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Gestione, Innovazione e Sviluppo Agricolo
1
Agriturismo
in provincia di Lecco
idee per lo sviluppo e la valorizzazione
Provincia di Lecco
Servizio Agricoltura
Pr.I.M.A.V.E.R.A.
Progetto d’Integrazione e Modernizzazione dell’Agricoltura
per la Valorizzazione Equilibrata delle Risorse Agroambientali
Gestione, Innovazione e Sviluppo Agricolo
Agriturismo
in provincia di Lecco
idee per lo sviluppo e la valorizzazione
a cura di Francesco Mazzeo
Volume prodotto nell’ambito del piano provinciale dei servizi di sviluppo agricolo 1998,
con il contributo della Regione Lombardia (L.R. 47/86)
Pr.I.m.A.V.E.R.A.
Progetto d’Integrazione e Modernizzazione dell’Agricoltura
per la Valorizzazione Equilibrata delle Risorse Agroambientali
Sommario
Presentazione
6
Risorse e prospettive per lo sviluppo dell’agriturismo lecchese
9
Agriturismo e cultura tradizionale
23
Tipologie di paesaggio ed elementi costitutivi
40
Elementi di storia dell’agricoltura lecchese
65
Gli attrezzi tradizionali in una prospettiva agrituristica
93
Dalla fame all’abbondanza
104
Folklore e forme espressive popolari nel territorio lecchese
130
Aspetti di religiosità popolare
148
Architettura rurale tradizionale
164
Appendice
192
Profilo degli autori
199
Presentazione
Con questo volume prende avvio Pr.I.M.A.V.E.R.A, “Progetto
d’Integrazione e Modernizzazione dell’Agricoltura per la Valorizzazione
Equilibrata delle Risorse Agroambientali”, la cui finalità è quella di dare
rilievo all’agricoltura lecchese nei suoi numerosi e differenti aspetti che la
connotano.
La collana editoriale Pr.I.M.A.V.E.R.A nasce come risposta ad una molteplicità di esigenze. In particolare essa risponde all’importanza del settore agricolo nella complessiva economia provinciale, la quale sebbene sia
dominata dall’attività industriale e terziaria, non può prescindere dal
beneficio territoriale e ambientale di cui è portatrice l’agricoltura. In
secondo luogo risponde all’utilità di fare conoscere quanto di avanzato ed
innovativo esiste nell’agricoltura lecchese, per valorizzare il patrimonio e
le risorse umane esistenti e, in terzo luogo, alla necessità di fornire stimoli nuovi a tutte quelle realtà agricole che possono ancora sfruttare al
meglio le risorse e le possibilità di crescita e di sviluppo che il territorio
consente.
Questo lavoro rappresenta l’inizio di un percorso di approfondimento che
mira a realizzare un’efficace programmazione provinciale nel comparto
agrituristico, soprattutto ora che con la legge regionale 11/98 la materia
agrituristica è stata trasferita dalla Regione alle Province. Tanto per le
tematiche trattate, l’agriturismo lecchese, quanto per la prospettiva da cui
sono affrontate, questo volume meglio di altri può segnare l’atto di nascita di questo nuovo strumento informativo e divulgativo che
l’Amministrazione provinciale ha inteso realizzare. Nell’agriturismo,
infatti, si riunifica passato e presente, sotto la tensione evolutiva di un
sistema socioeconomico che trova alimento nelle proprie origini e si proietta nel nuovo alla ricerca di future prospettive. Attraverso l’agriturismo,
infatti, l’agricoltura può riaffermare all’esterno di se stessa il ruolo di protagonista di processi essenziali vecchi e nuovi per la società: dalla produzione del cibo alla salvaguardia di spazi vitali, non solo fisici ma anche
culturali.
6
Anche la prospettiva entro la quale il volume affronta la tematica agrituristica rappresenta lo spirito con il quale l’Amministrazione provinciale ha inteso il progetto Pr.I.M.A.V.E.R.A.: non uno strumento celebrativo o
propagandistico, ma un mezzo di divulgazione e di servizio all’interno del
quale agricoltori, tecnici, amministratori e quanti hanno interesse per l’agricoltura lecchese, possano trovare strumenti di comprensione, motivi di
riflessione e elementi di stimolo verso la crescita e lo sviluppo dell’agricoltura provinciale.
Ora più che mai è necessario considerare consapevolmente sul territorio
la necessità del governo dei processi, che si rende tanto più possibile e produttivo, quanto più vasta è la base di condivisione di obiettivi e strategie
di lavoro.
Avviare una stagione programmatica, con il concorso di tutti i soggetti
coinvolti, può essere un modo opportuno e proficuo per porre le basi per il
concreto sviluppo dell’agriturismo lecchese.
L’auspicio, dunque, è che questo lavoro, che raccoglie la maggior parte
delle relazioni tenute all’interno del seminario organizzato dal Settore
Attività Economiche, faccia emergere l’utilità di pervenire, con il concorso di tutti, a governare i processi che si realizzano nella nostra provincia,
indirizzandoli verso prospettive di sviluppo fondato sullo sfruttamento
razionale delle risorse del territorio.
In questa prospettiva un piano agrituristico provinciale, largamente
condiviso dalle parti coinvolte, è la tappa successiva che occorre affrontare nel lavoro di ammodernamento e di valorizzazione dell’agricoltua lecchese.
Aprile 1999
Graziano Morganti
Assessore alle Attività
Economiche e Trasporti
della Provincia di Lecco
7
Risorse e prospettive
per lo sviluppo
dell’agriturismo lecchese
di Francesco Mazzeo
1. Considerazioni generali
L’agricoltura della provincia di Lecco è modellata sul
territorio che, unitamente a numerosi altri fattori di natura socioeconomica, ne determina molte sue caratteristiche e, in certa misura, le sue condizioni di sviluppo. Nello
stesso tempo l’agricoltura lecchese, inserita all’interno del
contesto economico agricolo regionale e questo in quello
nazionale e internazionale, riflette e risente inevitabilmente le loro influenze.
Sul palcoscenico agricolo europeo emergono alcune
questioni rilevanti, schematizzabili nei rapporti esistenti
fra produzione, fabbisogni, salute, ambiente. Sono fattori fortemente interconnessi, da considerare congiuntamente e
con molteplici implicazioni di diverso ordine. Alcune più
macroscopiche hanno guadagnato la scena della cronaca,
divenendo spesso anche elementi di grande preoccupazione dell’opinione pubblica (es. “mucca pazza”); altre, su
cui ancora non c’è attenzione di massa, hanno grande rilevanza nei campi alimentare e ambientale: basti pensare
all’impiego in agricoltura degli organismi geneticamente
manipolati e, più in generale, delle biotecnologie.
Tutto ciò pone l’esigenza di riflettere sull’intensità dell’impiego dei fattori produttivi e sui risvolti associati al
loro uso massiccio a fronte, fra l’altro, di eccedenze produttive alimentari all’interno dell’Unione Europea, di
rischio di danno alla salute dei consumatori e degli ope9
ratori a causa di numerosi prodotti impiegati nei cicli produttivi, di degrado delle risorse naturali e dei beni
ambientali. Tutto ciò, inoltre, si inserisce nel crescente
processo di globalizzazione del mercato dei prodotti agricoli, che introduce rilevanti modifiche negli scenari abituali: se da un lato alcuni vecchi riferimenti perdono
importanza (es. politica di aumento delle quantità di prodotti), dall’altro emergono nuove attenzioni e opportunità
per l’agricoltura, soprattutto nella sua relazione con il territorio. Queste possibili prospettive, si fondano su una
nuova considerazione della relazione impresa - azienda risorse territoriali, da cui possono scaturire sia un maggiore ruolo dell’attività e della produzione agricola tradizionalmente intesa, sia nuove funzioni dell’agricoltura,
compresa quella agrituristica, rese più esplicite dal mutamento di condizioni all’interno delle quali la produzione
agraria si svolge.
Presupposti di una scelta agrituristica che valorizzi la
“naturale” vocazione dell’impresa agricola, sono la chiarezza e la coerenza nel rapporto fra azienda, produzione e
territorio. Dal momento che questa scelta non è neutrale
in rapporto all’attività agricola, la sua consapevole assunzione riduce sia il rischio di svilimento dell’attività agrituristica, sia il pericolo di “secondarizzazione” dell’attività
agricola. Qualora l’attività agricola dovesse soffrire a
causa dell’attività agrituristica, acriticamente avviata, si
potrebbero porre, infatti, almeno altre tre questioni così
schematicamente rappresentabili: rischio di ripercussione
negativa sull’azienda per quanto riguarda l’organizzazione, la gestione e il livello di intensità ottimale dell’attività
agricola propriamente detta1; qualità nei rapporti esterni
dell’agricoltura con altri settori economici che, a torto o a
ragione, si sentono chiamati in causa2; qualità dell’immagine che l’opinione pubblica potrebbe ricavare più in
10
generale dell’agricoltura3.
Lo scenario europeo, per quanto riguarda la disponibilità di molti beni alimentari, è caratterizzato da produzioni eccedenti i fabbisogni4 e la totalità delle aziende agricole produce ormai per il mercato. Sono infatti ormai
nulle o assai marginali le quote di produzione destinate
all’autoconsumo della famiglia coltivatrice, con il risultato che i prodotti agricoli vengono consumati in luoghi
diversi da quelli in cui sono stati ottenuti. Molti beni alimentari, inoltre, sono caratterizzati dalla loro surrogabilità5 e per gli ingredienti di molti prodotti non è riconoscibile la loro provenienza, in presenza di quote crescenti di
prodotti alimentari trasformati6. Per di più, sebbene una
grossa parte di popolazione europea viva in territori rurali, anche in questi ultimi i modelli di consumo alimentari,
causa gli stili di vita connessi soprattutto all’organizzazione del lavoro, sono prevalentemente di tipo urbano/metropolitano. Gli stili e le condizioni di vita e di lavoro nelle
città, infine, accrescono la domanda dei loro abitanti di
beni e servizi non disponibili nelle aree urbane, fenomeno
che assume maggiore enfasi in aree e regioni densamente
popolate e diffusamente urbanizzate.
L’attenzione crescente, da parte dei consumatori, per i
rischi alla salute connessi all’impiego di fattori produttivi
volti ad aumentare la produttività delle risorse naturali
(erbicidi, insetticidi, fertilizzanti chimici, ...) e il risvolto
che l’intensificazione dei processi produttivi determina
sull’ambiente (inquinamento, perdita di valore d’uso di
beni ambientali, ...), completano uno scenario all’interno
del quale le prospettive di alcuni territori possono subire
considerevoli mutamenti.
A causa della crescente internazionalizzazione dei
mercati, in molti territori, che per cause naturali e/o
socioeconomiche non godono di vantaggio competitivo, la
11
remunerazione dei fattori impiegati nella tradizionale
produzione agraria può raggiungere livelli anche talmente
bassi da rendere non conveniente o impossibile la prosecuzione dell’attività agricola. Ciò in alcuni territori determinerà, se tecnicamente possibile, un riadattamento
interno al settore e una diversa destinazione delle risorse
per assicurare un’accettabile remunerazione dei fattori e
per mantenere, nelle situazioni più favorevoli, un differenziale prezzi/costi tale da remunerare anche l’impresa.
In territori a maggiore criticità, il rischio di abbandono
dell’attività è più elevato, non essendovi, o essendo insufficienti, i margini di adattamento. Questi stessi territori,
però, possono determinare nuove opportunità di sviluppo
anche attraverso l’agriturismo, grazie alla disponibilità di
particolari risorse in essi presenti7.
2. Il contesto territoriale:
da contenitore a risorsa
L’agricoltura
occupa estensivamente
il territorio e
lo presidia.
L’agricoltura
intreccia con il contesto
territoriale rapporti
economici
12
Per cogliere meglio alcune prospettive di sviluppo
locali, anche in rapporto al modello globalizzato di sviluppo, è necessario considerare il modo in cui l’agricoltura si
pone in rapporto con il territorio e con il contesto socioeconomico, storico e culturale che lo caratterizza.
Il primo aspetto che si evidenzia è quello fisico: l’agricoltura occupa estensivamente il territorio e perciò ne
assume il presidio e la salvaguardia da usi diversi, che
potrebbero alterare anche fortemente le caratteristiche
che ne garantiscono lo sfruttamento al fine di produrre
beni e servizi.
L’agricoltura intreccia con il contesto territoriale rapporti economici, sia per quanto riguarda i fattori produttivi (fattori intermedi e servizi che l’agricoltura acquista sul
mercato), sia per quanto riguarda i prodotti (prodotti agricoli e servizi che l’agricoltura vende sul mercato). Essa
condiziona anche la dimensione socioculturale, che scaturisce dalla connotazione storica del rapporto agricoltura territorio e che interessa la sfera culturale, i modi del vivere e dell’abitare, i consumi, i comportamenti della società
locale. Ma le relazioni agricoltura - territorio vengono
modificate dal modello di globalizzazione del mercato. Il
mercato globale, infatti, assoggetta le merci a regole di
concorrenza e di competitività che funzionano al meglio
se i beni, ovunque prodotti, si assomigliano molto e se si
muovono su vasta scala. Col mercato globale, inoltre, la
competitività economica non dipende più dalla sola azienda ma anche dal sistema di cui l’azienda è parte. La globalizzazione, come è noto, non si limita ai soli aspetti economico-mercantili, ma coinvolge sfere diverse della
società e delle comunità locali, fra cui quella culturale,
con effetti di omogeneizzazione e di progressiva perdita di
peculiarità.
Ma proprio qui possono aprirsi degli spazi: se si fa riferimento al concetto di ‘vocazionalità’, alcuni connotati del
contesto ambientale, che rappresentano elementi di identità del territorio e delle comunità locali, possono diventare vere e proprie risorse economiche.
Anche in relazione a ciò assume concreto rilievo la salvaguardia delle risorse territoriali, al fine di renderle
disponibili sul mercato per soddisfare la domanda di beni
e servizi, determinata dal bisogno della loro fruizione.
Il contesto territoriale, però, non è solo uno spazio fisico-geografico e culturale. Esso è anche, come già detto,
uno spazio economico, che si esprime nelle relazioni economiche dell’azienda con ciò che la circonda: il mercato dei
fattori produttivi e il mercato dei prodotti.Tutto ciò mette
bene in evidenza l’importanza del sistema all’interno del
L’agricoltura
condiziona anche la
dimensione
socioculturale
del territorio
Dal modello di
globalizzazione
scaturiscono nuove
prospettive per
le peculiarità di
alcuni territori
13
I fattori
potenziali di
sviluppo...
interni...
... e esterni
quale è inserita l’azienda (il contesto territoriale, complessivamente inteso) e le relazioni da cui dipendono le
sue prospettive di sviluppo. Al tempo stesso mette in luce
l’importanza della vocazione, che esprime in un certo
senso, la potenzialità del contesto e il grado di compiutezza del sistema.
Osservata da questa visuale, la situazione lecchese
mostra in generale l’esistenza di fattori interni ed esterni
al territorio che possono favorire opportunità di sviluppo
dell’attività agrituristica. Sul piano dei fattori interni, le
potenzialità derivano dalla compresenza, da un lato, di
favorevole collocazione geografica, buone risorse ambientali, paesaggistiche e storico-culturali e dall’altro dalle
condizioni socioeconomiche derivanti da un’attiva economia extragricola. Potenzialmente di grande favore8 anche
la situazione di alcuni fattori esterni, grazie soprattutto
alla presenza delle grandi aree urbane che rappresentano
i principali bacini di domanda di nuovi servizi. A fronte di
questo complesso di risorse e di una potenziale domanda
di nuovi servizi di rilevante entità, a cui l’agricoltura lecchese potrebbe offrire numerose opportunità di soddisfacimento, occorre pensare alla costruzione di un sistema
agrituristico in grado di rendere concreta attualità quella
che ora è potenzialità intrinseca.
3. Qualità, autenticità
e caratterizzazione dell’agriturismo
La prospettiva di sviluppo dell’agriturismo dipende
dalla capacità del comparto di offrire un prodotto agrituristico autenticamente legato al territorio da cui promana. La domanda, infatti, si basa sull’esigenza del consumatore di un servizio fortemente caratterizzato dal con14
tatto con la natura, in un ambiente tranquillo e in un paesaggio gradevole, per assaporare cibi genuini e ‘scoprire’
usi e tradizioni locali.
Il modello economico dominante e gli stili di vita urbano/metropolitani, spingendo verso l’identificazione con i
modelli e gli oggetti di consumo, provocano la progressiva
perdita degli elementi distintivi dell’identità dei cittadini.
L’agricoltura può rallentare questa tendenza, può salvaguardare e offrire alla società elementi di riferimento storici e culturali e, in questa funzione, trovare nuove opportunità sia economiche che di ruolo sociale, grazie a due
beni essenziali: l’ambiente ed il cibo.
Queste nuove opportunità, dunque, si fondano sulle
peculiarità e sulla caratterizzazione di ciascun territorio e
perciò sulla tutela dei suoi elementi distintivi fisico-territoriali e storico-culturali, pur nel divenire dei mutamenti
storici inevitabili. Si fa riferimento, in particolare alla salvaguardia e alla valorizzazione del territorio, del paesaggio, della qualità dell’ambiente, della tradizione gastronomica e più in generale di quella culturale, che rendono
identificabile il territorio. Ma questa prospettiva necessita di un altro fondamentale presupposto: l’assunzione consapevole, da parte degli operatori attuali e futuri, della
qualità come principale coordinata di riferimento dei servizi offerti. Le aziende agrituristiche, singolarmente e collettivamente, dovranno cioè saper esprimere elevati livelli di qualità, sia per quanto riguarda gli standard dei servizi, sia per quanto riguarda la loro rispondenza all’autenticità e alla caratterizzazione del territorio.
Contemporaneamente, sul fronte pubblico, dovrebbero trovare attuazione tutte quelle iniziative e misure in
grado di agevolare e incentivare il perseguimento di questi obiettivi, favorendo soprattutto la costituzione di un
sistema locale che integri efficacemente al suo interno i
L’agricoltura
e la salvaguardia
dell’identità
storico-culturale
della società
contemporanea
15
diversi elementi costitutivi del sistema stesso (operatori e
loro Associazioni, Enti pubblici, attività integrate, etc).
E’ perciò necessario innanzitutto mettere in luce le
risorse di cui è dotato il territorio ed individuare i modi e
gli strumenti per la loro valorizzazione. L’azione della
Provincia, con il progetto “Sviluppo e valorizzazione dell’agriturismo lecchese”9, che mira a concretizzare un’attività
formativa e pianificatoria, si muove esattamente in questa
direzione.
4. Necessità ed opportunità
di un programma provinciale
di sviluppo dell’agriturismo lecchese
L’agricoltura lecchese...
... in collina...
... e in montagna
16
L’agricoltura lecchese è connotata fortemente dalla
polarizzazione determinata dalle diverse condizioni territoriali, circa 3/4 di territorio montano e circa 1/4 di territorio collinare, che danno luogo conseguentemente a
diverse condizioni strutturali e di sviluppo.
Nell’ambito collinare la tipologia colturale aziendale
non si discosta molto da quella di pianura, dove sono
riscontrabili ordinamenti colturali zootecnici-foraggeri,
cerealicoli, orticoli, nonostante le differenze negli assetti
fondiari (frammentazione dei terreni, urbanizzazione diffusa) e nei metodi colturali, connessi principalmente
all’irrigabilità dei terreni. Non mancano, in collina, comparti di notevole specializzazione colturale, quale ad
esempio quello vivaistico, aiutato dalle favorevoli condizioni pedoambientali e spinto dalla necessità di sopperire
alla scarsità di terreno attraverso l’ intensificazione fondiaria.
Nell’ambito montano l’agricoltura è dominata dalla
zootecnia da latte, legata allo sfruttamento delle risorse
foraggere di fondovalle, di mezza costa e di alta quota, con
potenzialità di sviluppo legate al possibile maggiore sfruttamento di queste ultime risorse.
Scarsamente attrattive appaiono essere le risorse forestali, che tuttavia conservano interessanti potenzialità di
sfruttamento. Nel suo complesso l’agricoltura montana
lecchese, al pari di quella di molti altri distretti montani,
è segnata da fenomeni di marginalità economica, dal part
time, dall’invecchiamento degli addetti, dal rischio di ulteriore abbandono, con conseguente maggiore problematicità sul fronte della salvaguardia territoriale.
Nella montagna lecchese, inoltre e a differenza di altre
vallate alpine e prealpine lombarde, la zootecnica prevale
nettamente nell’economia agricola, mancando altre produzioni di importante interesse economico e di pregio
qualitativo, quali ad esempio quelle frutticole e vitivinicole. Unica, modesta, eccezione è l'olivo, che attualmente
riveste un limitato interesse economico diretto10, ma svolge un'importante funzione di recupero territoriale della
fascia medio montana perilacuale e, grazie al riconoscimento del marchio DOP, può senz'altro ottenere nuovo e
interessante impulso.
Tale condizione strutturale dell’agricoltura lecchese
rende necessario introdurre elementi di diversificazione,
capaci di mantenere attive condizioni di sviluppo anche a
fronte di uno scenario di competitività economica e produttiva che non offre prospettive perseguibili sul terreno
della tradizionale produzione agricola.
Perciò la possibilità di sviluppo dell’agricoltura di
montagna va collocata anche in una nuova prospettiva,
fondata sulla più esplicita produzione di servizi; il che non
significa, naturalmente, abbandono dell’agricoltura tradizionale e dei prodotti (latte, carne, formaggi) ottenibili dal
razionale sfruttamento delle risorse presenti.
Dall’azienda agricola,
all’azienda
di servizi
agroambientali
17
L’azienda agricola montana, cioè, oltre che come tradizionale unità di produzione di beni alimentari, potrebbe
essere inquadrata, non secondariamente, come unità di
produzione di servizi, aprendole con ciò nuove prospettive
di sviluppo. Tutto ciò però ha bisogno di un nuovo approccio, sul piano giuridico-normativo e sul piano culturale,
senza il quale l’alternativa di medio periodo è la dipendenza strutturale dell’agricoltura di montagna dal sostegno economico pubblico, oppure la sua scomparsa.
Nè può tacersi che, nonostante il non trascurabile flusso di denaro pubblico che ha interessato sotto vari aspetti
e mediante diversi provvedimenti l'agricoltura montana, i
fenomeni di criticità già richiamati (degrado territoriale,
invecchiamento degli addetti, scarsa competitività, etc),
laddove non sono aumentati, certamente non sono complessivamente diminuiti. L’erogazione di servizi da parte
di questa nuova “azienda di servizi agroambientali”, o
“azienda di servizi verdi”, come taluni la defiscono, potrebbe trovare nell’agriturismo non solo un carattere costitutivo e/o identificativo, ma anche un’importante prospettiva di sviluppo che garantisca continuità all’azione di
manutenzione e salvaguardia ambientale, di sfruttamento
razionale delle risorse naturali, di erogazione di servizi per
il tempo libero della persona, di fruibilità del territorio e
del paesaggio, di permanenza della popolazione nei territori montani.
5. Obiettivi della programmazione
provinciale per lo sviluppo
dell’agriturismo lecchese
Per la definizione di un programma di sviluppo dell’agriturismo provinciale è necessario considerare preliminarmente i rapporti fra i diversi soggetti coinvolti. Questi
18
ricoprono un ruolo tanto più essenziale quanto più si concretizza la volontà unitaria di tutti, dalle imprese con le
loro rappresentanze organizzate alle istituzioni, e quanto
più emerge la loro disponibilità ad operare sulla base di
una larga condivisione di obiettivi e percorsi.
Ciò assume un rilievo preliminare in quanto rappresenta uno dei principali fattori costitutivi di un sistema
che inevitabilmente dovrebbe diventare la cornice di qualunque azione di sviluppo. Un programma di sviluppo non
può che partire dai principali componenti del sistema,
identificabili nel trinomio impresa-azienda-territorio11, da
collocare all’interno di un sistema integrato di relazioni.
La Provincia di Lecco dal 1997 ha intrapreso, fra l’altro,
una prima azione di analisi delle singole realtà operative
e del territorio di contorno ad esse immediato, con l’intento di estendere all’intero contesto provinciale un quadro organico nel quale collocare le ipotesi di sviluppo più
consone alle complessive condizioni locali. E’ stato infatti
avviato un censimento di parte delle aziende agrituristiche autorizzate, mediante l’impiego di una scheda di rilevamento riguardante l’impresa, l’azienda e il suo contorno
territoriale entro un raggio di 500 metri dal centro aziendale (elementi ambientali e storico culturali), che necessita ancora di approfondimenti.
Tra le 15 aziende che risultano attive, per 9 di esse
(60%) sono stati rilevati alcuni dati, di cui si riporta una
sintesi. Il 25% delle aziende ha una superficie maggiore
di 20 ettari, per il 50% la superficie è compresa fra 10 e 20
ettari, mentre il restante 25% è costituito da una superficie inferiore a 10 ettari. Le aziende sono ubicate per il
66% in montagna e per il 34% in collina. Il 100% ha il conduttore di età inferiore ai 45 anni; di questi il 89% ha un
titolo di studio di primo grado, il 11% di secondo grado e
il 44% conosce almeno una lingua straniera. Fra i servizi
19
erogati il 80% delle aziende offre il ristoro, il 22% il servizio di alloggio, il 44% svolge corsi, dei quali il 75% di
equitazione . Dal punto di vista della domanda potenziale
e della disponibilità di risorse territoriali, come è stato già
richiamato, appare esservi un’ampia potenzialità di crescita e di sviluppo del comparto agrituristico lecchese. Dal
punto di vista dell’offerta, invece, occorre intervenire da
più posizioni, sia da quella privata dell’impresa, sia da
quella pubblica, per giungere ad un migliore risultato
rispetto all’impiego delle risorse naturali, economiche e
imprenditoriali. In quest’ottica si colloca, quindi, l’esigenza di individuare gli obiettivi dell’azione di sviluppo e conseguentemente gli strumenti e i percorsi necessari per
realizzarli.
Ferme restando le generali e positive funzioni dell’agriturismo12, i principali obiettivi di sviluppo individuabili
per il comparto agrituristico lecchese possono essere riassunti nei seguenti:
a) adeguamento, da parte dell’impresa agrituristica, della
tipologia e della qualità dell’offerta dei servizi alla domanda: rientrano in questo obiettivo i servizi di ospitalità, ristorazione, attività sportive, ricreative, culturali, gli standard di
qualità, il rapporto qualità/prezzo;
b) organizzazione di una rete provinciale integrata di servizi, rivolti sia all’impresa, sia all’utente: rientrano in questo obiettivo i servizi di assistenza tecnica, di consulenza professionale, di promozione dell’offerta, la formazione e l’aggiornamento professionale degli operatori, la divulgazione
presso gli operatori delle risorse disponibili e le modalità di
utilizzazione nel rispetto delle loro peculiarità e/o esigenza di
salvaguardia, il credito, i servizi integrati e complementari
fra aziende diverse, un sistema informativo riguardante, ad
esempio, la guida provinciale, la segnalazione di itinerari
agrituristici e/o escursionistici, i mezzi di trasporto utilizza20
bili alternativi all’automobile, i beni monumentali visitabili, le mostre, le fiere e tutte le manifestazioni della cultura
popolare e tradizionale, il sistema di prenotazione, l’organizzazione di attività collaterali;
c) uso e salvaguardia dei beni peculiari e caratterizzanti il
territorio: rientrano in questo obiettivo la qualità dell’ambiente e del paesaggio, lo sviluppo e il miglioramento della
tipicità dei prodotti agroalimentari, l’utilizzazione e la valorizzazione delle risorse a forte e ulteriore rischio di abbandono quali quelle forestali e foraggiere d’alta quota, il recupero
e il riutilizzo dell’edilizia storica rurale;
d) integrazione del comparto agrituristico con il settore
turistico: rientrano in questo obiettivo l’incremento di
quote di mercato, interno e internazionale, la diversificazione
dell’offerta turistica provinciale, la destagionalizzazione dei
flussi turistici.
Il quadro tratteggiato in quest'ultimo paragrafo evidenzia la complessità del tema, sia sotto il profilo della
rete di relazioni fra i diversi soggetti, pubblici e privati,
che è necessario avviare ad intrecciare e consolidare, sia
sotto il profilo delle azioni, numerose e diversificate, che è
necessario definire operativamente, sia infine sotto il profilo dei settori d’interesse, che vanno da quello agricolo a
quello urbanistico e di assetto territoriale, da quello turistico a quello dei servizi, amministrativi e commerciali.
Nonostante questa vasta complessità è tuttavia necessario
assumere la consapevolezza della necessità di governo dei
processi, che si rende possibile e produttiva se è vasta la
base di condivisione di obiettivi e strategie di lavoro.
21
Note
1
Non sono stati infrequenti, nel passato, iniziative nate come agriturismo, sfociate poi in attività commerciali vere e proprie, oppure rimaste
formalmente agriturismi, con “abbandono” dell’attività agricola, ridotta e semplificata per consentire la massimizzazione dell’attività agrituristica.
2
Sono ampiamente noti, in molte realtà, i rapporti conflittuali fra agriturismi e in particolare il settore della tradizionale ristorazione, anche
della provincia di Lecco. Se per alcuni aspetti l’agriturismo è assimilabile all’attività alberghiera, esso è tuttavia diverso per molti altri, che
ne giustificano una separata e diversa disciplina.
3
Questa questione è posta in evidenza addirittura dalla Commissione
dell’U.E. all’interno di “Agenda 2000” a proposito dei rapporti agricoltura-ambiente-spazio rurale, a testimonianza dell’importanza del tema.
4
Si fa evidentemente riferimento alle produzioni agricole tecnicamente ottenibili nell’ambiente europeo ed in particolare alle produzioni cerealicole e zootecniche.
5
La sostituibilità dei prodotti nella fase di consumo dipende da numerosi fattori, fra cui il prezzo. In presenza di quote di reddito familiare
destinato ai prodotti alimentari, secondarie per entità rispetto ad alla
spesa con diversa destinazione, come si riscontra attualmente, l’elemento prezzo tende a perdere importanza nella scelta dei diversi beni
alimentari a vantaggio di altre motivazioni, fra cui la ricerca di tipicità,
di qualità, di servizi incorporati, etc .
6
Con la crescita di importanza delle politiche di marchio (es. Dop, Igp)
questo particolare aspetto del problema, cioè l’identificabilità delle
materie prime agricole da trasformare, trova uno strumento di risoluzione, sia pure non completo.
7
Un dato che si può rilevare con notevole frequenza è riferibile alla
notevole coincidenza fra condizioni di marginalità agricola e elevati
valori ambientali di molti territori.
8
Da alcune indagini condotte risulterebbe che la montagna si colloca
al secondo posto, subito dietro le città d’arte, per l’utilizzazione delle
strutture ricettive agrituristiche, seguiti da mare e da collina.
9
Questo volume nasce, infatti, nell’ambito del seminario svolto dalla
Provincia quale parte dell’intero progetto avviato. Il seminario, unitamente all’azione di approfondimento e formalizzazione delle risorse
territoriali che troveranno esplicitazione in documenti specifici,
dovrebbero costituire la base di partenza delle azioni richiamate nel
testo.
10
L’attuale produzione è di circa 13,5 tonnellate di olio
11
Questo trinomio è alla base: dell’organizzazione dell’attività agricola rispetto a quella agrituristica e del reciproco grado di integrazione
(impresa); della potenzialità di offerta di servizi agrituristici e del relativo grado di intensità agrituristica (azienda); delle relazioni con il contesto territoriale e con le risorse extraziendali (territorio).
12
Valorizzazione del capitale, compreso quello umano, dell’azienda;
valorizzazione e salvaguardia delle risorse naturali presenti all’interno
e all’esterno dell’azienda; integrazione del reddito agricolo; valorizzazione e salvaguardia delle risorse culturali locali; incentivo al mantenimento della popolazione anche nelle aree agricole marginali;...
22
Agriturismo
e cultura tradizionale
di Diego Cason
1. Premessa
Non dimenticate
l’ospitalità:
alcuni, praticandola,
hanno accolto
degli angeli
senza saperlo.
(S. Paolo, Lettera
agli Ebrei,13,2)
Affrontare il problema della diffusione delle differenti forme di ospitalità impone necessariamente una
riflessione sulla evoluzione della dimensione culturale
ed economica del turismo. E’ un dato di fatto evidente la
trasformazione della ospitalità da condivisione dei diritti a scambio di diritti, da evento antropologico ad evento
economico. L’ospite nella cultura greca era sacro (tutte le
colpe contro gli stranieri provocano la collera degli dei), una
via di mezzo tra il polites ed l’extros, nel diritto romano
era un pari jure con il cittadino ed era una via di mezzo
tra civis ed peregrinus.
In entrambe i casi il tramite tra l’amico e il nemico e
nella cultura cristiana esso è colui che viene accolto.
L’ospite è il tramite tra chi lo ha generato e chi lo accoglie, è contrapposto alla chiusura nella piccola patria, è il
“transitante”, il nomade che abbisogna del nostro aiuto,
è il rappresentante della cultura del chiedere, del ricevere, contrapposta alla cultura del portare e del possedere.
E’ il soggetto cui è gradito il nostro dono.
In questo senso il turista contemporaneo è ancora
ospite?
In una certa misura possiamo dire ancora che lo è ma
l’aspetto predominante consiste nel fatto che ora acquista merci piuttosto che chiedere doni.
L’essenza della ospitalità la colloca all’opposto della
23
merce. Quest’ultima ha senso perché ha valore economico l’altra ha senso perché è una somma di virtù etiche
come la cortesia, la compassione, la carità e la misericordia. E’ naturalmente possibile vendere o locare camere,
viaggi, pasti, visite guidate, passaggi su impianti di risalita, escursioni in jeep ecc. ma l’ospitalità è un’altra cosa.
Essere ospitali significa condividere, compatire, da
entrambe le parti, nel senso che l’ospite deve affidarsi a
chi l’ospita e quest’ultimo si mette a disposizione del
primo. Accogliere (dekomai, dokè) significa ricevere,
ascoltare, capire. Da ultimo non si scordi che la parola
ospite (xénos) può indicare indifferentemente l’ospitato
e l’ospitante. Al fondo antropologico l’ospitalità risponde
alla esigenza di integrare almeno temporaneamente lo
straniero o l’estraneo nella comunità che lo ospita. Vi
sono allo scopo riti adatti a ridurre il timore dell’estraneo
e renderlo simile a sè.
Il mangiare ed il bere insieme è ciò che rimane di tale
ritualità nella nostra cultura, decisamente impoverita da
questo punto di vista, perché più aperta e cosmopolita,
anche se il timore dello straniero estraneo rimane, solido
e tenace anche se dissimulato.
Nella cultura ebraica ancora oggi si lascia un posto
libero a tavola nel caso dovesse apparire il profeta Elia.
Essendo egli in grave ritardo quel posto d’onore è riservato ai viandanti e, come dice il Talmud, “i poveri siano i
membri della tua casa”.
Questa breve premessa non deve far dimenticare che
il viaggio ha sempre avuto una valenza economica, sia
quando era intrapreso da veri nomadi (ciò che li muove è
infatti il bisogno economico), sia in epoca classica, quando
era quasi sempre associato alla attività commerciale poiche chi non praticava il commercio non aveva i mezzi nè
interesse per il viaggio. Solo in tempi moderni si afferma
24
il viaggio per diletto ma esso ha origini antiche. Cavalieri
e pellegrini percorrono le incerte strade medievali e
Jaques Le Goff lo conferma quando dice che: “la mobilità
degli uomini del medioevo è stata estrema e sconcertante....
essa cela sovente il semplice vagabondaggio, la curiosità
vana”.
La villeggiatura invece è già praticata nel primo secolo d.C. quando Atilio affermava che “lo stare in ozio è preferibile al non fare niente”. Seneca scrive all’amico
Lucilio: “di quanto credi siano aumentate le mie forze dacchè raggiunsi i miei vigneti abbandonando le esalazioni
pestilenziali della città?” Del resto, per non andare lontano, Plinio il giovane aveva due ville sul Lario di cui era
molto orgoglioso e che decanta in una lettera a Caninio
Rufo: “che ne è di Como, tua e mia delizia? Che di quell’amenissima villa suburbana? E di quel porticato ove è sempre primavera? E di quell’ombroso folto di platani?”
L’origine remota dell’agriturismo la troviamo proprio nei
rusticari romani, Petrarca esalta le gioie della campagna
nel Canzoniere, il Boccaccio scrive nel Decamerone che
“se paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere
altra forma, che quella di quel giardin, gli si potesse dare”.
Si trascurano i numerosissimi esempi di villeggiatura in
campagna della nobiltà veneta che Goldoni afferma
essere diventata “una passione, una mania, un disordine”
lamentando la corruzione della vita agraria. La villeggiatura in campagna continua e si estende fino agli inizi del
‘900 man mano sostituita dalla vacanza marina e dalla
frequentazione della montagna.
Sono l’automobile e la crescita della mobilità che, nel
secondo dopoguerra, mettono in ombra la villeggiatura
in campagna. Nel versante sud delle alpi c’è un altro elemento che determina una perdita di status della villeggiatura in campagna ed è il limitatissimo prestigio socia25
le delle attività agricole. Esse sono associate ad una
situazione di subordinazione sociale, di scarso reddito e
di insufficiente libertà. E a ragione, al confronto del
benessere tipico dei contadini-montanari svizzeri o tedeschi dove avere il maso o la fattoria in montagna significa ricchezza e prestigio sociale.
2. L’evoluzione dell’agricoltura montana.
Le attività agricole, in particolare in montagna, hanno
subito una profondissima trasformazione nel corso degli
ultimi 50 anni che può essere sintetizzata nel modo
seguente:
• Calo della popolazione attiva in agricoltura, in particolare in montagna (divenuta meno del 3% del
totale) e rapidissimo invecchiamento degli attivi
(che hanno in media più di 55 anni).
• Perdita di prestigio sociale delle attività agricole.
Esse nel versante sud delle Alpi non ne hanno mai
avuto molto ma oggi siamo veramente ai limiti del
giudizio sociale negativo.
• Progressivo adattamento delle attività agricole redditizie ai modelli industriali ed urbani con conseguente perdita di rapporto con la nozione di equilibrio ecologico e sociale della attività di sfruttamento del suolo. Oggi, paradossalmente, le attività agricole produttive sono in contrasto con un utilizzo
ecologico dei territori. In particolare in montagna
dove le caratteristiche orogenetiche rendono particolarmente stridente il contrasto tra metodi colturali intensivi e la stabilità delle cotiche coltivate e
la diversità biologica di equilibrio.
• Le attività agricole poco produttive, marginali, par26
cellizzate sono antieconomiche e non hanno mercato se non in particolari nicchie ( coltivazioni biologiche, frutti del bosco, allevamenti di specie rustiche ecc.).
• Cambiamento radicale dei metodi di allevamento,
in particolare per bovini, equini e ovini con quasi
totale abbandono della monticazione estiva.
• Estensione della monocoltura (in particolare del
mais), uso intensivo di erbicidi e di concimi chimici,
meccanizzazione spinta, tendenza alla eliminazioni
degli elementi di variazione paesaggistica (come
siepi, macchie, boschi, filari alberati, incolti) con
conseguente monotonia degli ambienti rurali.
La situazione sul versante meridionale delle Alpi è
decisamente preoccupante, laddove non si sono affermate attività economiche integrative del reddito agricolo il
risultato della evoluzione è stato l’abbandono di vasti territori, in particolare nelle alpi occidentali. Il paradossale
risultato consiste nel fatto che le imprese agricole produttive e attive si basano prevalentemente sull’allevamento e adottano sistemi produttivi assai simili a quelli
industriali. Queste imprese agricole utilizzano frequentemente l’affitto dei fondi rustici altrui per la produzione di foraggio, mais e soia per l’alimentazione animale.
In questo tipo di imprese l’agriturismo è difficilmente praticabile perché l’imprenditore non ha tempo da
dedicare agli ospiti, gli ambienti aziendali non sono accoglienti, il paesaggio agrario è decisamente compromesso.
Le altre imprese agricole sono solitamente imprese
famigliari, con pochi ettari di fondo proprio, con una conduzione di persone anziane ed immobili di qualità piuttosto scadente, una attività produttiva assai ridotta con
prevalenza del prato e del mais e con redditi agrari limi27
tatissimi. In questo caso l’attività agrituristica appare
difficilmente realizzabile per una insufficiente propensione all’investimento di risorse umane e finanziarie.
Non si dimentichi inoltre che la gran parte delle famiglie
di coltivatori diretti ha già forme integrative del proprio
reddito che proviene perlopiù da attività, nel settore
secondario e del terziario e da trasferimenti pensionistici, di qualche membro della famiglia. Un altro aspetto
che va tenuto in considerazione è la cultura della proprietà della casa di abitazione che, nelle culture rurali, si
è restii a condividere con altri e nella scarsa attitudine
alla ospitalità intesa nel suo significato turistico economico.
