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Gestione, Innovazione e Sviluppo Agricolo 1 Agriturismo in provincia di Lecco idee per lo sviluppo e la valorizzazione Provincia di Lecco Servizio Agricoltura Pr.I.M.A.V.E.R.A. Progetto d’Integrazione e Modernizzazione dell’Agricoltura per la Valorizzazione Equilibrata delle Risorse Agroambientali Gestione, Innovazione e Sviluppo Agricolo Agriturismo in provincia di Lecco idee per lo sviluppo e la valorizzazione a cura di Francesco Mazzeo Volume prodotto nell’ambito del piano provinciale dei servizi di sviluppo agricolo 1998, con il contributo della Regione Lombardia (L.R. 47/86) Pr.I.m.A.V.E.R.A. Progetto d’Integrazione e Modernizzazione dell’Agricoltura per la Valorizzazione Equilibrata delle Risorse Agroambientali Sommario Presentazione 6 Risorse e prospettive per lo sviluppo dell’agriturismo lecchese 9 Agriturismo e cultura tradizionale 23 Tipologie di paesaggio ed elementi costitutivi 40 Elementi di storia dell’agricoltura lecchese 65 Gli attrezzi tradizionali in una prospettiva agrituristica 93 Dalla fame all’abbondanza 104 Folklore e forme espressive popolari nel territorio lecchese 130 Aspetti di religiosità popolare 148 Architettura rurale tradizionale 164 Appendice 192 Profilo degli autori 199 Presentazione Con questo volume prende avvio Pr.I.M.A.V.E.R.A, “Progetto d’Integrazione e Modernizzazione dell’Agricoltura per la Valorizzazione Equilibrata delle Risorse Agroambientali”, la cui finalità è quella di dare rilievo all’agricoltura lecchese nei suoi numerosi e differenti aspetti che la connotano. La collana editoriale Pr.I.M.A.V.E.R.A nasce come risposta ad una molteplicità di esigenze. In particolare essa risponde all’importanza del settore agricolo nella complessiva economia provinciale, la quale sebbene sia dominata dall’attività industriale e terziaria, non può prescindere dal beneficio territoriale e ambientale di cui è portatrice l’agricoltura. In secondo luogo risponde all’utilità di fare conoscere quanto di avanzato ed innovativo esiste nell’agricoltura lecchese, per valorizzare il patrimonio e le risorse umane esistenti e, in terzo luogo, alla necessità di fornire stimoli nuovi a tutte quelle realtà agricole che possono ancora sfruttare al meglio le risorse e le possibilità di crescita e di sviluppo che il territorio consente. Questo lavoro rappresenta l’inizio di un percorso di approfondimento che mira a realizzare un’efficace programmazione provinciale nel comparto agrituristico, soprattutto ora che con la legge regionale 11/98 la materia agrituristica è stata trasferita dalla Regione alle Province. Tanto per le tematiche trattate, l’agriturismo lecchese, quanto per la prospettiva da cui sono affrontate, questo volume meglio di altri può segnare l’atto di nascita di questo nuovo strumento informativo e divulgativo che l’Amministrazione provinciale ha inteso realizzare. Nell’agriturismo, infatti, si riunifica passato e presente, sotto la tensione evolutiva di un sistema socioeconomico che trova alimento nelle proprie origini e si proietta nel nuovo alla ricerca di future prospettive. Attraverso l’agriturismo, infatti, l’agricoltura può riaffermare all’esterno di se stessa il ruolo di protagonista di processi essenziali vecchi e nuovi per la società: dalla produzione del cibo alla salvaguardia di spazi vitali, non solo fisici ma anche culturali. 6 Anche la prospettiva entro la quale il volume affronta la tematica agrituristica rappresenta lo spirito con il quale l’Amministrazione provinciale ha inteso il progetto Pr.I.M.A.V.E.R.A.: non uno strumento celebrativo o propagandistico, ma un mezzo di divulgazione e di servizio all’interno del quale agricoltori, tecnici, amministratori e quanti hanno interesse per l’agricoltura lecchese, possano trovare strumenti di comprensione, motivi di riflessione e elementi di stimolo verso la crescita e lo sviluppo dell’agricoltura provinciale. Ora più che mai è necessario considerare consapevolmente sul territorio la necessità del governo dei processi, che si rende tanto più possibile e produttivo, quanto più vasta è la base di condivisione di obiettivi e strategie di lavoro. Avviare una stagione programmatica, con il concorso di tutti i soggetti coinvolti, può essere un modo opportuno e proficuo per porre le basi per il concreto sviluppo dell’agriturismo lecchese. L’auspicio, dunque, è che questo lavoro, che raccoglie la maggior parte delle relazioni tenute all’interno del seminario organizzato dal Settore Attività Economiche, faccia emergere l’utilità di pervenire, con il concorso di tutti, a governare i processi che si realizzano nella nostra provincia, indirizzandoli verso prospettive di sviluppo fondato sullo sfruttamento razionale delle risorse del territorio. In questa prospettiva un piano agrituristico provinciale, largamente condiviso dalle parti coinvolte, è la tappa successiva che occorre affrontare nel lavoro di ammodernamento e di valorizzazione dell’agricoltua lecchese. Aprile 1999 Graziano Morganti Assessore alle Attività Economiche e Trasporti della Provincia di Lecco 7 Risorse e prospettive per lo sviluppo dell’agriturismo lecchese di Francesco Mazzeo 1. Considerazioni generali L’agricoltura della provincia di Lecco è modellata sul territorio che, unitamente a numerosi altri fattori di natura socioeconomica, ne determina molte sue caratteristiche e, in certa misura, le sue condizioni di sviluppo. Nello stesso tempo l’agricoltura lecchese, inserita all’interno del contesto economico agricolo regionale e questo in quello nazionale e internazionale, riflette e risente inevitabilmente le loro influenze. Sul palcoscenico agricolo europeo emergono alcune questioni rilevanti, schematizzabili nei rapporti esistenti fra produzione, fabbisogni, salute, ambiente. Sono fattori fortemente interconnessi, da considerare congiuntamente e con molteplici implicazioni di diverso ordine. Alcune più macroscopiche hanno guadagnato la scena della cronaca, divenendo spesso anche elementi di grande preoccupazione dell’opinione pubblica (es. “mucca pazza”); altre, su cui ancora non c’è attenzione di massa, hanno grande rilevanza nei campi alimentare e ambientale: basti pensare all’impiego in agricoltura degli organismi geneticamente manipolati e, più in generale, delle biotecnologie. Tutto ciò pone l’esigenza di riflettere sull’intensità dell’impiego dei fattori produttivi e sui risvolti associati al loro uso massiccio a fronte, fra l’altro, di eccedenze produttive alimentari all’interno dell’Unione Europea, di rischio di danno alla salute dei consumatori e degli ope9 ratori a causa di numerosi prodotti impiegati nei cicli produttivi, di degrado delle risorse naturali e dei beni ambientali. Tutto ciò, inoltre, si inserisce nel crescente processo di globalizzazione del mercato dei prodotti agricoli, che introduce rilevanti modifiche negli scenari abituali: se da un lato alcuni vecchi riferimenti perdono importanza (es. politica di aumento delle quantità di prodotti), dall’altro emergono nuove attenzioni e opportunità per l’agricoltura, soprattutto nella sua relazione con il territorio. Queste possibili prospettive, si fondano su una nuova considerazione della relazione impresa - azienda risorse territoriali, da cui possono scaturire sia un maggiore ruolo dell’attività e della produzione agricola tradizionalmente intesa, sia nuove funzioni dell’agricoltura, compresa quella agrituristica, rese più esplicite dal mutamento di condizioni all’interno delle quali la produzione agraria si svolge. Presupposti di una scelta agrituristica che valorizzi la “naturale” vocazione dell’impresa agricola, sono la chiarezza e la coerenza nel rapporto fra azienda, produzione e territorio. Dal momento che questa scelta non è neutrale in rapporto all’attività agricola, la sua consapevole assunzione riduce sia il rischio di svilimento dell’attività agrituristica, sia il pericolo di “secondarizzazione” dell’attività agricola. Qualora l’attività agricola dovesse soffrire a causa dell’attività agrituristica, acriticamente avviata, si potrebbero porre, infatti, almeno altre tre questioni così schematicamente rappresentabili: rischio di ripercussione negativa sull’azienda per quanto riguarda l’organizzazione, la gestione e il livello di intensità ottimale dell’attività agricola propriamente detta1; qualità nei rapporti esterni dell’agricoltura con altri settori economici che, a torto o a ragione, si sentono chiamati in causa2; qualità dell’immagine che l’opinione pubblica potrebbe ricavare più in 10 generale dell’agricoltura3. Lo scenario europeo, per quanto riguarda la disponibilità di molti beni alimentari, è caratterizzato da produzioni eccedenti i fabbisogni4 e la totalità delle aziende agricole produce ormai per il mercato. Sono infatti ormai nulle o assai marginali le quote di produzione destinate all’autoconsumo della famiglia coltivatrice, con il risultato che i prodotti agricoli vengono consumati in luoghi diversi da quelli in cui sono stati ottenuti. Molti beni alimentari, inoltre, sono caratterizzati dalla loro surrogabilità5 e per gli ingredienti di molti prodotti non è riconoscibile la loro provenienza, in presenza di quote crescenti di prodotti alimentari trasformati6. Per di più, sebbene una grossa parte di popolazione europea viva in territori rurali, anche in questi ultimi i modelli di consumo alimentari, causa gli stili di vita connessi soprattutto all’organizzazione del lavoro, sono prevalentemente di tipo urbano/metropolitano. Gli stili e le condizioni di vita e di lavoro nelle città, infine, accrescono la domanda dei loro abitanti di beni e servizi non disponibili nelle aree urbane, fenomeno che assume maggiore enfasi in aree e regioni densamente popolate e diffusamente urbanizzate. L’attenzione crescente, da parte dei consumatori, per i rischi alla salute connessi all’impiego di fattori produttivi volti ad aumentare la produttività delle risorse naturali (erbicidi, insetticidi, fertilizzanti chimici, ...) e il risvolto che l’intensificazione dei processi produttivi determina sull’ambiente (inquinamento, perdita di valore d’uso di beni ambientali, ...), completano uno scenario all’interno del quale le prospettive di alcuni territori possono subire considerevoli mutamenti. A causa della crescente internazionalizzazione dei mercati, in molti territori, che per cause naturali e/o socioeconomiche non godono di vantaggio competitivo, la 11 remunerazione dei fattori impiegati nella tradizionale produzione agraria può raggiungere livelli anche talmente bassi da rendere non conveniente o impossibile la prosecuzione dell’attività agricola. Ciò in alcuni territori determinerà, se tecnicamente possibile, un riadattamento interno al settore e una diversa destinazione delle risorse per assicurare un’accettabile remunerazione dei fattori e per mantenere, nelle situazioni più favorevoli, un differenziale prezzi/costi tale da remunerare anche l’impresa. In territori a maggiore criticità, il rischio di abbandono dell’attività è più elevato, non essendovi, o essendo insufficienti, i margini di adattamento. Questi stessi territori, però, possono determinare nuove opportunità di sviluppo anche attraverso l’agriturismo, grazie alla disponibilità di particolari risorse in essi presenti7. 2. Il contesto territoriale: da contenitore a risorsa L’agricoltura occupa estensivamente il territorio e lo presidia. L’agricoltura intreccia con il contesto territoriale rapporti economici 12 Per cogliere meglio alcune prospettive di sviluppo locali, anche in rapporto al modello globalizzato di sviluppo, è necessario considerare il modo in cui l’agricoltura si pone in rapporto con il territorio e con il contesto socioeconomico, storico e culturale che lo caratterizza. Il primo aspetto che si evidenzia è quello fisico: l’agricoltura occupa estensivamente il territorio e perciò ne assume il presidio e la salvaguardia da usi diversi, che potrebbero alterare anche fortemente le caratteristiche che ne garantiscono lo sfruttamento al fine di produrre beni e servizi. L’agricoltura intreccia con il contesto territoriale rapporti economici, sia per quanto riguarda i fattori produttivi (fattori intermedi e servizi che l’agricoltura acquista sul mercato), sia per quanto riguarda i prodotti (prodotti agricoli e servizi che l’agricoltura vende sul mercato). Essa condiziona anche la dimensione socioculturale, che scaturisce dalla connotazione storica del rapporto agricoltura territorio e che interessa la sfera culturale, i modi del vivere e dell’abitare, i consumi, i comportamenti della società locale. Ma le relazioni agricoltura - territorio vengono modificate dal modello di globalizzazione del mercato. Il mercato globale, infatti, assoggetta le merci a regole di concorrenza e di competitività che funzionano al meglio se i beni, ovunque prodotti, si assomigliano molto e se si muovono su vasta scala. Col mercato globale, inoltre, la competitività economica non dipende più dalla sola azienda ma anche dal sistema di cui l’azienda è parte. La globalizzazione, come è noto, non si limita ai soli aspetti economico-mercantili, ma coinvolge sfere diverse della società e delle comunità locali, fra cui quella culturale, con effetti di omogeneizzazione e di progressiva perdita di peculiarità. Ma proprio qui possono aprirsi degli spazi: se si fa riferimento al concetto di ‘vocazionalità’, alcuni connotati del contesto ambientale, che rappresentano elementi di identità del territorio e delle comunità locali, possono diventare vere e proprie risorse economiche. Anche in relazione a ciò assume concreto rilievo la salvaguardia delle risorse territoriali, al fine di renderle disponibili sul mercato per soddisfare la domanda di beni e servizi, determinata dal bisogno della loro fruizione. Il contesto territoriale, però, non è solo uno spazio fisico-geografico e culturale. Esso è anche, come già detto, uno spazio economico, che si esprime nelle relazioni economiche dell’azienda con ciò che la circonda: il mercato dei fattori produttivi e il mercato dei prodotti.Tutto ciò mette bene in evidenza l’importanza del sistema all’interno del L’agricoltura condiziona anche la dimensione socioculturale del territorio Dal modello di globalizzazione scaturiscono nuove prospettive per le peculiarità di alcuni territori 13 I fattori potenziali di sviluppo... interni... ... e esterni quale è inserita l’azienda (il contesto territoriale, complessivamente inteso) e le relazioni da cui dipendono le sue prospettive di sviluppo. Al tempo stesso mette in luce l’importanza della vocazione, che esprime in un certo senso, la potenzialità del contesto e il grado di compiutezza del sistema. Osservata da questa visuale, la situazione lecchese mostra in generale l’esistenza di fattori interni ed esterni al territorio che possono favorire opportunità di sviluppo dell’attività agrituristica. Sul piano dei fattori interni, le potenzialità derivano dalla compresenza, da un lato, di favorevole collocazione geografica, buone risorse ambientali, paesaggistiche e storico-culturali e dall’altro dalle condizioni socioeconomiche derivanti da un’attiva economia extragricola. Potenzialmente di grande favore8 anche la situazione di alcuni fattori esterni, grazie soprattutto alla presenza delle grandi aree urbane che rappresentano i principali bacini di domanda di nuovi servizi. A fronte di questo complesso di risorse e di una potenziale domanda di nuovi servizi di rilevante entità, a cui l’agricoltura lecchese potrebbe offrire numerose opportunità di soddisfacimento, occorre pensare alla costruzione di un sistema agrituristico in grado di rendere concreta attualità quella che ora è potenzialità intrinseca. 3. Qualità, autenticità e caratterizzazione dell’agriturismo La prospettiva di sviluppo dell’agriturismo dipende dalla capacità del comparto di offrire un prodotto agrituristico autenticamente legato al territorio da cui promana. La domanda, infatti, si basa sull’esigenza del consumatore di un servizio fortemente caratterizzato dal con14 tatto con la natura, in un ambiente tranquillo e in un paesaggio gradevole, per assaporare cibi genuini e ‘scoprire’ usi e tradizioni locali. Il modello economico dominante e gli stili di vita urbano/metropolitani, spingendo verso l’identificazione con i modelli e gli oggetti di consumo, provocano la progressiva perdita degli elementi distintivi dell’identità dei cittadini. L’agricoltura può rallentare questa tendenza, può salvaguardare e offrire alla società elementi di riferimento storici e culturali e, in questa funzione, trovare nuove opportunità sia economiche che di ruolo sociale, grazie a due beni essenziali: l’ambiente ed il cibo. Queste nuove opportunità, dunque, si fondano sulle peculiarità e sulla caratterizzazione di ciascun territorio e perciò sulla tutela dei suoi elementi distintivi fisico-territoriali e storico-culturali, pur nel divenire dei mutamenti storici inevitabili. Si fa riferimento, in particolare alla salvaguardia e alla valorizzazione del territorio, del paesaggio, della qualità dell’ambiente, della tradizione gastronomica e più in generale di quella culturale, che rendono identificabile il territorio. Ma questa prospettiva necessita di un altro fondamentale presupposto: l’assunzione consapevole, da parte degli operatori attuali e futuri, della qualità come principale coordinata di riferimento dei servizi offerti. Le aziende agrituristiche, singolarmente e collettivamente, dovranno cioè saper esprimere elevati livelli di qualità, sia per quanto riguarda gli standard dei servizi, sia per quanto riguarda la loro rispondenza all’autenticità e alla caratterizzazione del territorio. Contemporaneamente, sul fronte pubblico, dovrebbero trovare attuazione tutte quelle iniziative e misure in grado di agevolare e incentivare il perseguimento di questi obiettivi, favorendo soprattutto la costituzione di un sistema locale che integri efficacemente al suo interno i L’agricoltura e la salvaguardia dell’identità storico-culturale della società contemporanea 15 diversi elementi costitutivi del sistema stesso (operatori e loro Associazioni, Enti pubblici, attività integrate, etc). E’ perciò necessario innanzitutto mettere in luce le risorse di cui è dotato il territorio ed individuare i modi e gli strumenti per la loro valorizzazione. L’azione della Provincia, con il progetto “Sviluppo e valorizzazione dell’agriturismo lecchese”9, che mira a concretizzare un’attività formativa e pianificatoria, si muove esattamente in questa direzione. 4. Necessità ed opportunità di un programma provinciale di sviluppo dell’agriturismo lecchese L’agricoltura lecchese... ... in collina... ... e in montagna 16 L’agricoltura lecchese è connotata fortemente dalla polarizzazione determinata dalle diverse condizioni territoriali, circa 3/4 di territorio montano e circa 1/4 di territorio collinare, che danno luogo conseguentemente a diverse condizioni strutturali e di sviluppo. Nell’ambito collinare la tipologia colturale aziendale non si discosta molto da quella di pianura, dove sono riscontrabili ordinamenti colturali zootecnici-foraggeri, cerealicoli, orticoli, nonostante le differenze negli assetti fondiari (frammentazione dei terreni, urbanizzazione diffusa) e nei metodi colturali, connessi principalmente all’irrigabilità dei terreni. Non mancano, in collina, comparti di notevole specializzazione colturale, quale ad esempio quello vivaistico, aiutato dalle favorevoli condizioni pedoambientali e spinto dalla necessità di sopperire alla scarsità di terreno attraverso l’ intensificazione fondiaria. Nell’ambito montano l’agricoltura è dominata dalla zootecnia da latte, legata allo sfruttamento delle risorse foraggere di fondovalle, di mezza costa e di alta quota, con potenzialità di sviluppo legate al possibile maggiore sfruttamento di queste ultime risorse. Scarsamente attrattive appaiono essere le risorse forestali, che tuttavia conservano interessanti potenzialità di sfruttamento. Nel suo complesso l’agricoltura montana lecchese, al pari di quella di molti altri distretti montani, è segnata da fenomeni di marginalità economica, dal part time, dall’invecchiamento degli addetti, dal rischio di ulteriore abbandono, con conseguente maggiore problematicità sul fronte della salvaguardia territoriale. Nella montagna lecchese, inoltre e a differenza di altre vallate alpine e prealpine lombarde, la zootecnica prevale nettamente nell’economia agricola, mancando altre produzioni di importante interesse economico e di pregio qualitativo, quali ad esempio quelle frutticole e vitivinicole. Unica, modesta, eccezione è l'olivo, che attualmente riveste un limitato interesse economico diretto10, ma svolge un'importante funzione di recupero territoriale della fascia medio montana perilacuale e, grazie al riconoscimento del marchio DOP, può senz'altro ottenere nuovo e interessante impulso. Tale condizione strutturale dell’agricoltura lecchese rende necessario introdurre elementi di diversificazione, capaci di mantenere attive condizioni di sviluppo anche a fronte di uno scenario di competitività economica e produttiva che non offre prospettive perseguibili sul terreno della tradizionale produzione agricola. Perciò la possibilità di sviluppo dell’agricoltura di montagna va collocata anche in una nuova prospettiva, fondata sulla più esplicita produzione di servizi; il che non significa, naturalmente, abbandono dell’agricoltura tradizionale e dei prodotti (latte, carne, formaggi) ottenibili dal razionale sfruttamento delle risorse presenti. Dall’azienda agricola, all’azienda di servizi agroambientali 17 L’azienda agricola montana, cioè, oltre che come tradizionale unità di produzione di beni alimentari, potrebbe essere inquadrata, non secondariamente, come unità di produzione di servizi, aprendole con ciò nuove prospettive di sviluppo. Tutto ciò però ha bisogno di un nuovo approccio, sul piano giuridico-normativo e sul piano culturale, senza il quale l’alternativa di medio periodo è la dipendenza strutturale dell’agricoltura di montagna dal sostegno economico pubblico, oppure la sua scomparsa. Nè può tacersi che, nonostante il non trascurabile flusso di denaro pubblico che ha interessato sotto vari aspetti e mediante diversi provvedimenti l'agricoltura montana, i fenomeni di criticità già richiamati (degrado territoriale, invecchiamento degli addetti, scarsa competitività, etc), laddove non sono aumentati, certamente non sono complessivamente diminuiti. L’erogazione di servizi da parte di questa nuova “azienda di servizi agroambientali”, o “azienda di servizi verdi”, come taluni la defiscono, potrebbe trovare nell’agriturismo non solo un carattere costitutivo e/o identificativo, ma anche un’importante prospettiva di sviluppo che garantisca continuità all’azione di manutenzione e salvaguardia ambientale, di sfruttamento razionale delle risorse naturali, di erogazione di servizi per il tempo libero della persona, di fruibilità del territorio e del paesaggio, di permanenza della popolazione nei territori montani. 5. Obiettivi della programmazione provinciale per lo sviluppo dell’agriturismo lecchese Per la definizione di un programma di sviluppo dell’agriturismo provinciale è necessario considerare preliminarmente i rapporti fra i diversi soggetti coinvolti. Questi 18 ricoprono un ruolo tanto più essenziale quanto più si concretizza la volontà unitaria di tutti, dalle imprese con le loro rappresentanze organizzate alle istituzioni, e quanto più emerge la loro disponibilità ad operare sulla base di una larga condivisione di obiettivi e percorsi. Ciò assume un rilievo preliminare in quanto rappresenta uno dei principali fattori costitutivi di un sistema che inevitabilmente dovrebbe diventare la cornice di qualunque azione di sviluppo. Un programma di sviluppo non può che partire dai principali componenti del sistema, identificabili nel trinomio impresa-azienda-territorio11, da collocare all’interno di un sistema integrato di relazioni. La Provincia di Lecco dal 1997 ha intrapreso, fra l’altro, una prima azione di analisi delle singole realtà operative e del territorio di contorno ad esse immediato, con l’intento di estendere all’intero contesto provinciale un quadro organico nel quale collocare le ipotesi di sviluppo più consone alle complessive condizioni locali. E’ stato infatti avviato un censimento di parte delle aziende agrituristiche autorizzate, mediante l’impiego di una scheda di rilevamento riguardante l’impresa, l’azienda e il suo contorno territoriale entro un raggio di 500 metri dal centro aziendale (elementi ambientali e storico culturali), che necessita ancora di approfondimenti. Tra le 15 aziende che risultano attive, per 9 di esse (60%) sono stati rilevati alcuni dati, di cui si riporta una sintesi. Il 25% delle aziende ha una superficie maggiore di 20 ettari, per il 50% la superficie è compresa fra 10 e 20 ettari, mentre il restante 25% è costituito da una superficie inferiore a 10 ettari. Le aziende sono ubicate per il 66% in montagna e per il 34% in collina. Il 100% ha il conduttore di età inferiore ai 45 anni; di questi il 89% ha un titolo di studio di primo grado, il 11% di secondo grado e il 44% conosce almeno una lingua straniera. Fra i servizi 19 erogati il 80% delle aziende offre il ristoro, il 22% il servizio di alloggio, il 44% svolge corsi, dei quali il 75% di equitazione . Dal punto di vista della domanda potenziale e della disponibilità di risorse territoriali, come è stato già richiamato, appare esservi un’ampia potenzialità di crescita e di sviluppo del comparto agrituristico lecchese. Dal punto di vista dell’offerta, invece, occorre intervenire da più posizioni, sia da quella privata dell’impresa, sia da quella pubblica, per giungere ad un migliore risultato rispetto all’impiego delle risorse naturali, economiche e imprenditoriali. In quest’ottica si colloca, quindi, l’esigenza di individuare gli obiettivi dell’azione di sviluppo e conseguentemente gli strumenti e i percorsi necessari per realizzarli. Ferme restando le generali e positive funzioni dell’agriturismo12, i principali obiettivi di sviluppo individuabili per il comparto agrituristico lecchese possono essere riassunti nei seguenti: a) adeguamento, da parte dell’impresa agrituristica, della tipologia e della qualità dell’offerta dei servizi alla domanda: rientrano in questo obiettivo i servizi di ospitalità, ristorazione, attività sportive, ricreative, culturali, gli standard di qualità, il rapporto qualità/prezzo; b) organizzazione di una rete provinciale integrata di servizi, rivolti sia all’impresa, sia all’utente: rientrano in questo obiettivo i servizi di assistenza tecnica, di consulenza professionale, di promozione dell’offerta, la formazione e l’aggiornamento professionale degli operatori, la divulgazione presso gli operatori delle risorse disponibili e le modalità di utilizzazione nel rispetto delle loro peculiarità e/o esigenza di salvaguardia, il credito, i servizi integrati e complementari fra aziende diverse, un sistema informativo riguardante, ad esempio, la guida provinciale, la segnalazione di itinerari agrituristici e/o escursionistici, i mezzi di trasporto utilizza20 bili alternativi all’automobile, i beni monumentali visitabili, le mostre, le fiere e tutte le manifestazioni della cultura popolare e tradizionale, il sistema di prenotazione, l’organizzazione di attività collaterali; c) uso e salvaguardia dei beni peculiari e caratterizzanti il territorio: rientrano in questo obiettivo la qualità dell’ambiente e del paesaggio, lo sviluppo e il miglioramento della tipicità dei prodotti agroalimentari, l’utilizzazione e la valorizzazione delle risorse a forte e ulteriore rischio di abbandono quali quelle forestali e foraggiere d’alta quota, il recupero e il riutilizzo dell’edilizia storica rurale; d) integrazione del comparto agrituristico con il settore turistico: rientrano in questo obiettivo l’incremento di quote di mercato, interno e internazionale, la diversificazione dell’offerta turistica provinciale, la destagionalizzazione dei flussi turistici. Il quadro tratteggiato in quest'ultimo paragrafo evidenzia la complessità del tema, sia sotto il profilo della rete di relazioni fra i diversi soggetti, pubblici e privati, che è necessario avviare ad intrecciare e consolidare, sia sotto il profilo delle azioni, numerose e diversificate, che è necessario definire operativamente, sia infine sotto il profilo dei settori d’interesse, che vanno da quello agricolo a quello urbanistico e di assetto territoriale, da quello turistico a quello dei servizi, amministrativi e commerciali. Nonostante questa vasta complessità è tuttavia necessario assumere la consapevolezza della necessità di governo dei processi, che si rende possibile e produttiva se è vasta la base di condivisione di obiettivi e strategie di lavoro. 21 Note 1 Non sono stati infrequenti, nel passato, iniziative nate come agriturismo, sfociate poi in attività commerciali vere e proprie, oppure rimaste formalmente agriturismi, con “abbandono” dell’attività agricola, ridotta e semplificata per consentire la massimizzazione dell’attività agrituristica. 2 Sono ampiamente noti, in molte realtà, i rapporti conflittuali fra agriturismi e in particolare il settore della tradizionale ristorazione, anche della provincia di Lecco. Se per alcuni aspetti l’agriturismo è assimilabile all’attività alberghiera, esso è tuttavia diverso per molti altri, che ne giustificano una separata e diversa disciplina. 3 Questa questione è posta in evidenza addirittura dalla Commissione dell’U.E. all’interno di “Agenda 2000” a proposito dei rapporti agricoltura-ambiente-spazio rurale, a testimonianza dell’importanza del tema. 4 Si fa evidentemente riferimento alle produzioni agricole tecnicamente ottenibili nell’ambiente europeo ed in particolare alle produzioni cerealicole e zootecniche. 5 La sostituibilità dei prodotti nella fase di consumo dipende da numerosi fattori, fra cui il prezzo. In presenza di quote di reddito familiare destinato ai prodotti alimentari, secondarie per entità rispetto ad alla spesa con diversa destinazione, come si riscontra attualmente, l’elemento prezzo tende a perdere importanza nella scelta dei diversi beni alimentari a vantaggio di altre motivazioni, fra cui la ricerca di tipicità, di qualità, di servizi incorporati, etc . 6 Con la crescita di importanza delle politiche di marchio (es. Dop, Igp) questo particolare aspetto del problema, cioè l’identificabilità delle materie prime agricole da trasformare, trova uno strumento di risoluzione, sia pure non completo. 7 Un dato che si può rilevare con notevole frequenza è riferibile alla notevole coincidenza fra condizioni di marginalità agricola e elevati valori ambientali di molti territori. 8 Da alcune indagini condotte risulterebbe che la montagna si colloca al secondo posto, subito dietro le città d’arte, per l’utilizzazione delle strutture ricettive agrituristiche, seguiti da mare e da collina. 9 Questo volume nasce, infatti, nell’ambito del seminario svolto dalla Provincia quale parte dell’intero progetto avviato. Il seminario, unitamente all’azione di approfondimento e formalizzazione delle risorse territoriali che troveranno esplicitazione in documenti specifici, dovrebbero costituire la base di partenza delle azioni richiamate nel testo. 10 L’attuale produzione è di circa 13,5 tonnellate di olio 11 Questo trinomio è alla base: dell’organizzazione dell’attività agricola rispetto a quella agrituristica e del reciproco grado di integrazione (impresa); della potenzialità di offerta di servizi agrituristici e del relativo grado di intensità agrituristica (azienda); delle relazioni con il contesto territoriale e con le risorse extraziendali (territorio). 12 Valorizzazione del capitale, compreso quello umano, dell’azienda; valorizzazione e salvaguardia delle risorse naturali presenti all’interno e all’esterno dell’azienda; integrazione del reddito agricolo; valorizzazione e salvaguardia delle risorse culturali locali; incentivo al mantenimento della popolazione anche nelle aree agricole marginali;... 22 Agriturismo e cultura tradizionale di Diego Cason 1. Premessa Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo. (S. Paolo, Lettera agli Ebrei,13,2) Affrontare il problema della diffusione delle differenti forme di ospitalità impone necessariamente una riflessione sulla evoluzione della dimensione culturale ed economica del turismo. E’ un dato di fatto evidente la trasformazione della ospitalità da condivisione dei diritti a scambio di diritti, da evento antropologico ad evento economico. L’ospite nella cultura greca era sacro (tutte le colpe contro gli stranieri provocano la collera degli dei), una via di mezzo tra il polites ed l’extros, nel diritto romano era un pari jure con il cittadino ed era una via di mezzo tra civis ed peregrinus. In entrambe i casi il tramite tra l’amico e il nemico e nella cultura cristiana esso è colui che viene accolto. L’ospite è il tramite tra chi lo ha generato e chi lo accoglie, è contrapposto alla chiusura nella piccola patria, è il “transitante”, il nomade che abbisogna del nostro aiuto, è il rappresentante della cultura del chiedere, del ricevere, contrapposta alla cultura del portare e del possedere. E’ il soggetto cui è gradito il nostro dono. In questo senso il turista contemporaneo è ancora ospite? In una certa misura possiamo dire ancora che lo è ma l’aspetto predominante consiste nel fatto che ora acquista merci piuttosto che chiedere doni. L’essenza della ospitalità la colloca all’opposto della 23 merce. Quest’ultima ha senso perché ha valore economico l’altra ha senso perché è una somma di virtù etiche come la cortesia, la compassione, la carità e la misericordia. E’ naturalmente possibile vendere o locare camere, viaggi, pasti, visite guidate, passaggi su impianti di risalita, escursioni in jeep ecc. ma l’ospitalità è un’altra cosa. Essere ospitali significa condividere, compatire, da entrambe le parti, nel senso che l’ospite deve affidarsi a chi l’ospita e quest’ultimo si mette a disposizione del primo. Accogliere (dekomai, dokè) significa ricevere, ascoltare, capire. Da ultimo non si scordi che la parola ospite (xénos) può indicare indifferentemente l’ospitato e l’ospitante. Al fondo antropologico l’ospitalità risponde alla esigenza di integrare almeno temporaneamente lo straniero o l’estraneo nella comunità che lo ospita. Vi sono allo scopo riti adatti a ridurre il timore dell’estraneo e renderlo simile a sè. Il mangiare ed il bere insieme è ciò che rimane di tale ritualità nella nostra cultura, decisamente impoverita da questo punto di vista, perché più aperta e cosmopolita, anche se il timore dello straniero estraneo rimane, solido e tenace anche se dissimulato. Nella cultura ebraica ancora oggi si lascia un posto libero a tavola nel caso dovesse apparire il profeta Elia. Essendo egli in grave ritardo quel posto d’onore è riservato ai viandanti e, come dice il Talmud, “i poveri siano i membri della tua casa”. Questa breve premessa non deve far dimenticare che il viaggio ha sempre avuto una valenza economica, sia quando era intrapreso da veri nomadi (ciò che li muove è infatti il bisogno economico), sia in epoca classica, quando era quasi sempre associato alla attività commerciale poiche chi non praticava il commercio non aveva i mezzi nè interesse per il viaggio. Solo in tempi moderni si afferma 24 il viaggio per diletto ma esso ha origini antiche. Cavalieri e pellegrini percorrono le incerte strade medievali e Jaques Le Goff lo conferma quando dice che: “la mobilità degli uomini del medioevo è stata estrema e sconcertante.... essa cela sovente il semplice vagabondaggio, la curiosità vana”. La villeggiatura invece è già praticata nel primo secolo d.C. quando Atilio affermava che “lo stare in ozio è preferibile al non fare niente”. Seneca scrive all’amico Lucilio: “di quanto credi siano aumentate le mie forze dacchè raggiunsi i miei vigneti abbandonando le esalazioni pestilenziali della città?” Del resto, per non andare lontano, Plinio il giovane aveva due ville sul Lario di cui era molto orgoglioso e che decanta in una lettera a Caninio Rufo: “che ne è di Como, tua e mia delizia? Che di quell’amenissima villa suburbana? E di quel porticato ove è sempre primavera? E di quell’ombroso folto di platani?” L’origine remota dell’agriturismo la troviamo proprio nei rusticari romani, Petrarca esalta le gioie della campagna nel Canzoniere, il Boccaccio scrive nel Decamerone che “se paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere altra forma, che quella di quel giardin, gli si potesse dare”. Si trascurano i numerosissimi esempi di villeggiatura in campagna della nobiltà veneta che Goldoni afferma essere diventata “una passione, una mania, un disordine” lamentando la corruzione della vita agraria. La villeggiatura in campagna continua e si estende fino agli inizi del ‘900 man mano sostituita dalla vacanza marina e dalla frequentazione della montagna. Sono l’automobile e la crescita della mobilità che, nel secondo dopoguerra, mettono in ombra la villeggiatura in campagna. Nel versante sud delle alpi c’è un altro elemento che determina una perdita di status della villeggiatura in campagna ed è il limitatissimo prestigio socia25 le delle attività agricole. Esse sono associate ad una situazione di subordinazione sociale, di scarso reddito e di insufficiente libertà. E a ragione, al confronto del benessere tipico dei contadini-montanari svizzeri o tedeschi dove avere il maso o la fattoria in montagna significa ricchezza e prestigio sociale. 