Malinconia

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Malinconia
Il «mal di vivere» risale
al XVIII secolo, ma il
malessere che designa esiste
da quando l’uomo cerca
di dare un senso alla sua
esistenza.Giànell’Antichitài
medici descrivevano pazienti
colpitidasindromidepressive
eproponevanorimediabase
di piante per guarirli. I
filosofi si interrogavano
sull’ambivalenza
di
queste«affezionidell’anima»,
caratterizzate da stanchezza,
accidia, malinconia, noia,
inquietudine,
spleen,
nichilismo,nausea,angoscia,
depressione. Il mal di vivere
ha preso forme diverse nel
corsodeisecoli,tuttesempre
legate al malessere della
condizione
umana.
Da
Lucrezio a Schopenhauer,
numerose menti illuminate
hanno
analizzato
la
malinconia e molti vi hanno
visto il temperamento per
eccellenza
dei
«grandi
uomini».DaEschiloaCioran
passando per Shakespeare, il
maldiviverehaispiratoipiù
grandi
autori
della
cultura
occidentale.
Dall’impossibile rivolta di
Prometeo contro il destino,
all’angoscia
dell’uomo
contemporaneo che affronta
le
trappole
della
libertà, questo libro svela
come il mal di vivere sia il
pegno da pagare per i
progressidellaciviltà.
Georges
Minois,
professoredistoria,hascritto
numerose sintesi sulla storia
della cultura occidentale. In
particolarericordiamo:Storia
dell'ateismo (Editori Riuniti,
2000),LaChiesaelaguerra
(Dedalo2003),Storiadelriso
e della derisione (Dedalo
2004).
Incopertina:
Heinrich
Vogeler,
Sensucht,1908,
Privatbesitz.
La nostra società
rifiuta i pessimisti, i
depressi,gliangosciati.
Il mal di vivere è
quindi una malattia dei
tempi moderni che
bisognacurareacolpidi
antidepressivi?
Oppure, come ci
insegnano i grandi
malinconici della storia,
è la sola ragione di vita,
in quanto segno del
progresso del pensiero e
della coscienza? La
grandezza dell’uomo, in
fondo, sta anche nelle
sueferite.
Scansione,Ocre
conversioneacuradi
Natjus
LadridiBiblioteche
Storiaeciviltà
61
GeorgesMinois
Storiadelmal
divivere
Dallamalinconiaalla
depressione
© 2003, Edition de la
Martinière
Titolo originale: Histoire
du mal de vivre. De la
mélancolieàladépression
Traduzione di Manuela
Carbone
Volume pubblicato con il
contributodelMinisterodegli
Affari Esteri francese e il
Ministero della Cultura
francese-CentreNationaldu
Livre.
© 2005 Edizioni Dedalo
srl,Bari
www.edizionidedalo.it
Tutti i diritti sono
riservati.
Riproduzione vietata ai
sensi di legge (art. 171 della
legge22aprile1941,n.633)
Capitoloprimo
Inprincipioeralafatica
divivere
Un Egizio, all’alba della
civiltà di quattromila anni fa,
disgustatodallospettacolodel
mondo, scrive le sue
riflessioni
sotto
forma
didialogodellasuaanima.Le
sue parole superano i confini
deltempo:
La mia anima si
affanna inutilmente a
cercare di persuadere un
infelicearestareinvitae
a
impedirmi
di
raggiungere la morte
prima
del
dovuto.
Mostrami
piuttosto quanto è bello
iltramonto!Eforsecosì
terribile? La vita ha una
durata limitata: persino
gli alberi finiscono per
cadere.
Potrebbero
sparireimali,manonla
mia infelicità. Colui che
miete uomini mi porterà
via comunque, senza
riguardo,magariinsieme
a
un
criminale
qualunque, dicendo: «Ti
porto via, poiché il tuo
destino
è
di
morire, anche se il tuo
nome continuerà a
vivere...»’
(papiro
Berlino3024).
Questo testo, conosciuto
con il titolo Ode del
disperato,lungalitaniadiuno
scriba anonimo che aspira
alla propria mòrte, è la
più
antica
espressione
individuale del mal di vivere
checisiastatatrasmessa:
Lamorteè
oggidavantia
mecomela
saluteper
l’infermo
Comeuscire
fuoridauna
malattia.
Lamorteè
oggidavantia
me
Come
l’odoredella
mirra
Come
sedersisottola
velainun
giornodivento.
Lamorteè
oggidinanzia
me
Comeil
profumodelloto
Come
sedersisull’orlo
dell’ebbrezza.
Lamorteè
oggidinanzia
me
Comelafine
dellapioggia
Comeun
uomoche
ritornaacasa
dopouna
campagna
oltremare.
Lamorteè
oggidinanzia
me
Come
quandoilcielo
sirasserena
Comeil
desideriocheè
inunuomodi
rivederela
propriacasa
dopo
innumerevoli
annidi
prigionia2.
QuestoAmletodelMedio
Regnononèuncasounicodi
quell’epoca.
Papiri
e
geroglifici testimoniano che i
disperati si suicidavano nella
valle del Nilo: alcuni si
gettavano in pasto ai
coccodrilli,altrisilasciavano
annegare, altri ancora si
sferravanouncolpod’asciao
dispada3.
Soffrire,
invecchiare,
morire, per cosa poi? Le
prime manifestazioni del mal
di
vivere
derivano
dall’esperienza
delle
difficoltà dell’esistenza e ne
conserviamo
numerose
testimonianze
nell’antico
Vicino Oriente. Ad Akkad,
l’antica Mesopotamia, alcune
tavolette rinvenute fanno eco
al tedio dello scriba egizio,
come il Dialogo pessimista
fra il padrone e il suo
servitori,
colmo
di
osservazioni disincantate e il
Dialogosullamiseriaumana,
che stigmatizza l'ingiustizia
universale: «La folla loda la
parola
di
un
uomo
preminente,
esperto
in
crimini, ma avvilisce l’essere
umile che non ha commesso
violenza alcuna. Il malfattore
ègiustificato,mentreilgiusto
viene cacciato. Il bandito
riceve l’oro, il debole rimane
affamato. La potenza del
cattivo viene fortificata
ancora di più, mentre
l’invalido, il debole, viene
schiacciato»5.
Amara constatazione che
porta a una visione
dell’esistenza ben diversa
dalle
confortanti
rassicurazioni fornite dalla
saggezzatradizionale.Questa
giustizia immanente è una
menzogna, ripetono i testi di
saggezza babilonese: sono i
più furbi a prosperare, non i
più virtuosi. L’uomo che
riflette non può che essere
pessimista. Persino l’eroe
Gilgamesh fallisce nella sua
ricerca della «pianta della
vita», che gli avrebbe
permesso di sfuggire al
dolore, alla vecchiaia e
allamorte.
Ilmaleèovunqueegiàse
ne cercano le cause. I miti
babilonesi attribuiscono le
sofferenze dell’umanità a
divinità
misteriose.
La
vitad’oltretomba,negliinferi,
nonsaràmigliore6.Davantia
simili prospettive, come
stupirsi del fatto che i
Babilonesi abbiano sofferto
di disturbi che ricordano la
nostra depressione ansiosa?
Unsacerdotedescrivecosìla
condizione di un penitente:
«Malattia,
languore,
indebolimento, sofferenza si
sono impadroniti di lui.
Lamenti
e
sospiri,
oppressione,
angoscia, paura, tremore si
sono
impossessati
straziandoli - dei suoi
desideri»7.
PressoiPersianilastessa
amarezza trapela dalla lettura
diErodoto,cheriportaqueste
parole di Artaban in un
dialogo con Serse, il quale,
mostrandogli le sue armate,
afferma:
«Fra
un
secolo nessuno di quegli
uomini sarà vivo». Artaban
risponde:«Enonv’ènessuno
che non abbia desiderato, un
giorno o l’altro, morire tanto
i mali della vita prevalgono
suibeni»8.Erodotonarrache
per i Traust la nascita era
un’occasione di lutto e di
tristezza e la morte
un’occasione di tripudio:
«Seduti intorno al neonato, i
parenti piangono, deplorando
tutti i mali che egli dovrà
soffrire una volta nato,
enumerando tutte le miserie
umane; e invece lieti e
scherzando seppelliscono chi
è morto dicendo come
spiegazione che, liberato da
tanti mali, egli è in completa
felicità»9.
«Vanitàdellevanità...»
Il mondo ebraico non
sfugge a queste cupe
considerazioni: «Maledetto il
giorno in cui nacqui»,
esclama Geremia (20,14),
che aggiunge: «Perché [Dio]
non mi fece morire nel
grembo materno; mia madre
sarebbe stata la mia tomba e
il suo grembo gravido
per sempre. Perché mai sono
uscito dal seno materno per
vedere tormenti e dolore
(...)?» (20,17-18). Diversi
salmi,
dagli
accenti
decisamente
malinconici,
evocano la brevità della vita
(Sai 101), la miseria della
condizione umana (Sal 89) o
l’irrimediabile
tristezza
delregnodeimorti(Sal87).
Ma sono due libri tardivi
dell’Antico Testamento a
esporre in tutta la sua
ampiezza il mal di vivere
nelle
culture
semitiche
del Medio Oriente antico. Il
primo, il libro di Giobbe, si
inscrive nella stirpe di una
tradizionemoltoanticadicui
abbiamo rinvenuto le tracce
in Egitto e ad Akkad.
CompostoversolafinedelV
secolo a.C., in un’epoca in
cui gli Ebrei cominciavano a
interrogarsi sui loro valori
religiosi,hafattoesploderela
rabbia impotente dell’uomo
che si sente vittima di un
arbitrioodiosoechesichiede
perché gli sia stato dato di
nascere: «Perisca il giorno in
cui nacqui e la notte in cui
sidisse:“Èstatoconcepitoun
uomo!”» (3, 3); «Stanco io
sono della mia vita! Darò
libero sfogo al mio lamento»
(10,1); «L’uomo, nato di
donna,brevedigiorniesazio
di inquietudine» (14,1); «E
perchénonsonomortofindal
seno di mia madre e non
spirai appena uscito dal
grembo?» (3,11); «[Perché
dare la luce] a un uomo, la
cui via è nascosta e che Dio
da ogni parte ha sbarrato?»
(3,23).
ContrariamenteaGiobbe,
prostrato dall’accumularsi di
disgrazie, la schiera dei suoi
amici ottimisti proclama che
la vita è bella, che vale la
pena di essere vissuta e che
Dio è buono. Poiché Jahvé
non ha mai punito degli
innocenti,
Giobbe
è
sicuramente colpevole di
qualcosa, ma che egli
conservi la speranza, poiché
«Dio non rigetta l'uomo
integro» (8, 20). Davanti alla
cecità dei fedeli che non
riescono a capire la rivolta
dell’uomo sofferente, Giobbe
rimette in riga il branco
di conformisti: «È vero, sì,
che voi siete la voce del
popolo e la sapienza morirà
con voi! [...] Tacete! State
lontani da me: parlerò io,
mi capiti quel che capiti [...].
Mi uccida pure, non me ne
dolgo...»(12,2;13,13-15).Il
dibattito è aspro; Giobbe è
tentatodalsuicidiomatuttosi
conclude miracolosamente
per il meglio. Tale opera è
stata
l’occasione
per
un’esposizione
completa
dello
sconforto
degli
innocenti che soffrono.
Attraverso
la
finzione,
l’autore proclama la sua
indignazionecontrounasorte
ingiusta, la sua rivolta contro
unavitamiserabile.
L’espressione del mal di
vivere si spinge molto più
lontano
nel
libro
dell’Ecclesiaste, o Qoelet.
Questotesto,compostonelIII
secolo
a.C.,
subisce
l’influenza della filosofia
greca: a tale riguardo si
è parlato, a ragione, di
epicureismo,discetticismo.Il
pessimismo integrale che
esprime ci rimanda alla
nausea
esistenziale,
all’angoscia di Kierkegaard,
alla
disperazione
di
Schopenhauer.
Scrive
padre
Sertillanges
che
«L’Ecclesiaste
non
comprende e non ammette la
vita, fortemente scosso e
accasciato dal suo mistero.
Un profondo sentimento del
circolo perpetuo delle cose,
dei ritorni eterni, dà al
suo pensiero una specie di
terrificante monotonia. Si ha
l’impressione che il poeta
getti, con una lugubre
tranquillità, fango sulle
nostre illusioni [...]. Noi
pensiamo che non si possa
andare
oltre
questo
pessimistico
distacco»10.
Nulla serve, afferma il
Qoelet: «Vanità delle vanità,
dice Qoelet, vanità delle
vanità, tutto è vanità. Quale
utilità ricava l’uomo da
tutto l’affanno per cui fatica
sottoilsole?Unagenerazione
va, una generazione viene,
ma la terra resta sempre la
stessa» (1, 2-4). Ho provato
tutto, ci racconta. La
ricchezza, le donne, tutti i
beni della terra: «ed ecco,
tuttoèvanitàeuninseguireil
vento» (1, 14). Il riso,
la gioia: «Follia!». La
saggezza: «Chi accresce il
sapere,aumentaildolore»(1,
18). Mi guardo intorno:
disgrazie,
oppressioni,
abusi, follia. L’esistenza è
solo preoccupazione e noia:
«Ho preso in odio la vita,
perchémièsgraditoquantosi
fa sotto il sole. Ogni cosa
infattièvanitàeuninseguire
ilvento»(2,17).
Questo testo ha messo in
imbarazzoleautoritàcristiane
cheraramentelohannocitato,
se non per insistere sulla sua
conclusione: «Temi Dio e
osservaisuoicomandamenti»
(12,13).Dopododicicapitoli
di lamentele sull’universale
vanità
dell’esistenza,
questa lezione finale è una
ben magra consolazione: il
Qoelet è l’esito di una
saggezza plurisecolare di cui
abbiamo
conservato
qualche frammento eteroclita
mostrando che dal Nilo
all’altopiano dell’Iran, dal
golfo
Persico
all’Asia
Minore, le civiltà più antiche
hanno
conosciuto
una
corrente
di
profondo
pessimismo. Molto presto,
quindi, gli uomini hanno
considerato la vita come una
maledizione: ciò ha fatto sì
che alcuni di loro si siano
spintifinoalsuicidio.Certo,i
casi di morte volontaria
menzionati nella Bibbia Abimelech, Sansone, Zimri,
Achitòfel,
Saul,
Razis,
Tolomeo, Macrone - trovano
spiegazionenelfattochesono
avvenute in circostanze
particolari, ma anche diversi
profeti, quali ad esempio
Geremia,EliaeGiona,hanno
pensatodiuccidersi.
Laspiegazione
filosofica:ilpessimismo
greco
Neanche la Grecia antica
può esattamente definirsi il
paese della gioia di vivere. I
Greci avevano un senso
profondo della tragicità
dell’esistenza,cometantimiti
cercano di spiegare. Gli
uomini sono nati dalle ceneri
dei Titani, che Zeus ha
fulminato poiché avevano
divorato suo figlio Zagreus,
pertanto recano in essi
una tara originaria. Da
quando Pandora ha aperto il
famoso vaso, tutti i mali si
sono riversati sull’umanità.
Un destino implacabile
segnalavitadiognuno,ilcui
filoètessutodalleParche.Gli
esseri umani non sono che
giocattoli fra le mani di dèi
più
inquietanti
che
rassicuranti, come il grande
Pan, che scatena il panico, e
Dioniso,l’imprevedibile.
Alla
radice
del
pessimismo greco vi è il
sentimento di un destino
ineluttabilesucuil’uomonon
ha presa alcuna: siamo agli
antipodi del disagio moderno
che
gli
esistenzialisti
attribuiranno
all’angoscia
dell’uomo di fronte alla sua
totalelibertà.Sel’uomoviene
privato della sua libertà,
allora rivoltarsi è inutile.
Prometeo ne vive in prima
persona l’esperienza. La sua
storia, che Eschilo ha
inscenatoversoil450a.C.in
Prometeo
incatenato,
simboleggia
infatti
il fallimento della rivolta
controlacondizioneumana.
I miti che impregnano la
poesia e la tragedia
diffondono una concezione
fondamentalmente
pessimisticadell’esistenza:
E infinite tristezze
vagano fra gli uomini e
piena è la terra di mali,
pieno n’è il mare; i
morbi fra gli uomini,
alcuni di giorno, altri di
nottedasolisiaggirano,
ai
mortali
mali
portando...11,
afferma Esiodo. «Non
nascere è per gli uomini la
miglior cosa, né vedere i
raggi ardenti del sole»12,
scrive Teognide nelle sue
elegie.
Forse
perché
partecipide’mali
Foste dell’uomo, di
cuinullaalmondo,
Diquantointerraha
spiroemoto,eguaglia
L’altamiseria?13
leggiamo
nell’Iliade;
Bellerofonte, che «errava
solitario sulla piana di
Aleron, il cuore divorato dal
doloreȏconsideratodaJulia
Kristeva come uno dei primi
depressi
della
cultura
occidentale14.
Èventuranonessere.
È
gran
gioia
discendere,
seallavitas’emerse,
là
donde al mondo si
venne,presto15,
declamal'EdipoaColono
di Sofocle, cui fa eco il
Cresfonte
di
Euripide:
«Bisogna compiangere il
neonato che va verso tanti
mali, rallegrarci invece per
colui che muore e depone i
suoi affanni, dire parole di
buon augurio nello scortarlo
alledimorediAde»16.
Le
prime
reazioni
ponderate di fronte alla vita
sono quindi grida di dolore e
noninniallagioia.Numerosi
aneddoti illustrano questo
pessimismo innato, come la
risposta data dal vecchio
SilenoareMida:«Megliodi
ognicosaènonesserenati,e
dopo di ciò morire subito
dopo la nascita». Erodoto
narra
di
un
famoso
incontro fra il re Creso e il
legislatore Solone: «Spinto
dalla narrazione di Solone
intorno alla felicità di Tello,
Creso gli chiese chi avesse
vistosecondodopodiquello,
certo di ottenere almeno il
secondoposto.Quelloinvece
rispose: “Cleobi e Bitone.
Essi, che erano Argivi
di stirpe [...]. Addormentatisi
nel tempio stesso, i giovani
non si levarono più, ma
ebberotalfine.[...]Ottennero
lamigliorfinedellavita,ein
essi il dio mostrò che meglio
èperl’uomomorirepiuttosto
chevivere”»17.
Sin dal IV-V secolo a.C.
Eraclito
e
Democrito
affermano, ciascuno a modo
proprio, che il mondo è
disseminato di insidie; il
primo lo ha detto piangendo,
il secondo ridendo. Eraclito,
che Diogene Laerzio e
Teofrastopresentanocomeun
misantropo malinconico, si
lamenta della condizione
umana. Le parole che
Lucianoglifapronunciarein
Una vendita di vite
all’incanto ricordano quelle
delQoelet:
Oforestiero,iocredo
che tutte le cose umane
sono triste e deplorabili,
etuttesonosoggettealla
morte: però sento pietà
di voi, e piango. Il
presente non mi par
bello;ilfuturomiscuora
assai, e vi dico che il
mondoanderàinfiamme
ed in rovine. Io piango
chenienteèstabile,tutto
si rimescola e si
confonde: il piacere
diventa dispiacere; la
scienza, ignoranza; la
grandezza, piccolezza;
tuttovasossopra,egira,
e cangia nel giuoco del
secolo18.
Democrito
concorda
senz’altrosulfattochelavita
sia solo una pietosa
commedia, tuttavia egli
preferisce
riderne
che
piangerne.Ilmondoèperlui
ununiversoinfinitoedeterno,
composto di atomi e sorretto
da un rigido determinismo,
nel quale gli uomini
si agitano come burattini e si
creanoognisortadiproblemi
primadimoriremiseramente.
Un testo tardo lo vede in
conversazione con Ippocrate:
l’uomo è pazzo, gli spiega,
poiché «non ha alcuna
vergognadidirsifelice»19.
Laspiegazionemedica:
labilenera
Se
le
religioni
si
accontentano di diffondere
miti che esaltano la
rassegnazione, le correnti
filosofiche tentano di fornire
spiegazioni razionali. Sin dal
Vsecoloa.C.essecercanodi
comprendere il fenomeno del
mal di vivere, che designano
con il preciso termine di
malinconia.
Per i medici si tratta
innegabilmente
di
una
disposizione
psicologica,
come sostiene la teoria degli
umori, proveniente a sua
volta dalla teoria di Pitagora,
elaborata da Empedocle,
secondo la quale il corpo
umanoècompostodaquattro
elementi,
corrispondenti
a loro volta ai quattro
elementi cosmici: sole, terra,
aria e mare. L’equilibrio di
ogni essere umano dipende
dall’equilibrio interno di
questi quattro elementi, cui
corrispondono i quattro
umori: la flemma, fredda e
umida; il sangue, caldo e
umido; la bile gialla, calda e
secca; la bile nera, fredda e
secca. Le proporzioni dei
quattro umori determinano il
temperamento della persona.
Il malinconico è colui in cui
predomina la bile nera
(melaina cholé). Se in
eccesso, la bile nera provoca
sintomifisiologicicomepelle
opaca, calvizie, balbuzie, ma
anche sintomi psicologici, in
particolare
«l’ansia
e
l’abbattimento
costanti»,
secondo l’aforisma VI, 23 di
Ippocrate.
Sarà proprio il grande
medico greco, intorno al 400
a.C., a fissare nei secoli la
teoria degli umori. Egli
sostiene, infatti, che la
malinconiasia«lacondizione
più vicina alla malattia», pur
non essendo di per sé una
malattìa. Tale temperamento,
che favorisce il pessimismo,
sarebbe dunque legato a un
eccesso di bile nera,
che peraltro nessuno ha mai
visto.Taleeccessoèdovutoa
una disposizione naturale, la
cui sede è localizzabile nel
cervello,oaunavvenimento:
un trauma psicologico, ad
esempio,
oppure
un
eccessivoeprolungatocarico
di lavoro. «È il cervello a
provocare follia o delirio, a
ispirarci il timore e la paura,
giorno e notte, a causare
l’insonnia,afarcicommettere
errori, a renderci ansiosi
senza motivo, distratti, a
portarci ad agire in modo
contrario rispetto a quanto
di solito faremmo. Tutti
questi stati di cui soffriamo
provengono da un cervello
non sano che diventa
anormalmente
caldo,
freddo, umido o secco». La
malinconia è quindi un
fenomeno sia fisiologico che
psicologico. Il fatto che un
eccesso di bile nera
provochi
una
visione
pessimistica
dell’umanità
viene
confermato
nel
colloquiofittiziofraIppocrate
e Democrito inscenato nello
Pseudo Ippocrate, romanzo
epistolaredelIsecolo.
Ippocrate associa inoltre
lo stato malinconico sia
all’autunno
che
alla
vecchiaia. Se questo stato si
aggrava,
degenera
in
«tristezza,
ansia,
abbattimento
morale,
tendenza al suicidio», oltre
che in «avversione per
l’alimentazione,disperazione,
insonnia,
irritabilità,
agitazione». Occorre curarlo
assumendo rimedi a base di
mandragora ed elleboro, ma
ancheadottandounamigliore
igiene di vita. Il re di
Macedonia
Perdicca
II
sarebbe
guarito
dalla
malinconia seguendo la
raccomandazione
di
Ippocrate, che gli aveva
consigliato di sposare la
donnacheamava.
Galeno, l’altro grande
nome della medicina greca,
insiste
maggiormente
sull’aspetto psicosomatico
della malinconia. Egli si
ispira infatti al trattato Della
melancolia del medico Rufo
d’Efeso (prima metà del II
secolo),chedistingueduetipi
di
malinconia,
una
proveniente
da
una
«combinazione di umori
innata»
e
l’altra
da
una «combinazione di umori
dovuta a un cattivo
regime»20. Secondo Rufo, la
riflessione e l’afflizione
causano la malinconia21. Le
menti più fini sono le più
soggette al male di vivere:
«Coloro la cui intelligenza è
molto sottile e penetrante
scivolano facilmente nella
malinconia, poiché agiscono
con rapidità e sono fervidi di
premeditazione
e
immaginazione»22.
Il
malinconico si riconosce dai
tratti
somatici:
gonfio,
esitante, la pelle scura; ma si
tradisce anche per un
certo tipo di comportamento,
come lo sguardo basso,
depresso, misantropo. Egli è
triste senza ragione, è
soggetto a accessi di gioia
immotivati,
ed
è
concupiscente. Agli occhi di
Rufo, la causa fìsica di
tale
umore
non
è
propriamente la bile, ma il
sangue
ispessito
e
raffreddato. Galeno modifica
di poco questa teoria: le
neuropatologie,afferma,sono
la conseguenza di uno stato
ipocondriaco, dovuto esso
stessoallasecrezionediumor
nerodapartedelfegato,dello
stomaco o dall’intestino;
questa bile provoca la
formazionediunvaporecupo
che sale al cervello e
avviluppal’immaginazionein
una nebbia offuscante. Egli
afferma anche che un’attività
di riflessione intellettuale
troppo intensa provoca
svariate reazioni fisiologiche,
poiché «le operazioni e le
affezioni
dell’anima
dipendono dal temperamento
delcorpo»23.
Galeno, che un tempo
esercitòlaprofessionemedica
a
Roma,
testimonia
dell’elevato
numero
di
malinconici che la città
contava nella seconda metà
del II secolo. Egli parla di
«adolescentifragiliemagria
causa dell’ansia e della
depressione»; i suoi pazienti
presentavano«unsonnoraro,
disturbato,
interrotto,
palpitazioni, vertigini [...];
sono tristi, ansiosi, diffidenti,
pensano
di
essere
perseguitati, posseduti da un
demone, odiati dagli dèi».
Come Rufo, anche Galeno
pensachelamalinconiapossa
spiegarsi con una mancanza
di attività sessuale: ormai
marcio, infatti, il fluido
sessuale
-maschile
o
femminile - contamina il
cervello. Infine Galeno
traccia un identikit del
malinconico: magro, capelli
scuri, peluria abbondante e
nera, pelle scura, vene
prominenti, testa inclinata
verso il suolo, viso spesso
contratto in una smorfia. Il
trattamento che propone
ricorda quello di Ippocrate:
igiene di vita (esercizio
fisico, lavaggio delle mani
prima dei pasti, attività
sessualeregolare)efarmacia
base di piante (preparazione
di un insieme di pepe
bianco,
zafferano,
coloquintide, mirra, miele,
acquasalataevinomele).
Da queste descrizioni
traspare il fatto che la
medicina dell’Antichità sia
pervenuta molto presto a una
nosologia corretta della
depressione, identificando in
essa
un
tipo
di
temperamento di cui alcuni
aspetti sono positivi, in
particolare
la
lucidità
intellettuale. Solo i casi
eccessivi,
quelli
che
conducono
a
disturbi
del comportamento, sono
patologici.
Lamalinconia,il
temperamentodei
grandiuomini
Unfamosotestoattribuito
ad Aristotele, il Problema
XXX,1,affermachiaramente:
«Tutti gli uomini che furono
eccezionali in filosofia, in
politica,inpoesiaonellearti
erano [...] manifestamente
malinconici»24. Bellerofonte,
Aiace e altri personaggi
storici come Empedocle,
Socrate, Platone e, in varia
misura, tutti i grandi uomini,
erano malinconici per natura.
Questi esseri eccezionali,
atipici, «sono condannati ad
essere infelici»25, conferma
Aristotele all’inizio della sua
Metafisica.
Questo
temperamento
«procura
al
cuore
tristezze
inesplicabili; da qui le
impiccagioni,soprattuttofrai
giovani,maavolteanchefra
i personaggi in età più
avanzata»26.
Il Problema XXX, 1,
stabilisce una distinzione
fondamentale
fra
i
malinconici patologici e i
malinconici per natura. Nei
primi
un’alterazione
temporanea e accidentale
dell’umore
malinconico
provoca un eccesso di calore
o di freddo, provocando crisi
di
depressione,
fobia,
epilessia,
furore,
abbattimento completo o
sovreccitazione. Nei secondi,
chepossonoessereinperfetta
salute, la sovrabbondanza di
bile nera è permanente e
naturale. I malinconici per
naturahannodotieccezionali:
sono
tristi,
ma
non
necessariamente
depressi;
angosciati, ma non nevrotici.
Sembra quindi che il
pessimistanonsiaunmalato,
ma un uomo fuori del
comune,lucido,anchesenon
indenne
dalle
malattie
malinconiche; sempre sul
filo del pensiero sublime, il
minimopassofalsorischiadi
farlo precipitare negli abissi.
L’uomo«normale»,coluiche
presenta un basso livello di
bile nera, vive senza porsi
domande e trova che la vita
sia bella, nonostante tutte le
sofferenze.
Come
giustamente fa notare Julia
Kristeva, «con Aristotele la
malinconia, equilibrata dal
genio,
è
coestensiva
all’inquietudine dell’uomo
nell’Essere.
Abbiamo
vistol’annunciodell’angoscia
heideggeriana
come
Stimmung del pensiero. In
maniera analoga Schelling vi
scopriva
“l’essenza
dellalibertà umana”, l’indice
della“simpatiadell’uomocon
la natura”. Quindi il filosofo
sarebbe “malinconico per
eccessodiumanità”»27.
Ilmalinconicoèdotatodi
caratterisecondariimportanti,
in particolare di forti bisogni
sessuali:
I malinconici sono
per lo più dei lussuriosi,
poiché
lo
slancio
d’amore è della stessa
natura del soffio d’aria.
Ne è un indizio il
membro della vergogna,
nel vedere come, nella
suapiccolezza,sigonfia
crescendo rapidamente.
Persino prima di essere
in grado di emettere
lo sperma, i ragazzi
ancora giovani traggono
un
certo
piacere
quando, vicino alla
pubertà e incapaci di
trattenersi,sisfreganole
parti
vergognose.
Ebbene, è chiaro come
sia il soffio d’aria a
passare e uscire dai
canali da cui più tardi il
fluido verrà emesso.
Allo
stesso
modo, l’emissione di
sperma nel commercio
sessuale, e il suo getto,
provengono
evidentemente
dalla
spintadell’aria28.
La natura aerea del loro
umore si traduce anche
nell’apparenza fisica: «La
maggior parte è magra e con
le vene prominenti: la causa
non è l’abbondanza di
sangue,madiaria»29.
Cheimalinconiciabbiano
personalità fuori dal comune
Platone l’aveva già notato,
ma a suo parere la causa era
sovrannaturale:
il malinconico è animato da
un «furore» divino, un soffio
che gli conferisce una
maggiore lucidità. «Se infatti
l’essere in preda a mania
fosse un male puro e
semplice, sarebbe ben detto;
ora però i beni più grandi ci
vengonodallamania,appunto
invirtùdiundonodivino»30,
dichiara Socrate nel Fedro.
Come
sempre,
tuttavia,l’interventodeglidèi
è ambiguo e pericoloso. La
malinconia non è lontana
dalla follia e dalla mania,
caratteristica della mantica,
valeadiredeldonoprofetico,
e può portare alla tirannia:
«Unuomodiventauntiranno
quando, per natura, per
abitudine, o per entrambe le
ragioni, egli è ebbro, sibarita
e malinconico»31, osserverà
AuloGellio.
Secondo gli astrologi, la
cui scienza è all’epoca in
piena
espansione,
l’ambivalenzadeimalinconici
può essere spiegata con
l’influenza
del
pianeta
Saturno. Saturno è il vecchio
dio Cronos, il divoratore di
bambini,cheOmeroeEsiodo
presentano come solitario,
esiliato in un luogo lontano
dopo
essere
stato
detronizzato da suo figlio
Zeus; mangiatore di carne
viva
che
vagabonda
sotto terra, esso è l’essere
mostruoso e sanguinario che
Goya ha rappresentato forse
meglio di chiunque altro.
Tuttavia è anche un
dio caritatevole, inventore
dell’agricoltura
e
delle
tecniche, che regnò nell’età
d’orosuun’umanitàallostato
di
natura.
La
sua
assimilazione al pianeta più
distantedalSole,quindiilpiù
freddo,
sembra
risalga
all’epoca
ellenistica.
I
saturnini,comelidescrivead
esempioVettiusValensnelII
secolo, sono generalmente
inquieti,
pessimisti
e
misantropi;hannogliocchie
i capelli neri, spesso e
volentierisonoavarieavolte
maleodoranti.Inoltre,acausa
della lentezza di rivoluzione
del
pianeta
Saturno,
sarebbero
portati
all’indolenza, se non persino
all’inerzia,allapesantezza,da
cui il legame con il piombo.
Ciò nonostante, a volte essi
possegganoledotinecessarie
«alla gloria e all’alto rango».
Se, nell’insieme, l’influenza
di Saturno viene considerata
nefasta, gli astrologi trovano
rapidamente il modo di
conciliare le contraddizioni
delle
loro
previsioni
distinguendo fra le diverse
fasi di Saturno: il pianeta
può anche essere favorevole,
significare la felicità, la
ricchezza, lo spirito di
profezia, la vocazione di
medico, di geometra o di
filosofo.
I
neoplatonici
sottolineano
gli
aspetti
positividiSaturno.Macrobio
e Proclo considerano che i
pianeti,
in
posizione
intermedia fra il mondo
terrestre e il mondo divino,
non possano che avere
un’influenza
benefica.
Saturno
corrisponde
al
pensiero
razionale
e
speculativo;essosimboleggia
la
contemplazione
superiore,ilpensieroispirato,
ma produce anche apatia e
tristezza.
Coloro
che
soggiacciono
all’influenza di Saturno,
essenzialmente i malinconici,
sonoesserieccezionali,siain
positivo che in negativo. Nel
periodo del Rinascimento,
Marsilio Ficino ricorderà che
lamalinconia«èraramenteil
segno di un carattere o di un
destino ordinario; essa indica
piuttosto un uomo che vive
separato dagli altri, divino o
bestiale, felice o attanagliato
dallamiseriapiùestrema»32.
Tutte queste speculazioni
mostrano come il mal di
vivere fosse ampiamente
diffuso nel mondo grecoromano. Coloro che i medici
definiscono «malinconici»
non hanno evidentemente
niente a che vedere con gli
«infelici»dell’epoca:schiavi,
contadini, artigiani, troppo
occupati a sopravvivere per
permettersi stati d’animo
simili.Ilmaldivivererimane
un lusso relativo ancora per
molto tempo e assume una
connotazione positiva agli
occhi degli intellettuali, che
distinguono la malinconia
patologica dal temperamento
malinconico. La prima è
curabilecondiversirimedi;il
secondo è una disposizione
naturale che conferisce
all’individuo capacità fuori
dalcomune.
LucrezioeSeneca,
testimonidelmaldi
vivereromano
ApartiredalIsecoloa.C.
il mondo romano viene
pervaso da un vero e proprio
disagio esistenziale. Le
questioni religiose, spesso
trattate in Grecia, iniziano a
minare la grande forza
corrosiva
dei
valori
tradizionali, causando la
diffusione della noia in una
classeurbanariccaeoziosa.
Prendiamo l’epicureismo,
lafilosofianatadall’angoscia.
Epicuro, all’inizio del III
secolo a.C., sostiene che
l’umanità è sofferenza:
«Il mondo intero vive nel
dolore; esso è più incline al
dolore che a qualsiasi altro
sentimento, non c’è bisogno
che ogni essere vivente
lo dimostri, poiché la sorte
stessa dell’essere superiore
non contraddice in alcun
modo
questa
verità
universale». Se vogliamo
sfuggire a questa angoscia,
dobbiamo abbandonare le
speranze illusorie diffuse
dalle religioni e sfruttare la
nostra
dimora
terrestre
dosandone sapientemente i
piaceri. La morale epicurea,
molto esigente, dà vita a due
correnti contrapposte: lo
spirito di puro godimento da
un lato e la disperazione
dall’altro, il cui più brillante
rappresentante è Lucrezio
(98-55a.C.).
Lucrezio
è
un
«malinconico» di grande
levatura,checorrispondealla
definizione del Problema
XXX,1,manonèunmaniaco
depressivo, contrariamente al
ritratto che ne ha fatto il
dottor Logre in un libro del
1947, L’Anxiété de Lucrèce.
Angosciato,
ma
non
squilibrato, poiché l’angoscia
èpiùunsegnodiluciditàche
di follia, egli è testimone del
mal di vivere che si diffonde
a Roma in questo difficile
periodo del I secolo a.C. e
che
i
Romani
chiamano taedium vitae, la
fatica di vivere. In effetti le
circostanze sono favorevoli
alla sua espressione. Le
ripetute guerre civili, le
violenze, la corruzione e gli
omicidi
provocano
un
distacco
dai
valori
tradizionali,mentrel’afflusso
delle ricchezze provenienti
dallo sfruttamento delle
conquiste incoraggia l’ozio e
la dissolutezza. Questo
contesto, di cui ci sono
familiari molti elementi, fa
nascere
«un
clima
di depressione generale»33.
«Davanti
alla
visione
apocalittica di un mondo che
minacciava di crollare in
mezzo alle rovine di Roma
e al massacro dei suoi
cittadini più eminenti, uno
scoramento senza limiti si
impadronìdelleanimeedelle
menti più illuminate», scrive
Yolande Grisé nel suo studio
intitolato Le suicide dans la
Rome antique. «È così che,
delusi e scoraggiati dagli
orrori delle prime guerre
civili e preoccupati dalla
prospettiva di guerre ancora
piùterribili,alcunicittadiniin
cerca di evasione, di oblio e
di riposo senza risveglio
amaronéundomanitemibile
sprofondaronoinunasortadi
noiamorbosaeansiosa»34.
Lucrezio fa parte di
queste
«menti
più
illuminate».
Nato
in
un’illustre famiglia dalla
tradizione consolare, ricco,
amico di celebrità come
Cicerone, Attico o Catullo,
egli rifiuta di entrare
nell’arena dei combattimenti
politici. Preferendo tenersi in
disparte e riflettere sulla
condizione umana, egli
dedicailsuoDererumnatura
a un amico, Memmio,
politicocorrotto,ambiziosoe
senza scrupoli. In questa
superba testimonianza sulla
noia e il mal di vivere che
colpiscono i Romani agiati,
egli spiega come essi
cerchino di fuggire; ma
aggiunge che «in questo
modo si fugge soltanto se
stessi, ma non ci si stacca da
ciòchesivuolefuggire»35.
Se l’uomo prova disgusto
per se stesso è perché ignora
il senso della propria
esistenza e il destino che gli
vieneriservatodopolamorte.
Come un malato che
ignori la vera natura del
male:
se
riuscisse
a
scoprirla pure tra grandi
dolori
riuscirebbe a curarsi
e a vivere in modo
migliore.
Questo
è
un
problemadieternoenon
solodiore,
di un futuro infinito,
nel quale qualsiasi
mortale
trascorrerà tutto il
tempo che segue la
morte36.
Per dare un senso alla
propria vita, l’uomo si è
inventatodèi,miti,inferi,ma
ora trema davanti alle sue
creazioni; tutto è ora per lui
oggetto d’angoscia: paura
della morte, degli dèi, delle
punizioni, della sofferenza,
della malattia, dei tormenti
della coscienza. Eppure
Epicuro ha tentato di
illuminarlo mostrando quale
menzogna fossero gli dèi. Il
Dererumnaturavuoleessere
un libro di consolazione:
spiegando «la natura delle
cose»,
Lucrezio
mira
a
rassicurare
i
suoi
contemporanei.Dimenticatei
miti inventati dai sacerdoti,
consiglia; gli uomini non
sono che effimeri insiemi
di atomi che vagano senza
scopo in un universo
indifferente. Non bisogna
aver paura della morte,
poiché l’aldilà non esiste;
anzi, bisogna accoglierla, la
morte. Cosa c’è di più
ridicolo,infatti,delcercaredi
prolungare di qualche anno
unavitainutileeinsensata?
Anche
se
prolungassimo la vita
oltreildovuto
mairidurremmoquel
tempo che appartiene
allamorte:
non si può restar
morti per un tempo più
breve.
Potresti allungare la
vitaanchedimoltisecoli
ma
la
morte,
comunque,
resterà
sempreeterna:
nésaràmenolungaancheseoggisoltanto
chiudessimo
gli
occhi-dellamortediun
altro
che sia già morto in
passato, anche in tempi
remoti37.
Secondo una tradizione
consolidata, Lucrezio si
sarebbe suicidato all’età di
quarantatre anni. Tuttavia le
sue idee non possono
spiegarsi
unicamente
riferendosi
all’epoca
tormentata. I periodi di crisi
nonsonocheuncatalizzatore
che favorisce la presa di
coscienza dell’assurdità del
mondo, il quale non è meno
assurdo nei periodi di
equilibrio o di apogeo delle
civiltà,mailsistemadivalori
esistente, anche se effimero,
fornisce un’illusione di
spiegazione che soddisfa i
più. Quando il decoro
ufficiale dei valori civici,
politici e religiosi vacilla, i
più lucidi si ritrovano di
fronte al nulla dell’esistenza:
«Accogli questo dolore,
poiché ti insegnerà molto»,
consigliaOvidio.
La confisca del potere
politicodapartedeidittatorie
degliimperatoriaccentueràle
frustrazioni. Provando un
disagio esistenziale, alcuni si
rivolgono alla riflessione
filosofica
pessimistica,
mentre altri cercano di
ingannarelanoiaconviaggio
svariati
altri
piaceri.
L’opera di Seneca ne è
testimone: nella Roma del I
secolo,iltaedium vitae ha la
megliosuipatrizialpuntoda
diventare un vero e proprio
problema
sociale.
Lo
sviluppo dello stoicismo, a
partiredalleguerreciviliedal
principato, è in se stesso un
segno di pessimismo che
si diffonde nelle élite colte.
Fissare come ideale di
condottal’adesioneall’ordine
del mondo, mentre proprio
quest’ordinesembramancare,
non
significa
forse
riconoscere l’inutilità di
qualsiasi sforzo volto a
cambiare le cose? Seneca
afferma:
Nongiungoancoraa
dire che è più fortunato
chicesseràbenprestodi
vivere. [...] Di questo
tempo quanta parte è
occupata dalle lacrime,
dalle angosce? Quanta
dalla morte prima che
sopraggiunga
pur
desiderata, quanta dalla
malattia, dalla paura? E
gli
anni
dell’inesperienza e delle
sterili attività quanta ne
consumano? Metà di
tutto questo trascorre
nel sonno. Aggiungi le
fatiche,ilutti,ipericoli,
e capirai che anche in
un’esistenzalunghissima
è veramente poca la
partechesivive.[...]La
vitanonènéunbenené
un male, è un luogo
doveesistonoilbeneeil
male38.
Non lamentiamoci però
della brevità di questa vita:
«Nonèpocoiltempoanostra
disposizione, è molto invece
quellocheperdiamo»39.
Per il suo amico Serenus
chesilamentadinonriuscire
a stare fermo un minuto e di
non sentirsi soddisfatto in
alcunluogo,Senecascriveun
trattato, La serenità dello
spirito, in cui osserva che
questa fatica di vivere che
eglichiamafaticadisestessi,
èdivenutamoltocomune.La
descrizione che ne fa ricorda
quelladiLucrezio:
Sono tutti nella
stessa situazione, sia
quelli
afflitti
dall’incostanza,
dalla
noia e dal cambiare
continuamenteidea-per
essi è sempre preferibile
ciò che hanno lasciato sia
quelli
che
marciscono
nell’indolenza. [...] E
tuttociòrisultapiùgrave
quando, disgustati da
qualche
cocente
insuccesso, ci si rifugia
nella vita privata, nella
solitudine degli studi cose insopportabili per
un animo tutto preso
dalla vita politica,
amante dell’azione e
irrequietopernatura,che
in se stesso, si capisce,
trova
poche
soddisfazioni,[...]Diqui
eccolabennotanoia,la
scontentezza di sé,
l’irrequietezza di uno
spirito che non trova
pace da nessuna parte, e
l’amara
e
penosa
sopportazione
dell’inattività,
soprattutto
quando
rincresce ammetterne le
cause e la vergogna
obbliga a tenersi dentro
la pena, e la ambizioni,
come imprigionate in
uno spazio ristretto e
senza
sbocco,
si
soffocano da sole. Di
qui
la
tristezza,
l’abbattimentoelemille
perplessità dell’animo
indeciso, tenuto in ansia
dalle speranze che si
sono appena concepite e
reso triste da quelle che
sonostatedeluse.Diqui
lo stato d’animo di chi
odia la tranquillità del
suoritiroesilamentadi
non avere niente da fare
[...]. Si passa da
un viaggio all’altro e di
spettacolo in spettacolo.
Come dice Lucrezio:
«Così ciascuno cerca
sempre di sfuggire a se
stesso». Ma con quale
vantaggio, se non ci
riesce?Stasempredietro
e addosso a se stesso,
come un compagno
estremamente fastidioso
[...].Certunidaciòsono
stati spinti al suicidio
perché, pur cambiando
continuamente,
ricadevano negli stessi
propositi e non avevano
lasciatospazioanessuna
novità: cominciò a
disgustarli la vita e
persino il mondo, ed
ecco affacciarsi la tipica
domanda, frutto del
piacere deluso: «Sempre
le stesse cose! E fino a
quando?»40.
Vana
agitazione
e
abbattimento,disgustodisée
del mondo: i sintomi sono
proprio
quelli
della
depressione. Per combatterla,
SenecaconsigliaaSerenusdi
trovareun’occupazionechelo
motivi, anche se per farlo
bisognerebbe almeno credere
che valga la pena di
devolvere le proprie energie
all’umanità. Ora, il taedium
vitaenonèsoloscontentezza
di sé, ma anche disgusto per
gli altri: «Non basta
allontanarelecausepersonali
di tristezza: a volte siamo
colti dalla misantropia [...].
Allora l’anima si perde nelle
tenebre e una cupa notte la
circonda, come se si trattasse
divirtùchenonleèpermesso
di sperare che gli altri
abbiano, né vantaggioso di
avereinsestessa»41.
Noia, disgusto, nausea: i
testi di Seneca illustrano il
carattere atemporale del
taedium vitae. Continui a
cambiare residenza, scrive a
Lucilio, a causa della
«tristezza e il tormento del
tuocuore»;credicheiviaggi
serviranno a distrarti, ma in
realtà «ti chiedi perché pur
vagabondandodaunluogoad
un
altro
non
ti
sentimeglio»42.
La vita è noiosa, ma
paradossalmente si ha paura
di perderla. Temiamo la
vecchiaia, poiché «chi è
condotto alla morte dalla
vecchiezza, non ha alcun
motivo di speranza». «Non
volle vivere, chi non vuole
morire.Infattilavitacièstata
concessa colla limitazione
dellamorte»43.Ilrifiutodella
morte non è forse un rifiuto
della vita, una vita che ci è
stata imposta e fatta passare
come un privilegio e la cui
sola certezza è che conduce
alla morte? La paura
della morte è un elemento
fondamentale di questo stato
d’animo. Tale intuizione
conduceSenecaadanalizzare
un’altracomponentedelmale
di vivere: la presa di
coscienza del tempo che
passa. «Prima il tempo non
miparevacosìveloce:orami
sembra che esso passi con
straordinaria rapidità, sia
perché sento avvicinarsi la
fine, sia perché comincio a
porre attenzione e a fare il
calcolo degli anni perduti»,
scrive nella Lettera 49.
Questanuovapreoccupazione
diventerà un tema classico
nelle espressioni del mal di
vivere.
Iltaediumvitaecome
ragionelegittimadi
suicidio
Seneca osserva che il
disgusto per la vita è
all’originedinumerosisuicidi
in tutte le categorie sociali:
«Non pensare che solo i
grandi uomini abbiano avuto
la forza di spezzare le catene
dellaschiavitùumana;Catone
strappò con le sue mani
l’animachenonerariuscitoa
gittar fuori con la spada; non
credere che possa farlo lui
solo: uomini di infima
condizione sociale si sono
messi
in
salvo
con
straordinario impeto e, non
potendo morire a loro agio e
nemmeno scegliere il mezzo
che volevano per darsi la
morte, hanno afferrato quello
checapitavasottomanoecon
la loro violenza hanno
tramutato in armi oggetti di
perséinnocui»44.
Tutti i mezzi sono buoni,
compreso quello che consiste
nel soffocarsi con la spugna
per asciugare le parti intime
ad uso collettivo nei bagni
pubblici, come fece un
gladiatore
germanico:
«Ognunogiudichicomecrede
l’azione di quest’uomo
indomito, ma sia chiaro: alla
schiavitù più pulita è
preferibile la morte più
sozza»45. Seneca cita anche
altri esempi che approva. Se
la vita diventa troppo
dolorosa, l’uomo ha almeno
la libertà di lasciarla: «Ti
piace vivere? Vivi; se no,
puoi tornare da dove sei
venuto»46,
proclama
Seneca, pur deplorando il
fatto che molti si tolgano la
vita un po’ troppo alla
leggera: «L’uomo coraggioso
e saggio non deve fuggire
dallavita,mauscirne.Sieviti
anzitutto quel sentimento che
si è impadronito di molti: il
desiderioanelodimorire»47.
Nel mondo greco-romano
la morte volontaria è
un’annosa
questione.
Aristotele
enumera
le
argomentazioni contro il
suicidio, a suo parere atto di
viltà di fronte alle proprie
responsabilità, un’ingiustizia
perpetrata contro se stessi; le
vicissitudini
dell’esistenza
vanno
affrontate a qualunque costo,
poiché ne va del buon
funzionamento della città.
Anche i pitagorici si
oppongono al suicidio, ma
per ragioni completamente
diverse: l’anima deve espiare
finoallafinepoichéècaduta
in un corpo in seguito a una
sozzura
originaria;
l’associazione dell’anima e
del corpo è basata su
rapporti numerici la cui
armonia verrebbe spezzata
dal
suicidio.
Secondo Eraclito, questa
bella teoria non avrebbe
comunque
impedito
a Pitagora di lasciarsi morire
difamepertediodivivere.
Platone è molto più
esitante in proposito. Nelle
Leggi e gli dichiara che
bisogna rifiutare la sepoltura
pubblica di coloro che si
suicidano, salvo in caso di
malattia molto dolorosa e
incurabile, di vita troppo
miserabile e di condanna
(Socrate). Nel Fedone il suo
imbarazzo è palese: pur
affermando che il suicidio
non è forse auspicabile nella
città, Socrate ritiene che la
morte
sia
talmente
desiderabile che il filosofo
non possa che aspirarvi, la
sua «condanna» del suicidio
manca
pertanto
di
convinzione: «In base a
questo, dunque, non è
precetto irragionevole che
nessuno debba uccidere
se stesso prima che Dio non
gli mandi un perentorio
comando, come ha fatto ora
con noi»48. Catone avrebbe
letto
due
volte
il
Fedone prima di suicidarsi,
fatto che può essere
interpretato
sia
come
una mancanza di chiarezza
tale da richiedere una
rilettura, sia come mancanza
di
ammirazione.
I
neoplatonici della tarda
Antichità saranno invece
feroci avversari della morte
volontaria:Plotino,Porfirioe
Microbio dichiarano che,
poiché il fine della vita è
purificare l’anima, l’unione
con il corpo non deve essere
spezzataviolentementeprima
della scadenza fissata dagli
dèi.
I detrattori del suicidio
subordinano l’individuo a un
ordine sovrannaturale e agli
interessi della collettività. I
sostenitori del libero suicidio
pongono l’individuo come
valore
supremo,
essere autonomo e libero,
dotato del potere di decidere
da solo della propria vita e
della
propria
morte.
All’interno di questo schema
generale, ogni tipo di
sensibilità accentua tale o
talaltro aspetto. I cinici
professano un distacco
completo nei confronti della
vita,sequestanonpuòessere
condotta secondo ragione:
Antistene ritiene che coloro
che non siano dotati di
un’intelligenza
sufficiente
farebbero
meglio
a
impiccarsi. Il suo discepolo
Diogene spinge all’estremo
questo principio: per vivere
bene occorre una ragione
retta, oppure una corda. Gli
Epicurei ritengono che nel
caso
la
vita
diventi
insopportabile, sia saggio
riflettere e andarsene in
silenzio
e
senza precipitazione, «come
se si uscisse da una stanza
pienadifumo».
Anche
gli
stoici
suggeriscono un suicidio
ponderato quando la ragione
ci mostra che si tratta della
soluzione più degna per
conformarci all’ordine delle
cose,oquandononpossiamo
più seguire la linea di
condotta che ci eravamo
prefissati. La vita e la morte
sonoindifferenti,poichétutto
è travolto dall’universo
panteista. «Il saggio può a
ragionedarelavitaperlasua
patriaeisuoiamici,eancora
uccidersi se soffre di dolori
atroci,sehaperdutounartoo
se
ha
una
malattia
incurabile». Così Diogene
Laerzio riassume il pensiero
stoico sulla morte volontaria,
illustrato dal suicida Zenone
all’età di novantotto anni:
«Uscendo dalla sua scuola
cadde e si ruppe un dito ma,
battendo la mano per terra
disse,
rivolgendosi
a
Niobe: “Arrivo. Perché mi
chiami?”, dopodiché si
strangolò e morì». Che il
suicidio sia un diritto
fondamentale della persona
umanaloscriveancheSeneca
a Lucilio: alcuni sostengono
che occorra attendere il
termine che la natura ha
prescritto. Ma chi sostiene
tale pensiero non si rende
contodiprecludersilalibertà.
Questidibattitiriguardano
le élite colte, mentre nelle
classi popolari il suicidio è
circondato da un timore
superstizioso.
Diverse
testimonianze
indicano come ad Atene, nel
IV secolo a.C., il corpo dei
morti suicidi subisse un
trattamento
particolare.
Secondo Aristotele l’uomo
che si dà la morte viene
colpito dal disonore, poiché
commette
un’ingiustizia
contro la città49. Egli utilizza
qui il termine atimia, il cui
significato è abitualmente
riconducibile alla perdita di
diritti civici. Alla stessa
epoca, il retore Eschine
proclama: «In caso di
suicidio, seppelliamo lontano
dal corpo la mano che causò
la morte»50. Plutarco, nella
sua
biografia
di
Temistocle, evoca un luogo
nel distretto ateniese di
Melite, dove «gli addetti alle
esecuzionigettanoicorpidei
condannatiamorteeportano
le vesti e i cappi degli
impiccati e dei giustiziati»51.
Nell’isola egea di Kos una
legge del ΙΠ secolo a.C.
dispone che una maledizione
colpiscalevestieicappiche
sianoservitiaunsuicidio52.
La stessa ripugnanza
esisteva certamente nel
mondo
ebraico.
Flavio
Giuseppe scrive: «Presso di
noi è stabilito che i suicidi
non possono aver sepoltura
primadelcalardelsole,eciò
nonostante si ritenga un
dovere quello di seppellire
anche
i
nemici»53.
Il Semahot, uno dei libri che
commentano la Legge che
cita i pareri di molteplici
rabbini, conclude che in caso
disuicidio«laregolagenerale
è che il pubblico deve
partecipare a tutto quanto
rappresenti un segno di
rispetto per i viventi; non
deve partecipare a quanto
rappresenti un segno di
rispetto per la morte»54. Il
Talmud contiene invece
tradizioni
diverse
e
contraddittorie.
Nelmondoromanoalcuni
libri liturgici ordinano che il
corpo di colui che si è
impiccato venga «gettato
senzasepoltura».Plinionarra
che
Tarquinio
faceva
crocifiggere i cadaveri dei
suicidi. La maledizione si
estende alle vigne vicine al
luogo dell’impiccagione: il
vinocheverràprodottodatali
vigneti non dovrà essere
offerto agli dèi55. Il collegio
funerario di Sarsina, in
Umbria,rifiutaisuoiservizia
chi si uccide in maniera
degradante, mentre quello
di Lavinio è più draconiano:
«Chiunque,
per
una
qualunque ragione, abbia
attentatoallapropriavita,non
ha
diritto
alla ratio
funebris»56.
L’immagine del suicidio
nell’Antichitàsembradunque
abbastanzaconfusa.Ilsuicida
è inquietante, soprattutto
l’impiccato, poiché si teme
che, con il suo atto, disturbi
gli altri morti e inquini i
luoghi. Ma le pratiche
discriminatorie nei confronti
del suo cadavere non sono
generalizzate.Lafilosofiaela
morale
comune
non
condannano
sistematicamente il fatto di
uccidersi,
la
cui
responsabilità è a volte
attribuita alle influenze
astrologiche: quando Marte è
opposto al Sole o alla Luna,
scrive Tolomeo, questa
costellazione «causa morte
durantelottecivilioinguerra
a opera di nemici, o per
suicidio»57. Vettius Valens
ritiene persino che gli astri
determinino le modalità di
suicidio.
Neanche
il
mondo
romanocondannadeltuttola
mortevolontaria,chehafatto
la gloria dei grandi uomini
che incarnano i valori
supremi: Catone, Bruto,
Cassio,
Caio
Gracco,
Antonio,Varo,Seneca,senza
parlare
della
giovane
Lucrezia58.
Nessuna
legislazione
rifiuta
sistematicamente il suicidio.
Le
leggi
romane,
elaborate nel corso dei secoli
e così come le troviamo
compilate nei codici della
tarda Antichità, il Corpus
jurise il Codex di Teodosio,
sono molto esplicite: la
preoccupazione
del
legislatoreèdievitarecheun
individuosfuggaallaconfisca
dei beni prevenendo la sua
condanna con un testamento
seguito da suicidio, poiché
talibenipasserebbero ai suoi
eredi, a detrimento del fisco.
Tutte le leggi riconoscono la
legittimità
del
suicidio
provocato dal dolore, dalla
follia,
dalla
vergogna,
dall’ostentazione (iactatio),
dal disgusto e dalla fatica di
vivere (taedium vitae). Un
rescritto di Antonino il Pio
risalente al II secolo prevede
quanto segue: «Se viene
provatochetuofratellootuo
padre, non accusato di alcun
crimine, si è impiccato per
sfuggire a un qualche dolore
fisicooaldisgustoperlavita,
oppure per rabbia o follia o
altrecircostanze,alloraisuoi
beni vanno ai suoi eredi, che
abbia redatto o meno un
testamento»59.Lostoicismoè
divenuto legge, consacrando
la legittimità del suicidio a
causa della fatica di vivere,
riconoscenza indiretta della
banalità del taedium vitae
nellasocietàromana.
Dueelementiconfermano
che per i Romani il diritto al
suicidio per taedium vitae è
da considerare un diritto
fondamentale. Da un lato,
nell’esercito, il tentativo di
suicidio viene assimilato
alladiserzioneepunitoconla
morte, ma è giudicato
scusabile e punito con una
semplice
destituzione
infamante se causato da «un
dolore intollerabile, o da una
malattia,odaqualcheluttoo
per un’altra causa»60. Tale
altra causa, precisa Adriano,
puòessereiltaediumvitae,il
furor o il pudor. Solo gli
schiavi non possono godere
di questo diritto. Il suicidio
causato dalla fatica di vivere
èilsegnodell’uomolibero.
Dall’altro lato, a partire
dal III secolo, mentre il
potereimperialeevolveverso
il dispotismo, la legislazione
sul suicidio si inasprisce, ma
la fatica di vivere resta
l’ultimo motivo legittimo per
congedarsi dall’esistenza. Un
testo del giurista Marzio
(inizio VI secolo) condanna
senza ambiguità il suicidio
«senzaragione»(sinecausa):
colui che tenta di uccidersi
«deve essere punito, a meno
che non sia stato condotto a
taleattodallafaticadivivere
o dall’impazienza causata da
qualche
dolore.
È
assolutamente giusto che
debba essere punito se ha
attentato a se stesso senza
ragione»61.
Neifatti,poi,èdavveroil
mal di vivere che porta a
togliersi la vita? Difficile
rispondereaquestadomanda,
poiché andiamo a scontrarci
conlamancanzadistatistiche
sulle cause della mortalità
nell’Antichità, oltre che con
l’impossibilità di determinare
le ragioni esatte dei suicidi e
soprattuttodeicasidifaticadi
vivere. Il suicida, infatti, non
è forse sempre colpito dalla
fatica di vivere? Pur tenendo
ben presenti questi limiti,
tentiamo di stilare un
bilancio. Nella sua notevole
opera From Autothanasia to
Suicide.
Selfkilling
in
Classical Antiquity62, Anton
Van Hooff ha studiato
circa 960 casi di suicidio nel
mondo grecoromano e ha
dimostrato come tutte le
classi ne fossero coinvolte,
dagli schiavi ai patrizi più
ricchi. Secondo le parole di
Seneca, tutti i mezzi sono
buoni per mettere fine ai
propri giorni: il 4% si uccide
indirettamenteinseguitoaun
attodiprovocazione;il6%si
uccide con il fuoco, l’8%
smettendo di alimentarsi
(inedia),il10%conilveleno
(dalla cicuta all’oppio), il
16% gettandosi nel vuoto, il
18%
per
impiccagione (proporzione
certamente molto più elevata
fra il popolino e gli schiavi),
il 40% si uccide con il
pugnale o con la spada,
strumento
considerato
nobile63. Secondo lo stesso
studio,su923casiincuisono
indicati i motivi del suicidio,
più della metà (54%) sono
dovuti alla vergogna o alla
disperazione nel cercare
scampo (pudor e desperatio
salutis)·, il dolor rappresenta
solo il 13 % dei casi,
l'impatientia il 5 % e il
taedium vitae il 2 %. Se
aggiungiamo queste ultime
tre
cause,
possiamo
considerare che il male di
vivere sia all’origine di un
solosuicidiosucinque.
I giovani e gli anziani
sono i più colpiti. Per quanto
riguarda le donne, Ippocrate
spiega le loro tendenze
suicide con un cattivo flusso
sanguigno: accumulandosi, il
sangue delle mestruazioni
può esercitare una pressione
sugli organi vitali e quindi
diffondere nel corpo un
umore
cupo.
L’unica
soluzione è il matrimonio.
«Nei casi in cui le giovani
soffrano di tali affezioni,
consiglio loro di vivere con
degli uomini il prima
possibile»64. Altri autori
avanzanounaspiegazionepiù
verosimile: le giovani sono
più soggette alla malinconia
suicida poiché vengono
confinate in casa e vengono
loro vietati i divertimenti:
«Non ci è permesso vedere
nemmeno la luce del giorno,
siamo tenute nascoste nelle
nostre stanze, in preda ai
nostri pensieri»65. Quanto ai
giovani,Aristoteleritieneche
si impicchino con maggior
frequenza rispetto agli adulti
poiché non hanno ancora
acquisito il «calore vitale»
che è la fonte della forza di
carattere,tuttaviasisuicidano
raramente a causa del
taedium vitae: secondo
AntonVanHooff,infatti,tale
causa riguarderebbe solo
l’1%diessi66.
La proporzione è invece
molto più elevata fra gli
anziani: l'11 % si suicida per
taedium vitae, l'11 % per
dolor,il23%perimpatientia.
Quasilametàdeisuicidisono
dovutiquindialmaldivivere
a livello generale. Non
stupiamocene:gliAntichinon
cercavanoinfattidipresentare
la vecchiaia sotto una buona
luce, solo Cicerone tentò di
riabilitarla nel suo De
senectute. Secondo Diogene
Laerzio la maggior parte dei
filosofi greci, raggiunta una
certa età, avrebbe messo fine
ai propri giorni: Speusippo a
sessantotto anni, Epicureo a
settantuno, Zenone lo stoico,
Cleante
e
Anassagora
a settantadue, Diogene a
ottanta,Pitagoraaottantadue.
Questi esempi prestigiosi
diffondono l’idea che il
suicidio
sia
la
realizzazione della vita da
filosofo. Luciano, per una
volta
finalmente
serio,
raccontainfattilafinedelsuo
maestro Demonax all’età di
centoanni:«Quandocapìche
non poteva più occuparsi di
se stesso, citò a coloro che
erano con lui i versi che
recitano gli araldi dei giochi:
“I giochi sono terminati, i
premi sono stati assegnati;
amici, è tempo di andare”.
Quindi, astenendosi dal
mangiare, lasciò la vita con
lo stesso buon umore che lo
aveva
sempre
contraddistinto»67.
Gli epigrammi ellenistici
riportano numerosi suicidi di
persone anziane. Nel mondo
latino alcune iscrizioni
funerarieindicanoavolteche
il defunto, anziano, si era
ucciso per taedium vitae .
Una delle più esplicite è
quella di un uomo di lettere,
Marco Pomponio Bassulo,
intorno al 120 d.C., che
spiega sulla sua tomba:
«Affranto dalle angosce di
uno spirito oppresso e dai
moltidoloridelcorpo,chemi
fecero provare disgusto per
entrambi, mi sono dato la
morte che desideravo»68.
Questo esempio è conforme
alla
concezione
stoica enunciata da Seneca
nellasuaLettera58aLucilio:
«Non attaccherò me stesso
spinto di mia mano, spinto
dal dolore: morire in
questo modo significa essere
sconfitti. Se tuttavia mi sarò
reso conto che dovrò
sopportarlo per sempre, me
ne andrò non a causa della
sofferenza di per se stessa,
ma perché essa mi impedirà
tutto ciò che rappresenta
sostanza e ragione di vita.
Debole e pavido è colui che
muoreperildolore,mastolto
colui che vive allo scopo di
soffrire»69. L’insegnamento
di questa lezione verrà
raccolto da molti anziani
patriziromanidellafinedelI
secolo e dell’inizio del II.
PlinioilGiovaneriportanelle
sue lettere diversi esempi di
vecchi malati che hanno
decisodilasciaredegnamente
questa vita. Uno dei suoi
amici,dell’etàdisessantasette
anni, paralizzato dalla gotta,
sofferente
«i
dolori
più incredibili e più
immeritati», si è appena dato
la morte, gesto che,
nota Plinio, «solleva la mia
ammirazione di fronte alla
grandezza della sua anima».
In un’altra lettera egli evoca
Tito Aristo, che «soppesò
deliberatamenteleragioniper
vivere e per morire»,
dopodiché si diede la morte.
Egli cita anche il caso di
Arria, una Romana che, per
incoraggiare suo marito
vecchioemalatoasuicidarsi,
gli
diede
l’esempio
uccidendosi
davanti a lui. O ancora la
commovente storia di una
vecchia coppia di umili
cittadini: poiché l’uomo era
affetto
da
un’ulcera incurabile, la
consorte «gli consigliò di
mettere fine ai suoi giorni
e, accompagnandolo, gli
mostrò la via con il suo
esempio trasformandosi nel
mezzo della sua morte
poiché, attaccandosi a suo
marito, si gettò nel lago».
Strabone ed Eliano non
esitano a presentare il
suicidio degli anziani come
un sacrificio benefico per la
comunità evocando l’usanza
di Ceos, un’isola in cui i più
anziani
si
riuniscono
periodicamente per bere «la
cicuta, con una ghirlanda
sullatesta,comprendendoche
sono diventati inutili per la
patria quando le loro facoltà
mentali iniziano a venire
meno».
Il numero degli uomini
che si uccide per taedium
vitae e per impatientia è tre
volte superiore rispetto alle
donne,tuttaviasonorariicasi
di suicidio conosciuti negli
adulti di mezza età. Tacito
menziona Ludo Arrunzio,
implicato in un processo per
complicità
con
Albucilla, avversario di
Tiberio: egli avrebbe potuto
essere
risparmiato,
ma dichiarò che «era vissuto
abbastanza», e «si aperse le
vene»70. Ceciilo Cornuto si
uccide
nelle
stesse
circostanze71. Svetonio, dal
cantosuo,citaCneioLentulo,
spinto al fastidio per la vita
(ad fastidium vitae) da
Tiberio. In tutti questi casi
celebri riportati dagli storici
romani, il taedium vitae è
determinato da circostanze
particolari: accuse ingiuste,
malattie dolorose, lutti. Ma
Luciano, consapevole più di
chiunque altro dell’assurdità
fondamentale del mondo, per
il quale la vita è una
commedia grottesca in cui il
caso distribuisce i ruoli
creando così gli schiavi e i
padroni, i malati e i sani, i
belli e i brutti, non è tentato
dall’ideadiporrefineaisuoi
giorni e raccomanda una
saggezza
disincantata:
«Passare
attraverso
la
maggior parte degli eventi
ritienilo senza prendere nulla
sul serio». Il pessimismo
integrale può sfociare nella
risata.Infindeiconti,osserva
Yolande
Grisé,
«il
suicidio per taedium vitae
comedescrittoeanalizzatoda
LucrezioeSenecaerauncaso
più eccezionale di quanto si
potesse
credere:
nella
maggior parte dei casi citati
dagli Antichi il suicidio
mirava ad uscire da una
situazione particolare che
paralizzava la voglia e il
desiderio di vivere più che a
riferirsialdisgustoperlavita
stessa»72.
Lamalinconiacome
tarapsicologicae
morale
Fino al I secolo a.C. la
malinconia, al di fuori delle
sue forme patologiche, ha
mantenuto l’aura prestigiosa
conferitale dal Problema
XXX,1 aristotelico: essa è la
prerogativa
dei
grandi
uomini. Per gli stoici è certo
unamalattia,maunamalattia
considerata
«come
un
privilegio
negativo
del
saggio»73. Alcuni la rendono
persino
una
normale
disposizione
dell’uomo:
«Sono un uomo, ecco
una buona ragione per
sentirmi triste», constatava
Menandro. Nel I secolo a.C.
il medico Asclepiade di
Bitinta,
trasferitosi
a
Roma, vede già negli stati
depressivi un inizio di
disordine mentale: il furore
(phrenesis) e la tristezza
(tristizia)
sono
forme
croniche di irregolarità
dell’immaginazione
che
provocanotristezzaofelicità.
Le sue cure sono anzitutto di
ordine psicologico: viaggi,
musica,
conversazioni
gradevoli, ma anche bagni,
massaggi,
esercizio
fisicomoderato:sitrattadella
stessa terapia suggerita nel I
secolo d.C. da Menodoto di
Nicomedia,
il
quale
raccomanda
anche
l’assunzione di elleboro, che
ha fama di sviluppare
l’intelligenza.
Nel II secolo l’immagine
della malinconia è già
decisamente appannata. Aulo
Gellio,nellesueNottiattiche,
si prende gioco di ciò che
considera
come
un’affettazione alla moda,
tipica degli intellettuali: «Va
detto però che questo stato
depressivo
chiamato
“atrabile” non colpisce i
soggetti meschini o ignobili;
è una malattia a suo modo
eroica, che dà il coraggio di
dire la verità, senza riguardo
né delle circostanze, né della
misura»74. Il medico Areteo
di Cappadocia fa una
descrizione della malinconia
che assomiglia molto a ciò
che
noi
definiamo
depressione ansiosa: «Il
malinconicosiisola;hapaura
di essere perseguitato e
imprigionato; è tormentato
dalle
superstizioni;
è
terrorizzato; crede che i suoi
fantasmi siano reali; lamenta
mali immaginari; maledice la
vita e desidera la morte. Egli
si sveglia bruscamente e si
sente molto affaticato. In
alcuni casi, la depressione
sembra essere quasi una
mania:ipazientisonosempre
ossessionati dalla stessa idea
epossonoesserealcontempo
depressiepienidienergia»75.
La malinconia è la malattia
degli anziani, dei grassi, dei
deboli, dei tristi, dei
solitari,aggiungeAreteo,che
pensa di poter aiutare i
pazienti descrivendo il loro
male e consigliando loro il
consumo di more e di pere,
oltrecheunpo’disesso.Alla
stessaepocaunaltromedico,
Archigene da Apamea, vede
nella malinconia anche una
specie di malattia maniacale,
un inizio di follia, con paure
irragionevoli,
visioni,
tendenza al suicidio, alla
misantropia, all’avarizia, alla
golosità; il malinconico è
magro; ha la pelle scura e
l’alito pesante. Nel III
secolo
un
trattato
erroneamente attribuito a
Sorano d’Efeso definisce
il malinconico «furbo, avido,
depresso, misantropo e
timido»76.
Siamoinsensibilmentepassati
dallamedicinaallamorale;il
mal di vivere è divenuto una
tara sociale oltre che una
grave
deficienza
psicofisiologica. Tutto è
prontoperlademonizzazione
della malinconia e la sua
assimilazionealpeccato.
1 A. ERMAN, Gespräch
einesLebensmüdenmitseiner
Seele:ausdemPapyrus3024
der Königlichen Museen, in
Abhandlungen
der
königlichen
preussischen Akademie der
Wissenschaften, Verlag der
Konigl.,Berlino1896.
2A.P.LECA,La medicina
egizia al tempo dei faraoni,
Ciba-GeigyEdizioni,1986,p.
320.
3 E. OTTO e W. HELCK (a
cura di), Lexikon der
Ägyptologie, Harrassowitz,
Wiesbaden 1984,vol. 5, col.
823.
4Ègiàinquest’otticache,
nel 1984, Jackie Pigeaud
sosteneva la causa di
unastoriadellamalinconia0.
PIGEAUD,Prolégomènesàune
histoire de la mélancolie, in
«Histoire, Economie et
Société», 1984 n. 4, pp. 501510).Eglihaanchegettatole
basi per uno studio della
malinconia nell’antichità (J.
PIGEAUD,Poliesetcuresde
la folte chez les médecins de
l’antiquitégréco-romaine.La
manie, Les Belles Lettres,
Parigi 1987, e J.PIGEAUD,La
maladie de l'ame. Étude sur
la relation de farne et du
corps dans la tradition
médico-philosophique
antique,
Les
Belles
Lettres, Parigi 1989). Nella
stessaotticasivedaancheY.
HÉRSANT,
Mélancolies,
«Bulletindufran°ais.Journal
delaComédiefrançaise»,Sur
le rire et la folte, Rivages,
Parigi1991.
5J.B.PRITCHARD(acura
di), Ancient Near Eastern
Texts Relating to the
Old Testament, Princeton
University Press, Princeton
1950,p.438.
6Ivi,p.439.
7 Abbiamo studiato
questi aspetti in G. MlNOIS,
Histoire
des
enfers,
Fayard, Parigi 1991; trad, it.,
Piccola storia dell’inferno,Il
mulino, Bologna 1995, e Id.,
Les origines du mal, Fayard,
Parigi2002.
8A.D.SERTILLANGES, Il
problema
del
male,
Morcelliana,Brescia1951,p.
67.
9 ERODOTO, Storie, V, 4,
Bur,Milano2001,p.13.
10
A.D.
SERTILLANGES,
Il
problema del male, cit., pp.
135-136.
11ESIODO,Le opere e i
giorni, 101-104, Garzanti,
Milano1985,p.9.
12 TEOGNIDE, Elegie,
BibliotecaUniversaleRizzoli,
Milano 1989, II, 425-426, p.
143.
13 OMERO, Iliade, XVII,
562-565.
14J.KRISTEVA,Soleil
noir;
depression
et
mélancolie,Gallimard, Parigi
1987, p. 17; trad, it., Sole
nero.
Depressione
e
malinconia,
Feltrinelli,
Milano1989.
15 SOFOCLE, Edipo a
Colono, in Tutte le tragedie,
Newton
&
Compton,
Roma1991,p.336.
16 EURIPIDE, Cresfonte,
Istituto Editoriale Cisalpino,
Milano 1974,5,116-120, pp.
15-16.
17ERODOTO,Storie, dt.,
1,31,pp.109-110.
18
LUCIANO DI
SAMOSATA,Unavendita di
vite all'incanto, Giusti,
Livorno1924.
19 Pseudo Ippocrate, IV,
XVII,25.
20 RUFO D’EFESO,
OEuvres, a cura di Ch.
Daremberg e Ch.-E. Ruelle,
Parigi1879p.357,12.
21Ivi,p.455,31.
22Ivi,p.457,18.
23 Cf. J.-Fr. GAUTIER,
L'Ame et les passions, Parigi
1995,
p.
91:
«La
sottomissione dell’anima ai
mali del corpo che si
manifestano durante le
malinconie, le frenesie e le
manie».
24 Problema XXX, 1,
953. L’autore ha usato la
traduzione dal francese
apparsa in R. KLIBANSKY, E.
PANOFSKY E F. SAXL, Saturne
et la mélancolie: études
historiquesetphilosophiques:
nature, religion, médecine et
art,Gallimard,Parigi1989, .
52; trad. it. Saturno e la
melanconia: studi di storia
della filosofia naturale,
religione, arte, Einaudi,
Torino1983.
25 ARISTOTELE,
Metafisica,I,2.
26ID„ProblemaXXX,1,
955a,3.
27 J. KRISTEVA, Sole
nero,cit.
28 ARISTOTELE,
Metafisica,cit.,1,954a.
29Ibidem.
30 PLATONE,Tutte le
opere, Newton & Compton,
Roma 1997; Fedro, 244a, p.
455.
31 PLATONE, La
Repubblica,LibroVIII.
32MARSILIOFICINO, De
vita triplici, Biblioteca
dell’Immagine, Pordenone
1991
33
E. COURBAUD,
Horace, sa vie, sa pensée à
l’époque
des
Épitres,
Hachette,Parigi1914,p.139.
34 Y. GRISÉ,Le suicide
dans la Rome antique, Les
BellesLettres,Parigi1983,p.
70.
35 LUCREZIO, De rerum
natura, Libro ΙΠ, Newton &
Compton, Roma 2000; 10681069,p.191.
36
LUCREZIO, De
rerum natura, cit., 10701074,pp.192-193.
37 Ivi, 1087-1094, p.
193.
38 SENECA, Lettere
morali a Lucilio, vol. II,
Mondadori, Milano 1995;
Lettera99,10-12,p.803.
39SENECA,Labrevità
dellavita,inLabrevitàdella
vita,Laserenitàdellospirito,
Gribaudo
Editore,
Cavallermaggiore 1989,1, 3,
p.81.
40 SENECA, La
serenità dello spirito, cit., II,
6-15,pp.17-21.
41Ibidem.
42 SENECA, Lettere a
Lucilio, UTET, Torino 1969;
Libro III, Lettera 28,1,2,
p.179.
43ID.,Lettera30,10,p.
191.
44 ID., LIBRO VIII,
Lettera70.
45 SENECA, Lettere a
Lucilio,cit.
46Ibidem.
47ID.,Lettere morali a
Lucilio,cit.,vol. I, Libro III,
Lettera24,p.133.
48
PLATONE, Fedone,
Editrice La Scuola, Brescia
1984,VI,62c.
49 ARISTOTELE, Etica
Nicomachea, Bur, Milano
1986,vol.I,V,3.
50
ESCHINE, Contro
Ctesifonte,
Mondadori,
Milano1995,§245,pag.131.
51 PLUTARCO, Vite,
UTET,Torino1992,vol.I,p.
413.
52F.SOKOLOWSKI(a
cura di), Lois sacrées des
cités grecques, De Boccard,
Parigi1969,p.267.
53 FLAVIO GIUSEPPE, La
guerra giudaica, Fondazione
Lorenzo Valla, Milano 1982,
vol.I,HI,376-377.
54 The Tractate
«Mourning»
(Semahot).
Regulations Relating to
Death, Burial and Mourning,
Yale
University
Press,
Londra1966.
55 A J.L. VAN HOOFF,
From
Autothanasia
to
Suicide:
Self-killing
in
Classical
Antiquity,
Routledge,Londra-NewYork
1990,pp.164-165.
56Ivi,p.166.
57
TOLOMEO, Le
previsioni
astrologiche
(Tetrahiblos),
IV,
9,
Fondazione Lorenzo Valla,
Milano1985,p.339.
58G.MiNOIS,Histoire
du suiäde, Fayard, Parigi
1995, pp. 61-74 e M.
G R I F F I N ,Philosophy, Cato,
and Roman Suicide, «Greece
andRome»,33,1986.
59CodexJuris,libro9,
titolo50,§1.
60Digest,48,19,§38.
61Ivi,p.23.
62 VAN HOOFF A J.L.,
From
Autothanasia
to
Suicide,cit.
63Ivi,p.23.
64Ibidem.
65Ibidem.
66 VAN HOOFF A.J.L.,
From
Autothanasia
to
Suicide,cit.
67Ivi,p.36.
68 Berlage J.,
Ziekten en
sterfgevallen in de brieven
Van Plinius de Jongere,
«Hermeneus», 9, 1938, pp.
66-73.
69 SENECA, Lettere
morali a Lucilio,cit., vol. II,
Lettera58,36,p.299.
70 TACITO, Annali, VI,
48,1,3,UTET,Torino1969,
p.559.
71Ivi,IV,28,2,p.423.
72 Y. GRISÉ,Le suicide...,
cit.,pp.72-73.
75 R. KLIBANSKY, E.
PANOFSKYEESAXL,Saturnoe
lamelanconia,cit.
74 AULO GELLIO, Notti
attiche, II, VII, 4, UTET,
Torino1992,p.1307.
75 Citato da A.
SOLOMON, The noonday
demon:
an
atlas
of
depression, Scribner, New
York 2001; trad, it., Il
demone di mezzogiorno:
depressione: la storia, la
scienza, le cure, Mondadori,
Milano2002.
76 R. KLIBANSKY, E.
PANOFSKYEESAXL,Saturno
elamelanconia,cit.,p.62.
Capitolosecondo
Lademonizzazionedel
maldivivere:l'acedia
medievale
Rivolto verso la vita
futura, l’aldilà eterno, il
cristianesimo è naturalmente
portato
a
concepire
l’esistenza terrestre come
una prova purificatrice, una
«valle di lacrime» la cui
traversata ci condurrà alla
felicità eterna. La vita è il
tempo dell’esilio, spiega
SanPaolo1;lamortesegnala
fineditutteleproveeilbuon
cristiano non può che
augurarsi che arrivi presto.
Questomondoèunmondodi
perdizione,
votato
al
demonio,dovelospiritodeve
condurre un’eterna battaglia
contro
la
carne,
considerazione
che
porta Origene ad affermare
che dovremmo piangere il
giorno
del
nostro compleanno. Tuttavia
la disperazione diventa
repentinamente una colpa
morale il cui responsabile
designatoèildiavoloilquale,
sin dal peccato originale,
turbalavitadegliuomini.La
Chiesa dunque combatterà
questo mal di vivere
demonizzato che gli autori
spiritualichiamanoacedia.
Nascitadell’accidia
negliambientieremitici
(Sant’EvagrioPonticoe
SanGiovanniCassiano)
L’accidia
sembra
compiere una vera e propria
strage
negli
ambienti
cenobitici e monastici del IV
e V secolo. Evagrio
Pontico
(345-399),
un
cenobita nato nel Ponto e
ritiratosi per sedici anni nel
deserto egiziano, attira
l’attenzione su questo strano
malessere che coglie il
solitario verso mezzogiorno.
L’asceta, indebolito dalle
privazioni, sfinito dal sole a
picco, cade nel più completo
stato di abbattimento; viene
colto dal disgusto, dalla
nausea; tutto gli sembra
immobile,
persino
l’implacabilesolechesembra
fermarsi;lasuamenteiniziaa
divagare; egli è assalito dalle
visioni e attende la morte
comeunaliberazione.Questa
immensa tristezza e il
languoreprovatodalsolitario
si accompagnano a una noia
profonda, nel senso di
inodiare (avere in odio):
collera
contro
questo
luogo, contro la decisione di
esservicirecato,controcoloro
che hanno scelto l’esistenza
stessa. «Alla fine, scrive
Sant’Evagrio, [l’accidioso]
scivola in un sonno poco
profondo, poiché la fame
risveglia la sua anima e la fa
sprofondare
nuovamente
nelle
sue
ossessioni».
Le tentazioni infatti si
moltiplicano, in particolare i
pensieri erotici. Secondo un
suo discepolo, Sant’Evagrio
avevapresolaviadeldeserto
persfuggireallaseduzionedi
una donna. Poco prima
di morire, Sant’Evagrio
stesso ammette che il
desiderio carnale lo aveva
abbandonatosolodapoco.
È evidente che dietro
questo languore si celi il
demone di mezzogiorno, che
colpisce fra le dieci del
mattino e le due del
pomeriggio. Questo «diavolo
meridiano», come viene
anche chiamato, tenta di
esasperare
il
cenobita,
approfittando della sua
debolezzafisicaperispirargli
il disgusto della sua
condizione.
Sant’Evagrio Pontico stesso
avrebbesperimentatolavisita
del demone di mezzogiorno
in un’allucinazione: «Tre
diavoli un giorno gli
andarono incontro sotto
formadiministridellaChiesa
nel calore di mezzogiorno, e
siconciaronoinmododanon
farsiriconoscere»2,narrauna
versione copta della Vie
d’Évagre. Altri testi lo
descrivono
con
una
precisioneclinica:«Allaterza
ora, il diavolo dell’accidia ci
dà i brividi, il mal di testa e
persino dolori alle viscere
[...].Quandoèinpreghiera,il
diavololofaancorascivolare
nel sonno e lacera ogni
versetto
con
sbadigli
intempestivi»3. Paul Bourget
nel 1914 e Jean Guitton nel
1955fornirannounaversione
laica
del
diavolo
di
mezzogiorno,
assimilandolo all’insorgenza
delle
pulsioni
sessuali nell’uomo che,
entrando nell’autunno della
vita, cerca di dar fuoco alle
ultime micce mentre è
contemporaneamente assalito
datendenzedepressive4.
Nel V secolo un altro
cenobita egiziano, San Nilo,
fornisce una descrizione
pittorescadelmonacocolpito
daacedia,incuiritroviamoi
sintomi
menzionati
da
Sant’Evagrio:
Il
malato
ossessionato dall’accidia
tienegliocchifissisulla
finestra e la sua
immaginazione crea per
lui un visitatore fittizio;
al minimo cigolio
dellaporta,egliscattain
piedi; al rumore di una
voce corre a guardare
dallafinestra;ma,invece
di scendere in strada,
toma a sedersi al suo
posto,intorpiditoecome
coltodastupore.Quando
legge viene interrotto
dall’inquietudine
e
scivola quasi subito nel
sonno; si strofina il viso
con due mani, si stira le
ditae,trascurandoilsuo
libro,fissagliocchisulla
parete; quando li riporta
sul libro percorre poche
righe, farfugliando la
fine di ogni parola che
legge; allo stesso tempo
si riempie la testa di
calcoli oziosi, conta le
pagine e i fogli dei
quaderni, finisce per
richiudere
il
libro
perfarneunpoggiatesta;
cade quindi in un sonno
breve e leggero, da cui
trae una sensazione di
privazione e di fame
imperiosa5.
Lo studio dell’accidia
monastica, tuttavia, resta
legato soprattutto al nome di
San Giovanni Cassiano (365435). Dopo aver trascorso
lunghi anni nel deserto
egiziano, dove incontra le
celebrità della solitudine,
Cassiano viaggia in Oriente;
viene ordinato diacono da
San Giovanni Crisostomo, si
stabilisceaMarsigliadal410
al 435 dove fonda due
monasteri, fra cui quello di
Saint-Victor;redigetreopere,
fra cui le Istituzioni
cenobitiche (De institutis
coenobiorum, 418), in cui
descrive
l’organizzazione
della vita monastica. In
quest’opera egli enumera la
lista degli otto vizi che
minacciano i monaci; la
golosità, la fornicazione,
l’avarizia, la collera, la
tristezza,
l’accidia,
la
vanagloria e l’orgoglio6, e
accosta l’accidia al taedium
vitae pagano. Egli non la
considera una malattia fisica
legata alla bile, come la
malinconia, ma un peccato
ispirato dal diavolo, che
riguarda anzitutto il disgusto
per i beni spirituali. Ma se
togliamoilcontestocristiano,
l’accidioso somiglia molto al
depresso: ecco infatti come
Cassiano descrive l’azione
deldemonedell’accidia:
Non appena questo
male si è insinuato
nell’animo del monaco
vi produce l’avversione
per il luogo, il fastidio
per la cella e perfino la
disconoscenza e il
disprezzo per i fratelli
che vivono presso di lui
olontanidalui,comese
fossero dei negligenti e
delle persone poco
spirituali. Lo rende
inoperoso e inerte di
fronte a tutti i lavori da
eseguire dentro le pareti
dellasuacella,enongli
consente di risiedere
nellacellaediattendere
alla lettura. Egli si
lamenta
assai
di
frequente di non aver
conseguito
alcun
profitto; deplora e si
rammarica
di
non
ricavare alcun frutto
finché rimarrà legato a
quella
comunità.
S’affligge di trovarsi, in
quel posto, del tutto
privo di ogni profitto
spirituale, proprio lui
che,purpotendoreggere
gli altri e giovare a
molti, non è stato in
grado
di
edificare
nessuno e neppure di
guadagnare
qualcuno
attraverso
la
sua
condotta e la sua
personale dottrina. Egli
esalta i monasteri posti
in regioni lontane e, in
più, configura quei
luoghi
come
maggiormente
vantaggiosi al progresso
dello spirito e più
efficaci per la salvezza;
egli dipinge pure le
comunità dei fratelli che
vi dimorano come
viventi
in
piena
cordialità
e
tutte
introdotte
in
una
convivenzaspirituale.Al
contrario, tutto ciò che
gli viene per le mani gli
diviene gravoso, e non
solo non trova nessun
lato di edificazione nei
fratelli che vivono in
quel luogo, ma va
dicendo che neppure si
può avere il vitto
sufficiente
per
sopravvivere, senza una
dura fatica. Infine egli
finisceperpersuadersidi
non potersi salvare,
restandoinquelluogo,a
meno che, abbandonata
quella cella, con la
quale,
rimanendovi
ancora,
sarebbe
destinato a perire, egli
non si decide a
liberarsene
quanto
prima. In seguito, le
ore 11 e quelle del
mezzogiorno producono
in lui una spossatezza
fisica e un’esigenza di
cibo così intensa da
procurarglilasensazione
di essere ridotto allo
stremo e alla stanchezza
provocata da un lungo
viaggio o da una
gravissimafaticaocome
seegliavessedifferitoil
momento di prendere
cibo per un digiuno
durato per due o tre
giorni. In quello stato
egli si mette allora a
guardare tutto ansioso
quaelà,deplorandoche
nessuno dei fratelli
venga a fargli visita, e
così più esce dalla cella
e vi rientra, e osserva
frequentemente il sole,
come se quello volgesse
al
tramonto
troppo lentamente. E in
realtà egli si sente
sorpreso,
senza
rendersene ragione, da
certaqualeconfusionedi
mente, come avvolto da
tetra caligine, divenuto
ormaiapaticoenegatoa
ogni
attività
dello
spirito7.
Se questa passione,
inmomentialterniecon
i suoi attacchi d’ogni
giorno,
variamente
distribuiti
secondo
circostanze impreviste e
diverse, riuscirà a
prendereildominiodella
nostraanima,ciseparerà
un po’ alla volta dalla
visione
della
contemplazione divina
fino
a
deprimere
interamente la stessa
anima dopo averla
distolta da tutta la sua
condizione di purezza.
[...]
Questo
vizio
impedisce di essere
tranquilli e miti con i
propri fratelli e rende
impazienti e aspri di
fronte a tutti gli uffici
dovuti ai vari lavori e
alla religione. Perduta
così ogni facoltà di
buone
decisioni
e compromessa la
stabilità
dell’anima,
quellaposizionerendeil
monaco
come
disorientato e ebbro, lo
infiacchisceeloaffonda
in
una
penosadisperazione8.
A
volte
questa
disperazioneportaalsuicidio:
«Esisteancheunaltrogenere
di tristezza, più detestabile,
che non porta il colpevole a
redimere la propria vita o a
correggere i vizi, ma a una
disperazione mortale: tale
tristezzahaimpeditoaCaino
di pentirsi dopo l’assassinio
di suo fratello e ha spinto
Giuda, dopo il tradimento, a
impiccarsi per disperazione
invecechearipararealdanno
causato»9. La causa può
esserelacollera,unasperanza
delusa, una frustrazione, o
ancora l’azione del diavolo:
«La malizia del Nemico
ci opprime repentinamente
con un’afflizione tale per cui
non riusciamo nemmeno a
ricevere, con la nostra
affabilità naturale, le persone
che ci sono care o che
dobbiamoincontrare»10.
Il rimedio esiste ed è il
lavoro, ma senza eccessi,
poichéancheinquestocasoil
diavolo è in agguato!
Cassiano ha conosciuto
un monaco che si dedicava
anima e corpo ai lavori
manuali:nonsmettevamaidi
costruire case, con un etiope
(valeadireconun’immagine
deldiavolo)«chedavaconlui
colpi di martello, poi lo
spingeva a continuare questo
lavoro forsennato [...]. Il
fratello, spossato dalla fatica,
voleva riposare, mettere fine
al lavoro. Ma lo spirito
maligno lo incitava e lo
animava»11.
L’accidia:la
depressionedeimonaci
(altoMedioevo)
Alla fine del IV secolo
l’accidia è talmente diffusa
cheilpoetaAusoniodescrive
il monaco tipico come un
«Bellerofonte
triste, indigente, che abita
luoghi deserti, che vaga
taciturno[...]fuoridisé»12.Il
mondo laico, ritornato a una
certa barbarie, è all’epoca
troppo occupato da questioni
vitali di sopravvivenza per
preoccuparsidell’introspezione
Ma
diverse
ragioni
contribuiscono a rendere
i monasteri veri e propri
focolaridiaccidia:ungenere
di vita che favorisce un
costanteritornoasestessi,la
presenza
minacciosa
dei demoni e la paura
dell’inferno.L’ossessioneper
l’aldilà, la negazione al
proprio corpo della minima
soddisfazionedeisuoibisogni
naturali e il pesante senso di
colpa portano i monaci
dell’alto Medioevo a cadere
facilmente nella trappola del
maldivivere,giàconsiderato
come una colpa morale, o
della tristitia, la cattiva
tristezza.
La distinzione fra accidia
e tristezza sembra allora
molto labile, se non
puramente formale, come
testimoniano le opere di un
monaco divenuto papa alla
fine del VI secolo, Gregorio
Magno. Egli, con il suo
temperamento malinconico,
inquieto,
forse
persino
paranoico13, affetto da dolori
gastrici («Già da molti anni
sono tormentato da frequenti
dolori intestinali, e il mal di
stomaco mi colpisce ad ogni
oraeinogniistante»,scrivea
Leandro di Siviglia), si è
naturalmente interessato al
mal di vivere e ha dedicato
unagrossaopera,iMoralia,a
Giobbe.Latristezza,cheegli
conosce palesemente bene e
che include nella sua lista
personale dei sette vizi, è a
suoparereunmalediorigine
spirituale. Egli afferma che
dalla tristezza derivano la
disperazione,lapusillanimità,
il torpore nei confronti dei
doveri,ladebolezzadifronte
alle tentazioni, il rancore, la
malizia, la pesantezza del
cuore,illanguore,iltaedium.
Scrive Bernard Forthomme:
«La figura del cristianesimo
cupoecontagioso[...]prende
forse da qui la sua origine
nascosta»14.
Sono numerosi gli autori
spirituali di quest’epoca
oscura che si sono accostati
allatristezzaeall’accidia,pur
senza
assimilarle
completamente.
Già
Sant’Evagrio riteneva che la
tristezza rappresentasse un
terrenofavorevoleall’accidia;
nel V secolo, l’anonimo Vie
deSynclétiqueafferma che il
diavoloèresponsabilediuna
tristezza
assolutamente
irragionevole che alcuni
hanno denominato accidia;
nell'VIII secolo Teodolfo
d’Orléans
utilizzerà
l’espressione «accidia oppure
tristezza»eAlcuinoparleràdi
tediodelcuore.
Tristezza senza causa
apparente,
languore
e
disgusto,
l’accidia
si
manifesta allo stesso tempo
con una propensione alla
dispersività, alla distrazione
superficiale e persino al riso,
che non è meno pericoloso
della tristezza, secondo le
regolemonasticheegliscritti
spirituali15. «Scoppiare a
ridere e essere scossi dai
singulti non fa parte
dell’animotranquillo»,scrive
San Basilio nelle sue
GrandiRegole.Nella Vita di
Eutimio,padredeldesertonel
IV-V secolo, un vecchio
monaco
riprende
un
compagno che è scoppiato a
ridere: «Il demonio, fratello,
si è preso gioco di te. Il tuo
risononhasensonéragione.
Sappi
dunque
che
spettegolare
o
ridere
fuori luogo è follia per un
monaco».
Nella presa di coscienza
del mal di vivere, lo stile di
vita eremitico in Oriente ha
certamente giocato un ruolo
catalizzatore. Gli anacoreti si
ritirano per anni in un vuoto
immenso,
in
condizioni propizie alla noia
e al disgusto di sé: «Aridità
desolante
del
deserto,
privazione estrema inflitta al
proprio corpo, frugalità e
monotonia
dell’alimentazione, regolarità
e uniformità inesorabile dei
propri tempi di preghiera»16.
Siamoquiinpresenzadelmal
di vivere allo stato puro. Ne
Les hommes ivres de Dieu,
Jacques
Lacarrière sottolineava come
gli uomini che vivevano nel
deserto
descrivessero
esattamente
le
stesse
caratteristiche dell’angoscia
esistenziale riportate dai
filosofi e dagli psicologi
contemporanei17.
Giorgio Agamben, in Stanze,
osservava a sua volta nel
1994
che
gli
effetti dell’accidia (malitia,o
amore-odio del bene;rancor,
o rivolta della cattiva
coscienza contro coloro che
predicano
bene;
pusillanimitas, o piccolezza
d’animo; desperatio, o
certezza
di
essere
condannati; evagatio mentis,
o fuga dell’anima nelle
fantasticherie; importunitas
mentis,oincapacitàdifissare
il
pensiero;
curiositas;
verbositas; instabilitas loci)
sono
precisamente
le
caratteristiche
che
Heidegger attribuiva al
sentimento della banalità
quotidiana, alla noia diffusa
nellasocietàdimassaeanche
alla tristezza angosciata
diKierkegaard.
Il solitario del deserto di
milleseicento anni fa soffre
dello stesso mal di vivere
degli
abitanti
delle
megalopoli sovraffollate e
brulicanti del XXI secolo,
osserva Bernard Forthomme
nel2002:«Incosaèmoderna
l’accidia? Nel fatto che
colpiscepersonechelavorano
su se stesse alla ricerca della
propria identità. La nostra
società, dove abbiamo più
tempo per riflettere, si
ricollega a ciò che, per
il
monaco
d’Egitto,
rappresentava una rottura
difficile da immaginare oggi,
quella con il mondo del
lavoro
agricolo,
cui
rinunciava per votarsi al
lavoro su se stesso, in pieno
deserto. Nella nostra epoca è
come se tutta la società
avesse la tendenza a lavorare
su se stessa, e allo stesso
tempo sperimentasse questa
prova all’epoca conosciuta
solodalmonaco»18.
Ilviziomalinconico
Sin dal Medioevo il mal
di vivere viene considerato
uno degli otto vizi principali
di ispirazione diabolica. La
«tristezzamalinconica»èuno
stato di cui approfitta il
diavolo per indurci in
tentazione, come scrive San
Giovanni Crisostomo intorno
al 380 al suo discepolo, il
monaco
Stagirio,
che
disperava della propria
salvezza, aveva tendenze
suicide e presentava disturbi
comportamentali:
«Più
nocivo di qualunque potenza
diabolica è l’eccesso di
athumia (scoramento); il
demonio si impossessa delle
sue vittime e le controlla
grazie a essa; ma, una volta
eliminata, egli non potrà più
suscitare nulla di funesto in
alcuno»19. Isidoro di Siviglia
(570-630) stabilisce persino
alcune analogie etimologiche
difantasiaperspiegarechela
melancholia viene da malus,
ilmale,cheasuavoltaviene
da mélan, la bile nera in
greco: «Malus, cattivo, con
riferimentoalfielenerochei
Greci chiamano mélan·. da
qui
anche
il
nome
melanconicidatoacoloroche
rifuggono dal vivere in
comuneconaltriesseriumani
e sospettano degli amici più
cari»20.
A partire dall’XI secolo,
tutti i grandi pensatori
scolastici si interessano
all’accidia, che accostano
sempredipiùallamalinconia,
poiché i sintomi non
riguardano più soltanto i
monaci,maancheisecolarie
i laici. Se la Chiesa si
dimostra
più
flessibile
rispetto al mal di vivere,
prendendo in prestito i
concetti medici e filosofici, è
anche grazie all’effetto del
rinnovamento apportato dal
pensiero naturalista del XII
secolo, epoca in cui viene
gradualmente
riscoperto
Aristotele. L’accidia resta
infatti
una
nozione
abbastanza vaga. Alcuni la
vogliono simile alla pigrizia,
altri alla tristezza (come
Adam the Scot, che nel ΧΠ
secolo,
rivolgendosi
ai
monaci, descrive come segue
gliaccessidiaccidia:«Spesse
volte, quando siete soli nella
vostra cella, vi coglie una
sorta di inerzia, di languore
dello spirito e di disgusto
cordiale...»21),altriancoraal
disgusto malinconico, se non
persinoallacollera.
Se accostiamo l’accidia
all’idea di pigrizia, di
pesantezza, di lentezza, di
inerzia, è certamente anche
perché Saturno, il pianeta
lento, è ancora associato alla
malinconia. Ritroviamo qui
tutti i cliché negativi
dell’Antichità riguardo a
questa«tristastella»,comela
chiamerà Cecco d’Ascoli nel
1327. Sembra che durante il
IX secolo il legame fra
Saturno e la malinconia si
consolidi sotto l’influenza
degli astrologi arabi. Scrive
AbuMasar:
La natura di Saturno
è fredda, secca, amara,
oscura, nera, violenta e
ruvida; ma a volte è
anche fredda, umida,
pesante e fetida [...].
Saturno non vuole il
bene di nessuno ed
esercita il suo potere
anche sugli anziani e
sulle persone astiose;
sulla paura, i rovesci di
fortuna,
le
preoccupazioni,
gli
accessi di tristezza, la
scrittura, la confusione
[...], l’afflizione, le
miserie della vita,
lo sgomento, le perdite,
le morti, le eredità, i
cantifunebriegliorfani;
sututtelecosevecchie,i
nonni, i padri, i fratelli
maggiori, i servitori, i
valletti delle scuderie,
gliavarietutticolorodi
cui le donne reclamano
l’attenzione, su coloro
che sono coperti di
obbrobrio, sui ladri, i
becchini, i profanatori
di cadaveri, i conciatori
eicontabili22.
Questa immagine poco
lusinghiera del malinconico
viene ripresa da Alcabizio,
che aggiunge una serie di
dettagli poco piacevoli.
L’uomonatosottoilsegnodi
Saturno è avaro, ingannatore,
collerico, crudele, perfido,
ipocondriaco:
Egli è cattivo,
mascolino, durante il
giorno è freddo, arido,
malinconico, ha potere
sui padri [...], sulla
vecchiaia
e
il
rimbambimento,ifratelli
maggiori e gli antenati,
l’onestà nei discorsi e
nell’amore, e l’assenza
di slanci spontanei Egli
ha
inoltre
potere
sull’odio, l’ostinazione,
l’inquietudine, il dolore,
le lacrime, i lamenti,
l’opinionesfavorevole,il
sospetto
fra
gli
uomini Si dice di lui
che sia anche magro,
timido, gracile, rigido,
cheabbia latestagrossa
e il corpo piccolo, la
bocca e le mani grandi,
le gambe arcuate anche
se belle da vedere
quando cammina, la
testa sporgente, il passo
pesante e strascicato, in
buona
intesa
con
l’astuziael’inganno23.
Queste idee astrologiche
sono inizialmente combattute
conforzanelnomedellibero
arbitrio dagli autori cristiani
comeGuillaumed’Auvergne,
vescovodiParigi.Malaloro
parvenza pseudoscientifica
finisce per sedurre anche il
pensiero occidentale24. Nel
XII secolo Alain de Lille, il
«Dottore
universale»,
tratteggia
un’immagine
desolantediSaturno:
In questo luogo
Saturno percorre gli
spazi del suo cammino
avido,
E avanza con passo
pesante, attardandosi a
lungo.[...]
