell’uomo su quello della donna. Ma possiamo
stare sereni al riguardo. Infatti, se è vero che in tale simbolismo il ruolo di capo
è rappresentato dallo sposo e quello subordinato dalla sposa, è però anche vero
che la sposa, la Chiesa, rappresenta indistintamente sia gli uomini che le donne.
La tradizione nella Chiesa ha sempre identificato le donne consacrate, soprattutto le claustrali, con l’appellativo di “spose del Cristo”, e a giusto titolo e a pieno
merito, perché in queste sorelle brilla più evidente la corrispondenza simbolica,
ed esse appaiono, anche visivamente, come una epifania trasparente e tangibile
della Chiesa sposa. Ma ogni anima fedele, sia di un credente che di una credente, è, teologicamente parlando, sposa di Cristo.
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
2. Ora però dobbiamo prendere di petto l’obiezione più spinosa: come si fa
a parlare di “sposa santa e immacolata” (cfr Ef 5,27). I due millenni di storia della
Chiesa sono così zeppi di immondezza e di nauseante “sporcizia”, da richiamarci
la terrificante visione di Dante, il quale intravide insediata trionfalmente sul carro
della Chiesa la grande meretrice babilonese; e da rendere giustificabili ai nostri
occhi le tremende parole di un vescovo parigino del secolo XIII (Guglielmo d’Alvernia), il quale riteneva che chiunque osservasse la depravazione della Chiesa,
dovesse impallidire dallo scandalo: “Essa ormai non è più la sposa, bensì un
mostro di orrendo aspetto e di selvaggia belluininità”.
Ecco come rispondeva a questa obiezione un santo dei nostri giorni:
“Se amiamo la Chiesa, non sorgerà mai dentro di noi l’interesse morboso di presentare come colpe della Madre le miserie di alcuni suoi figli. La Chiesa, Sposa
di Cristo, non ha motivo di intonare il mea culpa. Noi invece sì: questo è il vero
meaculpismo, quello personale, e non quello che infierisce contro la Chiesa,
indicando ed esagerando i difetti umani che, in questa Madre santa, derivano
dalle azioni che vi compiono gli uomini, fin dove gli uomini possono arrivare, ma
che non arriveranno mai a distruggere - anzi nemmeno a toccare - quella che è
la santità originaria e costruttiva della Chiesa (...) Nostra Madre è santa, perché
è nata pura e continuerà a essere senza macchia per l’eternità. Se qualche volta
non riusciamo a intravedere la bellezza del suo volto, siamo noi a doverci pulire
gli occhi... La nostra Madre è santa, della santità di Cristo, a cui è unita nel corpo
- che siamo tutti noi - e nello spirito, che è lo Spirito Santo, che dimora nel cuore
di ognuno di noi se ci conserviamo nella grazia di Dio” (Josemaria Escrivà).
Del resto vale la confessione fatta dal giovane Joseph Ratzinger:
“Ve lo confesso apertamente: per me, proprio la ben poco santa santità della
Chiesa racchiude in sé qualcosa di infinitamente consolante. Infatti, come non ci
si dovrebbe perdere d’animo di fronte a una santità che si presentasse assolutamente incontaminata, agendo su di noi solo con piglio inquisitore e fiato rovente? E chi mai potrebbe affermare di non dover essere sopportato, anzi addirittura sorretto dagli altri?”.
Non resta che concludere questa contemplazione dell’inossidabile rapporto sponsale che lega inseparabilmente Cristo alla Chiesa con la sorprendente
dossologia della lettera agli Efesini (3,21), dove i due sposi vengono messi sullo
stesso piano, anzi anteponendo addirittura la Chiesa a Cristo. Ma tant’è: quando
c’è piena unità tra gli sposi, non ci si litiga per questione di precedenza e non ci
si preoccupa troppo dell’ordine in cui citarli:
“A lui (a Dio Padre) la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù, per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli! Amen”.
Cari Fratelli e Sorelle, appartenenti alle varie Aggregazioni Laicali della nostra
Diocesi: continuate a fare di “mille voci, un solo coro” e a cantare che “con Cristo o senza Cristo cambia tutto”. E aiutateci a sviluppare il volto tridimensionale
della nostra Chiesa, dilatando l’altezza della santità, la larghezza della carità, lo
spessore della radicalità.
+ Francesco Lambiasi
Omelie
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Una luce nella notte
Se ritroviamo il Bambino, veniamo a sapere che...
Omelia del Vescovo alla Messa della Notte di Natale
Rimini, Cattedrale, 25 dicembre 2010
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Abbiamo ascoltato, e alle nostre orecchie assuefatte al linguaggio asciutto
dei comunicati stampa, il messaggio è risuonato come una sorta di scarno dispaccio di agenzia. Riascoltiamolo: quando “si compirono per lei (Maria) i giorni
del parto, diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia”. In questa dozzina di parole ci è stata consegnata la più
strabiliante delle news di tutti i tempi, di quelle da non credere. Non possiamo
dimenticarlo: il piccolo Bambino della vergine Maria fa da grande muraglia che
spezza in due tronconi il fronte della storia: prima di Cristo - dopo Cristo; più
precisamente: “prima-dopo la nascita di Cristo”. È vero: la pagina evangelica
non ci riporta la data precisa di quell’evento stupefacente e benedetto. È stata
l’antica tradizione cristiana a fissarne la celebrazione nello stesso giorno in cui
– secondo il calendario giuliano - nel susseguirsi delle stagioni, la potenza del
sole vince nuovamente sulla notte più lunga dell’anno. Il Natale è la festa luminosa del misericordioso amore di Dio: questo è il messaggio che l’evangelista ci
ha appena rilanciato. Si tratta di una notizia neanche lontanamente prevedibile.
La letizia di cui è intessuta darà tra poco ala al nostro canto:
“Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la
luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo
siamo rapiti all’amore delle cose invisibili” (prefazio).
1. La luce del Natale risponde alla nostra domanda di identità
Come sappiamo, la luce è uno dei simboli religiosi a più forte carica evocativa. Ci è difficile, forse, rendercene conto in un mondo come il nostro in cui
esercitiamo costantemente il comando sulla luce con un semplice click e abbiamo perso quasi del tutto l’esperienza del lento passaggio dalla notte al giorno.
Del resto le luminarie natalizie, a prescindere dai ricorrenti e immancabili interessi di mercato, vogliono dire da una parte la nostra inappagabile sete di verità
e l’insopprimibile bisogno di una luce che squarci il buio in cui ci ritroviamo
sprofondati. E, per altro verso, quello sfavillio di luci festose potrebbe essere
generosamente interpretato come un omaggio inconscio al divino Bambino
che è “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9).
Dobbiamo però riconoscerlo onestamente: siamo andati in automatico con
il Natale. Abbiamo finito per perdere il Bambino. E ci ritroviamo con un Babbo
Natale, condannato a fare da ridicolo distributore di dépliant e di ammiccanti
brochure per grandi magazzini.
La nostra società ricca e hi-tech, si ritrova obesa e depressa, popolata di
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
gente triste e rassegnata, anzi - e sempre più spesso - annebbiata e smarrita,
che vaga in un deserto affollato di cose, alla ricerca di una felicità low cost,
scambiata con un benessere a prezzi stracciati.
Ci avevano detto che Dio è morto, e forse per molti era purtroppo vero. Ma
è vero pure che quando Dio muore, risorgono gli idoli. Quando la fede scompare, riappare la superstizione. Se l’uomo smarrisce il segno distintivo nella sua
carta di identità - il marchio dell’immagine di Dio - con la griffe del Creatore in
basso a destra, diventa fatalmente la maschera dell’idolo.
Ci avevano promesso l’uomo nuovo e siamo arrivati pari pari alla “rottamazione” dell’io, smontato in tanti pezzi di ricambio, sospeso sul virtuale sul futile
sul vuoto, catturato dall’ipnosi maliarda di una infinità di miraggi... E alla fin fine
ci ritroviamo pericolosamente sbilanciati sull’abisso del nulla. Abbiamo perso il
Bambino, e ci scopriamo inermi marionette disponibili ad ogni manipolazione,
patetici manichini in preda ai deliri di onnipotenza dei manovratori di turno.
2. Il Natale fa piena luce su Dio e sull’uomo
Abbiamo bisogno di ritrovare il Bambino. Quando il poeta si sporgeva sgomento sull’orlo del mistero, esprimeva la pena dell’anima con versi desolati,
duri come pietre: “Che cosa fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren?
Che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?” (G. Leopardi). Sotto
lo stesso cielo trapunto di stelle anche il salmista provava un acuto senso di
smarrimento (cfr Sal 8): quanto immenso e sconfinato è l’universo e quanto
piccolo e fragile è il “cucciolo” dell’uomo! È come un atomo sperduto nell’immenso, come una farfalla d’un giorno nel lento, sterminato migrare dei giorni.
Ma il figlio di Israele superava lo sgomento dell’infinito con lo stupore della
fede: quanto grande è Dio, che ha creato stelle e galassie, e ha plasmato l’uomo, piccolo e fragile, eppure l’ha fatto poco meno di un dio, ma più grande
dell’universo intero!
Ma la risposta definitiva alle due domande capitali - come è fatto Dio? e
che cosa è l’uomo? - ci viene dalla grotta di Betlemme: eccolo l’uomo, eccolo
Dio! Sì, non solo per intuire l’umano, ma anche per captare il divino, il dito del
cristiano - a differenza di tutti gli altri credenti della terra - non indicherà anzitutto il Cielo, ma questo Bambino. Il suo dito oserà indicare la Terra. Per sapere
come è fatto Dio, dobbiamo guardare il Bambino: il suo pianto ci dice che la
formidabile onnipotenza dell’Altissimo si traduce nella più fragile impotenza; il
suo sorriso ci rivela che nel vocabolario di Dio fortezza fa rima con tenerezza; il
suo grido di aiuto ci ricorda che se l’uomo non può fare a meno di Dio, neanche
Dio può stare solo e fare a meno dell’uomo. La lieta sorpresa che il fiore del
Figlio di Dio non sia “germinato” nella serra protetta del tempio, ma sia fiorito
nella terra sporca e melmosa della storia, ci dice che l’infinitamente grande si
rende reperibile là, dove l’uomo respira, suda, piange e spera.
A Natale veniamo a sapere che l’uomo, ogni uomo, non è più solo, abbandonato al suo destino. Veniamo a sapere che la nostra storia non è consegnata
al male: Dio scende in essa, la vuole salva in tutta la sua realtà e, nel dono
tangibile e palpabile del Figlio, le offre realmente la possibilità concreta della
salvezza.
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A Natale veniamo a sapere che l’unico umanesimo valido è il divino- umanesimo. Veniamo a sapere che il paradigma del dono disegna una figura dell’altro che non coincide con nessuno dei modelli consolidati della parabola della
modernità: né con l’individuo egoista e possessivo, che strumentalizza l’altro al
fine di soddisfare i propri interessi, né con l’individuo narcisista e autosufficiente che vede l’altro come pura proiezione del proprio io ingordo e incontentabile,
o come virtuale prolungamento del proprio inappagato, insaziabile appetito.
A Natale veniamo a sapere che il piccolo figlio dell’uomo e della donna non
è un grumo di cellule più o meno organizzato né un semplice dispositivo biologico, riducibile alla somma o alla moltiplicazione dei suoi componenti chimici,
ma è un vero e proprio universo senza confini, che vale quanto vale il Figlio di
Dio fatto uomo.
A Natale veniamo a sapere che ogni uomo è più grande delle ricchezze di
cui dispone e delle miserie cui è ridotto. Ogni uomo vale infinitamente di più
per quello che è che per quello che ha: è immagine del Dio vivente, figlio di Dio
prescelto e prediletto, amato, chiamato e mandato nel mondo per una missione unica, singolare, irripetibile.
A Natale veniamo a sapere che il prossimo non è il nemico con cui confliggere, o il concorrente con cui competere, ma nella sua inappropriabile differenza è il fratello con cui condividere la gioia e la pena, il pianto e il canto del
magnifico, drammatico cammino della vita.
A Natale veniamo a sapere che la vita dell’uomo è diventata la storia di Dio:
“Se il Natale non è, io non sono - scriveva Shakespeare. - Se Cristo non è qui, la
mia vita è solo una commedia, piena di rumore e di furore, e che non significa
nulla”.
Se non arde la luce della fede, la celebrazione del Natale si riduce a un click
che accende una delle tante fonti di luce artificiale.
Auguriamoci un buon Natale, ma che sia veramente ‘buono’ e veramente
‘Natale’. E che non duri un giorno solo!
Permettetemi di concludere questi poveri pensieri con una ardita, splendente preghiera della liturgia:
O Dio, che nel tuo Figlio fatto uomo ci hai detto tutto e ci hai dato tutto, Tu che
nel disegno della tua provvidenza hai bisogno anche degli uomini per rivelarti, e
resti muto senza la nostra voce, rendici degni annunciatori e testimoni credibili
della parola che salva”.
+ Francesco Lambiasi
Atti del Vescovo
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Gesù: Parola fatta di Carne
Le prime buone notizie del Natale
Omelia tenuta dal Vescovo in Cattedrale per la Messa del Giorno
di Natale 2010
Stupiti dal mistero. Sorpresi dalla gioia. Se la Messa di mezzanotte e quella
dell’aurora ci hanno riportato l’evento del Natale - la nascita da Maria Vergine, il
canto degli angeli, la visita dei pastori - questa del giorno ci butta in ginocchio
per farci contemplare il mistero. Il piccolo di Maria, neonato fragile e nudo, è
il Figlio di Dio; è la sua Parola fatta carne; la piena e perfetta rivelazione del
Padre. Mistero sorprendente e paradossale: la parola di Dio si manifesta in un
bambino che non può parlare. Ma si sa: Dio è fatto così! non parla con formule, ma con fatti, e - come avviene appunto a Natale - parla con avvimenti-fatti
‘da Parola incarnata’, e il suo primo vagito dice infinitamente ed efficacemente
molto di più di qualunque parola umana. Abbiamo ascoltato l’attacco solenne
della Lettera agli Ebrei:
“Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri
per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo
del Figlio” (Ebr 1,1-2).
1. Dio ci si è fatto vicino
Il primo vangelo, quello di Matteo, iniziava con un albero genealogico, una
interminabile, monotona litania di nomi per redigere il certificato anagrafico di
Gesù, “figlio di Davide, figlio di Abramo”. Il vangelo secondo Marco cominciava
con un grido: era la voce aspra e rovente del Battista che chiamava la gente a
conversione. Quello di Luca con una dedica - al nobile Teofilo - e con un racconto: l’annuncio e la nascita del Precursore. Giovanni - l’evangelista “che sovra
li altri com’aquila vola” (Dante) - preferisce cominciare con un prologo: “l’altissimo canto” (Id.), l’inno al Verbo incarnato. “In principio era il Verbo / e il Verbo
era presso Dio / e il Verbo era Dio”.
Il centro incandescente del mistero è fissato in quella mezza riga: “E il
Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Il contrasto con l’incipit
del brano non poteva essere più netto, ma viene superato nell’incarnazione. Là,
nel versetto iniziale, l’evangelista affermava solennemente che il Verbo era in
una esistenza divina, inalterabile e imperturbabile, senza inizio né successione,
senza ruderi del tempo né rughe di cambiamenti, senza le cicatrici di cadute
o di risalite. Qui si dichiara che il Verbo si fece carne: si fece, cioè ha assunto
una esistenza storica, in divenire, carica di debolezza, e perciò esposta e vulnerabile. Là il Verbo era presso Dio, qui è in mezzo a noi. Là il Verbo esisteva
come Dio, qui come carne. ‘Carne’ significa più del semplice assumere la natura
umana, e non solo perché sottolinea energicamente la visibilità e la concretez-
Omelie
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za dell’umanità assunta, ma perché evoca quella sfera di fragilità e di normale
ferialità, entro la quale si svolge l’esistenza degli umani. ‘Carne’ dice tutta la
distanza fra l’uomo e Dio che in Gesù viene colmata. ‘Carne’ declina l’umanità
di Gesù: il suo essere generato, il suo crescere, sudare, piangere, sorridere, stancarsi, rattristarsi, morire.
Questo vangelo dell’incarnazione contiene un massimo di buone notizie.
Decliniamone alcune, almeno quelle più gravide di senso per noi.
Dio è vicino: prima buona notizia. Il grande Pellegrino ha macinato secoli
e millenni di distanza, si è avvicinato a grandi passi, e Colui che doveva venire
è finalmente arrivato: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia
voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).
Ma fosse toccato a noi programmargli il protocollo della visita, lo avremmo
sontuosamente agghindato come un magnifico imperatore con tanto di corte
al seguito. O lo avremmo armato di tutto punto, come un generale altero, con
scorta di ‘gorilla’ e guardie del corpo. O forse lo avremmo vagheggiato nei panni
di un cattedratico impettito o di un pio guru che viene a somministrare ai poveri
mortali dosi preconfezionate di idee brillanti, di nobili principi e sagge regole
di vita. E invece Dio è fatto così: prima di accasarsi tra di noi, si spoglia di tutti
i privilegi, si svuota completamente della ‘gloria’, e riparte da zero. Non viene
con i segni del potere, si presenta con il potere dei segni: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. L’ha
detto l’angelo ai pastori, quella notte, nella campagna di Betlemme di Giudea.