2. L’evoluzione dell’agricoltura montana. Le attività agricole, in particolare in montagna, hanno subito una profondissima trasformazione nel corso degli ultimi 50 anni che può essere sintetizzata nel modo seguente: • Calo della popolazione attiva in agricoltura, in particolare in montagna (divenuta meno del 3% del totale) e rapidissimo invecchiamento degli attivi (che hanno in media più di 55 anni). • Perdita di prestigio sociale delle attività agricole. Esse nel versante sud delle Alpi non ne hanno mai avuto molto ma oggi siamo veramente ai limiti del giudizio sociale negativo. • Progressivo adattamento delle attività agricole redditizie ai modelli industriali ed urbani con conseguente perdita di rapporto con la nozione di equilibrio ecologico e sociale della attività di sfruttamento del suolo. Oggi, paradossalmente, le attività agricole produttive sono in contrasto con un utilizzo ecologico dei territori. In particolare in montagna dove le caratteristiche orogenetiche rendono particolarmente stridente il contrasto tra metodi colturali intensivi e la stabilità delle cotiche coltivate e la diversità biologica di equilibrio. • Le attività agricole poco produttive, marginali, par26 cellizzate sono antieconomiche e non hanno mercato se non in particolari nicchie ( coltivazioni biologiche, frutti del bosco, allevamenti di specie rustiche ecc.). • Cambiamento radicale dei metodi di allevamento, in particolare per bovini, equini e ovini con quasi totale abbandono della monticazione estiva. • Estensione della monocoltura (in particolare del mais), uso intensivo di erbicidi e di concimi chimici, meccanizzazione spinta, tendenza alla eliminazioni degli elementi di variazione paesaggistica (come siepi, macchie, boschi, filari alberati, incolti) con conseguente monotonia degli ambienti rurali. La situazione sul versante meridionale delle Alpi è decisamente preoccupante, laddove non si sono affermate attività economiche integrative del reddito agricolo il risultato della evoluzione è stato l’abbandono di vasti territori, in particolare nelle alpi occidentali. Il paradossale risultato consiste nel fatto che le imprese agricole produttive e attive si basano prevalentemente sull’allevamento e adottano sistemi produttivi assai simili a quelli industriali. Queste imprese agricole utilizzano frequentemente l’affitto dei fondi rustici altrui per la produzione di foraggio, mais e soia per l’alimentazione animale. In questo tipo di imprese l’agriturismo è difficilmente praticabile perché l’imprenditore non ha tempo da dedicare agli ospiti, gli ambienti aziendali non sono accoglienti, il paesaggio agrario è decisamente compromesso. Le altre imprese agricole sono solitamente imprese famigliari, con pochi ettari di fondo proprio, con una conduzione di persone anziane ed immobili di qualità piuttosto scadente, una attività produttiva assai ridotta con prevalenza del prato e del mais e con redditi agrari limi27 tatissimi. In questo caso l’attività agrituristica appare difficilmente realizzabile per una insufficiente propensione all’investimento di risorse umane e finanziarie. Non si dimentichi inoltre che la gran parte delle famiglie di coltivatori diretti ha già forme integrative del proprio reddito che proviene perlopiù da attività, nel settore secondario e del terziario e da trasferimenti pensionistici, di qualche membro della famiglia. Un altro aspetto che va tenuto in considerazione è la cultura della proprietà della casa di abitazione che, nelle culture rurali, si è restii a condividere con altri e nella scarsa attitudine alla ospitalità intesa nel suo significato turistico economico. Solo poche imprese hanno caratteristiche intermedie tra le due delineate in particolare: a) b) c) d) e) f) g) h) i) titolari sufficientemente giovani e motivati; estensione dei fondi sufficiente (almeno 10 ha); attività produttive differenziate e continuative; sufficienti attività produttive di ortaggi, legumi, cereali e frutta; immobili aziendali di qualità discreta; accessibilità adeguata; rete di strutture di servizi pubblici e privati sufficiente; formazione professionale minima per l’accoglienza e l’ospitalità; produzione orientata alla qualità del prodotto. Individuare queste imprese agricole, oppure dei coltivatori diretti, che possano iniziare una attività di impresa agrituristica con le caratteristiche prima citate è uno dei primi ostacoli che si incontrano nell’organizzare una 28 rete di ricettività di questo tipo.Il rischio che si corre se non si verificano queste caratteristiche delle imprese esistenti consiste nel ridurre l’attività alla semplice ristorazione in concorrenza con attività commerciali dello stesso tipo senza offrire un nuovo tipo di ricettività turistica. Oppure in assenza di ristorazione alla pura e semplice locazione di immobili con qualità del locato inadeguata. 3. Evoluzione della domanda turistica. Anche la domanda turistica si è evoluta e differenziata sotto la spinta di molteplici cause. Le più rilevanti sono senza dubbio: • • • • • • • • • la crescita del reddito, l’urbanizzazione di quasi il 70% dei residenti, la mobilità automobilistica, l’estensione della rete di trasporti aerei, il miglioramento qualitativo dell’offerta, la differenziazione dei prodotti, aumento del tempo libero, riduzione del numero di componenti per famiglia, l’organizzazione di una rete distributiva dei prodotti (agenzie di viaggio). Le tendenze odierne indicano le direzioni dello sviluppo futuro della domanda che sono: • l’aumento dei tempi di vacanza, • la loro frantumazione temporale (meno villeggiatura, più viaggi brevi), • ulteriore differenziazione dei target, • crescita della destagionalizzazione, 29 • crescita della richiesta di relax e contatto con gli ambienti “naturali”, • semplificazione delle formalità organizzative (prenotazione diretta ecc), • emergere del turismo colto, • maggiore richiesta di qualità nei servizi, • crescita del trasporto collettivo, • crescita del target della terza età, • richiesta di spazi e servizi per i bambini, • turismo di affari sempre meno differenziato. Nella evoluzione della domanda si manifestano due richieste emergenti. Una spinge verso la ricerca del rischio e dell’esotismo esasperati (i “no limits” e le “avventure nel mondo”), l’altra è alla ricerca di senso culturale. Entrambe le tendenze sono il segno di un distacco della cultura urbana da ritmi e consonanze naturali della vita contemporanea e la manifestazione di una ricerca di un equilibrio perduto. In questo filone si inserisce il turismo nei parchi naturali visti in molti modi, quasi mai per ciò che sono, i trekking, i tour mistici, le settimane conventuali e anche l’agriturismo. In tutte queste “ragioni” emergono motivazioni legate al disagio crescente legato ai ritmi del lavoro e della vita urbana. Alcune di queste motivazioni analizzate in modo accennato sono: Il silenzio. Il rumore è un compagno fastidioso soprattutto dopo averlo sopportato per 40 anni. Le fasce più mature della domanda fuggono il rumore, desiderano riappropriasi dei suoni e delle melodie e soprattutto abbisognano di silenzio o perlomeno di una sordina ai rumori del mondo. Vacanza deriva da vaco, vuoto, libero, sgombro, anche dai suoni. 30 Il rallentamento del tempo. La necessità della lentezza di cui molti hanno tessuto l’elogio deriva dalla necessità di sperimentare la libertà. L’urgenza è la faccia della necessità, la lentezza quella della scelta. I tempi della vacanza rurale sono quelli più vicini a quelli naturali anche perché non c’è nulla di obbligatorio da fare. La semplicità dell’abbigliamento, i ritmi solari, gli spazi e gli incontri inducono a rallentare il ritmo degli eventi giornalieri. Il rapporto con il sé solo. Il rapporto con il sé passa necessariamente attraverso gli altri ma ciò vale soprattutto nella fase della formazione del sé, nella adolescenza e nella giovinezza è gradito il continuo confronto, l’agone con l’altro, nella maturità ci coglie il desiderio di valutare quello che siamo diventati e questo avviene in intimità. La meditazione non è necessariamente una completa astrazione dal resto del mondo basta che esso rallenti e se ne stia un pò zitto. Il piacere. Ritrovare il rapporto con sé significa fare i conti con i propri desideri, significa chiedere e donare, costruire legami per mezzo dei doni, scoprire che è piacevole ritrovarsi desiderati e graditi, e che è rilassante mettersi nelle mani di chi ci accoglie. La naturalità e l’accettazione degli eventi. Uscire dalla presunzione di onnipotenza, dall’idea di dominio, dalla necessità di controllare ogni evento in cui si è implicati ed accettare che gli eventi si compiono anche senza di noi è una fonte di notevole relax e aiuta a ritrovare equilibrio tra responsabilità, colpa e dovere da un lato e libertà, dall’altro. La compassione. La capacità di provare empatia, di mettersi dentro alle scarpe degli altri, comprendere di più e giudicare meno, sperimentare l’esistenza di altri modi di valutare le cose aiuta a sdrammatizzare le difficoltà personali. 31 La simpatia consiste nel condividere il phatos o le emozioni. Il sacro. L’assenza di meditazione conduce all’insterilimento del sacro inteso come capacità di entrare in rapporto con il divino. Questo non è da confondere con il religioso inteso come culto o adesione fideistica ad una dottrina, va inteso come capacità di sentirsi parte dell’esistente e di porsi il problema del significato di questa partecipazione. E’ divertente constatare che le ferie sono contrapposte linguisticamente alle feste religiose, mentre nel senso comune esse sono associate alla nozione del sacro: le mie ferie sono sacre in contrapposizione al tempo del lavoro ordinario e profano. Letteralmente holidays , giorni sacri. Il sacro come straordinario, eccezionale, diverso. Infatti si scrivono cartoline dal “paradiso delle vacanze” ed in effetti i turisti hanno la loro religione con i propri sacrifici (tipo l’abbronzatura) con i propri riti (le cartoline) e con i propri totem (luoghi come il “non sei stato al Louvre?”) e strumenti totemici (come i souvenir). L’inutile. Anche in questo caso è trasparente la contrapposizione con l’economico che è l’utile per definizione. La vacanza è anche vacans o inutile o superfluo o anche vacuus vacuo, vano, vanitoso. Detto di luoghi ha significato di ampio o libero e questa libertà può significare anche libertà dal bisogno e quindi ulteriore presa di distanza dall’economico. E’ evidente il legame tra l’ospitalità e il dono che è inutile economicamente ma utilissimo eticamente. Il dono è un legame empatico è stabilire un rapporto personale, nel dono sono importanti le persone non le cose scambiate. Il corpo. La cura del proprio aspetto esteriore, nella cultura contemporanea, produce molti effetti negativi nel rapporto con il sé tuttavia produce anche una conseguenza positiva che consiste nell’attenzione alla propria salute (senza ipo32 condria). Il benessere fisico e le cure che ci permettono di mantenerlo assumono un’importanza molto elevata perché aumentano il valore del tempo dedicato allo “stare bene”. Se si associa questo desiderio ad un prodotto naturale come può avvenire nelle terme o nelle vacanze agrituristiche il risultato è evidente. Senza entrare nel merito delle motivazioni ricordate è straordinario verificare come il turista cerchi nell’agriturismo un valore (in risposta alle motivazioni sopra citate) che a suo modo di vedere dovrebbe essere conservato nella attività agricola ma che in essa non c’è quasi più. Il mondo agricolo è visto culturalmente attraverso una lente deformante che è quella della lenta inerzia delle idee e dei miti rispetto alla rapida evoluzione delle economie e dei costumi. Si immagina il mondo agreste come oasi incontaminata ma poi nelle aziende agrituristiche si beve acqua minerale imbottigliata perché le falde dei pozzi e talvolta degli acquedotti producono acqua imbevibile. Il rapporto con gli animali domestici avviene entro allevamenti che non hanno nulla di pastorale e che assomigliano a reparti di ostetricia veterinaria. Anche la cultura agreste e pastorale in queste condizioni appare più come una operazione di folklore che vitale espressione di un popolo. Tanto che molte aziende agricole che praticano le attività turistiche devono comperare qualche cavallo proprio per poter esercitare l’attività in oggetto e non il contrario come sarebbe più logico pensare. Inutile dire che per l’agricoltore quei dannati cavalli sono un autentico tormento dal punto di vista dei costi e li trasformerebbe volentieri in salami equini, ma il mercato ha le sue regole e le leggi regionali i propri requisiti. Il problema del folklore è stato ampiamente valutato e bisogna fare molta attenzione nel trasformare manifestazioni in cui si partecipa ad un evento cul33 turale di un popolo cui apparteniamo o alle quali siamo ammessi temporaneamente in qualità di ospiti (sacri), con manifestazioni alle quali si assiste ad una spettacolarizzazione (o scena oscena) della vita quotidiana di altre persone ridotte al rango di side show in una parodia kitsch. Se la realtà sociale ed economica è mutata mutano anche le culture e riproporle in termini folkloristici è fermarsi alla superficie del bisogno turistico. Per fare del turismo è necessario che i residenti rimangano se stessi e siano quel che sono ora e non quel che erano un tempo. Dove c’è una domanda di merci prima o poi si manifesta un’offerta in grado di soddisfare tale domanda. E’ evidente che laddove il turista, poco avveduto e assai pretenzioso, desidera un “contatto” con il bucolico mondo agricolo a pagamento, emerge rapidamente l’imprenditore che glielo confeziona nel modo adeguato e glielo vende senza tanti problemi. Tanto meglio se quel mondo è quasi scomparso perché ciò rende più semplice il lavoro dato che lo può inventare assai più liberamente. In tutto questo non c’è niente di male visto che ingannato e ingannatore sono d’accordo perché appartengono allo stesso mondo di riferimenti culturali. In fondo il turismo esotico determina un danno decisamente superiore visto che coinvolge nel mercato anche “indigeni” che ne farebbero volentieri a meno. Il fatto è che nell’offerta agrituristica le ricette per vendere la sola merce non sono sufficienti e grande appare il divario tra le competenze turistiche degli agricoltori e le esigenze di organizzazione turistica del settore. I limiti inevitabili dell’offerta agrituristica possono essere compensati solo da un surplus di ospitalità e da una particolare cura nel fornire i servizi predisposti per l’ospite. Non si deve cadere nell’errore che il turista 34 possa facilmente essere turlupinato con la scusa della rusticità dell’accoglienza per rifilargli servizi scadenti. La debolezza della cultura popolare, intesa secondo i miti urbani che se la immaginano, è un dato di fatto e, se non vogliamo che essa scada nel folklore, è necessario costruire intorno alla offerta di ricettività agrituristica una rete di servizi di elevata qualità, anche non direttamente turistici, che rendano visibile e fruibile la cultura popolare rurale e montana. In assenza di questo supporto l’offerta rimane debole, raggiunge un target marginale, fa concorrenza alle altre strutture solo sul prezzo, diffonde una immagine negativa dell’intera area di riferimento. Si tratta allora di costruire dei servizi a supporto della ospitalità agrituristica quali lavanderie, produzione di alimenti di qualità locale certificati, interventi di formazione per la ristorazione e l’accoglienza, eventi culturali, esposizioni museali, percorsi ciclabili e pedonali, itinerari gastronomici ecc. Nella costruzione di questa rete di servizi emerge la cultura locale, l’abilità nel confezionare prodotti concorrenziali, il recupero delle tipologie edilizie, la ricerca storica ed etnografica ed altro ancora. In questo modo si rimette in moto una percezione più autentica della propria identità non certo con rappresentazioni o ricostruzioni posticce del passato. In questo senso il rapporto dell’agriturismo con la cultura locale non va vissuto come operazione della nostalgia per un passato che non ritornerà, ma come azione concreta dei residenti per costruire nuove occasioni di impresa agricola e turistica e quindi nella produzione di cultura locale viva ed autentica. Non si fa agriturismo invitando i turisti a false vendemmie o a raccolte di mele organizzate per loro soli ma creando imprese agricole nei 35 settori citati capaci di accogliere negli ambiti aziendali gli ospiti e far vivere loro una esperienza di vita reale e non una rappresentazione di ciò che fu. Credo assai poco nella possibilità che l’agriturismo possa salvare imprese agricole poco produttive e abbia una funzione produttiva di redditi sostituivi di quelli agricoli. Credo piuttosto che imprese agricole produttive, nelle quali gli imprenditori manifestano le proprie capacità organizzative e produttive, in cui si realizzano progetti vivi e reali, tengono vive le tradizioni colturali e culturali rinnovandole con conoscenze, tecniche e tecnologie del nostro tempo nel rispetto dell’ambiente in cui operano, siano le uniche che possono offrire al turista una autentica ospitalità rurale. Il necessario rigore critico in ambito sociologico non deve far perdere di vista gli aspetti positivi dell’agriturismo che sono molteplici: • Una demistificazione del mondo rurale, una presa d’atto delle sue difficoltà economiche e sociali è utile anche con il tramite del mercato agrituristico. • I redditi che le imprese marginali agricole riescono a percepire con l’agriturismo può favorire la loro resistenza e la loro attività di presidio territoriale. • Il contatto dal vivo con altre specie animali che non siano i pesci rossi nell’acquario di casa aiuta, specialmente i bambini, a costruire un contatto reale con il presente. In questo modo alcuni di loro si rendono conto che i tacchini e i polli non nascono nei supermercati. • Il “glamur” del prodotto turistico può divenire il tramite per introdurre, con maggiore capacità di penetrazione commerciale, dei prodotti biologici 36 certificati che impongono agli agricoltori alcune regole di comportamento nelle coltivazioni che migliorano la qualità territoriale direttamente e indirettamente. Oggi l’esiguità del mercato del biologico rende i costi produttivi elevati e quindi i prezzi non competitivi e determina notevoli difficoltà nella riqualificazione delle piccole imprese agricole. • L’esperienza e il contatto con quel che rimane di un ambiente agrario accogliente, in cui la presenza dell’uomo rimane tutto sommato meno devastante che nella realtà urbana fornisce uno strumento di paragone e di confronto, che permette di “misurare” il degrado di molti siti urbani e ne può favorire il recupero. • Se una parte della domanda turistica si rivolge alle imprese agrituristiche si riduce il peso della domanda verso altri prodotti che producono danni ambientali e sociali più gravi e più estesi. • L’evoluzione ricordata ha prodotto un effetto che è in qualche caso già visibile benché ancora minoritario e consiste nella scelta culturale della attività agricola biologica e biodinamica che produce adottando criteri di ecosostenibilità. In questo caso la produzione non bada alla quantità ma alla qualità occupando spazi di mercato assai significativi. Affinché questi effetti positivi si manifestino è necessario una coerente normativa e un controllo dei requisiti per l’esercizio dell’agriturismo legandolo il più possibile all’esercizio reale di attività agricole a regime e non strumentali e subordinandolo a dei caratteri di qualità intrinseca sia ambientale sia del prodotto (in particolare alimentare) non proibitivi per l’impresa ma capaci di 37 produrre una crescita del segmento di domanda interessato a questo tipo di offerta. Emergono infatti negli ultimi anni alcune tendenze evolutive del mondo agricolo e dei consumi che possono aprire prospettive assai interessanti anche nell’agriturismo. 1) La prima di queste consiste nelle costruzione di imprese agricole fondate su nuovi elementi organizzativi in sostituzione sia della piccola impresa familiare sia della impresa agricola di tipo industriale. Ci sono ormai numerosi esempi in tutta Europa di imprese agricole biologiche che costruiscono una struttura produttiva efficiente e moderna (in esse si usano tecnologie informatiche, tecniche per l’analisi chimica dei suoli, metodologie veterinarie avanzate, utilizzi dell’energia rinnovabile ecc.) che tuttavia punta alla qualità biologica del prodotto e allo scambio cooperativo di servizi, invece che al solo profitto. La logica che guida questi nuovi imprenditori punta al rispetto degli equilibri naturali dei suoli, tutelando la biodiversità degli ambienti rurali, applica tecniche di allevamento del bestiame sui fondi e non in batteria, si rivolge anche all’allevamento della selvaggina (cervi e cinghiali soprattutto), utilizza metodi biologici nel campo degli ammendanti e nella lotta agli insetti nocivi, elabora direttamente le proprie produzioni (confetture, conserve, vini, carni conservate e latticini), produce pochi rifiuti, e disponibile alla ospitalità agrituristica. E’ un modello emergente che trova non pochi ostacoli in montagna, sia per la persistente ed endemica frantumazione dei fondi (oggi ridotti a dimensioni ridicole), sia per la loro ridotta produttività, sia per la limitata estensione del mercato del prodotto biologico in Italia. 2) Proprio a questo proposito è interessate evidenziare la seconda tendenza e notare come negli ultimi dieci 38 anni sia in forte crescita la domanda di prodotti biologici che rimane tuttavia limitata a consumatori consapevoli e di reddito sufficientemente alto, visto che tali beni hanno prezzi, anche se di poco, superiori a quelli della concorrenza che non bada alla qualità intrinseca. Questa tendenza del mercato è legata alla maggiore attenzione alla alimentazione di qualità legandola alla tutela della salute. In essa permangono alcuni aspetti che potremmo definire ideali e di conseguenza elitari e talvolta settari, come le pratiche della macrobiotica, nel consumo di alimenti esotici, nella medicina omeopatica, tuttavia il mercato è decisamente più vasto di questa ristretta cerchia di “adepti” ed è pronto per assorbire una quantità di prodotto biologico certificato decisamente superiore. Affinché questo avvenga è necessario avere una base produttiva più consistente ed in grado di investire sufficienti risorse nella promozione delle proprie merci e nella introduzione di economie di scala capaci di far scendere i prezzi del settore. Per concludere va riaffermato che la pratica dell’agriturismo abbisogna di una rete di servizi turistici e commerciali preesistente o in via di definizione, di imprese agricole attive ma orientate sulla qualità del prodotto, di una politica di tutela del consumatore, di una rete di servizi pubblici e privati per le imprese agrituristiche ed infine una attività di promozione e sostegno del settore nell’ambito della commercializzazione del prodotto turistico regionale. 39 Tipologie di paesaggio ed elementi costitutivi Giuseppe Glorioso 1. La “lettura” del territorio La presente relazione, che ha per oggetto l’illustrazione dei caratteri del paesaggio agrario tradizionale della provincia di Lecco, e delle relative forme di tutela e valorizzazione, si basa sugli studi e le ricerche svolte in occasione della redazione del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Lecco (PTCP). Nell’ambito del PTCP, la lettura del paesaggio alla scala provinciale è effettuata attraverso tre livelli interpretativi, la cui individuazione e leggibilità avviene alla scala vasta e che quindi, nell’insieme, definiscono la “struttura” del paesaggio provinciale: Le componenti elementari del paesaggio: gli elementi costitutivi I sistemi paesistici 1) gli elementi costitutivi del paesaggio: individuano i componenti elementari del paesaggio, di valenza naturale e storico-culturale, che connotano e caratterizzano l’immagine del paesaggio stesso. Gli elementi costitutivi del paesaggio, suddivisi in categorie (vedi tab. 1), contribuiscono a individuare e definire, combinandosi diversamente tra di loro, i sistemi paesistici e le tipologie di paesaggio. 2) i sistemi paesistici: individuano luoghi connotati da una peculiare combinazione di elementi paesistici, reciprocamente legati da relazioni spaziali, visive e culturali, riconoscibili e definite secondo regole precise. 40 Tabella 1 - Gli elementi costitutivi del paesaggio A - ELEMENTI NATURALI A1 - Elementi geomorfologici A1.1 A1.1a A1.1b A1.1c A1.1d A1.1e - Energie di rilievo - Vette, cime, sommità montane - Creste - Crinali - Passi, valichi e forcelle - Dossi e sommità collinari A1.2 - Versanti A1.2a Versanti rocciosi A1.2b Versanti a media acclività A1.2c Versanti di raccordo A1.3 A1.3a A1.3b A1.3c A1.3d A1.3e A1.3f A1.3g A1.3h A1.3i - Elementi vallivi e di versante Terrazzi morfologici Orli di terrazzo Scarpate, dirupi, pareti rocciose Ripiani morfologici Falde e coni di detrito Paleofrane e nicchie di distacco Testate di valle Conoidi di deiezione Valle sospesa A1.4 A1.4a A1.4b A1.4c A1.4d A1.4e A1.4f A1.4g A1.4h - Emergenze geomorfologiche - Campi solcati o carreggiati - Doline e foibe - Inghiottitoi e pozzi - Grotte e cunicoli - Circhi glaciali - Massi erratici - Rocce montonate - Depressioni morfologiche A1.4i A1.4l A1.4mA1.4n A1.4o A1.4p A1.4q A1.4r A1.4s - Cordoni morenici Punte e penisole Insenature Sorgenti Cascate Marmitte dei giganti Gole, forre, orridi Paleoalvei Isole fluviali A2 - Elementi idrografici A2.1 - Laghi A2.1a Laghi subalpini A2.1b Laghi morenici A2.1c Laghi alpini A2.1d Laghi "fluviali" A2.2 - Corsi d’acqua A2.2a Fiumi A2.2b Torrenti A2.2c Rogge e “bevere” A2.3 - Zone umide A2.3a Paludi A2.3b Torbiere A2.3c Lanche A3 - Elementi vegetazionali A3.1 - Boschi, foreste, brughiere A3.1a Boschi e foreste A3.1b Brughiere B - ELEMENTI ANTROPICI B1 - Elementi del paesaggio costruito tradizionale B2 - Elementi del paesaggio agrario tradizionale B1.1 - Centri e nuclei storici B1.1a Centri aggregati B1.1b Centri compatti B2.1 - Sistemazioni agrarie B2.1a Terrazzamenti e ciglionamenti B2.1b Sistemazioni collinari B2.1c Sistemazioni di conoide B2.1d Trama poderale dell'alta pianura B1.2 - Emergenze architettoniche B1.2a Architetture civili urbane B1.2b Architetture religiose B1.2c Architetture fortificate B1.2d Manufatti territoriali B1.2e Elementi di archeologia industriale B1.3 - Percorsi di interesse paesistico B1.3a Percorsi stradali B1.3b Percorsi su ferro B1.3c Vie d'acqua B1.3d Punti e percorsi panoramici B1.4 - Siti di interesse storico-culturale B1.4a Siti archeologici B1.4b Luoghi sacralizzati e/o di memoria storica B1.5 - Verde urbano e periurbano B1.5a Parchi e giardini storici B1.5b Viali alberati B2.2 - Coltivi B2.2a Prati e pascoli B2.2b Legnose agrarie B2.2c Policoltura collinare B2.2d Colture asciutte di pianura B2.3 - Insediamenti rurali B2.3a Nuclei rurali B2.3b Edifici rurali isolati B2.3c Ville rurali B2.4 - Elementi diffusi del paesaggio agrario B2.4a Percorsi rurali B2.4b Sistema irriguo B2.4c Manufatti rurali B2.5 - Elementi vegetazionali B2.5a Macchie arboree e/o arbustive B2.5b Vegetazione ripariale B2.5c Filari alberati B2.5d Alberi isolati B2.5e Siepi 41 Tabella 2 - Il paesaggio agrario: tipologie di paesaggio, elementi costitutivi e sistemi paesistici Tipologie di Paesaggio Elementi e Sistemi Paesistici A Paesaggio dell’alta montagna prealpina B Paesaggio delle valli e dei versanti prealpini C Paesaggio lacustre Elementi costitutivi del paesaggio agrario 1 - Sistemazioni agrarie 1.a 1.b 1.c 1.d Terrazzamenti e ciglionamenti Sistemazioni collinari Sistemazioni di conoide Trama poderale dell'alta pianura 2 - Coltivi 2.a 2.b 2.c 2.d Prati e pascoli Legnose agrarie Policoltura collinare Colture asciutte di pianura 3 - Insediamenti rurali 3.a 3.b 3.c Nuclei rurali Edifici rurali isolati Ville rurali 4 - Elementi diffusi del paesaggio agrario 4.a 4.b 4.c Percorsi rurali Sistema irriguo Manufatti rurali 5 - Elementi vegetazionali 5.a 5.b 5.c 5.d 5.e Macchie arboree e/o arbustive Vegetazione ripariale Filari alberati Alberi isolati Siepi Sistemi paesistici agrari 1 2 3 4 5 42 Sistemi degli alpeggi e dei maggenghi Sistemi agrari di fondovalle Sistemi dei terrazzamenti Sistemi agrari di conoide Sistemi agrari di pianura D Paesaggio collinare E Paesaggio della pianura I sistemi paesistici, suddivisi in categorie (vedi tab. 2), evidenziano il “valore relazionale” esistente tra alcuni particolari elementi del paesaggio, ossia la qualità del rapporto che si stabilisce tra di essi, indipendentemente dalla “qualità” intrinseca dei singoli elementi: per tale motivo, i sistemi costituiscono di per sé un’ “emergenza” rispetto al più ampio contesto paesaggistico al quale appartengono. In particolare, i sistemi agrari individuano le forme fondamentali storicamente impresse al paesaggio dallo sfruttamento a fini agricoli produttivi del territorio: per l’estensione e per le peculiarità che li caratterizza, tali sistemi rappresentano insiemi di grande valenza paesistica. 3) le tipologie di paesaggio: individuano grandi ambiti territoriali, spazialmente definiti, caratterizzati da peculiari caratteri fisico-morfologici e storico-culturali, in grado di conferire agli ambiti stessi una precisa fisionomia e ed una riconoscibile identità. Le tipologie di paesaggio Ciascuna tipologia di paesaggio è connotata dalla particolare combinazione di elementi costitutivi e sistemi paesistici: le relazioni tra tipologie, sistemi ed elementi è illustrata nella tab. 2. 2. Struttura e caratteri del paesaggio agrario lecchese Il territorio lecchese è caratterizzato da una notevole ricchezza e varietà di paesaggi che coprono quasi tutte le principali variazioni paesistiche presenti in ambito regionale. In particolare, all’interno del territorio sono distingui- Grande ricchezza e varietà di paesaggi nel territorio lecchese 43 bili le seguenti grandi articolazioni paesistiche, nell’ambito delle quali sono riconoscibili differenti paesaggi agrari : 1. il paesaggio dell’alta montagna prealpina 2. il paesaggio delle valli e dei versanti prealpini 3. il paesaggio lacustre 4. il paesaggio collinare 5. il paesaggio della pianura Il paesaggio agrario tradizionale è costituito dall’insie- Paesaggi della provincia di Lecco Il paesaggio agrario tradizionale come risultato visibile delle trasformazioni del territorio ai fini agricoli produttivi 44 me dei caratteri paesistici derivanti dalle trasformazioni fisiche finalizzate allo sfruttamento del territorio a fini agricoli produttivi realizzate nel passato: il paesaggio agrario tradizionale è interessato dalla presenza di manufatti di varia natura (costruzioni temporanee e stabili, sistemazioni agrarie, strade rurali, ecc...), spesso di considerevole estensione, che nel complesso disegnano assetti territoriali assai peculiari, estremamente differenziati in funzione delle condizioni ambientali naturali. Al fine di restituire un quadro sintetico della struttura e dei caratteri del paesaggio agrario lecchese, di seguito si propone, per ciascuna delle tipologie di paesaggio pro- vinciale suddette, una lettura dei principali elementi costitutivi, nonché dei sistemi paesistici agrari in esse presenti. 2.1 Il paesaggio dell’alta montagna prealpina Il carattere predominante del paesaggio dell’alta montagna prealpina lecchese, che lo rende eccezionale nell’ambito regionale, è l’elevato grado di naturalità, considerata anche la prossimità con le aree densamente urbanizzate della Brianza. La montagna prealpina lecchese è infatti caratterizzata dalla presenza di catene e rilievi con quote assai elevate che arrivano fino a 2.600 metri di altezza, con forti analogie con gli elementi tipici della montagna alpina. Elementi primari di definizione dello spazio prealpino sono le vette e le guglie che si innalzano repentinamente (torri, creste e guglie dolomitiche delle Grigne e del Resegone; Monte Legnone, ecc.), che compongono la struttura visibile e la sagoma dell’architettura prealpina (foto 1). Nell’alta montagna prealpina la presenza umana è storicamente sporadica e limitata stagionalmente, a Elevata naturalità del paesaggio di alta montagna prealpina Foto 1 - Vista delle Grigne dai Piani Resinelli 1 45 causa dell’ostilità dell’ambiente naturale. Per ciò che concerne l’agricoltura, l’alta montagna prealpina è caratterizzata dalla presenza diffusa degli “alpeggi” e dai pascoli di alta quota, con relative stalle e ricoveri, raggiunti nel periodo estivo. Gli “alpeggi”, insieme ai “maggenghi”, presenti alle quote più basse, costituiscono un sistema paesistico peculiare (vedi paesaggio delle valli e versanti prealpini). 2.2 Il paesaggio delle valli versanti prealpini Prevalenza del fattore vegetazionale nel paesaggio vallivo e di versante 46 e dei 2.2.1 Il versante Il sistema vallivo prealpino è caratterizzato dalla presenza di una vallata principale ampia, con conformazione ad U, che attraversa il territorio in senso nord-sud (Valsassina ) e da alcune valli secondarie trasversali (Valvarrone,Val Muggiasca), con conformazione stretta e incassata, oltre ad alcune grandi conche di alta quota (altipiani di Esino Lario e di Morterone). Nei versanti vallivi, dominati dalla vegetazione naturale, sono riconoscibili diversi orizzonti vegetazionali, che spesso si compenetrano fra loro senza limiti precisi, a causa di fattori variabili, quali l’altitudine, l’esposizione, la piovosità, la vicinanza di vallate ampie o di massicci montuosi; si tratta di aggregazioni di piante legnose e/o arbustive che formano, per colore, volume, estensione, variabilità stagionale, un ambiente omogeneo. Alle quote più elevate dei versanti dominano le aghifoglie (Larici, Pini), mentre nelle quote basse le latifoglie (castagneto, faggeta, latifoglie miste); importanza particolare assume il castagno, che ha costituito per lungo tempo l’elemento fondamentale nell’alimentazione delle comunità montane. Frequente è la presenza di ambiti di naturalità forestale, che si ritrovano con una loro relativa integrità soprattutto sui versanti a umbrìa, poco interessati dalle trasformazioni antropiche. Il grado di antropizzazione delle valli prealpine è differenziato, in relazione ad almeno due fattori: • altitudine: la presenza dell’uomo, delle sue attività, delle sue forme di organizzazione si attenua passando dal basso all’alto; sensibili differenze nel paesaggio e nei modi storici dell’insediamento umano si registrano infatti passando dalle sezioni superiori (con paesaggio e organizzazione vicine a quella alpina) a quelle inferiori delle valli, più prossime al paesaggio delle colline, in cui è esigua l’incidenza altitudinale dei versanti; tale fenomeno è osservabile nell’intero sistema vallivo lecchese; • esposizione: la presenza dell’uomo si attenua passando dai versanti a solatio a quelli a umbrìa: tale fenomeno è osservabile, in particolare, nella Valvarrone e nella Val Muggiasca. Peculiari della Valvarrone e della Val Muggiasca, a Differenzazione del grado di antropizzazione dei versanti in relazione alla quota e alla esposizione Foto 2 - Valvarrone: panoramica di Vestreno, Sueglio, Introzzo. Sullo sfondo il monte Legnoncino 2 47 3 4 5 Foto 3 - Valsassina: panoramica verso Pasturo e Baiedo Foto 4 - Prati nei pressi di Monterone Foto 5 - Alpeggi in Valsassina Organizzazione dell’agricoltura secondo modelli di tipo “alpino” 48 causa della morfologia stretta e incassata, sono gli insediamenti permanenti di versante, con collocazione variabile generalmente fra i 600 e gli 800 metri, che privilegiano l’esposizione dei versanti a solatio (foto 2); gli insediamenti di fondovalle, con collocazione pedemontana e lontana dal corso del torrente, sono invece peculiari della Valsassina (foto 3). Capillarmente diffusa è, inoltre, la presenza di segni minori di identificazione locale, quali affreschi murali, santelle, muretti in pietra, lavatoi, la cui trascuratezza e abbandono rivela peraltro una progressiva diminuzione dell’attaccamento ai luoghi. Per quanto riguarda l’agricoltura, i versanti vallivi presentano un’organizzazione di tipo alpino, con sensibili differenze nelle coltivazioni passando dalle sezioni superiori a quelle inferiori delle valli. L’agricoltura e l’allevamento sono infatti caratterizzate da economie di tipo “verticale”, legate al nomadismo stagionale degli addetti tra versanti bassi (periodo primaverile) e versanti alti (periodo estivo). Caratteristica è la fitta rete di percorsi pedonali (ora sempre più frequentemente trasformati in vere e proprie strade) stesa sul dorso dei versanti, che collega le due fasce di permanenza stagionale. L’agricoltura dei versanti bassi e degli altipiani, in particolare, è caratterizzata dalla presenza di boschi, pratipascoli, piccoli appezzamenti ad arativo, abitazioni temporanee, ricoveri per il bestiame e fienili, frequentati nel periodo primaverile (maggenghi) (foto 4). Tale organizzazione dà vita ad uno dei sistemi paesistici agrari più rilevanti del paesaggio montano: il sistema degli alpeggi e dei maggenghi (foto 5). A fronte di tale ricchezza di elementi tradizionali, molti caratteri insediativi tradizionali e la stessa econo- mia montana mostrano evidenti segni di agonia, che si riflettono puntualmente sul territorio. L’immagine paesistica complessiva è oggi degradata dall’abbandono dei presidi umani, dei campi a terrazzo, dei prati, dei vecchi nuclei, dei maggenghi, degli alpeggi, del bosco. I prati e i pascoli sono le porzioni del paesaggio agrario di montagna più delicate e passibili di scomparsa perché legate ad attività di allevamento transumante di difficile tenuta considerate le difficoltà oggettive di questa consuetudine e le non proporzionate rese economiche. L’abbandono dell’ambiente del versante vallivo e la conseguente decadenza delle tradizionali funzioni economiche della selva montana, hanno inoltre determinato una progressiva estensione del bosco sui coltivi terrazzati e sui prati; la ridotta frequentazione dei luoghi riduce infatti gli spazi prativi a favore del bosco spontaneo o li rende facile preda di infestanti. La tradizionale gerarchia dei percorsi montani, stabilita sulle tolleranze di natura geografica (la strada carrozzabile, la mulattiera, il sentiero), è frequentemente sconvolta: strade carrozzabili giungono ora in ambiti che furono esclusivi di mulattiere e sentieri, ne intersecano i tracciati, ne discriminano l’importanza consegnandoli all’abbandono. Diffusa la costruzione di strade carrozzabili di mezzacosta o di attestamento sui versanti che replicano i tracciati di fondovalle, con articolati percorsi, giungendo in ambiti che furono esclusivi di mulattiere e sentieri, modificando il disegno essenziale del paesaggio: si tratta di soluzioni non sempre motivate, spesso episodiche, scollegate con il rispetto dei vincoli imposti dall’orografia. Un fenomeno che ha assunto caratteri preoccupanti è la diffusione di nuove forme di utilizzazione degli edifici Il sistema degli alpeggi e dei maggenghi L’abbandono e il degrado del paesaggio vallivo 49 Foto 6 - Il fondovalle della Valsassina nei pressi di Barzio 6 rurali indotte dalla trasformazione delle economie montane, con trasformazione frequente dei maggenghi in dimore di soggiorno domenicale da parte dei valligiani residenti in fondovalle e ristrutturazione, in forme spesso discutibili, delle dimore rurali. La rilevanza paesistica dei corsi d’acqua montani è spesso ridotta a causa della artificializzazione degli stessi (regimazione dei corsi d’acqua con arginature e rettificazioni, interposizione di bacini di ritenuta, vasche). 