LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE
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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SALVAGO Salvatore - Presidente - Dott. BERNABAI Renato - Consigliere - Dott. CAMPANILE Pietro - Consigliere - Dott. CRISTIANO Magda - Consigliere - Dott. LAMORGESE Antonio - rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 7690/2010 proposto da: P.M. (C.F. (OMISSIS)), + ALTRI OMESSI elettivamente domiciliati in ROMA, VIA …............, presso l'avvocato …..............., rappresentati e difesi dall'avvocato ….................., giusta procura a margine del ricorso; - ricorrenti contro MINISTERO DELLA DIFESA; - intimato Nonchè da: MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA …..........., presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis; - controricorrente e ricorrente incidentale contro P.M., + ALTRI OMESSI; - intimati avverso la sentenza n. 28/2009 della CORTE D'APPELLO di CATANZARO, depositata il 21/01/2009; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/10/2015 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE; udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l'Avvocato …............ che si riporta; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE AUGUSTINIS Umberto, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi. Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1.- Il Ministero della difesa, con atto di citazione notificato tra il 28 aprile e il 2 maggio 2001, convenne in giudizio i sig.ri P. M., + ALTRI OMESSI per sentire dichiarare l'inefficacia dell'accordo stipulato il 24 settembre 1990 con il loro dante causa, sig. P. P., con cui era stata concordata e poi corrisposta l'indennità di esproprio (pari a complessive L. 422.370.400) di terreni di loro proprietà, situati nel Comune di (OMISSIS), e condannare i convenuti alla restituzione della predetta somma, oltre interessi legali. Dei suddetti terreni era stata ordinata l'occupazione d'urgenza in data 22 giugno 1990, in vista della realizzazione dei lavori di ampliamento dell'aeroporto (OMISSIS), dove doveva essere installata una base Nato, opera dichiarata di pubblica utilità con D.P.R. n. 27 del 1989; tuttavia, avendo gli organi della Nato nel dicembre 1991 annullato il progetto, il Ministero aveva dovuto ordinare la cessazione delle attività espropriative (che non si erano concluse, non essendo stato emesso il decreto di esproprio) e, con D.P.R. 22 aprile 1993, n. 817, la dichiarazione di p.u. era stata revocata per ragioni di interesse pubblico; di conseguenza era stato intimato ai proprietari di rientrare in possesso dei beni e di restituire l'indennità percepita che era rimasta priva di giustificazione causale. 2.- Il Tribunale di Catanzaro dichiarò l'inefficacia dell'accordo sull'indennità di esproprio; condannò i sig.ri P. alla restituzione dell'indennità (Euro 218.137,00), oltre interessi legali dal giorno della notifica della domanda giudiziale; ordinò il rilascio dei terreni in loro favore e condannò il Ministero a pagare alcune somme a titolo risarcitorio. 3.- Il gravame del Ministero è stato parzialmente accolto dalla Corte d'appello di Reggio Calabria, con sentenza 21 gennaio 2009. Per quanto ancora interessa in questa sede, la Corte ha rigettato l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice ordinario sollevata dai privati; ha qualificato la pattuizione del 1990 come un accordo amichevole sul quantum dell'indennità di esproprio (e non una cessione volontaria), avente efficacia esclusivamente endoprocedimentale, inidoneo a produrre un effetto traslativo della proprietà del bene e a fare sorgere nei privati il diritto all'emissione del decreto di esproprio, con la conseguenza che il medesimo accordo era diventato inefficace poichè il procedimento di esproprio non si era concluso e che erano sorti a carico delle parti reciproci obblighi restitutori; ha determinato le somme dovute ai privati a titolo di indennità di occupazione legittima (Euro 15.750,97) e di risarcimento dei danni arrecati ai terreni e ad un fabbricato (Euro 7.957,04 + Euro 3.185,00) nel periodo dall'immissione in possesso (24 settembre 1990) alla data di cessazione degli