Ricordiamo un altro antico inno che circolava nelle prime comunità cristiane:
“Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio / non ritenne un privilegio
l’essere come Dio / ma svuotò se stesso assumendo la condizione di servo /
diventando simile agli uomini” (Fil 2,5-7).
Ecco come è fatto Dio: in quel quasi-niente del piccolo di Maria, Dio c’è
tutto, e in quel frammento di carne si racconta a tutto tondo. Dio è qui: respira
in Gesù, guarda e piange con gli occhi di Gesù, lavora e accarezza con le mani
incallite del falegname di Nazaret, mangia parla ride sorride con la sua bocca. La
conseguenza è lampante: l’appuntamento con Dio ormai si compie nell’incontro con Gesù. Il Verbo della vita, che era da principio, noi lo abbiamo veduto con
i nostri occhi, udito con i nostri orecchi, lo abbiamo palpato con le nostre mani,
abbracciato con la passione e la tenerezza delle nostre braccia (cfr 1Gv 1,1ss).
Sì, nel piccolo di Maria Dio Padre ci ha abbracciati, e ormai non ci libereremo
più da quella stretta.
2. A Natale siamo diventati figli di Dio
Ancora: il Verbo della vita ci ha dato il potere di diventare figli di Dio: seconda buona notizia. Lo stesso evangelista nella prima delle sue lettere la formula
così: “Guardate quale amore ci ha dato il Padre: ci chiama figli di Dio e lo siamo
davvero” (1Gv 3,1). C’è una nota di lieto stupore, quasi di incredula sorpresa,
nelle parole dell’apostolo. Quanto sta dicendo è così importante che sente il
bisogno di attirare la nostra attenzione: Guardate. L’amore di Dio è tanto grande da sorprenderci: nessuno avrebbe potuto immaginarlo così tridimensionale,
con tanta larghezza, altezza e spessore, se non ci fosse stato rivelato. Essere
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
figli di Dio non è un semplice modo di dire, non è una tenera metafora, ma una
condizione reale e concreta da prendersi alla lettera: e lo siamo davvero. Basta
questa breve affermazione di Giovanni per farci comprendere che - di fronte alla
rivelazione del Padre che Gesù ci ha consegnato - la prima reazione non può
che essere lo stupore. Dio prima è Padre, e poi creatore: non aveva bisogno di
noi per esprimere la sua paternità, e tuttavia ci ha fatti suoi figli. Sorpresi dalla
gioia: lo stupore di scorgere che all’origine di ciascuno di noi non c’è il caso o la
necessità, ma l’amore più libero, benevolo, gratuito, e che, alla fine della nostra
vita, non ci si spalanca davanti la voragine del nulla, ma ci si imbatte in un incontro: lo vedremo come egli è (1Gv 3,2). Alla fine ci sarà la non-fine, un bene
grande, ci sarà un caldo abbraccio: “Venite, benedetti del Padre mio”.
È questo il mistero del Natale: io, tu, lui, lei, noi tutti, individui comici e
tragici, argilla impastata di miseria e assetata di infinito, ciascuno di noi è un
essere unico - amato in modo unico, incredibile, inaudito - da Cristo, l’amore di
Dio fatto carne e sangue per la vita del mondo.
3. Con la nascita di Cristo cambia tutto
Ma se sono vere le prime due buone notizie - che il Verbo si è fatto carne
e che ci ha dato il potere di diventare figli di Dio - allora cambia tutto: ecco la
terza buona notizia.
Con Cristo cambia la vita. Ciò che converte il freddo in caldo è la vicinanza
del fuoco: “Stare vicino a me - dice Gesù - nel Vangelo apocrifo di Tommaso - è
stare vicino al fuoco”. Essere suoi discepoli non vuol dire osservare una sfilza di
precetti: questo viene dopo. E non vuol dire nemmeno partecipare a riti e culti
vari: anche questo viene dopo. Essere cristiani vuol dire bruciare nel fuoco del
vangelo tutti gli egoismi, tutte le avidità e le sciocche vanità che ci seducono il
cuore.
Cambia la preghiera. Questo Bambino, che ci dà di poter diventare figli di
Dio, ci spiazza con l’imprevedibile sorpresa di poter pregare con la stessa semplicità e la medesima tenerezza del Figlio di Dio, addirittura con la stessa parola
e con lo stesso fiotto di abbandono con cui si rivolgeva al Padre nel segreto
della sua personale, intima preghiera: Abbà, che significa ‘Babbo’. “Che voi siete
figli - dichiara s. Paolo ai Galati - ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre” (Gal 4,6).
Cambia la missione. Il Verbo fatto carne, che viene in mezzo a noi, senza
suonare né trombe né campane, senza chiamare le telecamere, senza pretendere i titoloni nelle prime pagine dei giornali, ci ricorda che fare missione non è
fare propaganda, né fare colpo: è fare mistero. Non è uno sfacchinare per Cristo,
ma è collaborare con lui, è vivere per Cristo, con Cristo, in Cristo.
Cambia il lavoro. Tenere gli occhi fissi sul Bambino di Betlemme non distrae
dalla vita e dai suoi molti impegni. Non allontana dal reale, ma lo illumina e lo
riscalda. Un vita vissuta senza stupore sarebbe in-sensata, incolore e insapore.
È lo stupore che rende l’impegno convinto, generoso, appassionato e, perché
no? sereno e caloroso.
Cambia la festa e il riposo. Festa e riposo non servono semplicemente a
‘scaricare lo stress’ accumulato e a ‘ricaricare le batterie’ per ricominciare a
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lavorare, per poi consumare, e poi tornare a stressarsi di nuovo, ma servono a
liberarsi dall’ansia di produrre e dall’avidità di possedere. E aiutano a ritrovare
la bellezza del vivere e a celebrare la gioia del condividere la benevola vicinanza
dell’Emmanuele, il Dio-con-noi.
Cambia il dolore. Nel piccolo di Betlemme, Il Verbo della vita “da ricco che
era, si è fatto povero per noi” (cfr 2Cor 8,9). Gesù è il Dio che non scende sulla
terra a tenere una cattedra di filosofia e di etica del dolore, ma si incarna per
condividerlo. Gesù è il Figlio del Padre che si è immerso nell’abisso del male,
per salvare ogni povero naufrago sommerso dalla morte, perché solo un Salvatore riemerso dalla morte ci può far risorgere nella sua Pasqua. Per quanto noi
cadiamo in basso, schiacciati dal peso della nostra fragilità, al di sotto di tutti
ormai c’è Lui, che si è calato nel nostro inferno, sempre pronto a raccoglierci per
non farci sfracellare sul fondo del baratro.
Cambia l’economia e la politica. Mettere Cristo al centro anche della attività
economica e dell’azione politica non è una clericale invasione di campo, perché significa mettere al centro l’uomo. E mettere al centro l’uomo significa che
l’uomo viene prima del lavoro e il lavoro viene prima del capitale. Significa che
anche il mercato ha bisogno di essere finalizzato all’uomo. Mettere l’uomo al
centro significa che la politica non può pendolare tra individualismo e collettivismo, non può risolversi in una mera gestione del potere, né può permettere che
si incancreniscano situazioni di ingiustizia per paura di contraddire i poteri forti.
Un’azione politica condotta da cristiani veicola in permanenza il messaggio che
“ogni uomo è mio fratello”. Pertanto a Natale non si deve dimenticare che la
dialettica, anche aspra, delle posizioni tra avversari non può mai degenerare
nella cannibalizzazione reciproca, tra nemici.
È vero: con Cristo o senza Cristo cambia tutto. Ma perché cambi realmente
tutto, perché cambi concretamente il mondo, dobbiamo - e per grazia, possiamo! - cambiare il cuore, per poter cambiare la vita. Preghiamo allora il divinoumanissimo Verbo della vita con una luminosa preghiera del Natale:
Padre Santo, il Salvatore che tu hai mandato,
luce nuova all’orizzonte del mondo,
sorga ancora e risplenda su tutta la nostra vita.
Amen. Così sia. Che sia veramente così il nostro Natale!
+ Francesco Lambiasi
Atti del Vescovo
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Lettera ai Sacerdoti
per la Festività di S. Gaudenzo
Rimini, 8 ottobre 2010
Ai Sacerdoti, ai Diaconi, alle Persone consacrate, ai Fedeli laici
Cari Fratelli e Amici,
mancano ormai pochi giorni alla solennità di San Gaudenzo, patrono della
nostra Diocesi. Con questa celebrazione daremo solennemente inizio al nuovo
anno pastorale che la grazia del Signore ci concede per avanzare sulla strada della conversione personale e comunitaria, e per mostrare con fatti di vangelo che
“con Cristo o senza Cristo cambia tutto”. Desidero rinnovare a voi personalmente
e alle vostre comunità un caloroso invito a partecipare ad un appuntamento così
importante per la nostra Chiesa. Ricordo i due momenti:
Mercoledì 13 ottobre, alle ore 21, in sala Manzoni: Assemblea dei consigli
pastorali parrocchiali per la presentazione del nuovo anno, con il tema che ne
offre l’ispirazione centrale e i momenti principali che ne scandiranno il percorso.
In questa occasione verrà distribuito un libretto di presentazione degli uffici pastorali e il calendario dei prossimi mesi.
La partecipazione sia al completo di ogni Consiglio o almeno di larghe delegazioni.
Giovedì 14 ottobre, alle ore 17.30, in cattedrale: solenne concelebrazione
eucaristica durante la quale darò personalmente il “mandato” agli operatori
pastorali delle parrocchie e delle altre comunità. Concretamente saranno due i
gesti che caratterizzeranno il mandato:
Dopo la professione di fede verranno proposte le intenzioni per la preghiera
universale da parte di alcuni operatori pastorali scelti dagli uffici diocesani. Attraverso loro benedirò tutti gli operatori pastorali della diocesi.
Dopo la s. comunione, un rappresentante per parrocchia riceverà dal Vescovo il mandato attraverso la consegna di una pagella con l’apposita preghiera,
che verrà poi recitata coralmente da tutti.
Vi invito pertanto a indicare un operatore pastorale della vostra parrocchia per
questo rito e a favorire la presenza di quanti possono e desiderano partecipare.
La solennità di San Gaudenzo è l’occasione attraverso cui la nostra Chiesa si
ritrova e si manifesta nella sua unità: che il senso della Diocesi fiorisca nel cuore
di tutti i pastori e i fedeli della comunità cristiana riminese!
Vi aspetto con il forte desiderio di rivedervi, e vi benedico di cuore
+ Francesco Lambiasi
Lettere e Messaggi
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Bellezza e liturgia
Intervento del Vescovo al concerto tenuto in Cattedrale
in apertura ai festeggiamenti del Patrono della Diocesi
Rimini 10 ottobre 2010
Vorrei provare ad esprimere tre brevi pensieri su bellezza e liturgia, su liturgia e canto, con qualche rapido passaggio sui testi liturgici della Missa Solemnis
di Mozart.
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Il primo pensiero, dedicato a bellezza e liturgia, lo formulo con il linguaggio
sobrio e di estrema purezza del padre Pavel Florenski, chiamato il “Leonardo da
Vinci russo”, considerato uno dei maggiori pensatori della Russia del XX secolo,
il quale, dopo essere stato rinchiuso nel famigerato gulag delle isole Solovki,
venne fucilato l’8 dicembre 1937. Scriveva dunque padre Florenski: “Il fragile
vaso delle parole umane deve poter contenere il diamante infrangibile della
divinità”. Come ha limpidamente intuito Cristina Campo, una delle più sensibili
interpreti della spiritualità ortodossa, la liturgia cristiana “ha le sue radici nel
vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del
Redentore (…) Liturgia - come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato,
più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi”. Mentre ascoltiamo rapiti la Missa
Solemnis di Mozart lasciamo che rimangano sospese nell’aria fino a quando
non ci percuoteranno il cuore due domande: siamo convinti che il gratuito è più
necessario dell’utile? E ancora, ritornando sull’amabile spreco della Maddalena:
che ne sarebbe della nostra Chiesa se la cassa di Giuda fosse piena del denaro
per i poveri e la casa di Dio rimanesse vuota del profumo dell’amore di Maria
di Betania?
Il secondo pensiero lo vorrei dedicare a canto e liturgia. L’uomo non può
fare a meno del canto, e i suoi culti e le sue liturgie hanno sempre dato ampio
spazio alla preghiera cantata. Gioia, fede, speranza, dolore, impegno, pentimento: tutto viene esaltato dal canto, per lo più accompagnato dal suono di
uno o più strumenti. Voce individuale o espressione corale, il canto ha la virtù
di unire i molti, di avvicinare i distanti, di uniformare il molteplice; è veicolo di
emozioni, ma anche canale di catechesi e di preghiera. La musica strumentale
si sposa intimamente con il canto, rafforzandolo ed orientandone i significati,
offrendo spazi alla meditazione, sottolineando i momenti più intensi e creando
il clima più opportuno alla preghiera. “Molte voci un solo coro”: era lo slogan del
passato anno pastorale. Quest’anno è: “Con Cristo o senza Cristo cambia tutto”.
Il messaggio è nuovo, ma il linguaggio per dirlo non potrà essere che quello
cantato dalle molte voci che fanno un solo coro.
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Vengo al terzo pensiero. Il canto liturgico ha anche una eminente ed efficacissima dimensione pedagogica. All’inizio del nostro cammino decennale,
dedicato alla sfida educativa, mi piace scorrere velocemente i testi delle varie
partiture della Missa solemmnis che stiamo per ascoltare.
Si inizia dal Kyrie eleison: è la supplica dei poveri peccatori che si presentano davanti all’«Altissimo, onnipotente, bon Signore» e chiedono pietà per i loro
peccati. La liturgia educa alla conversione: mai l’uomo è onesto come quando
confessa il proprio peccato; mai l’uomo è grande come quando si inginocchia
davanti al suo Signore per chiedere perdono e pietà.
Segue il Gloria in excelsis Deo: la santa eucaristia educa alla adorazione.
Secondo una probabile etimologia adorazione significa mettersi la mano alla
bocca , come ad imporsi silenzio. Un grande filosofo credente, Soeren Kierkegaard, scriveva: “Anche se tu, per ipotesi, o Dio, non fossi amore, ma solo
infinita, distaccata maestà, io non potrei fare a meno di amarti: ho bisogno di
qualcosa di maestoso da amare. C’è nel mio cuore il bisogno di una maestà che
mai e poi mai mi stancherò di adorare”. Adorare Dio non è dunque un dovere,
un obbligo, quanto un privilegio, anzi un bisogno. Non è Dio che ha bisogno
di essere adorato, ma l’uomo di adorare, ed era completamente fuori strada F.
Nietzsche quando definiva il Dio cristiano “quell’orientale avido di onori nella
sua sede celeste”.
Poi, trasportati dalle melodie travolgenti di Mozart, arriviamo al Credo.
Dopo che Dio ci ha parlato, professiamo la nostra fede. La liturgia educa alla
testimonianza. Credere, ci ricorda spesso papa Benedetto, non è tanto aderire
a un pacchetto di dogmi, ma è aderire ad una persona, Cristo Signore, il quale
con la sua morte e risurrezione ha lacerato in due il velo che copriva il volto di
Dio e ce lo ha rivelato come Padre e amore amante, come Figlio e amore amato,
come Spirito e amore donato e ricambiato. Credere è cor-dare - secondo una
improbabile etimologia, ma molto cara ai medievali - è dare il cuore al Dio
amore.
Con il Sanctus veniamo introdotti alla seconda parte della s. Messa, la liturgia eucaristica. La divina liturgia educa al martirio. Se il tre volte Santo ci ha
mandato il Figlio benedetto dell’amore – Benedetto colui che viene nel nome
del Signore! – e quella di Cristo non è solo una pre-esistenza – l’esistenza prima del tempo - ma ancor più una pro-esistenza, una vita cioè completamente
e irreversibilmente donata e spesa per amore nostro, l’eucaristia educa ad un
amore che pensa più a dare che a ricevere. È l’amore, fatto carne e sangue, che
ha nutrito i martiri e tutta la schiera dei campioni della carità, da s. Gaudenzo a
Elisabetta Renzi, a Bruna Rosa Pellesi, all’ingegnere della carità, il beato Alberto
Martelli, fino a Don Oreste Benzi…
Infine l’Agnus Dei, che precede i riti di comunione: l’eucaristia educa alla
convivialità. Vivere per il cristiano è con-vivere, è vivere la vita come con-vivio,
nella comunione di un solo corpo e un solo spirito, di un cuore solo e un’anima
sola, come i primi cristiani.
Per concludere, prendo lo spunto da un’altra annotazione di carattere filologico. Per partecipare a un concerto vocale e strumentale, abbiamo bisogno di
uno dei cinque sensi, tra i più necessari e preziosi, l’udito. Non può ascoltare chi
Lettere e Messaggi
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
è sordo alle voci, ai canti, ai suoni. “Assurdo” – ecco l’osservazione filologica – è
parola che daeriva da “sordo”. Per noi cristiani, figli di s. Gaudenzo, assurda è
una vita che è rimane sorda alla parola del Signore e alla voce della sua santa
Chiesa.