Quiregnanodoloree
gemiti,
lacrime,
discordia,terrore;
Siètristi,sièlividi,
cisicolpiscedasoliesi
èmaltrattati25.
Bernard Silvestre, nella
sua cosmologia, conferisce a
Saturno un’immagine di
morte,
di
personaggio
vecchio,
crudele
e
distruttore26. Sempre nel XII
secolo, l’inglese Daniel de
Morley, che rientra dai suoi
viaggi con alcuni libri arabi,
associa a Saturno l’idea
dipesantezza,divolgarità,di
oscurità27. Per lui come per i
precedenti autori, questo
pianeta
è
grandemente
responsabile
dei
temperamenti malinconici.
Nel XIII secolo Bartolomeo
Anglico è esplicito: «Ecco
perché,natoeconcepitosotto
i suoi auspici, il bambino
muore oppure gli toccano in
sorte le peggiori qualità.
Secondo Tolomeo e il suo
libro sugli astri, infatti,
Saturno è la causa dell'uomo
oscuro, brutto, autore di
azioni inique, pigro, pesante,
triste, raramente felice o
sorridente»28. Michele Scoto,
che Dante ha messo nel suo
Infernoacausadellepratiche
astrologiche e magiche,
delinea il saturnino come
essere triste, pigro, astioso,
timido, invidioso, avaro,
misantropo;
fisicamente
brutto, con pelle scura
e piccoli occhi fissi al suolo;
ricurvo e sessualmente poco
attivo.
Guido
Bonatti,
ennesimoastrologo,rincarala
dose:«Èunesseredisgustoso
e maleodorante, intriso di
puzza di caprone; si tratta
poi di uomini che mangiano
molto»29. Se l’astrologia
assolve la malinconia dalla
demonizzazione, dando a
credere che certe forme di
mal di vivere siano una
fatalità, in compenso non vi
vede più il temperamento
degliuominieccezionali.
La
distinzione
fra
malinconici e accidiosi
sembra
riguardare
essenzialmente gli aspetti
fisici: solo i primi sono
etichettati per la loro
magrezzaeperl’opacitàdella
loro pelle. Per contro, la
teoria degli umori si applica
sia agli uni che agli altri: il
diavolo,
che
provoca
l’accidia, agisce per mezzo
della bile o del flegma; egli
tenta«imalinconicidiinvidia
e tristezza», scrive il
domenicano
Laurentd’Orléans.Inqualche
modo la malinconia è una
malattia da cui alcuni sono
afflitti
indipendentemente
dalla loro volontà, in
particolar modo perché si
trovano sotto l’influenza di
Saturno; tuttavia questa
malinconia si trasforma in
peccato, in vizio morale e in
accidia in coloro che si
lasciano andare: distinzione
moltoteoricaperò,poichégli
autori spirituali riflettono
soprattutto sulla malinconia
in termini morali e le
manifestazioni che prendono
in considerazione sono la
tristezza, la scontentezza del
cuore,
l’amarezza,
la
perditadisperanza.
Per
alcuni
il
temperamento malinconico è
quindiunasortadiprovache
conferisce loro dei meriti per
aver combattuto contro
di essa. Per altri la
predominanza della bile nera
èunaconseguenzadirettadel
peccatooriginale30.Ildegarda
di Bingen, nel XII secolo, lo
afferma chiaramente. Prima
della caduta, scrive, «prima
che Adamo trasgredisse il
precetto divino, quello che
adesso è la bile, riluceva in
lui come cristallo e aveva in
sé
il
gusto
delle
opere buone»31. Ma la
malinconia «è per natura in
ogni uomo, sin dalla prima
tentazione del Diavolo,
perché l’uomo trasgredì il
precettodivino,mangiandola
mela. E da questo cibo si
sviluppò la malinconia in
Adamoeintuttalasuastirpe,
equestaprovocanegliuomini
ogni sorta di malattia»32. I
malinconici
hanno
un
aspettorepellente;sonoanche
dei veri e propri bruti
perversi, violentano le donne
e impazziscono di rabbia se
non riescono a soddisfare
i propri bisogni. Ildegarda ne
fa un ritratto avvincente nel
capitolo «De melancholias»
del suo trattato Causae et
curae:
[...]Illorocoloritoè
forte,perchéiloroocchi
sono ignei e viperini, e
lelorovenesonoduree
forti e trasportano un
sangue scuro e robusto,
lelorocarnisonogrosse
e dure, e grosse sono le
loro ossa, dal midollo
scarso, che tuttavia arde
convigore;infatti,conle
donne
sono
come
animali e incontinenti
come vipere [...]; ma
sono aspri, avari e
insensati, eccessivi nella
passione e senza misura
con le donne, come
asini. Se abbandonano
siffatta
passione,
incorrono
facilmente
nella follia, al punto di
diventare frenetici; e se
appagano
la
loro
passione nella relazione
con le donne, non
soffriranno della follia
dellamentet···]33.
Ildegarda evoca con
crudezza la violenza del
desiderio che nasce nei
testicoli del malinconico, «i
due tabernacoli», e il
rigonfiamento del pene
riempito d’aria. Ritroviamo
qui l’antica concezione
della natura aerea dell’umore
malinconico:
Il vento del piacere,
che cade nei tabernacoli
di questi uomini, arriva
congrandesmodatezzae
con un moto talmente
repentino, da essere
simile al vento che
d’improvviso scuote la
casa con violenza. E la
discendenza dell'uomo
viene educata con tale
tirannia, che anche in
questa, pur dovendo
sbocciare in fiore, si
ritorceperl’asprezzadei
modi viperini [...].
Infatti, la tentazione del
Diavoloinquestiuomini
infuria a tal punto, che
se possono uccidono la
donna durante l’unione,
perché in loro non
operano né carità né
trasporto.Illorofiglioo
le loro figlie avranno
una grande insania
diabolica nei costumi e
nei vizi, essendo stati
concepitisenzaamore34.
Senza
scadere
nella
stravaganza,ancheGuillaume
de Conches, nel XII secolo,
considera la malinconia una
conseguenza del peccato
originale, ma la sua esigenza
di razionalità lo spinge a
darne
una
spiegazione
«scientifica». Riconciliando
teologia e biologia, egli
spiega che l’uomo è stato
creatocaldoeumido;acausa
del trauma per l’espulsione
dalparadisoeperledifficoltà
della sua nuova vita, egli
avrebbe perduto calore e
umidità
in
proporzioni
diverse,
causando
i
temperamenti collerici (caldo
esecco),flemmatici(freddoe
umido) e malinconici (freddo
e secco). Il temperamento
ideale è quello sanguigno
(caldo e umido), poiché si
avvicina maggiormente alla
condizione originaria. Ecco
perché,
afferma
Guillaume, esistono animali
malinconici, flemmatici e
collerici, ma non esistono
animali sanguigni. Secondo
Ildegarda, solo i sanguigni
sarebbero in grado di
ingravidare le femmine
malinconiche, che descrive
come esseri tristi, sterili,
incostanti,soggettiafollia.
Unariabilitazione
relativa
Altri autori sembrano
avere un’opinione meno
negativa della malinconia,
pur mantenendo comunque
una
certa
ambiguità.
Costantino
l’Africano, fondatore della
scuola di medicina di
Salerno,
dedica
alla
malinconia un trattato che
influenzerà
notevolmente
il Medioevo. Nato intorno al
1015, egli vive per più di
trent’anni nel mondo arabo,
ciò porterebbe a pensare che
fosse anche musulmano
prima di convertirsi al
cristianesimo. In seguito,
verso il 1050, raggiunse il
monastero di Monte Cassino,
dove morì nel 1086.
Buonconoscitoredegliscritti
arabi sulla medicina, egli si
ispira a Ishaq ibn ‘Amran,
autore di un’opera sulla
malinconia,
che
egli
descrive, a immagine degli
Antichi, come «una malattia
dello spirito avente cause
psicologiche»35.
Costantino l’Africano ha
certamente letto le opere di
Avicenna, il quale attribuiva
cause puramente fisiologiche
alla malinconia. Egli è stato
certamente influenzato anche
da
Rufo
d’Efeso,
che assimilava l’umore
malinconico al «sangue
ispessito e raffredato». Forse
impressionato dal clima dei
monasteri, egli afferma nel
suotrattatochelamalinconia
è «particolarmente diffusa»36
nell’Italia cristiana. A Monte
Cassino,inognicaso,unodei
suoi compagni, il monaco
Guaferio,
compone
il
racconto miracoloso di un
pellegrinochesidàlamortea
causa
della
tentazione
diabolica37.
Per
Costantino
i
malinconici
presentano
sintomicontraddittori,poiché
in
effetti
qualsiasi
atteggiamento estremo può
tradire malinconia: «Alcuni
amano
la
solitudine,
l’oscurità,
la
vita
tagliata fuori dal resto del
mondo; altri amano i luoghi
spaziosi, la luce, i prati, i
giardini dai frutti abbondanti
e dai numerosi ruscelli.
Alcuni amano montare il
proprio cavallo, ascoltare
musiche diverse, conversare
con persone sagge o
gradevoli
[...].
Alcuni
dormono
troppo,
altri
piangono,
altri
ancora
ridono»38. Il malinconico è
soggettoapaureingiustificate
poiché la sua immaginazione
nonèpiùequilibrata.
Le cause sono varie
quanto i sintomi e a quelle
fisiche si aggiungono quelle
intellettuali:
diventano
malinconici coloro che
cercano di approfondire
troppo le cose, di trovare le
ragioni di tutto, di studiare
troppoafondolescienzeela
filosofia.
Ritroviamo
quil’associazionetrailmaldi
vivere e le preoccupazioni
intellettuali.«Ipensieriardui,
il continuo rammentare, lo
studio, l’esame approfondito,
l’immaginazione, la ricerca
delsignificatodellecose,così
come le visioni e i giudizi,
siano essi fondati o solo
semplicisospetti[...]possono
in poco tempo portare
l’anima alla malinconia, se
questa si immerge troppo
profondamente in siffatte
attività»39;
essi
inoltre
«incorporano la malinconia
[...]nellacoscienzadellaloro
debolezza intellettuale e,
nello sconforto provocato da
tale debolezza, divengono
malinconici. Il motivo per il
qualelaloroanimasiammala
[...] risiede nella fatica e
nell’abusodelleloroforze»40.
Fra
gli
intellettuali
cristiani
la
riscoperta
progressiva di Aristotele, a
partire dall’inizio del XIII
secolo,
contribuisce
ulteriormente ad attenuare la
visione
negativa
della
malinconia.
Alexander
Neckham, morto nel 1217, è
il primo a ricordare che
Aristotele«affermachesoloi
malinconici sono intelligenti
[...] a causa della fecondità
della memoria, fredda e
secca,oacausadell’astuzia».
Alberto
Magno
tenta
di riabilitare alcune forme di
malinconia, ma solo a
malincuore e per deferenza
nei confronti di Aristotele.
Egli ha difficoltà nel trovare
un posto per il malinconico
positivo
e,
nel
suo
ragionamento,
non
sipreoccupadellapsicologia.
Eglidistingueunamalinconia
naturale,
dovuta
alla
contaminazione del sangue
che
restituisce
esseri
oscuri, diffidenti, misantropi
e con impulsi suicidi, e una
malinconiainnaturale,dovuta
alla combustione (adustio)
degli umori naturali, che
può contribuire a sviluppare
qualità
intellettuali
ed
eccezionalmente
produrre
grandi uomini: «Gli esseri
così
dotati
avranno
convinzioni ferme e passioni
saldamente regolate; saranno
anche assidui al dovere e
possiederanno le più grandi
virtù.
Di
conseguenza
Aristotele dichiara nel sui
librodei Problemi che tutti i
grandi
filosofi,
come
Anassagora e Talete di
Mileto, e tutti coloro che si
sono distinti per il coraggio
eroico, come Ettore, Enea,
Priamoealtri,eranoinquesto
senso
degli
eroi malinconici»41. Questi
malinconici positivi sono alti
e magri, dalla «carne soda»,
mentre i malinconici negativi
sono esili e scuri. Alla stessa
epoca Guillaume d’Auvergne
vede nella complessione
malinconica almeno un
grande vantaggio: quello di
allontanareipiaceriterrestrie
di favorire lo studio delle
scienze
religiose.
Il
malinconicorifuggeilmondo
esitrovaquindiportatoperil
lavoro
intellettuale
e
la meditazione: «Per questi
motivi, Aristotele pensava
che tutti gli uomini
eminentemente dotati fossero
malinconici»42. In caso di
eccesso, tale temperamento
propizio può evidentemente
degenerare in malattia, e
sfociarenellafollia.
Poco tempo dopo il
medico e filosofo Pietro
d’Albano, morto intorno al
1315,redigeuncommentoal
Problema
XXX,
1
(Expositio
problematum
Aristotelis)in cui distingue a
sua volta due forme
di
malinconia:
il
temperamento, che egli
associa
agli
uomini
eccezionali, e la forma
patologica.
Ilpeccatodiaccidia,
maldivivere
colpevolizzante
Più che alla malinconia,
gli scolastici si interessano
all’accidia. Peccato ispirato
dal diavolo, l’accidia dà
forma a descrizioni più
precise, molto più vicine alla
realtà poiché basate sulla
pratica della confessione,
eccezionale strumento di
studiodellanaturaumana.
Manualidiconfessoriedi
morale sono fonti essenziali
per comprendere le diverse
concezioni medievali del mal
di vivere. Nelle Somme
destinate
ai
confessori
l’accidiaèintimamentelegata
alla pigrizia: l’accidioso fa
fatica ad alzarsi al mattino,
arriva in ritardo alla messa,
dove si addormenta oppure
chiacchiera. Egli trascura
i suoi doveri, si perde in
divertimenti vari, appare
linfatico,
o
senza motivazione, diremmo
noi oggi. Un simile
atteggiamento
tradisce manifestamente una
mancanza di entusiasmo per
la vita e per questo mondo
meraviglioso che Dio ha
creato, ed è un segno di
disperazione
che
può
denotaretendenzaalsuicidio.
I
libri
sulla
morale annoverano l’accidia
fra i sette peccati capitali, la
cui lista diviene quasi
ufficiale a partire dal ΧΙΠ
secolo. L’accidia vi è spesso
definita come causa di
instabilità del monaco, che
non porta a termine i suoi
doveri e vorrebbe cambiare
abbazia; essa è una
condizione
legata
alla
sonnolenza che si manifesta
conpesantezzadellepalpebre
e
un
sentimento
d’oppressione.PierDamiano,
nellasuaDeinstitutisordinis
eremitarum (1057), parla
dell’«oradipuntadelgiorno,
momento in cui l’accidia ci
cadegravosamenteaddosso».
Nella stessa epoca, Otloh di
Sant’Emmeran descrive lo
stato di indecisione, di
inquietudine,dipusillanimità,
di
scoraggiamento,
di
autocommiserazione
che
porta il monaco a dubitare
dell’esistenza di Dio e a
desiderare che manifesti
chiaramente
la
sua
presenza43.
Tutti i grandi autori
scolastici del XIII secolo
hanno
dedicato
alcuni
sviluppi
all’accidia,
accentuando
determinati
aspetti attorno al comune
denominatore della pigrizia e
della
tristezza.
Così Guglielmo d’Auxerre,
nellasuaSummaaurea,verso
il 1220, insiste sulla
mancanza di fiducia in se
stesso dell’accidioso, in cui
vede un’ulteriore mancanza
di fiducia nell’aiuto divino.
Egli sostiene che questo tipo
di accidia produca la malizia
(pereccessodidiffidenza),la
disperazione,lapusillanimità,
il rancore, il torpore, il
vagabondaggio intellettuale,
vale a dire l’incapacità di
fissarsi su un determinato
oggetto (altri ritengono
invece che i malinconici
abbiano tendenza a fissarsi
tropposuununicooggettodi
studio...).
A metà del secolo il
francescano
David
d’Asburgo, che sostiene
l’esistenza di cause fisiche e
morali, distingue diversi tipi
di accidia, gli uni di
competenza del medico, gli
altridicompetenzadelprete:
«Il vizio di accidia è di tre
generi. Il primo è una certa
amarezza dello spirito [...],
incline alla disperazione, alla
diffidenza, ai sospetti e porta
a volte la sua vittima a darsi
la
morte
quando
viene attanagliata da un
dolore inconsulto. Il secondo
genere di accidia è un certo
torpore che porta sonnolenza
eilconfortodelcorpo[...],il
quale casca dal sonno di
fronte al lavoro e si delizia
nell’ozio. Si tratta della
pigrizia vera e propria. Il
terzo genere è un disgusto
solo verso le cose che
riguardano Dio, mentre nelle
altre occupazioni la sua
vittimaèattivaeilsuospirito
è sollevato»44. Tristezza,
torpore, disgusto delle cose
spirituali: ritroviamo ancora
la
stessa
trilogia
in
Alessandro di Hales, verso il
1245. L’accidia è un
peccato, ripete il teologo
inglese,
che
tuttavia
aggiunge: «Spesso l’accidia
proviene da una malinconia:
taleèilmotivopercuinonsi
tratta del peccato più grande,
nédiunacolpaincurabile»45.
Dieci anni dopo anche
San Bonaventura, discepolo
di Alessandro, esita fra
malinconia e accidia e
affronta
un
problema
cruciale: come distinguere
l’accidia che conduce alla
disperazione, e quindi alla
tendenza
suicida,
dal
desiderio di morte paoliniano
e mistico in vista del
ricongiungimento con Dio?
Come spiegare che il
desiderio di morire è peccato
negli uni e virtù negli altri?
La differenza risiede nella
motivazione,
sostiene
Bonaventura: i primi cercano
di sottrarsi alle prove della
vita, mentre queste sono
necessarie alla salvezza; i
secondiaspiranoapartecipare
alla Passione di Cristo. Ma è
certo che sia gli uni che gli
altri provano un forte
disgustoperquestavita.
L’idea della tendenza al
suicidio è anche al centro
della
riflessione
del
cistercense
Cesario
di
Heisterbach.
Nel
suo
Dialogus
miraculorum,
redatto intorno al 1223,
troviamo
una
preziosa
collezionediesempiattestanti
la frequenza del suicidio nei
monasteri, sia tra gli uomini
che tra le donne, sia per la
disperazione
data
dall’attesa della salvezza, sia
per la perdita di fede in Dio.
Appoggiandosi a eventi reali
che verranno utilizzati anche
dai medici e dagli psichiatri
del XIX secolo, egli descrive
gli accidiosi come colpiti
da
sonnolenza
durante
l’ufficio, abitati da un
demonedimezzogiornosotto
formadigattoodiserpentee
come esseri balbuzienti
che profferiscono parole
incomprensibili somiglianti a
versi di animali, lo sguardo
torbido come se avessero
dellapagliaodelfangonegli
occhi, madidi di sudore: essi
faticano ad alzarsi, sono
sempre
stanchi,
hanno
continuamentetroppocaldoo
troppo freddo e dubitano
dellalorolegittimità.
Da parte francescana, il
celebre predicatore Jacques
de Vitry compone verso il
1220
una
Historia
occidentalis in cui spiega
che l’accidia e la tristezza
hanno un ruolo importante
nella moltiplicazione delle
eresie, degli scismi e delle
dispute all’interno della
Chiesa nel XII secolo: «Gli
uomini perdevano ogni
coesione sotto l’influenza
della
tristezza
e
dell’accidia»46. Gli spiriti
inquieti sono fattori di
divisione, di discordia, di
ansia e disperazione. Di
fronte a questa situazione
sono spuntati vari riformatori
e creatori di nuovi ordini per
restaurare gioia spirituale e
devozione.
Fra di essi, sicuramente,
Francescod’Assisi:«Eglinon
voleva vedere tristezza sui
volti, poiché essa riflette
spesso l’indifferenza, la
cattiva disposizione d’animo
e il freno del corpo
nell’intraprendere
opere
buone»; «si guardino [i
fratelli]
dal
mostrarsi
esteriormente
tristi
e
oscuramente ipocriti, ma che
gioiscano nel Signore, felici,
amabili e gradevoli come si
conviene»47.
Francesco
riprendeisuoifratelliquando
livedetristiesisforzaasua
volta di fuggire l’accidia:
«Quandocadointentazioneo
nell’accidia, se considero la
gioia del mio compagno,
passo da tale tentazione e da
tale acedia alla gioia
interiore». A suo parere la
tristezza è legata all’avarizia:
povertà e gioia sono le sue
antitesi. Per fuggirla occorre
evitarel’ozio,chefavoriscela
scarsa
lucidità
dell’immaginazione.
Un
giorno,
tentato
dall’inquietudine, Francesco
iniziaacostruireuncestinoin
vimini, che getta poi nel
fuoco poiché causa di
distrazionedallapreghiera.
I domenicani affrontano
l’accidia da un’angolazione
differente. Nella Summa
vitiorum (1236), Guilelmus
Peraldus
ne
parla
diffusamente, spiegando che
la sua causa è l’ozio.
Potremmo riassumere le sue
parole con la famosa
affermazione di Candido: «Il
lavoro allontana da noi tre
mali: la noia, il vizio e il
bisogno». Il cattivo impiego
del tempo è un tema
relativamente nuovo, che
presto
si
diffonderà
parallelamente allo sviluppo
delle
attività
commerciali. Esso è al
contempo
causa
e
conseguenza
dell’accidia,
poiché fra i sedici vizi
provocati da questa, Peraldus
vi inserisce la dilatio, cioè il
fatto di rimandare sempre i
doveri da portare a termine.
Inoltre il domenicano mostra
come la vita monastica sia
propizia all’accidia : il
giovane monaco entusiasta e
presuntuoso, confrontandosi
conlamonotonia,l’inerzia,il
grigiore della ripetitività
perpetua,
cade
nello
scoraggiamento e nel torpore
tipici dei monaci più
anziani. Tale accidia si
traduce
in
segni
di
insofferenza di fronte ai
rimproveri, in tristezza,
disperazioneetaediumvitae·,
qui Peraldus si ispira
chiaramenteaSeneca.
Soffermiamoci infine su
Tommaso d’Aquino, la cui
analisi dell’accidia nella
Somma teologica è di
notevolefinezzapsicologicae
rievoca i tratti caratteristici
della depressione moderna:
«È una tristezza opprimente
che produce nell’animo
dell’uomo una depressione
tale per cui egli non ha più
voglia di fare nulla, alla
stregua delle cose che,
impregnate
di
acido,
diventano
completamente
fredde. Ecco perché l’accidia
procura un certo fastidio per
l’azione.Alcunidiconoanche
che l’accidia sia un torpore
dell’anima che impedisce di
cominciareafaredelbene»48.
Tristitiaedesperatio,
fattoridisuicidiofrail
clero
Il mal di vivere del
Medioevo, fortemente sentito
presso gli intellettuali, ha
rappresentato un’importante
causa
di
suicidio.
La rilevanza insospettata di
tale fenomeno è stata
recentemente evidenziata da
Alexander
Murray
in
un’opera notevole in ogni
suo punto e che può essere
ritenuta
esaustiva49.
Considerata
la
povertà, l’eterogeneità e la
raritàdellefontimedievalisu
questo tema, essere riusciti a
raccogliere 546 casi di
suicidionelMedioevoèstata
una vera e propria impresa.
Le
statistiche
stilate
dall’autore rivelano che gli
uominisisuicidanoduevolte
più delle donne, ma che
queste ultime fanno tre o
quattro volte più tentativi,
secondo i dati conformi alle
osservazioni contemporanee.
Un po’ più della metà si
impicca, il 30% si annega, il
15% usa un’arma da taglio.
Ci si uccide preferibilmente
durante tre periodi dell’anno,
aprile, luglio e dicembre, di
lunedì,solitamentealmattino
odopoleseidisera.
Fra i suicidi notiamo
un’enorme predominanza del
clero: circa un terzo del
totale. Certo il termine
«clero» ha un significato
abbastanza generico, inoltre
questa
categoria
viene
maggiormente
registrata
rispetto alle altre per ragioni
di rivalità fra giurisdizioni
civili
ed
ecclesiastiche
relativamente ai beni del
suicida. Tuttavia, appare
innegabile che il tasso di
suicidio fra il clero sia stato
sensibilmente superiore al
tasso globale, dato che
tenderebbe
a
confermare l’importanza e la
gravità della forma religiosa
dell’accidia.
Questa impressione è
corroborata dai motivi per
suicidarsi: un quarto è
attribuito alla tristitia (o
malinconia senza ragione) e
alla desperatio religiosa. Nel
1170 gli esempi fioccano50,
come nel caso di questo
premostratense
del
Lincolnshire, a proposito del
qualelacronacaracconta:«Il
cuore di Henry era infranto
dallamalinconia.Guidatodal
diavolo, ha fatto un bagno
caldoesiètagliatolevenedi
entrambelebraccia;inquesto
modo,
e
di
sua
spontaneavolontà,opiuttosto
di sua libera follia, ha messo
fine alla propria vita». Nel
1256
il
cappellano
dell’ospedale di Westgate, a
Newcastle, si impicca; verso
il 1300 un cistercense di
Villers, in Belgio, si uccide
perché non sopporta più la
solitudine. Il suicidio diventa
pratica comune tanto per
molti monaci anonimi di San
Gallo quanto per il cardinale
Andreas Zamonetic, che si
strangolanel1483;peralcuni
templari, per un alto
dignitario della chiesa di
Strasburgo nel 1484 e, nello
stesso anno, per un monaco
premostratense di SaintPierremont, vicino a Metz, o
ancora per un francescano di
Pisa che si getta in un pozzo
attorno al 1280, come riporta
lacronacadiSalimbene.
Cesario di Heisterbach
riporta numerosi casi, fra cui
quelli di monaci portati al
suicidio perché l’eccesso di
devozione
li
aveva
resi accidiosi, come il
cistercenseBaldwinnel1220:
«Alla fine, le veglie e il
lavoro
eccessivo
surriscaldarono
il
suo
cervello.Divennecosìdebole
che una notte, prima che la
comunità si alzasse per le
mattutine, si recò in chiesa,
salì sul banco dei novizi, si
fece un nodo attorno al collo
conlacordadellacampana,e
saltò». E anche come questa
cistercense, nella stessa
epoca, in un convento della
Mosella: «Qualche mese fa,
unareligiosadietàavanzatae
di santa reputazione, fu
colpita così pesantemente dal
vizio
di
malinconia,
con accessi di blasfemia, di
dubbio e di miscredenza, che
cadde nella disperazione.
Iniziarono a crescere in lei i
dubbi più gravi riguardo ciò
in cui aveva sempre creduto
sin dall’infanzia, e riguardo
ciòincuidovevacredere».Si
gettò così nella Mosella.
Sempre attorno al 1220, un
francescano,
vecchio
compagno
di
San
Francesco, si impicca «per
impazienza». Cesario di
Heisterbach riporta anche la
storia di un altro cistercense
che aveva conosciuto, che
«divenne malinconico e
timoroso
(pusillanimis).
L’ansia per i suoi peccati
divenne tale che perse ogni
speranza nella vita eterna. Il
suo problema non riguardava
i dubbi sulla fede, ma solo il
fatto di disperare della sua
salvezza». Egli si annegò
nellostagnodelconvento.Per
Cesario, questo monaco «si
dibattevacontroilviziodella
malinconia e per tale ragione
era pieno di accidia: questi
fattori fecero nascere la
disperazione nel suo cuore».
Verso il 1240 Tommaso
diCantimprénarralastoriadi
un domenicano che si uccise
perché il priore del convento
era stato troppo severo.
All’inizio del XIV secolo
Ugo di Trimberg, insegnante
nell’abbazia
di
SaintGangolf, vicino a Bamberg,
scrive che i monaci che si
dedicano eccessivamente agli
esercizi
religiosi
«si
impiccanoosiaffogano».
A volte il numero di
suicidi raggiunge un livello
talechesipuòparlaredivero
eproprioproblemasociale.È
quantoaccadeaFirenzeverso
il
1300.
Tutte
le
testimonianze contemporanee
concordano in proposito.
Boccaccio narra che molti in
città iniziarono a impiccarsi,
come se fossero in preda a
una maledizione divina.
Anche Jacopo della Lana
osservacheilviziotipicodei
fiorentini fosse di impiccarsi,
mentre quello degli aretini
fosse di gettarsi nei pozzi.
Benvenuto da Imola afferma
che,
a
quei
tempi,
molti
fiorentini
si
impiccavano; secondo Pietro
Alighieri,figliodiDante,era
molto frequente che gli
uomini si impiccassero in
quella città. Cino da Pistoia
scrive
che
taluni
si
uccidevano per noia di
vivere, per follia furiosa, o
per vergogna, o per qualsiasi
altra causa, come accadeva
fra numerosi fiorentini. Un
secolo più tardi, ancora,
il poeta Saviozzo da Siena,
autore dei poemi d’amore
Disperata,
in
cui
l’innamoratoricorrealricatto
del suicidio con la sua bella,
si
uccide
nel
1419,
perpetuando la tradizione
fiorentina51.
Dante, il più illustre dei
fiorentini di quest’epoca,
riserva ai suicidi una
posizione di tutto rispetto
nell'Inferno.
La
morte
volontaria,
per
ragioni
sconosciute, sembra essere
divenuta una vera e propria
epidemia: Cino da Pistoia
parla infatti di «noia di
vivere». Questo passaggio in
terra fiorentina ci dà
l’occasione per ricordare che
Dante mette gli accidiosi nel
Purgatorio (canto XVII);
la loro colpa è stata la
tiepidezza, la lentezza, la
trascuratezza
delle
cosespirituali,eccoperchéla
loro punizione sarà di essere
assillatidaunamoregiustoe
da una volontà leale. Nel
Purgatorio dantesco le anime
si aggirano a gran velocità
urlando di andare sempre
più forte, senza stare a
perderetempoconl’amore,e
gemendodinonpoterrestare,
per quanto assalite dalla
voglia
di
muoversi.
Non perdere tempo: questa
preoccupazione
annuncia
l’arrivo di una nuova epoca.
L’ossessione per il buon
impiego
del
tempo
diverràrapidamenteunadelle
componentidelmaldivivere.
Già intorno al 1330, poco
dopolaDivina Commedia, il
domenicano
Domenico Cavalca dedica
unapartedellasuaDisciplina
allanecessitàdicombatterela
perdita di tempo, l’ozio e
l’accidia52.
Nel
canto
VII dell’Inferno di Dante, i
collericifarfugliano:
Fitti nel limo, dicon:
«Tristifummo
ne l’aere dolce che
dalsols’allegra,
portando
dentro
accidiosofummo:
or ci attristiam nella
bellettanegra»53.
Tristezza,
asprezza,
bassezza, brontolio: questi
collerici costretti per sempre
nella loro condizione sono
forse degli accidiosi? La
questione resta controversa.
ForseDantedistingueduetipi
di accidia: quella legata alla
tiepidezzaspirituale,punitain
purgatorio con un attività
sfrenata e quella, più grave,
legata alla collera, punita
nell’inferno
con
lo
sprofondamento nel fango:
«Figlio, or vedi l’anime di
colorcuivinsel’ira»(Inferno,
Canto
VII,
115-116),
diceVirgilioalpoeta.
SecondoDanteilsuicidio
è una violenza contro se
stessi,enonunaconseguenza
dell’accidia
e
della
malinconia. Egli riserva una
punizione terribile a coloro
chesiuccidono.Edèproprio
un suicida illustre come Pier
della Vigna, consigliere di
FedericoIImortonel1260,a
descrivere a Dante il loro
supplizio:leanimedeisuicidi
non possono essere riunite al
loro corpo; esse vengono
disseminate e diventano
arbusti dai rami taglienti,
torturati dalle arpie che vi
costruiscono il loro nido; i
corpi vengono trascinati e
appesiaquestirami.
Il caso di Firenze nel
1300 resta eccezionale.
Tuttavia è vero che per ogni
epoca vi sono documenti
attestanti la frequenza delle
morti volontarie. Raban
Maur,abatediFuldadall’822
all’847, a proposito della
tristezzaeccessivadichiarain
un
sermone:
«Ne
conosco molti che si sono
allontanati così tanto dalla
retta via, sia della mia epoca
che di quelle dei miei
predecessori».
Il
suo
contemporaneo Christian de
Stablo conferma, precisando
che:
«I
vescovi
sono responsabili di questa
pratica, poiché non spiegano
al popolo che coloro che si
tolgono la vita non mettono
fine
alla
sofferenza
e all’infelicità, ma le
aggravano, poiché passano
dai mali attuali a mali ben
peggiori»54. Nel XII secolo
San Bernardo deplora in
un sermone: «Ne abbiamo
conosciuti molti, caduti nelle
mani del demonio, che si
sono annegati o impiccati»55.
Poco dopo Ildegarda di
Bingen scriverà: «Ma la
tentazionedelDiavolospesso
si ritorce nella malinconia e
rende l’uomo triste e
disperato;
molti
uomini soffocano e sono
distrutti in tal modo dalla
disperazione»56. All’inizio
del XIII secolo, Jacques da
Vitry constata che «la
tristezza causa la morte di
numerose persone». San
Bonaventura afferma che
«molti si uccidono e
detestano la propria vita»;
«davvero molto spesso» la
disperazione
porta
al
suicidio57.
Si tratta certamente di
un’impressione soggettiva,
ma gli indizi sono troppo
numerosi e le dichiarazioni
troppo concordanti perché se
ne possa dubitare: il suicidio
è una realtà per tutto
il Medioevo. Alexander
Murray cita ancora le
testimonianzediTommasodi
Chobham, Alessandro di
Haies,
Johannis
Walensis, David d’Asburgo,
che muovono tutte nella
stessadirezione58.Sialefonti
giuridiche che canoniche e
teologiche ne attribuiscono
prevalentemente
la
responsabilità
alla
«disperazione». E questo
può sembrarci un’evidenza.
In effetti questo termine, pur
denotandosempreunpeccato
grave, designa svariate
situazioni.
Leautoritàspiritualieil
suicidio
La condanna del suicidio
da parte della Chiesa non è
stata immediata; i teologi
hanno esitato a lungo: la
Bibbia, fonte principale dei
precetti morali, non è chiara
in proposito: come metter
fineallaquestionedeimartiri
più o meno volontari e delle
vergini che si uccidono per
evitareildisonore?Origenee
Geremia sono i primi a
pronunciarsi
chiaramente
contro il suicidio, ma senza
fornire solide motivazioni,
perlequalioccorreattendere
Sant’Agostino che, ne La
città di Dio, formula un
interdettointangibile:
Questo
diciamo,
questo
affermiamo,
questo in tutte le
maniere dimostriamo,
cioèchenessunodevedi
propria volontà darsi la
morte né per sottrarsi
alle avversità temporali,
per non cadere nelle
pene eterne, né per i
peccati di un altro, per
non incominciare egli
stesso a macchiarsi d’un
peccato
proprio
e
gravissimo, mentre il
peccato altrui non lo
macchiava;
nessuno
devetogliersilavitaper
i suoi peccati passati, a
cagione dei quali ha
ancora più bisogno di
vivere, per potersi
meritareilperdonocome
la penitenza; nessuno
deve farlo nemmeno per
il desiderio d’una vita
migliore, che si spera
dopo la morte, poiché
per quelli che sono
colpevolidisuicidionon
v’è speranza, dopo la
morte, di una vita
migliore59.
Tale interdetto assoluto è
ancora soltanto un parere
teologico.
I
canoni
disciplinari dei concili lo
trasformeranno gradualmente
in legge per i cristiani. Il
Concilio di Orléans (533), di
Braga (561) e di Auxerre
(fine del VI secolo)
proibiranno ogni tipo di
cerimoniareligiosaedeposito
di offerte per i suicidi.
Secondo quanto disposto dal
Concilio di Toledo (693), «il
contagio della disperazione
si
è
radicato
così
profondamente in certi
uomini»
che,
quando
vengono
sottomessi
a
punizioni,ildiavololispinge
atogliersilavita;seriescono
ascamparlo,dovrannosubire
unapenitenzaprimadiessere
reintegrati nella comunità.
Progressivamente tutte le
forme di morte volontaria
vengono
vietate.
I
penitenziali
anglosassoni
dei secoli VIII e IX
giustificanoesclusivamenteil
suicidio
dei
pazzi
o «demoniaci»; occorre
tuttavia che questi ultimi
abbiano
condotto
un’esistenza
onorevole prima di essere
posseduti dal diavolo. Il
suicidio per disperazione è
considerato il più grave di
tutti, poiché colui che lo
commette crede che i suoi
peccati vadano al di là di
qualunque perdono. Così
facendo egli pecca sia contro
Dio (poiché dubita della
misericordia, come Giuda)
che contro la Chiesa (poiché
dubita del potere di
intercessione). Allo stesso
tempo, la disperazione si
imponecomeunodeipeccati
più gravi poiché torna
a contestare il ruolo della
Chiesa nel perdono delle
colpe
per
mezzo dell’assoluzione, una
Chiesacheaffermaperaltroil
suo statuto di intermediario
universaleeobbligatofraDio
egliuomini.
Il miglior rimedio contro
la disperazione è la
confessione, che diventa
obbligatoria una volta l’anno
a partire dall’inizio del
XIII secolo, ma che era
comunquegiàmoltodiffusa.I
manuali per confessori
insistono a lungo su questo
punto.
Quello
di
Robert
Grosseteste,
ad
esempio, indica che alcuni
cristiani disperati non si
confessano perché pensano
che Dio non voglia
perdonarli, o perché i loro
peccati sono talmente enormi
da non ritenersi capaci di
compiere la penitenza che
verrà loro inflitta, o ancora
perché sentono di non avere
le forze per lottare contro le
cattive tendenze. Gli autori
spirituali si riferiscono qui
all’esempio di Caino, che si
dispera perché pensa che il
suo peccato sia troppo grave
peressereperdonato.
La disperazione può
quindi essere il risultato di
qualunque peccato. È la
mancanza di fiducia, ma
anche una mancanza di fede
chedominaimplicitamentela
tentazione suicida. Questa
idea si trova già in un
penitenziale inglese dell’VIII
secolo,
il
Discipulus Umbrensis, così
come anche nel celebre
Manuale
di
Dhuoda
(IX secolo) e in numerose
Vitedisanti.L’accostamento
fra deperatio e suicidio (o
suicidia, poiché il termine
compare per la prima
voltanel1178nelDequatuor
labyrinthis Franciae del
canonico agostiniano di
Parigi Guillaume de SaintVictor) viene consacrato
nel XIII secolo da numerose
autorità. Pertanto, la maggior
parte delle volte, i suicidi
sono attribuiti semplicemente
alla
disperazione.
Unmanualeinglesedestinato
aipreticitauntipodiaccidia
caratterizzata
dalla
«disperazione o fatica di
vivere»; fonti francesi e
italianemenzionanonumerosi
casi di suicidio «per
disperazione»60.
San
Bonaventura scrive: «Esiste
un’altra
forma
di
disperazione,percuiunuomo
chesidisperaradicalmentesi
nasconde
dalla
vista
del perdono divino, come
feceCaino[...].Unpeccatodi
questo tipo si accompagna
sempre alla malizia, poiché
coluichesidisperainquesto
modo,peravercommessoun
peccatooaltracosa,desidera
metterefineallapropriavita;
perquestaragioneaccadeche
talidesperatissimisiuccidano
moltospesso»61.
Dietro tale disperazione
ritroviamo spesso il diavolo,
incriminato dagli antichi
penitenzialideisecoliVII-XI,
come il Judicia Theodori,
contenente le risposte date
dall’arcivescovo
di
Canterbury Teodoro alle
domande dei preti62 nel
periodocompresotrail668e
il 690. Tale manuale, spesso
copiatoeimitato,distinguedi
fatto diversi casi: se
l’individuo si è ucciso «a
causadelladisperazioneoper
una qualche paura, o per
cause sconosciute, lasciamo
chesiaDioagiudicareenon
osiamo pregare per lui». Ma,
come abbiamo visto, presto
viene introdotta una nuova e
più severa legislazione, la
quale giustifica solamente un
tipo di suicidio: quello degli
«indemoniati», vale a dire i
pazzi. Le Somme dei
confessori, che prendono il
posto dei penitenziali a
partire dal XII secolo,
adottanoquestaposizione.
Curiosamente, sia il
diritto canonico che il diritto
civile si mostrano molto
indulgenti nei confronti dei
tentativi di suicidio che non
vanno
a
buon
fine:
«Chiunque tenti di uccidersi
per impiccagione o con
qualsiasi altro mezzo, e che
non venga abbandonato da
Dio al momento della morte,
dovràespiarelepropriecolpe
con
cinque
anni
di
penitenza»63, dichiara ad
esempio il Poenitentiale
vigilanum del IX secolo. Le
sanzioni sono effettivamente
molto leggere: si va dalla
riprovazione al controllo. In
compenso, il cadavere del
suicida è sottoposto a pene
infamanti. Le vittime del
suicidio vengono sepolte
fuori del cimitero, a volte
all’incrociodeicammini,con
unpioloconficcatonelpetto;
ilorobenivengonoconfiscati
elalorocasadistrutta.Simili
pratichesispieganoforseper
la paura del-l’inquinamento
causato da un atto «contro
natura» e alimentata dalla
presenza di un cadavere,
come
nell’Antichità64.
Talvolta
si
giungeva
addirittura a pensare che un
suicidio
potesse
provocare vere e proprie
catastrofi naturali, come a
Venezia, dove due cronache
affermano, a proposito della
terribile
tempesta
che
sconvolse la città nel 1342:
«C’era a Venezia un maestro
di scuola che, per povertà e
disperazione,sidonòanimae
corpo al Nemico, poiché si
diede
la
morte
per
impiccagione. Per questa
ragione si produsse qui a
Venezia la più terribile
tempesta che si fosse mai
vista»65. Ritroviamo la stessa
spiegazione alla fine del XV
secolo nella Cronaca di
Norimberga, a proposito di
una tempesta che seguì
ilsuicidiodiunmonaco.
Ambiguitàdella
disperazionecristiana
Nell’arte
e
nella
letteratura del Medioevo,
Giuda è l’archetipo della
disperazione.
Alcune
miniature lo rappresentano
impiccato, con la scritta
«Giuda che si disperò», di
fronteallavirtùcontrapposta,
la speranza. Innumerevoli
rappresentazioni di questa
scena, scolpite, dipinte su
vetro, come anche molti
verbali
di
suicidi
«per disperazione», riportano
lamenzione«comeGiuda»66.
Spesso il diavolo è nelle
vicinanze. Sappiamo che le
Scritture non sono chiare a
proposito della sorte di
Giuda. Se la tradizione
dell’impiccagione ha finito
con l’imporsi è perché
sembrava la più verosimile
psicologicamente,
moralmenteeteologicamente:
il peccato conduce alla
disperazioneeladisperazione
al
suicidio,
schema
meccanicamente applicato in
numerosi
processi
per
suicidio.
I
cristiani
del Medioevo credevano
peraltro che altri «cattivi»
della
Bibbia
avessero
conosciuto la stessa sorte:
circolano voci ad esempio
sulla morte di Pilato e di
Erode, propagate dalle Storie
ecclesiastiche di Eusebio, La
LeggendaaureaeiChronica
diOttoVonFreising.
Gliautorichescrivonoin
lingua volgare associano
quasi sempre il suicidio alla
disperazione. Come spiega
Alexander Murray, «essi
utilizzano
dei
derivati
vernacolati di desperatio in
uncontestodisuicidio,sicché
parolecomedesperazioneeil
francese désespoir potevano
in
realtà
significare
«suicidio», un uso che aveva
il
doppio
vantaggio
dell’eufemismo e dell’unione
dell’attoinesprimibileconun
peccato
conosciuto
ed
esprimibile»67.
I teologi si sforzano di
andare ancora più a fondo
nella questione. Se, in un
primotempo,siaccontentano
di
riprendere
la
condanna senza appello di
Agostino e di spiegarla con
l’intervento del diavolo, a
partiredalXIIsecoloiniziano
a imbastire una teoria
maggiormente elaborata per
condannare il suicidio sia in
nome dei precetti religiosi
che in nome della ragione.
Abelardo è il primo a
sviluppare ampiamente tale
argomentonellasuaTeologia
cristiana.Nel 1159 Giovanni
di Salisbury, nel suo
Policratico, confuta l’idea
di coraggio che circondava i
prestigiosi
suicidi
dell’Antichità:«Questamorte
è la morte delle persone
completamentedisperate.Èla
morte di coloro che, pur
essendo ancora fisicamente
vivi, sono già morti
prematuramente nello spirito.
In breve, si tratta della morte
dichicgiàmorto,nondichi
è vivo»68. Giovanni di
Salisbury è consapevole del
paradossocristiano:«Occorre
quindi attaccarsi alla vita in
modo tale da arrivare a
disprezzarla,edisprezzarlain
maniera tale da meritare la
salvezza». San Bernardo
invitaisuoinoviziadunvero
e proprio esercizio di
equilibrismo esortandoli a
praticare il disprezzo di se
stessi69.Laregolacistercense
è, ai suoi occhi, il miglior
garantecontroladepressione:
se Giuda fosse stato un
cistercense, non si sarebbe
suicidato.
Avvalendosidellaragione
edellanatura,igranditeologi
delXIIIsecoloriprenderanno
le
argomentazioni
di
Aristotele per giustificare
l’opposizione al suicidio.
Tommaso d’Aquino vede nel
suicidiosiauncriminecontro
Dio, contro la natura, che
contro la società e contro se
stessi:èquest’ideachespiega
la punizione originale inflitta
da Dante nell'Inferno alle
vittime del suicidio. Nel
XIV secolo Giovanni XXII,
papa dal 1316 al 1334 e
fervente ammiratore di San
Tommaso,daluicanonizzato,
riprende e consacra la sua
argomentazione
in
un
sermone
tenutosi
ad
Avignone70.Egliaffermache
molte persone si uccidono
perché
credono
in
questo modo di sfuggire al
mal di vivere: «Potreste
pensare che il desiderio di
SanPaolodivenirepresoper
essere riunito a Cristo
possa essere interpretato in
questo modo, facendo della
morteunbene,einbaseaciò
chiedere perché, in questo
caso,
non
dovreste
uccidervi».
Riprendendo
esplicitamente le teorie di
Aristotele, il papa risponde:
«Questo è chiaro, secondo
quanto afferma l'Etica,
capitoloV»,dichiaraallafine
dellasuaformulazione.
Ilcristianesimomedievale
demonizzataliangosce,incui
vedeunamancanzadifiducia
inDio,epromettel’infernoa
colorochesidisperanoeche
rifiutano le prove della vita.
In questo modo non fa che
aggravare il mal di vivere
degli animi più fragili presi,
da un lato, dalle loro
sofferenze terrestri ben reali
e, dall’altro, dall’idea di
sofferenze ancora peggiori
che li attendono in caso non
riescano a sopportare la loro
condizione.Ilmaldivivereè
un peccato e, pur vietando di
soccombervi, la Chiesa lo
alimenta
aggiungendovi
l’angoscia
supplementare
della
dannazione. In questo modo
viene a crearsi un cerchio
infernale:
l’accidia
fa
incombere
la
minaccia
dell’inferno e la minaccia
dell’inferno
alimenta
l’accidia;bisognadisprezzare
la vita terrestre, ma allo
stesso tempo trovarla bella
esoprattuttononporvifine.
12Cor.,5,8.
2
Citato da B.
FORTHOMME, De l’acédie
monastique
à
l'anxiodépression.
Histoire philosophique de la
transformation d’un vice en
pathologie, Le PlessisRobinson,Sanofi-Synthélabo,
Parigi2000,p.528.
3Apophtegmese Scala
paradisi,
in
B.
FORTHOMME, op. cit., p.
582.
4
P. BOURGET, Le
démon de midi, Plon-Nourrit
et C.ie, Parigi 1914; trad,
it., Il demone meridiano.
Salani, Firenze 1956; J.
GUITTON,L'Amourhumain;
suivi de deux essais sur les
relations de famille et sur le
démondemidi,Aubier,Parigi
1955; trad, it., Saggio
sull'amore
umano,
Morcelliana,Brescia1954.
5 SAN NILO, De octo
spiritibusmalitiae,cap.14.
6 GIOVANNI
CASSIANO, Le istituzioni
Cenobitiche, Edizioni Scritti
Monastici,
Abbazia
di
Praglia, Bresseo di Teoio
(PD)1989,libroV,p.141.
7 GIOVANNI CASSIANO, Le
istituzioni,cit.,X,2,pp.247248.
8GIOVANNICASSIANO,Le
istituzioni...,cit.,IX,p.240.
9Ibidem.
10Ibidem.
11
ID., Consolationes,
IX,6.
12AUSONIO,Epistola
22,70, in Epistole, Il Cardo,
Venezia1995,p.52.
13 B. FORTHOMME,
Del’acédie...,cit.,p.449.
14Ivi,p.456.
15G.MINOIS,Histoire
du rire et de la dérision,
Fayard, Parigi 2000, pp. 95134;trad,it.,Storiadelrisoe
della derisione, Dedalo, Bari
2004.
16 T.-M. HAMONIC,
L'acédie et l’ennui spiritual
selon saint Thomas, in
L'ennui: féconde mélancolie,
a cura di D. Nordon,
Autrement, Parigi 1998, p.
92.
17 J. LACARRIÈRE,
Les hommes ivres de Dieu,
Arthaud,Parigi1961.
18 B. FORTHOMME, in
«Magazinelittéraire»,n.411,
luglio-agosto2002,p.31.
19 SAN GIOVANNI
CRISOSTOMO, A Stagirio
tormentato da un demone,
CittàNuova,Roma2002.
20 ISIDORO DI SIVIGLIA,
Etimologie o Origini, vol. I,
UTET,Torino2004,p.843.
21ADAMTHESCOT,De
quadripartitoexercitiocellae,
cap.24,Parigi,J.-P.Migne,t.
153,p.842.
22
Citato da R.
KLIBANSKY,E.PANOFSKYe
E SAXL, Saturno e la
melanconia: studi di storia
della filosofia naturale,
religione, arte, Einaudi,
Torino1983.
23 R. KLIBANSKY, E.
PANOFSKY e E SAXL,
Saturnoelamelanconia,cit.
24G.MINOIS,Histoire
de l'avenir. Des prophètes à
la prospective, Fayard,
Parigi1996,pp.199-228.
25 ALAIN DE LILLE,
Anticlaudianus,IV,8.
26 E. GlLSON, La
cosmologie de Bernardus
Silvestris, Archivi di storia
dottrinale e letteraria del
Medioevo,t.III,Parigi1928.
27D.DEMobley,Liber
de naturis inferiorum et
superorum, a cura di K.
Sudhoff,Lipsia1917.
28BARTOLOMEOANGLICO,
De proprietaribus rerum,
VIII,23.
29 GUIDO ΒΟΝΑΤTI De
astronomia, 1,3, in R.
Klibansky, F. Panofsky e F.
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30G.MINOIS,Lesorigines
dumal.Unehistoiredupéché
originel,Fayard,Parigi2002,
cap.2.
31 ILDEGARDA DI
BINGEN, Cause e cure
dell’infermità,
Sellerio,
Palermo1997,p.218.
32Ivi,p.82.
33Ivi,p.127.
34 ILDEGARDA DI BINGEN,
Causeecure,dt.
35 AVICENNA, Liber
canonis,III,1,4,cap.XIX.
36 COSTANTINO
AFRICANO, Della melancolìa,
Tip. E. Possidente, Roma
1959.
37 A. MURRAY, Suicide
in the Middle Ages, Oxford
University
Press,
Oxford1998,t.1,pp.278-285.
38 COSTANTINO
AFRICANO, Della melancolia,
cit.
39Ibidem.
40 COSTANTINO
AFRICANO, Della melancolia,
cit.
41 ALBERTO MAGNO,
De animalibus libri XXVI
nach der Cölner Urschrift, a
cura di Stadler, Aschendorff,
Münster1916-1921,vol.I,p.
330.
42 GUILLAUME
D’AUVERGNE,De universo, II,
3,20.
43
OTLOH
DI
SANT’EMMERAN, Das Buch
von seinen Versuchungen: e.
geistl.Autobiographieaus.d.
11.
J.h.,
Aschendorff,
Münster1977.
44 DAVID D’ASBURGO,
Formula novitiorum. De
interioris
hominis
reformatione,acuradiBigne,
t.25,p.893.
45ALESSANDRODIHALES,
Sommateologica,III,558b.
46 JACQUES DE VITRY,
HistoriaOccidentalis,cap.V.
47 SAN FRANCESCO
D’ASSISI,Gliscrittieifioretti.
48
SAN
TOMMASO
D’AQUINO, Somma teologica,
Ia,Iiae,Q37,a1.
49
A. MURRAY,
Suicide..., eit., t.1: The
Violent Against Themselves,
1998;t.II:TheCurseofSelfmurder, 2000; t. III: The
Mapping
of
Mental
Desolation, di prossima
pubblicazione.
50 Tutti gli esempi
seguenti sono tratti da A.
MURRAY, Suicide..., cit., t.
I.
51 A. MURRAY,
Suicide...,cit.,t.1,pp.85-91.
52 D. CAVALCA,
Disciplina degli spirituali,
Bottali,Roma1838,cap.19.
53 DANTE, Divina
Commedia, Inferno, canto
VII,121-126.
54CHRISTIAN DESTABLO,
Commentale sur l’Évangile
deMatthieu,cap.
55 SAN BERNARDO,
Sermone sui cantici, n. 66, §
13.
56ILDEGARDA DIBINGEN,
Causeecure,cit.,p.216.
57R.JEHL,Melancholie
und Accedia, Schöningh,
PaderborneMonaco1984,p.
235,252.
58 A. MURRAY,
Suicide...,cit.,t.II,p.365.
59 SANT’AGOSTINO, La
città di Dio, I, XXVI, SEI,
Torino1958,p.132.
60 A. MURRAY,
Suicide..., cit., t. II, ρ. 382,
ρρ.387-391.
61 R. JEHL,
Melancholie,cit.,p,252.
62 Councils and
Ecclesiastical
Documents
relating to Great Britain and
Ireland,Oxford1869-1878,3
voli.,vol.3,ρ.197.
63J.T.MCNEILL EH.M.
GARNER,
Medieval
Handbooks of Penance,
Columbia University Press,
NewYork1938,p.291.
64
A. MURRAY,
Suicide...,cit.,t.Π,pp.55-85.
65Ivi,1.1,p.112.
66 A. MURRAY,
Suicide..., cit., t. II, pp. 323339.
67Ivi,p.321.
68 GIOVANNI DI
SALISBURY, Policraticus, a
cura di C.C.J. Webb, Oxford
1909, 2 voli.,vol. 2, cap. 27,
righe 7-10; trad, it.,
Policraticus: l’uomo di
governo
nel
pensiero
medievale,JacaBook,Milano
1984.
69 SAN BERNARDO DI
CHIARAVALLE, S. Bernardi
opera4sermonesI[N.1-17]
/ ad fidem codicum
recensverunt, a cura di J.
Leclercq e H. Rochais, Ed.
Cistercensi, Roma 1966, t.
IV,p.76.
70 B.N.F., ms latino
3290,f.16-19.
Capitoloterzo
Ilsecolodella
malinconia(14801630)
L’incisioneMelancholiaI
di Albrecht Dürer appare nel
1514, mentre nel 1621 viene
pubblicata l’opera di Robert
Burton Anatomia della
malinconia. Fra queste due
pietre miliari si colloca il
secolodellamalinconia,cheè
poi anche il secolo del
Rinascimento,dell’Umanesimo
e della Riforma. La nascita
dello spirito moderno non
poteva
che
essere
malinconica. Il fatto di
rimettere
in
discussione
certezze
plurisecolari
suscita
meditazione, dubbio, spinge
allo studio, al dibattito, alla
contestazione.
L’umanista
che
rivendica
la
propria autonomia è, almeno
inizialmente, ottimista, ma
certo non è felice, poiché si
sente sempre più solo in un
mondo via via più vasto. A
partire
dall’epoca
di
Cristoforo Colombo la Terra
è diventata più grande; da
Copernico in poi l’universo
cresce
incessantemente
(Giordano Bruno azzarda
persino che sia infinito); con
Lutero
Dio
si
allontana: niente più icone,
niente più intercessori né
indulgenze.L’umanistainizia
a intravedere la solitudine
dell’uomonell’universo.
Umanesimoe
individualismocome
fattoridiinquietudine
Ilnuovointellettualeèun
solitario, chiuso nel suo
studio fra libri e mappe
astronomiche, non divulga le
sue scoperte, diffida dei
suoi simili e delle reazioni
che le autorità religiose
potrebbero avere. Nel mondo
scientifico il disagio diventa
chiaramente
percepibile: Copernico rivela
solo a malincuore le sue
ipotesi
e
altri
sono
manifestamente
depressi,
come Paracelso, Cornelio
Agrippa
o
Geronimo
Cardano,
il
matematico astrologo che si
suicidò nel 1575, come già
aveva fatto suo padre nel
1524.
Alla
solitudine
si
aggiungono le incertezze
materiali. Molti intellettuali
vivono in condizioni precarie
e spesso sotto l’egida di
qualche ricco mecenate;
alcunimettonopersinofineai
loro giorni, come l’umanista
Bonaventure Despériers nel
1544. Spirito troppo libero,
legato
agli
ambienti
contestatari
protestanti
dell’entourage di Margherita
di Navarra, ammiratore degli
Antichi e in particolare di
Seneca, di cui traduce le
opere, questo intellettuale
originale
e
pessimista,
divenuto sospettoso di tutto,
cade nella disperazione nel
momento in cui viene
abbandonato
dalla
sua
protettrice. Si getta allora
sulla sua spada e viene
trovato trafitto da parte a
parte.
L’altra
causa
di
disperazionecheminacciagli
umanisti è la conquista
impossibile
del
sapere
universale.Laloroinsaziabile
fame di conoscenza porta i
piùansiosiamisurareilimiti
della mente umana. La
disillusione è amara per
coloro
che
avevano
creduto che la scienza
universale fosse a portata di
mano.
Scrive
Dùrer: «Vorremmo sapere
molto e detenere la verità su
tutte le cose. Ma la nostra
intelligenza ottusa non può
raggiungere la perfezione
dell’arte, della verità e della
saggezza. Al fondo delle
nostre conoscenze non v’è
chemenzognaeletenebreci
avviluppano
così
impietosamente che, pur
procedendo con prudenza,
inciampiamoadognipasso».
Faust
incarna
la
frustrazione dell’intellettuale
posto di fronte ai limiti della
mente umana e il fatto che il
suo
mito
nasca
nel
XVIsecolononèuncaso.A
Francoforte, nel 1587, al
momento
della
sua
pubblicazione, la Storia del
Dottor Faust non è che la
storia anonima e semi-storica
della vita di un avventuriero
dissoluto, astrologo, mago e
ciarlatano,
che
muore
tragicamente nel 1540.
L’autoreillustralatentazione
dellasapienzaillecitaottenuta
con un patto diabolico e
sottolinea la smisuratezza di
Faust: astrologo, matematico,
teologo e medico, egli volle
sondarelefondamentaultime
del cielo e della terra, e sarà
proprio la sua bulimia di
conoscenza,chiamata«furore
malinconico»,acondurloalla
disperazione quando capisce
che la conoscenza assoluta è
fuori dalla sua portata e
che deve abbandonare il
sapere acquisito nel corso di
tutta una vita di lavoro.
Christopher
Marlowe
riprende la storia l’anno
seguente e ne amplia il
significato in una magnifica
tragedia:
Faust
vuole
uguagliare Dio e, davanti al
suo fallimento, pensa di
uccidersi. Secondo gli autori
delXVIsecolo,dietroquesto
mito si cela una della cause
essenziali della malinconia:
l’eccesso
di
lavoro
intellettuale.
Religione e umanesimo
non sono però i soli temi in
discussione,
il
disagio
riguarda infatti anche i
cambiamenti socioeconomici.
Il capitalismo nascente inizia
a rifiutare gli obblighi
corporativi; le strutture
tradizionalicomelafamiglia,
le
corporazioni,
le
comunità religiose vacillano,
provocando il declino delle
pratiche comunitarie. Questa
progressione
dell’individualismo,
nella
religionecomenellaculturae
nell’economia, si traduce in
un interesse crescente di
ognuno per la propria
immagine.
Studi
di
fisionomia,ritratti,autoritratti
e autobiografie mostrano la
nascitadiunnarcisismocheè
esso stesso fonte di
malinconia. L’interesse per
l’aspetto fisico è dato dal
fatto che, secondo la
concezioneplatonica,ilcorpo
è l’immagine dell’anima.
Marsilio Ficino, uno dei
grandi iniziatori di questo
ritorno alla ribalta del
platonismo,
scrive
nel
1484: «Ovviamente non
possiamovederel’anima[...],
mapossiamovedereilcorpo,
che è ombra e immagine
dell’anima
e
per
similitudine
possiamo
supporre che in un bel corpo
risiedaunabellaanima.Ecco
perchépreferiamoaveredegli
allievi
belli»1.
Poiché
l’aspetto dovrebbe rivelare il
carattere, numerosi trattati
sullafisionomiaelaboranoun
sistema
complesso
di
corrispondenze, come il
De humana physiognomia di
Giambattista della Porta
(1586) o l'Examen de
ingenios para los ciencias di
JuanHuarte(1575).
L’uomodiventailproprio
oggetto di studio. Il ritratto
diviene, infatti, un genere
pittorico in pieno sviluppo.
Nel
XV
secolo
sono
principalmente
i
personaggi
dell’alta
aristocrazia, ma anche la
borghesia, a voler lasciare
un’immaginediséegliartisti
del XVI secolo si cimentano
sempre di più nell’arte
dell’autoritratto. Oltre a
un banale segno d’orgoglio,
bisogna vedere in questa
tendenza il segnale di una
crescente
inquietudine.
Ritratti e autoritratti sono
altresì dei tentativi per
fermare gli «irreparabili
oltraggi»
del
tempo,
per fissare la propria
immagine e trasmetterla,
immutabile, alle generazioni
future. Nel XVII secolo
Rembrandt realizzerà più di
un centinaio di autoritratti,
dove è possibile ammirarlo
man mano giovane, vecchio,
sorridente, serio, arrabbiato,
mendico o nelle vesti di un
principe. È fuor d’ogni
dubbio che vi sia in questo
una forma ansiosa del
desiderio di immortalità:
«Rembrandt
dipinge
unicamente il presente del
suo viso, il qui e ora. Ogni
ritrattoèunasospensionedel
tempo.Leoperesuccessivedi
Rembrandt sono una serie di
tempi fermati, non una
durata»2, scrive Pascal
Bonafoux. Victor Stoichita,
da parte sua, ritiene che
Rembrandt
«affidi
all’autorappresentazione
periodica il suo desiderio di
salvezza»3.
Autoritratti,autobiografie,
il procedimento è sempre il
medesimo: si vuole plasmare
la
propria
immagine,
autogiustificarsi
e
immortalarsi nella posa
scelta.
All’origine
dell’autobiografia vi è infatti
spessoun’angosciadeltempo
che passa e un’angoscia
rispetto
allo
sguardo
dell’altro.
La
prima
autobiografia è datata 1542
ed è quella del matematico e
filosofo Geronimo Cardano,
grande depresso che finisce
persuicidarsi4.Essaèseguita
da quella di Benvenuto
Cellini, turbolento artista
avventuriero che tenterà
il suicidio e narrerà tale
episodionellesueMemorie5.
I Saggi di Montaigne si
ricollegano in un certo qual
modo a questa corrente.
Scrive Jean Starobinski: «La
riprovazione
di
Pascal
[rispetto
alle
confessionidiMontaigne],mi
sembra, non si rivolge solo a
un atto di orgoglio ma, più
profondamente, al peccato
di disperazione commesso da
Montaigne quando, invece di
rispondere alla morte con un
atto di fede nella promessa
divina,ricorreallaletteratura,
all’arte,
per
tracciare
un’immaginedellasuavitada
affidare alla posterità»6. Si
può
discutere
della
malinconia di Montaigne,
come vedremo, ma la sua
evoluzione
si
allinea
all’insorgenzadell’inquietudine
moderna, cioè l’inquietudine
dell’individuo incentrato su
se stesso e con uno sguardo
ansioso su un mondo che va
pericolosamentealladeriva.Il
mal di vivere di questi
precursoridellamodernitàha,
come
fonte
prima,
l’inadeguatezza fra sé e il
mondo.
SottoilsegnodiCrono
Al centro del malessere
degli umanisti c’è anche il
tempo, percepito come
distruttoreenoncomemezzo
per
raggiungere
la
liberazione.Perquestiuomini
cheriscopronolabellezzadel
corpo e del viso, che
cominciano a riabilitare la
materia, che ammirano
l’umanità
e
le
sue
realizzazioni artistiche e
intellettuali, il tempo diventa
ilnemicoprincipalecheviene
a offuscare la bellezza, a
indebolire le capacità e ad
annunciare la morte. Molto
significativo,
a
questo
proposito, è il fatto che nel
corsodeisecoliXVeXVIsi
realizzi la fusione fra
allegoria del Tempo e
rappresentazione di Saturno.
Il tempo e il temperamento
malinconico sono ormai
indissociabili.Kronosdiventa
Cronoegeneralamalinconia.
Fra il 1340 e il 1370, per
illustrare l’opera II Trionfo
del Tempo del Petrarca,
alcuni
artisti
hanno
inizialmente
fissato
l’immagine del Tempo
rappresentandolo come un
vecchio ricurvo appoggiato
sullestampelleeprovvistodi
uno o due paia di ali a
raffigurareilsusseguirsidelle
stagioni.Talvoltavieneanche
rappresentato con una falce
per ricordare che è foriero di
morte. Nel XV secolo tale
immagine si accompagna a
una o due clessidre, come
possiamo notare su una
miniatura fiorentina del
British Museum datata 14601470: canuto e barbuto, il
vecchio figura su un carro
trainatodaduecervi;sottosi
possono leggere questi versi
delPetrarca:
Che più d’un giorno
èlavitamortale?
Nubil e brev’ e
freddoepiendinoia,
che pò bella parer,
manullavale.[...]
Così, fuggendo, il
mondosecovolve,
né mai si posa né
s’arrestaotorna,
finchev’àricondotti
inpocapolve7.
La fusione di Saturno e
del Tempo genera effetti
ambigui. Il temibile astro
aveva
una
cattiva
reputazione: arido e freddo,
associato alla vecchiaia, alla
lentezza, all’invalidità, alla
sofferenza, alla bile nera e
alla malinconia, esso doveva
teoricamente influenzare i
becchini, i mendicanti, i
criminali,
coloro
che
esercitavano
professioni
infamanti
e
provocare
dissapori e infermità. I
neoplatonici,
Marsilio
Ficino principalmente, nato
egli stesso sotto il segno di
Saturno,
tentano
di riabilitarlo. Più «elevato»
di Giove, si dice che governi
la mente, favorisca la
meditazione e permetta di
carpire i segreti più
inaccessibili. Scrive Pico
della Mirandola: «Saturno
incarna
la
natura
intellettuale
votata
esclusivamente
ad
amministrare e mantenere in
movimento, attraverso le sue
regole, quanto le viene
sottoposto[...].Sidiceinfatti
che Saturno produca uomini
contemplativi, mentre Giove
conferisca loro le funzioni di
principe, governatore e
amministratore dei popoli»8.
Insomma, i saturnini sono
personestraordinarie.
Ma molti non ne sono
convinti. Nel 1516 Baldung
Grien rappresenta SaturnoCronocomeunvecchioirsuto
dallo
sguardo
perfido;
un’incisionemoltosuggestiva
diMartenVanHeemskerklo
raffigura con la falce del
Tempo mentre divora la
gambadiunbambinoeregna
sugli
impiccati,
sugli
agrimensori
e
sugli
storpi. L’umanista tedesco
KonradCeltis,natoanch’egli
sottoilsegnodiSaturno,non
perdona a questo pianeta di
avergli
arrecato
«grandi dispiaceri» e lo
supplica di smettere di
scagliare
le
sue
«frecceammorbanti».
Saturno-Crono diviene il
distruttoredellareputazionee
della bellezza, come si
evince,
secondo
Pieter
Bruegel
il
Vecchio,
da un’incisione di Philippe
GalleintitolataTempusomnia
et singola consumens(1574),
in cui Saturno siede su una
grande clessidra intento a
divorare un bambino e a
tenere un serpente che si
morde la coda. Una
moltitudine di simboli fanno
di quest’opera un vero e
proprio ricettacolo di misfatti
del tempo. Nella tradizione
dei Trionfi di Petrarca,
Saturno guida un carro
trainato da due cavalli che
raffigurano la Notte e il
Giorno e viene seguito dalla
Morte a cavallo, che prende
le fattezze di uno scheletro,
vestito di un sudario, che
brandisce la falce. In primo
piano un ammasso di
strumentimusicali,diutensili
perlapitturaelascritturaedi
simboli del potere, oggetti
che rappresentano le vanità
umane.
Sullo
sfondo
naufragio e incendio, ma
anchefesteggiamentipopolari
attornoall’alberodelmaggio:
sono gli eventi della vita che
vengono
velocemente
superati9.
Il XVI secolo vede la
diffusione di questi tipi di
incisioni e di pitture
raffigurantiidannideltempo.
DaDüreraBaidungGrien,da
Georg Pencz a Hermannus
Posthumus,
gli
artisti
rivaleggiano nel macabro,
nell’atroce e nell’orrido. Il
tempoèl’ossessionedelXVI
secolo:
i
pittori
lo
rappresentano, i poeti lo
declamano, dai sonetti di
Shakespeare alla rosa di
Ronsard.IltemadelleVanità
ne
è
un
ennesima
illustrazione. Comparso nel
XV
secolo,
questo
stile pittorico, incentrato sul
memento mori, si sviluppa
dopo il 1500 in scene che
associano cultura e morte,
come
un
personaggio
biblico o un Padre della
Chiesa, San Geronimo in
particolare, in uno studio
circondato da libri e da
strumenti scientifici e con di
fronte un teschio. Il San
Geronimo di Joos Van Cleve
ad esempio, datato 15241530, è rappresentato di
fronte a un libro aperto con
l’indice appoggiato su un
teschio. Quelli di Dürer, di
Lucas Van Leyden e di
Marinus Van Reymerswaele
riproducono questo gesto. Il
teschio è spesso presente nei
dipinti del XVI secolo,
presenza ossessiva che
incombe anche sui potenti e
che a volte si fonde nella
scena, come nell’anamorfosi
de Gli ambasciatori di Hans
Holbein, talvolta addirittura
affermando la sua vittoria,
comeneIItrionfodellamorte
diPieterBruegel(1562).Una
tale frequenza del tema
della morte e del tempo
distruttorenonpuòcheessere
segno di una riflessione
malinconica
sull’esistenza
umana.
Eppurelegrandicalamità
sono terminate. L’Europa,
chescopreeconquistanuove
terre,conosceunforteslancio
economico. Le conoscenze
progrediscono, l’arte di
viveresiraffina,almenonella
circoscritta élite protagonista
della fortuna e della
rinascita; la mente umana si
libera e si sorprende di se
stessa. Questa seconda
rinascita sembra gioiosa, ma
l’apparenza
inganna:
i
progressi stessi della mente
umana la rendono più
lungimirante
sulla
sua miseria, e soprattutto,
l’uomo comincia a rendersi
conto di essere responsabile
delle proprie sofferenze.
Sottol’effettodelleideedi
Lutero e Calvino, gli
autori
interiorizzano
il
peccato originale, prendendo
coscienza del loro stato di
corruzione irrimediabile che
annientaqualsiasisperanzadi
progresso morale10. L’uomo
medievale si sentiva vittima
rassegnatadeicastighidivini;
l’uomo del Rinascimento
trova conferma di essere la
causa delle proprie disgrazie.
Ci sono meno carestie, ma la
guerra è endemica (si
scatenano in particolare le
guerre di religione); vi sono
meno casi di peste, ma viene
mandato al rogo un numero
sempre maggiore di maghi,
stregheederetici.Cisivanta
della ragione, ma ci si
comporta
in
modoirrazionale;sirivendica
piùautonomiarispettoalDio
vendicatore, ma ci si rende
contodinonvalerepiùdilui.
Fra l’uomo e Dio, chi è
l’immagine l’uno dell’altro?
Tutto ciò non può che
alimentarecuperiflessioni.
MarsilioFicinoe
CornelioAgrippa:la
riabilitazionedella
malinconia
La malinconia viene
rivendicatacomeunsegnodi
profondità e genio grazie al
grande
processo
di
riabilitazione operato da
MarsilioFicino.
La
posizione
del
Fiorentino si spiega anzitutto
con un fattore psicologico
esistenziale, cui conferisce
rispettabilità
dandogli
unaparvenzadiintellettualità
platonica. Marsilio Ficino è
un depresso, su questo non
c’èdubbio;losievinceanche
dalleparolechescrivealsuo
amico Giovanni Cavalcanti:
«In questo momento non so,
percosìdire,ciòchevoglio;a
menoforsecheiononvoglia
ciò che so e voglia ciò che
non so». Inquieto, febbrile e
indeciso,eglisisenteinfelice
senzaragione:
Del resto, quale
meraviglia? Tutte le
voltechecenestiamoin
ozio ci sentiamo tristi
come se fossimo in
esilio, nonostante che
non
riusciamo
a
comprendere la causa
della nostra tristezza o,
addirittura, non ci
pensiamoaffatto.Daciò
deriva che l’uomo non
può vivere in solitudine.
Infattiriteniamodipoter
scacciarelatristezzache
si cela nel nostro animo
tramiteilcommerciocon
gli altri uomini e per
mezzo della molteplice
varietàdeglisvaghi.Ma,
ahimè,
troppo
ci
sbagliamo! Nel bel
mezzo dei divertimenti
spessosospiriamoe,alla
fine della festa, ce ne
andiamo più tristi
di come ci eravamo
venuti11.
Diversamentedall’accidia
medievale,chespessoveniva
tradottainterminidiletargia,
Ficino si definisce sempre in
movimento,
irragionevolmenteagitato.La
novità è che questo è motivo
di esaltazione per lui, che dà
un’interpretazionelusinghiera
della
sua
malinconia,
elaborando una teoria in cui
mette
insieme
Platone, Plotino (di cui
traduce le opere), Aristotele,
la medicina, l’astrologia e il
cristianesimo.
Bizzarra
sintesi,chesedurràunabuona
parte dell’élite intellettuale.
La mente umana, «vapore di
sangue, pura, sottile, calda e
chiara», subisce l’influenza
dei pianeti, spiega Ficino nel
primo volume dei suoi Libri
de vita triplici. I nati sotto il
segnodiSaturnosonoportati
allamalinconia;èunsegnodi
genialità, poiché Saturno è il
piùpotenteeilpiùnobiledei
pianetiedelevalospiritofino
alla contemplazione delle
cose segrete, superiori,
chepermettonodiaccedereal
mondo
trascendente,
inaccessibileaglialtriuomini.
Questa qualità è rafforzata
dalla
predominanza,
nel malinconico, della bile
nera che, «simile essa stessa
al centro del mondo, spinge
l’anima a ricercare il centro
delle cose singolari. Essa si
innalza
fino
alla
comprensione delle cose più
alte, tanto più che si accorda
pienamente con Saturno, il
più alto dei pianeti». Ma nel
momento in cui il filosofo è
in piena meditazione, il suo
corpo viene sottoposto a una
tensione insostenibile, come
se la sua anima si dovesse
staccaredalcorpo:
Ma tra tutti gli
uomini di lettere sono
infestati dall'umor nero
specialmente quelli che,
deditiallostudioassiduo
della
filosofia,
astraggono la mente dal
corpo e dalle cose
corporee e la fissano
sulle
realtà
senza
corpo: sia perché questa
è
un’attività
particolarmente difficile,
che richiede anche una
tensione
mentale
particolare; sia perché
fintanto che tengono la
mente a contatto con la
verità incorporea, per
tutto quel tempo sono
costretti
a
tenerla
disgiunta dal corpo;
sicchéillorocorposifa
non di rado semivivo e
quasi soffocato dalla
malinconia. E il nostro
Platone
descrive
questa situazione nel
Timeo, quando dice che
l’animo, per frequente e
intensa contemplazione
delle cose divine, a tal
punto si fa vigoroso e
potente, che si distacca
dalpropriocorpoaldilà
di ciò che la natura
sopporta;
e
nei
suoi movimenti più
intensi
talvolta
o
l’abbandona, in qualche
modo, o non di rado dà
l’impressione
di
scompaginarlo12.
Ficinoriconciliadunqueil
concetto aristotelico del
malinconico
brillante,
l’ispirazione platonica del
«furore divino», l’influenza
astrologica saturnina e gli
effetti fisiologici della bile
nera.
Si
può
essere
malinconici dalla nascita,
comeFicinostesso,natonella
fase ascendente di Saturno, e
allorasièspintinaturalmente
verso lo studio delle cose
spirituali; oppure malinconici
perdeformazione,inuncerto
qual modo per adozione, e
votarsiallavorointellettuale.
Improvvisamente Saturno
prende un’aura di immenso
prestigio grazie a Platone, il
quale viene arbitrariamente
catalogato sotto il suo segno.
A Firenze, l’Accademia
platonica è il centro del
suo culto, con un piccolo
gruppo di saturnini, fra cui
Lorenzo il Magnifico, il suo
medico Pierleoni e Ficino,
tutti malinconici e fieri di
esserlo. Il prestigio di questo
circolo va a contribuire
grandemente
alla
riabilitazione
della
malinconia, fino a ergerla a
«temperamento obbligato»
dell’intellettuale del XVI
secolo.
Ma ecco il rovescio della
medaglia: la malinconia è
sofferenza, mal di vivere, e
Ficino
deve
esserne
consapevole, poiché, pur
esaltandone il carattere
superiore, egli dedica lunghe
digressioni al modo di
combatterla.
Saturno
è
ambivalente: esso innalza lo
spirito, ma può anche
condurre alla follia o alla
debolezza. Bisogna dunque
diffidaredellasuainfluenzae
prenderelemisurenecessarie
per moderarla. Ficino prende
quindi spunto dalla medicina
e consiglia, sulla scia degli
altri
autori
medievali,
medicinalieinalazioniabase
di piante. Il ricorso a questi
veri e propri antidepressivi
deve essere completato dai
talismani, che permettono di
concentrare l’influenza di
altri pianeti al fine di
equilibrare quella di Saturno.
Infine, una buona igiene di
vita
contribuirà
ad
alleviare gli effetti della
malinconia. Anzitutto è
consigliabile evitare tutti
gli eccessi: l’intellettuale
deve bere e mangiare con
moderazione, fare l’amore
raramente; è raccomandabile
inoltre che si faccia fare
dei massaggi; che si alzi
presto e che per prima cosa
vada in bagno; inoltre è
consigliabile che inizi lo
studio all’alba, con una
piccolapausaaogniora;che
il
pomeriggio
legga
preferibilmente gli Antichi;
che non lavori la sera e la
notte; che abiti in una casa
gradevole e orientata nella
giusta direzione; che ascolti
lamusicaefacciapasseggiate
a piedi, di preferenza «nelle
regioni alte, temperate, dove
il cielo è sereno, poiché il
contattoconiraggidelsolee
delle stelle è più libero e più
puro;essicolmanolamentee
lo spirito del mondo, che
sgorga abbondante attraverso
diessi».
I Libri de vita triplici
hanno un grande successo.
Conventiseiedizioniinlatino
nell’arco di un secolo e
molteplici
traduzioni,diffondonointutta
l’Europa dotta l’immagine
dell’intellettualemalinconico.
Malamalinconianonrimane
a lungo un privilegio dei
filosofi. Molto presto anche
artisti
e
scienziati
rivendicheranno
questo
temperamento ispirato. Sin
dal XIII secolo il teologo
Henri de Gand aveva
riflettuto sui rapporti fra
malinconia e attitudine
allamatematica,distinguendo
due tipi di uomini dal punto
di vista delle capacità
intellettuali: coloro che sono
dotati per la speculazione
metafisica, poiché la loro
mente non è disturbata
dall’immaginazione, e coloro
che non riescono a ragionare
senza immaginare l’oggetto
della loro riflessione. Fra
questi ultimi, le menti
matematiche
hanno
l’intelligenza
inquinata
dall’immaginazione e la
consapevolezza di questo
limite li rende malinconici:
«Il loro intelletto non può
superare
la
loro
immaginazione [...]. Per
quanto cogitino, occorre che
ilpensierosiestendao,come
il punto geometrico, che
occupi una posizione nello
spazio. Per questo sono
malinconici, e sono migliori
nella matematica che nella
metafisica,
poiché
non
possono estendere la loro
intelligenza al di là della
magnitudinesucuisifondano
lematematiche»13.
All’inizio del XVI secolo
un
pensatore
tedesco,
Agrippa di Nettesheim, più
conosciuto sotto il nome di
CornelioAgrippa,rovesciale
prospettive nel suo Occulta
philosophia(1510).
Per Agrippa, l’umore
malinconico influenza le tre
qualità dell’anima: lo spirito,
ilcuioggettoèlaconoscenza
dei segreti divini; la ragione,
chestudiagliesserinaturalie
l’uomo;l’immaginazione,che
dirigeleattivitàmeccanichee
artistiche. Ammiratore di
MarsilioFicino,egliapplicaa
questi tre campi le sue idee
riguardanti
l’influenza
saturnina: il furore saturnino
stimola lo spirito dei grandi
teologi e profeti; la ragione
deigrandidottiefilosofie,in
ultimo, l’immaginazione dei
grandiartisti,anchesemagari
non hanno potuto compiere
alcuno studio in tale campo.
L’ispirazione artistica è un
vero e proprio delirio
malinconico:
Si dice anche che
l’umore
melanconico
abbia tanto potere da
costringere gli spiriti
celesti a incarnarsi nel
corpo umano, così che
gli uomini melanconici
parlano e agiscono sotto
la loro ispirazione
superiore
[...].
L’anima,
esaltata
dall’umoremelanconico,
rompe le pastoie delle
membraedelcorpoesi
diffonde
tutta
nel
dominio
della
immaginazione,
divenendo ricetto dei
demoni
di
ordine
inferiore, da cui spesso
apprende
le
arti
più sottili. Perciò spesso
è dato vedere un uomo
ignorante e grossolano
trasformarsi in abile
pittore, in eccellente
architetto, o in altro
artista[...]14.
Come Marsilio Ficino,
Cornelio Agrippa si ispira al
contempo a Saturno, ad
Aristotele e a Platone per
mostrare
che
ogni
uomo geniale è in realtà un
malinconico:
Saturno[...],essendo
freddo e secco come lo
stesso umore, vale ad
aumentarlo
a
conservarloeaesaltarlo.
Inoltre Saturno, essendo
l’autore stesso della
contemplazionearcanae
alieno dagli affari
pubblici e il più alto
dei pianeti, storna le
anime dalle occupazioni
esteriori, le trascina
verso le meditazioni
interiori, le attira verso
le cose future, come
intendeAristotilenelsuo
libro dei Problemi. In
virtù della malinconia,
egli dice, molti uomini
sono divenuti indovini e
hannopresagitoilfuturo
ealtrihannopoetato.Di
più dice che tutti coloro
chesisonodistintinelle
scienze erano per lo più
melanconici. Democrito
e Platone condividono
tale
opinione
e
asseriscono che molti
melanconici hanno tanta
spiritualità da sembrare
più che uomini divinità.
[...]EneiProblemi dice
che le Sibille, le
Baccanti, Nicerato di
Siracusahannopoetatoe
presagitoilfuturoperla
forza del loro umore
melanconico.[...]Alcuni
melanconici, d’ordinario
grossolani inabili e
dotati
di
scarso
spiritualismo,
quali
Esiodo,
Ione
di
Chio,
Tinnico
il
Calcifico, Omero e
Lucrezio, trasportati da
improvviso
furore,diventanopoetie
creano opere tanto
ammirevoli che appena
essi stessi giungono a
intenderle15.
Il legame fra genio
artistico e malinconia si
imponerapidamente,alpunto
da divenire un cliché che
viene affibbiato d’ufficio a
personaggi dalla reputazione
diuominisereni,equilibratie
felici di vivere, come
Raffaello. Nel 1519 un
incaricato d’affari di Ferrara,
tale Pauluzzi, scrive a
riguardo di essere «portato
alla malinconia, come tutti
quelli che possiedono talenti
cosìeccezionali»16.Nel1585
talelegamediventaevidentee
la critica di Romano Alberti
neprecisaleragioni:
I pittori divengono
malinconici
perché,
volendo imitare, devono
mantenere i fantasmi
all’interno del loro
intelletto: a questo fine,
li esprimono in seguito
nel modo in cui li
avevano
visti
inizialmente
in
presentia, nel momento
stesso;equestononuna
sola
volta,
ma
continuamente, poiché è
proprio in questo che
consisteilloroesercizio:
ecco perché il loro
spirito è tanto astratto e
separato dalla materia e,
diconseguenza,provoca
la
malinconia.
Aristotele,
peraltro,
sostiene che significhi
intelligenza
e
lungimiranza, poiché,
sempre secondo lui,
quasi tutti gli esseri
intelligenti
e lungimiranti sono stati
malinconici17.
Lamodadella
malinconia,dall’Italia
all’Inghilterra
I
malinconici
sono
ovunque, scrive Robert
Burton nel 1621: «Questa
malattia crudele [...] sta
attualmente flagellando, su
quasituttal’Europa,lenostre
persone di qualità»; essa è
«così comune nella nostra
epoca di stupidità che solo
una persona su mille ne
è indenne». Ma quanti sono
gli autentici malinconici? È
impossibile saperlo, poiché
per molti è solo un modo di
apparire, «esattamente come
la Melancholia dipinta da
Albrecht
Dürer:
una
donna triste, appoggiata sul
gomito, gli occhi fissi e i
vestititrascurati»18.
In ogni caso i libri sulla
malinconia si contano a
decine. Citiamo, per la
Francia, Le miroir du
mélancholique di Meury
Riflant (1543), il Second
discours auquel est traicté
des maladies mélancholiques
etdesmoyensdelesguérirdi
André Du Laurens (1595), il
trattato De la mélancolie di
Guibelet (1603), il Traité de
l’essenceetguérisond’amour
ou de la mélancolie érotique
di J. Ferrand (1612) e il
TraitédelamélancoliediLa
Mesnardière(1635).
Le opere del tardo
Rinascimento
danno
prevalentemente
un’immagine
lusinghiera
dellamalinconia.Certo,èuna
malattia, ma la malattia degli
esseri eccezionali che, nel
dolore,permettediaccederea
verità altrimenti nascoste ai
comuni mortali, affermano
sia l’olandese Lennio che gli
spagnoliQuartedeSanJuane
Luis Mercado, o l’italiano
GiovanniBattistaSilvatico.
Se gli autori distinguono
diverse varietà di malinconia
- religiosa, amorosa, furiosa,
cinica, misantropica e altre restano comunque unanimi
nell’affermare che provenga
dall’Italia.
Tuttavia
anche l’Inghilterra viene
invasadalvirusMelancholia.
Sin dal 1532 un nobile
veneziano,dopounsoggiorno
di due mesi a Londra,
constata che in questa città
«molti sono portati a
impiccarsi o a gettarsi in un
pozzo
e
a
lasciarsi
annegare»19;
nel
1562
l’ambasciatore imperiale a
Londraosservachegliinglesi
si suicidano spesso: «La
settimana scorsa quattordici
persone, fra uomini e donne,
sisonoucciseimpiccandosio
gettandosinelTamigi»20.
Nei castelli stile Tudor e
in particolare elisabettiani, la
galleria dei ritratti è
estremamente
rivelatrice:
spesso emaciati, in un
mistoditristezzaeseverità,i
visi austeri dei personaggi
vestiti di nero tradiscono la
volontà deliberata degli
aristocratici di presentarsi
come malinconici, come se
vedesseroinquestounsegno
didistinzione.
Apartiredaglianni1580,
la letteratura si impadronisce
di questo tema, ed è in
Inghilterra che compaiono
tutte le grandi opere sulla
malinconia e il suicidio: A
Treatise of Melancholy di
Timothie Bright (1586) e
Anatomiadellamalinconiadi
Robert
Burton,
su
cui torneremo, ma anche il
romanzo filosofico di Philip
Sydney, The Countess of
Pembroke’s Arcadia (1580),
ilsaggiodiFrancescoBacone
sulla morte (1607), il
Biathanatos di John Donne
(1610),
The City of Dreadful
Night and other poems, dove
James Thomson descrive in
versi la Melancholia I di
Dürer, «che supera ogni
intelligenza».
Gli
eroi
depressinonsicontanopiùa
teatro: oltre ai suicidi
shakespeariani, un centinaio
di opere di Robert Wilmot,
MarySydeny,SamuelDaniel,
Thomas Kyd, Ben Jonson,
John Marston, Thomas
Heywood, Thomas Dekker,
Francis
Beaumont,
John Fletcher e William
Rowley,frail1580eil1625,
mettono in scena quasi
duecento morti volontarie.
Visibilmenteinquestoc’èpiù
diunamoda:ilfattochetanti
eroi arrivino a preferire il
suicidio come sola via
onorevole di uscita tradisce
un malessere socioculturale.
«Lo smarrimento morale dei
giacobiniapparequiinmodo
indiscutibile», scrive Bernard
Paulin, autore di un grande
studio sull’argomento21. Un
personaggio di William
Rowley si suicida persino
senza
motivo:
«Poiché
comunque dovrò morire, un
giornovalel’altro».
Ma
prendiamo
in
considerazione il maestro
William Shakespeare, che da
solo mette in scena ben
cinquantaduesuicidi.Tuttala
sua opera è infatti una
variazionesultema«essereo
non essere». La vita, con i
suoi drammi spinti fino al
parossismo, vale la pena di
essere vissuta? Amleto è il
principe dei malinconici, il
modello
dei
depressi.
Perseguitatodalpropriosenso
del dovere, velleitario, egli
vaga ponendosi domande
esistenziali; ora febbrile ora
abbattuto, erra nei cimiteri,
parlaconunteschio,pensadi
uccidersi e non si uccide,
sirifugianellafolliasimulata.
Ed è questo giovane infelice
cheShakespeareonoraconil
più bel monologo della
letteratura,l’interrogativoche
riassume tutta la condizione
umanaeanchetuttoilmaldi
vivere: la riflessione ci
paralizza, «il vigore delle
nostre
risoluzioni
arrugginisceall’ombrapallida
del pensiero». Soffriamo, ma
l’immaginazioneciimpedisce
di mettere fine a tali
sofferenzeconlamorte.
La vita è una grande
storia folle, «è un racconto
narrato da un idiota, pieno di
grida, strepiti, furori», dice
Macbeth.«Appenanati,vedi,
noi si piange perché ci si
ritrova all’improvviso su
questo
palcoscenico
di
pazzi»,
conferma
un
personaggio del Re Lear. Se
sapesse la sorte che lo
attende, «il più felice dei
giovani d’oggi mirando al
corso della propria vita, ai
pericoli corsi nel passato ed
alle avversità dell’avvenire,
chiuderebbe quel libro,
ansiososoldivivereadagiato
nella supina attesa della
morte», rincara la dose il re
Enrico
IV.
Gli
eroi
shakespeariani illustrano le
diverse sfaccettature del mal
di vivere, coronato dalla
consapevolezza
del
tempo che passa. «E niente
potràfardifesacontrolafalce
del Tempo», declama il
Sonetto 12 - constatazione
scoraggiante,
ripresa
indefinitamente:
Io penso allora al
destinodellatuabellezza
Ché tu pure ne
andrai tra i rifiuti del
tempo.
La soluzione è quindi
lasciare questo mondo? Il
problema di Amleto rimane
irrisolto. Shakespeare studia
la
gamma
completa
dei motivi di morte
volontaria: amore, gloria,
rimorso,rovina,disperazione,
cui si aggiunge sempre una
dose di qui pro quó, di
illusione, di errore, di
grottesco. L’apice è il
suicidio mancato del duca di
Gloucester in Re Lear.
Questo
vecchio,
cieco,
infelice e disilluso dinanzi
alla cattiveria del mondo, si
fa guidare da suo figlio,
che finge di essere pazzo,
fino alle scogliere di Dover,
per gettarsi poi nel vuoto.
Conosciamo la storia: il
pazzo conduce il cieco su
una collinetta dall’altezza
irrisoria,dacuiilciecospicca
un salto da pulce da cui esce
indenne. La farsa può
continuare.
Alcuni
hanno visto nell’aridità di
questa scena un nichilismo
moltomoderno:tuttoèvuoto,
compreso il cielo; tutto è
illusione, comprese la vita e
lamorte22.
A immagine dei suoi
egregi
contemporanei,
Jacopo, il malinconico di
Come vi piace, è un uomo
tristeecontentodiesserlo:«È
belloesseretristietaciturni»,
afferma. A ognuno la sua
malinconia:
«La
mia
malinconia non è quella
dell’intellettuale
ch’è
solo invidia; né quella del
musico ch’è un prodotto del
suofantasticare;nédell’uomo
di corte, ch’è alterigia; né
quella
del
soldato,
ch’èambizione;nédell’uomo
di legge, ch’è scaltrezza; né
delladama,ch’ècivetteria;né
infine quella dell’innamorato
chelecomprendetuttemesse
insieme.Unamalinconiach’è
tutta mia, un amalgama di
moltiingredienti,undistillato
di molti elementi maturati
nelle meditazioni nei miei
svariati viaggi per il mondo,
il cui continuo ruminare
interno m’avvolge tutto,
come in un mantello d’una
tristezza molto variegata»23.
Jacopo
dimentica
la
malinconia del buffone,
poiché neanche Falstaff
sfugge allo spleen: «Però,
perdio, son proprio giù di
corda come un gatto castrato
o un orso al laccio [...] ( )
come il mugular d’una
zampognadelLincolnshire»«o come la palude di Moor
Ditch», aggiunge il principe
Enrico24. Osserviamo come
questi paragoni tradiscano
un’estensione della qualità
malinconica alle cose, ai
paesaggi. La malinconia
tendeadiventareunelemento
indipendente,
che
può
caratterizzare sia un luogo
cheunapersona.
Lespiegazionimediche
Mentre
i
letterati
disquisiscono sul mal di
vivere
dei
loro
contemporanei, i medici si
chiedono se non sia
semplicemente una questione
di bile nera. Nel sangue,
scrive Ambroise Paré, c’è
«una certa proporzione e
misuraditaliumoricheviene
mantenuta all’interno del
corpo, aiutandolo a rimanere
in salute: tuttavia, se si
guasta, essa è causa di
malattia». Se predomina
l’umore malinconico, esso
provocauntemperamentoche
corrisponde al vento del
nord, alla terra, all’autunno,
allavecchiaia,ecolorochene
sono colpiti sono «tristi,
irritabili, duri, severi, rudi,
invidiosi
e
timidi».
Questa
predominanza
dell’umore
nero
si
spiegherebbe con un cattivo
funzionamento
dell’ipocondrio,uninsiemedi
organisituatinell’addome,in
particolare la milza, il cui
ruolo sarebbe di assorbire
l’eccessodibilenera;quando
la milza non svolge più
questo ruolo, la bile si
diffonde nel corpo e il
soggetto viene allora colpito
dalla
malinconia
ipocondriaca. Inoltre, la bile
in eccesso si modifica
producendo vapori caldi
tossici per il cervello e
causandoidee«nere».Avolte
tali vapori esalano dalla
bocca, con il rischio di
contaminareivicini.Uncerto
Allemand, «temendo di
aspirare in chiesa una
quantità troppo grande di
vapori malinconici esalati
dalla folla
di fedeli
contriti»25, preferì starsene a
casa durante la settimana
santapoiché,inqueitempidi
penitenza e di rimorsi, l’aria
di chiesa era satura di vapori
malinconici
contagiosi.
Controglieccessidibilenera
vengono
raccomandate
medicine «evacuative» per
purgare il corpo, «alterative»
per
diluire
l’umore,
«confortative» per ridare
la gioia di vivere, insomma,
gli antidepressivi del XVI
secolo.
Ambroise Paré sa che la
malinconia può anche avere
causepsichiche,i«fastidiele
alterazionidellamente».Egli
narra ad esempio che, nel
1552, un cameriere del re si
uccise per non essere stato
abbastanza aggraziato. Per
evitare paure e grosse
preoccupazioni,
egli
suggerisce di condurre una
vitaequilibrata,diascoltarela
musica,diberevinoleggero.
Alla fine del XVI secolo,
anche un altro medico
famoso, André Du Laurens,
nel suo Discorso delle
malattiemalinconiche,insiste
sull’incidenza dello stile di
vita,
in
particolare
sull’eccesso di studio, pur
avendo tutta un’altra idea
delle cause fisiologiche. Se i
malinconicivedonotuttonero
è perché il loro cervello è
offuscato dalle esalazioni di
bile nera: «Gli spiriti e i
vapori
neri
passano
continuamente, dai nervi,
dalle vene e dalle arterie, dal
cervello all’occhio, questo
provoca ombre e apparizioni
ingannevoli
nell’aria,
e dall’occhio tali forme
vengono
riprodotte
nell’immaginazione».Poiché,
a suo parere, le immagini
arrivano agli occhi dal
cervello, egli raccomanda di
circondarsi di luci vive e
piacevoli, come il rosso, il
gialloeilverde.
Il
medico
olandese
Lennio,dalcantosuo,ritiene
che l’umore malinconico sia
particolarmente attivo fra le
tre del pomeriggio e le nove
di sera, quando «il fegato si
purga e getta fuori la sua
schiumaequalsiasigeneredi
escremento, che arriva fino
alla milza: ciò causa, durante
queste ore, l’ottenebramento
dell’intendimento
umano,
mentre lo spirito, avvolto da
una spessa coltre di fumo,
siritrovatristeeabbattuto»26.
Tuttavia, intorno alla fine
del secolo, i medici si
orientanosempredipiùverso
le spiegazioni psicologiche.
Pierre Pigray, riportando
alcuni eventi degli anni ’90
del 1500, racconta che aveva
visitato con i suoi colleghi
Renard
e
Falaiseau
quattordicipoveridiavoli,fra
uomini e donne, sospettati di
stregoneria, ma che in realtà
soffrivano
di
un’immaginazione malata. Li
interrogarono «su diversi
punti, riguardo a come si
diventa malinconici; ma
trovammo solo dei poveri
stupidi dall’immaginazione
distorta, gli uni che
non temevano di morire, gli
altri che lo desideravano: la
nostraopinionefudipropinar
loro
dell’elleboro
per
purgarli»27.
Nel 1620, Joseph du
Chesne de La Violette
fornisce una descrizione del
pazientemalinconicocheben
corrisponde ai sintomi della
depressione nervosa. Si vede
il
malato
«camminare
lentamente,latestachina,nei
dintorni di cimiteri e luoghi
deserti:gliocchifissiaterra,
tutti pieni di lacrime [...], la
bocca che non proferisce
verbo». Si tratta, scrive il
medico,diuna«passioneche
turba lo spirito, debilita tutte
le facoltà animali, corrompe
tutti i nostri sensi interni ed
esterni[...],distorcelefacoltà
immaginative e cogitative».
Egli la chiama «tristezza,
afflizione, languore» e le
attribuisce
cause
sia
fisiologiche («umore o
sangue
malinconico
e
annerito») che dietetiche
(«carni malinconiche che
causano
sangue
malinconico») e psicologiche
(le sofferenze e le difficoltà
della vita). Tutto ciò rende il
cervello «oscuro, tenebroso»
e provoca «spavento e
paura»28.
Nello
stesso
periodo, l’italiano Tomaso
Garzoni
effettua
una
descrizione clinica degli
stati depressivi che ha potuto
osservare in un ospedale
veneziano29.
Se la nosografia si rivela
pertinente,lamedicinainvece
non
progredisce
assolutamente sulle cause
fisiologiche
della
depressione. Nel 1607 Fernel
parla ancora dell’umore
malinconico come di «un
fluido
spesso
nella
consistenza, freddo e secco
nel temperamento»30, vale a
dire un processo fisico molto
materiale. Altri, al contrario,
lasciano da parte le teorie di
Ippocrate e ragionano in
termini di «qualità», che si
trasmettono
dal
corpo
all’anima
senza
alcun
supporto materiale, quindi in
termini psicologici più che
medici. A metà del XVII
secolo Thomas Sydenham,
noto medico inglese, ritiene
che i malinconici siano
«persone che, al di là di
questo, sono molto sagge e
sensateechehannounacume
e una sagacia straordinari».
AncheAristotelehaosservato
a ragione che i malinconici
hanno più presenza di spirito
deglialtri31.
Iteologicontrola
malinconiadiabolica
Il mal di vivere diventa
dunqueunavirtù?L’arteela
letteratura riabilitano la
malinconia; la medicina le
restituisce
la
sua
dimensione
psicologica;
l’élite sociale modella su di
essa
i
canoni
di
comportamento. Tuttavia sia
il clero che i teologi
continuano a considerarla
comepervasadaun’influenza
diabolica e restano quindi
fondamentalmente
ostili,
contemplando
nei
loro
sermoni accidia, pigrizia e
malinconia. Nel 1489 il
carmelitano Battista Spagnoli
ci restituisce il seguente
ritratto allegorico della
pigriziamalinconica:
Ed ecco la madre di
tutte le preoccupazioni,
incapace della minima
attività, inadatta a
svolgere il minimo
ufficio: Pigrizia, nutrita
fra le compagne di
Megera, saccente in
apatia e maestra di
nevrastenia. Seduta in
disparte,gliocchifissial
suolo,ilciglioarricciato
dall’aria
corrucciata,
livida, scapigliata, si
gratta con un’unghia
adunca la testa piena di
pulci. Ha il viso sporco,
le mani grasse, la barba
umida che gocciola di
bava, dal naso una
sempiterna goccia che
cola. Essa è rachitica, la
suaschienaèricurvaeil
petto è scavato; sotto il
torace stretto la pancia
somiglia a un otre,
come se soffrisse di
idropisia;legambesono
gracili, le ginocchia
sporgenti
che
ne
rallentano il passo, le
articolazioni logorate da
unagottamaligna32.
Un secolo dopo il
francescano Noël Taillepied
fustiga più sobriamente, ma
sempre con la stessa
fermezza,i«malinconiciegli
insensati [...] saturnini che
rimuginano e inventano
innumerevoli chimere»33. Le
suddette chimere vengono
suscitate dal diavolo, che
sfrutta
la
tristezza
malinconica per portare alla
disperazione gli uomini che
ne rimangono vittime. I
demonologi ritengono che
il temperamento malinconico
sia un segnale sospetto,
caratteristico dei maghi e
delle streghe, e così lo
concepiva II martello delle
streghe. Jean Wier, medico,
sosteneva che le visioni
fantastiche fossero suscitate
dall’eccessodiumorneronel
cervello.
Egli
scrive,
negli anni ’60 del 1500, che
«il diavolo, nemico subdolo,
furbo e sornione, induce di
buongradolamalinconianel
sesso femminile, incostante a
causadellasuacomplessione,
ingenuo,
malizioso,
impaziente, malinconico per
il fatto di non riuscire a
controllare
le
proprieemozioni»34.
Lucas
Cranach
ha
magnificamente
illustrato
questo concetto riprendendo
gli scritti di Lutero, secondo
il
quale
«lo
spirito
afflitto dalla tristezza deve
avere una paura estrema» di
Satana.