effetti della dichiarazione di p.u. (22 aprile 1993), nonchè a titolo di risarcimento dei danni (Euro 58.645,74, oltre interessi e rivalutazione) per il successivo periodo in cui il Ministero aveva trattenuto i beni senza titolo, avendo intimato ai privati di riprenderli solo il 23 (o 29) ottobre 1996 con offerta reale perfezionatasi il 19 (o 26) novembre 1996 (dopo una richiesta informale del febbraio 1996 con la quale i privati erano stati informati della intervenuta revoca della dichiarazione di p.u. ed era stato loro chiesto di restituire l'indennità decurtata delle somme ad essi spettanti) ; invece, per il periodo successivo al 29 ottobre 1996, i privati non avevano diritto al risarcimento, avendo illegittimamente resistito alla richiesta di rientrare nel possesso dei beni ed essendo venuta meno l'imputabilità al Ministero dell'inadempimento all'obbligo restitutorio (in tal senso ha accolto il motivo di gravame del Ministero); infine, in accoglimento di altro motivo di gravame, ha indicato nel 23 ottobre 1996 (anzichè nella data della domanda giudiziale come stabilito dal primo giudice) la decorrenza degli interessi legali sull'indennità di esproprio (di Euro 218.137,00). 4.- Avverso questa sentenza i sig.ri P. ricorrono per cassazione sulla base di due motivi; il Ministero della difesa resiste e propone un ricorso incidentale affidato a tre motivi. Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE 1.- Il primo motivo del ricorso principale, che denuncia violazione dei principi in tema di riparto della giurisdizione, si conclude con i seguenti quesiti di diritto: "rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la materia attinente a procedimento espropriativo ed alla decadenza e revoca della dichiarazione di pubblica utilità con le conseguenze ulteriori quanto alla caducazione del rapporto e alle restituzioni"; "quanto alla normativa in materia di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia espropriativa, trattandosi di normativa processuale, la stessa è di immediata applicazione per cui va applicata la normativa vigente al momento della proposizione della domanda giudiziale". 1.1.- Il motivo è inammissibile. Come eccepito dal Ministero della difesa, i proposti quesiti sono del tutto inadeguati, a norma dell'art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis), risolvendosi in enunciazioni di carattere generale e astratto, prive di qualunque indicazione sui caratteri concreti della controversia e, quindi, inidonee a consentire di definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo (v., tra le tante, Cass. s.u. n. 6420/2008). 2.- Il secondo motivo denuncia violazione della L. n. 2359 del 1865, art. 26 e ss., L. n. 865 del 1971, art. 12, e L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, del t.u. sugli espropri (D.Lgs. n. 327 del 2001), delle norme in tema di interpretazione dei contratti, di ripetizione dell'indebito e di calcolo degli interessi, nonchè vizio di motivazione, per avere erroneamente escluso nella pattuizione del 24 settembre 1990 la natura di cessione volontaria e per avere fatto decorrere gli interessi sull'indennità da restituire da una data (23 ottobre 1996) antecedente alla domanda giudiziale. 2.1.- Il Ministero ha eccepito l'inammissibilità del motivo per inadeguatezza dei quesiti. 2.1.1.- L'eccezione è fondata limitatamente al profilo concernente il denunciato vizio motivazionale, cui si riferisce un momento di sintesi - così formulato: "difetta in via assoluta la motivazione sulla natura giuridica dell'atto da qualificare come cessione volontaria e non come mera accettazione anche in considerazione del fatto che l'atto stesso non risulta nemmeno esplicitamente individuato ed esaminato" - che è effettivamente inidoneo a sintetizzare il vizio argomentativo imputato alla Corte d'appello nella qualificazione giuridica della pattuizione intercorsa tra le parti. Esso è privo della necessaria indicazione degli elementi di fatto decisivi che, se valutati, avrebbero ragionevolmente indotto i giudici di merito alla diversa qualificazione invocata dai ricorrenti (come cessione volontaria del bene, anzichè come accordo sull'indennità) e ignora l'articolata motivazione