Solo poche imprese hanno caratteristiche intermedie
tra le due delineate in particolare:
a)
b)
c)
d)
e)
f)
g)
h)
i)
titolari sufficientemente giovani e motivati;
estensione dei fondi sufficiente (almeno 10 ha);
attività produttive differenziate e continuative;
sufficienti attività produttive di ortaggi, legumi,
cereali e frutta;
immobili aziendali di qualità discreta;
accessibilità adeguata;
rete di strutture di servizi pubblici e privati sufficiente;
formazione professionale minima per l’accoglienza e
l’ospitalità;
produzione orientata alla qualità del prodotto.
Individuare queste imprese agricole, oppure dei coltivatori diretti, che possano iniziare una attività di impresa agrituristica con le caratteristiche prima citate è uno
dei primi ostacoli che si incontrano nell’organizzare una
28
rete di ricettività di questo tipo.Il rischio che si corre se
non si verificano queste caratteristiche delle imprese esistenti consiste nel ridurre l’attività alla semplice ristorazione in concorrenza con attività commerciali dello stesso tipo senza offrire un nuovo tipo di ricettività turistica.
Oppure in assenza di ristorazione alla pura e semplice locazione di immobili con qualità del locato inadeguata.
3. Evoluzione della domanda turistica.
Anche la domanda turistica si è evoluta e differenziata sotto la spinta di molteplici cause. Le più rilevanti
sono senza dubbio:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
la crescita del reddito,
l’urbanizzazione di quasi il 70% dei residenti,
la mobilità automobilistica,
l’estensione della rete di trasporti aerei,
il miglioramento qualitativo dell’offerta,
la differenziazione dei prodotti,
aumento del tempo libero,
riduzione del numero di componenti per famiglia,
l’organizzazione di una rete distributiva dei prodotti (agenzie di viaggio).
Le tendenze odierne indicano le direzioni dello sviluppo futuro della domanda che sono:
• l’aumento dei tempi di vacanza,
• la loro frantumazione temporale (meno villeggiatura, più viaggi brevi),
• ulteriore differenziazione dei target,
• crescita della destagionalizzazione,
29
• crescita della richiesta di relax e contatto con gli
ambienti “naturali”,
• semplificazione delle formalità organizzative (prenotazione diretta ecc),
• emergere del turismo colto,
• maggiore richiesta di qualità nei servizi,
• crescita del trasporto collettivo,
• crescita del target della terza età,
• richiesta di spazi e servizi per i bambini,
• turismo di affari sempre meno differenziato.
Nella evoluzione della domanda si manifestano due
richieste emergenti. Una spinge verso la ricerca del
rischio e dell’esotismo esasperati (i “no limits” e le
“avventure nel mondo”), l’altra è alla ricerca di senso
culturale. Entrambe le tendenze sono il segno di un
distacco della cultura urbana da ritmi e consonanze
naturali della vita contemporanea e la manifestazione di
una ricerca di un equilibrio perduto. In questo filone si
inserisce il turismo nei parchi naturali visti in molti
modi, quasi mai per ciò che sono, i trekking, i tour mistici, le settimane conventuali e anche l’agriturismo. In
tutte queste “ragioni” emergono motivazioni legate al
disagio crescente legato ai ritmi del lavoro e della vita
urbana. Alcune di queste motivazioni analizzate in modo
accennato sono:
Il silenzio. Il rumore è un compagno fastidioso soprattutto
dopo averlo sopportato per 40 anni. Le fasce più mature
della domanda fuggono il rumore, desiderano riappropriasi
dei suoni e delle melodie e soprattutto abbisognano di silenzio o perlomeno di una sordina ai rumori del mondo.
Vacanza deriva da vaco, vuoto, libero, sgombro, anche dai
suoni.
30
Il rallentamento del tempo. La necessità della lentezza di
cui molti hanno tessuto l’elogio deriva dalla necessità di sperimentare la libertà. L’urgenza è la faccia della necessità, la
lentezza quella della scelta. I tempi della vacanza rurale
sono quelli più vicini a quelli naturali anche perché non c’è
nulla di obbligatorio da fare. La semplicità dell’abbigliamento, i ritmi solari, gli spazi e gli incontri inducono a rallentare il ritmo degli eventi giornalieri.
Il rapporto con il sé solo. Il rapporto con il sé passa necessariamente attraverso gli altri ma ciò vale soprattutto nella
fase della formazione del sé, nella adolescenza e nella giovinezza è gradito il continuo confronto, l’agone con l’altro,
nella maturità ci coglie il desiderio di valutare quello che
siamo diventati e questo avviene in intimità. La meditazione non è necessariamente una completa astrazione dal resto
del mondo basta che esso rallenti e se ne stia un pò zitto.
Il piacere. Ritrovare il rapporto con sé significa fare i conti
con i propri desideri, significa chiedere e donare, costruire
legami per mezzo dei doni, scoprire che è piacevole ritrovarsi desiderati e graditi, e che è rilassante mettersi nelle mani
di chi ci accoglie.
La naturalità e l’accettazione degli eventi. Uscire dalla
presunzione di onnipotenza, dall’idea di dominio, dalla
necessità di controllare ogni evento in cui si è implicati ed
accettare che gli eventi si compiono anche senza di noi è una
fonte di notevole relax e aiuta a ritrovare equilibrio tra
responsabilità, colpa e dovere da un lato e libertà, dall’altro.
La compassione. La capacità di provare empatia, di mettersi dentro alle scarpe degli altri, comprendere di più e giudicare meno, sperimentare l’esistenza di altri modi di valutare le cose aiuta a sdrammatizzare le difficoltà personali.
31
La simpatia consiste nel condividere il phatos o le emozioni.
Il sacro. L’assenza di meditazione conduce all’insterilimento del sacro inteso come capacità di entrare in rapporto con
il divino. Questo non è da confondere con il religioso inteso
come culto o adesione fideistica ad una dottrina, va inteso
come capacità di sentirsi parte dell’esistente e di porsi il problema del significato di questa partecipazione. E’ divertente
constatare che le ferie sono contrapposte linguisticamente
alle feste religiose, mentre nel senso comune esse sono associate alla nozione del sacro: le mie ferie sono sacre in contrapposizione al tempo del lavoro ordinario e profano.
Letteralmente holidays , giorni sacri. Il sacro come straordinario, eccezionale, diverso. Infatti si scrivono cartoline dal
“paradiso delle vacanze” ed in effetti i turisti hanno la loro
religione con i propri sacrifici (tipo l’abbronzatura) con i
propri riti (le cartoline) e con i propri totem (luoghi come il
“non sei stato al Louvre?”) e strumenti totemici (come i souvenir).
L’inutile. Anche in questo caso è trasparente la contrapposizione con l’economico che è l’utile per definizione. La vacanza è anche vacans o inutile o superfluo o anche vacuus
vacuo, vano, vanitoso. Detto di luoghi ha significato di
ampio o libero e questa libertà può significare anche libertà
dal bisogno e quindi ulteriore presa di distanza dall’economico. E’ evidente il legame tra l’ospitalità e il dono che è inutile economicamente ma utilissimo eticamente. Il dono è un
legame empatico è stabilire un rapporto personale, nel dono
sono importanti le persone non le cose scambiate.
Il corpo. La cura del proprio aspetto esteriore, nella cultura
contemporanea, produce molti effetti negativi nel rapporto
con il sé tuttavia produce anche una conseguenza positiva
che consiste nell’attenzione alla propria salute (senza ipo32
condria). Il benessere fisico e le cure che ci permettono di
mantenerlo assumono un’importanza molto elevata perché
aumentano il valore del tempo dedicato allo “stare bene”. Se
si associa questo desiderio ad un prodotto naturale come può
avvenire nelle terme o nelle vacanze agrituristiche il risultato è evidente.
Senza entrare nel merito delle motivazioni ricordate è
straordinario verificare come il turista cerchi nell’agriturismo un valore (in risposta alle motivazioni sopra citate)
che a suo modo di vedere dovrebbe essere conservato
nella attività agricola ma che in essa non c’è quasi più. Il
mondo agricolo è visto culturalmente attraverso una
lente deformante che è quella della lenta inerzia delle
idee e dei miti rispetto alla rapida evoluzione delle economie e dei costumi. Si immagina il mondo agreste come
oasi incontaminata ma poi nelle aziende agrituristiche si
beve acqua minerale imbottigliata perché le falde dei
pozzi e talvolta degli acquedotti producono acqua imbevibile. Il rapporto con gli animali domestici avviene
entro allevamenti che non hanno nulla di pastorale e che
assomigliano a reparti di ostetricia veterinaria.
Anche la cultura agreste e pastorale in queste condizioni appare più come una operazione di folklore che
vitale espressione di un popolo. Tanto che molte aziende
agricole che praticano le attività turistiche devono comperare qualche cavallo proprio per poter esercitare l’attività in oggetto e non il contrario come sarebbe più logico pensare. Inutile dire che per l’agricoltore quei dannati cavalli sono un autentico tormento dal punto di vista
dei costi e li trasformerebbe volentieri in salami equini,
ma il mercato ha le sue regole e le leggi regionali i propri requisiti. Il problema del folklore è stato ampiamente valutato e bisogna fare molta attenzione nel trasformare manifestazioni in cui si partecipa ad un evento cul33
turale di un popolo cui apparteniamo o alle quali siamo
ammessi temporaneamente in qualità di ospiti (sacri),
con manifestazioni alle quali si assiste ad una spettacolarizzazione (o scena oscena) della vita quotidiana di
altre persone ridotte al rango di side show in una parodia
kitsch. Se la realtà sociale ed economica è mutata mutano anche le culture e riproporle in termini folkloristici è
fermarsi alla superficie del bisogno turistico. Per fare del
turismo è necessario che i residenti rimangano se stessi
e siano quel che sono ora e non quel che erano un tempo.
Dove c’è una domanda di merci prima o poi si manifesta un’offerta in grado di soddisfare tale domanda. E’
evidente che laddove il turista, poco avveduto e assai pretenzioso, desidera un “contatto” con il bucolico mondo
agricolo a pagamento, emerge rapidamente l’imprenditore che glielo confeziona nel modo adeguato e glielo
vende senza tanti problemi. Tanto meglio se quel mondo
è quasi scomparso perché ciò rende più semplice il lavoro dato che lo può inventare assai più liberamente. In
tutto questo non c’è niente di male visto che ingannato e
ingannatore sono d’accordo perché appartengono allo
stesso mondo di riferimenti culturali. In fondo il turismo
esotico determina un danno decisamente superiore visto
che coinvolge nel mercato anche “indigeni” che ne farebbero volentieri a meno.
Il fatto è che nell’offerta agrituristica le ricette per
vendere la sola merce non sono sufficienti e grande appare il divario tra le competenze turistiche degli agricoltori e le esigenze di organizzazione turistica del settore.
I limiti inevitabili dell’offerta agrituristica possono
essere compensati solo da un surplus di ospitalità e da
una particolare cura nel fornire i servizi predisposti per
l’ospite. Non si deve cadere nell’errore che il turista
34
possa facilmente essere turlupinato con la scusa della
rusticità dell’accoglienza per rifilargli servizi scadenti.
La debolezza della cultura popolare, intesa secondo i
miti urbani che se la immaginano, è un dato di fatto e, se
non vogliamo che essa scada nel folklore, è necessario
costruire intorno alla offerta di ricettività agrituristica
una rete di servizi di elevata qualità, anche non direttamente turistici, che rendano visibile e fruibile la cultura
popolare rurale e montana.
In assenza di questo supporto l’offerta rimane debole,
raggiunge un target marginale, fa concorrenza alle altre
strutture solo sul prezzo, diffonde una immagine negativa dell’intera area di riferimento.
Si tratta allora di costruire dei servizi a supporto della
ospitalità agrituristica quali lavanderie, produzione di
alimenti di qualità locale certificati, interventi di formazione per la ristorazione e l’accoglienza, eventi culturali,
esposizioni museali, percorsi ciclabili e pedonali, itinerari gastronomici ecc.
Nella costruzione di questa rete di servizi emerge la
cultura locale, l’abilità nel confezionare prodotti concorrenziali, il recupero delle tipologie edilizie, la ricerca storica ed etnografica ed altro ancora.
In questo modo si rimette in moto una percezione più
autentica della propria identità non certo con rappresentazioni o ricostruzioni posticce del passato.
In questo senso il rapporto dell’agriturismo con la cultura locale non va vissuto come operazione della nostalgia per un passato che non ritornerà, ma come azione
concreta dei residenti per costruire nuove occasioni di
impresa agricola e turistica e quindi nella produzione di
cultura locale viva ed autentica. Non si fa agriturismo
invitando i turisti a false vendemmie o a raccolte di mele
organizzate per loro soli ma creando imprese agricole nei
35
settori citati capaci di accogliere negli ambiti aziendali
gli ospiti e far vivere loro una esperienza di vita reale e
non una rappresentazione di ciò che fu.
Credo assai poco nella possibilità che l’agriturismo
possa salvare imprese agricole poco produttive e abbia
una funzione produttiva di redditi sostituivi di quelli
agricoli. Credo piuttosto che imprese agricole produttive,
nelle quali gli imprenditori manifestano le proprie capacità organizzative e produttive, in cui si realizzano progetti vivi e reali, tengono vive le tradizioni colturali e culturali rinnovandole con conoscenze, tecniche e tecnologie del nostro tempo nel rispetto dell’ambiente in cui
operano, siano le uniche che possono offrire al turista
una autentica ospitalità rurale.
Il necessario rigore critico in ambito sociologico non
deve far perdere di vista gli aspetti positivi dell’agriturismo che sono molteplici:
• Una demistificazione del mondo rurale, una presa
d’atto delle sue difficoltà economiche e sociali è
utile anche con il tramite del mercato agrituristico.
• I redditi che le imprese marginali agricole riescono
a percepire con l’agriturismo può favorire la loro
resistenza e la loro attività di presidio territoriale.
• Il contatto dal vivo con altre specie animali che non
siano i pesci rossi nell’acquario di casa aiuta, specialmente i bambini, a costruire un contatto reale
con il presente. In questo modo alcuni di loro si rendono conto che i tacchini e i polli non nascono nei
supermercati.
• Il “glamur” del prodotto turistico può divenire il
tramite per introdurre, con maggiore capacità di
penetrazione commerciale, dei prodotti biologici
36
certificati che impongono agli agricoltori alcune
regole di comportamento nelle coltivazioni che
migliorano la qualità territoriale direttamente e
indirettamente. Oggi l’esiguità del mercato del biologico rende i costi produttivi elevati e quindi i
prezzi non competitivi e determina notevoli difficoltà nella riqualificazione delle piccole imprese
agricole.
• L’esperienza e il contatto con quel che rimane di un
ambiente agrario accogliente, in cui la presenza
dell’uomo rimane tutto sommato meno devastante
che nella realtà urbana fornisce uno strumento di
paragone e di confronto, che permette di “misurare” il degrado di molti siti urbani e ne può favorire
il recupero.
• Se una parte della domanda turistica si rivolge alle
imprese agrituristiche si riduce il peso della
domanda verso altri prodotti che producono danni
ambientali e sociali più gravi e più estesi.
• L’evoluzione ricordata ha prodotto un effetto che è
in qualche caso già visibile benché ancora minoritario e consiste nella scelta culturale della attività
agricola biologica e biodinamica che produce adottando criteri di ecosostenibilità. In questo caso la
produzione non bada alla quantità ma alla qualità
occupando spazi di mercato assai significativi.
Affinché questi effetti positivi si manifestino è necessario una coerente normativa e un controllo dei requisiti
per l’esercizio dell’agriturismo legandolo il più possibile
all’esercizio reale di attività agricole a regime e non strumentali e subordinandolo a dei caratteri di qualità
intrinseca sia ambientale sia del prodotto (in particolare
alimentare) non proibitivi per l’impresa ma capaci di
37
produrre una crescita del segmento di domanda interessato a questo tipo di offerta. Emergono infatti negli ultimi anni alcune tendenze evolutive del mondo agricolo e
dei consumi che possono aprire prospettive assai interessanti anche nell’agriturismo.
1) La prima di queste consiste nelle costruzione di imprese agricole fondate su nuovi elementi organizzativi in
sostituzione sia della piccola impresa familiare sia
della impresa agricola di tipo industriale. Ci sono
ormai numerosi esempi in tutta Europa di imprese
agricole biologiche che costruiscono una struttura produttiva efficiente e moderna (in esse si usano tecnologie informatiche, tecniche per l’analisi chimica dei
suoli, metodologie veterinarie avanzate, utilizzi dell’energia rinnovabile ecc.) che tuttavia punta alla qualità
biologica del prodotto e allo scambio cooperativo di
servizi, invece che al solo profitto. La logica che guida
questi nuovi imprenditori punta al rispetto degli equilibri naturali dei suoli, tutelando la biodiversità degli
ambienti rurali, applica tecniche di allevamento del
bestiame sui fondi e non in batteria, si rivolge anche
all’allevamento della selvaggina (cervi e cinghiali
soprattutto), utilizza metodi biologici nel campo degli
ammendanti e nella lotta agli insetti nocivi, elabora
direttamente le proprie produzioni (confetture, conserve, vini, carni conservate e latticini), produce pochi
rifiuti, e disponibile alla ospitalità agrituristica. E’ un
modello emergente che trova non pochi ostacoli in
montagna, sia per la persistente ed endemica frantumazione dei fondi (oggi ridotti a dimensioni ridicole),
sia per la loro ridotta produttività, sia per la limitata
estensione del mercato del prodotto biologico in Italia.
2) Proprio a questo proposito è interessate evidenziare la
seconda tendenza e notare come negli ultimi dieci
38
anni sia in forte crescita la domanda di prodotti biologici che rimane tuttavia limitata a consumatori consapevoli e di reddito sufficientemente alto, visto che tali
beni hanno prezzi, anche se di poco, superiori a quelli
della concorrenza che non bada alla qualità intrinseca. Questa tendenza del mercato è legata alla maggiore attenzione alla alimentazione di qualità legandola
alla tutela della salute.
In essa permangono alcuni aspetti che potremmo definire ideali e di conseguenza elitari e talvolta settari,
come le pratiche della macrobiotica, nel consumo di
alimenti esotici, nella medicina omeopatica, tuttavia
il mercato è decisamente più vasto di questa ristretta
cerchia di “adepti” ed è pronto per assorbire una
quantità di prodotto biologico certificato decisamente
superiore. Affinché questo avvenga è necessario avere
una base produttiva più consistente ed in grado di
investire sufficienti risorse nella promozione delle
proprie merci e nella introduzione di economie di
scala capaci di far scendere i prezzi del settore.
Per concludere va riaffermato che la pratica dell’agriturismo abbisogna di una rete di servizi turistici e
commerciali preesistente o in via di definizione, di
imprese agricole attive ma orientate sulla qualità del
prodotto, di una politica di tutela del consumatore, di
una rete di servizi pubblici e privati per le imprese agrituristiche ed infine una attività di promozione e sostegno
del settore nell’ambito della commercializzazione del
prodotto turistico regionale.
39
Tipologie di paesaggio
ed elementi costitutivi
Giuseppe Glorioso
1. La “lettura” del territorio
La presente relazione, che ha per oggetto l’illustrazione dei caratteri del paesaggio agrario tradizionale della
provincia di Lecco, e delle relative forme di tutela e valorizzazione, si basa sugli studi e le ricerche svolte in occasione della redazione del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Lecco (PTCP).
Nell’ambito del PTCP, la lettura del paesaggio alla
scala provinciale è effettuata attraverso tre livelli interpretativi, la cui individuazione e leggibilità avviene alla
scala vasta e che quindi, nell’insieme, definiscono la
“struttura” del paesaggio provinciale:
Le componenti
elementari del
paesaggio:
gli elementi costitutivi
I sistemi paesistici
1) gli elementi costitutivi del paesaggio: individuano i
componenti elementari del paesaggio, di valenza naturale e storico-culturale, che connotano e caratterizzano
l’immagine del paesaggio stesso. Gli elementi costitutivi del paesaggio, suddivisi in categorie (vedi tab.
1), contribuiscono a individuare e definire, combinandosi diversamente tra di loro, i sistemi paesistici e le tipologie di paesaggio.
2) i sistemi paesistici: individuano luoghi connotati da
una peculiare combinazione di elementi paesistici,
reciprocamente legati da relazioni spaziali, visive e
culturali, riconoscibili e definite secondo regole
precise.
40
Tabella 1 - Gli elementi costitutivi del paesaggio
A - ELEMENTI NATURALI
A1 - Elementi geomorfologici
A1.1
A1.1a
A1.1b
A1.1c
A1.1d
A1.1e
- Energie di rilievo
- Vette, cime, sommità montane
- Creste
- Crinali
- Passi, valichi e forcelle
- Dossi e sommità collinari
A1.2 - Versanti
A1.2a Versanti rocciosi
A1.2b Versanti a media acclività
A1.2c Versanti di raccordo
A1.3
A1.3a
A1.3b
A1.3c
A1.3d
A1.3e
A1.3f
A1.3g
A1.3h
A1.3i
-
Elementi vallivi e di versante
Terrazzi morfologici
Orli di terrazzo
Scarpate, dirupi, pareti rocciose
Ripiani morfologici
Falde e coni di detrito
Paleofrane e nicchie di distacco
Testate di valle
Conoidi di deiezione
Valle sospesa
A1.4
A1.4a
A1.4b
A1.4c
A1.4d
A1.4e
A1.4f
A1.4g
A1.4h
- Emergenze geomorfologiche
- Campi solcati o carreggiati
- Doline e foibe
- Inghiottitoi e pozzi
- Grotte e cunicoli
- Circhi glaciali
- Massi erratici
- Rocce montonate
- Depressioni morfologiche
A1.4i A1.4l A1.4mA1.4n A1.4o A1.4p A1.4q A1.4r A1.4s -
Cordoni morenici
Punte e penisole
Insenature
Sorgenti
Cascate
Marmitte dei giganti
Gole, forre, orridi
Paleoalvei
Isole fluviali
A2 - Elementi idrografici
A2.1 - Laghi
A2.1a Laghi subalpini
A2.1b Laghi morenici
A2.1c Laghi alpini
A2.1d Laghi "fluviali"
A2.2 - Corsi d’acqua
A2.2a Fiumi
A2.2b Torrenti
A2.2c Rogge e “bevere”
A2.3 - Zone umide
A2.3a Paludi
A2.3b Torbiere
A2.3c Lanche
A3 - Elementi vegetazionali
A3.1 - Boschi, foreste, brughiere
A3.1a Boschi e foreste
A3.1b Brughiere
B - ELEMENTI ANTROPICI
B1 - Elementi del paesaggio costruito tradizionale
B2 - Elementi del paesaggio agrario tradizionale
B1.1 - Centri e nuclei storici
B1.1a Centri aggregati
B1.1b Centri compatti
B2.1 - Sistemazioni agrarie
B2.1a Terrazzamenti e ciglionamenti
B2.1b Sistemazioni collinari
B2.1c Sistemazioni di conoide
B2.1d Trama poderale dell'alta pianura
B1.2 - Emergenze architettoniche
B1.2a Architetture civili urbane
B1.2b Architetture religiose
B1.2c Architetture fortificate
B1.2d Manufatti territoriali
B1.2e Elementi di archeologia industriale
B1.3 - Percorsi di interesse paesistico
B1.3a Percorsi stradali
B1.3b Percorsi su ferro
B1.3c Vie d'acqua
B1.3d Punti e percorsi panoramici
B1.4 - Siti di interesse storico-culturale
B1.4a Siti archeologici
B1.4b Luoghi sacralizzati e/o di memoria storica
B1.5 - Verde urbano e periurbano
B1.5a Parchi e giardini storici
B1.5b Viali alberati
B2.2 - Coltivi
B2.2a Prati e pascoli
B2.2b Legnose agrarie
B2.2c Policoltura collinare
B2.2d Colture asciutte di pianura
B2.3 - Insediamenti rurali
B2.3a Nuclei rurali
B2.3b Edifici rurali isolati
B2.3c Ville rurali
B2.4 - Elementi diffusi del paesaggio agrario
B2.4a Percorsi rurali
B2.4b Sistema irriguo
B2.4c Manufatti rurali
B2.5 - Elementi vegetazionali
B2.5a Macchie arboree e/o arbustive
B2.5b Vegetazione ripariale
B2.5c Filari alberati
B2.5d Alberi isolati
B2.5e Siepi
41
Tabella 2 - Il paesaggio agrario: tipologie di
paesaggio, elementi costitutivi e sistemi paesistici
Tipologie di Paesaggio
Elementi e
Sistemi Paesistici
A
Paesaggio
dell’alta
montagna
prealpina
B
Paesaggio
delle valli e
dei versanti
prealpini
C
Paesaggio
lacustre
Elementi costitutivi del paesaggio agrario
1 - Sistemazioni agrarie
1.a
1.b
1.c
1.d
Terrazzamenti
e ciglionamenti
Sistemazioni
collinari
Sistemazioni
di conoide
Trama poderale
dell'alta pianura
2 - Coltivi
2.a
2.b
2.c
2.d
Prati e pascoli
Legnose agrarie
Policoltura
collinare
Colture asciutte
di pianura
3 - Insediamenti rurali
3.a
3.b
3.c
Nuclei rurali
Edifici rurali isolati
Ville rurali
4 - Elementi diffusi del paesaggio agrario
4.a
4.b
4.c
Percorsi rurali
Sistema irriguo
Manufatti rurali
5 - Elementi vegetazionali
5.a
5.b
5.c
5.d
5.e
Macchie arboree
e/o arbustive
Vegetazione ripariale
Filari alberati
Alberi isolati
Siepi
Sistemi paesistici agrari
1
2
3
4
5
42
Sistemi degli alpeggi
e dei maggenghi
Sistemi agrari
di fondovalle
Sistemi
dei terrazzamenti
Sistemi agrari
di conoide
Sistemi agrari
di pianura
D
Paesaggio
collinare
E
Paesaggio
della pianura
I sistemi paesistici, suddivisi in categorie (vedi tab.
2), evidenziano il “valore relazionale” esistente tra
alcuni particolari elementi del paesaggio, ossia la
qualità del rapporto che si stabilisce tra di essi, indipendentemente dalla “qualità” intrinseca dei singoli elementi: per tale motivo, i sistemi costituiscono di per sé un’ “emergenza” rispetto al più ampio
contesto paesaggistico al quale appartengono.
In particolare, i sistemi agrari individuano le forme
fondamentali storicamente impresse al paesaggio
dallo sfruttamento a fini agricoli produttivi del territorio: per l’estensione e per le peculiarità che li
caratterizza, tali sistemi rappresentano insiemi di
grande valenza paesistica.
3) le tipologie di paesaggio: individuano grandi ambiti
territoriali, spazialmente definiti, caratterizzati da
peculiari caratteri fisico-morfologici e storico-culturali, in grado di conferire agli ambiti stessi una precisa
fisionomia e ed una riconoscibile identità.
Le tipologie
di paesaggio
Ciascuna tipologia di paesaggio è connotata dalla particolare combinazione di elementi costitutivi e sistemi
paesistici: le relazioni tra tipologie, sistemi ed elementi è
illustrata nella tab. 2.
2. Struttura e caratteri
del paesaggio agrario lecchese
Il territorio lecchese è caratterizzato da una notevole
ricchezza e varietà di paesaggi che coprono quasi tutte le
principali variazioni paesistiche presenti in ambito regionale.
In particolare, all’interno del territorio sono distingui-
Grande ricchezza
e varietà di
paesaggi nel
territorio lecchese
43
bili le seguenti grandi articolazioni paesistiche, nell’ambito delle quali sono riconoscibili differenti paesaggi
agrari :
1. il paesaggio dell’alta montagna prealpina
2. il paesaggio delle valli e dei versanti prealpini
3. il paesaggio lacustre
4. il paesaggio collinare
5. il paesaggio della pianura
Il paesaggio agrario tradizionale è costituito dall’insie-
Paesaggi della provincia di Lecco
Il paesaggio agrario
tradizionale come
risultato visibile
delle trasformazioni del
territorio ai fini
agricoli produttivi
44
me dei caratteri paesistici derivanti dalle trasformazioni
fisiche finalizzate allo sfruttamento del territorio a fini
agricoli produttivi realizzate nel passato: il paesaggio
agrario tradizionale è interessato dalla presenza di manufatti di varia natura (costruzioni temporanee e stabili,
sistemazioni agrarie, strade rurali, ecc...), spesso di considerevole estensione, che nel complesso disegnano assetti
territoriali assai peculiari, estremamente differenziati in
funzione delle condizioni ambientali naturali.
Al fine di restituire un quadro sintetico della struttura e dei caratteri del paesaggio agrario lecchese, di seguito si propone, per ciascuna delle tipologie di paesaggio pro-
vinciale suddette, una lettura dei principali elementi costitutivi, nonché dei sistemi paesistici agrari in esse presenti.
2.1 Il paesaggio dell’alta montagna
prealpina
Il carattere predominante del paesaggio dell’alta
montagna prealpina lecchese, che lo rende eccezionale
nell’ambito regionale, è l’elevato grado di naturalità, considerata anche la prossimità con le aree densamente
urbanizzate della Brianza.
La montagna prealpina lecchese è infatti caratterizzata dalla presenza di catene e rilievi con quote assai elevate che arrivano fino a 2.600 metri di altezza, con forti
analogie con gli elementi tipici della montagna alpina.
Elementi primari di definizione dello spazio prealpino
sono le vette e le guglie che si innalzano repentinamente
(torri, creste e guglie dolomitiche delle Grigne e del
Resegone; Monte Legnone, ecc.), che compongono la
struttura visibile e la sagoma dell’architettura prealpina
(foto 1).
Nell’alta montagna prealpina la presenza umana è
storicamente sporadica e limitata stagionalmente, a
Elevata naturalità
del paesaggio
di alta montagna
prealpina
Foto 1 - Vista
delle Grigne
dai Piani Resinelli
1
45
causa dell’ostilità dell’ambiente naturale.
Per ciò che concerne l’agricoltura, l’alta montagna
prealpina è caratterizzata dalla presenza diffusa degli
“alpeggi” e dai pascoli di alta quota, con relative stalle e
ricoveri, raggiunti nel periodo estivo. Gli “alpeggi”, insieme ai “maggenghi”, presenti alle quote più basse, costituiscono un sistema paesistico peculiare (vedi paesaggio
delle valli e versanti prealpini).
2.2 Il paesaggio delle valli
versanti prealpini
Prevalenza
del fattore
vegetazionale
nel paesaggio
vallivo e di versante
46
e
dei
2.2.1 Il versante
Il sistema vallivo prealpino è caratterizzato dalla presenza di una vallata principale ampia, con conformazione
ad U, che attraversa il territorio in senso nord-sud
(Valsassina ) e da alcune valli secondarie trasversali
(Valvarrone,Val Muggiasca), con conformazione stretta e
incassata, oltre ad alcune grandi conche di alta quota
(altipiani di Esino Lario e di Morterone).
Nei versanti vallivi, dominati dalla vegetazione naturale, sono riconoscibili diversi orizzonti vegetazionali, che
spesso si compenetrano fra loro senza limiti precisi, a
causa di fattori variabili, quali l’altitudine, l’esposizione,
la piovosità, la vicinanza di vallate ampie o di massicci
montuosi; si tratta di aggregazioni di piante legnose e/o
arbustive che formano, per colore, volume, estensione,
variabilità stagionale, un ambiente omogeneo.
Alle quote più elevate dei versanti dominano le
aghifoglie (Larici, Pini), mentre nelle quote basse le
latifoglie (castagneto, faggeta, latifoglie miste); importanza particolare assume il castagno, che ha costituito per
lungo tempo l’elemento fondamentale nell’alimentazione delle comunità montane.
Frequente è la presenza di ambiti di naturalità forestale, che si ritrovano con una loro relativa integrità
soprattutto sui versanti a umbrìa, poco interessati dalle
trasformazioni antropiche.
Il grado di antropizzazione delle valli prealpine è differenziato, in relazione ad almeno due fattori:
• altitudine: la presenza dell’uomo, delle sue attività,
delle sue forme di organizzazione si attenua passando dal basso all’alto; sensibili differenze nel paesaggio e nei modi storici dell’insediamento umano si
registrano infatti passando dalle sezioni superiori
(con paesaggio e organizzazione vicine a quella alpina) a quelle inferiori delle valli, più prossime al paesaggio delle colline, in cui è esigua l’incidenza altitudinale dei versanti; tale fenomeno è osservabile
nell’intero sistema vallivo lecchese;
• esposizione: la presenza dell’uomo si attenua passando dai versanti a solatio a quelli a umbrìa: tale fenomeno è osservabile, in particolare, nella Valvarrone
e nella Val Muggiasca.
Peculiari della Valvarrone e della Val Muggiasca, a
Differenzazione
del grado di
antropizzazione
dei versanti
in relazione
alla quota e
alla esposizione
Foto 2 - Valvarrone:
panoramica di
Vestreno, Sueglio,
Introzzo. Sullo sfondo il monte
Legnoncino
2
47
3
4
5
Foto 3 - Valsassina:
panoramica verso
Pasturo e Baiedo
Foto 4 - Prati nei
pressi di Monterone
Foto 5 - Alpeggi in
Valsassina
Organizzazione
dell’agricoltura
secondo modelli
di tipo “alpino”
48
causa della morfologia stretta e incassata, sono gli insediamenti permanenti di versante, con collocazione variabile generalmente fra i 600 e gli 800 metri, che privilegiano l’esposizione dei versanti a solatio (foto 2); gli insediamenti di fondovalle, con collocazione pedemontana e
lontana dal corso del torrente, sono invece peculiari della
Valsassina (foto 3).
Capillarmente diffusa è, inoltre, la presenza di segni
minori di identificazione locale, quali affreschi murali,
santelle, muretti in pietra, lavatoi, la cui trascuratezza e
abbandono rivela peraltro una progressiva diminuzione
dell’attaccamento ai luoghi.
Per quanto riguarda l’agricoltura, i versanti vallivi presentano un’organizzazione di tipo alpino, con sensibili differenze nelle coltivazioni passando dalle sezioni superiori a quelle inferiori delle valli.
L’agricoltura e l’allevamento sono infatti caratterizzate da economie di tipo “verticale”, legate al nomadismo
stagionale degli addetti tra versanti bassi (periodo primaverile) e versanti alti (periodo estivo). Caratteristica è
la fitta rete di percorsi pedonali (ora sempre più frequentemente trasformati in vere e proprie strade) stesa
sul dorso dei versanti, che collega le due fasce di permanenza stagionale.
L’agricoltura dei versanti bassi e degli altipiani, in particolare, è caratterizzata dalla presenza di boschi, pratipascoli, piccoli appezzamenti ad arativo, abitazioni temporanee, ricoveri per il bestiame e fienili, frequentati nel
periodo primaverile (maggenghi) (foto 4).
Tale organizzazione dà vita ad uno dei sistemi paesistici agrari più rilevanti del paesaggio montano: il sistema degli alpeggi e dei maggenghi (foto 5).
A fronte di tale ricchezza di elementi tradizionali,
molti caratteri insediativi tradizionali e la stessa econo-
mia montana mostrano evidenti segni di agonia, che si
riflettono puntualmente sul territorio.
L’immagine paesistica complessiva è oggi degradata
dall’abbandono dei presidi umani, dei campi a terrazzo,
dei prati, dei vecchi nuclei, dei maggenghi, degli alpeggi,
del bosco.
I prati e i pascoli sono le porzioni del paesaggio agrario di montagna più delicate e passibili di scomparsa perché legate ad attività di allevamento transumante di difficile tenuta considerate le difficoltà oggettive di questa
consuetudine e le non proporzionate rese economiche.
L’abbandono dell’ambiente del versante vallivo e la
conseguente decadenza delle tradizionali funzioni economiche della selva montana, hanno inoltre determinato
una progressiva estensione del bosco sui coltivi terrazzati e sui prati; la ridotta frequentazione dei luoghi riduce
infatti gli spazi prativi a favore del bosco spontaneo o li
rende facile preda di infestanti.
La tradizionale gerarchia dei percorsi montani, stabilita sulle tolleranze di natura geografica (la strada carrozzabile, la mulattiera, il sentiero), è frequentemente
sconvolta: strade carrozzabili giungono ora in ambiti che
furono esclusivi di mulattiere e sentieri, ne intersecano i
tracciati, ne discriminano l’importanza consegnandoli
all’abbandono.
Diffusa la costruzione di strade carrozzabili di mezzacosta o di attestamento sui versanti che replicano i tracciati di fondovalle, con articolati percorsi, giungendo in
ambiti che furono esclusivi di mulattiere e sentieri, modificando il disegno essenziale del paesaggio: si tratta di
soluzioni non sempre motivate, spesso episodiche, scollegate con il rispetto dei vincoli imposti dall’orografia.
Un fenomeno che ha assunto caratteri preoccupanti è
la diffusione di nuove forme di utilizzazione degli edifici
Il sistema
degli alpeggi e
dei maggenghi
L’abbandono e il degrado del paesaggio vallivo
49
Foto 6 - Il fondovalle
della Valsassina nei
pressi di Barzio
6
rurali indotte dalla trasformazione delle economie montane, con trasformazione frequente dei maggenghi in
dimore di soggiorno domenicale da parte dei valligiani
residenti in fondovalle e ristrutturazione, in forme spesso
discutibili, delle dimore rurali.
La rilevanza paesistica dei corsi d’acqua montani è
spesso ridotta a causa della artificializzazione degli stessi (regimazione dei corsi d’acqua con arginature e rettificazioni, interposizione di bacini di ritenuta, vasche).
2.2.2 Il fondovalle
L’agricoltura di fondovalle (Valsassina) è dominata
dalla foraggicoltura, con presenza di colture tipiche di
zone della pianura, dovute al modesto livello altitudinale.
Il fondovalle è caratterizzato dalla presenza di sistemi
agrari costituiti prevalentemente da spazi prativi destinati al pascolo o da coltivi (foto 6 e 7).
Il sistema agrario di fondovalle costituisce l’elemento
"connettivo" del paesaggio di fondovalle: esso mette in
relazione visiva elementi quali insediamenti, architetture, torrente, ecc...
Il sistema agrario di fondovalle si connette in alcuni
50
7
punti, senza soluzione di continuità, al sistema agrario di
versante (maggenghi e alpeggi), costituendo nell’insieme
un quadro paesistico di grande valenza percettiva.
Nel fondovalle, peraltro, le pressioni insediative di
carattere lineare a destinazione commerciale o industriale lungo la direttrice di percorrenza preferenziale, che è
anche il principale supporto percettivo del paesaggio,
provocano la graduale sottrazione di preziose aree agricole pianeggianti, mentre le urbanizzazioni recenti aggrediscono i residui “micropaesaggi agrari” di carattere tradizionale.
Foto 7 - il fondovalle
della Valsassina nei
pressi di Introbio
Continuità
paesistica tra
fondovalle e versante
2.3 Il paesaggio lacustre
Il paesaggio dei laghi prealpini è certamente fra i più
significativi della Lombardia e dell’Italia settentrionale:
esso ne richiama la storia geologica e climatica e le
morfologie legate alle vicende più recenti della sua storia
naturale; da sottolineare inoltre l’importanza notevole
del paesaggio dei laghi prealpini nella formazione dell’immagine stessa della Lombardia.
Nel caso del Lago di Lecco, l’invaso lacustre ha una
morfologia costituita prevalentemente da versanti ripidi
51
Le sponde come fulcro
del paesaggio lacustre
8
Foto 8 - Il piano
di Colico dal colle di
Forte Fuentes verso
il Montecchio nord
(sul fondo)
Foto 9 - L’ampio
conoide di Mandello
del Lario visto
dalla sponda opposta
9
52
di tipo vallivo a picco sul lago, risultato dei modellamenti glaciali.
Lo specchio lacustre è l’elemento naturale dominante
visivamente il paesaggio e rappresenta un elemento di
arricchimento e valorizzazione dello scenario prealpino,
attenuando la severità dei rilievi, delineando linee di
fuga orizzontali sui divergenti profili dei monti.
Essenza e fulcro del paesaggio sono le sponde lacustri,
lungo le quali si ritrovano i luoghi paesisticamente più
singolari, quali punte e penisole (Piona), rilievi morfologici (Montecchi di Colico - foto 8), insenature (Piona), scogli, rupi: molti di questi luoghi hanno assunto nel tempo
una precisa identificazione collettiva.
Allo sbocco delle valli secondarie sono collocati grandi conoidi di deiezione, sede dei principali insediamenti
(Colico, Bellano, Dervio, Mandello del Lario - foto 9).
Il Lago è alimentato dall’Adda e da affluenti secondari, quali i torrenti montani, che scendono ripidi verso lo
specchio lacustre, dando luogo a caratterizzazioni geomorfologiche peculiari, quali orridi e cascate.