«L’umore malinconico è un
bagnopreparatodaldiavolo»,
ripeteilriformatoreaimonaci
medievali. I suoi Discorsi a
tavola
insistono:
«La
tristezza, le epidemie e la
malinconia vengono da
Satana»; «colui che è
tormentato dalla tristezza,
dalla disperazione o altri
dispiaceri ha un verme nella
coscienza»35. Lucas Cranach
quindi, in una serie di dipinti
dal 1528 al 1532 intitolati
Malinconia, mette in luce il
legameconlastregoneria.La
suaallegoriasipresentaconi
tratti di una giovane dal viso
illuminato da un misterioso
sorriso appena accennato.
Non ha assolutamente la
gravità della Malinconia
tormentata dell’incisione di
Dürer, ma è comunque più
inquietante. Nel dipinto
espostoalMuseoUnterlinden
di Colmar la giovane, con i
suoi
occhi
a
mandorla, accenna uno
sguardo obliquo e diabolico,
comequelloditutteledonne
di Cranach. Con un coltello
taglia un ramo per farne una
bacchetta magica: bisognava
infatti rimuovere la corteccia
per evitare che gli spiriti non
si insinuassero fra questa e il
legno. Ai suoi piedi
è accucciato il «cane della
malinconia», mentre quattro
piccoli
putti
giocano
sull’altalena-alcunicriticivi
hanno riconosciuto dei
simboli alchemici. Una
grande finestra si apre su un
paesaggio tormentato e, in
una grossa nube nera, è
rappresentata una corsa
satanica di streghe che
cavalcano un caprone, un
maiale, un drago e un toro,
che trascina un cavaliere
armatoversoilsabba36.
La malinconia è oggetto
di vasti dibattiti presso i
mistici. Santa Teresa d’Avila
si è interessata da vicino a
questotema,surichiestadelle
religiose del convento San
Giuseppe di Salamanca. Le
comunità
di
clausura
sembrano infatti conoscere
anch’esse
una
forte
recrudescenza dei casi di
malinconia, che non è
ammessa
nella
religione, scrive la santa, ma
la maggior parte delle volte,
quando
il
male
viene scoperto, è già troppo
tardi: «Pur cercando con
grande cura di evitarlo,
questo umore è così subdolo,
nascosto e difficile da
scoprire
che
ce
ne
accorgiamo solo quando
ormai non possiamo più
espellere le sorelle che ne
sono
colpite»37.
Come
comportarsi
allora
con
le sorelle malinconiche?
Questione delicata, poiché il
diavolo se ne serve per
impadronirsi degli altri: «Se
non stanno in guardia ci
riuscirà,perchél’effettodella
malinconia è di oscurare e
disturbarelaragione,cuinon
riesce a far arrivare le nostre
passioni»38.
Santa Teresa d’Avila è
stata testimone dell’immensa
sofferenza provata da coloro
che sono «umili e temono di
offendere
il
Signore
[pertanto] si conformano in
tutto
all’obbedienza
e
sopportano il loro male
facendo come le altre,
nonostante le grandi lacrime
che versano e la lotta che
devono
interiormente
sostenere. Certo che così
il loro martirio si fa più
grande, ma non meno grande
sarà pure il loro premio:
fanno il purgatorio in questa
vita, ne saranno esenti
nell’altra»39.
Nonostante
possa
contribuire
alla
salvezza,
è
meglio
cercare
comunque
di
eliminare questo male, anche
a costo di impiegare rimedi
estremi, poiché potrebbe
contaminare
l’intera
comunità:
Siccome ho visto ed
ho trattato a lungo con
tali persone, ripeto che
nonv’èaltrodafareche
da ricorrere a tutti i
mezzi e a tutte le vie
possibili per ridurle in
soggezione. Se non
bastano le parole, si
ricorraaigrandicastighi;
se non è sufficiente
tenerle in carcere un
mese, vi si tengano
quattro, essendo questo
il più gran bene che si
possa fare alle loro
anime.
[...]
Sembrerebbe
un’ingiustizia castigare
un’inferma come una
sana, sotto pretesto di
nonpoterfarealtrimenti.
- Ma allora sarebbe
un’ingiustizia
anche
legareefustigareimatti,
e bisognerebbe lasciare
che ammazzassero gli
altri!...
Micredano,chel’ho
provato per esperienza:
fra tutti i rimedi che ho
adoperato, non ve n’è
uno più efficace di
questo. Se la Priora,
mossa da compassione,
lascerà che comincino a
prendersi delle libertà,
verrà giorno che non
potrà più dominarle; e
quando vorrà mettervi
riparo,giàtutteneavran
subitol’influsso40.
Per
sradicare
la
malinconia, malattia «più
pericolosa di quelle in cui ne
va della vita», bisognerà fare
in modo di tenere sempre
occupate
le
sorelle,
imponendo«funzionichenon
lasciano loro il tempo di
sognare». Santa Teresa
d’Avila prova compassione
per le sorelle che soffrono di
depressione, ma osserva con
irritazione
che
molti
altri vengono colpiti da
questamalattiaallamodaene
traggono un pretesto per
esimersi dai doveri più
faticosi:
Temo che con la
scusa di quest’umore il
demonio cerchi di
soggiogarsimolteanime.
Oggi questo male è più
che mai diffuso, tanto
più che sotto il nome di
melanconia si fa passare
ogni capriccio e propria
volontà. Sarebbe bene,
secondome,cheinostri
conventi, come pure in
ogni altro, non lo
si designasse mai con
questonomechesembra
importare libertà, ma lo
si chiamasse grave
malattia - e quanto
grave! - e la si curasse
cometale41.
Recrudescenzadei
suicidi
Ilsecolodellamalinconia
è anche quello in cui le
autorità religiose rafforzano
la loro campagna di
demonizzazione del suicidio.
ComeallafinedelMedioevo,
i contemporanei hanno
l’impressione di un forte
aumentodelnumerodimorti
volontarie. Erasmo, nei suoi
Colloqui, in ragione della
velocitàacuigliuominivisi
precipitano, si chiede quale
sarebbe la situazione se gli
uomini non avessero paura
della morte. Un po’ più
avanti,nel1542,Luteroparla
di un’epidemia di suicidi in
Germania e nel 1548
l’arcivescovo di Magonza
crede di svelarne un’altra,
mentre a Norimberga nel
1569 ne vengono recensiti
quattordici casi. Nella stessa
epoca,
Henri
Estienne
dichiara: «Quanto al nostro
secolo,
abbiamo
le
orecchie colme di esempi [di
suicidio],siadiuominichedi
donne», e Montaigne narra
che, secondo suo padre, a
Milano
ci
sarebbero
stati venticinque suicidi in
unasettimana.
Fantasia o realtà? In
Inghilterra, presso gli archivi
della giurisdizione reale del
King’s Bench, dove vengono
giudicati i casi di morte
sospetta, la progressione del
numero di suicidi è regolare
e spettacolare: da 61 casi fra
il 1500 e il 1509 si passa a
940 dal 1570 al 157942, dati
checonfermanol’opinionedi
William
Gouge,
il
quale scrive nel 1637:
«Suppongo che non vi siano
secoli dall’inizio del mondo
che forniscano più esempi di
questa umanità disperata
quanto il nostro secolo
attuale,equestovalepertutti
i tipi di persone, religiosi,
laici,istruiti,ignoranti,nobili,
plebei, ricchi, poveri, liberi,
asserviti, uomini, donne,
giovanievecchi»43.Lastessa
constatazione vale per il
mondo
germanico:
a
Norimberga il numero di
suicidi registrati aumenta di
dodici volte tra il 1500 e il
160044; nel territorio di
Zurigosipassada2casitrail
1500 e il 1550 a 35 fra
il 1600 e il 165045. Le
cronachemunicipaliriportano
un numero crescente di
suicidi,comeaMetz.
L’inasprimento
della
legislazione tradisce la
preoccupazionedelleautorità:
nelXVIsecolo,inInghilterra,
si iniziano a impalare i
cadaveri dei morti per
suicidio, ad appenderli per i
piedi in Francia, a usare
mezzi ancora più draconiani
in Italia46. Iniziano poi a
comparire le storie dei
fantasmi delle vittime del
suicidio che vengono ad
assillare i vivi. Parlare di
psicosi sarebbe certamente
esagerato, ma le cronache, le
memorie e i diari personali
accordano sempre più spazio
alla registrazione delle morti
volontarie. Un artigiano
tornitore
londinese,
Nehemiah
Wallington,
descrive accuratamente tutti i
suicidi nel suo diario e tiene
un quaderno particolare
dedicato a coloro che hanno
attentato alla propria vita.
Per quanto buon puritano,
egli stesso ha tentato undici
volte di porre fine ai suoi
giorni: «Satana mi ha tentato
di nuovo, e gli ho resistito
ancora. Allora mi ha tentato
unaterzavoltaeglihoceduto
brandendo il mio coltello e
portandolo alla gola. Allora
Dio, nella sua bontà, mi ha
fattorifletteresuciòcuisarei
andato incontro se mi fossi
tolto la vita [...]. Su questo
pensiero mi sono sciolto in
lacrime e ho gettato il
coltello»47.
John Dee annota diversi
esempisimilinelsuodiario48.
Fra il 1597 e il 1634, il
medico e astrologo Richard
Napier riporta, dal canto
suo, 139 tentativi di suicidio
di cui annota accuratamente
le
circostanze.
Tutti,
certamente, attribuiscono i
suicidi alla «disperazione».
Maqualisonolecauseditale
disperazione?Principalmente,
il diavolo. Lutero assimila i
suicidi a un assassinio
commesso da Satana: «A più
diunoeglispezzailcolloofa
perdere la ragione; alcuni li
anneganell’acqua,moltisono
quellichespingealsuicidioe
molti altri a sofferenze
atroci».Ilsuicidaèposseduto
dal demonio, ciò lo rende
irresponsabile.Il1°dicembre
1544 Lutero, scrivendo a
proposito di una posseduta
chesierauccisa,dichiarache
il pastore incaricatosi di
inumarla non deve essere
biasimato, poiché questa
donna può essere considerata
una vittima di Satana. Ciò
nonostante,
aggiunge,
bisogna
prendere
seri
provvedimenti, poiché il
diavolo rischia di diventare
semprepiùaudace:«Conosco
moltiesempisimili;mailmio
giudizio ordinario è che le
persone siano semplicemente
stateuccisedaldiavolo[...];il
magistrato fa bene a punire
con la stessa severità, per
paura che Satana prenda
coraggio e si manifesti.
Il mondo deve essere messo
in guardia poiché, nel suo
atteggiamentoepicureo,crede
cheildiavolononesista»49.
I cattolici non hanno
dubbisulfattochelepersone
che commettono suicidio
siano possedute dal diavolo.
NoëlTaillepiedadduce come
prova «eventi strani» che
accompagnano sempre tali
morti sospette50.I «disperati»
sono persone «che si donano
al diavolo», scrive Pierre Le
Loyer:
«Non
bisogna
meravigliarsisetuttiigiornii
diavolisimostranoaqualche
disperato [...], promettono
loro aiuto, li convincono a
uccidersieamorireunavolta
per tutte per smettere di
soffrire»51. Il teologo Jude
Serclier sostiene a sua
voltacomeildiavoloproduca
«una grande e amara
tristezza» che conduce al
suicidio, e conferma che la
pratica tende a diffondersi:
«Nel nostro secolo se ne
vedono esempi in ogni
momento,
in
qualunqueluogo»52.
Il diavolo approfitta di
tutte
le
difficoltà
dell’esistenza per spingere al
suicidio, in particolare delle
disgrazie che affliggono i
poveri:PierredeL’Estoilene
riporta numerosi esempi nel
suo «Journal». Tuttavia c’è
un motivo che richiama
l’attenzione: la «noia di
vivere».L’espressioneritorna
spesso nella penna dei
giuristi, come Jean Papon,
che scrive: «Che sia per noia
di vivere o per la gloria di
sapere come sia l’altro
mondo, colui che si toglie
spontaneamentelavita,senza
mania, senza malattia né
tormento»53 merita le pene
più severe. Per modo di dire,
poichésitratterebbedipunire
un morto. Allo stesso modo
Louis Charondas Le Caron
reclama
la
punizione
delcadavereelaconfiscadei
beni contro coloro che si
uccidono per «noia di
vivere»54. Questa nuova
insorgenza
dell’antico
taediumvitaecorrispondealla
riscoperta dei valori grecoromani. Umanisti ed eruditi
del Rinascimento sono infatti
sensibili
agli
esempi
di nobiltà rappresentati dai
suicidi di Lucrezio, Catone o
Bruto.
Tali
inquietudini
e
condanne non fanno che
confermare
l’impressione
generale:daglianni1480agli
anni 1630, un malessere si
impadronisce delle élite
intellettuali e sociali. Questa
malinconiageneraleèsempre
più diffusa, tanto più che,
secondo Marsilio Ficino, è
reputato segno di profondità.
È pur vero che questa
opinione non è unanime,
infatti le autorità religiose
vedono sempre il diavolo
dietro la malinconia e certi
medici lo confermano, come
il dottor Lennio, che scrive:
«I demoni, vale a dire gli
spiriti aerei, che hanno una
grande conoscenza e scienza
delle cose [...], non solo si
confondonofragliumori,ma
spingono
anche
gli
intendimenti dell’uomo a
qualsiasi nefandezza [...]. È
cosìcheSatanahaesasperato
la malinconia di Saul,
spingendolo a commettere
assassiniietradimentiemolte
altre cose ben infelici»55. A
suo parere la malinconia può
essere una punizione inviata
da Dio agli eretici56. Persino
un saggio come Pierre
Charron non condivide
l’infatuazione dei suoi pari
perlamalinconia,incuivede
«passione codarda, bassa e
vile»,echebisogna«odiaree
fuggire con tutte le
[nostre] forze»57. Nonostante
queste riserve, la malinconia
è tipica dell’epoca in esame.
Il mal di vivere del
Rinascimento non è più
accidia medievale e peccato
contro la speranza, ma una
condizione mentale legata
alla nascita della modernità.
Se costituisce una semplice
moda per i più superficiali, a
corte ad esempio, nelle
personalità più sensibili è
invece una prima presa di
coscienza dei problemi
dell’Essere.
Il mal di vivere del
Rinascimento,comeabbiamo
appena visto, è anzitutto
intellettuale. Nella cultura
popolare la malinconia
conserva una connotazione
negativa, quando non è del
tutto
semplicemente
assimilata alla follia, come
del
resto
testimoniano
diversi proverbi del XVI
secolo:«Fuggilamalinconia,
tristezza e follia», «La
malinconia fa ammalare il
sano e fa morire il malato»,
«Essere in preda alla
malinconia
significa
seppellire
la
propria
vita»58. Intellettuali e artisti
sono
affascinati
dalla
malinconia
che
resta,
ciò nonostante, misteriosa: la
studiano, la sezionano, la
trattano come se fosse una
persona. Albrecht Dürer ne
trae ispirazione per creare un
celebre quadro allegorico e,
un secolo dopo, Robert
Burton
ne
descrive
l’anatomia.
1 Citato da S. DAVIES,
Renaissance Views of Man,
Manchester
University
Press, Manchester 1978, p.
38.
2 P. BONAFOUX,
Rembrandt,
autoportrait,
Skira, Ginevra 1985, p. 8 e
ID.,
Les
peintres
et
l’autoportrait,Skira, Ginevra
1984.
3V.I.STOICHITA,Peindre
le passage: autoportrait et
autobiographie dans l’œuvre
de Rembrandt, in Le Temps
dans la peinture, Atti del
colloquio
dell’Institut
l’homme et le temps a La
Chaux-de-Fonds,
26-28
novembre 1992, La Chauxde-Fonds,L’Institutl’homme
etletemps,1994.
4 G. CARDANO, Della
miavita,SerraeRiva,Milano
1982.
5 Mémoires de
Benvenuto Cellini, a cura di
G.
Maggiora,
Société
Littéraire de France, Parigi
1953.
6 JEAN STAROBINSKI,
Montaigne en mouvement,
Gallimard, Parigi 1982, p.
50; trad. it., Montaigne: il
paradosso dell’apparenza, Il
Mulino, Bologna 1984, pp.
53-54.
7
F.
PETRARCA,
Triumphus Temporis, in
Opere, Mursia, Milano 1968,
pp.311-313.
8
Citato
da
J.
DELUMEAU,Lepéchéetla
peur: la culpabilisation en
Occident,XIIIe-XVIIIesiècles,
Fayard, Parigi 1984, p. 194;
trad.it.,Ilpeccatoelapaura:
l’idea di colpa in Occidente
dal XIII al XVIII secolo, Il
Mulino,Bologna1987.
9Ph.JUNOD,Allégoriesdu
tempsettempsdel’allégorie,
inLeTempsdanslapeinture,
cit.,p.67.
10G.MINOIS,Lesorigines
dumal:unehistoiredupéché
originel,Fayard,Paris2002.
11 MARSILIO Ficino,
Teologia
platonica,
Zanichelli,Bologna1965,IV,
Vol.7,2,p.233.
12 ID., De Vita, Edizioni
dell’Immagine, Pordenone
1991,1,4,p.21.
13 HENRI DE GAND,
Quodlibeta,II,quest.9.
14 ENRICO CORNELIO
AGRIPPA, La filosofia occulta
o la magia, Vol. I, I,
60, Edizioni Mediterranee,
Roma1991,p.110.
15Ivi,p.109.
16 G. CAMPORI,
Documents
inédits
sur
Raphaël,
«Gazette
des
Beaux-Arts», 14, 1863, p,
452.
17 R.ALBERTI, Trattato
della nobiltà della pittura,
Francesco
Zannetti,
Roma1585,p.17.
18 R. BURTON, The
Anatomy of Melancholy,
Tudor Publishing Company,
New York 1948; trad, it.,
L'anatomia della malinconia,
Marsilio,Venezia2003.
19 Citato da A.
MURRAY, Suicide in the
Middle
Ages,
Oxford
University Press, Oxford
1998,1.1,p.376.
20 C. BARRON, C.
COLEMEN E C. GOBI (a cura
di), The London Journal
of Alessandro Magno 1562,
«London Journal», 9, 1983,
pp.136-152.
21 B. PAULIN, DU couteau
àlaplume.Lesuicidedansla
littérature anglaise de la
Renaissance
(1580-1625),
L’Hermès et Saint-Étienne,
Università di Saint-Étienne,
Lione1977,p.533.
22 J. KOTT, Shakespeare
nostro
contemporaneo,
Feltrinelli,Milano1983.
23 SHAKESPEAKE, Come
vipiace,IV,1.
24 ID., Enrico IV, 1°
parte,1,2.
25 Citato da JEAN
STAROBINSKI, Histoire du
traitement de la mélancolie
des origines à 1900, J.R.
Geigy, Basilea 1960, p. 40;
trad,
it.,
Storia
del
trattamento della malinconia
dalleoriginial1900,Guerini
e Associati, Milano 1990, p.
58.
26L.LENNIO,Lessecrets
miracles de nature et divers
enseignemens
de
plusieurschose,1566,p.249.
Pertuttiquestiaspetti,siveda
anche L. BABB, The
Elizabethan Malady; A Study
of Melancholia in English
Literaturefrom1580to1642,
MichiganStateCollegePress,
East Lansing 1951, che
contienenumerosecitazioni.
27P.PIGRAY,Epitome
des préceptes de médecine et
chirurgie,
Pierre
&
Benoist Bailly, Lione 1643,
libro VII, cap. X: Comment
on doit rapporter d’aucunes
maladies où il y a passion
d’esprits.
28 J. Du CHESNE DE
LAViolette,Lepourtraictde
laSanté,oùestreprésentéla
reigle unique et particulière
de bine sainement et
longuement vivre, Parigi
1620,pp.112-114.
29 T. GARZONE,
L’Hospidale
de’
Pazzi
incurabili,Venezia 1617, pp.
43-47.
30 J. FERNEL, Universa
medica, Francoforte 1607, p.
121.
31 T. SYDENHAM,
Médecine pratique, Parigi
1784, p. 399; trad, it.,
Medicina pratica, Co’ Tipi
dell’Ed. Giuseppe Antonelli,
Venezia1841.
32 Musae reduces.
Antologie de la poésie latine
dans l’Europe de la
Renaissance, a cura e
traduzionediP.LaurenseC.
Balavoine, E.T. Brill, Leida
1975,2voll.,vol.1,p.93.
33N.TAILLEPIED,Traité
de l’apparition des esprits,
Rouen1600,p.19.
34 J. WlER, Histoire,
disputes et discours des
illusions et impostures des
diables,
Delahaye
et
Lecrosnier, Parigi 1885,1.1,
p.300.
35 M. LUTERO,
Discorsi a tavola, n. 832 e
122.
36 D.KOEPPLIN e T.
FALK,
Lukas
Cranach:
Gemälde,
Zeichnungen,
Druckgraphik,
catalogo
dell’esposizione
del
Kunstmuseum di Basilea, 15
giugno-8
settembre,
Brikhäuser,
Basilea1974.
37 SANTA TERESA
D’AVILA,Fondazioni, VII, in
Opere,
Postulazione
GeneraleO.C.D.,Roma.
38Ibidem.
39Ivi,p.1127-1128.
40 ID., Le Fondazioni e
opere minori, Edizioni
Paoline,Alba1977,pp.11261128
41Ivi,p.1128.
42M.MACDONALDeT.
MURPHY, Sleepless Souls.
Suicide
in
Early
Modern England, Clarendon
Press,Oxford1990.
43 W. GOUGE,
introduzione al libro di J.
SYM, Life’s Preservation,
Londra1637.
44 J. DIESELHORST, Die
Bestrafung der Selbstmörder
im
Territorium
der
Stadt Nürnberg, Norimberga
1953,pp.186-189.
45M.SCHÄR,Seelennöte
der Untertanen, Chronos,
Zurigo1985.
46 A. MURRAY,
Suicide...,cit.,1.1,p.373.
47 Citato da
MACDONALD e MURPHY,
Sleepless...,cit.,p.50.
48 J. DEE, The Private
Diary of John Dee,a cura di
J.O.Halliwell,Londra1842.
49 CL. METTRA e J.
MICHELET (a cura di),
Mémoires de Luther écrits
par lui-mème, Mercure de
France,Parigi1990,p.272.
50 N. TAILLEPIED,
Traité de l’apparition..., cit.,
p.138.
51 P. LE LOYER,
Discours des spectres, Parigi
1608,p.307.
52 J. SERCLIER, AntidemonHistorial,Parigi1609,
p.293.
53 J. PAPON, Recueil
d’arrestz notables, Lione
1557,libroXXII,titolo10.
54 L.C. LE CARON,
Commentaire au titre XXXIX
du livre I du somme rural
de Jean Bouteiller, Parigi
1603.
55L.LENNIO,Lessecrets
miracles,cit.,p.254.
56L.LENNIO,Dehabitu
et constitutione corporis,
Anversa1561.
57P.CHARRON,Dela
sagesse, Parigi 1836, p. 59,
284.
58Recueildessentences
notables, diets et dictons
communs, Anversa 1568, e
riportati da J. DELUMEAU, op.
cit.
Capitoloquarto
DaDüreraBurton:
ritrattoeanatomia
dellamalinconia
1514:MelancholiaI
Quando,
nel
1514,
Albrecht Dürer realizza
l’incisione Melancholia I, ha
trentotto anni e ha perduto le
sue illusioni. Verso i
trent’anni credeva ancora
nella
possibilità
di
raggiungere
la
bellezzaassolutaeuniversale
grazie
alle
scienze
matematiche,mapocoapoco
scivola in un oscuro
scetticismo, aggravato da
visioni e sogni e, nel 1512,
afferma che «non esiste
essere vivente sulla terra
che possa dire o provare
quale sia la più bella
raffigurazione dell’uomo».
Molto prima di questa data,
Dürer aveva già dato
profondisegnidimalinconia,
comeperaltroconfermanosia
il suo autori-tratto, che
un’osservazione del suo
amico
Melanchthon
e
alcune allusioni a una
malattia della milza, che i
medicidell’epocaclassificano
fraimorbimelancholia1.
Nel1502eglirappresenta
la malinconia con le
sembianze di un vecchio su
un’incisione destinata a
ornare
la
copertina
dell’opera di Conrad Celtes,
Libri amorum. L’incisione
riunisce
i
quattro
temperamenti,
conformemente agli archetipi
medievali,
e
raffigura
un vecchio scarno, calvo,
dall’aria
imbronciata
e
misantropica, assimilato a
Bora,ilventodelnordfreddo
e secco: il vecchio soffia
sulla vegetazione, da cui
pendono pezzi di ghiaccio.
Siamoancoranellatradizione
delleallegoriedelXVsecolo,
in
cui
il
temperamento malinconico è
fortemente
disprezzato.
All’epoca Dürer non sembra
conoscere gli scritti di
Marsilio Ficino, pubblicati
(1497) da Koberger, padrino
delpittore.
L’incisione del 1514,
invece,èdirettamenteispirata
al
De
vita
triplici
dell’umanista
fiorentino,
come ha mostrato Raymond
Klibansky2.Percinquesecoli
lagiovanealataassortainuna
misteriosa meditazione in
mezzo a un’improbabile
confusione
di
oggetti
haaffascinatonumerosipoeti
che l’hanno celebrata con
accenti romantici. James
Thomson le dedica un lungo
poema in cui le fa dono
diamareriflessioni:
The sense that every
strugglebringsdefeat
Because fate holds
no prize to crown
success;
That all the oracles
aredumborcheat
Because they have
nosecrettoexpress;
Thatnonecanpierce
the vast black veil
uncertain
Because there is no
lightbeyondthecurtain:
Thatisallvanityand
nothingness3.
Théophile Gautier le si
rivolgeinquestitermini:
Toi, le coude au
genou,lementondansla
main,
Tu rèves tristement
aupauvresorthumain:
Que pour durer si
peu la vie est bien
amère,
Que la science est
vaine et que l’art est
chimère4.
Non sorprende neanche il
fatto
che
i
pittori
espressionisti siano stati
attratti da un’incisione così
evocativa della disperazione.
OskarKokoschka ha visto in
quest’opera «l’espressione
più angosciante dell’assenza
disperanzaedellapaura,che
sono tuttavia profondamente
umane». Più vicino a noi
Giorgio Agamben, nelle
Stanze, pensa che l’angelo
meditativo di Dürer sia
piuttosto
l’emblema
dell’uomo che tenta di dare
corpo ai propri fantasmi
attraverso
l’espressione
artistica. Già all’inizio del
XX secolo il critico
d’arte Heinrich Wölffin
constatava: «Ogni anno
nascono nuove spiegazioni,
cosa naturale fintantoché gli
autori non avranno la
disciplina necessaria per
evitare di attribuire a Dürer
qualsiasi
tipo
di
idea dell’uomo moderno». E
Raymond Klibansky, dopo
aver
riportato
tali
testimonianze, scrive nel
1988: «Oggi possiamo
scegliere fra le diverse
interpretazioni elaborate di
carattere
astrologico,
psicanalitico,
alchemico,
sociologico,
teologico,
teosofico,
francomassone,
numerologico,
magicoefilosofico»5.
Che questa incisione
abbia suscitato così tante
interpretazioni è la prova del
genio umanista di Dürer.
Come tutte le opere geniali,
essa non gli appartiene più e
va oltre le sue intenzioni
personali. Il senso esatto che
Dürer le ha voluto dare è
senz’altro
di
un
certo interesse, ma deriva
dall’erudizione
storica.
Raymond Klibansky ha
proposto una spiegazione
sensata di ogni simbolo. Il
pugno
chiuso
del
personaggio, che sostiene la
testa, rafforza l’impressione
di forte concentrazione, «La
concentrazione fanatica di
una mente che ha realmente
colto un problema, ma nello
stesso momento si sente
incapace sia di risolverlo che
di
lasciarlo
cadere»6.
La mano destra tiene un
compasso, ma è inerte: essa
rappresenta l’inanità del
lavoro sensato. Sul viso,
nell’ombra, risaltano gli
occhibrillanti,animatidauno
sguardo intenso che sconfina
nell’invisibile. La lunga
capigliatura è trascurata,
segno
del
disprezzo
delle convenzioni umane. La
testa riposa sulla mano
sinistra, segno di stanchezza,
didolore,difatica,maanche
di
pensiero
creatore.
La donna sogna pur essendo
sveglia:
gli
strumenti
abbandonati evocano la
trascuratezza, la pigrizia e
quindi l’accidia medievale:
la sega, la mola, la pialla, il
compasso,cosìcomeancheil
libro sulle ginocchia, i cui
fermagli non sono ancora
stati
aperti.
Tuttavia
leprospettivesonocapovolte:
L’inattività
della
Melanconia, da letargo
dell’indolente e stato
d’incoscienza per chi
dorme, si è trasformata
nell’assillo
cogente
dell’uomo ipersensibile.
Entrambisonoindolenti,
col suo compasso
impugnato
meccanicamente, che la
sciattaMelancholiadelle
illustrazioni
dei
calendari col suo inutile
fuso; però quest’ultima
non sta facendo nulla
perché dall’indolenza è
scivolata nel sonno,
l’altra perché il suo
spiritoèpresodavisioni
interiori,
per
cui
l’affaccendarsi
con
arnesi pratici le sembra
senza
senso. L’«indolenza» in
un caso è al di sotto
dell’attività esteriore;
nell’altroaldisopra7.
Ai piedi della Malinconia
un cane, animale ritenuto
serio, sempre in caccia e che
non dà tregua alle sue prede;
un pipistrello, simbolo dei
malinconici,
porta
un
filatterio su cui è inscritto il
titolo dell’incisione. Il mare,
insecondopiano,ricordache
Saturno è il protettore dei
marinai. La Malinconia
indossa una corona di
ranuncoli d’acqua e di
crescione, piante acquatiche
che
agiscono
come
antidoto alla secchezza terrea
del
temperamento
malinconico.
Al
muro,
un quadro magico, simbolo
astrologico
destinato
a
favorire l’influenza curativa
diGiove.Numerosistrumenti
perlageometriasuggeriscono
che Saturno è molto legato a
questa scienza. Bilancia,
clessidra, orologio, borsa,
chiavi: tutti questi oggetti
sono
associati
alla
malinconia.
Quanto
al
bambino alato, il putto
occupato a scrivere in
mezzo a questa improbabile
babele, egli rappresenterebbe
l’attività senza pensiero, per
contrapposizione al pensiero
senza
attività
dellaMelancholia.
La forza di questa
incisione si impone da sola
per la sorprendente e
misteriosaconcentrazionedel
personaggio. Concepita dopo
la consacrazione letteraria di
Marsilio Ficino, Melancholia
I immortala e rende
universale il mal di vivere.
Questa donna è una novella
Eva,eogniessereumanopuò
riconoscersi in lei. Un anno
dopo, in un’acquafòrte
intitolata L’Uomo disperato,
Dürerdefiniscemeglioilsuo
soggetto,raffigurandoquattro
tipi
di
malinconia.
Questa incisione, molto
enigmatica,
mostra
un
giovane
uomo
dal
sorriso vuoto che, con un
boccaleinmano,siavvicinaa
una donna nuda; egli
rappresenterebbe
il
malinconico
sanguigno,
datosi a Bacco e Venere. Gli
altri tre personaggi sarebbero
i
malinconici
collerici,
flemmatici
e
naturali. Dürer, le cui opere
sono
impregnate
di
una tragicità morbosa - si
pensi
ai
Cavalieri
dell’Apocalisse
o
al
Cavaliere, la morte e il
diavolo-èl’araldodelsecolo
dellamalinconia.
Michelangelo,Holbeine
Montaigne:trevolti
dellamalinconia
Michelangeloèl’apoteosi
artistica della malinconia. Il
suoPensierosodellacappella
MedicidiFirenzeraffigurala
malinconia sotto i tratti di
Lorenzo de’ Medici: viso
triste e dito sulla bocca
indicano
il
silenzio
meditativo.
Con
Michelangelo la malinconia
rompe gli argini. Nel suo
Trattato di caratterologia
(1946), René Le Senne lo
descrive come la tipologia di
persona malinconica ma
appassionata:«Lamelanconia
profonda di Michelangelo
infonde alla sua opera
un’infinità
irriducibile,
inesauribile, da cui tutte le
opere
traggono
la
caratteristica di rivelare la
preponderanza
definitiva
dell'anima
sull’azione»8.
Questo artista geniale che
soleva dire: «La mia gioia è
la malinconia», si compiace
visibilmente nell’amarezza.
Nel suo studio psicanalitico,
Marie-ClaudeLambotteviha
visto «la rimozione di una
forzapulsionaleilcuiesubero
aggressivo non ha potuto
esprimersi»9.
Anche la psicanalisi si è
interessata a un altro grande
pittore del XVI secolo, Hans
Holbein, la cui opera rivela
un
temperamentoprofondamente
malinconico. Julia Kristeva
gli
dedica
una
lunga dissertazione in Sole
nero,incuiscrivequanto,per
tutta la vita, egli fosse «un
adepto della depressione
disillusa, sino all’estinzione
diogniartificiosinall’interno
dell’artificio
tristemente,
scrupolosamente
manierato»10. Holbein, che
non si allinea ad alcun credo
particolare, che ha servito
Enrico VIII e che è stato
amico della sua vittima
Thomas
More,
ha
meravigliosamente colto la
personalità dei suoi modelli,
pensiamo in particolare alla
concentrazione
serena
di Erasmo. Nei suoi ritratti,
inoltre, è spesso presente la
morte. Sotto le maschere di
carne appare il teschio,
simbolo
dell’insensatezza
dituttelenostrerealizzazioni.
Il teschio è onnipresente, si
pensi ad esempio alla Danza
macabra·,
nascosto
in
anamorfosi, esso compare
persino ai piedi dei due
importanti personaggi degli
Ambasciatori.
«Non
vogliamo con ciò sostenere
che Holbein fosse un
melanconico, né che abbia
dipinto dei malinconici. Più
profondamentecisembrache
a partire dalla sua opera [...]
un momento malinconico
(una perdita reale o
immaginaria del senso, una
disperazione
reale
o
immaginaria,
una
cancellazione
reale
o
immaginaria
dei
valori simbolici, che investe
persino i valori della vita)
mobiliti la sua attività
estetica,chetrionfasuquesta
latenza melanconica pur
conservandonelatraccia»11.
Iltrionfodellamorte,che
rende vane e derisorie le
nostre
attività,
esplode
anzituttonelCristomortodel
1521-1522. Il dipinto non
lascia più adito ad alcun
dubbio:sitrattapropriodiun
cadavere, di un realismo tale
che Dostoevskij farà dire a
uno dei suoi personaggi:
«Questo quadro! Ma più di
uno,
guardando
questoquadro,puòperderela
fede!»12. Questa morte
sembra definitiva. Holbein
non è il pittore della
resurrezione, spiega Julia
Kristeva: «La morte del
Cristo offre un sostengo
immaginario
all’irrappresentabile angoscia
catastrofica propria dei
malinconici.
[...]
La depressione grave o la
melanconia
clinica
parossistica rappresentano un
vero e proprio inferno per
l’uomo, e più ancora, forse,
perl’uomomodernoconvinto
di dovere e di potere
realizzare tutti i suoi desideri
di oggetti e di valori. La
derelizione
del
Cristo
offre
un’elaborazione
immaginariaaquestoinferno.
Per il soggetto essa offre
come un’eco dei suoi istanti
insopportabili di perdita di
senso, di perdita del senso
dellavita»13.
Dal Cristo morto di
Holbein al Trionfo della
morte di Bruegel, la
disperazione
del
Rinascimento esplode alla
luce del sole. Le più grandi
menti del XVI secolo hanno
percepito
l’avvento
di
unanuovaangoscia,ovveroil
sentorechelamortepotrebbe
davvero essere definitiva. A
quale altra conclusione
potrebbe arrivare una mente
razionale
davanti
allo
spettacolo delle atrocità
fanatiche cui si dedicano i
cristiani? Se c’è un segno
dell’assurditàdelmondo,non
è forse il fatto che una
religione,nonostantesostenga
di essere basata sull’amore
universale, possa provocare
l’odio omicida fra i suoi
adepti?
Ed è in fondo ciò che
afferma Montaigne. Questo
significa che anche lui è un
malinconico? Lo vediamo
difendersi da tale definizione
nel suo capitolo «Della
tristezza»: «Io non sono
affatto esente da questo stato
d’animo, e non l’amo e non
nefaccioconto,sebbenecisi
sia mossi ad onorarlo di
particolarefavore,comecosa
assai pregevole. Se ne
vestono la saggezza, la virtù,
la coscienza: ornamento
sciocco e mostruoso. Gli
Italiani
hanno
più
propriamente battezzato col
suo nome la cattiveria. È
infatti
una
qualità
sempredannosa,semprefolle
e, come qualità vile e bassa,
gli Stoici la vogliono lontana
dai saggi»14. Montaigne non
è forse contraddistinto da un
temperamento triste, ma il
semplice
fatto
che
abbia potuto concepire il
progetto di scrivere iSaggi «il suo progetto» secondo
Pascal,
«affascinante
progetto» secondo Voltaire non è forse un segno di
malinconia? Egli stesso,
peraltro,ammettedidarsialla
scrittura per scacciare la
malinconia: «È un umor
melanconico,
e
per
conseguenza molto contrario
alla mia indole naturale,
derivata dal tormento della
solitudine nella quale da
qualcheannomierorifugiato,
chemihamesso,d’untratto,
in mente questa stranezza di
occuparmiascrivere»15.
Il fatto che si ritiri dalle
attività umane è un altro
segno
di
distacco
malinconico: il vero saggio
deve liberarsi da questa
mischia assurda che è la vita
pubblica;ilsoloruolochegli
convenga è quello di
spettatore
della
tragicommedia
umana,
dramma «pieno di rumore
e di furore, che non significa
nulla».
Montaigne
e
Shakespeare si completano:
l’uno mette in scena ciò che
l’altro descrive. Quando mi
sono ritirato dal mondo,
spiegaMontaigne,credevodi
poter riposare: «Ultimamente
mi sono ritirato in casa,
deciso finché potrò a
non occuparmi d’altro che di
trascorrere in riposo e
appartato quel poco che mi
restadivita.Miparevadinon
poter fare più grande favore
almiospiritochedilasciarlo
in pieno ozio, a conversare
con se stesso e a fermarsi e
adagiarsiinsé»16.Tuttavialo
spirito ozioso «mi partorisce
tante chimere e tanti mostri
fantastici, gli uni sugli altri,
senza ordine e senza motivo
che, per considerarne a mio
agiol’assurditàelastranezza,
ho cominciato a registrarli
sperando col tempo di
vergognarmidimestesso»17.
«Montaigne ha vinto la
malinconia
con
la
malinconia», scrive Michael
Andrew Screech18. Inattivo,
spettatore del mondo, ma
spettatore intelligente, egli
non può che essere
malinconico. Dopo la morte
del suo amico intimo La
Boétie, egli cerca nella
scrittura una «veemente
distrazione»
meditando,
analizzando,
strappando
le maschere da commedianti
dai volti di tutti gli uomini,
intravedendoquindilaverità.
Ma la verità non è che una
chimera,lapiùpericolosache
ci sia, poiché trasforma tutti
coloro che credono di averla
afferratainfanaticidistruttori
deglialtriedisestessi.Sono
quelli che ritengono di
possedere la verità a rendere
invivibile questo mondo. Lo
scettico Montaigne sa bene
che «la nostra condizione è
tantoridicolaquantorisibile»,
ma
preferisce
riderne
piuttosto
che
piangerne: «Democrito e
Eraclitosonostatiduefilosofi
dei quali il primo, trovando
vana e ridicola la condizione
umana, non usciva in
pubblico che con una faccia
beffarda e ridente; Eraclito,
avendo pietà e compassione
di questa stessa nostra
condizione, teneva il viso
continuamente triste, e gli
occhipienidilacrime.[...]Io
preferiscol’umoredelprimo,
non perché è più piacevole
ridere che piangere, ma
perché esso è più sdegno e
perché ci condanna più
dell’altro: e mi sembra che
noi non possiamo mai essere
disprezzati abbastanza per
quantolomeritiamo»19.
Il fatto che il riso possa
essere una forma di
disperazione è quello che
afferma anche Agrippa
d’Aubigné quando descrive
gli orrori dei massacri
religiosi.NeiTragiciColigny
assiste, durante una visione,
alla mutilazione del proprio
cadavere, scena che lo fa
ridereperquantoè«comicoil
successo
della
grande
tragedia»20.
Ne
La
Primavera, nauseato dal
secolo in cui vive, egli
dichiara: «Cerco i deserti, le
roccelontane,leforestesenza
sentieri,
le
querce
marce». Luis de Camoens
esprime la disperazione per
essere
nato,
per
essere«sfuggitoallasepoltura
materna»,
per
essere
sottoposto
a
un
destino implacabile. «Il mio
cuoreavvizzitodallanoianon
aspetta che la sepoltura»,
scrive Mathurin Régnier,
mentre Du Bellay compone
una Complaintedudésespéré
eRonsardosservanegliInni:
[...]Nousnesommes
rien
Qu’uneterreanimée,
etqu’unevivanteombre,
Lesujetdedouleurs,
de
misères
et
d’encombres[...]
Tant nous sommes
chétifs
et
pauvres
journaliers,
Recevant sans repos
maux sur maux à
milliers21.
Posa manierista? Moda
letteraria?Luoghicomuni?Di
tutto un po’, certo, ma anche
molto di più. Se tutti questi
poeti sfruttano il filone
malinconico è perché sanno
bene che avranno un
qualche tipo di riscontro,
poiché
la
malinconia
impregna la società in
cui vivono. Peraltro, quando
una simile atmosfera persiste
perunsecoloemezzo,nonsi
può più parlare di moda,
quanto di una vera e propria
tendenza culturale profonda,
analizzata in particolare
da due britannici, Timothie
BrighteRobertBurton,lecui
opere
costituiscono
documentifondamentalidella
storiadellementalità.
TimothieBrighteil
Dellamelanconia
(1586)
TimothieBrightèmedico
al Saint Bartholomew’s
Hospital di Londra ma, allo
stesso tempo, è attratto dalla
vocazione religiosa. Il suo
approccio alla malinconia
tenta quindi di conciliare la
spiegazione psicosomatica e
la spiegazione teologica.
Come medico egli resta
fedele
alla
tradizione
ippocratica degli umori:
l’umoremalinconicoprodotto
dalla milza può offuscare il
cervello con i suoi vapori; la
mente
genera
visioni
sgradevoli,
le
quali
provocano
reazioni
di
tristezzanelcuore:
I disturbi
melanconici
sono
soprattutto la tristezza e
lapaura,dacuiderivano
la diffidenza, il dubbio,
lamancanzadifiduciain
se
stessi,
o
la
disperazione. Il soggetto
èavoltefurioso,avolte
apparentementefelice-a
causadiunasortadiriso
sardonico e falso secondo la disposizione
d’animo che governa
questi
diversi
atteggiamenti. I tristi e
pensierosi
dipendono dall’umore
melanconico, la parte
più grossolana del
sangue,
succo
o
escremento che, quando
non supera il suo grado
normale di calore, viene
designato come freddo.
Lasuasedeprincipalesi
trova nella milza e
disturba il cuore con i
suoivapori;poi,salendo
al cervello, sottopone
l’immagina-zione
al
terrore dei falsi oggetti.
Esso inquina sia la
sostanza che gli spiriti
del cervello, portandolo
a inventare, senza
sollecitazioni esterne,
immagini
fittizie
mostruose
che
spaventanoilpensiero:il
giudizio,
ricevendole come le
vengonopresentatedallo
strumento
fuori
equilibrio,letrasmetteal
cuore, il quale neanche
lui possiede giudizio né
discernimento
e
che, dando credito al
falso rapporto del
cervello, fa esplodere
una passione smodata
contro
ogni
ragionevolezza22.
La malinconia è anzitutto
una patologia fisiologica
dovutaall’abbondanzadibile
nera che influisce sulla
mente, il male diventa allora
psichico. È a questo punto
che il diavolo può attaccare:
approfittando delle paure,
delle angosce, dei dubbi,
spinge il soggetto di fronte a
problematiche
che
ne
compromettono la fede e lo
conducono alla disperazione.
Se l'anima cede alle
suggestioni
diaboliche durante le crisi di
depressione, la malinconia
diventapeccato.
La malinconia, quindi,
plasma contemporaneamente
sia il corpo che la mente.
Bright stila un ritratto
psicofisiologico
del
soggettomalinconico:magro,
occhi
scavati,
faccia
imbronciata,«avvampandodi
timidezza,tienelatestabassa
e china. Cammina a passi
lenti,insilenzio,indifferente,
fugge la luce e la folla, si
chiude
preferibilmente
nell’isolamento
e
nell’oscurità». Ha il polso
debole, la digestione lenta e
l’evacuazionedifficoltosa.
II malinconico è
sospettoso, si applica
nella meditazione, si
mostra circospetto, fa
sogni
terribili
e
spaventosi. Egli è triste,
pieno
di
paure,
difficilmente monta in
collera, ma quando
succede vi rimane per
lungo tempo e non si
riconcilia facilmente. È
invidioso e geloso,
incline a prendere male
le cose, se stimolato
mostra di poter essere
estremamente
appassionato. Da queste
due disposizioni del
cervello e del cuore
nasce una tendenza alla
solitudine, al dolore, al
pianto e al riso
malinconico, ai sospiri,
ai
singhiozzi,
ai
lamenti23.
Bright dedica cinque
capitoli alla malinconia
religiosa generata dalla paura
della dannazione, in seguito
Burton
svilupperà
maggiormente questa idea.
Egli studia anche gli effetti
degli eccessi di lavoro
intellettuale, che consuma gli
spiriti sottili indispensabili
al nostro calore e al nostro
equilibrionaturali:
Poiché se la persona
ama questo studio, sia il
cuore che la mente si
prodigano con i loro
spiriti,econessileparti
più sottili del succo
naturale e degli umori
delcorpo.Seinvecenon
le piace e le viene
imposto, la separazione
della
mente
dall’inclinazione
del
cuoregeneranellanostra
natura una sofferenza
tale cui in genere segue
una grande perdita dello
spirito vitale e degli
umori più rari e sottili
del corpo, che sono per
così dire la sede del
nostro calore naturale,
affinano tutti i nostri
umori e purificano i
nostrispiriti24.
Bisogna quindi sapersi
limitare, evitare lo studio di
materie sconosciute, fare
esercizio fisico ma senza
eccessi, ascoltare la musica,
distrarsi.
La cura sarà psicologica,
nella
tradizione
delle
«consolazioni»,
secondo
Seneca. Il malinconico ha
bisogno di un «medico
filosofo», professione diffusa
durante il XVI secolo. Egli
farà
anche
ricorso
a trattamenti medici, in
particolare agli infusi di
elleboro per depurare la
milza,
favorire
le
evacuazioni, combattere il
freddoelasecchezza.Fragli
altri antidepressivi dell’epoca
citiamo l’avorio, l’ambra, il
mieleeilcornodelliocornoprodotto raro, crediamo, e
quindi molto costoso. E poi,
certamente,anchelepurghee
isalassi.
L’opera di Timothie
Brightriassumelaconcezione
correntedellamalinconiache
circola verso la fine del XVI
secolo. Il suo più grande
risultato è di essere stata
utilizzata da Shakespeare per
crearepersonaggimalinconici
quali Jacopo, ma soprattutto
Amleto, meditabondo e
depresso, solitario, suicida e
velleitario, il cui equilibrio
psicologico viene spezzato
dalla morte brutale del padre
e dal nuovo matrimonio,
ugualmente brutale, di sua
madre25. Il libro di Robert
Burton è invece di tutt’altra
portata.
RobertBurton,un
depressonelXVII
secolo
Robert Burton nasce nel
1577, nel castello di famiglia
di Lindley nel Warwickshire,
nel cuore dell’Inghilterra. La
sua infanzia di studente non
gli lascia che brutti ricordi.
Essendo egli il cadetto,
deve intraprendere la strada
della vita religiosa. Nel 1593
entra
all’Università
di
Oxford, nel collegio di
Brasenose, poi, nel 1599, in
quello di Christchurch.
Avendo poche possibilità di
diventare vescovo e non
volendosi rinchiudere in una
curia di campagna, resterà
pertuttalavitaunchiericodi
Christchurch. Questo eterno
studente, come afferma egli
stesso, conduce «una vita
privata silenziosa, sedentaria
e solitaria». Nessuno si
accorge di lui poiché non
frequenta le celebrità di
Oxford. Egli vive con i
redditidiunaodueproprietà
e si ritiene soddisfatto: «Non
sono
né
ricco
né
povero; possiedo poco, non
desidero niente; tutto il mio
tesoro è nella torre di
Minerva».
Il suo tesoro sono i libri,
cheamateneramente:egliha
accesso
alle
immense
biblioteche dell’università e
la sua biblioteca personale è
davvero
considerevole,
poichécorrispondeaunterzo
della famosa biblioteca di
Oxford,
la
Bodleian
Library26. Burton ci passa la
vita,
in
biblioteca,
accumulando
così
un’erudizione
colossale
su tutte le materie e tutte le
epoche. Sempre al corrente
delle ultime novità, egli cita
Rabelais,
Montaigne,
Cervantès,
Machiavelli,
Bodin, Bruno, Campanella,
Paracelso, Bacone, Galileo,
Keplero,
Grozio.
«La
passione per i libri, come
quella per la lettura, è
probabilmenteuntrattotipico
della malinconia», scrive
Jackie
Pigeaud
nella
postfazione
all’edizione
francesedell’Anatomiadella
malinconia27.
Come Montaigne nella
suatorre,Burtonsirinchiude
nel suo collegio in cui vive
una vita filtrata dai libri, pur
sapendo di farne sovente
cattivouso:«Hosfogliatoalla
rinfusa
vari
cantori
nelle nostre biblioteche, con
pocovantaggiopermancanza
di sufficiente abilità, ordine,
memoria e discernimento»28,
confessa. Gli umanisti, i
retorici, i predicatori di
quest’epoca ricorrono spesso
allacitazioneperrafforzarele
loro dimostrazioni. Burton si
serve invece della loro
autorevolezza come di uno
scudo, poiché manca di
fiducia nel proprio pensiero:
«Non puoi avere di me
un’idea peggiore di quanto
non l’abbia già io di me
stesso»29,afferma.
Depresso e consapevole
di esserlo, Burton si lancia
nella scrittura per fuggire la
propria
malinconia,
esattamentecomeMontaigne,
per il quale prova un
sentimento di vicinanza
fraterna. La scrittura, tutti i
malinconici
lo
sanno,
permette alla mente di uscire
dallasueossessionifissandosi
sulle questioni formali del
linguaggio.
Ma
il
malinconicoèinstancabile.Il
librodiBurtonècompostoda
non meno di duemila pagine.
Nell’anno
2000
Bernard Hoepffner, che ha
realizzatolaprimatraduzione
francese
integrale
di
quest’opera monumentale,
confessa:
«Ho
tradotto
l'Anatomia per cercare di
evitare la malinconia»30.
Curare il male con il male è
senza dubbio l’unico rimedio
perilmalinconico.
Burton presenta il suo
librocome«unantidotoaciò
che fu la causa primordiale
del mio male»31. Ma il
malinconico
non
può
cheparlaredisestesso,anche
quando parla degli altri,
poiché la sua malinconia
impregna la visione che ha
del mondo. Montaigne lo
fa apertamente e Burton
indirettamente:
quando
sembra parlare d’altro, è
ancoraesempreluiadessere
in primo piano. Non è un
casosel’autobiografiaappare
nel XVI secolo. Come molti
altri, Burton cerca di
tranquillizzarsi ricostruendo
la propria vita, spiegandola
asestesso,unmodocomeun
altro per convincersi che non
èstatatotalmentevana.
In molti si sono
riconosciutinelmaldivivere
di cui Burton tratteggia
l’anatomia: il fatto che un
trattato così voluminoso sia
stato oggetto di cinque
edizioni mentre l’autore era
ancora in vita è abbastanza
notevole;inoltre,almomento
del suo decesso, si preparava
a uscirne una sesta. Il suo
successo va ben oltre la sua
epoca, con quarantotto
edizioni fino al XIX secolo,
comprese
le
edizioni
economiche. Ancora nel
1989, ha visto la luce
un’edizione critica in lingua
inglese32. Dal XVII secolo
quest’opera non ha mai
smesso di ispirare gli autori;
in Inghilterra tutti i grandi
malinconici vi hanno fatto
riferimento: Milton, Sterne,
Lambs,Keats,Byron,ilquale
tuttavia non ne aveva una
grande opinione, asserendo
che fosse utile «per un uomo
che desidera acquisire la
reputazione di essere istruito
senza fare sforzi». Quanto al
celebre dottor Johnson, noto
ipocondriaco, egli dichiarava
che fosse il solo libro capace
di farlo alzare due ore prima
delsolito.
L'anatomia
della
malinconia è una raccolta
confusaparagonabileaquella
checircondalaraffigurazione
dellaMelancholiaIdiDürer,
dicuièil«pendant»letterario
a
un
secolo
di
distanza.Burtonperaltrovisi
riferisce esplicitamente nella
descrizione dell’aspetto e del
comportamento
dei
malinconici:
Estremamente
appassionati,
essi
vogliono intensamente
ciò che desiderano, e
cercano
ciò
che
desiderano con grande
ardore; sempre ansiosi e
premurosi, diffidenti e
timorosi,
invidiosi,
cattivi,avoltegenerosia
profusione, altre volte
molto risparmiatori, ma
più spesso avidi di
guadagno, brontoloni,
insoddisfatti, inclini al
lamento
continuo,
invidiosi,
burberi,
incapaci di dimenticare
un’offesa, portati alla
vendetta, rapidamente
fuori controllo e di
grande violenza in tutto
ciò che immaginano,
poco
affabili
nelle parole, né capaci
dei complimenti più
comuni, ma testardi,
imbronciati,
tristi,
austeri, sempre in
meditazione,fissatinelle
loro
idee;
esattamente come la
Melancholia dipinta da
AlbrechtDürer33.
Per quanto riguarda
l’apparenza fisica, Burton si
accontentadiriportareciòche
già pensavano Ippocrate,
Galeno, Rufo, Du Laurens e
altri. Gli sarebbe bastato
guardarsi allo specchio
per descrivere la propria
malattia, ma preferisce
tratteggiarla attraverso le
pagine dei libri. Magri,
rugosi,
i
malinconici
presentano barba floscia,
labbra spesse e vene gonfie;
soggettiadiarreasecondogli
uni, a costipazione secondo
gli altri, essi possono soffrire
di mal di stomaco, insonnia,
vertigini, palpitazioni, sudori
freddi, pruriti, balbuzie,
tremori, flatulenze; i loro
disturbi digestivi provocano
alito pesante, peti e rutti,
urinaacida,escrementidurie
neri.Questorivoltanteritratto
non è che l’accumulo di
osservazioni disparate di
diversiautori.Nellacitazione
seguente egli testimonia la
svalutazione di sé che
caratterizzaspessolepersone
malinconiche e che può
spiegare, in parte, la loro
timidezza:«Essecredonoche
tutti le guardino e si rendano
conto dello stato in cui
versano; la paura, il sospetto
stesso bastano per farli
precipitare
in
questa
condizione»34.
Più interessanti sono i
tratti psicologici. Anzitutto, i
malinconici sono paurosi.
Diffidenti, hanno paura di
tutto e di tutti, temono di
perdereipropribenieilloro
status, si allarmano per un
nonnulla.
Non smettono di
agitarsi, di digrignare i
denti, di sospirare, di
rattristarsi,dilamentarsi,
di
criticare,
di
mormorare, di essere
rancorosi, di piangere
[...], di sentirsi depressi;
il loro animo è
disturbato da pensieri
inquietanti e lancinanti,
sono scontenti sia di se
stessi che degli altri, o
ancora delle vicende
pubbliche, di quelle che
non li riguardano, degli
avvenimenti
passati,
presenti o futuri; il
ricordo di qualche
disgrazia,diunaperdita,
di una ferita, di
un’ingiuria, ecc., oggi
che sono in pace, li
tormentaancoradipiùdi
quando
l’avevano
appenasubita35.
Si saranno riconosciuti,
qui,
i
sintomi
della
depressione. L’inquietudine
perpetua porta i malinconici
ad accarezzare l’idea della
morte, che temono e
desiderano
contemporaneamente. Essi
parlano di suicidio, ma non
sonoingradodicommetterlo.
Qui
Burton
presenta
reminiscenzediSeneca:
Si autocommiserano,
piangono,silamentanoe
credono di condurre una
vita delle più miserabili:
maiunuomoèstatocosì
malridotto,tuttiipoveri
infelici che incontrano
sono, rispetto a loro,
estremamente fortunati;
ogni mendicante che
viene a bussare alla
portaèpiùfelicediloro,
scambierebberovolentieri
la propria vita con la
sua, in particolare se
sono soli, oziosi e
separati dai compagni
abituali,
straziati,
scontenti o irritati; il
dolore, la paura, l’ansia,
lo
scontento,
la
stanchezza,lapigrizia,il
sospetto, o ancora
qualunquealtrapassione
simile,s’impadroniscedi
loroconviolenza36.
La malinconia porta a
volteall’epilessia,allacecità,
alla follia, poiché colui che
soffre non è più in grado di
provare piacere nella vita.
Come Giobbe, egli maledice
il giorno della sua nascita;
il malinconico è un vero
Prometeo le cui viscere sono
continuamente
divorate
dall’angoscia. Se molti non
osano
suicidarsi,
altri
superano
brillantemente
l’ostacolo;
«Siamo
quotidianamente testimoni di
un buon numero di tristi
esempi». Burton li condanna,
ma
invita
i
suoi
contemporanei a giudicare
meno severamente «coloro
che si fanno violenza o che,
in stato di crisi, esercitano la
violenza contro gli altri [...],
poiché alcuni sono pazzi,
hanno
momentaneamente
perso lucidità, oppure sono
malinconici da molto tempo
e, essendo ormai arrivati a
livelli estremi, non sanno più
quellochefanno»37.
Tuttavia Burton si mostra
relativamente compiacente
neiconfrontideimalinconici.
Costoro, spiega, sono dotati
di qualità che spesso fanno
difetto negli altri uomini, ad
iniziare dalla perspicacia:
«Sono giudiziosi, saggi e
ricchi di spirito: poiché sono
della stessa opinione di
questo
aristocratico,
la
malinconia fa progredire le
idee degli uomini più di
qualsiasi altro umore, essa
permette
di
meditare
più
profondamente
di
qualunque
altre
forte
bevanda»38.
Hanno
molto senso dell’umorismo e
sono
laconici,
poiché
«preferisconoscrivereciòche
pensano invece che dirlo e
amano la solitudine sopra
ogni altra cosa», come
Diogene e Timone. «Essi
rifiutano di frequentare i
propri compagni, persino la
famiglia e gli amici più cari,
poichésonoconvintichetutto
ilmondoliosservi,siprenda
giocodiloro,lidisprezzi,rida
di loro o li maltratti»39. Qui
Burtonpensaevidentementea
se stesso: poiché sono
modesti e timidi, «è raro che
riescano ad arrivare agli alti
ranghidellasocietà».
In un primo tempo la
malinconia è in generale uno
«degli umori più piacevoli».
Il malinconico ama «stare da
solo, vivere solo, passeggiare
da solo, meditare, restare a
letto per giornate intere,
sognare, per così dire, ad
occhiaperti,elasciarsiandare
per concepire migliaia di
fantasie.Èquestoilmomento
di massima felicità per
loro, in un istante sono in
paradiso»40. Poi passano dal
paradiso all’inferno: «Se
esiste un inferno sulla terra,
devetrovarsinelcuorediuna
personamalinconica».
La depressione viene già
considerata, all’epoca, una
malattia
immaginaria,
superabile a condizione di
fare uno sforzo su se stessi e
di non prendersi troppo sul
serio: «Spesso accade che le
persone in buona salute si
facciano
beffa
della
pusillanimità
dovuta
all’abbattimento e degli altri
sintomidellamalinconia,che
ne sparlino e si stupiscano di
simili quisquilie, futilità che,
secondoloro,sonofacilmente
evitabili,
basterebbe
volerlo»41. La reazione
dell’ambiente circostante non
è cambiata in quattro secoli.
Già
molto
moderno,
l’atteggiamentodiBurtonnei
confrontidelmondoalimenta
consapevolmente la sua
malinconia. Egli dichiara
subito
di
essersi
messocomodamenteafarelo
spettatore della commedia e
di osservare, dalla sua torre
d’avorio, la vana agitazione
degliuomini.
Sono un semplice
spettatore
delle
avventurose
vicende
degli uomini, di come
essirecitinoleloroparti,
che non si presentano
congrandevarietàcome
accadedisolitosulpalco
diunteatro42.
Ciò che segue può
sorprendereillettoredelXXI
secolo, il quale tende a
credere che la valanga di
notizie catastrofiche e di
cronache orribili sia un
fenomeno
contemporaneo
reso possibile dai mezzi di
comunicazionemoderni:
Sento delle novità
tutti i giorni e le solite
notizie
di
guerre,
pestilenze,
incendi,
inondazioni,
furti,
assassinii,
massacri,
meteore,
comete,
prodigi,
strane
apparizioni: sento di
borghi conquistati, città
assediate in Francia,
Germania,
Turchia,
Persia,Polonia,ecc.[...],
sfilate di truppe ogni
giorno, preparativi di
guerra e così via, frutto
di
questi
tempi
burrascosi,
battaglie,
uomini trucidati, duelli,
naufragi,
piraterie,
battaglie navali, trattati
di
pace,
alleanze,
stratagemmi e sempre
nuovi pericoli. [...] Ogni
giorno nuovi libri,
opuscoli,
notiziari,
storie,intericataloghidi
volumi di tutti i tipi,
nuovi
paradossi,
opinioni, scismi, eresie,
controversie filosofiche,
religiose,ecc.43.
Dinanzi a tutti questi
drammi, come non vedere
«che il mondo intero è folle,
malinconico,
che
sta
vaneggiando»?
Burton
ricorda che il Qoelet
affermava la stessa cosa, ma
alla sua epoca è molto
peggio: «Mai come oggi c’è
stato un motivo tanto
legittimo per ridere, mai così
tantistoltiepazzi».Supiùdi
un centinaio di pagine egli
ripete,intutteleforme,cheil
mondo è una «gabbia di
pazzi».ComeinShakespeare,
che Burton conosce bene, i
pazzi
guidano
i
ciechi. Guardate «la gente
comune seguire come tante
pecore uno di questi tali,
trascinati per le corna sopra
un burrone, alcuni per zelo,
altri per timore». Burton
rimugina
sui
mali
dell’umanità.
Rinchiuso
nella sua biblioteca come un
leoneingabbia,eglialimenta
lasuamalinconiacontuttele
notizie che gli arrivano,
sentendosisolidaleconisuoi
simili,chenonhannochiesto
di venire al mondo più di
quanto lo abbia fatto lui:
«Nessun uomo è felice in
questavita».
Lecause
Le cause di questo male
sono numerose. La prima è
ovviamente
il
peccato
originale,acausadelqualeil
malesièriversatonelmondo:
Adamo, infatti, sprofondò
nella
malinconia
immediatamente dopo la
caduta.
Più interessanti sono le
causesecondarie.Burtonnon
sembra credere all’influenza
astrale,
che
definisce
«futilità» dopo avere esposto
in alcune pagine le varie
opinioni
a
riguardo.
L’ereditarietà gli sembra un
fattore molto più importante.
Ricordando numerose idee
dellasuaepoca,secondocuii
bambini concepiti durante
lemestruazionidellamadre,o
da un vecchio, o da una
donna dall’animo pesante,
stupida o collerica, sono
generalmente
dei
depressi, egli afferma che la
razza umana è sulla via della
degenerazione: «L’umanità
starebbemoltomegliosesolo
le persone sane nel corpo e
nello
spirito
fossero
autorizzate a sposarsi»44,
afferma, riportando le parole
di Fernel. Burton è
chiaramente
favorevole
all’eugenismo su larga scala.
Egli infatti trova deplorevole
che l'attività umana più
importante,
quella
che
consiste nel mettere al
mondoaltriesseriumani,non
vengaregolamentata.
Oggi, a causa del
nostro lassismo a questo
proposito,
poiché
autorizziamo
il
matrimonio di tutti
colorochelodesiderano,
poiché siamo troppo
indulgenti, liberali e
tolleranti in tanti campi,
subiamo
la
totale
confusionedellemalattie
ereditarie,
nessuna
famiglia
viene
risparmiata, quasi tutti
gli uomini vengono
colpiti da una qualche
grave infermità e, per
quanto si faccia, sono
sempre i più anziani a
sposarsi,
come
se
fossero stalloni di razza,
o ancora i ricchi, gli
imbecilli, i tarati, gli
zoppi o gli infermi, gli
impotenti,
gli
intemperanti, i depravati
e coloro che si sono
consumatinelleorge45.
Un’altra
causa
di
malinconia è la vecchiaia. A
causa
dell’affievolimento
progressivodeglispiritivitali,
gli anziani sono di animo
triste. La malinconia può
inoltre risultare da un cattivo
regime alimentare. Burton è
inesauribile
a
questo
proposito, ma le sue
interminabili
raccomandazioni hanno di
che rendere tristi: egli
infatti sconsiglia la carne di
manzo, di maiale e di
coniglio, il latte e i
suoiderivati,lamaggiorparte
dei volatili, del pesce, della
frutta e della verdura, il pane
integrale,tuttiivinidicolore
scuro e la birra; bandisce i
pasti troppo abbondanti o
troppo raffinati, ma anche i
regimi alimentari troppo
inflessibili...
Lamalinconiasispiegaa
volte con la mancanza di
secrezionicorporee,comenel
casodeglistitici,dicoloroin
cui
cessa
il
flusso
emorroidaleedelledonneche
non
hanno
più
le
mestruazioni. In questa
categoria Burton accorda un
ampio spazio alla mancanza
di
attività
sessuale:
«L’astinenza provoca un tipo
particolare di malinconia
nelle donne anziane, le suore
e le vedove», nei monaci e
neipreti,eintutticoloroche
sono troppo timidi per fare
l’amore abbastanza spesso46.
Ecomesemprecitanumerosi
esempi, come «questo prete
buono, onesto e devoto che,
non volendo né sposarsi né
finireperandareneibordelli,
venne colto da una grave
malinconia». Il motivo è che
il seme non utilizzato
marcisce e diventa un vero e
proprio veleno i cui vapori
arrivano fino al cervello. La
stessa cosa vale per il fluido
sessuale delle donne, ma
attenzione: «La mancanza di
temperanzainamoreènociva
quanto l’eccesso contrario;
Galeno dichiara che la
malinconia fa parte delle
malattie aggravate dalla
copulazione».
In verità la malinconia
può essere generata da
qualsiasi tipo di causa: la
cattiva qualità dell’aria,
un’esposizione prolungata al
sole,lamancanzaol’eccesso
di esercizio fisico, il troppo
sonno, un grande dolore, la
paura
improvvisa,
una
disgrazia, l’odio, l’invidia,
la gelosia, la collera, una
grave
preoccupazione,
desideri insoddisfatti, la
cupidigia,lapassionesfrenata
per il gioco, l’orgoglio,
una gioia eccessiva, un lutto,
l’esilio, un matrimonio
infelice, la perdita della
libertà, della bellezza o della
salute,
un
terremoto,
l’apparizione di uno spettro,
lo scherno, la miseria, le
amicizie sgradevoli, i vicini
cattivi, indossare biancheria
sporca, avere «un alito
puzzolente, membra deformi,
una gobba, la perdita di un
occhio, di una gamba, di una
mano, un colorito pallido, la
magrezza,
il
rossore».
Leggendo questo inventario
sembra impossibile riuscire a
evitare la malinconia, che
rischia di essere scatenata
anchedallacadutadeicapelli,
osserva Burton, il quale cita
la
frase
immortale
dell’illustreSinesiodiCirene:
«Laperditadicapellidasola
colpisce crudelmente il
cuore»47.
Il nostro autore non ha
ancora finito con l’elenco
delle cause: ci sono ancora i
malinconici
che
hanno
succhiato
il
mal
di
vivere attraverso il latte di
una balia «folle o sciocca»,
quelli la cui educazione è
stata troppo severa, quelli a
cui
sono
state
raccontate
«storie
di
mendicanti, di orchi e di
gobelin», quelli che sono
stati raddrizzati a colpi di
frusta e di minacce, quelli la
cui educazione è stata invece
troppoindulgente,quelliicui
difetti fisici hanno intaccato
la mente per mezzo degli
spiriti vitali, poiché «non
esiste parte del corpo che, in
condizione di disequilibrio,
non possa provocare questa
malattia». Soprattutto Burton
dedica tutta la terza parte del
suo libro, vale a dire
trecentocinquanta pagine, a
duetipidimalinconiachegli
stanno particolarmente a
cuore:lamalinconiaamorosa
elamalinconiareligiosa.
La prima, come abbiamo
detto, gli viene ispirata dalle
sue frustrazioni personali:
quest’uomosolitarioetimido
riversalasuastizzacontrole
donne,conaccentifortemente
misogini,facendodell’amore,
che non ha potuto conoscere,
lafontediunamoltitudinedi
mali che conducono alla
malinconia,
persino
al
suicidio. L’amore porta alla
gelosia, la quale provoca
tormenti senza fine. Ma
Burtonsirimproveraanchedi
dedicaretantotempoaquesto
tema: «Cosa ho a che fare io
con le suore, le ragazze, le
vergini, le vedove? Già io
sono celibe e conduco una
vitamonacaleinuncollegio».
Per quanto riguarda la
malinconia religiosa, si tratta
di un vero e proprio flagello:
«Niente al mondo provoca
tanta follia, tanti sintomi
sbalorditivi
quanto
la
superstizione, l’eresia, gli
scismi, per ammettere che
questo tipo di malinconia sia
pari a tutti gli altri di cui ho
già parlato, che è molto più
comune e che i suoi effetti
sono molto più stravaganti,
che abbrutisce e domina gli
umani più di tutti gli altri
generi di malinconia già
citati»48.
Vengono presi di mira
soprattutto i cattolici (Burton
è un anglicano convinto), ma
anchelealtrereligioni:
Se Democrito fosse
vivo e vedesse anche
solo la superstizione
della nostra epoca, la
nostra follia religiosa
[...] cosa direbbe? Tanti
che
si
professano
cristiani e tuttavia ben
pochi che imitano
Cristo; tanto parlare di
religione [...], tante
cerimonie, assurde e
ridicole. [...] Se avesse
incontrato alcuni dei
nostri devoti pellegrini
che vanno a piedi scalzi
a Gerusalemme, Loreto,
Roma, Santiago di
Compostela,Canterbury,
per strisciare di fronte a
quelle false reliquie
mangiate dai vermi; se
fosse stato presente ad
una messa, e avesse
visto tutto quel baciare
santini, crocifissi, quel
curvare di schiene,
inchini, i loro vani abiti
ecerimonie[...],battersi
il petto [...], i loro
breviari, balle, rosari,
esorcismi, pitture, strane
croci, favole e gingilli;
se avesse letto la
Leggenda d’Oro?, il
Corano dei Turchi, il
Talmud degli Ebrei, i
Commenti
rabbinici,
cosaavrebbedetto?49.
Icattolicisonoinclinialla
disperazione quando si
rendono conto che le loro
preghiere sono vane. Ma i
predicatori
puritani,
«questi ministri tonanti del
culto» non valgono tanto di
più e hanno portato al
suicidiopiùdiunapersona.I
preti papisti offuscano le
menti parlando di visioni,
apparizioni, possessioni. Non
che il diavolo non abbia
niente a che fare con la
malinconia religiosa, anzi,
ne approfitta per tentare gli
animi fragili e spingerli fino
all’ateismo, che Melancthon
designa come «mostruosa
malinconia» o «malinconia
avvelenata». L’ateismo è un
fattore di malinconia nocivo
quasiquantoilcattolicesimo.
Lecure
Ma
veniamo
al
trattamentodiquestoflagello.
Si tratta poi davvero di un
flagello? La questione è
legittima poiché Burton
sembra dilettarsi nella sua
tristezza,
riconoscendole
volentieri alcuni vantaggi. I
malinconici sono persone
degne di stima, «raramente
tanto ambiziosi, impudenti e
importuni quanto gli altri;
essinonsononéimbroglioni,
né ingannatori, né scrocconi,
né chiacchieroni, né tenutari
dicasechiuse,néparassiti,né
depravati, né ubriaconi,
né puttanieri; la necessità e i
loro difetti li costringono
all’onestà»50. Virtuosi per
necessità: «Se noi, i
malinconici, non siamo così
pervertitiquantoipeggioridi
noi, è grazie a nostra signora
laMalinconia».Inostridifetti
hannoinfattiunlatopositivo:
l’amore per la solitudine
favorisce la meditazione, il
sospetto rende prudenti, la
paura incoraggia la sobrietà,
la stanchezza della vita
allontanadaipiacerieffimeri.
In una parola, se non siamo
felici, è lo scotto da pagare
per la nostra intelligenza, la
nostra
lungimiranza
e
la
nostra
cultura:
«L’ignoranza è un rimedio
sovrano contro tutti i
mali[...],iperfettiidiotisela
cavano meglio, non sono né
invasi dalle preoccupazioni,
né tormentati dalle paure e
dall’ansia come gli uomini
assennati». Guardate quanto
sono
felici
gli
americani: «Vivremmo forse
meglio se possedessimo la
semplicità illetterata e la
grossolana ignoranza degli
abitantidellaVirginia»51.
Tuttavia
Burton
suggerisce alcuni rimedi
contro la malinconia, che
ritiene
quindi
essere
soprattuttounmale.E,nuova
contraddizione, egli non
applica tali rimedi, anzi.
Proprio lui che non è
maiuscitodaOxforddichiara
che«nonc’èmigliorrimedio
perunuomomalinconicodel
cambiamento d’aria, della
diversità di luoghi e dei
viaggi distanti dalla propria
casaperscopriremodidiversi
di vivere»52. Lui, che non
tocca mai una donna, cita
Velesco di Taranto per il
quale «in mancanza di
rapporti sessuali, lo spirito
sicaricaditristezzaeilcorpo
diviene pesante e cupo»53.
Lui che non frequenta
nessuno è convinto che «il
miglior rimedio sia di
condividere la nostra miseria
con un amico invece che
rinchiuderla in noi stessi»54,
inoltre
raccomanda
di
«mangiare
spesso».
Potremmo citare molti altri
esempi a testimonianza del
fatto
che
Burton
si
compiacessedelsuomale.
In effetti poi, Burton
consigliava soprattutto di
condurre una vita equilibrata
edievitarequalsiasieccesso.
Senzagrandiillusioni,poiché
«chiedereaunmalinconicodi
smettere di avere paura, di
esseretriste,ècomechiedere
a un malato di smettere di
soffrire». I suoi rimedi sono
dunque semplici osservazioni
dettate dal buon senso, che
del resto sono fuori dalla
portata della stragrande
maggioranza
dei
suoi
contemporanei.
Ma
la
malinconia non è forse, a
quest’epoca, una malattia di
lusso? Quindi, se volete
mantenerla entro limiti
accettabili, fatevi costruire
una bella casa, correttamente
orientata,dovel’ariasiasana;
«Piantate rose, violette, fiori
dal profumo gradevole sotto
le finestre, bouquet fra le
mani»;
stabilitevi
in
una regione dal clima
gradevole, nel paese di
Montaigne,adesempio:«Nel
Périgord, in Francia, l’aria è
sottile e salubre, le epidemie
o le malattie contagiose sono
rare,laregioneèmontagnosa
e arida: gli uomini che vi
abitano sono in buona salute,
agili e vigorosi»55. Poi
conduceteunavitapiacevole:
ascoltate la musica, invitate
gli amici, viaggiate, fate
l’amore ogni tanto, dormite
bene:settooottooreanotte,
suunfianco«eavolteanche
sulla pancia, ma mai
sulla schiena». La sera, un
bicchiere di vino dolce, poi
«coricarsiinlenzuolapulitee
morbide», ascoltare una
musicadolceprimadiandare
a letto o una volta coricati.
Non è male anche avere in
giardini una vasca con un
getto d’acqua, il cui
«piacevolefruscio»placherài
vostri sensi. Un altro
consiglio: «È molto salutare
lavarsi spesso le mani e il
viso, cambiarsi gli abiti,
portare biancheria pulita,
esserevestitiinmododecente
e armonioso, poiché la
sporciziaintaccaedeprimele
persone
che
sono
volontariamente trascurate o
che lo sono per necessità;
essademoralizza»56.
Insomma,
bisogna
occuparsi del corpo e
dell’anima. E poi andare agli
spettacoli! Ce ne sono
certamente nella vostra
regione, «una processione, o
una sfilata come durante le
incoronazioni, i matrimoni e
altresolennitàdelgenere,[...]
il ricevimento di un
ambasciatoreodiunprincipe,
mascherate,spettacoli,fuochi
d’artificio, ecc.»57. E le
battaglie! «Potete osservare
una battaglia nel momento
dell’azione, come quelle di
Crécy, di Azincourt o di
Poitiers»
-vittorie,
preferibilmente
-,
che
pacchia! E se avete perso
queste grandi occasioni,
sappiate che ne verranno
organizzateancora.
Se seguirete queste sane
raccomandazioni, vi sentirete
giàmeglio.Lasciateviandare,
esoprattuttononinterrogatevi
troppo
sul
senso dell’esistenza. A cosa
servechiedersi:«Cosafaceva
Dioprimadellacreazionedel
mondo? Perché l’ha creato
proprio in quel momento e
nonprima?Sel’hacreatodal
nulla, o nell’ottica di un
disegno particolare, allora
com’è possibile che Dio sia
immutabile e infinito? [...] se
Dio è infinitamente e
unicamente buono, perché
dovrebbe trasformare o
distruggere il mondo? Se
capovolge ciò che è
buono, come può Egli stesso
rimanere buono? Se annienta
il mondo a causa del male,
come può essere libero dal
male che ha reso cattivo
ilmondo?ecc.[Tuttequeste]
domande [sono] una più
assurdaefolledell’altra»58.
Altre sane occupazioni
permetteranno alle donne di
scacciare la malinconia. La
lista dà l’impressione che
Burton,
vecchio
scapolo frustrato, non riesca
decisamente a perdonare al
gentil sesso il fatto di averlo
lasciatoindisparte:
Quanto alle donne,
per sostituire le attività
di studio, hanno il loro
curiosolavoroconl’ago,
i loro ricami, i loro
merletti a tombolo e
tutta una serie di
deliziosi oggetti che
costruiscono da sole per
decorare le case, i
cuscini, i tappeti, le
sedie,glisgabelli,[...]le
confetture,leconserve,i
distillati, ecc., che
mostrano agli stranieri
[...].Tuttociòsostituisce
studilaboriosi»59.
Per chi, nonostante tutto,
fosse ancora afflitto dalla
malinconia, esistono anche
medicine
e
trattamenti
farmaceutici. Burton cita
alcuni
degli
ottocento
purgativi
o
alterativi
conosciuti dalla medicina
di allora, il cui fine era di
favorire
l’espulsione
dell’umore malinconico che
si accumula in alcuni punti
delcorpo.Ilrimediomigliore
è ancora il salasso, per il
quale Burton consiglia un
metodo
naturale:
«Le sanguisughe sono molto
apprezzate per curare la
malinconia, particolarmente
sulleemorroidi»60.
Oggi il libro di Robert
Burton ci sembra un buon
rimedioperlamalinconia.La
sua semplice lettura ci regala
ore di divertimento, ed è a
torto che egli teme di
annoiarci: «Dopo questi
discorsi noiosi...», scrive
all’iniziodellasotto-divisione
3delmembro5dellasezione
2 della prima parte, dopo
seicento pagine dedicate alle
cause della malinconia e
prima di iniziare le
millequattrocento pagine di
descrizione del trattamento.
Nella sua epoca Burton dà
provadigrandeumanità.Ciò
chedescrivenonèsoltantola
malinconia,malacondizione
umana, con i suoi limiti, le
sue piccolezze, le sue
illusioni, insomma, il mal di
vivere.Lasuaepocaignorail
politichese, inventato dai
moderni per celare le
sofferenzedelmondo.Burton
rivela
l’anatomia
della
condizione umana: l’uomo è
infelice, anche se tenta di
persuadersi del contrario. «In
questa vita sono numerosi i
flagelli
che
possono
abbattersi su un mortale:
matrimonio,
bambini,
domestici,maestri,compagni,
vicini, i nostri difetti,
l’ignoranza,
gli
errori,
l’intemperanza,
l’indiscrezione, le infermità,
ecc»61.
L’uomo passa il tempo a
scontrarsi con i propri limiti,
a sbattere la testa contro i
muri della sua prigione.
Tuttavia ha paura di uscirne,
anche quando gli si apra la
porta, di cui peraltro ha le
chiavi:
la
morte
lo
solleverebbe, ma egli la
rifiuta. Quando parla di
questa
misteriosa
contraddizionecheèalcentro
della condizione umana,
Burton è equiparabile a
Montaigne, afferma persino
Schopenhauer. Tutti i teorici
del mal di vivere arriveranno
allamedesimaconstatazione:
Lavitaèfastidiosae
dolorosaanchepercolui
che vive al meglio;
nascere è una sventura,
vivere un dolore, morire
unapena;lamortemette
un punto finale alle
nostremiserie,etuttavia
nonriusciamoapensarci
[...]. Poiché non esiste
piacere quaggiù cui non
sia unito un po’ di
dolore; il pentimento lo
segue da vicino. Se mi
nutro abbondantemente,
spesso sono malato o
scoraggiato; se vivo in
modo frugale, la fame e
la sete non saranno
placate; non mi sento
bene né quando sono
pieno né quando sono a
digiuno;
se
vivo
onestamente brucio di
concupiscenza; se mi
lascio andare al piacere,
mi affatico e affamo la
mia anima, le causo
pregiudizio, come anche
al mio corpo. Per una
così infima quantità di
gioia, quanti dolori;
dopo così poco piacere,
unacosìgrandemiseria!
Trovo
sgradevole
sia
coricarmi
che
alzarmi, sia mangiare
che guadagnarmi da
vivere;
le
preoccupazionieifastidi
mi accompagnano per
tuttoilgiorno,lepauree
i sospetti per tutta la
vita. Sono scontento.
Perché allora desidero
tantovivere?62.
1
M.J. FRIEDLÄNDER,
Albrecht Dürer, Lipsia 1921,
pp.146sgg.
2 R. KLIBANSKY, E.
PANOFSKYeESAXL,Saturnoe
lamelanconia:studidistoria
della filosofia naturale,
religione, arte, Einaudi,
Torino1983.
3 J. THOMSON, The
City of Dreadful Night and
other Poems, Watts, London
1934; trad, it., La città della
terribilenotte,a cura di Mill
Romano, Panozzo, Rimini
2000.
Sentire che ogni lotta
termina con una sconfitta, /
Poichéildestinononpremiai
successi; / Che la voce degli
oracolièmutaoingannatrice,
/ poiché in essi non è
custoditoalcunsegreto;/Che
niente può strappare il
misteriosovelonero,/oltreil
quale, senza luce, nessuno
può vedere, / E che tutto è
sempre vanità e nulla
[traduzionenostra].
4 «Tu, il gomito sul
ginocchio, il mento nella
mano, / sogni tristemente il
povero destino umano: / che
la vita è assai amara per
durare così poco, / che la
scienza è vana e l’arte una
chimera[traduzionenostra].
5 R. KLIBANSKY, E.
PANOFSKY E F. SAXL, Saturno
elamelanconia,cit.
6Ivi,p.299.
7 R
KLIBANSKY, E.
PANOFSKY E E SAXL, Saturno
elamelanconia,dt.,p.298.
8R.LESENNE,Traitéde
caractérologie, PUF, Parigi
1957,
p.
339;
trad,
it.,Trattatodicaratterologia,
SEI,Torino1960,p.340.
9 M.-CL. LAMBOTTE,Le
discours mélancolique: de la
phénomenologie à la métapsychologie,
Anthropos,
Parigi2003,p.66;trad,it.,Il
discorso
melanconico:
dalla fenomenologia alla
metapsicologia, Boria, Roma
1999.
10T.KRISTEVA,Sole
nero.
Depressione
e
malinconia,
Feltrinelli,
Milano1989,p.109.
11J. KRISTEVA, Sole nero,
cit.,p.111.
12 F. DOSTOEVSKIJ,
L’idiota, I taccuini per
«L'idiota», Sansoni, Firenze
1961,p.274.
13 J. KRISTEVA, Sole nero,
cit.,p.115.
14
M. DE
MONTAIGNE,
Saggi,
Edizioni Casini, Firenze
1965,1,2,p.7.
15Ivi,II,8,p.389.
16 M. DE MONTAIGNE,
Saggi,cit.,1,8,pp.28-29.
17Ivi,p.29.
18 M.A. SCREECH,
Montaigne&melancholy:the
wisdom
of
the
Essays, Duckworth, Londra
1983.
19 M. DE MONTAIGNE,
Saggi,cit.,1,50,pp.309-310.
20 A. D’AUBIGNÉ, I
tragici,libroII,v.1436.
21 «[...] Non siamo
null’altro / Se non una terra
animata, e un’ombra vivente,
/ Oggetto di dolori, miserie e
fardelli [...] / Per quanto
siamo
miseri
e
poveri giornalieri, / Che
ricevono senza posa mali su
mali a migliaia» [traduzione
nostra].
22T.BRIGHT,ATreatiseof
Melancholy, Theatrum orbis
terrarum, Amsterdam 1969;
trad, it., Della melanconia,
Giuffré,Milano1990.
23 T. BRIGHT, Della
melanconia,cit.
24Ibidem.
25 J. DOVER WILSON,
Shakespeare’s Knowledge of
A Treatise of Melancholy
by Timothy Bright, in What
Happens
in
Hamlet,
Cambridge University Press,
Cambridge 1935, pp. 309320.
26 N.K. KIESSLING,
TheLibraryofRobertBurton,
Oxford
Bibliographical
Society,
Oxford1988.
27 R BURTON, The
Anatomy of Melancholy,
Tudor Publishing Company,
New York 1948; trad, it.,
L'anatomia della malinconia,
Marsilio,Venezia2003.
28 R. BURTON,
L'anatomia della malinconia,
cit.
29Ibidem.
30Ibidem.
31Ibidem.
32T.C.FAULKNER,N.K.
KIESSLINGeR.L.BLAIR(acura
di), R. Burton, the Anatomy
of Melancholy, Clarendon
Press, Oxford 1989. Un
volume di commenti è
apparsonel1998.
33 R. BURTON,
L'anatomia della malinconia,
cit.
34 R. BURTON, L'
anatomia della malinconia,
cit.
35Ibidem.
36 R. BURTON,
L'anatomia della malinconia,
cit.
37Ibidem.
38Ibidem.
39Ibidem.
40
R. BURTON,
L'anatomia della malinconia,
cit.
41Ibidem.
42Ibidem.
43 R. BURTON, L'
anatomia della malinconia,
cit.
44Ìbidem.
45 R. BURTON,
L’anatomiadellamalinconia,
cit.
46Ibidem.
47 R. BURTON, Lanatomia
dellamalinconia,cit.
48 R. BURTON,
L'anatomia della malinconia,
cit.
49Ibidem.
50 R. BURTON,
L’anatomiadellamalinconia,
cit.
51Ibidem.
52 R. BURTON,
L'anatomia della malinconia,
cit.
53Ibidem.
54Ibidem.
55Ibidem.
56
R. BURTON,
L'anatomia della malinconia,
cit.
57Ibidem.
58Ibidem.
59Ibidem.
60 R. BURTON,
L'anatomia della malinconia,
cit.
61Ibidem.
62R.BURTON,L'anatomia
dellamalinconia,cit.
Capitoloquinto
Pessimismocristianoe
nascitadellanoianel
secoloXVII
La grande speranza
erasmiana di veder nascere
un’umanità ragionevole è
naufragata nelle guerre di
religione.
Probabilmente l’umanesimo
toccava solo un’infima
minoranza di intellettuali,
totalmenteincapacidiopporsi
alle forze irrazionali dei
credenti manipolati dai
principidelRinascimento.La
fede nell’uomo si è rivelata
utopicaquantolafedeinDio
e questa presa di coscienza
spiega in gran parte il
pessimismo del XVII secolo,
un pessimismo di ispirazione
giansenista, generatore di un
profondomaldiviverechesi
traduce
in
diffidenza
intellettuale nei confronti
delle capacità umane. Il
movimento si è spesso
riproposto nel corso della
storia, ogni volta che un
ottimismo sconsiderato ha
lasciatointravederedeigrandi
domani.Gliumanistiavevano
creduto nell’uomo, ma i
fanatismi sfrenati avevano
ben presto dissipato questa
ingenuità. Il XVII secolo
riporta
brutalmente
al
realismo: a causa del
peccato originale, non si può
sperare in niente di buono
nell’uomo.
LatristezzadelGrand
Siècle
Gli artisti dell’inizio del
XVII secolo hanno spesso
rappresentato malinconia e
tristezza attraverso allegorie,
comelaMalinconiadiCesare
Ripa(1611)oL'Allegriaela
malinconia
di
Abraham Janssens (1623). A
partire dagli anni ’20 del
1600 predominano le vanités
in cui i teschi, i pendoli, gli
orologi e altri oggetti
simbolici
illustrano
il
trascorrere del tempo e il
carattere
effimero
dell’esistenza. Il tempo,
sempre
lui,
vecchio
impietoso, viene quindi
rappresentato
in
una
moltitudine di allegorie: su
questo tema sono state
recensite
settantadue
rappresentazioni1. Persino gli
orologi a volte appaiono a
forma di teschio, come il
magnificoesemplaredel1650
conservato
all'Ashmolean
MuseumdiOxford.
Nel 1656 l’introduzione
del pendolo negli orologi da
parte di Christian Huygens
rende il tempo ancora più
tangibile. In questo stesso
anno
Ludwig
Pfanstill
realizza una vanité dove,
dietro una giovane ragazza
dai seni nudi, appare nello
specchio
uno
scheletrospoglio.PersinoJan
Steen, dalla vena spesso
satirica, si lancia in questo
genere con II guardiano del
libro della morte (1663) o
II mondo è un palcoscenico
(1667): innamorati, giocatori
e nullafacenti se la spassano
in un albergo, mentre dal
fienile un ragazzo osserva
condiscrezionefacendobolle
di sapone, un teschio al
suo fianco. La vanité di
Abraham Van der Schoor ci
ricordainmodopiùdirettoil
nostro destino: sei teschi e
alcuneossasparseallarinfusa
su un tavolo, con una
clessidra, due rose, una
candela accesa e alcuni
carteggi.
Pieter
Claesz
esegue, dal canto suo, una
Vanitànaturamorta,doveun
teschio sovrasta libri, papiri,
penna, scrittoio e spartiti. In
un Teschio con quadrante
solare attribuito a Sebastian
Stosskopf, il teschio si trova
su
un
grosso
libro.
Harmen Van Steenwyck,
nella sua Natura morta con
pesce, lo colloca vicino a un
orologio,aunaconchigliaea
unasciaboladasamurai.
I suicidi continuano nel
regno di Luigi XIV. San
Simone parla di una dozzina
di suicidi nell’alta nobiltà. In
Inghilterra, un volantino
anonimo del 1647 dichiara
che gli annegamenti e le
impiccagioni sono divenuti
talmentefrequentichenonvi
si fa neanche più caso2.
Qualche anno più tardi
William Denny scriverà che
gli risuonano nelle orecchie
tutti i racconti di morte
volontaria di cui si sente
parlare a Londra3. In questa
stessacittà,dal1629al1660,
JohnGrauntcontada15a36
suicidi all’anno secondo gli
annunci funerari pubblicati
dallastampa,cifrecheritiene
essere ampiamente inferiori
alla realtà4. Il tribunale del
King’s Bench giudica 780
casidisuicidiofrail1620eil
1629, e 720 fra il 1650 e il
1659. Alcuni casi di
particolare
richiamo
alimentano la cronaca: il
pittore italiano Domenico
Zampieri,
detto
il
Domenichino,nel1641,poiil
suo compatriota Francesco
Borromininel1667.Treanni
prima,
Nicolas
Pierrot
d’Ablancourt,
scrittore
dall’animo
tormentato,
disgustatodallavita,silascia
morire di fame. Nel 1671
Lord North, personalità
malinconica, si uccide in
seguito alla morte di sua
moglie.
Medici e filosofi cercano
una spiegazione. I teologi
continuano a incriminare il
diavolo, ma i pensatori laici
invocano sempre di più la
follia.IlmedicoWillis,lecui
opere complete saranno
pubblicate a Lione nel 1681,
definisce la malinconia «una
follia senza febbre né furore,
accompagnata da paura e
tristezza»5.Glispiritianimali,
travolti da una debole
agitazione, divengono oscuri
etenebrosi,spiegaWillis,ele
immagini nel loro cervello si
velano «d’ombra e di
tenebre».L’individuodiventa
triste e può avere reazioni
morboseesuicide.
Per evitare tali reazioni,
Cartesio raccomanda un
accorgimento dettato dal
semplice buon senso: poiché
non sappiamo cosa ci aspetta
dopo la morte, restiamo in
vita, anche se quaggiù il
male ha la meglio sul bene.
Egli stesso non sembra
particolarmente interessato ai
sentimenti di inquietudine e
di malinconia che colpiscono
così tanti uomini e donne.
Questo intellettuale puro
guarda con commiserazione i
malinconicichelocircondano
e che, ai suoi occhi, soffrono
di una malattia di origine
puramente fisiologica. Nel
suo trattato L'uomo, egli si
limita
a
spiegare
l’inquietudine
come
mancanza di uguaglianza
nell’agitazione degli spiriti
animali. Ne Le Passioni
dell’anima, Cartesio descrive
più nel dettaglio gli effetti
fisici della tristezza: «Nella
tristezza [...] le aperture del
cuoresonomoltoristrettedal
nervolinochelecirconda,eil
sangue delle vene, non
essendo affatto agitato, va
verso il cuore in misura
scarsissima;
tuttavia
i
passaggi per cui il succo dei
cibi scorre dallo stomaco
e dagli intestini verso il
fegatorestanoaperti,equindi
l’appetito non diminuisce, a
meno che l’odio, spesso
accompagnato dalla tristezza,
non chiuda quelle vie»6. Le
persone tristi sono pallide,
poiché il viso non è ben
irrorato dal sangue, a meno
che non vi siano in gioco
sentimenti d’amore, odio o
desiderio, nel cui caso il
visodiventarosso.
Tristezza e inquietudine
sono quindi guasti che si
producono nella macchina
umana,essinonpotrebberoin
alcun
modo
provenire
dalla mente, che è guidata
dallasolaragione.Maidifetti
del corpo ricadono sul buon
funzionamento della mente,
generando «umori confusi e
inquietanti».NelDiscorsosul
metodo,Cartesioselaprende
con le «vane inquietudini e
dissapori» che perturbano il
comportamento
razionale.
Scartando ogni spiegazione
psicologica del mal di
vivere, egli afferma che
l’uomo debba seguire la
ragione, che ci permette
di arrivare alla verità. A suo
parere, quindi, il mal di
vivere proviene dai difetti
nella macchina corporea di
alcuni
uomini;
è
compito della medicina
ripararli.
Malebranche riprende i
punti salienti di questa
spiegazione, ma la ricolloca
in un contesto religioso,
unendo il fisico e il
metafisico. Lungi dall’avere
la serenità del suo maestro,
egli è un animo tormentato
cheapplicaall’animalalegge
diinerziadeicorpievedenel
disagio
dell’essere
la
presenza di un movimento
noneffettuato:Dio,infatti,ci
infonde una certa quantità di
movimento verso il bene,
quindi verso di Lui; se
l’anima si ferma durante
questa
tensione,
essa
conserva «il movimento per
spingersi oltre», generando
l’inquietudine.
Ma Malebranche non si
fermaaquestaosservazionee
ne fa un elemento centrale
dell’apologetica: egli si
spinge fino ad arrivare
al cuore religioso di questo
XVIIsecolopessimista.Tutte
le forme di inquietudine, del
mal di vivere e della
malinconia sono, da un
lato, la conseguenza del
peccato originale, che ha
distrutto lo stato di integrità
inizialedellanaturaumana,e
dall’altro la prova che
siamo chiamati a un bene
superiore. Non proveremmo
questa inquietudine se non
fossimo
ossessionati
dall’insoddisfazione
della
nostracondizionepresente.È
questo
sentimento
di
mancanza fonda-mentale che
il malabranchiano Bernard
Lamy esprime chiaramente:
«Tutte le nostre inquietudini
provengono dalla sensazione
di essere stati creati per
qualcosadigrande,senzaben
capire cosa sia questa
grandezza [...]. Allo stesso
tempo, poiché sentiamo
chetuttociòcheincontriamo
èpiccolo,nonsiamocontenti,
siamo disgustati da ciò che
abbiamo [...]. È la causa di
tuttelegrandirivoluzioniche
leggiamo nelle storie»7.
Malebranche
stesso
scrive: «Finché gli uomini
avranno un’inclinazione per
unbenecheoltrepassailloro,
forse, e che essi non
posseggono,
avranno
sempre
un’inclinazione
segreta per tutto ciò che
presenta i caratteri del nuovo
e dell’eccezionale»8; «la
nostra volontà, sempre riarsa
da un’ardente sete, sempre
agitata
da
desideri,
sollecitudini e ansie per il
bene che non possiede, non
può tollerare se non molto a
fatica che lo spirito si
soffermi per qualche tempo
su verità astratte che non lo
toccano e che essa giudica
incapacidirenderlafelice»9.
L’inquietudine è quindi
indissolubilmente legata alla
decadenza dell’umanità ed è
al contempo una punizione e
unospronoversoilbene.Con
il suo abituale ottimismo,
Leibniz
ne
contempla
anzitutto l’aspetto positivo:
l’inquietudine tesse la trama
deinostrisentimenti,sianella
tristezza che nel piacere. Si
tratta dunque della tensione
permanente verso «un bene
più grande»: «Trovo ch’essa
è indispensabile alla felicità
dellecreature,laqualefelicità
non consiste mai in un
possesso congiunto, che le
renderebbeinsensibiliecome
stupide, sebbene in un
continuo e non interrotto
progresso verso beni sempre
piùgrandi;progressochenon
può
mancare
d’essere
accompagnato
da
un
desiderio o almeno da una
irrequietezzacontinua»10.
Ilpessimismo
giansenista
Tuttavia, l’ottimismo del
filosofo
tedesco
è
decisamente minoritario nel
XVII secolo, che versa in
un’atmosfera di profondo
pessimismo religioso. Questo
è anzitutto il secolo del
giansenismo -persino i suoi
detrattorinesonopermeati-e
del peccato originale, un
secolo in cui i teologi
proclamano che, sin dal
peccatodiAdamo,siamotutti
criminali sul punto di essere
giudicati e condannati11.
Certo,igesuitiaffermanoche
ci resta il libero arbitrio, ma
per farne buon uso bisogna
condurre una vita talmente
asceticadascoraggiareanche
le persone animate dalle
migliori intenzioni. Peraltro i
gesuiti e i giansenisti sono
decisamente d’accordo su
un punto: la maggior parte
dell’umanità
finirà
all’inferno.
«Gli
eletti, rispetto al resto del
mondo, non formano che un
piccolo gruppo che passa
quasi del tutto inosservato»,
afferma
Massillon;
«È
certo che il numero degli
eletti sarà il più esiguo e che
cisarannoincomparabilmente
più dannati», conferma
Bourdaloue;
«Su
mille
persone,neancheunaventina
verrà effettivamente salvata»
osserva Malebranche; «Non
c’è verità più sorprendente
nella dottrina cristiana di
quella che ci dimostra
l’esiguo numero di eletti»12
rincaraladoseNicole.
Per quest’ultimo, come
per tutti i giansenisti,
abbiamo perso la capacità di
faredelbene,amenochenon
siamounodeirariprivilegiati
predestinaticuiDioaccorderà
la grazia. Tutti gli altri
si ritroveranno all’inferno: i
noncristiani,chiaramente,ma
anche
l’immensa
maggioranzadeibattezzatiei
bambini
morti
senza
essere stati battezzati. Una
simile certezza non può che
causare disperazione; ma la
disperazioneèunpeccatoche
porta dritti all’inferno! I
giansenisti che diffondono
questa
dottrina
sono
combattuti fra due estremi
inconciliabilipoiché,secondo
la
formula
pascaliana,
bisogna «vivere nel mondo
senza prendervi né parte né
gusto». Questa esigenza
radicale di assoluto non può
accontentarsi dei valori
umani,sempreimperfetti,che
implicano sempre una scelta.
Rifiutando di impegnarsi
nelle imprese umane, il
giansenista si ritira dal
mondopurrestandoinquesta
vita. Condannando senza
appello questo mondo come
brutto e non avendo alcuna
speranza di poterlo cambiare
prima della fine dei tempi,
egli porta con sé una
tentazione fondamentale di
morte: «Vivere nel mondo
significa vivere ignorando la
natura dell’uomo, conoscerla
significa comprendere che
egli non può salvare i valori
autentici se non rifiutando il
mondo
e
la
vitaintramondana,scegliendo
la solitudine e - al limite - la
morte»13, scrive Lucien
Goldmann, che sottolinea
anche la similitudine fra
l’atteggiamento pascaliano e
quello di Faust: la passione
del sapere universale e la
consapevolezza della sua
totale
vanità.
Tale
discordia porta il primo a
sprofondare in una frustrante
accettazione del mistero di
questo Dio inafferrabile, e il
secondoavolersisuicidare.
Il giansenismo autentico
si spinge fino al limite della
riflessione
logica
sulla
condizione umana ma, così
facendo, conduce ad una
situazionedistallo:daunlato
il mondo, radicalmente
brutto, che nessuna azione
potrà
mai
migliorare;
dall’altrounDioinafferrabile
cheinvialasuagraziasoloa
un esiguo numero di eletti;
in mezzo l’uomo, assetato di
assolutoeconsapevoledinon
poterlo avere. L’unica via
d’uscitasarebbeilnulla,mail
giansenismo lo rifiuta nel
nome di Dio, padrone
assoluto della vita. L’uomo è
rinchiuso nella trappola
terrestre, il solo ostacolo al
suicidio è la fede, una fede
che il giansenismo rende
fragile facendo di Dio un
essere la cui caratteristica
principaleèl’assenza.
È pur vero che agli occhi
dei giansenisti la paura è
salutare. Questa «santa
inquietudine», come la
definiscel’abateDuguet,èun
segnodipredestinazione,edè
in
ogni
caso
una
condizione necessaria alla
salvezza. «Tutti gli uomini
del mondo sono obbligati a
credere, ma di una credenza
mista a paura e non
accompagnata dalla certezza
di far parte di quel piccolo
numero di eletti che Dio
vuole salvare», spiega Pascal
negli Scritti sulla grazia.
Noto giansenista, l’oratore
Gilles
Vauge
osserva:
«Questa paura che alberga
anche nei giusti e nei santi è
uno dei mezzi attraverso cui
Dio suole eseguire il decreto
della sua predestinazione.
Lungi dall’affievolire la
fiducia che ognuno di noi è
obbligatoadaverealpensiero
di far parte del numero di
eletti, essa deve al contrario
rafforzarla,
in
quanto
strumento
della
nostra
salvezza.Questoèlostatoin
cui Dio vuole che restiamo
per giungervi»14. Abbiate
paura, quindi, per evitare
l’angoscia,inqualchemodo.