Con il concerto di questa sera si apre la settimana di festeggiamenti per il
nostro caro, santo Patrono, che culminerà nella santa eucaristia di giovedì p.v.
Auguriamoci e preghiamo che la nostra vita, come quella di s. Gaudenzo, sia
perennemente abbracciata dal mistero e non venga mai soffocata dal gelido
enigma dell’assurdo.
E che la nostra festa non abbia mai fine!
+ Francesco Lambiasi
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Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Preghiera degli Operatori
Pastorali
Signore nostro Gesù Cristo,servo forte e fedele nella vigna del Padre,
ispiraci una passione grande per il tuo Regno
e un indomabile amore per la tua Chiesa.
Donaci la l’umiltà che non ci fa sentire mai
né indispensabili né insostituibili.
Infondici la fiducia che ci fa ritenere facili
anche le cose buone, umanamente impossibili.
Aiutaci a tenerci lontano dal vittimismo lamentoso,
dal protagonismo esibizionista,
dall’attivismo agitato e convulso,
dalla sciocca presunzione di farcela da soli.
Mettici in cuore una salutare inquietudine
fino a quando anche una sola persona
di quelle che siamo chiamati a servire
non ti avrà incontrato nella sua vita
e non avrà ritrovato la pace.
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Rendici capaci di coniugare
coerenza e tenerezza,
gratuità e tenacia,
mitezza evangelica e grande coraggio.
Ricordaci che non dobbiamo diventare mai
padroni sulla fede degli altri,
ma collaboratori della loro gioia.
Affidaci a nostra Madre Maria
e dille di portarci nel suo dolcissimo cuore.
Amen
+ Francesco, Vescovo
Lettere e Messaggi
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Un’agenda di speranza
per il futuro di Rimini
Discorso del Vescovo tenuto alle Autorità in occasione della solennità
del Patrono della Diocesi
Rimini, 14 ottobre 2010 - Sala s. Gaudenzo
Mi è particolarmente caro questo appuntamento, nella solennità di San
Gaudenzo, con le Autorità civili e militari e con quanti hanno speciali compiti
di responsabilità nella vita della nostra Città. Tutti saluto di cuore e ringrazio
vivamente per avere accolto questo invito. Il nostro Santo Patrono ispiri i vostri
pensieri e sostenga il vostro impegno.
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1. Se dovessi dare un titolo a questo mio intervento, non esiterei a formularlo
come una serie di “appunti per un’agenda di speranza per il futuro di Rimini”. Mi
rendo ben conto che il termine “appunti” è insieme modesto e impegnativo. “Appunti” dice un canovaccio ancora magmatico di pensieri, di prospettive, di impegni, che hanno bisogno di essere ulteriormente rifusi e riplasmati per approdare
ad una sintesi chiara matura e compiuta. D’altra parte non possiamo sottrarci alla
fatica di sognare e disegnare il futuro di una Città umana, vivibile e accogliente.
Questi appunti sono indirizzati non solo alle Autorità qui presenti o rappresentate, ma anche alle tante persone – donne e uomini di buona volontà residenti
e operanti nel nostro habitat - verso le quali come cattolici nutriamo sentimenti
di viva amicizia e con le quali sentiamo di dovere e poter condividere la cura
del bene comune. La qualità civile di una società dipende non da ultimo dalla
qualità del confronto che si sviluppa tra tutte le persone, gruppi sociali e istituzioni interessate e coinvolte a costruire il futuro di Rimini. Partecipare a questo
confronto al meglio delle possibilità è per noi cattolici un dovere ed allo stesso
tempo un segno dell’amore grande che portiamo per la nostra Città. Questa
è anche una via per la quale cerchiamo di correggere mancanze ed errori, dai
quali pure non siamo stati esenti.
2. Come avvio alla riflessione che vengo a proporvi, mi permetto di partire
da una impressione assai favorevole, che provai fin dai miei primi contatti con
la Città negli anni precedenti la mia venuta tra voi come Vescovo, e poi ampiamente confermata in questi anni. L’impressione che Rimini è una città dal grande passato, e anche se il presente appare in chiaroscuro – con tratti positivi ma
anche problematici – gode però di una notevole capacità di lavoro e di impresa
che la può far tornare a crescere. Infatti, senza indulgere all’enfasi, possiamo
riconoscere che Rimini – città e provincia – rappresenta un laboratorio di molteplici e promettenti risorse che, opportunamente liberate, sostenute e valorizzate, possono costituire una riserva di energie spendibili per sciogliere nodi, raccogliere sfide, immaginare soluzioni nuove, promuovere la qualità umana e civile
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
della nostra società. Rimini è ancora capace di aprirsi al suo futuro con fiducia e
coraggio, riprendendo a camminare verso e secondo un maggior bene comune.
Ai problemi, che impegnano il Paese – e dai quali la Città non è immune – si aggiungono per il nostro territorio e per la nostra gente alcuni ulteriori motivi di difficoltà e di preoccupazione. Con una certa frequenza i
cittadini ricevono notizie che sconcertano e destano allarme. L’auspicio sincero è che vengano superate le tante difficoltà che da tempo ci affliggono e quelle che sono insorte in questi mesi in vari settori della nostra vita
sociale, amministrativa ed economica: non per rassegnazione, ma per giungere a soluzioni effettive e adeguate, che portino serenità a tutti i cittadini.
L’atteggiamento del Vescovo e dell’intera Diocesi non può che essere di fiducia e di incoraggiamento in questa direzione. La nostra speranza è riposta nel
Signore e nella buona volontà degli uomini. Siamo sostenuti dalla certezza che
il nostro Dio ha a cuore questo suo popolo: gli ha donato un territorio bello e
ricco di storia e di risorse naturali; lo ha dotato di talenti di intrapresa, di creatività, di capacità di adattarsi alle situazioni meno favorevoli; lo ha sostenuto in
momenti ben più difficili. Abbiamo fiducia nella nostra gente, nella competenza, nella retta intenzione e nella buona volontà di tanti che sanno farsi carico
del bene di tutti.
3. Dopo questa veloce panoramica – che, come si è visto, più che monitorare al dettaglio la situazione, cercava di rilevare atteggiamenti presenti o di suggerirne di auspicabili, e tentava di cominciare ad accendere delle frecce direzionali per imboccare le vie necessarie e più opportune
– vorrei richiamare una costellazione di ideali, principi e criteri che ci possano servire di orientamento per la costruzione dell’agenda dei prossimi anni.
La nostra stella polare è senz’altro il principio e fondamento del bene comune. Ogni altro criterio risulterebbe inefficace e dannoso. Il bene comune
– bene integrale di tutta la persona e di tutte le persone – non è compatibile con una teoria della società “al singolare”. La famiglia, le associazioni a
scopi economici, politici, religiosi o ricreativi, e così via, hanno un’originalità
che non può essere eliminata senza danno per il bene comune. Le loro logiche devono essere distinte, ma non possono essere isolate, potendo dar
luogo a reciproche limitazioni positive, e a positive “ibridazioni” in una società che non conosca solo scambio tra equivalenti (cfr Caritas in veritate 38).
Dunque il bene comune è un insieme di condizioni, la produzione delle quali
«spetta tanto ai cittadini, quanto ai gruppi sociali, ai poteri civili, alla Chiesa e
agli altri gruppi religiosi: a ciascuno nel modo ad esso proprio, tenuto conto
del loro specifico dovere verso il bene comune» (Dignitatis humanae n. 6).
Le altre due stelle che appartengono alla costellazione del bene comune sono il
principio di solidarietà e quello di sussidiarietà. Una matura coscienza del valore rappresentato dalla pluralità dei legami sociali comporta una esaltazione del
principio della solidarietà. Tanto maggiore è la valorizzazione delle differenze e
delle specificità, tanto più grande è il contributo specifico del condividere, del
farsi amici, del sostenersi reciprocamente. La condivisione, e più in generale
l’amore, non è un cumularsi di elementi anonimi, ma è un sovvenire arricchito
Lettere e Messaggi
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
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da persona che sovviene persona, e da differenza che dona se stessa al differente. La solidarietà cristiana non nasce né tramonta nell’omogeneità, ma trae
forza e allo stesso tempo alimenta la varietà e la libertà attraverso l’amore.
L’altro principio fondamentale è il principio di sussidiarietà, nella sua portata
– per così dire – “verticale” e “orizzontale”. Oggi comprendiamo meglio che se
nessuna delle manifestazioni di quel pluralismo sociale di cui s’è detto può vantare il monopolio di competenza sul bene comune – non la politica, non altre -,
ciascuna ha un contributo specifico da recare, e che, insieme a tutte le altre, ciascuna partecipa all’incessante opera di composizione nella quale un certo grado
di competizione e persino di conflitto svolge un ruolo positivo e permanente.
Vorrei tentare una piccola applicazione di questi principi fondamentali alla famiglia. La famiglia è espressione unica dell’insopprimibile socialità della persona
umana, socialità la cui verità è ultimamente nell’amore come libero dono di sé
(cfr Centesimus Annus 39). La famiglia, che pure può generare la vita, non è autorizzata a possederla, ma è chiamata ad accoglierla per servirne la crescita nella libertà (cfr Gravissimum educationis 1) e ad accompagnarla anche attraverso
le prove più dure, per educare a una libertà vera, che si realizza “nella carità e
nella verità”. Peraltro in una compiuta prospettiva di sussidiarietà, la famiglia
non tollera alcuna subalternità allo Stato, alle imprese o a qualsiasi altro potere
o circuito sociale. Nei limiti della propria specificità, essa travalica ogni tentativo
di reclusione nel privato e gode di una piena dignità sociale e pubblica. La famiglia è presidio e fattore di bene comune, paradigma di relazione delle forme
sociali alla vita, testimone dell’amore come prima energia sociale, ostacolo a
ogni riduzione dello spazio pubblico a mero spazio statale.
4. Appena alcuni mesi or sono il Consiglio Comunale ha approvato all’unanimità, come atto di indirizzo, il “Piano Strategico”. Ricordo con speciale emozione quella seduta del 13 maggio scorso, alla quale fui cortesemente invitato
e nella quale potei esprimere il mio incoraggiamento per il lavoro svolto, per
i suoi risultati e per il metodo seguito. Proprio il metodo con cui si è giunti alla stesura del documento conclusivo è già un fatto molto apprezzabile e
un motivo di grande incoraggiamento: la chiamata a corresponsabilità di tanti
e la capacità di sinergia e di convergenza di soggetti ed esperienze diverse,
in nome del bene comune. Anche il mondo ecclesiale e cattolico ha accolto con entusiasmo l’invito a dare il proprio significativo e stimato contributo.
Ora il “piano strategico” non può e non deve andare in archivio, ma merita di
essere sostenuto perché sviluppi al meglio tutte le sue potenzialità. Per questo
è di fondamentale importanza tenerne in vita la sua anima profonda che si
identifica con quella “svolta (antropologica)”, che permetta alla Città di transitare dal fare all’essere, dalla Rimini ossessionata dalla ricostruzione materiale
della sua veste esteriore – in ambito turistico, edilizio, spettacolare ecc. – ad
una Rimini più attenta alla costruzione della sua identità e memoria, più attenta alla cultura, alla bellezza, all’educazione, all’accoglienza. Su questi ambiti
vitali occorrerebbe investire molte più risorse, non solo in senso economico,
ma progettuale, e investire creativamente, politicamente, spiritualmente…
Vorrei provare ora ad abbozzare alcuni capitoli che dovrebbero andare a costru-
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
ire l’agenda per la Rimini del futuro e che sintetizzo in tre verbi: intraprendere,
educare accogliere.
5.Intraprendere
A Rimini c’è ancora una riserva di capacità di lavoro e di impresa che non
teme il mercato. È certo questa una delle condizioni che ci consente di guardare realisticamente alla ripresa della crescita secondo e verso il bene comune, e in particolare di quella sua componente che è la crescita economica.
Vorrei qui rivolgermi innanzitutto agli imprenditori. Non dimentichiamo che
«mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie
necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso,
“diventa più uomo”» (Laborem exercens 9). Né dimentichiamo che i valori fondamentali e universali di libertà e di responsabilità un imprenditore li manifesta, ma non dovrebbe esaurirli: «l’imprenditorialità, prima di avere un significato
professionale, ne ha uno umano. Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come actus
personae, per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il
proprio apporto in modo che egli stesso «sappia di lavorare “in proprio”» (Caritas
in veritate 41). Non a caso Paolo VI insegnava che “ogni lavoratore è un creatore”.
D’altro canto si è fatto indilazionabile il ripristino di normali condizioni di credito
alle imprese, soprattutto a quelle piccole e medie, così come urge evitare la
morte per crisi di liquidità di quelle sane. Teniamo presente che il nostro territorio possiede un discreto numero di banche a carattere locale, che da sempre
hanno sostenuto la nostra economia. Al riguardo vorrei esprimere fondata fiducia che esse continueranno a svolgere un ruolo tanto positivo e prezioso. Oltre
all’apporto per il superamento della congiuntura negativa, ci si attende che le
banche svolgano un compito anche nei processi di sviluppo di più lungo periodo. Ciò sarà possibile solo nella misura in cui gli attori della finanza e del credito
non si sottrarranno al compito di partecipare al rischio che la Città e la Provincia dovranno affrontare per crescere, non emergendo del resto da questa fase
motivi sufficienti a rinnegare il processo di apertura e di maggiore concorrenza
anche nel settore bancario. Anche oggi le banche si trovano oggettivamente di
fronte alla possibilità di scegliere tra indirizzare la liquidità di cui dispongono
verso attività speculative, oppure programmare una ripresa prudente ma decisa
e significativa del credito.
6. Educare
Il capitolo appena abbozzato è strettamente intrecciato con questo, successivo, legato all’educare. Infatti non solo la sfida educativa si presenta come
grave crisi di bene comune, ma non si possono chiudere gli occhi ad un gravissimo fenomeno: in questo momento sono i giovani a pagare, più di tutti, i
costi della crisi. L’azione per il bene comune, oltre la sua efficacia immediata,
ha un altissimo valore educativo. È un’azione che pone al centro la persona
e i suoi diritti irrinunciabili; che si specifica nell’ambito economico – occorre educare i giovani anche all’intraprendere! -, come in quello della cultura e
dell’educazione, della bellezza e della vivibilità della città, dell’accoglienza, della
partecipazione di tutti e della fraternità. In vista di questo obiettivo, ciascu-
Lettere e Messaggi
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
no è chiamato a fare la sua parte, a dare il suo imprescindibile contributo.
Per quanto riguarda più da vicino la nostra situazione, vorrei ricordare la grande
risorsa rappresentata dall’Università Bolognese con sede in Rimini. Abbiamo bisogno di stringere il rapporto tra la Città e l’Università, in senso bidirezionale: da
parte della Città, perché senza l’ossigeno della cultura una città rischia solo di sopravvivere; d’altra parte anche l’Università può trovare nella Città un laboratorio
di ricerca e di costruzione del futuro. Un nuovo patto educativo tra Università e
Città dunque si impone, perché entrambe non potranno crescere se non insieme.
Vorrei accennare ad un segno concreto di attenzione da parte delle istituzioni
nei confronti degli studenti universitari, sempre più presenti nella nostra città,
ed è l’impegno a far crescere ulteriormente la disponibilità di alloggi a costo
accessibile. Tra alcuni giorni avrò l’onore e la gioia di partecipare alla inaugurazione del nuovo studentato per universitari, realizzato in sinergia tra l’Università
e le Istituzioni locali: si tratta a mio avviso di un segno rilevante che merita
apprezzamento e solidale incoraggiamento.
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7. Accogliere
In questi ultimi anni è cresciuto enormemente il fenomeno delle immigrazioni nella nostra Città e nel circondario. Ben al di là della polemica spicciola
e strumentale, vivissima è la coscienza diffusa dei rischi e delle opportunità di
tale fenomeno: è chiaro che questo processo arricchisce sotto svariati profili
la nostra comunità civile, dotandola di risorse che non produce e di cui ha bisogno per crescere. La tensione è quella di combinare strategie di inclusione
che mettano in circolo le nuove presenze, che a esse offrano le opportunità
ricercate e che propongano riferimenti istituzionali chiari, in grado di guidare
un percorso di responsabilizzazione. L’inclusione non è un processo privo di
regole e di sanzioni, rapido o meramente cumulativo: è l’incontro tra atteggiamenti responsabili e avveduti, essi stessi aspetto di carità matura e intelligente.
Il riconoscimento della cittadinanza da parte dello Stato italiano è solo una
condizione, certo necessaria ma non sufficiente, per una piena interazione/
integrazione delle seconde generazioni nella società italiana. Riconoscere e far
rispettare i diritti dei figli dell’immigrazione è infatti una responsabilità collettiva che investe tutte le istituzioni e tutti gli individui. Un esempio: è senz’altro
essenziale per un ragazzo di seconda generazione vedersi riconosciuto il diritto
di frequentare l’università senza dover richiedere e rinnovare periodicamente il
permesso di soggiorno per motivi di studio. Ma è anche importante che il suo
diritto a raggiungere i livelli più elevati d’istruzione (se “capace e meritevole”,
come recita la Costituzione) non sia pregiudicato da insegnanti che lo reputano,
solo per la sua origine, inadatto agli studi superiori, e finiscono così per orientarlo – anche in buona fede – verso strade professionalizzanti. In definitiva,
ogni momento di interazione con i figli degli immigrati – pensiamo al grande
lavoro svolto ogni giorno, senza clamore né pubblicità, nei tanti luoghi di aggregazione e d’incontro in cui si realizza l’azione sociale della Chiesa – dischiude un’occasione di riconoscimento della loro piena cittadinanza. Tale lavoro
può e deve cominciare subito, mostrando una attiva solidarietà nei confronti di
quelle cittadine straniere, anche “clandestine”, che, trovandosi in stato di gravi-
Atti del Vescovo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
danza, sono esposte al rischio di scegliere come soluzione l’aborto volontario.