2.2.2 Il fondovalle L’agricoltura di fondovalle (Valsassina) è dominata dalla foraggicoltura, con presenza di colture tipiche di zone della pianura, dovute al modesto livello altitudinale. Il fondovalle è caratterizzato dalla presenza di sistemi agrari costituiti prevalentemente da spazi prativi destinati al pascolo o da coltivi (foto 6 e 7). Il sistema agrario di fondovalle costituisce l’elemento "connettivo" del paesaggio di fondovalle: esso mette in relazione visiva elementi quali insediamenti, architetture, torrente, ecc... Il sistema agrario di fondovalle si connette in alcuni 50 7 punti, senza soluzione di continuità, al sistema agrario di versante (maggenghi e alpeggi), costituendo nell’insieme un quadro paesistico di grande valenza percettiva. Nel fondovalle, peraltro, le pressioni insediative di carattere lineare a destinazione commerciale o industriale lungo la direttrice di percorrenza preferenziale, che è anche il principale supporto percettivo del paesaggio, provocano la graduale sottrazione di preziose aree agricole pianeggianti, mentre le urbanizzazioni recenti aggrediscono i residui “micropaesaggi agrari” di carattere tradizionale. Foto 7 - il fondovalle della Valsassina nei pressi di Introbio Continuità paesistica tra fondovalle e versante 2.3 Il paesaggio lacustre Il paesaggio dei laghi prealpini è certamente fra i più significativi della Lombardia e dell’Italia settentrionale: esso ne richiama la storia geologica e climatica e le morfologie legate alle vicende più recenti della sua storia naturale; da sottolineare inoltre l’importanza notevole del paesaggio dei laghi prealpini nella formazione dell’immagine stessa della Lombardia. Nel caso del Lago di Lecco, l’invaso lacustre ha una morfologia costituita prevalentemente da versanti ripidi 51 Le sponde come fulcro del paesaggio lacustre 8 Foto 8 - Il piano di Colico dal colle di Forte Fuentes verso il Montecchio nord (sul fondo) Foto 9 - L’ampio conoide di Mandello del Lario visto dalla sponda opposta 9 52 di tipo vallivo a picco sul lago, risultato dei modellamenti glaciali. Lo specchio lacustre è l’elemento naturale dominante visivamente il paesaggio e rappresenta un elemento di arricchimento e valorizzazione dello scenario prealpino, attenuando la severità dei rilievi, delineando linee di fuga orizzontali sui divergenti profili dei monti. Essenza e fulcro del paesaggio sono le sponde lacustri, lungo le quali si ritrovano i luoghi paesisticamente più singolari, quali punte e penisole (Piona), rilievi morfologici (Montecchi di Colico - foto 8), insenature (Piona), scogli, rupi: molti di questi luoghi hanno assunto nel tempo una precisa identificazione collettiva. Allo sbocco delle valli secondarie sono collocati grandi conoidi di deiezione, sede dei principali insediamenti (Colico, Bellano, Dervio, Mandello del Lario - foto 9). Il Lago è alimentato dall’Adda e da affluenti secondari, quali i torrenti montani, che scendono ripidi verso lo specchio lacustre, dando luogo a caratterizzazioni geomorfologiche peculiari, quali orridi e cascate. La vegetazione si manifesta con scenari assolutamente unici a queste latitudini, grazie alla funzione termoregolatrice delle acque lacustri. La flora spontanea, o di introduzione antropica, è caratterizzata da una consistente varietà di specie (associazioni del leccio e sempreverdi d’impianto antropico come cipressi, olivi, ecc.), propria dell’area mediterranea o sub-mediterranea, con disposizione delle fasce altitudinali e vegetazionali lungo i versanti simile a quella delle valli prealpine (foto 10). Numerosi sono gli elementi di singolarità paesistica legati alle acque lacustri: organizzazione degli spazi (tipo di colture, di insediamento, attività tradizionali come la pesca, relazioni per vie d’acqua, ecc.), testimonianze storiche, percezione e fruizione del paesaggio come scenario di soggiorno e turismo. La disposizione degli insediamenti di mezzacosta lungo i versanti è simile a quella delle valli prealpine (“monti” o “alpi”). Peculiari del paesaggio lacustre sono i sistemi dei terrazzamenti, che rappresentano ormai una testimonianza residua delle antiche pratiche colturali un tempo assai I sistemi di terrazzamenti lacustri Foto 10 - Oliveti nei pressi di Limonta 11 10 diffuse in tutti i versanti a pendenza accentuata, siano essi montani, lacustri o collinari. In alcuni casi la loro presenza è peraltro ancora significativa e consistente (Dorio, Bellano): in questi casi risulta ancora ben leggibile il rapporto che tali sistemi instaurano con i principali elementi circostanti, quali il versante, i nuclei storici, il lago, il bosco, ecc... (foto 11 e 12). Nei terrazzamenti assai diffusa è la presenza di elementi del paesaggio agrario tradizionale e di coltivazioni tipiche, quali frutteti, vigneti, uliveti, castagneti. Un altro sistema agrario peculiare del paesaggio lacustre è il sistema di conoide, che assume una particolare rilevanza ed evidenza paesistica nell’ambito di Colico, dove, nonostante la presenza di una urbanizzazione dif- Foto 11 Terrazzamenti con muretti a secco tra Dorio e Corenno Plinio. Foto 12 Terrazzamenti nei pressi di Bellano 12 53 Sistemi agrari di conoide Il degrado delle sponde lacustri fusa, è leggibile in modo estensivo. Le sponde lacustri sono oggi interessate da fenomeni di compromissione, a causa della costruzione delle strade litoranee (quali la superstrada S.S.36), della privatizzazione spinta degli arenili, dell’edificazione incontrollata sulle sponde e, infine, della tendenza delle espansioni recenti ad alterare e sostituire la lettura complessiva dell’impianto urbanistico dei borghi lacuali. 2.4 Il paesaggio collinare Il paesaggio collinare occupa tutta l’ampia fascia centrale del territorio provinciale. All’interno del paesaggio collinare si distinguono, per le loro peculiarità, le seguenti ulteriori articolazioni paesistiche: 13 Foto 13 Il lago di Annone 54 2.4.1 Le colline moreniche brianzole All’interno del paesaggio collinare morenico si distinguono, dal punto di vista geografico, tre grandi ambiti, che fanno riferimento ai tre nuclei urbani principali: la Brianza casatese (Casatenovo), situata a sud-ovest della provincia; la Brianza oggionese (Oggiono), situata a nordovest, in prossimità delle prime pendici prealpine, interessata dalla presenza dei grandi laghi morenici di Annone e Pusiano; la Brianza meratese (Merate), situata a sud-est, tra la collina di Montevecchia e il corso dell’Adda. Le colline brianzole sono il risultato della deposizione di materiali morenici, con conformazione plano-altitudinale caratterizzata da elevazioni costanti e non eccessive. Il paesaggio è spesso caratterizzato dalla presenza di invasi lacustri rimasti chiusi tra gli sbarramenti morenici (“laghi morenici”), con presenza di forme di naturalità e di notevole interesse geologico (Laghi di Annone, Pusiano e Sartirana) (foto 13). Dal punto di vista vegetazionale, il paesaggio è connotato dalla presenza di piccoli lembi di boscaglia, sulle scarpate più acclivi, sulle cime delle colline o lungo i corsi d’acqua, oppure dalle folte “enclosures” dei parchi e dei giardini storici, nonché da gruppi di alberi di forte connotato ornamentale (cipresso, olivo). Si tratta di un contesto da sempre fortemente permeato dalla presenza dell’uomo, con evidenza di segni residui di una forte e significativa organizzazione territoriale tradizionale: il paesaggio attuale è infatti il risultato di un’opera di intervento umano tenace che ha modellato un territorio reso caotico dalle eredità glaciali, povero di drenaggi e formato da terreni poveri (foto 14 e 15). La struttura del paesaggio agrario collinare, caratterizzato da lunghe schiere di terrazzi che risalgono e aggirano i colli, rette con muretti in pietra o sistemati naturalmente, ha sotteso, nei secoli, sedimentazioni continue. Un tempo tali terrazzi erano sede di numerosi appezzamenti coltivati, nei quali allignavano specie delle più diverse: vigneti, castagni e noccioli, frumento e granturco, ma soprattutto gelsi, dai quali dipese a lungo l’econo- Il paesaggio collinare è plasmlato dalla presenza umana Il sistema dei terrazzamenti collinari 15 Foto 14 - Il paesaggio collinare da Montevecchia verso Sirtori e Barzanò 14 Foto 15 - Il paesaggio collinare da Montevecchia verso Osnago e Lomagna 55 Degrado del paesaggio collinare mia della famiglia contadina, produttrice di bozzoli e fornitrice di larga manodopera per filande e filatoi. Attualmente la viticoltura è praticata sui campi terrazzati o su ripiani artificiali. Il sistema insediativo agrario tradizionale è rappresentato da corti e case contadine costruite generalmente con materiale morenico locale. Gli insediamenti colonici, collocati sulle pendici collinari o nei bassopiani, raccolgono attorno alla modesta corte (cintata o meno), il corpo delle abitazioni e i rustici, non presentandosi quasi mai nelle forme auliche ed estensive della pianura. Gli aspetti più originali e qualificanti del paesaggio collinare, a causa delle intensa urbanizzazione che ha interessato tale contesto, sono oggi soggetti a forte degrado. Il territorio collinare è stato infatti il ricetto preferenziale di residenze e industrie a elevata densità, a causa della vicinanza di questo ambito all’alta pianura industrializzata, da cui è sovente indissociabile. I fenomeni urbanizzativi sempre più accentuati tendono ad occupare i residui spazi agricoli, specie quelli di bassopiano, con conseguente dissoluzione di questa importante componente dell’ambiente di collina. Particolarmente forte la tendenza ad una edificazione sparsa sulle balze e sui pendii, spesso ricavata sui fondi dagli stessi proprietari, nelle forme del “villino”, del tutto avulso dai caratteri dell’edilizia rurale. 2.4.2 Le colline pedemontane All’interno del contesto collinare morenico lombardo spicca una successione di rilievi, con quote non superiori a poche centinaia di metri, estranei ai processi di deiezione glaciale, che costituiscono un’emergenza di forte valenza paesistica. Nell’insieme tali rilievi costituiscono il fondale pede- 56 montano a settentrione dell’ambito collinare lombardo: un vero e proprio gradino naturale che introduce all’ambiente prealpino; esso è visibile, in buone condizioni di tempo, da tutta la pianura formandone la naturale “cornice”. Nella provincia di Lecco sono presenti i cospicui rilievi isolati del Colle di Montevecchia, del Monte di Brianza, del Monte Barro, nonché le pendici delle colline di frangia pedemontana bergamasca (Valle S. Martino). Dal punto di vista antropico, il paesaggio è segnato dalla lunga, persistente occupazione dell’uomo, con scarsa incidenza del fattore altitudinale nella costruzione del paesaggio medesimo. Da segnalare la presenza di “isole” di antico insediamento miracolosamente esenti da contaminazioni urbane, quali Campsirago e Figina sul Monte di Brianza. L’uso del suolo a fini agricoli è attualmente caratterizzato da aspetti residuali o particolari legati soprattutto all’orto o al piccolo podere retto con lavoro part-time. Il paesaggio agrario segnato dalle peculiarità delle sistemazioni, dalla fitta suddivisione poderale, dalla presenza delle legnose accanto ai seminativi. Particolarmente significativa è la presenza di sistemi agrari terrazzati, soprattutto nell’ambito di Montevecchia dove emergono per la loro estensione e la forte evidenza percettiva (foto 16). Rispetto al paesaggio spiccatamente morenico tali rilievi presentano una minore compromissione dal punto di vista antropico, a causa della maggiore elevazione e della maggiore asperità dei versanti, ancora abbondantemente boscati. 2.5 Il paesaggio dell’alta pianura Il paesaggio dell’alta pianura interessa alcune zone di limitata estensione a sud del territorio provinciale e gli Foto 16 Terrazzamenti nei pressi di Montevecchia 16 Contenuta compromissione antropica delle colline moreniche 57 Scarsità di acque superficiali e assenza di reti irrigue ambiti territoriali di pertinenza dei grandi corsi d’acqua di pianura (Adda e Lambro). Foto 17 - Il paesaggio agrario nei pressi di Verderio inferiore 17 Paesaggio agrario caratterizzato da grandi estensioni colturali regolari 58 2.5.1 L’alta pianura asciutta Comprende gli ambiti di pianura a sud di Casatenovo e i territori dei comuni di Verderio Inferiore e Verderio Superiore. La caratteristica prevalente di tali territori è la naturale permeabilità dei suoli: il sistema naturale di drenaggio delle acque è infatti situato nel sottosuolo, con conseguente scarsità di acque superficiali e assenza di reti irrigue. Il territorio si presenta pertanto segnato da solchi e piccole depressioni determinate dallo scorrimento dei corsi d’acqua minori, quali la Molgora, che, con la loro vegetazione di ripa, sono in grado di variare l’andamento abbastanza uniforme della pianura. I nuclei abitati tradizionali, che possiedono una comune matrice rurale, sono caratterizzati da un forte addensamento dei fabbricati: ciò è dovuto, in molti casi, all’aggregazione di corti, con conseguente riduzione del numero di case sparse sui fondi. Tale caratterizzazione costituisce un segno storico in via di dissoluzione a causa della recente saldatura edilizia degli abitati e le trasformazioni interne ai nuclei stessi. Il paesaggio agrario è caratterizzato da grosse estensioni colturali, di taglio regolare, con andamento ortogonale, a cui si conformano spesso strade e linee di insediamento umano (foto 17). La naturale permeabilità dei suoli, che non consente la presenza di un’adeguata rete irrigua, ha storicamente ostacolato l’attività agricola, impedendo che essa si presentasse nelle forme intensive tipiche della bassa pianura: ciò ha favorito la conservazione di lembi boschivi che si alternano nel paesaggio agrario ai campi coltivati e che, in altri tempi, assieme alla bachicoltura, mantenevano una loro importante funzione economica. Sul substrato geomorfologico di questo paesaggio si è indirizzata l’espansione metropolitana milanese, con una urbanizzazione diffusa che ha privilegiando dapprima le grandi direttrici storiche irraggiantesi da Milano e successivamente le frange interstiziali, determinando la cancellazione quasi totale del paesaggio agrario tradizionale. 2.5.2 Le valli fluviali Le grandi valli fluviali, che incidono il territorio in direzione nord-sud e che, in alcuni tratti, si presentano fortemente incassate rispetto al livello della pianura, costituiscono le principali rotture di continuità della grande fascia urbanizzata dell’alta pianura lombarda. Le valli fluviali sono derivate dagli approfondimenti relativamente recenti dei fiumi alpini e prealpini: si tratta di ambiti a sé stanti e dotati di proprie peculiarità rispetto ai piani sopraelevati dell’alta pianura urbanizzata e vanno considerate come sezioni particolari di un unico organismo, dalla sorgente allo sbocco nel Po (foto 18, 19 e 20). Le sezioni fluviali che interessano il territorio provinciale sono quelle dell’Adda, da Paderno a Lecco e quella del Lambro nel tratto che lambisce la provincia nei pressi di Nibionno e Rogeno. L’importanza di questi contesti ambientali è ulteriormente sottolineata da alcuni fattori storici, quali l’importante funzione commerciale e idraulica e l’avvio della costruzione del sistema dei navigli dall’alveo incavato dei grandi fiumi (Adda). Da sottolineare infine la presenza di interventi umani diffusi, finalizzati a portare a maggiore elevazione la derivazione delle acque, per il sistema irriguo dell’alta e Il fenomeno dell’urbanizzazione diffusa 18 19 20 Foto 18 - L’Adda nei pressi di Paderno Foto 19 - L’Adda nei pressi del Santuario del Lavello Foto 20 - La valle dell’Adda nei pressi del lago di Olginate 59 bassa pianura, oppure come generatori di forza motrice per impianti paleoindustriali (molini, cartiere) o idroelettrici. Le strategie per la tutela e la valorizzazione del paesaggio agrario Il 1° obiettivo strategico: la manutenzione permanente del territorio 60 3. Tutela e valorizzazione del paesaggio agrario La tutela e la valorizzazione del paesaggio agrario e dei suoi elementi di identità sono obiettivi estremamente complessi, in quanto dipendono da numerose variabili che, peraltro, esulano dall’ambito strettamente urbanistico. Ciò premesso, si può affermare che ai fini della tutela e della valorizzazione del paesaggio agrario possono essere utilmente attuate, dal punto di vista urbanistico, almeno tre strategie complementari: 1) manutenzione diffusa del territorio; 2) riqualificazione degli ambiti degradati; 3) controllo della compatibilità paesistica delle trasformazioni. Tali strategie sono finalizzate sia al mantenimento o al recupero della utilizzazione agricola produttiva (laddove vi siano le condizioni economico-“strutturali” affinché ciò sia possibile), sia allo sviluppo della fruizione turistico-ricreativa del paesaggio agrario. 3.1 La manutenzione diffusa del territorio Il primo obiettivo di una politica urbanistica di tutela e valorizzazione del paesaggio è la “cura” e la “manutenzione” permanente del territorio, finalizzata alla “conservazione” fisica dei beni oggetto di tutela. La manutenzione del territorio rurale, per essere efficace, deve essere espletata capillarmente e regolarmente dai soggetti che operano sul territorio (agricoltori, operatori forestali, singoli proprietari di immobili, ecc...), e coordinata e programmata dagli enti e dalle istituzioni preposte, anche attraverso opportuni incentivi (economici, fiscali, ecc...). La manutenzione deve essere finalizzata a garantire la conservazione dei seguenti elementi: • assetto morfologico: devono essere evitate alterazioni dell’assetto morfologico originario del terreno, tramite rilevati, riempimenti, avvallamenti, muri di sostegno, tecniche “intensive” di sfruttamento agricolo, ecc...; tale indicazione risulta maggiormente significativa nelle situazioni di pendio montano o collinare, a causa del rischio di innesco di situazioni di instabilità dei versanti e della maggiore rilevanza visiva delle trasformazioni; • sistemi vegetazionali: deve essere evitato l’abbattimento e la manomissione dei sistemi vegetazionali del paesaggio agrario; gli elementi vegetazionali devono inoltre essere ripristinati e/o implementati laddove essi risultino residuali e/o degradati; • sistema idrografico: deve essere garantito il mantenimento dei caratteri di naturalità dei fiumi e dei torrenti, con la vegetazione di ripa e le fasce naturali di esondazione; deve inoltre essere impedita qualsiasi forma di trasformazione antropica lungo le sponde; • manufatti, architetture e colture tradizionali: deve essere garantita la manutenzione dei manufatti che caratterizzano le sistemazioni agrarie, avendo cura, nel caso di parziali o totali rifacimenti, di reimpiegare lo stesso tipo di materiale litoide e le stesse tecniche costruttive; ai fini della salvaguardia delle colture tradizionali è inoltre necessario limitare l’avanzamento naturale del bosco e la progressiva cancellazione degli spazi prativi di montagna e delle balze terrazzate; è necessario inoltre contenere la riduzione delle aree interessate da colture a vigneto e a oliveto o la sostituzione con altre colture; dovrà 61 essere infine prevista la manutenzione minimale dei manufatti e delle architetture rurali, soprattutto di quelli abbandonati, finalizzata ad evitarne il rapido deperimento (manutenzione delle coperture e dei sistemi di smaltimento delle acque meteoriche, consolidamento delle strutture, ecc...); • percorsi rurali: la manutenzione e la conservazione dei percorsi rurali, quali mulattiere, sentieri, strade poderali e campestri, atta a preservarne la riconoscibilità e la praticabilità pedonale, è di importanza primaria ai fini della sopravvivenza del territorio rurale. Il 2° obiettivo strategico: la riqualificazione degli ambiti degradati 62 3.2 La riqualificazione degli ambiti degradati La valorizzazione del territorio rurale, oltre che ad essenziali politiche di “mantenimento”, può utilmente ricorrere ad interventi “strategici”, finalizzati al recupero e alla riqualificazione di particolari ambiti territoriali e/o complessi edilizi degradati. Fondamentale ai fini della valorizzazione attiva del paesaggio agrario è l’individuazione di forme di utilizzazione congruenti con i caratteri paesistico-ambientali: laddove non risulti economicamente conveniente l’utilizzo a fini agricoli produttivi, è congruo valutare l’opportunità di utilizzazioni legate alla fruizione turistico-ricreativa del territorio, quali l’agriturismo, l’enoturismo, o la creazione di “musei diffusi”, a scala territoriale, finalizzati a documentare i caratteri del paesaggio agrario tradizionale. La fruizione turistico-ricreativa del territorio è possibile solo se coniugata al recupero fisico e percettivo del paesaggio rurale e dei suoi caratteri tradizionali: la riqualificazione del territorio deve avere pertanto come obiettivo primario il recupero e la valorizzazione dei caratteri naturali e tradizionali del paesaggio agrario e dei suoi elementi costitutivi fondamentali. Da questo punto di vista, importanza strategica assume la riqualificazione dei percorsi (strade, sentieri, mulattiere, ecc...), che consentono un fruizione estensiva del paesaggio, e delle architetture rurali, sia a scopi didattico-culturali, che a fini ricreativi (alloggio, ristorazione, ecc...). Una risorsa significativa è inoltre costituita dagli ambiti rurali residuali presenti ai margini o nel cuore delle aree urbanizzate: tali ambiti, se inseriti all’interno di un’ampia rete di fruizione del territorio, possono superare l’isolamento e la marginalità che li contraddistingue. 3.3 Il controllo della compatibilità paesistica delle trasformazioni Un’ultima fondamentale strategia per la tutela e la valorizzazione del paesaggio agrario è il controllo della “compatibilità paesistica” delle trasformazioni territoriali. Per “compatibilità paesistica” di una trasformazione territoriale (edilizia o infrastrutturale), si intende l’attitudine della trasformazione stessa a misurarsi in termini “positivi” con il contesto paesistico di riferimento: in altri termini, ogni trasformazione, per essere paesisticamente compatibile, deve aggiungere “qualità” al paesaggio nel quale si inserisce o almeno non peggiorare la qualità esistente. Affinché un intervento risulti paesisticamente “compatibile”, deve: 1) essere formalmente coerente con il contesto: un intervento risulterà tanto più compatibile, quanto più sarà in grado di garantire la coerenza tra le nuove forme introdotte dall’intervento e l’assetto morfologico originario del territorio (naturale e antropico); Il 3° obiettivo strategico: il controllo della compatibilità paesistica degli interventi edilizi e/o infrastrutturali 63 viceversa, risulterà tanto meno compatibile, quanto più tenderà a distaccarsi dai caratteri figurali prevalenti del territorio; ad esempio, un intervento è formalmente coerente quando il suo profilo si pone in continuità con quello circostante e non emerge rispetto ad esso, e quando il suo assetto planimetrico segue l’andamento del terreno e le curve di livello; 2) rispettare e valorizzare gli elementi paesistici: un intervento risulterà tanto più compatibile, quanto più sarà in grado di garantire e valorizzare la “leggibilità” dei caratteri peculiari del paesaggio, sia in termini di semplice fruizione visiva, sia in termini di comprensione dei “significati” insiti nel paesaggio stesso; viceversa, risulterà tanto meno compatibile, quanto più tenderà a “obliterare” i caratteri peculiari del paesaggio, sostituendosi o sovrapponendosi ad essi; ad esempio, un intervento è compatibile quando, oltre a preservare fisicamente gli elementi caratterizzanti il paesaggio, ne valorizza la percezione attraverso l’individuazione di coni visivi privilegiati e scorci paesistici particolari; 3) ispirarsi ai modelli culturali locali di riferimento: un intervento risulta compatibile quando è caratterizzato da soluzioni tipologiche e dall’uso di tecniche costruttive, materiali e cromatismi analoghi a quelli tradizionalmente presenti nel contesto territoriale. 64 Elementi di storia dell’agricoltura lecchese di Angelo De Battista Lecco: provincia senza pianura Quando si parla di “territorio lecchese” é innanzitutto necessario chiarirne i confini e precisare i riferimenti alle zone di “montagna”, “collina” e “pianura”. Queste definizioni corrispondono alla Valsassina e Riviera (montagna) ed all’Alta Brianza (collina) quando ci si riferisce alla sola provincia di Lecco; comprendono l’alto lago, le colline comasche e canturine e la piana verso il milanese quando si parla della provincia di Como. Per un lungo periodo, inoltre, la provincia di Como comprendeva, oltre ai territori suddetti, anche quelli dell’attuale provincia di Varese. Il testo, comunque, precisa di volta in volta l’ambito cui ci si riferisce. Altrettanto utile è osservare che se nel territorio della ex provincia di Como la pianura rappresentava il 12% del totale, la collina il 30% e la montagna il 58%, la provincia di Lecco non ha pianura e dunque le condizione del principale mezzo di produzione agricola, cioé la terra, non sono le migliori possibili. Dopo queste scarne premesse, ripercorriamo, seppur rapidamente, alcune vicende storiche della nostra agricoltura, per vedere come, tra Settecento e Novecento, è evoluta in termini di proprietà, di patti agrari e di prodotti. 1) Il Settecento 1.1) Destinazione del territorio Le principali produzioni tradizionali, le forme di conduzione, le trasformazioni recenti Il periodo spagnolo consegnò al nuovo potere austriaco un comasco in difficoltà. 65 Secondo il Caizzi1 ciò dipendeva anche e soprattutto da una cattiva politica agricola (il Caizzi la definisce ‘pigra’): mancanza di investimenti e di opere fondiarie, staticità delle produzioni, innovazione tecnica troppo scarsa. Di queste difficoltà sono sintomo chiarissimo sia le risposte delle Comunità ai 45 quesiti formulati dall’amministrazione austriaca nella prima metà del Settecento per realizzare il nuovo catasto, sia i ricorsi che le Comunità stesse presentarono per chiedere riduzioni di imposte. Questi ricorsi, sebbene contenessero informazioni ‘adeguate’ alle finalità2 ed a volte fossero addomesticate3, offrono dati significativi (anche se non sempre certi) sulla struttura del territorio e sulla sua destinazione agricola. A tal proprosito, nella prima metà del XVIII secolo, la destinazione del territorio delle tre zone agrarie della provincia risultava la seguente4: Destinazione del territorio (%) alla metà del XVIII sec. montagna collina pianura 70 68 60 50 60 50 40 Montagna il “regno” dell’incolto 30 30 20 15 10 0 8 incolti 20 18 15 6 incolti pascolo 10 bosco Come si vede, circa la metà del territorio dei comuni di montagna era costituita da zerbi, brughiere, ceppi, sassi nudi ed altro terreno non utilizzabile; l'altra metà era divi66 sa tra bosco (20% del territorio totale), pascolo (15%), prato (6%), arativi (3%), vigneto (1%), ronchi (1,5%). In pratica, il terreno coltivo era poco più del 10% del totale e per più della metà tenuto a prato. Nella zona di montagna, le caratteristiche del territorio e l'obbligo, per sopravvivere, di allevare almeno un animale, rendevano impossibile non tanto lo sviluppo dell'agricoltura, ma più semplicemente una produzione agricola sufficiente alle necessità alimentari degli abitanti della montagna5. Mais, segale, ortaggi, legna e castagne erano i prodotti prevalenti di questa agricoltura povera. Se, viste dalla montagna, la collina e la pianura assumevano un’aura quasi mitica di facilità di lavoro e di fertilità, viste da più vicino anche queste due zone agrarie mostravano problemi. In collina il coltivo rappresentava il 68% del territorio e l’aratorio occupava circa il 44% del coltivo, cioé il 30% del territorio totale. L’ aratorio, che comprendeva anche i prati, per quasi la metà era vitato e quindi con bassa produzione cerealicola e non tutto era disponibile alla produzione, poiché una parte veniva, a turno, tenuta a riposo. In pianura, poi, quel 30% di incolto era un segnale delle difficoltà che, anche in zone favorevoli, l’agricoltura comasca incontrava e, al tempo stesso, un ostacolo al superamento di tali difficoltà. Difficoltà dovute a quella ‘pigrizia’ dei pubblici poteri e dei grandi proprietari evidenziata dal Caizzi e che aveva determinato arretratezza tecnica sul piano delle attrezzature, del sistema di rotazione, delle modalità di concimazione. Nel mantenimento dell’incolto aveva però una sua parte anche la presenza di proprietà comunali strenuamente difese dai contadini che, grazie agli usi civici, vi trovavano Le difficoltà in collina e pianura 67 un minimo sollievo soprattutto facendovi pascolare qualche animale. 1.2) Struttura della proprietà Questo accenno alle proprietà comunali introduce il tema della struttura della proprietà e delle sue conseguenze sulla conduzione dei fondi e sulla resa dell’agricoltura. Anche qui la situazione é molto differenziata nelle tre zone agrarie della provincia6. Struttura della proprietà (%) alla metà del XVIII sec. 100 97 81 65 Il dualismo tra montagna e collina 35 19 0 Agenzia Lecco Agenzia Oggiono Agenzia Merate propr. comunali propr. private Come si vede, possiamo parlare, per l’epoca considerata, di un netto dualismo tra un regime a usi civici sulle montagne e uno a proprietà privata in collina e pianura. L’Agenzia catastale di Lecco, infatti, comprendeva la Valsassina e la riviera orientale del Lario; l’agenzia di Oggiono comprendeva le colline di quella che noi chiamiamo l’Alta Brianza, cioé la Brianza nord-orientale, mentre quella sud-orientale faceva capo a Merate. Nella zona di montagna a proprietà comunali estesissi68 me faceva però riscontro un valore capitale molto basso: si trattava, infatti, quasi esclusivamente, di boschi, pascoli, incolti e di terreni del tutto improduttivi. Dopo le comunità, il più forte gruppo di proprietari era quello dei privati non nobili che, in Valsassina, possedevano il 17% del perticato, al quale corrispondeva però il 52% del valore capitale. Tra queste proprietà va sottolineata, per il decisivo apporto alimentare che ha dato alle popolazioni montane, la presenza delle selve castanili. Nelle zone di montagna, le proprietà ecclesiastiche e nobiliari erano scarsamente presenti ed erano costituite da prati, pascoli e boschi. I nobili possedevano soprattutto prati e pascoli ed a questi possedimenti ‘affidavano’ l’allevamento degli animali. Nella zona di collina, il maggior gruppo di possidenti é dato dai privati non nobili, che posseggono in media il 45% della terra, con un valore capitale che sempre supera, in percentuale, quello della superficie. Aratori ed aratori vitati erano le destinazioni principali, ma significativi erano i ronchi (in media il 14% della superficie), i prati ed i boschi, tra cui anche qui non mancavano i castagneti. In questa zona agraria, come abbiamo visto, diminuisce fortemente la presenza delle proprietà comunali, che reggono ancora nella parte più prossima a Lecco e calano man mano che si scende verso la pianura. Aumenta invece, grazie alla maggior redditività della terra, la presenza di proprietà nobiliare, che aveva la sua zona d’elezione sull’altopiano collinare (23% della superficie e 41% del valore), ma che anche nella collina lecchese raggiungeva il 10% circa della superficie e il 13% del valore. In collina comincia ad essere importante anche la presenza di possessi ecclesiastici: quelli di chiese e parrocchie In montagna proprietà comunali estese ma di poco valore In collina la maggior parte della terra è di privati non nobili 69 sono diffusi ma di poca superficie; quelli di abbazie ed ordini religiosi sono numericamente più scarsi ma l’estensione media, nel lecchese, supera le 200 pertiche. 1.3) Forme di conduzione Montagna: il prodotto determina il contratto 70 La struttura della proprietà influisce direttamente sulle forme di conduzione, cioé sui patti e sui contratti agrari. Nel Settecento per la montagna è difficile trovare un patto prevalente. Da un lato la presenza significativa di piccole proprietà private, dall’altro la varietà dei suoli, comportavano forme di conduzione diverse da zona a zona; ma differenziazioni c’erano anche nella medesima zona a seconda dei prodotti implicati. Bisogna infatti considerare che nella zona di montagna non tutto il terreno é ripido e improduttivo: ci sono pianori, terreni di fondovalle, piane alluvionali, coste.Varietà dei terreni significa varietà di prodotti e quindi di contratti: in questo modo il proprietario si assicurava il massimo ritorno economico. Così, i ronchi, le brevi pianure alluvionali ed in genere i tratti meno impervi lungo la riviera le lago, dove prevalevano grano, viti ed olive, venivano dati in affitto o a mezzadria e non mancavano casi di contratti misti: i canoni potevano essere in natura (grano), in moneta o in entrambe le modalità e anche la mezzadria poteva convivere con l’affitto, soprattutto dei prati. L’articolazione era tale che il medesimo contadino poteva trovarsi a lavorare con una pluralità di patti: piccolo proprietario di un fondo insufficiente, usufruttuario di beni comunali, mezzadro per le vigne o per le castagne, affittuario sul grano, in enfiteusi sui pascoli alti. Le proporzioni tra questi contratti potevano variare, ma il loro intreccio é accertato, così come la loro convivenza con le lavorazioni a giornata e la piccola proprietà , supportata dagli usi civici. Nella fascia collinare in tutta la prima metà del Settecento la mezzadria era ancora protagonista assoluta nella pieve di Oggiono, anche se non mancava la convivenza con il fitto a grano, che cominciava ad insinuarsi nella pieve di Brivio e di Missaglia, nella parte più meridionale dell’attuale provincia di Lecco, dove le colline fanno posto alla pianura. Presso le comunità più propriamente collinari, a quest’epoca la mezzadria, che conviveva con la piccola proprietà, conservava ancora tratti abbastanza classici: divisione “perfetta” dei principali prodotti (frumento granturco, vino, gallette) e dei carichi, affitto in denaro della casa e sementi fornite dal padrone. Ma già nella seconda metà del Settecento questo sistema “perfetto” venne profondamente modificato ed il fitto a grano diventò dominante. Ma a questo passaggio fondamentale dedicheremo più attenzione parlando dell’Ottocento. Collina: piccola proprietà e mezzadri Nel settecento compare il “fitto a grano” 2) L’Ottocento 2.1) Napoleone e non solo: inizia a cambiare l’assetto proprietario Gli ultimi del Settecento furono anni di grandi sommovimenti politici, che ebbero, tra l’altro, rilevanti conseguenze sulla distribuzione della proprietà terriera. L’indebolimento delle proprietà ecclesiastiche a vantaggio di quelle nobiliari, che si era già manifestato, diventerà fortissimo negli ultimi anni del XVIII e nel primo decennio 71 La vendita dei beni ecclesiatici e di quelli comunali Cresce il numero dei proprietari grandi e piccoli 72 del XIX secolo a seguito delle riforme napoleoniche: secondo alcune stime, furono 10.444 i beni ecclesiastici venduti durante la Repubblica Cisalpina e in quel periodo sempre gli enti ecclesiastici diedero a livello circa 38.000 pertiche7. Anche i beni comunali cominciarono ad essere privatizzati: le comunità dovevano far fronte a situazioni debitorie spesso pesanti e ciò aveva portato già da tempo all’affitto dei diritti; poi provvedimenti del governo austriaco, come l’editto del 1779, aprirono le porte alla vendita massiccia dei beni comunali. Negli anni finali del secolo, dunque, la razionalizzazione amministrativa e fiscale (catasto) ed i burrascosi eventi politici favorirono un rimescolamento della proprietà terriera. Quanto tale rimescolamento fu profondo é ancora difficile dire, perché mancano studi precisi, per la nostra zona, sia su quante proprietà rimasero agli enti ecclesiastici durante gli anni francesi, sia sul reale andamento della privatizzazione degli usi civici. Tuttavia, nel corso dell’Ottocento si assiste, in provincia di Como, ad una notevolissima crescita delle ditte censuarie, che passano dalle 71226 del 1818 alle 156287 del 1875. Giancarlo Galli8 ritiene non si possa attribuire a questa crescita, peraltro notevolissima (+119% in settant’anni), un significato univoco di smantellamento della grande proprietà perchè una parte di quell’aumento fu determinata da frazionamenti di proprietà già piccole, soprattutto in montagna. Le requisizioni delle proprietà ecclesiastiche e le pressioni su quelle comunali hanno poi certo determinato un passaggio della terra a proprietari non nobili (coltivatori, ex fittavoli, investitori ecc.) ma anche a proprietari nobili. Non va poi dimenticata la resistenza della proprietà comunale nelle zone di montagna, anche a causa del fatto che la scarsa redditività dei terreni non invogliava agli acquisti. In ogni caso, secondo dati del Cantù9, nel 1859 la distribuzione della proprietà nelle zone dell’attuale provincia di Lecco era la seguente: Distribuzione delle proprietà nel 1859 distretti superficie (pertiche censuarie) ditte censuarie LECCO 303.375 8.370 BELLANO 371.187 11.585 OGGIONO 132.827 3.265 BRIVIO 102.829 1.964 MISSAGLIA 106.714 1.138 Si conferma dunque l’estremo spezzettamento delle proprietà nella zona di montagna distretti di Lecco e Bellano) e la crescita dell’ampiezza media mano a mano che si scende verso la pianura, ampiezza che resta, in media, inferiore alle 100 pertiche censuarie. In montagna il quadro non é molto cambiato rispetto al secolo precedente, sia perché rimane consistente la piccola proprietà, sia perché le meno redditive aree di montagna non vengono investite dai cambiamenti che investirono la pianura e la collina. Per quanto riguarda la collina, i dati sulla proprietà, non dicono tutto ed in particolare nascondono quel processo di spezzettamento dei fondi in piccole unità date da lavorare a famiglie di pigionanti che, a differenza del massaro, non possedevano alcun mezzo di produzione e soprattutto erano privi di animali e carri. Un fenomeno collegato, almeno cronologicamente, superficie media 36,24 32,04 40,68 52,35 93,77 73 La vanga e il gelso: peggiorano le condizioni di lavoro dei contadini all’appesantirsi dei patti colonici ed al sostanziale predominio della vanga determinato dai patti a grano e dal diffondersi del gelso. La maggior fatica per le vangature da un lato e dall’altro l’aumento del tempo da dedicare ai gelsi, riducevano le possibilità di coltivazione delle famiglie mezzadrili ed in questo contesto il pigionante rappresentava una via d’uscita, precaria ma sostanzialmente tranquillizzante, per un ceto di proprietari contento di conservare, seppur in modo progressimamente più incerto, lo staus quo. 2.2) Gelso e grano: la fine della ‘mezzadria perfetta’ Fitto a grano, divisione al terzo, affitto in denaro: cresce la varietà dei contratti 74 E veniamo quindi al fenomeno che, nel medio periodo, cambiò gli assetti che nella prima metà del Settecento ancora prevalevano nella fascia collinare. Nel 1809 De Capitani D’Hoé, parroco di Viganò, scriveva: “Il sistema che regola gli affitti tra il proprietario e il colono é qui forse più variato che in altri luoghi. Alcuni pochi hanno a perfetta mezzadria tanto i prodotti che le tasse. La maggior parte dei contadini pagano per fitto del fondo una determinata quantità di frumento (...). La galletta, o bozzoli de’ filugelli, é sempre divisa a metà. Se però alcuna volta si vende la foglia de’ gelsi, il prodotto si divide per terzo, cioé due terzi al padrone e uno al contadino. Il vino anch’esso in varie maniere si divide. Pochi sono quelli che ritengono la perfetta mezzadria; per lo meno la decima é sempre dominicale. Molti però lo dividono a terzo o a quinto, cioé due terzi o tre quinti al proprietario, il resto al colono. (...) I prati, i pascoli ed in generale i tratti erbosi sono sempre affittati a denaro. Anche le tasse sono regolate diversamente. Alcuni (...) le pagano a metà; presso altri tutte le imposte dirette sono caricate sulle spalle del povero contadino ed in altri paesi il contadino paga una determinata somma (...). In qualunque caso però é sempre tenuto l’agricoltore ai soliti tributi di pollame, uova ecc , che qui chiamano appendizj.” 