Unaspiritualità
morbosa
Nonèaffattofacileessere
cristiani nel XVII secolo: le
correnti non gianseniste,
infatti, non sono certo più
rassicuranti. La spiritualità
berulliana,adesempio,èuna
delle più sconfortanti che
esistano. Il cardinale de
Bérulle (1575-1629) vede
nella terra «una cloaca di
sconcezzeediabomini,euna
valledilacrime,dimorteedi
miseria». L’uomo è schiavo
delpeccato,proclama:«Ecco
la base da cui partiamo ed
ecco la nostra eredità, la
nostrapotenza:nemicidiDio,
prigionieri del diavolo,
schiavi del peccato, eredi
dell’inferno,
ostaggi
sacrificati alla morte, e alla
morteeterna»15.
Il cattolicesimo, quindi, è
cultura di morte o cultura di
vita?LaletturadiBérullenon
lasciaalcundubbio:
L’essere, la vita e
l’eredità che riceviamo
da Adamo non è che
morteeperlamorte.[...]
Il
mondo
è
la
ghigliottina del nostro
supplizio, non solo
siamo
obbligati
a
morire, ma siamo anche
condannati a morire.
Viviamo
sulla
terracomesefossimoin
attesa della sentenza e
dell’esecuzione: i nostri
pensieri, i consigli, le
parole sono impotenti,
inutili, nella deformità
della morte. Non basta,
in
tutto
questo,
riconoscere il nostro
stato di morte; poiché il
diavolo riconosce bene
che si tratta di morte,
egli non è migliore,
né più virtuoso. Ma
occorrecheciabituiamo
all’idea che Dio tratta
tuttoquestocomemorte,
edobbiamointuttoeper
tuttotrattarcicomemorti
[...).L’ultimogiornoDio
farà morire nel fuoco
Adamo e tutte le sue
opere [...]. Ciò di cui
abbiamo appena parlato
èla morte che la natura
reca con sé a causa del
peccato:maesisteanche
la morte che riceviamo
attraverso la grazia, che
sopravviene
nel
momento in cui ci
avviciniamo
alle
cose divine, volendo far
morire la natura: ed
esiste la morte persino
nella luce e nei
sentimenti di grazia, in
onore della morte di
Gesù e della sua vita,
cheeracosìdivinamente
umana.
La verità e la
giustiziadiDiovogliono
[...]checicomportiamo,
nel mondo, come dei
morti; e infine ci
ridurranno come dei
morti
con
la
loro potenza, senza
curarsi della nostra
volontà.
La grazia che il
Figlio di Dio è venuto a
portarenelmondoèuna
grazia di morte, non di
vita [...], ed egli stesso
havolutomorire,luiche
èvitastessa,persalvarci
enonfarciconsumareda
questamorte.InGesùci
sono sia lamorte che la
vita, ma la morte è
manifesta,mentrelavita
ènascosta16.
Simili
passaggi
si
ritrovano in Charles de
Condren, Jean-Jacques Olier,
il fondatore del seminario, o
ancora in padre Surin. Nel
1686,tuttavia,l’abateClaude
Fleurycontinuaastupirsidel
fatto che la devozione abbia
fama di rendere malinconici:
«La devozione viene ancora
accusata di rendere tristi e,
addirittura, infelici, perché
in effetti è possibile vedere
che molte fra le persone che
si dicono devote sono tristi,
criticheelamentose;manulla
di tutto ciò è più distante
dallo
spirito
del
cristianesimo, che è uno
spirito
di
dolcezza, tranquillità e gioia;
elamalinconiaèannoverata,
daipiùantichipadrispirituali,
fralesettooottofontiditutti
i peccati, come la gola e
l’impudicizia»17. Il fatto è
che Fleury è rimasto fermo
alla concezione medievale
dell’accidia, rigorosamente
condannata dai teologi.
AncheilrecollettoSporeroil
francescano
Lucien
Ferraris
assimilano
la
tristezza malinconica alla
pigriziaspirituale.
In quest’epoca in cui i
cristiani si trovano ad
affrontare
molteplici
contraddizioni
teologiche,
anche i più dotti corrono il
grossorischiodicaderenella
disperazione. Così parla il
dottore di cui Vincenzo de’
Paoliraccontalastoriaalfine
di trarre una lezione morale
control’ozio:
Ho conosciuto un
dottore famoso che per
molto tempo aveva
difeso la fede cattolica
contro gli eretici, in
qualità di teologo [...].
Poiché la defunta regina
Margherita lo aveva
fatto chiamare presso di
sé per via della
sua scienza e della sua
pietà,eglifuobbligatoa
lasciare i suoi impieghi;
e poiché non predicava
né catechizzava più, si
trovòassalito,nelriposo
in cui versava, da una
rudetentazionecontrola
fede. Ciò ci insegna, tra
l’altro,
quanto
sia
pericoloso
restare
nell’ozio, sia del corpo
che
dello
spirito
[...]. Questo dottore
dunque, vedendosi in
uno stato vergognoso, si
rivolse a me per
rivelarmi di essere
agitato da tentazioni
assai violente contro la
fede [...] e persino da
disperazione, fino al
punto di volersi gettare
da una finestra. Si era
ridottoaestremitaliche
fu necessario esentarlo
dal recitare il suo
breviario e dal celebrare
lasantamessa,epersino
dallapreghiera;tantopiù
che non appena iniziava
a recitare il Pater, gli
sembravadivederemille
spettri che lo turbavano
profondamente; e la sua
immaginazione
era
talmente inaridita, e il
suo spirito talmente
sfinito a forza di
rinnegare le tentazioni,
che non riuscì più a
produrnealcuna18.
Noiaespiritoclassico
L’altra faccia del mal di
vivere è la noia, insidiosa
minaccia di disgregazione
della personalità. Gli uomini
non hanno certo atteso il
Grand Siècle per cominciare
ad annoiarsi: la noia è una
dellecomponentideltaedium
vitaecomeanchedell’accidia
e della malinconia. Essa ora
diventaunmalepsicologicoa
pieno titolo, avvertito in
quanto tale sia dagli autori
laicichedagliautorireligiosi.
Uno scrittore del Grand
Siècle, La Motte-Houdar
(1672-1731),dichiarache«la
noia nacque un giorno
dall’uniformità».
Ora,
cosac’èdipiùuniformedella
culturaclassica,cheapplicaa
tutti i campi il principio di
unità:
fede,
letteratura,
governo,arte,economia,tutto
è regolato in maniera
autoritaria e gerarchica in
funzione di questo ideale
unitario. La sua forma più
evoluta è la monarchia
assoluta, la quale prevede un
sovrano e regi intendenti che
devono fare applicare in
modo uniforme le leggi in
tutto il regno; una religione,
ufficialeeobbligatoria;codici
che regolano le attività
economiche;
un’etichetta
puntigliosacherendelacorte
un balletto meccanico di
precisione;
una
lingua
depurata,
strutturata,
grammaticalmente
statica,
rigido strumento di un
pensiero
rigorosamente razionale; una
letteratura basata su regole
severe, dall’alessandrino alle
tre unità del teatro; un’arte
codificata dalle Accademie
che impone convenzioni
uniformi
e
la
cui
realizzazione più compiuta è
forse
un’architettura
geometrica. In questa arte
classica c’è una volontà
di immobilità e di eternità,
una
negazione
dell’evoluzione
e
del
tempo:ilpalazzoclassicoeil
suo giardino sono concepiti
per essere visti in un solo
colpo d’occhio, insieme
compiuto la cui bellezza e
armonia possono essere
scoperte solo se guardate da
una terrazza. Linea dritta,
simmetria, semplicità delle
forme: non c’è posto per la
scoperta progressiva e per la
sorpresacomenelbarocco.
Questo ideale deve molto
al pessimismo dell’epoca.
Poiché il mondo è corrotto
dalleconseguenzedelpeccato
originale, poiché l’uomo
lasciatoalleproprieforzenon
può che fare del male,
la libertà di creazione può
sfociare solo nel caos,
nell’anarchia
delle concupiscenze sfrenate.
Perché la vita sociale sia
possibile occorre un potere
assoluto, capace di imporre
regole severe in tutti i
campi e di soffocare tutti i
dubbi,tuttelequestioni,tutte
le contestazioni. Nell’ambito
della morale, è il grande
secolo
della
casistica,
codificazione raffinata dei
problemidicoscienza;tuttoè
previsto e calcolato, non ci
sono
più
incertezze,
generatrici
di
disagio.
Lasciare affiorare i dubbi
cartesiani è solo falsa
apparenza,
un
metodo
per affermare con maggiore
certezzaleevidenzediquesto
mondo. Neanche l’aldilà
presenta più misteri, poiché i
teologi ne rivelano tutti i
segreti.Dopolamortetuttoè
regolato come in un
cerimoniale reale o in un
processo criminale; ognuno
puògiàconsultareilcatalogo
delle pene che lo attendono
all’inferno
o
al
purgatorio.
Quanto
all’etichetta del Giudizio
finale,
essa
viene
ripetutamente descritta nei
sermoni.
Ognicosaeogniuomoal
proprio posto, in un’armonia
statica: la perfezione risiede
nell’immobilità. Inquadrato,
guidatoesorvegliato,l’uomo
non deve più porsi alcuna
domanda. L’ordine classico
dovrebbe rassicurarlo, ma la
ripresa delle redini culturali
e politiche si traduce in
un’esigenzadirigiditàmorale
einunformalismofreddoche
generanolanoia,formatipica
del mal di vivere nel XVII
secolo in Francia e nei paesi
che la ergono a modello. Il
secolo di Luigi XIV non ha
fiducia nell’uomo e ripone le
sue speranze nell’aldilà. Per
molti versi si tratta quindi di
un secolo di divieti e
frustrazioni.
Da parte sua, sin dalla
Controriforma il barocco
privilegia il movimento, la
messa in discussione, il
tempo, la sorpresa, la
spontaneità: può per questo
essere ritenuto più ottimista?
Gli oggetti inanimati, tema
barocco per eccellenza,
mostrano che qualsiasi forma
di agitazione è vana. Il
barocco è parente stretto del
grottesco, e il mondo
grottesco è inquietante: tutto
èincerto,instabileelamorte
è la vincitrice ultima. Nel
Grand
Siècle
l’inquietudine barocca e la
noia classica rappresentano i
due versanti del mal
di vivere, di cui Saint-Simon
fornisce
l’illustrazione
mondana
e
Pascal
l’interpretazione
religiosa.
Le Memorie del duca di
Saint-Simon rappresentano la
commedia
umana.
Il
microcosmo della corte
oscilla costantemente fra
l’inquietudine e la noia. I
cortigiani,sempreall’ertaper
evitareilminimopassofalso,
vivonoinunostatodiestrema
tensionenervosa.Nonappena
si sottraggono a questa
tensione, cadono in un
«vuotoinsopportabile»,come
Gaspard de Fieubet (16271694), consigliere di Stato in
pensione:
«Pontchartrain
mandò suo figlio a trovarlo.
Egli,conpocadiscrezione,si
azzardò a chiedergli cosa
facesse. “Cosa faccio?” gli
risposeFieubet,“miannoio;è
la mia penitenza, mi sono
divertito troppo”. Egli non si
lasciavaandaresuniente,esi
annoiava
talmente
che
l’itterizia lo colse e morì di
noianelgirodipochianni»19.
Il maresciallo de Noailles,
dimessosi dalla sua carica di
capitano della guardia, cade
in depressione: «Quel vuoto
gli fu insopportabile», e
Saint-Simon stesso, ritiratosi
temporaneamente a La Ferté
nel 1714, scrive al duca di
Orléans: «Il limbo è
insopportabile, non resisto
più [...]. Le mie tenebre
mi fanno infuriare [...]. Non
soquantodureràl’esiliodalla
corteeildistaccodalmondo,
che mi tiene distante da
tutto». In un Préambule alle
Notes sur les duchés-pairies,
Saint-Simon descrive la noia
che assilla il cortigiano
ritiratosi dalla corte: «Il
tempo
libero
che
improvvisamente
si
sostituisce alle occupazioni
continue di tutti i diversi
momenti della vita forma un
grandevuotochenonèfacile
né da sopportare né da
riempire.
In
questa
condizione, la noia irrita e
l’impegnoinqualsiasiattività
provoca disgusto. Anche
i divertimenti vengono
disdegnati. Questo stato non
può essere duraturo: alla fine
si cerca, seppur controvoglia,
diuscirne»20.
I moralisti e i predicatori
classici hanno ampiamente
sfruttato il tema della noia.
«Lanoiaèentratanelmondo
attraverso l’ozio», scrive La
Bruyère. Massillon adatta
Pascalneisuoisermoni:
Niente è più triste
per la maggior parte
degliuominideltrovarsi
soli con se stessi e di
essere
costretti
a
guardare nel proprio
cuore.
Come
ci
travolgono le passioni
vane; quali attaccamenti
criminali ci insudiciano;
quali mille desideri
illegittimioccupanotutti
i movimenti del nostro
cuore; ritornando in noi,
troviamo solo un vuoto
spaventoso,
rimorsi
crudeli, pensieri cupi e
riflessioni
tristi.
Cerchiamo quindi nella
varietà
delle
occupazioni e nelle
distrazioni eterne l’oblio
dinoistessi.Temiamoil
tempo
libero
come segnale di noia e
crediamoditrovarenello
scompiglio e nella
molteplicità
delle
incombenze
esterne
l’ebbrezzagioiosacheci
fa camminare senza che
ce ne accorgiamo, e che
ci permette di non
sentire più il peso di
noistessi21.
PerMassillonlanoianon
èinagguatosoloinseguitoal
ritiro dalla vita di corte:
«Tuttalavitadeigrandinonè
che una bieca precauzione
contro la noia; la loro stessa
vita non è che una triste
noia. Ciò nonostante la
portanoavanti,affrettandosia
moltiplicare i piaceri: tutto è
già logoro, per loro, nel
momento stesso in cui
varcano le soglie della vita,
nei loro primi anni provano
già i fastidi e l’insipidezza
chelastanchezzaeillogorio
del
tutto
sembrano
attribuireallavecchiaia»22.
Pascalhaesploratoquesto
aspetto particolare del mal di
vivere con la sua abituale
profondità
per
farne
un’argomentazione
apologetica.
Questo
«passionale
tormentato»,
secondo la Caratterologia di
Le Senne, che lo considera
come «il corrispondente
simmetrico del sentimentale
Kierkegaard»23, vede nella
noia il segno per eccellenza
della miseria umana. In un
libro
sulla
malinconia
di Kierkegaard, Harvie
Ferguson ha recentemente
sviluppato
quest’idea:
«Pascal è davvero il primo a
definire la noia come
l’esperienza centrale della
modernità.Lanoiaèinerente
all’individualismo secolare,
che è il solo fondamento
morale della società moderna
[...]. Lasciato a se stesso,
l’uomo produce, nel più
profondo della sua anima,
un’immagine di perfezione
chenonpuòraggiungere.Èla
persistenza
di
questo
desideriodifelicitàcherende
insulso e senza vita tutto ciò
che non gli è legato; è il
sentimento di perdita e di
desiderio di una perfezione
scomparsa che ci spinge
costantemente a impegnarci
inattivitàfutili»24.
Sappiamo che Pascal
distingue due generi di noia,
unodeiqualièlanoiabanale,
generata
dall’inoperosità,
quella del personaggio di
Saint-Simon:«Cosìscorrevia
tutta la vita. Si cerca riposo
combattendo certe difficoltà;
e,superatechesiano,ilriposo
diventainsopportabile,perché
si pensa alle miserie presenti
oppure a quelle che ci
minacciano»25.
Noi
cerchiamo di tenere la mente
occupata proprio contro
questo tipo di noia, attività
che comincia molto presto,
poiché gli educatori sanno
bene che per rendere felici
i bambini occorre tenerli
occupati, fissar loro degli
obiettivi da raggiungere. Per
renderli infelici, «basterebbe
liberarli da tutte quelle cure:
allora vedrebbero se stessi,
penserebbero a quel che
sono, dove vanno. [...]
Appena hanno un momento
direspiro,siconsiglialorodi
impiegarlo a divertirsi, a
giocare e ad assorbirsi
sempre per intero in qualche
occupazione»26. Persino «un
re privo di distrazioni è un
uomopienodimiserie».
L’esperienza della noia
banaleèinsépositiva,poiché
ci permette di prendere
coscienza della vanità della
nostra condizione: «Chi
nonlavede,aparteigiovani
che sono tutti immersi nel
chiasso,nelledistrazionienel
pensiero dell’avvenire? Ma
toglieteloroladistrazioneeli
vedrete inaridirsi di noia.
Avvertono allora il loro
nulla senza conoscerlo,
poiché è proprio infelice
condizionequelladiritrovarsi
inunatristezzainsopportabile
non appena si è ridotti
alla considerazione di sé
senza essere distratti da
nulla»27. Pertanto tutti i
mezzi sono buoni per uscire
daquestanoia,compresiipiù
futili, «come un biliardo e
unapalladacolpire».Tuttele
occupazioni
umane
si
riducono a passare il tempo
cercando di dimenticare
il
nulla,
si
tratta
semplicemente di distogliere
il pensiero: «Gli uomini, non
avendo potuto guarire la
morte,
la
miseria,
l’ignoranza,hannorisolto,per
viver
felici,
di
non
pensarci»28. «Il piacere
della
solitudine
riesce
incomprensibile»29.
Ma correre da un piacere
all’altrononbastaascacciare
la vera noia, quella nel senso
pascaliano del termine.
Questa noia, infatti, è il
tessutostessodellacoscienza,
una forma di angoscia
religiosa
fondamentale,
l’esatto
equivalente
dell’inquietudine
malabranchiana: «L’uomo
dunqueècosìsventurato,che
si annoierebbe anche senza
alcun motivo di noia,
semplicemente per la sua
conformazione»30. La noia
aumenta sensibilmente nei
periodi di riposo: «Nulla è
così insopportabile all’uomo
come essere in pieno riposo,
senza
passioni,
senza
faccende,senzasvaghi,senza
occupazione.Eglisenteallora
la sua nullità, il suo
abbandono,
la
sua
insufficienza,
la
sua
dipendenza,lasuaimpotenza,
il suo vuoto. E subito
sorgeranno, dal fondo della
sua anima il tedio, l’umor
nero,latristezza,ilcruccio,il
dispetto, la disperazione»31.
In queste condizioni è
illusorio cercare la pace e la
serenitàrientrandoincontatto
con se stessi attraverso la
meditazione: si troverà solo
un precipizio senza fine,
invece del Dio che ci si
aspettava. In fondo alla noia
l’inquietudine, poi l’ansia e
infine la disperazione: «Nel
vedere l’accecamento e la
miseria
dell’uomo,
nell’osservaretuttol’universo
muto e l’uomo privo di luce,
abbandonato a se stesso e
come smarrito in questo
angolo dell’universo, ignaro
di chi ve l’ha messo, di cosa
vi è venuto a fare, di cosa
diverrà morendo, incapace di
qualsiasiconoscenza,iocado
nelterrore[...].Emistupisco
di come con tutto ciò non si
cada nella disperazione per
unostatocosìmiserabile.[...]
Ugualmente incapace di
intravedere il nulla donde
è tratto e l’infinito dov’è
inghiottito.Cosafaredunque,
se non percepire qualche
parvenza del mezzo nelle
cose,
in
un’eterna
disperazione di conoscere sia
ilprincipiosialafine?»32.
Persifradueinfiniti,inun
angolo dell’universo, senza
sapere
perché:
ecco
precisamente la condizione
umana.
Pascal,
colto
da vertigini davanti a tali
prospettive, o piuttosto
davanti a questo vuoto,
deperisce: «L’introversione
pascaliana peggiora fino ad
arrivare a un ritiro psicotico
dal mondo»33, scrive Harvie
Ferguson. Caduto in uno
«stato di annientamento»,
Pascalmuorenel1662,all’età
di trentanove anni. Non si
può guardare il nulla negli
occhicosìimpunemente.
Nel 1690 Eustachio
Manfredi fonda a Bologna
l’Accademia degli Inquieti,
«nome abbastanza opportuno
per i filosofi moderni che,
non essendo più legati ad
alcuna autorità, cercano e
cercheranno
sempre»34,
scriveFontenelle.Taleevento
ha una portata simbolica e
segna
il
passaggio
dall’inquietudine
religiosa
all’inquietudine secolare, un
nuovo passo verso lo spirito
moderno.
La crisi di coscienza
europeadegliannitrail1680
eil1715favacillareilcredo
nelcarattereirrimediabiledel
peccatooriginale.Ildubbiosi
insinua, dando vita a una
nuova
speranza.
La
generazione del giovane
Voltaire, nato nel 1694, non
crede più che la felicità sia
davvero impossibile sulla
terra; l’uomo può rendere
vivibile il suo soggiorno
terrestre.
Il
primo
umanesimo, quello del
XVI secolo, affondava le sue
radici in una fede illuminata,
ma i due termini si erano
rivelati
inconciliabili
e
l’umanesimo
era
stato
stritolato dal fanatismo.
Questa volta l’uomo tenterà
dicavarseladasolo.Ilnuovo
umanesimo sarà puramente
secolare,
e
persino
anticlericale,
se
non
addirittura antireligioso e
materialista.
L’avventura, tuttavia, non è
privadirischi.L’autonomiaè
unascommessaaudacesuun
avvenireincerto,dacuinasce
questa
inquietudine,
nuova forma di un mal di
vivere secolarizzato al fondo
delqualepotrebbetrovarsila
felicità, oppure un nuovo
fallimento, generatore di una
malinconia più profonda
ancoradiquelladiBurton.
1F.SAXL,Veritas, filia
temporis, in Philosophy &
history: e Essays presented
to E. Cassirer, Clarendon
Press, Oxford 1936, pp. 197-
222.
2
A Petition unto his
Excellencie, Sir Thomas
Fairfax, Occasioned by the
Publishing of the Late
Remonstrance,Londra1647.
3 W. DENNY,
Pelicanicidium,Londra1652.
4 J. GRAUNT, Natural
and Political Observations
Mentioned
in
a
Following Index, and Made
upon the Bills of Mortality,
John Martyn and James
Allestry, Oxford; trad, it.,
Osservazioni naturali e
politichefattesuibollettinidi
mortalità, a cura di Enzo
Lombardo, La Nuova Italia,
Firenze1987.
5 T. WlLLIS, Opera
omnia, Lione 1681, t. II, p.
238.
6CARTESIO,Lepassioni
dell’anima,
in
Opere
filosofiche, vol. 4, art. 105,
Laterza, Roma-Bari 1999, p.
62.
7 B. LAMY (padre),
Entretiens sur les sciences
dans lesquels on apprend
commel’onsedoitservirdes
sciencespoursefairel’esprit
justeetlecœurdroit[avecla
méthoded'étudier], a cura di
Fr. Girbal e P. Clair, PUF,
Parigi 1966, p. 120 [Lione
1694]; trad. it.. Trattenimenti
sopra le scienze del padre
Bernardo
Lami
prete
dell’Oratorio di Francia, nei
quali s'insegna il metodo di
studiare le scienze, e come
valersi di queste pel buon
regolamento dell'intelletto, e
del cuore, in Rovereto: nella
stamperia di Pierantonio
Bernolibrajo,1734.
8 N. MALEBRANCHE, La
ricerca della verità, IV, 3,1,
Laterza,Bari1983,p.380.
9 Ivi, III, 1, IV, II, pp.
296-297.
10 G.G. LEIBNIZ, Nuovi
saggi sull’intelletto umano,
vol. I, II, 21, § 36,
Laterza,Bari1909,p.163.
11 G. MINOIS, Les
origines du mal: une histoire
du péché originel, Fayard,
Parigi 2002, capitolo 5: Le
péché originel, fondement de
lacultureclassique.
12G.MINOIS,Piccola
storiadell’inferno,IlMulino,
Bologna1995.
13L.GOLDMANN,Le Dieu
caché: étude sur la vision
tragique
dans
les
«Pensées» de Pascal et dans
le théâtre de Racine,
Gallimard, Parigi 1959, p.
241;trad.it.,IlDionascosto:
studio sulla visione tragica
nei Pensieri di Pascal e nel
teatro di Racine, Laterza,
Bari1971,pp.325-326.
14 G.VAUGE,Traité de
l'espérancechrétienne,contre
l’esprit de pusillanimité de
défiance, et contre la crainte
excessive, Butard, Parigi
1765,p.218.
15 P. DE BÉRULLE
(cardinale), Œuvres, Parigi
1665,p.523.
16 P. DE BÈRULLE
(cardinale), Œuvres, cit., pp.
662-663.
17C.FLEURY,Traitédu
choix et de la méthode des
études, Parigi 1686, p.
126; trad. it., Trattato della
scelta e del metodo degli
studi del signor Claudio
Fleury, in Padova: nella
stamperia del Seminario
appresso Giovanni Manfre,
1729.
18 L. ABELLY, La vie du
vénérable Vincent de Paul,
Parigi 1664, p. 116; trad. it.,
Della vita di S. Vincenzo de’
Paoli fondatore e primo
superiore
generale
della Congregazione della
missione e delle Figlie della
carità,
Stamperia
di
Francesco Tizzoni, Roma
1677.
19 L. DE ROUVROY (duca
di Saint-Simon), Mémoires,
Gallimard, Parigi 1983, t. II,
p. 409; trad. it., Memorie,
Einaudi,Torino1973.
20 Citato da D. VAN
DER CRUYSSE, La mort
dans les mémoires de SaintSimon: Clio au jardin de
Thanatos,Nizet,Parigi1981,
p.96.
21 J.-B. MASSILLON,
Sermon du lundi de la
Passion,Parigi1745.
22 ID., Petit Carême,
sermon du 3eme dimanche,
Renouard,Parigi1810.
23 R. LE SENNE,
Trattato di caratterologia,
SEI,Torino1960,p.334.
24
H. FERGUSON,
Melancholy and the Critique
of
Modernity:
Soren
Kierkegaard's
Religious
Psychology,
Routledge,
Londra1995,pp.25-26.
25 B. PASCAL,
Pensieri, Einaudi, Torino
1962,p.154.
26Ivi,pp.156-157.
27Ivi,p.35.
28 B. PASCAL,
Pensieri,cit.,p.150,
29Ivi,p.152.
30Ivi,p.111.
31Ivi,pp.150-151.
32
B. PASCAL,
Pensieri,cit.,pp.157,163.
33 H. FERGUSON,
Melancholy...,cit.,p.30.
34 B. LE BOVIER DE
FONTENELLE,
Œuvres
complètes,Parigi 1818,t.1, p.
446.
Capitolosesto
L'inquietudinedegli
Illuministi
Il XVIII secolo ha una
reputazione ingannevole. Lo
spirito,l’ironia,laleggerezza,
l’eleganza, la ragione, le
scienze,
il
deismo
accattivante, l’ottimismo, il
progresso, la critica sociale e
politica: tutto questo non è
falso, ma nasconde il fondo
malinconico di un’epoca
segnata
dall’inquietudine,
come ha mostrato l’opera
classica di Jean Deprun1.
Un’inquietudine inizialmente
avvertita come positiva,
poiché indice di uno stato di
insoddisfazione che spinge
all’azione per colmare tale
mancanza e che può quindi
costituire il motore del
progresso.
L'inquietudinecome
spintaadagire
Nel 1690, anno in cui in
Italia
viene
fondata
l’Accademia degli Inquieti,
John Locke scrive che
l’inquietudine è lo sprone
principale,senonl’unico,che
spinga l’industria e l’attività
degli
uomini2:
«L’inquietudine che l’uomo
prova a causa dell’assenza di
qualcosa che potrebbe dargli
piaceresefossepresenteèciò
chevienechiamatodesiderio,
che può essere più o meno
grande, a seconda che tale
inquietudine sia più o meno
ardente».
Soffermiamoci
sul
termine
«inquietudine».
Pierre Coste, il primo
traduttore francese del libro
di Locke, ha spiegato nel
1700 il motivo per cui lo
avevascelto:«Uneasinessèil
termineinglesedicuisiserve
l’autore in questo contesto e
che ho deciso di rendere
con inquiétude [inquietudine,
N.d.T.], che non esprime
esattamente la stessa idea.
Ma, che io sappia, non
abbiamo altri termini in
francese che si avvicinino a
questo. Per uneasiness,
l’autore intende lo stato
d’animo di un uomo che non
si sente a suo agio, la
mancanza di agio e di
tranquillitàdell’anima,chein
questo caso è puramente
passiva»3.
L’inquietudine è quindi
uno stato psicologico, una
sofferenza
morale
che
provoca un desiderio. Questa
sensazione di mancanza ha
perso la sua dimensione
religiosa per divenire una
spinta ad agire, mentre il
possesso del bene ambito, la
soddisfazione,
generano
apatia e noia. Nel XVIII
secolo l’Occidentale diviene
un uomo inquieto, i cui
bisogni non sono mai
soddisfatti.
La
ricerca
dolorosa,
l’inquietudine,
oppurelanoia:Schopenhauer
vedrà in questi elementi i
pilastridellanostrainfelicità.
IfilosofidelXVIIIsecolo
si riversano in massa nella
breccia aperta da Locke, che
contrappone due forme del
mal di vivere: la forma
dinamica e la forma apatica.
In
un’opera
di
Spinoza,
Boulainvilliers
definiscel’inquietudinecome
una «sensazione di disagio»
legata al «desiderio intimo
attraverso cui ogni essere
sensibile è portato a
perseverare nel suo essere e
nella
sua
modalità
particolare»4. L’apologetica
cristiana, spiega, definiva
l’inquietudine
come
esperienza di una mancanza,
l’espressione
di
un
desiderioassoluto,ilsegnodi
una ricerca del divino. Dal
canto suo, egli considera
questodesideriounfenomeno
naturale: «Siamo esseri
sensibili, impegnati a creare
continuamente nuove idee e
nuovi desideri all’affacciarsi
diogninuovapercezione»5.
Qualche anno più tardi
Vauvenargues scriverà a
Mirabeau che «prova, spesso
e
nitidamente,
questa
inquietudine che è la
fonte delle passioni», e gli
descriverà l’«umore cupo»
che spinge gli animi forti
all’azione, mentre quelli
deboli si accontentano di
rimuginare
sulla
loro
malinconia.
Nella
sua
Introduction
à
la
connaissance de l’esprit
humain(1746),eglivaancora
più
in
profondità,
spiegando che l’inquietudine
proviene dal «sentimento di
imperfezione»,
esperienza
intima di una sconfitta del
nostro essere, che confessa
di provare frequentemente.
Condillac analizza le diverse
sfaccettature
dell’inquietudine nel suo
Traité des sensations (1754),
dal «malessere o lieve
insoddisfazione», fino al
tormento
vero
e
proprio. Helvétius, in Dello
spirito (1758), mostra che la
paura della noia è la fonte di
tutte le grandi azioni umane:
«La noia gioca il ruolo
più importante soprattutto
nelle società, in cui le grandi
passioni vengono frenate sia
dai costumi che dalla forma
di governo; per me diventa
quindi
il
movente
universale».
L’oratore Bernard Lamy,
discepolo di Malebranche,
aveva già riflettuto su questa
idea nei suoi Trattenimenti
sopralescienze,tuttavia egli
pensava
piuttosto
all’inquietudine di origine
religiosa, in cui vedeva una
fontediturbamento:«Tuttele
nostre
inquietudiniprovengonodalla
sensazione di essere stati
creatiperqualcosadigrande,
senza ben comprendere cosa
sia
questa
grandezza.
[...]Allostessotempo,poiché
sentiamo che tutto ciò che
incontriamoèpiccolo,nonne
siamo affatto contenti, siamo
disgustati da quello che
abbiamo,
vogliamo
qualcos’altro.Èquestocheci
faamareilcambiamento,edè
la causa di tutte le grandi
rivoluzioni di cui leggiamo
nelle storie, in cui vediamo i
tratti
dell’ambizione
e
dell’inquietudine
degli
uomini»6.
Un secolo e mezzo dopo
il
grande
conservatore
Chateaubriand considererà
questa inquietudine collettiva
come un pericoloso fattore
rivoluzionario; egli infatti
afferma che si tratti di «un
non so cosa, nascosto non so
dove, e questo non so cosa
sembra essere la ragione
effettiva
di
tutte
le
rivoluzioni. Tale ragione
segretaètantopiùinquietante
poiché non si riesce a
scorgere
nell’uomo
della società. Ma l’uomo
della società non ha forse
iniziato a essere l'uomodella
natura? È quindi costui che
bisogna interrogare. Questo
principio sconosciuto non
nasce forse dalla vaga
inquietudine,tipicadelnostro
cuore, che crea in noi il
disgusto sia per la felicità
cheperl’infelicitàecispinge
di rivoluzione in rivoluzione
finoallafinedeisecoli?»7.
Per
la
stragrande
maggioranza dei filosofi,
tuttavia,siimponeunascelta.
«O sbadigliare, o essere
euforici», dice Diderot. «La
vitaèsolonoia,oppurepanna
montata»,affermaVoltaire.Il
filosofo di Fernay è egli
stesso un inquieto che «va in
bestia», come scrive alla sua
amica Madame du Deffand,
la quale, dal canto suo, si
consuma nella noia: «Mi
scrivete che vi annoiate, e io
vi rispondo che vado su tutte
lefurie.Eccoiduepernidella
vita,l’insipidezzaoilvuoto».
Il fatto che l’uomo sia «nato
per
vivere
nelle
convulsionidell’inquietudine,
o nel letargo della noia», è
l’idea espressa in modo
pittoresco nella fine di
Candido
ovvero
dell’ottimismo: «E quando
non si disputava, era così
eccessiva la noia che la
vecchia osò un giorno dir
loro:-Iovorreisaperequalè
la peggiore cosa, o l’essere
offesa cento volte dai pirati
negri, il passare per le
bacchette fra’ Bulgari, l'esser
frustato e impiccato in un
auto-da-fè,
l'essere
notomizzato, remare in
galera, provare infine tutte le
miserie che noi abbiamo
passato,oppureilrestarquia
nonfarniente.-Questaèuna
gran
questione,
disse
Candido». Alla vigilia della
Rivoluzione,
Sénac
de
Meilhan formula quest’idea
in modo più diretto ne
L'émigré. «L’uomo viene
attirato in senso contrario da
due propensioni opposte:
l’orrore della noia e l’amore
del riposo; la grande arte è
riuscire a sfuggire all’uno
senza
offuscare
troppo
violentemente l’altro, trovare
unaviadimezzofrailletargo
elaconvulsione».
Dell’inquietudine
viscerale
La domanda ora è se
questainquietudinecollettiva,
chesecondoalcuninonhapiù
molto a che vedere con ciò
cheLockechiamava«lostato
diunuomochenonsisentea
proprio agio», permetta di
trasformare
il
mondo.
Rifiutando l’interpretazione
religiosa, i filosofi tentano di
comprendere questa forma
del mal di vivere, non senza
una
certa
confusione.
L’Encycolopédie la descrive
come«unsintomodimalattia
più comunemente designato
nel linguaggio ordinario dai
termini ansia, angoscia,
lattazione, ecc.». L’ansia
rimanda
invece
all’inquietudine
e
all’angoscia,cheasuavoltaè
«una
sensazione
di
soffocamento,dipalpitazione
e di tristezza». La lattazione,
invece, «si ha quando i
malati,essendoestremamente
agitati, non riescono a
mantenere
lo
stesso
atteggiamento a lungo [...];
presentano una fisionomia
triste che li porta spesso a
sospirareegemere;[...essa]è
pressappoco
uguale
all’ansia,all’inquietudine».
Il dottor Louis de Lacaze
cerca di chiarire le cose nel
suoTempledubonheur,dove
fornisce
una
curiosa
spiegazione. Quando l’uomo
provapaura,ilsuocervellosi
concentra sulle precauzioni
da prendere e allenta il
controllo sugli organi. Il
diaframma, che in condizioni
normali comprime la massa
intestinale, ne causa invece
ladilatazione,provocandoun
effettosgradevole:ècosìche
«siformae[...]siaccrescela
sensibilità, la delicatezza del
centro diaframmatico, e di
conseguenza lo stato di
agitazione, di tristezza, di
timoreodiffidenzachesipuò
spesso
osservare
nelle
persone dominate dalla
paura»8. Questo stato genera
quindi una «sensazione
abituale di inquietudine». Ci
troviamo in un circolo
vizioso: la paura produce
agitazione, che a sua volta
genera nuove paure, ecc.
Daquinascel’espressionedi
«stampo
delle
paure»
utilizzata da Lacaze: «Tale
disposizione può essere vista
come una specie di stampo
delle paure che, a seconda
dell’aggravamento
della
condizione fisica, ne produce
continuamente di nuove,
senza che esistano reali
motivazioni»9. I rimedi che
propone Lacaze riguardano
l’igiene di vita e ricordano i
consigli di Burton: fare
esercizio fisico, evitare la
meditazione eccessiva, avere
ambizionilimitate.
L’inquietudine, che in
Pascal era un segno di vuoto
spirituale e un desiderio di
Dio, diventa quindi volgare
paura con Lacaze. Questa
perdita di dignità sarà
confermata alla fine del
secolo da Bichat, il quale
sostiene,
nelle
sue
Recherches physiologiques,
che«tuttociòcheattienealle
passioni appartiene alla vita
organica», in particolare alle
viscere10, e poco dopo da
Pinel, il quale vede
nell’inquietudine,
insieme
alla tristezza e al dispiacere,
uno dei sintomi delle crisi
maniacali11.
Le persone che risultano
essere maggiormente a
rischio sono gli adolescenti,
poichéturbatidallapubertàe
dalla costante ricerca di un
oggetto di cui ignorano la
natura. Tale oggetto, nella
fattispecie, è Dio, spiegano
gli apologeti, che vedono in
questaricercaunsegno,quasi
una prova dell’esistenza
dell’Essere
assoluto.
Tale oggetto è l’unione
sessuale e non l’unione
mistica, ribattono invece i
filosofi più audaci. Scrive
Diderot che arriva un
momento «in cui quasi tutti i
ragazzi e ragazze cadono
nella
malinconia;
sono
tormentatidaun’inquietudine
sottile che coinvolge tutto e
che non trova nulla che la
plachi. Essi cercano la
solitudine;
piangono,
il silenzio dei conventi li
tocca; l’immagine della pace
chesembraregnarenellecase
religiose
li
seduce.
Confondono i primi sintomi
diuntemperamentochesista
sviluppando con la voce di
Dio che li chiama a sé, ed è
proprio quando la natura li
sollecitacheessiabbracciano
un genere di vita contrario al
desiderio della natura»12.
Ecco che l’inquietudine
scendeancoradiunlivello,ci
troviamo ora all’altezza del
bassoventre.PerDiderot,ma
anche per Rousseau o per
ilcardinaledeBernis,ilquale
analizzalapropriaesperienza
di vocazione religiosa, il
cristianesimo ha snaturato,
nel senso etimologico del
termine, il subbuglio della
pubertà, attribuendo a un
richiamo divino ciò che è un
semplicerichiamosessuale,e
sfruttando
questa sublimazione per
reclutareilproprioclero.
Le donne, a causa della
loro complessione, sono
ancora più soggette a questo
genere di inquietudine,
afferma Pierre Roussel nel
suo Sistema fisico e morale
della donna : «Un’altra
qualità fisica concorre a
rendere più mobili le parti
sensibili della donna: è il
loro tipico grado di
flaccidità»13. Ancora più del
ragazzo, la giovane donna
prova, durante la pubertà,
delle «dolci inquietudini»:
«Questo nuovo stato causa
nella giovane donna una
sovrabbondanza di vita che
cerca di espandersi e di
comunicare. Ella avverte tale
bisogno attraverso dolci
inquietudinieslancichesono
lavocetirannicaedolcedella
voluttà»14. Le donne, scrive
Diderot, «in età adulta sono
ridotte al silenzio, soggette a
unmalesserechelepreparaa
diventare mogli e madri:
tristi, inquiete, malinconiche,
alfiancodigenitoriallarmati
non solo per la salute della
loro figlia, ma anche per il
suo carattere: poiché è in
questo istante critico che una
giovane donna diventa ciò
cheresteràpertuttalavita»15.
In Rousseau, l’inquietudine
femminile diventa il tema
delle
dispute
religiose. Precedendo Marx,
egli attribuisce a M. de
Wolmar la formula secondo
la quale la religione è
«l’oppiodelledonne»16.
L’inquietudine coinvolge
anche le persone anziane.
Passata una certa età, scrive
Feucher d’Artaize, discepolo
di Rousseau, «per quanto
l’uomo si guardi intorno e
cerchi
affannosamente
consolazione,
nulla
lo
rassicura, tutto lo spaventa e
lodilania»17.
I sintomi di tale
inquietudine
assomigliano
molto alla descrizione che
Burton
faceva
della
malinconia, il termine stesso
viene
peraltro
ancora
utilizzato. Coloro che ne
soffrono
sono
«tristi,
sognatori, inquieti, costanti
nello studio e nella
meditazione,
capaci
di
sopportareilfreddoelafame;
hanno il viso austero, il
colorito scuro, bruno, il viso
costipato»,
secondo
l'Encyclopédie;
sono
«ingegnosi, costanti, ostinati,
pensierosi, inquieti, timorosi,
taciturni, tristi, lenti ad
agire»18 secondo Quesnay;
sono «tristi, sognatori, agitati
e
timorosi»19
secondo
Antoine Le Camus, che è
anche il primo a osservare
che la malinconia non è
necessariamente un handicap
e che anzi favorisce persino
una visione realistica delle
cose: «Questa timidezza e
questo dolore non sono poi
quei grandi mali che ci
si immagina. Perché l’anima,
poco distratta dagli oggetti
che la circondano, si occupa
solodellefantasticherieutilie
valuta tutto secondo il giusto
valore»20. Nel 1770, JeanFrançois Dufour insiste
sempre sulla paura e la
tristezza
che
si
impadroniscono degli animi
inquieti: «Ecco perché i
malinconici
amano
la
solitudine e rifuggono la
compagnia, ciò li rende più
attaccati all’oggetto del
loro delirio o alla loro
passione
dominante,
qualunque
essa
sia,
mentre appaiono indifferenti
rispettoalresto»21.
Causeerimedi
Le
descrizioni
non
cambiano,maincompensole
spiegazioni si evolvono. In
questo secolo della ragione
vedono la luce teorie dotte, e
il loro numero lascia pensare
che il mal di vivere si celi
anche
nei
personaggi
infiocchettati e imparruccati
dell’epoca.
Inoltre,
tutte vengono elaborate da
medici,eanchequestorientra
nellospiritodell’Illuminismo.
Lachiavedelcomportamento
umano
si
trova
nel funzionamento della
macchina fisiologica e delle
relazioni sociali. Filosofi e
teologi dipendono ora dalle
scoperte mediche. La scienza
progredisce,
certo,
ma
attraverso una moltitudine di
tentativicheaprononumerose
pistefalse.
AllafinedelXVIIsecolo,
ilmedicoThomasWillisapre
la strada alla teoria maniacodepressiva, mostrando che la
malinconiapuòdegenerarein
furore e provocare crisi
suicide. La causa sarebbe un
movimento disordinato degli
spiriti animali, che va a
colpire
il
corretto
svolgimento delle funzioni
del cervello facendolo fissare
suunsolooggettoeportando
quindilapersonaaunaforma
di delirio22. All’inizio del
XVIII secolo l’olandese
Hermann Boerhaave riprende
l’idea che la malinconia sia
«un delirio lungo, persistente
e senza febbre, durante il
quale
il
malato
è
continuamente pervaso dal
medesimo
pensiero»23.
Secondo la sua teoria, detta
«iatromeccanica», il corpo è
una macchina diretta dal
cervello,cheinviaagliorgani
unliquidonervosotrasportato
dal sangue. Se il sangue è
troppo grasso, o se il liquido
nervoso
non
è
sufficientemente abbondante,
la macchina non funziona
correttamente e provoca
malinconia.
Boerhaave stabilisce quindi
un legame fra malinconia e
circolazione del sangue e
sostiene che gli intellettuali
sianoparticolarmentesoggetti
alla malinconia, poiché la
riflessione intensa mobilita
unagrandequantitàdiliquido
nervoso e la mancanza di
esercizio fisico disturba
l’equilibrio dei componenti
del sangue. Il Dizionario
universale di medicina di
James, i cui sei volumi sono
stati tradotti in francese tra il
1746 e il 1748, riprende una
spiegazione simile: se il
sangue e gli umori circolano
in maniera irregolare, il
cervello, sede di tutte le
funzioni immaginative e
intellettuali, viene intaccato
nella
sua
regolarità.
Ritroviamo la stessa teoria
nel De melancholia et
morbis melancholicis di
Anne-Charles
Lorry,
pubblicato nel 1765, secondo
il quale questo stato può
provocare suicidi passivi per
«semplice inerzia e tetro
stupore».
Anche Quesnay afferma
che la malinconia sia la
conseguenza di una scarsa
circolazione del sangue
attribuibile al cattivo stato
dei vasi. Antoine Le Camus
sostienecheprovengasiadal
sangue cattivo che dal
pessimostatodeivasi:«Ivasi
stretti e rigidi, il sangue
spessoevischioso,dacuigli
umori si separano con
difficoltà»24. È per tale
ragione che i malinconici
sono caratterizzati da «un
colorito scuro e giallo, dai
capelli neri, la pelle ruvida e
l’estremamagrezza».
NellasuaStorianaturale,
Buffon tira in ballo i
«vapori». Parlando dell
'Homo duplex, egli mostra
come
il
suo
umore
vengaguidatodadueprincìpi
contraddittori: «Il primo è
una luce pura accompagnata
dacalmaeserenità,unafonte
salutare da cui emanano
scienza, ragione e saggezza;
l’altro è un falso chiarore
che brilla solo con la
tempesta e nell’oscurità, un
torrente impetuoso che
imperversa, trascinando con
sé le passioni e gli errori».
Quandoèilsecondoprincipio
adominare,vengonoprodotti
i cosiddetti «vapori». Mentre
quando i due princìpi si
affrontano
con
uguale potenza, l’individuo è
colto dalla tentazione del
suicidio: «Questo è il punto
della noia più profonda, del
disgusto di se stessi che
noncilasciaaltrodesideriose
non quello di cessare di
essere e che ci permette quel
tanto di azione che basta per
distruggerci,
ritorcendo
implacabilmente contro noi
stessi le armi del furore».
L’uomodivieneallora«ilpiù
infelice di tutti gli esseri», la
sua volontà viene annientata
edèirresistibilmentespintoal
suicidio. Ancora nel 1785 il
dottor Andry, nelle sue
Recherchessurlamélancolie,
distingue tre tipi di stati
malinconici, fra cui due
conducono
alla
morte
volontaria:
il
delirio
maniacale e l’ipocondria
acuta.
L’ipocondria
sarebbe
responsabile delle tendenze
suicide. Essa viene spesso
chiamataincausadaRichard
Blackmore
che,
nel
suo Treatise of Spleen and
Vapours, or Hypocondriacal
and Hysterical Affections
(1752) l’ha definita, al pari
dell’isteria, una «costituzione
morbifica degli spiriti». Nel
1755, il tedesco Alberti
stabilisce il legame fra
l’ipocondria e il desiderio di
morte in De morbis
imaginariis
hypocondriacorum.Nel1767,
nel suo celebre Observations
on the Nature, Causes and
CureofthoseDiseaseswhich
have been commonly called
Nervous, Hypochondriac, or
Hysterical
(1767),
Robert Whytt propone una
classificazione dei disordini
comportamentali e considera
«lo
scoramento,
l’abbattimento, la malinconia
o persino la follia»25 sintomi
dell’ipocondria.
Per lottare contro queste
malattie nervose esistono
delle cure. Contro «la
debolezza, lo scoramento e
l’abbattimento»,
Whytt
consiglia in particolare la
china; il tartaro ha invece
proprietà detergenti per
sbloccare le vie circolatorie:
«Per quanto ho avuto
occasione di notare, il tartaro
solubile è più utile nelle
affezioni
maniacali
o
malinconiche
che
dipendono dagli umori
nocivi».
Joseph
Raulin, autore di un trattato
sulle «affezioni vaporose»,
consiglia invece diversi
ingredienti
dai
poteri,
teoricamente,
dissolventi,
comelafuligginedeicamini,
idecottidionisco,lapolvere
delle zampe di gambero e il
«bezoar gioviale»26. Altri
medici vantano le virtù dei
bagni doccia27. Per dissipare
leideefissemolticonsigliano
anche i soggiorni in
campagna e la musica.
Quanto agli spettacoli e
airomanzi,laloroefficaciaè
controversa, ma la maggior
parte delle volte viene
giudicata nefasta. Il teatro
esalta
l’immaginazione
inmodosregolato,soprattutto
nelle
donne,
che
si
infiammano facilmente per
passioni immaginarie. Anche
l’eccesso
di
lavoro
intellettuale, che indurisce il
cervello, può avere effetti
nefasti. Nel 1778 Tissot
ammonisceisuoicolleghisui
pericoli
che
corrono
nell’opera Avis aux gens de
lettressurleursauté.
A queste diverse cause
fisiologiche
occorre
ricollegare la spiegazione
basata sul clima. L’inglese
George Cheyne mostra come
il clima oceanico, fresco,
umidoeinstabilecontribuisca
alla
pene-trazione
di
gocciolined’acquanellefibre
delcorpoumano,causandone
la perdita di stabilità e
predisponendole alla follia
suicida. La presupposta
influenza della luna deve
essere classificata tra lo
stesso tipo di cause. Il tema
dellunatismo,spessoevocato
nei secoli XVI e XVII, più
raro nel XVIII, riappare
infattineglianni’80del1700
sottounaformadiversalegata
allameteorologia:itrattatidi
Toaldo (1784) e di Daquin
(1792)28
presentano
l’influenza
della
luna
sull’atmosfera come una
causa di deregolamentazione
delcervelloinalcunisoggetti
predisposti.
Alivellogenericotuttigli
eccessi,chesitrattidiattività
mentali o fisiche, sono
considerati fenomeni di
disturbo per il cervello e in
grado di generare malinconia
e
mania
suicida.
L'Encyclopédie, al lemma
«Mania», fornisce numerosi
esempi:
«Le
passioni
dell’anima, la concentrazione
mentale, gli studi forzati, le
meditazioni profonde, la
collera,latristezza,lapaura,i
dolori protratti e cocenti,
l’amoredisdegnato».
Lamalinconia,dal
disprezzoallarinascita
Sempre presente come
una patologia, la malinconia
hapersoilprestigiodelquale
aveva goduto alla fine del
XVI secolo; essa è temuta
persino perché considerata
più o meno come una forma
di follia dolce, che può
condurre al suicidio. In
Inghilterra gli ambienti
conservatori la attribuiscono
aldistaccodaivalorireligiosi,
aimisfattidellavitamoderna,
aldeclinodellamorale.Molti
vi vedono un segno di
depravazione, come il dottor
Samuel Johnson, che ha
conosciuto e superato in
prima persona la malinconia.
Sempreprontoadarelezioni,
egli è convinto che l’eccesso
di comodità indebolisca la
resistenza. «In Scozia, narra,
dovelagenteingeneralenon
vive né nell’opulenza né nel
lusso, so che la follia è
molto rara». Il reazionario
Edmund Burke è categorico:
«La
malinconia,
la
depressione,ladisperazionee
spesso il suicidio sono le
conseguenze dalla tetra
visione delle cose prodotte
dal
nostro
stato
di rilassamento. Il rimedio
migliore a tutti questi mali è
l’eserciziofisicooillavoro».
John Brown osserva: «La
nostra vita effeminata e
rilassata,unitaalnostroclima
insulare, ha provocato un
aumento della depressione e
deidisturbinervosi»29.
George Cheyne, come
abbiamo appena visto, pensa
che il clima britannico abbia
un’influenza
nefasta,
spiegazione
peraltro
alla moda nella prima metà
del secolo, a cui si allineano
Montesquieu e persino un
autentico dotto, César de
Saussure:
nel
1727,
disgustato
dal
clima
londinese, egli scrive che, se
fossestatoinglese,sisarebbe
suicidatodaparecchiotempo.
Cheyne
aggiunge
tuttavia anche altre ragioni
per spiegare la malinconia ai
suoi
compatrioti:
il
riscaldamento a carbone, il
consumo di carne di manzo
poco cotta, il disordine
morale,
l’ateismo.
Su
quest’ultimo punto, tutti
i detrattori dell’Illuminismo
concordano: i popoli sono
demoralizzati dal progresso
dello spirito filosofico. Sin
dal 1699 la principessa
Palatinascriveva:«Lafedesi
è spenta in questo paese, al
punto tale che non si trova
più un solo giovane che non
voglia essere ateo [...]; si
sostienepersinochel’elevato
numero di suicidi che stiamo
conoscendo
dipenda
dall’ateismo [...]. Solo lunedì
scorso, un avvocato di Parigi
sièsuicidatonelproprioletto
con un colpo di pistola»30.
Qualche anno più tardi padre
Lamy osserva: l’aumento
dei suicidi «è un effetto
dell’epicureismo»31.
È chiaro che le forze
religiose e conservatrici
diffidino della malinconia
profonda, ma anche i
sostenitori dell’Illuminismo
la considerano come una
forma di malattia mentale.
Coloro che soffrono di gravi
disordinimentalisonospesso
rinchiusi e sottoposti a cure
spaventose. Gli altri sono
vittime
del
sospetto
circostante.
Certo, gli Illuministi
preferiscono l’inquietudine
alla
malinconia.
Ciò
nonostante, un filosofo
tedesco, probabilmente il più
grande del secolo, già nel
1766 intona il più bell’inno
alla malinconia che sia mai
stato scritto, annunciando il
male del secolo romantico.
Incarnazione della ragione,
Immanuel Kant ne ha visto
chiaramente i limiti, li ha
analizzati e criticati, ed è
sicuramente il più indicato
peracclamarelanuovastella.
Solo il malinconico può
raggiungere
la
vetta
dell’estetica e della morale.
Egli tende al sublime, anche
se triste e stanco della vita,
poichélasuacoscienzaacuta
del bene e del male gli
conferisceglistrumentiadatti
per
misurare
l’odiosa
piccolezza della condizione
umana:
La persona il cui
sentire
tende
al
malinconico non viene
così definita perché,
priva delle gioie della
vita, si strugge in una
oscura malinconia, ma
perchélesuesensazioni,
quando si dilatano oltre
una
certa
misura,
o
imboccano
una
direzione
errata,
approdano a questa
tristezza dell’anima più
facilmente che ad altre
condizioni di spirito. È
melanconico
ha
dominante il sentimento
del sublime. Persino la
bellezza,allaqualeegliè
altrettanto sensibile, non
tende
soltanto
ad
affascinarlo
ma,
ispirandogli
ammirazione,
a
commuoverlo.
Il
godimento del piacere è
inluipiùcomposto,non
perquestomenointenso;
ma ogni commozione
suscitata dal sublime ha
per
lui
maggiore
attrattiva di tutti gli
affascinanti allettamenti
del bello. [...] È
perseverante, e per
questo subordina le sue
sensazioni
ai
princìpi. [...] L’uomo di
temperamento
melanconico si cura
poco di ciò che gli
altripensanooritengono
buono o vero, egli si
basa soltanto sul suo
criterio di giudizio; dal
momento che i moventi
delle
sue
azioni
prendonoinluilanatura
di princìpi, non è facile
fargli cambiare il suo
modo di pensare; la sua
fermezza si tramuta
talvolta
anche
in
ostinazione
[...].
L’amicizia è sublime e
perciò si addice al suo
modo di sentire; può
forse perdere un amico
incostante, ma questi
non perderà lui con
altrettanta
rapidità. Persino il
ricordo di un’amicizia
ormai spenta è per lui
ancor
degno
di
considerazione. [...] Egli
è un buon custode dei
segretipropriealtrui.La
veracità è sublime ed
egli odia le menzogne e
la dissimulazione della
natura umana [...]. Non
prova indulgenza per
alcun basso servilismo e
la libertà spira nel suo
nobile petto. Tutte le
catene, da quelle dorate
che si portano a corte
sino al pesante ferro dei
galeotti, sono per lui
odiose. È un severo
giudice di se stesso e
degli altri e non di rado
avverte tedio di sé e
delmondo32.
Questo testo introduce il
trionfo della malinconia
romantica che i pittori
iniziano a personificare nei
trattidiunadonnalanguidae
meditabonda, come nei
quadridiFrançoisLagrenéeo
nei ritratti aristocratici di
Reynolds.
Ildolorediesistere
Il secolo dei Lumi ha
trascurato la malinconia a
vantaggio dell’inquietudine,
tuttavia anche quest’ultima è
una forma di mal di vivere.
Unadellegrandiossessionidi
questo secolo è stata la
ricerca della felicità, che si
rivelerà ben presto una
chimeracapacediridurrealla
disperazione i suoi adoratori.
Alle radici della sua
conquista e del suo
raggiungimento vi è la forte
convinzione che la vita sia
anzitutto
sofferenza.
Quest’idea, che era verità
teologica nel Grand Siècle,
viene secolarizzata dagli
Illuminsti,
che
in
qualche
modo
la
interiorizzano.Perlamaggior
parte degli intellettuali,
di qualunque sensibilità, il
mal di vivere costituisce il
tessuto stesso dell’esistenza,
sotto qualsiasi forma esso si
manifesti:
«Esistiamo
di un’esistenza povera,
contenziosa, inquieta», scrive
Diderot. La noia, questo
«vuoto tremendo», è sempre
inagguatosiapergliscrittori
che per i personaggi dei
romanzi; la malinconia ne
attanagliamolti,mentreisuoi
«vapori» colpiscono in
particolare
le
donne33. L’inquietudine non
risparmia nessuno e non si
esprime unicamente nei
romanzi, dove gli eroi si
forgiano un destino di
sventurachetrasfiguraleloro
prove e dona loro la forza di
amare:
«Quale
fonte
inesauribile
di
sensibilità è la sofferenza!»,
leggiamo
nelle
Réflexionsd’unjeunehomme
(1786). Le memorie e le
cronache del bel mondo e
degli ambienti equivoci
traboccano di storie patetiche
di personaggi che si
consumano nella malinconia
inseguitoaunadisgraziaoa
unamalattia:M.dePomereu,
tubercolotico
a
venticinqueanni,sirinchiude
con «un’ossifraga34 viva che
era sempre posata sulla sua
scrivania; questo animale
silenzioso e triste gli
piaceva»; M. d’Argenson
muore nel 1721 «della
malattia del ministro caduto
in disgrazia, una specie di
spleen da cui quasi tutti
vengono colti e di cui la
maggior parte perisce»35; la
marchesa di Prie si spegne a
ventinove anni, nel 1727,
«dopo essersi trascinata per
quindicimesinelsuoesilio»;
Rousseau portava in giro la
sua tristezza a Charmettes e,
nel 1770, confessa: «Se
quaggiùmivenissechiestodi
scegliere ciò che voglio
essere,risponderei:morto».
Questo
secolo,
considerato leggero, è invece
ossessionatodallamorteedal
suo fornitore principale, il
tempo.
Robert
Favre
hadedicatoaquestotemaun
magnifico studio su come
quest’epoca di piaceri sia
stata in realtà un’epoca di
paure36. Si potrebbero citare
centinaia di esempi che
denotano la sensazione di
soffocamento, come questo
versodid’Alembert:
Un instant ici-bas
nous venons pour
souffrir,
Jeter autour de nous
unregardetmourir37.
Nella seconda metà del
secoloilfascinoperlerovine,
le tombe, i monasteri e la
solitudineconferisceunostile
crepuscolareaquestacultura,
evocata da Loaisel de
TréogatenellesueSoiréesde
mélancolie (1777), in cui
l’eroe esclama: «Non posso
piùrespiraresottouncielodi
piombo». Il fascino per i
mostri,icimiterieilmacabro
ingeneraletraduceundisagio
descritto da Dorat nel suoLe
malheureux
imaginaire
(1777): «E sufficiente gettare
uno
sguardo
attento
sul quadro della società per
vedervi regnare questo
tormento, questa agitazione,
questodelirioinquietodiuna
fantasia
malata
che
produce fantasmi, che non
crede a nessuno dei beni di
cui gode, che realizza tutti i
mali che prevede, si agita
dolorosamente in mezzo alle
delizie e si avvelena alle
stesse fonti da cui dovrebbe
provenire l’antidoto»38. Il
principe
di
Ligne,
apparentemente
felice,
sostieneditrascorrerenottidi
tormento e agitazione, con
sogni pieni di «lamenti», di
«urla», di «furore». Scrive
Robert Mauzi: «Queste
diverse forme di disagio
dell’animadenotanounacrisi
profonda. L’esistenza e la
coscienza si dissociano.
L’esistenza pura viene messa
a
nudo
e
affiora
prepotentemente.
Essa
diviene cupa, anarchica; la
coscienza non riesce più a
occuparsene,
a
stabilizzarla»39.
Il tempo scorre, a scapito
di Chénier, Ducis, Léonard,
Diderot, Mme de Lambert e
tanti altri, come Sébastien
Mercier che, per questo
motivo, ha orrore degli
orologi: «Su tutti i camini ci
sono pendoli a sproposito, è
una moda lugubre. Non c’è
niente di più triste da
contemplare che un pendolo:
ci si vede scorrere dentro
la propria vita»40. Alcuni
precipitano nella nevrosi,
comeilfigliodelReggente,il
duca d’Orléans, che arriva a
negare la nascita e la morte,
sospeso in una durata
atemporale: «La sua mania
non si limitava a credere che
non si morisse, ma si
estendeva
persino
alle
nascite,cuinondavamaggior
credito»41. Egli rifiuta di
accettare la morte della sua
amante così come la nascita
deisuoibambini.
Molti rimpiangono di
esserenati,persinoilvescovo
Le Franc de Pompignan,
fortementecontrarioalleidee
dei filosofi. Di seguito un
esempiodellesueinvettive:
Que l’homme est
malheureux! Que sa vie
estcruelle!
Il naìt comme la
fleur,ilestfoulécomme
elle;
Ses maux sont mille
fois plus nombreux que
sesjours[...]
Dieu qui m’as
condamné,
pourquoi
m’as-tufaitnaìtre,
Si je dois à jamais
souffrir?42.
Il culto dell’infelicità si
esprime in abbondanza nei
romanzi, dove le decine di
eroideploranoilgiornodella
loro nascita. Ci si può
chiedere,aquestopunto,sesi
tratti di letteratura o posa.
Si potrebbe pensare a un
fenomeno di moda, a
giudicaredall’elevatonumero
dicasi.Èpurveroperòchela
moda cela sempre un pizzico
diautenticità,tantopiùchesi
aggiunge a altri segnali
tipici, come ad esempio il
rifiuto di mettere al mondo
nuovevittime.
Nella sua opera Loisirs
philosophiques (1756), Jean
Blondel narra che «quando
gli venne proposto di
sposarsi, il maresciallo
de Gassion rispose che non
aveva abbastanza stima della
vita per condividerla con
qualcuno»43. Dorval, ne Il
figlio
naturale
di
Diderot, rifiuta di diventare
padre
poiché
ciò
significherebbe
gettare
un essere umano «in un caos
di pregiudizi, di stravaganze,
di vizi e di miserie». Queste
amare osservazioni non sono
appannaggio
dei
soli
intellettuali:
stando
al
marchese di Argenson, i
giovani contadini della
Turenna pensano «che non
valga la pena di far
nascere degli infelici come
loro».
Diononc’èpiù,oquanto
meno si è allontanato. I
filosofi si trovano ad
affrontare
un
vuoto
angosciante e a chiedersi
quale sia il senso della vita,
dadoveprovengatuttaquesta
infelicità
umana. L’accumularsi delle
catastrofi
accresce
lo
sgomento,dimostrandochela
natura non è decisamente
miglioredelDiovendicatore.
Sostenitori
e
detrattori
dell’Illuminismo discutono
sul significato da attribuire
alle catastrofi naturali, della
cui ampiezza e frequenza si
prende coscienza forse per la
prima volta. L’avvocato
giansenista Le Paige (17121802) colleziona le relazioni
sui cataclismi inviate dai
mercantiediplomaticiditutta
Europa. La cronaca pullula:
maremoto nella valle del
Gange nel 1737; distruzione
diLimaedelportodiCallao
a causa di un terremoto nel
1746; sisma in Francia nel
1750; passaggio di meteore
nel 1754; terremoto di
Lisbona nel 1755 (che causa
centomila morti e le cui
ripercussioni si estendono
finoalMarocco,conottomila
vittime a Meknès e tremila a
Fès);
inondazione
del
Danubionel1756;incendioa
La Fère-Champenoise nel
1776;terremotoinSicilianel
1783. Grazie al progresso
della
stampa
e
all’accelerazione
delle
comunicazioni,
i
contemporanei
hanno
l’impressionecheledisgrazie
simoltiplichino;ciòportaLa
Paigeadaprirelasuaraccolta
con un inquietante discorso
sui «segni e i flagelli della
giustizia di Dio». Persino
le menti più razionali si
mostrano colpite. Nel 1755
spade fiammeggianti solcano
icielidiGermania,Svizzerae
Francia;unmercantefrancese
scrive
allora
al
suo
corrispondente di Lisbona:
«In Germania sono tutti
costernati
e
contriti,
camminano tremebondi e
temono che la collera del
Signore esploda, come è
successo in Spagna, in
Portogallo e in altri paesi.
Pregate dunque senza posa,
digiunateaffinchérisparmila
nazionefrancese»44.
Lo «spettacolo della
natura» non potrebbe essere
più divertente. Invece di
vedervi le meravigliose
realizzazioni
della
Provvidenza, Nicolas Gilbert
teme le foreste, «lugubri
asili»,coniloro«alberitristi
evotatiallamorte».Allafine
delsecolo,Senancourdecanta
nelle sue Reveries i paesaggi
selvaggi delle Alpi, ma
solo per dire che l’autunno è
l’immagine della nostra triste
condizione,
di
«questa
terribilenecessitàchecreaper
poidistruggere».
Ilpessimismo
dell’Illuminismo
L’austero
Maupertuis,
inventore
dell’espressione
«mal di vivere», osserva che
«nella vita ordinaria, la
sommadeimalisuperaquella
dei
beni».
«Tutti
i
divertimenti degli uomini
dimostrano l’infelicità della
loro condizione: qualcuno
gioca a scacchi, altri vanno a
caccia, ma è solo per evitare
le percezioni più dolorose».
Riscontriamo lo stesso
pessimismo presso l’autore
anonimo dei Dialogues des
animaux ou le Bonheur
(1762), che arriva ad
affermare che gli animali
sono più felici degli uomini.
Le Réflexions d’un jeune
homme (1786) accolgono lo
sfogo emotivo di Feucher al
pensiero di tutti i mali che
affliggono la vita umana:
«Invano l’orgoglio sussurra
di essere il sigillo della mia
grandezza, il principio della
mia forza, la causa della mia
regalità!Cosamiimportadel
vano trono della natura se
sonoinfelice!Èlafelicitàche
voglio, e se il bruto vive
meno sofferenze, allora
voglio essere al suo
posto!»45.
Meglio essere un animale
in effetti: più siamo sensibili
e intelligenti, più soffriamo,
osserva il principe di Ligne.
L’uomo semplice soffre
perchétaleèlanaturaumana;
ma l’uomo che pensa soffre
doppiamente poiché uomo e,
in quanto tale, consapevole
dell’umanità
sofferente.
Nessuna creatura ragionevole
può dirsi felice, sostiene
Nougaret, che esprime lo
sconforto di colui che è
appenasfuggitoallamorte:
Eccomi
gettato
nuovamente su questo
miserabile globo! Dovrò
continuare a percorrere
la penosa strada della
vita; faccio parte della
schiera degli esseri
sofferenti e infelici,
quando mi rallegravo di
veder distruggere la mia
fragile esistenza e di
addormentarmi
nella
notte del nulla. Devo
prepararmi a nuovi
dolori,
poiché
è
sufficiente esistere per
provare la sventura e le
sofferenzecontinueeper
essere dilaniato dagli
strali del dolore. Quale
creaturaragionevolepuò
dirsi realmente felice?
L’indigente
immerso
nella miseria e il ricco
chenaviganell’opulenza
non
hanno
forse
entrambi motivo di
afflizione? Se esistesse
unessereumanosempre
felice per il proprio
destino, la sua felicità
verrebbedisturbatadallo
spettacolo
degli
innumerevoli
mali
che tormentano i tristi
abitanti della terra.
Ahimè! Provavo così
tanto piacere nel sentire
arrivare poco a poco la
distruzione del mio
essere!46.
Chi meglio dei preti può
conoscere lo sgomento
umano? L’abate Trublet non
tradisce il segreto della
confessione
quando
racconta: «Ho trovato meno
felici o più infelici di quanto
credessi la maggior parte di
colorochemihannoapertoil
cuore, affidato le loro pene e
narrato la storia della loro
vita. I confessori sono a
conoscenzadimolticriminie
diinfelicitàsegrete;benchéa
confessarsi non siano certo i
piùmalvagieipiùtristi.[...]I
rimorsi e i pentimenti del
passato, i desideri e le
inquietudini per il futuro
vengono ad aggiungersi al
disgustoealmalcontentoper
il presente. La vita trascorre
così»47.
Questo mal di vivere ha
almenoilmeritodiaiutarcia
sopportarel’ideadellamorte.
Troviamo in questa fase
alcuni accenti già rilevati nei
libertinidelXVIIsecolo,che
sostenevanounatteggiamento
di tranquillo pessimismo. «È
bene
stabilire
qualche
principio atto a diminuire il
nostro attaccamento alla vita,
e di conseguenza a renderci
indifferenti alla morte»,
scrive il barone d’Holbach.
Di fronte alle disgrazie della
vita, Diderot afferma: «Non
esiste che una virtù: la
giustizia; non esiste che un
dovere: rendersi felici; non
esiste che un corollario: non
sopravvalutare la vita e non
temerelamorte».
Alla fine del secolo
Chamfort
infrange
un’ulteriore barriera: «I
flagelli psichici e le calamità
della natura umana hanno
reso necessaria la società, la
qualenonfacheaggravarele
disgrazie della natura. Gli
inconvenienti della società
hanno condotto alla necessità
di un governo, e il governo
accresce le sventure della
società. Ecco la storia della
natura umana». A questo
stadio la disperazione è
irrimediabile
e
porterà
Chamfortamettereinpratica
una delle sue massime:
«Vivere è una malattia, la
curaèlamorte».
Nel XVIII secolo si può
osservare un sorprendente
punto di convergenza tra
credenti e non credenti: il
disgusto per la vita terrestre.
«Valledilacrime»pergliuni,
sognoassurdoperglialtri,la
vitanonvalelapenadiessere
vissuta e il più grande bene
che possiamo desiderare è la
morte che, per gli atei, si
affaccia sul nulla. La Mettrie
è categorico: «La morte è la
fine di tutto; dopo di lei, lo
ripeto, un abisso, un nulla
eterno; tutto è già stato detto
e fatto [...], la farsa è stata
recitata». Questa prospettiva
non è forse molto allettante,
ma la vita umana come la
descrive Diderot in una
lettere a Sophie Volland lo è
forsedipiù?
Nascere
nell'imbecillità,inmezzo
a grida e dolore; essere
preda
dell’ignoranza,
dell’errore, del bisogno,
delle malattie, della
cattiveria
e
delle
passioni; ritornare man
mano all’imbecillità, dal
momento
in
cui
balbettiamo fino al
momento
in
cui
farnetichiamo,viverefra
bricconi e ciarlatani di
ogni tipo; spegnersi fra
unuomocheviprendeil
polso e l’altro che vi
annebbia la mente; non
sapere
da
dove
arriviamo, perché siamo
arrivati
qui,
dove
andiamo: ecco ciò che
chiamiamo il presente
piùimportantedeinostri
genitoriedellanatura:la
vita48.
Per sfuggire a un simile
inferno,ipiùspaventatidalla
morte hanno un valido
sostituto, la droga. Il medico
La Mettrie loda le virtù
dell’oppio, che scopre nel
XVIII secolo: «Getta l’uomo
felice in uno stato tale che
sembradoveresserelatomba
del sentimento, per quanto
diventa l’immagine della
morte.
Quale
dolce
letargo!
L’anima
non
vorrebbe mai uscirne».
L’abate Galiani, autore
dei Dialoghi sul commercio
dei grani, non ne è meno
entusiasta. In una lettera del
1777, rassicura Madame
d’Epinay riguardo a sua
madre, che usa e abusa della
sostanza:
Ignorate forse che
tutto l’Oriente, vale a
dire almeno la metà del
genere umano, vive con
l’oppio, o per meglio
dire nell’oppio, fino alla
decrepitezza?
L’Occidente si serve del
vino
invece
che
dell’oppio, e ne trae lo
stesso vantaggio. Non
conoscete
alcuna
vecchia
ubriacona?
Ebbene, vostra madre
sarà
un’ubriacona
d’oppio [...]. Mettetevi
ben in testa che,
poichélavitanonèaltro
cheunammassodimali,
disofferenzeedidolore,
«Dio fece dell’inebriarsi
la virtù dei mortali».
L’oppio, il vino e il
tabacco, le tre droghe
più inebrianti, sono il
contravveleno della vita
degli
asiatici,
degli europei, degli
americani49.
La
lista
delle
testimonianzesulpessimismo
dei Lumi è davvero
interminabile. Esse sono così
numerose che ci si potrebbe
chiedere da dove sia potuta
arrivarelafamadileggerezza
e di gioia di vivere di questo
periodo. Certo, c’è stato un
primo XVIII secolo più
ottimista,quandoLeibniz,nel
1710, riteneva che «tutto è
perilmeglionelmiglioredei
mondi possibili». Filosofi e
teologi tentano di giustificare
e di minimizzare l’esistenza
del
male,
integrandola
nell’armonia
dell’universo,conloscopodi
mostrare che il peccato
originale era un peccato
felice, benefico, una felix
culpa50. Sin dalla fine degli
anni
’80
del
1600,
Malebranche considerava il
peccato originale una parte
necessariadeldisegnodivino:
Dio l’ha permesso per poter
ricreare un mondo migliore
attraverso l’Incarnazione di
suo Figlio che ha, in qualche
modo,
divinizzato
la
creazione: «Ad ogni modo
Diohaprevistoepermessoil
peccato. È sufficiente questo.
È una prova certa che
l’Universo restaurato da
Gesù Cristo valga di più del
medesimoUniversonellasua
primitiva
costruzione,
altrimenti Dio non avrebbe
mai lasciato corrompere la
propria opera. Questo è un
segno sicuro che il disegno
principale
di
Dio
è
l’Incarnazione del figlio»51.
Leibniz aggiunge, riguardo a
questo tema, che non solo il
peccato originale ha effetti
estremamentepositivi,maera
soprattutto
inevitabile.
Quando Dio crea, non può
che creare un essere
imperfetto,
altrimenti
creerebbesestesso,eidiversi
mali
contribuiscono
all’equilibrioglobale.
A
quest’epoca
in
Inghilterravièlatendenzaad
addolcire le conseguenze
dalla caduta originaria: il
peccato di Adamo scompare,
oppure viene ridotto a un
incidente di percorso dagli
effettisecondarimoltoleggeri
nelle teodicee elaborate da
Charles Blount, Mathew
Tindal, John Taylor, Conyers
Middleton,
Bolingbroke, Shaftesbury. I
platonici di Cambridge e i
latitudinari,
come
l’arcivescovo di Canterbury
JohnTillotson,affermanoche
lanostranaturaèintattaeche
l’istruzione è in grado di
ridurre le proporzioni del
male. Nel 1702 il vescovo
WilliamKing,nelDeorigine
mali, dimostra che il male
non è che una privazione,
un’assenza
necessaria
all’esistenza degli esseri
creati. Nel suo Essay on
Man,
Alexander
Pope
«ritocca» l’affermazione di
Leibniz, riequilibrando il
«tutto è bene» con «tutto è il
male minore possibile».
Anche se fra le due formule
c’è ben più di una semplice
sfumatura...
Anche i gesuiti, a modo
loro,
contribuiscono
al
mantenimento di un certo
grado
di
ottimismo,
difendendo lo «stato di
natura». A loro dire, il
peccato originale non ci ha
fatto perdere tutto. Dio ci ha
tolto
solo
i
doni
sovrannaturali elargiti alla
natura umana al momento
della creazione; ci resta
quindi il libero arbitrio. I
filosofi
della
prima
generazione, quella del
Mondain
di
Voltaire,
invecenonsannochefarsene
di questa storia del peccato
originale e sostengono che
l’uomo sia qui per trovare la
felicità
nei
piaceri.
L’Illuminismo, l'Enlightment
el'Aufklärung si ritrovano in
un ottimismo giovanile. La
storia culturale ha preso in
considerazione
soprattutto
questa prima parte del XVIII
secolo.
Nel 1755 tale ottimismo
viene messo in discussione
dall’AccademiadiBerlino,la
quale chiede di rivedere il
sistema di Pope contenuto
nell’affermazione: «Tutto è
bene». Si tratta dunque,
in
primo
luogo,
di
determinareilverosignificato
di
quest’affermazione,
conformementeall’ipotesidel
suo autore; poi di metterla
a confronto con il sistema
dell’ottimismo o della scelta
migliore, per sottolinearne
esattamente i rapporti e le
differenze; infine di definire
le ragioni ritenute più valide
nello stabilire o nel
distruggereilsistema.
Nello stesso anno si
verifica il terremoto di
Lisbona che, secondo Paul
Hazard, segna l’oscillazione
del secolo dall’ottimismo al
pessimismo: «A partire da
Candido, la sentenza viene
pronunciata e la causa
perduta»52. Robert Mauzi ha
contestato questa divisione
cronologica, mostrando che i
due atteggiamenti coesistono
lungo tutto il secolo, il quale
vede
apparire
simultaneamente
e
parallelamente sia le opere
più cupe che le più
illuminate: Prévost racconta
la vita piena di calamità di
Cleveland nel 1732, nel
momento
in
cui
Voltaire decanta le gioie
dell’esistenza; nel 1754
SavérienpubblicaL'Heureux,
treanniprimadiLeSpleendi
Bésenval; l’euforia più beata
del secolo, l’Essai sur le
bonheur di Beausobre, è
contemporanea di Candido, e
ÈHomme heureux di Le
Prévost
d’Exmes
viene pubblicato nel 1776, lo
stesso anno in cui Rousseau,
l’uomoinfelice,scrive:
Gettato
sin
dall’infanzia nel vortice
del mondo, apprendo di
buon’ora
con
l’esperienza che non ero
fatto per viverci e che
non sarei mai riuscito a
dare al mio cuore ciò di
cui aveva bisogno.
Avendo
dunque
smessodicercarefragli
uomini la felicità che
sentivo di non potervi
trovare, la mia ardente
immaginazione saltava
già oltre lo spazio della
mia
vita,
appena
cominiciata, come su un
terreno che mi era
sconosciuto, per posarsi
su un piano tranquillo
dovepotermifermare53.
«All’inizio del secolo si
crede nella felicità facile,
raggiungibile seguendo la
natura,
cioè
dando
soddisfazione agli istinti e
allepassioni.Malesensibilità
cambiano e, alla fine del
secolo, la felicità viene
concepita come il risultato di
una lotta perpetua contro
lanatura,controlepassionie
gli istinti: la felicità diventa
virtù, e la virtù è difficile da
raggiungere.
Il
capovolgimento
è
spettacolare e, in definitiva,
rivela nonostante tutto un
passaggio
dall’ottimismo
al pessimismo». Robert
Mauzi
parla
di
una
«mitologia dell’infelicità»54:
«Tuttavia, alla domanda se
l’uomo sia felice, sembra
proprio che la risposta sia
stata la maggior parte delle
volte negativa, poiché ci si
continua a porre altre due
domande:
“Perché
l’uomo non è felice se il suo
desiderio di esserlo è così
forte?”e“C’èforse,permera
ipotesi, un qualche modo per
diventarlo?”»55.
Esserefelici:
un’ossessionedegli
infelici
LafamadelXVIIIsecolo
come periodo felice è dovuta
inparteallaquantitàdiscritti
dedicati alla felicità: più di
una cinquantina di trattati
nellasolalinguafrancese.Ma
questa ossessione della
felicitànonèpiuttostoindice
di una mancanza? Come non
fareunparalleloconl’attuale
proliferazione di opere per
sconfiggere la depressione e
sul dovere di essere dinamici
e felici? L’ossessione della
felicitàuccidelafelicità.
Anche gli intellettuali
dell’Illuminismo
hanno
sottolineato questo punto:
«Sragionare tristemente sulla
felicità è il destino di
quasi tutti coloro che hanno
scrittoqualcosainproposito»,
commenta Grimm nel 1767,
mentre nel 1772 l’abate
Barthélémy
confida
a Madame du Deffand:
«Siamo infastiditi da tutti
questi trattati, da tutti questi
poemi sulla felicità composti
da
uomini
comuni
tremendamente tristi». Che
utilità possono avere, si
chiedeHolbach:«Nulladipiù
vago, di più affliggente, di
più impraticabile dei consigli
elargiti dalla maggior parte
dei moralisti può portarci a
essere felici». Prendete
Maupertuis, un uomo «cupo,
irascibile, nemico di tutti i
talenti che non aveva», a
detta di Delisle de Sales,
ebbene, «Maupertuis, che ha
credutopertuttalavitaeche
probabilmente ha dimostrato
di non essere felice, ha
appenapubblicatounoscritto
sulla
felicità»,
nota
ironicamente Montesquieu,
egli stesso autore di alcuni
paragrafi sul tema in Miei
pensieri. Tuttavia il risultato
non è così probante: «Dopo
avere letto Maupertuis,
vorrete quasi essere morti»,
ironizza
Madame
de
Puisieux.
Quanto alla gente felice
chescrivesullafelicità,iloro
trattati, sostiene Diderot,
«non sono che la storia della
felicitàdicolorochelihanno
scritti».NelsuoDiscourssur
le bonheur, «Fontenelle ci
dice solo come Fontenelle
fosse felice», osserva SaintLambert. Delisle de Sales
rincara la dose: «Quando
scrive sulla felicità, tutto ciò
che insegna ai suoi
contemporanei è come fu
felice nella sua fredda
apatia». Helvetius, «favorito
anche dalla natura e
dall’ordine sociale, bello,
ricco, sensibile e sempre
amato», compone un poema
suLebonheur:chevantaggio
puòtrarredaunasimileopera
un uomo brutto, povero,
inacidito,nonamato,vecchio
emalato?
Ora, secondo il principio
generalmente ammesso nel
XVIII secolo, l’uomo è fatto
per essere felice. Lo diceva
già Bossuet che il solo
obiettivo dell’uomo era di
essere felice; lo ripeteva
Voltaire che la grande
questione, e la sola che
bisogna
prendere
in
considerazione, è di vivere
felici. Tutti ricercano la
felicità,perpoiaccorgersiun
giorno o l’altro che è
irraggiungibile o, peggio
ancora,cheèunmiraggioche
svanisce appena lo si tocca,
concetto che Madame de
Puisieux riesce a esprimere
conunabellaimmagine:«La
felicità è una palla che
rincorriamo quando rotola e
che allontaniamo con i piedi
quando si ferma». La felicità
risiede nella speranza della
felicità, vale a dire che in
realtà non esiste, o che è
talmente ridotta che esitiamo
a chiamarla felicità: «La
felicità è un momento che
nonvorremmoscambiarecon
il
non-essere»,
scrive
Montesquieu. E se la felicità
consistesse semplicemente
nelnonessereinfelici?«Non
c’è altra felicità al mondo se
non quella del nostro corpo
con i suoi cinque sensi in
buono stato e, per la nostra
anima, di avere un amico:
tutto il resto è una chimera»,
confida Voltaire alla sua
amica Madame du Deffand,
la quale approva: «Per me la
felicità consiste nel rifuggire
duemali,idoloridelcorpoe
lanoiadell’anima».
Persino il riso non è
sempre divertente. Il XVIII
secolo ha inventato lo humor
nero, come ha mostrato
André Breton mettendo
Jonathan Swift in vetta alla
sua Anthologie. I più
amareggiati sono proprio
coloro che hanno la
responsabilità di farci ridere,
comeicaricaturistibritannici:
ilsinistroGeorgeCruikshank,
l’acido Rowlandson, il cupo
James Gillray che, stanco di
questo mondo di folli, si
suicida nel 1815. In Francia
Figaro, frizzante plebeo
cheincarnalagioiadivivere,
confessa: «Mi affretto a
ridere di tutto per paura di
ossere
obbligato
a
piangerne»; e il riso di
Senancour fa eco a quello di
Democrito: «La vita mi
annoia e mi diverte. Andare,
alzarsi, fare tanto rumore,
preoccuparsi
di
tutto,
misurarel’orbitadellecomete
e, dopo qualche giorno,
sdraiarsilà,sottol’erbadiun
cimitero:
mi
sembra
abbastanza burlesco per
essere vissuto fino alla fine».
Poiché la vita è solo una
miserevole
farsa,
meglio riderne: «Trovare la
comicità delle cose le rende
già meno tristi», ed ecco
perché «cerco in ogni cosa il
carattere
bizzarro
e
ambiguo
che
possa
trasformarlainunrimedioper
le mie miserie [...]. Rido di
dolore e vengo considerato
unapersonaallegra».
Lafelicità:una
chimera?
Ci sono quindi persone
felici nel secolo dei Lumi?
Probabilmente
sì,
a
cominciare da Casanova.
Ecco uno che non è triste:
«Per alcune persone la vita
nonèaltrocheuninsiemedi
sventure,scrive.Machiparla
così è sicuramente malato o
povero, poiché se godesse di
buona salute, se avesse la
borsa ben piena, l’allegria
nel cuore, se avesse una
Cecilia o una Marina, e la
speranza in qualcosa di
sempre
migliore,
oh,
certamentecambierebbeidea.
Li considero dei pessimisti,
che possono essere esistiti
solo tra filosofi pezzenti e
teologi
disonesti
o
irascibili»56.
Persino
d’Holbach ammette che «per
quanto ne dica una teologia
tristeounafilosofiacollerica,
qualunque uomo che sappia
gioire, pur non trovando una
felicità completa in questo
mondo,
può
almeno
incontrarvi una torma di
piccoli piaceri fatti per
renderefelicelasuaesistenza
opercostituire,inqualunque
momento,
un
potente
diversivoallesuepene»57.
Entrambi hanno la vita
facile, è vero. Ma, assicura
Fromentin nel suo Traité du
bonheur(1706),tuttipossono
essere felici, i ricchi come i
poveri. Secondo Blondel
sarebbepersinopiùfacileper
i poveri, che non hanno
bisogno di molto per essere
felici; anzi, la maggior
partedellevoltesonoinfelici,
ma hanno la fortuna di non
saperlo:
Fatemi passare in
rassegna questa gente
grossolanaesenzalumi,
natanellecondizionipiù
abiette.
Presentatemi
questi uomini che
chiamate le infelici
vittime dei capricci del
destino e che hanno
conosciuto la miseria
sin dal giorno in cui
hanno aperto gli occhi.
Trascorrono la vita a
mangiare,
lavorare,
dormire e a rendere
infelici gli altri. Siate
certi che siete voi
adaverepiùpietàdiloro
di quanta ne abbiano
loropersestessi.Hanno
meno passioni perché
hannomenoidee,questo
è ovvio. L’abitudine a
soffrire fa loro perdere
quella di credere che
soffrono.Èunaspeciedi
ignoranza della loro
miseria; e se sanno di
essere infelici, lo sanno
più o meno quanto noi
sappiamo di dover
morire.
Ecco
un
comportamento
ammirevole
della
Natura: quando fa
nascere le persone nella
miseria, essa dona
lorouncarattereadattoa
sosteneretalecondizione
e
persino
a
dimenticarla58.
Inizialmente
l’abate
Trublet
sembra
accondiscendere: «Il numero
dipersonefelicisuperaquello
degli infelici? Credo di sì,
perché sono abbastanza
portatoapensarechevisiano
piùpersonefelicicheinfelici
negli strati sociali più bassi,
fra il popolo, gli artigiani, i
contadini,idomestici,ecc.La
maggiorpartedegliuominisi
trovainquestecondizioni.Se
il padrone non è felice, lo
sono i suoi servi, ed esistono
piùservichepadroni».Poisi
domanda:
tutti
questi
contadini dall'aria felice, lo
sarannopoiveramente?
Forse la penserei
diversamente
sulle
condizioni disagiate, se
le conoscessi meglio
[...]. Guardo il popolo,
questa folla di uomini
costretti ai lavori più
duri, questi contadini
che portano il peso del
giorno e del caldo, e
scorgo segni di gioia,
sentoilorocanti.Ilmio
cuore se ne rallegra,
poiché mi rendo conto
che, nonostante tutto,
sono felici. Mi avvicino
e mi congratulo per la
loroallegria.Maessimi
rispondono che cantano
solo per aiutarsi a
sopportare il lavoro, ad
addolcirlo e a distrarsi,
per sentire meno le loro
pene. Non cantano
perché sono felici, ma
per rallegrarsi un poco,
se possibile, o almeno
per non abbattersi del
tutto59.
Allo stesso modo gli
schiavi neri cantano i blues
nei campi di cotone, ma
questononsignificaperforza
chesianofelici.
Trublet ha almeno il
merito di essere consapevole
del problema, in questo
tempoincuilaclasseelitaria
non pensa a fare la
rivoluzione.Lamaggiorparte
dei filosofi, illuministi e
detrattori dell’Illuminismo
non si pongono il problema,
poichélafelicitànonpuòche
provenire dallo spirito. I
contadini, grezzi e incolti,
sononecessariamenteinfelici.
«In qualche modo potremmo
dire che il popolo provi solo
sensazioniecheilsentimento
glisiasconosciuto»(Madame
Thiroux d’Arconville); «Il
popolo è raramente felice,
poichéconfondeglistrumenti
della felicità con la felicità
stessa» (Delisle de Sales).
L’infelicedellecittàèancora
più infelice degli infelici dei
campi, spiega Sébastien
Mercier: «Essere felici
a Parigi è quasi impossibile,
poiché i godimenti altezzosi
dei ricchi si svolgono troppo
vicino
agli
sguardi
dell’indigente,
il
quale
ha motivo di sospirare
vedendo questi sperperi
rovinosichenonarrivanomai
finoalui.Perquantoriguarda
la felicità, egli è ben al
disottodelcontadino»60.
Diderot è forse il più
lucidoeilpiùonesto.Nonsa
se gli operai siano felici, ma
non vorrebbe essere al loro
posto:
Crederei di più alle
delizie della giornata di
un carpentiere, se a
parlarmene fosse il
carpentiere e non un
fermiere generale, le cui
braccia non hanno mai
provato la durezza del
legno o la pesantezza
dell’ascia.
Questo
carpentiere
beato,lovedoasciugarsi
il sudore dalla fronte,
portarsi le mani sui
fianchi per alleviare la
fatica
delle
reni,
ansimare
in
ogni
momento, misurare con
il suo compasso lo
spessore della trave.
Forse è assai dolce
essere carpentiere o
segatore di pietre, ma
francamente,
non
voglio quel tipo di
felicità, neanche se
accompagnata da un
ricordo gradevole, ad
ogni colpo di scure o di
sega,delpagamentoche
mi
spetterebbe
a
finegiornata61.
E i ricchi sono felici? Le
grandi menti rispondono in
massa in modo negativo. Le
ragioni non mancano: la
ricchezza
moltìplica
i
desideri, le vanità e le
frustrazioni (Trublet ed
Elvezio);
i
ricchi
provano «l’inquietudine nella
ricerca», il «disgusto nel
godimento», la «disperazione
nellaprivazione»62(Lévesque
de Pouilly). Si tratta di
«persone sfaccendate, che
trovanodifficileammazzareil
tempodelleventiquattrooree
cheimpieganotuttigliartifici
immaginabiliperarrivarefino
in fondo alla giornata»;
«questioziosichevegetanoe
credono di vivere [...] per
ripagarsi della noia che li
coglie fanno due toelette al
giorno» (Mercier). Sono
attanagliati da una doppia
contraddizione che fa sì che
la loro ricchezza, dando loro
tuttiimezzidiesserefelici,li
privi di ogni tendenza alla
felicità.
L’accumularsi
dei piaceri smussa la loro
sensibilità
e
diventano
disillusi
e
letargici;
l’estensionedeiloroaffarine
accresce la vulnerabilità e
quindi ne moltiplica le
inquietudini
(Guillaume
Dubois de Rochefort)63.
Rousseau mostra quanto i
ricchi,
avendo
esteso
artificialmente
il
loro
essere, diano origine a una
seriedimali,senzacontarela
cattiva coscienza che li
perseguita
subdolamente:
l’evangelico «Guai a voi,
ricchi», è uno dei temi
familiarideisermoni.
La felicità è dunque
inaccessibile? Vietata sia ai
ricchi che ai poveri, essa
sembra
riservata
alla
condizione intermedia cui
tutti sembrano ambire: la
«mediocrità». Vi è un
accordo
unanime
impressionante su questo
punto: «La mediocrità è un
parapetto» (Montesquieu);
«Felice mediocrità! Solo tu
puoifarelafelicitàdelgenere
umano» (Madame Thiroux
d’Arconville); «Ah! Troppo
felice
mediocrità!»(Beausobre);«È
nellostatodibeatitudinedella
mediocrità che ci si può
preparare alla filosofia senza
tantisforzi»(Mably).
Questo ideale ha un
modello, un eroe modesto
comeconviene:Fontenelle,il
centenariofelice.Certolasua
felicità non ha niente di
spettacolare,mahaunmerito
incomparabile: esiste, mentre
tutte le altre sono solo
chimere. Inoltre egli adotta
uno stile di vita moderato e
prudente, ben lungi dagli
estremi e dagli eccessi.
L’uomosicreadellechimere
e passa il tempo a volerle
realizzare.Tuttiinostridolori
vengono dall’immaginazione,
ciò è fonte di molteplici
frustrazioni.Invecediquesto,
considerate freddamente i
vostrilimiti;banditetuttociò
che è mito e convinzione
irrazionale; credete a ciò che
vedete; intraprendete solo
progetti alla vostra portata;
vivetenellaconcretezza,nella
realtà, nella ragionevolezza.
Fontenelle sa bene che le
«grandimenti»disprezzanola
sua tecnica della felicità a
piccole dosi. I «grandi
uomini» sono quelli che
sognano e permettono di
sognare. «Convengo sul fatto
che a questa felicità manchi
una cosa che, secondo i
comuni modi di pensare,
sarebbe necessaria: non ha
alcunfulgore».Addirittura!Il
fulgoreèforsenecessarioalla
felicità? «Chi vuole essere
felice si contenga e si
rafforziilpiùpossibile».
Inunsecolochesognadi
cambiare
la
società,
Fontenellehapocarisonanza.
La maggior parte dei filosofi
sostengonocheisuoiconsigli
siano validi solo per lui. La
condizione«mediocre»èsolo
unequilibrioinstabilefradue
pericoli: la povertà e la
ricchezza. Per evitare di
cadere nella prima, è
necessario
mirare
alla
seconda, andandosi quindi a
cercaremoltepreoccupazioni.
Due opere pubblicate a
metà del secolo illustrano
quanto il problema della
felicità sia divenuto un caso
scolastico ossessionante. Nel
1754Savérien,neL’Heureux,
inventa una sorta di
Giobbe
dell’Illuminismo:
Félix, uomo onesto, va in
rovina;
sua
moglie
viene assassinata; viene
tradottoingiudizioperilsuo
omicidio, di cui peraltro è
innocente;vieneimprigionato
e
condannato
a
morte. Contrariamente al
personaggio biblico, egli
accetta di buon grado queste
prove e trova persino un
modo
per
trarne
godimento, mostrando così
che il saggio è in grado di
vedereillatopositivoditutte
le circostanze della vita. Ma,
come nel libro di Giobbe,
nonècheunamessainscena:
ilreavevavolutometterealla
prova il suo incrollabile
ottimismo.
Nel 1757 Bésenval,
nell’opera Le Spleen, arriva
più o meno alla stessa
conclusione. Un personaggio
attira su di sé tutte le
catastrofi: tradito da tutti,
vedovo sconsolato, si rompe
unbracciodurantelacacciae
perde le sue preziose
collezioni. Tuttavia non si
inacidisce né si amareggia,
poiché ritiene che la sua
sventura faccia parte della
condizione
umana:
«Riconosco che sia raro
trovare nella vita di un solo
uomo un accumularsi tanto
funestodifattispiacevoli.Ma
in fondo, signore, non ho
fatto che provare le sventure
legateaidiversigeneridivita
che avevo sposato, per poi
soccombere ai pericoli cui
ognuno
è
esposto».
Dimostrazione
ambigua,
poiché significa anche che
l’esistenza umana «normale»
è un tessuto di sventure e di
catastrofi.Lafelicitàconsiste
semplicemente
nel
saper incassare i colpi... Alla
domanda:«Dunquenonesiste
alcuna
felicità?»,
egli
risponde: «Non la felicità
perfetta.Perfelicitàsiintende
una condizione di godimento
permanente:
dove
può
esistere qualcosa di simile?
Le
nostre
situazioni
dipendono da talmente tante
circostanze che è impossibile
che si combinino in modo
da procurare una condizione
stabile; da qui derivano le
privazioni,lecontrarietàe,di
conseguenza, l’infelicità. Se,
per un rarissimo caso, questa
condizione desiderabile non
dovesse venire meno, allora
la sazietà e il disgusto
prendono velocemente il
postodeldisagioeproducono
lo stesso effetto. Ciò che vi
dico sembra affliggervi,
signore: cercate di non
riflettere,
sarete
meno
infelice»64.
L’esame delle opere
rivela un XVIII secolo
inquieto,allaricercadinuovi
valori. Il distacco religioso
apre alcune prospettive, ma
apre soprattutto una finestra
su quanto è sconosciuto. Gli
autori esprimono in modo
ancorasporadicoedispersivo
i loro interrogativi, le loro
incertezze
e
paure.
Nell’espressione del mal di
vivere non c’è ancora niente
di sistematico: esso appare
come
una
serie
di
problematiche
individuali
dovesimescolanosperanzee
paure. La filosofia dei Lumi
non è propriamente una
filosofia del mal di vivere,
come sarà invece nel secolo
seguente, quanto piuttosto
una
filosofia
dell’inquietudine, fatta di
reazioni individuali sempre
più pessimistiche, che ha
creato una chimera chiamata
felicità e ha cercato i mezzi
per trasformarla in realtà,
rendendosi
poi
conto
della sua illusione. Toccherà
alXIXsecolotrarreledovute
lezioni da questa esperienza,
dando il via alla costruzione
deisistemidelladisperazione.
Se vi è un criterio
inconfutabile del mal di
vivere,quelloèsicuramenteil
suicidio. Togliersi la vita in
completacognizionedicausa
è la dimostrazione suprema
del disgusto per la vita,
qualunque ne sia l’origine.
Viaggiando a ritroso nelle
epoche più antiche, la
mancanza di statistiche e i
tabù riguardanti questa
pratica tanto condannata ci
hanno costretto a limitarci a
osservazioni sommarie. Nel
XVIII secolo non c’è più
spazio per il dubbio: il
suicidio entra nel costume
sociale, se ne parla senza più
esitare, gli vengono dedicati
interi trattati e si pubblicano
persino le lettere delle sue
vittime. La morte volontaria
forzailmurodelsilenzio.
Lamalinconiasuicida
Così come in molti altri
ambiti culturali, gli inglesi
anche in questo si ergono a
precursori, tanto da far
considerare - a torto -la
malinconia suicida quale
carattere distintivo del loro
temperamento.Intalsensogli
indizi abbondano, a partire
dalle impressioni personali:
«Il numero di suicidi e pazzi
malinconici di cui si
sente parlare in Inghilterra
nell’arco di un anno è più
elevato rispetto a quello di
tutta una larga parte
dell’Europa»65,
afferma
William Congreve già nel
1698.
Nel
1705
il
memorialista John Evelyn
osserva che non si era mai
conosciuto un così alto
numero di persone che si
sono tolte la vita come in
quegli ultimi anni, sia fra le
classi di livello più alto che
fralealtre66.Sicominciagià
a parlarne nel continente,
dove la principessa Palatina
scrive: «I suicidi sono
molto comuni fra gli inglesi:
la nostra regina d’Inghilterra
mi ha detto che, per tutto il
tempoincuièrimastainquel
paese, non è passato un solo
giorno senza che qualcuno,
uomoodonna,siimpiccasse,
si accoltellasse o si facesse
saltareilcervello»67.Ildottor
George Cheyne, personaggio
già incontrato nel capitolo
precedente e a sua volta
depresso, è preoccupato «per
la recente frequenza e
l’aumento quotidiano di
suicidi strani e straordinari»,
e pubblica nel 1733 The
English Malady per spiegare
questo
fenomeno.
A
suo parere, un quarto degli
inglesi delle classi medie e
superiori soffrirebbero di
malinconia.
Le sue impressioni sono
confermatedaisondaggisulla
mortalità pubblicati dai
giornali londinesi, che danno
provadiunaumentocostante
del numero annuale dei
suicidinellacapitale:sipassa
daunamediadi18frail1680
e il 1690 a più di 50 fra il
1730 e il 1740. Sin dal 1711
WilliamWitherssuggerivadi
scrivere un manuale pratico
sull’arte del suicidio68 e nel
1756
Edward
Moore
propone ironicamente di
costruire un «albergo del
suicidio», offrendo i mezzi
più raffinati per mettere fine
ai propri giorni69. Spesso è
la rovina a spingere gli
aristocratici a suicidarsi:
secondo le cifre riportate dal
conte di Buckinghamshire,
nel corso del secolo si
uccidono 21 membri del
Parlamento e 35 personaggi
della nobiltà fra il 1750 e il
1798. La notorietà delle
vittime
amplifica
evidentemente l’eco della
loro morte, ma anche alcuni
casi di suicidio dovuti al
semplice disgusto per la vita
vengono
ampiamente
commentati: nel 1700 un
rilegatore londinese e sua
moglie, Richard e Briget
Smith, si impiccano dopo
avereuccisolalorobambina;
essilascianotrelettereincui
spiegano il gesto adducendo
come causa la tristezza della
loroesistenza.
Anche i filosofi vogliono
dire la loro. Così Berkeley si
appiglia alla miscredenza
mentre, intorno al 1755,
HumecomponeunSaggiosul
suicidio, trattato in cui
giustifica la libertà del gesto
estremo,
pubblicato
in
Inghilterrasolonel1777.Nel
1732 Radicati, piemontese
esiliato a Londra, pubblica
una Dissertazione filosofica
sulla morte, in cui afferma
che abbiamo la libertà totale
di lasciare la vita quando
questa diventa un fardello.
Dal canto suo lo storico
Edward Gibbon glorifica,
dopo un viaggio a Roma, la
mortevolontariadegliantichi
Romani.Itrattatifavorevolio
contrari
al
suicidio
si moltiplicano70. A Londra,
intorno al 1780, vengono
organizzati alcuni dibattiti
pubblici; il «Times» del 27
febbraio 1786 annuncia il
tema di uno di essi: «Il
suicidio come atto di
coraggio?», cui si può
assistere per sei pence. Nel
1789, lo stesso giornale
dichiaracheilsuicidioè«ora
un soggetto generico di
conversazione in tutte le
classisociali».
Ilcasofrancese
In Francia la censura
vigila, ma la questione
preoccupaifilosofi,chesono
divisi
sull’argomento.
Secondoilbaroned’Holbach,
ciò che spinge gli uomini a
darsi la morte «è un
temperamento inacidito dalle
sofferenze, una costituzione
biliosa e malinconica, è
un vizio dell’organizzazione,
unproblemanegliingranaggi
[...]. La morte è l’unico
rimedio alla disperazione,
momento in cui la spada è
l’unica vera amica, la sola
rimasataaconsolarel’infelice
[...]. Quando più niente
sostienel’amorepersestessi,
vivereèilpiùgrandedeimali
e morire è un dovere per chi
vuolefuggirlo».