In sintesi occorre far crescere la sensibilità all’accoglienza anche nel confronto delle “badanti” – donne che prestano un servizio preziosissimo presso gli
anziani e gli ammalati delle nostre famiglie – anche incentivando agevolazioni
economiche e fiscali per la loro regolarizzazione.
***
Nella mia recente lettera pastorale, che sono lieto di porgere personalmente a tutti gli intervenuti, ho voluto rileggere le beatitudini del vangelo e trarne qualche spunto anche per la nostra vita come cittadini. Meditando, infatti, sul tema “cittadinanza”, mi hanno particolarmente colpito le
parole di Gesù che proclamano “beati i miti”, “beati gli operatori di pace”.
I “miti” sono coloro che nel loro agire rifiutano la logica dell’aggressività, della
violenza, della contrapposizione preconcetta; coloro che vogliono contribuire al
bene, e non “vincere” a tutti i costi. “Operatori di pace” sono coloro che non considerano la Città come un campo di lotta per il potere, ma un ambito in cui cercare il
“bene di tutti e di ciascuno”, quel bene sommo che è la pace, la fraternità. Emerge
un atteggiamento di fondo ed uno stile che rifuggono dalla rissa e cercano piuttosto di dare contributi costruttivi, pur nella necessaria dialettica delle opinioni. Mi sembrano indicazioni decisive per delineare le caratteristiche dell’impegno
civile, sociale e politico nella Città; un invito a reagire allo scoraggiamento, a
rifiutare una litigiosità sterile e steccati preconcetti, a smentire lo slogan amaro
che “a Rimini non si combina niente”, per cui “la nostra Città si va marginalizzando”. “Beati i miti”, “beati gli operatori di pace”: più che un auspicio, è un
impegno per tutti. È lo stile di vita giusto per chi intende impegnarsi a reggere
le sorti della Città. Ho scritto nella Lettera pastorale: “Chi ha responsabilità
politiche e amministrative non può non avere a cuore il disinteresse personale,
il rifiuto della menzogna e della calunnia come strumento di lotta contro gli avversari, la fortezza per non cedere al ricatto del potente, la carità per assumere
come proprie le necessità del prossimo, con chiara predilezione per gli ultimi, la preparazione tecnico-professionale richiesta dall’ufficio a cui si dedica”.
Nel volgere al termine, ringrazio per la cortese attenzione; rinnovo la mia considerazione personale, insieme con la mia attenzione di pastore e la promessa
della preghiera per le Loro Persone e per il compito affidato a ciascuno. Auguro
di cuore ogni soddisfazione nel compimento del Loro servizio al bene comune.
Affido all’intercessione del nostro Patrono San Gaudenzo questo Loro impegno.
San Gaudenzo vegli sulla nostra Rimini, la benedica e la protegga.
+ Francesco Lambiasi
Lettere e Messaggi
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Agenda del Vescovo
ottobre
sabato 2Mattino
105 Stadium – S.Messa per le scuole Karis
Foundation
Covignano - inaugurazione serbatoio Hera
Pomeriggio
Tavoleto – inaugurazione scuola elementare
Auditore – cresime
domenica 3Mattino
Spadarolo – cresime
S. Maria Maddalena (Celle) – cresime
Pomeriggio
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Cattedrale – ordinazioni diaconali
lunedì 4Mattino
Bologna – Conferenza Episcopale Emilia
Romagna
Pomeriggio
ISSR – premiazione Premio Marvelli
Sera
Cattedrale - S.Messa, festa S.Francesco
martedì 5Pomeriggio
S.Agostino – S.Messa, memoria beato Alberto
Marvelli
mercoledì 6Mattino
Marebello – ritiro consacrati Ass. Papa Giovanni
XXIII
Pomeriggio
Città di Castello (PG) – relazione all’Assemblea
Diocesana
giovedì 7Sera
Curia – Consiglio Pastorale Diocesano
Agenda
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
udienze
Pomeriggio
Sera
58
venerdì 8Mattino
ISSR – Collegio docenti
Regina Pacis – incontro della zona pastorale
sabato 9
Pomeriggio
Poggio Berni – S.Messa, inizio missione
popolare parrocchiale
domenica 10Mattino
Salesiani – cresime
Cattedrale – concerto per S.Gaudenzo
lunedì 11
martedì 12Mattino
Pomeriggio
udienze
Sera
Ravenna, relazione per incontro formazione del
clero
udienze
Sera
mercoledì 13Sera
Seminario – Scuola della Parola
Sala Manzoni – presentazione Orientamenti
Pastorali CEI del prossimo decennio
giovedì 14Mattino
da venerdì 15
a sabato 16
domenica 17
Atti del Vescovo
parrocchia di san Gaudenzo, S. Messa
Pomeriggio
Sala San Gaudenzo Incontro con le Autorità
civili.
Basilica Cattedrale solenne concelebrazione
Reggio Calabria
Settimana Sociale dei Cattolici Italiani
Pomeriggio
Cattedrale – cresime parrocchia S.Gaudenzo
Sera
S. Giuliano borgo – processione
Seminario – lancio attività vocazionali
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
lunedì 18
martedì 19
mercoledì 20
giovedì 21
Pomeriggio
Studentato universitario ex Palace hotel –
inaugurazione
Forlì – incontro su Orientamenti Pastorali CEI
Mattino
visita pastorale a Montescudo
Pomeriggio
Rimini, Palazzo Buonadrata – incontro promosso
dall’Istituto Maccolini
Roma – consulta Centro Nazionale Vocazioni
visita pastorale a Montescudo
Pomeriggio
S.Chiara – S.Messa
Sera
Sala Manzoni – Settimana Biblica
venerdì 22
Sera
Mattino
Seminario – incontro di presbiterio
Pomeriggio
Castelsismondo – inaugurazione mostra
Viserba mare – Veglia missionaria
sabato 23
59
visita pastorale a Montescudo
Pomeriggio
Sala Manzoni – prolusione ISSR “A. Marvelli”
domenica 24Mattino
Verucchio – cresime
Viserba monte – cresime
Pomeriggio
S.Cristina – cresime
lunedì 25Sera
Seminario – Scuola Diocesana Operatori
Pastorali
martedì 26
udienze
mercoledì 27Mattino
visita pastorale a Montetauro
sedi universitarie – benedizioni nuovi locali
Pomeriggio
Ospedale – benedizione nuovo appartamento
cappellani
Agenda
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
giovedì 28
venerdì 29Pomeriggio
Sera
ore 21.00 Punto Giovane – S.Messa
Rimini fiera – S.Messa, conferenza animatori
RnS
Bellaria – Settimana Biblica
sabato 30
visita pastorale a Montetauro
Pomeriggio
S.Girolamo – cresime
domenica 31Mattino
Bellaria monte – cresime
Grottarossa – cresime
Pomeriggio
Corpolò – cresime
NOVEMbre
lunedì 1
martedì 2
Mattino
Rivabella – cresime
60
Sera
Grottarossa – S.Messa, anniversario don Oreste
Benzi
mercoledì 3Mattino
udienze
Pomeriggio
visita pastorale a Montecolombo
giovedì 4
venerdì 5Mattino
visita pastorale a Montecolombo
Santarcangelo – assemblea Coldiretti
udienze
Sera
Clarisse – incontro per 25° del monastero
sabato 6Mattino
Atti del Vescovo
Clarisse – S.Messa
visita pastorale a Montecolombo
Pomeriggio
S.Agostino – S.Messa, conclusione celebrazioni
Suore Missionarie Francescane
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
domenica 7
da lunedì 8
a giovedì 11
giovedì 11
venerdì 12 visita pastorale a Passano
Sera
Mattino
visita pastorale a Montecolombo
Pomeriggio
S.Messa – cimitero
Presentazione sussidio per l’avvento e il Natale
in Sala Manzoni,
Assisi – Assemblea Generale Straordinaria CEI
visita pastorale a Passano
Castelvecchio – incontro/riflessione sul tema
della gioia
sabato 13
domenica 14
Pomeriggio
Sera
lunedì 15
martedì 16
visita pastorale a Passano
Mattino
Misano Cella – cresime
Cattedrale – S.Messa, in memoria dei vescovi e
sacerdoti defunti
Imola – Vescovi della Romagna
visita pastorale a S.Maria in Cerreto
visita pastorale a S.Maria in Cerreto
Sera
mercoledì 17
Sera
giovedì 18
venerdì 19udienze
Sera
sabato 20
Seminario – Scuola della Parola
Casale di S.Vito – S.Messa, celebrazioni beato
Pio Campidelli
visita pastorale a S.Maria in Cerreto
Sala Manzoni – serata con i pellegrini del
viaggio sul Sinai e in Giordania
visita pastorale a S.Maria in Cerreto
domenica 21Mattino
Riccione, parr. Gesù Redentore – cresime
Agenda
61
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
domenica 21
62
da lunedì 22
a giovedì 25
Pomeriggio
Cattedrale – cresime, parrocchia Cristo Re
Cattedrale – S.Messa, 25° anniversario presenza
delle Sorelle Clarisse in diocesi
Loreto, Settimana di aggiornamento del Clero
“Famiglia e Iniziazione Cristiana”
giovedì 25Sera
venerdì 26 visita pastorale a S.Maria del Piano
Sera
campo ACg Curia – Consiglio Pastorale
Diocesano
Cattedrale – S.Messa, per le Aggregazioni
Laicali
Cattolica – Assemblea pubblica sull’educazione
sabato 27Mattino
Sera
Atti del Vescovo
Rimini, Maestre Pie - Ritiro USMI-CISM-CIIS
Inaugurazione nuova sede Patronato ACLI
Pomeriggio
visita pastorale a S.Maria del Piano
Cattedrale – veglia per la vita nascente
domenica 28Mattino
Parr. Regina Pacis – S.Messa, convegno
nazionale UCIIM
Cattedrale – S.Messa, I di Avvento
Sera
S.Martino in Riparotta – incontro con assistenti
AGESCI
lunedì 29Mattino
Centro Congressi SGR – Assemblea CISL
Sera
Sala Santa Colomba – preparazione
pellegrinaggio diaconi
martedì 30
Pomeriggio
Centro Congressi SGR – Assemblea
Confindustria
visita pastorale a S.Andrea in Besanigo
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
DICEMbre
mercoledì 1
giovedì 2
visita pastorale a S.Andrea in Besanigo
venerdì 3
visita pastorale a S.Andrea in Besanigo
Pomeriggio
Ospedale – incontro di Avvento
Clarisse – S.Messa
udienze
Pomeriggio
visita pastorale a S.Andrea in Besanigo
domenica 5
lunedì 6
martedì 7
mercoledì 8
giovedì 9
venerdì 10
Curia – Vicari Foranei
sabato 4Mattino
Mattino
Mattino
Cattedrale – S.Messa, II di Avvento
Pomeriggio
S.Nicolò – S.Messa, per festa san Nicola
Sera
Cesena – assemblea in preparazione
all’ingresso di S.E.R. Mons. Regattieri
Mattino
udienze
Pomeriggio
Seminario – incontro di spiritualità per persone
impegnate in ambito politico e sociale
Mattino
Riccione, Ss. Angeli Custodi – cresime
Pomeriggio
S.Andrea in Besanigo – cresime
visita pastorale a Casalecchio
Mattino
Seminario – incontro di presbiterio
Pomeriggio
visita pastorale a Casalecchio
sabato 11Mattino
Rimini Fiera – recita delle lodi con gli
universitari di CL
Agenda
63
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
sabato 11
Pomeriggio
Casa Marvelli – inaugurazione archivio storico
visita pastorale a Casalecchio
Sera
Paolotti – La Luce nella Notte
domenica 12Mattino
Villa Verucchio – S.Messa
Pomeriggio
Cesena – ingresso nuovo vescovo Mons.
Douglas Regattieri
lunedì 13Pomeriggio
Savignano – S.Messa
Sera
visita pastorale a S.Salvatore
martedì 14Mattino
martedì 14
Cattedrale – S.Messa, per tutte le forze
dell’ordine
Pomeriggio
S.Giuliano – S.Messa esequiale
Seminario – Scuola della Parola
64
mercoledì 15Mattino
Seminario – Consiglio Episcopale
Seminario – Collegio Consultori
Seminario – Consiglio Presbiterale
giovedì 16Mattino
venerdì 17
Atti del Vescovo
Pomeriggio
Villa Salus – S.Messa e unzione infermi
visita pastorale a S.Lorenzo in Correggiano
Riconciliazione – S.Messa esequiale
Istituto Maccolini – S.Messa, per i dipendenti
comunali
Pomeriggio
S.Fortunato – meditazione per l’ISSR “A.
Marvelli”
visita pastorale a S.Lorenzo in Correggiano
Sera
Chiesa dei Servi – S.Messa, per la Fondazione
San Giuseppe
Cattedrale – sacra rappresentazione
“L’adorazione dei magi”
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
sabato 18Mattino
udienze
Pomeriggio
Rimini centro – presepe vivente scuole Karis
visita pastorale a S.Lorenzo in Correggiano
domenica 19Mattino
Cattedrale – S.Messa, IV di Avvento
Pomeriggio
lunedì 20Pomeriggio
S.Gaudenzo – presepe vivente
Seminario – S.Messa, per gli insegnanti di
religione
Sera
Curia – Consiglio Diocesano AC
martedì 21
mercoledì 22
Pomeriggio
venerdì 24
Pomeriggio
venerdì 24
Notte
Mattino
Tribunale – S.Messa, per l’Ordine degli Avvocati
Pomeriggio
Sala dell’Arengo – Sigismondo d’Oro
Mattino
S.Mauro – S.Messa esequiale
65
Montegridolfo – S.Messa esequiale
ACLI – S.Messa
Carcere – S.Messa
Arco d’Augusto – benedizione presepe
Cattedrale – S.Messa solenne nella notte del
Natale
sabato 25
Natale del SignoreMattino
Cattedrale – S.Messa solenne nel giorno del
Natale
da martedì 28
a martedì 4 gennaio 2011
pellegrinaggio in Terrasanta con i diaconi
Agenda
Attività del Presbiterio
• Incontri Presbiterio.................................................................. 68
• Settimana di aggiornamento del Clero........................ 69
• Relazione di Mons. Domenico Pompili........................ 70
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Incontri del Presbiterio
Venerdì 22 ottobre, si è svolto il primo incontro del Presbiterio, in Seminario. Il Vescovo ha fatto una presentazione degli Orientamenti Pastorali della CEI
per il prossimo decennio.
Il 10 dicembre, si è svolto in Seminario il Ritiro del Presbiterio.
Il tema, preso dagli orientamenti pastorali della CEI per il decennio 2010 2020 “Educare alla vita buona del Vangelo” in particolare dall’introduzione e dal
capitolo secondo, è stato: “Gesù, il Maestro che rivela l’uomo a se stesso”.
Ha guidato la riflessione: Mons. Domenico Pompili, Sottosegretario della
CEI e Direttore dell’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali.
68
Attività del Presbiterio
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Settimana di aggiornamento
del Clero
Si è svolta dal 22-25 novembre a Loreto presso l’istituto salesiano, la Settimana di aggiornamento del Clero.
Tema della settimana è stato: FAMIGLIA E INIZIAZIONE CRISTIANA Questo il programma delle giornate: Lunedì 22 novembre
Le relazioni tra preti e con i fanciulli/ragazzi e famiglie
Relazione dei coniugi Gillini e Zattoni e dialogo in assemblea
Martedì 23 novembre
Iniziazione cristiana e famiglia: status quaestionis. (Fr. Enzo Biemmi)
Nodi, sfide e possibili strade nel rapporto famiglia iniziazione cristiana. Presentazione di alcune esperienze interessanti a livello nazionale.
Dalla catechesi all’itinerario di Iniziazione Cristiana. (Fr. Enzo Biemmi)
La richiesta dei sacramenti, occasione di annuncio. Uno stile “catecumenale”?
Mercoledì 24 novembre
Stile e “linguaggio” nella catechesi dei fanciulli e dei ragazzi. (don Tonino Lasconi)
S. Messa al Santuario
Giovedì 25 novembre
Sintesi a cura dell’Ufficio Pastorale e dialogo in assemblea.
S. Messa.
Attività del Presbiterio
69
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Gesù, il Maestro
Educare alla vita buona
del Vangelo, II
Relazione tenuta da Mons. Domenico Pompili al Presbiterio Diocesano
Rimini, Seminario, 10 dicembre 2010
1. Il nocciolo dell’educazione oggi
In un’epoca come la nostra segnata dalla frequente assenza del padre e
dalla scomparsa dei maestri (tutt’al più si parla di trainer) può sembrare strano
riproporre la figura di “un Maestro”; anzi addirittura de “il Maestro”. Non si rischia così facendo di sottovalutare la stagione culturale da cui proveniamo, che
proprio dell’impossibilità di educare - ancor prima della sua difficoltà - ha fatto
una delle sue certezze? Da dove nasce dunque tale impossibilità che è teorica
prima che pratica?