La vegetazione si manifesta con scenari assolutamente unici a queste latitudini, grazie alla funzione termoregolatrice delle acque lacustri. La flora spontanea, o di
introduzione antropica, è caratterizzata da una consistente varietà di specie (associazioni del leccio e sempreverdi
d’impianto antropico come cipressi, olivi, ecc.), propria
dell’area mediterranea o sub-mediterranea, con disposizione delle fasce altitudinali e vegetazionali lungo i versanti simile a quella delle valli prealpine (foto 10).
Numerosi sono gli elementi di singolarità paesistica
legati alle acque lacustri: organizzazione degli spazi (tipo
di colture, di insediamento, attività tradizionali come la
pesca, relazioni per vie d’acqua, ecc.), testimonianze storiche, percezione e fruizione del paesaggio come scenario
di soggiorno e turismo.
La disposizione degli insediamenti di mezzacosta
lungo i versanti è simile a quella delle valli prealpine
(“monti” o “alpi”).
Peculiari del paesaggio lacustre sono i sistemi dei terrazzamenti, che rappresentano ormai una testimonianza
residua delle antiche pratiche colturali un tempo assai
I sistemi di
terrazzamenti lacustri
Foto 10 - Oliveti nei
pressi di Limonta
11
10
diffuse in tutti i versanti a pendenza accentuata, siano
essi montani, lacustri o collinari.
In alcuni casi la loro presenza è peraltro ancora significativa e consistente (Dorio, Bellano): in questi casi risulta ancora ben leggibile il rapporto che tali sistemi instaurano con i principali elementi circostanti, quali il versante, i nuclei storici, il lago, il bosco, ecc... (foto 11 e 12).
Nei terrazzamenti assai diffusa è la presenza di elementi del paesaggio agrario tradizionale e di coltivazioni
tipiche, quali frutteti, vigneti, uliveti, castagneti.
Un altro sistema agrario peculiare del paesaggio lacustre è il sistema di conoide, che assume una particolare
rilevanza ed evidenza paesistica nell’ambito di Colico,
dove, nonostante la presenza di una urbanizzazione dif-
Foto 11 Terrazzamenti con
muretti a secco tra
Dorio e Corenno
Plinio.
Foto 12 Terrazzamenti
nei pressi di Bellano
12
53
Sistemi agrari
di conoide
Il degrado
delle sponde lacustri
fusa, è leggibile in modo estensivo.
Le sponde lacustri sono oggi interessate da fenomeni
di compromissione, a causa della costruzione delle strade
litoranee (quali la superstrada S.S.36), della privatizzazione spinta degli arenili, dell’edificazione incontrollata
sulle sponde e, infine, della tendenza delle espansioni
recenti ad alterare e sostituire la lettura complessiva dell’impianto urbanistico dei borghi lacuali.
2.4 Il paesaggio collinare
Il paesaggio collinare occupa tutta l’ampia fascia centrale del territorio provinciale.
All’interno del paesaggio collinare si distinguono, per
le loro peculiarità, le seguenti ulteriori articolazioni paesistiche:
13
Foto 13 Il lago di Annone
54
2.4.1 Le colline moreniche brianzole
All’interno del paesaggio collinare morenico si distinguono, dal punto di vista geografico, tre grandi ambiti,
che fanno riferimento ai tre nuclei urbani principali: la
Brianza casatese (Casatenovo), situata a sud-ovest della
provincia; la Brianza oggionese (Oggiono), situata a nordovest, in prossimità delle prime pendici prealpine, interessata dalla presenza dei grandi laghi morenici di
Annone e Pusiano; la Brianza meratese (Merate), situata
a sud-est, tra la collina di Montevecchia e il corso
dell’Adda.
Le colline brianzole sono il risultato della deposizione
di materiali morenici, con conformazione plano-altitudinale caratterizzata da elevazioni costanti e non eccessive.
Il paesaggio è spesso caratterizzato dalla presenza di
invasi lacustri rimasti chiusi tra gli sbarramenti morenici
(“laghi morenici”), con presenza di forme di naturalità e
di notevole interesse geologico (Laghi di Annone,
Pusiano e Sartirana) (foto 13).
Dal punto di vista vegetazionale, il paesaggio è connotato dalla presenza di piccoli lembi di boscaglia, sulle
scarpate più acclivi, sulle cime delle colline o lungo i corsi
d’acqua, oppure dalle folte “enclosures” dei parchi e dei
giardini storici, nonché da gruppi di alberi di forte connotato ornamentale (cipresso, olivo).
Si tratta di un contesto da sempre fortemente permeato dalla presenza dell’uomo, con evidenza di segni
residui di una forte e significativa organizzazione territoriale tradizionale: il paesaggio attuale è infatti il risultato di un’opera di intervento umano tenace che ha modellato un territorio reso caotico dalle eredità glaciali, povero di drenaggi e formato da terreni poveri (foto 14 e 15).
La struttura del paesaggio agrario collinare, caratterizzato da lunghe schiere di terrazzi che risalgono e aggirano i colli, rette con muretti in pietra o sistemati naturalmente, ha sotteso, nei secoli, sedimentazioni continue.
Un tempo tali terrazzi erano sede di numerosi appezzamenti coltivati, nei quali allignavano specie delle più
diverse: vigneti, castagni e noccioli, frumento e granturco, ma soprattutto gelsi, dai quali dipese a lungo l’econo-
Il paesaggio collinare
è plasmlato
dalla presenza
umana
Il sistema
dei terrazzamenti
collinari
15
Foto 14 - Il paesaggio collinare da
Montevecchia verso
Sirtori e Barzanò
14
Foto 15 - Il paesaggio collinare da
Montevecchia verso
Osnago e Lomagna
55
Degrado del
paesaggio
collinare
mia della famiglia contadina, produttrice di bozzoli e fornitrice di larga manodopera per filande e filatoi.
Attualmente la viticoltura è praticata sui campi terrazzati o su ripiani artificiali.
Il sistema insediativo agrario tradizionale è rappresentato da corti e case contadine costruite generalmente
con materiale morenico locale. Gli insediamenti colonici,
collocati sulle pendici collinari o nei bassopiani, raccolgono attorno alla modesta corte (cintata o meno), il corpo
delle abitazioni e i rustici, non presentandosi quasi mai
nelle forme auliche ed estensive della pianura.
Gli aspetti più originali e qualificanti del paesaggio
collinare, a causa delle intensa urbanizzazione che ha
interessato tale contesto, sono oggi soggetti a forte degrado. Il territorio collinare è stato infatti il ricetto preferenziale di residenze e industrie a elevata densità, a
causa della vicinanza di questo ambito all’alta pianura
industrializzata, da cui è sovente indissociabile.
I fenomeni urbanizzativi sempre più accentuati tendono ad occupare i residui spazi agricoli, specie quelli di
bassopiano, con conseguente dissoluzione di questa
importante componente dell’ambiente di collina.
Particolarmente forte la tendenza ad una edificazione
sparsa sulle balze e sui pendii, spesso ricavata sui fondi
dagli stessi proprietari, nelle forme del “villino”, del
tutto avulso dai caratteri dell’edilizia rurale.
2.4.2 Le colline pedemontane
All’interno del contesto collinare morenico lombardo
spicca una successione di rilievi, con quote non superiori
a poche centinaia di metri, estranei ai processi di deiezione glaciale, che costituiscono un’emergenza di forte
valenza paesistica.
Nell’insieme tali rilievi costituiscono il fondale pede-
56
montano a settentrione dell’ambito collinare lombardo:
un vero e proprio gradino naturale che introduce all’ambiente prealpino; esso è visibile, in buone condizioni di
tempo, da tutta la pianura formandone la naturale “cornice”.
Nella provincia di Lecco sono presenti i cospicui rilievi isolati del Colle di Montevecchia, del Monte di Brianza,
del Monte Barro, nonché le pendici delle colline di frangia pedemontana bergamasca (Valle S. Martino).
Dal punto di vista antropico, il paesaggio è segnato
dalla lunga, persistente occupazione dell’uomo, con scarsa incidenza del fattore altitudinale nella costruzione del
paesaggio medesimo. Da segnalare la presenza di “isole”
di antico insediamento miracolosamente esenti da contaminazioni urbane, quali Campsirago e Figina sul Monte
di Brianza.
L’uso del suolo a fini agricoli è attualmente caratterizzato da aspetti residuali o particolari legati soprattutto all’orto o al piccolo podere retto con lavoro part-time.
Il paesaggio agrario segnato dalle peculiarità delle
sistemazioni, dalla fitta suddivisione poderale, dalla presenza delle legnose accanto ai seminativi.
Particolarmente significativa è la presenza di sistemi
agrari terrazzati, soprattutto nell’ambito di Montevecchia
dove emergono per la loro estensione e la forte evidenza
percettiva (foto 16).
Rispetto al paesaggio spiccatamente morenico tali
rilievi presentano una minore compromissione dal punto
di vista antropico, a causa della maggiore elevazione e
della maggiore asperità dei versanti, ancora abbondantemente boscati.
2.5 Il paesaggio dell’alta pianura
Il paesaggio dell’alta pianura interessa alcune zone di
limitata estensione a sud del territorio provinciale e gli
Foto 16 Terrazzamenti
nei pressi di
Montevecchia
16
Contenuta
compromissione
antropica delle
colline moreniche
57
Scarsità di acque
superficiali e
assenza di reti
irrigue
ambiti territoriali di pertinenza dei grandi corsi d’acqua
di pianura (Adda e Lambro).
Foto 17 - Il paesaggio agrario nei pressi di Verderio inferiore
17
Paesaggio agrario
caratterizzato da
grandi estensioni
colturali regolari
58
2.5.1 L’alta pianura asciutta
Comprende gli ambiti di pianura a sud di Casatenovo
e i territori dei comuni di Verderio Inferiore e Verderio
Superiore. La caratteristica prevalente di tali territori è
la naturale permeabilità dei suoli: il sistema naturale di
drenaggio delle acque è infatti situato nel sottosuolo, con
conseguente scarsità di acque superficiali e assenza di
reti irrigue. Il territorio si presenta pertanto segnato da
solchi e piccole depressioni determinate dallo scorrimento dei corsi d’acqua minori, quali la Molgora, che, con la
loro vegetazione di ripa, sono in grado di variare l’andamento abbastanza uniforme della pianura.
I nuclei abitati tradizionali, che possiedono una comune matrice rurale, sono caratterizzati da un forte addensamento dei fabbricati: ciò è dovuto, in molti casi, all’aggregazione di corti, con conseguente riduzione del numero di case sparse sui fondi.
Tale caratterizzazione costituisce un segno storico in
via di dissoluzione a causa della recente saldatura edilizia degli abitati e le trasformazioni interne ai nuclei stessi.
Il paesaggio agrario è caratterizzato da grosse estensioni colturali, di taglio regolare, con andamento ortogonale, a cui si conformano spesso strade e linee di insediamento umano (foto 17).
La naturale permeabilità dei suoli, che non consente
la presenza di un’adeguata rete irrigua, ha storicamente
ostacolato l’attività agricola, impedendo che essa si presentasse nelle forme intensive tipiche della bassa pianura: ciò ha favorito la conservazione di lembi boschivi che
si alternano nel paesaggio agrario ai campi coltivati e
che, in altri tempi, assieme alla bachicoltura, mantenevano una loro importante funzione economica.
Sul substrato geomorfologico di questo paesaggio si è
indirizzata l’espansione metropolitana milanese, con una
urbanizzazione diffusa che ha privilegiando dapprima le
grandi direttrici storiche irraggiantesi da Milano e successivamente le frange interstiziali, determinando la cancellazione quasi totale del paesaggio agrario tradizionale.
2.5.2 Le valli fluviali
Le grandi valli fluviali, che incidono il territorio in
direzione nord-sud e che, in alcuni tratti, si presentano
fortemente incassate rispetto al livello della pianura,
costituiscono le principali rotture di continuità della
grande fascia urbanizzata dell’alta pianura lombarda.
Le valli fluviali sono derivate dagli approfondimenti
relativamente recenti dei fiumi alpini e prealpini: si tratta di ambiti a sé stanti e dotati di proprie peculiarità
rispetto ai piani sopraelevati dell’alta pianura urbanizzata e vanno considerate come sezioni particolari di un
unico organismo, dalla sorgente allo sbocco nel Po (foto
18, 19 e 20).
Le sezioni fluviali che interessano il territorio provinciale sono quelle dell’Adda, da Paderno a Lecco e quella
del Lambro nel tratto che lambisce la provincia nei pressi di Nibionno e Rogeno.
L’importanza di questi contesti ambientali è ulteriormente sottolineata da alcuni fattori storici, quali l’importante funzione commerciale e idraulica e l’avvio della
costruzione del sistema dei navigli dall’alveo incavato dei
grandi fiumi (Adda).
Da sottolineare infine la presenza di interventi umani
diffusi, finalizzati a portare a maggiore elevazione la derivazione delle acque, per il sistema irriguo dell’alta e
Il fenomeno
dell’urbanizzazione
diffusa
18
19
20
Foto 18 - L’Adda nei
pressi di Paderno
Foto 19 - L’Adda
nei pressi
del Santuario del
Lavello
Foto 20 - La valle
dell’Adda nei pressi
del lago di Olginate
59
bassa pianura, oppure come generatori di forza motrice
per impianti paleoindustriali (molini, cartiere) o idroelettrici.
Le strategie
per la tutela
e la valorizzazione
del paesaggio agrario
Il 1° obiettivo strategico:
la manutenzione
permanente
del territorio
60
3. Tutela e valorizzazione del
paesaggio agrario
La tutela e la valorizzazione del paesaggio agrario e
dei suoi elementi di identità sono obiettivi estremamente complessi, in quanto dipendono da numerose variabili
che, peraltro, esulano dall’ambito strettamente urbanistico. Ciò premesso, si può affermare che ai fini della tutela
e della valorizzazione del paesaggio agrario possono essere utilmente attuate, dal punto di vista urbanistico, almeno tre strategie complementari:
1) manutenzione diffusa del territorio;
2) riqualificazione degli ambiti degradati;
3) controllo della compatibilità paesistica delle trasformazioni.
Tali strategie sono finalizzate sia al mantenimento o al
recupero della utilizzazione agricola produttiva (laddove
vi siano le condizioni economico-“strutturali” affinché
ciò sia possibile), sia allo sviluppo della fruizione turistico-ricreativa del paesaggio agrario.
3.1 La manutenzione diffusa
del territorio
Il primo obiettivo di una politica urbanistica di tutela
e valorizzazione del paesaggio è la “cura” e la “manutenzione” permanente del territorio, finalizzata alla “conservazione” fisica dei beni oggetto di tutela. La manutenzione del territorio rurale, per essere efficace, deve essere
espletata capillarmente e regolarmente dai soggetti che
operano sul territorio (agricoltori, operatori forestali, singoli proprietari di immobili, ecc...), e coordinata e programmata dagli enti e dalle istituzioni preposte, anche
attraverso opportuni incentivi (economici, fiscali, ecc...).
La manutenzione deve essere finalizzata a garantire la
conservazione dei seguenti elementi:
• assetto morfologico: devono essere evitate alterazioni
dell’assetto morfologico originario del terreno, tramite rilevati, riempimenti, avvallamenti, muri di
sostegno, tecniche “intensive” di sfruttamento agricolo, ecc...; tale indicazione risulta maggiormente
significativa nelle situazioni di pendio montano o
collinare, a causa del rischio di innesco di situazioni
di instabilità dei versanti e della maggiore rilevanza
visiva delle trasformazioni;
• sistemi vegetazionali: deve essere evitato l’abbattimento e la manomissione dei sistemi vegetazionali
del paesaggio agrario; gli elementi vegetazionali
devono inoltre essere ripristinati e/o implementati
laddove essi risultino residuali e/o degradati;
• sistema idrografico: deve essere garantito il mantenimento dei caratteri di naturalità dei fiumi e dei torrenti, con la vegetazione di ripa e le fasce naturali di
esondazione; deve inoltre essere impedita qualsiasi
forma di trasformazione antropica lungo le sponde;
• manufatti, architetture e colture tradizionali: deve
essere garantita la manutenzione dei manufatti che
caratterizzano le sistemazioni agrarie, avendo cura,
nel caso di parziali o totali rifacimenti, di reimpiegare lo stesso tipo di materiale litoide e le stesse
tecniche costruttive; ai fini della salvaguardia delle
colture tradizionali è inoltre necessario limitare l’avanzamento naturale del bosco e la progressiva cancellazione degli spazi prativi di montagna e delle
balze terrazzate; è necessario inoltre contenere la
riduzione delle aree interessate da colture a vigneto
e a oliveto o la sostituzione con altre colture; dovrà
61
essere infine prevista la manutenzione minimale dei
manufatti e delle architetture rurali, soprattutto di
quelli abbandonati, finalizzata ad evitarne il rapido
deperimento (manutenzione delle coperture e dei
sistemi di smaltimento delle acque meteoriche, consolidamento delle strutture, ecc...);
• percorsi rurali: la manutenzione e la conservazione
dei percorsi rurali, quali mulattiere, sentieri, strade
poderali e campestri, atta a preservarne la riconoscibilità e la praticabilità pedonale, è di importanza
primaria ai fini della sopravvivenza del territorio
rurale.
Il 2° obiettivo strategico:
la riqualificazione degli
ambiti degradati
62
3.2 La riqualificazione degli
ambiti degradati
La valorizzazione del territorio rurale, oltre che ad
essenziali politiche di “mantenimento”, può utilmente
ricorrere ad interventi “strategici”, finalizzati al recupero
e alla riqualificazione di particolari ambiti territoriali e/o
complessi edilizi degradati.
Fondamentale ai fini della valorizzazione attiva del
paesaggio agrario è l’individuazione di forme di utilizzazione congruenti con i caratteri paesistico-ambientali:
laddove non risulti economicamente conveniente l’utilizzo a fini agricoli produttivi, è congruo valutare l’opportunità di utilizzazioni legate alla fruizione turistico-ricreativa del territorio, quali l’agriturismo, l’enoturismo, o la
creazione di “musei diffusi”, a scala territoriale, finalizzati a documentare i caratteri del paesaggio agrario tradizionale. La fruizione turistico-ricreativa del territorio è
possibile solo se coniugata al recupero fisico e percettivo
del paesaggio rurale e dei suoi caratteri tradizionali: la
riqualificazione del territorio deve avere pertanto come
obiettivo primario il recupero e la valorizzazione dei
caratteri naturali e tradizionali del paesaggio agrario e
dei suoi elementi costitutivi fondamentali.
Da questo punto di vista, importanza strategica assume la riqualificazione dei percorsi (strade, sentieri,
mulattiere, ecc...), che consentono un fruizione estensiva
del paesaggio, e delle architetture rurali, sia a scopi didattico-culturali, che a fini ricreativi (alloggio, ristorazione,
ecc...). Una risorsa significativa è inoltre costituita dagli
ambiti rurali residuali presenti ai margini o nel cuore
delle aree urbanizzate: tali ambiti, se inseriti all’interno
di un’ampia rete di fruizione del territorio, possono superare l’isolamento e la marginalità che li contraddistingue.
3.3 Il controllo della compatibilità paesistica delle
trasformazioni
Un’ultima fondamentale strategia per la tutela e la
valorizzazione del paesaggio agrario è il controllo della
“compatibilità paesistica” delle trasformazioni territoriali.
Per “compatibilità paesistica” di una trasformazione
territoriale (edilizia o infrastrutturale), si intende l’attitudine della trasformazione stessa a misurarsi in termini
“positivi” con il contesto paesistico di riferimento: in altri
termini, ogni trasformazione, per essere paesisticamente
compatibile, deve aggiungere “qualità” al paesaggio nel
quale si inserisce o almeno non peggiorare la qualità esistente.
Affinché un intervento risulti paesisticamente “compatibile”, deve:
1) essere formalmente coerente con il contesto: un intervento risulterà tanto più compatibile, quanto più
sarà in grado di garantire la coerenza tra le nuove
forme introdotte dall’intervento e l’assetto morfologico originario del territorio (naturale e antropico);
Il 3° obiettivo strategico:
il controllo della
compatibilità paesistica
degli interventi edilizi
e/o infrastrutturali
63
viceversa, risulterà tanto meno compatibile, quanto
più tenderà a distaccarsi dai caratteri figurali prevalenti del territorio; ad esempio, un intervento è
formalmente coerente quando il suo profilo si pone
in continuità con quello circostante e non emerge
rispetto ad esso, e quando il suo assetto planimetrico segue l’andamento del terreno e le curve di livello;
2) rispettare e valorizzare gli elementi paesistici: un
intervento risulterà tanto più compatibile, quanto
più sarà in grado di garantire e valorizzare la “leggibilità” dei caratteri peculiari del paesaggio, sia in
termini di semplice fruizione visiva, sia in termini
di comprensione dei “significati” insiti nel paesaggio stesso; viceversa, risulterà tanto meno compatibile, quanto più tenderà a “obliterare” i caratteri
peculiari del paesaggio, sostituendosi o sovrapponendosi ad essi; ad esempio, un intervento è compatibile quando, oltre a preservare fisicamente gli
elementi caratterizzanti il paesaggio, ne valorizza la
percezione attraverso l’individuazione di coni visivi
privilegiati e scorci paesistici particolari;
3) ispirarsi ai modelli culturali locali di riferimento:
un intervento risulta compatibile quando è caratterizzato da soluzioni tipologiche e dall’uso di tecniche costruttive, materiali e cromatismi analoghi
a quelli tradizionalmente presenti nel contesto
territoriale.
64
Elementi di storia
dell’agricoltura lecchese
di Angelo De Battista
Lecco:
provincia senza
pianura
Quando si parla di “territorio lecchese” é innanzitutto
necessario chiarirne i confini e precisare i riferimenti alle
zone di “montagna”, “collina” e “pianura”. Queste definizioni corrispondono alla Valsassina e Riviera (montagna)
ed all’Alta Brianza (collina) quando ci si riferisce alla sola
provincia di Lecco; comprendono l’alto lago, le colline
comasche e canturine e la piana verso il milanese quando
si parla della provincia di Como. Per un lungo periodo, inoltre, la provincia di Como comprendeva, oltre ai territori
suddetti, anche quelli dell’attuale provincia di Varese. Il
testo, comunque, precisa di volta in volta l’ambito cui ci si
riferisce. Altrettanto utile è osservare che se nel territorio
della ex provincia di Como la pianura rappresentava il 12%
del totale, la collina il 30% e la montagna il 58%, la provincia di Lecco non ha pianura e dunque le condizione del
principale mezzo di produzione agricola, cioé la terra, non
sono le migliori possibili. Dopo queste scarne premesse,
ripercorriamo, seppur rapidamente, alcune vicende storiche della nostra agricoltura, per vedere come, tra
Settecento e Novecento, è evoluta in termini di proprietà,
di patti agrari e di prodotti.
1) Il Settecento
1.1) Destinazione del territorio
Le principali produzioni
tradizionali, le forme
di conduzione, le
trasformazioni recenti
Il periodo spagnolo consegnò al nuovo potere austriaco
un comasco in difficoltà.
65
Secondo il Caizzi1 ciò dipendeva anche e soprattutto da
una cattiva politica agricola (il Caizzi la definisce ‘pigra’):
mancanza di investimenti e di opere fondiarie, staticità
delle produzioni, innovazione tecnica troppo scarsa.
Di queste difficoltà sono sintomo chiarissimo sia le
risposte delle Comunità ai 45 quesiti formulati dall’amministrazione austriaca nella prima metà del Settecento per
realizzare il nuovo catasto, sia i ricorsi che le Comunità stesse presentarono per chiedere riduzioni di imposte.
Questi ricorsi, sebbene contenessero informazioni ‘adeguate’ alle finalità2 ed a volte fossero addomesticate3, offrono dati significativi (anche se non sempre certi) sulla struttura del territorio e sulla sua destinazione agricola.
A tal proprosito, nella prima metà del XVIII secolo, la
destinazione del territorio delle tre zone agrarie della provincia risultava la seguente4:
Destinazione del territorio (%)
alla metà del XVIII sec.
montagna
collina
pianura
70
68
60
50
60
50
40
Montagna il “regno”
dell’incolto
30
30
20
15
10
0
8
incolti
20 18
15
6
incolti
pascolo
10
bosco
Come si vede, circa la metà del territorio dei comuni di
montagna era costituita da zerbi, brughiere, ceppi, sassi
nudi ed altro terreno non utilizzabile; l'altra metà era divi66
sa tra bosco (20% del territorio totale), pascolo (15%),
prato (6%), arativi (3%), vigneto (1%), ronchi (1,5%).
In pratica, il terreno coltivo era poco più del 10% del
totale e per più della metà tenuto a prato.
Nella zona di montagna, le caratteristiche del territorio
e l'obbligo, per sopravvivere, di allevare almeno un animale, rendevano impossibile non tanto lo sviluppo dell'agricoltura, ma più semplicemente una produzione agricola
sufficiente alle necessità alimentari degli abitanti della
montagna5. Mais, segale, ortaggi, legna e castagne erano i
prodotti prevalenti di questa agricoltura povera.
Se, viste dalla montagna, la collina e la pianura assumevano un’aura quasi mitica di facilità di lavoro e di fertilità, viste da più vicino anche queste due zone agrarie
mostravano problemi.
In collina il coltivo rappresentava il 68% del territorio e
l’aratorio occupava circa il 44% del coltivo, cioé il 30% del
territorio totale. L’ aratorio, che comprendeva anche i prati,
per quasi la metà era vitato e quindi con bassa produzione
cerealicola e non tutto era disponibile alla produzione, poiché una parte veniva, a turno, tenuta a riposo.
In pianura, poi, quel 30% di incolto era un segnale delle
difficoltà che, anche in zone favorevoli, l’agricoltura comasca incontrava e, al tempo stesso, un ostacolo al superamento di tali difficoltà.
Difficoltà dovute a quella ‘pigrizia’ dei pubblici poteri e
dei grandi proprietari evidenziata dal Caizzi e che aveva
determinato arretratezza tecnica sul piano delle attrezzature, del sistema di rotazione, delle modalità di concimazione.
Nel mantenimento dell’incolto aveva però una sua parte
anche la presenza di proprietà comunali strenuamente
difese dai contadini che, grazie agli usi civici, vi trovavano
Le difficoltà
in collina e pianura
67
un minimo sollievo soprattutto facendovi pascolare qualche animale.
1.2) Struttura della proprietà
Questo accenno alle proprietà comunali introduce il
tema della struttura della proprietà e delle sue conseguenze sulla conduzione dei fondi e sulla resa dell’agricoltura.
Anche qui la situazione é molto differenziata nelle tre
zone agrarie della provincia6.
Struttura della proprietà (%)
alla metà del XVIII sec.
100
97
81
65
Il dualismo tra
montagna e collina
35
19
0
Agenzia Lecco
Agenzia Oggiono
Agenzia Merate
propr. comunali
propr. private
Come si vede, possiamo parlare, per l’epoca considerata, di un netto dualismo tra un regime a usi civici sulle montagne e uno a proprietà privata in collina e pianura.
L’Agenzia catastale di Lecco, infatti, comprendeva la
Valsassina e la riviera orientale del Lario; l’agenzia di
Oggiono comprendeva le colline di quella che noi chiamiamo l’Alta Brianza, cioé la Brianza nord-orientale, mentre
quella sud-orientale faceva capo a Merate.
Nella zona di montagna a proprietà comunali estesissi68
me faceva però riscontro un valore capitale molto basso: si
trattava, infatti, quasi esclusivamente, di boschi, pascoli,
incolti e di terreni del tutto improduttivi.
Dopo le comunità, il più forte gruppo di proprietari era
quello dei privati non nobili che, in Valsassina, possedevano il 17% del perticato, al quale corrispondeva però il 52%
del valore capitale. Tra queste proprietà va sottolineata,
per il decisivo apporto alimentare che ha dato alle popolazioni montane, la presenza delle selve castanili.
Nelle zone di montagna, le proprietà ecclesiastiche e
nobiliari erano scarsamente presenti ed erano costituite da
prati, pascoli e boschi. I nobili possedevano soprattutto
prati e pascoli ed a questi possedimenti ‘affidavano’ l’allevamento degli animali.
Nella zona di collina, il maggior gruppo di possidenti é
dato dai privati non nobili, che posseggono in media il 45%
della terra, con un valore capitale che sempre supera, in
percentuale, quello della superficie. Aratori ed aratori vitati erano le destinazioni principali, ma significativi erano i
ronchi (in media il 14% della superficie), i prati ed i boschi,
tra cui anche qui non mancavano i castagneti.
In questa zona agraria, come abbiamo visto, diminuisce
fortemente la presenza delle proprietà comunali, che reggono ancora nella parte più prossima a Lecco e calano man
mano che si scende verso la pianura.
Aumenta invece, grazie alla maggior redditività della
terra, la presenza di proprietà nobiliare, che aveva la sua
zona d’elezione sull’altopiano collinare (23% della superficie e 41% del valore), ma che anche nella collina lecchese
raggiungeva il 10% circa della superficie e il 13% del valore.
In collina comincia ad essere importante anche la presenza di possessi ecclesiastici: quelli di chiese e parrocchie
In montagna
proprietà comunali
estese ma
di poco valore
In collina
la maggior parte
della terra è di
privati non nobili
69
sono diffusi ma di poca superficie; quelli di abbazie ed ordini religiosi sono numericamente più scarsi ma l’estensione
media, nel lecchese, supera le 200 pertiche.
1.3) Forme di conduzione
Montagna:
il prodotto determina
il contratto
70
La struttura della proprietà influisce direttamente sulle
forme di conduzione, cioé sui patti e sui contratti agrari.
Nel Settecento per la montagna è difficile trovare un
patto prevalente.
Da un lato la presenza significativa di piccole proprietà
private, dall’altro la varietà dei suoli, comportavano forme
di conduzione diverse da zona a zona; ma differenziazioni
c’erano anche nella medesima zona a seconda dei prodotti
implicati.
Bisogna infatti considerare che nella zona di montagna
non tutto il terreno é ripido e improduttivo: ci sono pianori, terreni di fondovalle, piane alluvionali, coste.Varietà dei
terreni significa varietà di prodotti e quindi di contratti: in
questo modo il proprietario si assicurava il massimo ritorno
economico.
Così, i ronchi, le brevi pianure alluvionali ed in genere i
tratti meno impervi lungo la riviera le lago, dove prevalevano grano, viti ed olive, venivano dati in affitto o a mezzadria e non mancavano casi di contratti misti: i canoni potevano essere in natura (grano), in moneta o in entrambe le
modalità e anche la mezzadria poteva convivere con l’affitto, soprattutto dei prati.
L’articolazione era tale che il medesimo contadino poteva trovarsi a lavorare con una pluralità di patti: piccolo proprietario di un fondo insufficiente, usufruttuario di beni
comunali, mezzadro per le vigne o per le castagne, affittuario sul grano, in enfiteusi sui pascoli alti.
Le proporzioni tra questi contratti potevano variare, ma
il loro intreccio é accertato, così come la loro convivenza
con le lavorazioni a giornata e la piccola proprietà , supportata dagli usi civici.
Nella fascia collinare in tutta la prima metà del
Settecento la mezzadria era ancora protagonista assoluta
nella pieve di Oggiono, anche se non mancava la convivenza con il fitto a grano, che cominciava ad insinuarsi nella
pieve di Brivio e di Missaglia, nella parte più meridionale
dell’attuale provincia di Lecco, dove le colline fanno posto
alla pianura.
Presso le comunità più propriamente collinari, a quest’epoca la mezzadria, che conviveva con la piccola proprietà, conservava ancora tratti abbastanza classici: divisione “perfetta” dei principali prodotti (frumento granturco,
vino, gallette) e dei carichi, affitto in denaro della casa e
sementi fornite dal padrone.
Ma già nella seconda metà del Settecento questo sistema “perfetto” venne profondamente modificato ed il fitto
a grano diventò dominante.
Ma a questo passaggio fondamentale dedicheremo più
attenzione parlando dell’Ottocento.
Collina:
piccola proprietà
e mezzadri
Nel settecento
compare il
“fitto a grano”
2) L’Ottocento
2.1) Napoleone e non solo: inizia a cambiare l’assetto proprietario
Gli ultimi del Settecento furono anni di grandi sommovimenti politici, che ebbero, tra l’altro, rilevanti conseguenze sulla distribuzione della proprietà terriera.
L’indebolimento delle proprietà ecclesiastiche a vantaggio di quelle nobiliari, che si era già manifestato, diventerà
fortissimo negli ultimi anni del XVIII e nel primo decennio
71
La vendita
dei beni ecclesiatici
e di quelli comunali
Cresce il numero
dei proprietari
grandi e piccoli
72
del XIX secolo a seguito delle riforme napoleoniche:
secondo alcune stime, furono 10.444 i beni ecclesiastici
venduti durante la Repubblica Cisalpina e in quel periodo
sempre gli enti ecclesiastici diedero a livello circa 38.000
pertiche7.
Anche i beni comunali cominciarono ad essere privatizzati: le comunità dovevano far fronte a situazioni debitorie
spesso pesanti e ciò aveva portato già da tempo all’affitto
dei diritti; poi provvedimenti del governo austriaco, come
l’editto del 1779, aprirono le porte alla vendita massiccia
dei beni comunali.
Negli anni finali del secolo, dunque, la razionalizzazione
amministrativa e fiscale (catasto) ed i burrascosi eventi
politici favorirono un rimescolamento della proprietà terriera.
Quanto tale rimescolamento fu profondo é ancora difficile dire, perché mancano studi precisi, per la nostra zona,
sia su quante proprietà rimasero agli enti ecclesiastici
durante gli anni francesi, sia sul reale andamento della privatizzazione degli usi civici.
Tuttavia, nel corso dell’Ottocento si assiste, in provincia
di Como, ad una notevolissima crescita delle ditte censuarie, che passano dalle 71226 del 1818 alle 156287 del 1875.
Giancarlo Galli8 ritiene non si possa attribuire a questa
crescita, peraltro notevolissima (+119% in settant’anni), un
significato univoco di smantellamento della grande proprietà perchè una parte di quell’aumento fu determinata
da frazionamenti di proprietà già piccole, soprattutto in
montagna.
Le requisizioni delle proprietà ecclesiastiche e le pressioni su quelle comunali hanno poi certo determinato un
passaggio della terra a proprietari non nobili (coltivatori,
ex fittavoli, investitori ecc.) ma anche a proprietari nobili.
Non va poi dimenticata la resistenza della proprietà
comunale nelle zone di montagna, anche a causa del fatto
che la scarsa redditività dei terreni non invogliava agli
acquisti.
In ogni caso, secondo dati del Cantù9, nel 1859 la distribuzione della proprietà nelle zone dell’attuale provincia di
Lecco era la seguente:
Distribuzione delle proprietà nel 1859
distretti
superficie
(pertiche censuarie)
ditte
censuarie
LECCO
303.375
8.370
BELLANO
371.187
11.585
OGGIONO
132.827
3.265
BRIVIO
102.829
1.964
MISSAGLIA
106.714
1.138
Si conferma dunque l’estremo spezzettamento delle
proprietà nella zona di montagna distretti di Lecco e
Bellano) e la crescita dell’ampiezza media mano a mano
che si scende verso la pianura, ampiezza che resta, in
media, inferiore alle 100 pertiche censuarie.
In montagna il quadro non é molto cambiato rispetto al
secolo precedente, sia perché rimane consistente la piccola
proprietà, sia perché le meno redditive aree di montagna
non vengono investite dai cambiamenti che investirono la
pianura e la collina.
Per quanto riguarda la collina, i dati sulla proprietà, non
dicono tutto ed in particolare nascondono quel processo di
spezzettamento dei fondi in piccole unità date da lavorare
a famiglie di pigionanti che, a differenza del massaro, non
possedevano alcun mezzo di produzione e soprattutto erano
privi di animali e carri.
Un fenomeno collegato, almeno cronologicamente,
superficie
media
36,24
32,04
40,68
52,35
93,77
73
La vanga e il gelso:
peggiorano le
condizioni di lavoro
dei contadini
all’appesantirsi dei patti colonici ed al sostanziale predominio della vanga determinato dai patti a grano e dal
diffondersi del gelso.
La maggior fatica per le vangature da un lato e dall’altro l’aumento del tempo da dedicare ai gelsi, riducevano le
possibilità di coltivazione delle famiglie mezzadrili ed in
questo contesto il pigionante rappresentava una via d’uscita, precaria ma sostanzialmente tranquillizzante, per un
ceto di proprietari contento di conservare, seppur in modo
progressimamente più incerto, lo staus quo.
2.2) Gelso e grano:
la fine della ‘mezzadria perfetta’
Fitto a grano,
divisione al terzo, affitto in denaro:
cresce la varietà
dei contratti
74
E veniamo quindi al fenomeno che, nel medio periodo,
cambiò gli assetti che nella prima metà del Settecento
ancora prevalevano nella fascia collinare.
Nel 1809 De Capitani D’Hoé, parroco di Viganò, scriveva: “Il sistema che regola gli affitti tra il proprietario e il
colono é qui forse più variato che in altri luoghi. Alcuni
pochi hanno a perfetta mezzadria tanto i prodotti che le
tasse. La maggior parte dei contadini pagano per fitto del
fondo una determinata quantità di frumento (...). La galletta, o bozzoli de’ filugelli, é sempre divisa a metà. Se però
alcuna volta si vende la foglia de’ gelsi, il prodotto si divide
per terzo, cioé due terzi al padrone e uno al contadino. Il
vino anch’esso in varie maniere si divide. Pochi sono quelli
che ritengono la perfetta mezzadria; per lo meno la decima
é sempre dominicale. Molti però lo dividono a terzo o a
quinto, cioé due terzi o tre quinti al proprietario, il resto al
colono. (...) I prati, i pascoli ed in generale i tratti erbosi
sono sempre affittati a denaro.
Anche le tasse sono regolate diversamente. Alcuni (...)
le pagano a metà; presso altri tutte le imposte dirette sono
caricate sulle spalle del povero contadino ed in altri paesi
il contadino paga una determinata somma (...). In qualunque caso però é sempre tenuto l’agricoltore ai soliti tributi
di pollame, uova ecc , che qui chiamano appendizj.” 10
Questi patti, che nel corso del secolo si fanno sempre
più duri per il colono, prevedono dunque la divisione, e non
sempre a metà, solo per alcuni importanti prodotti (generalmente vino e gallette); il resto era regolato con affitto a
grano ed affitto in denaro per le abitazioni ed i prati. A ciò
si aggiungeva, oltre agli appendizi, una quantità di obblighi
di lavoro, di cariaggio, di allevamento di bachi, che peggioravano le condizioni del mezzadro.
E’ al termine di questo processo (che dura anni e che
non è né lineare, né ovunque contemporaneo) che il mezzadro smette di essere il protagonista della “collaborazione
tra chi ha la terra e chi la forza lavoro”11 per diventare
sostanzialmente - anche se non formalmente - un affittuario a grano in condizioni che rasentano la pauperizzazione.
Tale modificazione dei patti agrari dalla ‘mezzadria perfetta’ al fitto misto fu, anche in collina, il segno chiaro del
progressivo differenziarsi degli interessi dei proprietari da
quelli dei coloni.
Per cogliere le cause di questo mutamento bisogna riferirsi ad un ciclo economico che faceva diventare protagonisti il grano ed i bozzoli.
Già nella seconda metà del Settecento la domanda ed il
prezzo dei cereali erano cresciuti e la Lombardia era divenuta esportatrice di grano ed in genere di prodotti agricoli;
lo stesso avvenne per i bozzoli e la seta grezza, la cui
domanda mondiale era fortemente dinamica: nella seconda metà del Settecento, l’esportazione di seta greggia filata lombarda passò dalle 186.000 libbre del 1751 alle
500.000 del 177812 e alla fine del primo decennio
dell’Ottocento il De Capitani d’Hoé definiva le gallette
Appendizi e obblighi
aggiunti a
carico del mezzadro
Il “fitto misto”
come conseguenza
del nuovo ruolo
di grano e bozzoli
75
Il gelso diventa
“il fondamento
dell’economia agricola
lombarda”
“nostra principale ricchezza”.13
I proprietari individuarono con chiarezza che da qui
potevano trarre guadagni sicuri e crescenti e premettero
sui coloni, tramite i patti agrari, per ottenere maggiori
quantità di grano e - soprattutto - di foglia di gelso e di bozzoli.