espressa al riguardo nella sentenza impugnata (a pag. 12-14), sollecitandosi una diversa interpretazione della volontà delle parti che, evidentemente, esorbita dalle finalità del giudizio di legittimità. E' pertanto divenuto definitivo il capo decisorio che ha qualificato la pattuizione di cui si discute non come cessione volontaria del bene (che renderebbe non più necessario il completamento del procedimento espropriativo al fine del passaggio della proprietà del bene dall'espropriato all'espropriante), ma come un accordo amichevole sull'ammontare della indennità di espropriazione, ai sensi della L. n. 2359 del 1865, art. 26, con la conseguenza che l'Amministrazione che abbia iniziato un siffatto procedimento non è obbligata per legge a completarlo e non è configurabile in capo al privato che abbia concluso detto accordo un diritto ad essere espropriato, ma solo un diritto a ricevere una indennità nella misura concordata quando l'esproprio abbia luogo, mentre, se il procedimento non si conclude con l'espropriazione, viene meno l'efficacia dell'accordo (v., tra le altre, Cass. n. 12704/2001). 2.1.2.- Il quesito di diritto concernente la denuncia di violazione di legge - così formulato: "quanto alla decorrenza degli interessi, trattandosi di ripetizione dell'indebito, gli interessi (compensativi) sono dovuti all'Amministrazione dal momento della domanda giudiziale (e mai comunque da quello della messa in mora), salva la dimostrazione della mala fede dell'accipiens, nel caso di specie palesemente esclusa dal titolo in base al quale legittimamente l'accipiens aveva percepito la somma in questione" - è, invece, sufficientemente idoneo a fare comprendere l'errore di diritto imputato ai giudici di merito nella individuazione della decorrenza degli interessi sul debito di restituzione dell'indennità di esproprio. 2.2.- Il profilo in esame, concernente appunto la decorrenza degli interessi, è però infondato. La giurisprudenza di questa Corte si è più volte espressa nel senso che, qualora sia sopravvenuta la revoca della dichiarazione di pubblica utilità dopo che sia stata percepita l'indennità di espropriazione dal proprietario espropriando a seguito di "accordo amichevole" e sia avvenuta la presa di possesso del bene da parte dell'espropriante (in virtù di occupazione d'urgenza), tutti i successivi atti che vi si ricollegano diventano inefficaci in forza del suddetto provvedimento terminativo della procedura espropriativa; ne consegue che la somma anticipata all'espropriando diventa priva di causa, così come diventa ingiustificata (e, perciò, illegittima) la protrazione dell'occupazione del bene da parte del soggetto espropriante, con l'effetto che entrambi sono obbligati alle rispettive restituzioni; in particolare, per la restituzione della somma ricevuta dal privato a titolo di indennità di espropriazione valgono le regole della ripetizione dell'indebito, essendo l'art. 2033 c.c., applicabile anche nel caso di sopravvenienza della causa che renda indebito il pagamento (Cass., s.u., n. 5624 e 14886/2009). A questa condivisibile premessa, nelle medesime sentenze poc'anzi richiamate, fa seguito l'ulteriore affermazione secondo cui gli interessi decorrono dal giorno della domanda giudiziale e non da quello dell'eventuale, precedente, costituzione in mora, "atteso che all'indebito si applica la tutela prevista per il possessore in buona fede - in senso soggettivo - dall'art. 1148 c.c., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti soltanto dalla domanda giudiziale, secondo il principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda". Quest'ultima affermazione, che richiama un tradizionale orientamento (seguito, tra le altre, da Cass. n. 4745/2005 e 1581/2004 e, di recente, da Cass. n. 13424/2015), non è condivisibile, dovendosi invece dare seguito all'indirizzo (inaugurato da Cass. n. 7586/2011 e seguito incidentalmente da Cass. n. 16657/2014) secondo il quale, in tema di ripetizione d'indebito oggettivo, l'espressione "domanda" di cui all'art. 2033 c.c. non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale ma anche ad atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c., dovendosi considerare l'accipiens (in buona