70
Benedetto XVI, che per primo si è fatto acuto interprete dell’odierna sfida
educativa, individua la radice di tutto - in primo luogo - “in un falso concetto di
autonomia dell’uomo” (Discorso alla LXI Assemblea della CEI, maggio 2010).
Secondo tale pregiudizio, ampiamente propagandato dai media e comunque
penetrato profondamente nell’humus della gente: “l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizione da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo”. L’ “uomo senza
vocazione”, convinto di dover essere l’artefice assoluto del proprio destino, finisce in realtà in balia degli imperativi del mondo.
Accanto a questa prima radice, il Papa ne ravvisa un’altra, e cioè “la riduzione della natura umana a qualcosa di meccanico”, cosicchè l’uomo è sottoposto
a una serie di condizionamenti biologici, di cui dovrebbe solo assecondare gli
effetti. Qui si fa strada l’idea che la natura è muta e cieca, che la Rivelazione
diventa incomprensibile e la storia è “solo un agglomerato di decisioni culturali,
occasionali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro” (ibidem).
Bisogna dunque essere grati al Papa per aver espresso, con estrema semplicità, che la questione educativa, prima ancora che essere legata al politeismo
dei valori (n. 10), alla cosiddetta frattura generazionale (n. 12), alle separazioni
tra le dimensioni costitutive della persona (n. 13), alla chiusura verso l’integrazione sociale (n. 14), ha - in realtà - la propria radice in una visione autonomistica e naturalistica dell’uomo. Stando così le cose, rischia di saltare la dimensione
relazionale e quella etica, senza le quali anche quella temporale svanisce. E
l’uomo è destinato a moltiplicare gli esperimenti senza mai fare un’autentica
esperienza. Dietro la frenesia dell’autoreverse si annida in fondo la speranza
Attività del Presbiterio
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
che tutto possa essere sempre di nuovo resettato per ricominciare daccapo, ma
si finisce così per non lasciar tracce in noi. Come osserva acutamente La Porta:
“Volendo immunizzare l’esistenza contro la sventura, il caso, la depressione, il
dolore fisico, la morte, abbiamo finito con l’immunizzarla contro se stessa” (F.
La Porta, L’autoreverse dell’esperienza. Euforie e abbagli della vita flessibile,
Milano, 2004, 13).
Si tratta di vedere dunque se e come è possibile educare oggi, assumendo il
Maestro come Pedagogo, esattamente come all’origine dell’esperienza cristiana
tentò di fare Clemente Alessandrino che scrive: “Gesù Cristo, il nostro pedagogo, ha tracciato per noi il modello della vita vera e ha educato l’uomo che vive
in lui … Assumiamo [dunque] il salvifico stile di vita del nostro Salvatore, noi
figli del Padre buono e creature del buon pedagogo (Clemente Alessandrino, Il
pedagogo I,98,1.3)
2. Lo stile di Gesù, "autore" della fede
In effetti Gesù è stato e resta un pedagogo, un iniziatore alla fede. Prima di
Clemente era stata la lettera agli Ebrei a descrivere Gesù come ‘colui che dà origine alla fede e la porta a compimento”(12,2). Anche la fede infatti non può nascere e svilupparsi semplicemente come auto-maturazione o auto-formazione
dell’uomo: è in Cristo che viene offerta e donata all’uomo. Non è sufficiente la
libertà per raggiungere la fede, anzi è piuttosto l’incontro con la fede a generare
la libertà, come dice il Signore: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi»
(Gv 8,32).
La dipendenza della libertà dal dono che la precede deve essere posta
nuovamente in risalto se si vuole che cresca una nuova passione educativa.
Non vi è vera educazione, né vera libertà, senza un dono che le preceda. Benedetto XVI non ha paura di utilizzare per questo dono che precede la libertà
e la fonda il termine “autorità”, che è semanticamente vicino al verbo ‘augere’
e che notoriamente significa non tanto ‘spadroneggiare’ quanto ‘far crescere’.
Nel già citato Discorso, il Papa sottolinea che proprio nella maturazione delle
relazioni più importanti l’uomo ha bisogno dell’autorità: “In realtà, è essenziale
per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’“io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la comunione
sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’“io” a se
stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma
rinuncia all’educazione» (ibidem).
Queste affermazioni ricordano giustamente che il rapporto educativo è caratterizzato da una fondamentale asimmetria per cui si dà possibilità di crescita
solo uscendo da sé, dal proprio “io” auto-centrato e lasciandosi plasmare da un
incontro. Questa priorità peraltro nulla toglie al fatto che sia necessario allestire
una vera relazione nella reciprocità. Nel caso di Gesù quello che colpisce in
modo speciale è proprio l’arte di incontrare l’altro, di tessere con l’altro una relazione, dentro la quale avviene l’educazione alla fede. In particolare dà a pensare
il fatto che momenti particolari nel cammino storico di Gesù siano sempre connessi con l’apparire di figure femminili. Si potrebbe anzi dire che “nella intera
Attività del Presbiterio
71
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
storia della salvezza è frequente che nei momenti di svolta la presenza di una
donna rappresenti un’occasione, un’accelerazione, una nuova rivelazione nel
piano di Dio” (L., SEBASTIANI, Svolte. Donne negli snodi del cammino di Gesù,
Assisi, 2008, 5).
Il tema delle svolte non ha una base teologica consolidata né può ritenersi un approccio già rigorosamente fondato e tuttavia proprio nella mariologia è divenuto ormai ricorrente affermare che, nel quarto Vangelo, Maria, la madre di Gesù, assume una funzione ‘generatrice’ a Cana (per la vita pubblica) e
sul Golgota ( per la seconda vita e il tempo della Chiesa). Tutto l’evento di Gesù
rappresenta una svolta nella concezione di Dio e nella stessa comprensione del
fenomeno religioso e tuttavia non possiamo impedirci di identificare almeno alcune concrete situazioni di passaggio nell’esperienza del Gesù storico, a partire
da un incontro singolare.
Credere in Cristo vuol dire “scoprire continuamente il suo tratto ineguagliabile nel toccare ciò che è umano e spesso troppo umano in noi, e percepire
così la straordinaria complicità tra il vangelo di Dio e il mistero della nostra
esistenza umana” (C. Theobald, Trasmettere un vangelo di libertà, Bologna,
EDB 2010:22)
Dobbiamo imparare dunque a ripercorrerne le tracce. Scorrendo i Vangeli,
non si fatica a cogliere alcune costanti della relazionalità diffusa del Maestro.
72
Gesù accoglie tutti senza distinzione
Gesù ha conosciuto pochi stranieri e limita intenzionalmente la sua predicazione alla terra d’Israele. Ma ci sono due incontri determinanti che lo cambiano, due incontri ricordati rispettivamente da Marco – che Matteo segue ed elabora – e dal quarto evangelista, cioè quello con la donna sirofenicia o cananea
nella tradizione sinottica (Mc 7, 24-30; Mt 15, 21-28) e quello con la samaritana
nel quarto vangelo (Gv 4,1-42). Sono ovviamente episodi molto diversi che non
vanno sovrapposti e che presentano tuttavia un significato comune: Gesù si
apre all’esperienza dell’altro e dell’altro nel senso più radicale, per un uomo del
suo tempo e del suo ambiente: l’altro rappresentato da una donna, per di più
straniera.
Il primo episodio colpisce per il modo assolutamente brusco con cui Gesù
tratta inizialmente una donna angosciata per la sua figlia. Si tratta di una cananea che aveva già una cattiva fama sul piano religioso e che perciò era vista
doppiamente male da un ebreo. Ma perché Gesù si comporta in maniera così
dura? “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini” afferma
Gesù e la donna replica:”Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole
che cadono dalla tavola dei padroni!”. È la frase-chiave che fa cambiare a Gesù
i suoi programmi.
L’incontro con la Samaritana approfondisce il tema dell’altro perché l’anonima donna che Gesù incontra al pozzo nell’ora più calda del giorno è quasi
il non plus ultra dell’irregolarità: è una donna, il che rappresenta sempre un
fattore di marginalità sociale, poi è samaritana dunque nemica per definizione,
quindi sta con un uomo che non è suo marito. Proprio a una “tre volte” irrego-
Attività del Presbiterio
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
lare, il Maestro si rivolge nel più complesso colloquio che i Vangeli ricordino. È
proprio Gesù che prende l’iniziativa, nonostante la stanchezza del viaggio e le
dice:”Dammi da bere”. Non si presenta a lei come uno che insegna, che rivela,
insomma che dà, ma piuttosto come uno che domanda. Comincia chiedendo
e conclude con “Sono io che ti parlo”. Il Maestro è un geniale modello di accoglienza, nonostante la freddezza della donna che si stupisce della richiesta.
Gesù si scontra con il peccato e risveglia la coscienza
Una tappa fondamentale della vita di Gesù è l’incontro-scontro con il peccato che è il dramma vero degli esseri umani, a cui il Maestro fa seguire la sua
opzione per la misericordia e il perdono. Due episodi anche qui sono illuminanti. Il primo è il passo lucano (7,1-10) del pranzo a casa di un fariseo di nome
Simone dove all’improvviso irrompe “una peccatrice nella città”. La donna si
ferma dietro Gesù, non davanti a lui. E Gesù si lascia toccare dalla peccatrice
senza problemi, accetta volentieri le sue espressioni non solo di venerazione,
ma di affetto ardente, di tenerezza: espressioni che dal nostro punto di vista
potrebbero sembrare anche troppo intense, troppo emotive, troppo esibite, e
perfino imbarazzanti. Per questo viene sottilmente contestato: non tanto per la
sua ‘dubbia’ moralità, ma per la sua scarsa preveggenza, che non gli consente
di accorgersi di chi sia quella donna. Per nulla intimidito Gesù con garbo ribalta
i pregiudizi stampati nel volto dei suoi commensali e con una parabola squaderna il senso dell’amore che è proprio di chi sperimenta il perdono. Analoga
situazione, anche se in un contesto decisamente più drammatico, è il racconto
giovanneo dell’adultera che sta per essere lapidata (8,1-11). È questa una vicenda imbarazzante omessa perfino da alcuni codici antichi che sembra porre
Gesù sotto accusa in nome della Legge, sbandierata ad arte dagli astanti. Ma
Gesù sarà sfuggente ed imprevedibile e, pur trovandosi egli pure in un cerchio
di solitudine come la donna, saprà reagire con quella frase enigmatica, arricchita da un risvolto di ironia: ”Chi è senza peccato scagli la prima pietra contro di
lei”. Così quegli uomini potenzialmente omicidi che gli stanno davanti sono costretti ad interrogarsi su quanto di sovversivo c’è nella sua mitezza. Gesù infatti
sta risvegliando la loro coscienza assopita, sta facendo appello alla loro interiorità. Un giudizio infatti deve avvenire, ma nell’intimo del cuore di ciascuno. Al
centro, d’ora innanzi, non sarà più una legge, e nemmeno la Legge con la maiuscola, ma la persona umana vivente, con la sua interiorità nella quale sa leggere
solo Dio. Èinteressante la chiusa del brano in questione. “Uno dopo l’altro” si
allontanano in silenzio. Erano arrivati tutti insieme, rafforzandosi nel fanatismo,
nel rifiuto di pensare davvero, nella voglia irrazionale di uccidere, come un branco funesto ed omicida. Ora invece vanno via alla spicciolata, ognuno per proprio
conto. Ognuno solo con la propria coscienza che non ha ancora questo nome.
Gesù si coinvolge nel dolore e lotta contro la sofferenza
Anche nel caso del confronto con la sofferenza e con la morte che ne è la
sfida più radicale, il Maestro appare legato alla presenza di una donna che insieme a lui costituisce il personaggio-chiave nel determinare la dinamica della
vicenda. Sia nel caso della figlia di Giairo che ne è la destinataria diretta, o nel
Attività del Presbiterio
73
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
caso della vedova di Nain o delle sorelle di Lazzaro che ne sono indirette beneficiarie. In tutti questi casi si coglie una particolare qualità dell’affettività di
Gesù che si lascia coinvolgere in tali drammi umani struggendosi, avendo compassione, muovendosi a pietà, lamentandosi, piangendo silenziosamente come
davanti alla tomba dell’amico Lazzaro. “Il suo sentimento è sempre impegnato:
egli è l’uomo della prontezza del sentimento, della partecipazione del sentimento. E mai accade che indugi nel sentimentalismo deteriore: la sua sensibile
compassione diventa sempre azione del sentimento” H. Wolff).
74
Gesù profuma di sé l’ambiente in cui vive
Anche qui ci troviamo di fronte a una molteplicità di occorrenze evangeliche
(Mc 14, 3-9; Mt 26, 6-13; Lc; Gv) per raccontare della cena a Betania, durante
la quale si materializza una donna che ha con sé un vaso (che solo in Marco
viene spezzato) di nardo genuino di grande valore e con il profumo prezioso
unge il capo di Gesù seduto a tavola. Ma il dato essenziale del racconto è un
particolare all’apparenza non essenziale:”E tutta la casa di riempì del profumo
dell’unguento”. E si aggiunge:”dovunque, in tutto il mondo, sarà annunciato il
vangelo, si racconterà pure ciò che ella ha fatto, in memoria di lei” (Mc 4,9). Il
profumo riguarda l’olfatto, un senso sfuggente ma anche intimo (noi respiriamo
il profumo) e in un certo senso spirituale, tanto che è divenuto quasi un luogo
comune usarlo come immagine di realtà spirituali (come nell’espressione “in
odore di santità”). Nel suo significato più profondo, il profumo non è ornamento ma accentuazione e rivelazione: non copre la realtà a cui si riferisce, ma aiuta
a capirla. Il profumo ci aiuta, quasi senza accorgercene dalle cose al mistero e
ci fa ritrovare la vocazione dello spirituale alla concretezza e la vocazione spirituale della sfera corporea.
Gesù spalanca la porta del futuro
Il ruolo delle donne ha un’incontestabile preminenza proprio all’alba della
resurrezione. Essendo venuto meno qualsiasi presenza maschile sotto la croce
è solo grazie alla presenza delle donne che si può provare il dato essenziale del
Vangelo (Mc 15,40; Mt 27,55; Lc 23,55). Tutti e quattro i brani evangelici attestano un tratto comune: solo chi attraversa la morte può lasciarsi sorprendere
dalla vita. Sarà proprio Maria di Magdala vedendo Gesù senza riconoscerlo a
scambiarlo per “il custode del giardino” (Gv 20, 15). Questa involontaria identificazione di Maria di Magdala costituisce l’ennesima prova dell’ironia giovannea
che consiste nel dire senza volerlo una realtà ancora più vera di quella ovvia.
Certo che si tratta di un giardino nel quale si trova un sepolcro nuovo (Gv 19,
41), ancor più – sulla scorta dell’esegesi patristica – si riconoscerà in quest’altro
giardino un riferimento al Giardino delle origini, all’Eden. Il giardino poi diventerà ricorrente nella funzione simbolica e si imporrà nei monasteri nella forma
del chiostro. Di fatto diventerà sempre più il luogo dell’incontro, dell’intimità,
dell’aver parte alla stessa esperienza. Abituato a pensare e sentire la nostalgia
come qualcosa che è rivolto all’indietro, talvolta non si riesce a comprendere
che esiste una nostalgia del futuro e che il giardino di Eden è più davanti a noi
che alle nostre spalle.
Attività del Presbiterio
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
3. La Chiesa è discepola, madre e maestra
Credo che lo stile relazionale e comunicativo di Gesù, qui sommariamente
esplorato rispetto alla donna, sia da ritenere decisivo per la Chiesa oggi. Soprattutto nel suscitare un atteggiamento che fa leva sulla generazione piuttosto che
sulla semplice trasmissione. È a tutti evidente, infatti, che il metodo della semplice trasposizione di contenuti non è più adeguato, se mai lo è stato, per aprire
a quella singolare esperienza, per sé non trasmissibile, che è la fede. Resta solo
una condizione di possibilità che è legata alla caratteristica tipicamente femminile dell’essere discepola, madre e maestra. La sfida, anche per la Chiesa oggi,
è parlare il linguaggio della fede in modo da generare in chi ascolta la capacità
di parlare (testimoniare per generare testimoni): così “l’evento messianico può
prodursi ancora oggi all’interno dei nostri linguaggi di fede, in via di calcificazione o, al contrario, di disseminazione. Ma qui arriviamo al luogo misterioso di
‘generazione’ della fede, radicalmente ‘intrasmissibile’ e nello stesso tempo debitore a persone nelle quali fede e parola singolare fanno corpo”. È il paradosso
della fede: non può essere trasmessa (secondo il modello comunicativo unilineare della trasmissione) ma solo generata nella libertà; ma non può generarsi
se non attraverso la testimonianza di altri. Occorre preservare questo potere generativo, che non può che fare appello alla libertà, ed evitare “ogni strategia di
strumentalizzazione pastorale dei nostri linguaggi di fede” (Theobald 2010:11).