Gelsicoltura e bachicoltura ebbero un trend di crescita
costante per molti decenni ed a metà dell’Ottocento costituivano “il fondamento dell’economia agricola lombarda”14
e, nel contesto regionale, il distretto di Lecco emergeva
come uno dei territori a più intensa bachicoltura.15
In provincia di Como, la prima metà dell’Ottocento vide
crescere complessivamente, anche se con andamento non
continuo, il raccolto di bozzoli che dal 1815 al 1852 triplicò,
passando da 7.005 a 23162 quintali
Raccolta di bozzoli nei distretti del Dipartimento
del Lario, 1815 (q.li)
8000
7000
6000
829
1740,5
Lecco
Como
Varese
Menaggio
5000
4000
1490
3000
2000
2945,5
1000
0
Nel 1854, i mandamenti di Lecco, Oggiono, Brivio,
Missaglia produssero 4.856 quintali di bozzoli, pari al 70%
di quelli prodotti nel circondario di Lecco e al 27% del totale dell’allora provincia di Como, che comprendeva anche
76
Varese.
Interessante per noi è osservare la distribuzione territoriale di questa produzione:
,,
,,
,,
,
,,
,,
Bozzoli prodotti nei distretti lecchesi
300000
38815
63905
14940
200000
56853
20498
100000
0
34135
6700
56644
39560
49856
22370
Lecco
Oggiono
Brivio
Missaglia
Bellano
80840
57840
39720
49300
1858 - 1859 1860
Questi numeri significavano, per il contadino, un considerevole aggravio di lavoro e se per il piccolo proprietario
questo incremento di fatica era compensato da un guadagno, per il colono significava spesso maggiore povertà.16
Infatti, in genere la foglia era di completa spettanza del
proprietario, ma anche quando rimase vivo il patto di mezzadria sui bozzoli, spesso il mezzadro non riceveva pagamenti, perché il valore corrispondente era trattenuto dal
proprietario come diminuzione del debito o come caparra
sui fitti; c’é poi da considerare che se il pagamento al colono della quantità corrispondente alla metà dei bozzoli era
previsto a fine stagione, spesso il proprietario riconosceva
il prezzo vigente in quel momento, normalmente inferiore
a quello di vendita.
E non era tutto: come si sa, i bachi venivano allevati
Il lavoro tocca
al colono,
la foglia spetta
al proprietario
77
L’espandersi del gelso
rese “oggettivamente
oppressivo”
il patto colonico
Il gelso:
un’espansione
di proporzioni
gigantesche
78
nelle case dei contadini e perciò, quando calcolava la metà
dei bozzoli a scomputo dell’affitto per l’abitazione, il proprietario di fatto caricava sul colono una parte ulteriore
delle spese di produzione, oltre alle ore di lavoro per predisporre i castelli, curare i gelsi, raccogliere la foglia.
Foglia necessaria in grande abbondanza, poiché “per far
crescere un’oncia di seme-bachi (che poteva poi dare una
produzione di settantacinque-ottantacinque chili di bozzoli) erano necessari oltre mille chilogrammi di foglia”17 ed a
volte capitava che il padrone consegnasse ai coloni una
quantità di seme-bachi superiore alla foglia disponibile,
costringendo così il colono stesso a compartecipare alla
spesa per l’acquisto della foglia mancante.
Ma anche senza questo aspetto peggiorativo, l’espandersi del gelso su tutti i fondi aveva reso “oggettivamente
oppressivo” il patto colonico perché comportava un grande
incremento di lavoro non adeguatamente compensato e per
di più concentrato a ridosso della stagione estiva.
Incremento di lavoro che non era dato soltanto dalla
cura delle piante e dei bachi, ma anche dal diffondersi dei
gelsi, che rendeva più difficoltoso ricorrere all’aratro e
obbligava all’uso della vanga, con conseguente maggior
fatica.
E quanto ciò pesasse lo si può evincere dall’espansione
del gelso, che fu di proporzioni gigantesche: in un secolo
passò da 78.000 (anno 1734) a quasi 3.000.000 piante (anno
1846); la loro densità arrivò, per la zona di collina, da circa
12 gelsi ogni 10 ettari nel 1734 ai quasi 71 del 187518; ma ciò
che ancora più importa é che i gelsi erano presenti praticamente su tutta la superficie migliore: a metà del 1800, “nei
distretti di Brivio, Missaglia Oggiono (...) il 100% degli aratori risultava coperto di gelsi”19 e nel Distretto di Lecco, la
percentuale superava il 93%.
La qual cosa creò altri problemi ai contadini, che dove-
vano fare i conti con l’ombra delle piante e quindi con
minori rese, proprio mentre aumentavano le pretese dei
padroni.
Il “furore di piantar gelsi” si rivelò dunque pesantissimo
per il mezzadro; ancora in anni recenti una donna di Monte
Marenzo, di famiglia mezzadrile, intervistata da Cristina
Melazzi, ricordava con sollievo il momento in cui il proprietario, alla metà degli anni Cinquanta di questo secolo, fece
tagliare i gelsi: ‘passati i gelsi é passato metà lavoro per noi
contadini’.
Ma rimaniamo al secolo scorso per un’ultima annotazione sulla modifica dei patti agrari verso il fitto misto: oltre
la presenza dei gelsi, anche le crescenti richieste di grano a
titolo di affitto contribuirono a spingere i coloni alla vangatura, che muove la terra più a fondo dell’aratro e quindi
permette maggior raccolto; ancora, dunque, maggior lavoro
a fronte di nessun miglioramento delle proprie condizioni.
Anzi, il diffondersi e l’inasprirsi dell’affitto a grano é da
più parti considerata una delle principali cause del peggioramento del regime alimentare dei contadini e quindi del
diffondersi della pellagra20: superfici sempre maggiori (fino
a superare il 50% della superficie del fondo) da destinare
al frumento che poi va tutto al padrone, lasciavano al colono quasi solo vino e granturco e lo mettevano in competizione alimentare con le proprie bestie, competizione aggravata dal forte indebolimento degli usi civici.
Più ombra
vuol dire
minor resa
Dall’inasprirsi
del fitto a grano
alla diffusione
della pellagra
2.3) Cala il prezzo del grano e arriva la fillossera:
inizia la crisi
In questa situazione, sempre precaria e debole, si abbatterono, nell’ultimo ventennio del secolo, quattro eventi che
determinarono una fase di depressione nota come “la crisi
di fine secolo”.
79
La fine del secolo XIX°
segna l’inizio della crisi
I prezzi di frumento e
granturco non coprono
i costi di produzione
80
I quattro eventi furono:
- la caduta dei prezzi dei cereali, che già si era manifestata in Europa;
- il negativo andamento del mercato dei bozzoli, la cui
produzione a metà degli anni Settanta, si era ripresa
dopo la ventennale crisi dovuta alla pebrina;
- il diffondersi della fillossera della vite, che giungeva
quando la crittogama, presente negli anni Cinquanta
del secolo, era stata superata.
- la crescente richiesta di manodopera da parte delle
manifatture
In questa sede ci limitiamo a presentare alcuni dati, per
farne il punto di partenza di una breve ricostruzione di
quella che fu la risposta di proprietari e conduttori.
La crisi arrivò dura e colpì rapidamente: in Italia il prezzo al quintale del frumento, passò dalle 31,50 lire del 1880
alle 23,42 del 1883 e nel comasco, in quegli anni, il prezzo
era inferiore alle 24 lire a fronte di costi di produzione compresi, secondo il Circolo agrario di Como, tra le 25 e le 30
lire21, un livello che i prezzi raggiunsero soltanto negli ultimissimi anni del secolo (26 lire/q. nel 1897, 27,86 lire/q nel
1898 e poi di nuovo in calo, a 25,53 lire/q nel 1900).
Per tutto il ventennio finale del secolo XIX, assieme ai
prezzi restarono sostanzialmente stabili sia la produzione
che la resa per ettaro, completando così il quadro di una
produzione che non dava soddisfazione ai proprietari dei
fondi.
Insoddisfazione non controbilanciata dall’aumento
della produzione di granoturco, che aveva prezzi inferiori, i
quali oltretutto, almeno a metà degli anni Ottanta, venivano giudicati al di sotto dei costi di produzione di oltre 5 lire
al quintale e tali restarono per molti anni.22
Se i cereali soffrivano, nell’ultimo ventennio
dell’Ottocento certamente non meglio andava la vite, attac-
cata dalla fillossera a partire almeno dal 1879.
Nella prima parte del secolo la viticoltura aveva avuto
un andamento altalenante, con annate discrete, da produzioni significativamente superiori ai 200.000 ettolitri, e
annate scarse, con produzioni, in media, di circa 150.000
ettolitri.
La produzione ebbe notevoli difficoltà negli anni
Quaranta ed ancora più negli anni Cinquanta, quando le
viti vennero colpite dalla crittogama.
Ma furono gli ultimi venti anni del secolo scorso a dare,
praticamente, il colpo di grazia alla viticoltura, rinchiudendola nel recinto dell’autoconsumo.
Recinto poco interessante dal punto di vista di un’agricoltura capace di svilupparsi, ma ugualmente importante
nella vita e nel lavoro dei contadini, che comunque continuarono ad accudire le vigne.
Uno sguardo all’andamento della produzione permette
di individuare l’andamento incerto di questo settore ma
soprattutto il fatto che dopo il 1881, la produzione rimase
costantemente e spesso di molto al di sotto dei 100.000 ettolitri, con una sola ed isolata eccezione nel primo anno del
nostro secolo.23
L’impatto della fillossera fu dunque fortissimo su un settore che non era mai davvero decollato24. L’infezione, del
La vite nell’Ottocento
un andamento
altalenante
Produzione di vino in provincia di Como (hl)
30000
243529
20000
122902
117260
122902
105000
10000
91108
86030
87488
65000
64305
48914
7519
0
1816
1826
1836
1846
1856 1870/74
1881
1885
1890
1895
1900
1905
81
Errori ed omissioni
aiutano la fillossera
Alla metà degli anni
ottanta la cocciniglia
colpisce i gelsi
82
resto, fu aiutata anche dalla scarsa conoscenza e dalla mancata denuncia dei focolai da parte dei proprietari e dei contadini.
Le autorità prescrissero di eliminare le viti infette e nel
1883 erano 47 gli ettari di viti estirpati, su un totale di
16.031 messi a vigna: pochi per giustificare un così drastico
calo della produzione e segno che la malattia era più diffusa di quanto denunciato ufficialmente.
La crisi della viticoltura dovette poi avere un particolare peso nel territorio lecchese, perché sia dai ronchi lungo
le sponde del lago, sia soprattutto dai distretti di Oggiono e
di Missaglia veniva una parte non trascurabile della produzione dell’intera provincia: nel 1840, ad esempio, le colline
lecchesi produssero il 18% dei 209.960 ettolitri ricavati
dalle vigne provinciali. La malattia, la diminuita qualità del
vino prodotto e le crescenti difficoltà di commercializzazione, anche per la concorrenza di altri vini, determinarono un
drastico calo delle superfici a vite, che passarono dai 14822
ettari del 1890 ai 5000 del 1908. Se la vite correva seri pericoli, la bachicoltura dovette fare i conti, oltre che con un
andamento insoddisfacente dei prezzi (in Italia, i bozzoli
passarono dalle 6,81 lire al kg del 1873 alle 3,56 di dieci
anni dopo) con un nuovo parassita, la cocciniglia, (Diaspis
pentagona) che colpì i gelsi alla metà degli anni Ottanta. In
questo caso i proprietari, che vedevano compromessa la
loro principale fonte di reddito, intervennero con più decisione sia a tutela delle piante, sia nella ricerca di varietà di
seme-bachi che resistesse alle malattie e avesse buone rese.
Ciò consentì alla bachicoltura di superare il giro del secolo
senza gravi traumi, ma anche in questo caso mancò la capacità - e probabilmente la possibilità - di dare nuovo impulso al settore. Ci fu, nella seconda metà dell’Ottocento, un
certo incremento del patrimonio zootecnico, soprattutto
bovino. Ma anche in questo caso più che ad una pensata
strategia di valorizzazione delle produzioni animali, siamo
probabilmente di fronte ad una risposta difensiva. I prodotti dell’allevamento, infatti, non venivano divisi e quindi
garantivano il colono più di quanto non lo garantissero le
altre produzioni. Il proprietario, dal canto suo, riscuoteva il
fitto del terreno lasciato a prato. In ogni caso, anticipando
un poco il discorso sul Novecento, anche l’incremento del
patrimonio zootecnico avrà una brusca frenata a cavallo
dei due secoli e poi anche in questo campo inizierà il declino.
Se in collina la crisi di fine Ottocento provocò le difficoltà che abbiamo visto, in montagna determinò un ulte-
Una debole
difesa viene
dall’allevamento
Patrimonio zootecnico in provincia di Como
110000
100000
90000
80000
70000
60000
50000
40000
30000
20000
10000
0
BOVINI
1815
SUINI
1841
CARPINI
1881
OVINI
1908
1930
EQUINI
(*)
riore rimpicciolirsi delle proprietà: al tradizionale frazionamento ereditario si aggiunse infatti la vendita degli appezzamenti da parte di coloro che emigrano. Il possesso fondiario subì quindi un processo di vera e propria polverizzazione ed anche quando gli acquisti erano fatti da altri proprietari del luogo, non riuscirono mai a formare proprietà
contigue di una certa estensione. La piccola proprietà con83
In montagna
la proprietà
si polverizza
Il castano,
“albero del pane”
tinuò dunque a possedere superfici che a fatica arrivano
all’ettaro ed in questa situazione le residue, ma ancora estese, proprietà comunali venivano mantenute perché era grazie all’erba ed al legname forniti dagli usi civici, che poteva continuare quell’agricoltura di sussistenza. Insomma, a
cavallo tra i due secoli, la frantumazione delle proprietà
continuava a rendere necessari sistemi di conduzione dei
boschi e degli alpeggi che tutelassero i piccoli proprietari
del posto; così, ad esempio, nell’affittare gli alpeggi, i comuni prevedevano regole in base alle quali i malgari dovevano
portare all’alpe anche le bestie degli abitanti. Per quanto
riguarda, invece, gli appezzamenti non coltivati dal proprietario, in montagna alla fine dell’Ottocento prevaleva
ancora la mezzadria, pur non mancando qualche affittanza
a denaro.
In questo contesto di agricoltura povera, tra Ottocento e
Novecento le castagne confermarono il loro ruolo fondamentale: presidio alimentare, mezzo di vendita o di scambio con altri prodotti, contributo all’alimentazione degli
animali, le castagne continuarono ad essere coltivate e raccolte in quantità crescenti. Il raccolto di castagne in provincia di Como passò dai 33891 quintali del periodo
1881/85 ai 62922 del 1912/14.
3) Il Novecento
3.1) Proteste e manifattura:
si scardina il precario equilibrio
Alla crisi di fine Ottocento i proprietari, tranne pochi
che tentarono qualche innovazione, risposero nel modo consueto e cioé agendo sui patti colonici. Lo fecero soprattutto
in due direzioni: trasferimento agli affittuari di parte rile-
84
vante dei carichi fiscali ed aumento delle giornate di lavoro obbligatorie.
A tali inasprimenti i contadini reagirono con moti di
protesta che interessarono il penultimo decennio del secolo25 e che si aggiungero all’emigrazione, altra grande manifestazione di disagio sulla quale ancora mancano studi specifici per la nostra provincia.
Particolarmente contestata fu la richiesta di ulteriori
giornate di lavoro ed il contenimento di questi obblighi fu,
non a caso, al centro delle richieste dei coloni.
Tramite le giornate obbligatorie, infatti, il proprietario
praticamente costringeva a restare sul fondo non solo l’affittuario ma tutta la sua famiglia, impedendo o rendendo
difficile che alcuni dei membri si occupassero nelle manifatture.
Il conduttore voleva invece avere almeno un po’ di voce
in capitolo nella gestione della propria forza lavoro e di
quella dei familiari e con ciò metteva in discussione l’insieme dei rapporti di produzione vigenti nell’azienda agricola.
Inoltre, aggiungendo alle richieste sia l’aumento della
mercede per le prestazioni a giornata, sia che le stesse fossero effettivamente pagate e non trattenute a credito dal
padrone, contestava la comoda e lucrosa abitudine dei proprietari di tenere come caparra somme di cui la famiglia
colonica aveva disperato bisogno.
Il peggioramento dei patti agrari che si era manifestato
già nel Settecento e che era continuato per tutto
l’Ottocento aveva così raggiunto il punto di rottura ed i
coloni chiesero di abbondare il contratto misto e di passare
al fitto in denaro.
Nel breve periodo la protesta non ottenne risultati, a
causa della chiusura rigida dei proprietari a difesa del contratto misto, che giudicavano ancora il migliore possibile.
Sale la protesta
contadina contro
le giornate di lavoro
obbligatorie
85
Il dinamismo
dell’industria
sottrae manodopera
ad un’agricoltura
ferma
Nel lecchese
si concentra un terzo
dell’industria
provinciale
86
Ma il territorio era ormai investito da fenomeni nuovi,
almeno nelle proprozioni, di cui abbiamo visto il segno
anche nella protesta dei coloni.
La manifattura, in rapido sviluppo, aveva fame di capitali e di manodopera e, sia per gli uni che per gli altri, entrò
in concorrenza con l’agricoltura: il nostro secolo si aprì
all’insegna di un dinamismo economico che restava quasi
sconosciuto alle campagne.
Eppure, nel 1901 l’imposta prediale venne alleggerita
addirittura del 52% e già nell’ultimo scorcio del secolo passato i prezzi agricoli avevano dato qualche segno di ripresa.
Come abbiamo già visto, dal 1900 al 1914 la produzione
di frumento e granturco crebbe e stavolta non più grazie
all’aumento delle superfici, che anzi tendevano a ridursi,
ma piuttosto a seguito di miglioramenti nella concimazione
e nella rotazione, miglioramenti ottenuti in particolare con
l’eliminazione del secondo raccolto e l’estensione della
patata, che negli anni dal 1985 al 1915 guadagnò 2700 ha di
superficie (da 3.412 a 6.100) e 500.000 quintali di produzione (da 205.000 a 707.000).
Ma tutto ciò non compensò il calo del gelso e della vite,
sul quale influì anche la scarsità di manodopera: gelso e
vite richiedevano molto lavoro e la concorrenza della manifattura adesso si faceva sentire.
Tra il 1912 ed il 1914 nei mandamenti di Lecco, Bellano,
Brivio, Oggiono e Missaglia vennero censite 149 manifatture tra cotonifici, tessiture e meccaniche; nella provincia di
Como i telai meccanici passarono dai 371 del 1890 ai 9649
del 191426. Sempre nel 1914 nel circondario di Lecco si concentrava il 34% delle industrie dell’intera provincia di
Como (che comprendeva anche Varese).
Dobbiamo purtroppo limitarci a questi brevi cenni, che
bastano però ad apprezzare quanto scive Giancarlo Galli:
“l’agricoltura comasca dovette subire in misura crescente
la concorrenza delle manifatture sul terreno della ricerca
della manodopera. (...). Questo fu anche l’elemento che a
medio e lungo termine scardinò il tradizionale fitto misto
(...). La possibilità di ricorrere all’impiego nell’industria
fornì ai coltivatori un’alternativa a un patto considerato
poco remunerativo.”27
E’ in questo intreccio di agricoltura meno remunerativa
e nuovi sbocchi per la manodopera di origine agricola che
trovò terreno fertile, soprattutto dopo la Prima Guerra, l’affitto a denaro: i proprietari potevano così restare percettori di rendita senza correre troppi rischi e senza davvero
impegnarsi nell’agricoltura ed i coloni, raggiunta maggiore
autonomia personale, potevano dedicarsi alle produzioni
che meglio convivevano con quell’autonomia, che riguardava loro e tutta la famiglia.
3.2) Cresce la piccola proprietà,
il gelso, si contrae la vite:
l’agricoltura diventa residuale.
Col nuovo secolo
il fitto a denaro
sostituisce
il fitto misto
finisce
In questo contesto si determinò un altro passaggio estremamente importante:
Tra il 1919 ed il 1929, infatti, avvenne - anche in Brianza
- una radicale trasformazione nella distribuzione della proprietà della terra: i grandi fondi vennero progressivamente
suddivisi a vantaggio della piccola proprietà che, potremmo dire, ‘scese dalla montagna’ e guadagnò terreno in una
zona da cui non era stata certo assente, ma dove alla fine
degli anni Venti appariva con una presenza molto maggiore di quella che aveva all’inizio del secolo.
Nel decennio suddetto, nella Brianza collinare della
(allora ) provincia di Como e di Milano, ben 20.000 ettari
sui circa 50.000 totali passarono ai contadini.
La piccola proprietà
“conquista”
la Brianza
87
I proprietari terrieri
investono
nell’industria.
I contadini
comprano la terra
Un trasferimento gigantesco, che interessò il 40% della
superficie considerata.
Gli attori di questo fenomeno, ancora da studiare nel
dettaglio per i nostri territori, furono da un lato i proprietari, progressivamente meno interessati a fondi che davano
rendite decrescenti e dall’altro i coloni che, grazie ai più
vantaggiosi contratti di affitto in denaro e al salario guadagnato da altri membri della famiglia, avevano qualche
disponibilità da investire nell’acquisto di piccoli appezzamenti.
Si determinò così un intreccio che meriterà di essere
indagato: mentre i proprietari terrieri o i grandi affittuari
tendevano ad indirizzare una parte dei loro capitali verso
l’investimento industriale, molti coloni diventavano piccoli
proprietari riversando sulla terra i loro guadagni di origine
agricola e, via via prevalentemente, industriale.
Lo snodo é stato il decollo industriale del lecchese, il cui
impatto sulla disponibilità di forza lavoro contribuì a ridisegnare, anche nelle campagne sia i rapporti di produzione
che la distribuzione della proprietà .
Nei primi decenni del Novecento, la situazione é dunque profondamente cambiata: piccola proprietà e piccolo
affitto in denaro, diminuzione dei pigionanti e dei lavoranti a giornata, possibilità per i coloni di impiegare la loro
forza lavoro non in modo obbligato, ma alla fine di un bilancio di convenienze sono i principali segni del cambiamento.
Tutto ciò introduce un ulteriore elemento di scardinamento degli assetti tradizionali: mentre fin qui il lavoro
industriale era integrativo di quello agricolo, ora compare
la tendenza inversa, che farà diventare il lavoro agricolo
prima integrativo e poi subalterno ed anche accessorio
rispetto a quello industriale.
Tutto ciò non poteva non influenzare il lavoro agricolo e
88
quindi le colture e la prima conseguenza importante fu il
tramonto definitivo delle produzioni che necessitavano di
maggior quantità di territorio e di mano d’opera.
Illuminante é al proposito l’andamento della bachicoltura: dopo aver mantenuto buoni livelli produttivi per i
primi quindici anni del nostro secolo, fin dai primi anni
Venti iniziò il tracollo:
Un po’ meglio andavano altri prodotti ‘forti’ delle nostre
zone, come il frumento ed il mais, che nel trentennio considerato conservano sostanzialmente le quantità; l’unico prodotto ad andare veramente bene fu la patata che, rimasta
Il lavoro agricolo
diventa integrativo
e accessorio di
quello industriale
Produzione di bozzoli in provincia di Como (q.li)
20000
19921
13366
10000
5790
4941
2070
0
191 2/ 1 4
1 92 6/ 3 0
1 9 3 1 /3 5
1 9 3 6 /4 0
1 9 4 1 /4 5
1260
1 9 4 6 /50
in ombra fino alla fine dell’ottocento, nei primi decenni del
nostro secolo conobbe un incremento davvero significativo.
Incremento dettato sia all’adattabilità alimentare che,
almeno per il periodo esaminato, dalla discreta remuneratività del prodotto.
Siamo all’inizio della seconda guerra mondiale, cioé alla
vigilia di un nuovo punto di svolta della storia e dell’economia italiana e del nostro territorio.
Dopo la guerra, le produzioni agricole non raggiunsero
più i livelli degli anni Trenta: le superfici coltivate subirono
Crolla la bachicoltura,
“tengono”
frumento e mais,
cresce la patata
89
fin dal primo dopoguerra una rapida diminuzione, eccezion
fatta per il mais.
Ma ormai siamo definitivamente entrati nella fase in
cui l’agricoltura viene abbandonata, anche se gli ex agricoltori ed i loro famigliari non lasciano del tutto la campagna, ma continuano a coltivare appezzamenti sempre più
piccoli nelle ore libere dal lavoro industriale.
90
Note
1
Bruno Caizzi, Il comasco sotto il dominio spagnolo, Como, 1955,
pag. 146. L’analisi del Caizzi, seppur riferita ai territori occidentali della ex provincia di Como, é certamente di grande interesse
anche per i territori dell’attuale provincia di Lecco.
2
Cfr. Giancarlo Galli L’evoluzione mancata dell'agricoltura, in
Sergio Zaninelli (a cura di) Da un sistema agricolo a un sistema
industriale. Il comasco dal settecento al novecento, Annali dell’economia comasca, I, Il difficile equilibrio agricolo-manifatturiero
(1750-1814) CCIAA Como, 1987, pag. 21
3
Raul Merzario Il capitalismo nelle montagne Il Mulino, Bologna,
1989, pag. 22
4
I dati dei grafici che seguono sono ricavati da Cfr. Giancarlo
Galli, L’evoluzione mancata, cit, pp. 25-26
5
Da qui la principale spinta all’emigrazione, che ha portato gli
uomini ad abbandonare non solo la montagna, ma anche l’attività
agricola tout court. Gli emigranti della montagna, infatti, andavano all’estero (Francia, Svizzera e poi America) o in altri Stati
(ad esempio dalla Valsassina a Bergamo e Venezia), dove in genere non esercitavano più attività agricole. Per questo tipo di emigrazione, vedi Raul Merzario Il capitalismo.., cit, pp 45-59; testimonianze sull’emigrazione stagionale dalla val Varrone alla
Svizzera interna per esercitarvi l’attività di muratore sono in
Angelo De Battista, “Ol carnelvà” di Sueglio, in AES, materiali,
studi ed argomenti di etnografia e storia sociale, Ed. Diacronia,
anno I°, n. 2, pp. 20 e 26-27.
Per il tema dell’emigrazione in generale, vedi tra gli altri, anche
per la ricca bibliografia: A. Lazzarini L’Italia fuori d’Italia, in
AAVV Vita civile degli italiani. Società, economia, cultura materiale, vol 5°, Electa, Milano, 1990
6
Il grafico che segue é costruito su dati pubblicati in Raul
Merzario Il capitalismo.., cit, pp. 23 e 26.
7
U. Marcelli, La vendita dei beni nazionali nella Repubblica
Cisalpina, Bologna, 1967. Citato in Giancarlo Galli, L'evoluzione
mancata, cit, pag.81.
8
Giancarlo Galli L’agricoltura alla ricerca di un equilibrio in Sergio
Zaninelli (a cura di) Da un sistema agricolo a un sistema industriale. Il comasco dal settecento al novecento, Annali dell'economia
comasca, II, La lunga trasformazione tra due crisi (1814-1880)
CCIAA Como, 1988, pag.87
9
Cesare Cantù, Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, Milano,
1858. I dati qui presentati sono estrapolati da quelli relativi a
tutta la provincia di Como. Per un confronto (prudente!) con la
tabella relativa alla metà del Settecento, si consideri che i distretti di Lecco e Bellano equivalgono sostanzialmente alla Agenzia
Catastale di Lecco, mentre quelli di Brivio e di Missaglia sono
riconducibili all’Agenzia catastale di Merate.
10
De Capitani D’Hoé, Memoria prima sull’agricoltura del Monte di
Brianza, Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia, tomo III,
luglio, agosto, settrembre 1809, pp. 130-131.
91
11
Raul Merzario Il capitalismo.., cit, pag 40
Traggo questi dati da: Renato Levrero, Accumulazione di capitale e formazione del proletariato di fabbrica. Il caso lecchese (17501840) in Renato Levrero, Maria Vittoria Ballestrero, Genocidio perfetto. Industrializzazione e forza lavoro nel lecchese, Feltrinelli,
Milano, 1979, pp. 10-11.
13
De Capitani D’Hoé, Memoria prima..., cit, pag. 131.
14
Roberto Leydi, Il gelso e la vanga, in Roberto Leydi e Glauco
Sanga (a cura di) Como e il suo territorio, Collana Mondo Popolare
in Lombardia, Silvana Editoriale, Milano, 1978, pag. 29
15
I due grafici seguenti sono costruiti su dati tratti da Giancarlo
Galli L’agricoltura alla ricerca..., cit, pp 76-85 e 135-138.
16
Sul peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei mezzadri conseguente all’introduzione del fitto a grano e alla gelsibachicoltura vedi, in particolare, Renato Levrero, Accumulazione
di capitale, cit, pp. 10-14; Raul Merzario Il capitalismo.., cit, pp. 93107; Roberto Leydi, Il gelso e la vanga, cit, pp. 30-31, Giorgio
Giorgietti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna, Einaudi,
Torino, 1974, pp. 296-297
17
Roberto Leydi, Il gelso e la vanga, cit, pag. 37. Per la verità una
quantità di 80/85 kg di bozzoli per un’oncia di seme bachi sembra
eccessiva. La foglia veniva così somministrata, lungo le cinque
età del baco: 1^ età 5 kg; 2^ età 15 kg; 3^ età 50 kg; 4^ età 230
kg; 5^ età 700 kg. Cfr ibidem.
18
Giancarlo Galli L’agricoltura alla ricerca..., cit, pag 29
19
idem, pag. 30
20
Cfr Raul Merzario, Il capitalismo.., cit, pp. 101-104
21
Cfr. Claudio Besana, La realtà agricola tra tentativi di trasformazione e industrializzazione, in Sergio Zaninelli (a cura di) Da un
sistema agricolo a un sistema industriale. Il comasco dal settecento
al novecento, Annali dell'economia comasca, III, L’affermazione
industriale (1880-1914), CCIAA Como, 1989, pag. 14 ed appendici
9-10-13.
22
ibidem
23
Questo grafico ed i due successivi sono costruiti su dati estrapolati da Giancarlo Galli, L’agricoltura alla ricerca..., cit, appendice 11 e da Claudio Besana, La realtà agricola.., cit, appendice 18
24
Una trattazione completa dell’infezione fillosserica é stata svolta da Sergio Zaninelli, Un tema di storia dell’agricoltura italiana
fra Otto e Novecento: la diffusione della fillossera e il rinnovamento
della viticoltura, in Fatti e idee di storia economica. Studi dedicati a
Franco Borlandi, Bologna, 1976.
25
vedi, in proposito, Franco Della Peruta, Il movimento contadino
nell’alto milanese, in ‘Storia in Lombardia’ anno III, n° 3, 1984.
26
Traggo questi dati da Luigi Trezzi, La definizione di un’area
manifatturiero-industriale, in Sergio Zaninelli (a cura di) Da un
sistema agricolo a un sistema industriale, cit, pp. 243 e 122
27
Giancarlo Galli, Un’agricoltura difficile, in G. Rumi,V.Vercelloni,
A. Cova, Como e il suo territorio, Cariplo, 1955, pag 329
12
92
Gli attrezzi tradizionali
in una prospettiva
agrituristica
di Italo Sordi
Nel guardarmi intorno per radunare le idee per questa conversazione, mi sono reso conto di quanto scarsa sia
stata finora la comunicazione, e ancor più quindi la collaborazione tra la ricerca sul mondo agropastorale tradizionale – che nel corso degli ultimi trent’anni ha peraltro
conosciuto e conosce approfondimenti teorici e conoscitivi di tutto rispetto – e i settori che si occupano professionalmente della valorizzazione sul piano sociale ed economico di quanto ancora di quel mondo sussiste o sopravvive. Gli antropologi, in altri termini, non hanno a tutt’oggi
elaborato nessun modello di intervento che possa aiutare
ad esempio gli operatori del turismo a raggiungere una
corretta comprensione dei caratteri specifici di una
realtà minacciata e fragile qual è il mondo agricolo e artigiano tradizionale. Le ragioni di ciò sono probabilmente
da individuare nel fatto che la rinascita degli studi di tradizioni popolari in Italia, iniziatasi a partire dagli anni
’60, ha rappresentato una netta e programmatica rottura
con il vecchio modo di occuparsi del mondo popolare: in
una chiave cioè passatistica e celebrativa, ispirata a un’idealizzazione di maniera, e legata a forme di intervento
di impronta dopolavoristica.
Quest’inevitabile rottura portava con sé il rifiuto di
ogni atteggiamento di rimpianto per un passato di cui i
nuovi studi rilevavano finalmente le durezze, le sofferenze, le condizioni di sfruttamento, la miseria: e quindi
ovviamente anche, e a maggior ragione, veniva a negare
93
Le tendenze
nella progettazione e
realizzazione
delle raccolte
etnografiche
94
la liceità stessa – oltre alla possibilità storica – di qualsiasi intervento destinato a perpetuare in qualche modo
l’esistenza di quei modi di vita, o a ritardarne la disgregazione. Oggi, anche a livello teorico possiamo forse rivedere queste posizioni – senza che ci sia bisogno di rinnegarle – e pensare, come antropologi, a elaborare delle proposte di intervento che dal nostro punto di vista risultino
corrette – rispettose cioè dei caratteri storici del mondo
agricolo e artigiano – e in particolare a mettere in guardia contro quelli che sempre dal nostro punto di vista possiamo considerare dei rischi: rischi culturali, innanzi
tutto. Questo in tutta modestia e senza assolutamente
pretendere – almeno per quello che mi riguarda – di insegnare il suo mestiere a nessuno e meno che mai, ai
responsabili, a vario titolo, delle attività agrituristiche.
La mia esperienza di ricercatore mi ha messo a lungo
in contatto, fra altri aspetti del mondo tradizionale, con la
cultura materiale: con gli oggetti e gli attrezzi che sono
serviti o servono a mettere in atto le tecniche produttive
in quel mondo, sia nel settore agricolo in senso lato, sia in
varie attività artigiane (questo anche in provincia di
Lecco, con Premana) e, di conseguenza, con musei e collezioni che si propongono di documentare e conservare i
segni di quelle culture. Sugli oggetti e sulle tecniche tradizionali concentrerò dunque la mia attenzione, per formulare alcune considerazioni e alcune proposte: proposte
che, ne sono ben conscio, avranno in larga misura un
carattere che non esito a definire utopistico.
Attualmente, nella progettazione e nella realizzazione
di raccolte etnografiche, o di musei della cultura tradizionale, si delineano due tendenze notevolmente diverse.
L’una, spesso dovuta a iniziative di carattere privato e
semipubblico, si propone di formare collezioni che riuniscono gli attrezzi e gli arredi che documentano la cultura
locale nel suo insieme, o dando rilievo a particolari attività artigianali o agricole tipiche del passato locale: si
tratta di una concezione del “museo” di tipo tradizionale
(usando qui il termine nel suo significato riduttivo) o per
meglio dire convenzionale, cioè di collezione in sé conchiusa e ospitata in un, diciamo così, contenitore chiuso –
l’edificio del museo.
Esperienze del genere – realizzate ai più diversi livelli di consapevolezza culturale – sono ormai, come mostra
il catalogo che ne hanno pubblicato per l’editore Olschki
G. Forni e R. Togni, estremamente numerose, e vanno
dalle grandi raccolte, addirittura con migliaia di pezzi,
alle piccole collezioni disposte magari sulle pareti di un
ristorante. Se questa tendenza – molto meritevole e molto
interessante sotto diversi aspetti, ma certo suscettibile di
vari aggiustamenti di tiro – è destinata a proseguire, tra
non molto ogni paese (e sottolineo paese: le città appaiono del tutto o quasi del tutto indifferenti al fenomeno)
avrà un suo museo etnografico di questo tipo, così come
ha la farmacia. Né la cosa mi sembra così negativa, come
certi pubblici amministratori mostrano di pensare.
Dall’altro lato, a livello di riflessione museografica (e
forse in misura un po’ minore, a livello di realizzazione
museale) va oggi prevalendo in questa materia una concezione che si potrebbe chiamare del “museo diffuso”, di
un museo che – pur facendo in varia misura riferimento
a una struttura museale centrale – si identifica in sostanza con tutte le presenze e le permanenze dei segni della
cultura popolare tradizionale riconoscibili sul territorio;
e di tutti quei segni e di tutte quelle presenze si fa carico
per quanto concerne il loro studio, la loro conservazione,
la loro valorizzazione sul piano culturale (e per quanto ci
riguarda, turistico).
E va notato che le realtà che in questa concezione
... il museo
tradizionale...
... e il museo
diffuso...
95
Il museo etnografico
deve restare museo
di cose,
ma senza sacrificare
il concreto rapporto
tra esse e
la fatica e l’intelligenza
dell’uomo
96
entrano nella – diciamo così – sfera di competenza del
museo non sono soltanto di ordine materiale (come,
poniamo, cascine o mulini o lavatoi o cappelle: e l’elenco
dovrebbe essere molto più lungo, e venire a comprendere
tutte le tracce dell’intervento umano sul paesaggio) ma
anche di ordine spirituale: e devono inglobare le pratiche
e i saperi tradizionali che hanno ispirato e guidato la creazione di quelle realtà materiali, e che stanno per così dire
a monte della costruzione di quegli oggetti tradizionali
che il museo, anche in questa sua nuova forma, è ovviamente chiamato a raccogliere, a conservare, a far conoscere. Il museo etnografico deve restare museo di cose,
ma non può e non deve sottrarsi al compito di essere lo
spazio – spazio ideale e reale – in cui si creano e si conservano le condizioni in cui le attività tradizionali – siano
esse l’arte del cestaio o quella del vignaiolo, il mestiere
del fabbro o la panificazione – possano continuare ad
essere esercitate, e continuare a rilevare il vero significato di quegli attrezzi che del museo popolano le vetrine, a
mostrare il loro concreto rapporto con la fatica e con l’intelligenza dell’uomo. Né la vita del passato era fatto solo
di attività immediatamente pratiche: esistevano anche il
canto, la musica, la festa … Anche qui il museo etnografico deve essere programmaticamente presente: anche i
rituali festivi tradizionali devono essere oggetto di studio
e anche – a mio avviso – di tutela, e difesi, non foss’altro,
dallo stupido sarcasmo degli ignoranti, incapaci di cogliere i valori profondi e l’autentica modernità di certe manifestazioni (la Passione di Barzio, per esempio). Siamo, lo
riconosco una volta di più, almeno in parte nel campo dell’utopia: ma, tanto per fare un esempio, ogni anno il
museo di Pescarolo, in provincia di Cremona, fa rivivere
tutte le fasi della coltivazione e della lavorazione del lino,
antica attività locale ormai abbandonata, in un campo
della zona, e in un ordine di idee molto simile, il Parco ha
organizzato a Montevecchia un corso, tenuto da artigiani
locali, per insegnare a costruire i muretti di contenimento in pietra caratteristici della zona. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: ma quello che qui ci interessa è vedere se e come questo atteggiamento nei confronti delle
culture tradizionali possa contribuire alla elaborazione di
un modello o di una serie di modelli operativi applicabili
nel campo dei rapporti fra agriturismo e cultura tradizionale.
In ogni caso, non mi sembra affatto assurdo che presso un’azienda, o un complesso di aziende agrituristiche
possa costituirsi una raccolta di oggetti tradizionali, in
particolare connessi alle attività praticate nell’azienda
stessa, e proposti in questa prospettiva all’attenzione dei
visitatori. Mi consta del resto (in base al già citato libro di
Forni e Togni) che collezioni di attrezzi e oggetti tradizionali costituitesi nell’ambito di iniziative agrituristiche di
fatto già esistono.
Le modalità d’esposizione di questi oggetti potranno
variare all’infinito a condizione, direi, riprendendo un
concetto esposto da A.M. Cirese, che siano "a disposizione” dei visitatori, che sia loro possibile toccarli e maneggiarli; ma l’importante sarà chiedersi concretamente,
quale sia l’atteggiamento da assumere nei confronti degli
oggetti tradizionali in qualche modo coinvolti in un programma di agriturismo. Io credo innanzitutto essenziale
che si tenga sempre presente il fatto che l’attrezzo non
rappresenta tanto un valore in sè stesso quanto un documento e un segno del lavoro umano, e che quindi esso, per
quanto possibile, vada inserito nel contesto produttivo
originario, e non estrapolato da esso: l’oggetto deve poter
sollecitare domande, e non soltanto generiche curiosità.
Mi sembra che, proprio in quanto documento di anti-
Le collezioni
di attrazzi e oggetti
tradizionali
nelle aziende
agrituristiche e
i modelli operativi
applicabili nei rapporti
fra agriturismo
e cultura tradidionale
97
L’attrezzo
non rappresenta
un valore in sè stesso,
ma un documento e un
segno del lavoro
umano, da non
manipolare e
stravolgere
arbitrariamente.
98
chi modi di vita, di precise capacità di adattamento
all’ambiente, di abilità tecniche spesso stupefacenti, l’oggetto contadino e artigiano tradizionale meriti anzitutto
rispetto, anche ai livelli che sto ipotizzando. Certo, molti
oggetti d’uso tradizionale hanno anche un fascino estetico indiscutibile (anche se vi sono studiosi che lo negano):
ma questo non ci autorizza a considerarli esclusivamente
da questo punto di vista, e meno che mai a manipolarli e
stravolgerli arbitrariamente, trasformando gioghi da buoi
in attaccapanni, ruote di carri in lampadari, culle in portavasi.