10 Questi patti, che nel corso del secolo si fanno sempre più duri per il colono, prevedono dunque la divisione, e non sempre a metà, solo per alcuni importanti prodotti (generalmente vino e gallette); il resto era regolato con affitto a grano ed affitto in denaro per le abitazioni ed i prati. A ciò si aggiungeva, oltre agli appendizi, una quantità di obblighi di lavoro, di cariaggio, di allevamento di bachi, che peggioravano le condizioni del mezzadro. E’ al termine di questo processo (che dura anni e che non è né lineare, né ovunque contemporaneo) che il mezzadro smette di essere il protagonista della “collaborazione tra chi ha la terra e chi la forza lavoro”11 per diventare sostanzialmente - anche se non formalmente - un affittuario a grano in condizioni che rasentano la pauperizzazione. Tale modificazione dei patti agrari dalla ‘mezzadria perfetta’ al fitto misto fu, anche in collina, il segno chiaro del progressivo differenziarsi degli interessi dei proprietari da quelli dei coloni. Per cogliere le cause di questo mutamento bisogna riferirsi ad un ciclo economico che faceva diventare protagonisti il grano ed i bozzoli. Già nella seconda metà del Settecento la domanda ed il prezzo dei cereali erano cresciuti e la Lombardia era divenuta esportatrice di grano ed in genere di prodotti agricoli; lo stesso avvenne per i bozzoli e la seta grezza, la cui domanda mondiale era fortemente dinamica: nella seconda metà del Settecento, l’esportazione di seta greggia filata lombarda passò dalle 186.000 libbre del 1751 alle 500.000 del 177812 e alla fine del primo decennio dell’Ottocento il De Capitani d’Hoé definiva le gallette Appendizi e obblighi aggiunti a carico del mezzadro Il “fitto misto” come conseguenza del nuovo ruolo di grano e bozzoli 75 Il gelso diventa “il fondamento dell’economia agricola lombarda” “nostra principale ricchezza”.13 I proprietari individuarono con chiarezza che da qui potevano trarre guadagni sicuri e crescenti e premettero sui coloni, tramite i patti agrari, per ottenere maggiori quantità di grano e - soprattutto - di foglia di gelso e di bozzoli. Gelsicoltura e bachicoltura ebbero un trend di crescita costante per molti decenni ed a metà dell’Ottocento costituivano “il fondamento dell’economia agricola lombarda”14 e, nel contesto regionale, il distretto di Lecco emergeva come uno dei territori a più intensa bachicoltura.15 In provincia di Como, la prima metà dell’Ottocento vide crescere complessivamente, anche se con andamento non continuo, il raccolto di bozzoli che dal 1815 al 1852 triplicò, passando da 7.005 a 23162 quintali Raccolta di bozzoli nei distretti del Dipartimento del Lario, 1815 (q.li) 8000 7000 6000 829 1740,5 Lecco Como Varese Menaggio 5000 4000 1490 3000 2000 2945,5 1000 0 Nel 1854, i mandamenti di Lecco, Oggiono, Brivio, Missaglia produssero 4.856 quintali di bozzoli, pari al 70% di quelli prodotti nel circondario di Lecco e al 27% del totale dell’allora provincia di Como, che comprendeva anche 76 Varese. Interessante per noi è osservare la distribuzione territoriale di questa produzione: ,, ,, ,, , ,, ,, Bozzoli prodotti nei distretti lecchesi 300000 38815 63905 14940 200000 56853 20498 100000 0 34135 6700 56644 39560 49856 22370 Lecco Oggiono Brivio Missaglia Bellano 80840 57840 39720 49300 1858 - 1859 1860 Questi numeri significavano, per il contadino, un considerevole aggravio di lavoro e se per il piccolo proprietario questo incremento di fatica era compensato da un guadagno, per il colono significava spesso maggiore povertà.16 Infatti, in genere la foglia era di completa spettanza del proprietario, ma anche quando rimase vivo il patto di mezzadria sui bozzoli, spesso il mezzadro non riceveva pagamenti, perché il valore corrispondente era trattenuto dal proprietario come diminuzione del debito o come caparra sui fitti; c’é poi da considerare che se il pagamento al colono della quantità corrispondente alla metà dei bozzoli era previsto a fine stagione, spesso il proprietario riconosceva il prezzo vigente in quel momento, normalmente inferiore a quello di vendita. E non era tutto: come si sa, i bachi venivano allevati Il lavoro tocca al colono, la foglia spetta al proprietario 77 L’espandersi del gelso rese “oggettivamente oppressivo” il patto colonico Il gelso: un’espansione di proporzioni gigantesche 78 nelle case dei contadini e perciò, quando calcolava la metà dei bozzoli a scomputo dell’affitto per l’abitazione, il proprietario di fatto caricava sul colono una parte ulteriore delle spese di produzione, oltre alle ore di lavoro per predisporre i castelli, curare i gelsi, raccogliere la foglia. Foglia necessaria in grande abbondanza, poiché “per far crescere un’oncia di seme-bachi (che poteva poi dare una produzione di settantacinque-ottantacinque chili di bozzoli) erano necessari oltre mille chilogrammi di foglia”17 ed a volte capitava che il padrone consegnasse ai coloni una quantità di seme-bachi superiore alla foglia disponibile, costringendo così il colono stesso a compartecipare alla spesa per l’acquisto della foglia mancante. Ma anche senza questo aspetto peggiorativo, l’espandersi del gelso su tutti i fondi aveva reso “oggettivamente oppressivo” il patto colonico perché comportava un grande incremento di lavoro non adeguatamente compensato e per di più concentrato a ridosso della stagione estiva. Incremento di lavoro che non era dato soltanto dalla cura delle piante e dei bachi, ma anche dal diffondersi dei gelsi, che rendeva più difficoltoso ricorrere all’aratro e obbligava all’uso della vanga, con conseguente maggior fatica. E quanto ciò pesasse lo si può evincere dall’espansione del gelso, che fu di proporzioni gigantesche: in un secolo passò da 78.000 (anno 1734) a quasi 3.000.000 piante (anno 1846); la loro densità arrivò, per la zona di collina, da circa 12 gelsi ogni 10 ettari nel 1734 ai quasi 71 del 187518; ma ciò che ancora più importa é che i gelsi erano presenti praticamente su tutta la superficie migliore: a metà del 1800, “nei distretti di Brivio, Missaglia Oggiono (...) il 100% degli aratori risultava coperto di gelsi”19 e nel Distretto di Lecco, la percentuale superava il 93%. La qual cosa creò altri problemi ai contadini, che dove- vano fare i conti con l’ombra delle piante e quindi con minori rese, proprio mentre aumentavano le pretese dei padroni. Il “furore di piantar gelsi” si rivelò dunque pesantissimo per il mezzadro; ancora in anni recenti una donna di Monte Marenzo, di famiglia mezzadrile, intervistata da Cristina Melazzi, ricordava con sollievo il momento in cui il proprietario, alla metà degli anni Cinquanta di questo secolo, fece tagliare i gelsi: ‘passati i gelsi é passato metà lavoro per noi contadini’. Ma rimaniamo al secolo scorso per un’ultima annotazione sulla modifica dei patti agrari verso il fitto misto: oltre la presenza dei gelsi, anche le crescenti richieste di grano a titolo di affitto contribuirono a spingere i coloni alla vangatura, che muove la terra più a fondo dell’aratro e quindi permette maggior raccolto; ancora, dunque, maggior lavoro a fronte di nessun miglioramento delle proprie condizioni. Anzi, il diffondersi e l’inasprirsi dell’affitto a grano é da più parti considerata una delle principali cause del peggioramento del regime alimentare dei contadini e quindi del diffondersi della pellagra20: superfici sempre maggiori (fino a superare il 50% della superficie del fondo) da destinare al frumento che poi va tutto al padrone, lasciavano al colono quasi solo vino e granturco e lo mettevano in competizione alimentare con le proprie bestie, competizione aggravata dal forte indebolimento degli usi civici. Più ombra vuol dire minor resa Dall’inasprirsi del fitto a grano alla diffusione della pellagra 2.3) Cala il prezzo del grano e arriva la fillossera: inizia la crisi In questa situazione, sempre precaria e debole, si abbatterono, nell’ultimo ventennio del secolo, quattro eventi che determinarono una fase di depressione nota come “la crisi di fine secolo”. 79 La fine del secolo XIX° segna l’inizio della crisi I prezzi di frumento e granturco non coprono i costi di produzione 80 I quattro eventi furono: - la caduta dei prezzi dei cereali, che già si era manifestata in Europa; - il negativo andamento del mercato dei bozzoli, la cui produzione a metà degli anni Settanta, si era ripresa dopo la ventennale crisi dovuta alla pebrina; - il diffondersi della fillossera della vite, che giungeva quando la crittogama, presente negli anni Cinquanta del secolo, era stata superata. - la crescente richiesta di manodopera da parte delle manifatture In questa sede ci limitiamo a presentare alcuni dati, per farne il punto di partenza di una breve ricostruzione di quella che fu la risposta di proprietari e conduttori. La crisi arrivò dura e colpì rapidamente: in Italia il prezzo al quintale del frumento, passò dalle 31,50 lire del 1880 alle 23,42 del 1883 e nel comasco, in quegli anni, il prezzo era inferiore alle 24 lire a fronte di costi di produzione compresi, secondo il Circolo agrario di Como, tra le 25 e le 30 lire21, un livello che i prezzi raggiunsero soltanto negli ultimissimi anni del secolo (26 lire/q. nel 1897, 27,86 lire/q nel 1898 e poi di nuovo in calo, a 25,53 lire/q nel 1900). Per tutto il ventennio finale del secolo XIX, assieme ai prezzi restarono sostanzialmente stabili sia la produzione che la resa per ettaro, completando così il quadro di una produzione che non dava soddisfazione ai proprietari dei fondi. Insoddisfazione non controbilanciata dall’aumento della produzione di granoturco, che aveva prezzi inferiori, i quali oltretutto, almeno a metà degli anni Ottanta, venivano giudicati al di sotto dei costi di produzione di oltre 5 lire al quintale e tali restarono per molti anni.22 Se i cereali soffrivano, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento certamente non meglio andava la vite, attac- cata dalla fillossera a partire almeno dal 1879. Nella prima parte del secolo la viticoltura aveva avuto un andamento altalenante, con annate discrete, da produzioni significativamente superiori ai 200.000 ettolitri, e annate scarse, con produzioni, in media, di circa 150.000 ettolitri. La produzione ebbe notevoli difficoltà negli anni Quaranta ed ancora più negli anni Cinquanta, quando le viti vennero colpite dalla crittogama. Ma furono gli ultimi venti anni del secolo scorso a dare, praticamente, il colpo di grazia alla viticoltura, rinchiudendola nel recinto dell’autoconsumo. Recinto poco interessante dal punto di vista di un’agricoltura capace di svilupparsi, ma ugualmente importante nella vita e nel lavoro dei contadini, che comunque continuarono ad accudire le vigne. Uno sguardo all’andamento della produzione permette di individuare l’andamento incerto di questo settore ma soprattutto il fatto che dopo il 1881, la produzione rimase costantemente e spesso di molto al di sotto dei 100.000 ettolitri, con una sola ed isolata eccezione nel primo anno del nostro secolo.23 L’impatto della fillossera fu dunque fortissimo su un settore che non era mai davvero decollato24. L’infezione, del La vite nell’Ottocento un andamento altalenante Produzione di vino in provincia di Como (hl) 30000 243529 20000 122902 117260 122902 105000 10000 91108 86030 87488 65000 64305 48914 7519 0 1816 1826 1836 1846 1856 1870/74 1881 1885 1890 1895 1900 1905 81 Errori ed omissioni aiutano la fillossera Alla metà degli anni ottanta la cocciniglia colpisce i gelsi 82 resto, fu aiutata anche dalla scarsa conoscenza e dalla mancata denuncia dei focolai da parte dei proprietari e dei contadini. Le autorità prescrissero di eliminare le viti infette e nel 1883 erano 47 gli ettari di viti estirpati, su un totale di 16.031 messi a vigna: pochi per giustificare un così drastico calo della produzione e segno che la malattia era più diffusa di quanto denunciato ufficialmente. La crisi della viticoltura dovette poi avere un particolare peso nel territorio lecchese, perché sia dai ronchi lungo le sponde del lago, sia soprattutto dai distretti di Oggiono e di Missaglia veniva una parte non trascurabile della produzione dell’intera provincia: nel 1840, ad esempio, le colline lecchesi produssero il 18% dei 209.960 ettolitri ricavati dalle vigne provinciali. La malattia, la diminuita qualità del vino prodotto e le crescenti difficoltà di commercializzazione, anche per la concorrenza di altri vini, determinarono un drastico calo delle superfici a vite, che passarono dai 14822 ettari del 1890 ai 5000 del 1908. Se la vite correva seri pericoli, la bachicoltura dovette fare i conti, oltre che con un andamento insoddisfacente dei prezzi (in Italia, i bozzoli passarono dalle 6,81 lire al kg del 1873 alle 3,56 di dieci anni dopo) con un nuovo parassita, la cocciniglia, (Diaspis pentagona) che colpì i gelsi alla metà degli anni Ottanta. In questo caso i proprietari, che vedevano compromessa la loro principale fonte di reddito, intervennero con più decisione sia a tutela delle piante, sia nella ricerca di varietà di seme-bachi che resistesse alle malattie e avesse buone rese. Ciò consentì alla bachicoltura di superare il giro del secolo senza gravi traumi, ma anche in questo caso mancò la capacità - e probabilmente la possibilità - di dare nuovo impulso al settore. Ci fu, nella seconda metà dell’Ottocento, un certo incremento del patrimonio zootecnico, soprattutto bovino. Ma anche in questo caso più che ad una pensata strategia di valorizzazione delle produzioni animali, siamo probabilmente di fronte ad una risposta difensiva. I prodotti dell’allevamento, infatti, non venivano divisi e quindi garantivano il colono più di quanto non lo garantissero le altre produzioni. Il proprietario, dal canto suo, riscuoteva il fitto del terreno lasciato a prato. In ogni caso, anticipando un poco il discorso sul Novecento, anche l’incremento del patrimonio zootecnico avrà una brusca frenata a cavallo dei due secoli e poi anche in questo campo inizierà il declino. Se in collina la crisi di fine Ottocento provocò le difficoltà che abbiamo visto, in montagna determinò un ulte- Una debole difesa viene dall’allevamento Patrimonio zootecnico in provincia di Como 110000 100000 90000 80000 70000 60000 50000 40000 30000 20000 10000 0 BOVINI 1815 SUINI 1841 CARPINI 1881 OVINI 1908 1930 EQUINI (*) riore rimpicciolirsi delle proprietà: al tradizionale frazionamento ereditario si aggiunse infatti la vendita degli appezzamenti da parte di coloro che emigrano. Il possesso fondiario subì quindi un processo di vera e propria polverizzazione ed anche quando gli acquisti erano fatti da altri proprietari del luogo, non riuscirono mai a formare proprietà contigue di una certa estensione. La piccola proprietà con83 In montagna la proprietà si polverizza Il castano, “albero del pane” tinuò dunque a possedere superfici che a fatica arrivano all’ettaro ed in questa situazione le residue, ma ancora estese, proprietà comunali venivano mantenute perché era grazie all’erba ed al legname forniti dagli usi civici, che poteva continuare quell’agricoltura di sussistenza. Insomma, a cavallo tra i due secoli, la frantumazione delle proprietà continuava a rendere necessari sistemi di conduzione dei boschi e degli alpeggi che tutelassero i piccoli proprietari del posto; così, ad esempio, nell’affittare gli alpeggi, i comuni prevedevano regole in base alle quali i malgari dovevano portare all’alpe anche le bestie degli abitanti. Per quanto riguarda, invece, gli appezzamenti non coltivati dal proprietario, in montagna alla fine dell’Ottocento prevaleva ancora la mezzadria, pur non mancando qualche affittanza a denaro. In questo contesto di agricoltura povera, tra Ottocento e Novecento le castagne confermarono il loro ruolo fondamentale: presidio alimentare, mezzo di vendita o di scambio con altri prodotti, contributo all’alimentazione degli animali, le castagne continuarono ad essere coltivate e raccolte in quantità crescenti. Il raccolto di castagne in provincia di Como passò dai 33891 quintali del periodo 1881/85 ai 62922 del 1912/14. 3) Il Novecento 3.1) Proteste e manifattura: si scardina il precario equilibrio Alla crisi di fine Ottocento i proprietari, tranne pochi che tentarono qualche innovazione, risposero nel modo consueto e cioé agendo sui patti colonici. Lo fecero soprattutto in due direzioni: trasferimento agli affittuari di parte rile- 84 vante dei carichi fiscali ed aumento delle giornate di lavoro obbligatorie. A tali inasprimenti i contadini reagirono con moti di protesta che interessarono il penultimo decennio del secolo25 e che si aggiungero all’emigrazione, altra grande manifestazione di disagio sulla quale ancora mancano studi specifici per la nostra provincia. Particolarmente contestata fu la richiesta di ulteriori giornate di lavoro ed il contenimento di questi obblighi fu, non a caso, al centro delle richieste dei coloni. Tramite le giornate obbligatorie, infatti, il proprietario praticamente costringeva a restare sul fondo non solo l’affittuario ma tutta la sua famiglia, impedendo o rendendo difficile che alcuni dei membri si occupassero nelle manifatture. Il conduttore voleva invece avere almeno un po’ di voce in capitolo nella gestione della propria forza lavoro e di quella dei familiari e con ciò metteva in discussione l’insieme dei rapporti di produzione vigenti nell’azienda agricola. Inoltre, aggiungendo alle richieste sia l’aumento della mercede per le prestazioni a giornata, sia che le stesse fossero effettivamente pagate e non trattenute a credito dal padrone, contestava la comoda e lucrosa abitudine dei proprietari di tenere come caparra somme di cui la famiglia colonica aveva disperato bisogno. Il peggioramento dei patti agrari che si era manifestato già nel Settecento e che era continuato per tutto l’Ottocento aveva così raggiunto il punto di rottura ed i coloni chiesero di abbondare il contratto misto e di passare al fitto in denaro. Nel breve periodo la protesta non ottenne risultati, a causa della chiusura rigida dei proprietari a difesa del contratto misto, che giudicavano ancora il migliore possibile. Sale la protesta contadina contro le giornate di lavoro obbligatorie 85 Il dinamismo dell’industria sottrae manodopera ad un’agricoltura ferma Nel lecchese si concentra un terzo dell’industria provinciale 86 Ma il territorio era ormai investito da fenomeni nuovi, almeno nelle proprozioni, di cui abbiamo visto il segno anche nella protesta dei coloni. La manifattura, in rapido sviluppo, aveva fame di capitali e di manodopera e, sia per gli uni che per gli altri, entrò in concorrenza con l’agricoltura: il nostro secolo si aprì all’insegna di un dinamismo economico che restava quasi sconosciuto alle campagne. Eppure, nel 1901 l’imposta prediale venne alleggerita addirittura del 52% e già nell’ultimo scorcio del secolo passato i prezzi agricoli avevano dato qualche segno di ripresa. Come abbiamo già visto, dal 1900 al 1914 la produzione di frumento e granturco crebbe e stavolta non più grazie all’aumento delle superfici, che anzi tendevano a ridursi, ma piuttosto a seguito di miglioramenti nella concimazione e nella rotazione, miglioramenti ottenuti in particolare con l’eliminazione del secondo raccolto e l’estensione della patata, che negli anni dal 1985 al 1915 guadagnò 2700 ha di superficie (da 3.412 a 6.100) e 500.000 quintali di produzione (da 205.000 a 707.000). Ma tutto ciò non compensò il calo del gelso e della vite, sul quale influì anche la scarsità di manodopera: gelso e vite richiedevano molto lavoro e la concorrenza della manifattura adesso si faceva sentire. Tra il 1912 ed il 1914 nei mandamenti di Lecco, Bellano, Brivio, Oggiono e Missaglia vennero censite 149 manifatture tra cotonifici, tessiture e meccaniche; nella provincia di Como i telai meccanici passarono dai 371 del 1890 ai 9649 del 191426. Sempre nel 1914 nel circondario di Lecco si concentrava il 34% delle industrie dell’intera provincia di Como (che comprendeva anche Varese). Dobbiamo purtroppo limitarci a questi brevi cenni, che bastano però ad apprezzare quanto scive Giancarlo Galli: “l’agricoltura comasca dovette subire in misura crescente la concorrenza delle manifatture sul terreno della ricerca della manodopera. (...). Questo fu anche l’elemento che a medio e lungo termine scardinò il tradizionale fitto misto (...). La possibilità di ricorrere all’impiego nell’industria fornì ai coltivatori un’alternativa a un patto considerato poco remunerativo.”27 E’ in questo intreccio di agricoltura meno remunerativa e nuovi sbocchi per la manodopera di origine agricola che trovò terreno fertile, soprattutto dopo la Prima Guerra, l’affitto a denaro: i proprietari potevano così restare percettori di rendita senza correre troppi rischi e senza davvero impegnarsi nell’agricoltura ed i coloni, raggiunta maggiore autonomia personale, potevano dedicarsi alle produzioni che meglio convivevano con quell’autonomia, che riguardava loro e tutta la famiglia. 3.2) Cresce la piccola proprietà, il gelso, si contrae la vite: l’agricoltura diventa residuale. Col nuovo secolo il fitto a denaro sostituisce il fitto misto finisce In questo contesto si determinò un altro passaggio estremamente importante: Tra il 1919 ed il 1929, infatti, avvenne - anche in Brianza - una radicale trasformazione nella distribuzione della proprietà della terra: i grandi fondi vennero progressivamente suddivisi a vantaggio della piccola proprietà che, potremmo dire, ‘scese dalla montagna’ e guadagnò terreno in una zona da cui non era stata certo assente, ma dove alla fine degli anni Venti appariva con una presenza molto maggiore di quella che aveva all’inizio del secolo. Nel decennio suddetto, nella Brianza collinare della (allora ) provincia di Como e di Milano, ben 20.000 ettari sui circa 50.000 totali passarono ai contadini. La piccola proprietà “conquista” la Brianza 87 I proprietari terrieri investono nell’industria. I contadini comprano la terra Un trasferimento gigantesco, che interessò il 40% della superficie considerata. Gli attori di questo fenomeno, ancora da studiare nel dettaglio per i nostri territori, furono da un lato i proprietari, progressivamente meno interessati a fondi che davano rendite decrescenti e dall’altro i coloni che, grazie ai più vantaggiosi contratti di affitto in denaro e al salario guadagnato da altri membri della famiglia, avevano qualche disponibilità da investire nell’acquisto di piccoli appezzamenti. Si determinò così un intreccio che meriterà di essere indagato: mentre i proprietari terrieri o i grandi affittuari tendevano ad indirizzare una parte dei loro capitali verso l’investimento industriale, molti coloni diventavano piccoli proprietari riversando sulla terra i loro guadagni di origine agricola e, via via prevalentemente, industriale. Lo snodo é stato il decollo industriale del lecchese, il cui impatto sulla disponibilità di forza lavoro contribuì a ridisegnare, anche nelle campagne sia i rapporti di produzione che la distribuzione della proprietà . Nei primi decenni del Novecento, la situazione é dunque profondamente cambiata: piccola proprietà e piccolo affitto in denaro, diminuzione dei pigionanti e dei lavoranti a giornata, possibilità per i coloni di impiegare la loro forza lavoro non in modo obbligato, ma alla fine di un bilancio di convenienze sono i principali segni del cambiamento. Tutto ciò introduce un ulteriore elemento di scardinamento degli assetti tradizionali: mentre fin qui il lavoro industriale era integrativo di quello agricolo, ora compare la tendenza inversa, che farà diventare il lavoro agricolo prima integrativo e poi subalterno ed anche accessorio rispetto a quello industriale. Tutto ciò non poteva non influenzare il lavoro agricolo e 88 quindi le colture e la prima conseguenza importante fu il tramonto definitivo delle produzioni che necessitavano di maggior quantità di territorio e di mano d’opera. Illuminante é al proposito l’andamento della bachicoltura: dopo aver mantenuto buoni livelli produttivi per i primi quindici anni del nostro secolo, fin dai primi anni Venti iniziò il tracollo: Un po’ meglio andavano altri prodotti ‘forti’ delle nostre zone, come il frumento ed il mais, che nel trentennio considerato conservano sostanzialmente le quantità; l’unico prodotto ad andare veramente bene fu la patata che, rimasta Il lavoro agricolo diventa integrativo e accessorio di quello industriale Produzione di bozzoli in provincia di Como (q.li) 20000 19921 13366 10000 5790 4941 2070 0 191 2/ 1 4 1 92 6/ 3 0 1 9 3 1 /3 5 1 9 3 6 /4 0 1 9 4 1 /4 5 1260 1 9 4 6 /50 in ombra fino alla fine dell’ottocento, nei primi decenni del nostro secolo conobbe un incremento davvero significativo. Incremento dettato sia all’adattabilità alimentare che, almeno per il periodo esaminato, dalla discreta remuneratività del prodotto. Siamo all’inizio della seconda guerra mondiale, cioé alla vigilia di un nuovo punto di svolta della storia e dell’economia italiana e del nostro territorio. Dopo la guerra, le produzioni agricole non raggiunsero più i livelli degli anni Trenta: le superfici coltivate subirono Crolla la bachicoltura, “tengono” frumento e mais, cresce la patata 89 fin dal primo dopoguerra una rapida diminuzione, eccezion fatta per il mais. Ma ormai siamo definitivamente entrati nella fase in cui l’agricoltura viene abbandonata, anche se gli ex agricoltori ed i loro famigliari non lasciano del tutto la campagna, ma continuano a coltivare appezzamenti sempre più piccoli nelle ore libere dal lavoro industriale. 90 Note 1 Bruno Caizzi, Il comasco sotto il dominio spagnolo, Como, 1955, pag. 146. L’analisi del Caizzi, seppur riferita ai territori occidentali della ex provincia di Como, é certamente di grande interesse anche per i territori dell’attuale provincia di Lecco. 2 Cfr. Giancarlo Galli L’evoluzione mancata dell'agricoltura, in Sergio Zaninelli (a cura di) Da un sistema agricolo a un sistema industriale. Il comasco dal settecento al novecento, Annali dell’economia comasca, I, Il difficile equilibrio agricolo-manifatturiero (1750-1814) CCIAA Como, 1987, pag. 21 3 Raul Merzario Il capitalismo nelle montagne Il Mulino, Bologna, 1989, pag. 22 4 I dati dei grafici che seguono sono ricavati da Cfr. Giancarlo Galli, L’evoluzione mancata, cit, pp. 25-26 5 Da qui la principale spinta all’emigrazione, che ha portato gli uomini ad abbandonare non solo la montagna, ma anche l’attività agricola tout court. Gli emigranti della montagna, infatti, andavano all’estero (Francia, Svizzera e poi America) o in altri Stati (ad esempio dalla Valsassina a Bergamo e Venezia), dove in genere non esercitavano più attività agricole. Per questo tipo di emigrazione, vedi Raul Merzario Il capitalismo.., cit, pp 45-59; testimonianze sull’emigrazione stagionale dalla val Varrone alla Svizzera interna per esercitarvi l’attività di muratore sono in Angelo De Battista, “Ol carnelvà” di Sueglio, in AES, materiali, studi ed argomenti di etnografia e storia sociale, Ed. Diacronia, anno I°, n. 2, pp. 20 e 26-27. Per il tema dell’emigrazione in generale, vedi tra gli altri, anche per la ricca bibliografia: A. Lazzarini L’Italia fuori d’Italia, in AAVV Vita civile degli italiani. Società, economia, cultura materiale, vol 5°, Electa, Milano, 1990 6 Il grafico che segue é costruito su dati pubblicati in Raul Merzario Il capitalismo.., cit, pp. 23 e 26. 7 U. Marcelli, La vendita dei beni nazionali nella Repubblica Cisalpina, Bologna, 1967. Citato in Giancarlo Galli, L'evoluzione mancata, cit, pag.81. 8 Giancarlo Galli L’agricoltura alla ricerca di un equilibrio in Sergio Zaninelli (a cura di) Da un sistema agricolo a un sistema industriale. Il comasco dal settecento al novecento, Annali dell'economia comasca, II, La lunga trasformazione tra due crisi (1814-1880) CCIAA Como, 1988, pag.87 9 Cesare Cantù, Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, Milano, 1858. I dati qui presentati sono estrapolati da quelli relativi a tutta la provincia di Como. Per un confronto (prudente!) con la tabella relativa alla metà del Settecento, si consideri che i distretti di Lecco e Bellano equivalgono sostanzialmente alla Agenzia Catastale di Lecco, mentre quelli di Brivio e di Missaglia sono riconducibili all’Agenzia catastale di Merate. 10 De Capitani D’Hoé, Memoria prima sull’agricoltura del Monte di Brianza, Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia, tomo III, luglio, agosto, settrembre 1809, pp. 130-131. 91 11 Raul Merzario Il capitalismo.., cit, pag 40 Traggo questi dati da: Renato Levrero, Accumulazione di capitale e formazione del proletariato di fabbrica. Il caso lecchese (17501840) in Renato Levrero, Maria Vittoria Ballestrero, Genocidio perfetto. Industrializzazione e forza lavoro nel lecchese, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 10-11. 13 De Capitani D’Hoé, Memoria prima..., cit, pag. 131. 14 Roberto Leydi, Il gelso e la vanga, in Roberto Leydi e Glauco Sanga (a cura di) Como e il suo territorio, Collana Mondo Popolare in Lombardia, Silvana Editoriale, Milano, 1978, pag. 29 15 I due grafici seguenti sono costruiti su dati tratti da Giancarlo Galli L’agricoltura alla ricerca..., cit, pp 76-85 e 135-138. 16 Sul peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei mezzadri conseguente all’introduzione del fitto a grano e alla gelsibachicoltura vedi, in particolare, Renato Levrero, Accumulazione di capitale, cit, pp. 10-14; Raul Merzario Il capitalismo.., cit, pp. 93107; Roberto Leydi, Il gelso e la vanga, cit, pp. 30-31, Giorgio Giorgietti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna, Einaudi, Torino, 1974, pp. 296-297 17 Roberto Leydi, Il gelso e la vanga, cit, pag. 37. Per la verità una quantità di 80/85 kg di bozzoli per un’oncia di seme bachi sembra eccessiva. La foglia veniva così somministrata, lungo le cinque età del baco: 1^ età 5 kg; 2^ età 15 kg; 3^ età 50 kg; 4^ età 230 kg; 5^ età 700 kg. Cfr ibidem. 18 Giancarlo Galli L’agricoltura alla ricerca..., cit, pag 29 19 idem, pag. 30 20 Cfr Raul Merzario, Il capitalismo.., cit, pp. 101-104 21 Cfr. Claudio Besana, La realtà agricola tra tentativi di trasformazione e industrializzazione, in Sergio Zaninelli (a cura di) Da un sistema agricolo a un sistema industriale. Il comasco dal settecento al novecento, Annali dell'economia comasca, III, L’affermazione industriale (1880-1914), CCIAA Como, 1989, pag. 14 ed appendici 9-10-13. 22 ibidem 23 Questo grafico ed i due successivi sono costruiti su dati estrapolati da Giancarlo Galli, L’agricoltura alla ricerca..., cit, appendice 11 e da Claudio Besana, La realtà agricola.., cit, appendice 18 24 Una trattazione completa dell’infezione fillosserica é stata svolta da Sergio Zaninelli, Un tema di storia dell’agricoltura italiana fra Otto e Novecento: la diffusione della fillossera e il rinnovamento della viticoltura, in Fatti e idee di storia economica. Studi dedicati a Franco Borlandi, Bologna, 1976. 25 vedi, in proposito, Franco Della Peruta, Il movimento contadino nell’alto milanese, in ‘Storia in Lombardia’ anno III, n° 3, 1984. 26 Traggo questi dati da Luigi Trezzi, La definizione di un’area manifatturiero-industriale, in Sergio Zaninelli (a cura di) Da un sistema agricolo a un sistema industriale, cit, pp. 243 e 122 27 Giancarlo Galli, Un’agricoltura difficile, in G. Rumi,V.Vercelloni, A. Cova, Como e il suo territorio, Cariplo, 1955, pag 329 12 92 Gli attrezzi tradizionali in una prospettiva agrituristica di Italo Sordi Nel guardarmi intorno per radunare le idee per questa conversazione, mi sono reso conto di quanto scarsa sia stata finora la comunicazione, e ancor più quindi la collaborazione tra la ricerca sul mondo agropastorale tradizionale – che nel corso degli ultimi trent’anni ha peraltro conosciuto e conosce approfondimenti teorici e conoscitivi di tutto rispetto – e i settori che si occupano professionalmente della valorizzazione sul piano sociale ed economico di quanto ancora di quel mondo sussiste o sopravvive. Gli antropologi, in altri termini, non hanno a tutt’oggi elaborato nessun modello di intervento che possa aiutare ad esempio gli operatori del turismo a raggiungere una corretta comprensione dei caratteri specifici di una realtà minacciata e fragile qual è il mondo agricolo e artigiano tradizionale. Le ragioni di ciò sono probabilmente da individuare nel fatto che la rinascita degli studi di tradizioni popolari in Italia, iniziatasi a partire dagli anni ’60, ha rappresentato una netta e programmatica rottura con il vecchio modo di occuparsi del mondo popolare: in una chiave cioè passatistica e celebrativa, ispirata a un’idealizzazione di maniera, e legata a forme di intervento di impronta dopolavoristica. Quest’inevitabile rottura portava con sé il rifiuto di ogni atteggiamento di rimpianto per un passato di cui i nuovi studi rilevavano finalmente le durezze, le sofferenze, le condizioni di sfruttamento, la miseria: e quindi ovviamente anche, e a maggior ragione, veniva a negare 93 Le tendenze nella progettazione e realizzazione delle raccolte etnografiche 94 la liceità stessa – oltre alla possibilità storica – di qualsiasi intervento destinato a perpetuare in qualche modo l’esistenza di quei modi di vita, o a ritardarne la disgregazione. Oggi, anche a livello teorico possiamo forse rivedere queste posizioni – senza che ci sia bisogno di rinnegarle – e pensare, come antropologi, a elaborare delle proposte di intervento che dal nostro punto di vista risultino corrette – rispettose cioè dei caratteri storici del mondo agricolo e artigiano – e in particolare a mettere in guardia contro quelli che sempre dal nostro punto di vista possiamo considerare dei rischi: rischi culturali, innanzi tutto. Questo in tutta modestia e senza assolutamente pretendere – almeno per quello che mi riguarda – di insegnare il suo mestiere a nessuno e meno che mai, ai responsabili, a vario titolo, delle attività agrituristiche. La mia esperienza di ricercatore mi ha messo a lungo in contatto, fra altri aspetti del mondo tradizionale, con la cultura materiale: con gli oggetti e gli attrezzi che sono serviti o servono a mettere in atto le tecniche produttive in quel mondo, sia nel settore agricolo in senso lato, sia in varie attività artigiane (questo anche in provincia di Lecco, con Premana) e, di conseguenza, con musei e collezioni che si propongono di documentare e conservare i segni di quelle culture. Sugli oggetti e sulle tecniche tradizionali concentrerò dunque la mia attenzione, per formulare alcune considerazioni e alcune proposte: proposte che, ne sono ben conscio, avranno in larga misura un carattere che non esito a definire utopistico. Attualmente, nella progettazione e nella realizzazione di raccolte etnografiche, o di musei della cultura tradizionale, si delineano due tendenze notevolmente diverse. L’una, spesso dovuta a iniziative di carattere privato e semipubblico, si propone di formare collezioni che riuniscono gli attrezzi e gli arredi che documentano la cultura locale nel suo insieme, o dando rilievo a particolari attività artigianali o agricole tipiche del passato locale: si tratta di una concezione del “museo” di tipo tradizionale (usando qui il termine nel suo significato riduttivo) o per meglio dire convenzionale, cioè di collezione in sé conchiusa e ospitata in un, diciamo così, contenitore chiuso – l’edificio del museo. Esperienze del genere – realizzate ai più diversi livelli di consapevolezza culturale – sono ormai, come mostra il catalogo che ne hanno pubblicato per l’editore Olschki G. Forni e R. Togni, estremamente numerose, e vanno dalle grandi raccolte, addirittura con migliaia di pezzi, alle piccole collezioni disposte magari sulle pareti di un ristorante. Se questa tendenza – molto meritevole e molto interessante sotto diversi aspetti, ma certo suscettibile di vari aggiustamenti di tiro – è destinata a proseguire, tra non molto ogni paese (e sottolineo paese: le città appaiono del tutto o quasi del tutto indifferenti al fenomeno) avrà un suo museo etnografico di questo tipo, così come ha la farmacia. Né la cosa mi sembra così negativa, come certi pubblici amministratori mostrano di pensare. Dall’altro lato, a livello di riflessione museografica (e forse in misura un po’ minore, a livello di realizzazione museale) va oggi prevalendo in questa materia una concezione che si potrebbe chiamare del “museo diffuso”, di un museo che – pur facendo in varia misura riferimento a una struttura museale centrale – si identifica in sostanza con tutte le presenze e le permanenze dei segni della cultura popolare tradizionale riconoscibili sul territorio; e di tutti quei segni e di tutte quelle presenze si fa carico per quanto concerne il loro studio, la loro conservazione, la loro valorizzazione sul piano culturale (e per quanto ci riguarda, turistico). E va notato che le realtà che in questa concezione ... il museo tradizionale... ... e il museo diffuso... 95 Il museo etnografico deve restare museo di cose, ma senza sacrificare il concreto rapporto tra esse e la fatica e l’intelligenza dell’uomo 96 entrano nella – diciamo così – sfera di competenza del museo non sono soltanto di ordine materiale (come, poniamo, cascine o mulini o lavatoi o cappelle: e l’elenco dovrebbe essere molto più lungo, e venire a comprendere tutte le tracce dell’intervento umano sul paesaggio) ma anche di ordine spirituale: e devono inglobare le pratiche e i saperi tradizionali che hanno ispirato e guidato la creazione di quelle realtà materiali, e che stanno per così dire a monte della costruzione di quegli oggetti tradizionali che il museo, anche in questa sua nuova forma, è ovviamente chiamato a raccogliere, a conservare, a far conoscere. Il museo etnografico deve restare museo di cose, ma non può e non deve sottrarsi al compito di essere lo spazio – spazio ideale e reale – in cui si creano e si conservano le condizioni in cui le attività tradizionali – siano esse l’arte del cestaio o quella del vignaiolo, il mestiere del fabbro o la panificazione – possano continuare ad essere esercitate, e continuare a rilevare il vero significato di quegli attrezzi che del museo popolano le vetrine, a mostrare il loro concreto rapporto con la fatica e con l’intelligenza dell’uomo. Né la vita del passato era fatto solo di attività immediatamente pratiche: esistevano anche il canto, la musica, la festa … Anche qui il museo etnografico deve essere programmaticamente presente: anche i rituali festivi tradizionali devono essere oggetto di studio e anche – a mio avviso – di tutela, e difesi, non foss’altro, dallo stupido sarcasmo degli ignoranti, incapaci di cogliere i valori profondi e l’autentica modernità di certe manifestazioni (la Passione di Barzio, per esempio). Siamo, lo riconosco una volta di più, almeno in parte nel campo dell’utopia: ma, tanto per fare un esempio, ogni anno il museo di Pescarolo, in provincia di Cremona, fa rivivere tutte le fasi della coltivazione e della lavorazione del lino, antica attività locale ormai abbandonata, in un campo della zona, e in un ordine di idee molto simile, il Parco ha organizzato a Montevecchia un corso, tenuto da artigiani locali, per insegnare a costruire i muretti di contenimento in pietra caratteristici della zona. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: ma quello che qui ci interessa è vedere se e come questo atteggiamento nei confronti delle culture tradizionali possa contribuire alla elaborazione di un modello o di una serie di modelli operativi applicabili nel campo dei rapporti fra agriturismo e cultura tradizionale. In ogni caso, non mi sembra affatto assurdo che presso un’azienda, o un complesso di aziende agrituristiche possa costituirsi una raccolta di oggetti tradizionali, in particolare connessi alle attività praticate nell’azienda stessa, e proposti in questa prospettiva all’attenzione dei visitatori. Mi consta del resto (in base al già citato libro di Forni e Togni) che collezioni di attrezzi e oggetti tradizionali costituitesi nell’ambito di iniziative agrituristiche di fatto già esistono. Le modalità d’esposizione di questi oggetti potranno variare all’infinito a condizione, direi, riprendendo un concetto esposto da A.M. Cirese, che siano "a disposizione” dei visitatori, che sia loro possibile toccarli e maneggiarli; ma l’importante sarà chiedersi concretamente, quale sia l’atteggiamento da assumere nei confronti degli oggetti tradizionali in qualche modo coinvolti in un programma di agriturismo. Io credo innanzitutto essenziale che si tenga sempre presente il fatto che l’attrezzo non rappresenta tanto un valore in sè stesso quanto un documento e un segno del lavoro umano, e che quindi esso, per quanto possibile, vada inserito nel contesto produttivo originario, e non estrapolato da esso: l’oggetto deve poter sollecitare domande, e non soltanto generiche curiosità. Mi sembra che, proprio in quanto documento di anti- Le collezioni di attrazzi e oggetti tradizionali nelle aziende agrituristiche e i modelli operativi applicabili nei rapporti fra agriturismo e cultura tradidionale 97 L’attrezzo non rappresenta un valore in sè stesso, ma un documento e un segno del lavoro umano, da non manipolare e stravolgere arbitrariamente. 