Voltaire osserva che
l’uomo è fatto in modo da
sopportare tutte le sofferenze
piuttosto che sopprimerle:
«Gli apostoli del suicidio ci
dicono che è ampiamente
permesso lasciare la propria
dimora quando se ne diventa
stanchi. D’accordo, ma la
maggior parte degli uomini
amano di gran lunga di più
dormire in una catapecchia
che all’addiaccio». Poiché le
tendenze
suicide
sono
favoritedall’ozio,«unmezzo
quasideltuttosicuropernon
cedereallavogliadiuccidervi
è avere sempre qualcosa da
fare». Per questo ci si uccide
di più nelle città: «Il
lavoratorenonhailtempodi
essere malinconico, sono gli
oziosi che si uccidono [...].
Come rimedio basterebbe un
po’ di esercizio fisico, la
musica, la caccia, la
commedia, una bella donna».
A ogni modo, se decidete di
uccidervi,
lasciate
sempretrascorrereottogiorni
prima di passare all’azione;
sarebbe
alquanto
sorprendente che l’istinto di
conservazione non avesse la
meglio. Voltaire moltiplica
inoltre le esortazioni nei
confronti
dei
suoi
amicitentatidimetterfineai
loro giorni: «Uccidersi non
appartiene alle persone
amabili, ma solo agli spiriti
insocievoli come Catone,
Bruto [...], tuttavia è
necessario che la gente di
buona
compagnia
viva», scrive all’inglese
Crawford. Anche Rousseau
appare esitante nella Nuova
Eloisa e decide di non
pronunciarsi, facendo invece
parlare Saint-Preux con
paroleafavoredelsuicidio,e
Milord
Edouard
con
argomentazioniasfavore.
I filosofi francesi non
tranciano giudizi, ma il
fenomeno li tocca da vicino,
tanto più che hanno
l’impressione che vi sia un
aumento
delle
morti
volontarie. Nel 1771 Grimm
dichiara di vivere in «un
tempo in cui la mania di
uccidersi è diventata cosa
comune e frequente»71. Nel
1772 Hardy conferma: «Gli
esempi
di
suicidio
si moltiplicano giorno dopo
giorno nella nostra capitale,
dove sembra venga adottato
tutto il carattere e il genio
della nazione inglese»72. Nel
1773 Feller, nel suo
Catechismo filosofico, cita i
suicidi, «così frequenti in
questosecolo»,evedeinessi
un
«effetto
dato dall’incredulità»73. Nel
1777
le
Mémoires
philosophiquesdubarondeX
riprendono la stessa idea,
mentre Voltaire pensa che i
francesi si uccidano tanto
quanto gli inglesi, soprattutto
incittà.
Queste
cifre
sono
ovviamente solo delle stime.
Alcune sono inferiori alla
realtà,comelacinquantinadi
morti volontarie a Parigi nel
1764 riferite da Voltaire,
mentrealtresonoampiamente
esagerate, come i 1.300
suicidi annuali attribuiti alla
capitale nel 1781 dall’abate
Barruel,ilqualeritieneanche
che la Francia abbia perduto
per questa ragione 130.000
persone nell’arco di mezzo
secolo74. La cifra sostenuta
da Sébastien Mercier nel suo
Tableau de Paris del 1782
sembrapiùsensata:egliparla
infatti di 150 suicidi all’anno
nella capitale75, vale a dire
unamediacheoscillafra18e
25 ogni 100.000 abitanti,
equivalente a quella francese
del 1990 (21 ogni 100.000
abitanti). Secondo Mercier
questa cifra è in crescita dal
1760, ma «la polizia ha cura
di nascondere i suicidi
all’opinionepubblica».
Alcuni
casi
celebri
alimentano le conversazioni,
come quello del 1° febbraio
1723,
quando
l’abate
Raguenet si taglia la gola
con un rasoio. Autore di una
Vita di Cromwell, questo
ecclesiastico ricco e istruito,
perfettamente sano di mente,
sembra avere messo fine ai
proprigiorniperchéstancodi
vivere. Il suo è uno dei
primi suicidi filosofici del
secolo, che in seguito però si
moltiplicheranno,contantodi
commenti di gazzettieri e
memorialisti. Le famose
Mémoires
secrets
di
Bachaumont,checontengono
unacronacadituttiglieventi
del mondo letterario e della
societàallamodadal1762al
1787, citano fra numerosi
avvenimentimondaniesemimondani
molte
morti
volontarie dettate dalla
disperazione, dal dolore o
dalla stanchezza per la vita,
che vengono ricollegate alla
modainglesedell’epoca.
La curiosità manifestata
in questo campo dagli autori
successivi alle Mémoires
secrets è indicativa del fatto
che, dietro una riprovazione
formale, si esprime un
interesse non privo di
ammirazione, ma soprattutto
curioso e in qualche modo
affascinato. Il 21 maggio
1762 leggiamo che, da
qualche anno, molte persone
muoiono di «consunzione»,
cioè di suicidio commesso
perdisperazione:«Lepersone
che hanno interesse a
nascondere quest’infelicità
domesticahannofattocredere
che fosse un incidente. Da
duemesisièaconoscenzadi
più di dieci persone
conosciute che sono state
vittime di una tale frenesia.
Questo taedium vitae è il
seguito
della
sedicente
filosofia moderna, che ha
intaccato menti troppo deboli
per
essere
veramente
filosofiche»76. Il 5 maggio
1769, le Mémoires lanciano
un nuovo grido d’allarme
riguardo al suicidio di un
giovane impiccatosi perché
nonavevaavutosuccessoagli
inizi della sua carriera
teatrale: «Non era pensabile
che
questa
moda
britannica
avrebbe
influenzato i cittadini fino a
questi livelli. Da qualche
tempo simili eventi si
moltiplicano e, oltre a quelli
che
non
vengono
resi pubblici, ve ne sono
molti che vengono nascosti
per riguardo delle famiglie e
per evitare il progresso
funesto di questa cosiddetta
mentalitàfilosofica,contraria,
oltretutto, anche alla politica,
alla ragione e al vero
eroismo»77. Il 26 settembre
1770,
le
Mémoires
secrets commentano come
segueilsuicidiodiunbarone
tedesco: «Sembra che la
scontentezza di vivere, che
colpisce
a
livelli
considerevoli in questa
capitale, sia stata la causa di
tale suicidio»78. Alcuni
giorni dopo, il 5 ottobre, un
tale Guillemin, primo violino
delre,indebitatofinoalcollo,
si uccide a coltellate, «in un
accesso di disperazione». Il
26 febbraio 1772, le
Mémoires secrets citano il
suicidio di un uomo che si è
ucciso in provincia con un
colpo di pistola per ragioni
puramente filosofiche, dopo
aver lasciato un biglietto in
cui «dichiara che, non
essendo stato consultato per
essere stato dato alla luce,
crede di poterne anche fare a
meno
senza
chiedere
l’opinionedinessuno»79.
Il16giugno1775,sempre
secondoleMémoiressecrets,
«in questo paese due inglesi
sisonorecentementeuccisie
sembrano
venuti
a
corroborare la mania che i
francesihannoattintoproprio
da loro e di cui oggi danno
l’esempio»80. Non è che uno
scambio di favori, poiché i
giornali britannici segnalano,
alla
stessa
epoca,
che numerosi nobili del
continente si sono recati in
Inghilterra per suicidarsi, in
una sorta di pellegrinaggio
nel paese della morte
volontaria. Essi riportano
infattiilsuicidiodiunnobile
francese a Greenwich e
quello del figlio di un
generale tedesco a Hyde
Park nel 1789; nel 1797 il
figlio del «re di Corsica» si
spara un colpo in testa a
Westminster Abbey; l’anno
seguente, in un caffè, il duca
di Sorrentino decide di
imitarlo. Nel 1789 ha luogo
un altro suicidio altisonante,
quello del figlio cadetto del
cancelliereMaupeou,ilquale
sbarca in Inghilterra con una
grossa somma di denaro e
si uccide con un colpo di
pistola a Brighton, lasciando
un laconico biglietto di cui
nessuno capisce il senso:
«Muoioinnocente,ilCielomi
ètestimone».
L’Inghilterra e la Francia
non sono gli unici paesi
toccati dall’aumento dei
suicidi. In Germania, dal
1742,Süssmilchseneoccupa
in un’opera che precede gli
studi
demografici,
Die
göttlicheOrdnung.Ciò che è
ancora solo un abbozzo si
concretizzaneglianni’80del
1700 con i primi dati
concreti. Un cronista, che
attinge informazioni dalle
autoritàdiBerlino,trail1781
e il 1786 conta un totale di
239 suicidi nella capitale
prussiana (vale a dire
l’8% dei decessi), così
suddivisi: 136 annegamenti,
56impiccagioni,42mortiper
arma da fuoco e 8 per
sgozzamento.
Vengono
inoltre fornite ulteriori cifre
allarmanti
riguardo
a
Francoforte
sul
Meno.Persinoinunapiccola
borgata come Kuenzelsauam-Kocherfluss si contano
quattromortivolontarieintre
anni. A causa della rapida
urbanizzazione, il tasso di
suicidio aumenta in Prussia,
ciò accentua l’indebolimento
dei legami tradizionali della
famiglia e della religione,
destrutturando una società in
piena mutazione, vittima
della crescita demografica e
della
crisi
economica.
L’aumentodellapopolazione,
una situazione più precaria,
individui spesso lasciati a se
stessi senza poter contare
sulla solidarietà quotidiana:
tuttelecircostanzefavorevoli
sembranoessereriunite81.
I suicidi diventano più
numerosi anche nei paesi
scandinavi.
In
Svezia,
secondo il professor Arne
Jarrick, che ha studiato gli
archivi della corte criminale
di Stoccolma dal 1700 al
1788 e della provincia
meridionale di Västergätland
dal 1635 al 182182, le
ragioni più frequentemente
invocate
riguardano
la
nozione
di
malinconia, termine che
ricopre«tristezza,malinconia,
depressione,
nervosismo, paura, angoscia,
afflizione», cui occorre
aggiungere i casi di
«disperazione»,di«faticadel
mondo e di se stessi». Il
professor Jarrick attribuisce
un ruolo importante al
pessimismo religioso che
contraddistingue
il
luteranesimosvedeseedicui
dà testimonianza l’opera di
Johann-Christian
Arndt,
Quattro libri sul vero
cristianesimo. Illustrazione
dello «spirito suicida della
dottrinacristiana,pernondire
di Cristo stesso», Arndt
sostiene che «un buon
cristiano deve odiare la
propria vita», poiché essa è
unveroeproprioinferno.Lo
svedese Johann Robeck,
autore di uno dei suicidi più
celebri del secolo, è
certamente un luterano
convertito al cattolicesimo,
ma è soprattutto un animo
fragile.Nel1735componeun
trattatoinlatinochegiustifica
il suicidio, il De morte
voluntaria
philosophorum
vivorumetbonorumvivorum.
Terminato il suo libro, si
vesteconisuoiabitimigliori,
affittaunabarchettaaBrema,
si allontana dalla costa e
scompare; il suo corpo si
arena sulla costa qualche
giorno dopo. Il suo trattato
sarà
pubblicato
l’anno
successivo.
L’anno1770inaugurauna
nuovaepocadelmaldivivere
suicida. A Lione due giovani
amanti, il maestro d’armi
Faldoni, afflitto da un male
incurabile,elasuaamatache
non vuole sopravvivergli, si
uccidono in una cappella.
Nella commozione generale
gli «amanti di Lione»
divengono gli eroi di un
racconto intitolato Histoire
tragique des amours de
Thérèse et de Faldoni;,
LéonardePascaldeLagouthe
ne traggono ispirazione per i
lororomanzi;DelisledeSales
ammira i nuovi Romeo e
Giulietta, e Rousseau scrive:
«Il sentimento ammira e la
ragione tace». Nasce così il
suicidioromantico.
Lo stesso anno un poeta
inglese diciassettenne, genio
incompreso che aspira a una
rapida gloria, ridotto alla
povertà,siavvelenanellasua
stanza di Holborn, a Londra.
Nel giro di qualche anno,
Thomas Chatterton diventa
un mito: poesie, dipinti,
statue, fazzoletti con la sua
effigie gli conferiscono una
gloria
postuma.
Keats,
Coleridge, Wordsworth e
Vigny ne celebrano i
componimenti.
Nel 1774 il suicidio
letterariodelgiovaneWerther
conosce
un
successo
prodigioso. Traduzioni e
riedizioni del libro di
Goethe vedono la luce a
ripetizione. Presto Chatterton
eWerthercreanoveriepropri
emuli. Il «Times» riporta
numerosi
casi,
come
quello
della
bella
diciassettenne
Eleanor
Johnson; mentre Grimm ne
cita altri. La werthermania
prende
proporzioni
inquietanti:ragazzieragazze,
con una copia del libro in
tasca, si annegano, si
sparano in testa, si buttano
dallafinestra.ScriveMadame
deStaèl:«Wertherhacausato
più suicidi della più bella
donna
del
mondo».
Goethevieneprestoaccusato:
il professor Schlettwein lo
definisce
«avvelenatore
pubblico»; il suo libro è
considerato
«infame»,
declama il pastore Goeze;
«immorale e riprovevole», si
scaglia il vescovo di Bristol;
«Goethe è imperdonabile»,
sostiene il «Mercure de
France».
Reazioni
assurde,
evidentemente,
ma
significative: da secoli i
romanzieri
raccontavano
storie di suicidi senza
suscitare
la
minima condanna, mentre
negli anni 1770 e 1780
l’opinione pubblica -molto
sensibilizzataalproblema-si
dichiara
turbata:
nel
1761 Rousseau ne discute
nellaNuovaEloisa;nel1770
viene pubblicato il libro di
Hume e nel 1773 appare la
storia dei soldati di Saint-
Denis. I giornali pubblicano
nuovi casi ogni settimana. Il
fattocheWertherabbiaavuto
unatalerisonanzarappresenta
un indice rivelatore, non una
causa. Probabilmente si
potrebbe
sostenere
la
medesima constatazione oggi
a proposito della pedofilia. Il
romanziere che sfrutta al
momento giusto un fatto
sociale
innesca
un’eco
sproporzionata.
Queste reazioni, siano
esse di ammirazione o di
ostilità,
traducono
il
malesserecrescentedellafine
del XVIII secolo. Il mal di
vivere, che prefigura il male
del secolo definito in seguito
da Musset, fa da cornice
all’episodio rivoluzionario e
imperiale.
Esso
riguarda essenzialmente i
giovani, annoiati in questo
periodo
crepuscolare
dell’Ancien
Régime dove tutto sembra
essere
bloccato.
La
generazione successiva di
giovani, non appena passato
l’entusiasmo rivoluzionario,
siannoierànuovamente.
Il mal di vivere della
gioventù preromantica è il
malessere di una generazione
che cresce in un mondo
sclerotizzato,
le
cui
strutture sono ormai solo
schemi rigidi mentre i valori
che le sostenevano hanno
perso molto della loro
credibilità. Questa gioventù
cercaunnuovosensodadare
all’esistenza, ma si trova di
fronte solo le risposte
stereotipate di un regime
ormailogoro.
LuigiXVildepressoe
Voltairel’inquieto
Il secolo dei Lumi
trabocca di inquieti e di
malinconici, specie fra gli
intellettuali,manonsolo.Ilre
Luigi XV era «di una
tristezza e di un’inquietudine
da far pietà», scrive
d’Argenson,ilqualeracconta
anche che nel 1741, ad
esempio,duranteunacenada
Madame de Mailly, «non
mangiò che un morso, bevve
una coppa e disse che non
avrebbe mangiato di più.
Dopodiché cadde in una
malinconia nera simile a
vapori e da cui non fu mai
possibile
farlo
uscire,
per quanta felicità si potesse
portare».IlducadiLuynesha
descritto
il
carattere
depressivo del sovrano: «Il
carattere del re non è né
vitale, né allegro; esso ha
piuttosto dell’irascibile [...].
Spesso è soggetto a momenti
di tristezza e a un umore che
occorre conoscere per non
urtarlo; inoltre coloro che gli
si avvicinano studiano questi
momenti con cura e, quando
li scorgono, rimandano a
tempimigliori,sepossibile,i
suoiordini».LuigiXV,come
moltialtri,èaffascinatodalla
morte. Quando passa vicino
ai cimiteri, invia qualcuno a
contare le tombe più recenti.
Il sovrano è in armonia con
il suo secolo: con la sua
apatia,egliincarnailconcetto
dinoia.
Il
suo
turbolento
contemporaneo
Voltaire
incarna, invece, il versante
inquieto. Infaticabile, sempre
sulla breccia, egli reagisce
a qualsiasi stimolo con una
sorprendente capacità di
indignazione e di denuncia;
egli è l’uomo affaccendato
che cerca di fuggire da
se stesso per evitare la noia,
ed è consapevole di questo
quando scrive a Madame
Denis:
Mais que ferai-je?
Où fuir loin de moimème?
Ilfautdumonde;on
lecondamne,onl’aime:
On ne peut vivre
avecluinisanslui.
Notreennemileplus
grand,c’estl’ennui83.
Questo avversario di
Pascal è l’illustrazione stessa
deiPensieri,nellasuavita,la
qualeèunafugaperpetuaper
evitare la noia, come nella
sua opera, lunga variazione
sul tema enunciato in
Candido:l’uomo è «nato per
vivere fra le agitazioni
dell’inquietudineenelletargo
della noia», o ne Les
AdorateursoulaLouangede
Dieu (1769): l’uomo è
«continuamente in preda a
due flagelli che gli animali
ignorano: l’agitazione e la
noia[...],lequaliequivalgono
allascontentezzadisé».
L’atteggiamento
di
Voltairevariaasecondadelle
circostanze, ma è nettamente
orientatoversoilpessimismo.
Inuncertomodolasuavitae
la sua opera sono un grande
grido di indignazione contro
la stupidità umana, contro le
ingiustizie e i pregiudizi non
sradicabili di questo animale
sociale. L’intera storia non è
cheilraccontodelleinfelicità
edelleatrocitàdell’uomo;gli
episodi
si
accumulano
fino alla nausea. Solo la
derisione
permette
di
sopportare
una
consapevolezza così acuta
dell’umana infelicità. «Mi
corico sempre nella speranza
di
potermi
svegliare
prendendomi gioco del
genereumano»,scrive.
Voltaire ha conosciuto
una fase ottimistica all’epoca
del Mondain, negli anni ’30
del 1700, ma i lutti, i
fallimenti, le delusioni, in
poche parole la vita, l’hanno
convinto della vera natura
dell’esistenza.Sindal1746il
suo ottimismo perde terreno,
nell’opera Le monde comme
il va: «Se non tutto è bene,
tutto è passabile». Nel 1748,
in Zadig, egli scrive che gli
uomini sono «insetti che si
divorano a vicenda su un
piccolo atomo di melma». Il
loro parente più vicino è la
formica: «Siamo formiche
che
vengono
continuamente schiacciate e
che
continuamente
si
rinnovano; e perché queste
formiche ricostruiscano le
loro case, e perché inventino
qualcosa che assomigli a una
poliziaoaunamorale,quanti
secoli di barbarie ancora!».
Queste formiche sono anche
predadellecatastrofinaturali:
dopoilterremotodiLisbona,
«dovete sentire che il tutto è
bene di Pope è solo uno
scherzo che non è bene fare
agli sventurati; ora, su cento
uomini, ce ne sono almeno
novanta che sono da
commiserare. Tutto è bene
non è quindi fatto per il
genere umano». Non rimane
checoncludere,comehafatto
magistralmente
Candido
nel 1759: «Che cos’è
quest’ottimismo? [...] è la
manieradisostenerechetutto
va bene quando si sta male».
Certo, possiamo sempre
coltivare il nostro giardinetto
aspettando la vecchiaia e la
morte. Ma è certo poi che
questo «allontana da noi tre
mali: la noia, il vizio e il
bisogno»?Fraiduemali,poi,
bisogna scegliere il minore.
La soluzione di Candido,
scrive
Robert
Mauzi,
«significa: accettiamo la
noia per sfuggire l’angoscia.
Perché è proprio la noia che
troverà Candido nella sua
fattoria, con la sua amata
avvizzita e la sua governante
orba. E non può che
rassegnarvisi, ritornando al
ricordo delle sue esperienze
passate, o abdicando a
qualsiasicoscienza»84.
Voltaire lascia i vari
Candido locali a occuparsi
deigiardinidiFernayedegli
stesso partecipa alle lotte del
secolo. Gli scontri politici e
giudiziari sono il suo
divertissement,
gli
permettonodifuggirelanoia,
valeadire,secondoPascal,la
sensazione
di
tristezza. Ripetiamo che
PascaleVoltairecondividono
profondamente lo stesso
pessimismo. Il giovane
Voltaire, quando nel 1728
scrive le Remarques sur les
Pensées de M. Pascal, finge
di non capire, ma è
giàd’accordosulprincipiodi
base: gli uomini ricercano il
divertissement,
strumento
della nostra felicità più che
reazione alla nostra tristezza;
essi detestano l’inerzia e
grazie a questo l’economia
risulta
prosperosa.
L’osservazione è identica,
anche
se
differisce
l’interpretazione: Pascal vi
intravede un motivo di
malinconia, Voltaire di
soddisfazione, ma di una
soddisfazione molto limitata.
Per
mostrare
che
l’uomo urbano è felice,
Voltaire cita una lettera di
uno dei suoi amici,
che scrive: «Godo di una
salute perfetta, ho tutto ciò
che rende gradevole la vita,
senza amore, senza avarizia,
senza
ambizione
e
senzainvidia;efinoaquando
tutto questo durerà avrò
l’ardore di considerarmi un
uomo felice». Sin da
quest’epoca, Voltaire sembra
avere un’idea molto modesta
dellafelicità,che,percomela
intende lui, suona un po’
come
una
sorta
di
rassegnazione:
Tuttigliuominisono
fatti, come gli animali e
le piante, per crescere,
per vivere per un certo
tempo,perprodurreloro
simili e per morire. In
una satirasipotràanche
mostrare il cattivo lato
dell’uomo,maappenaci
si serve della ragione, si
dovrà ammettere che di
tuttiglianimalil’uomoè
il più perfetto, il più
felice e il più longevo.
Pertanto, invece che
meravigliarci
e
lamentarci dell’infelicità
edellabrevitàdellavita,
dobbiamo meravigliarci
e compiacerci della
nostrafelicitàedellasua
durata.
In seguito Voltaire si
avvicina al pessimismo
pascaliano, tranne che nella
dimensione religiosa. Nel
1728 egli si prende gioco
di Pascal, che vede
«l’universo
come
una
prigione
e
tutti
gli
uomini come criminali che
saranno
giustiziati»,
concezionenonmoltodiversa
dall’«assemblaggioorribiledi
criminalisfortunati»,secondo
la sua formula del 1769. E
cosa dire di «questo globo
che contiene solo cadaveri»,
di «questo penoso sogno che
è la vita», di questo «incubo
perpetuo», che lo portano a
scrivere nel 1753: «Desidero
lamorte»?
Ovviamente
Voltaire
attraversa anche momenti
felici, soprattutto quando si
trova a dover risollevare il
morale dei suoi amici dalle
allarmanti tendenze suicide.
Quante volte ha dovuto
consolare la malinconica
Madame du Deffand, una
sorta di dovere di solidarietà
fra condannati a morte: «Far
sentir loro che non sono
solo vittime della morte, che
devono almeno consolarsi a
vicenda»,scrivenelPrécisdu
siècle de Louis XV. I
pessimisti sono così: come
se temessero di contaminare
chi sta loro intorno, sono i
primi a vietar loro la
disperazione,chetuttaviaèla
conseguenzadellaconcezione
delmondochelipervade.
Lanoiaalfemminile
Madame du Deffand si
trascina dietro una noia
implacabile. L’amica dei
filosofi, nonostante ami i
circoli mondani, non arriva
a colmare «il vuoto
spaventoso» dell’esistenza e
detesta la morte quanto la
vita. Pochi hanno avuto la
sensazione di essere presi
intrappolacomelei.
Madame du Deffand,
nellasuariccacorrispondenza
con le grandi menti del
secolo, mette in piazza il suo
sentimento di noia: «La noia
èunmaledacuinoncisipuò
liberare, è una malattia
dell’anima con cui la natura
ci affligge facendoci dono
dell’esistenza; è il verme
solitario che assorbe tutto e
che non ci fa godere di
niente», scrive a Horace
Walpole.
«Non
potete
immaginare cosa significhi
pensare senza avere alcuna
occupazione. Aggiungete a
questo un gusto difficile da
soddisfareeungrandeamore
dellaverità,epossoaffermare
che sarebbe meglio non
essere nata». E poi ancora:
«Ditemi
perché,
pur
detestandolavita,continuoa
temere la morte»85. Con
VoltaireMadameduDeffand
forma la coppia infernale
noia/inquietudine. A una
delle sue lettere il filosofo
risponde: «Mi comunicate
che vi annoiate, io invece vi
rispondochemivienerabbia.
Ecco i due perni della vita,
l’insipidezzaoilvuoto».
Penso, dunque soffro,
dice in sostanza Madame du
Deffand, cui, per vincere la
noia, manca il senso della
derisione, dell’umorismo. Al
contrario la sua amica
Madame de Choiseul non
pensaaffattoesfoggiaquindi
una
felicità
insolente,
animale. Fate come me,
consiglia a Madame du
Deffand,
«vivete
alla
giornata,
prendete
la
vita come viene, approfittate
di tutti i momenti»; «quando
si tratta di felicità, non
bisogna cercare di capire né
come né perché»; abbiate
pregiudizi, è «il solo freno ai
costumi»; accettate i luoghi
comuni, smettete di riflettere
e sarete felice come me:
«Senza sapere né come né
perché, io sono felice, molto
felice». Vale a dire: vivete
da idioti e sarete felici;
riflettete e sarete infelici. Ma
non c’è idiota che tenga: una
volta che si inizia a pensare,
nonsipuòtornareindietro.Il
mal
di
vivere
degli
intellettuali del XVIII secolo
è una malattia inseparabile
dal progresso del pensiero.
Man mano che Dio
si allontana e diventa più
impercettibile, più incerto, i
filosofi
prendono
consapevolezza della vera
tragediacheèl’esistenza.
IlmaldiviveredelXVIII
secolo si è esteso anche alle
donne.NelsecolodeiLumila
donna, nella ristretta cerchia
dell’élite, può finalmente
pensare da sola, scoprendo
quindi
l’inquietudine
che esprime con la sua tipica
sensibilità, spesso più fine di
quella degli uomini, i quali
hannoperaltrobenrecepitoil
pessimismo femminile di
questo
secolo,
come
testimoniano le eroine della
letteratura, quelle dell’abate
Prévostcomeanchequelledi
Rousseau. Mademoiselle de
Lespinasse non scrive forse:
«Ioavreidovutofiguraresolo
nei romanzi di Prévost»? In
altre occasioni si paragona a
Fedro e, come Madame du
Deffand,sisenteintrappola:
«Lamorteèilbisognopiù
pressantedellamiaanimaeio
mi sento incatenata alla
vita»86. Ossessionata dalla
suapassione,esclusiva,ellasi
rinchiudenellasuavocazione
all’infelicità: «Sono stata
formata dal grande maestro
dell’uomo,l’infelicità»87.
In Madame Rolland, nata
nel 1754, il risveglio della
malinconia è precoce. Ha
infatti solo diciassette anni,
l’età dei vari Chatterton e
Werther,quandoscrive:
La dolce malinconia
che difendo non è mai
triste,essanonècheuna
variazionedelpiacere,di
cui prende tutto il
fascino. Simili alle
nuvole dorate che
abbelliscono un sole al
tramonto, i vapori
leggeri
della
malinconiaintercettanoi
raggi del piacere [...], è
una
moderazione
salutare della vivacità
della
gioia;
la
addolcisce, la rende più
penetrante
e
più
duratura [...]. Essa
conferisce una qualche
sfumatura di grandiosità
e meraviglia a una
prospettiva selvaggia, a
unaforestasolitaria88.
Altracelebrevittimadella
noiaèMadamedeStaèl.Nata
nel 1766, ha solo otto anni
quando viene pubblicato
Werther, ma si avvicina ben
presto
alla
«riflessione
inquieta» grazie a un padre e
aunamadremalinconici89.Il
lungo soggiorno in esilio a
Coppetaggravailsuospleen:
«Mi annoio qui», scrive al
suo amante del momento;
«sono sempre stata molto
portataallanoia»90.Eancora:
«Mi annoio, amo fortemente
miopadre,maèunculto,ein
chiesa
si
sbadiglia»91.
L’anziano Necker è un
vecchio imbronciato che
non accetta di buon grado la
propria vecchiaia. Scrive sua
figlia: «Non sopportava di
essere vecchio e grasso; la
sua stazza, che era divenuta
molto grossa e che gli
rendevadifficiliimovimenti,
gli causava un sentimento di
timidezza che lo allontanava
dal mondo. Non saliva quasi
mai in carrozza: non
passeggiava
mai
quandosapevadipoteressere
visto [...]. A volte mi diceva:
“Non so perché mi sento
umiliato dalle infermità
dell’età, ma cosa posso
farci, sento che lo sono”»92.
Da parte sua, la signora
Necker aveva spesso parlato
del decadimento provocato
dalla vecchiaia, che degrada
sia il corpo che lo spirito, e
Madame de Staél è stata
visibilmente traumatizzata da
questidueesempi.Ellainfatti
non accetta alcun tipo di
osservazione sull’anzianità
del padre: «Un giorno
qualcunoledissecheilsignor
Necker era invecchiato, [...]
ed ella rispose che avrebbe
considerato suo più grande
nemico
chi
avesse
osatoripeteresimiliparole».
Madame de Staél ha
nutrito la sua malinconia con
le letture di Rousseau, il cui
fantasma abita luoghi molto
vicini, l’isola di Saint-Pierre
sitrovainfattinelvicinolago
diBienne.Ellaèunacreatura
ipersensibile:«Isuoiocchisi
riempivano di lacrime alla
minima parola severa o
sensibile, e si potevano
scorgereibattitidelsuocuore
sottogliabitialminimomoto
di piacere o di pena»93.
Nel1790,aventiquattroanni,
delinea pressappoco il suo
autoritratto nel Portrait de
Mélanie, una giovane donna
malinconica
il
cui
«cuore avvizzisce, la vita
perdecolore».Lamalinconia,
«ingrediente della tristezza»,
è causata dal sentimento
doloroso di incompletezza
del
destino
dell’uomo.
Ritrovando l’intuizione del
Problema XXX, Madame de
Staél la erge a emblema del
talento: «Nell’epoca in
cui viviamo, la malinconia è
la vera e propria ispirazione
del talento: chi non si sente
invaso da questo sentimento
nonpuòaspirareaunagrande
gloriacomescrittore».
Questa
grande
malinconicaèanchelaprima
donna ad avere scritto sul
suicidio94. Nel 1796, a
trent’anni, ne L'influenza
delle passioni sulla felicità,
Madame de Staél distingue
tre tipi principali di morte
volontaria.
Il
suicidio
d’amore è, ai suoi occhi, il
piùfacilmentecomprensibile,
poiché «è la morte meno
temibile di tutte: come
sopravvivere all’oggetto che
ci ha amato?». Il suicidio
filosofico,
più
raro,
presuppone
«riflessioni
profonde, lunghi lavori su se
stessi».Soloanimed’élite,in
grado
di
analizzare
serenamente la vita umana,
possono arrivare a questo
autentico
disgusto
per
l’esistenza. Il terzo caso
riguarda il colpevole, per il
qualeilsuicidioèuniniziodi
riscatto,
poiché
questa
«sublime risorsa» non è
alla portata del miserabile
assoluto. «C’è qualcosa di
sensibile o di filosofico
nell’uccidersi
che
è
completamente sconosciuto
all’essere umano depravato».
Diciassette
anni
dopo,
Madame de Staèl ritorna su
questa materia in un piccolo
trattato intitolato Réflexions
sur le suicide, dove ne
contempla
gli
aspetti
psicologici
e
persino
sociologici: gli inglesi si
uccidono per impulsività e
per
senso
dell’onore,
i tedeschi per «entusiasmo
metafisico», i francesi per
ardimento.
Molte sono le ragioni
avanzate per spiegare il
malessere femminile di
quest’epoca, comprese le
cause fisiche: la moda, che
chiude la donna in una
corazza;lestecchedibalenae
i lacci stretti che la
opprimono; l’uso di creme e
di fondotinta a base di
prodottipericolosiperlapelle
eipolmoni(bismuto,cerussa,
cinabro,
zolfo,
minio,
piombo,mercurio);l’impiego
di profumi aggressivi; il
consumosmodatodicaffè,di
liquoriedicibiacidi.Maldi
testa,vapori,malattienervose
sarebbero in parte legate a
questeabitudininocive.Epoi
c’è lo stile di vita: bisogna
apparire, brillare nei saloni,
avere degli amanti. A
immagine di Madame de
Pompadouredelleconcubine
reali, la donna partecipa al
gioco
del
potere
e
degli intrighi, e ne paga così
le spese: «Il gioco incessante
di
tutte
le
facoltà,
l’ambizione, la gelosia, la
guerra
delle
rivalità,
l’eccitazione dello spirito,
dell’amabilità, il lavoro della
grazia, le delusioni, le
mortificazioni, le vanità che
logorano, le passioni che
bruciano, quale altra febbre
per minare e far vacillare il
delicato organismo della
donna!»95. Queste righe sono
dei fratelli Goncourt che,
nel1882,nellorostudiosulla
Donna nel Settecento, hanno
finemente
tratteggiato
«l’anima femminile» di
quest’epoca,
divorata
dall’inquietudineesoprattutto
dallanoia:
La sua vivacità, la
sua affettazione, la sua
sollecitudine
nelle
fantasie,
sembrano
un’inquietudine;
e
l’impazienza di un
malessere appare in
questa continua ricerca
del gradimento, in
questo famoso appetito
per il piacere. La donna
si prodiga in ogni
direzione come se
volesseuscirefuoridase
stessa [...]. Tuttavia
finisce sempre per
fermareilsuoslancio:si
ritrovaavolerfuggire,e
sussurra a se stessa la
sofferenzachelalogora.
Riconosce il male
segreto che ha dentro, il
male incurabile che
questo secolo porta con
sé e che trascina
ovunque sorridendo: la
noia[...].Piùdell’uomo,
per l’esigenza dei suoi
istinti, per la finezza
della sua sensibilità
morale, per il capriccio
di tutto il suo essere, la
donna doveva soffrire
molto
di
questo
malessere del secolo
[...]. Ella si getta nelle
letture,divoralastoria,i
romanzi, i racconti del
giorno, e la noia le
chiudeillibrofraledita
[...].
Corrispondenze,
memorie, confessioni,
tuttiidocumenti,tuttele
rivelazioni familiari del
tempo tradiscono e
testimoniano
questo
malessere interiore delle
donne. Non v’è sfogo,
non v’è lettera in cui il
lamento della noia non
ritorni
come
un
ritornello, come un
gemito[...].Lanoia,per
le donne dell’epoca, è il
grande male, è, come
esse stesse dicono, «il
nemico» [...]. Le più
corteggiate, le più
circondate
lanciano
gridadidisgustosimilia
quelle del morente che
gira la testa contro il
muro: «Tutti i vivi mi
annoiano! La vita mi
annoia!»96.
A partire dagli anni ’60
del 1700, le donne ergono a
proprio idolo Jean-Jacques
Rousseau.
La
spiccata
sensibilità di questo autore,
la sua tenerezza, la sua
propensione per i sogni a
occhiapertieper.l’amore,la
suainclinazioneperlanatura
e la solitudine ridanno
unsensoallalorovita.Come
iGoncourtfannonuovamente
notare, Voltaire è stato lo
scrittore
degli
uomini,
Rousseau quello delle donne.
Questo timido ammaliatore è
stato
un
gran
Don
Giovanni sentimentale, un
Casanova della tenerezza, il
più grande seduttore del suo
secoloehatrascinatostuolidi
donne
nella
malinconia
romantica.
Secondo Madame de Genlis,
una delle sue più ferventi
ammiratrici, «non esisteva
donna veramente sensibile
chenonavesseavutobisogno
diunavirtùsuperiorepernon
consacrare la propria vita a
Rousseau, se solo avesse
potuto
avere
la
certezza ch’egli l’avrebbe
amataappassionatamente».
BoswelleJohnson:il
dialogodiduedepressi
Due
britannici
in
particolare incarnano questo
clima culturale e permettono,
grazie
ai
documenti
autobiografici, alle memorie
e
alla
voluminosa
corrispondenza che hanno
lasciato, di disquisire sulle
varie componenti e modalità:
si tratta del dottor Samuel
Johnson, celebre autore del
Dizionario, e soprattutto del
suo biografo, James Boswell.
Questi è un curioso e
affascinante
personaggio,
inquieto,
egoista,
caratterizzato da un orgoglio
puerile («sono chiaramente
ungenioemeritochelagente
siinteressiame»),ubriacone
e soprattutto profondamente
depresso. Nato a Edimburgo
nel 1740, egli lascia alla sua
morte un imponente diario
personale in cui racconta
senza il minimo pudore gli
episodi della sua vita dal
1762, segno evidente di uno
spirito
malinconico,
interamente autocentrico. Si
tratta di un documento
eccezionale:
questo
personaggiodisecondopiano
si è infatti introdotto senza
complessidisortaalcospetto
di una moltitudine di
personalità, da Giorgio III a
WilliamPitt,daDavidHume
adAdamSmith,daVoltairea
Rousseau,daSamuelJohnson
a
Joshua
Reynolds,
trascinandolasuamalinconia
pertuttaEuropa.
Boswellhaseriprecedenti
familiari:unnonno,duezìie
una madre, tutti depressi. La
sua educazione di base è
traumatizzante: il calvinismo
terroristico dei genitori, lo
sguardo
inquisitore
di
unpadrechenonlasciamaiil
suo lavoro di giudice, un
precettore
severo
e
dogmatico, ed ecco la prima
crisi depressiva all’età di
dodici
anni.
Durante
l’adolescenza
egli
è
ossessionatodallapauradella
dannazione a causa del
conflittotralasuasessualitàe
il rigore delle credenze
calviniste. La questione del
libero arbitrio e della
necessità lo logora e scatena
la sua seconda crisi a sedici
anni. Egli diviene quindi
metodista, poi cattolico,
scelta che gli costa la rottura
dei rapporti con suo padre.
Pertuttalavitasaràdilaniato
fra i bisogni sessuali, che lo
condurranno
alla
depravazione, e il rimorso
persistente suscitato dal
puritanesimo dell’educazione
ricevuta.
Nel 1762, divenuto
avvocato, si trasferisce a
Londra e inizia a frequentare
le celebrità, fra cui l’attore
Garrick.
Poi
incontra
Samuel
Johnson
che,
all’epoca,hacinquantaquattro
anni. Brutto, burbero, pieno
di disprezzo per gli scozzesi,
egli è un uomo dai
giudizi perentori e tuttavia
dall’intelligenza superiore,
seppur priva di qualsiasi
considerazione per i suoi
simili. Ma dietro la sua
facciata fastidiosa, questo
«orso»
nasconde
una
profonda malinconia, di cui
ha subito i primi attacchi a
vent’anni.Boswell,chesoffre
della stessa afflizione, gli
dedicheràunabiografiaincui
scrive:«SamuelJohnson,che
era dotato di tutti i poteri del
genioedell’intelligenzaassai
oltre il livello medio della
natura
umana,
era
contemporaneamente afflitto
da un disturbo così terribile
checolorochehannoavutola
triste
esperienza
non
invidieranno i suoi doni
superiori. In un certo qual
modo,
sembra
molto
probabile che ciò sia dovuto
aundifettodelnostrosistema
nervoso, parte oscura della
nostra
costituzione»97.
Ritroviamo qui il legame fra
genio e malinconia. Boswell
aggiunge che Johnson «si
sentiva invaso da un’orribile
ipocondria, perpetuamente
irritato, agitato, impaziente,
con un fastidio, una tristezza
e una disperazione che gli
rendevano
miserevole
l’esistenza».
Boswellintrattienespesso
Johnsoncondiscorsisullasua
malinconia. Durante un
dialogo,
parlando
della
costituzionemalinconica
[Johnson] osserva: «Un
uomo che ne venga
colpito, signore, deve
evitare
i
pensieri
deprimenti,
e
nonaffrontarlidipetto.
Boswell: - Non deve
quindi
affrontarli,
signore?
Johnson: - No,
signore.
Affrontarli
sarebbe follia pura. Egli
devetenereunalampada
sempre accesa di notte
nella sua camera e, se
soffre di un’insonnia
irrequieta,deveprendere
un libro e leggere, e
quindi
acquietarsi.
Dirigere il proprio
spiritoèunagrandearte,
che si padroneggia solo
con un alto grado di
esperienzaediesercizio
Boswell: - Ma non
dovrebbeforsedistrarsi?
Nonglifarebbebene,ad
esempio, seguire un
corsodichimica?
Johnson:-Chesegua
uncorsodichimicaoun
corso di salto con la
corda, o qualunque altro
corsogliinteressi.Chesi
sforzidiaverequantipiù
rifugipossibiliperlasua
mente, quante più cose
possibili
in
cui
possa fuggire da se
stesso.L’Anatomiadella
malinconia di Burton è
un buon libro, anche se
forseeccedeincitazioni.
Ma c’è molto spirito e
molta forza in ciò che
dice quando esprime il
suo
pensiero
personale»98.
Curatedunqueilmalecon
il male: quando siete
malinconici, leggete libri
sulla malinconia. Johnson
pensa che tutti siano più o
meno malinconici. Coloro
che hanno un carattere
equilibrato sono rari e felici,
come il pittore Reynolds:
«Parlando
della
malinconia, disse: “Alcuni,
peraltro uomini di alta
levatura
intellettuale,
non hanno questi pensieri
dolorosi.SirJoshuaReynolds
non ha sbalzi d’umore lungo
tutto il corso dell’anno [...].
Ma credo che la maggior
parte delle persone ne siano
colpite a seconda delle loro
capacità. Se vivessi in
campagnaesoffrissidiquesta
malattia, mi sforzerei di
prendere in mano un libro; e
ogni volta ne troverei di
migliori. In verità, bisogna
allontanarelamalinconiacon
tutti i mezzi, eccetto l'
alcol”»99.
Johnson riesce a superare
la propria malinconia con un
accanito lavoro: scrivere un
dizionarioèunantidepressivo
meraviglioso; se non si
diventapazzi,siguarisce.Ma
Boswellsidàsempredipiùal
bere e il dottore, che teme
l’insorgenza della follia, gli
consiglia di impegnare la
mente:
«L’occupazione,
signore,
e
le
privazioni,
impediscono
l’insorgenzadellamalinconia.
Credo che, in tutto il nostro
esercito in America, non un
solo
uomo
diventi
pazzo»100. Boswell cita il
casodiuncommercianteche,
ritiratosidagliaffari,precipita
nellamalinconiaacausadella
noia. Egli accoglie le
sofferenze della malattia
dell’infelicità
come
un
sollievo, rispondendo così a
qualcuno che lo compativa:
«No, no signore, non mi
compatite:ciòchesentooraè
il benessere, rispetto alla
torturadellospiritodacuimi
sonosollevato».
Johnson tenta di scuotere
il suo giovane amico che
parlacontinuamentedellasua
malinconia, e nel 1776 gli
scrive: «Leggete La malattia
inglese di Cheyne, ma non
lasciatevi influenzare da
questa folle idea che la
malinconia sia prova di
lungimiranza. Sono molto
deluso nel sapere che non
avete aperto le vostre scatole
di libri. Lo studio e la
classificazioneditantivolumi
vi avrebbero procurato una
distrazione che in queste
circostanze sarebbe stata la
benvenuta, oltre che utile per
tutta la vostra vita. Confesso
che sono assai in collera nel
vederecheviorganizzatecosì
male»101. L’8 maggio 1780,
esasperato,scriveancora:«Vi
lamentate
sempre
della malinconia, e da tali
lamenti devo concludere che
l’amate.Nessunoparladiciò
che vuole nascondere, e tutti
vogliono nascondere ciò di
cui hanno vergogna. Non
negatelo;
manifestum
habemus furem; imponetevi
la regola invariabile e
obbligatoria di non fare mai
menzione
delle
vostre
malattie mentali. Se non ne
parlerete mai, ci penserete
poco, e se ci penserete poco,
vi disturberanno raramente.
Quando ne parlate è chiaro
checercatedellelodi,odella
pietà;manonc’èpostoperle
lodi, e la pietà non vi sarà di
alcun beneficio. Quindi, a
partiredaora,nonparlatenee
nonpensatecipiù»102.
L'internazionaledella
malinconia
Boswell è un depresso
incurabile.Nelfrattempo,nel
1763, intraprende un viaggio
in Europa per chiarirsi le
idee. Tuttavia sarà un giro
nell’Europa
malinconica,
durante il quale incontrerà
tutti i grandi depressi
dell’epoca e scambierà
impressionisulmaldivivere.
Nel racconto del suo viaggio
distinguiamo una sorta di
internazionale
della
malinconia, un clima di
malessere
ampiamente
diffuso
negli
ambienti
intellettuali.
Il viaggio inizia in
Olanda,
dove
Boswell
intraprende alcuni studi
giuridici e subisce un grave
attaccodiipocondria,durante
il quale teme di diventare
pazzo. Il secondo attacco
esplode quando gli viene
comunicatalamortedelfiglio
naturale che aveva avuto da
una serva e che non aveva
mai visto. Si sposta poi in
Prussia.
A
Brunswick
incontra l’abate Jérusalem,
chelometteapartedellesue
tentazionisuicide:sitrattadel
padre di Karl Wilhelm
Jerusalem, che si suiciderà
nel 1772, ispirando Goethe
per il suo Werther. Boswell
raccoglie anche la storia di
Gualteri, un nevrastenico che
si getta dalla finestra durante
un pasto con un principe
ereditario, e quella di un
ministro
francese
ipocondriacocheogninottesi
faceva legare al letto perché
aveva paura di suicidarsi. A
Lipsia incontra il poeta
ChristianGeliert,checrededi
morire ogni notte da
vent’anni;aCasselincontrail
«grande
ipocondriaco»
Landgrave. Le lettere che
scrive a Johnson esprimono
i suoi timori di una ricaduta
depressiva, timori accresciuti
dalle osservazioni dei suoi
interlocutori:
«Late
attenzione,
rischiate
di
diventare
ipocondriaco!
Bevete molta acqua e fate
dell’esercizio
fisico»,
gli
consiglia
Madame
Kircheisen; «Avete una
tendenza alla malinconia che
vi rende molto instabile»,
osservaMadamedeFroment,
che insiste: «Dovete essere
davvero malato per avere
pensieri
simili!»;
«Lateattenzioneagliincubi»,
lo ammonisce il generale
Wylich.
Dopo la Prussia, Boswell
si reca in Svizzera. Qui, a
pochi
chilometri
l’uno
dall’altro,vivonoiduegrandi
maestridelpensieroeuropeo,
VoltaireeRousseau.Boswell
è
alla
ricerca
di
un’autorità intellettuale e
morale, di un direttore
spirituale, di un padre
sostitutivochesiaingradodi
guidarlo, di rassicurarlo, di
indicargli la strada. Perché il
mal di vivere significa non
trovare il senso della vita.
Forse il grande Jean-Jacques
halarisposta?Avvicinandosi
a Mòtiers, Boswell inizia a
sentirsi
agitato
e
«splenetico». Egli si prepara
al colloquio con una vera e
propria ascesi: giura che non
toccherà più una sola donna
primadiavervistoRousseau,
vale a dire per tre giorni,
forse quattro. Il filosofo ha
cinquantadue
anni
ed
è fisicamente mal ridotto;
Thérèse Le Vasseur, che gli
hadatocinquefigli,tuttifiniti
all’ospiziodiParigi,vegliasu
di lui. Nonostante la
stanchezza, egli accorda
comunque cinque colloqui,
calcolatialminuto,algiovane
scozzese, che gliene è
riconoscente:
«Mi
avetedimostratomoltabontà,
che
peraltro
merito».
Boswell, che si presenta a
Rousseaucomevisitatore,gli
fa dono di una breve autobiografia in cui delinea le
cause della sua malinconia e
si definisce un Eros
ipocondriaco:
ereditarietà,
inquietudine
religiosa
aggravata dal calvinismo
familiare, che entra in
conflitto
con
i
suoi
forti bisogni sessuali. Egli ha
preparato una lista di
domande e di temi di
conversazione:
«suicidio;
ipocondria, male reale; follia
ereditaria; gesti estremi; le
vostre argomentazioni». Egli
chiede persino al filosofo se
riuscirebbe ad avere trenta
donne
alla
volta,
seguendo l’esempio dei suoi
patriarchi.Rousseaufalasua
parte, è prodigo di consigli.
Boswell, così pieno di sé, gli
confessa candidamente il suo
sgomento: «Mi considero
continuamente un essere
miserabile, un buono a nulla
che dovrebbe sopprimersi».
Tuttavia resto in vita: «È ciò
che ognuno di noi non può
trattenersi dal fare», risponde
Rousseaudivertito103.
Qualche giorno dopo,
Boswell si reca a Fernay,
doveriesceaottenerediversi
colloquiconVoltaire.Siparla
molto di Shakespeare, che
Voltairedetesta,edell’Essere
supremo, che invece venera.
Il filosofo è sempre uguale a
se stesso, sarcastico e
affascinante,
cosa
che
perlomeno distrae Boswell.
Eglièalsettimocielo:«Sono
proprio un personaggio
sorprendente! Vengo accolto
ovunque dal plauso e dal
consenso di tutti, e le
personalità più eminenti mi
riservano
l’accoglienza
migliore. E per quale motivo
poi? Non sono né un grande
erudito né un uomo dal
giudizio sovrano. Ma il
mio animo è nobile e ciò
traspare in tutto ciò che dico
o faccio. Ho fantasia,
umorismo e una buona
conoscenza della natura
umana»104. Ecco un esempio
deltoccanteegocentrismodel
malinconico.
DaFernayBoswellarriva
in Italia: Torino, Parma,
Modena,
Roma,
dove
incontra varie celebrità: il
naturalista Needham, il
filosofo Condillac. Poi,
sempre mosso dalla sua
malinconia,
eccolo
in Corsica, dove stringe
amicizia con Paoli. Ovunque
si fermi, la sua curiosità
morbosa lo spinge a visitare
le prigioni per andare a
trovare i condannati a morte,
o assistere alle esecuzioni.
Egli interroga i malcapitati,
vuolesapereciòcheprovano
prima d morire e cerca di
leggere gli stati d’animo sui
lorovolti.«Provounimpulso
irresistibile a essere presente
a ogni esecuzione, perché
cosìpossoosservareidiversi
effetti dell’approccio della
morte
sugli
infelici
condannati, in funzione dei
lorodiversicomportamenti.E
studiandonegliatteggiamenti,
imparo a placare e a
fortificarelamiaanima»105.
Boswell rientra dal suo
viaggio con un accresciuto
bagaglio di esperienze in
svariaticampi.Egliincontraa
Londra Benjamin Franklin e
William Pitt, ritrova Paoli
esiliato, poi si reca in
Irlanda per un breve
soggiorno e ritorna a
Edimburgo, dove inizia a
esercitare la professione di
avvocato.Nel1769sposasua
cugina
Margaret
Montgomery. La poverina
non sa cosa l’aspetta. I
primi due anni trascorrono
felici, in questo lasso di
tempo Boswell smette di
tenere il suo diario privato,
cosa significativa come
sottolinea il suo recente
biografo Maurice Lévy: «Il
diarioèunostrumentocontro
la depressione, il mezzo per
esteriorizzare
o
tenere
lontani i demoni intimi:
un’arma per i momenti di
crisiodiipocondria»106.
Poiinizialadiscesanegli
inferi.
Boswell
cade
nuovamente in depressione:
alcol, donne, violenze, noia,
gioco, angosce metafisiche.
Estremamente consapevole
del suo decadimento, egli ne
descrive le tappe nel suo
diario. Nel 1774 suo fratello
diventa pazzo; Boswell teme
chelostessomaleincombasu
di lui e affoga la
sua
«malinconia
nera»
nell’alcol. Egli alterna i
soggiorni
a
Londra,
dove conduce una vita
dissoluta, con quelli a
Edimburgo, dove muore di
noia. I suoi scrupoli religiosi
sono sempre ben presenti,
così come lo è anche
l’ossessione della morte:
quando uno dei suoi clienti,
John Reid, viene condannato
a morte, ebbene, egli fa
eseguire il suo ritratto in
prigione da un pittore
scozzesealfinediconservare
itrattidiunuomochestaper
morire. Mentre l’artista
lavora, Boswell intrattiene il
condannato
sulla
sua
imminente esecuzione. Egli
annota sul suo diario:
«Volevo che il ritratto fosse
eseguito mentre incombeva
su di lui la minaccia della
pena
capitale.
Se
dovesse essere graziato, non
dovrebbe esserne informato
prima che il quadro sia
terminato»107.
Egli non perde mai
occasione per interrogare
colorochestannopermorire,
aquestoriguardonehagiusto
uno illustre a due passi da
casa sua: si tratta di David
Hume, un ateo dei più
convinti. Il 7 luglio 1776,
Boswell lo va a trovare e lo
subissadidomande:
- «Vicino alla morte,
continuate
a
negare
qualunquetipodivitafutura?
- Certo... L’idea che
possiamo esistere per sempre
mi sembra del tutto
irragionevole.
-Ilpensierodelnullavi
spaventa?
- Per niente: il nulla
dopo la morte non è più
spaventoso di quello che
precedelanascita».
Boswell vacilla: «Non ho
potutofareamenodisentirmi
assalito
da
dubbi
estemporanei davanti allo
spettacolo di un uomo così
eminente, così colto, che
accettaval’ideadelnulla»108.
Allo
stesso
modo
importunerà
il
vecchio
Johnson morente e un vicino
ottantaseienne, Lord Kames.
Boswell è in attesa di
rivelazioni,
pone
ansiosamenteledomandepiù
insidiose, spia i volti;
vorrebbe che i morenti
confessassero il proprio
terrore, e quasi scandalizzato
dalla loro calma, osserva
indispettito a proposito di
Lord Kames: «Nulla che
ispirasse il rispetto, nulla di
edificante, nessun pensiero
pio,nulladisolenneinquesto
vecchio giunto alla fine
della sua vita!». Quando
tocca a suo padre nel 1782,
viene colto dalla stessa
sorpresa.
Nella malinconia di
Boswell ci sono tutte le
domandedeifilosofi:«Perché
esisto? Perché questo mondo
è stato creato?»; perché la
morte, la sofferenza? Tutto è
vano,qualèilsignificatodel
tutto? Questi interrogativi lo
torturano, egli cerca risposte
nelle letture, in particolare in
Fénelon e Bourdaloue, e si
recaadascoltareisermoniin
varie chiese: egli va dai
presbiteriani, dagli anglicani,
dai glasiti (setta scozzese di
John Glas), e persino dai
cattolici, nella cappella
portoghese di Edimburgo.
Tutte
queste
campane contraddittorie non
fanno che accrescere la sua
confusione.Nel1781pensaal
suicidio, mentre le sue
ossessioni
proseguono
nei sogni. Dice di essere
«lugubremente triste», «in
una specie di disperazione»,
«tristemente depresso», «di
umorefunebre».Visitapoila
prigionediNewgate,studiail
voltodegliimpiccati.
Dal 1777 al 1783,
Boswell trova un modo per
esorcizzare la malinconia,
almeno in una certa misura:
egli pubblica una cronaca
dedicata ai suoi argomenti
preferiti,lamorte,l’angoscia,
ilbere,laverità,nel«London
Magazine»,
sotto
lo
pseudonimo
de «L’Ipocondriaco». In
questa rubrica riversa i suoi
interrogativi, dà consigli a
colorochesoffronodiquesta
depressione dello spirito, che
egli descrive da vero
intenditore: stato di apatia,
irrisolutezza, incapacità di
prendere una decisione
persino nei campi più
insignificanti, disprezzo per
se stessi, pensieri cupi,
pessimismo, fantasie funebri,
irritabilità, crisi d’angoscia.
Sin dal suo primo articolo si
riferisce naturalmente ad
Amleto,ilcuicomportamento
riflette questi sintomi, e
ammette che scrivere gli
procura sollievo. Il suo iter
ricorda quello del suo
malinconico
predecessore
Robert Burton, che scriveva,
anche lui, per guarirsi. Nella
ricerca
di
tutti
i
rimedi possibili, si rivela
essere
estremamente
contraddittorio:
egli
infatti raccomanda la pratica
religiosa,maanchequelladei
piaceri terrestri, a suo avviso
prefigurazione dei piaceri
celesti:ilvinoeledonne.
Nel 1786, dopo molte
esitazioni,
Boswell
si
trasferisce a Londra con la
sua famiglia, ricadendo
nell’ipocondria,
nell’alcolismo
e
nella dissolutezza. La sua
sposa deperisce; nel suo
diario Boswell si analizza
lucidamente, dilaniato da un
lato dai rimorsi e, dall’altro,
dal bisogno di giustificarsi:
«Mia moglie sta molto male
edèmoltodepressa[...],sono
turbato, nel mio intimo, da
questa ricerca sfrenata del
piacere che mi ha fatto
lasciare una sposa precipitata
nello sconforto, proprio lei
che non mi avrebbe mai
abbandonato, nemmeno nella
minimaindisposizione[...].In
verità sono convinto di avere
fatto bene: poiché ho
aggiunto al mio bagaglio
alcune esperienze gradevoli,
che più avanti diventeranno
ricordifelici;sefossirimasto
a casa, mi sarei tormentato e
avrei fatto più male che
bene a mia moglie». La sua
povera moglie muore il 4
giugno1789.
Sommerso dai problemi
finanziari,Boswellsimetteal
servizio di Lord Lonsdale,
che lo usa per i compiti
subalterni più umilianti. Gli
resta un’ultima ragione per
vivere: ha iniziato a scrivere
La vita di Samuel Johnson.
Ma ecco arrivare la nuova
disillusione:
Sir
John
Hawkins ne pubblica una
giustopochimesiprimadella
sua.Immensafrustrazioneper
uno scrittore, soprattutto per
un biografo: l’opera di
Hawkins non è ben fatta, ma
per il grande pubblico un
JohnsonèunJohnson,perché
scriverneunsecondo?
Boswell
pubblica
comunque la sua voluminosa
opera (millecento pagine in
quarto) nel 1791. Il libro è
avvincente,
commovente,
molto poco convenzionale.
Quando un malinconico,
arrivato quasi alla fase
terminale della disperazione,
racconta la vita di un
altromalinconico,leduevite
siconfondono.Labiografiaè
al contempo autobiografia e
ciraccontasiadiBoswellche
di Johnson. Il successo
dell’opera è anche dovuto al
fatto che si trova in linea
con questo XVIII secolo che
volge al termine e che vede
sorgere il sole nero della
malinconiaromantica.
Dopo lunghi anni di
lavoro dedicati a questa
enorme opera, Boswell si
ritrova di fronte a un vuoto
spaventoso. Riecco affiorare
il triste dilemma: alle
sofferenze della scrittura
segue la temibile noia del
riposo. Boswell non ha più
alcuno
scopo
nella
vita.Scrive:«Finito,finito,il
sognoèfinito.Leingannevoli
illusioni della vita sono
finite», e al suo amico
Malone:
«Se
solo
potessi avere un obiettivo
nellavita!».Nell’autunnodel
1792, in questa stagione
lugubre, il suo diario diventa
una
litania
disperata:
«Nessuna voglia di vivere
[...], depresso e nervoso [...],
non sono più me stesso [...],
tristemente abbattuto [...], il
ghiaccio
ipocondriaco
continua a non sciogliersi
[...],diumorelugubreeiroso
[...],
disperazione
e
ozio...»109.
Boswell
si
trascinafinoal1795.
La vita patetica di questo
personaggio
illustra
l’inquietudine delle élite nel
secolo dei Lumi. Boswell
spinge fino alla patologia il
maldiviverediun’epocache
si nutre del vuoto creato dal
dubbio religioso. Immerso in
un mondo vitaiolo e
decadente, egli è tormentato
fino alla fine dagli scrupoli
legati alla sua educazione
calvinista. Combattuto fra
dueparadisi,quellopromesso
dalla religione nell’aldilà e
quello offerto dai piaceri
terrestri, egli non ha
conosciuto che l’inferno. Il
godimentodeipiaceriterrestri
è annientato dal pensiero dei
piacericelesticheforsesista
perdendo.Ilmaldiviveredei
Lumièquellodelleepochedi
transizione, in cui lo spirito
esitafraduesistemidivalori:
la vecchia religione non è
morta, poiché continua ad
assillare le coscienze, mentre
le promesse della ragione si
fanno sempre più concrete.
Fluttuante e irrisolto, lo
spiritohaunasolacertezza:il
tempo passa, non utilizzato,
sprecato,
perduto
fra
inquietudineenoia.
1J.
DEPRUN,
La
philosophie de l’inquiétude
en France au XVIIesiècle, J.
Vrin,Parigi1979.
2
J. LOCKE, Drafts for
theEssayConcerningHuman
Understanding and other
Philosophical Writings, in
TheClarendonEditionofthe
Works of John Locke, a
curadiP.H.NidditcheG.A.J.
Rogers, e successivamente di
John
W.
Yolton,
Clarendon Press, Oxford
1990.
3 J. LOCKE, Drafts for
theEssay...,cit.
4
H. DE
BOULAINVILLIERS,
Réfutation des erreurs de
Benoit
de
Spinoza,
Bruxelles1731,p.191.
5Ivi,p.192.
6 B. LAMY (padre),
Trattenimentisopralescienze
del padre Bernardo Lami
prete
dell’Oratorio
di
Francia, nei quali s’insegna
il metodo di studiare le
scienze, e come valersi di
queste pel buon regolamento
dell’intelletto, e del cuore,in
Rovereto: nella stamperia di
Pierantonio Berno librajo,
1734.
7
Fr.-R.
DE
CHATEAUBRIAND, Essai
historique, politique et moral
sur les révolutions ancienne
set modernes, considérées
dans leurs rapports avec la
Revolution française, libro I,
1°parte,cap.LXX.
8
L. DE LACAZE, Le
templedubonheur, Bouillon,
1769,1.1,p.278.
9Ivi,p.280.
10 X. BICHAT,
Recherches physiologiques
sur la vie et la mort, Parigi
1800; trad, it., Ricerche
fisiologiche intorno alla vita
ed alla morte, Co’ Tipi
dell’ed. Giuseppe Antonelli,
Venezia1841.
11 Ph. PlNEL,
Nosographie philosophique,
Parigi, anno VI; trad, it.,
Nosografia filosofica o il
Metododell’analisiapplicato
allamedicina,Napoli1823.
12 D. DIDEROT,
Jacques il fatalista e il suo
padrone, Mondadori, Milano
1965.
13 P. ROUSSEL,
Systemephysiqueetmoralde
lafemme,Parigi,5°ed.1809,
p.15[1775];trad,it.,Sistema
fisico e morale della donna:
con
un
frammento
del Sistema fisico e morale
dell’uomo, e un Saggio
intorno alla sensibilità,
Borroni e Scotti, Milano
1853.
14Ibidem.
13 D. DIDEROT, Sur les
femmes,
in
CEuvres,
Gallimard, Parigi 1946, p.
954.
16 J.-J. ROUSSEAU,
Giulia o la Nuova Eloisa:
lettere di due amanti, di una
cittadina ai piedi delle Alpi,
Rizzoli,Milano1964.
17 FEUCHER D’ARTAIZE,
Réflexionsd'unjeunehomme,
Londra, Parigi 1786, t. I, p.
169.
18FR.QUESNAY,Essai
physique sur l'économie
animale, chez Guillaume
Cavelier,Parigi1747,p.255.
19 A. LE CAMUS,
Médecine de l'esprit, Parigi
1753,t.I,p.299.
20Ivi,t.1,p.300.
21 J.-F. DUFOUR, Essai
sur les opérations de
l'entendement et sur les
maladies qui le dérangent,
Amsterdam, Parigi 1770, p.
357.
22 T. WlLLIS, Opera
omnia, Lione 1681, t. II, p.
238.
23 H. BOERHAAVE,
Aphorismes de Monsieur
Hermaan Boerhaave sur la
con-noissance et la cure des
maladies, Parigi 1745, n.
1089.
24 A. LE CAMUS,
Médecine...,cit.,t.I,p.299.
25R.WHYTT,Traitédes
maladies
nerveuses,
hypocondriaques
et
hystériques,Parigi1777,t.II,
p.132.
26J.RAULIN,Traitedes
affections vaporeuses du
sexe: avec l'exposition de
leurs symptömes: de leurs
differentes causes: et de la
méthode de les guérir, Parigi
1758,p.340.
27 F. DOUBLET e J.
COLOMBIER, Instructions sur
la manière de gouverner et
de traiter les insensés,
«Journal de médecine»,
agosto1785.
28 G.G. CHEYNE, The
EnglishMalady,oraTreatise
of Nervous Diseases of
allKinds,asSpleen,Vapours,
Lowness
of
Spirits,
Hypocondriacal
and
Hysterical Distempers, etc.,
Londra1733;J.V.TOALDO,
Della vera influenza degli
astri sulle stagioni e
mutazioni di tempo, saggio
meteorologico di Giuseppe
Toaldo; in Padova: nel
Seminario
appresso
TommasoBettinelli,1797.Su
tuttequesteinterpretazioni,si
veda J. SENA, The English
Malady: the Idea of
Melancholy from 1700 to
1760, Princeton University
Press,Princeton1967.
29 Passaggi citati in A.
SOLOMON, Il demone di
mezzogiorno: depressione: la
storia, la scienza, le cure,
Mondadori,Milano2002.
30 Lettres de Madame
duchesse d’Orléans née
princesse palatine, a cura di
O.Amiel,MercuredeFrance,
Parigi1981,p.175.
31 B. LAMY (padre),
Démonstrations ou preuves
évidentes de la vérité de la
religion,Parigi1705,p.150.
32I. KANT, Osservazioni
sulsentimentodelbelloedel
sublime, Fabbri, Milano
1996,pp.95-97.
33J.RAULIN,Traitédes
affections..., cit; P. POMME,
Traite des affections ναροreuses des deux sexes:
contenant une nouvelle
méthode de traiter ces
maladies fondée sur des
observations, 1760; trad, it.,
Saggio sopra le affezioni
vaporose
de’
due
sessi: contenente un nuovo
metodo di trattar queste
malattie fondato sopra delle
osservazioni: in Napoli,
pressoG.Raimondi,1765.
34 Uccello che si nutre
dicarogneeanimalimarinie
d’estate diventa predatore di
pinguini e altri uccelli
antartici[N.d.T.].
35 Mémoires secrets
pour servir à l’histoire de la
République des Lettres en
France depuis 1762 jusquà
nos Jours. Memorie dette di
Bachaumont, dal nome di
Louis Petit de Bachaumont
(1690-1771), la cui raccolta
di curiosi aneddoti dal 1762
al 1771 è stata continuata da
Pidansat de Mairobert, morto
suicida, e in seguito
da Moufle d’Angerville fino
al1787,t.IV,p.37.
36R.FAVRE,Lamortau
siècle des Lumières: dans la
littérature
et
la
pensée françaises, Presses
UniversitairesdeLyon,Lione
1978.
37Veniamoquaggiùun
soloistantepersoffrire/dare
un’occhiataattornoemorire.
38 J. DORAT, Le
malheureux imaginaire, cit.,
Prefazione.
39 R.MAUZI, L'idee du
bonheur au XVIIIe siècle,
AlbinMichel,Parigi1994.
40 L.-S. MERCIER,
TableaudeParis,Amsterdam
1782,XII,279.
41 P.-V. DE
BÉSENVAL, Mémoires, in
Bibliothèque des mémoires
relatifsàl’histoiredeFrance
pendant le XVIIIe siècle,
Parigi1857,t.IV,p.40.
42 LE FRANC DE
POMPIGNAN, Hymne VIII,
«Quanto è infelice l’uomo,
quantoècrudelelasuavita!/
Nasce come il fiore e come
lui viene calpestato; /I suoi
mali sono mille volte più
numerosideisuoigiorni[...]/
Dio
che
mi
hai
condannato, perché mi hai
fatto nascere, / Se devo
soffrire
per
sempre?»
[traduzionenostra].
43 J. Blondel, Loisirs
philosophiques, Parigi 1756,
p.84.
44
Citato
da
B.
PLONGERON, Théologie et
politique au siècle des
Lumières, 1770-1820, Droz,
Parigi1973,p.26.
45 FEUCHER D’ARTAIZE,
Réflexions...,cit.,p.13.
46P.J.B.NOUGARET,
Les méprises ou les illusions
du plaisir, Berlino e Parigi
1780,t.I,p.87.
47TRUBLET(ABATE),Essais
surdiverssujetsdelittérature
et de morale, Parigi 1735, t.
III, p. 259; trad, it.,
Volgarizzamento di saggi
sopra diverse materie di
letteratura e di morale del
sig. ab.e Trublet, in Firenze:
nella
stamperia
Mouckiana,1753.
48 Citato da R. FAVRE,
Lamort...,cit.,p.463.
49F.GALIANI(abate),
Correspondance,Parigi1881,
2vol.,t.II,p.267.
50 G. MINOIS, Les
origines du mal: une bistoire
du péché origine!, Fayard,
Parigi2002.
51
N. DE
MALEBRANCHE, Colloqui
sullametafisicalareligionee
lamorte,EdizioniSanPaolo,
Milano1999,IXcolloquio,p.
286.
52
P. HAZARD, Le
problème du mal au XVIIIe
siècle, «Romanie Review»,
1941,p,163.
53J.-J.ROUSSEAU,Le
passeggiate del pensatore
solitario, Terza passeggiata,
UTET,Torino1968.
54 R. Mauzi,L'idee du
bonheur...,cit.,p.24.
55Ivi,p.79.
56
G.G.
CASANOVA,
Memorie, Garzanti, Milano
1999.
57 P.H. D’HOLBACH,
Systeme social, Londra
1773,1.1,p.181.
58 J. BLONDEL,
Loisiris...,cit.,p.38.
59 TRUBLET (ABATE),
Essais...,cit.,t.III,p.255.
60
L.-S. Mercier,
Tableau...,cit.,t.1,p.XV.
61 D. DIDEROT,(Euvres
complètes, a cura di J.
Assézat e M. Tourneux,
Parigi 1875-1877, 20 voll., t.
II,p.427.
62L.-J.LÉVESQUE DE
POUILLY,
Théorie
des
sentimentsagréables,Barillot
&fils,Genève1747.
63 G. Dubois de
Rochefort, Histoire critique
des opinions des andern et
des systèmes des philosophes
sur le bonheur, Knapen &
fils,Parigi1778.
64 P.-V. DE BÉSENVAL,
Le Spleen, Flammarion,
Parigi1899,p.37[1757].
65 W. CONGREVE,
The Complete Works, a cura
di M. Summers, Londra
1923,t.III,p.206.
66J.EVELYN,TheDiary
ofJohnEvelyn,acuradiE.S.
de Beer, Clarendon Press,
Oxford,1955,p.593.
67 Lettres de Madame
duchesse d’Orléans née
princesse palatine, a cura di
O.Amiel,MercuredeFrance,
Parigi1981,p.129.
68W.WITHERS,Some
Thoughts concerning Suicide
or
Self-killing,
Londra
1711,p,3.
69 «World», 16
settembre1756,p.1161.
70 Si veda G. Minois,
Histoire du suicide, Fayard,
Paris1995.
71 F. GRIMM,
Correspondence
litteraire
philosophique et critique, a
cura di M. Tourneux,
Nendeln,Liecht,t.IX,p.231.
72 S.-P. HARDY, Mes
loisirs,Parigi1772,p.323.
73 Fr.-X. DE Feller,
Catéchisme philosophique,
Parigi 1773, p. 139; trad,
it., Catechismo filosofico,
ossia
Raccolta
di
osservazioni
proprie
a
difendere
la
religione
cristiana contro de’ suoi
nemici, presso Domenico
Sangiacomo,Napoli1805.
74BARRUEL(abate),Les
Helviennes, Parigi 1781, t.
IV,p.272.
75 L.-S. MERCIER,
Tableau...,cit.,t.III,p.193.
76 Mémoires secrets...,
cit.,t.XVI,p.153,
77Ivi,t,IV,p.234.
78Ivi,t.V,p.171.
79 Memoires secrets...,
cit.,t.VI,p.101.
80Ivi,t.VIII,p.79.
81 H. BRUNSCHWIG, La
crise de l’état prussien à la
finduXVIIIesiedeetlagenèse
de
la
mentalité
romantique, PUF, Parigi
1947.
82 Informazioni
gentilmente fornite dal
professorJarrick.
83 Cosa farò? Dove
fuggiròlontanodamestesso?
/ Il mondo è necessario;
locondanniamo,loamiamo:/
Non si può vivere né con lui
né senza di lui / Il
nostronemicopiùgrandeèla
noia.
84 R. MAUZI, L'idee du
bonheur...,cit.,p.68.
85 Sulla noia di Madame
du Deffand, si veda M.
HuGUET, L' ennui et ses
discours,PUF,Parigi1984.
86 J. DE LESINASSE,
Lettres de Mademoiselle de
Lesinasse,Parigi1811,p.60.
87Ivi,p.91.
88 MADAME ROLLAND,
Delamélancolie,1771.
89 J.-D. Bredin, Une
singulière famille, Jacques
Necker, Suzanne Necker
etGermainedeStaèl,Fayard,
Parigi1999.
90 G.N. de StaelHolstein,Dixannéesd'exil,a
cura di S. Balayé e M.V. Bonifacio, Fayard, Parigi
1996,p.313.
91Ibidem,letteraasuo
maritodel5febbraio1796.
92 G.N. DE STAELHOLSTEIN, Da caractère de
Monsieur Necker et de sa
vie privée, in J. NECKER,
Manuscrits,acuradiG.N.de
Stael-Holstein,
Ginevra,
annoVIII,p.122.
93 B. DE ANDLAU, La
jeunessedeMadamedeStael
de
1766
à
1786,
Droz,Ginevra1970,p.115.
94 M. OZOUF,
Germaine ou l’inquiétude, in
Les Mots des femmes. Essai
sur la singularité française,
Fayard,Parigi1995.
95 E. e J. DE GONCOURT,
La femme au XVIIIe siècle,
Flammarion, Parigi 1982, p.
321; trad, it., La donna nel
Settecento,Feltrinelli,Milano
1983.
96 E. e J. De GONCOURT,
Lafemme...,cit.
97J.BOSWELL,TheLife
of Samuel Johnson, Londra
1924, 3 voll., t. I, p. 30 trad,
it., Vita di Samuel Johnson,
Garzanti,Milano1954.
98Ivi,t.II.
99 J. BOSWELL, The
Life...,cit.
100Ibidem.
101Ibidem.
102J.BOSWELL,TheLife...,
cit.
103
C.H.
KULLMAN,
BoswellinterviewsRousseau:
A Theatrical Production,
«The
South
Carolina
Review», 21, n. 2, 1989, pp.
30-45.
104CitatodaM.LÉVY,
Boswell,
un
libertin
mélancolique: sa vie, ses
voyages, ses amours et ses
opinions, ELLUG, Grenoble
2001,p.102.
105Ivi,p.265.
106Ivi,p.180.
107M.LEVY,Boswell...,
cit.,p.221.
108 R.B. SCHWARTZ,
Boswell and Hume: The
Deathbed Interview, in New
Light on Boswell: Critical
and Historical Essays on the
Occasion of the Bicentenary
oftheLifeofJohnson,acura
di
Greg
Clingham,
Cambridge University Press,
Cambridge1991,pp.16-25.
109 M. LÉVY, Boswell...,
cit.,p.372.
Capitolosettimo
IImaledelsecolo
romantico:dalfuroredi
vivereallospleen(XIX
secolo)
Nel
1836,
nelle
Confessioni di un figlio del
secolo,ilventisettenneAlfred
de Musset tenta di definire il
malessere
della
sua
generazione. Egli lo chiama
«male del secolo» e lo
presenta
come
l’immensadisillusioneditutti
igiovaninati,comelui,frail
1800 e il 1810, che hanno
avuto un’infanzia cullata
nell’eco
dell’epoca
napoleonicaechesiritrovano
ora sotto la cappa di piombo
della
Santa
Alleanza: «Appena apparve
nel cielo l’astro algido della
ragione, e i suoi raggi, simili
aquellidellafreddadeadelle
notticheriversaluceprivadi
calore, avvilupparono il
mondo in un sudario livido
[...], una sensazione di
malessereinesprimibileiniziò
afermentareintuttiigiovani
cuori».
Lanoiadeigiovani
I giovani si annoiano: è
stata loro sottratta ogni
prospettiva esaltante, ogni
sogno politico di grandezza.
Dal 1815 svaniscono le
speranze, o le illusioni, di
libertà, di uguaglianza e di
fraternità.Ritornanoivecchi,
e con loro l’antico ordine
viene restaurato. Che fare
dunque,senonrinchiudersiin
se stessi, esplorare il
proprio mondo interiore,
coltivare
i
sentimenti
leggendo
gli
scritti
preromantici?Lagenerazione
precedente ha preparato il
terreno: Goethe, nato nel
1749; Chateaubriand, cui la
madre «inflisse la vita»
nel 1768; Senancour, venuto
in questo triste mondo nel
1770; Kleist, strappato al
nulla nel 1777, e tutta la
schiera
degli
inglesi
malinconici,
Coleridge
(1772),Byron(1788),Shelley
(1792), Keats (1795), già
autori di migliaia di poesie e
romanzi atti ad alimentare i
pensieri oscuri. Prosegue
Musset: «Quando le idee
inglesi e tedesche passarono
quindi sulle nostre teste, fu
come un disgusto tetro e
silenzioso seguito da una
terribile convulsione [...]. Fu
come la negazione di tutte le
cosedelcieloedellaterrache
puòesseredefinitadisincanto
o,volendo,disperazione».
Il mal di vivere
preromantico e romantico è
anzituttotipicodeigiovani,la
cuienergianontrovasfogoe
la cui necessità di sposare
grandi
cause
viene
doppiamente frustrata. La
prima generazione, delusa
dallafreddaragioneincuigli
Illuministi avevano riposto
tuttelelorosperanze,sivolge
ora verso i sentimenti. Per
questi giovani i sentimenti si
sintetizzano nell’amore, e
l’amore è tragico, sempre
minacciato dal tempo, dal
tradimento, dalla morte.
Gli eroi romantici, Werther,
René e Oberman, sono tutti
infelici.
Oberman,
ad
esempio,pubblicatonel1804
da Senancour, è il prototipo
del giovane romantico.
Assetatodiassoluto,diverità
e di eternità, non fa che
incontrare sulla sua strada
grettezza, falsità ed effimero.
«Cosa mi importa di ciò che
può finire?» si chiede.
Deluso dalla vita, egli si
trascina
nella
noia,
indifferente nei riguardi del
futuro, da cui non si aspetta
nulla, «e disposto a
dimenticare senza fatica il
passatodicuinonhogoduto.
Ma
c’è
in
me
un’inquietudine che non mi
lasceràmai;èunbisognoche
non
conosco,
che
non concepisco, che mi
comanda, mi assorbe, mi
travolge al di là degli esseri
perituri»1. Triste, stanco, non
può tuttavia fare a meno
di godere della propria
sofferenza: «Da dove viene
all’uomolapiùduraturafrale
gioiedelsuocuore,lavoluttà
della malinconia, l’incanto
pieno di segreti che lo
abbevera dei suoi dolori e fa
sìcheeglicontinui,cosciente
della propria rovina, ad
amarsi?»2.Obermanèintutto
epertuttofratellodelChilde
HarolddiByronedelRenédi
Chateaubriand,perilqualela
vita è permeata da un
«profondo sentimento di
noia»,
dell’Adolphe
di
Benjamin Constant, che
deplora i danni causati
dall’introspezione,
«quest’analisi perpetua per
la quale esiste una ragione
recondita per tutti i
sentimenti, e che in questo
modo vengono corrotti
all’origine».
Leggendo
Oberman nel 1833, SainteBeuve ha visto chiaramente
come questo libro fosse
l’espressione del male del
secolo.
La seconda generazione,
chevedelalucenegliannitra
il1800eil1810,subisceuna
seconda frustrazione. Scrive
infatti
Musset
nelle
Confessioni·. «Tutti questi
bambinieranonatidurantela
guerra, per la guerra.
Avevanosognatoperquindici
annilenevidiMoscaeilsole
delle Piramidi [...]. Avevano
tutto un mondo nella testa;
guardavano la terra, il cielo,
le strade e i sentieri; tutto
eravuoto,elecampanedelle
loro parrocchie risuonavano
solitarie in lontananza». Poi,
nel 1830, in Francia si passa
di male in peggio con
l’avvento della monarchia
borghese.Cheidealepossono
proporre ai giovani i vari
Laffitte e Guizot se non
quello di arricchirsi? Dopo il
naufragio
dell’idea
di
progresso
razionale
degli Illuministi, dell’ideale
di libertà del 1789, di gloria
militare
imperiale,
di
uguaglianza fraterna delle
«TreGloriose»,nonrestache
la prospettiva di un’austera
esistenzadaborghese.Inaltri
paesi la situazione non è
migliore: la Santa Alleanza
massacra tutto ciò che si
muove
sul
continente
europeo,
mentre
in
Inghilterra, dopo le follie
della Reggenza, s’instaura
l’èra vittoriana, la quale
impone i propri valori dalle
catapecchiedelproletariatoai
saloni
soffocanti
dell
'Establishment.
La scienza comincia sin
da ora la sua opera di
disincanto sul mondo. Ernest
Renan constaterà nel 1848
chelascienza,«applicataalla
naturai ne ha distrutto il
fascino e il mistero,
adducendoforzematematiche
laddove
l’immaginazione
popolare
vedeva
vita,
espressione morale e libertà
[...], ed è possibile che di
fronte a questa natura sedera
e inflessibile creata dal
razionalismo alcuni inizino a
rimpiangere il miracolo e il
fattochel’esperienzaloabbia
bandito dall’universo». Il
mondo è un insieme di leggi
fisicheedireazionichimiche,
dove tutto si sussegue
inesorabilmente
in
un
determinismo perfetto. Tutto
ciòètriste?Forse,ma«chissà
se la verità non è anch’essa
triste»,sichiedeRenan.
Determinismo scientifico,
immobilismopolitico,sociale
e religioso: come ci si può
stupiredellanoiachecolpisce
queste generazioni? «Più
vado avanti, più mi accorgo
cheditempo,ilnostrogrande
nemico, ne abbiamo sempre
troppo [...]. Che fare?
Questoèilproblema»,scrive
Vigny.PersinoChateaubriand
confessa: «Tutto mi stanca:
trascinocondifficoltàlanoia
dei miei giorni e vado
dappertutto sbadigliando la
mia vita». «Cos’è la vita?
Esilio, noia, sofferenza»,
sospira Lamartine, mentre
ThéophileGautiersostienedi
essere ridotto allo stato
vegetativo: «Non sono nulla,
non faccio nulla; non vivo,
vegeto [...]. A parte i gatti
non amo niente, non ho
voglia di niente; ho solo una
sensazione e solo un’idea:
che ho freddo e che mi
annoio». Anche Leopardi e
Büchner esprimono la loro
nausea.
I romantici si annoiano,
ciò nonostante sono anche
convinti che il tempo passi
troppo in fretta: «Tempo,
sospendiiltuovolo!».Tuttii
giovani vedono profilarsi la
morte, che li terrorizza e li
affascinaallostessotempo.In
Italia, Leopardi scrive che il
destinohafattounsolodono
alla nostra razza, vale a dire
lamorte.Maancheinquesto
caso gli inglesi occupano un
posto
d’onore
con
Thomas Gray, il poeta dei
cimiteri; John Keats, per il
quale la malinconia «dimora
insiemeallabellezza,bellezza
che
svanisce»;
Wordsworth,chevedelavita
del poeta come un passaggio
dalla gioia all’oppressione e
alla follia; e Shelley che,
sempre
sul
tema
dell’oppressione,declama:
Temo i tuoi baci,
fanciullagentile,
matunonhaimotivo
ditemereimiei;
troppo
profondamente il mio
spiritoèoppresso
perché io possa
opprimereancheiltuo3.
Tuttiquestigiovanihanno
unincredibilefuroredivivere
e, poiché hanno i minuti
contati, cercano di vivere in
ogni istante le sensazioni più
forti
possibile.
Vivere
intensamentedunque,pernon
arrivareall’orribilevecchiaia.
Essere giovane e morire
sembra diventare il loro
motto. Molti non fanno che
una breve apparizione,
per
poi
sentirsi
immediatamente
braccati
dalla
morte.
Shelley
sposaun’adolescentedisedici
anni, l’abbandona e lei si
suicida; sua figlia Clara
muorenel1818;sirisposa;il
suo secondo figlio muore
nel 1819; colpito dalla
tubercolosi, egli muore in un
naufragio a trent’anni, nel
1822. Keats, anche lui tisico,
loprecede,morendoall’etàdi
ventiseianninel1821.Byron
li segue, egli morirà in
Grecia nel 1824. Questa
meteora ha avuto il tempo di
assaporare tutto e di essere
anche disgustato da tutto:
pubblicato a diciannove
anni, membro della Camera
dei Lord a ventuno,
incestuoso solo un po’ più
avanti, dissoluto, abbandona
la sua sposa, partecipa alle
cospirazionideiCarbonari,si
risposa,perdelafigliadisoli
cinque anni, poi spira sulle
rovine di Missolonghi all’età
ditrentaseianni.Lasuavitaè
l’illustrazione dei suoi versi:
«I giorni della giovinezza
sono i giorni della nostra
gloria», poiché «il tempo
scolorisce le illusioni».
Anche il poeta scozzese
Robert Burns muore dopo
una vita di stravizi, all’età di
ventisetteanni.Echediredei
quattro fratelli e sorelle
Bronte: Anne, morta a
ventiquattro anni nel 1844,
Branwell,
morto
a
trentun’anninel1846,Emily,
mortaatrent’anninel1848e
Charlotte, morta a trentanove
anninel1855!
Ancheitedeschimuoiono
in piena giovinezza. Novalis,
la cui giovane fidanzata
Sophie muore a soli sedici
anni nel 1797, perde suo
fratello nel 1798 e passa a
migliorvitaaventinoveanni;
Christian
Grabbe
a
trentacinque anni; Georg
Büchner a ventitré anni. Nel
1806 Fichte, testimone delle
ecatombi
dei
giovani
romantici, sostiene che le
morti premature siano in
qualche modo preferibili:
«Passati i trent’anni, fu
necessario augurar loro che
morissero,perlafelicitàeper
il bene del mondo, poiché a
partire da quel momento
vivevanosolopercorrompere
ulteriormente se stessi e il
loroentourage»4.
In
Italia,
Giacomo
Leopardi ha solo ventidue
anni quando scrive che
l’entusiasmo, compagno e
alimentodellasuavita,siera
talmentespentoinluidafarlo
rabbrividiredipaura:èquindi
tempo di morire. Il giovane
Leopardi è un vero e proprio
concentrato di infelicità:
gobbo,follementeinnamorato
senza speranza, segregato in
casadaigenitori,mezzocieco
e ridicolizzato da tutti, egli
si dedica a un lavoro
intellettuale forsennato sin
dall’età di dodici anni,
precipitando
nella
disperazionepiùcompleta.
Il rifiuto della vecchiaia
vienesottolineatonel1819da
Pierre-Simon Ballanche, che
si rivolge simbolicamente ai
giovani della sua epoca: «Si
direbbe che, scontenti di
tutto, la vita non abbia più
niente da offrirvi. Avete
ancora così pochi ricordi, e
giàvibastano[...].Cercatela
solitudinecomelosventurato
chehaconosciutomillemali,
che ha provato tutte le
illusioni»5.
Esitazionie
contraddizionidifronte
allamorte
I rari romantici che
raggiungono la terza età non
fanno venire voglia di
imitarli. Chateaubriand, idolo
della
generazione
del
male del secolo, si pente
amaramente per aver vissuto
tanto a lungo: «La vecchiaia
imbruttiscefinoallafelicità»,
scrive. Sordo, paralizzato dai
reumatismi,scossodaaccessi
di tosse, egli affida la sua
deriva all’amica di vecchia
dataMadameRécamier,asua
volta diventata cieca: «Ho
vergogna di fare qualsiasi
cosa con le mie vecchie
ossa [...]. Arrossisco all’idea
di occuparmi di due gambe
logorequantoleideecaduche
cheronzanocomepenosiratti
nel mio cervello»6. Ha
settantaquattro anni e dovrà
trascinarelesuevecchieossa
ancorapersei.Eglievoca«la
noia delle ore ultime e
abbandonate, che nessuno
vuole e nessuno desidera. La
fine della vita è un’età
amara».
Raramentesièavutatanta
paura di invecchiare e si è
detestata così tanto la
vecchiaia
come
in
quest’epoca.
Verso
i
sessant’anni, Colerdige, in
Youth and Age, si lamenta:
«When I was young?
Ah,woefulWhen!».
I pittori prendono le
distanze da questi orridi
vecchi,quasideltuttoassenti
nella pittura di Girodet,
David, Gros e Gérard.
Solo Goya li rappresenta, ma
unicamente per mostrarne la
rivoltante bruttezza: I Vecchi
(1812), contrapposti ai
Giovani, puzzano di morte e
di marcio; Il vecchio errante
tra i fantasmi evoca
l’angosciadell’autore,eilsuo
Saturnodivoratoredibambini
è l’orrore allo stato puro.
Goya, come Chateaubriand,
vive molto male la sua
vecchiaia. Nel 1816, a
settantanni, si ringiovanisce
su un autoritratto, poi,
divenuto sordo e gravemente
malato, capitola e mostra il
suo vero volto a settantatre
anni, assistito dal dottor
Arrieta7.
Nel 1832, all’età di
ottantatre anni, muore invece
il vecchio Goethe. L’uomo
che
ha
lanciato
il
Romanticismo con il suo
Werther non ha mai smesso
di analizzare ogni singolo
aspetto della vecchiaia; il
mito di Faust, infatti, lo
accompagnerà tutta la vita.
Egli
rimaneggia
costantemente quest’opera,
dallaprimaversionedel1773
all’ultima, incompiuta, del
1832.Ilfineultimoèdunque
ritrovare la giovinezza, a
costo di pagarla con la
salvezzaeterna:
La vecchiaia è così,
unafebbrefredda[...]
Passatalatrentina,
un uomo è come
morto8.
Ma perché questi vecchi
infelici non mettono fine ai
proprigiorni?Selavitadopo
i
trent’anni
diventa
insopportabile, perché non
imitareWerthereChatterton?
Qualcunolofa,masonocasi
rari: Jacopo Ortis, deluso nel
suo amore e nel suo
patriottismo9;
Schumann,
che fa un tentativo; Heinrich
von Kleist, giovane soldato
ansioso e solitario che,
dilaniato fra la ricerca della
felicità e il patriottismo,
ribellatosi alla «cattiva
organizzazione del mondo»,
si uccide nel 1811 all’età di
trentaquattro anni insieme
alla sua amata, colpita da
un male incurabile. È pur
vero che molti altri si
suicidano
indirettamente
conducendounavitadissoluta
e cercando le avventure
più esaltanti e pericolose;
mentre la tubercolosi si
occupa di coloro che tentano
difuggirla.
Solo pochi sfortunati,
come
Chateaubriand,
sopravvivono abbastanza a
lungo per pentirsene, solo un
rimasugliodispiritoreligioso
li trattiene. Scrive infatti
Lamartine: «Per quanto mi
riguardasareigiàmortomille
voltedellamortediCatonese
fossi stato della sua stessa
religione.Manonlosono,io
adoro Dio e i suoi
disegni. Credo che la morte
paziente
in
miseria
dell’ultimodeimendicantisia
più sublime della morte
affrettata di Catone sulla sua
spada. Morire è una fuga, e
non si deve fuggire»10. Se la
vita è un supplizio, bisogna
accettarla come l’espiazione
dei nostri peccati, ma questo
non impedisce al poeta di
confessare,
nelle
sue
Confidenze, il fatto che ci
pensasse continuamente una
voltainpensione;inRaphael,
inoltre, Julie dice al suo
amante: «Oh! Moriamo! Non
vedicometuttointornoanoi
è preparato perché le nostre
duevitesvaniscano?[...]Oh!
Moriamo in questa ebbrezza
dell’anima e della natura che
della morte ci farà sentire
sololasuavoluttà!Piùavanti
vorremo morire, e forse
moriremomenofelici!».
Le
esitazioni
dei
romanticiriguardoalsuicidio
rispecchianol'immaginedella
loro
vita
ricca
di
contraddizioni.
Questi
giovanichesiannoianoeche
non hanno abbastanza tempo
perapprofittaredellavita,che
magnificano la morte e
rifiutanodidarsela,ricercano
la solitudine gettandosi a
capofitto nelle agitazioni del
secolo.L’uomosmarritonella
solitudine tenta di placare le
passioni rifugiandosi nella
natura e alimenta la
malinconia
al
contatto
conessa:«Lanaturaècoperta
da un velo di tristezza [...] e
da
una
profonda
e
irreprimibile malinconia [...].
Il livello più oscuro
e insondabile della natura
umana è la malinconia, ecco
ciò che unisce l’uomo alla
natura,poichéancheinessail
livello più profondo è
malinconico.Anchelanatura
soffre
per
un
bene
perduto»11. Queste parole di
Schelling raccontano lo
sconforto del romantico, il
qualesenteche,nonostantela
sua retorica, Dio si allontana
irrimediabilmenteecheormai
egli è solo in una natura
anch’essa rimasta orfana.
Johann Friedrich Richter, più
conosciuto con il nome di
Jean-Paul, lo dice ancor più
chiaramente:
«Nessuno
nell’universo è più sol di un
ateo.Ilsuocuoreorfano,che
ha perduto il più grande dei
padri, piange sul cadavere
immenso della natura, che
nessuno spirito anima né
unifica»12.
Tuttavia,
la
prima
generazioneromantica,quella
degli anni fra il 1800 e il
1830,mantienelasperanzadi
poter cambiare il mondo e si
precipita nell’azione con
un’incredibile
ingenuità.
Questi giovani in piena crisi
d’identità si considerano
araldi di una nuova era che
indicano la strada verso un
idealedilibertà.Laloroarma
è la poesia, il poeta ispirato
che illumina il mondo, la
poesia che guida i popoli.
Ergendo la solitudine e la
malinconia a emblema di
grandezza, essi credono di
gettarelucesull’oscurarealtà.
Comeseleparole,lerime,le
sonorità
commoventi
potessero
contrapporsi
ai cannoni! Nefasta illusione
in cui si cullano i sognatori,
eterne
anime
candide,
giocattoli alla mercé delle
forze
politiche
ed
economiche.
Decimati sulle barricate,
annientatiinGrecia,aNapoli,
inPolonia,inSpagna,lasciati
morire nelle carceri della
Santa
Alleanza,
i
poeti recupereranno il senso
della realtà solo a metà del
secolo, quando i loro più
prestigiosi
rappresentanti,
smarriti
nella
politica,
uscirannoprecipitosamentedi
scena:Lamartine,con18.000
votialleelezionipresidenziali
del1848rispettoai5.454.000
di
Luigi
Napoleone Bonaparte, e
Victor
Hugo,
costretto
all’esilio, nel 1851, dallo
stessoLuigiNapoleone.
Persino gli apparenti
successi non sono che uno
specchietto per le allodole:
nonèByronchehaliberatoi
Greci, ma i cannoni
imperialistifrancobritannicia
Navarin; le barricate del
1830,
immortalate
da
Delacroix,
ben
lungi
dall’essere il trionfo dei
giovani «scapigliati, lividi»,
sono il prodotto dell’avvento
deibanchieriorleanisti;enon
sono i Castighi di Hugo ad
averfattocaderel’Imperonel
1870, ma la temibile armata
prussiana.
Iromanticiel’analisi
delmalessere
Questo
insieme
di
esaltazione irrealistica e di
disillusione, di noia e di
impazienza,disolitudineedi
bisogno di azione, di
sentimentimorbosiedifame
di vita contribuisce al
carattere di originalità del
mal di vivere del primo
Romanticismo. I poeti ne
sono
stati
i
portavoce privilegiati, i loro
predecessori, infatti, non
avevanomaibeneficiatodiun
talepubblico,inoltrecredono
di dover svolgere un ruolo
di primo piano. Essi
esprimono il malessere di
un’intera
generazione,
analizzato peraltro da molti
intellettualidiquest’epoca.
Maine de Biran (17661824) è molto sensibile
all’inquietudine dei suoi
contemporanei, che anch’egli
certamente
condivide,
ponendolaalcentrodellesue
riflessioni nel Journal, dove
cerca una spiegazione che
vada oltre il quadro storico
dell’epoca.
All’inizio,
nel 1793, egli sembra
orientarsi
verso
l’interpretazionepascaliana:
Tuttavia, volendo
tornareinnoi,dobbiamo
convenire
che
l’argomentazione
di
Pascal è forte. In queste
materie
le
prove
originate
dalle
sensazioniintimesonole
più
forti.
Questa
inquietudine dell’anima,
la mancanza del vero
bene e l’incostanza che
ne consegue, questa
attività
indeterminata
che sfiora tutti gli
oggetti senza trovare
nulla che la soddisfi
pienamente
e
che trascina tutti gli
uomini, sia selvaggi che
civili, attraverso tante
follieebizzarrie,lanoia,
funesta
caratteristica
della nostra specie,
sconosciutaaglianimali:
non so, ma mi sembra
che tutto questo annunci
qualcosa di particolare e
proverebbe(forsenonai
freddi filosofi, ma agli
animi sensibili che
amano riflettere su se
stessi) che forse non
siamoalnostroposto13.
La risposta non è
definitiva. Tornando più
avanti su questo problema,
Maine de Biran tende a
fornire una spiegazione di
stampo psicologico: «Il
fastidio,
il
disagio,
l’inquietudine, il desiderio»
provengono dalla differenza
dellenostreduenature,quella
animale e quella spirituale.
Lo spirito ha aspirazioni
immensechelanostranatura
animale non può soddisfare.
Pascal ha quindi torto: «La
causa del malessere o del
fastidio
interiore
nell’immobilità totale dei
sensi e dello spirito non è
intellettualeomisticacomela
intende Pascal, ma piuttosto
psicologica»14.
Maine de Biran si
riferisceinparticolarmodoal
mal di vivere romantico che,
deluso dalla società, trova
solo
malinconia
nellasolitudine.Asuoavviso
nella vita ci sono più piaceri
che disgrazie. «Non esistono
stati in cui si preferisca
l’annientamento
all’esistenza», scrive, poiché
«anche nei mali più grandi,
l’immaginazione sa trovare
delle
compensazioni».
Tuttavia siamo logorati dal
mal di vivere, che proviene
dal dilemma tipico della
natura umana: il disgusto del
mondo esterno oppure il
vuoto del mondo interiore.
«Amori tristi, una gravosa
concezione dell’esistenza ci
allontanano da noi stessi e ci
fanno sentire il bisogno di
distrazioni o persino di
diversivi esterni. Ma il male
che ci tormenta aumenta
proprioconquestedistrazioni
e soffriamo doppiamente per
ilfastidiocheproviamoverso
le cose del mondo esterno o
diunmondochecirepelle,e
perlascontentezzaoilvuoto
che ci ritroviamo dentro
quando siamo obbligati a
ritornarci»15.
Benjamin
Constant
(1767-1830),
suo
contemporaneo,haanalizzato
il male del secolo nel suo
Adolfo, storia di un giovane
che dimentica di vivere a
causa
dell’eccesso
introspettivo.
Nella
sua corrispondenza Constant
sostienecheilmalesseredella
sua generazione derivi dalla
sensazione che la morte di
Diosiastataprematuraeche
sia sopraggiunta mentre la
suaoperanonerastataancora
terminata. Dio ci ha quindi
abbandonato in un universo
che non sappiamo perché sia
stato
creato,
da
qui
l’impressione di «finalità
senza fine»: il fatto è che
«Dio, vale a dire il creatore
nostro e di ciò che ci
circonda, è morto prima di
completarelasuaopera;Egli
avevagiàdispiegatomoltidei
suoi mezzi, come si
innalzano le impalcature per
costruire,eametàdellavoro
è morto; tutto ora si ritrova
fatto con uno scopo che non
esistepiùenoi,inparticolare,
ci sentiamo destinati a
qualcosa di cui non abbiamo
laminimaidea»16.Constantè
consapevole della tragica
differenza fra le nostre
aspirazioni smisurate e la
piccolezzadelnostrodestino,
rinchiusi in una scatola di un
metroeottantapercinquanta
centimetri: «Sento più che
mai il nulla del tutto, come
tuttoprometteenonmantiene
mai, quanto le nostre forze
siano al di sopra del
nostro destino e quanto
questa sproporzione ci debba
rendereinfelici»17.
Chateaubriand
(17681848),
anche
lui
contemporaneodeidueautori
precedenti,
grande
malinconico, insiste sulle
frustrazioni generate dai
nostrilimiti.Comeosservava
Durkheim,
René
è
un
insoddisfatto:
«Mi
accusano di essere incostante
neimieigusti,dinonriuscire
a goder troppo tempo d’una
chimera, d’essere alla mercé
d’unafantasiacheprecorrela
fine dei piaceri, come se
nonpotesseresistereallaloro
durata; mi accusano di
sorpassare sempre il fine cui
possoarrivare:eiononcerco,
ahimè!
che
un
bene sconosciuto, avvertito
per istinto. Non è colpa mia
se trovo limiti dappertutto, e
se quello che è finito non ha
permealcunvalore»18.
Questa insoddisfazione è
destinataadaumentare,pensa
Chateaubriand. Essa è stata
anzitutto
generata
dal
cristianesimo, che «ha creato
un uomo pieno di sogni,
tristezza,
disgusto
e
inquietudine che trovano
sollievo solo nell’eternità».
Mostrando all’uomo la sua
vera vocazione, la quale
supera i limiti della sua
misera esistenza terrena, il
cristianesimo ha instillato in
lui la scontentezza per la
condizione/presente. Ma a
ogni modo l’insoddisfazione
cresce con il grado di civiltà,
poiché i progressi materiali e
culturali
stimolano
l’immaginazione;ilprogresso
suscitaisogniemoltiplicale
necessità, ciò rende sempre
più
dolorosa
la
consapevolezza dei nostri
limiti: «Quanto più i popoli
procedono nella civiltà, e
tanto più questo stato di
vacuità
delle
passioni
s’accresce
[...],
l’immaginazione è ricca,
copiosa, meravigliosa, [..Gli
antichinonconobberoaffatto
questa segreta inquietudine,
quest’acerbità delle passioni
soffocate che fermentano
tutte in un gruppo: un
grand’essere politico, i
giuochi del Ginnasio e del
CampoMarzio,lebisognedel
foroedellapiazzapubblicali
occupavano di continuo, né
mai davan luogo in essi alla
noiadell’anima»19.
Ciò significa tenere in
poco conto il taedium vitae.
Tuttavia sopraggiunge qui
un’intuizione importante, che
aiutaacomprendereilrapido
sviluppo del mal di vivere
moderno.Difronteaunagio
di vita che aumenta con
progressione aritmetica, le
aspirazioni aumentano di
conseguenza,
poiché
decuplicate
dall’immaginazione, come
conferma l’evoluzione degli
ultimiduesecoli.