fede) quale debitore e non come possessore, con conseguente applicazione dei principi generali in materia di obbligazioni e non di quelli relativi alla tutela del possesso ex art. 1148 c.c.. La ragione di decorrenza degli interessi, di cui all'art. 2033 c.c., dalla domanda stragiudiziale invece che da quella giudiziale è di carattere generale. Come ritenuto da Cass. n. 7586/2011, la riconduzione della formula letterale dell'art. 2033, che parla di "domanda" senza aggettivi, alla domanda giudiziale ha un antico fondamento storico che a questo Collegio appare non più corrispondente all'attuale sistema del codice civile. L'art. 1147 del codice del 1865, riprendendo l'art. 1378 del code civil, disciplinava la restituzione dell'indebito, entro la sezione dei quasi contratti, con esclusivo riferimento alla ricezione in mala fede e faceva decorrere gli interessi "dal giorno del pagamento", in ciò precorrendo l'attuale art. 2033. Quanto all'ipotesi, non prevista nel codice civile del 1865, della ricezione in buona lede, dottrina e giurisprudenza consideravano l'accipiens non già come debitore per la restituzione ma come possessore della somma altrui. Perciò egli doveva restituire i frutti pervenutigli "dopo la domanda giudiziale" (art. 703 del codice del 1865, corrispondente all'art. 1148 del codice del 1942). La ragione di quest'ultima disposizione stava, e sta, non nel fatto che la domanda giudiziale facesse venir meno lo stato di buona fede (a ciò sarebbe bastata anche la domanda stragiudiziale), bensì nel già ricordato principio secondo cui, esercitata l'azione, la durata del processo non deve nuocere alla parte che "ha ragione". In altri termini, considerato l'accipiens come possessore piuttosto che come debitore, la domanda giudiziale non ha l'effetto della costituzione in mora: il possessore, in virtù dell'apparenza di verità che è data al suo titolo dalla buona fede (che si presume), non cessa di essere tale (nè diventa mero detentore) per il solo fatto che un terzo rivendichi il bene, seppure con una richiesta formale (del tutto analoga a quella idonea per la costituzione in mora). Ciò spiega perchè è soltanto una sentenza del giudice (i cui effetti retroagiscono alla "domanda giudiziale" di cui parla l'art. 1148 c.c.) che potrebbe fare cessare lo status di possessore in buona fede e la tutela riconosciutagli dall'ordinamento. Inserita tuttavia - dal codice del 1942 - la disciplina della ripetizione dell'indebito nel libro delle obbligazioni, risulta incongruente il fondamento legale della decorrenza degli interessi dalla domanda giudiziale, ma tale incongruenza è superabile abbandonando la disciplina del possesso e applicando alla ripetizione dell'indebito le norme del diritto delle obbligazioni. A sostegno di quest'orientamento sono utilizzabili anche ulteriori argomenti. Innanzitutto vi è un argomento di tipo letterale, al quale si è già accennato, che dimostra la diversità della disciplina del possesso rispetto a quella delle obbligazioni: l'art. 2033 c.c., stabilisce che chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto agli interessi "dal giorno della domanda", a differenza dell'art. 1148 c.c., secondo cui il possessore in buona fede fa suoi i frutti naturali separati e i frutti civili "fino al giorno della domanda giudiziale". Un altro argomento proviene dalla comparazione giuridica: il p.819 del BGB prevede che l'accipiens che sia o venga a conoscenza della mancanza della ragione giuridica del suo acquisto è obbligato alla restituzione a partire dal momento dell'acquisto o dalla successiva conoscenza "come se in tale momento fosse stata presentata la domanda giudiziale di restituzione". Ciò dimostra che la successiva conoscenza del diritto altrui fa venire meno la buona fede e giustifica la restituzione dei frutti, mentre nel possesso ciò non accade prima della proposizione della domanda giudiziale (art. 1147, comma 3, e art. 1148 del nostro codice). Inoltre, nel caso, come quello in esame, in cui all'obbligo dei privati di restituire l'indennità corrisponda quello dell'Amministrazione di restituire il bene, v'è l'esigenza di rispettare il sinallagma delle obbligazioni restitutorie. Tale sinallagma sarebbe vulnerato se