98 chi modi di vita, di precise capacità di adattamento all’ambiente, di abilità tecniche spesso stupefacenti, l’oggetto contadino e artigiano tradizionale meriti anzitutto rispetto, anche ai livelli che sto ipotizzando. Certo, molti oggetti d’uso tradizionale hanno anche un fascino estetico indiscutibile (anche se vi sono studiosi che lo negano): ma questo non ci autorizza a considerarli esclusivamente da questo punto di vista, e meno che mai a manipolarli e stravolgerli arbitrariamente, trasformando gioghi da buoi in attaccapanni, ruote di carri in lampadari, culle in portavasi. Questa idea di un rispetto per l’oggetto in quanto segno dell’uomo, come presenza di una memoria non da idealizzare ma da comprendere dovrebbe anche convincere a evitare certi interventi di “restauro” che vengono a costituire sottolineature arbitrarie e – mi si permetta – di cattivo gusto dell’aspetto estetico dell’attrezzo. Certe mordenzature lucidature cerature dei legni probabilmente nelle intenzioni sono destinate a nobilitare l’oggetto tradizionale, a conferirgli uno status in qualche modo pari a quello degli oggetti di antiquariato di provenienza “alta”: ma si tratta di una collocazione che non compete loro, e che non può essere che fuorviante. E sarei anche del parere di non eliminare col restauro (che può comunque essere in sé necessario e che rappresenta un discorso a parte) le tracce delle ripartizioni che spesso sono estremamente eloquenti rispetto all’atteggiamento che nel mondo tradizionale si aveva verso l’oggetto. Penso ad esempio a certi piatti o a certi vasi in ceramica che, spezzati accidentalmente, venivano riparati da particolari artigiani itineranti, “ricucendo” i pezzi con punti di filo di ferro fatti passare in serie di fori praticati con un apposito trapano a mano lungo i due lati della rottura. È giusto far sparire col restauro i segni di un simile lavoro, che mi paiono più efficaci di qualsiasi discorso per mostrare concretamente la distanza – distanza economica e culturale – che intercorre tra il mondo d’oggi e il mondo di ieri – al di là di ogni moralismo anticonsumistico, naturalmente? Sempre in nome di una, diciamo pure, serietà di base, mi sembra che ci si debba proporre di evitare l’esibizione di oggetti e attrezzi tradizionali in funzione puramente decorativa, come semplice sfondo di qualcos’altro, a evocare genericamente un mondo agreste più o meno improbabile, come quando i vetrinisti dispongono fra i manichini ricci di castagne carriole e filatoi, e conche per il latte, portacandele e spianatoie fra i sacchetti di soia e i pani ai cinque cereali. Mi pare sia importante e doveroso ricordare che il mondo tradizionale era costruito su due dimensioni apparentemente contraddittorie – e questo in tutti i suoi aspetti, sia nel campo della cultura materiale che in quello della cultura spirituale (se la distinzione ha un senso) : quella di una sconcertante uniformità, da un lato, grazie alla quale motivi narrativi, tecniche di lavoro, rituali, canti, pratiche medicinali e quant’altro appaiono diffusi su aree vastissime (ed è ciò che ci dà la possibilità di parlare legittimamente del mondo popolare tradizionale come di un universo coerente); e, dall’altro lato, la dimensione del particolarismo locale, per cui la cultura di ogni singola area (e di ogni singola comunità) si differenzia in qualche modo da tutte le altre. Senza paradosso, si può affermare che ogni cultura locale del nostro paese è contemporaneamente uguale a tutte le altre e insieme diversa da tutte le altre. In questa prospettiva, mi sembra importante che, quando si decida di creare delle collezioni locali di oggetti tradizionali, questi debbono rappresentare appunto le caratteristiche della cultura locale, e che da esse vadano esclusi oggetti provenienti da altri Il mondo tradizionale era costruito su dimensioni apparentemente contradditorie... ...l’uniformità... ... e il particolarismo 99 luoghi. Inserire l’attrezzo nel suo contesto originario, dicevo. E non solo dal punto di vista espositivo: molte cose possono essere capite a fondo solo parlando con le persone che le hanno usate o che le usano. Un rastrello è sempre un rastrello: ma solo chi lo adopera o chi lo costruisce (quelli usciti dalla fabbrica sono tutti uguali) ti sa dire perché i denti sono di un determinato legno, perché il manico è di quella lunghezza, perché il pettine è più o meno inclinato; o perché un gerlo è di quella particolare altezza, o perché la sua curvatura è diversa da quella di un altro, per il resto del tutto simile. E dall’altro canto, molti oggetti di uso pratico potevano, nel mondo tradizionale, assumere in particolari occasioni impieghi rituali o simbolici: la rocca da filare possedeva il significato di un impegno di fidanzamento; le comuni molle per il fuoco e la paletta per la cenere venivano disposte a forma di croce davanti alla casa come difesa magico-religiosa contro la grandine. Ma al di là di questo, più interessante, più utile e certo anche di maggior richiamo per il pubblico sarà presentare, al di là degli oggetti, alcune delle attività lavorative di cui gli attrezzi stessi sono i protagonisti. Si potrà pensare innanzitutto a proporre la partecipazione (come spettatori, ma anche come collaboratori) ad attività connesse con la domanda di alimenti naturali, come la macinazione dei cereali in mulini di tipo tradizionale, la panificazione domestica, la lavorazione dei formaggi; ma anche ad attività artigiane, in particolare in relazione alla possibilità di acquistarne i prodotti (è il caso per esempio del lavoro del cestaio, o quello della tessitura e del merletto). Non mi sembra neppure irrealistico pensare, in casi come questi, alla possibilità di organizzare dei corsi nei quali l’artigiano insegni la propria tecnica in forma diretta. 100 E’ molto diffusa soprattutto in Francia, ma ve ne sono degli esempi anche da noi, la tendenza a presentare o ripresentare in ambito agrituristico – e quindi facendo loro assumere almeno in parte il carattere di uno spettacolo – le principali scadenze dell’anno agricolo: la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia, la tosatura delle pecore e così via. Il carattere ciclico di queste scadenze avrebbe potenzialmente il vantaggio di creare un legame continuativo tra l’utenza agrituristica e l’azienda. Una spettacolarizzazione del lavoro tradizionale, dicevo: ma non si potrà in questo caso ignorare che lo spettacolo ha propri principi e proprie regole a cui è necessario attenersi, programmandone attentamente la regia, l’organizzazione degli spazi, i tempi dell’azione. E’ abbastanza ovvio che in molti casi si dovrà trattare di riproposizioni compiute a hoc, di ricostruzioni di attività lavorative tradizionali: nel curarle sarà perciò opportuno – sempre in nome di quella serietà di intenti e di procedimenti cui mi sembra bene attenersi – usare alcune cautele che consentano di evitare di proporre delle semplici finzioni, irritanti per qualsiasi pubblico, che non può che percepirle come tali. Ed è evidente che ho parlato di spettacolo in un senso molto particolare: gli “attori” non vi sostengono una parte, ma sono se stessi. Se mi è concesso rifarmi a una esperienza personale, durante l’estate del ’98 nell’ambito delle manifestazioni turistico-culturali in Val Tartano per iniziativa di AREA, associazione per la ricerca etnoantropologica di cui faccio parte, un gruppo di ex-boscaioli ha riproposto il taglio di un abete e le successive fasi della lavorazione del tronco con le antiche tecniche manuali ed i relativi strumenti. La manifestazione ha avuto, mi sembra di poter dire, un notevole successo: ma ha anche suscitato delle critiche, critiche piuttosto sconcertanti, ma su cui mi sembra doveroso soffermarsi.Varie persone 101 fra i villeggianti presenti ci hanno cioè chiesto, visibilmente scandalizzate, se non sarebbe stato più opportuno da un punto di vista ecologico scegliere un albero secco, invece di uno verde, e non contribuire così al depauperamento della natura della valle. Non è stato semplice spiegare a queste persone (e probabilmente non sono riuscito a convincerle) quello che i valligiani eredi della cultura tradizionale sanno benissimo: e cioè che gli alberi sono una risorsa rinnovabile, e che solo rinnovandola – operando i tagli del legname secondo determinati principi – è possibile conservare il bosco. Le stesse critiche ho sentito fare a proposito dell’addobbo delle vie del paese di Cerveno, in Val Camonica, in occasione di una grandiosa processione della Santa Croce, con rami verdi di abete. Ho citato questi episodi, fra tanti analoghi, per sottolineare il fatto che tra il mondo agropastorale tradizionale e il mondo delle città attuali si è creato un vero abisso culturale, che un certo tipo di ecologismo d'accatto non contribuisce certo a colmare. Va riconosciuto chiaramente, mi pare, che la non-conoscenza della realtà agricole e pastorali è totale, tanto da dar luogo a equivoci di volta in volta grotteschi o disastrosi. Ho sentito con le mie orecchie dei visitatori di una azienda agrituristica del Piacentino chiedere in tono scandalizzato se non sarebbe stato più giusto usare il latte delle vacche per nutrire i loro vitelli, invece che per fare il formaggio; un’altra persona deprecava in tono altrettanto scandalizzato che le pecore venissero tosate, ignorando evidentemente che nei nostri climi questi animali se non venissero tosati non potrebbero sopravvivere. Un mio conoscente, la cui famiglia possiede in Val Camonica degli splendidi castagneti ancora coltivati, mi diceva che ogni anno deve combattere con i turisti venuti dalla città che si riversano come cavallette su quei terreni, per raccogliere le castagne, e 102 che reagiscono in malo modo perché sono convinti che le castagne siano un frutto selvatico, su cui nessuno può accampare diritti di proprietà. E un po’ dovunque il turista (spiace usare questo termine con connotazioni negative) tende a imporre a ciò che resta del mondo tradizionale la sua concezione ristretta e artificiosa della “natura”, di quella natura di cui va peraltro alla ricerca. A Montecampione – un centro turistico della Valcamonica, ai cui margini tuttavia le attività di allevamento al pascolo sono ancora molto vive – i villeggianti sono riusciti a imporre all’amministrazione di tagliare con il tagliaerba i prati tra i condomini, eliminando così la fastidiosa erba e tenendo insieme lontane le temutissime vacche. Anche i cani da pastore, che prima circolavano liberamente, sono stati eliminati … Tutto questo per dire che per mettere correttamente e fattivamente in comunicazione la domanda turistica con il mondo dell’agricoltura ho l’impressione che sia necessario anche un notevole impegno sul piano dell’informazione, se non vogliamo ridurre questo mondo, o ciò che ne resta, a una specie di vuoto fantoccio, a un puro pretesto per vendere ricotte e passeggiate a cavallo. 103 Dalla fame all’abbondanza Aspetti dell’alimentazione popolare all’Ottocento al Novecento nel Lecchese di Massimo Pirovano 1. Il mangiare e il bere quotidiani nell’800 1.1 Una monotonia impressionante I primi scritti dell’inizio dell’Ottocento che danno ragguagli interessanti sulle produzioni agricole prevalenti e sui consumi alimentari della nostra zona sono i saggi di Tamassia (1806) e di De Capitani d’Hoè (1809-10). Il primo dei due autori, viceprefetto mantovano a Lecco, ci fornisce un quadro economico molto stringato del territorio lecchese e di quello valsassinese, dal quale tuttavia emergono alcune annotazioni utili sui consumi popolari. Parlando della zona di montagna, scrive testualmente: “Il nutrimento del basso popolo si compone di castagne, di frumentone nero, di miglio, di latte e di formaggio d’inferiore qualità.”(Tamassia: 204) Il secondo, parroco di Viganò, nelle sue memorie sull’agricoltura briantea, pur elogiando la qualità delle verdure nostrane, aggiunge che: “I contadini, però, nelle cui cucine non si conosce il nome di piatanza, e dove senza cuoco alla francese od all’italiana si condisce a stento un poco di minestra od un poco di polenta, non si immischiano molto nell’arte di coltivare e di abbellire gli orti.”(De Capitani, 1809: 165) In generale egli afferma 104 che il granoturco “è divenuto il cibo de’ nostri contadini, ed almeno tre quarti de’ Briantei sono mantenuti con questo pane.” Ad esso si aggiungono occasionalmente castagne, un po’ di vino e pochi formaggi di scarsa qualità e valore nutritivo. Pressoché inesistente sulle tavole popolari risulta essere la carne – compresa quella di maiale, non ancora affermatasi come si riscontrerà più tardi. I polli e i vitelli sono generalmente destinati al mercato, ma i nostri contadini, seppure privi di moltissimi mezzi per vivere decentemente, “costumano di consumare molto latte pel proprio nutrimento”. Il De Capitani giudica, perciò, fin dalle prime pagine dei suoi scritti, la vita delle popolazioni agricole briantee “economa e frugale” a causa della povertà, indotta in primo luogo da una cattiva distribuzione della terra – spesso eccessiva per una singola famiglia di coloni – e alla avidità dei proprietari terrieri, che praticano varie forme di contratto a mezzadria o che richiedono l’affitto in frumento. Anche l’ignoranza, peraltro, fa la sua parte tanto che, ad esempio, le patate “servono ad alimentare il pollame nell’invernata.” (De Capitani, 1810: 136) Ad una trentina di anni di distanza diverse notizie utili sulla Brianza ci sono fornite dallo Spreafico. Il testo è dedicato “all’agricultura e allo stato degli agricultori” di questa zona dai confini incerti o mobili nelle varie epoche. L’autore parla di un popolo operoso e di “una delle più belle contrade d’Europa” che aveva attratto, specialmente da Milano, una classe di possidenti che disponevano qui di molte ville signorili e soprattutto che deteneva buona parte della terra coltivabile. Lo Spreafico infatti insisteva a lungo sul fatto che era “minima in Brianza la superficie posseduta dai contadini e massima quella che appartiene alla classe più ricca.” Ma prima di leggere che cosa lo studioso ci dice a pro105 posito dell’alimentazione dei contadini, è essenziale seguirlo nella distinzione che egli fa nelle pagine introduttive tra le due classi principali di agricoltori della nostra zona: quella dei pigionanti e quella dei massari. I primi, via via più numerosi nel corso dell’Ottocento, erano legati al proprietario da un contratto di affitto quasi sempre a grano, molto oneroso per la famiglia mononucleare dei contadini, che facevano quasi tutto il lavoro a braccia; i secondi, invece, vivevano raccolti attorno al reggitore formando un gruppo di coppie con figli, che possedendo aratro e buoi che consentiva loro di fare “più largo e facile lavoro.” (Spreafico: 142) Senza entrare nel merito dei diritti e dei doveri dei contraenti nei due tipi di contratto più comuni nella Brianza di metà ‘800, risulta evidente dall’esame che lo studioso compie che i massari, se guidati da un reggitore capace, “vivono sempre più agiati dei pigionanti”. Circa l’alimentazione di questi coloni, che vengono rappresentati come laboriosi, avvezzi agli stenti ma anche inclini alla rassegnazione, leggiamo: “I desiderj del contadino, per ciò che riguarda il vitto, sono assai moderati, e riguàrdano più l’abbondanza che la qualità. Egli è pago se non gli manca, mattina e sera, un buon tozzo di pane di granoturco misto con sègale, o una polenta di granoturco; a mezzogiorno una minestra di riso, o di pasta di frumento con càvoli, rape, o legumi: i suoi companàtici sono i produtti dell’orto, e alcuni latticinj; e l’olio, ed il lardo, e talvolta il butirro, sono i condimenti. Gli oggetti che còmpera sono sale, riso, pasta di frumento e lardo; tutto il rimanente è frutto del suo campo. La carne è riservata per le occasioni di nozze e di malattìa, pel giorno di Natale, e presso molte famiglie anche per la festa del paese. Durante i lavori più gravosi, il contadino moltìplica i pasti, e mangia meglio, e spesso 106 beve anche vino, che gli viene rilasciato dal padrone, màssime negli anni d’abbondante vendemmia.” (Spreafico: 166-7) Si noti per inciso, come si parli di alimenti più che non di piatti, e, anche in tal caso, di forme di preparazione assai poco elaborate: se ne ha la conferma che il cibo era indirizzato a procurare la sopravvivenza e a soddisfare un bisogno biologico, più che non a soddisfare un certo gusto. La produzione locale di vino, disponibile in Brianza in grande quantità fino alla metà del secolo scorso, aveva subito specialmente negli anni ‘60 i pesanti contraccolpi dalla “malattia delle viti” causata dalla filossera. L’importanza di questa bevanda nell’alimentazione popolare era notevole dato che poteva fornire un apporto di zuccheri e quindi di calorie a buon mercato per svolgere i lavori più pesanti. Della consapevolezza di ciò resta testimonianza anche nel proverbio “ul vén el fa saanch, l’aqua la fa tremà i gaamp” (il vino fa sangue, l’acqua fa tremare le gambe). 1. 2 La salute precaria: i rischi igienico sanitari Va ricordato, peraltro, che il vino permetteva, almeno nei giorni di festa, di dimenticare le fatiche e le frustrazioni di una vita misera per la maggior parte degli uomini. E’ noto infatti che l’alcool, inducendo un senso di benessere, di allegria e di sonnolenza, può essere considerata come la più antica droga dell’umanità. Non a caso, negli scritti ottocenteschi di taglio sociologico - come in quello dello Spreafico - ricorre il rimprovero, segnato da un moralismo più o meno pesante, per l’abitudine diffusa de ciapà la cióca (di ubriacarsi). 107 Torneremo, parlando del nostro secolo, a parlare del vino e delle osterie, ma il quadro d’insieme sull’alimentazione dei lavoratori della terra fa emergere lo stato di povertà della mensa dei contadini affittuari, sulla quale prevaleva nei giorni comuni la polenta di mais. La coltura di questo cereale, assai redditizio, si era diffusa in Lombardia nel ‘700 per il continuo aumento del prezzo del grano (Braudel: 118). Ciò aveva indotto i proprietari a richiedere al pigionante, nei nuovi contratti che si erano andati sostituendo alla vecchia “masseria”, con la sua divisione dei prodotti a metà, il pagamento dell’affitto proprio in grano, inducendo il contadino a coltivare per sé quasi solo il granoturco che, come vedremo ancora più avanti, sembrava soddisfare meglio le esigenze alimentari della sua famiglia. In un’altra testimonianza ottocentesca del 1865 redatta da Alessandro Tassani sulle condizione fisico-igieniche della popolazione nella provincia di Como si descrive più analiticamente la qualità dei cibi consumati. Il pane risulta specialmente in campagna di cattiva qualità e addirittura dannoso alla salute, sia perché preparato con “frumento non abbastanza stagionato” o con farina di granoturco e miglio di qualità scadente. Oltre ai difetti degli ingredienti si aggiunge il modo della preparazione a determinare la cattiva qualità: “di solito lo si prepara settimanalmente in vari pezzi o pagnotte del peso di circa una libbra, che si fanno cuocere in forni molto caldi, per modo che abbrustolendo di fuori formano un’alta e dura crosta, senza raggiungere nel mezzo il necessario grado di cottura: chè anzi pel successivo raffreddamento del forno, che avviene tanto più rapidamente quanto maggiore è la parte acquea contenuta nell’impasto, la porzione centrale risulta molliccia, appiccicaticcia ed umida.” (Tassani: 102-103) 108 Di conseguenza questi pani prendono un sapore acido e amarognolo; facilmente cominciano ad ammuffire nel giro di pochi giorni con le conseguenze che possiamo immaginare. Come ha scritto Della Peruta, “l’impiego massiccio del mais si spiega anche con il fatto che ai contadini sembrava che quel tipo di alimentazione meglio valesse a placare gli stimoli di una fame a volte cronica; essi provavano cioè la sensazione illusoria che ‘la polenta la contenta’, come suonava il proverbio, che essa ‘riempiva assai’” e ben di più di un pane ben cotto e più costoso che avrebbe lasciato spazio alla fame in un tempo più breve (Della Peruta: 317). Tra i cibi a base di mais oltre ai pani misti e alla polenta merita di essere ricordata la puult, una polenta molle i cui ingredienti, oltre all’acqua e alla farina gialla, sono la farina bianca e il latte, usati però in proporzioni inferiori. Questo cibo, che ci riporta etimologicamente alla puls dei romani, si mangiava anche nelle famiglie più povere, come ci dice la storia di Settimino, l’ultimo nato di due genitori che, avendo troppe bocche da sfamare, decidono di abbandonarlo nel bosco (Pirovano: 127). La parte finale della relazione del Tassani è tutta di tipo medico e si diffonde con particolare attenzione sulle malattie endemiche per individuarne le cause. Egli elenca le febbri intermittenti, la scrofola, il rachitismo, il gozzo, il cretinismo e la pellagra. Tutte appaiono legate, seppur in misura diversa, alle condizioni di miseria del soggetto colpito, ma l’autore giudica che lo siano soprattutto la scrofola, favorita dai cattivi alimenti e il gozzo, in relazione all’impurità dell’acqua bevuta (Tassani: 111 sgg.). Lo stesso autore scriveva infatti che “le sorgenti d’acqua potabile, pura, leggiera, salubre, non sono nè molto copiose nè equamente distribuite a norma dei biso109 gni della popolazione.”(103) Ma è la pellagra il morbo che, colpendo soltanto la parte più povera della popolazione, veniva chiamato con l’appellativo comune di male della miseria. Tra i mandamenti particolarmente colpiti da questa malattia, dovuta a carenza di vitamina PP, che desquama la pelle e induce gravissimi disturbi nervosi (follia, suicidio), non a caso c’erano le zone di Brivio, Missaglia e Oggiono, mentre mancavano quelli delle valli di montagna della provincia comasca dove il mais era meno importante nella dieta dei contadini. Possibilità economiche, usi alimentari e condizioni di vita mostrano qui il loro stretto legame, in una epoca che vedeva la durata media della esistenza in Lombardia aggirarsi attorno ai 28 anni (Tassani: 109). Non sembra azzardato, anche per questo dato, riferirsi ai molti testi narrativi della tradizione orale in cui si muovono bambini e giovani protagonisti, orfani di uno o di entrambi i genitori. L’assenza degli adulti, poi, nei mandamenti settentrionali a prevalenza montana, poteva dipendere dall’emigrazione che nel periodo unitario prese a crescere enormemente, come affermava lo stesso Tassani.” (100) negli anni in cui molti medici insistono sulla necessità di considerare il cibo una “medicina”, ossia per i suoi effetti igienicosanitari. 1. 3 Contratti agricoli, livelli sociali e regimi alimentari Delle condizioni di vita e dell’alimentazione delle popolazioni contadine di quegli anni nella nostra zona si occupa anche la rassegna redatta nel 1878 dall’avvocato Giovan Battista Negri, opera che si inserisce tra le iniziative collegate alla Inchiesta agraria e sulle condizioni della 110 classe agricola promossa nel 1877 dal Parlamento del Regno d’Italia sotto la direzione di Stefano Jacini. Il Negri, che con molta probabilità ha come punto di vista privilegiato la zona di Casatenovo, nella Brianza collinare, riprende alcuni temi dello Spreafico, a distanza di 24 anni, e dichiara di conoscere gli abitanti delle colline dell’alta Brianza per esperienza diretta. Così scrive: “In genere (...) i nostri coloni sono laboriosi, economici nel tempo, direi anche frugali se non si abbandonassero facilmente all’ubriachezza, la loro indole è tranquilla”. Dopo di che ci ripropone la distinzione in mezzadri e fittaiuoli che stanno accanto alla minoranza dei coltivatori proprietari; ma questa volta la diversità di condizione determinata dal tipo di contratto con i padroni dei terreni, viene mostrata nei suoi riflessi su due differenti regimi alimentari. “L’alimentazione varia secondo lo stato delle famiglie le quali potrebbero dividersi in due categorie. Quelle di prima categoria mangiano anche carni, sia di manzo, maiale e montone, e polleria, bevono vino, ed alle feste, e nei giorni di mercato, vedonsi gli uomini, massime i così detti capi, ossia reggitori, all’osteria ove bevono, fumano e giuocano allegramente. Osservai poi una gran tendenza massime nelle donne a far uso del caffè nero, ed anche della cioccolata. Il nutrimento di quelle di seconda categoria consiste nella polenta, minestra, zuppa, pasta con burro, o con olio, latte rappreso (detto in dialetto cagiada), patate, ed in generale la quantità è bastevole, e la qualità è discreta”.(Negri: 25) Interessante appare in particolare l’annotazione sul caffè e sulla cioccolata come segni distintivi di benessere economico e di un certo rango sociale, che si ritrovano anche in qualche fiaba (Pirovano: 32), ma la ricognizione del Negri giunge, una volta di più, a concludere che il con111 tadino mangia ancora abbastanza male, sia per la scarsa disponibilità economica, sia per lo sperpero di denaro fatto all’osteria, sia per l’incapacità di “allestire e condire vivande come lo richiedono l’economia, e l’igiene dell’arte culinaria.” Lo scritto, percorso da intenti scientifici e divulgativi, a questo riguardo osserva in maniera autocritica che si è fatto troppo poco per far conoscere ai contadini i principi e le tecniche per preparare correttamente e cucinare i cibi di cui dispongono. Possiamo quindi concludere questa rassegna sulla Brianza di tutto l’Ottocento utilizzando le parole che Franco Della Peruta riferisce alla Lombardia della prima metà del secolo: “il bilancio nutritivo della grande maggioranza delle popolazioni lombarde era in maggiore o minore misura carente dal punto di vista dell’apporto calorico, proteico e vitaminico, donde una condizione di sottoalimentazione diffusa che si ripercuoteva drammaticamente sulla mortalità e sulla morbillità” come dimostrarono le indagini sui moltissimi giovani non idonei al servizio di leva obbligatorio introdotto con l’unità d’Italia (Della Peruta: 313). Un dato evidentissimo emerso fin qui è quello dell’incredibile monotonia nell’alimentazione della maggior parte dei nostri antenati, che per la sua insufficienza non riusciva a liberare dalla fame. Una fame feroce che dilatava il tempo nell’attesa del cibo e che arriva a ridurre le facoltà umane, come dicono le espressioni gh’ó ‘na fam che ghe védi piö (ho una fame che non vedo più), o gh’ó ‘na fam de bèstia (ho una fame da bestia). Anche in questo caso gli esempi tratti dalle fiabe potrebbero essere numerosi anche per la nostra zona, come per gli abitanti di un paese poverissimo di alta collina costretti a mangiare sempre castagne (Pirovano: 182 e 184), o come per quel padre che, senza nulla da mangiare alla vigilia di Natale, 112 pensa di procurarsi un po’ di carne per sé e per la figlia prendendolo da un cadavere. Solo la festa consentiva di mangiare più e meglio del solito, ma rappresentava l’eccezione. Il fabulatore non a caso concludeva spesso la narrazione delle favole a lieto fine con una battuta ironica e un po’ amara per gli ascoltatori: la formula pastén pastón/ n’àn vanzàa gna’n bucón (pasto piccolo pasto grande/non ne hanno avanzato neanche un boccone) riconduceva gli ascoltatori dal banchetto della fiaba alla misera realtà quotidiana, segnata per i più dall’indigenza (Pirovano: 80). Occorre a questo punto fare almeno un accenno al binomio alimentazione - arte della cucina che il Negri ci ha appena ricordato: i poveri non possono permettersi di mangiare decentemente e in più non sanno neppure preparare le vivande in maniera dieteticamente corretta e appetitosa. Servirebbe un’educazione della coscienza igienico alimentare e del gusto. In questa direzione si incammina verso la fine del secolo Pellegrino Artusi, che dà al suo manuale una coppia di titoli assai significativi: La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, mostrando di voler coniugare quelli che allora si sarebbero chiamati i principi dell’igiene alimentare (il mangiare correttamente) con il buon gusto della gastronomia raffinata. Il libro dell’Artusi svolse un compito storico di grande rilievo: amalgamare almeno in cucina “l’eterogenea accozzaglia di genti che solo formalmente si dichiaravano italiane.” (Camporesi: 110) Ma il destinatario di quest’opera era socialmente selezionato, visto che presupponeva il potere di acquisto della famiglia medio-borghese. E presupponeva l’abilità e la disponibilità di tempo per cucinare i piatti che venivano proposti. Infatti “i cibi abituali per le famiglie più modeste sono, per necessità di cose, di rapida preparazione e di 113 rapida cottura. La madre di famiglia e reggente della casa “la resgiora’, occupata fra le cure domestiche, il pollaio, la preparazione dei “formaggi” e in passato anche del burro, non può dedicare tanto tempo alla cucina, e le giovani che vanno in filanda o in fabbrica arrivano a casa quando l’unico pasto importante della giornata, quello di mezzogiorno, è già pronto.” (Perna Pozzi: 128) Il manuale dell’Artusi dunque non poteva che rivolgersi a proprietari terrieri, imprenditori e professionisti, ignorando il problema dell’alimentazione delle classi popolari. Per venire alla Lombardia, tuttavia, l’impegno per una sorta di alfabetizzazione alimentare e gastronomica era già presente almeno dall’Ottocento grazie agli almanacchi popolari che fornivano cognizioni pratiche di vita rurale e domestica, e che circolavano, come pochissime altre pubblicazioni, alle case dei contadini: periodici che si intitolavano, ad esempio, Servo a tutti o La serva cuciniera e credenziera. 2. L’accelerazione del ‘900: “e oggi è sempre festa!” 2.1 La continuità dei primi cinquant’anni Per avvicinarci al Novecento, Stefano Samogyi, nel suo saggio sull’alimentazione nell’Italia unita, ricorda due ricerche che si collocano tra la fine del secolo e il 1910 interessanti anche per noi: in linea generale i sondaggi condotti in alcuni punti d’Italia ribadiscono per il nord che gran parte della spesa per gli alimenti nelle famiglie povere serve per l’acquisto di cereali. In particolare a proposito di Milano il Memmo (1894) giunge a con114 cludere che “nel popolo la carne non rappresenta il cibo principale; per il loro basso prezzo vengono usate le carni ovine ed il tubo intestinale delle vacche; il pesce entra poco nell’alimentazione, e comunque tutt’al più sotto forma di merluzzo salato; poco vi entrano le uova, abbondante invece il latte. L’alimento più diffuso però è il mais.” Come si vede siamo molto vicini alle descrizioni già sentite. Sui consumi popolari veniamo però a sapere qualcosa di nuovo e che ci ricorda molto da vicine un piatto povero della tradizione, molto conosciuto ancora oggi, che è la büséca (la trippa). Vediamo che le interviste condotte in questi ultimi anni nella nostra zona a persone che ci parlano degli anni ’20- ’30 si inseriscono con le loro indicazioni nel solco dei dati rilevati dal Memmo, anche se, naturalmente, il livello di vita e le condizioni alimentari delle famiglie popolari dipendevano molto dal numero di figli, dalle braccia disponibili, dalla quantità di terra lavorata (o posseduta). Carolina Stefanoni, operaia di filanda e contadina nata a Suello nel 1907, parla delle enormi difficoltà incontrate a crescere, con il marito, i sette figli, dopo il matrimonio avvenuto nel 1932, quando non si aveva gnànca ‘n fràanch e vivévum a pulenta (neanche una lira e vivevamo di polenta). Questi contadini a mezzadria, anche per i prodotti dell’orto e del giardino, erano costretti a cercare di sopravvivere con la caccia e la pesca lungo le rive del lago di Annone, lavorando giorno e notte. Ugo Colombo, contadino nato nel 1910 a Dolzago, divenuto poi operaio in tessitura, alla domanda “che cosa mangiavate più spesso?” riferendosi agli anni della sua giovinezza, risponde “polenta, fichi secchi, saràch (aringhe secche) e formaggini”. Il latte veniva destinato ai vitelli che si allevavano per la vendita. La carne che si consumava veniva acquistata per la domenica, quando si 115 mangiava ul pucén (lo spezzatino) in umido con cipolle e patate. Il pesce lo si comperava solo al venerdì al mercato di Oggiono e si trattava sempre di merluzzo. Quindi come si diceva per la Milano di fine ‘800 - pesce di mare, non fresco. Maria Panzeri, contadina ed operaia nata nel 1912 a Cereda di Perego, figlia di contadini che avevano cinque figli e 100 pertiche di terra in affitto, parlando della stessa epoca dice che una volta non si mangiava tanto bene, ma la famiglia doveva avere un discreto livello di vita se anche la figlia femmina era arrivata alla quarta elementare e se la madre era rimasta a lavorare in casa dopo il matrimonio. Anche qui, però, la carne si mangiava ala fésta, per få ul stüaa (il brasato) o ul lès (il bollito) o la cazzöla (la verzata) in inverno, e veniva acquistata, dato che i vitelli allevati dal contadino, dovevano essere venduti per pagare l’affitto. Nelle feste speciali si uccideva qualche gallina e la fàvem a la grånda (si mangiava alla grande) perché si poteva usare anche un brodo vero. Quasi esclusivamente il maiale veniva allevato per il consumo familiare: lo si ammazzava in inverno, per farne insaccati (cudeghét, salåm) e condimento. La campagna dava frumento, granoturco, frutta, e l’orto forniva verdura e legumi, come i fagioli e i piselli. In negozio si comperavano principalmente zucchero, caffè, stracchino, formaggio, olio di semi di lino, pasta e riso. Il pane bianco si era diffuso, ma c’erano ancora delle famiglie contadine che avevano il forno e, ancora negli anni tra le due guerre mondiali, facevano ul pan giaalt e ul pàn de mèi (pane con due terzi di farina di granoturco e un terzo di segale) (Bassani: 59). A colazione si mangiava zuppa o latte, ma questa possibile alternativa dipendeva dal fatto non comune che 116 nella famiglia di cui stiamo parlando si allevavano quàter bésti (quattro mucche). Il caso di Carlo Bartesaghi, nato nel 1928 a Annone ultimo di cinque fratelli, contadino da ragazzo e poi operaio e autista, è interessante perché ci porta avanti di una quindicina di anni, tra gli anni del fascismo e il secondo dopoguerra. Anche in questa famiglia si allevavano quattro mucche e si ammazzava il maiale d’inverno. Si coltivavano il frumento da dare al prestinaio per avere il pane bianco, e il granoturco per la polenta che continuava ad avere una parte essenziale nell’alimentazione quotidiana, come le patate. La famiglia di cui stiamo parlando doveva essere più povera di quella di Maria Panzeri, se la madre era costretta a lavorare in filanda oltre che in casa. La terra si coltivava con la vanga. Eppure, ascoltando ancora la testimonianza di Carlo Bartesaghi, capiamo che, negli anni compresi tra le due guerre, ul pucén, cioè il piatto di carne povera in umido, generalmente di maiale, con il passare del tempo era sconfinato dalle sole occasioni festive anche ai giorni di lavoro, seppure come unico elemento del pranzo. Se ci spostiamo in Valsassina, la situazione in una famiglia di boscaioli con sei figli appare anche più precaria. Giuseppe Devizzi ricorda di avere lavorato come famèi, cioè come custode delle bestie presso una casa di contadini con 4 o 5 vacche: il vitto per il garzone di dodici anni era fatto di polenta al mattino e a metà giornata, e di minestra alla sera. Più in particolare, i granéi del mattino consistevano di una polenta impastata con un po’ di taleggio e di latte, in modo che la colazione fosse meno difficile da ingerire. La sera c’era da sperare che fosse rimasta della polenta dai pasti precedenti, in modo da potere aumentare la consistenza della minestra. Ad altezze superiori, come nel caso di Premana, i cereali ricorrenti erano la segale, l’orzo, il grano sarace117 no, cui si affiancavano le patate e le castagne. Rape e cavoli erano gli ortaggi più comuni, come nella Brianza del primo Ottocento (De Capitani, 1809: 165). Il modesto apporto di carne derivava in genere dal maiale, che integrava una dieta imperniata sui prodotti di origine vegetale o su quelli lattiero caseari. In montagna, infatti, questi ultimi componenti risultavano più comuni nella dieta popolare, rispetto a ciò che accadeva in altre zone del nostro territorio, in virtù di una presenza più significativa dell’allevamento bovino e ovicaprino (Sordi). Le differenze sociali, in ogni caso, rimanevano molto evidenti nei vari contesti. Ancora negli anni ‘30, nella famiglia di un pescatore che fungeva da uomo di fiducia del più grande padrone del lago di Annone, ad esempio, si cacciavano gli uccelli acquatici dalla barca. Era una caccia riservata ai pochissimi che avevano il diritto di navigare e che potevano pagarsi fucile e cartucce; in questo caso addirittura si usava la spingarda, una specie di cannoncino che sparava una rosa di pallini per un diametro di 2/4 metri anche a 120 metri di distanza. Dopo la caccia, come ricorda Sandro Pellegatta, al padrone che viveva a Milano si portavano valigie piene di anitre pregiate “e nöm i me fàven maià i fùlech ch’i sentéven de pès” (e a noi toccava mangiare le folaghe, che sapevano di pesce). Ma anche il pesce fresco di lago non era un consumo alla portata di tutti, come dimostrano moltissime interviste che si riferiscono al consumo popolare del pesce, quasi sempre di mare e conservato. In città il dato non sorprende, ma per i paesi del nostro territorio bisogna considerare il fatto che i laghi briantei erano privati fino agli anni ‘30 e da secoli soggetti ad uno sfruttamento esclusivo. Fino alla seconda guerra mondiale era molto diffusa la pesca di frodo. Sappiamo che tra il 1888 e il 1906 ci furono 44 condanne in giudizio ai danni dei bracconieri attivi sul lago 118 di Annone. In occasione di un processo del 1906, era stato sostenuta da un imputato la legittimità della pesca con la canna dalla riva per uso civico e per uso pubblico, ma una sentenza di tre anni dopo aveva negato questo diritto che - sostenevano i proprietari - non era “mai esistito nella realtà” (Stato di consistenza …: 11-12). Nonostante ciò tra il 1908 e il 1928 le condanne per pesca di frodo a persone che si sottraevano al pagamento delle licenze ai proprietari del lago salirono a 82. Ritornando al nostro tema, anche se le cose andavano un po’ meglio che nell’800, le abitudini alimentari nel loro complesso non si scostavano molto dal quadro delineato in precedenza: secondo un piccolo sondaggio condotto nella nostra zona su 32 persone nate tra il 1900 ed il 1933 (che ci danno notizie sugli anni 1910/50), provenienti per la quasi totalità da famiglie contadine o operaie, tutti citano tra i cibi abituali della loro gioventù le minestre e le zuppe, il 90% la polenta e meno del 20% ricorda della carne che non sia di maiale. La minestra, onnipresente a cena e spesso consumata anche a colazione nelle case contadine fino all’ultima guerra, continuava ad essere considerata la biada de l’òm (la biada dell’uomo). Questa monotonia nella dieta si accompagnava ad una alimentazione ancora più povera nelle famiglie degli operai salariati che non avevano prodotti del campo, dell’orto e della vigna, che non disponevano di prodotti animali della stalla e del cortile che erano con maggior frequenza alla portata dei contadini. 2. 2 L’eccezione festiva e la potenza del cibo In ambiente popolare il pranzo con varie portate, come lo intendiamo oggi, era quasi esclusivamente quel119 lo di Natale, con i salumi, con il risotto, i capponi allevati per la festa dell’anno, con il pane bianco a volontà, con la frutta, il dolce, il caffè. La pesante distinzione tra cibi di tutti i giorni presso i ceti più modesti e presso i ricchi durerà fino agli anni del cosiddetto “boom economico”. Da quel momento il fenomeno di lunghissima durata secondo cui la preparazione e gli alimenti quotidiani delle classi superiori costituiscono spesso i cibi festivi delle classi inferiori si attenuerà di molto. Sarebbe interessante studiare meglio tempi e modi della penetrazione della cultura alimentare (gusti, ricette, valori simbolici) dei ceti privilegiati nelle abitudini popolari, lungo questo secolo: oltre che attraverso le pagine delle pubblicazioni che abbiamo ricordato, attraverso figure sociali come quelle delle cuoche, delle balie, delle domestiche che fungevano da mediatrici tra due mondi e anche tra due modi di mangiare. Senza dimenticare il ruolo degli alberghi e delle trattorie della nostra zona, dove volentieri soggiornavano per il pranzo le famiglie milanesi durante la villeggiatura, e quello delle osterie che specie nei giorni di mercato ospitavano gli artigiani, i commercianti, e quei contadini benestanti ritratti dai nostri testimoni ottocenteschi. La festa rappresenta il tempo di opposizione al tempo della vita quotidiana. Di solito - come abbiamo visto - si lavora, si patisce la fame o comunque si vive nella scarsità e nella parsimonia; alla festa, invece, non si lavora, si mangia e si beve in maniera eccezionale E’ il tempo delle spese e perfino dello spreco. Anche l’abbigliamento, ul vestìi de la fésta, manifesta questo stacco e questa diversità, come gli oggetti d’uso (ad esempio le stoviglie) e i locali della casa per la festa trasformati, o ad essa specificamente deputati (Burke: 174 sgg.). 