Chateaubriand aggiunge
un’altra riflessione, più
congiunturale e forse più
discutibile: se ci sono tanti
inquieti
e
angosciati
nella nostra epoca, scrive nel
1802 nel Genio del
Cristianesimo, è perché i
malinconici, prima, erano
reclusi nei monasteri, e la
Rivoluzione, chiudendo i
monasteri, li ha rimessi in
libertà:
Ma ai giorni nostri,
mancati i monasteri, o
bsenancolevirtùchead
essi
conduce,
a
quest’animeardenti,elle
si son trovate, come a
dir, forestiere in mezzo
agli uomini; perocché
disgustate dal secolo,
sbigottitedallareligione,
son rimase nel mondo,
senza darsi al mondo, e
allora le son cadute in
baliadimillechimere;e
allora nascer si vide
quella
colpevol
maniconia
che
s’ingenera
dalle
passioni, quand’elle son
senza obbietto, e si
van
di
per
sé
consumandoinuncuore
solingo20.
I periodi di crisi
raddoppiano le energie
vitali negli uomini. In
una società che si
dissolve e si ricompone,
[...] l’urto del passato
con
l’avvenire,
la
confusione dei vecchi
costumi coi nuovi,
formano
una
combinazione che non
lascia un minuto solo
allanoia.Lepassioniei
caratteri in libertà si
mostranoconun’energia
che non hanno nella
società bene ordinata. Il
genere
umano
in
vacanzapasseggiaperle
strade, libero dai suoi
pedagoghi, tornato per
unmomentoallostatodi
natura e disposto a
sentire il bisogno del
freno sociale solo
quando porterà il giogo
dei nuovi tiranni creati
dallalicenza21.
L’argomento è ambiguo:
è la malinconia che spinge il
monaco a entrare nel
monastero, o è il monastero
che
rende
malinconico
il monaco? Il dibattito viene
nuovamente aperto dai
filosofi, dai teologi e dai
medici. Kierkegaard afferma
cheiconventifosseroirifugi
dei
depressi,
ma
Montalembert sostiene che si
tratti di una grossolana
distorsione della verità:
«Presentare la tesi generale
dellavitareligiosacomeasilo
perladebolezzaelatristezza,
come luogo di rifugio per
questa malinconia, che nella
vita claustrale era peraltro
vietata e perseguita come
vizio chiamato acedia,
significaopporsiaifattiealla
ragione»22.
Tra il 1789 e il 1790, il
dottor Philippe Pinel aveva
portato il suo appoggio
scientifico alla soppressione
dei voti monastici e degli
ordini regolari da parte
dell’Assemblea costituente,
affermando,
nelle
sue Réflexions médicales sur
l’état monastique, che il
monastero rappresentasse un
fattore di follia suicida.
Appoggiandosi
alle
testimonianze di accidia e
tristitia, scriveva:
«Un
isolamento eterno e senza
speranza, la dura costrizione
di tutte le tendenze del cuore
portanonell’animaildisgusto
e l’amarezza [...]. Una
malinconia cupa, triste frutto
dell’intorpidimento
delle
facoltà fisiche e morali,
spesso gli accessi della
malinconia più profonda, e
altre volte le infermità
provocate
dalla
vita
sedentaria, avvelenano tutti i
momenti dell’esistenza. La
follia spesso si affianca al
disordinedell’intelletto,enon
vi è monastero che non ne
offra puntalmente tristi
esempi ogni giorno»23.
Riferendosi alla «malinconia
bigotta», Pinel accusa in
effetti tutte le forme di
vita religiosa di essere
responsabili del disequilibrio
psichico. Nel suo scritto La
mania: trattato medicofilosofico
sull’alienazione
mentale,eglisiscagliacontro
le predicazioni terrorizzanti e
le stravaganze degli ispirati,
fonte di gravi stati di
malinconia e bigotteria: «Il
mio progetto sarebbe stato
[...]ditoglieredallalorovista
ogni oggetto relativo al culto
religioso, ogni dipinto o ogni
librochenepotesserievocare
l’immagine; di spingerli, in
alcune ore del giorno, a
letture
filosofiche;
di
accostare abilmente alcuni
episodi della vita di antichi
saggi, oppure alcuni atti di
umanità e patriottismo con
lapiùpianullitàedibizzarri
delirideglianacoreti»24.
La tradizione scientista e
anticlericale riprende il tema
per tutto il XIX secolo, da
Esquinol, discepolo di Pinel,
fino a Huysmans, il quale
descrive le religiose che
«languono,
muoiono
all’improvviso come quando
il cero si spegne con un
soffio. È l'acedia dei
conventi di clausura che le
spegne»25. Nel 1903, un
secolo dopo Pinel e in pieno
conflitto di separazione della
Chiesa
dallo
Stato,
Émile Tardieu, in una
classificazione dei generi di
noia,
cita
la
«noia
per monotonia», o «noia del
monaco»:
Ha rinunciato alla
famiglia, all’amore, alle
ricchezze,all’ambizione,
ai piaceri, alla libertà,
alla sua volontà, a tutto
[...], ma non possiede il
cielo più di quanto
possiedalaterra,sitrova
nel bel mezzo [...]. È
pieno
di
risposte
imbarazzate
e
contraddittorie da dare a
proposito della noia; a
volte giura di non
saperne niente, altre
confessa di sentirsi
soffocare
[...].
La
noia del monaco è un
fatto evidente: la sua
vita, così come è
istituita, non è che un
automatismo incolore,
una
prova
di
mummificazione [...], si
sospetta
in
lui
infantilismo mentale e,
per
dirla
tutta,
incapacità. Egli si
accanisce sulla sua
distruzione, sul suicidio
[...]. La noia monacale
riveste
innumerevoli
forme26.
La noia e il clericalismo
andrebbero dunque di pari
passo. Ancora una volta la
malinconia e la tristezza
vengono
utilizzate
nel dibattito ideologico, ciò
dimostra la persistenza di
questitrattipsicologici.Negli
anni fra il 1800 e il 1830,
anche Sainte-Beuve è stato
vittima di questo malessere
tipico della generazione
romantica,diquestagioventù
che brucia la propria vita per
non
vederla
marcire
nella vecchiaia perché,
osserva,«lametàdiunavitaè
latombadell’altra».
Tutti gli ideali finiscono
per sprofondare nel pantano
delle «relazioni umane».
Studiando la spiritualità di
Port-Royal e dei solitari,
Sainte-Beuve
riscopre
l’accidia e la paragona alla
noiadeiromantici,cheanche
lui sembra condividere:
«L'acediaèlanoiatipicadel
convento, soprattutto nel
deserto dove il religioso vive
in solitudine; una tristezza
sottile, oscura, dolce, la noia
dei pomeriggi. Il bisogno
dell’infinito ci coglie; ci
perdiamo
in
desideri
indefinibili: è il momento
incuivorremmosmarrircinel
vortice di Faran, o in cui
vorremmo gridare insieme a
René: «Temporali agognati,
alzateviinfretta»27.
Levariantinazionalidel
malessere
Il mal di vivere non era
mai stato avvertito in modo
così unanime. Il concerto dei
lamenti poetici è fonte di
ispirazione per la verve dei
caricaturistieilsarcasmodei
conservatori ma, come
nel XVI secolo, un
movimentoditaleportatanon
può essere una semplice
moda, e la vita stessa delle
persone
estremamente
sensibili
è
la
prova
dell’autenticità del loro
malessere. È stato detto di
Lord Byron, il cui stato
d’animo si esprime appieno
inquestiversi:
Contaleoredigioia
chetifuronoconcesse,
Conta i giorni che
passastisenzasoffrire,
E apprendi, qual che
tusiastato,
«Che sempre meglio
èilnonessere»28.
IlsuicidaShelley,iltriste
Keats nella sua Ode alla
malinconia, e il sognatore
Gray,arrivanoallamedesima
constatazione.
I
poeti,tuttavia,nonsonoisoli
ad avvertire il male del
secolo.Piùinatteso,maanche
più significativo, è il
profondo pessimismo di un
pensatore come John Stuart
Mill, peraltro fondatore con
Bentham della dottrina
utilitaristica,ilqualeprofessa
«che la felicità è auspicabile,
echeinfindeicontièpersino
la sola cosa auspicabile».
Tuttavia,questoedonistaèun
depresso,comespessoaccade
a coloro che sono preda
dell’ossessione della felicità.
Nel1826,all’etàdivent’anni,
Millattraversaunagravecrisi
depressiva.
Nella
sua
Autobiografia egli ricorda
che:
In questo stato
d’animo,decisidipormi
direttamente
la
domanda: «Supponi che
tutti gli obiettivi della
tua
vita
vengano
raggiunti; che tutte le
riforme delle istituzioni
e delle opinioni che
desideravi si possano
realizzare
istantaneamente:
raggiungeresti così la
gioia, la felicità?». E
dentro di me, una voce
incontenibile rispose:
«No!».Inquelmomento
il mio cuore sprofondò:
tuttelebasisucuiavevo
fondato la mia vita
crollarono. Tutta la mia
felicità risiedeva nella
ricerca di questo fine. E
il fine aveva perduto il
suofascino:comepotrei
maiprovareinteressenei
mezzi per raggiungerla?
Mi sembrava di non
averepiùalcunaragione
pervivere29.
L’idea
tedesca
di
Weltschmerz, la tristezza del
mondo, è essenziale nello
Sturm und. Drang e nel
romanticismo
tedesco.
Werther ha stimolato lo
spirito creativo ispirando
autori
malinconici
come Johann Miller (17501814) o Jacob Lenz (17511792), impazzito nel 1778.
Faust ispira invece la
disperazione di Nicolaus
Lenau(1802-1850).Lavitadi
questo dandy che perde la
fede in seguito alla morte di
suamadre,machenonriesce
arassegnarsialmaterialismo,
somiglia a un lungo suicidio.
Il suo Faust esprime la
disperazione
di
unagenerazionechenonpuò
realizzareiproprisognisenza
chiedersi, come Mill, se tale
realizzazione porterà la
felicità.
Il
teatro
romantico
tedescodegliannifrail1800
e il 1840 è segnato dalla
figura dell’eroe tragico
segnato da un destino
implacabile, ma che alla fine
neavràragionepermezzodi
un
atto
di
volontà,
riconciliandoquindiildestino
elalibertà.Conlasuamorte,
accettata o deliberatamente
provocata, egli rende la sua
vita un successo, ma non è
forse proprio in questo il
culmine della contraddizione
checaratterizzalacondizione
umana?
Alcuni autori propendono
già per l’idea del fallimento
dell’essere fino alla sua
logica conseguenza finale,
vale a dire il nichilismo.
«Cosa c’è di più assurdo del
mondo? È la demenza
onnipotente che sorregge
l’orbe dell’universo e lo
distrugge», afferma un
personaggio di Herzog
Theodor von Gothland, un
dramma di Christian Grabbe
(1801-1836). A ventun anni
costui aveva messo in scena
la stupidità universale in una
commedia-farsa,
Scherz,
Satire, Ironie und tiefere
Bedeutung: ein Lustpiel in
drei Aufzugen (Scherzo,
satira, ironia e significato
nascosto).InHerzogTheodor
l’uomo affronta l’assurdità
del mondo; la sola condotta
degna è la rivolta e il
rifiuto disperato, destinato al
fallimento. Più o meno
contemporaneamente
a
Stendhal, Grabbe lancia
questo grido di rabbia
impotente: «La sola scusa di
Dioèchenonesiste».
Grabbe
muore
a
trentacinque anni. Georg
Büchner, a venti-quattro,
muore di tifo (1813-1837).
Solitario e angosciato, egli
vede nell’uomo un fantoccio
piagnucoloso sballottato da
un
inesorabile
destino
anonimo. Egli scrive alla sua
fidanzata: «Mi sono sentito
comeschiacciatosottoilpeso
dell’orribile fatalismo della
storia [...]. L’individuo non è
che schiuma sull’onda, la
grandezza è un puro caso, il
regno del genio uno
spettacolo per marionette».
Ed è questo spettacolo che
mette in scena nella sua
Morte di Danton, dramma
totalmente riassumibile in
quanto
segue:
«Siamo
tuttimarionette,icuifilisono
tirati
da
potenze
sconosciute». Questi automi
infelicisicredonopadronidel
loro destino, ma non appena
prendonocoscienzadellaloro
vera situazione, sono attratti
dalnulla,maneancheilnulla
esiste più. «Nessun vuoto in
nessun luogo, è tutto un
brulicare: il nulla si è ucciso
da sé, la creazione è la sua
ferita, noi siam le sue gocce
di sangue, e il mondo è la
tomba
in
cui
esso
marcisce»30.
Ritroviamopoigliuomini
di Woyzeck (1836), fantocci
fatti con lo stampino che
recitano la loro patetica
commedia,
mentre
un pover’uomo, schernito da
tutti, cerca disperatamente il
senso del tutto. Eccoci nel
grottesco esistenziale, causa
diunrisoamaro.Ilregistroè
ilmedesimoconLeVegliedi
Bonaventura, testo anonimo
del 1804 che passa in
rassegna i grandi problemi
dell’umanità e le conferisce
l’immagine di un mondo di
pazzi.
Una
sorta
di
Elogio della Follia in
versione noir, «l’opera, che
spesso evoca il grottesco del
mondo, è grottesca grazie
all’amalgama dei toni, delle
prospettive e per via di quel
suo cinismo disperato che
sfocia continuamente nel
nulla»31.
«Infondo,tuttoèlastessa
cosa», esclama un altro
personaggio di Büchner,
osservazione che potrebbe,
peraltro,esserestataanchedi
Johann Friedrich Richter
(1763-1825). Il suo romanzo
Siebenkäs, pubblicato nel
1796, è un’altra illustrazione
del malessere romantico:
l’eroeèunartistaimpregnato
di infinito, di assoluto,
tormentato
dai
grandi
interrogativi sul senso del
mondo. La sua giovane
moglie, Lenette, è una sposa
affettuosa,
semplice,
preoccupata
solo
dell’immediata quotidianità.
Entrambi
si
amano
sinceramente,
ma
non
riescono a capirsi. Gli sforzi
di Lenette per rendere felice
suo marito sono destinati a
fallire, poiché non basta
essere una buona massaia e
una buona sposa per fare la
felicità
di
Siebenkäs,
continuamente
irritato dai dettagli materiali
della vita di tutti i giorni: la
spazzola e la scopa sono per
lui veri e propri «strumenti
di passione». Ritroviamo qui
il problema dei limiti della
condizione umana, della
tensione tra il finito e
l’infinito. E per completare
il quadro, ecco che Cristo
rivela che Dio non esiste:
«Siamo tutti orfani, voi e io,
non abbiamo un padre».
Incomunicabilità degli esseri,
marionette
perdute
e
manipolate in un mondo
assurdo che Dio ha
definitivamente
lasciato.
Difficile eguagliare i limiti
della
disperazione
del
Romanticismotedesco.
Per
trovare
un
Romanticismo più cupo di
quello tedesco nella prima
metàdelXIXsecolo,occorre
spostarci in Italia, sederci
allostessotavolodiLeopardi
(1798-1837)eascoltarelesue
parole: «Gli uomini verso la
vita sono come i mariti in
Italia verso le mogli:
bisognosi di crederle fedeli
benché sappiano il contrario.
Così chi deve vivere in un
paese, ha bisogno di crederlo
belloebuono;cosìgliuomini
di credere la vita una bella
cosa.Ridicoliagliocchimiei,
come un marito becco, e
tenero della sua moglie»32.
Così parla nel suo diario
intellettuale, lo Zibaldone,
che comprende le sue
riflessioni di uomo solitario.
LadisperazionediLeopardiè
dovuta in parte alla
sua situazione personale,
come abbiamo già visto, ma
l’autore dei Canti estende la
sua infelicità individuale a
tutta l’umanità, poiché la
nutre
dell’humus
della
malinconia
romantica.
Certamenteegliriconosceche
esistano anche persone felici:
si tratta dei sognatori più o
menoilluminatieingenuiche
attribuiscono un significato
spiritualeimmaginarioatutto
ciò che vedono, barricandosi
cosìinunottimismoeuforico
dai tratti schizofrenici. Ci
sonoanchepersoneordinarie,
che sono in effetti la
maggioranza
e
che
sopportano l’esistenza perché
vivono «volando basso»,
senza porsi domande sul
significato. E poi ci sono i
tormentati,
come
lui,
consapevoli dell’universale
vanità delle cose: ciò che è
spiritualeèimpalpabilecome
ilventoeciòcheèmateriale
è destinato a morire.
Intrappolato fra le illusioni e
lamorte,lavitanonècheun
tessutodidoloreedinoia;ci
siriposadaquestesofferenze
solocadendoinaltreancora.
Che tragedia è la vita
umana per Leopardi. Sin
dall’inizio bisogna consolare
erassicurareilbambino:
Vergine luna, tale è
lavitamortale.
Nasce l’uomo a
fatica,
edèrischiodimorte
ilnascimento.
Prova
pena
e
tormento
per prima cosa; e in
sulprincipiostesso
lamadreeilgenitore
il prende a consolar
dell’esserenato.
[...]
Ma perché dare al
sole,
perché reggere in
vita
chi poi di quella
consolarconvenga?
Selavitaèsventura,
perchédanoisidura?
[...]
inquale
stato che sia, dentro
covileocuna,
èfunestoachinasce
ildìnatale33;
mentre alla fine la
vecchiaia rappresenta «il più
grande di tutti i mali». Fra i
due si situa l’infelicità. In
mancanza di un Dio,
Leopardi accusa la natura,
macchina infernale che
produce vite solo per
condurleallamorte:
Madre temuta e
pianta
Dal nascer già
dell’animalfamiglia,
natura,
illaudabil
meraviglia,
che per uccider
partoriscienutrì,
se danno è del
mortale
immaturo
perir,
comeilconsenti,
in
quei
capi
innocenti?
Se ben, perché
funesta,
perché sovra ogni
animale,
a chi si parte, a chi
rimaneinvita,
inconsolabil fai tal
dipartita?[...]
Come, ahi come, o
natura,ilcortisoffre
Di strappar dalle
braccia
All’amicol’amico,
alfratelloilfratello,
laprolealgenitore,
all’amantel’amore:e
l’unoestinto,
l’altroinvitaserbar?
34.
Tutto è una trappola;
l’amore potrebbe essere la
salvezza, ma più amiamo più
la morte della persona cara
sarà
crudele...
Leopardi ironizza in modo
amaro su tutti gli incoscienti
che dicono di amare la vita,
cornutichenonvedonochela
loro amante li tradisce
quotidianamente con la
morte. E, come sempre, i più
consapevoli sono i più
infelici, mentre gli imbecilli
felici portano in giro la loro
spensieratezza.
Leopardi
invidia questi «animali
felici».
Egli se la prende anche
con i cantori del progresso e
della civiltà, veri e propri
mercanti di illusioni a suo
modo di vedere. La
storia delle civiltà non è che
un passo ulteriore verso
un’infelicità sempre più
grande. Il «progresso» si
traduceconl’accrescersidelle
forze del male, che
permettono agli uomini di
dilaniarsi con sempre più
odioepotenza.Equandonon
porta
alla
distruzione
dell’uomo, la civilità genera
superficialitàenuovibisogni,
fonti
di
ulteriori
frustrazioni, mentre pretende
di voler fare la felicità
collettiva di un’umanità
composta da individui tristi.
Leopardi trova rivoltante
questo raggiro; neanche la
naturainertehapiùunsenso;
eccoinfatticomeLeopardisi
rivolgeallaluna:
O graziosa luna, io
mirammento
Che,orvolgel’anno,
sovraquestocolle
Io
venia
pien
d’angosciaarimirarti:
[...].
Ma nebuloso e
tremulodalpianto
Che mi sorgea sul
ciglio,allemieluci
Il tuo volto apparta,
chetravagliosa
Eramiavita:edè,né
cangiastile,
Omiadilettaluna.E
purmigiova
La ricordanza, e il
noverarl’etate
Del mio dolore. Oh
comegratooccorre
Nel tempo giovanti,
quandoancorlungo
Laspemeebreveha
lamemoriailcorso,
Il rimembrar delle
passatecose,
Ancor che triste, e
chel’affannoduri!35.
Alfred de Musset ha
riconosciuto in Leopardi uno
spirito affine, cui dedica
questaquartinanel1842:
Tu marchais en
chantant dans ta route
isolée;
L’heuredernièrevint
tantdefoisappelée;
Tulavisarriversans
crainteetsansremords,
Ettugoùtasenfin«le
charmedelamort»36.
Musset è forse il più
oscuro dei romantici francesi
della prima generazione.
Osserva Paul Bénichou che
«una cosa può sorprendere
nella maniera in cui Musset
evoca questa disperazione: il
modo in cui, ben lungi
dall’idealizzarla
o
dall’esaltarla - com’è tipico
delRomanticismonoir-edal
dare il rifiuto lugubre della
speranza di una sorta di
privilegio spirituale, egli
detesta lo stato d’animo
che descrive e maledice
coloro che ne sono stati gli
iniziatori»37.
Gli altri romantici, in
effetti,
traggono
dalla
malinconia un sentimento di
superiorità non dissimulato,
prova di un manifesto
godimento nel praticare la
loro
malinconica
introspezione.Lamartineneè
una buona illustrazione per
mezzo del suo eroe Raphael,
che infatti svolge un ruolo di
portavoce:
Illanguoredituttele
cose intorno a me era
una
meravigliosa
consonanza con il mio.
Esso
cresceva,
affascinandola.
Mi
tuffavo in abissi di
tristezza.
Ma questa tristezza
era viva, abbastanza
piena
di
pensieri,
sensazioni,
di
comunicazioni
con
l'infinito,dichiaro-scuro
nella mia anima perché
non desiderassi di
fuggirla.
Malattia
dell’uomo, ma malattia
il cui sentimento stesso
seduce invece di essere
un dolore, e in cui la
morte
somiglia
a
un
voluttuoso
dileguamento
nell’infinito.
Dolcezza della tristezza,
compiacimento
di
una
meditazione sul nulla. Nel
1897
Émile
Durkheim
riprenderà questo passaggio
per illustrare la malinconia
moderna, fonte, secondo la
sua classificazione, di suicidi
dettati
dall’egoismo.
L’individuo
tende
ad
allontanarsi dalla società,
comeLamartine,delusodalla
vita politica dopo il suo
cocente
fallimento
all’elezione
presidenziale.
Egli si chiude in se
stesso, medita su se stesso,
ma il suo io non è più
alimentatodaglieventiedalle
cosedelmondoesterno:«Per
spiegare il suo distacco
dall’esistenza, il soggetto se
la prende con le circostanze
che lo circondano più da
vicino; trova la vita triste,
perché è triste. La sua
tristezzaglivienedall’esterno
[...], dal gruppo di cui fa
parte»38.
La stessa analisi potrebbe
essere applicata ad Alfred de
Vigny, un altro deluso dalla
vitaattiva,militareepolitica.
Dell’esercito ha conosciuto
solo l’incolore vita di
guarnigioneaPau;inpolitica
colleziona delusioni su
delusioni,
come
la
rivoluzione del 1830 e
l’umiliante sconfitta alle
elezionidel1848inCharente.
Vulnerabile e pieno di
contraddizioni,
solitario,
ansioso, esitante, discreto,
ambizioso, egli rifiuta gli
obblighi
sociali
della
celebrità:
errore
imperdonabile nella società
moderna, già divenuta una
società di comunicazione. A
Parigi egli conduce una vita
da
eremita,
nella
«santa solitudine» che tante
volte ha esaltato nei
personaggidiMosé,diGesù,
del pastore, del lupo.
L’esempio di Chatterton lo
affascina, così come gli eroi
shakespeariani,
mentre
considera
la
natura
una matrigna. Nel Destini è
infatti la natura stessa a
parlare: vengo chiamata
madre, afferma, mentre in
realtàsonounatomba:
Non lasciarmi mai
soloconlaNatura.
La conosco fin
troppo
per
non
temerla39.
Vigny è un grande
solitario e la solitudine è per
lui causa di noia, uno dei
grandi mali dell’esistenza,
come più volte ha espresso:
«La noia è il grande male
dellavita,dicuimalediciamo
la brevità; comunque sempre
troppo lunga per sapere cosa
farne»; «Cos’è l’uomo?
Unesserecreatoperviveredi
noia e un bel giorno
morirne»; «La vita mi stanca
e non mi dà alcun piacere».
Egli è «nato serio fino alla
tristezza»:
detesta
i
ricevimenti, le mondanità, le
formalità
e
vive
nell’ascetismo senza alcuno
sforzo,semplicementeperché
non prova alcun piacere
nell’approfittare delle «gioie
dellavita».
Personalità vulnerabile e
affettuosa, Vigny incarna al
meglio
la
malinconia
romantica, questo mal di
vivere
degli
animi
appassionati costretti in
un’epoca
propizia
alle
frustrazioni, che tarpa le
ali agli slanci e ai sogni di
una generazione che, in
giovinezza,avevacredutoche
tuttofossepossibile.Lapresa
di coscienza di questa realtà
ha
provocato
tristezza,
malinconiaedepressione.Ciò
porta Shelley ad affermare
chelamalinconiafacciaparte
integrante dello psichismo
umano;latenteepotenzialein
tutti,
essa
si
rivela
nelleepocheenellesituazioni
in cui i desideri, i sogni, le
speranze sono troppo elevati
rispetto alle facoltà e alle
capacità reali. Forgiare
un ideale fuori portata è il
modopiùsicuroperrendereil
terreno fertile al mal di
vivere.
Lagenerazione
maledetta
La
prima
ondata
romantica, soprattutto in
Francia, conserva comunque
una certa fiducia nel futuro,
coltivandoildoloreinquanto
fonte di ispirazione e di
grandezza. Il poeta può
indicare la strada, mantenere
in vita l’ideale; egli ha un
ruolo culturale, sociale e
persino politico da svolgere.
Il dolore gli conferisce una
lungimiranza superiore che
gli permette di essere una
guida. Questa illusione è
già morta in Germania,
mentre in Francia viene
mantenuta viva dal fermento
politicofinoal1848-1850.
Poi il crollo, la caduta di
Icaro. La generazione nata
dopoil1820,quellacheavrà
vent’anni fra il 1840 e il
1850, ha perso tutte le
illusioni.L’avvenirenonèné
deipoetinédegliutopisti,ma
è della lotta di classe e del
nazionalismo. Cosa può fare
il poeta di fronte alla
rivoluzioneindustriale?Isuoi
sogni non hanno la
consistenza dei fumi delle
fabbriche. I proletari hanno
bisognodicapirivoluzionari;
i borghesi di economisti e i
politici della Realpolitik, dei
cannoni.
La
prima
generazione
romantica
soffriva per la differenza fra
idealismoerealtà;laseconda
invecenonhapiùideali.Paul
Bénichou ha analizzato
come
segue
questa
mutazione:«Nonsicredepiù,
nonsivuolepiùcredereaun
futuro provvidenziale di
umanità ascendente, né a un
ruolo privilegiato dei poeti
[...].Eraquestalafiduciache
aveva animato lo slancio
originario del romanticismo
poetico; per coloro che
l’hanno perduta, tutto è
cambiato.Mentrel’umanitàsi
trasformava, agli occhi
deipoeti,inunafollastupida
e crudele, e la sua storia
diventava un nonsenso
permanente, la Provvidenza
ha fatto spazio a un “nulla
vasto e nero”, e Dio a un
“Ideale”nemico»40.
Droga, diavolo, inferno,
dannazione,paradisoperduto,
blasfemia, disperazione: ecco
quali sono ormai i temi
poetici: la malinconia cede il
posto alla disperazione. La
nuova generazione è quella
dei «poeti maledetti»: spesso
e volentieri abietta e cinica,
essanonpuònemmenosentir
parlare dell’ottimismo, che
considera una vera e propria
oscenità, una prova di
imbecillità. «Il romanticismo
disincantato, che ribalta le
proporzioni, trovò terreno
fertile nell’uso predominante
di
un’amarezza
senza
scampo, e fece di tale
ingrediente, reso nobile
dall’arte, la condizione
dell’eccellenza poetica e
l’emblema stesso della
modernità. Ha voluto vedere
in ogni specie di ottimismo
un segno di volgarità, se non
addirittura di stupidità. Ha
fattobrillareilmalenellesue
creazioni
e
diffamato
come
menzogna
o
stupidaggine la speranza nel
bene»41.
Ognuno esprime la
disperazione con la propria
sensibilità.
Stéphane
Mallarmé, che si accontenta
di una banale carriera da
professore
d’inglese,
è
ossessionato dalla ricerca di
un ideale poetico fuori
portata. Egli soffre come gli
altri
[...]alprofumodella
tristezza
Che pur senza
rimpianto lascia e senza
amarezza
La vendemmia d’un
sogno al cuore che l’ha
colto42.
Paul Verlaine esprime in
maniera sublime la sua
tristezza
ansiosa,
quintessenza del mal di
vivere
assoluto
poiché
immotivata, nei suoi Poemi
saturnini, nei Romanzi senza
paroleenellaSaggezza. Egli
porta in giro la sua
malinconia, il suo «languore
monotono»:
Si piange e non v’è
cagione
Nel cuore che si
accora.
Che?
Forse
delusione?...
È un lutto e non v’è
ragione.
Non
v’è
pena
peggiore
Dinonsaperperché
Senz’odio e senza
amore
Tantapenahailmio
cuore43.
Jean Moréas aspira a
lasciare
«tutte
le
preoccupazioni inutili e la
volgare noia dell’orribile
città».ArthurRimbaudviveil
proprioinfernopersonale:«Io
mi credo all’inferno, dunque
ci sono. [...] Genitori, avete
fatto la mia sventura e avete
fatto la vostra! [...] Muoio di
stanchezza[,..]»44.«Riusciia
cancellare
dal
mio
spirito ogni speranza umana.
Suognigioiaperstrangolarla
feciilbalzosordodellabestia
feroce. [...] La sciagura fu la
miadea»45.Scesonegliinferi
a ventun anni, Rimbaud
rimane
in
seguito
silenzioso, un silenzo che
AlbertCamushaseveramente
giudicatocome«unconsenso
al peggior nichilismo che
possa
darsi»46.
Lautréamont,primadimorire
a ventiquattro anni nel 1870,
lancia
le
imprecazioni blasfeme dei
Canti
di
Maldoror,
manifestando la propria
rabbia nell’«attaccare con
tutti i mezzi l’uomo, bestia
feroce,eilcreatore».Leconte
de Lisle chiede la morte:
«Rendici il riposo che la
vita ha disturbato». SullyPrudhomme
osserva
amaramente che nella storia
delmondo,comeinquelladi
ogni uomo, «per un giorno
di calma si paga il prezzo di
un’èra di disastri». Catulle
Mendèssidisperapersinodei
suoioblìi:
Après l’angoisse et
lafolie,
Commelanuitaprès
lesoir,
L’oubli m’est venu.
Carj’oublie,
Et c’est mon dernier
désespoir47.
Louise
Ackermann
accusa: questo mondo di
tristezza è opera di Dio?
Allora, «Colui che voleva
tutto ha voluto il dolore».
È opera della natura? Allora
la natura non è che una
macchina che produce vita
inutile:
Elle n’a qu’un désir,
lamaratreimmortelle,
C’est
d’enfanter
toujours, sans fin, sans
trève,encor.
Mère avide, elle a
prisl’éternitépourelle
Et vous laisse la
mort.
Toute sa prévoyance
estpourcequivanaìtre;
Leresteestconfondu
dansunsuprèmeoubli.
Vous qui avez aimé,
vouspouvezdisparaìtre,
Son
voeu
est
accompli48.
Gérard
de
Nerval,
mentalmentefragile,inbilico
fra
sogno
e
realtà,
perseguitato dai sogni della
giovinezza e dai fallimenti
amorosi,èvittimadiunacrisi
difollianel1853esisuicida
nel 1855. Nel frattempo
pubblica El Desdichado,
tradotto in francese sia
con «Il diseredato» che con
«L’infelice»:
Io sono il tenebroso,
ilvedovo,losconsolato,
Il
principe
d’Aquitania dalla torre
abolita:
Lamiaunicastellaè
morta,eilmioliuto
È stellato del sole
nerodellamalinconia49.
Julia Kristeva ha fornito
un’interpretazione
psicanaliticadiquestopoema
in cui, spiega, si può
intravedere la sensazione
della privazione di un bene
sconosciuto, di uno stato
indefinibile:
«Orizzonte
segreto e intoccabile dei
nostri amori e dei nostri
desideri, esso assume per
l'immaginario la consistenza
di una madre arcaica che
tuttavia nessuna immagine
precisa
riesce
a
inglobare»50. Soffrire senza
sapere perché, senza causa
definibile, è infatti il
segno distintivo dei poeti
maledetti. Rifiutando di
aggrapparsi a surrogati del
sacro come le ideologie e i
nazionalismi,
molti
intuiscono la falsità di questi
nuovi valori, mentre quelli
antichi,
religiosi,
si
sono ormai dissolti. I poeti
maledettisisentonoprivatidi
un assoluto, senza nemmeno
sapere se esista o se stiano
vagando in un’esistenza
inconsistente.
Nervalhaanchetentatodi
uscirne attraverso il riso,
utilizzando il burlesco come
un rifugio nei suoi Contes et
facéties:
«Il
burlesco
nervaliano
converte
il
fallimento sociale in scelta
etica.
Prevenendo
l’autosoddisfacimento,
costituisce una forma di
distacco che permette di
rimediare a qualsiasi paralisi
o mummificazione dello
spirito [...]. Sorriso in
contrappunto, il burlesco si
sovrappone agli accenti lirici
della disperazione [...]. Esso
maschera la malinconia di
uno scrittore sempre deluso
nelle sue speranze politiche,
checollezionafallimentisulla
scena come nella vita,
incapace
di
rinunciare
all’immaginematerna»51.
Ilsuoèstatountentativo
simile a quello di Théophile
Gautier ne Les grotesques
(1831-1833).Ilromanziereha
espresso
frequentemente
amarezza, rancore, rabbia
potremmo
persino
dire, contro il mondo in
generale. Egli ha la
sensazione di un vero e
proprio tradimento, rispetto
alle sue speranze giovanili:
«A vedere una qualche
calamità colpire il mondo,
provolostessosentimentodi
voluttà acre e amara che si
prova quando ci si vendica
finalmente d’un vecchio
insulto.Omondo,chemihai
fatto da indurmi a odiarti
tanto? [...] Che mi aspettavo
da te, da serbarti ora
tanto rancore per avermi
ingannato?Aqualeambiziosa
speranza hai mentito?»52.
Queste parole vendicatrici,
che attribuisce all’eroina del
suoromanzoLa signorina di
Maupin, rivelano lo stato
d’animo
di
questa
generazione di intellettuali.
Nato nel 1811 e amico di
Nerval, anche Gautier è
passato attraverso la prima
fase
romantica,
la
quale nutriva ancora delle
illusioni, un ideale: «Sfido
una qualsiasi calamità che si
abbatta sul mondo a
provocare
lo
stesso
sentimento di acre e amara
voluttà che si prova quando
finalmentecisivendicadiun
vecchio insulto. Oh mondo!
Cosa mi hai fatto? Perché ti
odio tanto? [...] Cosa mi
aspettavo da te per serbarti
ora tanto rancore per il tuo
inganno? Quale mia alta
speranzahaideluso?»53.
La generazione del
secondo Romanticismo non
ha più ideali: si ritrova di
fronte alla triste realtà senza
alcuna
speranza
di
poterla migliorare. Théophile
Gautier ironizza sugli anni
del primo Romanticismo:
«All’epoca era di moda nella
scuola romantica apparire
pallidi, lividi, verdastri, un
po’ cadaverici se possibile,
perché dava un’aria fatale,
byroniana, [...] divorata dalle
passioni e dai rimorsi».
Ormailepassionisonofinite,
come anche i rimorsi,
per
lasciar
spazio
all’abbattimento, all’apatia
amaradicolorochesonostati
ingannati dalla vita. Paul
Bénichou commenta: «Si
tratta di un nichilismo
assolutamente nefasto per la
comunicazione umana, in cui
la differenza tra il bene e il
male tende a sfumare e la
misantropia a invadere
l’esistenzasociale»54.
Cadetto di Gautier di
dieci anni, anche Gustave
Flaubert, nato nel 1821, ha
conosciuto una fase di
romanticismo
appassionato
prima
di
accedere a un realismo
pessimista più conforme allo
spirito degli ambienti del
secolo, quando evoca la noia
divivereinunmondoinutile,
puramente gratuito, in un
paese
governato
dalla «stupidità borghese».
Sistematosi in una proprietà
nei pressi di Rouen, in una
Normandia dal cielo grigio e
senza
l’incombenza
di doversi guadagnare da
vivere (la fortuna di famiglia
lo priva della distrazione del
lavoro necessario), egli
osserva la vanità delle
cose, l’immensa stupidità di
tutti coloro che credono che
tutto ciò abbia un senso:
«Soffriamo per una cosa
soltanto: la Stupidità, che
tuttavia è formidabile e
universale».
Nel corso degli anni
Flaubert ha analizzato la
società per scrivere i suoi
romanzi e non vi ha trovato
che noia e sudiciume
dappertutto. Nessuna azione
vale l’energia che viene
impiegata
per
essere
compiuta:
«Mangiare,
vestirmi, stare in piedi è un
supplizio:sonoazionichemi
sono trascinato dappertutto,
in tutto, attraverso tutto»,
scrive a Maxime Du Camp.
Contrariamente
a
quanto affermano i trattati
sullamalinconia,iviagginon
sonodialcunaiuto.Nel1850
FlaubertsirecainEgittoe,il
giorno 14 aprile, annota
quanto segue: «Accampati a
Philae, sabato, domenica
e lunedì - non mi muovo
dall’isolaemiannoio-cos’è
dunque,mioDio,questanoia,
questastanchezzapermanente
che mi trascino dappertutto!
Mi ha seguito in viaggio!
L’ho riportata a casa!
Il vestito di Deianira non era
incollato alla schiena di
Ercolequantolanoialoèalla
vita,allamiavita!Solochela
divora più lentamente, ecco
tutto!»55.
La noia è l’intuizione del
nulla
che
si
infiltra
dappertutto, che fa sbiadire
l’esistenza e conferisce ai
discorsi umani il carattere
insipido dei luoghi comuni e
delle insulsaggini. Già a
diciotto anni il giovane
Flaubert esprimeva la sua
nausea della vita in
un’opera satirica, Smarh
(1839),incuiSatanaportain
girouneremitaperunavisita
guidata del mondo, che si
presenta come un triste
carnevale: «La vita? Ah! Per
Dio o per il diavolo, è assai
strana, assai divertente, assai
allegra, assai vera; la farsa è
buona, ma la commedia è
lunga. La vita è un sudario
macchiatodivino,èun’orgia
in cui tutti si ubriacano,
cantanoevomitano».
Diversitàdellospleen:
Baudelaire,Wilde,
Berlioz,TolstojePoe
Charles
Baudelaire,
contemporaneo di Flaubert, è
uno spirito gemello. La noia
descritta con precisione
chirurgica
dal
romanziere,vieneevocatadal
poeta
con
sonorità
ineguagliabili:
Quando il cielo
bassoegrevepesacome
uncoperchio
Sullo spirito che
geme in preda a lunghi
affanni,eversa,
abbracciando l'intero
giro dell’orizzonte, una
lucediurna
più triste della notte;
[...]
- E lunghi trasporti
funebri, senza tamburi
nébande,
sfilano lentamente
nella mia anima, vinta;
laSperanza,
piange; e l’atroce
Angoscia,
dispotica,
piantasulmio
craniochinato,ilsuo
nerovessillo56.
Quante volte lo ha
ripetuto! «Questo paese ci
annoia»;lasciamo«lepianure
dellanoia»,«lanoiaeivasti
dolori».
La
noia
è
l’essenza della condizione
umana, poiché all’origine
Èva, «morsa dalla noia», ha
trasmesso questo veleno alla
suaimmensadiscendenza.
[...]
ridurrebbe
volentieri la terra a una
rovina
einunsolosbadiglio
ingoierebbeilmondo;
ÈlaNoia!57
[...] la noia, frutto
dellacupaindifferenza,
prende
le
proporzioni
dell’immortalità58.
La noia è la fonte dello
spleen,angosciasiafisicache
metafisica, soffocamento e
scoramento,apatiaedisgusto,
cheeglidescriveasuamadre
in una lettera datata 30
dicembre 1857: «Ciò che
sento è un immenso
scoramento, una sensazione
di
isolamento
insopportabile, una paura
perpetua di un’infelicità dai
contorni
vaghi,
una
sfiducia completa nelle mie
forze, un’assenza totale di
desideri, un’impossibilità di
trovare un divertimento
qualsiasi [...]. Mi domandavo
continuamente: a che pro
questo? A che pro quello? È
questa la vera essenza dello
spleen». La noia dissolve
tutto
ciò
che
tocca,
alimentando la grande fatica
universale, e si nutre del
tempo, la cui relatività
poetica ha preceduto la
relatività scientifica, questo
tempo di cui non si vorrebbe
sprecare un solo secondo, e
che si dilata rispetto
all’eternità:
Odolore,οdolore,il
Temposimangialavita
el’oscuro
Nemicochecidivora
il cuore cresce e si
fortifica
del sangue che
perdiamo59.
Vero è che Baudelaire si
rinchiude nella sua infelicità.
Sindalliceomostradiessere
un allievo cinico e difficile,
convinto che lo attenda un
«destino
eternamente
solitario». Geniale e troppo
convinto di esserlo, egli si
isola,
disprezzando
la
stupidità
universale,coltivandol’ironia
e l’umorismo, ciò lo porta a
temibili
paradossi: «Accoppiamo i
poveri!»60.Dal1841al1844,
egli dilapida l’eredità paterna
e conduce un’esistenza da
dandy, tendenza in cui
intravede il «simbolo della
superiorità aristocratica del
suo spirito». Ma il dandismo
può anche esprimere un mal
di vivere che egli cerca
di combattere a oltranza, la
provocazione nell’apparenza
e la cura eccessiva dei
dettagli. Il dandy, scrive
Albert Camus, «trae la
garanzia della sua esistenza
unicamente dal volto degli
altri». Costringendosi a un
rigore
di
vita
quasi
monastico, egli rovescia le
prospettive accordando la
priorità
all’inutile,
al
superfluo, al dettaglio, pur di
esprimereilsuodisprezzoper
ilmondoordinario,banale,su
cui getta uno sguardo cinico.
«Il dandismo, grido di
noia»61, è una forma di
disperazione, una maniera di
affermare la superiorità
dell’inutile
e
l’inutilità
dell’azione.
Lo spleen si esprime
quindiinmodimoltodiversi,
matuttiillustranoundisgusto
per la vita che impregna il
mondointellettualeeartistico
della metà del XIX secolo.
Ben pochi vi sfuggono,
qualunque sia la loro
nazionalità e la loro
disciplina. La creazione
trae
ispirazione
dalla
depressione
malinconica,
fontedicreatività.Anchefrai
compositori
predomina
l’atmosfera tragica, dal
tormentato Schumann al
depresso Ciaikovskij, che
potevarestareanchedueotre
annisenzaprodurrealcunché.
Berlioz sognava, a volte, di
far saltare in aria l’intero
pianeta. Egli scrive nelle sue
Memorie: «Esistono due
specie di spleen: uno è
ironico,
beffardo,
irascibile, violento, astioso;
l’altro, taciturno e cupo, non
chiede che l’inazione, il
silenzio, la solitudine e il
sonno. Chi ne viene colpito
diventaindifferenteatutto;la
rovinadelmondolopotrebbe
commuovere appena. Vorrei
allora che la terra fosse una
bombapienadipolvere,acui
darei fuoco solo per
divertirmi».
Anche la pittura e la
scultura hanno un ruolo di
rilievo,
dalle
strane
composizioni di William
Blake alle opere tormentate
di Rodin, fra le quali II
Pensatore è come l’eco
moderna della Melancholia I
diDürer.Magliscrittorisono
evidentemente
i
più chiacchieroni a riguardo.
Riserveremo per il capitolo
seguente la storia di coloro
chehannoelaboratounveroe
proprio
sistema
della
disperazione, e terminiamo
con un parallelo che illustra
l’internazionalismo
della
depressionepostromantica.Il
romanziere russo Lev Tolstoj
e l’americano Edgar Allan
Poe hanno entrambi descritto
il loro stato d’animo, che
stranamente si assomiglia.
Ilprimoscrive:
La verità era questa:
che la vita è non-senso.
Era come se avessi
vissuto molto a lungo e,
camminacammina,fossi
arrivato a un abisso e
avessi visto chiaramente
che davanti a me non
c’era nulla, se non la
rovina:efermarsinonsi
può, e tornare indietro
non si può e neppure si
può
chiudere
gli
occhipernonvedereche
davanti non c’è nulla se
non l’inganno della vita
e della felicità e le
sofferenzevereelavera
morte: l’annientamento
completo. La vita mi
aveva disgustato; una
forza invincibile mi
trascinava
a
sbarazzarmene in un
modoqualsiasi62.
EdeccolaletteradiEdgar
AllanPoeaunamico:
In questo momento
sono in preda a
sensazioni sgradevoli.
Soffro
di
una
depressione dell’animo
che non avevo mai
provato prima. Ho
combattuto invano gli
effetti
di
questa
malinconia. Mi crederai
setidicochestoancora
male nonostante il
miglioramento del mio
stato. Dico che mi
crederai per la buona
ragionecheunuomoche
scrive in modo lezioso
non scrive così. Ti apro
il mio cuore; se troverai
che ne valga la pena,
leggi.Stomaleenonso
il perché. Consolami, tu
puoi farlo. Ma presto, o
sarà
troppo
tardi.
Scrivimi
subito.
Convincimi che vale la
pena
vivere,
che
è necessario, e avrai
dimostrato
la
tua
amicizia. Convincimi a
fare ciò che è giusto.
Noncrederechesiauno
scherzo; compatiscimi!
Perché sento che le mie
parole sono prive di
coerenza,
tuttavia
cercherò di riprendermi.
Soffro
di
una
depressionementaleche,
se
continua,
mi
distruggerà63.
Due uomini infelici, che
esprimono il loro sgomento,
la loro sofferenza morale
apparentemente senza causa,
equindisenzarimedio.
La malinconia romantica
era congiunturale. Il mal di
vivere era divenuto uno stato
depressivo autonomo ed
endemico che colpiva gli
individui al di fuori di
qualsiasi contesto culturale o
sociopolitico, dalla Russia
zarista agli Stati Uniti
d’America, passando per
l’Inghilterra vittoriana e la
Francia imperiale. Non si
trattava più del «male del
secolo», dell’agitazione dei
giovaniannoiatieanimatidal
furoredivivere,madelmale
della modernità, più grave e
durevole.
1 É. PIVERT DE
SENANCOUR, Oberman,
Rizzoli,Milano1983,p.66.
2Ivi,p.83.
3P.B.SHELLEY, Poesie
e lettere, Longanesi, Milano
1996,p.65.
4 Citato da J.-P. Bois,
Lesvieux,Fayard,Paris1989,
p.271.
5 P.-S. BALLANCHE, Le
vieillard et le jeune homme,
Alcan,Parigi1928.
6
F.-R DE
CHATEAUBRIAND, Lettres
à Madame Récamier, a cura
di M. Levaillant e E.Beaude
Loménie,Flammarion,Parigi,
seconda ed., 1998, p.467
(primaed.1951).
7 Goya assistito dal
dottorArrieta,1820,Institute
ofArts,Minneapolis.
8 J.W. VON GOETHE,
Faust,w.6785-6789.
9 U. FOSCOLO, Le
ultimeletterediJacopoOrtis,
1799.
10 A. DE LAMARTINE,
Cours familier de littérature:
un entretien par mois,
Parigi1856-1869,p.73.
11CitatodaG.PRICE,
TheNarrowPass:AStudyof
Kierkegaard’s
Concept
of Man, Hutchinson, Londra
1963,p.45.
12 Citato da H.
FERGUSON, Melancholy and
the Critique of Modernity:
Soren
Kierkegaard’s
Religious
Psychology,
Routledge, Londra 1995, pp.
17-18.
13 P.G. MAINE DE
BIRAN, Premier journal,
«Del’homme»,inOEuvres,a
curadiP.Tisserand,14voli.,
Parigi1920-1949,1.1,p.26.
14 ID., journal, La
Baconnière, Neuchàtel 19541957,3voll.,t.Ili,p.225.
15 Ibidem, in data 30
ottobre1816.
16 Lettera del 4 giugno
1790aMadamedeCharrière,
citata in G. RUDLER,
La jeunesse de Benjamin
Constant,Colin, Parigi 1909,
p.376.
17Ibidem.
18
F.R. DE
CHATEAUBRIAND,
René,
Mondadori, Milano 1982, p.
171.
19
F.R. DE
CHATEAUBRIAND, Genio del
Cristianesimo,LibroIII,Cap.
IX, Stabilimento Tipografico
Fontana,Torino1843,p.221.
20Ivi,p.222.
21
F.R. DE
CHATEAUBRIAND,Genio..., cit.,
ρ.63.
22CH.FORBES,contedi
Montalembert, Les Moines
d’Occident
depuis
saint Benoit jusquà Saint
Bernard, Parigi, seconda ed.
1863,1.1,ρ.XXXI.
23PH.PINEL,Réflexions
médicales
sur
l'état
monastique,
«Journal
gratuit»,1970,p.81[1790],
24PH.PINEL,Lamania:
trattato
medico-filosofico
sull’alienazione
mentale, Marsilio, Venezia
1987,pp.63-64.
25 J.-K. HUYSMANS,
En route, Parigi 1895, I, 7;
trad, it., Per strada,
Rizzoli,Milano1961.
26 É. TARDIEU,L'ennui.
Étude psychologique, Alcan,
Parigi1903,pp.107-113.
27CH.-A.SAINTE-BEUVE,
Port-Royal,t.I,libro1,cap.8.
28 LORD BYRON,
Euthanasia, trad, di Carlo
Rusconi,UnioneTipograficoeditrice, Torino,vol. V, p.
183.
29
Citato
da
L.
WOLPEKT,
Malignant
Sadness. The Anatomy of
Depression, The Free Press,
Londra 1999, pp. 7-8
[traduzionenostra].
30 G. BÜCHNER, La
morte di Danton, Rizzoli,
Milano1955,p.83.
31
D. IEHL, Le
grotesque,PUF, Parigi 1997,
p.66.
32
G.
LEOPARDI,
Zibaldone,NewtonCompton,
Roma1997,p.4526.
33 G. LEOPARDI, Canto
notturno di un pastore
errantedell’Asia,inPoesie.
34 G. LEOPARDI, Sopra
un basso rilievo antico
sepolcrale,inPoesie.
35 G. LEOPARDI, Alla
luna,inPoesie.
36 «Camminavi
cantando nella tua strada
isolata; / Venne l’ultima ora,
tante volte chiamata; / La
vedestiarrivaresenzapaurae
senza rimorsi, / Gustando
finalmente “il fascino della
morte”»[traduzionenostra].
37 P. BÉNICHOU,
L’école du désenchantement:
Sainte-Beuve,
Nodier,
Musset, Nerval, Gautier,
Gallimard, Parigi 1992, p.
179.
38 É. DURKHEIM, Le
suicide. Étude de sociologie,
Quadrige/PUF, Paris 1991,
p. 315; trad, it., Il suicidio:
studio di sociologia, Rizzoli,
Milano1997,p.288.
39 A. DE VIGNY, I
destini, in Poemi antichi e
moderni, I destini, Garzanti,
Milano 1991; «La casa del
pastore»,III, vv. 279-280, p.
287.
40
P. BÉNICHOU,
L’école...,cit.,p.581.
41Ivi,p.585.
42S.MALLARMÉ,Poesie
e Prose, Garzanti, Milano
1992,Apparizione,p.17.
43 Tratto da Romanze
senzaparole, in M. LANDI (a
cura di), Antologia della
poesia francese, Gruppo
Editoriale l’Espresso, Roma
2004,p.515.
44
A. RIMBAUD, Una
stagione all’inferno. Newton
Compton, Milano 1995,
pp.43-44.
45Ivi,p.29.
46A.CAMUS,L'uomo
in rivolta, in Opere,
Bompiani, Milano 2000, p.
717.
47Dopol’angosciaela
follia,/Comelanottedopola
sera,
/
L’oblio
è
giunto.Poichéiodimentico,/
Ed è la mia ultima
disperazione
[traduzione
nostra].
48 Non ha che un
desiderio,
l'immortale
matrigna, / Partorire sempre,
senza fine, senza tregua,
ancora. / Madre avida, si è
presa l’eternità per sé / E a
voi lascia la morte. / Si cura
solo di ciò che nascerà; / Il
restoèconfusoinunsupremo
oblio. / Voi che avete amato,
voi potete sparire, / Il suo
desiderio
è
esaudito
[traduzionenostra].
49TrattodaLeChimere,
«El Desdichado», in M.
Landi
(a
cura
di),
Antologia...,cit.,p.437.
50 J.KRISTEVA, Sole
nero.
Depressione
e
malinconia,
Feltrinelli,
Milano1989,p.127.
51 F. SYLVOS, La
référence au burlesque dans
l’oeuvre de Gérard de
Nerval, in Poétiques du
burlesque: actes du colloque
international du Centre de
recherchessurleslittératures
modernes et contemporaines
del'UniversitéBlaisePascal,
1996, a cura di D. Bertrand,
Champion, Parigi 1998, pp.
439,443.
52 T. GAUTIER, La
signorinadiMaupin,Rizzoli,
Milano1958,p.179.
53Ibidem.
54
P. BÉNICHOU,
L’ecole...,cit.,p.532.
55 Citato da P.-M. DE
BIASI, Baudelaire/Flaubert.
La chute d’Adam et du
haromètre,
«Magazine
littéraire», n. 400, luglioagosto2001,p.37.
56 CH. BAUDELAIRE, I
fiori del male, LXXVIII,
Spleen, La Stampa, Torino
2003,p.133.
57Ivi,Allettore,ρ.7.
58Ivi,LXXVI,Spleen,p.
131.
59CH.BAUDELAIRE,X,Il
nemico,p.29.
60SivedaG.MINOIS,
Storia del riso e della
derisione,Dedalo,Bari2004,
p. 654: Baudelaire: «il riso è
satanico,dunqueumano».
61F. COBLENCE, Le
dandysme,
obligation
d’incertitude, PUF, Parigi
1988,p.223.
62
LEV
TOLSTOJ,
Confessioni,Marietti,Genova
1996,p.42.
63
Citato
da
L.
WOLPERT,
Malignant
Sadness..., cit., p. 9
[traduzionenostra]
Capitoloottavo
Isistemidella
disperazione:il
nichilismodelXIX
secolo
I
malinconici
e
i
pessimisti ci sono sempre
stati, ma nel XIX secolo
prendono forma le ideologie
della disperazione, la cui
espressione più completa è il
nichilismo. Ma è coerente
costruire
un
sistema
di pensiero sulla negazione
assoluta,
sul
rifiuto
dell’essere? Affermare che il
nulla sia meglio dell’essere
ad
alcuni
sembra
impensabile, oppure un
chiaro segno di follia. Ma la
domanda di Amleto resta in
sospeso:
quale
argomentazione permette di
concluderechesiapreferibile
l’esserecheilnonessere?La
sola
giustificazione
dell’essereèsestesso,tuttoil
resto
è
sentimento,
immaginazione, convinzione
intima, istinto vitale, ma in
nessuno caso è prova
intellettuale,
poiché
qualunque argomentazione
può
essere
annientata
dall’argomentazione
contraria.
Tutte le giustificazioni
tradizionali
dell’esistenza,
che
si
basavano
essenzialmente sull’idea del
sacro, hanno mostrato i loro
limiti. Certo, nel XIX secolo
si uccide sempre in nome di
Dio,dell’uomoodellapatria,
ma alcuni hanno compreso
quanto
siano
vane
tali illusioni. Il grande
meccanismo universale che
girasusestessohaperdutoil
suofascinoeappareoracome
una macchina infernale che
perpetua
le
sofferenze
indefinitamente.
Schopenhauerfranoia
esofferenza
L’espressione
più
completa di questo rifiuto
dell’essere nel pensiero
occidentale
dilaga
in
Germaniaall’iniziodelsecolo
conlapubblicazionenel1818
di un’opera imponente, Il
mondo come volontà e
rappresentazione. L’autore è
ungiovanefilosofotrentenne,
Arthur
Schopenhauer,
appartenente alla prima
generazione romantica. Egli
condivide la disillusione e il
disincanto
dei
suoi contemporanei, tuttavia
vuoleestrapolarneunateoria.
Laddove gli altri vedono
ancora un semplice fattore
congiunturale
e
sperano sempre in tempi
migliori,
Schopenhauer
discerne una struttura della
mente umana. I poeti
romantici si dibattono in
preda agli eventi fino a
partecipare a vere e proprie
rivoluzioni; Schopenhauer si
distingue dalla mischia
considerando il male del
secolo come l’espressione di
un male molto più profondo,
vale a dire il mal di vivere:
«La vita oscilla, come un
pendolo, fra il dolore e la
noia, suoi due costitutivi
essenziali»1.
L’intera vita umana è
un’alternanza ineluttabile di
dolore e di noia; l’uomo
fugge il dolore solo per
sprofondare nella noia.
«La vita non è che una lotta
continua per l’esistenza, con
la certezza di una disfatta
finale. [...] Essa non fa che
avvicinarsi
man
mano
al grande, al totale,
all’inevitabile,all’irreparabile
naufragio;sapendocheilsuo
è un veleggiare verso il
naufragio,versolamorte».Ci
muoviamo verso un fine, la
morte,cherespingiamoilpiù
lontano possibile, poiché
siamo animati da una forza
misteriosa, incomprensibile,
la volontà di vita, che
sostiene anche i più infelici:
«Ciòchetiendestieinmotoi
viventi, è il desiderio di
vivere.Orbene:assicuratache
abbianolavita,nonsannopiù
chefarsene:-sopravvieneun
altro stimolo: il desiderio di
liberarsi
dal
peso
dell’esistenza, di renderlo
insensibile, di “ammazzare il
tempo”; in altre parole,
di sfuggire alla noia»2. La
noia, ossessione dei poeti
maledetti, terrore degli
intellettuali e grande nemica
dell’uomo moderno: «Se
il bisogno è il flagello del
popolo, la noia è il supplizio
delle classi superiori. Nella
borghesia, la noia è
rappresentatadalladomenica,
ilbisognodaglialtriseigiorni
della
settimana»3.
La
domenica cristiana è la
concretizzazione di questa
noia, domenica cupa e grigia
incuiiltemposidilataanon
finire.AtalpropositoJacques
Prévertevocherà:
quelli che muoiono
di noia la domenica
pomeriggio
perché
vedono
venireillunedì
eilmartedì,[...]
e la domenica
pomeriggio
sempre
così4.
Combattere la noia è un
dovere di salute pubblica per
lo Stato, «poiché insieme al
suo estremo opposto, la
miseria,formanounamiscela
esplosiva in grado di portare
gliuominiallemanifestazioni
più estreme». Gli imperatori
Romaniloavevanocapitoed
è noto a tutti quanto sia
costato
alla
Quinta
Repubblica, nel 1968, il
non avere notato che «la
Franciasiannoiava».
Tuttavia,
afferma
Schopenhauer, la noia è
inevitabile, così come la sua
alternativa,
il
lavorodivertimento,
fonte
di
sofferenza: «Ecco la verità:
dobbiamoessereinfelici,elo
siamo». Ci dibattiamo in
un caos di problemi,
rifuggendo la noia, ma solo
percaderenellasofferenza,e
fuggendo la sofferenza
ripiombiamo nella noia, a
tal punto che «non si troverà
forsemaiunuomoassennato
e sincero, il quale, giunto al
fine della sua esistenza, si
auguri di tornar da capo, e a
taleprospettivanonpreferisca
di gran lunga il più assoluto
nonessere»5.
Per illustrare l’infelicità
delmondoinquestoiniziodi
rivoluzione industriale, il
filosofo non ha che
l’imbarazzodellascelta,dalla
schiavitù alla condizione
operaia. Tutto ciò non porta
danessunaparte:siamocome
talpechenonsmettonomaidi
scavarenelbuiosenzasapere
perchinéperqualemotivo,e
le
nuove
generazioni
che produciamo faranno la
stessa cosa. Perché dunque
sentirsi turbati dalla pena di
morte? «Si potrebbe credere
che si tratti di tutt’altra cosa
che non semplicemente
abbreviare di qualche anno
un’esistenza vuota, triste,
inasprita da mille tormenti e
sempre incerta; si potrebbe
veramentepensarechesiaun
evento
di
importanza
straordinaria vedere un
individuo arrivare qualche
anno prima là dove, dopo
un’esistenza effimera, deve
restare per miliardi di
secoli»6.
La
sofferenza
è
accresciuta dalla nostra
consapevolezza
della
sventura. «L’uomo incapace
di riflettere è sensibile solo
alle sofferenze reali; ma per
l’uomo pensante, al tormento
reale si aggiunge una
perplessità teorica: egli si
chiede perché un mondo e
una vita, fatti dopo tutto
perché li si trascorra in
felicità, rispondano così
malealloroscopo»7.Comesi
può
essere
ottimisti?
«L’ottimismo, nelle religioni
come nella filosofia, è un
errore fondamentale che
sbarra la strada a qualsiasi
verità»8. «Non vi è che un
errore innato, quello che
consiste nel credere che
esistiamo per essere felici
[...].Piùpersistiamoinquesto
errore innato, peraltro reso
recidivodadogmiottimistici,
piùilmondocisembrapieno
di
contraddizioni»9.«L’ottimismo
quando non sia chiacchiera
vuota sulla bocca di persone
il cui stupido cervello sia
capace soltanto di parole, mi
sembra un’opinione, non
soltanto
assurda,
ma
veramente empia; un odioso
dileggio di fronte alle
inesprimibili
sofferenze
dell’umanità»10. Anche se
fosseunsolouomoasoffrire,
sarebbe ancora troppo perché
tale sofferenza apparirebbe
comunque
ingiustificata.
«Abbiamomoltomenodicui
rallegrarci rispetto a quanto
abbiamo per cui affliggerci
dell’esistenzadelmondo,[...]
la sua non-esistenza sarebbe
preferibile
alla
sua
esistenza»11.
In altri termini il mondo
non dovrebbe esistere. Chi è
in grado di avanzare la
minima giustificazione per
l’esistenza del mondo?
«Se quindi un uomo osa
sollevare tale questione:
“Perchénonilnullainvecedi
questomondo?”,larispostaè
che il mondo non si
puògiustificareconsestesso,
non può trovare alcuna
ragione in se stesso, alcuna
causa finale della propria
esistenza,nonpuòdimostrare
di esistere per se stesso, cioè
per il proprio vantaggio»12.
Ed è esattamente il motivo
per cui le religioni hanno
inventato i miti, i quali non
fannocheaumentarelanostra
inquietudine. «L’uomo dovrà
un giorno rendere conto di
ogni ora della sua esistenza;
ma sarà egli stesso a essere
benpiùautorizzatoachiedere
anzitutto il motivo per il
quale è stato sottratto al
riposo e gettato in una
situazione così critica, cupa,
tormentataedolorosa»13.
La vita non è altro che
una farsa sinistra. Solo la
contemplazione artistica a
volte
può
renderla
sopportabile perché, creando
una
rappresentazione,
permette di tenere a distanza
ildoloreelanoia:«Cisottrae
almondorealeecitrasforma
in spettatori disinteressati di
questo mondo». Smettere
quindi di essere attore in
questa pièce tragica per
diventare spettatore di un
mondo trasfigurato è un
atteggiamento
che
può
costituire solo una breve
parentesi nella nostra vita. Il
riso potrebbe forse essere
un’altra
soluzione?
Schopenhauer
disprezza
profondamente
il
riso
volgare; a suo parere il vero
risoèquelloseriodelfilosofo
posto
di
fronte
«all’insormontabile conflitto
del
voler-vivere
e
dell’impossibile
giustificazione dell’esistenza
umana».Neancheilsuicidioè
una soluzione, poiché «Il
suicida vorrebbe vivere: solo
che non è soddisfatto di ciò
che gli viene offerto.
Distruggendo
il
suo
fenomeno,
il
suicida
non rinunzia dunque al voler
vivere, ma unicamente al
vivere. Bramerebbe la vita, e
vorrebbe che il suo corpo
potesse esistere e affermarsi
senza
ostacoli;
soffre
atrocemente, perché ciò non
gli è permesso dalla
complicazione
delle
circostanze»14.
«Il
suicidio appare come un atto
vano e dissennato; distrugge
arbitrariamente il fenomeno
particolare, ma la cosa in sé
rimane
sempre
intatta»15. Bisogna quindi
superare la malinconia:
«L’allentamentodeldesiderio
diviveregeneral’ipocondria,
lo spleen, la malinconia, e
l’esaurimento completo di
tale desiderio provoca la
tendenzaalsuicidio»16.
L’opinionepubblicanonè
prontaadaccettareunsistema
cosìdisperato.Ilmondocome
volontà e rappresentazione è
un fallimento editoriale, a tal
puntochealcunecentinaiadi
esemplari vengono mandate
al macero per mancanza di
lettori.Latendenzageneraleè
di prendere le distanze da
questo giovane autore, causa
didemoralizzazionepubblica.
Egli organizza quindi un
corsoaBerlinonel1820,che
è poi costretto a lasciare nel
giro
di
dieci
mesi
permancanzadipartecipanti.
Per più di trent’anni
Schopenhauer
resta
in
disparte a osservare con
amarezzalastupiditàdeisuoi
contemporanei, che trionfano
con libri di una superficialità
desolanteoconautobiografie
di celebrità mondane. Nel
1850 egli scrive scoraggiato:
«I giornali hanno appena
annunciato che Lola Montes
ha intenzione di scrivere le
suememorie,egiàglieditori
inglesi
le
hanno
offertogrossesomme.Eccoa
che punto siamo». Il filosofo
invecchia restando fedele al
pessimismo,cosachenongli
impedisce
di
essere
perfettamente
equilibrato,
come osservano i suoi
visitatori. Forse è stata la
reputazione della sua opera
che,
nel
1859,
ha
portato Challemel-Lacour a
rivelare che, in sua presenza,
aveva sentito «un soffio
gelido attraverso la porta
socchiusadelnulla».
Nel1844vienepubblicata
una seconda edizione del
Mondo come volontà e
rappresentazione,
ma
neanche questa godrà di
maggior successo della
prima.
La
forma
è
probabilmente
una
della cause del fiasco
editoriale:
persino
l’ottimismo si venderebbe
male in un volume di
millecinquecento pagine. Nel
1851 Schopenhauer sfoga la
sua disperazione sotto forma
di aforismi nelle Parerga
et paralipomena, opera che
questa volta si rivela un
successoechegliconsentedi
far pubblicare una terza
edizione del Mondo nel
1859,unannoprimadellasua
morte.
Hartmann,Stirner,
Keller,Twain:levarietà
delladisperazione
Terminata l’epoca del
primo romanticismo, quello
della malinconia, i sogni
scompaiono e giunge il
momento dei poeti maledetti.
Il grande pubblico è più
aperto ai teorici della
disperazione,neèconfermail
trionfo, nel 1869, della
Filosofia dell’inconscio a
opera di un discepolo di
Schopenhauer, Eduard von
Hartmann, un giovane di
ventisette anni: quattro
edizioni in quattro anni, otto
in dodici anni, dodici prima
dellafinedelsecolo.
Secondo
Hartmann
sarebbe stato meglio se
questo mondo non fosse
esistito; la vita è un inganno
che
nessuno
vorrebbe
sperimentare nuovamente, la
consapevolezza non fa che
accrescerelanostrainfelicità,
tutto è vano, «l'umanità ha
nostalgia
del
nulla, dell’annichilimento»,
tuttiipensatoriafavorediun
progresso collettivo, che
siano socialisti o positivisti,
vendono
illusioni.
Dal
canto suo, Hartmann non è
convinto
dell’astinenza
sessuale; egli propone di
organizzare un suicidio
collettivo dell’umanità, una
sorta di eutanasia planetaria.
Nel
1874,
con
l'
Autodistruzione
del
cristianesimo e la religione
dell’avvenire, egli afferma
che i progressi tecnologici
permetteranno un giorno a
tutti gli uomini di entrare
simultaneamenteincontattoe
prenderanno coscienza della
loro
infelicità;
essi
metteranno fine alla loro
volontà di vivere arrivando
alla decisione di una morte
collettiva17. Hartmann ha
visto giusto per quanto
riguarda il lato tecnologico,
Internet ha infatti realizzato
il suo primo desiderio; ma la
società consumistica, fino a
ora,hafrustratoilsecondo.
Nel 1844 è comparso un
ennesimo sistema della
disperazione: L' unico e la
suaproprietàdiMaxStirner.
Pubblicato a Lipsia, il
libro viene inizialmente
autorizzato e poi vietato. Ci
siamo sbarazzati dell’idea di
Dio, scrive Stirner, ma
l’abbiamo sostituita con
un’altra
mistificazione,
l’Uomo,chenonesistepiùdi
quanto esista Dio. La sola
realtà è l’Unico, vale a dire
l’Io: «Nulla è superiore
all’Io», tutti dovrebbero
riconoscere questo concetto
invecedinascondersidietroi
miraggidiumanitàediclassi
sociali. L’umanità atea,
sfidando un’illusoria essenza
umana, non ha fatto che
sostituire una tirannia con
un’altra persino peggiore
della prima: «Trasferendo
all’uomociòche,finoaora,è
appartenutoaDio,latirannia
del sacro non può che
diventare più feroce, poiché
l’uomo è ormai incatenato
allapropriaessenza».Nonc’è
Dio,nonc’èl’Uomo,c’èsolo
l’Io, e bisogna liberarlo
rifiutando
tutte
le
trascendenze e tutti gli idoli,
al di là di qualunque idea di
comunicazione con l’altro,
che è irrimediabilmente fuori
portata. La conseguenza è un
nichilismo
disperato,
un vicolo cieco. L’Io è
indeterminato,
si
deve
autocreare nelle sue azioni,
ma senza illusioni: «Se io
pongo la causa su me stesso,
l’unico,
essa
poggia
sull’effimero e mortale
creatore di sé, il quale
consumasestesso,eioposso
dire:hopostolamiacausasu
nulla»18. L’Io non può che
assistere allo spettacolo della
propriadistruzione.
Queste frasi di Stirner
illustrano lo sgomento dei
pensatori individualisti del
XIX secolo, i quali rifiutano
di
integrarsi
nelle
nuove ideologie di massa.
Essi avvertono la morte di
Dio non solo come
liberazione, ma come morte
del
Padre
sulle
cui
conseguenze
meditare.
Introversi,
inquieti,
angosciati,essicapisconoche
ormai
tutti
sono
irrimediabilmente soli. I
nuovi idoli, come la classe
sociale,lanazione,l’umanità,
possono
solo
asservire
l’individuo. La democrazia
stessa è un Leviatano che
divora il cittadino. Scrive
Stirner: «Un popolo può
essere libero solo a discapito
dell’individuo, poiché la sua
libertà non coinvolge che lui
e
non
significa
l’affrancamento
dall’individuo;piùilpopoloè
libero, più l’individuo è
vincolato.Einfattinell’epoca
della sua più grande libertà
cheilpopologrecostabilisce
l’ostracismo,bandiscegliatei
e fa bere la cicuta al più
probo dei suoi pensatori».
Pertanto la sola liberazione
possibile
dell’individuo
risiede
nel
nichilismo:
«L’umanitàverràseppellita,e
sulla sua tomba, Io,
finalmentemiounicosignore,
Io,ilsuoerede,Iosarò».
Una decina di anni dopo,
Gottfried Keller esprime
l’angoscia della solitudine
esistenziale in Heinrich il
Verde.
Questo
romanzo, pubblicato nel
1855, ripercorre la vita di un
uomo che, in apparenza,
aveva tutto per essere felice,
ma che finisce per morire
di disperazione. Anche qui il
pubblicononriesceaseguire.
«La critica non ammette che
la tragedia dell’esistenza
possanonaverevied’uscita»,
scrive Jean-Marie Paul a
riguardo19. Keller si trova
quindi a dover riscrivere la
finedelsuoromanzo.
Sulla scia dei tedeschi
disperati
va
collocato
probabilmente anche un
americano
altrettanto
disperato, Mark Twain. Nato
nel 1835, quest’uomo del
popoloèungrandeartistadel
nonsenso
pessimistico
integrale. Solo il suo
umorismo lo salva, àncora di
salvezza di tutti i disperati,
masitrattanelsuocasodiun
umorismo decisamente noir.
In un’opera postuma, Lo
straniero
misterioso,
egli narra l’arrivo di uno
sconosciuto in una piccola
cittadina austriaca del XVI
secolo. Lo sconosciuto è
dotato di poteri miracolosi e
dà prova di una totale
insensibilità morale. Si tratta
del nipote di Satana il quale
agisce unicamente secondo
logica: egli uccide un
bambino perché sa che in
futuro diventerà infermo; fa
impazzire un uomo per
evitarglidirendersicontodel
destino atroce che lo attende.
Tali gesti fanno già risaltare
l’assurdità della condizione
umana, anche in ciò che di
piùrispettabilesembraavere:
guarire
qualcuno
da
una malattia non significa
forse permettergli di morire
più avanti di una malattia
ancora peggiore? Questa
assurdità
sarebbe
insopportabile
se
Dio
esistesse.
Fortunatamente,
inviandociilnipotediSatana
per annunciarci la sua
inesistenza,Diocihadatoun
grande segno del suo senso
dell’umorismo: «Non esiste
nessun Dio, nessun universo,
nessuna razza umana, vita
terrena, paradiso, inferno. È
tutto un Sogno, un sogno
grottesco e senza senso. Non
esisti che Tu. E Tu non sei
che un Pensiero, un misero
Pensiero, un Pensiero inutile,
senza un posto dove andare,
che vagherà dimenticato
persemprenell’eternitàvuota
diognicosa!»20.
Kierkegaardela
psicologiadell’angoscia
Nei
sistemi
della
disperazione del XIX secolo,
Soren Kierkegaard occupa
una posizione originale.
Personalità tormentata, gli
viene
impartita
un’educazione
protestante
eccessivamenteausteradicui
mantiene
i
tratti
colpevolizzanti. Durante la
sua breve vita (1813-1855)
egli passa attraverso tutte le
tappe classiche del mal
di
vivere,
dedicandosi
interamenteallorostudio.
Il titolo della sua opera
principale, Aut-Aut (1843),
riassumeildrammadellasua
vita. Vivere significa essere
continuamentepostidavantia
delle scelte, ma scegliere è
fonte di angoscia, poiché
significa
rinunciare
a
qualcosa. L’anno seguente
riprende la stessa idea ne II
concetto
dell’angoscia.
Interpretando nuovamente il
mito di Adamo ed Èva,
Kierkegaard dimostra che
l’essenza
del
peccatooriginaleèl’angoscia
della libertà davanti alle
infinite possibilità di scelta.
Adamositrovavainunostato
di innocenza felice, fino
al momento del divieto
divino,chelohamessonella
posizione di dover scegliere:
«Il fondamento stesso del
potere
del
serpente
[...] risiede nell’arte di
provocare l’ansia»21, scrive
nel suo Diario. La scelta
genera il rimorso, il senso di
colpa,
la
disperazione.
Inoltre,
aggiunge
Kierkegaard, la scelta non è
veramente libera, come
eglistessohasperimentatoin
gioventù: i nostri bisogni, le
nostrepulsioni,inostriistinti
ci turbano, e tutto questo
sottolosguardoimpietosodel
Dio dell’amore: «La legge
rende l’uomo peccatore, ma
l’amorelorendeunpeccatore
ancorapiùgrande»22.Adamo
nonpuòchesentirsiincolpa,
e noi dopo di lui, «davanti a
Dio siamo sempre in torto»,
di
modo
che
«nel
cristianesimo esiste un solo
vero rapporto: l’odio per se
stessi e l’amore per Dio:
qualsiasi
tentativo
di
affermazione di sé è una
colpa»23.
L’angoscia forma il
tessuto stesso dell’esistenza.
È
una
paura
senza
fondamento, è il niente e la
sua paura, che paralizzano
l’individuo: «La persona
colpita dall’angoscia si
lamentaperqualcosacheleè
caduto addosso, come se
dovesse portare un peso,
ecc. Questa pressione, questo
fardello,
non
proviene
dall’esterno: proprio come
quando
si
parla
di
un’illusione ottica o acustica,
essa è il riflesso interno di
qualcosa di esterno»24.
L’ansiosoèincapacediagire,
è inattivo, apatico, avverte
una sorta di nausea.
Kierkegaard, che ha passato
la vita a studiarsi, analizza
questo stato che percepisce
continuamente: «La mia vita
è
cominciata
senza
spontaneità
con
una
spaventosa malinconia, ed è
stata
turbata
sin
dall’infanzia nella sua base
piùprofonda»;«Sipuòavere
ciò
che
si
vuole,
salvo quest’unica cosa:
rifiutare il fardello della
malinconia
che
mi
costringevainsuopotere[...],
di cui ho appena finito di
sentirecompletamenteilpeso
[...].Ciòsiriallacciavaalmio
pensiero malinconico più
profondo per cui, a ben
vedere, ero un buono a nulla
nelverosensodeltermine»25.
Kierkegaard
ritorna
costantemente su quest’idea:
la malinconia è sua intima
confidente,
la
sua
«amante più fedele». Egli la
condivideva con suo padre e
sosteneva di non scambiare
con lui una sola parola su
questo
tema,
tuttavia
riconosceva il fatto che
fossero probabilmente i due
esseri umani più malinconici
mai esistiti a memoria
d’uomo26. La malinconia è
uno stato incomunicabile
poiché la sua causa è
sconosciuta;
essa
è
una «tristezza senza causa»,
una «perdita dell’essere», o
ancora
«l’isteria
della
mente»; è il segno distintivo
dicolorochepensanotroppo,
«la mia sofferenza è dovuta
alla sensazione di non essere
veramenteunuomo,diessere
troppo spirito», e di chi non
ha sufficiente volontà: «La
malinconia è un peccato [...],
è il peccato di non volere
profondamente
e
sinceramente, ed è dunque la
madre di tutti i peccati».
Ritroviamo
qui
una
reminiscenza
dell’accidia
medievale:«Miassocioauna
vecchia dottrina della Chiesa
cheannoveravalamalinconia
fraisettepeccaticapitali».
Si tratta dunque di una
colpa, ma di una colpa felice
poiché offre una specie di
rifugio dal mondo moderno
per il quale Kierkegaard non
si sente adatto: un mondo
superficiale,dovelatendenza
esibizionistica ha la meglio
sull’autenticità, dove tutto
diventa spettacolo, dove la
chiacchiera non è che una
caricaturadellaconversazione
(le
traduzioni
inglesi
utilizzanoquiilterminechat,
chatter). In questo stato di
agitazione
perpetua,
l’individuo è portato a
lanciarsi a corpo morto in un
attivismo in cui rischia di
dissolversi diventando puro
oggetto,oppurearinchiudersi
in se stesso in uno stato di
«solitudineinteriore».
Aut-Aut descrive questo
atteggiamento malinconico
che viene chiamato a
svilupparsi, ma che è anche
caricodiansiaedisperazione.
In
questo
contesto
Kierkegaard delinea il suo
maldivivere:«Nonmivadi
farnulla.Nonmivad’andare
a cavallo, è un esercizio
troppoviolento;nonmivadi
camminare,
mi
stanca
troppo; non mi va di
sdraiarmi, perché, o bisogna
restare sdraiato, e questo non
miva,obisognerebbealzarsi,
e nemmeno questo mi
va. Summa summarum: non
mi va di far nulla»27.Questa
completa
apatia
si
accompagna a una serie di
immagini tristi, di sogni
inquietanti,dipensieriturbati,
di presentimenti oscuri, di
ansie inspiegabili. Questo
moderno Amleto si definisce
continuamente assente da se
stesso, straziato fra i rimorsi
del passato e le speranze
del futuro, nella «noia
spaventosa» del presente. Il
suo animo è «pesante», e
tuttavia
«vuoto
e
insignificante».
Lanoia,comel’angoscia,
è antica quanto l’umanità:
«Adamo si annoiava perché
era solo; ecco perché fu
creata Èva. A partire da quel
momento, la noia si insediò
[...]. Adamo ed Èva si
annoiarono insieme, dopo
Adamo ed Èva, Caino e
Abele,
si
annoiarono
in famiglia [...]. Per distrarsi,
ebberol’ideadicostruireuna
torre così alta da proiettarsi
verso il cielo [...]. Essa
rappresenta
una
prova
terribile della supremazia
della noia in quel momento.
Vennero poi dispersi nel
mondocomepermettedifare
oggiunviaggioall’estero,ma
continuaronoadannoiarsi»28.
Per
combatterla,
non
possiamofareaffidamentoné
sullavoro(«Illavoropuòfar
scomparire l’ozio, ma non la
noia») né sul divertimento,
che è peraltro un’altra forma
di noia: «A volte la
malinconia che proverai sarà
più forte che mai e forse ti
prenderàallasprovvista,cosa
che non è riuscita ancora a
fare sino ad ora»29. Inoltre il
divertimento distrugge la
personalità.Lasolaeveravia
d’uscita è la disperazione,
raggiungibileelevandosialdi
sopradisestessi,perriuscire
a vedere la vanità di tutte le
attivitàumane.
La malinconia è quindi il
temperamento privilegiato
grazie al quale possiamo
comprendere il mondo e
dominarelasuainquietudine.
Essaèinrealtàlacondizione
normale
dell’essere
umano. Se molti non la
sentono,
aggiunge
Kierkegaard, è perché la
modernitàtendeadappannare
la personalità nell’infraumano,
sia
con
un
accrescimento
dei
divertimenti, sia con concetti
chesvalutanol’esistenza.Ma
la consapevolezza crescente
della nostra vera situazione è
ineluttabile: «Non c’è dubbio
che la nostra sia un’epoca di
depressione mentale; la sua
ubiquità si basa sulla
consapevolezza del mondo
moderno come insieme di
oggetti
individualizzati,
isolatinellospazio,emessiin
movimento dalle “leggi della
natura”, svuotate di qualsiasi
intento e scopo, e cieche
rispetto
alle
loro
conseguenze»30.
Ilnichilismo
Nella seconda metà del
XIX secolo si afferma una
seconda corrente intellettuale
che porta tutte le forme di
disperazione
alla
loro
conseguenza logica estrema:
il nichilismo. Alla fine del
secolo il pessimismo di
Schopenhauer e l’angoscia di
Kierkegaard
si
fondono insieme: essere al
contempo
razionalmente
convinti che il mondo non
dovrebbeessereesoffrireper
il fatto di essere al mondo
porta alla volontà di
distruggerlo.
Il nichilismo non è
un’esclusiva
dei
tempi
moderni.
Per
limitarci
all’Occidente,ricordiamoche
gli scettici e i cinici
dell’Antichità usavano un
linguaggio che portava alla
negazione di qualunque
veritàediqualunquerealtà.Il
sofista Gorgia di Lentini, nel
suo trattato Del non essere o
della natura, ha anche
dimostrato che è impossibile
provare
l’esistenza
di
qualcosa,
impossibile
formularla e comunicarla,
poichéillinguaggiononèche
un tessuto di simboli formali
privo di una corrispondenza
certa
con
la
realtà.
L’atteggiamento del cinico
Diogene non illustra forse il
fattochesarebbepreferibileil
nulla a questo mondo? E gli
gnostici non affermano forse
cheilmondo,intrinsecamente
cattivo, debba scomparire?
Nel cristianesimo, la mistica
dell’annientamento si lega
pericolosamente alla nozione
divuoto.NelsecolodeiLumi
subentrano
i
materialisti:
nasce
il
cosiddetto «nientismo» che,
secondo
Sébastien
Mercier, negli anni ’80 del
1700 coinvolge una buona
partedeiParigini31.All’inizio
del secolo l’abate Meslier
aveva già espresso, alla fine
del suo Mémoire, la
fascinazione per il niente:
«Finirò quindi con il niente,
in fondo non sono più di un
niente, e presto sarò
niente»32. Il Mefistofele di
Goethe afferma: «Sarebbe
meglio
se
non
esistesse niente». I romantici
riprenderanno
questo
richiamodelvuoto.Iltermine
«nichilismo»
inizia
a
diffondersi nella prima metà
del XIX secolo, «e col
nichilismo
non
v’è
discussione possibile, poiché
il nichilista logico dubita che
il suo interlocutore esista, ed
egli stesso non è affatto
sicuro d’esistere», scrive
HugoneIMiserabili.
Il
termine
prende
veramente corpo, se così si
puòdire,nellalontanaRussia
della seconda metà del XIX
secolo. Lo troviamo in
Tolstoj,grandeammiratoredi
Schopenhauer,
in
Dostoevskij, padre della
formula «Se Dio non esiste,
tutto è permesso», e
soprattutto in Turgenev che,
in Padri e figli (1862),
fornisce questa definizione:
«È un nichilista [...]. Viene
dal latino nihil, nulla [...],
dunque questa parola indica
un uomo, il quale... il quale
non ammette nulla?” - “Dì
piuttosto:ilqualenonrispetta
nulla”ripresePavelPetrovich
[...]. “Il quale considera tutto
da un punto di vista critico”
osservò Arcadij “che non
presta fede a nessun
principio,daqualsiasirispetto
tale
principio
sia
circondato”»33.
Come possiamo notare, il
termine «nichilista» designa
sia uno scettico assoluto, che
dubita dell’esistenza del
mondo, che un pessimista
integraleperilqualeilmondo
non
dovrebbe
esistere,
oancorauntipodianarchico
che rifiuta qualsiasi valore,
morale, politico o altro. Il
nichilista Bezarov, l’eroe di
Padri e figli, omologa tutti i
valori affermando che le
attività più nobili sono fare
stivali e curare le emorroidi.
Ma il termine è più spesso
utilizzatodaisuoinemicicon
connotazionepeggiorativa,se
nonaddiritturaconintentodi
insulto:
«Il
termine
“nichilista” è gergale, ed è
stato anticipato in Russia dai
nemici
del
movimento
radicale e realista. In seguito
èrimasto,manoncercateuna
definizione
del
nichilismonell’etimologia»34,
scrive nel 1869 Alexandre
Herzen, egli stesso esiliato a
causa delle sue posizioni
rivoluzionarie. Da Cigalev
dei Demoni a Suvarin del
Germinale,laletteraturaoffre
alcuni validi esempi dello
scatenamentodiunaviolenza
cieca,
che
disdegna
qualunque forma di vita e
appare come lo scoppio di
unarabbiatrattenutatroppoa
lungocontrol’essere.
Il
nichilismo
degli
intellettuali russi non è solo
una dottrina politica (per
molti l’unica soluzione è
quella di far saltare tutto),
ma è anche legato a una
forma
di
spiritualità
ortodossa.
Come
faceva
notare
Nicolas
Berdiaev,«Ilnichilismorusso
ha negato Iddio, lo spirito,
l’anima, le norme e i valori
supremi. Nondimeno il
nichilismo va considerato un
fenomeno religioso. Essendo
sorto dal terreno spirituale
dell’ortodossia, esso potè
manifestarsisoloinun’anima
che aveva ricevuto una
formazione ortodossa. Esso è
in certo modo l’ascetismo
ortodossostravolto,unasorta
di ascetismo privato della
grazia»35.
Compimento
estremo delle diverse forme
del mal di vivere, il
nichilismo unisce tutte le
forze
dell’individuo,
intelletto e passione, in
un’esplosione
finale
definitivacontrol’essere.
e
Dostoevskije
Maupassant:«Ache
pro?»
Attraversolalorovitaele
loro opere, due scrittori
illustrano la violenza di
questa corrente tormentata. Il
caso
di
Fedor
Dostoevskij
(1821-1881),
depresso,epiletticoeansioso,
ha attirato l’attenzione di
numerosi specialisti delle
scienze umane e mediche, da
Sigmund Freud a Julia
Kristeva, da Albert Camus a
PhilippeSollers.
Dostoevskij insiste sul
primato della sofferenza
come esperienza primordiale
dell’essere umano, come
sfondo della coscienza,
insistenza nella quale Freud
ha visto l’espressione di un
«masochismo
primario».
Tutto accade come se il
passaggio alla vita si
traducesse con la sensazione
di
uno
squarcio
fondamentale, di un trauma
incancellabile per la mente;
come se la sofferenza fosse
il tessuto dell’esistenza e il
fondamento di qualunque
azione nobile. «E come mai
voi siete così fermamente,
così
solennemente
convinti che soltanto ciò che
è normale e positivo, in una
parola soltanto ciò che
apporta
prosperità,
è
vantaggiosoperl’uomo?Non
potrebbe darsi che la ragione
sbaglinelvalutareivantaggi?
Non potrebbe darsi che gli
piaccia
altrettanto
la
sofferenza? Non può darsi
che per lui la sofferenza sia
vantaggiosaesattamentenella
stessa misura del benessere?
E all’uomo talvolta piace
terribilmentelasofferenza,gli
piacelafollia,eanchequesto
è
un
fatto»36.
Non
sorprende che le sventure di
Giobbe abbiano infiammato
Dostoevskij.Egliscriveasua
moglie nel 1875: «Leggo il
libro di Giobbe che produce
in
me
un’esaltazione
morbosa: smetto di leggere e
vado avanti e indietro nella
mia stanza per un’ora, quasi
piangendo [...]. È una cosa
strana,Anna,maquestolibro
è uno dei primi che
mi abbiano colpito... e allora
ero poco più che un
lattante...»37.
«Soffrire, soffrire molto»
è necessario per scrivere.
«L’essenziale è la tristezza».
Tristezza
e
sofferenza
affascinano
Dostoevskij,
oltre che ad ispirarlo: «La
sera soprattutto, alla luce
delle candele, una tristezza
ipocondriaca senza ragione».
Come hanno notato tutti
i grandi malinconici, la
consapevolezza di sé è il
fattore
principale
di
sofferenzapsichica,epiùtale
consapevolezzaèacuta,piùil
mal di vivere è esasperato.
«Sarebbe stato meglio che
fossistatocreatosimileatutti
glialtrianimali,vivocioèma
non razionalmente cosciente
dimestesso:lamiacoscienza
è
precisamente
non
un’armonia
bensì
una
discordanza, giacché io sono
infelice a causa di essa.
Guardate chi è veramente
felice al mondo e chi siano
quellicheaccettanodivivere!
Quellicheaccettanodiessere
simili agli animali, appunto,
e,perloscarsosviluppodella
lorocoscienza,piùvicinialla
condizione animale»38. Sulla
scia del Problema XXX di
Aristotele e per bocca dello
studente di Delitto e
castigo
Raskolnikov,
Dostoevskij proclama la
grandezza
della
tristezza, affermando che la
sofferenza, il dolore sono
inseparabili
da
un’intelligenza elevata e da
ungrandecuore.Iverigrandi
uomini
probabilmente
provanoun’immensatristezza
sullaterra.
L’intera
opera
di
Dostoevskij
consiste
nell’analisi perpetua del
contenuto,dellecauseedelle
forme di tale tristezza. I suoi
eroi sono dei disperati che si
dibattono contro l’ossessione
suicidaelarivoltanichilistae
che non riescono a capire se
Dio
esista
o
meno.
Dostoevskij ha scelto di
credere in Dio, pur sapendo
che si tratta di una
scelta personale gratuita, e
incarica i suoi personaggi di
esprimere
eloquentemente
l’opzione atea, quella della
rivoltadisperata.
Albert Camus ha visto in
Ivan Karamazov «l’uomo in
rivolta» per eccellenza, in
rivolta perché il mondo è
sofferenza, e tale sofferenza
escludel’esistenzadiunDio,
a tal punto che, se questo
Dio
esistesse
sarebbe
decaduto per la semplice
presenza del male. L’unica
scusa di Dio è il fatto di non
esistere. Ma, visto che non
esiste, tutto è permesso,
poiché il mondo non ha
senso. L’atteggiamento di
Ivan, scrive Camus, «non è
soltanto disperazione e
negazione, ma soprattutto
volontà di disperare e di
negare»39, e pertanto di
affrancarsi da qualsiasi
morale.
Nei Demoni (1871), il
protagonista Kirillov incarna
la tentazione nichilista con
unalogicaimplacabile:
Ho il dovere di
affermare
la
mia
miscredenza,
dice
Kirillov continuando a
misurare la stanza a
grandipassi.Permenon
c’è niente di più
elevatodell’ideacheDio
non esista. Ho dalla mia
la storia dell’umanità.
L’uomo ha inventato
Dio per vivere senza
uccidersi; tutta la storia
universale lo ha fatto
finora. Solo io, per la
prima volta nella storia
universale, non ho
voluto inventare Dio.
Voglio che lo si sappia
una volta per tutte [...].
Non capisco come fino
ad oggi un ateo abbia
potuto
essere
consapevole
dell’inesistenza di Dio e
non uccidersi subito.
RiconoscerecheDionon
esiste e non riconoscere
nellostessoistantechesi
è diventati dio è
un’assurdità, altrimenti,
inevitabilmente, ci si
ucciderebbe.
L’ateo, prodotto di tale
considerazione,
dovrebbe
quindi suicidarsi. Posizione
non condivisa né da
Schopenhauer
né
da
Nietzsche,comevedremo,ma
a cui si allinea Maupassant
nel 1892, un anno prima di
morire.GuydeMaupassantè
peraltro
un
grande
ammiratore di Schopenhauer,
in cui riconosce con
devozione «il più grande
saccheggiatore di sogni che
siamaiesistitosullaterra»,e
a cui dedica una novella,
Auprèsd’unmort.
Maupassant,
o
l’incarnazione del mal di
vivere: il fastidio della vita
trapelaintuttalasuaopera.I
suoi romanzi, i racconti e
le novelle restituiscono
l’immagine di un mondo
orribile, infernale e tanto più
spaventoso poiché reale.
Noia, tedio, scoramento,
nausea: ecco ciò che sente e
provoca nei suoi lettori. Non
si può spiegare un simile
gradodistanchezza,espresso
con
un
simile
talento, attraverso semplici
fattori psicologici. Certo,
Maupassant è un depresso
che sprofonda gradualmente
nella follia, e che finisce
per suicidarsi per evitare di
divenire
completamente
pazzo, ma egli è anche, e
soprattutto, l’espressione di
un’epoca,lafinediunsecolo
di riflessione sul mal di
vivere: il successo della sua
opera attesta che il suo
pessimismo integrale trova
riscontro
in
diverse
migliaiadilettori.
Schopenhauer pensava
che
la
contemplazione
estetica
potesse
offrire
almeno un attimo di tregua,
mentre Maupassant non
crede più nell’arte. «Perché
questa imitazione vana?
Perché questa riproduzione
banale delle cose, già così
tristi di per se stesse?». La
poesia,ilromanzoripetonola
stessacosa.«Acosamiserve
scoprire cosa sono, leggere
ciòchepenso,rivederminelle
banali avventure di un
romanzo?». «Non sappiamo
niente, non vediamo niente,
non possiamo niente, non
indoviniamo niente, non
immaginiamo niente, siamo
rinchiusi, imprigionati in noi
stessi.
E
alcuni
si
meravigliano persino del
genioumano!».Riprendendo,
tre secoli dopo, il «Che cosa
so?» di Montaigne, ecco la
conclusione:«Achepro?».
L'ultimarivolta:
Nietzsche
Oltreaessernetestimone,
Nietzsche,comeMaupassant,
avvertetragicamenteilmaldi
vivere.Nelmarzo1883scrive
a Franz Overbeck: «Non mi
interesso più a niente.
Nell’intimo del mio essere,
una malinconia nera e
immutabile [...]. La cosa
peggiore è non capire
assolutamente perché devo
continuareavivere[...].Tutto
mi
sembra
fastidioso,
doloroso,
disgustoso».
Tuttaviaegliglorificalavita,
lotta dolorosa che dobbiamo
condurre con entusiasmo, in
ungranderisodionisiacoche
distrugge
gli
idoli,
schiacciandosenzapietàtutto
ciò che a essa si oppone, «al
dilàdelbeneedelmale».La
disperazionediNietzscheè,a
questo proposito, originale e
paradossale.
Nietzschehalettotuttigli
scrittoridelmaldiviveredel
suo secolo: Maupassant,
Dostoevskij, Bourget, i
Goncourt,Schopenhauer,tutti
gli attori del nichilismo. Egli
ne trae le opportune lezioni
in La volontà di potenza
(1866), dove si dedica a un
esame
dettagliato
del
pessimismo.
I
costanti
progressidelnichilismonella
cultura occidentale, scrive,
sono il segno di un
risentimento, in particolare
presso i filosofi i quali,
constatandocheilmondonon
ha quel significato che si
aspettavano di trovare,
concludono
che
non
abbia senso affatto e che
sarebbe meglio se non
esistesse. Questa sensazione
di assurdità è, a sua volta,
assurda:
Il
nichilista
filosoficoèconvintoche
tutto ciò che accade è
senza senso e senza
utilità:manondovrebbe
esistere un essere privo
di senso e inutile. Però
di dove viene questo:
«non
dovrebbe
esistere?». Dove si
prende questo «senso» e
questa
misura?
Il
nichilistainfondopensa
che la vista di un tale
essere vuoto, senza
utilità, agisce sopra un
filosofo in modo non
soddisfacente, gli dà
un’impressionedivuoto,
di disperazione. Una
simile
constatazione
contraddice la nostra
sottile sensibilità di
filosofi. Deriva questa
assurda valutazione: il
carattere dell’esistenza
potesse
sussistere
dipienodiritto...40.
Per
quale
motivo
l’esistente dovrebbe avere un
senso predeterminato? Il
nichilista, piuttosto che
accettare un mondo che non
corrisponde
alle
sue
categorie,
preferisce
prenderne le distanze e
consigliare il ritiro da esso,
l’ascetismo; così facendo,
egli «si scaglia contro il
benessere fisiologico, in
particolarecontrociòcheneè
l’espressione, vale a dire la
bellezza, la gioia; mentre ciò
che è snaturato, tarato, tutto
ciò che è dolore e difficoltà,
tutto ciò che è brutto,
privazione
volontaria,
spossessamene,
mortificazione,
sacrificio,
suscita soddisfazione e
costituirà quindi oggetto di
ricerca». La filosofia di
Schopenhauer partecipa a
questa decadenza scegliendo
ilnullaperpurorisentimento.
Nietzsche
disprezza
profondamente tutte le forme
di pessimismo, in particolare
ciò
che
definisce
il
pessimismo della sensibilità,
in cui vede un meschino
calcolo della somma dei
piaceriedeidispiaceri:
La somma di dolore
vince la somma di
piacere:perconseguenza
il non essere del mondo
sarebbe meglio che il
suoessere-«Ilmondoè
qualcosa,
che
ragionevolmente
non
sarebbe, perché esso
procura al soggetto
senziente più dolore che
gioia» - chiacchiere di
questasortasichiamano
oggipessimismo!
Piacere e pena sono
cose accessorie, non
cause, sono giudizi di
valoredisecondogrado,
che
si
deducono
dapprima da un valore
primario -qualche cosa
che in forma del
sentimento
esprime
l’«utile», il «dannoso» e
quindi qualche cosa di
assolutamentetransitorio
e dipendente. Infatti per
ogni «utile», «dannoso»
bisognachiederesempre
centodiversiache?
Io disprezzo questo
pessimismo
della
sensibilità:cheinséèun
segno di profondo
impoverimento
vita41.
della
Il pessimismo nichilista
deve
essere
superato.
L’assenza di senso non deve
essere fonte di disperazione,
al contrario, deve dare
un senso alla vita per mezzo
dell’affermazione
della
volontà, al di là di tutti gli
antichi valori del volgare.
LargodunquealSuperuomo!
Questo
volontarismo
forsennato è credibile? Ciò
che sappiamo della vita di
Nietzsche non corrisponde
affatto a tale garanzia
dionisiaca.Secondocoleiche
l’ha amato, Lou Andreas
Salomé, Nietzsche era un
uomo tormentato, angosciato
dalpresentimentodellamorte
diDio,disgustatoanchedalla
mala
fede
e
dalla
compiacenza delle autorità
religiose e dal popolo, che
fingono di credere ancora ai
vecchi dogmi, oppure vi si
conformanosoloametà.
Si può quindi ancora
sperare? Nietzsche non ne
sembra
così
convinto:
«Datemi dunque la follia, o
voi, esseri celesti, la follia
affinché io crea alla fine in
me stesso [...]. Il dubbio mi
consuma;houccisolaleggee
laleggemitormentacomeun
cadavere tormenta l’uomo
che vive; se non sono altro
che legge, allora sono il
più reietto di tutti»42.
Nietzsche ha cercato di
superare il nichilismo, ma è
riuscito nell’intento solo
chiudendosi
in
una
contraddizione: il superuomo
sceglieliberamentediaderire
aundestinoineluttabilecheè
la negazione della libertà, un
destino che sembra portare a
questo Ultimo Uomo che
aborre,«coluichevivràpiùa
lungo», colui che sminuisce
ogni cosa, l’uomo dei piccoli
piaceri,
delle
piccole
comodità,
dei
piccoli
passatempi, dei piccoli
pensieri,checrederàdiavere
inventatolafelicità.
Dalladerisionealla
nevrastenia
E come se le categorie
moderne della malinconia,
dell’angoscia,
della
depressione, della tristezza,
della disperazione e del
nichilismo non bastassero a
definire il mal di vivere
dilagante di questa fine del
secolo, ecco comparire
nuovamente
l’accidia
medievale. Nel 1890 Francis
Paget
pubblica
un
Introductory
Essay
Concerning Accidie, e presto
Aldous Huxley dedicherà un
saggio
all’argomento,
Accidie, definendola una
caratteristica
ineluttabile
dell’epoca: «Il male del
secolo
era
un
male
inevitabile;
possiamo
affermare con un certo
orgoglio che abbiamo diritto
alla nostra accidia. Per noi
non è un peccato, né una
malattia da ipocondriaci; è
una condizione dell’animo
che il destino ci ha
imposto»43.InPoint Counter
Point (1928), un personaggio
mostra tutti i sintomi classici
dell’accidia: «Che gli ci
volesseuncertocoraggioper
non
fare
niente
era
vero,
poiché
rimaneva
nell’ozio nonostante i danni
della noia cronica [...] che
sapeva
diventare
[...]
insopportabilmenteacuta.[...]
Questononvalevalapenadi
uno sforzo, niente ne valeva
la pena. Si limitava a parlare
dello stimolo del demonismo
[...]. Questa conversazione lo
entusiasmava
momentaneamente, ma non
appena volgeva al termine,
egli ricadeva sempre più in
basso nella noia e nella
tristezza.C’eranomomentiin
cuiprovavacomeunaparalisi
interiore, come se l’anima
stessa perdesse poco a poco
consapevolezzadiessere.[...]
La vita è così, detestabile e
barbosa».
Medici,
fisiologi
e
sociologi si interessano a
questo fenomeno sociale, e
tentano di carpirne i segreti.
L’americano
William
James vede nella malinconia
delsuotempolaconseguenza
psicologica del distacco dalla
fede, mentre nel 1895 il
dottor Henry Maudsley
fornisce
la
seguente
descrizione dei suoi pazienti
depressi: «Il loro stato è
incomprensibile
e
inspiegabile persino a loro
stessi. Le promesse della
religione e le consolazioni
della filosofia, così esaltanti
quandononsenehabisogno,
e così impotenti quando
potrebbero servire, non
tornanoloroutilipiùdiparole
senza significato. La mente
non è veramente disturbata;
essiavvertonosemplicemente
undoloretalecheparalizzale
loro funzioni, che tuttavia
sono piene di sofferenze
peggiori della follia, poiché,
spesso, quando la mente è
sufficientemente sana da
sentire e percepire il
proprio stato abietto, il passo
che porta al suicidio è
breve»44. Dal canto suo
George Savage, nel 1884,
chiede che la malinconia
venga trattata con un
approccio congiunto della
medicina
e
della
filosofia: «La malinconia è
unacondizionedidepressione
mentaleincuilasofferenzaè
sproporzionata rispetto alla
sua causa apparente o
allaformacheprende,poiché
lasofferenzamentaledipende
da cambiamenti fisici e
corporei e non direttamente
dall’ambiente»45.
