Lascio la luce bellissima del sole e le stelle splendenti e il
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Lascio la luce bellissima del sole e le stelle splendenti e il
Lascio la luce bellissima del sole e le stelle splendenti e il sembiante della luna, e i cocomeri maturi e le mele e le pere. Praxilla, V sec. a.C.* Ardano attraverso la notte lungamente le stelle lucentissime. Ibico di Reggio, VI sec. a C.* “I don’t have two lives”. Annie Leibovitz. Crediamo che Carlo Facchini ci inviti a cogliere l’attimo, ad osservare la vita in ogni sua manifestazione, anche quella ri-generativa interna ad ogni atto di morte apparente. Ed in quanto tale, respingente. Carlo fotografa un litchi in decomposizione. Anni fa avvolgeva una mela di polvere d’oro, per darle valore e donarle una relativa eternità. Ecco, crediamo che il sole rappresenti per Carlo l’eternità, e l’oro un anelito ad essa. Almeno a quella relativa a cui ci è data una chiave di accesso. Mediante la fotografia, che “immortala”, sempre nei limiti di ciò che gli umani producono e creano. I suoi attrezzi, supporti e risultati sono composti di materia comunque deperibile. Carlo vuole salvare una mela trasformandola in pomo d’oro. E guarda la mosca che trae ancora vita dal litchi già in putrescenza. Osserva a lungo la trasformazione, la vita che prende vita dalla morte, attende con pazienza il momento in cui una fotografia coglie l’attimo per una sua sottrazione alla morte definitiva. Relativamente. E’ una lotta antica, la sua. Molto umana, molto commovente. Un attimo che è minuscola, leggerissima piuma bianca, resa a noi visibile in ogni suo minuto e meraviglioso dettaglio. Carlo ama la vita in molte delle sue forme, e vorrebbe forse ricoprire di polvere dorata tutto ciò che ama e lo interessa. Ed invece fa fotografie, e le fa bellissime. A volte gioca con la pasta d’oro liberata nel liquido come fosse polvere di stelle galleggiante nell’universo. Che viene a visitarci concretandosi in volute ricorrenti. Azzardiamo che la cifra che lo accomuna ai suoi maestri e fotografi amati sia quella del sentimento d’amore e di compartecipazione al creato. In quel particolarissimo modo in cui il fotografo permette, attraverso la padronanza della tecnica e della strumentazione, di aprire un suo canale diretto fra cuore, pensiero, curiosità e sguardo sul mondo attraverso l’obiettivo. Affinché possiamo a nostra volta leggere l’immagine, come in uno specchio rovesciato, con gli occhi del nostro cuore, del nostro pensiero, delle nostre sensibilità e conoscenze. Perché se no dovrebbe Carlo considerare come la più grande fotografa vivente Annie Leibovitz, che mai ci fa mancare l’interazione da anima ad anima fra fotografo ed oggetto della fotografia, estendendola fino ai nostri occhi e permettendoci di farne parte? L’artista più lontana dalla prosopopea della “professionalità” distante. In una sua foto John Lennon, nudo, abbraccia Yoko Ono, vestita. Lo scatto è della mattina precedente l’uccisione. Annie fotografa l’amica del cuore Susan Sontag quando già solo il corpo è ancora sulla terra. Non vuole nessun make up su di lei. Vuole fermare l’attimo fuggente in assoluta verità, sottrarre alla morte dell’oblio anche il momento stesso della morte. Nel libro compare anche Annie stessa, in una delle rare volte. Susan l’aveva fotografata nuda, incinta, di profilo, poco prima del parto. Ancor oggi Annie dice: “Susan mi aiuta molto. Ogni giorno”. L’immagine è del fotografo, ma è anche un regalo per tutte e tutti noi. Con il cuore negli occhi, i nostri occhi sul mondo. *Traduzione di S. Quasimodo, in I lirici greci, Prima edizione Milano, 1940. Annie Liebovitz , A Photographer’s Life, 1990-2005. London, 2006.