Per la testimonianza non è sufficiente la conoscenza: “Non basta leggere le
Scritture; bisogna passare dalla lettura e dallo studio del testo all’ascolto effettivo, essendo questo il solo atto umano che possa corrispondere e rispondere
alla proclamazione: atto di libertà, perché posso rifiutare di ascoltare, ma anche
atto che produce libertà (….) Seguire Cristo con maggiore libertà e imitarlo più
da vicino” (Theobald 2010:42).
Per potere ospitare nella parola, attraverso un invito che fa appello alla libertà, occorre prima di tutto saper ospitare la parola dentro di sé. Come scrive
Theobald, la preghiera è il modo di una “presenza interiorizzata”, “che permette
di vivere un’ospitalità senza frontiere (….) Questo tipo di ospitalità fa parte delle
condizioni di una trasmissione riuscita: è anche il suo luogo spirituale privilegiato (…) Nelle nostre società i messaggi entrano direttamente nella nostra sfera
privata e senza riguardo nei nostri confronti (…) Il vangelo non entra mai, nella
nostra vita, sfondando la porta, ma entra dolcemente” (2010:24).
4. L’azione è sempre educativa, e “niente è profano per chi sa vedere”
Nella prefazione a Educare alla vita buona del Vangelo il Card. Bagnasco
scrive parlando della Chiesa: “Non c’è nulla, nella nostra azione, che non abbia
una significativa valenza educativa”. È illuminante a questo riguardo quanto
scrive Theilard de Chardin “In ciò che Egli ha di più vivo e di più incarnato, Dio
non è lontano da noi, fuori della sfera tangibile, ma ci aspetta a ogni istante
nell’azione, nell’opera del momento. In qualche maniera è sulla punta della mia
penna, del mio piccone, del mio pennello, del mio ago – del mio cuore, del mio
pensiero (…) L’enorme potenza dell’attrazione divina si applica ai nostri fragili
desideri, ai nostri microscopici oggetti, senza spezzarne la punta” (Il fenomeno
umano, pp. 39-40).
Attività del Presbiterio
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Poi il teologo-scienziato aggiunge: “In virtù della Creazione, e ancor più
dell’Incarnazione, niente è profano quaggiù per chi sa vedere” (ivi,p. 41). Niente
è profano: naturalmente per chi non si ferma alle apparenze o ai luoghi comuni culturali, o ai dualismi sterili. Anche negli Orientamenti Pastorali si insiste
molto, opportunamente, sul cercare “nelle esperienze quotidiane l’alfabeto per
comporre le parole con le quali ripresentare al mondo l’amore infinito di Dio”
(n. 3).
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4.1.Fare esperienza e non solo esperimenti
Per H. Arendt l’azione ha due elementi caratterizzanti: il dare inizio, e il far
durare. Il primo è quello più esaltante, perché contiene l’elemento della novità,
del dispiegarsi di nuove possibilità, della rottura di una normalità. Ma senza il
secondo, senza la capacità altrettanto intensa e creatrice, anche apparentemente meno entusiasmante, del far durare, l’azione si riduce a esperimento, a
performance episodica, a istante effimero che non lascia traccia. In un mondo
dove tutto si consuma in fretta, dove la cultura spinge verso soluzioni “magiche”
(che annullano l’intervallo tra il desiderio e la realizzazione), educare vuol dire
proporre un’alternativa proprio rispetto alla capacità di coniugare desiderio e
impegno, passione e dedizione. Nell’epoca in cui a tutti viene fatto balenare il
sogno del “saranno famosi” e in cui si incentivano i “dilettanti allo sbaraglio”,
l’educazione offre un antidoto all’approssimazione e all’esperimento e promuove un cammino dove all’affidamento al “caso” e alla “fortuna” si sostituisce un
lavoro serio e rigoroso su di sé, ma anche attento alla relazione con gli altri.
Se parti alla ricerca della libertà, impara anzitutto
La disciplina dei sensi e dell’anima, affinchè i desideri
E le tue membra non ti portino ora qui ora là.
Casti siano il tuo spirito e il tuo corpo, a te pienamente sottomessi
Ed ubbidienti, nel cercare la meta che è loro assegnata.
Nessuno penetra il mistero della libertà se non con la disciplina
(D. Bonhoeffer, Stazioni verso la libertà, 1944).
4.2.Agire e non solo lasciarsi vivere
L’esperienza educativa è quella di una continuità che dà senso allo sforzo
e di una tenacia che non si arrende alla fatica e all’insuccesso. Ciò comporta
una capacità di uscire da sé, misurandosi con i propri limiti e superandoli; di
attraversare situazioni impegnative, in cui a volte sembra di non farcela; di cambiare se stessi attraverso la perseveranza, la costanza, la rinuncia a gratificazioni
immediate in nome di un obiettivo più alto.
Ma che significa propriamente cogliere il senso del tutto? Ognuno fa l’esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e
alle domande: vive immerso nel concreto e nell’orizzonte delle cose che può
manipolare e gestire. Ciascuno è preso dall’immediato di una prestazione ed
è preoccupato dai risultati di una performance. L’uomo di oggi più in generale,
sembra troppo preso dal competere per potersi concedere altri svaghi In realtà
però proprio lui coglie nello sforzo che produce su di sé il senso di un’opera che
Attività del Presbiterio
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
non è mai compiuta definitivamente e sempre tende verso nuove possibilità.
Flannery O’ Connor scriveva “I dwell in possibility”, vivo nella possibilità.
È proprio questo un tratto caratteristico dell’uomo spirituale, che è tale
proprio perché ha fiducia nella vita e non si lascia vincere da atteggiamenti
rinunciatari che portano a disperare. Per il credente la vita è apertura alla possibilità, la quale non dipende dalle sole sue forze. Essa infatti, come scrive Paolo,
è “criptata” in Dio (Col 3,3). Questa apertura alla possibilità è anche ciò che
garantisce l’innovazione che realizza l’improbabile, visto che “il futuro appartiene alle persone che vedono le possibilità prima che diventino ovvie” (T. Levitt).
E questo sapendo che l’ultima parola sulla riuscita della propria vita si avrà al
momento del compimento finale.
L’azione dunque può durare solo dentro un orizzonte di senso, che da un
lato giustifica i sacrifici, dall’altro impedisce le derive efficientiste e tecniciste cui
ogni ambito della vita umana, oggi, è esposto.
Fare e osare non una cosa qualsiasi, ma il giusto,
non ondeggiare nel possibile, afferrare arditi il reale,
la libertà non è nei pensieri fuggenti, ma nell’azione soltanto.
Esci dal timoroso esitare nella tempesta degli eventi, guidato
Dal comandamento di Dio e dalla tua fede soltanto,
la libertà accoglierà festante il tuo spirito
(D. Bonhoeffer, Stazioni verso la libertà, 1944)
4.3.La Parola e non solo le parole
Ogni parola tanto più significa, quanto più è in grado di richiamarsi non
tanto ai mondi (parola referenziale), ma alle relazioni che dentro i mondi sono
possibili (parola-incontro); e il significato sarà tanto più profondo, quanto più è
aperto alla relazione originaria che ci costituisce, all’invito di Dio che fa di noi
il suo “tu”.
E questo incontro avviene attraverso la Parola.
“La Parola non ci è originariamente estranea, e la creazione è stata voluta in
un rapporto di familiarità con la vita divina” (cfr. Benedetto XVI, Verbum Domini,
Esortazione Apostolica Postsinodale, 2010, p.109).
Non solo. In un mondo in cui tutto passa, in cui tutto cambia velocemente,
“la Parola del Signore rimane in eterno”. Questa parola non è astratta e smaterializzata, ma si rende percepibile alla fede attraverso il segno di parole e gesti
umani.
E non è una parola normativa, che ci raggiunge dal di fuori, ma un invito
che ci mette in movimento e ci ri-genera: “Accogliere il Verbo vuol dire lasciarsi
plasmare da Lui, così da essere, per la presenza dello Spirito Santo, resi conformi a Cristo (…) È l’inizio di una nuova creazione, nasce la creatura nuova,
un popolo nuovo” (ivi, p. 109). Quello che è necessario ospitando la Parola è
generare in noi un atteggiamento fondamentale che il Papa esplicita in una
risposta a Peter Seewald, quando facendo riferimento al ‘De consideratione’ di
S. Bernardo, replica intorno al pericolo di essere oberato da troppe cose nel suo
ministero petrino:
Attività del Presbiterio
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
“La considerazione fondamentale è quella che Lei ha richiamata:”Non affondare nell’attivismo”!. C’è così tanto da fare che si dovrebbe lavorare ininterrottamente. Ecco, proprio questo sarebbe sbagliato. Non affondare nell’attivismo significa preservare la ‘consideratio’, l’avvedutezza, la perspicacia, la
contemplazione, il momento interiore della riflessione, dell’osservazione e
dell’affrontare le cose, con Dio e su Dio. Significa che non si deve pensare di
lavorare ininterrottamente; cosa in sé importante per chiunque, anche per un
manager, e ancor più per un Papa. Ma egli deve far sì che altri si occupino di
tante altre cose, così da mantenere una visione più profonda, un raccoglimento
interiore che poi permetta di riconoscere l’essenziale” (Benedetto XVI, Luce del
mondo, Roma 2010, 108-109).
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4.4.Educarsi e non solo educare
L’azione educativa è introduzione alla realtà ma sempre attraverso un legame che mette in relazione due soggetti liberi – l’educatore e l’educando,
coinvolti in un rapporto modulato sull’imporsi della realtà. C’è dunque un rischio che va consapevolmente avvertito, sia da parte dell’educatore che si auto
espone nei confronti dell’educando, sia da parte dell’educando, il cui assenso è
tutt’altro che scontato. Proprio questo legame è di vitale importanza e si fonda
su qualcosa che non è estrinseco, né casuale, tra i due soggetti in questione.
Proprio il nuovo ambiente digitale, con le sue modalità caratteristiche di condivisione e partecipazione, rende evidente un elemento fondamentale dell’azione
educativa: la reciprocità. Educare non è mai una trasmissione a senso unico (di
principi, di valori, di sapere). Come ogni incontro che genera cambiamento, la
relazione educativa è uno scambio di doni, un’occasione di apprendimento per
tutti, non un passaggio di sapere da chi ha a chi non ha. L’educatore non deve
pensare a se stesso come al divulgatore di un sapere che possiede e che è
estraneo agli educandi; deve piuttosto pensarsi come un ermeneuta della “poesia del senso nascosto” (De Certeau): la verità e il senso sono già nel mondo
(e non per merito suo) ma vanno cercati perforando il velo delle apparenze,
fatti emergere; va data loro voce, vanno coltivati. E quest’opera ri-creatrice del
senso del mondo può aver luogo solo nella collaborazione. “L’educatore stesso
deve essere educato. Lo è necessariamente, se accetta il dialogo” (De Certeau,
Lo straniero, o l’unione nella differenza, Milano, Vita e Pensiero 2010, p. 48).
In ogni azione educativa, chi si trova nella posizione dell’educatore deve
prima di tutto lasciarsi interpellare, e poi restituire, rinnovato dall’incontro con
altri, ciò che pensava di possedere già in modo definitivo:
“Partendo da questi esseri viventi, deve ritornare alla materia del suo insegnamento per scoprirvi le ‘cose antiche e nuove’ che sarebbero rimaste ignote
al loro proprietario se la presenza dei suoi interlocutori non gli avesse permesso
di trarle fuori dal tesoro che ha acquisito col suo lavoro. Così capisce, grazie a
essi, quello che ha la missione di insegnare loro” (ivi, 57).
Ciascuno di noi è insieme educatore (come genitore, insegnante, allenatore, sacerdote…) ed educando. Oggi più che mai si può educare solo nella forma
della compartecipazione, del coinvolgimento reciproco, del concorso comune
a un’opera che ci trascende ed è più grande di noi, ma per la quale ci è stata
Attività del Presbiterio
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
indicata la strada:
“In Gesù, maestro di verità e di vita che ci raggiunge nella forza dello spirito,
noi siamo coinvolti nell’opera educatrice del Padre, e siamo generati come uomini nuovi, capaci di stabilire relazioni vere con ogni persona. È questo il punto
di partenza e il cuore di ogni azione educativa” (Educare alla vita buona del
Vangelo, n. 25).
Mons. Domenico Pompili,
Sottosegretario della CEI
e Direttore dell'Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali.
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Attività del Presbiterio
Organismi pastorali
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Riunioni Consiglio Pastorale
Diocesano
Il Consiglio Pastorale Diocesano si è riunito giovedì 7 ottobre con il seguente ordine del giorno:
• Prime riflessioni dei Consiglieri sulla lettera pastorale del Vescovo, “Fare i cristiani”.
• L’obiettivo dell’Anno Pastorale. Proposte per i lavori del Consiglio Pastorale
Diocesano: temi e date.
• L’incontro del Vescovo con le Autorità in occasione della festa di S. Gaudenzo:
suggerimenti e proposte.
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Il Consiglio Pastorale Diocesano si è riunito giovedì 25 novembre in Convocazione straordinaria richiesta dal Vescovo con il seguente ordine del giorno:
comunicazione importante da fare ai fedeli e per la quale chiede il contributo
ed un discernimento del Consiglio Pastorale Diocesano.
Organismi Pastorali
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Consiglio Pastorale Diocesano:
Verbale della riunione
del 7 ottobre 2010
Assenti giustificati: Casalboni Franco, Cicchetti Anna, Di Filippo Concettina,
Navetta Veris
Assenti: Guiduzzi Francesco
Il Vescovo Francesco, guidando la preghiera iniziale, sottolinea che l’unità in Cristo della Chiesa è Segno e lievito per tutti i cristiani e per i non credenti. Ogni
peccato contro l’unità è un sacrilegio.
Tessere continuamente questa “tunica” della comunione. Il CPD è un organismo
di servizio e per questo i suoi componenti sono chiamati ad “essere uniti a priori
nell’essenziale e capaci di convergere nell’opinabile”. Non lasciarci intossicare da
clima politico attuale.
Presentazione dell’ordine del giorno e inizio dei lavori
1. prime riflessioni dei consiglieri sulla lettera pastorale del Vescovo,
“Fare i cristiani”
il Vescovo ha deciso di scrivere questa lettera per invitare la nostra Chiesa a riaprire il cantiere dell’educazione cristiana. La chiesa educa con l’iniziazione cristiana
e di questo si parla nel testo licenziato dal consiglio permanente della CEI. Fare =
“vivere da” ma anche “educare i” cristiani.
La prima parte personale è stata proposta perché l’unica esperienza vissuta dal
vescovo sulla sua pelle. Lo schema riprende gli ambiti di vita indicati dal convegno di Verona, intrecciati con le beatitudini evangeliche.
C’è stata una bella accoglienza della lettera, quasi inaspettata, che ha portato ad
una seconda ristampa per complessive 20.000 copie. Ciò dimostra l’attesa e il
bisogno della nostra gente di queste parole.
La lettera pur essendo pastorale non è immediatamente operativa, ma cerca di
creare un clima ed un contatto personale perché passi un clima ed una attenzione educativa.
Si registra una buona sinergia nei mezzi di comunicazione diocesani nel riprendere e riproporre la lettera. Icaro tv ogni settimana nei Giorni della Chiesa viene
affrontato un ambito.
Quali risonanze tra i consiglieri?
Silvano Perazzini: esprime gratitudine per la lettera. Il vescovo ci ha viziato con i
suoi scritti che periodicamente accompagnano la nostra Chiesa. Con lo sguardo
di persona semplice si coglie che per fare i cristiani non serve necessariamente
avere studiato tanto. Si è avvertito l’entusiasmo di vivere e comunicare il Vangelo.
Organismi Pastorali
83
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Alcune frasi meritano davvero di essere messe in pratica, come lo slogan “con
Cristo o senza Cristo, cambia tutto”. Traspare una Chiesa che “prende il suo posto”, vera e sicura, che nell’amore a Cristo e ai fratelli ha la sua arma per aiutarci
a compiere la vocazione a diventare santi. L’invito è a fare tutto nella vita, ma
facendolo da cristiano.
Fabbri Denis: si sente come Marta. L’ha colpita il modo di parlare delle Beatitudini
perché affrontate con un taglio molto concreto.
Roberto : lettera coraggiosa, non ha paura di mostrare le rughe della Chiesa. Anche noi dobbiamo avere questo coraggio nel non essere conformisti. Non accontentarci delle consuetudini, non avere paura di attaccare i poteri forti.
Rado Suor Paola: colpita dalla storia dell’infanzia e il percorso di fede. Questo è
spunto per affrontare con speranza i diversi luoghi dell’esperienza cristiana:
- Famiglia: pensare percorsi di formazione volti a migliorare la relazione tra i suoi
componenti.
Aiutare l’esperienze delle forme aggregate di aiuto alle e tra le famiglie.
84
2
- Educazione e scuola: il valore della persona, la sfida interculturale, la dimensione educativa della scuola. In tutti questi ambiti sta a noi ritrovare la passione
educativa.
- Comunità cristiana: l’evangelizzazione nella testimonianza, proposte come quella di preparare educatori capaci di interagire con le persone e di andare loro
incontro. Comunità come palestra di crescita e di trasmissione di valori.