120 Anche i luoghi, i modi, gli strumenti, gli oggetti legati all’alimentazione, come gli ingredienti e le ricette, risentono dell’opposizione tra il tempo del lavoro e il tempo festivo. Nelle società contadine, naturalmente, il periodo dell’anno in cui si concentrava il maggior numero di feste era quello invernale e la festa certamente più significativa da noi, anche dal punto di vista dell’eccezionalità alimentare, era il Natale. Dei pranzi natalizi ci parla un canto registrato a Oggiono ed eseguito da Vitalina Amati: O tusàn el vée Natàal/ per la fésta in generàal/ puliröö el me da ul pulén (il tacchino)/ per la nòc che nas ul Bambén/ ul prestinée ‘l me da ‘l panetón/ per la nòc che nas ul Bambén/ e ‘l circulèt ‘l me da ul vén/ per la nòc che nas ul Bambén/ a la matìna un bèl büsechén (la trippa)/ e al mesdée un bèl risutén/ e a la sira ‘n bèl cafetén/ e ala matìna gh’èm vöi ul burzén (il borsellino). E’ un canto che evidentemente non viene da un ambiente contadino, data l’insistenza sugli acquisti. L’ultimo verso però allude ad una spesa straordinaria, per un pranzo straordinario. La donna che l’ha cantata riferendosi alla sua famiglia negli anni ‘20-’30, una famiglia di osti, certo non tra le più povere, raccontava che il consumo della carne era riservata a pochissime feste e soprattutto al Natale. Sia quella della trippa, che abbiamo incontrato in varie testimonianze e che si mangiava al ritorno della messa di mezzanotte, sia del cappone e di altri animali da cortile allevati per l’occasione. Ma anche il risotto citato nel canto era un cibo che distingueva il pasto festivo in Brianza. Storici della letteratura come Camporesi o folkloristi come Propp individuano negli alimenti consumati (soprattutto di quelli festivi, che erano scelti in misura ben maggiore di quelli quotidiani) dei significati che tra121 scendono il valore meramente alimentare. Scrive Vladimir Ja. Propp (69): “il cibo a volte non era soltanto un mezzo per nutrirsi ma anche un procedimento per rendere partecipi se stessi e la propria economia familiare delle forze e delle potenzialità che si attribuivano ai piatti mangiati.” Per interpretare il senso di scelte alimentari compiute da tradizioni spesso plurisecolari, si tratta anche di andare al di là - seppure con prudenza - di quanto i testimoni esprimono consapevolmente, distinguendo il livello delle conoscenze esplicitate da quello suggerito agli studiosi dalle comparazioni con altre società ed altre epoche. Non è detto, infatti, che per l’antropologo come per lo storico la prospettiva dell’informatore, della “fonte”, sia la sola utile a comprenderne la cultura. In effetti capita spesso che alla domanda “perché mangiavate il risotto?” ci si senta rispondere con un’affermazione sostanzialmente tautologica: “perché era il piatto della festa, perché lo mangiavamo a Natale...” Ma il problema è di capire perché proprio quell’ingrediente o quel piatto. Secondo Propp il chicco non frantumato, come appunto il riso, o il seme di cereale “ha la proprietà di conservare a lungo la vita e di riprodurla, moltiplicandola. Il noto circolo continuo seme-pianta-seme testimonia l’eternità della vita. Gli uomini, mangiando semi, divengono partecipi di questo processo. Al chicco o al seme corrisponde, secondo la mentalità contadina, l’uovo del mondo animale il quale ha la stessa sorprendente capacità di conservare, contenere la vita e di riprodurla.” (Propp: 47) Perciò non solo ai cibi natalizi, e del ciclo invernale in genere, ma anche all’uovo, cibo pasquale per eccellenza, può essere attribuito lo stesso significato rituale. Le uova 122 sode che si mangiavano a Pasqua o il lunedì dell’Angelo, già menzionate dalle inchiesta napoleoniche del 1811 sul Dipartimento del Lario (Tassoni: 175), potevano valere come buon auspicio per la rinascita della natura: è evidente il legame tra il motivo cristiano della risurrezione pasquale, la fertilità dei campi, la fecondità e l’abbondanza presso il gruppo umano che ciclicamente ripete il rito. E’ facile pensare a questo punto anche all’usanza, ormai diffusa in tutta Italia, di cenare con le lenticchie nel passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo . Per tornare ai cereali, alle loro farine e, anche qui, alle uova, per non dire del lievito, che sono accomunati dal potere di crescere o di far crescere, è impossibile non parlare delle torte e dei dolci. I dolci erano un altro cibo rarissimo sulla tavola dei contadini e degli operai. Insoliti sia perché richiedevano l’acquisto dello zucchero, sia per il genere dei loro sapori, sia per il loro valore energetico, ma anche per la concentrazione di quei poteri simbolici di cui abbiamo detto ora. Non a caso erano considerati cibi per i bambini, non a caso si portavano e ancora si portano ai malati, in segno di augurio per una rinnovata vitalità. Tra i cibi popolari legati alle feste, vari testimoni (come Ida Redaelli o Franco Pirovano) ricordano della loro infanzia la frutta che i re magi portavano in regalo ai bambini: una mela, un’arancia, nocciole, noci, arachidi. La fecondità che i frutti con molti semi, come l’arancia e la stessa mela, portano in sé è stata sottolineata fin dall’antichità. Il significato propiziatorio della frutta secca sembra confermata dal proverbio brianzolo pan e nùus/ mangià de spùus (pane e noci/ cibo da sposi), che interpretato alla lettera risulta poco persuasivo. Ad esso merita di essere accostato il motivo di una fiaba raccolta da una donna di Annone, nella quale noce, nocciola e arachide appaiono come doni magici che consentono alla 123 protagonista di sposare il re (Pirovano: 29 sgg.). Anche nelle forme di dolci e pani che alludono ai sessi si è vista una simbologia propiziatoria intesa a provocare la fecondità e la vita; ma anche la carne di maiale, sempre più alla portata delle classi popolari, risultava essere una carne che - sotto forma di insaccati e di grassi per condimento - “dura” nel tempo, e che garantisce per molti mesi il suo apporto di calorie alla famiglia contadina. Per questo motivo essa è segno non solo simbolico di un benessere che si prolunga oltre il pranzo eccezionale, oltre il pranzo festivo. Un discorso per certi versi analogo a quello della carne di maiale si potrebbe fare per le castagne che, essiccate, si conservavano per tutto l’inverno, dopo essere state consumate, appena raccolte, in autunno: anche questo alimento, particolarmente importante tra i cibi delle zone di alta collina e di montagna, ritorna tra i cibi rituali legati in particolare alla festa dei morti. In tutta la Brianza, poi, venivano mangiate, lessate, la sera del giorno dei Santi e venivano destinate come cibo rituale ai morti che di notte sarebbero tornati nella loro casa (Perna Pozzi: 62, ma anche De Gubernatis: 109) per mangiarle. Con questa intenzione venivano lasciate con una caraffa di acqua sul tavolo della cucina. Anche il consumo del vino in osteria era un’abitudine festiva. Non tutti però potevano permettersi di andarci spesso e il contadino beveva generalmente il vino della vigna che lui stesso coltivava. Ubriacarsi all’osteria era ancora una circostanza diffusissima tra le due guerre fino agli anni ‘60, quando la diffusione delle moto e delle automobili, le accresciute possibilità di svago lontano dal paese, portarono sempre meno persone a frequentare le osterie che, numerosissi124 me fino ad allora, furono progressivamente messe in crisi e si trasformarono in bar o chiusero. 2. 3 La svolta del ‘boom economico’ Oggi anche il Lecchese è una zona prevalentemente industrializzata o segnata da una crescente presenza del settore terziario che, come il resto dell’Italia, ha visto nell’ultimo secolo moltiplicarsi le occasioni e i flussi dell’emigrazione interna, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. In questa sede non ci siamo occupati delle tradizioni alimentari di altre regioni, che si incontrano intervistando persone originarie specialmente del sud, che vivono da tempo nella nostra zona. Ad esse si dovrebbe dare uno spazio adeguato in un’analisi storica più approfondita dell’evoluzione sociale e culturale nel nostro territorio. Tradizioni che risalgono in molti casi alla matrice latina, diversamente dalla nostra, segnata in misura maggiore dagli usi economici ed alimentari delle popolazioni germaniche. Basti pensare all’importanza dei legumi, dei formaggi ovini, dell’olio d’oliva al centro sud, da un lato, e alla maggiore confidenza con il lardo e il burro che si riscontra al nord. Ancora nel Novecento, del resto, la pasta e il riso rappresentano segni distintivi a tutti noti di tradizioni differenti, ma via via più sfumate: oggi la pasta è diventata normale sulle tavole dell’Italia settentrionale mentre il riso è sconfinato al sud dalle regioni di produzione. In questo senso la crescita dell’industria alimentare e l’emigrazione interna hanno avuto un peso determinante nel cambiare tradizioni secolari, avvicinando culture estremamente lontane fino al secolo scorso. Anche gli spostamenti dovuti alla diffusione del turismo hanno comportato un rimescolamento di abitudini nel mangia125 re, che nei secoli scorsi erano più facilmente localizzabili nelle varie regioni geografiche. Al di là dei vagheggiamenti del buon tempo andato, ricchi di nostalgia ma non di conoscenza storica, è bene riaffermare che oggi si mangia e si beve mediamente molto meglio che in qualunque epoca del passato. Peraltro l’uso di concimi, diserbanti e ormoni nell’agricoltura o nell’allevamento fa sì che grande disponibilità alimentare si traduca nelle insidie sulla qualità di quello che si mangia. Oggi poi ci si è ridotti quasi tutti al ruolo di “consumatori” di prodotti alimentari, diversamente da quanto accadeva ancora cinquant’anni fa. Si consumano quotidianamente cibi di produzione industriale, si acquistano alimenti in scatola e surgelati, si vive in un sistema di distribuzione che fa arrivare da tutti i continenti cibi esotici, estranei alle tradizioni alimentari locali e nazionali. Scegliamo cosa mangiare seguendo più le sollecitazioni che ci vengono dalla pubblicità, e le suggestioni delle mode anche alimentari, mentre abbiamo quasi tutti dimenticato i ritmi della produzione legata alle stagioni e alla produzione, del resto ormai divenuta marginale, dei luoghi in cui viviamo, ignorando quella che Camporesi chiama la “sapiente alternanza” che i frutti della terra ci offrono nelle varie parti dell’anno. Ci preoccupiamo delle diete ma soprattutto del nostro aspetto fisico, e in primo luogo della linea, dando per scontato che le nostre scelte alimentari possano essere fatte indipendentemente dai bisogni elementari di sopravvivenza che riguardano ormai altri popoli e altre regioni della terra (Lurati). Ha scritto uno storico di fama, parlando del proprio rapporto con il tema del cibo: “Medievalista, apro il mio schedario: alla voce “alimentazione” le schede più nume126 rose sono sotto l’etichetta “carestia”. Cittadino di oggi, apro il mio giornale: “La carestia nel Sahel...” (Le Goff: 6). Ma, come abbiamo visto, i tempi della fame e della miseria hanno superato i secoli e allo storico fa eco Ida Redaelli, contadina ed operaia di filanda della Brianza, quando assicurava che ancora nel nostro secolo “ul Terzo Mondo sévem nögn” (il Terzo Mondo eravamo noi, era qui). 127 Riferimenti bibliografici Bassani F., El mangià di nost vecc, Bertoni, Merate 1980. Braudel F., Capitalismo e civiltà materiale (secoli XV-XVIII), Einaudi, Torino 1977. Burke P., Cultura popolare nell’Europa moderna, Mondadori, Milano 1980. Camporesi P., Alimentazione folclore società, Pratiche, Parma 1983. 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Fonti orali: Interviste di Massimo Pirovano a Carolina Stefanoni di Suello (n. 1907), Giuseppe Devizzi di Cremeno (n. 1928), Sandro Pellegatta di Oggiono (n. 1918),Vitalina Amati di Oggiono (1902-80), a Ida Redaelli di Oggiono (1894-1993), Franco Pirovano di Barzanò (1927-1977). Interviste di Laura Colombo a Ugo Colombo di Dolzago (n. 1910), di Marco Corti a Maria Panzeri di Perego (n. 1912), di Marco Milani a Carlo Bartesaghi di Annone (n. 1928), di Orietta Fumagalli ad Adelaide Molteni di Sirone (n.1910). 129 Folklore e forme espressive popolari nel territorio lecchese di Massimo Pirovano 1. Dal “folklore” dei romantici alla “cultura” degli antropologi Si parla spesso di folklore, ma difficilmente lo si fa in maniera appropriata o consapevole. Il termine nasce in Inghilterra nel 1846, ad opera di un archeologo, J.William Thoms, per indicare l’ambito di studio che in precedenza veniva contrassegnato dalla formula antiquitates vulgares. Letteralmente la parola significa ‘conoscenze del popolo’ e traduceva probabilmente l’espressione tedesca Volkskunde, già in uso dall’inizio del secolo in Germania. Per gli intellettuali dell’epoca il folklore comprendeva le credenze, le tradizioni e i costumi di un gruppo sociale, di un popolo, ivi compresi la narrativa, i canti, i proverbi, i giochi, le feste, i riti. Il primo nome di studiosi di folklore attivi in quella fase pionieristica a tutti noto è quello dei fratelli Grimm, impegnati a raccogliere le fiabe della tradizione tedesca, che furono pubblicate a partire dal 1812. E’ interessante ricordare con quale atteggiamento i Grimm raccogliessero i documenti della cosiddetta poesia popolare: essi la ritenevano anonima, impersonale, semplice, collettiva, di origine essenzialmente divina, capace di compendiare e di esprimere le aspirazioni di un popolo, ovvero di una comunità nazionale (Cocchiara: 245). Questi orientamenti, visti nel contesto storico del periodo napoleonico o della restaurazione, manifestano 130 in maniera evidente anche un risvolto politico: si cercava nelle tradizioni del popolo il fondamento di una unità culturale, che fosse anche nazionale per divenire unità di uno Stato. D’altra parte quelle definizioni della poesia popolare caratterizzeranno gli interessi e la riflessione un po’ di tutto il movimento ed il periodo romantico. In seguito, in un clima culturale segnato dalla diffusione dell’evoluzionismo e del positivismo, si svilupparono le scienze etnologiche ed antropologiche, attraverso studi dedicati generalmente a popolazioni extraeuropee. Accadde, quindi, che anche le indagini sul folklore tendessero a dilatare il loro orizzonte di studi nel senso dell'etnografia: seppure concentrandosi su quelli che si definivano i volghi (del nostro continente), visti in qualche modo come ‘selvaggi’ locali, si cominciarono a considerare, accanto alla letteratura e alle credenze di questi ceti, la loro organizzazione sociale, le loro attività produttive, sia sul piano economico sia sul piano tecnologico, ma anche la lingua, i comportamenti rituali, i costumi morali e così via. Per dare il senso di questo allargamento di prospettive di ricerca, possiamo ricordare la classica definizione di “cultura” elaborata dall’antropologo britannico Edward Burnett Tylor nel 1871, che influenzerà progressivamente la coscienza e l’attività dei folkloristi e degli studiosi di tradizioni popolari: “Cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società.” (Rossi: 7) Dunque tutto ciò che si impara almeno dalla nascita, in quanto membri di una società, è parte della cultura antropologicamente intesa. Se in passato, e ancora in una 131 accezione odierna, la cultura è pensata come il frutto di una istruzione che si giova prevalentemente della lettura di autori classici, secondo il modello umanistico, qui siamo di fronte alla riconosciuta dignità di ogni abilità, di ogni competenza e di ogni conoscenza tramandata, con i mezzi più diversi, all’interno di un gruppo. Si pensi, ad esempio, alla semina o alla mietitura, al cucinare o al riparare un abito, al cantare o al raccontare, al pregare o al decorare, ma anche un rastrello, una rete, un canto, una filastrocca, un’orazione, un gioco, o un rito: attività, tecniche, credenze, e gli stessi prodotti, materiali e immateriali, di quelle attività fanno parte di una cultura, scientificamente intesa, in quanto elementi di un processo comunicativo che passa da un individuo a un gruppo, e viceversa, da una generazione a quella successiva. Quello però che distingue la tradizione folklorica ed etnografica rispetto alla tradizione alta, dell’accademia, della scienza, della cultura delle élites sono gli strumenti e le modalità di trasmissione del sapere. Se nella cultura ‘alta’ il libro e la scrittura hanno un ruolo predominante, nella cultura ‘bassa’ sono la voce e l’immagine a farla da padroni; la tradizione popolare viaggia con la comunicazione orale e con l’esemplificazione pratica, che mirano a sollecitare l'imitazione, specialmente da parte delle generazioni più giovani. 2. “Popolo” e “popolare”, nozioni ambigue La pluralità di significati impliciti nel concetto di folklore, oltre a dipendere dalla vastità e dall'articolazione di una simile gamma di espressioni culturali, si connette alla difficoltà di precisare cosa si debba intendere 132 con "popolare", ed ancor prima con il relativo sostantivo. Nell’espressione “il popolo italiano”, ad esempio, si vuole far riferimento di solito alla totalità dei cittadini italiani, senza distinzione sociale, economica, culturale. Anche nella frase “quel cantante è stato uno dei maggiori autori della musica popolare dei nostri giorni” vogliamo intendere che le sue canzoni sono state e continuano ad essere cantate un po’ da tutti noi, a prescindere dai vari orientamenti ideologici e dalle diverse condizioni economiche o sociali. Affermare che la coca cola è una bevanda popolare, almeno nei paesi industrializzati, significa sostenere che essa appartiene ai consumi di massa. Ma se a parlare di “popolo” sono i sociologi, gli storici, gli antropologi, che si interessano alle varietà culturali che convivono dentro una stessa nazione ed una stessa società, le cose si complicano un po’. Possono usare quel sostantivo e quell’aggettivo in senso generale - come fa la lingua inglese quando usa il termine popular, da cui deriva pop - ma possono dare loro anche significati sociologicamente parziali, “di classe”. Qui, in effetti con il termine "popolo" vogliamo indicare quei ceti che in un certa epoca storica sono risultati economicamente e politicamente subalterni, o comunque esclusi dall'esercizio del potere e dalla cultura "alta". E’ proprio per distinguere queste classi popolari, questo significato di “popolare” dal precedente, che l’inglese utilizza il termine folk. Gli etnografi e i folkloristi, in effetti, si interessano a contadini, boscaioli, pastori, pescatori, minatori, artigiani, operai ecc., come portatori di attività, di conoscenze, di usanze, di credenze, di prodotti artistici, propri o accolti da altri contesti culturali, anche socialmente ‘alti’. A partire da ciò si capisce perché si debba parlare più propriamente di culture popolari (Propp 1975) e di espressioni folkloriche, al plurale, che per molti aspetti si legano ad un 133 territorio geografico ed economico specifico. Oggi, in una società caratterizzata dal diffondersi di una cultura di massa, quando si parla di folklore, ci si riferisce quasi sempre a fenomeni in declino, a "sopravvivenze" di altre epoche (magari conservate solo nella memoria), o a tradizioni riprese di recente, magari proprio per riaffermare un'identità collettiva contro la generale massificazione. In qualche caso il fatto folklorico viene addirittura sostituito con la manifestazione di tipo folkloristico, in cui i protagonisti agiscono non più per se stessi ma per esibirsi: viene così meno la funzione originaria di un'usanza o se ne crea artificialmente una del tutta nuova come, ad esempio, una promozione commerciale, turistica o un intervento di animazione sociale (si pensi alle sagre alimentari o al palio dei rioni, che avevano preso piede alcuni anni fa). 3. Tra i documenti della comunicazione In questa rapida rassegna dedicata ad alcune forme della espressività popolare, in particolare del nostro territorio, ci concentreremo sul canto e sulle storie della narrativa tradizionale, che potremmo definire anche i prodotti della letteratura delle classi subalterne. Prima di toccare questi due temi, tuttavia accenneremo alla questione del dialetto, strumento comunicativo caratteristico delle classi popolari, tralasciando per motivi di spazio considerazioni su altri tipi di documento formalizzato, come proverbi, filastrocche, rime e orazioni. Faremo comunque uso del sistema di trascrizione proposta dalla RID (Sanga). 134 Le persone delle classi popolari si riconoscono spesso, anche ad un primo approccio, per l’impiego più evidente dei dialetti e meno della lingua nazionale, rispetto a quanto avviene per soggetti dei ceti più scolarizzati. In realtà tra i due poli della lingua e del dialetto (che per molti corrispondono ai poli della formalità, da un lato, e della colloquialità, dall’altro, o dello scritto e dell’orale), ci sono una serie di sfumature su cui non abbiamo il tempo di soffermarci, che vanno, nel caso del territorio italiano, dalla lingua standard al dialetto locale, passando per esempio attraverso l’italiano regionale, il dialetto regionale e così via (Berruto). Tuttavia è almeno necessario ricordare qui schematicamente che la linguistica distingue un dialetto da una lingua, non per la maggiore ‘nobiltà’, ma per altre valutazioni meno soggettive: la minore ampiezza dei territori in cui si usano i dialetti rispetto ad una lingua ed il loro uso quasi esclusivamente orale. Il dialetto perciò è uno strumento comunicativo meno versatile, perché funziona bene e facilmente solo parlando, e soprattutto permette di comunicare con un numero di persone minore di quanto la lingua non consenta. Ma c’è anche la questione interessante degli argomenti che i due codici permettono di trattare: se parlo di argomenti della vita e dei bisogni quotidiani un dialetto serve egregiamente, così come capita se parlo di esperienze e di lavori dell’epoca preindustriale. Se invece devo esprimermi su temi della tecnica, della scienza, della politica, della cultura elaborati in età industriale o postindustriale mi accorgo che il dialetto rivela la sua impotenza lessicale, costringendomi tutt’al più a operare dei prestiti o – come dicono i linguisti - dei calchi su termini dell’italiano o di altre lingue. E’ quello che hanno mostrato di recente anche gli 135 autori del Vocabolario lecchese-italiano (Biella et al.), registrando parole come mubilificiu, lübrificant, razzismu, miupe ecc. Nel caso dei nomi di luogo si avverte che la denominazione popolare dialettale si radica nelle esperienze concrete e nelle urgenze dei parlanti: gli usi economici di un edificio o di un luogo, il suo aspetto esteriore, le esigenze pratiche di coloro che lo frequentano (ivi compresa la protezione sacra). Considerando ancora il caso dei toponimi, nello spostamento da una comunità ad un’altra, si nota un fenomeno assai noto anche per i nomi comuni: che le ‘stesse’ voci assumono valore fonico differente in paesi vicini. Si pensi alle voci di pesc-cón e lésc-ch, registrate a Suello, che diventano pescón e lésch in tutti gli altre località rivierasche del lago di Annone (Pirovano 1996). La differenza nella pronuncia, anzi, diventa come tutti sanno un’occasione per distinguersi e per fare dell’ironia o del sarcasmo sugli abitanti di un paese vicino. In una storiella raccontata a Olgiate M., ad esempio, si associa l’ingenuità di chi vive a Consonno con la sua parlata. A proposito di un asino issato sul campanile, i parrocchiani invece di dire “el riit perchè el vèt l’èrba” esprimono la loro meraviglia con “el grigna perchè el vèt l’ìrba” (Pirovano 1991: 184). La realtà linguistica popolare, dunque, si caratterizza per una estrema frammentarietà fonetica riscontrabile persino all’interno dello stesso territorio comunale, per un legame con le esperienze e le esigenze più concrete dei parlanti, ma anche per una dinamicità che si avverte da una generazione alla successiva dei parlanti anche nella stessa famiglia. 3.1 La narrativa 136 Con questo termine intendo riferirmi all'insieme dei racconti tramandati oralmente, considerato – come abbiamo detto - almeno a partire dalla cultura romantica, uno degli aspetti fondamentali del folklore. In particolare le fiabe e le leggende venivano considerate delle vie privilegiate di accesso alle credenze e alla mentalità popolari. Quasi sempre le storie avevano una circolazione assai vasta favorita dai movimenti degli uomini e, negli ultimi secoli, anche dalla stampa (si pensi al Bertoldo di G.C. Croce o alla raccolta di Perrault): ciò è testimoniato in maniera sorprendente da analogie tra varianti che si riscontrano anche in continenti lontani, il che rende molto arduo stabilire le zone di origine di fiabe e narrazioni (Propp 1972, Thompson). Diverso è il caso delle leggende con una base storica, che si legano in maniera esplicita a località ben precise e che, però, nella nostra zona sopravvivono prevalentemente per essersi fissate attraverso la scrittura. Ricerche non occasionali, compiute nel Lecchese solo a partire dagli anni '80 del nostro secolo (Bassani-Erba, Pirovano 1991), mostrano la ricchezza complessiva che il patrimonio della "letteratura popolare" ha avuto in passato, ma anche la progressiva marginalizzazione di queste storie dall'uso quotidiano. Ciò va messo in relazione alla decadenza dell'economia agricola e al diffondersi di nuove tipologie abitative (con la scomparsa delle stalle come luogo riscaldato di ritrovo e di scambio culturale) oltre che al prevalere di nuove forme di socialità e di comunicazione, come quelle portate dalla radio e dalla televisione. In generale si può constatare il sopravvivere più diffuso dei generi più adatti ad un rapporto di tipo "pedagogico": le fiabe con protagonisti infantili (es. Tredesén), le favole di animali e le novelle moraleggianti (es. Il lupo e la volpe), storielle comiche 137 spesso giocate sull'equivoco verbale o sulla stupidità degli attori (es. Bertoldo, La porta che porta fortuna, in Pirovano 1991), le storie di paura in cui si muovono personaggi inquietanti, realistici o fantastici, a testimoniare la diffusione di alcune credenze (es. La Giübiàna, ma le stesse storie che parlano di morti, o dei poteri dei preti). I valori che tali storie veicolano più o meno esplicitamente coincidono spesso con quelli di ispirazione cristiana, ma talora riflettono un visione più cruda e disincantata della realtà sociale in cui prevale il più forte o il più astuto nella lotta per la sopravvivenza (es. Il lupo e la volpe in Pirovano 1991). Per tornare ai generi, la parte del patrimonio tradizionale rappresentato dalle fiabe di magia (es. Giovannino senza paura) patisce invece più facilmente interventi "modernizzatori": eliminazioni delle ripetizioni, sintesi sommarie di alcune parti, italianizzazione del codice. I fabulatori, infatti, avvertono che il loro pubblico odierno - spesso infantile - ha perso l'abitudine e il piacere di seguire una narrazione orale sorretta 'solamente' dalla loro mimica e dalla loro abilità drammatica.Va ricordato, infatti, che in passato le fiabe si raccontavano a un pubblico indistinto per età e che esistevano narratori particolarmente abili nell'intrattenimento, di solito specializzati in particolari generi, come quello comico o quello tragico, che oggi si incontrano molto raramente. 3.2 Il canto Per il canto popolare si deve fare un discorso eminentemente storico, rivolto al passato. Se infatti si esclude il caso di Premana, le sue tracce nel Lecchese si conservano - ma probabilmente ancora per poco - presso particolari famiglie, portatrici di una tradizione esecutiva meno 138 labile, proprio perché di gruppo, o presso circoli di anziani che si ritrovano in forma più o meno istituzionalizzata. Le funzioni che il c. svolge in simili contesti risultano più generiche rispetto a quelle che ne hanno accompagnato la nascita e la diffusione: infatti, se in queste situazioni si canta per socializzare, per affermare un'identità familiare, generazionale, culturale, esaminando i testi, le forme, i modi esecutivi di molti canti si individuano intenti originari ben più articolati. Le registrazioni 'sul campo' e le raccolte di canti popolari del nostro territorio, edite in volume (Spreafico, Leydi 1978) o su disco (Leydi 1976, Sanga-Sassu, Canzoniere Popolare della Brianza) propongono ad esempio canti di lavoro, canti festivi e canti legati ad occasioni più insolite (il viaggio, magari di emigrazione, il servizio militare, ecc.). Tra i primi alcuni parlano esplicitamente di lavoro, talora per protestare e lamentarne le condizioni insopportabili, mentre altri accompagnano l'attività produttiva seguendone i ritmi. In questo caso - ed è quello che si verificava in filanda con i movimenti degli aspi - il canto serviva per attenuare la noia, dovuta alla ripetitività della produzione, e ad allentare la tensione per un lavoro che richiedeva destrezza e concentrazione (il canto, a differenza del dialogo, non era ostacolato dai datori di lavoro). I sondaggi condotti su altri contesti produttivi, in effetti, hanno mostrato che il canto non trovava le stesse condizioni favorevoli nelle officine metalmeccaniche o nelle tessiture. Per quanto si è detto, la filanda ha rappresentato un luogo privilegiato in cui si è consolidato lo stile esecutivo polivocale organizzato per intervalli di terza considerato, per l'Italia, tipico dell'area settentrionale. Negli stabilimenti serici si è verificato così un incontro di repertori e di generi, al di là della pertinenza tematica del canto rispetto ai problemi del lavoro. Si eseguivano infatti canti narrativi, spesso di 139 origine antica come per alcune ballate (Donna lombarda, A’ mangiato l’insalatina), ma anche canzoni da cantastorie (La forza elettrica mi ha rovinato), o canti di ispirazione religiosa. In altre parole il canto eseguito durante il lavoro, riprendeva composizioni originate in altri contesti e pensate per altre funzioni, spesso rituali. Le scadenze del ciclo della vita così come del ciclo dell'anno potevano essere accompagnate da canti specifici: ninne nanne, canti e rime infantili (La mia nonna l’è vecchierella), canti di coscrizione, canzoni di corteggiamento, di fidanzamento, canzoni collegate al matrimonio (Mama mia la spùsa l'è ché, il Matiné di Premana) anche espresse da strofe di scherno e di sfogo (O mamma la mia mamma), da un lato, e canti non liturgici legati al Natale o all'Epifania - i re magi - canzoni riferite al periodo di carnevale, strofe rituali dirette a propiziare l'allevamento dei bachi da seta, dall'altro. Tra il materiale musicale arcaico ci sono probabilmente proprio le orazioni popolari e le formule magico-rituali, mentre tra i prodotti relativamente recenti vanno ricordate le canzoni degli artigiani ambulanti (Il magnano, Lo spazzacamino), quelle da cantastorie, diffuse sulle fiere anche mediante i fogli volanti, venduti dagli stessi musicanti durante l'esibizione, e i canti sociali, nati in occasioni di fenomeni o eventi storici, come l'emigrazione o le guerre, che hanno segnato profondamente il vissuto delle classi popolari. Sia nei canti da cantastorie sia in quelli sociali o politici, si nota spesso una tendenza che è comune nel mondo popolare a riutilizzare moduli o anche parte di testi desunti da canzoni preesistenti, popolari e non. Ad esempio il canto narrativo A’ mangiato l'insalatina combinato con La mia nonna l'è vecchierella (Canzoniere Popolare della Brianza), decaduto a gioco infantile, ha dato luogo al canto partigiano Questa mattina mi son svegliato, più 140 nota come Bella ciao. Oppure il canto da cantastorie contro la grande guerra O la canzone dei giovani studenti si è trasformato durante la seconda guerra mondiale nel canto antifascista O Germania che sei la più forte. I suonatori ambulanti di fisarmonica, con i loro testi dedicati alla cronaca e a fatti di costume, in questo secolo, hanno rappresentato nella nostra zona un'occasione insolita di vedere abbinata la musica strumentale al canto. Piccole formazioni orchestrali, composte da strumenti a corda (chitarra, contrabbasso, violino), fiati (di derivazione bandistica) e strumenti ad ance libere (fisarmonica), erano diffuse nel nostro territorio ma si dedicavano prevalentemente alla musica da ballo. Allo stesso modo uno strumento più radicato nei nostri paesi - ma non “tipico” di essi - come il firlinfö si era affermato indipendentemente dal canto vocale (Foti). Solo occasionalmente la chitarra e la fisarmonica - acquisite in epoche relativamente moderne e derivate da altre tradizioni etniche - hanno avuto una certa presenza nel repertorio dei canti di osteria o in quello dei canti rituali legati ad occasione festive (serenate, matrimoni). 4. Tratti significativi dei materiali popolari Si potrebbero a questo punto forse sintetizzare alcuni caratteri significativi che emergono da un esame sui codici e sulle forme dei documenti folklorici. a) Esistono e hanno un peso assai forte sul piano culturale varianti di carattere geografico, ossia differenze locali significative, in particolare per i portatori delle forme espressive popolari. b) Accanto a ciò si riscontra un fenomeno in qualche 141 modo contrario al precedente, ossia il ricorrere di documenti e di materiali molto simili, anche a distanze molto grandi - come nel caso delle favole (Pirovano 1991, Thompson), dei canti (Leydi 1973), dei riti o degli utensili (Scheuermeier), come qui ha notato anche Italo Sordi parlando degli oggetti della cultura materiale. c) I manufatti e i prodotti della cultura spirituale sono legati ad una variabile sociale, ed esprimono l’appartenenza a subculture interne alla comunità, da parte di chi li ha prodotti o di chi usa una certa tecnica, un certo canto ecc. (Burke: 26 sgg.). Tali differenze dipendono dall’età, dal genere, dalla professione, dagli ambienti geografici ed economici. d) Le culture popolari e i prodotti folklorici sono soggetti ad un cambiamento nel tempo, come abbiamo visto anche qui negli esempi forniti di canto o di narrazioni. Si pensi a ciò che ha significato, a partire dal Cinquecento, la Controriforma con il suo impatto su pratiche, feste e, seppur meno agevolmente, anche sulle credenze delle classi popolari (Burke, Perego). e) I materiali del folklore, ancora più di quelli della cultura materiale e dell’arte popolare, sono spessissimo il risultato di un lavoro anonimo e a più mani, secondo un processo che è stato spiegato in termini di scelte che partono dall’individuo e di accettazione - rifiuto da parte della comunità (BogatiëvJakobson). Solo nel primo caso il comportamento individuale diviene “popolare”, sulla base di una sanzione della piccola comunità rurale sulle opzioni individuali: essa interviene mediante il pettegolezzo e i rapporti di vicinato, il controllo familiare e la censura religiosa, ispirati dalla tradizione con la sua 142 autorità (Redfield). e) Gli oggetti, ma forse anche i canti e le storie, sono considerati come prodotti del lavoro e i materiali sono segnati dalla coscienza della loro limitata disponibilità. Pertanto il rattoppo e il riuso, il bricolage (Merisi), sia nella cultura materiale sia nella cultura ‘spirituale’, rappresentano la regola per la cultura popolare, mentre lo spreco costituisce l’eccezione festiva. f) Gli strumenti, gli oggetti, i testi sono plasmati in vista di una loro funzionalità, che nel caso dei prodotti di letteratura popolare abbiamo cercato di esplicitare e di compendiare. Resta naturalmente in sospeso, peraltro, la questione del valore estetico del manufatto, del canto del dipinto ecc., che pure nel mondo popolare ha una sua importanza. 5. “Prendere al volo”: tecniche e prodotti della ricerca folklorica A questo punto si pone la questione della reperibilità dei materiali del folklore, della loro fruizione e dell’uso che oggi se ne fa e se ne può fare, anche da parte di un operatore agrituristico. Non dobbiamo dimenticare che, rispetto a quanto avviene per gli oggetti della cultura materiale, qui ci troviamo a maneggiare documenti “volatili”, che devono assolutamente essere fissati su un supporto materiale, se si ambisce a trattarli come un prodotti di una cultura che vogliamo analizzare e capire. Molto sommariamente: il primo problema è quello di individuare persone che divengano per noi fonti, e che possano fornirci documenti interessanti. Ascoltare, vede143 re in azione, interagire con cantori, con narratori, con portatori delle culture tradizionali è il passo successivo. Quindi – come detto - si tratta di registrare e conservare mediante la raccolta “sul campo”: registrare, fotografare, filmare sono le tecniche richieste, nel caso si voglia documentarsi e documentare, anche per sottoporre a chi fosse più esperto di noi i materiali trovati. Comparando ciò che abbiamo fissato, su nastri e su pellicole, con altri fenomeni analoghi sarà possibile valutare il grado di interesse scientifico di quel canto, di quella leggenda, di quel modo di dire, e di avviarci ad una sua comprensione. Vorrei in ogni caso tranquillizzare chi opera nel settore agrituristico: questo è il compito che tocca prioritariamente e sistematicamente agli studiosi, purché siano impegnati anche ‘sul campo’ e non solo ‘a tavolino’, nelle biblioteche e negli archivi, peraltro indispensabili.Tutt’al più si possono segnalare le proposte che offre il mercato a chi vuol conoscere il folklore del nostro territorio e a farlo conoscere ai suoi ospiti. Attualmente, ad esempio, esistono raccolte private e archivi di materiale sonoro e visivo poco noti, come quello presso la Regione Lombardia a Milano, l’Istituto de Martino di Sesto Fiorentino, la Discoteca di Stato di Roma, che conservano in maniera ordinata registrazioni, fotografie, filmati di carattere etnografico. Meno specializzato, ma interessante, è anche l’archivio degli audiovisivi della provincia di Lecco, che può dare in prestito quanto possiede. Ci sono poi i libri, i dischi, i filmati, le mostre, i musei, i concerti o le manifestazioni, che singoli, gruppi organizzati, editori privati ed enti pubblici propongono in continuazione. Non è materiale dello stesso valore e in genere i prodotti scientifici o comunque rigorosi si possono riconoscere per alcune caratteristiche ricorrenti: prendono le 144 distanze dalla vena nostalgica, si sforzano di superare una visione localistica utilizzando la letteratura scientifica sull’argomento affrontato, scandagliano una pluralità di fonti, riferite esplicitamente come contributo ad una ricerca autenticamente scientifica e perciò destinata a continuare, ed evitano l’approccio personalistico, che fa dei ricordi dell’autore il documento più autorevole - se non esclusivo - impiegato (Pirovano 1990 e 1993). Alcuni di questi “requisiti” non valgono solo per la produzione a stampa, ma anche per le mostre e i concerti, dove il rischio del folklorismo è in agguato. Dicevamo all’inizio che la cultura folklorica non si preoccupa dello spettatore, bensì della funzionalità di riti, canti, strumenti, usanze ecc. rispetto ai bisogni socialmente condivisi dalla comunità o dal gruppo. I prodotti folkloristici invece esprimono l’esigenza di captare la benevolenza di un pubblico o di adeguarsi al gusto corrente nella società di massa, magari addomesticando esteticamente (come è accaduto a Premana per il canto organizzato) o anche moralmente (si pensi al caso dei carnevali) il materiale ereditato dalla tradizione ad uso dei cittadini e dei turisti. 