Questa idea di un rispetto per l’oggetto in quanto
segno dell’uomo, come presenza di una memoria non da
idealizzare ma da comprendere dovrebbe anche convincere a evitare certi interventi di “restauro” che vengono
a costituire sottolineature arbitrarie e – mi si permetta –
di cattivo gusto dell’aspetto estetico dell’attrezzo. Certe
mordenzature lucidature cerature dei legni probabilmente nelle intenzioni sono destinate a nobilitare l’oggetto
tradizionale, a conferirgli uno status in qualche modo
pari a quello degli oggetti di antiquariato di provenienza
“alta”: ma si tratta di una collocazione che non compete
loro, e che non può essere che fuorviante. E sarei anche
del parere di non eliminare col restauro (che può comunque essere in sé necessario e che rappresenta un discorso
a parte) le tracce delle ripartizioni che spesso sono estremamente eloquenti rispetto all’atteggiamento che nel
mondo tradizionale si aveva verso l’oggetto. Penso ad
esempio a certi piatti o a certi vasi in ceramica che, spezzati accidentalmente, venivano riparati da particolari
artigiani itineranti, “ricucendo” i pezzi con punti di filo di
ferro fatti passare in serie di fori praticati con un apposito trapano a mano lungo i due lati della rottura. È giusto
far sparire col restauro i segni di un simile lavoro, che mi
paiono più efficaci di qualsiasi discorso per mostrare concretamente la distanza – distanza economica e culturale
– che intercorre tra il mondo d’oggi e il mondo di ieri – al
di là di ogni moralismo anticonsumistico, naturalmente?
Sempre in nome di una, diciamo pure, serietà di base,
mi sembra che ci si debba proporre di evitare l’esibizione
di oggetti e attrezzi tradizionali in funzione puramente
decorativa, come semplice sfondo di qualcos’altro, a evocare genericamente un mondo agreste più o meno improbabile, come quando i vetrinisti dispongono fra i manichini ricci di castagne carriole e filatoi, e conche per il
latte, portacandele e spianatoie fra i sacchetti di soia e i
pani ai cinque cereali.
Mi pare sia importante e doveroso ricordare che il
mondo tradizionale era costruito su due dimensioni apparentemente contraddittorie – e questo in tutti i suoi
aspetti, sia nel campo della cultura materiale che in quello della cultura spirituale (se la distinzione ha un senso) : quella di una sconcertante uniformità, da un lato, grazie
alla quale motivi narrativi, tecniche di lavoro, rituali,
canti, pratiche medicinali e quant’altro appaiono diffusi
su aree vastissime (ed è ciò che ci dà la possibilità di parlare legittimamente del mondo popolare tradizionale
come di un universo coerente); e, dall’altro lato, la dimensione del particolarismo locale, per cui la cultura di ogni
singola area (e di ogni singola comunità) si differenzia in
qualche modo da tutte le altre. Senza paradosso, si può
affermare che ogni cultura locale del nostro paese è contemporaneamente uguale a tutte le altre e insieme diversa da tutte le altre. In questa prospettiva, mi sembra
importante che, quando si decida di creare delle collezioni locali di oggetti tradizionali, questi debbono rappresentare appunto le caratteristiche della cultura locale, e
che da esse vadano esclusi oggetti provenienti da altri
Il mondo tradizionale
era costruito su dimensioni apparentemente
contradditorie...
...l’uniformità...
... e il particolarismo
99
luoghi.
Inserire l’attrezzo nel suo contesto originario, dicevo.
E non solo dal punto di vista espositivo: molte cose possono essere capite a fondo solo parlando con le persone
che le hanno usate o che le usano.
Un rastrello è sempre un rastrello: ma solo chi lo adopera o chi lo costruisce (quelli usciti dalla fabbrica sono
tutti uguali) ti sa dire perché i denti sono di un determinato legno, perché il manico è di quella lunghezza, perché
il pettine è più o meno inclinato; o perché un gerlo è di
quella particolare altezza, o perché la sua curvatura è
diversa da quella di un altro, per il resto del tutto simile.
E dall’altro canto, molti oggetti di uso pratico potevano, nel mondo tradizionale, assumere in particolari occasioni impieghi rituali o simbolici: la rocca da filare possedeva il significato di un impegno di fidanzamento; le
comuni molle per il fuoco e la paletta per la cenere venivano disposte a forma di croce davanti alla casa come
difesa magico-religiosa contro la grandine. Ma al di là di
questo, più interessante, più utile e certo anche di maggior richiamo per il pubblico sarà presentare, al di là
degli oggetti, alcune delle attività lavorative di cui gli
attrezzi stessi sono i protagonisti. Si potrà pensare innanzitutto a proporre la partecipazione (come spettatori, ma
anche come collaboratori) ad attività connesse con la
domanda di alimenti naturali, come la macinazione dei
cereali in mulini di tipo tradizionale, la panificazione
domestica, la lavorazione dei formaggi; ma anche ad attività artigiane, in particolare in relazione alla possibilità
di acquistarne i prodotti (è il caso per esempio del lavoro
del cestaio, o quello della tessitura e del merletto). Non
mi sembra neppure irrealistico pensare, in casi come questi, alla possibilità di organizzare dei corsi nei quali l’artigiano insegni la propria tecnica in forma diretta.
100
E’ molto diffusa soprattutto in Francia, ma ve ne sono
degli esempi anche da noi, la tendenza a presentare o
ripresentare in ambito agrituristico – e quindi facendo
loro assumere almeno in parte il carattere di uno spettacolo – le principali scadenze dell’anno agricolo: la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia, la tosatura delle pecore e così via. Il carattere ciclico di queste scadenze avrebbe potenzialmente il vantaggio di creare un legame continuativo tra l’utenza agrituristica e l’azienda. Una spettacolarizzazione del lavoro tradizionale, dicevo: ma non si
potrà in questo caso ignorare che lo spettacolo ha propri
principi e proprie regole a cui è necessario attenersi, programmandone attentamente la regia, l’organizzazione
degli spazi, i tempi dell’azione. E’ abbastanza ovvio che in
molti casi si dovrà trattare di riproposizioni compiute a
hoc, di ricostruzioni di attività lavorative tradizionali: nel
curarle sarà perciò opportuno – sempre in nome di quella serietà di intenti e di procedimenti cui mi sembra
bene attenersi – usare alcune cautele che consentano di
evitare di proporre delle semplici finzioni, irritanti per
qualsiasi pubblico, che non può che percepirle come tali.
Ed è evidente che ho parlato di spettacolo in un senso
molto particolare: gli “attori” non vi sostengono una
parte, ma sono se stessi. Se mi è concesso rifarmi a una
esperienza personale, durante l’estate del ’98 nell’ambito
delle manifestazioni turistico-culturali in Val Tartano per
iniziativa di AREA, associazione per la ricerca etnoantropologica di cui faccio parte, un gruppo di ex-boscaioli ha
riproposto il taglio di un abete e le successive fasi della
lavorazione del tronco con le antiche tecniche manuali ed
i relativi strumenti. La manifestazione ha avuto, mi sembra di poter dire, un notevole successo: ma ha anche
suscitato delle critiche, critiche piuttosto sconcertanti,
ma su cui mi sembra doveroso soffermarsi.Varie persone
101
fra i villeggianti presenti ci hanno cioè chiesto, visibilmente scandalizzate, se non sarebbe stato più opportuno
da un punto di vista ecologico scegliere un albero secco,
invece di uno verde, e non contribuire così al depauperamento della natura della valle. Non è stato semplice spiegare a queste persone (e probabilmente non sono riuscito a convincerle) quello che i valligiani eredi della cultura tradizionale sanno benissimo: e cioè che gli alberi sono
una risorsa rinnovabile, e che solo rinnovandola – operando i tagli del legname secondo determinati principi –
è possibile conservare il bosco. Le stesse critiche ho sentito fare a proposito dell’addobbo delle vie del paese di
Cerveno, in Val Camonica, in occasione di una grandiosa
processione della Santa Croce, con rami verdi di abete.
Ho citato questi episodi, fra tanti analoghi, per sottolineare il fatto che tra il mondo agropastorale tradizionale
e il mondo delle città attuali si è creato un vero abisso culturale, che un certo tipo di ecologismo d'accatto non contribuisce certo a colmare. Va riconosciuto chiaramente,
mi pare, che la non-conoscenza della realtà agricole e
pastorali è totale, tanto da dar luogo a equivoci di volta in
volta grotteschi o disastrosi. Ho sentito con le mie orecchie dei visitatori di una azienda agrituristica del
Piacentino chiedere in tono scandalizzato se non sarebbe
stato più giusto usare il latte delle vacche per nutrire i
loro vitelli, invece che per fare il formaggio; un’altra persona deprecava in tono altrettanto scandalizzato che le
pecore venissero tosate, ignorando evidentemente che
nei nostri climi questi animali se non venissero tosati non
potrebbero sopravvivere. Un mio conoscente, la cui famiglia possiede in Val Camonica degli splendidi castagneti
ancora coltivati, mi diceva che ogni anno deve combattere con i turisti venuti dalla città che si riversano come
cavallette su quei terreni, per raccogliere le castagne, e
102
che reagiscono in malo modo perché sono convinti che le
castagne siano un frutto selvatico, su cui nessuno può
accampare diritti di proprietà. E un po’ dovunque il turista (spiace usare questo termine con connotazioni negative) tende a imporre a ciò che resta del mondo tradizionale la sua concezione ristretta e artificiosa della “natura”, di quella natura di cui va peraltro alla ricerca. A
Montecampione – un centro turistico della Valcamonica,
ai cui margini tuttavia le attività di allevamento al pascolo sono ancora molto vive – i villeggianti sono riusciti a
imporre all’amministrazione di tagliare con il tagliaerba
i prati tra i condomini, eliminando così la fastidiosa erba
e tenendo insieme lontane le temutissime vacche. Anche
i cani da pastore, che prima circolavano liberamente,
sono stati eliminati …
Tutto questo per dire che per mettere correttamente
e fattivamente in comunicazione la domanda turistica
con il mondo dell’agricoltura ho l’impressione che sia
necessario anche un notevole impegno sul piano dell’informazione, se non vogliamo ridurre questo mondo, o
ciò che ne resta, a una specie di vuoto fantoccio, a un puro
pretesto per vendere ricotte e passeggiate a cavallo.
103
Dalla fame all’abbondanza
Aspetti dell’alimentazione
popolare all’Ottocento al
Novecento nel Lecchese
di Massimo Pirovano
1. Il mangiare e il bere
quotidiani nell’800
1.1 Una monotonia impressionante
I primi scritti dell’inizio dell’Ottocento che danno ragguagli interessanti sulle produzioni agricole prevalenti e
sui consumi alimentari della nostra zona sono i saggi di
Tamassia (1806) e di De Capitani d’Hoè (1809-10). Il
primo dei due autori, viceprefetto mantovano a Lecco, ci
fornisce un quadro economico molto stringato del territorio lecchese e di quello valsassinese, dal quale tuttavia
emergono alcune annotazioni utili sui consumi popolari.
Parlando della zona di montagna, scrive testualmente: “Il
nutrimento del basso popolo si compone di castagne, di
frumentone nero, di miglio, di latte e di formaggio d’inferiore qualità.”(Tamassia: 204)
Il secondo, parroco di Viganò, nelle sue memorie sull’agricoltura briantea, pur elogiando la qualità delle verdure nostrane, aggiunge che: “I contadini, però, nelle cui
cucine non si conosce il nome di piatanza, e dove senza
cuoco alla francese od all’italiana si condisce a stento un
poco di minestra od un poco di polenta, non si immischiano molto nell’arte di coltivare e di abbellire gli
orti.”(De Capitani, 1809: 165) In generale egli afferma
104
che il granoturco “è divenuto il cibo de’ nostri contadini,
ed almeno tre quarti de’ Briantei sono mantenuti con
questo pane.” Ad esso si aggiungono occasionalmente
castagne, un po’ di vino e pochi formaggi di scarsa qualità
e valore nutritivo. Pressoché inesistente sulle tavole
popolari risulta essere la carne – compresa quella di
maiale, non ancora affermatasi come si riscontrerà più
tardi. I polli e i vitelli sono generalmente destinati al mercato, ma i nostri contadini, seppure privi di moltissimi
mezzi per vivere decentemente, “costumano di consumare molto latte pel proprio nutrimento”. Il De Capitani giudica, perciò, fin dalle prime pagine dei suoi scritti, la vita
delle popolazioni agricole briantee “economa e frugale”
a causa della povertà, indotta in primo luogo da una cattiva distribuzione della terra – spesso eccessiva per una
singola famiglia di coloni – e alla avidità dei proprietari
terrieri, che praticano varie forme di contratto a mezzadria o che richiedono l’affitto in frumento. Anche l’ignoranza, peraltro, fa la sua parte tanto che, ad esempio, le
patate “servono ad alimentare il pollame nell’invernata.”
(De Capitani, 1810: 136)
Ad una trentina di anni di distanza diverse notizie
utili sulla Brianza ci sono fornite dallo Spreafico. Il testo
è dedicato “all’agricultura e allo stato degli agricultori”
di questa zona dai confini incerti o mobili nelle varie epoche. L’autore parla di un popolo operoso e di “una delle
più belle contrade d’Europa” che aveva attratto, specialmente da Milano, una classe di possidenti che disponevano qui di molte ville signorili e soprattutto che deteneva
buona parte della terra coltivabile. Lo Spreafico infatti
insisteva a lungo sul fatto che era “minima in Brianza la
superficie posseduta dai contadini e massima quella che
appartiene alla classe più ricca.”
Ma prima di leggere che cosa lo studioso ci dice a pro105
posito dell’alimentazione dei contadini, è essenziale
seguirlo nella distinzione che egli fa nelle pagine introduttive tra le due classi principali di agricoltori della
nostra zona: quella dei pigionanti e quella dei massari. I
primi, via via più numerosi nel corso dell’Ottocento,
erano legati al proprietario da un contratto di affitto
quasi sempre a grano, molto oneroso per la famiglia
mononucleare dei contadini, che facevano quasi tutto il
lavoro a braccia; i secondi, invece, vivevano raccolti attorno al reggitore formando un gruppo di coppie con figli, che
possedendo aratro e buoi che consentiva loro di fare “più
largo e facile lavoro.” (Spreafico: 142) Senza entrare nel
merito dei diritti e dei doveri dei contraenti nei due tipi
di contratto più comuni nella Brianza di metà ‘800, risulta evidente dall’esame che lo studioso compie che i massari, se guidati da un reggitore capace, “vivono sempre
più agiati dei pigionanti”.
Circa l’alimentazione di questi coloni, che vengono
rappresentati come laboriosi, avvezzi agli stenti ma anche
inclini alla rassegnazione, leggiamo:
“I desiderj del contadino, per ciò che riguarda il vitto,
sono assai moderati, e riguàrdano più l’abbondanza che la
qualità. Egli è pago se non gli manca, mattina e sera, un
buon tozzo di pane di granoturco misto con sègale, o una
polenta di granoturco; a mezzogiorno una minestra di
riso, o di pasta di frumento con càvoli, rape, o legumi: i
suoi companàtici sono i produtti dell’orto, e alcuni latticinj; e l’olio, ed il lardo, e talvolta il butirro, sono i condimenti. Gli oggetti che còmpera sono sale, riso, pasta di
frumento e lardo; tutto il rimanente è frutto del suo
campo. La carne è riservata per le occasioni di nozze e di
malattìa, pel giorno di Natale, e presso molte famiglie
anche per la festa del paese. Durante i lavori più gravosi,
il contadino moltìplica i pasti, e mangia meglio, e spesso
106
beve anche vino, che gli viene rilasciato dal padrone, màssime negli anni d’abbondante vendemmia.” (Spreafico:
166-7)
Si noti per inciso, come si parli di alimenti più che non
di piatti, e, anche in tal caso, di forme di preparazione
assai poco elaborate: se ne ha la conferma che il cibo era
indirizzato a procurare la sopravvivenza e a soddisfare un
bisogno biologico, più che non a soddisfare un certo
gusto.
La produzione locale di vino, disponibile in Brianza in
grande quantità fino alla metà del secolo scorso, aveva
subito specialmente negli anni ‘60 i pesanti contraccolpi
dalla “malattia delle viti” causata dalla filossera.
L’importanza di questa bevanda nell’alimentazione popolare era notevole dato che poteva fornire un apporto di
zuccheri e quindi di calorie a buon mercato per svolgere
i lavori più pesanti. Della consapevolezza di ciò resta
testimonianza anche nel proverbio “ul vén el fa saanch,
l’aqua la fa tremà i gaamp” (il vino fa sangue, l’acqua fa
tremare le gambe).
1. 2 La salute precaria:
i rischi igienico sanitari
Va ricordato, peraltro, che il vino permetteva, almeno
nei giorni di festa, di dimenticare le fatiche e le frustrazioni di una vita misera per la maggior parte degli uomini. E’ noto infatti che l’alcool, inducendo un senso di
benessere, di allegria e di sonnolenza, può essere considerata come la più antica droga dell’umanità. Non a caso,
negli scritti ottocenteschi di taglio sociologico - come in
quello dello Spreafico - ricorre il rimprovero, segnato da
un moralismo più o meno pesante, per l’abitudine diffusa de ciapà la cióca (di ubriacarsi).
107
Torneremo, parlando del nostro secolo, a parlare del
vino e delle osterie, ma il quadro d’insieme sull’alimentazione dei lavoratori della terra fa emergere lo stato di
povertà della mensa dei contadini affittuari, sulla quale
prevaleva nei giorni comuni la polenta di mais. La coltura di questo cereale, assai redditizio, si era diffusa in
Lombardia nel ‘700 per il continuo aumento del prezzo
del grano (Braudel: 118). Ciò aveva indotto i proprietari a
richiedere al pigionante, nei nuovi contratti che si erano
andati sostituendo alla vecchia “masseria”, con la sua
divisione dei prodotti a metà, il pagamento dell’affitto
proprio in grano, inducendo il contadino a coltivare per
sé quasi solo il granoturco che, come vedremo ancora più
avanti, sembrava soddisfare meglio le esigenze alimentari della sua famiglia.
In un’altra testimonianza ottocentesca del 1865 redatta da Alessandro Tassani sulle condizione fisico-igieniche
della popolazione nella provincia di Como si descrive più
analiticamente la qualità dei cibi consumati. Il pane
risulta specialmente in campagna di cattiva qualità e
addirittura dannoso alla salute, sia perché preparato con
“frumento non abbastanza stagionato” o con farina di
granoturco e miglio di qualità scadente. Oltre ai difetti
degli ingredienti si aggiunge il modo della preparazione
a determinare la cattiva qualità:
“di solito lo si prepara settimanalmente in vari pezzi o
pagnotte del peso di circa una libbra, che si fanno cuocere in forni molto caldi, per modo che abbrustolendo di
fuori formano un’alta e dura crosta, senza raggiungere
nel mezzo il necessario grado di cottura: chè anzi pel successivo raffreddamento del forno, che avviene tanto più
rapidamente quanto maggiore è la parte acquea contenuta nell’impasto, la porzione centrale risulta molliccia,
appiccicaticcia ed umida.” (Tassani: 102-103)
108
Di conseguenza questi pani prendono un sapore acido
e amarognolo; facilmente cominciano ad ammuffire nel
giro di pochi giorni con le conseguenze che possiamo
immaginare.
Come ha scritto Della Peruta, “l’impiego massiccio del
mais si spiega anche con il fatto che ai contadini sembrava che quel tipo di alimentazione meglio valesse a placare gli stimoli di una fame a volte cronica; essi provavano
cioè la sensazione illusoria che ‘la polenta la contenta’,
come suonava il proverbio, che essa ‘riempiva assai’” e
ben di più di un pane ben cotto e più costoso che avrebbe lasciato spazio alla fame in un tempo più breve (Della
Peruta: 317). Tra i cibi a base di mais oltre ai pani misti e
alla polenta merita di essere ricordata la puult, una
polenta molle i cui ingredienti, oltre all’acqua e alla farina gialla, sono la farina bianca e il latte, usati però in proporzioni inferiori. Questo cibo, che ci riporta etimologicamente alla puls dei romani, si mangiava anche nelle famiglie più povere, come ci dice la storia di Settimino, l’ultimo nato di due genitori che, avendo troppe bocche da sfamare, decidono di abbandonarlo nel bosco (Pirovano:
127).
La parte finale della relazione del Tassani è tutta di
tipo medico e si diffonde con particolare attenzione sulle
malattie endemiche per individuarne le cause. Egli elenca le febbri intermittenti, la scrofola, il rachitismo, il
gozzo, il cretinismo e la pellagra. Tutte appaiono legate,
seppur in misura diversa, alle condizioni di miseria del
soggetto colpito, ma l’autore giudica che lo siano soprattutto la scrofola, favorita dai cattivi alimenti e il gozzo, in
relazione all’impurità dell’acqua bevuta (Tassani: 111
sgg.). Lo stesso autore scriveva infatti che “le sorgenti
d’acqua potabile, pura, leggiera, salubre, non sono nè
molto copiose nè equamente distribuite a norma dei biso109
gni della popolazione.”(103)
Ma è la pellagra il morbo che, colpendo soltanto la
parte più povera della popolazione, veniva chiamato con
l’appellativo comune di male della miseria. Tra i mandamenti particolarmente colpiti da questa malattia, dovuta
a carenza di vitamina PP, che desquama la pelle e induce
gravissimi disturbi nervosi (follia, suicidio), non a caso
c’erano le zone di Brivio, Missaglia e Oggiono, mentre
mancavano quelli delle valli di montagna della provincia
comasca dove il mais era meno importante nella dieta dei
contadini.
Possibilità economiche, usi alimentari e condizioni di
vita mostrano qui il loro stretto legame, in una epoca che
vedeva la durata media della esistenza in Lombardia
aggirarsi attorno ai 28 anni (Tassani: 109). Non sembra
azzardato, anche per questo dato, riferirsi ai molti testi
narrativi della tradizione orale in cui si muovono bambini e giovani protagonisti, orfani di uno o di entrambi i
genitori. L’assenza degli adulti, poi, nei mandamenti settentrionali a prevalenza montana, poteva dipendere dall’emigrazione che nel periodo unitario prese a crescere
enormemente, come affermava lo stesso Tassani.” (100)
negli anni in cui molti medici insistono sulla necessità di
considerare il cibo una “medicina”, ossia per i suoi effetti igienicosanitari.
1. 3 Contratti agricoli, livelli sociali
e regimi alimentari
Delle condizioni di vita e dell’alimentazione delle
popolazioni contadine di quegli anni nella nostra zona si
occupa anche la rassegna redatta nel 1878 dall’avvocato
Giovan Battista Negri, opera che si inserisce tra le iniziative collegate alla Inchiesta agraria e sulle condizioni della
110
classe agricola promossa nel 1877 dal Parlamento del
Regno d’Italia sotto la direzione di Stefano Jacini.
Il Negri, che con molta probabilità ha come punto di
vista privilegiato la zona di Casatenovo, nella Brianza collinare, riprende alcuni temi dello Spreafico, a distanza di
24 anni, e dichiara di conoscere gli abitanti delle colline
dell’alta Brianza per esperienza diretta. Così scrive: “In
genere (...) i nostri coloni sono laboriosi, economici nel
tempo, direi anche frugali se non si abbandonassero facilmente all’ubriachezza, la loro indole è tranquilla”. Dopo
di che ci ripropone la distinzione in mezzadri e fittaiuoli
che stanno accanto alla minoranza dei coltivatori proprietari; ma questa volta la diversità di condizione determinata dal tipo di contratto con i padroni dei terreni,
viene mostrata nei suoi riflessi su due differenti regimi
alimentari.
“L’alimentazione varia secondo lo stato delle famiglie
le quali potrebbero dividersi in due categorie. Quelle di
prima categoria mangiano anche carni, sia di manzo,
maiale e montone, e polleria, bevono vino, ed alle feste, e
nei giorni di mercato, vedonsi gli uomini, massime i così
detti capi, ossia reggitori, all’osteria ove bevono, fumano
e giuocano allegramente. Osservai poi una gran tendenza
massime nelle donne a far uso del caffè nero, ed anche
della cioccolata. Il nutrimento di quelle di seconda categoria consiste nella polenta, minestra, zuppa, pasta con
burro, o con olio, latte rappreso (detto in dialetto cagiada), patate, ed in generale la quantità è bastevole, e la
qualità è discreta”.(Negri: 25)
Interessante appare in particolare l’annotazione sul
caffè e sulla cioccolata come segni distintivi di benessere
economico e di un certo rango sociale, che si ritrovano
anche in qualche fiaba (Pirovano: 32), ma la ricognizione
del Negri giunge, una volta di più, a concludere che il con111
tadino mangia ancora abbastanza male, sia per la scarsa
disponibilità economica, sia per lo sperpero di denaro
fatto all’osteria, sia per l’incapacità di “allestire e condire vivande come lo richiedono l’economia, e l’igiene dell’arte culinaria.” Lo scritto, percorso da intenti scientifici
e divulgativi, a questo riguardo osserva in maniera autocritica che si è fatto troppo poco per far conoscere ai contadini i principi e le tecniche per preparare correttamente e cucinare i cibi di cui dispongono.
Possiamo quindi concludere questa rassegna sulla
Brianza di tutto l’Ottocento utilizzando le parole che
Franco Della Peruta riferisce alla Lombardia della prima
metà del secolo: “il bilancio nutritivo della grande maggioranza delle popolazioni lombarde era in maggiore o
minore misura carente dal punto di vista dell’apporto
calorico, proteico e vitaminico, donde una condizione di
sottoalimentazione diffusa che si ripercuoteva drammaticamente sulla mortalità e sulla morbillità” come dimostrarono le indagini sui moltissimi giovani non idonei al
servizio di leva obbligatorio introdotto con l’unità d’Italia
(Della Peruta: 313).
Un dato evidentissimo emerso fin qui è quello dell’incredibile monotonia nell’alimentazione della maggior
parte dei nostri antenati, che per la sua insufficienza non
riusciva a liberare dalla fame. Una fame feroce che dilatava il tempo nell’attesa del cibo e che arriva a ridurre le
facoltà umane, come dicono le espressioni gh’ó ‘na fam
che ghe védi piö (ho una fame che non vedo più), o gh’ó ‘na
fam de bèstia (ho una fame da bestia). Anche in questo
caso gli esempi tratti dalle fiabe potrebbero essere numerosi anche per la nostra zona, come per gli abitanti di un
paese poverissimo di alta collina costretti a mangiare
sempre castagne (Pirovano: 182 e 184), o come per quel
padre che, senza nulla da mangiare alla vigilia di Natale,
112
pensa di procurarsi un po’ di carne per sé e per la figlia
prendendolo da un cadavere.
Solo la festa consentiva di mangiare più e meglio del
solito, ma rappresentava l’eccezione. Il fabulatore non a
caso concludeva spesso la narrazione delle favole a lieto
fine con una battuta ironica e un po’ amara per gli ascoltatori: la formula pastén pastón/ n’àn vanzàa gna’n bucón
(pasto piccolo pasto grande/non ne hanno avanzato neanche un boccone) riconduceva gli ascoltatori dal banchetto della fiaba alla misera realtà quotidiana, segnata per i
più dall’indigenza (Pirovano: 80).
Occorre a questo punto fare almeno un accenno al
binomio alimentazione - arte della cucina che il Negri ci
ha appena ricordato: i poveri non possono permettersi di
mangiare decentemente e in più non sanno neppure preparare le vivande in maniera dieteticamente corretta e
appetitosa. Servirebbe un’educazione della coscienza
igienico alimentare e del gusto. In questa direzione si
incammina verso la fine del secolo Pellegrino Artusi, che
dà al suo manuale una coppia di titoli assai significativi:
La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, mostrando di
voler coniugare quelli che allora si sarebbero chiamati i
principi dell’igiene alimentare (il mangiare correttamente) con il buon gusto della gastronomia raffinata. Il libro
dell’Artusi svolse un compito storico di grande rilievo:
amalgamare almeno in cucina “l’eterogenea accozzaglia
di genti che solo formalmente si dichiaravano italiane.”
(Camporesi: 110) Ma il destinatario di quest’opera era
socialmente selezionato, visto che presupponeva il potere
di acquisto della famiglia medio-borghese. E presupponeva l’abilità e la disponibilità di tempo per cucinare i
piatti che venivano proposti.
Infatti “i cibi abituali per le famiglie più modeste
sono, per necessità di cose, di rapida preparazione e di
113
rapida cottura. La madre di famiglia e reggente della
casa “la resgiora’, occupata fra le cure domestiche, il pollaio, la preparazione dei “formaggi” e in passato anche
del burro, non può dedicare tanto tempo alla cucina, e le
giovani che vanno in filanda o in fabbrica arrivano a casa
quando l’unico pasto importante della giornata, quello di
mezzogiorno, è già pronto.” (Perna Pozzi: 128) Il manuale
dell’Artusi dunque non poteva che rivolgersi a proprietari terrieri, imprenditori e professionisti, ignorando il problema dell’alimentazione delle classi popolari.
Per venire alla Lombardia, tuttavia, l’impegno per una
sorta di alfabetizzazione alimentare e gastronomica era
già presente almeno dall’Ottocento grazie agli almanacchi popolari che fornivano cognizioni pratiche di vita
rurale e domestica, e che circolavano, come pochissime
altre pubblicazioni, alle case dei contadini: periodici che
si intitolavano, ad esempio, Servo a tutti o La serva cuciniera e credenziera.
2. L’accelerazione del ‘900:
“e oggi è sempre festa!”
2.1 La continuità
dei primi cinquant’anni
Per avvicinarci al Novecento, Stefano Samogyi, nel
suo saggio sull’alimentazione nell’Italia unita, ricorda
due ricerche che si collocano tra la fine del secolo e il
1910 interessanti anche per noi: in linea generale i sondaggi condotti in alcuni punti d’Italia ribadiscono per il
nord che gran parte della spesa per gli alimenti nelle
famiglie povere serve per l’acquisto di cereali. In particolare a proposito di Milano il Memmo (1894) giunge a con114
cludere che “nel popolo la carne non rappresenta il cibo
principale; per il loro basso prezzo vengono usate le carni
ovine ed il tubo intestinale delle vacche; il pesce entra
poco nell’alimentazione, e comunque tutt’al più sotto
forma di merluzzo salato; poco vi entrano le uova, abbondante invece il latte. L’alimento più diffuso però è il
mais.” Come si vede siamo molto vicini alle descrizioni
già sentite. Sui consumi popolari veniamo però a sapere
qualcosa di nuovo e che ci ricorda molto da vicine un piatto povero della tradizione, molto conosciuto ancora oggi,
che è la büséca (la trippa).
Vediamo che le interviste condotte in questi ultimi
anni nella nostra zona a persone che ci parlano degli anni
’20- ’30 si inseriscono con le loro indicazioni nel solco dei
dati rilevati dal Memmo, anche se, naturalmente, il livello di vita e le condizioni alimentari delle famiglie popolari dipendevano molto dal numero di figli, dalle braccia
disponibili, dalla quantità di terra lavorata (o posseduta).
Carolina Stefanoni, operaia di filanda e contadina
nata a Suello nel 1907, parla delle enormi difficoltà
incontrate a crescere, con il marito, i sette figli, dopo il
matrimonio avvenuto nel 1932, quando non si aveva gnànca ‘n fràanch e vivévum a pulenta (neanche una lira e vivevamo di polenta). Questi contadini a mezzadria, anche
per i prodotti dell’orto e del giardino, erano costretti a
cercare di sopravvivere con la caccia e la pesca lungo le
rive del lago di Annone, lavorando giorno e notte.
Ugo Colombo, contadino nato nel 1910 a Dolzago,
divenuto poi operaio in tessitura, alla domanda “che cosa
mangiavate più spesso?” riferendosi agli anni della sua
giovinezza, risponde “polenta, fichi secchi, saràch (aringhe secche) e formaggini”. Il latte veniva destinato ai
vitelli che si allevavano per la vendita. La carne che si
consumava veniva acquistata per la domenica, quando si
115
mangiava ul pucén (lo spezzatino) in umido con cipolle e
patate. Il pesce lo si comperava solo al venerdì al mercato di Oggiono e si trattava sempre di merluzzo. Quindi come si diceva per la Milano di fine ‘800 - pesce di mare,
non fresco.
Maria Panzeri, contadina ed operaia nata nel 1912 a
Cereda di Perego, figlia di contadini che avevano cinque
figli e 100 pertiche di terra in affitto, parlando della stessa epoca dice che una volta non si mangiava tanto bene,
ma la famiglia doveva avere un discreto livello di vita se
anche la figlia femmina era arrivata alla quarta elementare e se la madre era rimasta a lavorare in casa dopo il
matrimonio. Anche qui, però, la carne si mangiava ala
fésta, per få ul stüaa (il brasato) o ul lès (il bollito) o la
cazzöla (la verzata) in inverno, e veniva acquistata, dato
che i vitelli allevati dal contadino, dovevano essere venduti per pagare l’affitto.
Nelle feste speciali si uccideva qualche gallina e la
fàvem a la grånda (si mangiava alla grande) perché si
poteva usare anche un brodo vero. Quasi esclusivamente
il maiale veniva allevato per il consumo familiare: lo si
ammazzava in inverno, per farne insaccati (cudeghét,
salåm) e condimento. La campagna dava frumento, granoturco, frutta, e l’orto forniva verdura e legumi, come i
fagioli e i piselli.
In negozio si comperavano principalmente zucchero,
caffè, stracchino, formaggio, olio di semi di lino, pasta e
riso. Il pane bianco si era diffuso, ma c’erano ancora delle
famiglie contadine che avevano il forno e, ancora negli
anni tra le due guerre mondiali, facevano ul pan giaalt e
ul pàn de mèi (pane con due terzi di farina di granoturco
e un terzo di segale) (Bassani: 59).
A colazione si mangiava zuppa o latte, ma questa possibile alternativa dipendeva dal fatto non comune che
116
nella famiglia di cui stiamo parlando si allevavano quàter
bésti (quattro mucche).
Il caso di Carlo Bartesaghi, nato nel 1928 a Annone
ultimo di cinque fratelli, contadino da ragazzo e poi operaio e autista, è interessante perché ci porta avanti di una
quindicina di anni, tra gli anni del fascismo e il secondo
dopoguerra. Anche in questa famiglia si allevavano quattro mucche e si ammazzava il maiale d’inverno. Si coltivavano il frumento da dare al prestinaio per avere il pane
bianco, e il granoturco per la polenta che continuava ad
avere una parte essenziale nell’alimentazione quotidiana, come le patate. La famiglia di cui stiamo parlando
doveva essere più povera di quella di Maria Panzeri, se la
madre era costretta a lavorare in filanda oltre che in casa.
La terra si coltivava con la vanga. Eppure, ascoltando
ancora la testimonianza di Carlo Bartesaghi, capiamo
che, negli anni compresi tra le due guerre, ul pucén, cioè
il piatto di carne povera in umido, generalmente di maiale, con il passare del tempo era sconfinato dalle sole occasioni festive anche ai giorni di lavoro, seppure come unico
elemento del pranzo. Se ci spostiamo in Valsassina, la
situazione in una famiglia di boscaioli con sei figli appare anche più precaria. Giuseppe Devizzi ricorda di avere
lavorato come famèi, cioè come custode delle bestie presso una casa di contadini con 4 o 5 vacche: il vitto per il
garzone di dodici anni era fatto di polenta al mattino e a
metà giornata, e di minestra alla sera. Più in particolare,
i granéi del mattino consistevano di una polenta impastata con un po’ di taleggio e di latte, in modo che la colazione fosse meno difficile da ingerire. La sera c’era da
sperare che fosse rimasta della polenta dai pasti precedenti, in modo da potere aumentare la consistenza della
minestra. Ad altezze superiori, come nel caso di Premana,
i cereali ricorrenti erano la segale, l’orzo, il grano sarace117
no, cui si affiancavano le patate e le castagne. Rape e
cavoli erano gli ortaggi più comuni, come nella Brianza
del primo Ottocento (De Capitani, 1809: 165). Il modesto
apporto di carne derivava in genere dal maiale, che integrava una dieta imperniata sui prodotti di origine vegetale o su quelli lattiero caseari. In montagna, infatti, questi ultimi componenti risultavano più comuni nella dieta
popolare, rispetto a ciò che accadeva in altre zone del
nostro territorio, in virtù di una presenza più significativa dell’allevamento bovino e ovicaprino (Sordi). Le differenze sociali, in ogni caso, rimanevano molto evidenti nei
vari contesti. Ancora negli anni ‘30, nella famiglia di un
pescatore che fungeva da uomo di fiducia del più grande
padrone del lago di Annone, ad esempio, si cacciavano gli
uccelli acquatici dalla barca. Era una caccia riservata ai
pochissimi che avevano il diritto di navigare e che potevano pagarsi fucile e cartucce; in questo caso addirittura
si usava la spingarda, una specie di cannoncino che sparava una rosa di pallini per un diametro di 2/4 metri
anche a 120 metri di distanza. Dopo la caccia, come ricorda Sandro Pellegatta, al padrone che viveva a Milano si
portavano valigie piene di anitre pregiate “e nöm i me
fàven maià i fùlech ch’i sentéven de pès” (e a noi toccava
mangiare le folaghe, che sapevano di pesce). Ma anche il
pesce fresco di lago non era un consumo alla portata di
tutti, come dimostrano moltissime interviste che si riferiscono al consumo popolare del pesce, quasi sempre di
mare e conservato. In città il dato non sorprende, ma per
i paesi del nostro territorio bisogna considerare il fatto
che i laghi briantei erano privati fino agli anni ‘30 e da
secoli soggetti ad uno sfruttamento esclusivo. Fino alla
seconda guerra mondiale era molto diffusa la pesca di
frodo. Sappiamo che tra il 1888 e il 1906 ci furono 44 condanne in giudizio ai danni dei bracconieri attivi sul lago
118
di Annone. In occasione di un processo del 1906, era stato
sostenuta da un imputato la legittimità della pesca con la
canna dalla riva per uso civico e per uso pubblico, ma una
sentenza di tre anni dopo aveva negato questo diritto che
- sostenevano i proprietari - non era “mai esistito nella
realtà” (Stato di consistenza …: 11-12). Nonostante ciò tra
il 1908 e il 1928 le condanne per pesca di frodo a persone
che si sottraevano al pagamento delle licenze ai proprietari del lago salirono a 82.
Ritornando al nostro tema, anche se le cose andavano
un po’ meglio che nell’800, le abitudini alimentari nel
loro complesso non si scostavano molto dal quadro delineato in precedenza: secondo un piccolo sondaggio condotto nella nostra zona su 32 persone nate tra il 1900 ed
il 1933 (che ci danno notizie sugli anni 1910/50), provenienti per la quasi totalità da famiglie contadine o operaie, tutti citano tra i cibi abituali della loro gioventù le
minestre e le zuppe, il 90% la polenta e meno del 20%
ricorda della carne che non sia di maiale. La minestra,
onnipresente a cena e spesso consumata anche a colazione nelle case contadine fino all’ultima guerra, continuava ad essere considerata la biada de l’òm (la biada dell’uomo). Questa monotonia nella dieta si accompagnava
ad una alimentazione ancora più povera nelle famiglie
degli operai salariati che non avevano prodotti del
campo, dell’orto e della vigna, che non disponevano di
prodotti animali della stalla e del cortile che erano con
maggior frequenza alla portata dei contadini.
2. 2 L’eccezione festiva
e la potenza del cibo
In ambiente popolare il pranzo con varie portate,
come lo intendiamo oggi, era quasi esclusivamente quel119
lo di Natale, con i salumi, con il risotto, i capponi allevati
per la festa dell’anno, con il pane bianco a volontà, con la
frutta, il dolce, il caffè.
La pesante distinzione tra cibi di tutti i giorni presso i
ceti più modesti e presso i ricchi durerà fino agli anni del
cosiddetto “boom economico”. Da quel momento il fenomeno di lunghissima durata secondo cui la preparazione
e gli alimenti quotidiani delle classi superiori costituiscono spesso i cibi festivi delle classi inferiori si attenuerà di molto.
Sarebbe interessante studiare meglio tempi e modi
della penetrazione della cultura alimentare (gusti, ricette, valori simbolici) dei ceti privilegiati nelle abitudini
popolari, lungo questo secolo: oltre che attraverso le pagine delle pubblicazioni che abbiamo ricordato, attraverso
figure sociali come quelle delle cuoche, delle balie, delle
domestiche che fungevano da mediatrici tra due mondi e
anche tra due modi di mangiare. Senza dimenticare il
ruolo degli alberghi e delle trattorie della nostra zona,
dove volentieri soggiornavano per il pranzo le famiglie
milanesi durante la villeggiatura, e quello delle osterie
che specie nei giorni di mercato ospitavano gli artigiani,
i commercianti, e quei contadini benestanti ritratti dai
nostri testimoni ottocenteschi.