si ritenesse il privato tenuto a corrispondere gli interessi sulla somma da restituire solo dalla domanda giudiziale, come se prima la sua obbligazione restitutoria non fosse ancora perfetta (nonostante idonei atti stragiudiziali precedenti), e l'Amministrazione vincolata all'obbligazione già perfetta di restituire il bene nel momento stesso in cui (per effetto della revoca della dichiarazione di pubblica utilità) sia venuto meno il titolo legale che ne aveva giustificato la presa di possesso (tanto da giustificare la mora credendi del privato). Infine - e la circostanza potrebbe avere valore decisivo - si deve considerare che il privato ha ricevuto soltanto un'anticipazione dell'indennità che diventerà definitiva se e quando il procedimento espropriativo, al quale è strumentale l'accordo amichevole stipulato con l'Amministrazione, si sarà concluso con l'emissione del decreto di esproprio. L'elemento soggettivo che caratterizza il potere di fatto esercitato dal privato sulla somma di denaro ricevuta sembra riconoscibile più come animus detinendi (nomine alieno) che come animus possidendi. In questa prospettiva sarebbe esclusa l'applicabilità alla fattispecie della disciplina, di cui all'art. 1148 c.c., relativa all'obbligo del possessore in buona fede di restituire i frutti percepiti solo dopo la domanda giudiziale (Cass. n. 8796/2000). 3.- Venendo al ricorso incidentale del Ministero della difesa, il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 c.c., per avere ravvisato una "evidente colpa da ritardo e/o inerzia" del Ministero per la mancata tempestiva riconsegna dell'immobile, erroneamente desumendola dal solo fatto materiale della detenzione successivamente alla revoca della dichiarazione di pubblica utilità. 3.1.- Il motivo è infondato. La Corte d'appello, condannando il Ministero al risarcimento del danno per il mancato reddito conseguibile dal bene occupato senza titolo dopo la revoca della dichiarazione di pubblica utilità (22 aprile 1993), sino al giorno in cui i privati creditori sono stati costituiti in mora, ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui la privazione del possesso del bene (se abusiva), conseguente all'occupazione preordinata all'esproprio, integra di per sè un danno risarcibile (Cass. n. 4797/2005, 11391/2001). Secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità il danno subito dal proprietario per l'occupazione senza titolo di un bene immobile altrui è in re ipsa, discendendo dalla perdita della disponibilità e dall'impossibilità di conseguire l'utilità ricavabile da esso (Cass. n. 11992/2014, 9137/2013, 10498/2006). 3.2.- Il secondo e terzo motivo sono inammissibili, in quanto privi di momenti di sintesi adeguati alla tipologia dei vizi motivazionali denunciati, a norma dell'art. 360 c.p.c., n. 5. 4.- In conclusione, dev'essere enunciato il seguente principio di diritto: in presenza di un accordo amichevole sull'indennità di esproprio, seguito dal pagamento dell'indennità concordata, nel caso in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia revocata per ragioni di pubblico interesse, il pagamento dell'indennità e la protrazione del possesso del bene da parte dell'Amministrazione che lo ha occupato d'urgenza risultano privi di causa ed entrambe le parti sono obbligate alle restituzioni, in applicazione delle regole sulla ripetizione dell'indebito, a norma dell'art. 2033 c.c.; in particolare, qualora il privato non intenda rientrare in possesso del bene, l'Amministrazione può liberarsi formulando offerta di restituzione in applicazione della disciplina sulla mora credendi e, dal canto suo, il privato è tenuto a corrispondere anche gli interessi maturati sull'indennità anticipatagli dal giorno in cui ha ricevuto la richiesta formale di restituzione, intendendosi la "domanda" di cui all'art. 2033 come atto di costituzione in mora, anche stragiudiziale (art. 1219 c.c., comma 1). 5.- Entrambi i ricorsi sono rigettati. Le spese possono essere compensate, in considerazione della reciproca soccombenza. PQM P.Q.M. La Corte rigetta entrambi i ricorsi; compensa le spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2015. Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2015