145 Riferimenti bibliografici Bassani, Felice, Erba Luigi 1982 I nostri vecchi raccontano, Bertoni, Merate. Bogatirëv, Pëter, Jakobson Roman, 1982 Il folklore come forma specifica di creazione, in P. Bogatirëv, Semiotica della cultura popolare, Bertani, Verona. Berruto, Gaetano 1974 La sociolinguistica, Zanichelli, Bologna. 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I protagonisti: cantori di Premana, lp VPA 8372/RL Canzoniere popolare della Brianza, 1998 Giovani e vecchi vi prego di ascoltare, cd MD05. 147 Aspetti di religiosità popolare Le edicole, i santi protettori, gli ex voto di Natale Perego Da tempo l’interesse per il popolare si è andato via via accentuando, con studi e ricerche che hanno cercato di scandagliare aspetti, problemi e curiosità. In particolare il filone della religiosità popolare (r. p.) continua a costituire argomento d’interesse e d’analisi per studiosi di varie discipline, quali folcloristi, etnografi, cultori della sociologia religiosa e studiosi di storia della mentalità. Infatti la r. p. è un crocevia di discipline e di conseguenza si presenta come un fenomeno complesso, variamente sfaccettato. Che cos’è la “religione popolare”? Ogni risposta rischia di essere limitativa, di coglierne solo delle componenti. Ci limitiamo a richiamare le interpretazioni più consuete. Nel corso della sua lunga storia la Chiesa ha dovuto convivere, accettare, talvolta subire pratiche e consuetudini religiose che non corrispondevano all’insegnamento religioso ufficiale, ma che erano voluti e vissuti dal popolo. La r.p. scaturirebbe da una contrapposizione fra una predicazione dei vescovi e un sentire diverso del popolo. Secondo altre linee interpretative la r.p. sarebbe sempre stata tollerata e anche alimentata dalla Chiesa ufficiale per una volontà di egemonia nei confronti delle classi sociali inferiori. Al di là di queste letture ci pare più significativo evidenziare nell’anima religiosa popolare alcuni caratteri che ben la contraddistinguono: • uno spiccato gusto per il meraviglioso e per l’insolito 148 Pietà, sec. XVI, Rovagnate (per es. lo stupore per il miracolo, la curiosità per il pallone che brucia in chiesa) • la tendenza a percepire gli aspetti esteriori, attraenti, colorati, più che il messaggio spirituale interiore • lo stretto legame con una devozionalità che deriva da bisogni e paure (si pensi ai drammi raffigurati negli ex voto dei santuari) • l’insopprimibile caratteristica della schiettezza e della sincerità in ogni sua manifestazione • la r.p. ha nella donna, più ancora che nell’uomo, una sua testimone esemplare In un discorso di studio e analisi della cultura popolare nel territorio lecchese, è d’obbligo prendere in considerazione la vita religiosa, dal momento che essa ha una parte molto rilevante nella vita sociale delle genti lecchesi e brianzole ed è matrice di mentalità, comportamenti, valori. Nel contesto ampio della vita religiosa in genere, trova una sua collocazione ben riconoscibile la r.p., qui considerata in due manifestazioni fra le più significative, quali le edicole religiose murali e gli ex voto. Le edicole religiose 149 Madonna del Rosario 1699 Pescarenico, Lecco 1.1 Una consuetudine antica Oggi quasi del tutto dimenticate, le edicole, le santelle, le pitture devozionali - che qua e là punteggiavano tutti i centri abitati dei paesi e costituivano gli unici elementi decorativi delle antiche cascine - un tempo rivestivano un grande significato religioso.Venivano dipinte come ex voto o più semplicemente per avere all’interno dell’abitato, dei cascinali, sul muro esterno della propria casa o stalla, un tramite immediato con la divinità. Diventavano ben presto patrimonio comune a tutti, perchè quei santi, quelle madonne erano oggetto di venerazione, di culto popolare con offerte e rituali, tridui di preghiere, rogazioni. L’intera comunità contadina chiedeva alla divinità raffigurata di intervenire per sopire e risolvere quelle tensioni proprie di ogni società agro-pastorale, come la nascitamorte degli uomini e degli animali, la fecondità-improduttività dei campi, la siccità-alluvione e così via. Le cappellette, poi, rispondevano a finalità sacre e profane. Di frequente venivano costruite là dove si incrociavano carrarecce o semplici sentieri perchè all’altezza di un bivio-trivio era più facile che si incontrassero spiriti e potenze malvage che abitavano nei boschi, per la campagna. A volte un’edicola veniva costruita lungo una via in un punto di sosta, al margine di un pascolo o di un bosco, sui confini tra una proprietà e l’altra: si sacralizzava il luogo e il lavoro che vi si svolgeva. 1.2 Arte popolare e quindi di nessun valore? Per quanto riguarda l’aspetto artistico, si è soliti parlare di “pittura popolare”, connotando questa definizione di un valore minore se non addirittura di un carattere dispregiativo. Gli storici dell’arte faticano ancora oggi a prendere nella giusta considerazione queste espressioni artistiche. Si 150 tratta certamente di una pittura dal carattere elementare, priva di intellettualismo, un’interpretazione semplice che riproponeva sovente stampe devozionali prese a modello e che raffiguravano madonne e santi propri della religiosità ufficiale, stampe che circolavano facilmente fra la popolazione. Il mondo contadino esigeva che fossero riprodotte nelle loro pose e fattezze quelle madonne, come quella di Caravaggio, che erano al centro del culto ecclesiastico ufficiale. E così i santi andavano dipinti nel rigoroso rispetto dei loro attributi, come la Biblia pauperum insegnava ed esigeva. Poco si sa degli artisti che hanno girovagato in lungo e in largo per il Lecchese e la Brianza, disseminando per ogni cascinale una loro opera. Di solito erano decoratori, pittori locali, frescanti di passaggio, girovaghi che per pochi soldi e un po’ di ospitalità erano disposti a dare un saggio della loro arte. Le edicole sono quasi sempre anonime, in coerenza con il principio che al centro dell’interesse deve stare il soggetto rappresentato, non l’artista, tutt’al più si può leggere il nome della figura dipinta e l’anno d’esecuzione. Le opere migliori, autentiche si collocano fra la metà del secolo scorso e i primi due decenni del secolo presente. Per quanto riguarda la tecnica pittorica si deve osservare che è raro l’affresco, mentre per lo più si incontrano immagini a tempera su calce secca. I colori sono intensi, forti, senza sfumature perchè devono colpire la fantasia popolare, per cui dominano gli ocra, i marroni, le terre rosse, i bleu. Capita, e non raramente, di incontrare soggetti ridipinti in tempi recenti, purtroppo in maniera molto grossolana, così che si conserva il soggetto, il tema, ma si è ormai perso la freschezza e la spontaneità originale. 1.3 I soggetti ricorrenti Se è d’obbligo osservare come la Madonna in tutte le Volto di Sant’Antonio Abate, 1875, Oggiono 151 sue espressioni (delle Grazie, del Carmine, del Rosario, della Cintura ecc. ) sia al centro delle immagini dipinte, tale osservazione acquista maggior significato se riferita alla Brianza e al Lecchese. Siamo al centro di un’area territoriale nella quale la pietà mariana è grandemente diffusa e radicata attraverso i suoi santuari che costituiscono ancora oggi mete continue di correnti di religiosità popolare. A fianco della Madonna del Bosco, di Bevera, di Lezzeno, in passato aveva grande considerazione presso la popolazione contadina la Madonna di Caravaggio, un’immagine che troviamo spesso raffigurata nelle edicole secondo lo schema classico della Vergine che appare ad una fanciulla in difficoltà, con il tipico ramo secco, in mezzo alle due figure, che improvvisamente fiorisce. Sullo sfondo campeggia la mole del santuario. Una coppia di santi frequentemente accompagna la Vergine, per esempio san Rocco e san Sebastiano. Questi ultimi costituivano una coppia inscindibile, meritevole di grande e incondizionata fiducia nel far fronte in passato alla peste e, in epoca più recente, al colera e a ogni morbo. San Rocco aveva dedicato la sua vita a guarire gli infermi, perciò le sue capacità taumaturgiche erano fuori discussione. E’ raffigurato mentre mostra la piaga della pestilenza su di una coscia ed ha ai piedi accovacciato il cane che l’ha aiutato. A maggior ragione ci si poteva aggrappare a san Sebastiano che, colpito da frecce acuminate, aveva saputo resistere al martirio, a quelle stesse frecce che ora venivano scagliate da mano ignota per diffondere la peste o il colera. Un po’ in ogni dove si ritrovano cappellette ed edicole con raffigurati i due santi. Un altro campione, dotato secondo il mondo contadino di forti poteri difensivi e taumaturgici, era sant’Antonio Abate, costantemente raffigurato con un aspetto austero, grazie alla lunga barba, con il campanello, il bastone del152 San Sebastiano e il Beato Giobbe, Beolco di Olgiate Molgora, 1890 l’eremita, il fuoco e il maialino tra i piedi. Questo santo era invocato a difesa degli animali e in memoria del male che egli aveva debellato durante un’epidemia nella Francia dell’XI secolo e che ancora oggi porta il nome di “fuoco di sant’Antonio”. In area brianzola un’immagine ricorrente è quella di san Giobbe, raffigurato da solo o ai piedi della Vergine o accompagnato da altri santi. Giobbe di bigat è un pittura tipica della Brianza; si tratta di un soggetto che veniva dipinto nei pressi delle filande o sotto i porticati di quelle case in cui si allevavano i bachi da seta, appunto i bigat. Solo una mentalità profondamente religiosa, concreta e bisognosa di sicurezza come quella contadina poteva vedere nella figura biblica di Giobbe e nelle sue sofferenze un suo simile. Di solito è dipinto accovacciato su del letame, con il corpo piagato, messo alla prova da Dio stesso. Dal suo corpo fuoriescono dei vermi che scivolano su di un ramo fronzuto che sta alle spalle del povero santo e “salgono al bosco”, incominciando a trasformarsi in bozzoli. Le filandere vedevano nelle fatiche e sofferenze di Giobbe le loro fatiche e sofferenze e quindi lo pregavano come protettore di tutte le operazioni connesse con la bachicoltura. 153 Madonna in trono con S. Rocco e S. Sebastiano, sec. XIX, Barzago 154 E che dire di san Carlo, in vita fieramente contrario ad ogni superstizione, ad ogni culto che non rientrasse nell’ambito di una rigorosa religiosità ufficiale, trasformato ben presto dalla religiosità popolare in un simbolo taumaturgico di difesa contro le epidemie e quindi anch’esso raffigurato in compagnia della Vergine. Con minor frequenza venivano rappresentati altri santi, come san Luigi, sant’Antonio da Padova, santa Apollonia, santa Rita, san Martino, san Giuseppe. Mentre la figura del Cristo era presentata soprattutto nelle scene classiche della Crocifissione o della Deposizione. Un tempo c’era una maggior abitudine, se non addirittura confidenza, a convivere con la morte. Si moriva in età infantile come in età adulta, per gli stenti, per lo scarso nutrimento quotidiano, per le fatiche lavorative. E i morti, paradossalmente, continuavano a vivere in famiglia presso i propri cari. Questa inclinazione verso le anime dei morti si esprimeva attraverso la raffigurazione delle “anime purganti”. Nei dipinti delle cappellette, ai piedi della figura principale, di frequente si affrescavano le anime del Purgatorio che avvolte dalle fiamme alzavano occhi e braccia al cielo in atteggiamento implorante. Erano anime che necessitavano di messe e preghiere continue, per cui quelle cappellette erano mete di processioni individuali o collettive, per rendere fruttifero il legame tra vivi e morti. Un tempo c’era una sete sincera di sacro che andava placata, c’era bisogno di avere la divinità sempre visibile; ognuno esigeva quasi un santo tutto per sè, per le proprie necessità, un santo con il quale stabilire un rapporto privilegiato, confidenziale. La religiosità popolare si nutriva di questi slanci sinceri, autentici, e i numerosi dipinti murali, edicole, cappellette ancora disseminate in Brianza e nel Lecchese ne sono una testimonianza preziosa, una testimonianza prima religiosa e poi artistica. Sono simboli unici per una corretta lettura del territorio e dell’origine della nostra cultura: per questo meriterebbero una maggior considerazione e salvaguardia. 2. Per grazia ricevuta. Gli ex voto dipinti A tutti è capitato di entrare in un santuario e di essere attratti, in un angolo della chiesa, da quei piccoli quadretti dipinti che in genere raffigurano drammi di vita quotidiana, incidenti di lavoro, malati in preghiera. Sono straordinarie testimonianze di un sentire religioso che in epoche passate esprimeva il senso di ringraziamento verso la divinità, per una grazia ricevuta, con questi oggetti devozionali. Per un santuario, la propria raccolta votiva ha un valore enorme, perchè è la sua vera storia, è il credito religioso accumulato nel tempo e tuttora spendibile presso i fedeli che lo frequentano. L’ex voto è un oggetto complesso, perchè è in primo luogo una testimonianza religiosa sulla quale si innestano aspetti di carattere storico-sociale ed artistico. Studiato e valorizzato in tante realtà territoriali d’Italia è tuttora piuttosto ignorato nell’intera Diocesi di Milano. E’ necessario, Un uomo su di una barca rischia di essere travolto dal fiume. Olio su tela, 1847. ex voto della Madonna del Bosco d’Imbersago 155 Una donna prega inginocchiata davanti ad un altare. Acquarello su carta di C.M. Frisia 1852. ex voto della Madonna del Bosco d’Imbersago pertanto, creare una maggior consapevolezza dell’importanza di quest’arte devozionale perchè sia salvaguardata, sottraendola all’incuria del tempo ed alle possibili speculazioni. 2.1 Cenni di storia sull’ex voto Tralasciando le consuetudini del mondo antico di offrire doni di ringraziamento alla divinità, sembra che l’ex voto dipinto abbia avuto inizio proprio in Italia verso la fine del Medioevo. E’ di epoca quattrocentesca l’uso di raffigurare l’accaduto per perpetuarne il ricordo ed esaltarne il valore religioso. Anche per l’ex voto dipinto si ripropone la polemica del rapporto fra arte popolare e arte colta. Numerose pale d’altare che ammiriamo come espressione di “arte colta” sono state commissionate da principi, signori, banchieri, ecclesiastici proprio come ex voto. Il Beato Angelico, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Tintoretto hanno dipinto ex voto. Lo stesso Raffaello, con alcune sue pale raffiguranti in alto la Madonna, avvolta in un alone paradisiaco di nuvole, ha contribuito a definire i canoni stilistici dell’ex voto dipinto più di quanto non si 156 Una donna dalla testa fasciata, giace a letto in preghiera. Acquarello su carta di C.M. Frisia 1854. ex voto della Madonna del Bosco d’Imbersago pensi. Solo che l’ex voto colto si distingue da quello popolare perchè nei primi la motivazione rimane nascosta, prevalendo l’aspetto celebrativo con la raffigurazione del committente stesso; nei secondi, invece, non c’è alcunchè da celebrare, perchè tali dipinti sono nati da casi di vita vissuta, da accadimenti sofferti e travagliati. Nella storia dell’ex voto dipinto si deve registrare un suo forte incremento nel XIX secolo, soprattutto nella sua seconda metà, un fenomeno non certamente casuale, ma da ascrivere alla storia religiosa della Chiesa stessa che in quel periodo favorisce una ripresa devozionale di massa del culto mariano. E’ l’epoca in cui si definisce il dogma dell’Immacolata, è il momento dell’apparizione della Vergine a Lourdes, sorgono nuovi santuari: le grazie non mancano e con esse anche gli ex voto. Nel seecolo XX fa da spartiacque l’ultimo conflitto mondiale, dopo il quale diminuiscono progressivamente gli ex voto dipinti portati ai santuari e, soprattutto, si modifica la natura dell’ex voto che da tavola dipinta si trasformaa in una riproduzione fotografica dell’accaduto. Cambiano le tecniche, ma anche i protagonisti perchè fino al XVIII secolo le classi superiori partecipano della cultura dell’ex voto, 157 Un uomo è schiacciato da un lastrone di pietra. Acquarello su carta di C.M. Frisia 1855. ex voto della Madonna del Bosco d’Imbersago vi ricorrono tanto quanto i ceti popolari; dal XX secolo in poi tendono ad ignorarlo, lasciando che sia la gente comune, i contadini, a rendere pubbliche le grazie ricevute con un atto di devozione votivo. 2.2 La cultura dell’ex voto Infatti, l’ex voto è una testimonianza, un atto rituale per sdebitarsi nei confronti di una divinità che si è degnata di partecipare ad un dramma del quotidiano, che si è impegnata per ristabilire un equilibrio di vita che si era spezzato. Questo dramma scaturisce dalle situazioni più comuni, coma la caduta dalle scale, il rovesciamento di un carretto, il cedimento di un balcone, un incidente stradale, una malattia inguaribile, e la persona miracolata si trova nella situazione di privilegio di colui che ha visto davanti ai suoi occhi il mondo cambiare il suo corso; con la sua invocazione egli ha determinato una “ribellione religiosa”, capovolgendo la situazione di disgrazia in una situazione di grazia. L’accaduto, raccontato ad un pittore, viene fedelmente rappresentato. Ecco che l’ex voto acquista un suo valore documentale per la storia della vita popolare, della cultura 158 Una donna cade dalla scala appoggiata ai tavolati dei bachi da seta. Acquarello su carta di C.M. Frisia 1858. ex voto della Madonna del Bosco d’Imbersago materiale. In essi vengono descritti usi, costumi e credenze, mezzi e strumenti di lavoro, modi di divertimento, consuetudini familiari, celebrazioni religiose. Attraverso la raffigurazione di abitazioni di città o di campagna, dell’arredamento domestico, delle fogge del vestire, del comportamento adulto e infantile è possibile ricostruire aspetti della vita quotidiana di una determinata epoca, di una certa area territoriale. Le tre tipologie iconografiche più ricorrenti fra gli ex voto sono quelle dell’incidente, dell’infermo, dell’orante. Nascono da una convinzione antropologica ben precisa, da una convinzione assoluta secondo cui tutti gli eventi sono causati da uno scontro eterno tra bene e male, tra un’entità negativa e positiva, con il superamento della situazione di crisi attraverso l’intervento diretto del soprannaturale. Così, risulta chiaro il valore didascalico dell’ex voto. Il fedele che passa in rassegna i dipinti votivi vede rafforzarsi la sua fiducia nelle capacità taumaturgiche della Madonna, dei Santi, del divino. Si convince che in caso di bisogno anch’egli potrà essere aiutato. Lo stesso santuario è sentito come un luogo eccezionale dove è possibile stabilire più facilmente un contatto con il 159 Un’automobile sbatte contro un palo della corrente elettrica. Olio su tavola ex voto della Madonna del Bosco d’Imbersago Soprannaturale, senza la mediazione del sacerdote, della Chiesa. 2.3 Gli ex voto dipinti della Madonna del Bosco d’Imbersago Fra i numerosi santuari mariani che alimentano la devozione popolare della Brianza, quello d’Imbersago è senza dubbio il più importante e conserva una importante raccolta di ex voto dipinti. Questo santuario sorge in epoca post-tridentuna, un’epoca di forte devozione mariana, quando con facilità si attribuiva la qualifica di miracolo ad ogni fatto fuori ordinanza. La leggenda di fondazione del santuario della Madonnaa del Bosco racconta che il 9 maggio 1617, in piena primavera, alcuni pastorelli videro su di un castagno un grosso riccio con tre castagne mature anzitempo. Si narra anche di un lupo che, dopo aver strappato un infante alla madre disperata, l’abbia riportato sano e salvo grazie all’intervento della Vergine. 160 Il corpus votivo del santuario è composto da 112 dipinti (oltre a un migliaio di cuori dorati), il più antico dei quali risale al 1708. Tre dipinti sono del XVIII secolo, 60 del XIX secolo e 49 del XX secolo. Si tratta, dunque, di una raccolta significativa per quantità e qualità. Si può notare come l’impostazione del dipinto ottocentesco sia diversa rispetto a quello del Novecento. Il primo è più conforme ad una tradizione di ordine, di compostezza, maggiormente ripetitivo nei suoi schemi; infatti, la Madonna è sempre in evidenza, appollaiata su di un castagno in un cerchio di nubi, in alto; a ricevere la grazia è il più delle volte una contadina ammalata. L’ex voto del Novecento risente di un maggior dinamismo, di una accentuata libertà cromatica; ferquentemente nei confronti della divinità prevale l’elemento umano, espresso non più dalla donna, ma dall’uomo che è in pericolo di vita a causa di incidenti stradali. Prendendo in considerazione le occasioni di grazia, si osserva che l’ex voto per malattia, nel secolo scorso, rappresenta esattamente un terzo del totale, ma diminuisce di molto in questo secolo, lasciando intravedere come una volta fosse di gran lunga più difficile risolvere i problemi di salute. La scenografia di questi ex voto ha caratteristiche ricorrenti: l’ammalato giace a letto, in preghieraa, e mostra la parte del corpo malata; se il graziato appartiene al ceto popolare, l’arredamento della camera è povero ed essenziale, risulta più ricco e curato in caso di ceto elevato. Negli ex voto della Madonna del Bosco il gruppo più consistente (34%) ha per soggetto gli incidenti con i veicoli. Essi costituiscono un curioso gruppo narrativo per la varietà degli incidenti e, proprio attraverso di essi, si può leggere la curva evolutiva del passaggio da una civiltà esclusivamente contadina ad una civiltà tecnicizzata e industrializzata. Nei dipinti del secolo scorso sono raffigurati carretti che si rovesciano, contadini travolti da cavalli 161 in fuga, bambini finiti sotto le ruote del carro; in quelli del nostro secolo irrompe il mezzo meccanico, motorizzato, determinando scontri fra automobili, investimenti di pedoni, camion rovesciati, cadute da treni in corsa. Come motivo di grazia è frequente anche l’infortunio sul lavoro. Sono più numerosi nel XIX secolo rispetto al secolo presente. In questo ambito è di notevole significato storico-culturale un ex voto che illustra in area brianzola l’allevamento domestico del baco da seta. Una giovane donna cade da una scala sulla quale era salita per rifornire i bachi di foglie di gelso. Qualche incidente è raffigurato anche in ambiente fluviale, lungo le sponde dell’Adda, che scorre nei pressi del santuario. Un ultimo nucleo consistente di ex voto (14,6%) non lascia trasparire il motivo della grazia. Questi dipinti si possono tutti ricondurre ad una figura femminile in preghiera. Sono donne appartenenti al ceto sociale superiore che non hanno ritenuto di evidenziare l’accaduto in termini espliciti, preferendo difendere la vita privata e familiare, pur riconoscendo l’intervento miracoloso. 2.4 Carlo Magno Frisia, l’artista degli ex voto. All’interno della raccolta votiva del santuario della Madonna del Bosco è possibile individuare un gruppo di dipinti attribuibili ad un unico artista, che, in due casi, si è firmato con la sigla “C. m. F.”. Si tratta di Carlo Magno Frisia, padre di Costantino e nonno del famoso pittore Donato Frisia, di Merate. Di sua mano il santuario possiede ben 33 ex voto, dipinti tra il 1852 e il 1878 (un altro si trova presso la Madonna Addolorata di Santa Maria Hoè). Era certamente un pittore conosciuto in zona e a lui ci si rivolgeva per realizzare un ex voto. Pur se quasi tutti anonimi, i suoi lavori sono ben individuabili perchè accomunati da ricorrenti elementi tecnici: egli dipingeva solo ad acqua162 rello su carta, l’apparizione divina è sempre presentata con una Madonna appollaiata al centro di un albero dalle fronde cascanti; le figure dei graziati sono proposte in pose molto enfatiche; la scritta “G.R.”, grazia ricevuta, è ben leggibile e ripetitiva nel segno, quasi sempre posta in appositi cartigli. Pur ricorrendo a certi schemi fissi, nel presentare ambienti interni, nel raffigurare donne in preghiera, nel drammatizzare incidenti di lavoro e di viaggio ha sempre saputo trovare motivi, colori, iscrizioni in grado di rinnovare i suoi ex voto dipinti. Bibliografia A Cedro, M. Viganò, Brianza e Lecchese. Dimore rurali, Milano 1985 Cultura e immagine popolare nel territorio manzoniano tra i secoli XVI e XIX, Comprensorio lecchese, 1985 N. Perego, Miracoli dipinti. Gli ex voto del Santuario della Madonna del Bosco di Imbersago, Cattaneo, Oggiono, 1993 R. Perego, Chiesa e popolo in Brianza (1919-1939), Lecco, 1979 F. Pirovano, D. F. Ronzoni, Santi in cascina, Bellavite, Missaglia, 1996 V. Sironi, Edicole e immagini sacre in Brianza: un patrimonio da conoscere e salvare, I Quaderni della Brianza, 37/1984 A. Turchini, Lo straordinario e il quotidiano, Brescia, 1980 163 Architettura rurale tradizionale Tipologie edilizie, materiali, tecniche costruttive, modi di valorizzazione attualia Giuseppe Glorioso 1. Caratteri generali dell’insediamento rurale tradizionale La tematica dell’architettura rurale tradizionale deve essere inquadrata all’interno del più ampio tema dell’ “insediamento rurale”, inteso come esito di un’attività di modificazione dell’ambiente da parte dell’agricoltore, in relazione ai propri bisogni vitali. Semplificando, si può dire che l’insediamento rurale tradizionale, nella sua forma primitiva e spontanea, è caratterizzato dai seguenti fattori peculiari: I fattori peculiari dell’insediamento rurale tradizionale 164 1. forte legame con i vincoli naturali dell’ambiente fisico, quali la morfologia del terreno, la presenza o meno di acqua, le caratteristiche climatiche, la vegetazione, le risorse naturali disponibili in genere; 2. sostanziale indifferenza alle correnti artistiche e architettoniche prevalenti: proprio a causa del forte legame con l’ambiente naturale, l’insediamento rurale tradizionale è stato influenzato solo in modo marginale dalle grandi spinte culturali, che invece hanno avuto una notevole influenza sulle altre tipologie architettoniche, quali l’architettura religiosa, civile, militare, e l’architettura “urbana” in genere; 3. economia di mezzi e risorse: l’edilizia rurale tradizionale è strettamente vincolata alla spontanea abitudine della società contadina a provvedere da sé alle necessità di vita e di lavoro, con i mezzi che ha a portata di mano e con i materiali più facili da reperire e più semplici da mettere in opera; 4. legame forma-funzione: l’insediamento rurale tradizionale è caratterizzato da una rara autenticità costruttiva, tale per cui le forme architettoniche variano in stretta dipendenza alla funzione specifica attribuita agli edifici stessi e ai loro componenti. I caratteri dell’insediamento rurale tradizionale I fattori suddetti hanno inciso in modo sostanziale sui caratteri dell’insediamento rurale tradizionale, sotto tre punti di vista: • tipologico: gli insediamenti rurali tradizionali, al fine di soddisfare le esigenze funzionali per i quali sono concepiti, si adattano, con estrema economia di spazi, ai limiti fisici imposti dall’ambiente naturale, rifuggendo da soluzioni tipologiche ridondanti e dallo “spreco” di spazi interni ed esterni; ciò ha determinato la presenza di soluzioni plani-altimetriche e distributive assai simili all’interno di contesti territoriali e culturali anche molto distanti tra di loro, ma connotati da caratteri naturali similari; • costruttivo: l’insediamento rurale tradizionale è caratterizzato da soluzioni costruttive estremamente semplici ed “economiche”, ma efficaci, essenzialmente legate alle esigenze funzionali, alla disponibilità di materiale in loco e alla reale possibilità di lavorazione e messa in opera del materiale stesso; • estetico: l’aderenza funzionale ai canoni naturali (per quanto riguarda gli aspetti tipologico e costruttivo), 165 si riflette implicitamente sull’effetto estetico del manufatto, che risulta perfettamente inserito nel contesto paesaggistico, sia dal punto di vista morfologico (dimensioni contenute, aderenza alle curve di livello, utilizzo di tetti a falda larga, ecc...), che figurale (cromatismi, assonanza di materiali, “tessitura”, ecc...); le costruzioni rurali tradizionali si presentano per lo più semplici e prive di ornamenti e/o decorazioni; le rare espressioni figurative rintracciabili nell’edilizia rurale tradizionale (dipinti murali, santelle, ecc...) sono prevalentemente riconducibili a esigenze di carattere religioso e devozionale popolare, più che a vera e propria volontà “artistica”. La perdita della “spontaneità” dell’architettura rurale tradizionale 166 Bisogna peraltro sottolineare che, nel corso dei secoli, soprattutto all’interno degli ambiti territoriali più produttivi (collina e pianura), tali caratteri “spontanei” dell’insediamento rurale sono stati parzialmente modificati per effetto del rapporto di sostanziale “dipendenza” dei contadini nei confronti della grande proprietà terriera. Ciò ha determinato l’innestarsi di volontà espressive, nonché di scelte costruttive e insediative indipendenti dalle esigenze elementari della vita contadina e delle sue più antiche consuetudini e tradizioni: infatti, le esigenze produttive dei grandi proprietari terrieri, unite ad una precisa volontà di auto-rappresentazione, hanno fatto sì che l’insediamento rurale perdesse gran parte di quei caratteri di spontaneità e “necessità” prima descritte, che invece hanno permeato le fasi più antiche del processo insediativo rurale. Tali caratteri, come si vedrà, sono rintracciabili in modo ancora piuttosto evidente proprio all’interno di quegli ambiti territoriali investiti solo marginalmente dai processi di trasformazione degli ultimi tre secoli, quali quelli di alta collina e di montagna. 2. Le tipologie dell’insediamento rurale nel lecchese Gli insediamenti rurali ancora presenti nel lecchese sono ciò che è rimasto di un sistema insediativo rurale che in secoli di storia ha raggiunto grande consistenza, estendendosi in modo complesso e articolato su tutto il territorio. L’estrema varietà di ambienti e paesaggi presenti nel territorio lecchese ha dato luogo ad una casistica piuttosto articolata di insediamenti rurali. Si può dire che, coerentemente all’assetto paesisticoambientale del territorio, sono riconoscibili quattro tipologie fondamentali di insediamenti rurali tradizionali, che spesso si intrecciano, convivendo all’interno di una medesima area: 1. l’insediamento alpino 2. l’insediamento prealpino 3. l’insediamento pedemontano 4. l’insediamento di pianura. 2.1 L’insediamento alpino L’insediamento alpino è diffuso in ambiti assai diversificati, comunque caratterizzati dalla presenza di versanti a forte pendenza; il fattore principale che determina la presenza degli insediamenti di tipo “alpino”, infatti, non è tanto la quota, quanto la presenza di pendii ripidi. I caratteri dell’insediamento alpino sono strettamente legati alla peculiare organizzazione del territorio, basata su due fattori fondamentali: 1. la distribuzione delle risorse in fasce altimetriche, secondo il seguente schema: L’articolazione delle tipologie di insediamento rurale tradizionale è legata all’assetto paesistico-ambientale del territorio Stretto legame tra insediamento alpino e organizzazione del territorio 167 • versanti bassi o fondovalle: centri abitati permanentemente, strade, campi e prati coltivati; • versanti intermedi: bosco misto di latifoglie e conifere alternato a prati-pascoli, con abitazioni temporanee, ricoveri per il bestiame e fienili (maggenghi) comunicanti con i versanti bassi e il fondovalle per mezzo di mulattiere; • versanti ad alta quota: bosco di conifere che cede il posto verso l’alto a pascoli magri (fino al crinale o fino alla base delle rocce) con alpeggi costituiti da stalle, ricoveri per i pastori, edifici per la lavorazione del latte (malghe); gli alpeggi sono collegati tra di loro e con i maggenghi tramite sentieri. 2. organizzazione comunitaria della proprietà (possesso indiviso dei pascoli e del suolo) e del lavoro agricolo, basato su forme di collaborazione e integrazione tra le famiglie. I tipi di insediamento alpino, gli insediamenti permanenti e gli insediamenti stagionali 168 Tale organizzazione territoriale ha dato luogo a due forme distinte di insediamenti rurali: a) gli insediamenti permanenti, situati a valle o nella parte bassa dei versanti e destinati alla dimora stanziale e al ricovero degli animali durante il periodo invernale (dicembre-febbraio); essi sono costituiti da due agglomerati nettamente separati: - il nucleo principale a destinazione esclusivamente abitativa, con disposizione raccolta e compatta; gli edifici, quasi esclusivamente in pietra, sono caratterizzati dall’assenza di cortili interni (Fig. 1); - il nucleo di rustici, periferico rispetto al nucleo abitativo; l’utilizzo dei fabbricati rustici esterni all’abitato era in relazione sia alle colture agricole (deposito ed essiccazione di fieno e cereali, deposito 1 attrezzi agricoli), sia al ricovero del bestiame (stalle), sempre strettamente dipendente dai periodi di crescita del fieno; i rustici sono disposti a schiera, parallelamente al terrazzo su cui sorgono, al fine di affacciarsi al sole con il lato a valle, per consentire l’essiccazione dei prodotti agricoli (foto 1 e 2). b) gli insediamenti stagionali (maggenghi) costituiti da rustici simili a quelli presenti in prossimità del nucleo abitato principale, utilizzati per il ricovero temporaneo dei pastori e degli animali, nonché per lo stoccaggio e l’essiccazione del fieno e dei cereali, durante gli spostamenti verso gli alpeggi, ossia i pascoli alle quote più elevate, e viceversa (marzonovembre); alle quote più elevate (alpeggi) non vi sono più insediamenti veri e propri, ma semplici ripari per il bestiame e per i pastori e i bergamini, o piccole baite poste in prossimità degli abbeveratoi. I caratteri comunitari dell’organizzazione territoriale si riflettono direttamente nella forma urbana degli insediamenti, che è concepita per rispondere alle esigenze 2 Foto 1 L’insediamento di Tremenico in Valvarrone: si nota la netta suddivisione tra nucleo abitato e nucleo di “rustici” (i “fienili”) Foto 2 I “fienili” di Tremenico 169 Relazione diretta tra caratteri comunitari della vita alpina e insediamenti della comunità, e non rispetta affatto i concetti di sedìme e di area fabbricabile di proprietà dei singoli. L’aggregato urbano è molto indefinito e caratterizzato da continuità di spazi e percorsi: i singoli edifici si appoggiano l’uno all’altro con grande solidarietà spaziale, disegnando percorsi interni tortuosi, gallerie e passaggi coperti, tanto che è difficile distinguere le diverse proprietà. Fig. 1 - La dimora alpina: schemi planimetrici Il sistema insediativo della Valvarrone 170 Il sistema insediativo suddetto è particolarmente evidente nelle valli dell’alto Lago, quali l’alta Valsassina, la Val Varrone e Val Muggiasca, caratterizzate da condizioni morfologiche e ambientali molto vicine a quelle alpine vere e proprie (pendii accentuati e quote elevate). In Val Varrone, in particolare, si è sviluppato un sistema insediativo peculiare, basato sulla presenza diffusa lungo i versanti di un gran numero di rustici (“löch”), aggregati in nuclei, distribuiti lungo il percorso delle vie di pascolo, ad una quota variabile tra i 900 e i 1500 mt., che ripetono, a quote più elevate, lo schema aggregato dei rustici annessi ai nuclei abitati principali, situati alle quote inferiori; si tratta di fabbricati anche di notevole altezza (fino a 4 piani) destinati a stalla, fienile e alla essiccazione dei prodotti agricoli; frequentemente a tali fabbricati sono addossati piccoli edifici per il ricovero temporaneo (“caˇsinèl”), costituiti da un unico vano quadrato dotato di un rudimentale focolare e posto-letto (Fig. 2). Nei raggruppamenti di rustici sono presenti alcune costruzioni comunitarie destinate alla lavorazione del latte e alla produzione del formaggio (caˇsina del lac e caˇsina del föch) o quale luogo di riunione della comunità nei periodi del taglio del fieno (caˇsina di lèc) (Fig. 2). Fig. 2 - Valvarrone: piante-tipo di un “caˇsinèll”e degli edifici 3 Foto 3 - Valvarrone: rustico a 2 livelli (stalla + fienile) comunitari Un altro esempio di insediamento di tipo alpino si ritrova nella fascia meridionale del territorio lariano, collocata a ridosso della collina e della pianura lombarda (a sud-est, nel territorio di Morterone, in alcune zone della Valle S.Martino e a confine tra la Valsassina e le valli bergamasche Brembana e Imagna). Si tratta di piccole frazioni, all’interno delle quali gli edifici presentano una tipologia peculiare e unica nella zona lariana, importata dalle valli bergamasche confinanti. L’insediamento alpino della fascia meridionale 171 4 Foto 4 - Morterone: fabbricato rurale in frazione Frasnida Gli articolati nuclei di edifici destinati a maggengo, presenti nelle valli settentrionali, sono qui rimpiazzati da costruzioni isolate, diffuse sui pendii sovrastanti le frazioni, la cui tipologia è analoga agli edifici presenti nelle frazioni stesse. Ciò è dovuto alle particolari caratteristiche ambientali (conformazione del suolo morenica, ricca di ampie conche e senza grandi dislivelli), grazie alle quali il ritmo di vita, scandito dagli spostamenti stagionali per seguire il bestiame, è più simile a quello della zona prealpina: infatti, la vicinanza dei pascoli ha permesso agli uomini di restare a lungo nell’abituale dimora e di spostarsi nelle baite destinate ad alpeggio solo per brevi periodi dell’anno (foto 4). L’insediamento alpino dei versanti lacustri si possono infine definire di tipo alpino gran parte degli insediamenti distribuiti lungo i versanti del lago di Como. Le sponde lariane, quasi sempre scoscese, ospitano prevalentemente nuclei che dipendono dalla montagna retrostante per la propria economia, fondata sull’allevamento, sulla coltivazione dei castagneti e su tutte quelle attività tipiche dei centri alpini. Questi nuclei, presenti sia a nord che a sud, si sviluppano a mezza costa, senza avere quasi mai alcuna relazione con la riva del lago e ripropongono la distribuzione dei percorsi e dei lotti lungo le isometriche del versante. Ciascuno di essi è dotato inoltre del cosiddetto “monte”, ossia l’insediamento stagionale, che può essere ubicato sullo stesso pendio affacciato sul lago o anche su un diverso versante idrografico prospettante su una vallata interna. Analogie e differenze tra insediamento alpino e prealpino 172 2.2 L’insediamento prealpino L’insediamento prealpino è diffuso in ambiti caratterizzati dalla presenza di porzioni abbastanza ampie di terre- no su pendii dolci, altopiani e fondovalle agevoli e, in particolare, nella fascia mediana della Valsassina e nei conoidi pianeggianti lungo la sponda del Lario. L’insediamento prealpino è caratterizzato da un sistema insediativo analogo a quello alpino, ma più semplificato: infatti, la relativa vicinanza dei pascoli agli insediamenti permanenti, unita ad una situazione morfologica meno accidentata, ha permesso agli uomini di restare a lungo nell’abituale dimora e di spostarsi nelle baite destinate all’alpeggio solo per brevi periodi dell’anno. L’insediamento permanente, che ripropone pertanto gli schemi di quello alpino, è caratterizzato da nuclei accentrati e compatti, nei quali le diverse unità abitative, accorpate e sovrapposte, sono organizzate attorno a spazi comuni: in ciascuna dimora del nucleo abitato risiede una sola famiglia patriarcale, la cui esistenza si svolge con il ritmo seminomade della vita alpina, legata all’allevamento del bestiame. Lungo i pendii più dolci delle montagne soprastanti i nuclei abitati principali, si trovano numerose baite isolate, nelle quali si svolge l’attività estiva per l’allevamento del 5 Foto 5 - Paesaggio rurale della Valsassina meridionale 173 bestiame. Si tratta di costruzioni isolate o a piccoli gruppi, poste sulle pendici dei monti tra i 1.000 e i 1.500 metri di altitudine; tali costruzioni, però, a differenza dei maggenghi, non si presentano mai come veri e propri nuclei accentrati (foto 5). Le baite sono costituite da un unico corpo di fabbrica comprendente locali di abitazione, stalla e fienile, spesso di rilevanti dimensioni, caratterizzati dalla presenza di ampi aggetti del tetto; sono assenti i loggiati in legno, che invece caratterizzano le costruzioni abitative del nucleo principale. Tramite questa struttura capillare vengono gestite ampie fasce di territorio intorno al nucleo a valle, fino alle pendici dei terreni più aspri, dove si trovano le zone in cui, solo in un breve periodo estivo, trova pascolo il bestiame (alpi). Le “alpi” sono costituite da semplici ripari (per es. un abbeveratoio) situati nelle aree più distanti dalle baite. Come già accennato, dato il limitato sviluppo del pendii, vi è generalmente uno spostamento unico verso le alpi nella stagione estiva, o, in alcuni casi, in più tempi, soffermandosi nella mezza stagione in baite più vicine all’insediamento permanente. I casali della Valsassina 174 I casali Tale insediamento, sviluppatosi nella Valsassina meridionale, costituisce una tipologia intermedia tra quella prealpina, alla quale è assimilabile per le caratteristiche costruttive e i materiali utilizzati, come i profondi loggiati in legno, e quella pedemontana, di cui ricalca la soluzione distributiva e l’impianto “a corte”. Il “casale” o “casera” è costituito da due corpi di fabbrica a schiera, posti uno di fronte all’altro a formare una strada interna (una sorta di cortile comune a carattere lineare) e un nucleo autonomo di abitazioni e rustici (ad es.: Tonalli di Sotto, Tonalli di Sopra, Magitt) (Figg. 3, 4). Fig. 3 - Esempi di “casali” in Valsassina Fig. 4 - Il “casale”: schema planimetrico I corpi destinati a rustico, comuni a più famiglie insediate nel casale, hanno un’ubicazione periferica rispetto al nucleo principale: tale soluzione anticipa la separazio175 ne netta tra nucleo residenziale e rustici tipico degli insediamenti alpini. Da questi complessi, nei quali confluiva tutta la produzione di latte dell’allevamento locale, hanno preso origine le aziende di produzione dei formaggi tipici della Valle. 