La festa rappresenta il tempo di opposizione al tempo
della vita quotidiana. Di solito - come abbiamo visto - si
lavora, si patisce la fame o comunque si vive nella scarsità
e nella parsimonia; alla festa, invece, non si lavora, si
mangia e si beve in maniera eccezionale E’ il tempo delle
spese e perfino dello spreco. Anche l’abbigliamento, ul
vestìi de la fésta, manifesta questo stacco e questa diversità, come gli oggetti d’uso (ad esempio le stoviglie) e i
locali della casa per la festa trasformati, o ad essa specificamente deputati (Burke: 174 sgg.).
120
Anche i luoghi, i modi, gli strumenti, gli oggetti legati
all’alimentazione, come gli ingredienti e le ricette, risentono dell’opposizione tra il tempo del lavoro e il tempo
festivo. Nelle società contadine, naturalmente, il periodo
dell’anno in cui si concentrava il maggior numero di feste
era quello invernale e la festa certamente più significativa da noi, anche dal punto di vista dell’eccezionalità alimentare, era il Natale.
Dei pranzi natalizi ci parla un canto registrato a
Oggiono ed eseguito da Vitalina Amati:
O tusàn el vée Natàal/ per la fésta in generàal/ puliröö el
me da ul pulén (il tacchino)/ per la nòc che nas ul Bambén/
ul prestinée ‘l me da ‘l panetón/ per la nòc che nas ul
Bambén/ e ‘l circulèt ‘l me da ul vén/ per la nòc che nas ul
Bambén/ a la matìna un bèl büsechén (la trippa)/ e al
mesdée un bèl risutén/ e a la sira ‘n bèl cafetén/ e ala matìna gh’èm vöi ul burzén (il borsellino).
E’ un canto che evidentemente non viene da un
ambiente contadino, data l’insistenza sugli acquisti.
L’ultimo verso però allude ad una spesa straordinaria, per
un pranzo straordinario. La donna che l’ha cantata riferendosi alla sua famiglia negli anni ‘20-’30, una famiglia
di osti, certo non tra le più povere, raccontava che il consumo della carne era riservata a pochissime feste e
soprattutto al Natale. Sia quella della trippa, che abbiamo incontrato in varie testimonianze e che si mangiava al
ritorno della messa di mezzanotte, sia del cappone e di
altri animali da cortile allevati per l’occasione. Ma anche
il risotto citato nel canto era un cibo che distingueva il
pasto festivo in Brianza.
Storici della letteratura come Camporesi o folkloristi
come Propp individuano negli alimenti consumati
(soprattutto di quelli festivi, che erano scelti in misura
ben maggiore di quelli quotidiani) dei significati che tra121
scendono il valore meramente alimentare. Scrive
Vladimir Ja. Propp (69): “il cibo a volte non era soltanto
un mezzo per nutrirsi ma anche un procedimento per rendere partecipi se stessi e la propria economia familiare
delle forze e delle potenzialità che si attribuivano ai piatti mangiati.”
Per interpretare il senso di scelte alimentari compiute
da tradizioni spesso plurisecolari, si tratta anche di andare al di là - seppure con prudenza - di quanto i testimoni
esprimono consapevolmente, distinguendo il livello delle
conoscenze esplicitate da quello suggerito agli studiosi
dalle comparazioni con altre società ed altre epoche. Non
è detto, infatti, che per l’antropologo come per lo storico
la prospettiva dell’informatore, della “fonte”, sia la sola
utile a comprenderne la cultura.
In effetti capita spesso che alla domanda “perché
mangiavate il risotto?” ci si senta rispondere con un’affermazione sostanzialmente tautologica: “perché era il
piatto della festa, perché lo mangiavamo a Natale...” Ma
il problema è di capire perché proprio quell’ingrediente o
quel piatto.
Secondo Propp il chicco non frantumato, come appunto il riso, o il seme di cereale “ha la proprietà di conservare a lungo la vita e di riprodurla, moltiplicandola. Il
noto circolo continuo seme-pianta-seme testimonia l’eternità della vita. Gli uomini, mangiando semi, divengono
partecipi di questo processo. Al chicco o al seme corrisponde, secondo la mentalità contadina, l’uovo del
mondo animale il quale ha la stessa sorprendente capacità di conservare, contenere la vita e di riprodurla.”
(Propp: 47)
Perciò non solo ai cibi natalizi, e del ciclo invernale in
genere, ma anche all’uovo, cibo pasquale per eccellenza,
può essere attribuito lo stesso significato rituale. Le uova
122
sode che si mangiavano a Pasqua o il lunedì dell’Angelo,
già menzionate dalle inchiesta napoleoniche del 1811 sul
Dipartimento del Lario (Tassoni: 175), potevano valere
come buon auspicio per la rinascita della natura: è evidente il legame tra il motivo cristiano della risurrezione
pasquale, la fertilità dei campi, la fecondità e l’abbondanza presso il gruppo umano che ciclicamente ripete il
rito. E’ facile pensare a questo punto anche all’usanza,
ormai diffusa in tutta Italia, di cenare con le lenticchie
nel passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo .
Per tornare ai cereali, alle loro farine e, anche qui, alle
uova, per non dire del lievito, che sono accomunati dal
potere di crescere o di far crescere, è impossibile non parlare delle torte e dei dolci. I dolci erano un altro cibo
rarissimo sulla tavola dei contadini e degli operai. Insoliti
sia perché richiedevano l’acquisto dello zucchero, sia per
il genere dei loro sapori, sia per il loro valore energetico,
ma anche per la concentrazione di quei poteri simbolici
di cui abbiamo detto ora. Non a caso erano considerati
cibi per i bambini, non a caso si portavano e ancora si portano ai malati, in segno di augurio per una rinnovata vitalità. Tra i cibi popolari legati alle feste, vari testimoni
(come Ida Redaelli o Franco Pirovano) ricordano della
loro infanzia la frutta che i re magi portavano in regalo ai
bambini: una mela, un’arancia, nocciole, noci, arachidi.
La fecondità che i frutti con molti semi, come l’arancia e
la stessa mela, portano in sé è stata sottolineata fin dall’antichità. Il significato propiziatorio della frutta secca
sembra confermata dal proverbio brianzolo pan e nùus/
mangià de spùus (pane e noci/ cibo da sposi), che interpretato alla lettera risulta poco persuasivo. Ad esso merita di essere accostato il motivo di una fiaba raccolta da
una donna di Annone, nella quale noce, nocciola e arachide appaiono come doni magici che consentono alla
123
protagonista di sposare il re (Pirovano: 29 sgg.).
Anche nelle forme di dolci e pani che alludono ai sessi
si è vista una simbologia propiziatoria intesa a provocare
la fecondità e la vita; ma anche la carne di maiale, sempre più alla portata delle classi popolari, risultava essere
una carne che - sotto forma di insaccati e di grassi per
condimento - “dura” nel tempo, e che garantisce per
molti mesi il suo apporto di calorie alla famiglia contadina.
Per questo motivo essa è segno non solo simbolico di
un benessere che si prolunga oltre il pranzo eccezionale,
oltre il pranzo festivo.
Un discorso per certi versi analogo a quello della
carne di maiale si potrebbe fare per le castagne che,
essiccate, si conservavano per tutto l’inverno, dopo essere
state consumate, appena raccolte, in autunno: anche questo alimento, particolarmente importante tra i cibi delle
zone di alta collina e di montagna, ritorna tra i cibi rituali legati in particolare alla festa dei morti.
In tutta la Brianza, poi, venivano mangiate, lessate, la
sera del giorno dei Santi e venivano destinate come cibo
rituale ai morti che di notte sarebbero tornati nella loro
casa (Perna Pozzi: 62, ma anche De Gubernatis: 109) per
mangiarle. Con questa intenzione venivano lasciate con
una caraffa di acqua sul tavolo della cucina.
Anche il consumo del vino in osteria era un’abitudine
festiva. Non tutti però potevano permettersi di andarci
spesso e il contadino beveva generalmente il vino della
vigna che lui stesso coltivava.
Ubriacarsi all’osteria era ancora una circostanza diffusissima tra le due guerre fino agli anni ‘60, quando la
diffusione delle moto e delle automobili, le accresciute
possibilità di svago lontano dal paese, portarono sempre
meno persone a frequentare le osterie che, numerosissi124
me fino ad allora, furono progressivamente messe in crisi
e si trasformarono in bar o chiusero.
2. 3 La svolta del ‘boom economico’
Oggi anche il Lecchese è una zona prevalentemente
industrializzata o segnata da una crescente presenza del
settore terziario che, come il resto dell’Italia, ha visto nell’ultimo secolo moltiplicarsi le occasioni e i flussi dell’emigrazione interna, soprattutto dopo la seconda guerra
mondiale.
In questa sede non ci siamo occupati delle tradizioni
alimentari di altre regioni, che si incontrano intervistando persone originarie specialmente del sud, che vivono
da tempo nella nostra zona. Ad esse si dovrebbe dare uno
spazio adeguato in un’analisi storica più approfondita
dell’evoluzione sociale e culturale nel nostro territorio.
Tradizioni che risalgono in molti casi alla matrice latina,
diversamente dalla nostra, segnata in misura maggiore
dagli usi economici ed alimentari delle popolazioni germaniche. Basti pensare all’importanza dei legumi, dei formaggi ovini, dell’olio d’oliva al centro sud, da un lato, e
alla maggiore confidenza con il lardo e il burro che si
riscontra al nord. Ancora nel Novecento, del resto, la
pasta e il riso rappresentano segni distintivi a tutti noti di
tradizioni differenti, ma via via più sfumate: oggi la pasta
è diventata normale sulle tavole dell’Italia settentrionale
mentre il riso è sconfinato al sud dalle regioni di produzione.
In questo senso la crescita dell’industria alimentare e
l’emigrazione interna hanno avuto un peso determinante
nel cambiare tradizioni secolari, avvicinando culture
estremamente lontane fino al secolo scorso. Anche gli
spostamenti dovuti alla diffusione del turismo hanno
comportato un rimescolamento di abitudini nel mangia125
re, che nei secoli scorsi erano più facilmente localizzabili
nelle varie regioni geografiche.
Al di là dei vagheggiamenti del buon tempo andato,
ricchi di nostalgia ma non di conoscenza storica, è bene
riaffermare che oggi si mangia e si beve mediamente
molto meglio che in qualunque epoca del passato.
Peraltro l’uso di concimi, diserbanti e ormoni nell’agricoltura o nell’allevamento fa sì che grande disponibilità alimentare si traduca nelle insidie sulla qualità di
quello che si mangia.
Oggi poi ci si è ridotti quasi tutti al ruolo di “consumatori” di prodotti alimentari, diversamente da quanto
accadeva ancora cinquant’anni fa. Si consumano quotidianamente cibi di produzione industriale, si acquistano
alimenti in scatola e surgelati, si vive in un sistema di
distribuzione che fa arrivare da tutti i continenti cibi esotici, estranei alle tradizioni alimentari locali e nazionali.
Scegliamo cosa mangiare seguendo più le sollecitazioni
che ci vengono dalla pubblicità, e le suggestioni delle
mode anche alimentari, mentre abbiamo quasi tutti
dimenticato i ritmi della produzione legata alle stagioni
e alla produzione, del resto ormai divenuta marginale, dei
luoghi in cui viviamo, ignorando quella che Camporesi
chiama la “sapiente alternanza” che i frutti della terra ci
offrono nelle varie parti dell’anno.
Ci preoccupiamo delle diete ma soprattutto del nostro
aspetto fisico, e in primo luogo della linea, dando per
scontato che le nostre scelte alimentari possano essere
fatte indipendentemente dai bisogni elementari di
sopravvivenza che riguardano ormai altri popoli e altre
regioni della terra (Lurati).
Ha scritto uno storico di fama, parlando del proprio
rapporto con il tema del cibo: “Medievalista, apro il mio
schedario: alla voce “alimentazione” le schede più nume126
rose sono sotto l’etichetta “carestia”.
Cittadino di oggi, apro il mio giornale: “La carestia nel
Sahel...” (Le Goff: 6). Ma, come abbiamo visto, i tempi
della fame e della miseria hanno superato i secoli e allo
storico fa eco Ida Redaelli, contadina ed operaia di filanda della Brianza, quando assicurava che ancora nel nostro
secolo “ul Terzo Mondo sévem nögn” (il Terzo Mondo eravamo noi, era qui).
127
Riferimenti bibliografici
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Brianza in “Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia”,VI, 1810.
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1890 (rist. Forni, Bologna 1985).
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Restaurazione, in “Studi storici”, 2, 1975.
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Tipografica dell’Orfanatrofio, Lecco 1929.
128
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Spreafico F., Alcune notizie intorno all’agricultura e allo stato degli agricultori nella Brianza, in “Il Politecnico”, vol.VII, 1844.
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Ferrario e C., Milano 1806; ora in “Archivi di Lecco”, 1, 1984.
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1907), Giuseppe Devizzi di Cremeno (n. 1928), Sandro Pellegatta di
Oggiono (n. 1918),Vitalina Amati di Oggiono (1902-80), a Ida Redaelli
di Oggiono (1894-1993), Franco Pirovano di Barzanò (1927-1977).
Interviste di Laura Colombo a Ugo Colombo di Dolzago (n. 1910), di
Marco Corti a Maria Panzeri di Perego (n. 1912), di Marco Milani a
Carlo Bartesaghi di Annone (n. 1928), di Orietta Fumagalli ad
Adelaide Molteni di Sirone (n.1910).
129
Folklore e forme espressive
popolari nel territorio
lecchese
di Massimo Pirovano
1. Dal “folklore” dei romantici alla
“cultura” degli antropologi
Si parla spesso di folklore, ma difficilmente lo si fa in
maniera appropriata o consapevole. Il termine nasce in
Inghilterra nel 1846, ad opera di un archeologo, J.William
Thoms, per indicare l’ambito di studio che in precedenza
veniva contrassegnato dalla formula antiquitates vulgares.
Letteralmente la parola significa ‘conoscenze del popolo’
e traduceva probabilmente l’espressione tedesca
Volkskunde, già in uso dall’inizio del secolo in Germania.
Per gli intellettuali dell’epoca il folklore comprendeva le
credenze, le tradizioni e i costumi di un gruppo sociale, di
un popolo, ivi compresi la narrativa, i canti, i proverbi, i
giochi, le feste, i riti. Il primo nome di studiosi di folklore
attivi in quella fase pionieristica a tutti noto è quello dei
fratelli Grimm, impegnati a raccogliere le fiabe della tradizione tedesca, che furono pubblicate a partire dal 1812.
E’ interessante ricordare con quale atteggiamento i
Grimm raccogliessero i documenti della cosiddetta poesia popolare: essi la ritenevano anonima, impersonale,
semplice, collettiva, di origine essenzialmente divina,
capace di compendiare e di esprimere le aspirazioni di un
popolo, ovvero di una comunità nazionale (Cocchiara:
245). Questi orientamenti, visti nel contesto storico del
periodo napoleonico o della restaurazione, manifestano
130
in maniera evidente anche un risvolto politico: si cercava
nelle tradizioni del popolo il fondamento di una unità culturale, che fosse anche nazionale per divenire unità di
uno Stato. D’altra parte quelle definizioni della poesia
popolare caratterizzeranno gli interessi e la riflessione un
po’ di tutto il movimento ed il periodo romantico.
In seguito, in un clima culturale segnato dalla diffusione dell’evoluzionismo e del positivismo, si svilupparono le scienze etnologiche ed antropologiche, attraverso
studi dedicati generalmente a popolazioni extraeuropee.
Accadde, quindi, che anche le indagini sul folklore tendessero a dilatare il loro orizzonte di studi nel senso dell'etnografia: seppure concentrandosi su quelli che si definivano i volghi (del nostro continente), visti in qualche
modo come ‘selvaggi’ locali, si cominciarono a considerare, accanto alla letteratura e alle credenze di questi ceti,
la loro organizzazione sociale, le loro attività produttive,
sia sul piano economico sia sul piano tecnologico, ma
anche la lingua, i comportamenti rituali, i costumi morali e così via.
Per dare il senso di questo allargamento di prospettive di ricerca, possiamo ricordare la classica definizione di
“cultura” elaborata dall’antropologo britannico Edward
Burnett Tylor nel 1871, che influenzerà progressivamente
la coscienza e l’attività dei folkloristi e degli studiosi di
tradizioni popolari:
“Cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume
e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo
come membro di una società.” (Rossi: 7)
Dunque tutto ciò che si impara almeno dalla nascita,
in quanto membri di una società, è parte della cultura
antropologicamente intesa. Se in passato, e ancora in una
131
accezione odierna, la cultura è pensata come il frutto di
una istruzione che si giova prevalentemente della lettura
di autori classici, secondo il modello umanistico, qui
siamo di fronte alla riconosciuta dignità di ogni abilità, di
ogni competenza e di ogni conoscenza tramandata, con i
mezzi più diversi, all’interno di un gruppo. Si pensi, ad
esempio, alla semina o alla mietitura, al cucinare o al
riparare un abito, al cantare o al raccontare, al pregare o
al decorare, ma anche un rastrello, una rete, un canto, una
filastrocca, un’orazione, un gioco, o un rito: attività, tecniche, credenze, e gli stessi prodotti, materiali e immateriali, di quelle attività fanno parte di una cultura, scientificamente intesa, in quanto elementi di un processo
comunicativo che passa da un individuo a un gruppo, e
viceversa, da una generazione a quella successiva.
Quello però che distingue la tradizione folklorica ed
etnografica rispetto alla tradizione alta, dell’accademia,
della scienza, della cultura delle élites sono gli strumenti
e le modalità di trasmissione del sapere. Se nella cultura
‘alta’ il libro e la scrittura hanno un ruolo predominante,
nella cultura ‘bassa’ sono la voce e l’immagine a farla da
padroni; la tradizione popolare viaggia con la comunicazione orale e con l’esemplificazione pratica, che mirano a
sollecitare l'imitazione, specialmente da parte delle generazioni più giovani.
2. “Popolo” e “popolare”,
nozioni ambigue
La pluralità di significati impliciti nel concetto di
folklore, oltre a dipendere dalla vastità e dall'articolazione di una simile gamma di espressioni culturali, si connette alla difficoltà di precisare cosa si debba intendere
132
con "popolare", ed ancor prima con il relativo sostantivo.
Nell’espressione “il popolo italiano”, ad esempio, si vuole
far riferimento di solito alla totalità dei cittadini italiani,
senza distinzione sociale, economica, culturale. Anche
nella frase “quel cantante è stato uno dei maggiori autori della musica popolare dei nostri giorni” vogliamo
intendere che le sue canzoni sono state e continuano ad
essere cantate un po’ da tutti noi, a prescindere dai vari
orientamenti ideologici e dalle diverse condizioni economiche o sociali. Affermare che la coca cola è una bevanda popolare, almeno nei paesi industrializzati, significa
sostenere che essa appartiene ai consumi di massa.
Ma se a parlare di “popolo” sono i sociologi, gli storici, gli antropologi, che si interessano alle varietà culturali che convivono dentro una stessa nazione ed una stessa
società, le cose si complicano un po’. Possono usare quel
sostantivo e quell’aggettivo in senso generale - come fa la
lingua inglese quando usa il termine popular, da cui deriva pop - ma possono dare loro anche significati sociologicamente parziali, “di classe”. Qui, in effetti con il termine "popolo" vogliamo indicare quei ceti che in un certa
epoca storica sono risultati economicamente e politicamente subalterni, o comunque esclusi dall'esercizio del
potere e dalla cultura "alta". E’ proprio per distinguere
queste classi popolari, questo significato di “popolare”
dal precedente, che l’inglese utilizza il termine folk. Gli
etnografi e i folkloristi, in effetti, si interessano a contadini, boscaioli, pastori, pescatori, minatori, artigiani, operai ecc., come portatori di attività, di conoscenze, di usanze, di credenze, di prodotti artistici, propri o accolti da
altri contesti culturali, anche socialmente ‘alti’. A partire
da ciò si capisce perché si debba parlare più propriamente di culture popolari (Propp 1975) e di espressioni folkloriche, al plurale, che per molti aspetti si legano ad un
133
territorio geografico ed economico specifico.
Oggi, in una società caratterizzata dal diffondersi di
una cultura di massa, quando si parla di folklore, ci si riferisce quasi sempre a fenomeni in declino, a "sopravvivenze" di altre epoche (magari conservate solo nella
memoria), o a tradizioni riprese di recente, magari proprio per riaffermare un'identità collettiva contro la generale massificazione.
In qualche caso il fatto folklorico viene addirittura
sostituito con la manifestazione di tipo folkloristico, in cui
i protagonisti agiscono non più per se stessi ma per esibirsi: viene così meno la funzione originaria di un'usanza
o se ne crea artificialmente una del tutta nuova come, ad
esempio, una promozione commerciale, turistica o un
intervento di animazione sociale (si pensi alle sagre alimentari o al palio dei rioni, che avevano preso piede alcuni anni fa).
3. Tra i documenti
della comunicazione
In questa rapida rassegna dedicata ad alcune forme
della espressività popolare, in particolare del nostro territorio, ci concentreremo sul canto e sulle storie della narrativa tradizionale, che potremmo definire anche i prodotti della letteratura delle classi subalterne.
Prima di toccare questi due temi, tuttavia accenneremo alla questione del dialetto, strumento comunicativo
caratteristico delle classi popolari, tralasciando per motivi di spazio considerazioni su altri tipi di documento formalizzato, come proverbi, filastrocche, rime e orazioni.
Faremo comunque uso del sistema di trascrizione proposta dalla RID (Sanga).
134
Le persone delle classi popolari si riconoscono spesso,
anche ad un primo approccio, per l’impiego più evidente
dei dialetti e meno della lingua nazionale, rispetto a
quanto avviene per soggetti dei ceti più scolarizzati.
In realtà tra i due poli della lingua e del dialetto (che
per molti corrispondono ai poli della formalità, da un
lato, e della colloquialità, dall’altro, o dello scritto e dell’orale), ci sono una serie di sfumature su cui non abbiamo il tempo di soffermarci, che vanno, nel caso del territorio italiano, dalla lingua standard al dialetto locale, passando per esempio attraverso l’italiano regionale, il dialetto regionale e così via (Berruto).
Tuttavia è almeno necessario ricordare qui schematicamente che la linguistica distingue un dialetto da una
lingua, non per la maggiore ‘nobiltà’, ma per altre valutazioni meno soggettive: la minore ampiezza dei territori in
cui si usano i dialetti rispetto ad una lingua ed il loro uso
quasi esclusivamente orale.
Il dialetto perciò è uno strumento comunicativo meno
versatile, perché funziona bene e facilmente solo parlando, e soprattutto permette di comunicare con un numero
di persone minore di quanto la lingua non consenta.
Ma c’è anche la questione interessante degli argomenti che i due codici permettono di trattare: se parlo di
argomenti della vita e dei bisogni quotidiani un dialetto
serve egregiamente, così come capita se parlo di esperienze e di lavori dell’epoca preindustriale.
Se invece devo esprimermi su temi della tecnica,
della scienza, della politica, della cultura elaborati in età
industriale o postindustriale mi accorgo che il dialetto
rivela la sua impotenza lessicale, costringendomi tutt’al
più a operare dei prestiti o – come dicono i linguisti - dei
calchi su termini dell’italiano o di altre lingue.
E’ quello che hanno mostrato di recente anche gli
135
autori del Vocabolario lecchese-italiano (Biella et al.), registrando parole come mubilificiu, lübrificant, razzismu,
miupe ecc.
Nel caso dei nomi di luogo si avverte che la denominazione popolare dialettale si radica nelle esperienze
concrete e nelle urgenze dei parlanti: gli usi economici di
un edificio o di un luogo, il suo aspetto esteriore, le esigenze pratiche di coloro che lo frequentano (ivi compresa la protezione sacra).
Considerando ancora il caso dei toponimi, nello spostamento da una comunità ad un’altra, si nota un fenomeno assai noto anche per i nomi comuni: che le ‘stesse’
voci assumono valore fonico differente in paesi vicini.
Si pensi alle voci di pesc-cón e lésc-ch, registrate a
Suello, che diventano pescón e lésch in tutti gli altre località rivierasche del lago di Annone (Pirovano 1996).
La differenza nella pronuncia, anzi, diventa come
tutti sanno un’occasione per distinguersi e per fare dell’ironia o del sarcasmo sugli abitanti di un paese vicino.
In una storiella raccontata a Olgiate M., ad esempio, si
associa l’ingenuità di chi vive a Consonno con la sua parlata.
A proposito di un asino issato sul campanile, i parrocchiani invece di dire “el riit perchè el vèt l’èrba” esprimono la loro meraviglia con “el grigna perchè el vèt l’ìrba”
(Pirovano 1991: 184).
La realtà linguistica popolare, dunque, si caratterizza
per una estrema frammentarietà fonetica riscontrabile
persino all’interno dello stesso territorio comunale, per
un legame con le esperienze e le esigenze più concrete
dei parlanti, ma anche per una dinamicità che si avverte
da una generazione alla successiva dei parlanti anche
nella stessa famiglia.
3.1 La narrativa
136
Con questo termine intendo riferirmi all'insieme dei
racconti tramandati oralmente, considerato – come
abbiamo detto - almeno a partire dalla cultura romantica,
uno degli aspetti fondamentali del folklore. In particolare le fiabe e le leggende venivano considerate delle vie
privilegiate di accesso alle credenze e alla mentalità
popolari. Quasi sempre le storie avevano una circolazione
assai vasta favorita dai movimenti degli uomini e, negli
ultimi secoli, anche dalla stampa (si pensi al Bertoldo di
G.C. Croce o alla raccolta di Perrault): ciò è testimoniato
in maniera sorprendente da analogie tra varianti che si
riscontrano anche in continenti lontani, il che rende
molto arduo stabilire le zone di origine di fiabe e narrazioni (Propp 1972, Thompson). Diverso è il caso delle leggende con una base storica, che si legano in maniera
esplicita a località ben precise e che, però, nella nostra
zona sopravvivono prevalentemente per essersi fissate
attraverso la scrittura. Ricerche non occasionali, compiute nel Lecchese solo a partire dagli anni '80 del nostro
secolo (Bassani-Erba, Pirovano 1991), mostrano la ricchezza complessiva che il patrimonio della "letteratura
popolare" ha avuto in passato, ma anche la progressiva
marginalizzazione di queste storie dall'uso quotidiano.
Ciò va messo in relazione alla decadenza dell'economia
agricola e al diffondersi di nuove tipologie abitative (con
la scomparsa delle stalle come luogo riscaldato di ritrovo
e di scambio culturale) oltre che al prevalere di nuove
forme di socialità e di comunicazione, come quelle portate dalla radio e dalla televisione. In generale si può constatare il sopravvivere più diffuso dei generi più adatti ad
un rapporto di tipo "pedagogico": le fiabe con protagonisti infantili (es. Tredesén), le favole di animali e le novelle
moraleggianti (es. Il lupo e la volpe), storielle comiche
137
spesso giocate sull'equivoco verbale o sulla stupidità
degli attori (es. Bertoldo, La porta che porta fortuna, in
Pirovano 1991), le storie di paura in cui si muovono personaggi inquietanti, realistici o fantastici, a testimoniare
la diffusione di alcune credenze (es. La Giübiàna, ma le
stesse storie che parlano di morti, o dei poteri dei preti).
I valori che tali storie veicolano più o meno esplicitamente coincidono spesso con quelli di ispirazione cristiana, ma talora riflettono un visione più cruda e disincantata della realtà sociale in cui prevale il più forte o il più
astuto nella lotta per la sopravvivenza (es. Il lupo e la
volpe in Pirovano 1991). Per tornare ai generi, la parte del
patrimonio tradizionale rappresentato dalle fiabe di
magia (es. Giovannino senza paura) patisce invece più
facilmente interventi "modernizzatori": eliminazioni
delle ripetizioni, sintesi sommarie di alcune parti, italianizzazione del codice. I fabulatori, infatti, avvertono che
il loro pubblico odierno - spesso infantile - ha perso l'abitudine e il piacere di seguire una narrazione orale sorretta 'solamente' dalla loro mimica e dalla loro abilità drammatica.Va ricordato, infatti, che in passato le fiabe si raccontavano a un pubblico indistinto per età e che esistevano narratori particolarmente abili nell'intrattenimento, di solito specializzati in particolari generi, come quello comico o quello tragico, che oggi si incontrano molto
raramente.
3.2 Il canto
Per il canto popolare si deve fare un discorso eminentemente storico, rivolto al passato. Se infatti si esclude il
caso di Premana, le sue tracce nel Lecchese si conservano - ma probabilmente ancora per poco - presso particolari famiglie, portatrici di una tradizione esecutiva meno
138
labile, proprio perché di gruppo, o presso circoli di anziani che si ritrovano in forma più o meno istituzionalizzata.
Le funzioni che il c. svolge in simili contesti risultano più
generiche rispetto a quelle che ne hanno accompagnato
la nascita e la diffusione: infatti, se in queste situazioni si
canta per socializzare, per affermare un'identità familiare, generazionale, culturale, esaminando i testi, le forme,
i modi esecutivi di molti canti si individuano intenti originari ben più articolati. Le registrazioni 'sul campo' e le
raccolte di canti popolari del nostro territorio, edite in
volume (Spreafico, Leydi 1978) o su disco (Leydi 1976,
Sanga-Sassu, Canzoniere Popolare della Brianza) propongono ad esempio canti di lavoro, canti festivi e canti legati ad occasioni più insolite (il viaggio, magari di emigrazione, il servizio militare, ecc.). Tra i primi alcuni parlano
esplicitamente di lavoro, talora per protestare e lamentarne le condizioni insopportabili, mentre altri accompagnano l'attività produttiva seguendone i ritmi. In questo
caso - ed è quello che si verificava in filanda con i movimenti degli aspi - il canto serviva per attenuare la noia,
dovuta alla ripetitività della produzione, e ad allentare la
tensione per un lavoro che richiedeva destrezza e concentrazione (il canto, a differenza del dialogo, non era
ostacolato dai datori di lavoro). I sondaggi condotti su
altri contesti produttivi, in effetti, hanno mostrato che il
canto non trovava le stesse condizioni favorevoli nelle
officine metalmeccaniche o nelle tessiture. Per quanto si
è detto, la filanda ha rappresentato un luogo privilegiato
in cui si è consolidato lo stile esecutivo polivocale organizzato per intervalli di terza considerato, per l'Italia, tipico dell'area settentrionale. Negli stabilimenti serici si è
verificato così un incontro di repertori e di generi, al di là
della pertinenza tematica del canto rispetto ai problemi
del lavoro. Si eseguivano infatti canti narrativi, spesso di
139
origine antica come per alcune ballate (Donna lombarda,
A’ mangiato l’insalatina), ma anche canzoni da cantastorie (La forza elettrica mi ha rovinato), o canti di ispirazione religiosa. In altre parole il canto eseguito durante il
lavoro, riprendeva composizioni originate in altri contesti
e pensate per altre funzioni, spesso rituali. Le scadenze
del ciclo della vita così come del ciclo dell'anno potevano
essere accompagnate da canti specifici: ninne nanne,
canti e rime infantili (La mia nonna l’è vecchierella), canti
di coscrizione, canzoni di corteggiamento, di fidanzamento, canzoni collegate al matrimonio (Mama mia la spùsa
l'è ché, il Matiné di Premana) anche espresse da strofe di
scherno e di sfogo (O mamma la mia mamma), da un lato,
e canti non liturgici legati al Natale o all'Epifania - i re
magi - canzoni riferite al periodo di carnevale, strofe
rituali dirette a propiziare l'allevamento dei bachi da
seta, dall'altro. Tra il materiale musicale arcaico ci sono
probabilmente proprio le orazioni popolari e le formule
magico-rituali, mentre tra i prodotti relativamente recenti vanno ricordate le canzoni degli artigiani ambulanti (Il
magnano, Lo spazzacamino), quelle da cantastorie, diffuse sulle fiere anche mediante i fogli volanti, venduti dagli
stessi musicanti durante l'esibizione, e i canti sociali, nati
in occasioni di fenomeni o eventi storici, come l'emigrazione o le guerre, che hanno segnato profondamente il
vissuto delle classi popolari.
Sia nei canti da cantastorie sia in quelli sociali o politici, si nota spesso una tendenza che è comune nel mondo
popolare a riutilizzare moduli o anche parte di testi
desunti da canzoni preesistenti, popolari e non. Ad esempio il canto narrativo A’ mangiato l'insalatina combinato
con La mia nonna l'è vecchierella (Canzoniere Popolare
della Brianza), decaduto a gioco infantile, ha dato luogo
al canto partigiano Questa mattina mi son svegliato, più
140
nota come Bella ciao. Oppure il canto da cantastorie contro la grande guerra O la canzone dei giovani studenti si è
trasformato durante la seconda guerra mondiale nel
canto antifascista O Germania che sei la più forte.
I suonatori ambulanti di fisarmonica, con i loro testi
dedicati alla cronaca e a fatti di costume, in questo secolo, hanno rappresentato nella nostra zona un'occasione
insolita di vedere abbinata la musica strumentale al
canto. Piccole formazioni orchestrali, composte da strumenti a corda (chitarra, contrabbasso, violino), fiati (di
derivazione bandistica) e strumenti ad ance libere (fisarmonica), erano diffuse nel nostro territorio ma si dedicavano prevalentemente alla musica da ballo. Allo stesso
modo uno strumento più radicato nei nostri paesi - ma
non “tipico” di essi - come il firlinfö si era affermato indipendentemente dal canto vocale (Foti). Solo occasionalmente la chitarra e la fisarmonica - acquisite in epoche
relativamente moderne e derivate da altre tradizioni
etniche - hanno avuto una certa presenza nel repertorio
dei canti di osteria o in quello dei canti rituali legati ad
occasione festive (serenate, matrimoni).
4. Tratti significativi
dei materiali popolari
Si potrebbero a questo punto forse sintetizzare alcuni
caratteri significativi che emergono da un esame sui codici e sulle forme dei documenti folklorici.
a) Esistono e hanno un peso assai forte sul piano culturale varianti di carattere geografico, ossia differenze locali significative, in particolare per i portatori
delle forme espressive popolari.
b) Accanto a ciò si riscontra un fenomeno in qualche
141
modo contrario al precedente, ossia il ricorrere di
documenti e di materiali molto simili, anche a distanze molto grandi - come nel caso delle favole
(Pirovano 1991, Thompson), dei canti (Leydi 1973),
dei riti o degli utensili (Scheuermeier), come qui ha
notato anche Italo Sordi parlando degli oggetti
della cultura materiale.
c) I manufatti e i prodotti della cultura spirituale sono
legati ad una variabile sociale, ed esprimono l’appartenenza a subculture interne alla comunità, da
parte di chi li ha prodotti o di chi usa una certa tecnica, un certo canto ecc. (Burke: 26 sgg.). Tali differenze dipendono dall’età, dal genere, dalla professione, dagli ambienti geografici ed economici.
d) Le culture popolari e i prodotti folklorici sono soggetti ad un cambiamento nel tempo, come abbiamo
visto anche qui negli esempi forniti di canto o di
narrazioni. Si pensi a ciò che ha significato, a partire dal Cinquecento, la Controriforma con il suo
impatto su pratiche, feste e, seppur meno agevolmente, anche sulle credenze delle classi popolari
(Burke, Perego).
e) I materiali del folklore, ancora più di quelli della
cultura materiale e dell’arte popolare, sono spessissimo il risultato di un lavoro anonimo e a più mani,
secondo un processo che è stato spiegato in termini
di scelte che partono dall’individuo e di accettazione - rifiuto da parte della comunità (BogatiëvJakobson). Solo nel primo caso il comportamento
individuale diviene “popolare”, sulla base di una
sanzione della piccola comunità rurale sulle opzioni
individuali: essa interviene mediante il pettegolezzo e i rapporti di vicinato, il controllo familiare e la
censura religiosa, ispirati dalla tradizione con la sua
142
autorità (Redfield).
e) Gli oggetti, ma forse anche i canti e le storie, sono
considerati come prodotti del lavoro e i materiali
sono segnati dalla coscienza della loro limitata
disponibilità. Pertanto il rattoppo e il riuso, il bricolage (Merisi), sia nella cultura materiale sia nella
cultura ‘spirituale’, rappresentano la regola per la
cultura popolare, mentre lo spreco costituisce l’eccezione festiva.
f) Gli strumenti, gli oggetti, i testi sono plasmati in
vista di una loro funzionalità, che nel caso dei prodotti di letteratura popolare abbiamo cercato di
esplicitare e di compendiare. Resta naturalmente in
sospeso, peraltro, la questione del valore estetico
del manufatto, del canto del dipinto ecc., che pure
nel mondo popolare ha una sua importanza.
5. “Prendere al volo”:
tecniche e prodotti
della ricerca folklorica
A questo punto si pone la questione della reperibilità
dei materiali del folklore, della loro fruizione e dell’uso
che oggi se ne fa e se ne può fare, anche da parte di un
operatore agrituristico. Non dobbiamo dimenticare che,
rispetto a quanto avviene per gli oggetti della cultura
materiale, qui ci troviamo a maneggiare documenti “volatili”, che devono assolutamente essere fissati su un supporto materiale, se si ambisce a trattarli come un prodotti di una cultura che vogliamo analizzare e capire.
Molto sommariamente: il primo problema è quello di
individuare persone che divengano per noi fonti, e che
possano fornirci documenti interessanti. Ascoltare, vede143
re in azione, interagire con cantori, con narratori, con portatori delle culture tradizionali è il passo successivo.
Quindi – come detto - si tratta di registrare e conservare
mediante la raccolta “sul campo”: registrare, fotografare,
filmare sono le tecniche richieste, nel caso si voglia documentarsi e documentare, anche per sottoporre a chi fosse
più esperto di noi i materiali trovati.
Comparando ciò che abbiamo fissato, su nastri e su
pellicole, con altri fenomeni analoghi sarà possibile valutare il grado di interesse scientifico di quel canto, di quella leggenda, di quel modo di dire, e di avviarci ad una sua
comprensione.
Vorrei in ogni caso tranquillizzare chi opera nel settore agrituristico: questo è il compito che tocca prioritariamente e sistematicamente agli studiosi, purché siano
impegnati anche ‘sul campo’ e non solo ‘a tavolino’, nelle
biblioteche e negli archivi, peraltro indispensabili.Tutt’al
più si possono segnalare le proposte che offre il mercato
a chi vuol conoscere il folklore del nostro territorio e a
farlo conoscere ai suoi ospiti. Attualmente, ad esempio,
esistono raccolte private e archivi di materiale sonoro e
visivo poco noti, come quello presso la Regione
Lombardia a Milano, l’Istituto de Martino di Sesto
Fiorentino, la Discoteca di Stato di Roma, che conservano
in maniera ordinata registrazioni, fotografie, filmati di
carattere etnografico. Meno specializzato, ma interessante, è anche l’archivio degli audiovisivi della provincia di
Lecco, che può dare in prestito quanto possiede.
Ci sono poi i libri, i dischi, i filmati, le mostre, i musei,
i concerti o le manifestazioni, che singoli, gruppi organizzati, editori privati ed enti pubblici propongono in continuazione. Non è materiale dello stesso valore e in genere
i prodotti scientifici o comunque rigorosi si possono riconoscere per alcune caratteristiche ricorrenti: prendono le
144
distanze dalla vena nostalgica, si sforzano di superare
una visione localistica utilizzando la letteratura scientifica sull’argomento affrontato, scandagliano una pluralità
di fonti, riferite esplicitamente come contributo ad una
ricerca autenticamente scientifica e perciò destinata a
continuare, ed evitano l’approccio personalistico, che fa
dei ricordi dell’autore il documento più autorevole - se
non esclusivo - impiegato (Pirovano 1990 e 1993). Alcuni
di questi “requisiti” non valgono solo per la produzione a
stampa, ma anche per le mostre e i concerti, dove il
rischio del folklorismo è in agguato. Dicevamo all’inizio
che la cultura folklorica non si preoccupa dello spettatore, bensì della funzionalità di riti, canti, strumenti, usanze ecc. rispetto ai bisogni socialmente condivisi dalla
comunità o dal gruppo. I prodotti folkloristici invece
esprimono l’esigenza di captare la benevolenza di un
pubblico o di adeguarsi al gusto corrente nella società di
massa, magari addomesticando esteticamente (come è
accaduto a Premana per il canto organizzato) o anche
moralmente (si pensi al caso dei carnevali) il materiale
ereditato dalla tradizione ad uso dei cittadini e dei turisti.