La nozione moderna di
depressione
si
delinea
gradualmente, tuttavia la
ricerca psicofisiologica è
ancora ampiamente tributaria
delle idee morali, e persino
religiose.Tristitiaeacediasi
affacciano nuovamente su
unasocietàditipovittoriano,
dominata
da
una
classe borghese pronta a
definire
colpa
mortale
qualsiasiformadialienazione
e di deficienza morale e
fisica.
Il
malinconico
depressivo è necessariamente
una persona che si lascia
andare, che manca di energia
per affrontare gli ostacoli
dell’esistenza,
mentre
l’uomolucidoecoraggiososa
superare le avversità. Tale
immagine negativa viene
rafforzata
dalla
volgarizzazione delle idee
sulla selezione naturale. Il
mondo moderno, con le sue
sempre crescenti esigenze di
attività, efficacia, rapidità,
genera
una
selezione
impietosa, relegando i meno
resistentinella«nevrastenia»,
termine alla moda diffuso
persino fra le classi popolari,
dove viene utilizzato senza
neanche sapere bene che
accezioneabbia.
Negli ambienti medici,
George Miller Beard, a
Boston, è il primo ad
affermare il concetto di
nevrastenia e a differenziarlo
dall’isteria e dalle altre
neuropatie. Charcot definisce
più in dettaglio tale nozione,
introduce alcune sfumature,
parla di isteronevrastenia.
Questiscienziatiinsistonosui
sintomi fisiologici, come il
mal di stomaco, i disturbi
digestivi e vascolari, le
affezioni
genitali,
riprendendo, con termini
dotti, le caratteristiche della
malinconia già riscontrate
da Aristotele e Galeno.
Quanto al ruolo dello
psichismo,
vengono
incriminate soprattutto le
passioni
violente,
il
sovraffaticamento
intellettuale. Anche in questo
caso ci si potrebbe chiedere
se,daBurtoninavanti,siano
stati fatti dei progressi. Il
dottor Dutil osserva che la
nevrastenia è molto più
frequente in Europa a causa
delle esigenze della vita
moderna in un’economia
industrializzata: «La lotta per
l’esistenza impone un’attività
intensa alle funzioni del
sistemanervoso»46.Nel1903
Pierre Janet parla di
psicastenia, definita come
uno spossamento del tono
psicologico. Dalla lipemania
e le monomanie dell’inizio
del secolo, passando per
l’ipocondria, per arrivare alla
nevrastenia e alla psicastenia
e in attesa della depressione,
la
proliferazione
dei
termini illumina soprattutto
l’imbarazzo degli ambienti
scientifici di fronte a questo
fenomeno misterioso che è
l’indebolimento del desiderio
di vivere. Il mal di vivere
rimane un enigma per gli
esseri «normali» e una sfida
permanentepergliottimisti.
Tutte le scienze fanno
capolino al suo capezzale,
poichéilmalepotrebbeanche
essere contagioso ed essere
davvero
in
una
fase ascendente. Non esiste
settore che non ne sia
coinvolto: poesia, romanzo,
filosofia,arte:inquest’ultimo
campo si pensi alle
figure
crepuscolari
di
Kokoschka,Schiele,Klimted
Ensor che vengono esposte
nei musei. Nel 1893 Edvard
Munch dipinge la figura
emblematica dell’angoscia
moderna,L’urlo.
Losviluppodelsuicidio
Mai prima, forse, le
espressioni del mal di vivere
sonostatecosìnumerose,mai
hanno avuto una tale
risonanza.
Ormai
lo
scoramentononèpiùilsegno
distintivo
di
qualche
intellettuale stanco, ma
sembradiffondersiintuttigli
strati sociali e si traduce con
un aumento spettacolare del
tassodisuicidi.
Nonv’èalcundubbioche
il numero di suicidi abbia
subito
un
incremento.
Entriamo nell’era delle
statistiche e, anche se le
cifre riguardo una materia
così delicata non sono molto
abbondanti, sono tuttavia
eloquenti. Émile Durkheim
ne ha messe insieme alcune:
il numero di suicidi
ufficialmente recensiti, e
quindidigranlungainferiore
allarealtà,passatrail1841e
il 1869 da 2.814 a 5.114 in
Francia, da 1.630 a 3.544 in
Prussia, da 290 a 710 in
Sassonia, da 337 a 462 in
Danimarca; da 1.349 a 1.588
fra il 1857 e il 1869 in
Inghilterra;da244a425trail
1844 e il 1869 in
Baviera. L’evoluzione è
ancora
più
netta
se
consideriamo due rapporti:
in Francia si passa da 8,2
suicidi ogni 100.000 abitanti
nel 1841, a 11,9 nel 1860,
mentre fra le stesse date il
tasso
di
mortalità
generale diminuisce da 23,2
ogni1.000abitantia21,4.«Il
suicidio oggi è talmente
frequente
da
non
commuoverepiùnessuno»47.
Sin dal 1838 il ministro
BartheincoraggiavalaChiesa
a dare prova di severità a
causa della recrudescenza
delle morti volontarie e
dell’apparente indifferenza
dell’opinione pubblica in
proposito. La Monarchia di
Luglio conosce infatti una
prima ondata di suicidi che
mette in allarme le autorità,
con un aumento del 70% fra
il 1830 e il 1845. Tutte le
categorie sociali sono colpite
da tale fenomeno, ma più
ancora le due categorie
diametralmente opposte: da
un lato coloro che vivono
ogni giorno nella miseria
(operai,
domestici,
in
particolare
bambini);
dall’altro coloro che pensano
alla miseria (benestanti,
intellettuali,
professioni
liberali).
Il
secolo
è contraddistinto da un gran
numerodisuicididicelebrità
e l’eco di questi casi famosi
contribuisce a far aumentare
l’importanza del fenomeno
pressol’opinionepubblica.
La maggior parte degli
autori attribuisce l’aumento
dei suicidi, senza alcuna
distinzione, al materialismo,
allo scetticismo, all’ateismo,
allo
scientismo,
al
liberalismo, al socialismo e
discendonobenpocolecause
profonde di questo male
moderno48.
Nel
1820Reydeletdeplorailfatto
che «uomini dal giudizio
fuorviato,
di
carattere
malinconico,entusiasmatidal
desiderio
colpevole
di
farsi notare, difendono il
suicidio»49. Due anni dopo
Fabret afferma che «le
apologie del suicidio si sono
moltiplicate
in
modo
prodigioso dalla fine del
XVIII secolo fino ai giorni
nostri»50,
affermazione
manifestamente falsa. Se
l’aumentodelmaldivivereè
un fatto accertato, nessuna
operasiprodiganell’apologia
del suicidio. I più audaci
dichiarano semplicemente di
capirlo: «Onoro il suicidio
e oso affermare che qualsiasi
uomodibuoncuorecheabbia
attraversatogranditraversiee
atroci dolori lo possa
capire»51, scrive Bossange
nel 1832. Guillaume Ferrus,
nel1850,ritienecheisuicidi
«cheavvengonointornoanoi
non ci ispirano mai il
disprezzo, raramente il
biasimo, a volte la simpatia,
sempre la pietà»52. Alphonse
Karr pensa, come gli stoici,
«che non ci sia niente di
più sensato che togliere un
abito che non ci fa sentire a
nostroagio:lasciareunluogo
in cui ci troviamo male;
deporre un fardello troppo
pesante per le nostre
spalle»53. Riconoscere la
legittimità del suicidio non
significa farne l’apologia,
contrariamente a ciò che
vorrebbero far credere i
sostenitori di un certo tipo di
morale.
Nei romanzi del XIX
secolo, tuttavia, numerose
riflessioni sul ritorno in
grandestiledeltaediumvitae
testimoniano
l’evoluzione delle idee. Uno
degli eroi di George Sand
scrive:
«La
vita
mi
annoia, pertanto la lascio. La
vera superiorità dell’uomo
sullecreatureinertiopassive
che lo circondano è il potere
di affrancarsi a suo
piacimentodalleservitùfatali
che chiamiamo leggi della
natura. L’uomo può, se lo
vuole, non invecchiare. Il
leone non può. Meditate
suquestotesto,èquestatutta
la forza umana». Un altro
riprende Seneca quasi parola
perparola:«Quandolavitadi
unuomoènocivaperalcuni,
quando egli è di peso a se
stesso, inutile per tutti, il
suicidio è un atto legittimo
che egli può commettere, se
non senza rimpianto di aver
fallito nella propria vita,
almeno senza rimorso per il
fatto di mettervi fine»54. Da
parte
sua
Alexandre
Dumas sostiene che il diritto
disuicidarsisiaunasemplice
misura di equità: «Certo,
quando Dio ha fatto degli
uomini una lotteria per la
morteehadonatoaciascuno
di loro solo la forza per
sopportare una certa quantità
di dolore, ha dovuto pensare
che
quest’uomo
sarebbe crollato sotto il
proprio fardello, e che il
fardello sarebbe stato troppo
perlesueforze[...].Echiha
detto che gli infelici non
possanorendereinfelicitàper
infelicità? Non sarebbe
giusto,eDioègiusto»55.
Nel 1843 Saint-Marc
Girardin, nei suoi Cours de
littérature dramatique, attira
l’attenzione sull’atmosfera di
tristezzaincuisicompiacela
letteratura della sua epoca:
«Quantifraglieroideinostri
romanzi e del mondo stesso,
in quanti amiamo la nostra
tristezza, che celiamo dietro
al nome di malinconia e che
nutriamo amorosamente nei
nostri cuori! Bisogna odiare
questi dolori impostori in cui
cidilaniamo;mapoichésono
legati alle nostre passioni da
mille fibre viventi, non
abbiamo la forza di rompere
con loro; li accarezziamo, li
riscaldiamo con una sorta di
tenerezza»56.
Le grida d’allarme degli
avversari del suicidio non
possono nulla contro questa
evoluzione,
anzi,
sono
persino la prova della
sua importanza. Il silenzio
tradizionale che circondava i
casi di morte volontaria fino
alla Restaurazione viene
rispettato
sempre
di
meno. Sin dal 1838, l’autore
anonimodiunlibrointitolato
Du suicide osserva che «un
tempo»questoattoeratenuto
segreto. Ma i giornali ne
parlano
sempre
più
apertamente, nonostante le
manovre delle famiglie per
tenerlo nascosto. Se il
suicidio
resta
una
tarafamiliareesociale,allora
viene capito e accettato
sempre di più sul piano
individuale,
poiché
gradatamente cresce la
consapevolezza del fatto che
ognicasosiaasé.Lastampa
non segnala atti di ostilità
duranteleesequiedeisuicidi.
La riflessione scientifica
segue la stessa evoluzione.
Nella prima metà del secolo
l’ostilitàalsuicidiositraduce
in un’incomprensione totale
dei fattori psicologici. Il
suicidio viene considerato
un atto di follia, oppure un
atto compiuto in seguito alla
perdita del senso morale.
Disdegnando i grandi esempi
deivariSenecaeCatone,non
siriconoscealsuicidioalcuna
razionalità. Albert Bayet ha
riunito i giudizi di alcuni
mediciche,sindall’iniziodel
secolo57,praticavanoautopsie
sui morti suicidi: Gall ha
rilevato un cranio più spesso
e più denso della media;
Home trova che presentino
«i vasi della dura madre
molto dilatati»; Récamier
«un’ossificazione della dura
madre»; Loder «un corpo
calloso molto soffice»;
Cabanis un cervello «più
abbondanteinfosfororispetto
al
cervello
degli
altriuomini»;Fourcroy«delle
concrezioni nella cistifellea»;
Osiander
delle
lesioni
cardiache.Fabretsostieneche
la
condizione
mentale
del suicida «debba essere
consideratacomeundelirio»,
osservazione condivisa da
Calmeli nel 1844 e da
Bourdin nel 1845: il suicidio
è sempre una malattia e
sempreunattodialienazione
mentale.
Uno dei grandi specialisti
della questione è il dottor
Jean-Etienne Esquirol (17721840),medicoallaSalpètrière
e a Charenton. Discepolo di
Pinel, egli pubblica nel 1820
De la lypémanie ou
mélancolie, opera in cui
osserva che «l’opinione che
portaaconsiderareilsuicidio
comel’effettodiunamalattia
o di un delirio acuto sembra
prevalere ai nostri giorni
persinoneiconfrontideitesti
di legge e degli anatemi del
cristianesimo».
La
sua
opinione personale sembra
inizialmente più moderata.
Trovandosi a lavorare in
pienoperiodoromantico,egli
accorda una grande influenza
alla
noia
e
si
lasciacoinvolgeredalleopere
tedeschesullasolitudine.Egli
sostiene che il malinconico
abbia tendenza a trasformare
tutto in discorso di angoscia,
capovolgendol’ottimismoeil
pessimismo:cosìlareligione,
che per alcuni è motivo di
consolazione,èperluimotivo
di disperazione, poiché si
considera
dannato.
La
malinconia non è che un
delirioparziale:
La malinconia con il
delirio, o lipemania, è
una malattia cerebrale
caratterizzata da delirio
parziale,
cronico,
afebbrile, alimentato da
una passione triste,
debilitante o oppressiva.
La lipemania non deve
essere confusa con la
mania, caratterizzata da
un delirio generale e
dall’esaltazione
della
sensibilità
intellettuale; né con la
monomania,lacuiforma
tipica sono le idee
esclusive e una passione
espansivaegaia;nécon
la
demenza,
la
cui
incoerenza
e
confusione delle idee
sono
l’effetto
dell’indebolimento
[...]; [né] con l’idiozia,
poiché l’idiota non ha
mai saputo ragionare
[...].
Nell’ipocondria
invece il delirio non
sussiste58.
MaEsquirolsiallineaben
presto all’opinione della
maggior parte dei suoi
colleghi: «L’uomo attenta ai
suoi giorni solo durante il
delirio e tutti i morti per
suicidio sono degli alienati»,
scrive nel 1838. L’anno
seguente, nell’opera Les
maladies
mentales,
egli afferma, non senza
contraddizione,
che
l’angoscia
suicida
sia
una
conseguenza
dell’immoralismo:
Se l’uomo non ha
fortificato per niente la
propria anima con le
credenze religiose, i
precetti della morale, le
abitudini all’ordine e al
comportamentoregolare,
se non ha imparato a
rispettare le leggi, a
soddisfare i doveri della
società, a sopportare le
vicissitudini della vita,
se
ha
imparato
a disprezzare i suoi
simili, a disdegnare gli
autori dei suoi giorni, a
essereimperiosoneisuoi
desideri e capricci,
mettendo tutto sullo
stesso piano, sarà più
disposto di chiunque
altro
a
terminare
volontariamente
la
propria esistenza nel
momentoincuisitrovia
provare certi dolori o
traversie. L’uomo ha
bisogno di un’autorità
chenedirigalepassioni
e ne governi le azioni.
Lasciato in balìa della
propria debolezza, egli
precipita
nell’indifferenza,poinel
dubbio; nulla sostiene il
suo coraggio, egli è
disarmato contro le
sofferenze della vita,
contro le angosce del
cuore59.
A partire dal 1840 gli
studi sul suicidio aumentano
vertiginosamente. Vengono
inizialmente pubblicati, in
questo anno, l'Anatomie du
suicide, di Forbes Winslom;
De la manie du suicide et de
l'esprit de révolte, di Tissot;
Du suicide et de l'aliénation
mentale di Cazauvieilh; nel
1842 la Storia critica e
filosofica del suicidio di
Bonafede; le Recherches sur
les opinions et la législation
enmatièredemortvolontaire
pendant le Moyen Age di
Bourquelot; le Recherches
statistiques sur le suicide di
Etoc-Demazy nel 1844;
Du suicide considéré comme
maladie a opera di Bourdin
nel1845.
Nel 1856 il medico
alienista Brierre de Boismont
stilailbilanciodiquestistudi
in un’opera sul suicidio che
riscontra un certo successo.
Ricapitolando la lunga storia
dellamalinconia,egliriunisce
tutte le forme passate di mal
di vivere, taedium vitae,
accidia, tristezza, malinconia
e, riprendendo l’idea di
Chateaubriand, afferma che
nel Medioevo i monasteri
erano
il
rifugio
dei
malinconici,
che
li
eleggevano a rifugio del loro
sconforto. Ma la vita
monastica non faceva che
aggravare il loro stato: «La
tristezza,lanoia,lospleen,il
fastidioperlavita,amplificati
dal silenzio della clausura, la
vita
contemplativa,
l’ascetismo e il misticismo,
disponevanoglianimideboli,
sognatori, malinconici e già
malati a subire l’impatto
sociale dell’epoca [...], il
timore dell’inferno, la paura
dei demoni, il terrore della
finedelmondo»60.
PerBrierredeBoismontil
convento rimane tuttavia la
soluzione migliore per i
depressi: «Trovate un mezzo
migliore da opporre ai
rimorsi, causa così frequente
di malattie di languore, di
affezioni
organiche,
di
allucinazioni, di follia, di
suicidio [...]. È questa stessa
influenzachehafattoentrare
neiconventicosìtantiuomini
piegatidaldolore[...].Laloro
azione benefica non era
passata inosservata al più
grande genio dei tempi
moderni. Napoleone aveva
riconosciuto come necessaria
l’esistenza di un certo
numero di conventi come
asiloperlegrandiinfelicità,i
cuori soggetti a penitenza
straordinaria, per fungere da
rifugio alle fantasie esaltate
non più adatte a vivere nel
mondo e a cui peraltro il
mondo provoca peso e
disgusto»61.
Ma
ora
esiste
un’alternativaalconvento,ed
è il lavoro, volontario e
accanito. Ecco la soluzione
per i depressi, il rimedio a
tutte le malinconie: «Invece
di proclamare il diritto al
lavoro, come si faceva una
volta, bisognerebbe inculcare
la voglia di lavorare,
svilupparlaneglianimi[...].Il
lavoro, ecco la base della
tranquillitànellasocietàedel
benesseredell’uomo[...].Dio
e il lavoro, questi sono i
princìpi
che
dobbiamo
diffondere». Tanto più che
«lapigriziaècausafrequente
di morte volontaria. La
proporzione di gente pigra è
immensa,
bisognerebbe
instillare presto la voglia di
lavorare»62. Gli Americani ci
hanno mostrato la strada
giusta:«Esisteunanazionein
cui il lavoro per lavorare e
per non riposarsi mai
rappresenta la tendenza
generale; si tratta della
nazionedegliAmericani»63.
Sarà il lavoro a scacciare
la noia. Il cristianissimo
BrierredeBoismontsiallinea
aVoltaire,maperluilanoia
fa parte della condizione
umanainquantoconseguenza
delpeccatooriginale,edèsu
questo substrato che si
sviluppanolafaticadivivere,
latristezza,l’angoscia.Come
Pascal,
egli
ne
fa
un’argomentazione
apologetica:ilmaldivivereè
la prova dell’esistenza di un
bene assoluto cui noi
aspiriamo: «La noia è un
fenomeno
psicologico
naturale, riscontrabile presso
la maggioranza degli uomini.
Creatidaunapotenzainfinita
da cui la caduta ci ha
separato, la nostra origine
ci spinge continuamente
versodiessa.Inostridesideri
illimitati e mai soddisfatti, la
nostra continua ricerca di
piaceri [...], i nostri fastidi, e
infine la nostra noia che si
trova in fondo a tutte le
cose, non sono che le
aspirazioni del finito verso il
sovranomaestro»64.
Laspiegazione
sociologica:Durkheim
(1897)
Nel XIX secolo la
riflessionesulsuicidioesulle
suecauseculminanelgrande
studio di Émile Durkheim, Il
suicidio,
del
1897.
Quest’opera oggi risulta
estremamenteinteressantesia
perilsuocontenuto,cheresta
scientificamente
molto
valido,
ma
anche
come testimonianza sullo
spirito del tempo. Durkheim
ha intrapreso tale studio in
seguitoalloshockpsicologico
causatogli
dal
suicidio
di Victor Hommay, suo ex
studente
della
Scuola
NormaleSuperiore.Difronte
alla condanna degli ambienti
tradizionalisti,
che
incriminavano la debolezza
dell’individuo, egli vuole
mostrare che il suicidio è
anzitutto il prodotto di un
contestosocialeechel’epoca
èfavorevoleall’incrementodi
questoatto.
Riprendendoleanalisidei
suoi
predecessori
sulla
materia, in particolare i più
recenti, come Il suicidio di
Morselli,pubblicatonel1879,
egli ricorda anzitutto la
distinzione dei quattro tipi di
suicidio operata nei loro
studi: il suicidio maniacale,
dovutoallealluci-nazionieai
deliri;ilsuicidiomalinconico,
dovutoaunostatodepressivo
cheportaallaminimizzazione
dell’importanza della vita,
laqualevieneconcepitacome
noiosa e dolorosa; il suicidio
ossessivo, causato dall’idea
fissa della morte; il suicidio
impulsivo, scatenato da una
pulsione improvvisa. Tutto
questo
è
decisamente
insufficiente,
pensa
Durkheim, poiché equivale a
dire che tutti i suicidi sono
provocati da motivazioni
immaginarie.
Durkheim, che raccoglie
un’imponente
documentazione
statistica,
constata che i suicidi
aumentano regolarmente con
l’età e culminano in
primavera, all’inizio della
settimana,ametàmattinaea
metà pomeriggio, nelle
regioni settentrionali e, per
quanto riguarda la Francia,
nel Bacino Parigino e sulla
Costa
Azzurra,
preferibilmente nelle piccole
città e in zone abbastanza
omogenee.Durkheimesclude
l’ipotesi di predisposizioni di
tipo razziale, considerazione
davveronotevoleinun’epoca
in cui la razza tende a
rappresentareunaspiegazione
universale. Egli esclude
anche
qualunque
determinismo di tipo fisico o
climatico.
Quanto
alle
motivazioni
individuali,
psicologiche,
Durkheim
sostiene che siano il risultato
di un condizionamento
sociale:
Ciò che chiamiamo
statistica dei motivi di
suicidio è, in realtà, una
statistica delle opinioni
che si fanno di questi
motivi i poliziotti,
spesso
subalterni,
incaricati del servizio
informazioni. Si sa,
purtroppo,
che
le
constatazioni ufficiali
sono troppo spesso
lacunose [...]. Ma v’è di
più,quand’anchefossero
degne di fede, non
potrebbero
renderci
grandi servizi, perché i
moventi attribuiti in tal
modo, a torto o a
ragione, ai suicidi, non
ne sono le vere cause.
Lodimostrailfattochei
numeri proporzionali di
casi imputati dalle
statistiche ad ognuna di
queste cause presunte
permangono
quasiidentici65.
È
il
contesto
socioeconomico con le sue
conseguenzeculturaliacreare
le condizioni più o meno
favorevoli
al
suicidio.
Durkheimdistinguetretipidi
suicidio. Anzitutto quello
egoistico, dovuto a un
eccesso di individualismo,
«lo stato di eccessiva
affermazione
dell’io
individuale nei confronti
dell’io sociale ai danni di
quest’ultimo. [...] La vita, si
dice, è tollerabile soltanto se
vi si scorge qualche ragione
diessere,sehaunoscopoche
valga
la
pena.
Ora, l’individuo, preso a sé,
non è un fine sufficiente alla
sua attività. È troppo poca
cosa»66. Il senso della vita
non può che essere collettivo
e collettivamente percepito.
Sel’individuononfapartedi
un gruppo, religioso, politico
ofamiliare,«ildolorediventa
perluiunmisteroedeglinon
può
allora
sfuggire
all’irritante
e
angosciosa domanda: a che
serve? [...] Così, si formano
dellecorrentididepressionee
di delusione che non
emanano da alcun individuo
in particolare, ma che
esprimono lo stato di
disgregazione in cui si trova
lasocietà»67.
I protestanti si suicidano
di più perché la loro
integrazione a una chiesa è
molto meno forte rispetto ai
cattolici. Inoltre essi sono
in generale più istruiti, e
l’istruzione è un fattore di
rimessa in discussione. Ecco
perché le donne si suicidano
di meno: sono meno istruite,
si pongono meno domande
sul senso della vita e si
accontentano di una vita
sociale più limitata: «Con
qualche pratica pia, qualche
animale da curare, la vecchia
zitella si riempie la vita»68.
L’uomo è più esigente su
questopunto.
È distacco religioso
generale
accresce
il
disincantoelasolitudine.Per
sostituireilcredocisirivolge
allascienza,chesuscitadubbi
e domande, almeno in un
primo tempo. Ma non basta
un semplice atto di volontà
per sostituire un credo
perduto: «Non è possibile
ristabilire artificialmente le
convinzioni
consolidate
che sono state travolte dal
corso delle cose»69. E non è
perviadelsuocontenutoche
la religione protegge dal
suicidio,
ma
perché
costituisce
un
gruppo
fortemente integrato. Queste
osservazioni valgono anche
per la famiglia: le persone
sposate
si
suicidano
molto meno rispetto ai celibi
eallevedove,ecisonomolte
meno morti volontarie nelle
grandi famiglie che nelle
famiglie meno numerose. Il
maltusianismo
e
la
disgregazione della cellula
familiare sono potenti fattori
disuicidio.Ancheiperiodiin
cui il tessuto sociale si
destruttura, come la fine
dell’Impero Romano o la
Francia
prerivoluzionaria,
conosconountassoelevatodi
suicidio. In compenso i
periodi dei grandi urti, in
particolare delle guerre,
rafforzano la solidarietà del
gruppo e contribuiscono a
ridurre il numero dei suicidi,
che diminuisce del 14% in
Prussia e in Austria durante
la guerra austroprussiana. La
guerra
del
1914-1918
confermeràtaleconstatazione
e, in quattro anni, ucciderà
gloriosamente
altrettanti
uomini quanti il suicidio in
tresecoli.Alcunivedrannoin
questo un ulteriore segno
dell’assurdità
della
condizioneumana.
Ilsecondotipodisuicidio
è il suicidio «altruista»70, la
cui causa è diametralmente
opposta alla precedente. In
presenza di un eccesso di
integrazione all’interno di un
gruppo, l’individuo smette
di appartenersi; si sente
soffocato e incapace di
raggiungere l’ideale del
gruppo. Questa forma di
suicidio riguarda sia i gruppi
settari che le società
fortemente integrate, come
l’esercito,incuiilnumerodi
morti volontarie è molto
elevato.
Laterzacategoriaèquella
del suicidio anomico, dovuto
adunadislocazioneanarchica
o imprevista del gruppo
sociale, ad esempio in
occasione
delle
crisi
economiche.Nelmomentoin
cuiilrapportofralenecessità
stimate e la capacità di
soddisfarle è fortemente in
disequilibrio,
l’individuo
sprofonda nella disperazione.
Durkheim fornisce numerosi
dati statistici relativi a crisi
recenti:aumentodel51%del
numero dei suicidi a Vienna
fra il 1872 e il 1874
durante la crisi finanziaria;
incremento del 45% a
Francoforte.Questaondatadi
morti volontarie non è legata
all’aumentodellamiseria,ma
a una rottura dell’equilibrio
fra le necessità e i mezzi per
soddisfarle.Questoèancheil
motivo per cui ci sono meno
suicidi nei paesi poveri: «La
povertà
protegge
dal
suicidio»,
sostiene
Durkheim,
invece
«la
ricchezza, coi poteri che
conferisce, ci dà l’illusione
di far capo esclusivamente a
noi stessi. Diminuendo la
resistenza che ci oppongono
le cose, ci induce a pensare
che
possono
essere
conquistateall’infinito»71.
L’arricchimento globale
della società genera nuovi
desiderienuovibisogni,ese
un abbassamento repentino
del livello di vita rende
impossibile
la
loro
soddisfazione, allora prende
piedelosconforto.
Durkheim ammette che
un certo grado di malinconia
sia necessario all’equilibrio
psichico e sociale. Una
societàeuforicanonèsana.
È, infatti, un errore
crederechelagioiapura
sialostatonormaledella
sensibilità. L’uomo non
potrebbe vivere se fosse
completamente
refrattario alla tristezza.
Visonodoloriaiqualici
si può adattare solo
amandoli, e il piacere
che vi si trova ha
necessariamente
qualcosadimalinconico.
La
malinconia
è,
dunque,
patologica
soltanto quando prende
troppo posto nella vita,
ma non è meno
patologico che essa ne
sia
completamente
esclusa. Occorre che il
gusto per l’espansione
gioiosa sia moderato dal
gusto contrario; solo a
questa condizione esso
manterràlamisuraesarà
inarmoniaconlecose72.
PerDurkheimleideologie
della disperazione del XIX
secolo non sono affatto
responsabili del pessimismo
generale e dell’aumento del
numero di suicidi. I vari
Schopenhauer,
Leopardi,
Hartmann,Kierkegaardealtri
nonsonocheprodotti,riflessi
delle società della loro epoca
(osservazione
che
converrebbe
sfumare
ricordando l’ostilità del
pubblicorispettoagliscrittidi
Schopenhauer, ad esempio).
In ogni caso Durkheim è
contrario al suicidio e per
lottare contro questa pratica
suggerisce di rafforzare i
legami sociali, sviluppando
l’ideaassociativa,adesempio
ditiposindacale.
Maldiviveree
modernità
IllibrodiDurkheimèuna
buona occasione per stilare
un bilancio del mal di vivere
a partire dalla situazione
descrittainquestafinediXIX
secolodaitonicosìestremi.È
preoccupante che i fattori di
demoralizzazione collettiva
evocati nel 1897 dal
sociologo siano le principali
caratteristiche della società
contemporanea:
trionfo
dell’individualismo, distacco
dalle
grandi
religioni
strutturate a vantaggio di
piccoli
gruppi
settari;
disgregazione della cellula
familiare; naufragio dei
grandi valori; rimessa in
discussione delle certezze;
indebolimento delle strutture
tradizionali, sindacati, partiti
politici; instabilità crescente
della vita economica e
dell’occupazione che rende
fragili i legami professionali.
A queste tendenze, che si
sono sempre confermate nel
corso
del
XX
secolo, aggiungiamo un
ennesimo fattore, anch’esso
confermatosi:
l’invecchiamento di una
popolazione sempre più
preoccupata dalla fine della
vita. La parole di Charles
Péguy, attorno al 1900,
risuonano sorprendentemente
attuali:
È sempre il sistema
di pensionamento. È
sempre il sistema di
riposo, di tranquillità, di
consolidamento finale e
mortuario.
Nonpensanochealla
pensione [...]. Il loro è
un ideale di ospedale di
Stato, un’immensa casa
di cura finale e
mortuaria. Un immenso
ospizio. Una casa di
cura. Tutta la loro vita
non
è
che
un
approssimarsi
al
pensionamento
[...].
Come un cristiano si
prepara alla morte, il
moderno si prepara alla
pensione.
È una mentalità di
pensionanti
e
di
pensionati. Tutto il
problema risiede nel
sapere se il mondo sia
destinato a diventare un
immensoospizio.
Durkheim non arriva a
concludere che il cammino
della civiltà occidentale si
accompagni ineluttabilmente
a un aumento del mal di
vivere. Egli ritiene che la
civiltà
occidentale
stia
attraversando
una
fase
patologica: «È perciò del
tutto possibile, e persino
verosimile, che il movimento
ascensionaledeisuicidiabbia
come origine uno stato
patologico che accompagna
attualmente il cammino della
civiltàsenza,però,essernela
condizione
necessaria»73.
Qualunque
civiltà, sostiene, porta con sé
un fondo di tristezza
collettiva che si esprime «a
ondate
parziali
e
intermittenti»,«sottoformadi
giudizi frammentari, di
massime
isolate»,
«di
aforismi malinconici», di
«battute proverbiali contro la
vita»
che
sono
solo espressioni individuali,
isolate. Ma a volte il
sentimento del mal di vivere
raggiunge una forza e una
proporzione
tali
da
provocare l’insorgere di veri
e propri sistemi della
disperazione.
È
stato
così all’epoca di Epicureo e
di Zenone ed è nuovamente
cosìall’epocadiDurkheim:
La formazione di
questi grandi sistemi è,
perciò, l’indizio che la
corrente pessimistica è
giunta a un grado
anormale di intensità,
dovuto
a
qualche perturbazione
dell’organismo sociale.
Sappiamo bene come si
sono moltiplicati quei
sistemi ai giorni nostri.
Per farsi un’idea esatta
del loro numero e della
loro importanza, non
basta considerare le
filosofie
che
hanno
ufficialmente
questo carattere, come
quella di Schopenhauer,
di Hartmann, ecc.
Dobbiamo anche tener
contodiquelleche,sotto
nomi diversi, procedono
dallo stesso spirito.
L’anarchico, l’esteta, il
mistico,
il
socialista rivoluzionario,
anche se non disperano
nell’avvenire, si trovano
per lo meno d’accordo
con il pessimista in un
ugualesensodiodioodi
disgustoperciòcheè,in
unmedesimobisognodi
distruggere il reale o di
sfuggirlo.Lamalinconia
collettiva non avrebbe
invaso a tal punto la
coscienza se non avesse
avuto uno sviluppo
patologico.
Di
conseguenza,losviluppo
del suicidio che ne
risulta è della stessa
natura74.
Questo passaggio mostra
che il malessere sociale e
culturaleèdivenutotangibile,
sensibile.Nonsitrattadiuna
fantasticheria a posteriori
dellostorico:ilmaldivivere
ha
raggiunto
proporzioni senza precedenti
nella seconda metà del XIX
secolo.
I
sintomi
cheDurkheimqualificacome
patologici e transitori hanno
continuato ad aggravarsi per
un secolo, pertanto inizia a
profilarsi il dubbio che siano
in realtà uno sviluppo
normale e durevole della
civiltàoccidentale;cheilmal
di vivere ne sia una
componente
necessaria,
ineluttabile,
irreversibile.
Durkheim
sottintende involontariamente
tale pensiero quando osserva
la progressione parallela del
livello di vita e del tasso di
suicidio. L’innalzamento del
livellodivitascatenaunciclo
infernale fatto di consumo e
di nuovi bisogni. «Non
sappiamopiùdovefiniscanoi
bisogni legittimi e non ci
accorgiamo
più
del
significato dei nostri sforzi».
Lasocietàdeiconsumicausa
il dominio degli interessi
economici,chemoltiplicanoi
bisogni artificiali e quindi le
cause di frustrazione, poiché
non offre altri obiettivi e
valori supremi se non la
propria soddisfazione. Il
fine dell’economia è la
prosperità economica, che
rafforza
la
tutela
dell’economia stessa, e così
di seguito. La spirale che
viene a crearsi è una
macchinachedistruggesiale
aspirazioni
morali
che
spirituali, poiché favorisce
due tendenze apparentemente
contrapposte, ma in realtà
complementari:
l’atomizzazione
e
il
gregarismo, l’individualismo
e lo spirito di massa. Per
essere di massa, il consumo
ha bisogno di isolare gli
individui, facendo loro
proiettare il miraggio della
soddisfazione personale e,
allo
stesso
tempo,
diffondendoilpiùpossibileil
conformismo.
Solo
e
soffocato
nella
massa,
all’esclusiva mercè delle
forze
economiche,
all’individuo non rimangono
che
due
strade:
l’istupidimento o il mal di
vivere.
Vivere
quindi
nell’euforia e nell’idiozia,
oppure nella riflessione e
nelladepressione.
1
A.
SCHOPENHAUER,Ilmondo
come
volontà
e
rappresentazione,
Libro
IV, Mursia, Milano 1982, p.
353.
2Ivi,p.354.
3Ivi,pp.353-354.
4J.PRÉVERT,Tentativo
di descrizione d'un banchetto
in maschera a ParigiFrancia, in Parole, Guancia,
Parma1998,p.37.
5 A. SCHOPENHAUER, Il
mondo...,cit.,p.365.
6Ibidem.
7 A. SCHOPENHAUER, II
mondo...,cit.
8Ibidem.
9Ibidem.
10Ivi,p.367.
11Ibidem.
12Ibidem.
13Ibidem.
14 A.SCHOPENHAUER,II
mondo...,cit.,pp.440-441.
15Ivi,p.441.
16Ibidem.
17
E. VON
HARTMANN,
L'autodestruction
du
cbristianismeetlareligionde
l’avenir, traduzione e cura di
J.-M
Paul,
Presses
Universitaires de Nancy,
Nancy1989.
18 M. SURNER, Der
Einzig und sein Eigentum,
Stuttgart 1891, p. 412; trad,
it., L' unico e la sua
proprietà, Mursia, Milano
1990,p.351.
19 J.-M. PAUL, Dieu est
mort en Allemagne: des
Lumières
à
Nietzsche,
Payot,Parigi1994,p.252.
20 M. TWAIN, LO
STRANIERO MISTERIOSO, Einaudi,
Torino1993,p.264.
21 S.A. KIERKEGAARD,
Diario,Rizzoli,Milano2000.
22 S. KIERKEGAAKD,
Diario,cit.
23Ibidem.
24Ibidem.
25Ibidem.
26
S. KIERKEGAARD,
Timore e tremore, Aut-Aut,
Rizzoli,Milano1986,p.162.
27
S. KIERKEGAARD,
Timoreetremore,cit.,p.163.
28S.KIERKEGAARD,
Timoreetremore,cit.,p,174.
29Ivi,p.182.
30Ivi,p.187.
31 L.S. MERGER,
TableaudeParis,Amsterdam
1783,pp.91sgg.
32 H. FERGUSON,
Melancholy and the Critique
of
Modernity:
Soren
Kierkegaard’s
Religious
Psychology,
Routledge,
Londra1995,p.4.
33I.TURGENEV,Padrie
figli, Mondadori, Milano
1988,p.35.
34 A. HERZEN, Dimitri
Pisarev et l'idéologie du
nihilisme russe, in Le
nihilisme,acuradiV.Biaggi,
Flammarion, Parigi 1998, p.
14.
35N.BERDIAEV,Lefonti
eilsignificatodelcomunismo
russo, Cooperativa editoriale
«La Casa di Matriana»,
Milano1976,p.64.
36 J.KRISTEVA, Sole
nero.
Depressione
e
malinconia,
Feltrinelli,
Milano1989,p.154.
37Ivi,p.159.
38
J. KRISTEVA, Sole
nero...,cit.,p.156.
39A.CAMUS,L'uomo
in rivolta, in Opere,
Bompiani, Milano 2000, p.
684.
40 F. NIETZSCHE, La
volontà di potenza, ISIS,
Milano1922,§31,p.21
41 F. NIETZSCHE, La
volontà...,cit.,§443,pp.215216.
42CitatoinG.MINOIS,
Histoire de l’athéisme,
Fayard, Parigi 1998, p. 512;
trad, it., Storia dell’ateismo,
EditoriRiuniti,Roma2003.
43 A. HUXLEY, On the
Margin, Chatto & Windus,
Londra1948,p.25(Accidie).
44 Citato da A.
SOLOMON, Il demone di
mezzogiorno: depressione: la
storia, la scienza, le cure,
Mondadori,Milano2002.
45Ibidem.
46A.DUTIL,Neurasthénie
ou malarie de Beard, in
Traitédemédecine,acuradi
J.-M.
Charcot,
Parigi,
seconda ed. 1905, t. 10, p.
621.
47 É. DURKHEIM, II
suicidio:studiodisociologia,
Rizzoli,Milano1997,p.177.
48Opererepertoriateda
A. BAYET, Le suicide et la
morale,
Alcan,
Parigi
1922,pp.738-740.
49 M. REYDELET, DU
SUICIDE CONSIDÉRÉ DANS SES
RAPPORTS AVEC LA MORALE
PUBLIQUE ET LES PROGRÈS DE LA
LIBERTÉ,Parigi1820,p.23.
50 FABRET, De
l’hypocondrie et du suicide,
Parigi1822,p.92.
51A.BOSSANGE,Des
crimes et des peines
capitales,Parigi1832,p.299.
52 G. FERRUS, Des
prisonniers,
de
ΐèmprisonnement et des
prisons, G. Baillière, Parigi
1850,p.142.
53CitatodaA.BAYET,
Lesuicide...,cit.,p.758.
54 A. BAYET, Le
suicide...,cit.,p.772.
55 A. DUMAS, Antony,
III,3.
56 SAINT-MARC
GIRARDIN,Courtdelittérature
dramatique, ou l’Usage des
passions dans le drame,
Parigi1843,t.1,p.109.
57A.BAYET,Lesuicide...,
cit.,pp.750-751.
58J.-E.ESQUIROL,De
lalypémanieoumélancolie,a
curadiJ.Postel,Ed.Sandoz,
Tolosa1977,p.85[1820].
59 ID., Des maladies
mentalesconsidéréessousles
rapports
médical,
hygiénique et médico-légal,
Amo Press, New York 1976;
trad, it., Delle malattie
mentali
considerate
in
relazione alla medicina,
all'igiene e alla medicina
legale,
Mariano
Cecchi,Firenze.
60 BRIERRE DE
BOISMONT,DU SUICIDE ET DE LA
FOLIE SUICIDE CONSIDÉRÉS DANS
LEURS
RAPPORTS
AVEC
LA
STATISTIQUE, LA MÉDECINE ET LA
PHILOSOPHIE, G. Bailliere,
Parigi1856,p.170.
61Ivi,p.608.
62
BRIERRE DE
BOISMONT, DU SUICIDE..., cit.,
p.92.
63Ivi,p.592.
64Ibidem.
65 É. DURKHEIM, Il
suicidio:studiodisociologia,
Rizzoli,Milano1997,p.206.
66 É. DURKHEIM, II
suicidio...,cit.,pp.240-241.
67Ivi,pp.244-246.
68Ivi,p.248.
69Ibidem.
70
É. DURKHEIM,
suicidio...cit.,p.266.
71Ivi,p.327.
72 É. DURKHEIM,
suicidio...,cit.,p.327.
73 É. DURKHEIM,
suicidio...,cit.,p.329.
74 É. DURKHEIM,
suicidio...,cit.,p.331.
Il
Il
II
Il
Capitolonono
Unaculturadelmaldi
vivere:modernitàe
ansianelXXsecolo
Il XX secolo si apre
davveroconL’urlodiMunch.
Non è difficile immaginare
ciò che questo artista
allucinatointravede:gliorrori
delsecoloavenire;quellidel
XX non ne sono che le
premesse. Da allora, come a
fare da eco al suo urlo,
generazioni di intellettuali e
di artisti hanno espresso il
mal
di
vivere
dei
contemporanei. Dagli inizi
dell’umanità, nessun altro
secolo ha conosciuto un
simile
susseguirsi
di catastrofi, di morti e
distruzioni quanto un uomo
nato fra il 1900 e il 1910.
Come ci si può stupire, o
indignare, del fatto che la
cultura del XX secolo sia
stata così massicciamente
pessimistica?
Un
atteggiamento
contrario
sarebbe stato semplicemente
aberrante.
Espressioniartistichee
letterariedelmaldi
vivere
Gli espressionisti sono
statiiprimiadelineareitratti
salienti di quest’epoca folle.
Essi bandiscono la nozione
arbitraria
di
bellezza,
illusionedellanostrafantasia,
esmascheranol’angosciache
si cela dietro gli alibi della
civiltà.JamesEnsormostrala
morte dietro le smorfie del
riso;OttoDixeGeorgGrosz
espongono gli orrori della
guerra. I surrealisti aprono
una finestra sull’assurdo e
sulnulla,sirivoltanocontroil
tempo («il tempo, farsa
vecchia e sinistra, treno in
perpetuo
deragliamento,
pulsazione folle, inestricabile
ammasso di bestie morenti e
morte»1,
scrive
André
Breton).
Dalì, Tanguy e Delvaux
immortalano la durata,
mentre Magritte la uccide ne
Laduratapugnalata(1938)2.
Il nichilismo conquista la
pittura con Malevitch, le cui
superficibianchesonoveree
proprie immersioni nel nulla,
ispirate da maestri mistici
quali Eckhart, Ruysbroeck e
Boehme. Ritroviamo il
concettodelnullainbiancoe
nero anche con Kandinsky,
unbiancopienodipossibilità
eunnero«senzaavvenirené
speranza»3. Dubuffet, che
sostiene un «nichilismo
attivo», una «deculturizzazione» per mezzo del riso,
vuoleapparirecostruttivo,ma
un discepolo di Stirner
sostiene che «il pensiero
occidentale
sia
viziato
dalla propria fame di
coerenza,
illusione
di
coerenza»4.I
quadri
si
svuotano, come se la sola
cosa degna di essere
rappresentatafosseilnulla,il
silenzio. L’olandese Bram
Van Velde esprime tale
concetto
con
formule
laconiche: «Non posso dire
nulla.
Non
ci
sono
parole; l'importante è essere
niente; più si sa e meno si è
[...];leparolesonorumore»5.
Per questo pittore del nulla,
«lapitturaèl’uomodifronte
alla sua disfatta». Un’altra
forma di disfatta è quella
della civiltà, resa con mezzi
diversi da Picasso, da
Guernica
(1937)
a
L’ossario (1945). L’arte
stessa sta commettendo una
sorta di suicidio attraverso le
opere insensate che osa
presentare
come
provocazioni,
come
le assurde macchine di
Tinguely
che
si
autodistruggono.
Un pessimismo senza
precedenti si impadronisce
della letteratura del XX
secolo
e
sarebbe
probabilmente impossibile
stilare la lista delle opere
riguardanti il mal di vivere.
Ricordiamo solo alcune di
esse a titolo di riferimento.
Franz Kafka segna il passo
sin dall’inizio del secolo con
temi quali la solitudine,
l’assurdo, l’angoscia, mentre
l’austriaco
Karl
Kraus
denuncia nel 1909 «il
progresso febbrile della
stupidità umana», progresso
che «produce portafogli
in pelle umana». Il suo
compatriota Robert Musil
osserva che, sin dal XIX
secolo, l’Europa ha seguito
«il cammino che porta dalla
speranza alla disperazione».
Nel 1918 il tedesco Oswald
Spengler si crea una
reputazione di profeta nel
Declino dell’Occidente, in
cui mostra già i danni
dell’influenza dei media
sull’opinione pubblica. Nel
1933scrive:«Arrival’epocano, è già arrivata! - in cui
non c’è più posto per le
animetenereeilabiliideali».
Tre anni dopo Paul
Valéry, una delle menti più
lucide del secolo, ci pregia
dellasuafamosateoria:«Noi
civiltà ora sappiamo che
siamo mortali. [...] Adesso
vediamo che l’abisso della
storiaèabbastanzagrandeper
tutti.Sentiamocheunaciviltà
èfragilequantounavita[...].
C’èl’illusioneperdutadiuna
cultura
europea
e
la
dimostrazione
dell’impotenza
della
conoscenza nel salvare
qualunquecosa,c’èlascienza
colpitamortalmentenellesue
ambizionimoraliedisonorata
dalla crudeltà delle sue
applicazioni, c’è l’idealismo
difficilmente
vincitore,
profondamente
straziato,
responsabile dei propri
sogni»6. Secondo il disilluso
Valéry, «l’universo è un
difettonellapurezzadelnonessere».
La Germania, duramente
colpita dalle catastrofi del
secolo,
ha
contribuito
ampiamente ad alimentare la
letteratura
pessimistica, persino prima
della guerra del 1914, con
giovani autori come Stramm,
Engelke, Sorge, Stadler, tutti
uccisi nelle trincee, o
Karl
Einstein,
Walter
Hasenclever, Ernst Toller,
vittime invece del suicidio.
AncheGeorgTrakl,scioccato
dalle
atrocità
della
guerra, dalla stupidità e dagli
aspetti orridi del mondo
moderno, si è probabilmente
suicidato nel novembre del
1914,
mentre
lavorava
come farmacista nell’esercito
austriaco. Gottfried Benn
denuncia le illusioni idealiste
erette a moderni idoli; la
storia non è che un
processo
svuotato
di
significato:«Eccociòchesei,
e non sarai mai altro; ecco
come vivi, come hai vissuto,
come vivrai sempre». Hans
Erich Nossach ha vissuto tre
quarti di secolo, abbastanza
per
perdere
qualsiasi
illusione. Ma «si può vivere
senza illusioni, quindi fare
piùchevegetare?Esesipuò,
quale lingua occorre che
parliamo,dalmomentocheci
è stata preclusa ogni
possibilità
di
crearci
illusioni?». Cosa possiamo
fare di fronte alla tentazione
delnullasenon«riconoscere
il nostro fallimento, senza
pietà né ricorso alle
scappatoie
tradizionali»?
«Riconoscere la propria
debolezza è la più umana
delle nostre azioni». La
poetessa Ilse Aichinger, nata
nel 1921, e Günter Grass,
nato nel 1927, si collocano
nella
stessa
corrente
pessimistica.
La letteratura francese
non è certo più allegra: da
Jean Cocteau, che nel 1946
esprime
La
difficoltà
dell’essere («Ho passato la
cinquantina, significa che la
morte non deve fare molta
strada per raggiungermi. La
commedia volge al termine.
Mirestanopochebattute»),a
Samuel Beckett, per il quale
stiamo tutti espiando «il
peccatodiesserenati».Siamo
una società di dannati,
condannati a vivere nella
melma terrestre prima di
marcire. «Il cadavere è
l'ultimo
escremento
dell’uomo»,
osserva
Raymond Queneau, per il
quale la scopa e il pendolo
sono i due oggetti più
rappresentativi dell’esistenza.
Lascopa,simbolodell’azione
ripetitiva, che ricomincia
continuamente, giusto per
ammazzare il tempo, e il
pendolo,
la
cui
solacontemplazionepermette
difuggireiltempo.
Henry de Montherlant,
prima di suicidarsi nel 1972,
ha espresso molte volte il
malesserediviveredell’uomo
lucido. L’uomo moderno è
lucido perché i sogni di una
volta si sono consumati
al fuoco della storia. Non gli
resta che una grande
amarezza e un grande
pessimismo, espresso ad
esempio da Ferrante nella
Reine
morte·.
«Amo
scoraggiare. E non amo il
futuro [...]. Le donne dicono
sempre: “crescere un figlio
perchémuoiainguerra!”,ma
c’è di peggio: crescere un
figlio perché viva e si
avvilisca
nella
vita
[...]. Anche voi fate parte di
tuttequestecosechevogliono
continuare,continuare[...],la
vostra malattia è la
speranza»7.
E che dire di Eugène
Ionesco e del suo teatro
dell’assurdo,
dell’incomunicabilità, nonché
il teatro del mondo! Quando
II re muore, cioè quando io
muoio, cosa mi interessa
dell’avvenire
radioso
delle generazioni future?
Bella consolazione, bieca
menzogna che si ripete ai
morenti da migliaia di anni!
Quando
muoio,
tutto
muore, tutto sprofonda nel
nulla. Non andiamo a
chiedere
conforto
a
Henri Michaux, per il quale
«lastoriadiunuomoèlasua
caduta»; per tutta la sua vita
«ladisperazioneelafaticasi
uniscono. E il sole scalda un
altroposto»8.
Anche per Francis Scott
Fitzgerald,
«beninteso,
qualunque vita è un processo
di demolizione». In The
Crack-up,egliraccontalasua
storia, quella di tanti suoi
contemporanei:
la
depressione avanza man
mano che prende coscienza
della propria incapacità di
raggiungere l’ideale che si è
prefissato.
L’ideale,
pericoloso
miraggio,
scoraggiante
illusione, serve solo a
offuscare
la
realtà
paragonandolaaunaluceche
non è mai esistita. L’ideale
uccide.
FraipoetidelXXsecolo
si contano innumerevoli
disincantati: Paul Celan si
uccide nel 1970, come anche
la
giovane
poetessa
e romanziera americana
SylviaPlathnel1963.Ne La
campanadivetroeneiDiari,
laPlathraccontalasualunga
depressione. Fernand Gregh
ha tradotto in versi la sua
disperazione:
Toute explication de
vivreestunmensonge,
Qui l’a compris n’a
plus
ici-bas
qu’à
mourir9.
Siamo
tutti
irrimediabilmente soli. L’era
delle masse è l’èra della
solitudine; la folla non è che
una sovrapposizione di
solitudini che nemmeno
l’amorepuòspezzare:
L’amour n’est que
l’appeldedétressejeté
Des deux còtés d’un
mur par deux animaux
tristes10.
Lanoia,radicedelmale
moderno
La noia s’impone come
una delle componenti della
vita contemporanea. Beckett
la rappresenta attraverso
personaggi che non fanno
niente e non desiderano
niente, che non hanno «né il
coraggio di finire né la forza
di continuare» e che
aspettanoche«passi»,frauno
sbadiglio e l’altro; si può
persinodirecheassaporinola
propria noia, la quale lascia
loro in bocca il sapore del
nulla.Solol’avvicinarsidella
fine produce un leggero
fremito
di
speranza,
perché «la fine di una vita
rinvigorisce». La vita è
grigia,
tetra,
ripetitiva; nascere è una
sfortuna cui fanno seguito
anni e anni di noia. Si può
solo sperare che non vi sia
altraesistenzadopoquesta11.
Lanoiahaancheunaltro
nome, ed è quello di Marcel
Proust. La sua è l’opera del
tempoperduto,ilsuoequello
dei suoi lettori. Nessuno ha
mai esteso il niente su così
tante pagine e con così tanto
talento.Trasudanonoiaanche
i romanzi di Anna di
Noailles, di Paul Bourget, di
Maurice Barrès, di Joris-Karl
Huysmans, esteti snob e
dandy che all’inizio del
secolo frequentano le capitali
della noia, Cabourg e
Deauville12.Ancoranoia,più
avanti,inFrançoiseSagan,in
cui persino i personaggi
innamorati
hanno
la
sensazione di «annoiarsi
appassionatamente» e di
approdare alla disperazione;
allora,Bonjourtristesse!
È noia anche per Alberto
Moravia, che si dedica allo
studio
delle
diverse
sfaccettature
di
questo
sentimento,daGliindifferenti
(1929)finoaLanoia(1960).
La noia è un tipo di rapporto
privilegiato con il mondo
tipico nella società moderna,
a dispetto o a causa della
moltiplicazione dei bisogni
artificiali
creati
dalla
societàconsumistica.Lanoia
provoca vari tipi di
atteggiamenti:
nostalgia,
violenza,
regressione, suicidio, e
l’uomo consapevole non può
far altro che assistere con
indifferenza allo spettacolo
del mondo. Paradossalmente,
Moraviaergelanoiaamotore
della storia; se le società
progrediscono,
scoprono,
inventano, si muovono è
anche perché si annoiano. La
noia,enonlalottadiclasse,è
all’origine delle rivoluzioni
sindaiprimordi,poichéèper
noiacheDiohacreatoilcielo
elaterra:
Inprincipio,dunque,
era la noia, volgarmente
chiamata caos. Iddio,
annoiandosi della noia,
creò la terra, il cielo,
l’acqua, gli animali, le
piante,AdamoedÈva;i
qualiultimi,annoiandosi
a loro volta in paradiso,
mangiarono il frutto
proibito. Iddio si annoiò
di loro e li cacciò
dall’Eden;
Caino,
annoiato d’Abele, lo
uccise;Noè,annoiandosi
veramente
un
po’ troppo, inventò il
vino; Iddio di nuovo
annoiato degli uomini,
distrusseilmondoconil
diluvio;maquesto,asua
volta, l’annoiò a tal
punto che Iddio fece
tornare il bel tempo. E
così via. I grandi imperi
egiziani,
babilonesi,
persiani,
greci
e
romani
sorgevano dalla noia e
crollavano nella noia; la
noia del paganesimo
suscitava
il
Cristianesimo; la noia
del
Cattolicesimo,
il protestantesimo; la
noia dell’Europa faceva
scoprirel'America13.
La noia è onnipresente
anche presso un altro
romanziere
italiano
contemporaneo, Francesco
Biamonti.Tuttaviaperlui«la
noia è un blocco dell’azione
[...],
una
specie
di
fantasticheriamistaatristezza
attorno alle cose che mi
circondano [...]. Questa noia
malinconica ci fa superare
l’angoscia
paralizzante,
favorisce
il
volo
dell’immaginazioneepersino
della lucidità, e ci evita di
alzare il tono e di lanciare
grida»14.
I romanzi e il teatro non
sono i soli a esprimere la
noia. Sociologi, psicologi e
filosofi
ne
forniscono
interpretazionicherafforzano
laconvinzionechelanoiasia
una delle caratteristiche della
modernità, concetto che può
anche essere interpretato
come un progresso, per lo
meno se si considera la
luciditàcomevalorepositivo.
«Lanoiaprofondafapartedi
queste tonalità fondamentali
chetestimonianodelmododi
essere dell’uomo per come
egliè,dicomevedesestesso
e come si pone rispetto alle
cose e al mondo»15, scrive
Heidegger. Il motivo per cui
oggi
avvertiamo
maggiormente la noia risiede
nel fatto che la riflessione è
progredita.
Gli
intellettuali del XX secolo
scendono più profondamente
dei loro predecessori nelle
regioni tenebrose del nostro
essere-al-mondo.
Non si tratta, beninteso,
della noia nel significato
banale del termine, quella di
cui ci si libera guardando un
film,
ma
della
noia
fondamentale, la noia di
esistere
inerente
alla
coscienza
intellettuale
moderna, che Cioran così
definisce: «Più o meno
bruscamente, in se stessi o
negli altri, o davanti al
paesaggio più bello, tutto si
svuota di contenuto e di
senso.Ilvuotoèinsestessie
fuoridisé.Tuttol’universoè
impregnato di nullità. E non
c’è niente che ci interessi,
niente che meriti la nostra
attenzione. La noia è una
vertigine, ma una vertigine
tranquilla, monotona; è la
rivelazione dell’inconsistenza
universale»16. Per Cioran,
come
per
Heidegger,
l’esperienza
della
noia
permette di accedere alla
consapevolezza del nostro
essere-al-mondo; in sé è
quindi un elemento positivo
checirendepiùlucidi.
Cioran afferma che tutta
la sua vita «è stata dominata
dall’esperienza della noia» e
che tale esperienza ha
rappresentato una sorta di
risveglio necessario: «Colui
che non conosce noia si
trova ancora allo stadio
dell’infanzia del mondo». La
noia, dice ancora, cambia il
nostrorapportoconiltempoe
lo
immobilizza;
rende «domenica» ogni
giorno della vita. La stessa
cosa osserva anche Michel
Huguet in L'ennui ou la
douleurdutemps(1987):«La
noia è la prova più o meno
dolorosa della sensazione
della lunghezza del tempo,
immobilizzazioneintroduttiva
di un vuoto in se stessi e
nell’ambiente, tale per cui la
rottura dei legami che
presuppone sembra mostrarsi
come uno spazio bianco, un
silenziochepresentalamorte
nellavita»17.
Più
profondamente,
Cioran vede nella noia
moderna la possibilità per
ciascunodidemolirelaretedi
significati tessuta dalla
società, rete che ci soffoca
sotto un eccesso di sensi
contraddittori e caotici. La
noia, che permette di fare il
vuotoarrivandoapercepireil
nulla di tutte queste
convenzioni, ci permette
anche di ricostruirci in tutta
libertà e lucidità. In questo
senso Cioran non è affatto
nichilista. Questo «mistico
della noia fu un grande
sostenitore del genio di
esisteresenzaillusioni,valea
dire senza rimorsi inutili»18,
scrive Jean-François Gautier.
«Esistere
senza
illusioni» costituisce la sfida
dell’epoca contemporanea.
Mainquantisonoingradodi
accoglierla? Per un Cioran
che domina positivamente la
noia
profonda,
quanti
sprofondano nella noia
superficiale, fattore di apatia
e disperazione? Cioran ha
visto in questo tipo di
noia
una
reminiscenza
dell’accidia medievale, che
era considerata peccato
perché rendeva seducente il
nulla.
Più recentemente, il
romanziere Régis Jauffret
consigliava «di annoiarsi un
poco nel corso della vita,
poichélanoiaèpiùformativa
deldivertimentoaognicosto
che ci viene proposto
all’interno
della
nostra
società»19. Siamo di fronte a
una situazione davvero
paradossale:mentreilmondo
intellettuale ne decanta
unanimemente la virtù, la
noia non è mai stata
perseguitata
con
tanto
accanimento. La nostra
società sembra in stato
d’assedio;essahadecretatola
mobilitazionegeneralecontro
lanoia:centocanalitelevisivi
vegliano
su
di
noi,
trasmettendo ventiquattr’ore
su ventiquattro; cinema,
locali, video, viaggi, mostre,
festival, animazioni, feste,
club, giochi, cellulari e,
meraviglia delle meraviglie,
Internet, tutti pronti a
braccare la noia. Meglio fare
di tutto che non fare niente.
Scrive Georges Lochak: «Il
peggio del peggio è il vuoto:
la noia che fa nascere la
nostraciviltàdonandoamolti
i mezzi per fare tutto,
ma senza che ne sappiano il
perché [...]. Questa è la noia
che si prova di fronte a se
stessi e che si cerca di
ingannare stordendosi di
viaggi (in paesi di cui, alla
fine, non si conoscerà forse
niente), facendo la coda
davanti alle mostre (solo
perché pubblicizzate sui
cartelloni), studiando le
lingue(dicuinonsifaràuso).
Facendo «molto rumore per
nulla»20. Questa ossessione
freneticadiscacciareildelitto
della noia è indicativa della
vita moderna, divenuta
un’interminabile domenica
pomeriggiodinovembre.
Nauseaeangoscia
dell’esistenzialismo
Dallanoiaallanauseanon
vi è che un passo; esse sono
infatti
due
espressioni
letterarie delle stesso mal di
vivere moderno. Il libro di
Jean-Paul Sartre, pubblicato
nel 1938, ha reso la nausea
uno dei simboli del mal di
vivere contemporaneo. La
nausea
significa
semplicemente
prendere
coscienza
dell’esistenza e dell’assenza
diragionediesistere.
L’eroe sartriano ripete
continuamente: «È dunque
questa
la
Nausea:
quest’accecante evidenza?
Quanto
mi
ci
sono
alambiccato il cervello!
Quantonehoscritto!Eoralo
so:ioesisto-ilmondoesiste
-eiosocheilmondoesiste.
Ecco tutto. Ma mi è
indifferente. È strano che
tutto mi sia ugualmente
indifferente: è una cosa che
mispaventa».«Nehoavutoil
fiato mozzo. Mai, prima di
questi ultimi giorni, avevo
presentito ciò che vuol dire
“esistere”». «L’esistenza non
èlanecessità.Esistereèesser
lì,
semplicemente;
gli
esistentiappaiono,silasciano
incontrare, ma non li si può
maidedurre».
Egli
annota
disperatamentesulsuodiario:
«Martedì. Niente. Esistito».
«Tutto è pieno, l’esistenza è
dappertutto,densaepesantee
dolce». «Esisto, e non posso
sfuggire all’esistenza: Esisto
perchépenso[...]enonposso
impedirmi di pensare. In
questo momento stesso - è
spaventoso - se esisto è
perché ho orrore di esistere.
Sonoio,io,chemitraggodal
nientealqualeaspiro:l’odio,
il disgusto di esistere sono
altrettanti modi di farmi
esistere,
di
affondarmi
nell’esistenza».
«Pensavo
vagamente
di
sopprimermi, per annientare
almeno una di queste
esistenze superflue. Ma la
miastessamortesarebbestata
di troppo. Di troppo per il
mio cadavere, il mio sangue
su quei ciottoli, tra quelle
piante,
in
fondo
a
quel giardino sorridente. E la
carnecorrosasarebbestatadi
troppo nella terra che
l’avrebbe ricevuta, e le mie
ossa,
infine,
ripulite,
scorticate,netteepulitecome
denti,
sarebbero
state
anch’esseditroppo:ioerodi
troppoperl’eternità».
Essere, essere senza
sapere perché e senza poter
non essere. Perché tutte
queste esistenze, «amorfe,
vaghe,
tristi»,
«perché
tante esistenze, visto che si
assomigliano tutte?». A che
pro «tante esistenze mancate
e ostinatamente ricominciate
e di nuovo mancate [...]?». Il
tempo stesso si riduce alla
semplice esistenza, poiché
si riduce al presente: «Ho
gettato attorno uno sguardo
ansioso: presente, nient’altro
che presente [...]. La vera
naturadelpresentesisvelava:
eraciòcheesiste,etuttoquel
che non avevo presente,
non esisteva. Il passato non
esisteva. Affatto. Né nelle
cose e nemmeno nel mio
pensiero. [...] Adesso lo
sapevo: le cose sono soltanto
ciòcheappaiono-edietrodi
esse...nonc’ènulla».
L’espressione
più
semplice della sensazione di
esistereèlanausea,cherende
la vita un inferno. L’inferno,
sono anche gli altri: «Mi
sembra di appartenere a
un’altra specie». Gli altri
«son pacifici, un po’
melanconici, pensano a
Domani,
cioè,
semplicemente, a un altro
oggi;lecittànondispongono
che d’una sola giornata
che ritorna sempre uguale
ogni mattina. [...] Che
imbecilli». «E dire che vi
sono imbecilli che attingono
consolazioni nelle arti! [...]
Sifiguranocheisuonicaptati
scorrano in loro, dolci e
nutrienti e che le loro
sofferenzedivenganomusica,
come
quelle
del
giovaneWerther,credonoche
la bellezza sia loro pietosa.
Coglioni!»21. Sono gli stessi
imbecilli, trent’anni dopo,
tratteggiaticosìbenedaDino
Buzzati ne II Colombre,
affaccendati
in
inutili
preoccupazioni, in questa
grottesca agitazione del
formicaio umano. Alcuni
si dicono, e si credono,
sinceramente umanisti, altro
tentativo di sfuggire alla
consapevolezza di esistere.
Ma tutti poi, dal santo al
gangster, fanno sempre una
solacosa:passanoiltempo.
Non solo esisto, dice
Sartre, ma «sono condannato
a essere libero». L’individuo
è costantemente posto di
fronte a scelte arbitrarie che
contribuiscono a tessere la
sua essenza, poiché la sua
esistenza precede la sua
essenza. Cosa c’è quindi di
più angosciante di questa
libertà esistenziale? Per
fuggire tale angoscia, alcuni
decidono
di
seguire
ciecamenteunafedereligiosa,
un’ideologia. Fatica sprecata,
perchésonoliberidiritornare
su
questa
scelta
in
qualsiasi momento. Poiché la
nostra coscienza è sempre
pre-occupatadaqualchealtra
cosa,cièimpossibileprovare
costantemente
questaangoscia.
Mentre nell’Antichità il
mal di vivere si basava sulla
sensazione di un destino
implacabile,essosibasaoggi
sullasensazionediunalibertà
assoluta,diunagratuitàtotale
delle nostre azioni. Il
mondo
moderno
ha
glorificatolalibertà,equesta
libertà ora provoca angoscia;
leteoriedeterministichesono
considerate mere scuse
propinate in malafede. Ma
cosac’èdipiùangosciantedi
unmondodipuragratuità,in
cui ognuno esiste e agisce
senza ragione, senza causa?
La corrente esistenzialista si
nutre di questa paura
della libertà. Heidegger vi
aggiunge l’angoscia legata
alla massificazione: l’«io» si
dissolve nel pronome «si»,
dall’accezione
collettiva
anonima. «Il fatto di trovarsi
nelmondoinunacomunione
apparentemente tranquilla e
fiduciosa è una forma di
malessere
dell’essere
umano».
Il
pericolo era evidente sotto i
regimi totalitari e lo è
allostessomodonellasocietà
consumistica, che esalta
l’individuopermeglioridurlo
allo stato di consumatore,
omologarlo
in
categorie,
siano
esse
statisticheosondaggi,efarne
un’entità trascurabile che
esistesoloinquantoelemento
diunapercentuale.
Neanche Albert Camus
smette mai di ripeterlo. Per
lui l’angoscia proviene
soprattuttodallasensazionedi
assurdità
del
mondo,
colpevole
di
creare
un’indifferenza perfetta: «Se
nulla ha senso, [...] tutto è
possibile e niente ha
importanza». Tuttavia egli
vuolereagire,rifiutandosiail
suicidio che le soluzioni
illusorie che spingono la vita
nell’aldilà:«L’assurdohaper
me tre conseguenze: la mia
rivolta, la mia libertà, la mia
passione». È la rivolta che fa
la grandezza dell’uomo:
«L’uomo è la sola creatura
che rifiuti di essere ciò che
è»,chevisiaomenounDio:
«Nel tempo stesso in
cui rifiuta la propria
condizione mortale, l’uomo
in
rivolta
rifiuta
di
riconoscereilpoterechelofa
vivere in questa condizione.
L’insorto metafisico non è
dunque sicuramente ateo,
comesipotrebbecredere,ma
necessariamenteblasfemo»22.
Rivolta e disprezzo:
l’atteggiamentodiSisifodeve
permettere di dominare la
nostra miserabile sorte,
poiché «non esiste destino
chenonsipossasuperarecon
il disprezzo». Ma rivoltarsi
controcosa?Controlamorte,
contro
l’assenza
di
significato,cheèpoilastessa
cosa, poiché la morte toglie
qualsiasi significato alla vita.
«L’uomo in rivolta non
chiede di vivere, ma le
ragioni per vivere». Rivolta
dei disperati, che non hanno
più niente da perdere, e che
hanno perso la battaglia
prima ancora di iniziarla.
Ripercorrendo la storia de
L'uomo in rivolta, da
Prometeo ai nostri giorni,
Camus ci svela la storia dei
ripetuti fallimenti dell’uomo
contro la propria condizione.
Nel migliore dei casi, la
rivolta porta a vivere più
intensamente possibile nel
presente, senza speranze e
senza
illusioni,
«nell’indifferenza
rispetto
alfuturo,econlapassionedi
esaurire tutto quel che ci è
dato».
«Lacatastrofedella
nascita»(Cioran)
Tutte
le
correnti
filosofiche del XX secolo
sonodellevariazionisultema
del mal di vivere. La
fenomenologia rileva il
fallimento del pensiero
razionale nel creare un
significato dell’esistenza. In
La
crisi
dell’umanità
europea,
all’interno
dell’opera
La
crisi
delle scienze europee e la
fenomenologia
trascendentale,
Husserl
osserva come la cultura
occidentaleabbiacostruitoun
sapere che contiene in se
stesso la propria forza di
autodistruzione. L’empirismo
assoluto di Wittgenstein ne è
un esempio: il mondo si
riduce a una collezione di
fattiindipendentielalogicaè
un puro formalismo di segni
che non può in alcun caso
spiegare i fenomeni, poiché
«credere a una connessione
causaleèpurasuperstizione».
Tutte le verità sono solo
tautologie
incapaci
di
spiegare il mondo e il senso
della vita. Tutte le teorie non
sonochechiacchierevuote,e
la sola forma di saggezza
risiede nel silenzio: «Se non
si sa ciò di cui si parla, è
meglio tacere». Le filosofie
del sospetto generalizzato
esprimono lo spirito di
un’epoca.
Il pessimismo si estende
persino ai filosofi credenti,
come Gabriel Marcel. Alla
fine del secolo, negli atei, il
nichilismoprogredisce.Alain
Badiou ne percepisce un
segno
persino
nella
promozione
dell’etica:
«L’eticaènichilistaperchéla
sua convinzione latente
consiste nel fatto che la sola
cosa che possa veramente
succedere all’uomo è la
morte»23.Sottol’etica,infatti,
vi è «l’articolazione di una
propagandaconservatriceedi
un oscuro desiderio di
catastrofe». Anche Gianni
Vattimoelaboraunatesisulla
vittoria del nichilismo, ma
vi intravede ancora una
possibilità, un progresso,
poiché il pensiero, liberatosi
dalle illusioni metafisiche e
daifalsivalori,puòrifondare
il mondo sulla libertà, vale a
dire su un’assenza di
fondamento.
Una
tale
prospettiva promette più mal
diviverechegioia!
Anche un pensatore
indipendente come Gilles
Deleuze ha sviscerato la
questione del mal di vivere,
evocando nel 1992 la figura
di Beckett, l’«esaurito» per
eccellenza;
l’intellettuale
moderno è «esaurito dal
nulla», diceva. Deleuze ha
ripercorsolegranditappeche
hanno portato al nichilismo
contemporaneo:
l’accusa
dell’altro
attraverso
l’affermazione
del
sé
nell’Antichità; l’autoaccusa
colpevolizzante
del
cristianesimo e la sua
sublimazione
ascetica,
nonché negazione della vita;
infine l’accusa e la condanna
a morte di Dio nell’epoca
moderna. Morte dell’altro,
morte di sé, morte di
Dio: cosa ci resta? «Tutto è
vano»24, meglio spegnersi
passivamente, scrive nel suo
librosuNietzsche.
Fra tutti gli scrittori
disperati, uno dei più
eloquenti e dei più «noir» è
senza dubbio Émile Cioran,
che
abbiamo
già
incontrato parlando della
noia. Ancora giovanissimo, a
ventidue anni, egli scrive Al
culmine della disperazione
(1933), pamphlet contro la
vita di rara violenza e di
sorprendentelucidità,sortadi
sfogo del suo furore per il
fattodiessereinvitachenon
gli
consente
di
suicidarsi: «Niente può
giustificareilfattodivivere»,
dichiara; quando tutti gli
idealiavrannofallitoneldare
senso alla vita, «come
continuare a preservarla dal
nulla?».Tuttalanostravitaè
costruita sulla paura della
morte;tuttociòchefacciamo
mira a respingerla, pur
sapendo che è ineluttabile.
«Nonostante la vita sia per
me un supplizio, non posso
rinunciarvi,poichénoncredo
all’assoluto
dei
valori
nel nome dei quali mi
sacrificherei.
A
essere
sincero,devodirechenonso
perché vivo, né perché non
smetto di vivere»25. Anche
il nuovo Amleto è quindi
perplesso quanto il suo
glorioso antenato e se la
prende con tutti i motivi
avanzati per giustificare la
vita, considerandoli meri
pretesti fallaci. Preparare il
futuro, un avvenire migliore
per le prossime generazioni,
come i nostri predecessori
che si sono sacrificati perché
fossimo più felici di loro?
«L’ironia
suprema
consisterebbe nell’accorgersi
che costoro furono più felici
diquantonoilosiamooggi»;
«Sono felici solo coloro che
non pensano mai, vale a dire
coloro che pensano solo lo
stretto necessario per vivere
[...]. Gli uomini più infelici
sono quelli che non
hanno diritto all’incoscienza.
Avere una coscienza sempre
all’erta,
ridefinire
continuamente il proprio
rapporto col mondo, vivere
nella perpetua tensione della
conoscenza, questo significa
essere perduti per tutta la
vita»26. Al diavolo «questa
gente abbrutita, che lavora
senza ragione o si compiace
per il suo contributo al bene
dell’umanità, sgobbando per
le generazioni a venire sotto
l’impulso della più sinistra
delleillusioni!»27.Gliideali,i
credo,l’arte,lafilosofiasono
bazzecole per passare il
tempo, poiché tutto va verso
ilnulla.
Perché non il suicidio
quindi? In generale è quanto
sostengonogli«abbrutiti»che
rimproverano ai pessimisti
angosciati di avvelenare loro
la vita. La discussione è
all’altezza della riflessione
dei cosiddetti abbrutiti. Il
suicidio filosofico è un mito,
scriveCioran.Noncisitoglie
la vita in seguito a un
ragionamento, ma a causa
di determinanti organiche e
intime; il suicidio è un atto
che coinvolge l’insieme
dell’essere («La morte mi
disgusta
quanto
la
vita», afferma Cioran). In
ogni caso, la possibilità del
suicidio è quanto meno un
fattore di superiorità che
l’uomo possiede rispetto a
Dio,ilqualenonpuòinalcun
modoannientarsi.
Lavitaèassurda,ecoloro
che tentano di giustificarla
sono degli incoscienti oppure
dei bugiardi. «Come si
possono avere degli ideali
quandosullaterranoncisono
che
sordi,
ciechi
e
pazzi?»28. Cioran ribadisce
insistentemente
il
suo
disgusto per la vita in
operedaititolisuggestivi.Nel
Sommario di decomposizione
(1949) osserva che «la vita
non ha alcun senso, non ne
può
avere».
Nessuna
religione, nessuna ideologia
hamaipotutofornireunasola
argomentazionevalidacontro
il suicidio; se abbiamo il
coraggio di continuare è
perché
sappiamo
che
possiamo tirarci fuori in
qualsiasi momento. «Demoni
fanfaroni, noi rimandiamo la
nostra fine: come potremmo
rinunciarearibadirelanostra
libertà, al gioco della nostra
superbia?»29. Allora restiamo
in vita, per fare come gli
altri;
viviamo
«per
imitazione»,
«per
educazione». «La vita è
tollerabile grazie al grado di
mistificazione con cui la si
prende».
Siamo
tutti
«abitudinari
della
disperazione, cadaveri che si
accettano,
sopravviviamo
tutti».
La raccolta di aforismi
pubblicatadaCiorannel1973
con il titolo L’inconveniente
di essere nati è a tutti gli
effetti una sorta di bibbia del
mal di vivere contemporaneo
spinta al parossismo. Cioran
evoca in queste pagine «la
catastrofe della nascita» e
vede nella paura della morte
una proiezione nel futuro di
questo timor panico che ha
accompagnatoilnostroprimo
istante di vita. In un
certo qual modo vi si può
trovare una consolazione: il
peggio è passato, vale a dire
la nostra venuta al mondo.
Ma
è
anche
un’esortazione: evitate il
peggiore di tutti i crimini,
«quello di essere padre».
Percercarerassicurazione,gli
uomini hanno inventato Dio:
«È chiaro come il sole che
Diofosseunasoluzioneeche
non ne troveremo mai una
altrettanto soddisfacente»30.
Ma questa soluzione non è
più credibile: l’uomo del
2000, che conosce il pietoso
naufragioditutteleillusionie
ditutteleutopie,nonpuòpiù
credereperunsoloistantenel
futuro dell’uomo, appunto
perché è consapevole della
sua tristezza ancor più di
quanto lo fossero i suoi
antenati. «Sono disposto a
credere nel futuro dell’uomo,
ma come riuscirci quando si
è,malgradotutto,inpossesso
delle
proprie
facoltà?
Occorrerebbe il loro tracollo
quasi totale, e ancora non
basterebbe»31.
Ilmalessererivelato
(diarieautobiografie)
Scrivere, e in particolare
scriveredisé,èunmodoper
ricostruirsi,
per
rifarsi
un’identità,perinventarsiuna
ragione di vita. Il bisogno di
raccontarsi è in se stesso un
segno
di
malessere,
l’espressione
di
una
malinconiaodiunrancore,e
allostessotempolaricercadi
conforto. Come abbiamo
visto molte volte, il
malinconico descrive la
propria malinconia per
combatterla. Paradossalmente
le autobiografie ci insegnano
forse di più sulle mentalità
collettive che sugli individui,
anzituttoperchésonoracconti
soggettivi. Qualunque sia lo
statodiluciditàedionestàdi
un autore, la sua opera è il
risultato di una scelta. Egli
passa la sua vita al vaglio
della
sua
personalità,
dimentica alcuni episodi, ne
scartaaltrideliberatamente,e
il suo umore del momento
coloraisuoiricordidirosao
di nero. A tutto ciò si
aggiungono
gli
artifici
letterariche,necessariamente,
deformanolarealtà.
Il diario è probabilmente
una forma più autentica
rispetto
all’autobiografia,
nella misura in cui vi si
annota nel presente la
reazione a caldo. I momenti
di disperazione vengono
annotati
con
violenza:
«Angoscia, angoscia. Dove
miporteràquest’avventura?»,
scrive Charles Juliet il 24
settembre 1965; «pensierosuicidio», scrive di getto un
altro giorno32. Nel suo
Journal
d’enfer,
Francis Giauque scrive nel
marzo
1965:
«Sonno
scomparso.
Enclave
della disperazione. Alzarsi.
Coricarsi. Alzarsi. Coricarsi
di nuovo»33. Louis Calaferte
scrive,il12febbraio1964:
«Cattivo
stato
d’animo.
Abbattimento
morale.
Instabilità
del
pensiero.
Lavoro
inconsistente»34.
Nel
momento
in
cui
la
depressione si aggrava, il
diario si interrompe: «Un
mese senza aprire il diario.
Ho attraversato una crisi
morale talmente spaventosa
che riportarne i dettagli mi
ripugna»35, annota Calaferte
il 21 febbraio 1969.I critici
hannoosservatochegliautori
dei diari personali si
suicidano in media tre
volte di più degli autori di
autobiografie36. Tormentati e
più inclini alla scrittura «a
caldo» e alle reazioni
violente, i primi sono più
inclini agli accessi di
pessimismo,mentreisecondi
rimuginano, riflettono, si
analizzano, si interrogano,
cercano di dare una forma
letteraria alla loro tristezza:
«Ed è così che la nostra
coscienzacifavili;ècosìche
si scolora al pallido riflesso
del pensiero il nativo
colore del coraggio», diceva
giàAmleto37.
Diari intimi e racconti
autobiograficipresentanouna
grande diversità che Michel
Braud ha trasformato in un
esauriente studio38, da cui
risulta l’impressione di un
immenso
malessere
esistenzialeilquale,aldilàdi
tutte le situazioni particolari,
si estende all’insieme del
mondo
letterario.
Gli
avvenimenti
della
vita
personale a volte sono
determinanti,
come
in
Virginia Woolf. Molti altri,
senza aver conosciuto simili
tragedie personali, sono stati
profondamente segnati dagli
avvenimenti
dell’infanzia.
Nel
1942,
nel
suo
Voyage intérieur, Romain
Rolland evoca «i mostri
divoranti della disperazione
mortale»39 che ha conosciuto
durante
l’adolescenza.
«Ho attraversato disperazioni
senza fine»40, scrive Jean
Louvain in II faut tenter de
vivre (1943). Anche Simone
de Beauvoir, Francis Carco,
Romain Gary e Julien Green
si riferiscono a fatti risalenti
alla loro giovinezza che ne
hanno
determinato
la
malinconia. Sotto l’influenza
della psicanalisi, gli scrittori
del XX secolo hanno avuto
la tendenza ad accordare
un’importanza primordiale
alla loro prima infanzia,
soprattuttoapartiredaglianni
’60. Ma la psicanalisi,
concepita come strumento
terapeutico,
può
anche
provocare angoscia negli
esseri
ipersensibili
che
praticano l’autoanalisi. Ad
esempio,ilricordodeformato
e amplificato del ruolo
soffocante della madre è
nettamente ansiogeno per
Romain Gary e Sylvia Plath.
Altri insistono maggiormente
sui traumi adolescenziali,
comeLouisCalaferte:«Come
adolescente mi aspettavo
molto dal mondo, di
cuiignoravotutto.Acontatto
con la sua violenza, la sua
ingiustizia e la sua crudeltà,
sono stato irrimediabilmente
traumatizzato. In fabbrica a
tredici anni e mezzo, ho
improvvisamente scoperto la
forza che reprime l’odio,
l’ignoranza»41.
L’autobiografia è l’opera
degli individualisti, la cui
sensibilità esacerbata è più
ricettivaaimahcircostanti.Il
trionfo
della
società
consumisticadimassa,fattore
didisumanizzazione,conduce
alcuni alla disperazione. Già
nel1935StefanZweigannota
nel
suo
diario
lo
scoraggiamento che gli ispira
questo «ingrassamento delle
masse», questo trionfo del
nuovo
comandamento:
«Compra!
Compra!
Compra!»; gli sembra che il
mondosiadirettodaunpazzo
che
lo
«conducaassurdamenteverso
l’ignoto». Quando si è
umanisti
autentici,
si
può forse assistere senza
emozioni
al
naufragio
dell’umanesimo, che peraltro
ha tutte le carte in regola per
essere definitivo? Il mondo
nonhapiùsenso,ecoloroche
vogliono ridargliene lo fanno
innomediideologieassurde.
Stefan Zweig si suicida il 22
febbraio1942.
A che pro cercare ancora
di
dare
un
senso
all’esistenza? L’ossessione
dell’«a-che-pro», malattia da
cui Jean Cocteau dice di
essere stato colpito nel 1953,
ècontagiosa.Il26luglioegli
annota sul suo diario:
«Questa notte, crisi di
ossessione dell’“a-che-pro”,
caduta a picco in questo
grigiorelacuiuscitanonpuò
cheesserelamorte»42.Ache
pro? Tale domanda esprime
anche l’immenso scoramento
degli intellettuali di fronte
allasconfittadellarazionalità
e la regressione culturale, il
trionfo della stupidità amorfa
della massa e la stupidità
fanatica dei credenti di ogni
sorta.
Gli
antro-pologi
approdano
alla
stessa
constatazione: «A che serve
agireseilpensierocheguida
l’azioneconduceallascoperta
dell’assenza di senso?»43, si
domandaClaudeLévi-Strauss
inTristitropici(1955).
Anchese«nonmancamai
a nessuno una buona ragione
per uccidersi»44, sentenzia
Cesare Pavese, abbiamo
paura del nulla, «una paura
più forte di tutto», risponde
Danielle Collobert, per cui
la vita non diventa altro che
passare il tempo: «Occupo il
tempo, non faccio che
occupare il tempo, come
tutti»45.
Cosa siamo venuti a fare
in questa galera, si chiedono
in coro gli autobiografi del
XX secolo. Charles Juliet
deploralaproprianascita,che
paragona a una «espulsione
nel tempo». Perché non sono
statadimenticatanelnulla?,si
chiede Marie Noèl: «Avrei
preferitoche[Dio]miavesse
risparmiato questo grande
problema di vivere e
di
morire,
dimenticata
indefinitamente nel sonno
senza peccato né tristezza,
dove le anime non si sono
ancora
risvegliate»46,
mentre Albertine Sarrazin si
impunta sul mistero della
proprianascita.
Altri
ampliano
il
problema: l’esistenza non è
forse già uno scandalo di per
se stessa, poiché termina
sempre con la morte? Il 30
gennaio 1960 Charles Juliet
esprime fortemente questa
angoscia nel suo diario:
«Qualsiasi processo del
pensiero
sfocia
nel
problema
della
morte,
pertanto
tutto
crolla.
Destinato a urlare o a
gemere»47. Il 29 ottobre
evoca«questavertiginecheci
coglie quando arriviamo a
realizzare che miliardi di
esseri umani ci hanno
preceduto, sono esistiti in
carne e ossa, hanno avuto un
presente, hanno vissuto,
amato, goduto, per sparire,
alla fine, senza lasciare
niente, senza tramandarci
alcuna risposta [...]. E anche
noi
spariremo,
ci immergeremo in questo
passato»48. E perché non
subito?
«Suicidarsi
a
ventiquattro anni significa
scegliere la perfezione,
rifiutare di lasciarsi logorare
daltempo»49.Malapaurac’è
sempre. Allora bisogna
sopportarsi,
«essere
prigionieri di se stessi per
tutta una vita». Juliet, dopo
molti altri, osserva che la
nostratristezzaècausatadalla
riflessione,echepersfuggire
alla disperazione non ci
sono che «due soluzioni: o il
suicidio,
o
la
vita
dell’abbrutito»50.
Camus
lo aveva detto: «Iniziare a
pensare significa iniziare a
logorarsi».
Da un lato, quindi,
l’assurdità
della
vita;
dall’altro
la
paura
della morte. Simone de
Beauvoir ha raccontato come
per molto tempo avesse
ammirato
il
suicidio
metafisico, pur riconoscendo
lasuaimpotenzanelmetterlo
in pratica: «Avevo troppa
paura della morte», che è
esattamente quanto afferma
anche Paule Régnier nel suo
diario: «Tutto finisce nella
morte. E pur desiderandola,
ne ho paura»51. Irène-Carole
Reweliotty, divorata dalla
tubercolosi, punta il dito
contro l’assurdità della
medicina, il cui unico fine è
di farci morire in buona
salute:«Tuttiquestigiornida
subire.Èorribilepensareche
così io lotto per vivere e che
questo non impedirà che
iomuoiacomunque,chesono
sconfitta in partenza. Non ha
senso fare sforzi per guarire,
poichétuttalavitaportasolo
allamorte»52.
Molto spesso gli autori
dei diari intimi e di
autobiografie provano un
senso di colpa poiché sono
convinti
della
loro
mediocrità,
della
loro
incapacità di affermarsi nella
vita.
Charles
Juliet
esprime con forza tale
concetto:
«Fallimento,
fallimento. Non riuscire
a vivere. A morire. A
superarsi. A dare e ricevere.
Inevitabilmente ci si sente in
colpa. Vergogna per queste
mezze
misure,
questi
mezzi fallimenti, questa
impotenza,
questa
colpevolezza,
questa
vergogna»53. Tentati dal
suicidio, si sforzano di
inventarsi una ragione per
vivere.Latentazionereligiosa
è ancora forte in alcuni, ma
unavoltaintrodottoildubbio,
nulla lo può scacciare. Ci si
può giusto aggrappare a un
timido«esefossevero?»,che
non si può dire se sia un
timoreounasperanza:forseè
tutto
qui,
in
questo
brivido del «se fosse vero»!
Se veramente fosse vero,
sogna Cesare Pavese54. Altri
tentano
di
motivarsi
fissandosi obiettivi umani,
come Simone Weil, che
chiede
una
missione
pericolosa per trasformare un
suicidio in sacrificio. Altri
ancora si trascinano, giorno
dopo giorno, gesto dopo
gesto,senzapensarealfuturo.
«Per ritrovare una parvenza
di pace, bisogna che mi
aggrappi a un tempo senza
domani, a un tempo
decapitato», scrive Cioran,
mentre Juliet cerca un
appiglio, come un alpinista
sfiancato: «Bisogna resistere,
resistere;tuttoqua»;eancora:
«Mi accontento di andare
avanti, ma non mi aspetto
niente».
Con più o meno
discrezione,
innumerevoli
autori del XX secolo hanno
accennato
a
qualche
malessere. Come Albert
Cohen, che scrive «per
ingannare
la
sua
disperazione»;FrancisCarco,
chevivenel«disgustoenella
paura di invecchiare»; Jean
Cocteauelesuecrisisull’«a-
che-pro»;JoeBousquet,peril
quale
«l’uomo
nasce
nel dubbio e, mezzo cieco,
non può che esistere
nell’inconsapevolezza
o
nell’angoscia»;RomainGary,
che conduce «una battaglia
omerica e disperata»; Michel
Leiris, convinto che la vita
non valga la pena di essere
vissuta e che solo la scrittura
lo tenga in vita; Henry de
Montherlant, che rifiuta il
degrado
dell’infermità;
Georges Perros, che pensa
che «quando l’uomo si
affaccia su se stesso
può andare incontro solo a
disastri»; André Suarès, che
vorrebbe«dileguarsicomeun
soffio»,emoltialtriancora.
Tutti, ad un certo
momento, hanno pensato al
suicidio. Molti lo hanno
messo in pratica. Jacques
Vaché, che scrive nel 1917 :
«Mirifiutodiessereuccisoin
tempodiguerra»,aspettache
tomi la pace per darsi la
morte, nel febbraio 1919. Il
suo gesto viene imitato da
una folta schiera di
personaggi:
Vladimir
Majakovskij (1930), Daniel
Fleg (1939), Virginia Woolf
(1941), Stefan Zweig (1942),
Pierre Drieu La Rochelle
(1945), Klaus Mann (1949),
Cesare
Pavese
(1950),
Paule Régnier (1950), Stig
Dagerman (1954), Sylvia
Plath(1963),FrancisGiauque
(1965),HenrydeMontherlant
(1972),
Danielle
Collobert (1978), Romain
Gary (1980), Arthur Koestler
(1983), Primo Levi (1987),
Bruno Bettelheim (1990) e
GillesDeleuze(1995).
Ilmalessereesplorato
dallapsicanalisi
In un certo qual modo il
mal di vivere contemporaneo
è all’origine di una nuova
scienzaumana:lapsicanalisi.
Nata dall’osservazione dei
disturbi psichici profondi,
essa ha avuto inizialmente
una finalità terapeutica, per
poi
sfociare
in
una
constatazionepiùinquietante:
il mal di vivere e la
malinconia fanno parte
integrante dello psichismo
«normale» e sono soggetti a
un processo di sviluppo. Ma
anche la psicanalisi, a suo
modo, ha contribuito a
diffondere il mal di vivere,
nellamisuraincuidimostraa
che
punto
il
nostro
comportamentodipendadalle
forze oscure e incontrollabili
dell’inconscio, della bestia
immonda che alberga in
ognuno di noi. Questa nuova
scienzapuòguariredaalcune
forme di angoscia, ma non
può in alcun modo dare un
senso alla vita, una ragione
per vivere, un valore
trascendente. Una volta
completato il suo lavoro
di demistificazione, essa
lascia un vuoto. Dopo aver
seguitounpercorsodianalisi,
Michel Leiris scrive: «Mi
sembra di stare meglio,
non sono più ossessionato
continuamentedal“tragico”e
dall’idea che non so fare
niente, di cui non devo
vergognarmi.
Ma
tutto
succede esattamente come se
lecostruzionifatiscentiincui
vivevo siano state scalzate
alla base senza che mi sia
stato dato niente con cui
sostituirle. Ne consegue che,
certamente, agisco con
maggiore sagacia, ma che il
vuotoincuimitrovoèancora
più marcato [...]. In questo
mondomancaqualcosaperla
quale sarei capace di
morire»55.
Ricordiamo brevemente
la spiegazione psicanalitica
della malinconia e della
depressione.
Nel
1917
Sigmund Freud, nella sua
opera Lutto e malinconia,
avanza una teoria relativa ai
meccanismidelmaldivivere
che i suoi successori, sia
teorici che praticanti, si
occuperanno di approfondire.
Il punto di partenza è il
sentimentodellaperditadiun
«oggetto», di una «cosa»
amata.
Alcuni
ergono
taleperditaa«lutto»,fissando
laproprialibidosuunoggetto
che ricorda loro la persona o
lacosascomparsa.Glialtri,i
malinconici, subiscono una
regressione narcisistica in se
stessi; la loro libido si fissa
sull’Io, che diviene rifugio e
sostituto.Inentrambiicasivi
èunareazioneambivalentedi
amore-odio verso l’oggetto
perduto:ilmalinconicoprova
allostessotemposofferenzae
godimento per questo ritiro
solitarioinsestesso.
Tuttavia nel malinconico
l’oggettoperdutononesistee
l’anticipazione della sua
perditaèsolofruttodellasua
immaginazione.
Il
malinconico ha nella mente
un oggetto ideale il cui
possessosirivelaimpossibile;
secondo Giorgio Agamben,
egli ha un’attitudine a fare
apparire come perduto un
oggetto
che
sfugge
all’appropriazione56.
Tale
concezione si ricongiunge a
quelladell’accidiamedievale,
anch’essa anticipazione di
incompiutezza
e
dannazione.Essatrovaalcune
applicazioni anche nella
sessualità con il carattere
frustrante della pulsione
sessuale, sempre incapace di
raggiungere veramente il suo
oggetto: la mente crea un
modello sessuale, il «gruppo
sessualepsichico»che,messo
a confronto con la realtà, si
rivela fuori portata: tale
scoperta genera psiconevrosi
narcisisticheecomportamenti
come la masturbazione. Lo
stato malinconico profondo e
permanente è tuttavia legato
all’anticipazione di una
perdita più fondamentale
ancora: quella del significato
dell’esistenza.
Tale
significato,alungoagognato,
si
scontra
con
una
realtà
estremamente
e
irrimediabilmente
diversa.
Solocolorochesonodotatidi
un
acume
intellettuale
sufficiente
possono
comprendere il carattere
irrealizzabile dell’ideale, il
carattere
illusorio
del
significato:
gli
animi
malinconici sono in grado,
sostiene
Freud,
di
«comprendere la verità con
maggiore acutezza rispetto ai
soggettinonmalinconici[...],
e la sola domanda da porsi
potrebbe essere perché sia
necessario ammalarsi per
avere accesso a una tale
verità».
Avendo
colto
anticipatamente la perdita di
senso, il malinconico si ritira
in se stesso, diviene il suo
ultimo rifugio, il solo
significante in un mondo
insensato. Questo solipsismo
provoca un certo stato di
autocompiacimento e, allo
stesso
tempo,
una
detestazione per se stessi che
spingeall’autodistruzione.Lo
stato di tristezza malinconica
aiuta il soggetto a mantenere
l’unità dell’Io. Scrive infatti
Julia Kristeva: «In effetti la
tristezza ricostituisce una
coesione affettiva dell’io che
reintegra la sua unità
nell’involucro dell’affetto.
L’umore
depressivo
si
costituisce come un supporto
narcisistico negativo, certo,
ma nondimeno capace di
offrire all’io un’integrità, sia
pure non verbale. Ne deriva
che l’affetto depressivo
supplisce all’invalidazione e
all’interruzione simbolica (al
«nonhasenso»deldepresso)
e contemporaneamente lo
protegge contro il passaggio
all’atto suicida, tuttavia tale
teoriaèfragile»57.
Il
malessere
del
malinconico è caratterizzato
anchedaunsentimentoacuto
della fuga del tempo, che gli
impedisce,
a
causa
dell’anticipazione,
di
approfittare del momento
presente:saperecheilpiacere
presente terminerà in ogni
casoèsufficienteperrovinare
il piacere. Freud racconta di
due suoi amici malinconici
con
i
quali
stava
passeggiando e che non
riuscivano a godere delle
bellezze della natura in
quanto caduche: «La rivolta
contro il lutto futuro non
permetteva loro di godere
della bellezza presente.
L’idea che tutto questo fosse
fuggevoledavaaentrambiun
assaggio del lutto che
avrebbero
provato
al
momento della sua fine. E
poiché l’anima indietreggia
istintivamente dinanzi a
qualsiasi
dolore,
il
lorogodimentoeradisturbato
dal
pensiero
della
provvisorietà di qualunque
bellezza».
Ilrisultatoèunaspeciedi
paralisi della volontà del
malinconico e del depresso,
condizione che per lungo
tempo è stata denominata
nevrastenia o psicastenia e
che oggi viene chiamata
astenia, o semplicemente
statodilanguore,difatica,di
indecisione, di fiacchezza.
Questa paralisi della volontà
è una caratteristica degli
accidiosi, come anche di
Amleto. A che cosa serve
agire se il significato
dell’azione
è
perduto
dall’inizio e se siamo noi
stessi il significato ultimo? Il
malinconico, eccessivamente
lucido, si compiace delle sue
elucubrazioni interiori: «Si
direbbe che l’eccesso di
analisi intellettuale annulli il
desiderio di agire, come se
l’interesse, all’improvviso,
non si facesse più sentire,
come se fosse intervenuta
un’ultima riflessione per
capovolgere l’edificio tanto
pazientemente costruito. [...]
Sondare gli enigmi che
limitano
il
campo
del pensiero a svantaggio del
campo dell’azione: questa è
la contraddizione in cui
sprofonda il malinconico e a
cui si abbandona, non senza
trarneuncertogodimento»58,
scrive
Marie-Claude
Lambotte ne II discorso
melanconico.
Tutto ciò mostra che la
malinconia non è affatto una
patologia, ma uno stato
d’animo
legato
alla
consapevolezza acuta del
nonsenso.
Tale
consapevolezza, un tempo
limitata a pochi individui
particolarmente lucidi, capaci
di discernere il nonsenso
fondamentale
dietro
le
spiegazioni
religiose
e
ideologiche, non può che
trovare terreno fertile per
diffondersi nel nostro mondo
disincantato. La malinconia
ritorna nelle epoche in cui i
valori vengono rimessi in
discussione. È stato così
duranteilRinascimento;oggi
essa fa parte integrante della
coscienzamoderna.
Nei casi più gravi il
malinconico depresso può
arrivare al suicidio, processo
che lo psicanalista Béla
Grunberger spiega nel modo
seguente: in tutti gli esseri
umani la nascita è vissuta
come un trauma, come la
perdita di un paradiso, ma
negli
esseri
«normali»
l’equilibrio fra narcisismo e
pulsioni
si
ristabilisce
progressivamente
per
reazione alle aggressioni
esterne. Il malinconico,
tuttavia, reagisce sempre in
senso negativo agli eventi,
eglièincapacedicercareedi
accettare il piacere. Ogni
fallimento subito rafforza le
sanzioni contro l’Io, la ferita
narcisistica si amplia a causa
dell’autoaccusa,etaleperdita
progressivadifiduciainibisce
sempredipiùlepossibilitàdi
azione. «Questo conflitto è
responsabile della frattura e
dellatensionepermanentefra
il
narcisismo
e
l’Io
operativo, frattura che dà
origine alle diverse varianti
della malattia depressiva»59.
Il processo regressivo porta
all’abdicazione dell’Io, che
deve essere soppresso: è il
«suicidio del malinconico».
Nelmomentoincuiprendela
sua decisione, egli è calmo e
sereno: «Il suo nuovo volto
felice e sorridente riflette la
posizione
dell’istanza
narcisisticacheoccupaormai
ilpostodell’Io»60.
Sin dal 1920, nell’opera
Al di là del principio di
piacere, Freud denunciava
«l’illusione
benefica»
secondo
la
quale
il
progresso
intellettuale
tenderebbe alla perfezione
umana. La tendenza sarebbe
invece all’aspirazione a un
ritornoallostatopreorganico:
«Può essere difficile, per
molti di noi, rinunciare a
credere che nell’uomo sia
insita una pulsione che lo
spinge
a
cercare
la
perfezione, una pulsione che
lo ha elevato fino all’attuale
livellodicapacitàintellettuale
e di sublimazione etica, e
dallaqualecisipuòattendere
l’evoluzione dall’uomo a
superuomo. Solo che io non
credo nell’esistenza di questa
pulsioneinteriore,enonvedo
inchemodosipossafarsalva
questa benefica illusione»61.
Dieci anni dopo, nel Disagio
della
civiltà,
Freud
confermava l’idea che il mal
di vivere facesse parte della
condizione umana e che si
sarebbe sviluppato con la
modernità.
Uncontesto
socioculturale
favorevolealmaldi
vivere
Alcune epoche sono più
favorevoli
di
altre
all’integrazione sociale del
malinconico, in particolare i
periodi di stabilità e di
immobilismo sociale, in cui
ciascuno è al proprio posto e
non riesce minimamente a
pensare di cambiare. Il
malinconico, poiché inattivo
e indeciso, non ha scelte con
cui confrontarsi; avendo
un’opinione mediocre di se
stesso e degli altri, egli si
adatta facilmente alle grandi
religionipessimistichequanto
alla natura dell’uomo. La
monarchia
dell’Ancien
Régime lo aggrada, la sua
tristezza si confà al periodo.
Egli
pertanto
passerà
inosservato: in questo modo
siavràtendenzaacredereche
il mal di vivere sia meno
diffuso.
Il malinconico è invece
un emarginato nei periodi
segnati da sconvolgimenti e
instabilità, in cui lo spirito di
iniziativa, il senso della
comunicazione, i movimenti
collettivi, la solidarietà,
l’attività, il dinamismo
individuale sono percepiti
come fattori positivi. Egli si
sentefuoriluogoinunmondo
che lo considera un malato,
un anormale, un depresso
patologico. Oggi infatti le
cose stanno così. I pessimisti
e i depressi che vivevano al
riparo
dell’oscurità
dellasocietàtradizionalesono
ora sotto i riflettori degli
attivisti
della
società
consumistica; essa li rifiuta
come paria dell’edonismo
contemporaneo
e,
simultaneamente,
contribuisce a rivelarne
l’importanza.