2.3 L’insediamento pedemontano L’insediamento pedemontano è diffuso nelle aree pianeggianti o a dolce pendenza della collina e delle prime pendici e fondovalle montani: esso, in particolare, è presente in tutta la fascia collinare della Brianza e si estende lungo la Valassina nel cosiddetto triangolo lariano, nella conca lecchese agli estremi meridionali del Lario, nella Val S.Martino, inoltrandosi negli ampi fondovalle della Valsassina meridionale e nell’alto lago, dove i fiumi hanno plasmato ampie aree pianeggianti. Nell’ambito dell’insediamento pedemontano sono riconoscibili due modalità insediative: 1. i nuclei rurali 2. gli insediamenti isolati Gli insediamenti premontani originari (XXII - XVII sec.) La concezione comunitaria del “villaggio” 176 2.3.1 I nuclei rurali In alcune zone dell’alta collina, la cui sfavorevole situazione morfologica ha scoraggiato trasformazioni successive del paesaggio agrario, gli insediamenti conservano ancora oggi i caratteri del primo periodo dell’espansione rurale, prodottasi a seguito delle grandi opere di dissodamento compiute e promosse dagli ordini monastici a partire dal XII secolo, e protrattasi fino al XVI-XVII secolo, in coincidenza con la grande diffusione della mezzadria. In questo periodo la dimora rurale, per ragioni di sicurezza, risulta aggregata e accentrata in piccoli villaggi, che formano organismi unitari e complessi, alla cui base vi è una concezione comunitaria, per cui ciascuna famiglia ha come proprio riferimento e orizzonte la comunità del villaggio. Tale concezione comunitaria, simile a quella che ancora oggi caratterizza molte zone montane, si riflette nella forma dell’insediamento, strutturato in modo da privilegiare la continuità degli spazi comuni, nonché il rapporto di questi ultimi con le singole costruzioni: ne deriva un impianto irregolare, con fabbricati addossati l’uno all’altro, in modo apparentemente casuale, a formare piccole corti dalle forme poligonali o curve, che assecondano l’andamento dei percorsi comuni e la morfologia del terreno. Una caratteristica di tali insediamenti più antichi è che, a causa delle loro ridotte dimensioni, possono essere facilmente confusi con singole dimore isolate (ad es.: Figina, Galbusera, Pomedo, Nesolio) (Fig. 5). Il modo di abitare accentrato in nuclei relativamente distanti dai campi coltivati, i quali venivano raggiunti quotidianamente dal contadino, ha determinato la neces- I “casòt” Fig. 5 - Esempi di nuclei pedemontani “accentrati” sità di costruire sui fondi costruzioni di modeste dimensioni, atte al ricovero di attrezzi e di prodotti, oltre che al 177 riparo del contadino (denominati in vario modo: “casòt”, “cabanòt”, “casutèl”) (Fig. 6). Tali fabbricati, pur avendo dimensioni modestissime, presentano quasi sempre due piani. Un tempo costruiti utilizzando legno e paglia, sono successivamente edificati in muratura. Fig. 6 - Esempio di “casòt” Le trasformazioni degli insediamenti pedemontani nel XVI - XVII sec. 178 Le zone collinari caratterizzate da rilievi più dolci, nonché le zone dell’alta pianura, sono state interessate, a partire dal XVI-XVII sec., da una profonda trasformazione rurale, legata allo sviluppo della mezzadria, ad opera della grande proprietà nobiliare ed ecclesiastica. Ciò ha comportato una modificazione e un ampliamento degli antichi borghi rurali, sia attraverso l’inserimento di nuovi edifici di carattere religioso e civile e delle prime ville padronali, sia attraverso l’ampliamento dei fabbricati rurali, a seguito dell’estensione delle aree coltivate e dell’introduzione di nuove colture, che richiedono un maggior numero di “addetti” per la conduzione dei fondi. L’ampliamento dei fabbricati rurali ha dato luogo alla graduale trasformazione degli antichi fabbricati a corpo semplice, in vere e proprie “corti”, caratterizzate dalla presenza di due o più corpi di fabbrica disposti attorno ad uno spazio libero centrale, il “cortile”, in modo da costituire un recinto continuo o parzialmente interrotto. L’impianto a corte è quindi il risultato di un processo di formazione e di crescita nel tempo, attraverso la progressiva disposizione di semplici corpi di fabbrica attorno al cortile, realizzati in seguito ad una sopraggiunta necessità di nuovi spazi o di un accrescimento del numero di abitanti (Fig. 7). La nascita dell’impianto a “corte” Fig. 7 - Esempi di evoluzione dell’impianto a “corte” nel corso dei secoli XVIII-XIX I rinnovati borghi rurali risultano pertanto costituiti dall’aggregazione di più “corti”, i cui corpi di fabbrica si 179 addossano con un criterio di massima economia a quelli della corte successiva. La nascita degli insediamenti rurali isolati (XVI sec.) 180 2.3.2 Gli insediamenti isolati A partire dal XVI sec., come si è detto, si instaura un’organizzazione produttiva agricola basata sulla suddivisione delle grandi e medie proprietà terriere fra più unità aziendali a base familiare, legate al podere da coltivare con un contratto di mezzadria. Al fine di fissare la dimora dei mezzadri direttamente sui fondi coltivati, ossia sul luogo di lavoro, la grande proprietà nobiliare ed ecclesiastica promuove la costruzione di nuovi fabbricati rurali isolati, collocati al di fuori dei nuclei principali (le case rurali sparse o “cascine”). La grande estensione della policoltura arborea (vite e gelso), dovuta al crescente interesse ad intensificare la produzione dei fondi e ad accrescere i redditi, esigeva infatti una presenza continua delle famiglie coloniche e la loro stabilità sul podere. In questo modo l’insediamento si estende per la prima volta nel territorio circostante agli antichi villaggi, generando un fitto tessuto insediativo a carattere sparso. Tali fabbricati, destinati ad ospitare inizialmente due o tre nuclei familiari, presentano, nella loro forma originaria, un corpo unitario e lineare, di piccole dimensioni, alto due piani, all’interno del quale si colloca sia l’abitazione che il rustico. In molti casi la proporzione e la composizione degli elementi architettonici di queste costruzioni rendono evidenti una chiara progettualità e una intenzione estetica, tesa a “rappresentare” i grandi proprietari che le hanno volute. Le dimore mezzadrili originarie sono state spesso modificate da ampliamenti edilizi successivi, che hanno inglobato l’impianto originario e che, addossandosi alle partiture laterali, hanno delimitato il cortile, generando vere e proprie “corti isolate”. Va precisato peraltro che la formazione di grandi corti pluriaziendali, proprie del periodo ottocentesco, costituisce nella zona collinare un fatto sporadico, mentre rappresenta la regola nella zona di pianura. Nella zona collinare, in genere, non si verifica nel XIX sec. una grande trasformazione della dimora isolata, la quale rimane di modeste dimensioni e di carattere compatto, con l’aggiunta, al più, di qualche nuovo corpo rustico. 2.4 L’insediamento di pianura A metà Ottocento la grande proprietà nobiliare, insieme ai nuovi proprietari di estrazione borghese, trasformano profondamente sia il paesaggio che la stessa dimora rurale. Il nuovo ordine rurale ottocentesco, diffuso in tutta la fascia di pianura, estende e sviluppa razional- La trasformazione ottocentesca dell’insediamento di pianura Fig. 8 - Un esempio della trasformazione ottocentesca dei nuclei rurali: Rogoredo 181 6 Foto 6 - Cascina nei pressi di Verderio La trasformazione ottocentesca delle corti Foto 7 - Cascina nei pressi di Osnago 182 mente il processo di trasformazione iniziato nelle epoche precedenti. Per ciò che concerne gli antichi nuclei rurali di pianura, nel corso della prima metà dell’Ottocento si avvia una trasformazione profonda dell’insediamento, pur senza modificarne la vocazione agricola. In particolare, vengono inserite ville sign rili e dimore borghesi, che diventano i cardini del nuovo assetto urbano; gli assi viari, il cui tracciamento viene regolarizzato, acquistano un carattere rappresentativo, anche grazie alla mimetizzazione o alla mascheratura dei vecchi prospetti delle corti che si affacciano sulle vie principali, con nuovi fronti edilizi (Fig. 8). La crescita generale delle funzioni civili del borgo modifica ulteriormente la configurazione delle corti che si modellano intorno a nuovi spazi urbani; inoltre, nelle stesse corti trovano posto laboratori per le nuove attività produttive legate allo sviluppo preindustriale, che vanno ad occupare o a sostituire parte dei rustici. Attorno al vecchio nucleo insediativo il paesaggio rurale è caratterizzato dalla presenza diffusa di cascine, che dipendono amministrativamente dai nuclei urbani, in 7 numero tale da determinare la massima diffusione dell’insediamento sparso nelle campagne (foto 6 e 7). Molte cascine mantengono al proprio interno particolarità degli impianti preesistenti; altre invece, edificate nell’ultimo periodo, nascono già secondo un ordine e una simmetria rigorosa. In questa fase di sviluppo è peraltro più frequente il caso di ampliamenti e razionalizzazioni di dimore preesistenti che non quello di nuove costruzioni. La maggiore consistenza dell’attività agricola determina l’incremento delle dimensioni complessive delle dimore sparse sui fondi, per ospitare nuove famiglie coloniche, e un’estensione degli spazi accessori. La dimensione di queste corti è in relazione all’ampiezza del fondo e al numero di aziende familiari che lavorano in forma autonoma secondo il contratto di mezzadria. In generale la corte ottocentesca, a differenza di quelle precedenti, si presenta regolare, ritmata dalle partiture di pilastri, archi e aperture, che rivelano la logica modulare dello spazio interno: la regolarizzazione dell’impianto della corte in forma di quadrilatero, la ripetitività degli elementi architettoni-ci, sono criteri nuovi, espressione della presenza del nuovo ceto borghese, il quale edifica le case per i propri coloni (Fig. 9). Fig. 9 - La “corte” ottocentesca: schema planimetrico 183 La cascina novecentesca I cortili, luoghi comuni di passaggio, di sosta e di lavoro, si allineano lungo un percorso principale sul quale si affacciano i corpi destinati alle abitazioni, organizzate in “cellule” modulari che presentano le cucine al piano terra e le camere ai piani soprastanti; sul lato opposto del cortile o in continuità con le abitazioni si collocano invece i corpi rustici (anch’essi organizzati in cellule modulari) formati da due livelli, il piano terra per le stalle e la parte superiore per i fienili; tra i rustici si aprono uno o più passaggi da cui si accede direttamente agli orti e all’aperta campagna. A ciascuna famiglia che dimora nella corte corrisponde un “modulo” abitativo e un “modulo” rustico (Fig. 10). Fig. 10 - L’impianto modulare tipico della “corte” ottocentesca Verso la fine del secolo XIX e nel primo decennio del Novecento si costruiscono nuove cascine e corti dai grandi impianti regolari e simmetrici, con facciate dal gusto monumentale (foto 8). 184 Rispetto al modello della grande corte diffuso nella pianura irrigua, la corte dell’alta pianura presenta una minore estensione, dovuta alle minori dimensioni del fondo: man mano si scende verso la pianura, ovvero verso 8 Il rapporto tra dimensioni del fondo e dimensioni della corte Foto 8 - Cascina novecentesca nei pressi di Paderno la parte di territorio più produttiva, si trovano corti sempre più ampie ed articolate; inoltre, la corte dell’alta pianura è di tipo pluriaziendale, a differenza di quella della pianura irrigua, caratterizzata da una conduzione accentrata e monoaziendale, nella quale il contadino è semplice dipendente salariato (Fig. 11). Fig. 11 - La modificazione delle dimensioni della dimora rurale, in relazione alla fascia geografica 185 Le cause del degrado dell’insediamento rurale tradizionale 186 3. Degrado, recupero e valorizzazione degli insediamenti rurali Il notevole patrimonio sopra descritto è oggi soggetto ad un rapido degrado, essenzialmente riconducibile ai seguenti fattori: 1. abbandono dei manufatti da parte degli agricoltori, con conseguente assenza di manutenzione; 2. “recupero” improprio dei manufatti rurali per usi turistici e/o abitativi (seconde case), che ha determinato la trasformazione radicale dei manufatti stessi e la cancellazione dei caratteri peculiari dell’architettura rurale; 3. cancellazione dell’edilizia rurale e del suo contesto da parte dell’espansione edilizia recente, con inserimento di nuove costruzioni, completamente estranee al contesto paesaggistico, che spesso nascondono o inglobano al loro interno interi insediamenti rurali, cancellandone progressivamente le tracce; 4. scarsa considerazione culturale per l’architettura rurale, da sempre considerata “minore”, sia per la “povertà” di tecniche e materiali, sia perché non influenzata, se non marginalmente, dalle grandi correnti culturali trainanti; Bisogna peraltro osservare che i fattori suddetti agiscono con intensità e modalità differenti all’interno dei singoli contesti territoriali: ad esempio, è possibile osservare, in generale, una maggiore conservazione dei caratteri tradizionali dell’architettura rurale in quei contesti non interessati dai processi di urbanizzazione recenti, come alcune valli alpine e prealpine che, nonostante il grave abbandono, hanno conservato con maggiore evidenza la stratificazione territoriale storica. L’accelerato degrado e la trasformazione radicale del patrimonio rurale ha come effetto negativo non solo la perdita di un patrimonio architettonico di grande valenza culturale, ma anche il deperimento dell’immagine complessiva del paesaggio agrario storico, la cui stessa esistenza è stata per secoli legata a queste presenze: oggi, infatti, è andata quasi completamente perduta la possibilità di cogliere visivamente il rapporto vitale che esisteva tra il luogo della dimora (abitazione) e il luogo del lavoro (campagna coltivata). Al fine di affrontare correttamente la problematica del recupero fisico degli insediamenti rurali e della loro immagine paesistica, è necessario superare sia l’atteggiamento superficiale e disattento ai valori della tradizione, indifferente alla cancellazione parziale o totale di tali valori, sia quello nostalgico-sentimentale, propenso ad una conservazione storicistica e intransigente. Un’attenta politica di recupero e valorizzazione del patrimonio edilizio rurale deve essere modulata in base alla pragmatica valutazione dei seguenti fattori: a) caratteri storico-culturali dei manufatti: è necessario prima di tutto riconoscere l’effettiva valenza storico-culturale degli insediamenti rurali, valutando la ricorrenza/rarità della tipologia edilizia, la peculiarità delle soluzioni architettoniche, l’uso dei materiali, ecc...; in presenza di scelte alternative, gli interventi dovranno privilegiare quei manufatti maggiormente rappresentativi di certe tradizioni, modalità costruttive, ecc... e quelli appartenenti a “sistemi insediativi” peculiari, caratterizzanti interi ambiti territoriali e storico-culturali; b) caratteristiche costruttive dei manufatti: la scelta della manutenzione e dell’uso di materiali e tecniche tradizionali impongono una più impegnativa rilevazione conoscitiva delle strutture, del loro I fattori da valutare nel recupero e nella valorizzazione dell’architettura rurale 187 montaggio e della loro funzione reciproca, dei materiali, della loro sostituzione nel tempo, delle tecniche di riparazione, degli accorgimenti protettivi; c) stato di conservazione: una ulteriore valutazione da effettuare è lo stato di conservazione del manufatto, finalizzato ad accertare il livello di permanenza e leggibilità dei caratteri suddetti, nonché a valutare le modalità e le tecniche più opportune per il recupero; d) funzioni insediabili: strettamente legata ai caratteri dei manufatti è la valutazione delle funzioni da insediare; il recupero fine a sé stesso, senza un preciso programma di fruizione e riuso dei manufatti, rischia di essere inutile e costoso, sottraendo risorse ad altre operazioni; da questo punto di vista, le principali discriminanti funzionali, da cui dipende l’intero programma di recupero, sono: uso pubblico/privato; uso abitativo/non abitativo; uso temporaneo/permanente; in linea generale, dovranno essere privilegiate non solo destinazioni d’uso compatibili con i caratteri storico-culturali del manufatto, ma anche in grado di garantire “remuneratività” all’intervento (vedi punto e); e) grado di leggibilità del contesto paesaggistico: l’integrità del contesto è molto importante ai fini della valorizzazione completa del manufatto; infatti, laddove il contesto paesistico è aggredito da presenze “ingombranti”, la potenzialità del patrimonio edilizio risulta notevolmente ridotta, soprattutto in relazioni agli usi turistico-ricreativi, che richiedono elevati valori paesistico-ambientali; f) bilancio costi-benefici: in considerazione delle limitate risorse ragionevolmente destinabili al recupero 188 dell’architettura rurale, è di estrema importanza valutare la remuneratività dell’intervento, ossia il “ritorno” in termini sociali, culturali ed economici dell’intervento stesso, a fronte dell’entità dell’investimento complessivo (iniziale e di gestione). In relazione a quanto sopra, i principali criteri a cui devono conformarsi gli interventi di recupero e valorizzazione dei manufatti rurali, in funzione dei tempi previsti, dei costi presunti e dei risultati attesi, possono essere così riassunti: 1. prevalenza del concetto di manutenzione, rispetto a quelli più diffusi di trasformazione o di sostituzione; sotto il profilo architettonico gli edifici rurali presentano generalmente, come si è visto, tecnologie edilizie tradizionali, senza caratteristiche di eccezionalità: ciò consente di evitare lavori di restauro scientifico, con conseguente richiesta di specializzazione della mano d’opera; per essere efficaci, gli interventi manutentivi devono essere frequenti, di limitata entità, tradizionali e sperimentati; la premessa implicita è che prima di ogni intervento, strutturale e non, dovrebbe essere tentata qualsiasi opera di prevenzione del degrado al fine di non dovere poi intervenire con mutilazioni o consolidamenti “pesanti”; 2. uso di tecniche costruttive e di materiali edilizi tradizionali e locali, capaci di consentire una continuità rispetto ad un’architettura sostanzialmente povera; nella maggior parte dei casi si tratta di tecniche e materiali ormai desueti, ma ancora non del tutto spenti nella memoria popolare; il principio di base è il recupero di tecniche e materiali abbandonati, spesso sostituiti con surrogati apparentemente più economici, a causa del processo di produzione industriale, ritenuto più “razionale”; accanto a tali materiali deve essere previsto l’uso I principali criteri per il recupero e la valorizzazione dell’architettura rurale 189 appropriato delle tecniche e dei materiali più recenti, attraverso un’adeguata preparazione degli operatori (vedi punto 6.); 3. debole dotazione tecnologica degli interventi, nel rispetto delle semplici strutture edilizie rurali, contrariamente a quanto spesso avviene negli interventi di riuso, caratterizzati da pesanti intrusioni tecnologiche e forti manomissioni; 4. riavvicinamento tra la fase di progetto e la fase di cantiere: nel “mestiere” antico il cantiere era l’unico luogo di elaborazione, la “bottega” dove si progettava e si costruiva: il restauro attuale, a seguito della perdita di coincidenza con il mestiere storico, necessita di una ricerca e di un controllo sperimentale continui; 5. impiego di manodopera artigianale: la salvaguardia di ambienti rurali è attività che difficilmente rientra tra quelle delle maestranze comuni del lavoro edilizio, nelle quali , come si è visto, è radicata piuttosto una concezione “modernista”, tale da considerare più conveniente il nuovo o la sostituzione che il recupero; ciò può consentire altresì il recupero di professionalità artigianali locali dimenticate; 6. adeguata preparazione tecnica degli operatori: l’impiego della manodopera artigianale da sola non basta; per un buon recupero è importante la conoscenza, da parte dell’operatore, delle modalità di preparazione dei supporti, delle operazioni di bonifica, di riparazione e consolidamento, e quelle di finitura e protezione, le attrezzature antiche tuttora utilizzate e le potenzialità offerte dall’attuale tecnologia, sia in termini di attrezzature che di additivi; l’operatore deve proporre un determinato ciclo operativo non perché “piace molto”, è facile da applicare e costa poco, ma perché, per esempio, è compatibile con il supporto, non compromette la tra190 spirabilità della muratura, riproduce l’immagine storica del manufatto, è ecologica, garantisce una buona durata nel tempo, oltre che un risultato estetico migliore. Riferimenti Bibliografici 1. Saibene C., La casa rurale nella pianura e nella collina lombarda, Firenze, 1955. 2. AA.VV., I paesaggi umani, collana “Capire l’Italia”, Touring Club Italiano, Milano, 1977. 3. Marchente Elena, Colturani Tiziana, Architettura autoctona e arte popolare nelle pitture murali dell’alta Valsassina (Val Varrone), in: Archivi di Lecco - Anno VII, n° 1 - gennaio/ marzo 1984, Tip. Editrice Beretta - Lecco. 4. Cedro Amedeo e Viganò Mariola, a cura di, Brianza e lecchese. Dimore rurali, Jaca Book, Milano, 1985. 5. AA.VV., Case di pietra. Il recupero del patrimonio edilizio nel demanio forestale, Azienda Regionale delle Foreste e Istituto Beni Culturali della Regione Emilia Romagna, Bologna, 1986. 6. Piefermi Antonio, Le dimore rurali nelle valli del lario. Tipologie abitative tra alpi e pianura, in: Benetti Dario, Langé Santino, a cura di, La dimora alpina, atti del Convegno di Varenna (3-4 giugno 1995), Coop. Editoriale “Quaderni Valtellinesi”, Lecco, 1996. 7. Zaffagnini Mario, a cura di, Le case della grande pianura, Alinea Editrice, Firenze, 1997. 8. Moretti Guido, a cura di, I masi delle valli di Peio e Rabbi, Edizioni Tipoarte, Bologna, 1997. 9. Agostini Stella, Architettura rurale: la via del recupero, Franco Angeli, Milano, 1999. 191 Appendice Agriturismo e norme di disciplina di Francesco Mazzeo Le diverse norme, dal livello nazionale a quello regionale, hanno ormai definito un quadro abbastanza compiuto per dare certezza giuridica e amministrativa al comparto agrituristico. La materia agrituristica, tuttavia, spazia in un complesso di norme che riguardano numerose materie, da quelle fiscali e previdenziali a quelle di sicurezza e igiene degli alimenti e delle bevande, passando attraverso quelle urbanistico-edilizie, quelle sulla sicurezza del lavoro e numerose altre di minore o maggiore importanza a seconda dell’attività svolta nelle diverse realtà aziendali (pubblicità, spettacoli, manifestazioni sportive, etc). Nel seguito si espone un quadro sintetico di commento dei provvedimenti normativi principali di disciplina dell’agriturismo, con riferimento alla legge quadro nazionale e a quella della Regione Lombardia. 192 1. LEGGE 4 DICEMBRE 1985 N. 730 “DISCIPLINA DELL’AGRITURISMO” 1.1 Le attività, i soggetti, il carattere Per chiarire cosa deve intendersi per agriturismo in base alla legge 4 dicembre 1985 n. 730 “Disciplina dell’agriturismo”, è utile considerare tre aspetti: a) le tipologie di attività che possono rientrare fra quelle agrituristiche; b) i soggetti che possono svolgerle; c) il carattere che devono avere dette attività. Per quanto concerne le tipologie di attività che rientrano fra quelle agrituristiche, la legge 730/85 intende “esclusivamente le attività di ricezione ed ospitalità”. Tuttavia, ciò che in apertura dell’art.2 sembra un limite rigido posto alle attività rientranti fra quelle agrituristiche, è chiaramente superato nello stesso articolo dal comma 3, dove si precisa che rientrano fra tali attività l’offerta stagionale di ospitalità, anche in spazi aperti, la somministrazione di pasti e bevande per la loro consumazione sul posto, l’organizzazione di attività ricreative o culturali. Alla luce del comma 3, quindi, l’apparente ristrettezza delle attività nell’ambito della ricezione ed ospitalità, in realtà non sembra sussistere, considerato che con la precisazione predetta tali servizi, estesi anche all’organizzazione di attività ricreative e culturali, assumono ampiezza tale da ricomprendere fattispecie numerose e diversificate: dalle attività sportive alle escursioni, dall’organizzazione di corsi ai concerti, oltre che, naturalmente, l’offerta di vitto e alloggio. Queste attività, tuttavia, per potersi qualificare come agrituristiche, devono essere svolte da un preciso soggetto e devono mantenere un circoscritto carattere, grazie al quale sono distinti dalle analoghe attività commerciali. Il soggetto che può svolgere attività agrituristica e il carattere che le attività elencate devono assumere, sono precisati dal richiamato articolo 2, comma 1, da cui si ricava che esse devono essere “...esercitate dagli imprenditori agricoli di cui all’art. 2135 del codice civile, singoli o associati, e da loro familiari di cui all’art. 230 bis del codice civile, attraverso l’utilizzazione della propria azienda, in rapporto di connessione e complementarietà rispetto alle attività di coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento del bestiame, che devono comunque rimanere principali.” Operatore agrituristico, in base alla legge 730/85, può essere considerato chi esercita l’attività di ricezione ed ospitalità utilizzando la propria azienda purché sia imprenditore agricolo, ossia eserciti “un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento di bestiame e attività connesse.”, come previsto all’art. 2135 del c.c.. Il solo requisito soggettivo richiesto per l’esercizio dell’attività agrituristica, dunque, è quello dell’imprenditorialità agricola, non avendo rilievo altri caratteri connessi a detta figura, come ad esempio l’essere coltivatore diretto, proprietario o affittuario del fondo agricolo entro cui si esercita l’attività agrituristica, così come è irrilevante il fatto che l’attività agricola sia esercitata in forma esclusiva, oppure unitamente ad altre attività non agricole. Infine, per quanto concerne il carattere oggettivo che l’attività di ricezione ed ospitalità deve assumere, nel contesto dell’impresa agricola, è desumibile sempre dall’art. 2 della legge 730/85, 193 laddove prescrive che l’attività agrituristica deve svolgersi “in rapporto di connessione e complementarietà rispetto alle attività di coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento del bestiame, che devono comunque rimanere principali.”. La precisazione, circa la natura delle attività che possono qualificarsi come agrituristiche, consente di operare una distinzione rispetto alle analoghe attività svolte da soggetti non imprenditori agricoli, da cui consegue che nel primo caso le attività agrituristiche rientrano fra quelle connesse alle attività agricole richiamate dall’art. 2135 del c.c., mentre nel secondo caso esse assumono la natura di attività commerciali e perciò sottoposte ad altra normativa di disciplina. In conclusione, dunque, la contemporanea presenza dei tre requisiti predetti (se le attività di ricezione e ospitalità descritte sono svolte da un imprenditore agricolo e se esse possiedono il carattere della connessione e della complementarietà all’attività agricola principale) rappresenta la condizione necessaria, ma tuttavia ancora insufficiente, per qualificare l’attività come agrituristica. 1. 2. Alcune precisazioni ulteriori La legge 730/85, in quanto “legge qua194 dro” nazionale, limita le sue previsioni per lo più a livello di princìpi, rinviando dettagli e modalità applicative alla normativa regionale. Per la definizione di un primo quadro complessivo della disciplina agrituristica è pertanto utile richiamare altri concetti, rispetto a quelli esposti al paragrafo 1, espressi dalla legge 730/85, tenendo presente che la normativa regionale opera una puntuale disciplina della materia, sia attraverso la legge, sia attraverso il regolamento attuativo. Si richiamano, nel seguito, alcune importanti precisazioni. • Esistenza di un’azienda agricola in esercizio (art. 2) La condizione di sufficienza per qualificare l’attività agrituristica sussiste quando ai tre requisiti riportati al paragrafo 1 si aggiunge l’effettivo esercizio dell’attività agricola, in quanto non è sufficiente il solo possesso di terreni e fabbricati per l’avvio dell’attività agrituristica. • Carattere temporale dell’attività (artt. 2, 4) L’attività agrituristica si svolge con carattere stagionale, la cui definizione ultima è rinviata alle regioni. • Provenienza dei prodotti impiegati nell’attività agrituristica (art. 2) I prodotti impiegati nell’attività agrituristica sono previsti essere prevalentemente propri, cioè ottenuti dall’attività agricola svolta nella propria azienda, ancorché sottoposti a cicli di lavorazione extraziendali. E’ utile precisare, con riguardo alla nozione di prodotti propri, somministrati dall’azienda nell’attività agrituristica, che per quanto riguarda quelli sottoposti a cicli di lavorazione esterni all’azienda, non deve ricercarsi rigidamente la coincidenza della materia prima lavorata di provenienza aziendale con quella contenuta nei prodotti trasformati somministrati agli ospiti. E’ sufficiente, al riguardo, la produzione aziendale della materia prima, ad esempio del mais da polenta, senza che la farina impiegata per la polenta somministrata agli ospiti sia necessariamente proveniente dal proprio mais; analogamente dicasi per altri prodotti, quali salumi, conserve alimentari, etc. • Destinazione urbanistica del fondo agricolo ( art.2) Terreni e fabbricati in cui si pratica l’attività agrituristica non sono distratti dall’uso agricolo, cioè mantengono la destinazione agricola nel Piano regola- tore generale del comune. • Tipo di restauro a cui possono essere sottoposti i fabbricati rurali (art. 3) E’ previsto il rispetto delle caratteristiche tipologiche ed architettoniche degli edifici esistenti, in caso di restauro. • Norme igienico sanitarie (art.5) E’ contenuto un espresso rinvio alla normativa regionale per quanto attiene all’idoneità dei locali e delle strutture, mentre per quanto attiene alimenti e bevande è prevista l’osservanza della disciplina contenuta nella legge 30.4.1962 n. 283 “Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e bevande”, integrata e modificata da numerose altre disposizioni nazionali ed europee. 2. LA L.R. 31.1.1992 N. 3 “DISCIPLINA REGIONALE DELL’AGRITURISMO E VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO RURALE” E IL REGOLAMENTO REGIONALE 27.12.1994 N. 3 2.1 Sintesi delle norme regionali 195 La legge regionale della Lombardia, la n. 3/1992, nel quadro dei principi e dei limiti fissati dalla disciplina nazionale, definisce l’attività agrituristica quando il servizio di alloggio e ristorazione è esercitato rispettivamente con un massimo di 15 camere e/o per un massimo di 30 ospiti al giorno (art. 2, comma 1). Il Regolamento Regionale 27.12.1994 n. 3, all’art. 2 precisa che detti parametri sono ridotti a 10 ospiti e 20 pasti/giorno se il servizio è offerto all’interno dell’abitazione dell’imprenditore (agriturismo in famiglia), mentre è consentito il numero massimo suddetto in caso d’impiego di camere in unità abitative indipendenti e/o di allestimento di spazi aperti per il ricovero di roulotte, camper, tende (agriturismo in azienda). Infine, lo stesso Regolamento Regionale precisa, all’art. 14, comma 4, che ai fini della somministrazione di alimenti e bevande all’interno di strutture coperte facenti parte dell’azienda agrituristica, il numero massimo di posti autorizzabile è pari ad 80. A tale limite è tuttavia prevista una deroga, concessa a facoltà del Sindaco, nella sola occasione di feste, sagre, attività promozionali, etc. Per quanto concerne la concreta defi196 nizione della condizione di complementarietà dell’attività agrituristica rispetto a quella agricola, l’art. 9, comma 4 del Regolamento Regionale riporta il parametro “tempo di lavoro” quale elemento discriminante, rinviando alla tabella riportata all’allegato F del Regolamento Regionale stesso per la quantificazione del parametro. In base alla predetta norma la condizione di complementarietà, dell’attività agrituristica a quella agricola, sussiste quando il tempo necessario per le operazioni agricole aziendali è superiore a quello richiesto per le attività agrituristiche. Ne deriva che, pertanto, fermi restando i limiti di 15 camere e di 30 ospiti/ giorno fissati dall’art. 2 e il limite di 80 posti fissato dall'art. 14 della L.R. 3/92, la “dimensione” dell’attività agrituristica che un’azienda può esercitare, dipende dalle dimensioni aziendali e dall’indirizzo produttivo adottato. Il Regolamento Regionale, all’art. 2, provvede inoltre a definire, oltre alla tipologia agrituristica (famiglia/ azienda), anche la classificazione, cioè l’indirizzo aziendale specializzato riferito ai servizi offerti (storico-culturale, sportivo-ricreativo, ippico, venatorio, pescatorio, agro-formativo, naturalisticoambientale, enologico-gastronomico, igienistico-salutistico) e la qualificazione, cioè il livello qualitativo dei servizi stessi (1, 2, 3 quadrifogli), per l’individuazione dei quali gli artt. 4 e 5 del Regolamento Regionale, mediante l’allegato A, definiscono procedure e contenuti. Il Regolamento Regionale indica, inoltre, la procedura da esperire per l’ottenimento dell’autorizzazione comunale all’esercizio dell’attività agrituristica (art.12). L’iter amministrativo, che si conclude con il rilascio dell’autorizzazione del sindaco, prevede: • l’iscrizione dell’imprenditore agricolo all’elenco degli operatori agrituristici (art. 10), previo superamento dell’apposito esame di abilitazione; • l’acquisizione della certificazione di complementarietà (art. 9); • l’acquisizione dell’autorizzazione sanitaria (art. 11), la quale è prescritta nel caso di agriturismo in azienda, cioè esercitato mediante l’impiego di strutture ricettive diverse dalla casa dell’imprenditore; in quest’ultimo caso invece si rimanda al sindaco l’accertamento delle condizioni di abitabilità, prima del rilascio dell’autorizzazione comunale. Infine il Regolamento Regionale, a cui si rinvia per i dettagli, indica norme relative a numerosi aspetti implicati nell’esercizio dell’attività agrituristica, che nel seguito si richiamano per memoria: obblighi dell’operatore agrituristico (artt. 13, 14) e sospensione o revoca dell’autorizzazione (art 15); trasferimento e/o modifiche subite dall’attività autorizzata e relativi adempimenti ( art. 16); disposizioni relative alla preparazione e somministrazione di alimenti e bevande (art. 17) che prevede, fra l’altro, che almeno il 70% (valore di trasformazione) dei prodotti somministrati agli ospiti sia di provenienza aziendale; macellazione di animali (art. 18); disposizioni relative alle attività ricreative e sportive e culturali (artt. 20, 21, 22, 23); disposizioni inerenti la formazione professionale (art. 24); norme connesse ai fabbricati, inerenti diversi aspetti (artt. 25, 25, 27, 28, 29); incentivi e procedure ( artt. 30, 31). 2.2 Alcune precisazioni Nella legge e nel regolamento regionali sopra descritti si fa riferimento allo SPAFA, titolare di diverse funzioni tecniche e amministrative. Per effetto della legge regionale 11/98 di riordino delle competenze amministrative regionali in agricoltura, la materia agrituristica è stata trasferita alla Provincia la quale svolge, fra l’al197 tro, le funzioni demandate allo Spafa dalla L.R. 3/92 e dal R.R. 3/94. 3. NOTAZIONI CONCLUSIVE La normativa nazionale e regionale si occupa, oltre che di quanto riferito, anche di aspetti a cui non si è fatto cenno in questa sede in quanto oggetto di specifici interventi in questo volume ( piani e programmi di sviluppo, di vario livello, art. 10, L. 730/85 e artt. 4, 5, 6, L.R. 3/92), che peraltro non risultano essere, da parte della Regione Lombardia, posti in essere, almeno a 198 livello compiuto. Infine, per maggiore completezza del quadro normativo di riferimento, meritano un cenno di memoria le, purtroppo, numerose norme, nazionali e comunitarie, che disciplinano materie diverse che spaziano dalle disposizioni inerenti la sicurezza e l’antinfortunistica a quelle relative alla produzione, conservazione, confezionamento e somministrazione dei diversi e numerosi prodotti alimentari somministrabili in azienda (carni, formaggi, latticini, verdure, paste, vino, olio, ..., convenzionali e/o biologici), a cui si rinvia per ogni specifico approfondimento. Gli autori FRANCESCO MAZZEO Funzionario agronomo della Provincia di Lecco DIEGO CASON Docente di diritto, economia politica e del turismo, scienza delle finanze, legislazione sociale, turistica ed ambientale presso IPSCT “T. Catullo” di Belluno. GIUSEPPE GLORIOSO Architetto libero professionista Consulente per il PTCP della Provincia di Lecco ANGELO DE BATTISTA Docente di lettere presso il Centro Territoriale per l’Istruzione in età adulta di Lecco Etnografo e consulente del Museo etnografico dell’Alta Brianza ITALO SORDI Etnografo e consulente di musei etnografici tra cui il Museo dell’Alta Brianza MASSIMO PIROVANO Docente di storia e filosofia presso il Liceo scientifico “G.B. Grassi” di Lecco Etnografo e conservatore del Museo etnografo dell’Alta Brianza NATALE PEREGO Docente di lettere presso il Liceo scientifico “G.B. Grassi” di Lecco Etnografo e studioso di storia 199 edito da EMMEPI EDITORIALE finito di stampare nel mese di maggio 1999 presso Grafiche Riga - Oggiono