145
Riferimenti bibliografici
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Cattaneo, Oggiono-Lecco.
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146
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ascoltare, cd MD05.
147
Aspetti di religiosità popolare
Le edicole, i santi
protettori, gli ex voto
di Natale Perego
Da tempo l’interesse per il popolare si è andato via via
accentuando, con studi e ricerche che hanno cercato di
scandagliare aspetti, problemi e curiosità. In particolare il
filone della religiosità popolare (r. p.) continua a costituire
argomento d’interesse e d’analisi per studiosi di varie discipline, quali folcloristi, etnografi, cultori della sociologia
religiosa e studiosi di storia della mentalità. Infatti la r. p. è
un crocevia di discipline e di conseguenza si presenta come
un fenomeno complesso, variamente sfaccettato.
Che cos’è la “religione popolare”? Ogni risposta rischia
di essere limitativa, di coglierne solo delle componenti. Ci
limitiamo a richiamare le interpretazioni più consuete.
Nel corso della sua lunga storia la Chiesa ha dovuto convivere, accettare, talvolta subire pratiche e consuetudini
religiose che non corrispondevano all’insegnamento religioso ufficiale, ma che erano voluti e vissuti dal popolo. La
r.p. scaturirebbe da una contrapposizione fra una predicazione dei vescovi e un sentire diverso del popolo. Secondo
altre linee interpretative la r.p. sarebbe sempre stata tollerata e anche alimentata dalla Chiesa ufficiale per una
volontà di egemonia nei confronti delle classi sociali inferiori.
Al di là di queste letture ci pare più significativo evidenziare nell’anima religiosa popolare alcuni caratteri che
ben la contraddistinguono:
• uno spiccato gusto per il meraviglioso e per l’insolito
148
Pietà, sec. XVI,
Rovagnate
(per es. lo stupore per il miracolo, la curiosità per il
pallone che brucia in chiesa)
• la tendenza a percepire gli aspetti esteriori, attraenti,
colorati, più che il messaggio spirituale interiore
• lo stretto legame con una devozionalità che deriva da
bisogni e paure (si pensi ai drammi raffigurati negli ex
voto dei santuari)
• l’insopprimibile caratteristica della schiettezza e della
sincerità in ogni sua manifestazione
• la r.p. ha nella donna, più ancora che nell’uomo, una
sua testimone esemplare
In un discorso di studio e analisi della cultura popolare
nel territorio lecchese, è d’obbligo prendere in considerazione la vita religiosa, dal momento che essa ha una parte
molto rilevante nella vita sociale delle genti lecchesi e
brianzole ed è matrice di mentalità, comportamenti, valori.
Nel contesto ampio della vita religiosa in genere, trova una
sua collocazione ben riconoscibile la r.p., qui considerata in
due manifestazioni fra le più significative, quali le edicole
religiose murali e gli ex voto.
Le edicole religiose
149
Madonna del Rosario
1699
Pescarenico, Lecco
1.1 Una consuetudine antica
Oggi quasi del tutto dimenticate, le edicole, le santelle,
le pitture devozionali - che qua e là punteggiavano tutti i
centri abitati dei paesi e costituivano gli unici elementi
decorativi delle antiche cascine - un tempo rivestivano un
grande significato religioso.Venivano dipinte come ex voto
o più semplicemente per avere all’interno dell’abitato, dei
cascinali, sul muro esterno della propria casa o stalla, un
tramite immediato con la divinità. Diventavano ben presto
patrimonio comune a tutti, perchè quei santi, quelle
madonne erano oggetto di venerazione, di culto popolare
con offerte e rituali, tridui di preghiere, rogazioni.
L’intera comunità contadina chiedeva alla divinità raffigurata di intervenire per sopire e risolvere quelle tensioni
proprie di ogni società agro-pastorale, come la nascitamorte degli uomini e degli animali, la fecondità-improduttività dei campi, la siccità-alluvione e così via.
Le cappellette, poi, rispondevano a finalità sacre e profane. Di frequente venivano costruite là dove si incrociavano carrarecce o semplici sentieri perchè all’altezza di un
bivio-trivio era più facile che si incontrassero spiriti e
potenze malvage che abitavano nei boschi, per la campagna. A volte un’edicola veniva costruita lungo una via in un
punto di sosta, al margine di un pascolo o di un bosco, sui
confini tra una proprietà e l’altra: si sacralizzava il luogo e
il lavoro che vi si svolgeva.
1.2 Arte popolare e
quindi di nessun valore?
Per quanto riguarda l’aspetto artistico, si è soliti parlare di “pittura popolare”, connotando questa definizione di
un valore minore se non addirittura di un carattere dispregiativo. Gli storici dell’arte faticano ancora oggi a prendere
nella giusta considerazione queste espressioni artistiche. Si
150
tratta certamente di una pittura dal carattere elementare,
priva di intellettualismo, un’interpretazione semplice che
riproponeva sovente stampe devozionali prese a modello e
che raffiguravano madonne e santi propri della religiosità
ufficiale, stampe che circolavano facilmente fra la popolazione. Il mondo contadino esigeva che fossero riprodotte
nelle loro pose e fattezze quelle madonne, come quella di
Caravaggio, che erano al centro del culto ecclesiastico ufficiale. E così i santi andavano dipinti nel rigoroso rispetto
dei loro attributi, come la Biblia pauperum insegnava ed
esigeva.
Poco si sa degli artisti che hanno girovagato in lungo e
in largo per il Lecchese e la Brianza, disseminando per ogni
cascinale una loro opera. Di solito erano decoratori, pittori
locali, frescanti di passaggio, girovaghi che per pochi soldi
e un po’ di ospitalità erano disposti a dare un saggio della
loro arte.
Le edicole sono quasi sempre anonime, in coerenza con
il principio che al centro dell’interesse deve stare il soggetto rappresentato, non l’artista, tutt’al più si può leggere il
nome della figura dipinta e l’anno d’esecuzione. Le opere
migliori, autentiche si collocano fra la metà del secolo scorso e i primi due decenni del secolo presente.
Per quanto riguarda la tecnica pittorica si deve osservare che è raro l’affresco, mentre per lo più si incontrano
immagini a tempera su calce secca. I colori sono intensi,
forti, senza sfumature perchè devono colpire la fantasia
popolare, per cui dominano gli ocra, i marroni, le terre
rosse, i bleu. Capita, e non raramente, di incontrare soggetti ridipinti in tempi recenti, purtroppo in maniera molto
grossolana, così che si conserva il soggetto, il tema, ma si è
ormai perso la freschezza e la spontaneità originale.
1.3 I soggetti ricorrenti
Se è d’obbligo osservare come la Madonna in tutte le
Volto di Sant’Antonio
Abate, 1875, Oggiono
151
sue espressioni (delle Grazie, del Carmine, del Rosario,
della Cintura ecc. ) sia al centro delle immagini dipinte,
tale osservazione acquista maggior significato se riferita
alla Brianza e al Lecchese. Siamo al centro di un’area territoriale nella quale la pietà mariana è grandemente diffusa
e radicata attraverso i suoi santuari che costituiscono ancora oggi mete continue di correnti di religiosità popolare. A
fianco della Madonna del Bosco, di Bevera, di Lezzeno, in
passato aveva grande considerazione presso la popolazione
contadina la Madonna di Caravaggio, un’immagine che troviamo spesso raffigurata nelle edicole secondo lo schema
classico della Vergine che appare ad una fanciulla in difficoltà, con il tipico ramo secco, in mezzo alle due figure, che
improvvisamente fiorisce. Sullo sfondo campeggia la mole
del santuario.
Una coppia di santi frequentemente accompagna la
Vergine, per esempio san Rocco e san Sebastiano. Questi
ultimi costituivano una coppia inscindibile, meritevole di
grande e incondizionata fiducia nel far fronte in passato
alla peste e, in epoca più recente, al colera e a ogni morbo.
San Rocco aveva dedicato la sua vita a guarire gli infermi,
perciò le sue capacità taumaturgiche erano fuori discussione. E’ raffigurato mentre mostra la piaga della pestilenza
su di una coscia ed ha ai piedi accovacciato il cane che l’ha
aiutato. A maggior ragione ci si poteva aggrappare a san
Sebastiano che, colpito da frecce acuminate, aveva saputo
resistere al martirio, a quelle stesse frecce che ora venivano scagliate da mano ignota per diffondere la peste o il
colera. Un po’ in ogni dove si ritrovano cappellette ed edicole con raffigurati i due santi.
Un altro campione, dotato secondo il mondo contadino
di forti poteri difensivi e taumaturgici, era sant’Antonio
Abate, costantemente raffigurato con un aspetto austero,
grazie alla lunga barba, con il campanello, il bastone del152
San Sebastiano e il
Beato Giobbe,
Beolco di Olgiate
Molgora, 1890
l’eremita, il fuoco e il maialino tra i piedi. Questo santo era
invocato a difesa degli animali e in memoria del male che
egli aveva debellato durante un’epidemia nella Francia
dell’XI secolo e che ancora oggi porta il nome di “fuoco di
sant’Antonio”.
In area brianzola un’immagine ricorrente è quella di
san Giobbe, raffigurato da solo o ai piedi della Vergine o
accompagnato da altri santi. Giobbe di bigat è un pittura
tipica della Brianza; si tratta di un soggetto che veniva
dipinto nei pressi delle filande o sotto i porticati di quelle
case in cui si allevavano i bachi da seta, appunto i bigat.
Solo una mentalità profondamente religiosa, concreta e
bisognosa di sicurezza come quella contadina poteva vedere nella figura biblica di Giobbe e nelle sue sofferenze un
suo simile. Di solito è dipinto accovacciato su del letame,
con il corpo piagato, messo alla prova da Dio stesso. Dal suo
corpo fuoriescono dei vermi che scivolano su di un ramo
fronzuto che sta alle spalle del povero santo e “salgono al
bosco”, incominciando a trasformarsi in bozzoli. Le filandere vedevano nelle fatiche e sofferenze di Giobbe le loro fatiche e sofferenze e quindi lo pregavano come protettore di
tutte le operazioni connesse con la bachicoltura.
153
Madonna in trono
con S. Rocco e S.
Sebastiano, sec. XIX,
Barzago
154
E che dire di san Carlo, in vita fieramente contrario ad
ogni superstizione, ad ogni culto che non rientrasse nell’ambito di una rigorosa religiosità ufficiale, trasformato
ben presto dalla religiosità popolare in un simbolo taumaturgico di difesa contro le epidemie e quindi anch’esso raffigurato in compagnia della Vergine.
Con minor frequenza venivano rappresentati altri santi,
come san Luigi, sant’Antonio da Padova, santa Apollonia,
santa Rita, san Martino, san Giuseppe. Mentre la figura del
Cristo era presentata soprattutto nelle scene classiche
della Crocifissione o della Deposizione.
Un tempo c’era una maggior abitudine, se non addirittura confidenza, a convivere con la morte. Si moriva in età
infantile come in età adulta, per gli stenti, per lo scarso
nutrimento quotidiano, per le fatiche lavorative. E i morti,
paradossalmente, continuavano a vivere in famiglia presso
i propri cari. Questa inclinazione verso le anime dei morti
si esprimeva attraverso la raffigurazione delle “anime purganti”. Nei dipinti delle cappellette, ai piedi della figura
principale, di frequente si affrescavano le anime del
Purgatorio che avvolte dalle fiamme alzavano occhi e braccia al cielo in atteggiamento implorante. Erano anime che
necessitavano di messe e preghiere continue, per cui quelle cappellette erano mete di processioni individuali o collettive, per rendere fruttifero il legame tra vivi e morti.
Un tempo c’era una sete sincera di sacro che andava placata, c’era bisogno di avere la divinità sempre visibile;
ognuno esigeva quasi un santo tutto per sè, per le proprie
necessità, un santo con il quale stabilire un rapporto privilegiato, confidenziale. La religiosità popolare si nutriva di
questi slanci sinceri, autentici, e i numerosi dipinti murali,
edicole, cappellette ancora disseminate in Brianza e nel
Lecchese ne sono una testimonianza preziosa, una testimonianza prima religiosa e poi artistica. Sono simboli unici
per una corretta lettura del territorio e dell’origine della
nostra cultura: per questo meriterebbero una maggior considerazione e salvaguardia.
2. Per grazia ricevuta.
Gli ex voto dipinti
A tutti è capitato di entrare in un santuario e di essere
attratti, in un angolo della chiesa, da quei piccoli quadretti
dipinti che in genere raffigurano drammi di vita quotidiana, incidenti di lavoro, malati in preghiera. Sono straordinarie testimonianze di un sentire religioso che in epoche
passate esprimeva il senso di ringraziamento verso la divinità, per una grazia ricevuta, con questi oggetti devozionali. Per un santuario, la propria raccolta votiva ha un valore
enorme, perchè è la sua vera storia, è il credito religioso
accumulato nel tempo e tuttora spendibile presso i fedeli
che lo frequentano.
L’ex voto è un oggetto complesso, perchè è in primo
luogo una testimonianza religiosa sulla quale si innestano
aspetti di carattere storico-sociale ed artistico. Studiato e
valorizzato in tante realtà territoriali d’Italia è tuttora piuttosto ignorato nell’intera Diocesi di Milano. E’ necessario,
Un uomo su di una
barca rischia di
essere travolto dal
fiume.
Olio su tela, 1847.
ex voto della
Madonna del Bosco
d’Imbersago
155
Una donna prega
inginocchiata davanti ad un altare.
Acquarello su carta
di C.M. Frisia 1852.
ex voto della
Madonna del Bosco
d’Imbersago
pertanto, creare una maggior consapevolezza dell’importanza di quest’arte devozionale perchè sia salvaguardata,
sottraendola all’incuria del tempo ed alle possibili speculazioni.
2.1 Cenni di storia sull’ex voto
Tralasciando le consuetudini del mondo antico di offrire doni di ringraziamento alla divinità, sembra che l’ex voto
dipinto abbia avuto inizio proprio in Italia verso la fine del
Medioevo. E’ di epoca quattrocentesca l’uso di raffigurare
l’accaduto per perpetuarne il ricordo ed esaltarne il valore
religioso. Anche per l’ex voto dipinto si ripropone la polemica del rapporto fra arte popolare e arte colta.
Numerose pale d’altare che ammiriamo come espressione di “arte colta” sono state commissionate da principi,
signori, banchieri, ecclesiastici proprio come ex voto. Il
Beato Angelico, Piero della Francesca, Paolo Uccello,
Tintoretto hanno dipinto ex voto. Lo stesso Raffaello, con
alcune sue pale raffiguranti in alto la Madonna, avvolta in
un alone paradisiaco di nuvole, ha contribuito a definire i
canoni stilistici dell’ex voto dipinto più di quanto non si
156
Una donna dalla
testa fasciata, giace
a letto in preghiera.
Acquarello su carta
di C.M. Frisia 1854.
ex voto della
Madonna del Bosco
d’Imbersago
pensi. Solo che l’ex voto colto si distingue da quello popolare perchè nei primi la motivazione rimane nascosta, prevalendo l’aspetto celebrativo con la raffigurazione del committente stesso; nei secondi, invece, non c’è alcunchè da
celebrare, perchè tali dipinti sono nati da casi di vita vissuta, da accadimenti sofferti e travagliati. Nella storia dell’ex
voto dipinto si deve registrare un suo forte incremento nel
XIX secolo, soprattutto nella sua seconda metà, un fenomeno non certamente casuale, ma da ascrivere alla storia
religiosa della Chiesa stessa che in quel periodo favorisce
una ripresa devozionale di massa del culto mariano. E’ l’epoca in cui si definisce il dogma dell’Immacolata, è il
momento dell’apparizione della Vergine a Lourdes, sorgono
nuovi santuari: le grazie non mancano e con esse anche gli
ex voto. Nel seecolo XX fa da spartiacque l’ultimo conflitto
mondiale, dopo il quale diminuiscono progressivamente gli
ex voto dipinti portati ai santuari e, soprattutto, si modifica
la natura dell’ex voto che da tavola dipinta si trasformaa in
una riproduzione fotografica dell’accaduto. Cambiano le
tecniche, ma anche i protagonisti perchè fino al XVIII secolo le classi superiori partecipano della cultura dell’ex voto,
157
Un uomo è schiacciato da un lastrone di
pietra.
Acquarello su carta
di C.M. Frisia 1855.
ex voto della
Madonna del Bosco
d’Imbersago
vi ricorrono tanto quanto i ceti popolari; dal XX secolo in
poi tendono ad ignorarlo, lasciando che sia la gente comune, i contadini, a rendere pubbliche le grazie ricevute con
un atto di devozione votivo.
2.2 La cultura dell’ex voto
Infatti, l’ex voto è una testimonianza, un atto rituale per
sdebitarsi nei confronti di una divinità che si è degnata di
partecipare ad un dramma del quotidiano, che si è impegnata per ristabilire un equilibrio di vita che si era spezzato. Questo dramma scaturisce dalle situazioni più comuni,
coma la caduta dalle scale, il rovesciamento di un carretto,
il cedimento di un balcone, un incidente stradale, una
malattia inguaribile, e la persona miracolata si trova nella
situazione di privilegio di colui che ha visto davanti ai suoi
occhi il mondo cambiare il suo corso; con la sua invocazione egli ha determinato una “ribellione religiosa”, capovolgendo la situazione di disgrazia in una situazione di grazia.
L’accaduto, raccontato ad un pittore, viene fedelmente rappresentato. Ecco che l’ex voto acquista un suo valore documentale per la storia della vita popolare, della cultura
158
Una donna cade
dalla scala appoggiata ai tavolati dei
bachi da seta.
Acquarello su carta
di C.M. Frisia 1858.
ex voto della
Madonna del Bosco
d’Imbersago
materiale. In essi vengono descritti usi, costumi e credenze,
mezzi e strumenti di lavoro, modi di divertimento, consuetudini familiari, celebrazioni religiose. Attraverso la raffigurazione di abitazioni di città o di campagna, dell’arredamento domestico, delle fogge del vestire, del comportamento adulto e infantile è possibile ricostruire aspetti della
vita quotidiana di una determinata epoca, di una certa area
territoriale. Le tre tipologie iconografiche più ricorrenti fra
gli ex voto sono quelle dell’incidente, dell’infermo, dell’orante. Nascono da una convinzione antropologica ben precisa, da una convinzione assoluta secondo cui tutti gli eventi sono causati da uno scontro eterno tra bene e male, tra
un’entità negativa e positiva, con il superamento della
situazione di crisi attraverso l’intervento diretto del soprannaturale. Così, risulta chiaro il valore didascalico dell’ex
voto. Il fedele che passa in rassegna i dipinti votivi vede
rafforzarsi la sua fiducia nelle capacità taumaturgiche
della Madonna, dei Santi, del divino. Si convince che in
caso di bisogno anch’egli potrà essere aiutato. Lo stesso
santuario è sentito come un luogo eccezionale dove è possibile stabilire più facilmente un contatto con il
159
Un’automobile sbatte
contro un palo della
corrente elettrica.
Olio su tavola
ex voto della
Madonna del Bosco
d’Imbersago
Soprannaturale, senza la mediazione del sacerdote, della
Chiesa.
2.3 Gli ex voto dipinti
della Madonna del Bosco d’Imbersago
Fra i numerosi santuari mariani che alimentano la devozione popolare della Brianza, quello d’Imbersago è senza
dubbio il più importante e conserva una importante raccolta di ex voto dipinti.
Questo santuario sorge in epoca post-tridentuna, un’epoca di forte devozione mariana, quando con facilità si
attribuiva la qualifica di miracolo ad ogni fatto fuori ordinanza. La leggenda di fondazione del santuario della
Madonnaa del Bosco racconta che il 9 maggio 1617, in
piena primavera, alcuni pastorelli videro su di un castagno
un grosso riccio con tre castagne mature anzitempo. Si
narra anche di un lupo che, dopo aver strappato un infante
alla madre disperata, l’abbia riportato sano e salvo grazie
all’intervento della Vergine.
160
Il corpus votivo del santuario è composto da 112 dipinti
(oltre a un migliaio di cuori dorati), il più antico dei quali
risale al 1708. Tre dipinti sono del XVIII secolo, 60 del XIX
secolo e 49 del XX secolo. Si tratta, dunque, di una raccolta significativa per quantità e qualità. Si può notare come
l’impostazione del dipinto ottocentesco sia diversa rispetto
a quello del Novecento. Il primo è più conforme ad una tradizione di ordine, di compostezza, maggiormente ripetitivo
nei suoi schemi; infatti, la Madonna è sempre in evidenza,
appollaiata su di un castagno in un cerchio di nubi, in alto;
a ricevere la grazia è il più delle volte una contadina ammalata. L’ex voto del Novecento risente di un maggior dinamismo, di una accentuata libertà cromatica; ferquentemente
nei confronti della divinità prevale l’elemento umano,
espresso non più dalla donna, ma dall’uomo che è in pericolo di vita a causa di incidenti stradali.
Prendendo in considerazione le occasioni di grazia, si
osserva che l’ex voto per malattia, nel secolo scorso, rappresenta esattamente un terzo del totale, ma diminuisce di
molto in questo secolo, lasciando intravedere come una
volta fosse di gran lunga più difficile risolvere i problemi di
salute. La scenografia di questi ex voto ha caratteristiche
ricorrenti: l’ammalato giace a letto, in preghieraa, e mostra
la parte del corpo malata; se il graziato appartiene al ceto
popolare, l’arredamento della camera è povero ed essenziale, risulta più ricco e curato in caso di ceto elevato.
Negli ex voto della Madonna del Bosco il gruppo più
consistente (34%) ha per soggetto gli incidenti con i veicoli. Essi costituiscono un curioso gruppo narrativo per la
varietà degli incidenti e, proprio attraverso di essi, si può
leggere la curva evolutiva del passaggio da una civiltà
esclusivamente contadina ad una civiltà tecnicizzata e
industrializzata. Nei dipinti del secolo scorso sono raffigurati carretti che si rovesciano, contadini travolti da cavalli
161
in fuga, bambini finiti sotto le ruote del carro; in quelli del
nostro secolo irrompe il mezzo meccanico, motorizzato,
determinando scontri fra automobili, investimenti di pedoni, camion rovesciati, cadute da treni in corsa. Come motivo di grazia è frequente anche l’infortunio sul lavoro. Sono
più numerosi nel XIX secolo rispetto al secolo presente. In
questo ambito è di notevole significato storico-culturale un
ex voto che illustra in area brianzola l’allevamento domestico del baco da seta. Una giovane donna cade da una
scala sulla quale era salita per rifornire i bachi di foglie di
gelso. Qualche incidente è raffigurato anche in ambiente
fluviale, lungo le sponde dell’Adda, che scorre nei pressi
del santuario. Un ultimo nucleo consistente di ex voto
(14,6%) non lascia trasparire il motivo della grazia. Questi
dipinti si possono tutti ricondurre ad una figura femminile
in preghiera. Sono donne appartenenti al ceto sociale superiore che non hanno ritenuto di evidenziare l’accaduto in
termini espliciti, preferendo difendere la vita privata e
familiare, pur riconoscendo l’intervento miracoloso.
2.4 Carlo Magno Frisia,
l’artista degli ex voto.
All’interno della raccolta votiva del santuario della
Madonna del Bosco è possibile individuare un gruppo di
dipinti attribuibili ad un unico artista, che, in due casi, si è
firmato con la sigla “C. m. F.”. Si tratta di Carlo Magno
Frisia, padre di Costantino e nonno del famoso pittore
Donato Frisia, di Merate. Di sua mano il santuario possiede
ben 33 ex voto, dipinti tra il 1852 e il 1878 (un altro si trova
presso la Madonna Addolorata di Santa Maria Hoè). Era
certamente un pittore conosciuto in zona e a lui ci si rivolgeva per realizzare un ex voto. Pur se quasi tutti anonimi, i
suoi lavori sono ben individuabili perchè accomunati da
ricorrenti elementi tecnici: egli dipingeva solo ad acqua162
rello su carta, l’apparizione divina è sempre presentata con
una Madonna appollaiata al centro di un albero dalle fronde cascanti; le figure dei graziati sono proposte in pose
molto enfatiche; la scritta “G.R.”, grazia ricevuta, è ben leggibile e ripetitiva nel segno, quasi sempre posta in appositi
cartigli. Pur ricorrendo a certi schemi fissi, nel presentare
ambienti interni, nel raffigurare donne in preghiera, nel
drammatizzare incidenti di lavoro e di viaggio ha sempre
saputo trovare motivi, colori, iscrizioni in grado di rinnovare i suoi ex voto dipinti.
Bibliografia
A Cedro, M. Viganò, Brianza e Lecchese. Dimore rurali,
Milano 1985
Cultura e immagine popolare nel territorio manzoniano tra
i secoli XVI e XIX, Comprensorio lecchese, 1985
N. Perego, Miracoli dipinti. Gli ex voto del Santuario della
Madonna del Bosco di Imbersago, Cattaneo, Oggiono, 1993
R. Perego, Chiesa e popolo in Brianza (1919-1939), Lecco,
1979
F. Pirovano, D. F. Ronzoni, Santi in cascina, Bellavite,
Missaglia, 1996
V. Sironi, Edicole e immagini sacre in Brianza: un patrimonio da conoscere e salvare, I Quaderni della Brianza,
37/1984
A. Turchini, Lo straordinario e il quotidiano, Brescia, 1980
163
Architettura rurale tradizionale
Tipologie edilizie, materiali,
tecniche costruttive, modi
di valorizzazione attualia
Giuseppe Glorioso
1. Caratteri generali dell’insediamento
rurale tradizionale
La tematica dell’architettura rurale tradizionale deve
essere inquadrata all’interno del più ampio tema dell’
“insediamento rurale”, inteso come esito di un’attività di
modificazione dell’ambiente da parte dell’agricoltore, in
relazione ai propri bisogni vitali.
Semplificando, si può dire che l’insediamento rurale
tradizionale, nella sua forma primitiva e spontanea, è
caratterizzato dai seguenti fattori peculiari:
I fattori peculiari
dell’insediamento
rurale tradizionale
164
1. forte legame con i vincoli naturali dell’ambiente fisico,
quali la morfologia del terreno, la presenza o meno
di acqua, le caratteristiche climatiche, la vegetazione, le risorse naturali disponibili in genere;
2. sostanziale indifferenza alle correnti artistiche e architettoniche prevalenti: proprio a causa del forte legame con l’ambiente naturale, l’insediamento rurale
tradizionale è stato influenzato solo in modo marginale dalle grandi spinte culturali, che invece hanno
avuto una notevole influenza sulle altre tipologie
architettoniche, quali l’architettura religiosa, civile,
militare, e l’architettura “urbana” in genere;
3. economia di mezzi e risorse: l’edilizia rurale tradizionale è strettamente vincolata alla spontanea abitudine della società contadina a provvedere da sé alle
necessità di vita e di lavoro, con i mezzi che ha a portata di mano e con i materiali più facili da reperire
e più semplici da mettere in opera;
4. legame forma-funzione: l’insediamento rurale tradizionale è caratterizzato da una rara autenticità
costruttiva, tale per cui le forme architettoniche
variano in stretta dipendenza alla funzione specifica attribuita agli edifici stessi e ai loro componenti.
I caratteri
dell’insediamento
rurale tradizionale
I fattori suddetti hanno inciso in modo sostanziale sui
caratteri dell’insediamento rurale tradizionale, sotto tre
punti di vista:
• tipologico: gli insediamenti rurali tradizionali, al fine
di soddisfare le esigenze funzionali per i quali sono
concepiti, si adattano, con estrema economia di
spazi, ai limiti fisici imposti dall’ambiente naturale,
rifuggendo da soluzioni tipologiche ridondanti e
dallo “spreco” di spazi interni ed esterni; ciò ha
determinato la presenza di soluzioni plani-altimetriche e distributive assai simili all’interno di contesti
territoriali e culturali anche molto distanti tra di
loro, ma connotati da caratteri naturali similari;
• costruttivo: l’insediamento rurale tradizionale è
caratterizzato da soluzioni costruttive estremamente
semplici ed “economiche”, ma efficaci, essenzialmente legate alle esigenze funzionali, alla disponibilità di materiale in loco e alla reale possibilità di
lavorazione e messa in opera del materiale stesso;
• estetico: l’aderenza funzionale ai canoni naturali (per
quanto riguarda gli aspetti tipologico e costruttivo),
165
si riflette implicitamente sull’effetto estetico del
manufatto, che risulta perfettamente inserito nel
contesto paesaggistico, sia dal punto di vista morfologico (dimensioni contenute, aderenza alle curve di
livello, utilizzo di tetti a falda larga, ecc...), che figurale (cromatismi, assonanza di materiali, “tessitura”,
ecc...); le costruzioni rurali tradizionali si presentano
per lo più semplici e prive di ornamenti e/o decorazioni; le rare espressioni figurative rintracciabili nell’edilizia rurale tradizionale (dipinti murali, santelle,
ecc...) sono prevalentemente riconducibili a esigenze di carattere religioso e devozionale popolare, più
che a vera e propria volontà “artistica”.
La perdita della
“spontaneità”
dell’architettura
rurale tradizionale
166
Bisogna peraltro sottolineare che, nel corso dei secoli,
soprattutto all’interno degli ambiti territoriali più produttivi (collina e pianura), tali caratteri “spontanei” dell’insediamento rurale sono stati parzialmente modificati
per effetto del rapporto di sostanziale “dipendenza” dei
contadini nei confronti della grande proprietà terriera.
Ciò ha determinato l’innestarsi di volontà espressive,
nonché di scelte costruttive e insediative indipendenti
dalle esigenze elementari della vita contadina e delle sue
più antiche consuetudini e tradizioni: infatti, le esigenze
produttive dei grandi proprietari terrieri, unite ad una
precisa volontà di auto-rappresentazione, hanno fatto sì
che l’insediamento rurale perdesse gran parte di quei
caratteri di spontaneità e “necessità” prima descritte,
che invece hanno permeato le fasi più antiche del processo insediativo rurale.
Tali caratteri, come si vedrà, sono rintracciabili in
modo ancora piuttosto evidente proprio all’interno di
quegli ambiti territoriali investiti solo marginalmente dai
processi di trasformazione degli ultimi tre secoli, quali
quelli di alta collina e di montagna.
2. Le tipologie dell’insediamento
rurale nel lecchese
Gli insediamenti rurali ancora presenti nel lecchese
sono ciò che è rimasto di un sistema insediativo rurale
che in secoli di storia ha raggiunto grande consistenza,
estendendosi in modo complesso e articolato su tutto il
territorio.
L’estrema varietà di ambienti e paesaggi presenti nel
territorio lecchese ha dato luogo ad una casistica piuttosto articolata di insediamenti rurali.
Si può dire che, coerentemente all’assetto paesisticoambientale del territorio, sono riconoscibili quattro tipologie fondamentali di insediamenti rurali tradizionali,
che spesso si intrecciano, convivendo all’interno di una
medesima area:
1. l’insediamento alpino
2. l’insediamento prealpino
3. l’insediamento pedemontano
4. l’insediamento di pianura.
2.1 L’insediamento alpino
L’insediamento alpino è diffuso in ambiti assai diversificati, comunque caratterizzati dalla presenza di versanti a forte pendenza; il fattore principale che determina la presenza degli insediamenti di tipo “alpino”, infatti,
non è tanto la quota, quanto la presenza di pendii ripidi.
I caratteri dell’insediamento alpino sono strettamente
legati alla peculiare organizzazione del territorio, basata
su due fattori fondamentali:
1. la distribuzione delle risorse in fasce altimetriche,
secondo il seguente schema:
L’articolazione
delle tipologie di
insediamento rurale
tradizionale è legata
all’assetto
paesistico-ambientale
del territorio
Stretto legame
tra insediamento
alpino e
organizzazione
del territorio
167
• versanti bassi o fondovalle: centri abitati permanentemente, strade, campi e prati coltivati;
• versanti intermedi: bosco misto di latifoglie e conifere alternato a prati-pascoli, con abitazioni temporanee, ricoveri per il bestiame e fienili (maggenghi) comunicanti con i versanti bassi e il fondovalle per mezzo di mulattiere;
• versanti ad alta quota: bosco di conifere che cede
il posto verso l’alto a pascoli magri (fino al crinale o fino alla base delle rocce) con alpeggi costituiti da stalle, ricoveri per i pastori, edifici per la
lavorazione del latte (malghe); gli alpeggi sono
collegati tra di loro e con i maggenghi tramite sentieri.
2. organizzazione comunitaria della proprietà (possesso indiviso dei pascoli e del suolo) e del lavoro agricolo, basato su forme di collaborazione e integrazione tra le famiglie.
I tipi di
insediamento alpino,
gli insediamenti
permanenti e
gli insediamenti
stagionali
168
Tale organizzazione territoriale ha dato luogo a due
forme distinte di insediamenti rurali:
a) gli insediamenti permanenti, situati a valle o nella
parte bassa dei versanti e destinati alla dimora
stanziale e al ricovero degli animali durante il
periodo invernale (dicembre-febbraio); essi sono
costituiti da due agglomerati nettamente separati:
- il nucleo principale a destinazione esclusivamente
abitativa, con disposizione raccolta e compatta; gli
edifici, quasi esclusivamente in pietra, sono caratterizzati dall’assenza di cortili interni (Fig. 1);
- il nucleo di rustici, periferico rispetto al nucleo abitativo; l’utilizzo dei fabbricati rustici esterni all’abitato era in relazione sia alle colture agricole (deposito ed essiccazione di fieno e cereali, deposito
1
attrezzi agricoli), sia al ricovero del bestiame (stalle), sempre strettamente dipendente dai periodi di
crescita del fieno; i rustici sono disposti a schiera,
parallelamente al terrazzo su cui sorgono, al fine di
affacciarsi al sole con il lato a valle, per consentire
l’essiccazione dei prodotti agricoli (foto 1 e 2).
b) gli insediamenti stagionali (maggenghi) costituiti da
rustici simili a quelli presenti in prossimità del
nucleo abitato principale, utilizzati per il ricovero
temporaneo dei pastori e degli animali, nonché per
lo stoccaggio e l’essiccazione del fieno e dei cereali, durante gli spostamenti verso gli alpeggi, ossia i
pascoli alle quote più elevate, e viceversa (marzonovembre); alle quote più elevate (alpeggi) non vi
sono più insediamenti veri e propri, ma semplici
ripari per il bestiame e per i pastori e i bergamini,
o piccole baite poste in prossimità degli abbeveratoi.
I caratteri comunitari dell’organizzazione territoriale
si riflettono direttamente nella forma urbana degli insediamenti, che è concepita per rispondere alle esigenze
2
Foto 1
L’insediamento di
Tremenico in
Valvarrone: si nota
la netta suddivisione
tra nucleo abitato e
nucleo di “rustici” (i
“fienili”)
Foto 2 I “fienili” di
Tremenico
169
Relazione diretta tra
caratteri comunitari
della vita alpina e
insediamenti
della comunità, e non rispetta affatto i concetti di sedìme
e di area fabbricabile di proprietà dei singoli. L’aggregato
urbano è molto indefinito e caratterizzato da continuità
di spazi e percorsi: i singoli edifici si appoggiano l’uno
all’altro con grande solidarietà spaziale, disegnando percorsi interni tortuosi, gallerie e passaggi coperti, tanto
che è difficile distinguere le diverse proprietà.
Fig. 1 - La dimora alpina: schemi planimetrici
Il sistema
insediativo
della Valvarrone
170
Il sistema insediativo suddetto è particolarmente evidente nelle valli dell’alto Lago, quali l’alta Valsassina, la
Val Varrone e Val Muggiasca, caratterizzate da condizioni
morfologiche e ambientali molto vicine a quelle alpine
vere e proprie (pendii accentuati e quote elevate).
In Val Varrone, in particolare, si è sviluppato un sistema insediativo peculiare, basato sulla presenza diffusa
lungo i versanti di un gran numero di rustici (“löch”),
aggregati in nuclei, distribuiti lungo il percorso delle vie
di pascolo, ad una quota variabile tra i 900 e i 1500 mt.,
che ripetono, a quote più elevate, lo schema aggregato dei
rustici annessi ai nuclei abitati principali, situati alle
quote inferiori; si tratta di fabbricati anche di notevole
altezza (fino a 4 piani) destinati a stalla, fienile e alla
essiccazione dei prodotti agricoli; frequentemente a tali
fabbricati sono addossati piccoli edifici per il ricovero temporaneo (“caˇsinèl”), costituiti da un unico vano quadrato
dotato di un rudimentale focolare e posto-letto (Fig. 2).
Nei raggruppamenti di rustici sono presenti alcune
costruzioni comunitarie destinate alla lavorazione del
latte e alla produzione del formaggio (caˇsina del lac e
caˇsina del föch) o quale luogo di riunione della comunità
nei periodi del taglio del fieno (caˇsina di lèc) (Fig. 2).
Fig. 2 - Valvarrone: piante-tipo di un “caˇsinèll”e degli edifici
3
Foto 3 - Valvarrone:
rustico a 2 livelli
(stalla + fienile)
comunitari
Un altro esempio di insediamento di tipo alpino si
ritrova nella fascia meridionale del territorio lariano, collocata a ridosso della collina e della pianura lombarda (a
sud-est, nel territorio di Morterone, in alcune zone della
Valle S.Martino e a confine tra la Valsassina e le valli bergamasche Brembana e Imagna).
Si tratta di piccole frazioni, all’interno delle quali gli
edifici presentano una tipologia peculiare e unica nella
zona lariana, importata dalle valli bergamasche confinanti.
L’insediamento
alpino della fascia
meridionale
171
4
Foto 4 - Morterone:
fabbricato rurale
in frazione Frasnida
Gli articolati nuclei di edifici destinati a maggengo,
presenti nelle valli settentrionali, sono qui rimpiazzati da
costruzioni isolate, diffuse sui pendii sovrastanti le frazioni, la cui tipologia è analoga agli edifici presenti nelle
frazioni stesse. Ciò è dovuto alle particolari caratteristiche ambientali (conformazione del suolo morenica, ricca
di ampie conche e senza grandi dislivelli), grazie alle
quali il ritmo di vita, scandito dagli spostamenti stagionali per seguire il bestiame, è più simile a quello della
zona prealpina: infatti, la vicinanza dei pascoli ha permesso agli uomini di restare a lungo nell’abituale dimora
e di spostarsi nelle baite destinate ad alpeggio solo per
brevi periodi dell’anno (foto 4).
L’insediamento alpino dei versanti lacustri si possono
infine definire di tipo alpino gran parte degli insediamenti distribuiti lungo i versanti del lago di Como.
Le sponde lariane, quasi sempre scoscese, ospitano
prevalentemente nuclei che dipendono dalla montagna
retrostante per la propria economia, fondata sull’allevamento, sulla coltivazione dei castagneti e su tutte quelle
attività tipiche dei centri alpini. Questi nuclei, presenti
sia a nord che a sud, si sviluppano a mezza costa, senza
avere quasi mai alcuna relazione con la riva del lago e
ripropongono la distribuzione dei percorsi e dei lotti
lungo le isometriche del versante. Ciascuno di essi è dotato inoltre del cosiddetto “monte”, ossia l’insediamento
stagionale, che può essere ubicato sullo stesso pendio
affacciato sul lago o anche su un diverso versante idrografico prospettante su una vallata interna.
Analogie e differenze
tra insediamento
alpino e prealpino
172
2.2 L’insediamento prealpino
L’insediamento prealpino è diffuso in ambiti caratterizzati dalla presenza di porzioni abbastanza ampie di terre-
no su pendii dolci, altopiani e fondovalle agevoli e, in particolare, nella fascia mediana della Valsassina e nei conoidi pianeggianti lungo la sponda del Lario.
L’insediamento prealpino è caratterizzato da un sistema insediativo analogo a quello alpino, ma più semplificato: infatti, la relativa vicinanza dei pascoli agli insediamenti permanenti, unita ad una situazione morfologica
meno accidentata, ha permesso agli uomini di restare a
lungo nell’abituale dimora e di spostarsi nelle baite destinate all’alpeggio solo per brevi periodi dell’anno.
L’insediamento permanente, che ripropone pertanto
gli schemi di quello alpino, è caratterizzato da nuclei
accentrati e compatti, nei quali le diverse unità abitative,
accorpate e sovrapposte, sono organizzate attorno a spazi
comuni: in ciascuna dimora del nucleo abitato risiede una
sola famiglia patriarcale, la cui esistenza si svolge con il
ritmo seminomade della vita alpina, legata all’allevamento del bestiame.
Lungo i pendii più dolci delle montagne soprastanti i
nuclei abitati principali, si trovano numerose baite isolate,
nelle quali si svolge l’attività estiva per l’allevamento del
5
Foto 5 - Paesaggio
rurale della
Valsassina meridionale
173
bestiame.