- I giovani: dimostrare ai ragazzi simpatia e desiderio di fare strada con loro. Favorire l’accoglienza del giovane difficile, che non si sente di nessuno, stringendo
alleanze con le famiglie.
Guerra Rossano: ritorna con la mente alle sue radici, quelle che lo hanno poi fatto
tornare alla fede a 50anni. Lettera chiara, che attraversa il vangelo, lo coglie e lo
comunica.
Cenci Alberto: sottolinea la scelta significativa del vescovo di essere partito dalla
propria esperienza per fare i cristiani, facendo sentire il pastore vicino alla propria
gente. La seconda parte ha indicazioni che se “ruminate” possono dare suggerimenti concreti. Per fare i cristiani, devo essere io prima di tutto, cristiano e testimone.
Calzecchi Liana: La Grazia e il dono non sono statici, ma dinamici, quindi siamo
invitati ad un atteggiamento che sappia cogliere i segni e le situazioni della propria vita. La profonda semplicità del vangelo è evidente. La Parola di Dio non viene citata come giustificativa di comportamenti, ma perché è stata l’origine delle
scelte fatte, delle quali è la trama di fondo.
Padre Donato Santini: significativa la parte in cui si tratta del dolore e della sofferenza. Bisogna parlare con più coraggio delle cose del cuore e degli affetti.
Purtroppo anche noi cristiani non parliamo più della bellezza della castità prematrimoniale che “mantiene in quota l’affettività”.
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Roberto Soldati: sottolinea il coraggio del vescovo di condividere con noi la sua
vita. Molti gli spunti su cui lavorare.
Natalino Valentini: sintesi sapienziale e spirituale di grande rilievo. Lo snodo decisivo della crisi che ha sempre una “uscita”. Il ruolo decisivo e fondamentale del
padre spirituale e desiderio che una scelta come questa non vengano meno. Si
sottolinea il tratto dominante della pedagogia nella vita cristiana. Fare: nuova
modalità di essere cristiani, attraverso il tema della conversione e della penitenza.
Cristo prende forma in noi.
Giannini Stefano: la testimonianza semplice della sua vita con il Signore, indica
una via anche per noi: il coraggio di testimoniare la bellezza della vita di fede
come bella e possibile. È una cosa bella e da gioia. Centralità del Papa e la fedeltà al vicario di Cristo che guida la barca della Chiesa anche nei momenti difficili.
Vescovo: le risonanze gli sono utili ed è bello che le persone la leggano. Bello il
leggerla in ambito comunitario. Il vescovo ha pregato perché quel poco che fa
come testimonianza venga moltiplicato.
Abbiamo bisogno di raccontare una esperienza. La gente non vuole sentire “parlare” di Cristo ma lo vuole “vedere”. Arrivare a tutti con questa lettera non per il
messaggero, ma per il messaggio. Leggerla nei consigli pastorali parrocchiali.
2. l’obiettivo dell’anno pastorale. Proposte per i lavori del Consiglio
Pastorale Diocesano:
temi e date.
Si riprende il libretto della “Programmazione Diocesana 2010-2011”. Il vescovo
ripropone una sintesi del cammino che stiamo compiendo in questi tre anni:
Contemplazione Comunione Missione. Ripartire da Gesù, questo è il primo annuncio. L’evento dell’anno pastorale sarà il convegno di studio sull’educazione.
Quest’anno si propone la presentazione dei sussidi pastorali per i tempi forti
dell’anno liturgico.
Le prossime convocazioni del Consiglio Pastorale diocesano: 10 dicembre - 4
febbraio - 6 maggio
20:30 pausa per la cena
21:00 riprendono i lavori in seduta plenaria
3. l’incontro del Vescovo con le autorità in occasione della festa di S.
Gaudenzo: suggerimenti e proposte.
Il Vescovo desidera poter avere un confronto su alcuni temi da proporre alla città.
Natalino e don Renzo: alcuni spunti della seconda parte della lettera
Don Luigi: riprendere il tema del bene comune in corrispondenza della settimana sociale. Chiarire la posizione della chiesa e del vescovo in rapporto alla vita
politica cittadina.
Stefano Coveri: la politica e la crisi economica in atto, sotto l’aspetto delle relazioni umane.
Organismi Pastorali
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Stefano Morolli: piano strategico e territorio, attenzione alle persone nella gestione della cosa pubblica. La città per la persona.
Paolo Guiducci: nell’agone politico, garantire stile umano.
Fonti Primo: nell’affrontare i temi politici, l’appartenenza cristiana è sorpassata
dall’appartenenza partitica.
Roberto Soldati: la politica rimane a guardare senza il coraggio di forzare in favore
del bene comune.
Luciano Chicchi: particolare momento drammatico per tre motivi:
- finanza non corretta (tre banche commissariate). Il lavoro e il denaro.
- Vicenda del palazzo dei congressi: imprenditoria furba e speculatrice (materiale
e personale).
- La crisi politica: il sindaco ritira la delega a tre assessori per conflitti sull’urbanistica. Grande conflitto tra piano strategico e piano strutturale.
Rimini è solo questo? No, per fortuna possiamo sottolineare la centralità della
persona, la cultura e la bellezza sono un asse portante per la coesione sociale. La
ricchezza del volontariato. Il Vescovo deve dire con forza qual è la vera forza della
città, la presenza di un fiume sotterraneo dei cristiani di buona volontà. Ma non
riesce ad emergere… solo la storia, la fede e l’esperienza dei cattolici possa dare
una svolta a questa città. Va fatto il discorso in positivo.
86
Alberto Cenci: il vescovo deve dare la spinta ad avere coraggio delle proprie azioni, affinché i politici siano capaci di dire una nuova parola di speranza.
Natalino Valentini: il piano strategico rischia di essere disatteso, assistiamo ad
un uso scellerato del territorio. Il ruolo della cultura è totalmente disatteso. La
politica della famiglia a Rimini.
Il Vescovo ringrazia per gli interventi. Riguardo al suo intervento alle autorità
cittadine, riconosce che il terreno è stato dissodato dal vescovo Mariano. Il discorso quindi è atteso. Sente la delicatezza dell’intervento. Il vescovo invita i consiglieri a mandargli un pensiero perché lo possa eventualmente prendere come
spunto di riflessione in fase di stesura dell’intervento.
4. il convegno: don Andrea Turchini (ore 21:30)
finalità: convegno di studio, primo passo del cammino di decennio. Dedicare
l’anno a strutturare una agenda di massima dell’intero decennio.
4
Luciano Chicchi: oggi c’è bisogno di persone con una personalità compiuta.
Fonti Primo: tra gli enti da coinvolgere, anche il tribunale dei minori di Bologna.
Don Luigi e Natalino Valentini: si punta ad un convegno che abbia una prospettiva integrale. Come si combina questa attenzione se non si prevede la parte
formativa, ma solo quella educativa
Calzecchi Liana: come entrano le famiglie in questo?
Organismi Pastorali
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Fabbri Denis: come si tiene presente delle varie culture oggi presenti sul nostro
territorio?
Soldati Roberto: una volta educava la famiglie, oggi non basta, ci vuole una
comunità di famiglie, un contesto comunitario. Importante è l’aspetto della testimonianza, soprattutto quella comunitaria.
Perché a margine del convegno non creare un momento aggregativo per i giovani?
Donati Valentina: ruolo dei social network e il coinvolgimento delle famiglie.
Belletti Alberto: chiede chiarimenti sulle attese e le speranze poste in questo
convegno? Quali piste si attendono?
Pesaresi Ivan: si ricollega all’intervento di Valentina sui social network. Basta
pochissimo per convocarsi e noi invece nella Chiesa abbiamo tempi biblici.
Don Andrea: È un convegno di studio per la chiesa, l’importante è fare l’agenda
delle cose da fare/studiare. Diversi momenti con diversi moduli (analisi, proposta, …. )
Dove vogliamo andare? Coinvolgere la comunità sui punti strategici dei prossimi
anni, facciamo il punto della situazione e delle sfide in atto. Con quali priorità?
È un’analisi progettuale verso l’educazione, non solo una analisi. Preparare un
dossier sul patrimonio sommerso che già c’è. Distinguere tra “delegati” e “invitati”. Un settore di delegati che integrano il numero dei delegati
Alla Segreteria Preparatoria partecipa anche la segreteria del CPD. Allargare la
Segreteria del CPD (Stefano, Anna, d.Renzo) a Suor Paola e Donati Valentina
Il Vescovo suggerisce il come si potrà coinvolge in questo lavoro il CPD:
- ruolo di sensibilizzazione, promozione
- protocollo per la preparazione e coinvolgimento delle persone, perché le aiutino mezzi di comunicazione: fare in modo che ci si possa collegare in tempo
reale per sfruttare questi collegamenti utilizzati dai giovani.
- Alla Consulta delle Aggregazioni Laicali: dare un seguito al pellegrinaggio di
Bonora: promosso dalle Aggr. Laicali, con la possibilità anche di sostituire la
veglia di Pentecoste e aperto a quelli che vogliono. Sarà difficile mobilitare le
parrocchie, ma tanti chiedono di farla.
Il vescovo vede terminato il periodo di rodaggio del consiglio pastorale.
Invita la Segreteria ad inviare il verbale prima possibile
Mandare sempre fogli di lavoro per arrivare preparati al CPD.
Avvisi sulle iniziative per la festa di San Gaudenzo.
Preghiera conclusiva (in anteprima, quella per il mandato ai Consigli Pastorali)
Termine dei lavori alle ore 23:02
Per la Segreteria
Stefano Giannini
(Segue Allegato 1 di 1 relativo al punto 4 dell’odg)
5
(allegato 1 di 1 al verbale del CPD del 07.10.10)
Organismi Pastorali
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
CONVEGNO DIOCESANO SULL’EDUCAZIONE
31 marzo – 2 aprile 2011
Foglio di lavoro del 7 ottobre 2010 presentato al CPD
Iter di questa iniziativa:
- Dalla Programmazione Diocesana pubblicata il 1 luglio scorso veniamo a sapere che: “L’evento dell’anno pastorale sarà costituito da un convegno di studio che introduca la grande tematica della educazione. Si svolgerà nei giorni:
31 marzo, 1 e 2 aprile.”
- Il Consiglio presbiterale che si riunisce il 13 settembre scorso da come indirizzo “di coinvolgere il più ampio numero di soggetti che si occupano di “educazione”, anche al di fuori della realtà ecclesiale; … È necessario avere chiaro
l’obiettivo: quello di fondo è senza dubbio la sensibilizzazione della comunità
cristiana e della società civile in ordine alla sfida educativa.
- Nella riunione dell’UPD del 21 settembre scorso si costituisce un’ equipe che
cercherà di approfondire tali questioni in tempo utile per presentare le grandi
linee dell’evento già all’assemblea del 13 ottobre: Maurizio Mussoni, don Mirco,
don Giuseppe Giovannelli, don Cristian Squadrani, don Andrea Turchini (responsabile).
- Nella riunione di martedì 5 ottobre scorso la proposta della equipe dell’UPD
è stata ulteriormente arricchita dopo un approfondito confronto in cui era presente anche il vescovo.
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Obiettivo del Convegno:
- Puntare sull’analisi della situazione con un occhio specifico alla realtà del
nostro territorio, tenendo presente il primo capitolo dei nuovi Orientamenti
Pastorali CEI per il decennio 2010-2020:
“Educare in un mondo che cambia”.
- Individuare insieme ai vari soggetti coinvolti 3-4 questioni centrali su cui convergere a livello educativo.
- Il convegno tratta di questioni educative (prospettiva integrale) e non formative (prospettiva più settoriale)
Preparazione al Convegno:
- Costituire una segreteria preparatoria costituita da: Segreteria del CPD, Segreteria Consulta
Aggregazioni laicali, Segreteria Consulta di Pastorale Scolastica, don Mirko Vandi, don Andrea Turchini (Coordinatore).
- Costituire una piccola segreteria organizzativa (almeno 1 persona ad hoc) che
curi la preparazione pratica e supporti la segreteria preparatoria.
- Organizzare due seminari preparatori nei mesi di gennaio/febbraio: il
primo che coinvolga soprattutto le realtà ecclesiali (parrocchie, associazioni,
scuole cattoliche, organismi ecclesiali istituzionali [CPD, Uffici pastorali, …] e
veda l’apporto di contributi specifici che vengano a preparare il convegno; il secondo seminario che coinvolga prevalentemente soggetti ed enti del territorio
diocesano impegnati nel campo educativo (vedi sotto l’elenco possibile).
Organismi Pastorali
Bollettino Diocesano 2010 - n.4
6
- Celebrazione del Convegno: (possibile schema)
Intervengono al convegno almeno due delegati per ogni parrocchia, associazione, realtà ecclesiale; si partecipa per iscrizione previa per favorire l’organizzazione dei gruppi e dello svolgimento del convegno; vengono invitati rappresentanti dei soggetti istituzionali indicati in basso.
Dove: Sala Manzoni e sale Diocesi o delle vicinanze
Quando e cosa:
- Giovedì 31 marzo:
• ore 16,30-19,30: Presentazione e saluti Primo momento frontale introduttivo
al Convegno (1 intervento e spazio per le domande)
• ore 21,00: Tavola rotonda con esperienze positive a livello educativo*
- Venerdì 1 aprile:
• ore 9,00-12-00: Secondo momento frontale (2 interventi e spazio per le
domande)
• ore 15,00-18,30: Laboratori: Famiglia, Scuola, Aggregazioni educative,
Prevenzione del disagio, Media
• ore 21,00: Cineforum*
- Sabato 2 aprile
• ore 10-12,30: Sintesi e conclusioni
(*) I momenti serali sono pensati per coinvolgere nel lavoro del convegno una
partecipazione più ampia anche di coloro che eventualmente non possono partecipare ai lavori durante il giorno.
Possibili enti e soggetti istituzionali da coinvolgere anche nei seminari preparatori:
- Provincia e Comuni della provincia
- Presidenza del Tribunale
- USL – Tutela minori
- Università di Bologna: Facoltà di scienze della formazione
- Provveditorato agli studi
- Centro Famiglie del Comune di Rimini (e/o di altri comuni)
- Consorzio Mosaico
- Centro di ascolto NOI
- Consultorio UCIPEM
- CSI
-…
Questo è il risultato del lavoro a tutt’oggi. Si attende la convocazione della prima segreteria preparatoria per proseguire nella preparazione dell’evento.
All’assemblea dei CPP di mercoledì 13 ottobre sarà presentato l’evento con una
scheda simile a questa arricchita dal confronto con il CPD.
don Andrea Turchini
Organismi Pastorali
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Bollettino Diocesano 2010 - n.4
Dichiarazione del Consiglio
Pastorale Diocesano
In vista delle prossime elezioni amministrative.
1. In previsione delle prossime elezioni amministrative che interessano
il comune di Rimini e qualche altro Comune della diocesi, il Consiglio Pastorale Diocesano è vivamente interessato a che nel dibattito
in corso sia tenuta ben presente da tutti la bussola del bene comune
– inteso quale “bene integrale di tutta la persona e di tutte le persone”
(Benedetto XVI) - tenuto conto anche del fatto che la crisi economica
continua ad affliggere le fasce più deboli della società. Non ci si limiti
pertanto a mediare interessi particolari; il confronto tra le diverse forze
politiche si esprima in una legittima e positiva dialettica; non degeneri
mai in una polemica aspra e rissosa, ma esprima invece il suo alto potenziale civico e sociale.
90
2. Nutriamo un’alta stima per una sana, genuina azione politica ed esprimiamo apprezzamento e incoraggiamento per quanti si spendono con
onestà, competenza e disinteresse personale per il bene della Città.
Allo tesso tempo siamo convinti che “non tocca alla Chiesa prendere
nelle sue mani la battaglia politica” (Benedetto XVI). Pertanto clero e
organismi ecclesiali devono rimanere completamente fuori dal dibattito
e dall’impegno politico, rimanendo assolutamente estranei a qualsiasi
partito o schieramento politico.
3. Accogliamo l’appello del Papa e condividiamo il “sogno” dei Vescovi
italiani che “possa sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che sentono la cosa pubblica come fatto importante e decisivo, che
credono nella politica come forma di carità autentica perché volta a
segnare il destino di tutti”. Condividiamo pure il forte richiamo ai cattolici perché si prendano cura del bene comune, delle esigenze prioritarie
e spesso drammaticamente urgenti delle persone, delle famiglie, della
società. L’impegno serio, disinteressato per dare risposta ai problemi reali della gente è anche il modo più efficace per riavvicinare i cittadini
alla politica, recuperare il fenomeno consistente dell’assenteismo, e non
solo dei giovani. Questo esige inoltre dal cristiano che si impegna in
politica una credibile e coerente fisionomia morale, anche nel privato.
4. La Dottrina Sociale della Chiesa (DSC), traduzione concreta e operativa
del Vangelo, deve essere per tutti i cattolici un costante e ineludibile
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punto di riferimento. La logica di partito non può mai essere anteposta
alla propria coscienza e a quelli che la Dottrina Sociale della Chiesa ha
più volte indicato ed elencato come valori irrinunciabili e non negoziabili, che in estrema sintesi possono essere riassunti in vita, famiglia,
dignità della persona e libertà. (cfr. il Comunicato dei Vescovi dell’Emilia
Romagna, 28 febbraio 2010).