Si tratta di costruzioni isolate o a piccoli gruppi, poste
sulle pendici dei monti tra i 1.000 e i 1.500 metri di altitudine; tali costruzioni, però, a differenza dei maggenghi,
non si presentano mai come veri e propri nuclei accentrati (foto 5).
Le baite sono costituite da un unico corpo di fabbrica
comprendente locali di abitazione, stalla e fienile, spesso
di rilevanti dimensioni, caratterizzati dalla presenza di
ampi aggetti del tetto; sono assenti i loggiati in legno, che
invece caratterizzano le costruzioni abitative del nucleo
principale.
Tramite questa struttura capillare vengono gestite
ampie fasce di territorio intorno al nucleo a valle, fino
alle pendici dei terreni più aspri, dove si trovano le zone
in cui, solo in un breve periodo estivo, trova pascolo il
bestiame (alpi). Le “alpi” sono costituite da semplici ripari (per es. un abbeveratoio) situati nelle aree più distanti
dalle baite.
Come già accennato, dato il limitato sviluppo del pendii, vi è generalmente uno spostamento unico verso le
alpi nella stagione estiva, o, in alcuni casi, in più tempi,
soffermandosi nella mezza stagione in baite più vicine
all’insediamento permanente.
I casali
della Valsassina
174
I casali
Tale insediamento, sviluppatosi nella Valsassina meridionale, costituisce una tipologia intermedia tra quella
prealpina, alla quale è assimilabile per le caratteristiche
costruttive e i materiali utilizzati, come i profondi loggiati in legno, e quella pedemontana, di cui ricalca la soluzione distributiva e l’impianto “a corte”.
Il “casale” o “casera” è costituito da due corpi di fabbrica a schiera, posti uno di fronte all’altro a formare una
strada interna (una sorta di cortile comune a carattere
lineare) e un nucleo autonomo di abitazioni e rustici (ad
es.: Tonalli di Sotto, Tonalli di Sopra, Magitt) (Figg. 3, 4).
Fig.
3 -
Esempi di “casali” in Valsassina
Fig. 4 - Il “casale”: schema planimetrico
I corpi destinati a rustico, comuni a più famiglie insediate nel casale, hanno un’ubicazione periferica rispetto
al nucleo principale: tale soluzione anticipa la separazio175
ne netta tra nucleo residenziale e rustici tipico degli insediamenti alpini. Da questi complessi, nei quali confluiva
tutta la produzione di latte dell’allevamento locale,
hanno preso origine le aziende di produzione dei formaggi tipici della Valle.
2.3 L’insediamento pedemontano
L’insediamento pedemontano è diffuso nelle aree pianeggianti o a dolce pendenza della collina e delle prime
pendici e fondovalle montani: esso, in particolare, è presente in tutta la fascia collinare della Brianza e si estende lungo la Valassina nel cosiddetto triangolo lariano,
nella conca lecchese agli estremi meridionali del Lario,
nella Val S.Martino, inoltrandosi negli ampi fondovalle
della Valsassina meridionale e nell’alto lago, dove i fiumi
hanno plasmato ampie aree pianeggianti.
Nell’ambito dell’insediamento pedemontano sono
riconoscibili due modalità insediative:
1. i nuclei rurali
2. gli insediamenti isolati
Gli insediamenti
premontani originari
(XXII - XVII sec.)
La concezione
comunitaria
del “villaggio”
176
2.3.1 I nuclei rurali
In alcune zone dell’alta collina, la cui sfavorevole
situazione morfologica ha scoraggiato trasformazioni successive del paesaggio agrario, gli insediamenti conservano ancora oggi i caratteri del primo periodo dell’espansione rurale, prodottasi a seguito delle grandi opere di
dissodamento compiute e promosse dagli ordini monastici a partire dal XII secolo, e protrattasi fino al XVI-XVII
secolo, in coincidenza con la grande diffusione della mezzadria. In questo periodo la dimora rurale, per ragioni di
sicurezza, risulta aggregata e accentrata in piccoli villaggi, che formano organismi unitari e complessi, alla cui
base vi è una concezione comunitaria, per cui ciascuna
famiglia ha come proprio riferimento e orizzonte la comunità del villaggio. Tale concezione comunitaria, simile a
quella che ancora oggi caratterizza molte zone montane,
si riflette nella forma dell’insediamento, strutturato in
modo da privilegiare la continuità degli spazi comuni,
nonché il rapporto di questi ultimi con le singole costruzioni: ne deriva un impianto irregolare, con fabbricati
addossati l’uno all’altro, in modo apparentemente casuale, a formare piccole corti dalle forme poligonali o curve,
che assecondano l’andamento dei percorsi comuni e la
morfologia del terreno.
Una caratteristica di tali insediamenti più antichi è
che, a causa delle loro ridotte dimensioni, possono essere
facilmente confusi con singole dimore isolate (ad es.:
Figina, Galbusera, Pomedo, Nesolio) (Fig. 5).
Il modo di abitare accentrato in nuclei relativamente
distanti dai campi coltivati, i quali venivano raggiunti
quotidianamente dal contadino, ha determinato la neces-
I “casòt”
Fig. 5 - Esempi di nuclei pedemontani “accentrati”
sità di costruire sui fondi costruzioni di modeste dimensioni, atte al ricovero di attrezzi e di prodotti, oltre che al
177
riparo del contadino (denominati in vario modo: “casòt”,
“cabanòt”, “casutèl”) (Fig. 6).
Tali fabbricati, pur avendo dimensioni modestissime,
presentano quasi sempre due piani.
Un tempo costruiti utilizzando legno e paglia, sono
successivamente edificati in muratura.
Fig. 6 - Esempio di “casòt”
Le trasformazioni
degli insediamenti
pedemontani
nel XVI - XVII sec.
178
Le zone collinari caratterizzate da rilievi più dolci,
nonché le zone dell’alta pianura, sono state interessate, a
partire dal XVI-XVII sec., da una profonda trasformazione rurale, legata allo sviluppo della mezzadria, ad opera
della grande proprietà nobiliare ed ecclesiastica.
Ciò ha comportato una modificazione e un ampliamento degli antichi borghi rurali, sia attraverso l’inserimento di nuovi edifici di carattere religioso e civile e
delle prime ville padronali, sia attraverso l’ampliamento
dei fabbricati rurali, a seguito dell’estensione delle aree
coltivate e dell’introduzione di nuove colture, che richiedono un maggior numero di “addetti” per la conduzione
dei fondi.
L’ampliamento dei fabbricati rurali ha dato luogo alla
graduale trasformazione degli antichi fabbricati a corpo
semplice, in vere e proprie “corti”, caratterizzate dalla
presenza di due o più corpi di fabbrica disposti attorno ad
uno spazio libero centrale, il “cortile”, in modo da costituire un recinto continuo o parzialmente interrotto.
L’impianto a corte è quindi il risultato di un processo
di formazione e di crescita nel tempo, attraverso la progressiva disposizione di semplici corpi di fabbrica attorno
al cortile, realizzati in seguito ad una sopraggiunta necessità di nuovi spazi o di un accrescimento del numero di
abitanti (Fig. 7).
La nascita
dell’impianto
a “corte”
Fig. 7 - Esempi di evoluzione dell’impianto a “corte” nel corso dei
secoli XVIII-XIX
I rinnovati borghi rurali risultano pertanto costituiti dall’aggregazione di più “corti”, i cui corpi di fabbrica si
179
addossano con un criterio di massima economia a quelli
della corte successiva.
La nascita degli insediamenti rurali isolati
(XVI sec.)
180
2.3.2 Gli insediamenti isolati
A partire dal XVI sec., come si è detto, si instaura
un’organizzazione produttiva agricola basata sulla suddivisione delle grandi e medie proprietà terriere fra più
unità aziendali a base familiare, legate al podere da coltivare con un contratto di mezzadria.
Al fine di fissare la dimora dei mezzadri direttamente
sui fondi coltivati, ossia sul luogo di lavoro, la grande proprietà nobiliare ed ecclesiastica promuove la costruzione
di nuovi fabbricati rurali isolati, collocati al di fuori dei
nuclei principali (le case rurali sparse o “cascine”).
La grande estensione della policoltura arborea (vite e
gelso), dovuta al crescente interesse ad intensificare la
produzione dei fondi e ad accrescere i redditi, esigeva
infatti una presenza continua delle famiglie coloniche e
la loro stabilità sul podere.
In questo modo l’insediamento si estende per la prima
volta nel territorio circostante agli antichi villaggi, generando un fitto tessuto insediativo a carattere sparso.
Tali fabbricati, destinati ad ospitare inizialmente due
o tre nuclei familiari, presentano, nella loro forma originaria, un corpo unitario e lineare, di piccole dimensioni,
alto due piani, all’interno del quale si colloca sia l’abitazione che il rustico.
In molti casi la proporzione e la composizione degli
elementi architettonici di queste costruzioni rendono evidenti una chiara progettualità e una intenzione estetica,
tesa a “rappresentare” i grandi proprietari che le hanno
volute.
Le dimore mezzadrili originarie sono state spesso
modificate da ampliamenti edilizi successivi, che hanno
inglobato l’impianto originario e che, addossandosi alle
partiture laterali, hanno delimitato il cortile, generando
vere e proprie “corti isolate”.
Va precisato peraltro che la formazione di grandi corti
pluriaziendali, proprie del periodo ottocentesco, costituisce nella zona collinare un fatto sporadico, mentre rappresenta la regola nella zona di pianura.
Nella zona collinare, in genere, non si verifica nel XIX
sec. una grande trasformazione della dimora isolata, la
quale rimane di modeste dimensioni e di carattere compatto, con l’aggiunta, al più, di qualche nuovo corpo rustico.
2.4 L’insediamento di pianura
A metà Ottocento la grande proprietà nobiliare, insieme ai nuovi proprietari di estrazione borghese, trasformano profondamente sia il paesaggio che la stessa dimora rurale. Il nuovo ordine rurale ottocentesco, diffuso in
tutta la fascia di pianura, estende e sviluppa razional-
La trasformazione
ottocentesca
dell’insediamento
di pianura
Fig. 8 - Un esempio della trasformazione
ottocentesca dei nuclei rurali: Rogoredo
181
6
Foto 6 - Cascina nei
pressi di Verderio
La trasformazione
ottocentesca delle corti
Foto 7 - Cascina nei
pressi di Osnago
182
mente il processo di trasformazione iniziato nelle epoche
precedenti. Per ciò che concerne gli antichi nuclei rurali
di pianura, nel corso della prima metà dell’Ottocento si
avvia una trasformazione profonda dell’insediamento,
pur senza modificarne la vocazione agricola. In particolare, vengono inserite ville sign rili e dimore borghesi, che
diventano i cardini del nuovo assetto urbano; gli assi
viari, il cui tracciamento viene regolarizzato, acquistano
un carattere rappresentativo, anche grazie alla mimetizzazione o alla mascheratura dei vecchi prospetti delle
corti che si affacciano sulle vie principali, con nuovi fronti edilizi (Fig. 8).
La crescita generale delle funzioni civili del borgo
modifica ulteriormente la configurazione delle corti che
si modellano intorno a nuovi spazi urbani; inoltre, nelle
stesse corti trovano posto laboratori per le nuove attività
produttive legate allo sviluppo preindustriale, che vanno
ad occupare o a sostituire parte dei rustici.
Attorno al vecchio nucleo insediativo il paesaggio
rurale è caratterizzato dalla presenza diffusa di cascine,
che dipendono amministrativamente dai nuclei urbani, in
7
numero tale da determinare la massima diffusione dell’insediamento sparso nelle campagne (foto 6 e 7).
Molte cascine mantengono al proprio interno particolarità degli impianti preesistenti; altre invece, edificate
nell’ultimo periodo, nascono già secondo un ordine e una
simmetria rigorosa. In questa fase di sviluppo è peraltro
più frequente il caso di ampliamenti e razionalizzazioni di
dimore preesistenti che non quello di nuove costruzioni.
La maggiore consistenza dell’attività agricola determina l’incremento delle dimensioni complessive delle
dimore sparse sui fondi, per ospitare nuove famiglie coloniche, e un’estensione degli spazi accessori.
La dimensione di queste corti è in relazione all’ampiezza del fondo e al numero di aziende familiari che lavorano in forma autonoma secondo il contratto di mezzadria. In generale la corte ottocentesca, a differenza di
quelle precedenti, si presenta regolare, ritmata dalle partiture di pilastri, archi e aperture, che rivelano la logica
modulare dello spazio interno: la regolarizzazione dell’impianto della corte in forma di quadrilatero, la ripetitività degli elementi architettoni-ci, sono criteri nuovi,
espressione della presenza del nuovo ceto borghese, il
quale edifica le case per i propri coloni (Fig. 9).
Fig. 9 - La “corte” ottocentesca: schema planimetrico
183
La cascina
novecentesca
I cortili, luoghi comuni di passaggio, di sosta e di lavoro, si allineano lungo un percorso principale sul quale si
affacciano i corpi destinati alle abitazioni, organizzate in
“cellule” modulari che presentano le cucine al piano
terra e le camere ai piani soprastanti; sul lato opposto del
cortile o in continuità con le abitazioni si collocano invece i corpi rustici (anch’essi organizzati in cellule modulari) formati da due livelli, il piano terra per le stalle e la
parte superiore per i fienili; tra i rustici si aprono uno o
più passaggi da cui si accede direttamente agli orti e
all’aperta campagna. A ciascuna famiglia che dimora
nella corte corrisponde un “modulo” abitativo e un
“modulo” rustico (Fig. 10).
Fig. 10 - L’impianto modulare tipico della “corte”
ottocentesca
Verso la fine del secolo XIX e nel primo decennio del
Novecento si costruiscono nuove cascine e corti dai grandi impianti regolari e simmetrici, con facciate dal gusto
monumentale (foto 8).
184
Rispetto al modello della grande corte diffuso nella
pianura irrigua, la corte dell’alta pianura presenta una
minore estensione, dovuta alle minori dimensioni del
fondo: man mano si scende verso la pianura, ovvero verso
8
Il rapporto
tra dimensioni
del fondo e
dimensioni
della corte
Foto 8 - Cascina
novecentesca nei
pressi di Paderno
la parte di territorio più produttiva, si trovano corti sempre più ampie ed articolate; inoltre, la corte dell’alta pianura è di tipo pluriaziendale, a differenza di quella della
pianura irrigua, caratterizzata da una conduzione accentrata e monoaziendale, nella quale il contadino è semplice dipendente salariato (Fig. 11).
Fig. 11 - La modificazione delle dimensioni della
dimora rurale, in relazione alla fascia geografica
185
Le cause del degrado
dell’insediamento rurale
tradizionale
186
3. Degrado, recupero e valorizzazione
degli insediamenti rurali
Il notevole patrimonio sopra descritto è oggi soggetto
ad un rapido degrado, essenzialmente riconducibile ai
seguenti fattori:
1. abbandono dei manufatti da parte degli agricoltori,
con conseguente assenza di manutenzione;
2. “recupero” improprio dei manufatti rurali per usi
turistici e/o abitativi (seconde case), che ha determinato la trasformazione radicale dei manufatti
stessi e la cancellazione dei caratteri peculiari dell’architettura rurale;
3. cancellazione dell’edilizia rurale e del suo contesto da
parte dell’espansione edilizia recente, con inserimento
di nuove costruzioni, completamente estranee al
contesto paesaggistico, che spesso nascondono o
inglobano al loro interno interi insediamenti rurali,
cancellandone progressivamente le tracce;
4. scarsa considerazione culturale per l’architettura rurale, da sempre considerata “minore”, sia per la
“povertà” di tecniche e materiali, sia perché non
influenzata, se non marginalmente, dalle grandi correnti culturali trainanti;
Bisogna peraltro osservare che i fattori suddetti agiscono con intensità e modalità differenti all’interno dei
singoli contesti territoriali: ad esempio, è possibile osservare, in generale, una maggiore conservazione dei caratteri tradizionali dell’architettura rurale in quei contesti
non interessati dai processi di urbanizzazione recenti,
come alcune valli alpine e prealpine che, nonostante il
grave abbandono, hanno conservato con maggiore evidenza la stratificazione territoriale storica.
L’accelerato degrado e la trasformazione radicale del
patrimonio rurale ha come effetto negativo non solo la
perdita di un patrimonio architettonico di grande valenza culturale, ma anche il deperimento dell’immagine
complessiva del paesaggio agrario storico, la cui stessa
esistenza è stata per secoli legata a queste presenze: oggi,
infatti, è andata quasi completamente perduta la possibilità di cogliere visivamente il rapporto vitale che esisteva
tra il luogo della dimora (abitazione) e il luogo del lavoro
(campagna coltivata).
Al fine di affrontare correttamente la problematica
del recupero fisico degli insediamenti rurali e della loro
immagine paesistica, è necessario superare sia l’atteggiamento superficiale e disattento ai valori della tradizione,
indifferente alla cancellazione parziale o totale di tali
valori, sia quello nostalgico-sentimentale, propenso ad
una conservazione storicistica e intransigente.
Un’attenta politica di recupero e valorizzazione del
patrimonio edilizio rurale deve essere modulata in base
alla pragmatica valutazione dei seguenti fattori:
a) caratteri storico-culturali dei manufatti: è necessario prima di tutto riconoscere l’effettiva valenza storico-culturale degli insediamenti rurali, valutando
la ricorrenza/rarità della tipologia edilizia, la peculiarità delle soluzioni architettoniche, l’uso dei
materiali, ecc...; in presenza di scelte alternative, gli
interventi dovranno privilegiare quei manufatti
maggiormente rappresentativi di certe tradizioni,
modalità costruttive, ecc... e quelli appartenenti a
“sistemi insediativi” peculiari, caratterizzanti interi ambiti territoriali e storico-culturali;
b) caratteristiche costruttive dei manufatti: la scelta
della manutenzione e dell’uso di materiali e tecniche tradizionali impongono una più impegnativa
rilevazione conoscitiva delle strutture, del loro
I fattori da valutare
nel recupero e nella
valorizzazione
dell’architettura rurale
187
montaggio e della loro funzione reciproca, dei
materiali, della loro sostituzione nel tempo, delle
tecniche di riparazione, degli accorgimenti protettivi;
c) stato di conservazione: una ulteriore valutazione da
effettuare è lo stato di conservazione del manufatto, finalizzato ad accertare il livello di permanenza
e leggibilità dei caratteri suddetti, nonché a valutare le modalità e le tecniche più opportune per il
recupero;
d) funzioni insediabili: strettamente legata ai caratteri dei manufatti è la valutazione delle funzioni da
insediare; il recupero fine a sé stesso, senza un preciso programma di fruizione e riuso dei manufatti,
rischia di essere inutile e costoso, sottraendo risorse ad altre operazioni; da questo punto di vista, le
principali discriminanti funzionali, da cui dipende
l’intero programma di recupero, sono: uso pubblico/privato; uso abitativo/non abitativo; uso temporaneo/permanente; in linea generale, dovranno
essere privilegiate non solo destinazioni d’uso compatibili con i caratteri storico-culturali del manufatto, ma anche in grado di garantire “remuneratività” all’intervento (vedi punto e);
e) grado di leggibilità del contesto paesaggistico: l’integrità del contesto è molto importante ai fini della
valorizzazione completa del manufatto; infatti, laddove il contesto paesistico è aggredito da presenze
“ingombranti”, la potenzialità del patrimonio edilizio risulta notevolmente ridotta, soprattutto in relazioni agli usi turistico-ricreativi, che richiedono elevati valori paesistico-ambientali;
f) bilancio costi-benefici: in considerazione delle limitate risorse ragionevolmente destinabili al recupero
188
dell’architettura rurale, è di estrema importanza
valutare la remuneratività dell’intervento, ossia il
“ritorno” in termini sociali, culturali ed economici
dell’intervento stesso, a fronte dell’entità dell’investimento complessivo (iniziale e di gestione).
In relazione a quanto sopra, i principali criteri a cui
devono conformarsi gli interventi di recupero e valorizzazione dei manufatti rurali, in funzione dei tempi previsti,
dei costi presunti e dei risultati attesi, possono essere così
riassunti:
1. prevalenza del concetto di manutenzione, rispetto a
quelli più diffusi di trasformazione o di sostituzione;
sotto il profilo architettonico gli edifici rurali presentano generalmente, come si è visto, tecnologie edilizie tradizionali, senza caratteristiche di eccezionalità: ciò consente di evitare lavori di restauro scientifico, con conseguente richiesta di specializzazione della mano d’opera; per essere efficaci, gli interventi manutentivi
devono essere frequenti, di limitata entità, tradizionali
e sperimentati; la premessa implicita è che prima di
ogni intervento, strutturale e non, dovrebbe essere tentata qualsiasi opera di prevenzione del degrado al fine
di non dovere poi intervenire con mutilazioni o consolidamenti “pesanti”;
2. uso di tecniche costruttive e di materiali edilizi tradizionali e locali, capaci di consentire una continuità
rispetto ad un’architettura sostanzialmente povera;
nella maggior parte dei casi si tratta di tecniche e materiali ormai desueti, ma ancora non del tutto spenti nella
memoria popolare; il principio di base è il recupero di
tecniche e materiali abbandonati, spesso sostituiti con
surrogati apparentemente più economici, a causa del
processo di produzione industriale, ritenuto più “razionale”; accanto a tali materiali deve essere previsto l’uso
I principali criteri
per il recupero e la
valorizzazione
dell’architettura rurale
189
appropriato delle tecniche e dei materiali più recenti,
attraverso un’adeguata preparazione degli operatori
(vedi punto 6.);
3. debole dotazione tecnologica degli interventi, nel
rispetto delle semplici strutture edilizie rurali, contrariamente a quanto spesso avviene negli interventi di
riuso, caratterizzati da pesanti intrusioni tecnologiche e
forti manomissioni;
4. riavvicinamento tra la fase di progetto e la fase di cantiere: nel “mestiere” antico il cantiere era l’unico luogo
di elaborazione, la “bottega” dove si progettava e si
costruiva: il restauro attuale, a seguito della perdita di
coincidenza con il mestiere storico, necessita di una
ricerca e di un controllo sperimentale continui;
5. impiego di manodopera artigianale: la salvaguardia di
ambienti rurali è attività che difficilmente rientra tra
quelle delle maestranze comuni del lavoro edilizio,
nelle quali , come si è visto, è radicata piuttosto una
concezione “modernista”, tale da considerare più conveniente il nuovo o la sostituzione che il recupero; ciò
può consentire altresì il recupero di professionalità artigianali locali dimenticate;
6. adeguata preparazione tecnica degli operatori: l’impiego della manodopera artigianale da sola non basta; per
un buon recupero è importante la conoscenza, da parte
dell’operatore, delle modalità di preparazione dei supporti, delle operazioni di bonifica, di riparazione e consolidamento, e quelle di finitura e protezione, le attrezzature antiche tuttora utilizzate e le potenzialità offerte dall’attuale tecnologia, sia in termini di attrezzature
che di additivi; l’operatore deve proporre un determinato ciclo operativo non perché “piace molto”, è facile
da applicare e costa poco, ma perché, per esempio, è
compatibile con il supporto, non compromette la tra190
spirabilità della muratura, riproduce l’immagine
storica del manufatto, è ecologica, garantisce
una buona durata nel tempo, oltre che un risultato estetico migliore.
Riferimenti Bibliografici
1. Saibene C., La casa rurale nella pianura e nella collina lombarda,
Firenze, 1955.
2. AA.VV., I paesaggi umani, collana “Capire l’Italia”, Touring
Club Italiano, Milano, 1977.
3. Marchente Elena, Colturani Tiziana, Architettura autoctona e
arte popolare nelle pitture murali dell’alta Valsassina (Val Varrone),
in: Archivi di Lecco - Anno VII, n° 1 - gennaio/ marzo 1984, Tip.
Editrice Beretta - Lecco.
4. Cedro Amedeo e Viganò Mariola, a cura di, Brianza e lecchese.
Dimore rurali, Jaca Book, Milano, 1985.
5. AA.VV., Case di pietra. Il recupero del patrimonio edilizio nel
demanio forestale, Azienda Regionale delle Foreste e Istituto Beni
Culturali della Regione Emilia Romagna, Bologna, 1986.
6. Piefermi Antonio, Le dimore rurali nelle valli del lario. Tipologie
abitative tra alpi e pianura, in: Benetti Dario, Langé Santino, a
cura di, La dimora alpina, atti del Convegno di Varenna (3-4 giugno 1995), Coop. Editoriale “Quaderni Valtellinesi”, Lecco, 1996.
7. Zaffagnini Mario, a cura di, Le case della grande pianura, Alinea
Editrice, Firenze, 1997.
8. Moretti Guido, a cura di, I masi delle valli di Peio e Rabbi,
Edizioni Tipoarte, Bologna, 1997.
9. Agostini Stella, Architettura rurale: la via del recupero, Franco
Angeli, Milano, 1999.
191
Appendice
Agriturismo
e norme di disciplina
di Francesco Mazzeo
Le diverse norme, dal livello nazionale a
quello regionale, hanno ormai definito
un quadro abbastanza compiuto per
dare certezza giuridica e amministrativa
al comparto agrituristico. La materia
agrituristica, tuttavia, spazia in un complesso di norme che riguardano numerose materie, da quelle fiscali e previdenziali a quelle di sicurezza e igiene degli
alimenti e delle bevande, passando attraverso quelle urbanistico-edilizie, quelle
sulla sicurezza del lavoro e numerose
altre di minore o maggiore importanza a
seconda dell’attività svolta nelle diverse
realtà aziendali (pubblicità, spettacoli,
manifestazioni sportive, etc).
Nel seguito si espone un quadro sintetico
di commento dei provvedimenti normativi principali di disciplina dell’agriturismo, con riferimento alla legge quadro
nazionale e a quella della Regione
Lombardia.
192
1. LEGGE 4 DICEMBRE 1985
N. 730 “DISCIPLINA
DELL’AGRITURISMO”
1.1 Le attività, i soggetti,
il carattere
Per chiarire cosa deve intendersi per
agriturismo in base alla legge 4 dicembre 1985 n. 730 “Disciplina dell’agriturismo”, è utile considerare tre aspetti:
a) le tipologie di attività che possono
rientrare fra quelle agrituristiche;
b) i soggetti che possono svolgerle;
c) il carattere che devono avere dette
attività.
Per quanto concerne le tipologie di
attività che rientrano fra quelle agrituristiche, la legge 730/85 intende “esclusivamente le attività di ricezione ed ospitalità”. Tuttavia, ciò che in apertura
dell’art.2 sembra un limite rigido posto
alle attività rientranti fra quelle agrituristiche, è chiaramente superato
nello stesso articolo dal comma 3, dove
si precisa che rientrano fra tali attività
l’offerta stagionale di ospitalità, anche
in spazi aperti, la somministrazione di
pasti e bevande per la loro consumazione sul posto, l’organizzazione di attività ricreative o culturali.
Alla luce del comma 3, quindi, l’apparente ristrettezza delle attività nell’ambito della ricezione ed ospitalità, in
realtà non sembra sussistere, considerato che con la precisazione predetta
tali servizi, estesi anche all’organizzazione di attività ricreative e culturali,
assumono ampiezza tale da ricomprendere fattispecie numerose e diversificate: dalle attività sportive alle escursioni, dall’organizzazione di corsi ai concerti, oltre che, naturalmente, l’offerta di
vitto e alloggio. Queste attività, tuttavia, per potersi qualificare come agrituristiche, devono essere svolte da un
preciso soggetto e devono mantenere
un circoscritto carattere, grazie al
quale sono distinti dalle analoghe attività commerciali.
Il soggetto che può svolgere attività
agrituristica e il carattere che le attività elencate devono assumere, sono
precisati dal richiamato articolo 2,
comma 1, da cui si ricava che esse
devono essere “...esercitate dagli imprenditori agricoli di cui all’art. 2135 del
codice civile, singoli o associati, e da loro
familiari di cui all’art. 230 bis del codice
civile, attraverso l’utilizzazione della propria azienda, in rapporto di connessione
e complementarietà rispetto alle attività
di coltivazione del fondo, silvicoltura,
allevamento del bestiame, che devono
comunque rimanere principali.”
Operatore agrituristico, in base alla
legge 730/85, può essere considerato
chi esercita l’attività di ricezione ed
ospitalità utilizzando la propria azienda purché sia imprenditore agricolo,
ossia eserciti “un’attività diretta alla
coltivazione del fondo, alla silvicoltura,
all’allevamento di bestiame e attività
connesse.”, come previsto all’art. 2135
del c.c..
Il solo requisito soggettivo richiesto per
l’esercizio dell’attività agrituristica,
dunque, è quello dell’imprenditorialità agricola, non avendo rilievo altri
caratteri connessi a detta figura, come
ad esempio l’essere coltivatore diretto,
proprietario o affittuario del fondo
agricolo entro cui si esercita l’attività
agrituristica, così come è irrilevante il
fatto che l’attività agricola sia esercitata in forma esclusiva, oppure unitamente ad altre attività non agricole.
Infine, per quanto concerne il carattere oggettivo che l’attività di ricezione
ed ospitalità deve assumere, nel contesto dell’impresa agricola, è desumibile
sempre dall’art. 2 della legge 730/85,
193
laddove prescrive che l’attività agrituristica deve svolgersi “in rapporto di
connessione e complementarietà rispetto
alle attività di coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento del bestiame, che
devono comunque rimanere principali.”.
La precisazione, circa la natura delle
attività che possono qualificarsi come
agrituristiche, consente di operare una
distinzione rispetto alle analoghe attività svolte da soggetti non imprenditori agricoli, da cui consegue che nel
primo caso le attività agrituristiche
rientrano fra quelle connesse alle attività agricole richiamate dall’art. 2135
del c.c., mentre nel secondo caso esse
assumono la natura di attività commerciali e perciò sottoposte ad altra
normativa di disciplina.
In conclusione, dunque, la contemporanea presenza dei tre requisiti predetti (se le attività di ricezione e ospitalità descritte sono svolte da un
imprenditore agricolo e se esse possiedono il carattere della connessione e
della complementarietà all’attività
agricola principale) rappresenta la
condizione necessaria, ma tuttavia
ancora insufficiente, per qualificare
l’attività come agrituristica.
1. 2. Alcune
precisazioni ulteriori
La legge 730/85, in quanto “legge qua194
dro” nazionale, limita le sue previsioni
per lo più a livello di princìpi, rinviando dettagli e modalità applicative alla
normativa regionale. Per la definizione
di un primo quadro complessivo della
disciplina agrituristica è pertanto utile
richiamare altri concetti, rispetto a
quelli esposti al paragrafo 1, espressi
dalla legge 730/85, tenendo presente
che la normativa regionale opera una
puntuale disciplina della materia, sia
attraverso la legge, sia attraverso il
regolamento attuativo.
Si richiamano, nel seguito, alcune
importanti precisazioni.
• Esistenza di un’azienda agricola in
esercizio (art. 2)
La condizione di sufficienza per qualificare l’attività agrituristica sussiste
quando ai tre requisiti riportati al
paragrafo 1 si aggiunge l’effettivo esercizio dell’attività agricola, in quanto
non è sufficiente il solo possesso di terreni e fabbricati per l’avvio dell’attività agrituristica.
• Carattere temporale dell’attività
(artt. 2, 4)
L’attività agrituristica si svolge con
carattere stagionale, la cui definizione
ultima è rinviata alle regioni.
• Provenienza dei prodotti impiegati nell’attività agrituristica (art. 2)
I prodotti impiegati nell’attività agrituristica sono previsti essere prevalentemente propri, cioè ottenuti dall’attività agricola svolta nella propria azienda, ancorché sottoposti a cicli di lavorazione extraziendali.
E’ utile precisare, con riguardo alla
nozione di prodotti propri, somministrati dall’azienda nell’attività agrituristica, che per quanto riguarda quelli
sottoposti a cicli di lavorazione esterni
all’azienda, non deve ricercarsi rigidamente la coincidenza della materia
prima lavorata di provenienza aziendale con quella contenuta nei prodotti
trasformati somministrati agli ospiti.
E’ sufficiente, al riguardo, la produzione aziendale della materia prima, ad
esempio del mais da polenta, senza che
la farina impiegata per la polenta somministrata agli ospiti sia necessariamente proveniente dal proprio mais;
analogamente dicasi per altri prodotti,
quali salumi, conserve alimentari, etc.
• Destinazione urbanistica del fondo
agricolo ( art.2)
Terreni e fabbricati in cui si pratica
l’attività agrituristica non sono distratti dall’uso agricolo, cioè mantengono la
destinazione agricola nel Piano regola-
tore generale del comune.
• Tipo di restauro a cui possono
essere sottoposti i fabbricati rurali
(art. 3)
E’ previsto il rispetto delle caratteristiche tipologiche ed architettoniche degli edifici esistenti, in caso di
restauro.
• Norme igienico sanitarie
(art.5)
E’ contenuto un espresso rinvio alla
normativa regionale per quanto attiene all’idoneità dei locali e delle strutture, mentre per quanto attiene alimenti e bevande è prevista l’osservanza della disciplina contenuta nella
legge 30.4.1962 n. 283 “Disciplina igienica della produzione e della vendita
delle sostanze alimentari e bevande”,
integrata e modificata da numerose
altre disposizioni nazionali ed europee.
2. LA L.R. 31.1.1992 N. 3
“DISCIPLINA REGIONALE DELL’AGRITURISMO E VALORIZZAZIONE
DEL TERRITORIO RURALE”
E IL REGOLAMENTO REGIONALE
27.12.1994 N. 3
2.1
Sintesi
delle norme regionali
195
La legge regionale della Lombardia, la
n. 3/1992, nel quadro dei principi e dei
limiti fissati dalla disciplina nazionale,
definisce l’attività agrituristica quando il servizio di alloggio e ristorazione
è esercitato rispettivamente con un
massimo di 15 camere e/o per un massimo di 30 ospiti al giorno (art. 2,
comma 1).
Il Regolamento Regionale 27.12.1994
n. 3, all’art. 2 precisa che detti parametri sono ridotti a 10 ospiti e 20
pasti/giorno se il servizio è offerto
all’interno dell’abitazione dell’imprenditore (agriturismo in famiglia), mentre è consentito il numero massimo
suddetto in caso d’impiego di camere
in unità abitative indipendenti e/o di
allestimento di spazi aperti per il ricovero di roulotte, camper, tende (agriturismo in azienda). Infine, lo stesso
Regolamento Regionale precisa,
all’art. 14, comma 4, che ai fini della
somministrazione di alimenti e bevande all’interno di strutture coperte
facenti parte dell’azienda agrituristica, il numero massimo di posti autorizzabile è pari ad 80. A tale limite è tuttavia prevista una deroga, concessa a
facoltà del Sindaco, nella sola occasione di feste, sagre, attività promozionali, etc.
Per quanto concerne la concreta defi196
nizione della condizione di complementarietà dell’attività agrituristica
rispetto a quella agricola, l’art. 9,
comma 4 del Regolamento Regionale
riporta il parametro “tempo di lavoro”
quale elemento discriminante, rinviando alla tabella riportata all’allegato F
del Regolamento Regionale stesso per
la quantificazione del parametro. In
base alla predetta norma la condizione
di complementarietà, dell’attività agrituristica a quella agricola, sussiste
quando il tempo necessario per le operazioni agricole aziendali è superiore a
quello richiesto per le attività agrituristiche. Ne deriva che, pertanto, fermi
restando i limiti di 15 camere e di 30
ospiti/ giorno fissati dall’art. 2 e il limite di 80 posti fissato dall'art. 14 della
L.R. 3/92, la “dimensione” dell’attività
agrituristica che un’azienda può esercitare, dipende dalle dimensioni aziendali e dall’indirizzo produttivo adottato.
Il Regolamento Regionale, all’art. 2,
provvede inoltre a definire, oltre alla
tipologia agrituristica (famiglia/ azienda), anche la classificazione, cioè l’indirizzo aziendale specializzato riferito
ai servizi offerti (storico-culturale, sportivo-ricreativo, ippico, venatorio, pescatorio, agro-formativo, naturalisticoambientale, enologico-gastronomico,
igienistico-salutistico) e la qualificazione, cioè il livello qualitativo dei servizi
stessi (1, 2, 3 quadrifogli), per l’individuazione dei quali gli artt. 4 e 5 del Regolamento Regionale, mediante l’allegato A, definiscono procedure e contenuti.
Il Regolamento Regionale indica, inoltre, la procedura da esperire per l’ottenimento dell’autorizzazione comunale
all’esercizio dell’attività agrituristica
(art.12). L’iter amministrativo, che si
conclude con il rilascio dell’autorizzazione del sindaco, prevede:
• l’iscrizione dell’imprenditore agricolo all’elenco degli operatori agrituristici (art. 10), previo superamento
dell’apposito esame di abilitazione;
• l’acquisizione della certificazione di
complementarietà (art. 9);
• l’acquisizione dell’autorizzazione
sanitaria (art. 11), la quale è prescritta nel caso di agriturismo in azienda,
cioè esercitato mediante l’impiego di
strutture ricettive diverse dalla casa
dell’imprenditore; in quest’ultimo
caso invece si rimanda al sindaco
l’accertamento delle condizioni di
abitabilità, prima del rilascio dell’autorizzazione comunale.
Infine il Regolamento Regionale, a cui
si rinvia per i dettagli, indica norme
relative a numerosi aspetti implicati
nell’esercizio dell’attività agrituristica,
che nel seguito si richiamano per
memoria: obblighi dell’operatore agrituristico (artt. 13, 14) e sospensione o
revoca dell’autorizzazione (art 15); trasferimento e/o modifiche subite dall’attività autorizzata e relativi adempimenti ( art. 16); disposizioni relative
alla preparazione e somministrazione
di alimenti e bevande (art. 17) che prevede, fra l’altro, che almeno il 70%
(valore di trasformazione) dei prodotti
somministrati agli ospiti sia di provenienza aziendale; macellazione di animali (art. 18); disposizioni relative alle
attività ricreative e sportive e culturali (artt. 20, 21, 22, 23); disposizioni inerenti la formazione professionale (art.
24); norme connesse ai fabbricati, inerenti diversi aspetti (artt. 25, 25, 27, 28,
29); incentivi e procedure ( artt. 30,
31).
2.2 Alcune precisazioni
Nella legge e nel regolamento regionali sopra descritti si fa riferimento allo
SPAFA, titolare di diverse funzioni tecniche e amministrative.
Per effetto della legge regionale 11/98
di riordino delle competenze amministrative regionali in agricoltura, la
materia agrituristica è stata trasferita
alla Provincia la quale svolge, fra l’al197
tro, le funzioni demandate allo Spafa
dalla L.R. 3/92 e dal R.R. 3/94.
3. NOTAZIONI
CONCLUSIVE
La normativa nazionale e regionale si
occupa, oltre che di quanto riferito,
anche di aspetti a cui non si è fatto
cenno in questa sede in quanto oggetto di specifici interventi in questo volume ( piani e programmi di sviluppo, di
vario livello, art. 10, L. 730/85 e artt. 4,
5, 6, L.R. 3/92), che peraltro non risultano essere, da parte della Regione
Lombardia, posti in essere, almeno a
198
livello compiuto.
Infine, per maggiore completezza del
quadro normativo di riferimento, meritano un cenno di memoria le, purtroppo, numerose norme, nazionali e comunitarie, che disciplinano materie diverse che spaziano dalle disposizioni inerenti la sicurezza e l’antinfortunistica a
quelle relative alla produzione, conservazione, confezionamento e somministrazione dei diversi e numerosi prodotti alimentari somministrabili in
azienda (carni, formaggi, latticini, verdure, paste, vino, olio, ..., convenzionali
e/o biologici), a cui si rinvia per ogni
specifico approfondimento.
Gli autori
FRANCESCO MAZZEO
Funzionario agronomo della Provincia di Lecco
DIEGO CASON
Docente di diritto, economia politica e del turismo,
scienza delle finanze, legislazione sociale, turistica
ed ambientale presso IPSCT “T. Catullo” di
Belluno.
GIUSEPPE GLORIOSO
Architetto libero professionista
Consulente per il PTCP della Provincia di Lecco
ANGELO DE BATTISTA
Docente di lettere presso il Centro Territoriale per
l’Istruzione in età adulta di Lecco
Etnografo e consulente del Museo etnografico
dell’Alta Brianza
ITALO SORDI
Etnografo e consulente di musei etnografici tra cui
il Museo dell’Alta Brianza
MASSIMO PIROVANO
Docente di storia e filosofia presso il Liceo scientifico “G.B. Grassi” di Lecco
Etnografo e conservatore del Museo etnografo
dell’Alta Brianza
NATALE PEREGO
Docente di lettere presso il Liceo scientifico “G.B.
Grassi” di Lecco
Etnografo e studioso di storia
199
edito da
EMMEPI EDITORIALE
finito di stampare
nel mese di maggio 1999
presso Grafiche Riga - Oggiono