5. Trattandosi di elezioni amministrative, senza voler entrare nello specifico dei programmi, che non è certamente nostro compito, ci auguriamo
che venga disegnato con chiarezza e realismo il volto della Città che si
vuole edificare: una Città bella, culturalmente significativa, che vuole
offrire a tutti una buona qualità di vita, aperta alla sussidiarietà, all’accoglienza e alla solidarietà, attenta quindi alle famiglie, ai poveri, agli ultimi, mobilitata nell’impegno per la legalità, non esclusa la lotta contro
l’evasione fiscale. Questi ed altri valori fondamentali per una armonica
e fraterna convivenza civile sono stati più volte richiamati dal vescovo
Francesco nei suoi interventi pubblici.
6. Sulla base di questi valori ogni elettore è chiamato ad elaborare un
giudizio prudenziale che, di per sé non è mai dotato di certezza incontrovertibile. Pertanto le differenze tra i cattolici non si devono mai porre
nell’orizzonte dei valori di riferimento, così pure la diversità di scelte
concrete non deve mai diventare contrapposizione pregiudiziale o conflitto offensivo e pretestuoso.
7. Constatiamo con piacere che anche a Rimini, come in diverse parti
d’Italia, cattolici pur impegnati in partiti diversi, sentono l’esigenza e
promuovono momenti formativi e di confronto come aiuto a non interrompere un cammino di fede, a coltivare il legame con la comunità ecclesiale di appartenenza, e nelle scelte operative a fare costantemente
riferimento alla visione antropologica cristiana.
8. Ci auguriamo infine che questo spirito e questo stile di fare politica
diventi contagioso e trovi la sintonia di tante altre persone di buona
volontà, sinceramente desiderose di impegno convinto ed efficace a
servizio dei cittadini.
Rimini, 9 dicembre 2010
Il Consiglio Pastorale Diocesano
Organismi Pastorali
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Solennità di San Gaudenzo
patrono della Città e della Diocesi
di Rimini
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Per la festa di San Gaudenzo, patrono della Città e della Diocesi di Rimini, il
sito internet della diocesi (http://www.diocesi.rimini.it) ha assunto una nuova
veste grafica.
Si è trattato di una ristrutturazione radicale, che integra e completa il lavoro iniziato da alcuni mesi con la creazione della newsletter.
“Ora – come ha spiegato don Egidio Brigliadori, responsabile diocesano
per le Comunicazioni Sociali – arriva un sito per rispondere nel miglior modo
alle esigenze della comunicazione che fa di internet uno dei canali principali”
e che, come ci ricorda Benedetto XVI, è “un dono per l’umanità che va messo
al servizio dei più bisognosi”.
Il nuovo sito si presenta con un’area istituzionale in cui poter trovare con
facilità tutte le informazioni utili ai fedeli e agli operatori pastorali.
Il colore predominante è il blu utilizzato nel nuovo progetto grafico della
Diocesi, opera dello studio riminese Kaleidon.
In occasione della Solennità di San Gaudenzo la Diocesi di Rimini organizza una serie di iniziative.
Mercoledì 13 ottobre, in Sala Manzoni (presso la Curia Vescovile), alle
ore 21, si è svolta l’Assemblea pubblica dei Consigli Pastorali Parrocchiali.
In tale occasione è stato consegnato il programma pastorale 2010/2011 della
Diocesi (che fa riferimento gli orientamenti pastorali della Conferenza Episcopale Italiana per il prossimo decennio). Inoltre è stato presentato anche il tema
che offre l’ispirazione centrale all’anno pastorale e i momenti centrali che ne
scandiranno il percorso.
Nella stessa occasione, è stato distribuito un libretto di presentazione degli
uffici pastorali e il calendario diocesano dei prossimi mesi.
Giovedì 14 ottobre, solennità di San Gaudenzo, in Basilica Cattedrale alle
17.30 si è svolta la solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal Vescovo
Francesco. Durante la S. Messa è stato dato il mandato agli operatori pastorali
delle varie parrocchie e delle altre comunità.
Sono stati due i gesti che caratterizzeranno il mandato:
- dopo la professione di fede sono state proposte le intenzioni per la preghiera
universale da parte di alcuni operatori pastorali scelti dagli uffici diocesani. Attraverso di loro, il Vescovo Francesco ha benedetto tutti gli operatori pastorali
della Diocesi.
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- dopo la s. comunione, un rappresentante per parrocchia ha ricevuto dal Vescovo il mandato attraverso la consegna di una pagella con l’apposita preghiera, poi recitata coralmente da tutti.
In precedenza, alle ore 16.30 in Sala San Gaudenzo, presso la Curia Vescovile, si è tenuto il tradizionale incontro del Vescovo di Rimini con le autorità
cittadine.
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Settimana Biblica
Si è svolta dal 18 al 21 ottobre in Sala Manzoni la XII Settimana Biblica dal
titolo: Il Vangelo di Marco “Vi farò diventare pescatori di uomini” (Mc 1,17) con
il seguente programma:
Lunedì 18
Saluto di S.E. Mons. Francesco Lambiasi Vescovo di Rimini
Gesù chiama i primi discepoli (cap. 1,1-6,5) Vocazione e relazione
Sr. Elena Bosetti, Biblista, docente di Esegesi del Nuovo Testamento presso la
Pontificia Università Gregoriana (Roma)
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Martedì 19
Gesù si manifesta ai discepoli (cap. 6,6-8,26)
Rivelazione e accoglienza
Mons. Bruno Maggioni, Biblista, docente di Esegesi del Nuovo Testamento
presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano)
Mercoledì 20
Gesù educa i discepoli (cap. 8,27-13,37)
Dalla sequela alla testimonianza attraverso la preghiera e il perdono
Sr. Benedetta Rossi, Biblista, docente di Sacra Scrittura all’ISSR “Beato Gregorio X” (Arezzo)
Giovedì 21
Gesù invia i suoi discepoli (cap. 14,1-16,20)
La missione tra smacco e grazia
Don Giacomo Perego, Biblista, docente di Nuovo Testamento presso l’Istituto
di Vita Consacrata Claretianum (Roma)
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Scuola Operatori pastorali
II Anno
Il mistero della Chiesa
Si è tenuto presso il Semiario vescovile dal 18 ottobre al 13 dicembre il secondo anno della scuola Diocesana per Operatori Pastorali dal titolo “Il mistero
della Chiesa”.Il programma è stato il seguente:
18 ottobre. Gesù chiama i primi discepoli. Sr. Elena Bosetti
25 ottobre. La Chiesa comunità fondata sulla Parola di Dio. Mons. Francesco
Lambiasi
8 novembre. La Chiesa corpo di Cristo: un corpo e molte membra. Don Mirko
Vandi
15 novembre. La Chiesa luogo della comunione e del perdono. don Lanfranco
Bellavista.
22 novembre. Eucaristia fonte e culmine della vita della Chiesa. don Andrea
Turchini
29 novembre. La Chiesa in dialogo con il mondo. don Renzo Gradara
6 dicembre. La famiglia Chiesa domestica. Don Giampaolo Bernabini, diac.
Cesare Giorgetti
13 dicembre. La parrocchia casa e scuola di comunione. don Tarcisio Giungi
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Prolusione al nuovo Anno
Accademico 2010/2011 dell’Istituto
Superiore di Scienze Religiose
Sabato 23 ottobre, alle ore 17, in Sala Manzoni, si è tenuta la conferenza
pubblica e Prolusione al nuovo Anno Accademico 2010/2011 dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Alberto Marvelli”, dedicata quest’anno al tema:
Arte e fede. La Bellezza nella vita della Chiesa e della Città
Dopo il saluto inaugurale del Vescovo di Rimini e Moderatore dell’ISSR “A.
Marvelli”, S.E. mons. Francesco Lambiasi, ha tenuto la relazione mons. Timothy Verdon, Direttore dell’Ufficio diocesano per la Catechesi attraverso l’arte
(Firenze).
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Veglia Missionaria 2010
Per introdurre la Giornata Missionaria Mondiale di domenica 24, si si è
svolta venerdì 22 Ottobre, presso la Parrocchia Santa Maria a mare Viserba, la Veglia Missionaria “Spezzare pane per tutti i popoli”.
La veglia è stata presieduta dal nostro Vescovo Mons. Francesco Lambiasi.
Durante la Veglia, organizzata dall’Ufficio Missionario Diocesano (Missio
Diocesana), ha avuto luogo luogo il rito della consegna del mandato missionario.
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Cattolici nell’Italia di oggi.
Un’agenda di speranza per il
futuro del paese
Mercoledì 27 ottobre in Sala S. Colomba si è svolta una serata di approfondimento sui contenuti emersi dalla Settimana Sociale dei Cattolici.
L’incontro è stato organizzato dall’Ufficio Diocesano per la pastorale Sociale
Relatore: Dott. Edoardo Patriarca (Segretario del Comitato per le Settimane Sociali)
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Serata sul tema dell’acqua
Giovedì 25 novembre in sala Santa Marvelli si è tenuta una serata di approfondimento sul tema dell’acqua dal titolo: Come ci poniamo, da cristiani, di
fronte al bene dell’acqua?
Sono intervenuti: P. Natale Brescianini, monaco camaldolese priore del
monastero di Monte Giove a Fano e il Prof. Antonio De Lellis.
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Giornata di preghiera a favore
dei cristiani perseguitati in Iraq
Si è svolta domenica 21 novembre, festa di Cristo Re, una Giornata di
preghiera a favore dei cristiani perseguitati in Iraq e per i loro persecutori.
La giornata è stata indetta dalla Conferenza Episcopale Italiana.
Si è pregato anche per tutti gli altri cristiani a rischio in ogni parte del
mondo.
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S. Messa per e con le Aggregazioni
Laicali
Venerdì 26 novembre, la Basilica Cattedrale di Rimini, alle ore 19.00, ha
ospitato la celebrazione della S. Messa presieduta dal Vescovo Francesco Lambiasi per e con le Aggregazioni Laicali (che riunisce le oltre trenta tra associazioni, movimenti e gruppi ecclesiali presenti in Diocesi).
La celebrazione che intende diventare una tradizione, la seconda S. Messa
“voluta” e “organizzata” dietro esplicita richiesta della Consulta delle Aggregazioni laicali, che ha desiderato mettere all’inizio di questo anno pastorale
una “pietra” importante, un segno forte di Comunione “di cui siamo grati perché riconosciamo già presente, ma che intendiamo continuamente rafforzare”
hanno scritto i componenti della Segreteria della Consulta. La S. Messa è stato
un “appuntamento di Pentecoste” che per le Aggregazioni Laicali vuole sottolineare “il loro «sì» all’essere una Chiesa sempre più «Una»”.
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Veglia di preghiera
per la Vita nascente
Accogliendo l’esortazione e l’esempio del Santo Padre, sabato 27 novembre, vigilia della prima domenica di Avvento, alle ore 21 in Cattedrale il Vescovo
ha presieduto una solenne Veglia di preghiera per la Vita nascente.
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Incontro persone impegnate
in ambito politico
Martedì 7 dicembre presso la sede del Seminario Vescovile “Don Oreste
Benzi”si è tenuto l’ormai tradizionale incontro con le persone impegnate in
ambito sociale e politico
Ha aiutato la riflessione il Prof. Luca Diotallevi, Vice Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali. La 46^ Settimana
Sociale dei Cattolici Italiani, che si è svolta a Reggio Calabria 14-17 ottobre, ha
avuto come tema: “Cattolici nell’Italia di oggi” - Un’ agenda di speranza per il
futuro del nostro paese”
Papa Benedetto XVI, nel messaggio di saluto ai partecipanti ha rinnovato l’appello affinchè: “..sorga una nuova generazione di cattolici, persone interiormente rinnovate che si impegnino nell’attività politica senza complessi
d’inferiorità. Tale presenza, certamente, non s’improvvisa; rimane, piuttosto,
l’obiettivo a cui deve tendere un cammino di formazione intellettuale e morale
che, partendo dalle grandi verità intorno a Dio, all’uomo e al mondo, offra
criteri di giudizio e principi etici per interpretare il bene di tutti e di ciascuno”.
L’incontro di spiritualità, è un piccolo tassello di questo cammino di formazione spirituale, morale ed intellettuale.
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Inaugurazione
Archivio storico “A. Marvelli”
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Sabato 11 dicembre, alle ore 16, il Vescovo di RImini Francesco Lambiasi
ha inaugurato l’Archivio Storico “A. Marvelli” nella nuova sistemazione in Casa
Marvelli, al n. 69 di via Cairoli, a Rimini. L’importanza dell’Archivio è data dal fatto che il Beato Alberto Marvelli,
come protagonista impegnato nel suo tempo, fa parte della storia della Città,
della quale è uno dei suoi cittadini più illustri. Non si può narrare la storia di
Rimini senza narrare la vicenda umana e cristiana di Alberto Marvelli, vissuto
nel tragico periodo della Seconda Guerra Mondiale.
L’Archivio Storico raccoglie tutto il materiale cartaceo, filmico e mediatico
perché possa essere fruibile per quanti desiderano conoscere, approfondire
e studiare la vita di Alberto Marvelli, per tesi di laurea, articoli, pubblicazioni.
Nell’Archivio sono raccolti tutti gli scritti di Marvelli, circa 100, nei quali il
Beato riminese esprime la sua spiritualità, il suo pensiero politico e sociale;
tutti i suoi libri, circa 300, che ha letto e commentato con sottolineature e frase
a margine.
L’Archivio, inoltre, contiene anche tutto ciò che è stato scritto su di lui: articoli e rassegna stampa; i documenti dell’iter di beatificazione, filmati di interviste, commemorazioni, spettacoli. Non manca un’ampia raccolta fotografica,
con le foto originali, scattate da Alberto Marvelli stesso.
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L’adorazione dei Magi. Sacra
rappresentazione dal dipinto
di Giorgio Vasari
Venerdì 17 dicembre, in Basilica Cattedrale, alle ore 21, è infatti prevista la Sacra Rappresentazione dal dipinto del Vasari L’adorazione dei
Magi. Si è trattato di una sacra rappresentazione, un intreccio tra musica e
danza, nato da una suggestione che la regista (e ideatrice) Annalisa Ciacci ha
provato un giorno all’interno dall’Abbazia di Santa Maria Annunziata Nuova di
Scolca.
Alla rappresentazione hanno partecipato 17 orchestrali; la voce è stata
quella di Arianna Lanci mentre la parte danzata ha visto protagoniste June
Gallagher e Roberta Mussoni mentre la parte del teatro ha impegnato ben 53
“attori”. Scenografia di Giorgio Barbieri, fotografia di Laura Arlotti. Ha presenziato il Vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi.
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Luce nella notte
L’appuntamento della Luce nella notte è stato l’11 dicembre, è stato anche
il lancio ed il primo passo di preparazione per la GMG di Madrid dell’agosto
prossimo.
L’appuntamento di Luce nella notte, è stato preceduto da un pomeriggio
di formazione.
Questa è una novità rispetto agli scorsi anni: una formazione ampia circa
le caratteristiche dell’iniziativa Luce nella notte, al di là dello specifico servizio
e presenza alla serata.
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Consegna del Messaggio
della pace
Il 31 dicembre, alle ore 17.30, in Basilica Cattedrale a Rimini, durante la S.
Messa, il Vescovo emerito di Rimini mons. Mariano De Nicolò ha consegnato il
testo del messaggio redatto da papa Benedetto XVI per la Giornata Mondiale
della Pace al presidente della Provincia di Rimini e al sindaco di Rimini.
Iniziative analoghe si sono svolte nelle parrocchie della diocesi, con modalità diverse, dove i parroci hanno consegnato i messaggi ai relativi sindaci.
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Pellegrinaggio in Terra Santa
del Vescovo con i diaconi.
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Sessanta persone. Tanti sono stati i partecipanti al pellegrinaggio in Terra
Santa, che ha visto il Vescovo di Rimini insieme ai diaconi della chiesa riminese. Il gruppo è partito il 28 dicembre dall’aeroporto “F. Fellini” di Rimini con
un volo Roma-Rimini-Tel Aviv dell’Opera Romana Pellegrinaggi: oltre che dai
diaconi e dalle loro mogli, il gruppo era composto composto da alcuni accoliti
e da qualche candidato al diaconato.
I pellegrini hanno tra l’altro Cana di Galilea, il Monte delle Beatitudini,
Nazareth e la casa dell’Annunciazione il 31 dicembre mentre il 1 gennaio si è
svolta la celebrazione della S. Messa presso la Basilica dell’Agonia. E ancora
visita alla Basilica della Natività, al Cenacolino e al S. Sepolcro di buon mattino,
il 4 gennaio, prima del rientro in aereo con volo da Tel Aviv diretto a Rimini.
È la prima volta che il Vescovo Francesco Lambiasi va in pellegrinaggio con
i diaconi. Il gruppo è volato in Terra Santa con un altro gruppo di trenta pellegrini riminesi capitanato da don Guido Benzi, direttore dell’Ufficio Catechistico
Nazionale, anch’egli riminese.
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Ottobre - Dicembre 2010 - n.4
Bollettino
Direttore responsabile: Baffoni don Redeo
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Rimini – Tel. 0541. 24244
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Stampa: Tipolito Garattoni - Rimini
Bollettino
Ottobre - Dicembre
2010
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