Il contesto socioculturale
attuale produce soggetti
depressi e, al contempo, li
esclude: tale contraddizione
rappresenta sia la radice del
disagio sociale che la
spiegazionedelprogressodel
mal di vivere. Siamo passati
da una società di tipo
autoritario,incuigliindividui
dovevano conformarsi a un
modello
e
mostrarsi
all’altezza dei valori imposti
dall’esterno dalla religione e
dalla morale, a una società
dell’autonomia,
in
cui
l’individuo deve elaborare il
proprio«progettopersonale»,
iproprivalori,fissaredasolo
il proprio ideale e imporselo
dall’interno. Nel primo caso,
coloro che non riuscivano a
seguire il modello imposto
venivano considerati in
rivolta contro il sistema. Nel
secondo caso, coloro che
falliscono nel raggiungere il
modello prefissato perdono
autostima
e
diventano
soggettiangosciati.
Lasocietàdell’autonomia
individuale produce soggetti
depressi. Il processo è
multiforme: l’individuo, più
che mai posto di fronte
all’obbligo permanente di
scelta, si sente pienamente
responsabile dei propri
fallimenti.
Non
è
evidentemente un caso se
l’esistenzialismo
si
è
sviluppato in concomitanza
con
la
rivoluzione
dell’autonomia: l’uomo si
percepisce nella pura libertà,
egli esiste ed elabora la
propriaessenzanell’angoscia.
L’individuo
ha
inoltre
il dovere di «realizzarsi». In
una società in cui tutto è
questione di seduzione,
occorre sapersi vendere, dar
prova
di
motivazione,
di dinamismo, proiettare
un’immaginepositivadisé.Il
culto del look e del corpo,
l’assillo
dei
segni
dell’invecchiamento e dei
tratti non più avvenenti sono
un’ulteriore
ossessione.
Bisogna essere diversi, ma al
contempo riconosciuti dai
propri simili; tutti questi
obblighi sono molto più
pesantidiquantononfossero
leregolesocialidiuntempo,
che
richiedevano
semplicemente obbedienza e
conformismo.
Agliobblighidellasocietà
del narcisismo si aggiungono
gli obblighi e le frustrazioni
dellasocietàdeiconsumi,che
accompagna necessariamente
l’ideale di autonomia e di
permissività.
Si
tratta
di stabilire un clima
edonistico, che incoraggi la
soddisfazione immediata dei
bisogni e abolisca i divieti,
concetto che presuppone
la sparizione dei valori
trascendenti e di qualsiasi
idea
di
significato dell’esistenza. Sul
piano politico, la democrazia
èilsolotipodiregimecapace
di soddisfare queste nuove
tendenze: essa instaura la
libertà di scelta, privilegia
l’iniziativa individuale, il
dinamismo,
l’immagine,
l’apparenza e la seduzione,
predica la tolleranza - la cui
evoluzione
naturale
è
l’indifferenza - la libertà e
l’uguaglianza, vale a dire la
necessità per ognuno di
affermarsi,
di
trovare
un posto, e la possibilità
teorica per tutti di appagare i
propri desideri e di
raggiungere le posizioni più
alte: proprio da questo
assunto
nascono
innumerevoli frustrazioni. La
democrazia favorisce, per
ragionievidentidiseduzione,
l’edonismo, l’ottimismo e la
permissività. Il politico
promette al cittadino la
felicità
attraverso
l’applicazione
di
un
programmasocioeconomicoe
le
multinazionali
gli promettono la felicità con
ilconsumoimmediatodibeni
sempre
più
numerosi.
L’atmosfera euforica viene
mantenuta da festeggiamenti,
giochi,
animazioni,
trasmissioni incentrate sul
narcisismo. Tutti questi
elementi, analizzati a fondo
dai sociologi62, formano
un insieme coerente che
rappresenta una formidabile
macchina di produzione di
depressi. Fatto ancora più
notevole, questa società
edonistica utilizza i suoi
soggetti depressi come un
settore di consumo per
l’industria farmaceutica e i
servizi medici, psicologici e
parapsicologici; li ricicla
come ricicla i rifiuti.
Torneremosuquestotema.
In definitiva, i modelli
proposti
dalla
società
contemporanea generano il
mal di vivere in due modi
opposti. Da una parte il mal
di
vivere
di
tipo
psicofisiologico, che può
condurre alla depressione in
coloro che aderiscono a
questi modelli ma che si
ritengono
incapaci
di
raggiungerli, costringendosi
in una logica di fallimento
che mina la loro autostima.
Dall’altra,unmaldiviveredi
tipo
intellettuale,
il pessimismo di coloro che
rifiutano tali modelli ed
effettuanoun’analisinegativa
dell’evoluzione dell’umanità
-
analisi
che
estendonoall’interaesistenza.
Fra questi due poli esistono
certamente molte tipologie
intermedie, senza contare i
pessimistidepressi.
Come abbiamo visto ci
sonostati,nellastoria,periodi
più propizi di altri al mal di
vivere.
Secondo
lo
psicanalista Pierre Marie, «è
il passaggio progressivo da
un mondo chiuso e
gerarchizzato a un mondo
infinito (ricordiamo Pascal) e
indefinito che [...] sembra
essere fonte di “diffusione”
della depressione: un mondo
chiuso,bendefinito,serveda
punto di riferimento, dà un
senso, condiziona, prescrive
lacosagiustaperognuno.Un
mondo infinito e indefinito
impone invece di riuscire a
cavarsela da soli con il
propriodesiderio,cosache,a
dir poco, e per la maggior
parte di noi, paralizza il
desiderio»63. Assistiamo per
la prima volta al passaggio a
un
mondo
aperto
sull’assoluto. Fino ad ora i
modelli si erano susseguiti,
uno dopo l’altro, ognuno con
le proprie regole imposte
a tutti dall’esterno. Oggi ci
troviamo di fronte a un
modello in cui tutto sembra
possibile, il peggio come il
meglio;unmondoincuiogni
cosa vale l’altra, in cui il
limite fra il vero e il falso, il
realeeilvirtuale,ilbuonoeil
cattivo,l’orribileeilbanaleè
sempre più labile; il mondo
dell’indifferentismo e del
«perché
no?»,
dove
le superstizioni più aberranti
sono considerate rispettabili
quanto le posizioni più
scientificamente rigorose. Un
mondo simile è capace di
qualsiasi
deriva.
È
impossibile
che
una
situazione
del
genere
non
provochi
cupo
pessimismoanchenellementi
più lucide ed esigenti. Non è
un caso se le anticipazioni
sono divenute delle controutopie, e se la fantascienza,
che un tempo immaginava
mondi migliori, annuncia
ormaisoloincubi,fracuiuno
dei più significativi è il «Big
Brother» di Orwell. In un
mondo in cui tutto è
possibile, ogni previsione,
ogni prospettiva diventa
impossibile.
Tale
constatazione è un potente
fattorediangoscia,amenodi
pervenire all’adozione di un
atteggiamento di derisione
generalizzata, come Alvin
Toffler:
«Dobbiamo
piegarci
di
fronte
all’evidenza: facciamo parte
integrante
di
un
fantastico scherzo cosmico, e
questo non ci impedisce
affatto di trarne gloria, di
apprezzare la comicità della
situazione, di riderne e di
rideredinoistessi»64.Datale
affermazione ritroviamo il
concetto
per
il
quale l’umorismo è una
forma
di
educata
disperazione.
Su scala individuale,
come possono i malinconici
trovareunpostonellasocietà
aperta, permissiva, edonistica
e narcisistica? Nel momento
in cui tutto diventa possibile,
il fallimento è vissuto in
modo molto più crudele,
poichéèimputabilesoloase
stessi e porta quindi
alla svalutazione personale.
Le società più libertarie sono
anche quelle che contano un
maggior numero di depressi,
poiché sostituiscono il senso
di colpa con il disprezzo di
sé: è traumatico non riuscire
a essere felici in una società
in cui la felicità è eretta a un
«quasidovere»,incuilagioia
di vivere è un criterio di
selezione fondamentale in
tuttiicampi,inparticolarein
quelloprofessionale.
Il distacco generalizzato
dai valori trascendenti e dal
sacro spiana la strada alla
democratizzazione
della
fatica di vivere, eliminando
tutte le motivazioni a lungo
termine, operazione che
sfocia nell’apatia di massa:
«Dio è morto, le grandi
finalità si spengono, ma tutti
se ne fregano: ecco la bella
notizia»65, scrive Gilles
Lipovetsky, per il quale la
scomparsa di significato ha
condotto
all’indifferenza
piuttostochealpessimismoe
all’angoscia, caratteristiche
che
testimoniano
«una
visione ancora religiosa e
tragica».
Il vuoto è dappertutto,
colmato con preoccupazioni
puramente
narcisistiche.
Indifferente ai problemi
mondiali che sfilano fra due
pagine di pubblicità e
all’inizio
di
qualche
trasmissione propagandistica,
l’individuocontinuanellasua
ricerca senza scopo e senza
ideale,unicamenteacacciadi
soddisfazioni immediate. I
suoi problemi personali
prendono
proporzioni
smisurate: «Chi ancora, oggi,
non
è
soggetto
a
drammatizzazione e stress?
Invecchiare,
ingrassare,
imbruttire,dormire,educarei
figli,andareinvacanza,tutto
costituisce un problema, le
attività elementari sono
diventate
impossibili»66,
osservaLipovetsky.
L’individuo si dissolve
nella molteplicità dei suoi
desideri e si disperde in
numerose attività. Il verbo
«spassarsela» è di un
realismo tragico e ambiguo:
presentato come un ideale,
esso esprime invece la
dispersione della personalità,
straziata dalle innumerevoli
sollecitazioni della società
consumistica,
e
tale
dispersione è causa di
molteplici disturbi psichici.
Come possono esistere
relazionistabilifrapersonedi
questo genere? «Così si
giunge alla fine del deserto;
già disintegrato e separato,
ciascunodiventaagenteattivo
del deserto, lo amplia e lo
scava, incapace com’è di
“vivere”
l’Altro.
Non
contento
di
produrre
isolamento, il sistema genera
ilpropriodesiderio,desiderio
impossibile che, appena
appagato,
si
rivela intollerabile: ognuno
chiede di essere solo, sempre
più
solo
e,
contemporaneamente,
non
sopporta se stesso, da solo a
solo. A questo punto, il
deserto non ha più né inizio
néfine»67.
Siamo
individui
atomizzati in una società
atomizzata; non c’è più
gravitazione, né attrazione:
gli atomi si scontrano
all’uzzolo della libertà,
mostrando indifferenza e
distacco. In questa poltiglia
sociale indifferenziata, il
bisogno di riconoscenza e di
dominio non può più
appoggiarsisucodicievalori
unanimemente
accettati.
Esso può essere soddisfatto
unicamente in una lotta
permanente di tutti contro
tutti, in cui ogni colpo è
permesso.
La
deregolamentazionegeneralizz
sfocianelloscompiglio;nonè
nemmeno definibile legge
della giungla, ma giungla
senza legge, dove si hanno
solo diritti, tutti i diritti, alla
sola condizione di essere
capaci di farli valere. I
consulenti in comunicazione
esistono per insegnare come
liberarsi
dalle
proprie
angosce, inibizioni e ansie.
Bisogna essere forti, freddi,
spietati per sopravvivere, per
«rimanere
a
galla».
Questo stato di guerra
generalizzata, che Hobbes e
Locke
immaginavano
all’inizio
dell’umanità, nello stato
precivilizzato, sembra essere
lostadioattualedellaciviltà.
È più che evidente che
questa situazione senza
precedenti sia all’origine del
mal di vivere. Gli individui
non
all’altezza
della
situazionevengonocalpestati;
i perdenti, sia per ragioni
fisiologichechepsicologiche,
vengono
declassati.
Il
bisogno
di
attirare
l’attenzione per sentirsi
esistere provoca nuove
nevrosi
e
nuovi
disequilibri: comportamenti e
abbigliamento sempre più
discinti,sfoggiodellapropria
intimità,sforzidiindifferenza
al fine di sviluppare
l’indipendenzaaffettiva,finto
distacco - tutta una serie di
comportamenti fonte di
frustrazioni
e
destabilizzazioni
della
personalità. La rimozione
sociale e sessuale delle
barriere causa la nascita di
paure paralizzanti, come la
paura
maschile
dell’impotenza di fronte
all’affermazione del diritto
femminilealpiacere.
La congiunzione della
società consumistica e della
società dei diritti senza
doveri, della libertà e della
permissività,incuil’idealesi
riduce alla realizzazione
narcisistica per mezzo della
soddisfazione immediata di
bisogni sempre più numerosi
e artificiali, conduce alla
perditadelsensoglobaleeal
mal
di
vivere
generalizzato. La diagnosi di
Gilles Lipovetsky si rivela
estremamentelucidanellasua
caratterizzazione
dell’evoluzione
sociale
attuale come un processo
«sistematico
di
disintegrazione
e
di
individualizzazione
narcisistica: più la società si
umanizza, più si estende
l’impressione di anonimato;
più vi sono indulgenza e
tolleranza, più aumenta
la mancanza di fiducia in se
stessi; più si diventa vecchi,
piùsihapauradiinvecchiare;
meno si lavora, meno si
vorrebbe lavorare; più i
costumi si liberalizzano, più
l’impressione
di
vuoto
guadagna terreno; più la
comunicazioneeildialogosi
istituzionalizzano,
più
gliindividuisisentonosolie
carenti di contatti; più
aumenta il benessere, più la
depressioneprevale»68.
Certamente i dirigenti
della società dei consumi
fanno tutto il possibile per
mascherare
questa
depressione, poiché «il
morale della truppa», motore
del consumo, rappresenta ai
loro
occhi
l’indicatore
supremo. La fuga nel
consumismo è anche un
mezzo per colmare il vuoto
lasciato dal distacco dalle
grandi fedi religiose, è un
farmaco che deve sedare
l’ansia nata dalla perdita di
senso. Ma i suoi effetti
collaterali sono più gravi del
male
che
dovrebbe
teoricamentecurare69. L’«èra
delvuotoȏanchelՏradella
depressione.
1A.BRETON,Dictionnaire
abrégédusurréalisme,Corti,
Parigi1938,p.27.
2
J. NOVELLE,
Métaphysique du temps chez
les peintres surréalistes.
Magritte, Delvaux, Dalì, in
Le temps dans la peinture,
Attidelcolloquiodell’Institut
l’homme et le temps a La
Chaux-de-Fonds,
26-28
novembre 1992, La Chauxde-Fonds,L’Institutl’homme
etletemps,1994,p.4L
3 V.V. KANDINSKY, LO
spirituale
nell’arte,
Feltrinelli,Milano1974.
4 J. DUBUFFET,
Asphyxiante culture, J.-J.
Pauvert, Parigi 1968, p. 58;
trad, it., Asfissiante cultura,
Feltrinelli,Milano1969.
5CH.JULIET,Rencontres
avec Bram Van Velde, in Le
nihilisme,acuradiV.Biaggi,
Flammarion, Parigi 1998, p.
158.
6P.VALÉRY,VariétéI, in
OEuvres, t.1, Gallimard,
Parigi1957.
7 H. DE MONTERLANT,
LaReinemorte,III,6.
8H.MICHAUX,Lointain
intérieur, in OEueres, cit., t.
I,p.621.
9«Qualsiasispiegazione
sul perché della vita è una
menzogna/Achil’hacapito
non rimane che morire»
[traduzionenostra].
10 «L’amore non è che
un verso di sconforto /
emesso da due animali tristi
da una parte all’altra di un
muro»[traduzionenostra].
11J. ROUDAUT, Beckett, le
désir d’etre rien, «Magazine
littéraire», n. 400, luglioagosto2001,pp.48-52.
12 P.-E. ROBERT, Fin de
siècle. La lassitude des
esthètes,
«Magazine
littéraire»,cit.,pp.42-43.
13A.MORAVIA,Lanoia,
Bompiani, Milano 2001, pp.
10-11.
14 F. BIAMONTI,
Interview,
«Magazine
littéraire»,cit.,p.32.
15 M. HEIDEGGER,
Les concepts fondamentaux
de la métaphysique; trad,
it., Concetti fondamentali
della
metafisica,
Il
melangolo, Genova 1999
[traduzionenostra].
16 E. Μ. CIORAN,
OEuvres, Gallimard, Parigi
1995,p.1748.
17 M. HUGUET, L’ennui
et ses discours, PUF, Parigi
1984.
18 J.-FR. GAUTIER, Ciorati
oulamystiquedel'ennui,in
L'ennui.Fecondemélancolie,
a cura di D. Nordon,
Autrement, Parigi 1998, p.
115.
19 R. JAUFFRET,
Interview,
«Magazine
littéraire»,cit.,p.40.
20
G. LOCHAK, De la
fécondité de l'ennui, in
L'ennui. Feconde mélancolie,
cit.,p.65.
21 J.-P. SARTRE, La
nausea, Istituto Geografico
De
Agostini,
Novara
1985. Rispettivamente pp.
160,165166,171,135,131,168,170,174,1
126,206,226.
22 A. CAMUS, L'uomo in
rivolta, in Opere, Bompiani,
Milano2000,p.648.
23A.BADIOU,L'ethique:
essai sur la conscience du
mal, Hatier, Parigi 1993,
p.35;trad,it.,Letica:saggio
sulla coscienza del male,
Pratiche,Parma1994.
24 G. DELEUZE,
Nietzsche,savie,sonceuvre,
avec un exposé de sa
philosophie, PUF, Parigi
1965, p. 29; trad, it.,
Nietzsche e la filosofia,
Feltrinelli,Milano1992.
25 E.M. CIORAN, Al
culmine della disperazione,
Adelphi,Milano1998.
26Ibidem.
27Ibidem.
28 E. M. CIORAN, Al
culmine...,cit.
29 E. M. ClORAN,
Sommariodidecomposizione,
Adelphi,Milano1996.
30 E.M. CIORAN,
L'inconveniente di essere
nati,Adelphi,Milano1991.
31Ibidem.
32 CH. JULIET, Journal
II, Hachette, Parigi 1979, p.
52 e ID., Journal I,
Hachette,Parigi1978,p.31.
33 F. GIAUQUE
Journal d’enfer; (suivi de)
Poèmes inèdits, Papyrus,
Parigi1984,P·51·
34 L. CALAFERTE, Le
chemin de Sion: carnets,
1956-1967, Denoél, Parigi
1980,P·97.
35ID.,L'OretlePlomb,
Denoel,Parigi1981,p.92.
36B.DIDIER,LeJournal
intime,PUF, Parigi 1976; M.
LELU, Les Journaux intimes,
PUF,Parigi1952.
37 W. SHAKESPEARE,
Amleto,III,1.
38 M. BRAUD, La
tentation du suicide dans les
écrits
autobiograpbiques:
1930-1970,PUF,Parigi1992,
p.49.
39
R. ROLLAND, Le
voyage intérieur, Albin
Michel,Parigi1942,p.38.
40J.LOUVAIN,Ilfaut
tenter de vivre, Plon, Parigi
1955,p.VI.
41 L. CALAFERTE, Le
chemindeSion...,cit.,p.47.
42 J. COCTEAU, Le
passédéfini:journalII,1953,
a cura di P. Chamel,
Gallimard, Parigi 1985, p.
220.
45 C. LÉVI-STRAUSS, Tristi
tropici,Il Saggiatore, Milano
1960,p.402.
44 C. PAVESE, Il
mestiere di vivere, Einaudi,
Torino1968,p.88.
45 D. COLLOBERT,
Cahiers, 1956-1978, Laffont,
Parigi1983,p.9.
46 M. NOÈL, Notes
intimes;suiviesde:souvenirs
sur
l’abbé
Brément,
Stock, Parigi 1984, p. 246;
trad, it., Diario segreto, SEI,
Torino1968.
47CH.JULIET,JournalI,
cit.,p.106.
48Ivi,p.145.
49CH.JULIET,JournalI,
cit.,p.73.
50Ivi,p.108.
51 P. RÉGNIER,
Journal,Plon,Parigi1953,p.
37.
52 I.-C. REWELIOTTY,
Journal d’une jeune fille,
Parigi1946,p.43.
53CH.JULIET,JournalI,
cit.,p.126.
54
C. PAVESE, Il
mestieredivivere,cit.
55 M. LEIRIS, L’Age
d’homme; précédé de: De la
littérature considérée comme
une tauromachie, Gallimard,
Parigi 1973, p. 201; trad, it.,
Età d’uomo; Notti senza
notte e alcuni giorni senza
giorno, Mondadori, Milano
1980.
56G.Agamben,Stanze:la
parola e il fantasma nella
cultura
occidentale,
Einaudi,Torino1973.
57 J.KRISTEVA, Sole
nero.
Depressione
e
malinconia,
Feltrinelli,
Milano1989,p.24.
58 M.-CL.LAMBOTTE,Il
discorso melanconico: dalla
fenomenologia alla meta-
psicologia, Boria, Roma
1999.
59 B. GRUNBERGER, Le
narcissisme:
essais
de
psychanalyse, Payot, Parigi
1971, p. 289; trad, it., Il
narcisismo:
saggio
di
psicoanalisi, Einaudi, Torino
1998,p.235.
60Ivi,p.247.
61 S. FREUD, Al di là del
principio
di
piacere,
Boringhieri, Torino 1975, p.
693.
62
Pensiamo ad esempio
alle
opere
di
G.
LIPOVETSKY, L’ère du
vide:
essai
sur
l’individualisme
contemporain,
Gallimard,
Parigi1983;trad,it.,Leradel
vuoto, Luni Editrice, Milano
1995; Le crépuscule du
devoir:l’éthiqueindoloredes
nouveaux
temps
démocratiques, Gallimard,
Parigi 1998, e molte altre
operediqualità,inparticolare
anglosassoni, di cui è
possibile
trovare
un’eccellente bibliografia in
A. SOLOMON,Ildemonedi
mezzogiorno.Depressione:la
storia, la scienza, le
cure, Mondadori, Milano
2002.
63 Interview de Pierre
Marie, «Magazine littéraire»,
n.411,luglio-agosto2002,ρ.
29.
64
A. TOFFLER,
Previews and Premises: An
Interview with the Author of
«Future Shock» and «The
Third Wave», Pan Books,
NewYork1983,p.262;trad,
it., Previsioni & premesse,
Sperling & Kupfer, Milano
1989.
65 G. LIPOVETSKY,
L’èra del vuoto, cit., pp. 4041.
66Ivi,p.52.
67Ivi,p.53.
68G.LIPOVETSTY,L’èra
delvuoto,cit.,p.141.
69 Si vedano le
illuminanti pagine di A.
GRJEBINE, Un monde sans
dieux,Plon,Parigi1998.
Capitolodecimo
L'èradelladepressione
Secondo le stime ufficiali
ogni trenta secondi, da
qualche parte del mondo, un
uomo o una donna si
suicidano, vale a dire più
di un milione di persone
all’anno,cifrache,peralcuni
osservatori, è assai inferiore
aidatireali.Unnumeroventi
volte superiore di individui
tenta il gesto fatale ma
sopravvive. Tutti conoscono
la vastità del fenomeno,
tuttavia esso viene ancora
trattato come un segreto di
Stato. Oltre ai suicidi non
riconosciuti come tali, quanti
suicidi indiretti si possono
contare per comportamenti a
rischio(tabagismo,alcolismo,
rapporti sessuali non protetti,
ecc.)? L’intero pianeta è
coinvolto:unrecenterapporto
dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità stima
che nei paesi in via di
sviluppoilnumeroannualedi
suicidi, che nel 1990 era di
593.000, passerà nel 2020 a
995.000.
Ladepressione:
situazioneattuale
Parallelamente, il numero
di casi di depressione è in
piena espansione. Anche in
questo caso, il fenomeno è
planetario. Negli Stati Uniti
più di 19 milioni di persone,
cioè
il
6%
della
popolazione, soffrono di
depressione cronica; 28
milioni
di
persone
assumono
regolarmente
antidepressivi;il15%diesse
finiranno per suicidarsi. A
causa dei disturbi psichici e
fisiologici che provoca, in
particolareidisturbicardiaci,
«la
depressione
è
probabilmentelaprimacausa
di mortalità nel mondo»,
afferma Andrew Solomon.
Secondo lo stesso autore, il
10%degliAmericanisaranno
colpiti da una forte
depressione nel corso della
vita e il 50% conosceranno
presto o tardi i sintomi
depressivi. Tutte le fasce
d’età sono coinvolte, ma la
progressione più marcata
riguarda i giovani, in cui il
legame fra depressione e
suicidioèmoltoforte:il40%
degli adolescenti americani
che si toglie la vita è
depresso.Nelterzomondo,il
rapporto Global Burden of
Diseasedell’OMS indica che
la
depressione,
quarto
problema di salute nel 1990,
sarà il problema numero uno
nel2020,valeadireil6%del
peso totale delle spese nel
settoresanitario.
Il mondo è entrato
nell’èra della depressione e
con ogni probabilità non
siamo che agli inizi. Le
conclusioni che si possono
trarre dalle analisi recenti di
sociologi,
psicologi,
psicanalisti,psichiatri,medici
ed economisti non lasciano
alcun
dubbio,
e
il
tema appassiona i nostri
contemporanei a giudicare
dalle
tonnellate
di pubblicazioni a esso
dedicate: più di tremila
articoli e libri ogni anno,
senza contare tutto il
materiale
reperibile
su
Internet,chevabenoltreogni
possibilestatistica.
Riportiamo
qualche
esempio. Nel 2002, il
«Magazine
littéraire»,
dedicando un intero numero
alla
depressione1,
ha
pubblicato le interviste fatte
ad alcuni intellettuali vittime
di questa patologia. Le
loro osservazioni presentano
numerosi punti in comune.
Clément Rosset, che ha
descritto il proprio calvario
nella Route de nult2, insiste
sulla particolarità della
depressione, che è «priva di
natura definibile, poiché non
ha causa apparente». «Non
sono
in
grado
di
esprimere l’orrore che provo
e che mi accompagna per
circa un’ora alcune mattine,
al momento di alzarmi dal
letto». Per quanto riguarda il
progresso del male nella
società attuale, Rosset esita:
la depressione esisteva forse
primasottoaltrinomi,«maè
probabile che ci sia stato un
incremento [...] a causa
dell’aggravamento
della
solitudine provocato dalla
societàmoderna,cheisolagli
individuiinvecediunirli».
Con
Un’oscurità
trasparente 3,WilliamStyron
ha pubblicato nel 1990 un
classicodellaletteraturasulla
depressione, in cui il
romanziere
americano
descrivelapropriaesperienza
durata due anni. Egli è
inizialmente
perplesso,
poiché non distingue alcuna
causa razionale. Il suo Io
sprofonda
coscientemente
nella decadenza: angoscia,
apatia, fastidio di sé, nausea,
ebetudine, disperazione, noia
- manifestazioni più volte
descritte nell’accidia, la
malinconia, il taedium vitae,
che culminano qui nella
tentazione
del
suicidio. Styron si trova in
completo
stato
di
incomunicabilità e parla
«dell’incapacità di fondo, da
parte delle persone, di
immaginare una forma di
malessere tanto estranea
all’esperienza quotidiana».
Eglidichiara:«Nonsapròmai
che cosa causò la mia
depressione, e nessun altro,
per quanto lo riguarda, potrà
mai
saperlo».
VidiadharNaipaulesprimele
stesse sensazioni e descrive
questa
impressione
di
disgregazione de sé e del
mondo ne L' enigma
dell’arrivo4.
Nel
1999,
facendo
chiaramente allusione a
Burton, il professore di
biologia Lewis Wolpert
pubblica Malignant Sadness.
The Anatomy of Depression,
in cui racconta ciò che
definisce
«la
peggiore
esperienzadellamiavita,più
terribile persino del vedere
mia moglie morire di
cancro»5. Il pensiero del
suicidio lo assilla ma,
dice, «pur essendo biologo,
non conoscevo metodi sicuri
per uccidermi [...], non
volevo rischiare di ritrovarmi
in uno stato peggiore ancora,
se possibile»6. Poi pensa a
sua moglie e ai suoi figli.
Wolpert viene ricoverato,
perde qualsiasi interesse per
la vita e per il lavoro e,
come gli altri, è incapace di
trovarelecausedelsuomale.
Nel 1994, in La felicità
difficile, una giovane donna,
ElizabethWurtzel,descrivein
modo avvincente la sua
depressione: «Lentamente,
nel corso degli anni, i dati si
accumulano
nel
vostro
cuoreenellavostramente;si
installa in voi un programma
informatico
di
totale
negatività, a causa del quale
la vita vi è sempre più
insopportabile.Manoncifate
nemmeno caso; credete che
sia una cosa normale, il fatto
di invecchiare [...], e poi un
giornovirendetecontochela
vostra vita è semplicemente
atroce, che non vale la pena
di essere vissuta, che è un
orroreeunamacchianerasul
terreno bianco dell’esistenza
umana. Una mattina vi
sveglierete con la paura
di
vivere»7.
Questa
condizione non ha niente a
che vedere con la tristezza
ordinaria della vita; si tratta
piuttosto di un’assenza
incomprensibile per gli altri:
«assenzad’affetto,assenzadi
sentimento,
assenza
di
risposta,
assenza
di
interesse».
Nel
2001
Andrew
Solomon pubblica Il demone
dimezzogiorno.Depressione:
lastona,lascienza,lecure.Il
fantasma di Burton continua
adaleggiare,associatoquesta
volta a quello di Cassiano e
dell’accidia, evocati dal
«demone di mezzogiorno»
(noonday
demon). Quest’opera è al
contempo una testimonianza
personale e uno studio dei
diversi
aspetti
della
depressione.
Ritroviamo
l’esperienza di un male che
sembra distruggere ogni
energia - in questo caso
persino l’energia necessaria
per uccidersi. Secondo
Solomon, il punto essenziale
della depressione è la perdita
di qualsiasi capacità di
provare piacere, come se si
prendesse congedo da se
stessi,
una
discesa
nell’infernoquotidiano,senza
peròconoscernelacausa.
Fin da ora si può tentare
una descrizione sociologica
della
diffusione
della
depressione, di cui le donne
sono vittime due volte di più
rispetto agli uomini, fatto
attribuitoaragionisiafisiche
che culturali: maggiormente
soggette alle variazioni
ormonali che accompagnano
la pubertà, il ciclo mestruale,
il concepimento, il parto e la
menopausa, le donne ne
subiscono il contraccolpo
psichico.Ildominiomaschile
nella società accentua la loro
angoscia, e l’evoluzione
attuale, che ne accresce il
ruolo
professionale
senza tuttavia ridurre le loro
responsabilità familiari, è un
fattore
aggravante.
Aggiungiamo che le donne
sono in generale meno
violente degli uomini (i
suicidi maschili sono il
doppio rispetto a quelli
femminili). Scrive infatti
Solomon, «dedicarsi ad atti
violenti non è un buon modo
per curare la depressione.
Tuttavia
è
molto
efficace: negare l’innato
poterecurativodellaviolenza
sarebbeungrossoerrore»8.
La
depressione
sopraggiungeinparticolarein
due periodi della vita:
l’adolescenza, con il 5% dei
depressi clinici, dovuta
essenzialmente agli squilibri
ormonali, e la vecchiaia. Qui
sipossonodistinguereancora
due gruppi di cause: da una
parte i cambiamenti nel
metabolismo
biologico,
l’abbassamentodellivellodei
neurotrasmettitori,
in
particolare la serotonina;
dall’altra
i
fattori
sociobiologici: isolamento,
difficoltà di ogni tipo che
rendono difficile la vita
quotidiana e, peggio ancora,
ilricoveronegliospizienelle
case di cura: si stima che un
terzo dei pazienti ospitati
all’interno di tali strutture
versi in una situazione di
profondadepressione.
Un
gruppo
particolarmente colpito è
quello degli omosessuali,
presso i quali il tasso di
depressione è quattro volte
superiore
alla
media,
soprattutto, si pensa, a causa
delledifficoltàdiinserimento
sociale che incontrano,
nonostante alcuni medici
avanzino
anche
cause
genetiche.
Per
quanto
riguardaledifferenzeetniche,
il dibattito è sempre aperto:
presso alcuni popoli, in
particolare quelli latini, la
depressione si esprimerebbe
forse
maggiormente
attraverso un male fisico,
mentre in altri popoli si
tradurrebbe con disturbi di
carattere
prevalentemente
psichico. Attualmente non
esistono elementi di risposta
seri sull’argomento. Solo il
particolarissimo caso degli
Inuit è stato riconosciuto:
l’enorme proporzione di
depressi e di suicidi sarebbe
legata al tabù riguardante
l’espressione dei sentimenti
personali; l’individuo tiene
per sé tutte le emozioni e
questa
impossibilità
di
comunicazione affettiva ha
ripercussioni
evidenti
sull’equilibrio
psichico9.
Lespiegazioni:un
fenomenosconcertante
Tutte le discipline umane
hanno cercato di spiegare il
misterioso problema sociale
delladepressione.Lapostain
gioco
culturale
è
considerevole,poichédaessa
dipende tutta l’antropologia:
l’uomo sarebbe dunque una
macchina
il
cui
comportamento è comandato
esclusivamente dalle reazioni
psicochimiche? Oppure è
un animale sociale che
dipende
anzitutto
dall’organizzazione
globale della società? Egli è
forse un’unità psicologica,
governata da forze psichiche
individuali sia a livello
conscio che inconscio e, in
questo caso, qual è la natura
ditaliforzepsichiche?
La prima ipotesi ha dalla
sua il peso dell’efficacia
terapeutica:
se
gli
antidepressivi riescono a
limitare gli effetti della
depressione, allora significa
che si tratta di un fenomeno
biologico. La medicina lo
localizza a livello dei
neurotrasmettitori,
piccole
molecole che permettono il
passaggio degli impulsi
elettrici
da
un
neuroneall’altroattraversole
sinapsi. Una produzione
deficitaria dei due principali
neurotrasmettitori,
la
serotoninaelanoradrenalina,
rallenta le funzioni cerebrali;
il fine degli antidepressivi
della categoria Prozac o
Luvox è di stimolare tale
produzione.Anchegliormoni
svolgono un ruolo rilevante,
in
particolare
l’ACTH
(adrenocorticotrophic
hormone), che regola la
produzionediadrenalinaedi
cortisolo in risposta a una
situazionedistress.Ineuroni
possiedono
ricettori
di
cortisolo: una concentrazione
troppo
elevata
e
troppo
costante
di
quest’ultimo può causare
depressione: «Tale concetto
ècaricodisignificato,poiché
mostra che la depressione,
con tutte le sue ricadute
psicologiche, può avere
un’origine
puramente
biologica»10, scrive Lewis
Wolpert. L’autopsia eseguita
sui cadaveri dei suicidi
mostra
sempre
un’eccezionale
concentrazione
di
corticotropina nel cervello,
contrapposto a un basso
livellodiserotonina.
Questi dati di fatto sono
ormai innegabili, e la prova
più
schiacciante
è
rappresentata dall’efficacia
degli
antidepressivi.
L’industria farmaceutica ha
trovato in questa produzione
unafontediprofitticolossali,
elemento che può contribuire
alla
falsificazione
dei
dati
sulla
depressione.
L’ampiezza del fenomeno
depressivo è probabilmente
dovutainparteallapubblicità
fatta da coloro che ne
traggono
un
vantaggio
economico.
Il mal di vivere diventa
una sfida economica. Il
mondo non starebbe peggio
se sei miliardi di individui
prendesserosempreilProzac!
È la vecchia storia del
Migliore
dei
mondi,
pubblicata da Aldous Huxley
nel
1932:
un’umanità
programmata per essere
felice.Nessunalibertàma,in
compenso,felicità;nientepiù
odio, gelosie, guerre; al
minimo malessere, come ad
esempio la voglia di pensare,
un sorso di rimedio
miracoloso,
il
soma,
restituisce l’euforia. «Felicità
automatica, ottenuta con la
soppressione
di
qualunque ostacolo fra il
desiderio e la realizzazione,
[...] felicità obbligatoria». I
«cittadini» non hanno alcun
diritto politico, ma in fondo
a
cosa
servirebbe?
L’organizzazionepoliticanon
ha forse come fine di
assicurare la felicità della
collettività? E infatti questa
felicità è assicurata, poiché
ognuno è fatto per essere
felice. È facile disprezzare
una simile eventualità nel
nome di un’umanità di
benestanti.
I miliardi di esseri umani
vittime
della
libertà,
attualmente
ridotti
alla
subumanità dalla miseria,
sarebbero probabilmente di
diverso avviso. In Noi,
Evgenij
Zamjatin,
che
immaginava
anch’egli
un mondo che barattasse la
sua libertà con la felicità,
scriveva: «Sapete, la vecchia
leggenda del paradiso, siamo
noi,èassolutamenteattuale.I
due abitanti del paradiso si
videroproporreduescelte:la
felicità senza libertà o la
libertà
senza
felicità,
nessun’altra
soluzione. Quegli idioti
hanno scelto la libertà e,
naturalmente,
hanno
desiderato per secoli le
catene. Abbiamo appena
trovato la maniera di rendere
lafelicitàalmondo».
Un’altra spiegazione del
maldiviverecomeprezzoda
pagare per la libertà è
complementare all’aspetto
psicologico. Molti pensano
che gli squilibri ormonali e
dei neurotrasmettitori siano
provocati da eventi della vita
psicologica
e
sociale.
Abbiamo
parlato
dell’angoscia
esistenziale,
dell’anticipazione
della
perditadisensoinpsicanalisi.
John Bowlby accorda una
grande importanza al trauma
causato dalla separazione del
bambino dai genitori, evento
che crea un sentimento di
insicurezzaduraturo11.Aaron
Beck attribuisce un ruolo di
grande rilevanza alle idee di
svalutazione di sé inculcate
nella prima infanzia12. Tutti
gli eventi importanti della
vita sono suscettibili di
scatenare tale processo.
Finora,
tuttavia,
nessuna prova tangibile è
venuta a rinforzare queste
ipotesi, mentre sappiamo che
alcune persone messe nelle
medesime
circostanze
nonsviluppanounasindrome
depressiva.
Tali osservazioni non
invalidanonecessariamentele
teorie psicologiche né le
teorie sociologiche esposte
nel capitolo precedente:
semplicemente non si può
stabilire uno stretto legame
deterministico fra questo
contesto e la depressione. La
societàmodernadellalibertà,
del narcisismo e della
permissività resta certo
ansiogena, ma la depressione
puòancheesserescatenatada
circostanze felici: William
Styron ha avvertito le prime
avvisaglie mentre si recava a
Parigiperricevereunpremio
letterario. C’è forse un
legame di causa-effetto?
Styron non lo sa, e si
accontenta di scrivere: «La
depressione è un disturbo
della
mente
così
misteriosamente crudele e
inafferrabile per il modo in
cui si manifesta all’Io e
all’intelligenza, che le serve
come mezzo e sfugge a
qualunquedescrizione».
Andrew Solomon non si
sbilancia molto di più:
«Diciamolochiaramente:non
sappiamo veramente cosa
provochi la depressione. Non
sappiamo davvero perché
alcune
cure
possono
essere efficaci contro la
depressione. Non sappiamo
come la depressione sia
apparsa
nel
processo
evolutivo. Non sappiamo
perché le stesse circostanze
provochino le depressione in
unapersonaenoninun’altra.
Non sappiamo quale sia il
ruolo della volontà in
questocontesto»13.
In queste condizioni, le
terapie alternative a quelle
mediche sembrano molto
aleatorie. Basate sulle parole,
esse utilizzano il metodo
psicanaliticoperriportarealla
memoria gli eventuali traumi
delpassato(terapiacognitiva)
o per indagare fra le pieghe
della vita quotidiana presente
(terapia interpersonale). Si
possono ottenere alcuni
risultati, anche se in modo
relativamenteempirico.
Anche altre strade sono
possibili, seppur ancora poco
esplorate. Lo studio del
genoma
porterà
probabilmente
preziose
informazioni: il carattere
misterioso della depressione
potrebbeancheesseredovuto
a
una
predisposizione
genetica. Dal canto loro,
alcuni neurologi esplorano le
strutture della coscienza e
cercano di scoprire se la
depressionepotrebberisultare
da un disfunzione fra i
tre livelli del cervello: il
livello interno, o rettiliano,
sede dell’istinto; il livello
medio,
limbico,
sede
dell’emozione; il livello
superiore,sededellefunzioni
cognitiveedelragionamento.
Paul MacLean pensa che la
loro cattiva coordinazione
possa
provocare
la
depressione14. Utilizzando la
tomografia computerizzata,
Richard Davidson e la
sua équipe dell’università del
Wisconsin lavorano sulla
teoria
del
cervelloasimmetrico,laquale
sostiene che la depressione
sia dovuta a una cattiva
comunicazione fra i due
emisfericerebrali15.
Nell’otticaevoluzionistica
sono state elaborate diverse
altre ipotesi. Esse hanno in
comune il fatto di assumere
come premessa necessaria
che la depressione sia, o sia
stata,unareazionepositivadi
difesa contro una minaccia
esterna,unaspeciediriflesso
di
autoconservazione.
Secondoalcuni,sitratterebbe
di un riflesso ancestrale
derivato dall’epoca in cui,
nelle orde dell ’Homo
sapiens, dopo una prima
sconfitta, i meno forti si
ritiravano
dalla
competizione
per
la
leadership, per non rischiare
la vita una seconda
volta. Secondo altri la
depressione, come il dolore
fisico,
sarebbe
un
meccanismo di difesa che ci
avverte di un pericolo e ci
permette un’analisi più
lucida, ma che, lasciandoci
senza difese, attira la
compassione e l’aiuto degli
altri. Essa potrebbe essere
anche la conseguenza dello
scatenamentointempestivodi
meccanismi difensivi, utili in
se stessi ma non adattati alla
situazione.
Infine, secondo una
concezione
tipicamente
darwiniana dell’evoluzione
per sopravvivenza degli
elementichehannoraggiunto
un miglior grado di
adattamento, la depressione
potrebbe
nascere
dalla
differenzafrailnostronuovo
ambiente e determinate
capacità cerebrali che non si
siano evolute abbastanza in
fretta per affrontare tale
ambiente.
Il
contesto
tecnologico
e
socioeconomicoevolveinfatti
in maniera infinitamente più
veloce del cervello, che si
trova quindi a dover
affrontare nuovi pericoli che
colgono impreparati i suoi
sistemi di difesa. È infatti a
causadellapressionecostante
esercitata sugli individui
programmati
per
affrontare minacce specifiche
che ci sarebbero molti più
depressi nelle società dei
paesi sviluppati industriali e
postindustriali. La pressione
viene anche dalla necessità
permanente di scegliere:
davanti a un numero di
opzioni sempre crescente, il
cervello non riesce più a far
fronte alla situazione - si
trattadiunfattored’ansiapiù
volte
sottolineato.
Le
possibilità di cambiare, di
incontrare e di scegliere
possono provocare una sorta
di stordimento, ad esempio
fraimigliaiadiprodottiperil
consumo e le centinaia di
canalitelevisivi.
Il cervello ha anche
sempre più difficoltà nel
ritrovarsi in un ambiente via
via più complesso e
misterioso. Viviamo in un
mondo di macchine il cui
funzionamento è sconosciuto
alla stragrande maggioranza
degli utenti, dal telefono
cellulare a Internet, passando
per
la
televisione:
paradossalmente i progressi
tecnologicichepermettonodi
dominarelanaturacreanoun
ambiente artificiale, estraneo,
inafferrabile, incomprensibile
nei
suoi
meccanismi;
unambienteincuiilrealeeil
virtualesiintersecanosempre
di più, confondendo tutti i
punti di riferimento. Il
movimento è generale: vero-
falso, bene-male, realevirtualeeilimitisonosempre
piùlabili.Lacomplessitàeil
carattere indefinito dei dati
rendono più angoscianti i
processidecisionali.
Unaluciditàcreatrice
chedisturbalasocietà
edonistica
Tutti
questi
fattori
possono scatenare il mal di
vivere a diversi livelli, di cui
la depressione nervosa è
considerato
l’ultimo
stadio.
La
società
contemporaneacontribuiscea
produrre questa condizione
molto più di quanto non
contribuisca a combatterla.
Questa è forse la sua
contraddizione più profonda.
L’atmosfera narcisistica ed
edonistica predominante, che
erge a valore supremo la
realizzazionediséelaricerca
del piacere immediato come
surrogato della felicità, è
radicalmente
ostile
a
qualunqueformaditristezza.
Questodoveredifelicitàè
una forma ulteriore di stress,
forse la più grave di tutte,
poiché
colpevolizza
in
profondità l’individuo che, a
dispettooacausadellalibertà
e
delle
innumerevoli
macchine di cui dispone,
fallisce nel raggiungimento
della soddisfazione personale
di vivere. Tutto è fatto per
tenerlo
a
distanza,
ostracizzarlo e sminuirlo.
Anzitutto
è
opportuno
definire il tipo di minaccia
in agguato: descriverla,
etichettarla,classificarlafrale
patologie
psicosomatiche.
L’Associazione psichiatrica
americana l’ha fatto: il suo
DSM IV (Diagnostic and
Statistical Manual of Mental
Disorders, quarta edizione)
parladidepressioneprofonda
quando un individuo avverte
per almeno due settimane
cinque dei seguenti sintomi:
umore depresso per la
maggior parte della giornata;
diminuzione dell’interesse o
del piacere; perdita o
aumentosignificativodipeso;
insonnia o eccesso di sonno;
fatica;riduzionedelcontrollo
deimovimenti;sensidicolpa
o di indegnità; incapacità di
concentrarsi o di pensare;
pensieri di morte o di
suicidio.
Si
parlerà
di depressione più leggera o
didistimiase,perunperiodo
di almeno due settimane,
l’individuo prova per un
minimodisettegiorniduedei
seguenti sintomi: perdita o
aumento
dell’appetito;
mancanzaoeccessodisonno;
fatica o perdita di energia;
abbassamento del livello di
amor proprio; mancanza di
concentrazione
o
incapacità
di
prendere
decisioni;
disperazione.
Anche l’OMS ha stabilito i
suoi criteri nell'ICD 10
(International Classification
ofDiseases).
Tali classificazioni, che
immortalano rigidamente il
mal di vivere e vorrebbero
circoscriverlo
in
una
nosologia
moderna,
potrebberointuttoepertutto
essere tratte da L‘anatomia
della malinconia di Robert
Burton.Gliautori,chehanno
recentementeammessoilloro
stato
depressivo,
sono
comunquereticentidifrontea
queste classificazioni rigide
cheassimilanoladepressione
a una mera malattia,
dimenticando che può anche
corrispondere, come l’antica
malinconia,aunacondizione.
Tuttelecondizionichenonsi
conformano al modello
sociale dominante sono
trattatecomemalattie.Ilcaso
dell’omosessualità dimostra
quanto la mentalità collettiva
faccia fatica ad accettare la
«depatologizzazione»
di
uno stato per riconoscerne la
«normalità». Gli omosessuali
hanno formato gruppi di
pressione per reclamare il
riconoscimento della loro
differenza. Difficile, però,
immaginare una lobby di
depressi. Negli Stati Uniti
esiste
un’Associazione
nazionale della depressione e
della mania depressiva
(NDMDA), ma la sua
efficacia è molto limitata.
Quando verrà riconosciuto il
dirittoalmaldivivere?
Andrew Solomon si
chiede se una «malattia» che
colpisce
un
quarto
dell’umanità possa essere
ancora classificata come tale,
senonsitrattipiuttostodiun
fatto sociale, e se la sua
classificazione come malattia
non sia un ulteriore fatto
sociale rivelatore della fobia
della tristezza in un mondo
edonistico. La depressione è
stigmatizzataindiversimodi,
alla stregua di un AIDS
spirituale. I colloqui per le
assunzioni non sono forse
mirati a rilevare i minimi
segniditristezza?Lagioiadi
vivere e l’entusiasmo fanno
parte delle competenze
professionali.
Il costo sociale della
depressione è un altro tema
colpevolizzante, che dipinge
ildepressocomeunasortadi
parassita e la lotta contro la
depressione come un dovere
nazionale. Assenze ripetute,
bassa produttività, cure
continue,fortepercentualetra
disoccupati e poveri (poiché
non si vuole dar loro un
lavoro):adesempio,agliStati
Uniti i depressi costano
annualmente 50 miliardi
di dollari (ma quanto fanno
guadagnare
all’industria
farmaceutica?). Viene messa
sottoaccusaanchel’influenza
nefasta che questi soggetti
esercitano sull’entourage sia
familiarecheprofessionale.
Il depresso è in generale
un incompreso: egli stesso
non riesce a comprendere i
motivi della sua tristezza.
Inoltre, ancora troppo spesso
la società considera la
depressione
come
una
mancanza di volontà, un
lasciarsiandarecolpevole,un
abbandono
delle
responsabilità,unpo’comeil
suicidio che, a volte,
l’accompagna.Sottoaccusaè
l’egocentrismo, l’incapacità
di adattarsi alla realtà, e a
tal proposito Tony Anatrella
scrive: «Il depresso si è
infiammato troppo in fretta
perunideale.Lasuatristezza
proviene dalla difficoltà nel
rinunciare a questo io
idealizzato che tuttavia non
trova riscontro nella realtà.
Purrifiutandolaricercadiun
ideale diverso da se stesso,
egli ha finito per perdere i
suoi punti di riferimento
nell’esistenza, per vivere
nella paura di una perdita
futura e nell’ossessione della
morte»16.
Tale
colpevolizzazione
della
depressione è un peso
supplementarecheildepresso
deve
sopportare.
Racconta Andrew Solomon:
«Numerose persone con le
quali ho parlato per scrivere
questolibromihannochiesto
dinondivulgareilloronome,
di non rivelare la loro
identità. Domandai loro cosa
pensavano che sarebbe
successo se la gente avesse
scoperto la loro depressione.
“Saprebbero
che
sono
debole”, mi disse un
uomo»17.
Questa testimonianza di
autosvalutazione illustra a
quale punto la società dei
«vincenti»,
dei
«combattenti», sia impietosa
neiconfrontideilooser.
La depressione, malattia
vergognosa perché sedicente
causa di debolezza. La
depressione,stato«anormale»
quindi, sottintendendo che lo
stato normale sia la felicità.
Ecco quanto ha deciso
lasocietàedonisticache,allo
stesso modo, utilizza questa
argomentazione per opporsi
alle richieste di eutanasia per
i malati: sono i depressi a
chiedere il suicidio assistito.
Ciò significa che non si
trovano nel loro stato
normale, e di conseguenza
non sono nel pieno possesso
della loro libertà di scelta.
Seguendo
questo
ragionamento,sololepersone
felici - i normali - sono
veramenteliberedisuicidarsi.
Se i depressi sono quindi
considerati in maniera tanto
negativa, è anche perché
rappresentano lo scheletro
nell’armadio della società
edonistica
la
quale,
funzionando unicamente sul
«morale della truppa», non
può
tollerare
queste
Cassandre che oscurano
l’umore consumistico a colpi
di «a che pro?». Ciò che li
rendeinsopportabili è la loro
lucidità,èilfattocheabbiano
ragione: il mondo non sta
andando bene. «I depressi
hanno visto il mondo
troppo chiaramente, hanno
perso il vantaggio selettivo
della
cecità»18,
scrive
Solomon. I test moderni
mostranocheinondepressisi
illudono sulla possibilità di
controllare gli eventi della
vita; mentre i depressi sono
più lucidi riguardo alle loro
capacità
reali.
Freud
aveva già osservato che il
malinconico «ha una visione
più acuta della verità rispetto
ai non malinconici». Un
autore recente, Shelley
Taylor,confermache«coloro
che sono affetti da lieve
depressione hanno una
visionepiùnitidadisestessi,
del mondo e del futuro
rispetto
alle
persone
normali»19.
Forse
non
sarannoimeglioarmatinella
lotta della vita, che richiede
una
buona
dose
di
incoscienza,
ma
la
loro lucidità ne fa veri e
propritestimonidell’umanità.
Nel1994,ilgrandestudio
di Kay Redfield Jamison sui
legami fra la depressione e il
temperamento artistico si
rivela
altamente significativo20. In
tutte le epoche vi è stata, fra
artisti e poeti, una forte
percentuale di depressi: un
tasso trenta volte superiore
rispetto al resto della
popolazione per i poeti
britannici e irlandesi fra
il1705eil1805,euntassodi
suicidio
cinque
volte
superiore tra le loro fila.
Nell’epoca contemporanea
artisti,
poeti
e
compositori contano una
quantità di depressi tre volte
maggiore
rispetto
agli scienziati e agli uomini
d’affari; il 20% degli autori
eruditi si sono suicidati. Su
un gruppo di trenta scrittori
moderni, l’80% presentava
tendenze depressive. Jamison
ha intervistato cinquanta
scrittorieartistibritannici,in
maggioranza uomini, dell’età
media di cinquantatre anni:
più di un terzo di essi aveva
giàseguitountrattamentoper
disturbi depressivi, tutti
hanno constatato che tali
periodi
di
depressione
coincidevano con un’intensa
creatività, una sorta di
«febbre della scrittura»,
accompagnata da ansia e
insonnia, paure e malinconia.
Tutto accade come se il
doloreinterioreilluminassela
natura e il senso (o il
nonsenso)dellavita,comese
obbligasse a porsi domande
su se stessi e sull’esistenza,
giustificando le parole del
poeta: «L’uomo è un
apprendista,ildoloreèilsuo
maestro».
Herman
Melville
definisce
così
queste
illuminazioni: «In questi
lampi rivelatori del fuoco
meraviglioso del dolore,
vediamolecosecomesono,e
anche se le ombre calano
nuovamente
dopo
questi momenti elettrici, e i
contorni
degli
oggetti
riprendono il loro posto, essi
hanno perduto il potere di
ingannare»21.
L’uomo
«normale»,
ordinario, vive in questa
scenografia ingannevole che
confonde con la realtà; il
malinconico, invece, sa che
«Il mondo intero è un
palcoscenico, e gli uomini e
le donne, tutti, non sono che
attori»,
come
diceva
Shakespeare. La società ha
bisogno che questi uomini e
queste donne prendano sul
serio il loro ruolo, che ci
credano. Non ha bisogno di
verità, ma di efficienza.
Essa allontana dunque i
depressi, ergendo a modelli i
campioni
dell’efficienza,
offerti all’ammirazione delle
masse, come gli sportivi di
altolivellolecuiperformance
esigono
una
«mente
d’acciaio» che escluda il
minimo briciolo di dubbio e
didepressione.
Far tacere i depressi e la
loro
lucidità
significa
evidentemente
contribuire
alla perpetuazione di tutte le
illusioni. Curare i depressi,
così come si curano i
dissidenti negli ospedali
psichiatrici
dei
regimi
totalitari, è dunque una
necessità per la società
edonistica.Èquantodenuncia
la filosofa Anita Silvers,
specialista
di
bioetica all’Università di San
Francisco: «Chi insiste sul
fatto che ogni tipo di
depressione debba essere
trattata a livello medico si
avventura su un sentiero
alquanto arduo. Poiché il
pericolo è che gli stessi
farmaci che permettono agli
individui di abituarsi alla
sofferenza
cronica,
contribuiscanoancheallaloro
accettazione
degli
ambienti
intolleranti
o
oppressivi,
rendendo
improbabilileproteste»22.
Gli psicologi hanno
segnalato altri aspetti positivi
della depressione, la quale
svolgerebbe
un
ruolo
difensivo dell’io rispetto al
progettodimorte,stimolando
lo spirito creativo. Michel
Leiris, come anche Samuel
Beckett o Marcel Proust lo
avevanogiàrilevato.Èunpo’
in questo senso che Pierre
Fedida parla dei «benefici
delladepressione».«Nessuno
ha mai scritto, dipinto,
scolpito, modellato, costruito
o inventato se non per uscire
letteralmente dall’inferno»,
affermavaAntoninArtaud.
Maldiviveree
comportamentia
rischio
Questa
società
contemporaneadelvuoto,che
tenta di riciclare i depressi
che
produce,
genera
comportamenti sostitutivi del
suicidio,
comportamenti
tollerabili
perché
inquadrabili,
poiché
servono da sfogo alla
disperazione profonda del
mondo. La disperazione può
essere un potente motivo
d’azione: nessuno è più
determinatodichinonhapiù
niente da perdere - i
manipolatoridelterrorismolo
sannobene.
Occorre dunque mettere
la disperazione motivante al
servizio
della
società,
proponendo attività che
possano
mettere
in
pericolo esclusivamente la
vita di coloro che le
praticano,
i
quali
possono persino essere
assunti a modelli: alpinisti,
navigatori,
escursionisti,sportiviestremi.
Sempre
più
imprese
organizzano
attività
esterne, le outdoor sessions,
poiché
hanno
capito
l’interesseperquestepratiche
al fine di migliorare
l’efficenzadeidipendentiela
loro capacità di affrontare
situazioniimpreviste.Sitratta
anchediunmezzoperridare
una parvenza di significato
alla vita, ricreando momenti
«magici» di effimero svago.
L’invasionerecentediquesto
termine privo di senso è
molto indicativa. Nel 2000,
60.000
francesi
hanno
partecipatoasvariateattività,
con grande profitto dei
produttori di attrezzature
varie. L’ultimo grido è il
viaggiospazialeinorbita,con
lo slogan che recita: «Da
qualchepartec’èmagia!».
La società consumistica
sa quindi trarre profitto
persino dallo stato d’animo
che le è più ostile: il mal di
vivere,
poiché
è
proprio questo a spingere
stuoli di impiegati anemici a
correre rischi per spezzare la
monotonia di una vita iper
protetta
e
iper
organizzata, fattore di stress;
per sentirsi di nuovo vivi, in
una specie di grande gioco
che faccia venire i brividi. In
una parola: spezzare la noia,
questa grande minaccia del
mondo
contemporaneo,
scendendo le rapide in canoa
oinkayakopartecipandoalle
escursionineldeserto.Chi,se
non individui in preda a un
profondo mal di vivere,
potrebbedarsiaquestigiochi
daboyscout?
È
sicuramente
la
giovinezza il periodo in cui i
comportamentiarischiosono
più numerosi, e tanto più
pericolosi
poiché
non
controllabili. Per David Le
Breton, autore di un recente
studio sul soggetto, i
comportamenti a rischio assunzione di droghe, alcol,
comportamenti
pericolosi,
rapporti sessuali non protetti,
giochi rischiosi — sono una
risposta a «un malessere
diffuso dell’esistenza [...], un
modo di affrontare le
avversità o la sofferenza»23.
Secondo i sondaggi, il 22%
dei giovani si definisce
«disperato».
I
grandi
responsabili
dell’angoscia
durante la giovinezza sono
l’eccessodilibertàel’assenza
di punti di riferimento: «La
libertà è un valore per
colui che possiede i mezzi
simbolici per utilizzarla e sa
affrontare
gli
ostacoli
disseminatisulsuocammino;
per l’altro, invece, essa
generapaura»24.
Anche
il
crollo
dell’autorità genitoriale per
tacita abdicazione viene
spesso incriminato: il padre
stesso,
su
cui
si
focalizzavano atteggiamenti
di rivolta e rispetto, ha perso
la sua aurea di punto di
riferimento;eglimostraisuoi
dubbi, viene colpito dalle
crisidimezzaetà,vaincontro
a problemi di coppia,
condivide
i
compiti domestici, vuole
restare giovane ed essere un
«amico» per i suoi figli,
mentre questi ultimi già lo
superano nella padronanza
delle tecnologie per il tempo
libero. Il modello freudiano
delpadrecastratoreèinviadi
estinzione. L’adolescente si
formavaperaffrontarelavita,
forgiavalapropriapersonalità
per mezzo della dialettica
amore-odio nei confronti di
questo
temibile
personaggio. Paragonabile
oggi a una sorta di
ectoplasma, l’adolescente ha
sempre meno punti di
riferimento e, sin dalla più
giovane età, è immerso in un
clima
circostante
di
permissività. La libertà è
positiva solo quando viene
conquistata; quando viene
data senza controparte, allora
diventa un veleno che può
rivelarsimortale.
Questi giovani sono degli
autodidatti forzati della vita:
che trovino da soli il senso
della propria esistenza,
sperimentando i falsi valori
senza guide né strutture! Lo
sgomento è quasi inevitabile.
Una delle soluzioni a questo
mal di vivere originario è
abdicare radicalmente alla
propria libertà entrando in
unasetta:accettareillavaggio
del cervello e una dottrina
banale rassicurante significa
farla finita con i continui
interrogativi. La ricerca della
spiritualità non ha niente a
che vedere con il fenomeno
settario, che è anzitutto
una droga antidepressiva, un
rimedio al mal di vivere.
Scrive David Le Breton: «La
ricerca della spiritualità
evocata come principale
motivo di adesione, è
secondaria rispetto alla
questione essenziale, quella
della voglia di vivere e del
significatodell’esistenza[..da
setta] è probabilmente, in un
primo tempo, un modo per
neutralizzare
un’ondata
depressivadilagante.Lesette
forniscono risposte sicure ai
grandi
interrogativi
dell’esistenza, laddove le
nostre società hanno perduto
una
parte
del
loro
orientamento
antropologico
lasciando
l’individuo, nella migliore o
peggiore delle ipotesi, in
unalibertà“senzalimiti”»25.
Il comportamento a
rischio è un’altra risposta al
maldiviverediunagioventù
che
si
è
trovata
immediatamente
immersa
nella «società del vuoto».
Bisogna mettere alla prova
questa esistenza insipida,
darle un sapore, avvicinarsi
alla morte per poter
apprezzare maggiormente la
vita e, se alla fine di questa
ordalia non c’è che morte,
allorasignificachelavitanon
vale davvero la pena di
essere vissuta. Quando i
giovani di una società
arrivano a questo punto,
la società in questione può
iniziare a interrogarsi sul
proprioavvenire.Giovaniche
rischianolavitaequelladegli
altri per riuscire a darle un
senso; adulti che rischiano la
vita per sfuggire la noia di
un’esistenza superprotetta eccoisintomidiunprofondo
mal di vivere. Le sette, i
comportamenti a rischio, la
violenza sono i segni della
stessa ansia. Pensare di poter
tornareindietroèillusorio,la
frecciadeltempohaunasola
direzione. La soluzione
implical’accettazionedelmal
di vivere da parte di un
umanesimodell’angoscia.
Tale
conclusione
presuppone anche un altro
tipo di atteggiamento nei
confronti
della
morte
volontaria, segno fatale del
mal di vivere. «Al “non ho
chiesto io di nascere” fa eco
“posso scegliere di morire”»,
ricorda David Le Breton, per
il
quale,
tuttavia,
i
comportamenti a rischio non
rappresentano forme di
suicidio latente: «Esse si
distinguono in tutto e per
tutto dalla volontà di
morire, non sono forme
maldestre di suicidio, ma
scappatoie
simboliche
per trovare rassicurazione sul
valoredellapropriaesistenza,
respingendo il più lontano
possibile la paura della
propria mediocrità personale.
Si tratta di riti intimi di
costruzione del senso»26.
Nonostantetutto,cisembravi
siaunostrettolegame.
Secondo le statistiche, i
nostri
contemporanei
sostengono sempre di più di
volerlasciarevolontariamente
la vita, a iniziare dalle
celebrità, il cui esempio si
ricongiunge sempre di più a
quello degli antichi Romani.
Abbiamo menzionato gli
uomini e le donne di lettere,
ma sono coinvolti anche il
mondo dello spettacolo e
quellomediatico,inposizione
privilegiata nel misurare la
dimensione
tragicomica
dell’esistenza, da Ingrid
Bergman ad Achille Zavatta,
passandoperMarilynMonroe
(1962), Mike Brandt (1975),
Jean Seberg (1979), Patrick
Dewaere (1982), Yukiko
Okada(1986),Dalida(1987),
Roger Stéphane (1994) e
Nino Ferrer (1998). Il
mondo politico ha visto i
suicidi di Roger Salengro
(1936),
Pierre
Bérégovoy (1993), Roger
Quilliot (1998); il mondo
dell’arte quelli di Nicolas de
Staèl (1955), Marcus Rothko
(1970),
Ralph
Barton,
Bernard Buffet (1999); e
ancora Yukio Mishima
(1970),
Jean-Louis
Bory (1979), Yves Laurent
(1991). Ognuno di questi
suicidi
corrisponde
certamente a una situazione
particolare, ma anche la
quantità di tali casi è
estremamente rivelatrice, in
particolare di una maggiore
familiaritàconunattocheper
molto tempo è stato
considerato tabù. Non è
sicuro che la proporzione
reale
di
suicidi
sia
inaumento;peressereprecisi
non si tratta di una
banalizzazione,
quanto
piuttosto di un’accettazione
crescente da parte della
società. Anche se gli studi
statistici restano difficili, la
dissimulazione diminuisce.
Gli osservatori risultano
essere più interessati al
fenomenoduranteiperiodidi
crisi, poiché vi vedono un
segno di malessere che
vogliono
sottolineare,
falsandocosìleprospettive.È
accaduto ad esempio nel
1881,
quando
Tomas
Masaryk vide nel suicidio
il
risultato
della
generalizzazione
dell’insegnamento
che
portavasemprepiùpersonea
porsi domande senza risposta
sul senso della vita, in un
periodo di distacco dalle fedi
religiose27.
Nel
1929,
la stampa creò il mito di
un’ondata di suicidi in
seguito al crack di Wall
Street.
John
Kenneth
Galbraith ha mostrato che in
realtà non ci fu nessun
aumento significativo: 1.331
suicidi nell’ottobre del 1929
negli Stati Uniti, e 1.344 a
novembre, vale a dire il
numero abituale. I casi di
richiamo che erano stati
segnalatinonavevanonullaa
che fare con il crac, come
quello di Riordan, l'8
novembre, ricco finanziere e
buon cattolico. La Chiesa
imputò la sua morte a una
folliapasseggera28.
Ilmaldiviveretroppo
vecchioetroppo
malato
Le cifre dei suicidi sono
certo impressionanti, ne
abbiamo
fornite
solo
alcune29. L’opera classica di
Jean Baechler ne fornisce
molteperilperiodoanteriore
al
197530,
giungendo
all’abituale constatazione di
un tasso che aumenta con
l’etàintuttiipaesi:inFrancia
c’è un numero otto volte
superiore di suicidi fra gli
over 65 anni rispetto alla
fasciad’etàcompresatrai15
e i 24 anni, quattro volte
superiore in Inghilterra e
negli Stati Uniti, tre volte
superiore in Germania.
Queste cifre lasciano dunque
presagire un aumento negli
anni
a
venire,
con
l’incremento della speranza
di vita. È già possibile
osservare
un’impennata
spettacolarenellagenerazione
del baby boom, divenuta
quella del papy boom:
secondo uno studio del 2002
condottodallaDirezionedelle
ricerche, degli studi, della
valutazione e delle statistiche
(DREES) del Ministero per
gli Affari sociali, «la
probabilità di suicidio fra le
personenatenel1956èquasi
due volte maggiore rispetto
alle persone nate nel 1930».
Gli autori del rapporto
concludono: «Nel 2010, le
persone nate nel 1945
avranno 65 anni. Si può
temereunaumentodeisuicidi
con l’invecchiamento delle
generazioni
del
dopo
guerra»31.
Lo
studio
attribuisce questo fenomeno
al fatto che tale generazione
è quella che ha fatto saltare i
valori e le norme nel 1968 e
che,inseguito,haconosciuto
la crisi e la disoccupazione.
La
generazione
della permissività, della
libertà assoluta, per la quale
era «vietato vietare», si
ritrovaoradifrontealnulla.
Ma ci sono anche fattori
permanentichepermettonodi
comprendere l’alto tasso di
suicidifralepersoneanziane:
ripetuti problemi di salute,
indebolimento di tutte le
facoltà, perdita d’autonomia,
bruttezza,
solitudine,
mancanza
di
speranza.
Proclamare che la vecchiaia
possa essere felice è la
menzogna
peggiore
della società contemporanea.
Chi ha fretta d’invecchiare?
Chi avrebbe l’audacia di
affermareintuttacoscienzae
nel più profondo dell’anima
che la terza età sia quella
della felicità? Il salone di un
ospizio ha forse l’aria di
essere un paradiso terrestre?
Levecchiesignoresullasedia
a rotelle che sonnecchiano o
giocano
a
scarabeo
aspettando la morte hanno
l’ariadidivertirsifollemente?
Persino fra quelli «meglio
conservati»
(abominevole
espressione che denota tutta
la sorpresa nel vedere questi
morti viventi un po’ meno
decrepiti di quanto non ci si
aspetti), in quanti accettano
gioiosamente la vecchiaia? E
la scienza promette che
vivremosemprepiùalungoe
«ben conservati»... Ma
durantequestotempo,sempre
piùanzianieanziane(perché
questi termini fanno paura se
la vecchiaia è sinonimo
di gioia di vivere?) si danno
la morte: e non è la
contraddizionepeggioredella
società contemporanea. Il
prolungamentodellasperanza
di
vita
moltiplica
drammaticamente i casi di
depressione e di suicidio,
che probabilmente sarebbero
ancora più numerosi se la
paura non ci attanagliasse
fino al momento in cui
cadiamo nella completa
dipendenza
dagli
altri,
rendendo l’atto impossibile
senzaassistenza.
Alcuni hanno il coraggio
di andarsene prima della
decadenza, prima della
disumanizzazione. Il caso di
Roger Quilliot è degno di
essere ricordato. Ex ministro
dell’Urbanistica
e
dell’Edilizia
abitativa, senatore e sindaco
di Clermont-Ferrand, erudito,
scrittore, grande lavoratore e
uomorigoroso,eglisisuicida
il 17 luglio 1998 con
la moglie Claire inghiottendo
dei barbiturici. Ha settantatre
anni ed è malato. Con la sua
sposa redige una lettera che
spiegaillorogesto:
Ci capirete se dico
che la nostra scelta
comune
di
morte
volontaria è un atto sia
di libertà che di amore
per la vita nella sua
pienezza? Che almeno
nessuno si senta in
colpa. «Vorrei che a
questa età ci si
congedasse dalla vita
come da un banchetto,
ringraziando il proprio
ospite, e che si
faccia fagotto» diceva
La Fontaine, che non
seppe conformarsi a
questa saggezza e morì
molto male. È vero che
per questo cattolico una
morte
stoica
era
impensabile
e,
nell’aldilà,
l’inferno
attendeva ancora i
peccatori. Noi non
crediamonell’aldilà.Per
noi agnostici tutto
succede sulla terra e
ritorna alla terra: l’idea
di un sonno definitivo
nongenerainquietudine.
Ricordando che la loro
vitaerastatapienadigioie,di
dolori
e
d’amore,
proseguono:
Con l’età il degrado
accelera; aumentano i
ricoveriinospedale;non
solo non potremmo più
essere utili né ai nostri
cari né alla società, ma
rischieremmo sempre
più di rappresentare un
peso per loro [...].
Poiché la morte vince
comunque, tanto vale
affrontarla insieme e in
piedi,
vivi,
perché bisogna esserlo
per affrontare la notte
[...]· Nulla è mai
scontato per l’uomo, ma
tuttosommato,inluic’è
più da ammirare che da
biasimare.
Aggiunto a mano: «Ecco,
abbiamo fatto il nostro
tempo».
L’umanesimo non può
elevarsi oltre. Rianimando
Claire Quilliot, la società ha
separato due esseri che
tuttavia aveva unito e che
avevano liberamente deciso
di andarsene insieme. Chi ha
commessoilverocrimine?
Mal di vivere degli
anziani di fronte alla propria
decadenza; mal di vivere
degli handicappati sofferenti
e incurabili, che domandano
di aiutarli a morire.
L’eutanasia sta per diventare
un vero problema di società.
Alcuni casi mediatizzati
hanno sollevato la questione,
che riguarda peraltro decine
di migliaia di individui
nel mondo. Limitiamoci a un
solo caso: nel maggio 2002,
Diane Pretty è deceduta. Da
tempo sofferente per una
malattia nervosa incurabile
che le aveva provocato
paralisi e dolore, chiedeva
che suo marito fosse
autorizzato ad aiutarla a
morire senza incorrere in
sanzioni penali. Poiché la
legge inglese si era mostrata
inflessibile, Diane si era
appellata alla Corte europea
dei diritti dell’uomo, che
avevarespintolasuarichiesta
nell’aprile
2002,
condannandola
a
soffrire inutilmente per un
altro mese. Mettere fine ad
atroci
sofferenze
perfettamente inutili non fa
evidentementepartedeidiritti
dell’uomo.
Come giustificare una
simile decisione? Tutti i
discorsi sull’assistenza, le
cure, il conforto non sono
quindi che mere ipocrisie?
Nel
nome
dei
resti
secolarizzati di una morale
cristianachevietaachiunque
di disporre della propria vita,
qualsiasi essere umano che
abbia avuto la «fortuna» di
nascere, ha il dovere di
restare in vita, fino al limite
estremo. Tale posizione
diventa
sempre
più
intollerabile: secondo un
sondaggioneldicembre2002,
l’88% dei francesi sono
risultati
favorevoli
all’eutanasia. Legalizzata nei
Paesi Bassi, in Belgio e in
Svizzera, essa è ora oggetto
di dibattito negli Stati Uniti,
dovelacontraddizioneconla
pena di morte, ancora inflitta
con una certa leggerezza, è
una sfida all’umanità e alla
ragione.Nel1996,seifilosofi
americani hanno firmato una
lettera
in
favore
dell’eutanasia, dichiarando
che«vietarequestapossibilità
a pazienti in fase terminale
che si trovano in condizioni
di estrema sofferenza, o
condannatiaun’esistenzache
consideranointollerabile,può
essere giustificato solo sulla
base di una convinzione
religiosa o etica sul valore o
sulsensodellavitastessa.La
nostra Costituzione vieta al
governo di imporre tali
convinzioni
ai
propri
cittadini»32.
Lo stesso anno, lo Stato
dell’Oregon adotta una
legislazione molto liberale, il
DeathwithDignityAct.Tutto
quello che il paziente deve
fare è compilare un
formulario
intitolato:
«Richiesta di intervento
medico per terminare la mia
vita in maniera umana
e degna». Tale documento,
che deve essere firmato
davanti a due testimoni,
termina con la formula:
«Chiedo che il mio medico
curante prescriva un farmaco
che ponga fine alla mia vita
inmanieraumanaedegna»33.
Ma l’Oregon è solo uno di
cinquantaStati...Nel1997,la
Corte Suprema americana
respinge all’unanimità due
appelli
in
favore
dell’eutanasia. Le autorità
morali, politiche, religiose e
sanitarie continuano a essere
molto reticenti all’idea di
permettere l’abbreviazione di
sofferenzeinutili.
Tuttavia, persino nella
Chiesacattolicaprendeforma
una timida evoluzione. Nel
1980, il Vaticano pubblica
una
Dichiarazione
sull’Eutanasia che, con
molteplici
precauzioni,
ammette che «non si può
imporre a nessuno l’obbligo
di ricorrere a un tipo di
cura che, per quanto già in
uso, tuttavia non è ancora
esente da pericoli o è troppo
oneroso. Il suo rifiuto non
equivale al suicidio (o
eutanasia): significa piuttosto
lasempliceaccettazionedella
condizione umana, o il
desiderio di evitare la messa
in opera di un dispositivo
medico sproporzionato ai
risultati che si potrebbero
sperare».Unavoltaammesso
questo principio, rimane da
decideredovesisituiillimite
fra la proporzione e la
sproporzione...
Quanto
alla
classe
medica, la sua ostilità si rifà
al giuramento di Ippocrate, il
cui articolo riguardante il
divieto
formale
di
somministrare un farmaco
letale era, originariamente,
l’espressione
di
una minoranza34. Il fine
ultimo
della
medicina
continua a essere quello di
lottare contro la morte;
poiché il compito è
impossibile, occorre fare in
modo che ognuno di noi
muoia almeno in buona
salute, in mancanza di ciò, il
piùtardipossibile.Ildirittoa
unamortedegnanonèancora
statoacquisito.
Suicidioedepressione:
duediverseformedel
maldivivere
I malati terminali non
sonoisoliabussareallaporta
d’uscita
della
vita.
L’incremento fra i giovani è
spettacolare e aumenta con il
livello degli studi. Fra gli
studenti
le
incertezze
riguardano il futuro: i
problemimateriali,lafragilità
psicologica e l’accesso a una
letteratura di riflessione, di
contestazione, di rimessa in
discussione portano a una
presa di coscienza precoce
dell’assurdità dell’esistenza.
Già nel 1971 un sondaggio
condotto fra 421 studenti
di Colonia mostrava che il
54,6% riteneva che la vita
non avesse senso; il 36,1%
sosteneva di concepire una
situazione in cui il suicidio
fosse l’unica soluzione; il
21,9% aveva pensato al
suicidiosenzapassareall’atto
vero e proprio, il 7,6% ci
pensavaseriamente35.
Tuttavia, interrogati sulle
situazioni suscettibili di
condurli al suicidio, la loro
classifica risultava essere,
nell’ordine, una malattia
incurabile, una situazione
estrema,
un
fallimento
affettivo e, in ultima istanza,
il crollo dei valori, di una
certa concezione del mondo.
Davanti a tali esiti Jean
Baechler osserva che «la
disperazione e il disgusto
perlavitaeranotemiletterari
[...]
che
difficilmente
potevanocondurrealsuicidio
effettivo [...]. Non ho mai
sentito di qualcuno che si
sia ucciso perché una lettura
l’avevaconvintodelfattoche
la vita non avesse senso. Lo
scritto poteva piuttosto aver
persuaso
qualcuno
già convinto in partenza.
Dubito anche fortemente che
qualcunosisiamaiuccisoper
ragioni
esclusivamente
filosofiche»36.
Per questo autore il
suicidio «designa qualunque
comportamento che cerchi e
trovi la soluzione di un
problema
esistenziale attentando alla
vita del soggetto»37. Si tratta
di un atto che mette in gioco
l’intera personalità ed «è
altamente probabile che
nessunosisiamaiuccisoper
unragionamentoastratto».
La psichiatria attribuisce
il
suicidio
sia
all'iperemotività,nonchéstato
di inquietudine e insicurezza
che porta a reagire in
maniera
eccessiva
alle
sollecitazioni dell’ambiente
circostante, sia alla ciclotimia. In quest’ultimo caso
distinguiamo i malinconici, o
ansiosi cronici, e i depressi
costituzionali, caratterizzati
da una profonda tristezza, in
particolare
mattutina
temperamento che conosce
due fasi critiche nel corso
dellavita:frai18ei25anni
edopoi50anni.
Senza
rifiutare
categoricamente
queste
spiegazioni, frutto di lunghe
osservazioni, Jean Baechler
ricorda che il suicidio, atto
esclusivamente umano, è
un’opzione
razionale.
Contrariamente a quanto
sosteneva la psichiatria nel
XIX secolo, i pazzi si
suicidano raramente. «Il
suicidio è un atto positivo,
che presuppone una capacità
minima di combinare i
pensieri e le azioni; laddove
la coscienza si dissolve, non
troviamo il suicidio»38.
Analizzando
le
lettere
dei morti suicidi, Baechler
aggiunge: «Il suicidio non è
né una malattia né una
pulsione,essoèunasoluzione
a un problema [...],
una soluzione che può essere
considerata non solo logica,
maancherazionale,poichéla
fuga è probabilmente la
migliore soluzione possibile
per chi non vuole precipitare
nella follia»39. Per questo
autore il suicidio è sempre il
risultato di un calcolo da
parte di una persona che si
pone in condizione di scacco
e che vuole fuggire da
una situazione intollerabile
(suicidio «escapista»), o
colpirequalcunoattraversola
propria morte (suicidio
aggressivo), o compiere
un
sacrificio
(suicidio
ablativo),oppureadottareuna
condotta a rischio (suicidio
ludico). Secondo Baechler,
esiste un tasso costante di
suicidio in tutte le società:
essononpuòessereridotto,a
meno che non si possa agire
sulpatrimoniogenetico.Tutte
le campagne profilattiche,
scrive, «non hanno mai
cambiato alcunché rispetto
alla realtà del suicidio. I
suicidicisarannosempreein
proporzione più o meno
costante. È una realtà
deplorabile: essa può portare
acrederechesiailtributoche
l’uomo paga per la sua
condizione di essere vivente,
che il suicidio sia una delle
rappresentazioni
dell’umanità»40.
Tale diagnosi è stata
contestata dagli autori di un
brevelibroapparsonel1985,
Parolesdesuicidaires,incui
i protagonisti dichiarano:
«Pensiamo che il suicidio
possa scomparire come la
pena di morte, la tortura, la
schiavitù
e
la
prostituzione»41.
Tale
osservazione sembra illusoria
ed
è
contraddetta
dall’evoluzione attuale. Il
contenuto
dell’opera
tenderebbe
peraltro
a
smentirla. Protestando contro
la totale appropriazione del
dibattito sul suicidio da parte
degli «specialisti» che non
hanno alcuna esperienza
personaleditendenzesuicide,
il libro sostiene il diritto a
esprimersi
di
coloro
che hanno tentato il suicidio,
poiché solo loro sono in
grado di analizzare il proprio
stato.«Lacausaprofondadei
suicidi è da ricercarsi
nell’inadeguatezza dei due
universi, quello del suicida e
quello che lo genera. Il
suicidanonriesceaintegrare
il proprio vissuto interiore
nell’organizzazionesocialein
cuièproiettato.Tuttiimezzi
di espressione abituali gli
sono preclusi e, non potendo
rinunciare
alla
propria
protesta,
egli
muore
lentamente [...]. Coloro che
tentanoilsuicidioediventano
poivittimedelloroattosono
colorochenonsonoriuscitia
rinunciare
alla
propria
protestaeperiquali“l’aiuto”
non è stato sufficientemente
efficace. Essi hanno resistito
al lavaggio del cervello, non
hannocedutoaisuoicolpi.La
cosa divertente è che ne
muoiono»42.
L’inadeguatezza
fra
l’universo interiore del
suicida e l’organizzazione
sociale è puntuale, se non
evidente, ma tende piuttosto
ad accreditare l’idea di una
permanenza del numero di
suicidi, se non addirittura del
loro aumento, dal momento
che l’evoluzione sociale non
fachecrearenuovesituazioni
favorevoli al suicidio. Ci
saranno
sempre
delle
inadeguatezze,
e
probabilmente esse andranno
via
via
crescendo.
Un’inchiestabritannicasvolta
nel 1996 indica infatti un
aumentodel93%delnumero
di suicidi fra le ragazze di
età compresa tra i 15 e i 24
annifrail1974eil1992nel
West Midlands: l’aumento è
in ragione del 36% al nord
del paese e del 14% nel sudovest. Secondo il professor
Colin
Pritchard
dell’Università
di
Southampton, queste cifre
sono
una
conseguenza
dell’ingresso massiccio delle
donne
nella
carriera
professionale, il quale genera
una pressione supplementare
e un cambiamento di
immagine che ha bisogno di
nuovi punti di riferimento:
«Le
donne
trovavano
l’identità sociale all’interno
delle loro famiglie e delle
lorocase,maillavoroadesso
conferisce loro una nuova
identità sociale, come accade
per i ragazzi [...]. Le donne
vogliono avere successo nel
lavoro,pursubendoancorala
pressione
del
doversi
occupare della famiglia. Le
giovani madri delle classi
medie assumono le baby
sitter per poter continuare a
lavorare, pur soffrendone e
colpevolizzandosi
[...].
L’accumulo di tutto questo
stress e pressioni ne conduce
alsuicidiounnumerosempre
maggiore»43. Per aiutarle
sonoprevistealcunestrutture,
ma questo non risolve il
problema:
«I
servizi
psichiatriciesocialinonsono
maistaticosìefficienti,male
giovanidonnenonriesconoa
beneficiarne. Proprio come
gli uomini, esse hanno paura
di ammettere di avere, a
volte,bisognodiaiuto».
Così,
non
solo
l’evoluzione della società
continuerà
a
creare
inadeguatezze, ma susciterà
anche comportamenti che
impediscono di risolverle: il
modello dell’uomo o della
donna
d’affari
competitivo,
efficiente,
dinamico, sempre padrone
della situazione, obbliga
a camuffare il disagio
interiore portando al crollo.
Modelli più esigenti, in una
società che peraltro si
definisce umoristica e che
consiglia
distacco
e
disinvoltura: tali sconcertanti
contraddizioni sono evidenti
fattori
d’angoscia.
Aggiungiamo l’esistenza di
sistemieducativicheformano
meno che mai il carattere,
accreditando idee di facilità,
di gioco, di assenza di
selezione, cioè l’inverso di
ciò che i giovani troveranno
entrando nella giungla del
mercato del lavoro. Tutto ciò
concorre a creare condizioni
angoscianti,
fattori
di
depressioneesuicidio.
Ma la relazione fra
depressione e suicidio è più
complessa di quanto sembri.
Per la maggior parte di
psicologi,
sociologi
e
testimoni di tali eventi, la
depressione
è
più
un’alternativa che un fattore
di suicidio, nella misura in
cuiquest’ultimoèunattoche
richiede un guizzo di energia
non indifferente. Certo,
constata Andrew Solomon,
«l'auto-esame
e
l’elucubrazione
possono
condurre
al
suicidio,
frequente negli artisti e altre
persone creative. Ma il tasso
èelevatoanchefragliuomini
d’affari
competitivi:
sembrerebbe che alcune
qualità che favoriscono il
successofavoriscanoanchele
tendenze
suicide.
Gli
scienziati, i compositori e gli
uominid’affaridialtolivello
hanno una tendenza a
uccidersi
cinque
volte
maggiore
rispetto
alla
popolazione generale; gli
scrittori,
soprattutto
i
poeti, presentano un tasso di
suicidio
ancora
più
elevato»44.
Tutto
ciò conferma già che follia e
suicidio non hanno niente in
comune.
Secondo Jean Baechler il
comportamento depressivo
potrebbe essere una reazione
di difesa che permette di
evitare il suicidio: l’apatia,
l’insonnia, la perdita della
libido,l’anoressia,ildisgusto
di sé fanno perdere la voglia
di vivere quanto la voglia di
morire. Gilles Lipovetsky
pensa peraltro che il suicido
contemporaneo, in particolar
modoquellodeigiovani,non
abbia
un
significato
esistenziale particolare; esso
è, come la maggior parte
degli altri gesti nella società
narcisistica, una reazione
immediata, irriflessiva: «Il
suicidioderivamaggiormente
da
una
spontaneità
depressiva, dal flip effimero,
che non dalla disperazione
esistenzialedefinitiva»45.
Ritorniamo
alla
testimonianza capitale di
Andrew Solomon, che ha
sperimentato i tormenti della
depressioneedellatentazione
suicida, che ha aiutato la
madre malata a mettere fine
ai propri giorni, che ha
frequentatoalungolecasedi
curaperdepressiepotenziali
vittime del suicidio. Le sue
prove, la moltitudine di casi
che riporta, il carattere
moderato,
razionale,
equilibrato
della
sua
opera conferiscono un peso
eccezionale al suo giudizio:
«Il diritto al suicidio
dovrebbe essere una libertà
civile
fondamentale:
nessuno dovrebbe essere
costretto a vivere contro la
propria volontà [...]. È di
particolareimportanzaperme
proclamare [...] che, dal
punto di vista dell’individuo,
bisogna
difendere
ferocemente
il
diritto
dilasciarevolontariamentela
vita, in quanto privilegio
umanoinalienabileeche,dal
punto di vista della società,
non è sicuro che i suicidi
rappresentino
un
inconveniente,
poiché
riguardano una popolazione
comunque problematica»46.
Ma i pregiudizi associano
ancorasuicidioefollia,come
mostra questo test realizzato
ad Harvard: un gruppo di
medici
che
doveva
pronunciarsi su alcuni suicidi
diagnosticòlafolliaal22%se
ignoravachesitrattassediun
caso di suicidio, e al 90% se
veniva loro detto che era
suicidio47.
Le prese di posizione in
favore della libertà di
ciascuno di disporre della
propria vita sono sempre più
numerose: «Nessuno è
responsabile della propria
nascita, ognuno è libero di
scegliere la propria morte,
quindi di rifiutare il fardello
che ha ricevuto senza che
gli fosse stato chiesto»48,
scriveva Raymond Aron. Da
parte sua, il sociologo e
antropologo Louis-Vincent
Thomas
ricordava
che
«solo le vittime del suicidio
possono e devono prendersi
le proprie responsabilità», e
non spetta ai legislatori
occuparsi di una questione
tantointima49.
Anche André ComteSponvilleècategoricoquanto
Jean Baechler: il diritto al
suicidio è un diritto
fondamentale della persona.
«Il suicidio non è un
problema giuridico. Esso
riguarda esclusivamente me,
e nessuno può vietarmelo
senza cadere nel ridicolo o
nell’abusodipotere-sesono
in possesso delle mie facoltà
mentali. Se il suicidio è un
diritto, ed è certo che lo sia,
tale diritto è tanto più
assoluto quanto si prende
gioco del diritto. Esso è
massima e minima libertà.
Indietro, preti! Indietro,
giudici!»50.
Il
filosofo, peraltro, avvicina il
suicidio all’eutanasia: «Il
suicidio, spesso, non è che
l’eutanasia di se stessi»,
poiché «non è la vita che
vienerifiutata,mal’anzianità,
la solitudine, la schiavitù
dellamalattiaodellamiseria,
l’agonia [...]. La morte è
troppo lunga, spesso, se la
vita è troppo breve. Quando
nonsidesiderapiù,oquando
non si può più prolungarla, è
legittimoabbreviarla».
Il suicidio è un atto
tipicamente umano. Quando
l’uomoèavvilitoallostatodi
bestia, non desidera più
uccidersi: raramente ci si
uccide in tempo di guerra,
come non ci si uccideva nei
campidiconcentramento-ci
si uccide dopo, quando si
ridiventauomini.Aproposito
dei prigionieri liberati nei
campi
di
concentramento
nazisti,
Primo Levi scriveva che non
appena sentivano di ritornare
a essere uomini, e cioè
responsabili,
le
loro
sofferenze
riemergevano.
Allora riflettevano sulla loro
vita, sugli orrori di cui ogni
uomoècapace,sull’assurdità
deltutto,ealcunifinivanoper
uccidersi.Iltassodisuicidio,
peraltro, aumenta man mano
chesisalenellascalasociale
e intellettuale. Nella parte
bassa della scala predomina
laviolenza;nellapartealtail
suicidio.
Allo stesso modo è raro
che i depressi suicidi si
uccidano durante una grave
crisi; lo fanno più che altro
dopo, quando ritornano a
essere padroni delle proprie
capacità di azione e di
analisi. Secondo Andrew
Solomon, «Il suicidio non è
l'ultima spiaggia dell’animo
depresso. Il suicidio è la
rivolta dello spirito contro se
stesso,
una
doppia
disillusione che è fuori della
portata
dello
spirito depresso». Così, «lo
spirito suicida può essere un
sintomodelladepressione,ed
è anche un fattore di
attenuazione. Il pensiero
del suicidio permette di
attraversare
la
fase
depressiva. Nulla mi fa
piùpauradelpensieroche,da
un momento all’altro, io
possa perdere la capacità di
suicidarmi»51.
Tutti coloro che si
credono responsabili per gli
altri, come le autorità
religiose, morali, politiche,
vedono spesso in questi
discorsipericoloseincitazioni
al suicidio. Hanno paura che
turbino l’equilibrio sociale e
scalzino la fiducia che la
società ha in se stessa; una
societàchesisenteincolpa,o
quanto meno sotto accusa.
Scrive Danielle Mayer:
«Così, per via del suo
significato e delle sue
conseguenze, il suicidio
disturba la società, che
potrebbe essere tentata, se
nonviprestasseattenzione,di
reagire - in qualche
modo
istintivamente
attraverso un utilizzo troppo
ampio del suo strumento
preferito di autoprotezione,
vale a dire il diritto alla
repressione»52.
La
nostra
società
permissiva,
piena
di
contraddizioni, fustiga la
libertà suprema del suicidio.
Se confisca la parola sulla
mortevolontaria,èperché«il
suicida è un guastafeste»53.
«Guastafeste» nel vero senso
dellaparola,poichélasocietà
moderna, o post moderna,
si definisce una società
caratterizzata dalle feste, un
po’ come un tempo ci si
gettava a corpo morto nei
festeggiamenti durante le
grandi epidemie di peste.
Oggi non si scappa più dalla
peste,madalvuoto.
La
depressione
contemporanea è certamente
una
conseguenza
della
democratizzazione
della
malinconia elitaria. La sua
recente
esplosione
corrisponde alla scoperta del
baratro
interiore
una
volta scostate le scenografie
ideologiche e religiose che
mascheravano l’abisso. In
questo
senso,
nulla
permetterà di arrestare la
progressione
di
questa
«patologia della libertà»,
secondo
l’espressione
di Henry Ey. Si è già passati
alla sua banalizzazione. I
farmaci l’addormenteranno,
ma l’umanità potrà davvero
accontentarsi a lungo di
un’esistenza«narcotizzata»?
1«Magazinelittéraire»,
n.411,luglio-agosto2002.
2C.ROSSET,Routede
nuit: épisodes cliniques,
Gallimard,Parigi1999.
3 W. STYRON,
DarknessVisibile:AMemory
of Madness, Random House,
Londra 1990; trad, it.,
Un’oscurità
trasparente,
Mondadori,Milano1999,pp.
24e49.
4 V.S. NAIPAUL,
L'enigma
dell’arrivo,
Mondadori,Milano1988.
5
L. WOLPERT,
Malignant Sadness. The
Anatomy of Depression, The
Free Press, Londra 1999, p.
15.
6Ivi,p.64.
7Ivi,p.129.
8 A. SOLOMON, Il
demone di mezzogiorno.
Depressione: la storia, la
scienza, le cure, Mondadori,
Milano2002.
9 A. SALOMON, Il
demonedimezzogiorno,cit.
10L.WOLPERT,Malignant
Sadness,cit.,p.109.
11J. BOWLBY, Attachment
and Loss, Penguin Books,
Londra 1981, t. III: Loss:
Sadness and Depression;
trad, it., La perdita della
madre, Bollati Boringheri,
Torino1983.
12 A. BECK, Cognitive
Therapy: A 30 Year
Retrospective,
«American
Psychology», 46, 1991, pp.
368-375.
13 A. SOLOMON, II
demone di mezzogiorno, cit.,
p.29.
14 P. MACLEAN, The
Triune Brain in Evolution:
Role
in
Paleocerehral
Functions, Plenum Press,
NewYork1990.
15 D.J. DAVIDSON,
Approach-Withdrawal and
Cerebral
Asymmetry:
Emotional Expression and
BrainPhysiology,«Journalof
Personality
and
Social
Psychology», 58, n. 2, 1990,
pp.330-341.
16T.ANATRELLA,Nonà
la
société
dépressive,
Flammarion, Parigi 1995, p.
10.
17 A. SOLOMON, Il
demonedimezzogiorno,cit.
18 A. SOLOMON, II
demonedimezzogiorno,cit.
19S.E.TAYLOR,Positive
Illusion, West Publishing,
NewYork1989,
20 K.R. JAMISON,
Touched with Fire. ManicDepressive Illness and the
Artistic Temperament, Free
Press, New York 1994; trad,
it Toccato dal fuoco:
temperamento artistico e
depressione, TEA, Milano
1997.
21 Citato da L.
WOLPERT,
Malignant
Sadness,cit.,p.82.
22 A. SILVERS,
ProtectingtheInnocentsfrom
Physician-Assisted Suicide:
The Courts leave it to the
States, in Physician Assisted
Suicide. Expanding the
Debate,acuradiM.P.Battin,
R. Rhodes e A. Silvers, New
YorkeLondra1998,p.140.
23 D. LE BRETON,
Conduitesàrisques:desjeux
de mort au jeu de vivre,
PUF,Parigi2002,p.45.
24Ivi,p.55.
25 D. LE BRETON,
Conduitesàrisques...,cit.,p,
97.
26Ivi,p.62.
27 T.G. MASARYK, Der
Selbstmord
als
sociale
Massenerscheinung
der
modernen
Civilisation,
Vienna1881.
28 J.K.GALBRAITH, The
Great Crash, 1929, Pelican
Books,Londra1961,pp.150151;trad,it.,Ilgrandecrollo,
Bollati Boringheri, Torino
1991.
29PerlaFrancia,èstato
fornitounbilanciorecenteda
M. DEBOUT, La France du
suicide,Stock,Parigi2002.
30 J. BAECHLER, Les
suicides,
Calmann-Lévy,
Parigi1975.
31In«Ouest-France»,2
settembre2002.
32 The Philosophers’
Brief Amici Curiae, citato in
Physician
Assisted
Suicide. Expanding the
Debate,cit.,p.431.
33 Oregon Death with
Dignity Act, Oregon revised
statutes,
1996,
Suppl.127.800-127.897.
34 Physician Assisted
Suicide. Expanding the
Debate,cit.,p.354.
35
C. BESOZZI,
Soziologische Theorien und
soziale Probleme: eine
UntersuchungzumStudentenSelbstmord,
«Revue
européenne de sciences
sociales,25,1971,pp.49-72.
36 J.BAECHLER, Les
suicides,cit.,p.414.
37 J. BAECHLER, Les
suicides,cit.,p.77.
38Ivi,p.111.
39Ivi,p.293.
40
J. BAECHLER, Les
suicides,cit.,pp.101-102.
41 A.PATRICK et al.,
Paroles de suicidaires. Cette
vie passée à la sauver,
Chronique sociale, Lione
1985,p.109.
42Ivi,pp.91,93.
45 In «The Times», 10
agosto1996
44 A. SOLOMON, Il
demonedimezzogiorno,cit.
45 G. LIPOVETSKY,
L'èradelvuoto,LuniEditrice,
Milano1995,p.236.
46 Prefazione del libro
di J. BAECHLER, Les suicides,
cit.,p.101.
47 A. SOLOMON, Il
demoneamezzogiorno,cit.
48 Prefazione del libro
di J. BAECHLER, Les suicides,
cit.,p.1.
49 L.-V. THOMAS, À
proposdusuicide:lepointde
vue d’un thanatologue,
«Agora. Ethique, médecine,
société», n. 14-15, giugno
1990,p.19.
50A.COMTE-SPONVILLE,
La mort volontaire, «Agora.
Éthique, médecine, société»,
cit.,p.25.
51 A. SOLOMON, II
demonedimezzogiorno,cit.
52D.MAYER,Enquoi
le suicide intéresse-t-il le
droit?, «Agora. Ethique,
médecine, société», cit., p.
36.
53
F. ZENATI, «Revue
trimestrielle de droit civil»,
1988,p.422.
Conclusione
Lungo queste pagine
abbiamo visto scorrere coorti
di disperati, malinconici,
pessimisti: le loro numerose
testimonianze illustrano la
permanenzadelmaldivivere
attraverso i secoli. Da
Lucrezio a Cioran, da
Luciano a Schopenhauer,
quante
menti
hanno
lucidamente espresso la loro
tristezzaoillorodisgustoper
lavita?Natoconlacoscienza
riflessiva,ilmaldivivereèil
prezzo da pagare della
riflessione umana e non il
segno di un disequilibrio
patologico. Il pensiero si
radica nel malessere. Sin
dalle origini della riflessione,
l’uomo ha cercato di dare un
senso
alla
vita,
ma
ogniprogressodelpensierolo
ha reso più esigente,
indebolendo le risposte di
ordine sovrannaturale e
rafforzando
la
consapevolezzadellatragedia
dell’esistenza.
Durante i secoli le
autorità
morali
hanno
coltivato il mal di vivere con
ambiguità.
La
Chiesa
sosteneva che esistesse una
tristezza buona e una cattiva:
la colpa di Adamo ha
trasformato
il
nostro
soggiorno terrestre in una
valle di lacrime e dobbiamo
esseretristiacausadeinostri
peccati - questa è la tristezza
buona. Quella cattiva è la
tristezza che ci porta alla
disperazione, che ci fa
perdere fiducia in Dio, che
vede solo l’inferno e ci fa
maledire il mondo e il
suo creatore. La vita del
cristiano è stata a lungo un
difficile equilibrismo fra
l’angosciaelasperanza,frala
paura e la consolazione,
un percorso di guerra
dall’esito incerto. La Chiesa
ha mantenuto i suoi fedeli
prospettando loro delle
possibilità, ma mai vere e
proprie certezze, generando
fatalismo e indipendenza. La
Chiesa non amava le prove,
nemmeno
quelle
dell’esistenzadiDio.UnDio
evidente, irrefutabile, certo
quanto l’esistenza del sole o
diunaveritàmatematica,non
faceva al caso suo. A cosa
sarebbe servito se la verità
fosse diventata un’evidenza?
Alcuni
teologi
hanno
avanzato
«prove»
mai
confermate dalla Chiesa,
preferendo parlare di segni
razionali.Ildubbioèsalutare,
a condizione di non
soccombervi. Credere senza
aver visto, tale era l’esigenza
cristiana, peraltro generatrice
di angoscia, soprattutto negli
ambienti in cui veniva
praticata l’introspezione, cioè
neimonasteridelMedioevoe
poi all’interno dell’élite
intellettuale
illuminata
dell’umanesimo e della
Riforma.
I progressi
dell’individualismo nel XVI
secolo hanno condotto alla
grande
rinascita
della
malinconia, che avrà il suo
apogeoattornoal1600conil
suocantoreRobertBurton:il
mal di vivere inizia a
secolarizzarsi. Nel XVIII
secolo diventa il rovescio
della
medaglia
dell’Illuminismo: man mano
che si delinea l’idea di
progresso, la noia e
l’inquietudine guadagnano
terreno, per sfociare, nel
XIX secolo, nelle filosofie
della
disperazione.
Schopenhauer incarna il mal
di vivere intellettuale nella
misuraincuiessopuòessere
espresso da una mente
equilibrata,lucidaerazionale;
Kierkegaard
rappresenta
invece il mal di vivere
psicologico, emotivo. Ma,
chesiapessimismoassolutoo
angosciadepressiva,ilmaldi
vivere resta essenzialmente
una questione elitaria. Dalla
malinconia romantica allo
spleen di Baudelaire, dalla
disperazione di Hartmann al
nichilismo di fine secolo, la
tristezza incombe sul mondo
intellettuale: «I veri grandi
uomini devono provare una
tristezza
immensa
sulla
terra»,
scrive
Dostoevskij.
II XX secolo
democratizzaquestatristezza,
non tanto con i suoi orrori,
quanto con il progresso
dell’istruzioneedeltenoredi
vita.L’uomosemplicediuna
volta, assorbito dai problemi
elementari di sopravvivenza,
riceveva risposte a domande
che probabilmente non si
poneva affatto. Soffriva
perché viveva male, non per
il mal di vivere. Ma ora in
Occidente non si vive più
male; con il miglioramento
della qualità della vita, un
numero sempre crescente di
persone hanno rimesso in
discussione la vita stessa. Al
«viver male» è seguito il
malessere, e la malinconia
dell’élite ha conquistato
lasocietàintera.
Lanostraepocabanalizza
ladepressioneattribuendolaa
molteplici fattori: il clima
economico, con la società
liberale della concorrenza
selvaggia che rifiuta gli
indecisi, i timidi, i solitari, i
misantropi, i pessimisti; il
clima sociale, che erge a
modelloivincentiescludendo
contemporaneamente
i
perdenti; il clima culturale,
che esalta il narcisismo e
l’edonismo, l’autonomia, la
libertà assoluta nel nome
della quale ognuno deve
«realizzarsi» da solo. Tutto
ciò porta alla «società dello
stress»,pressionepiùfortedi
quella che consisteva nel
seguire una via imposta,
poiché chi fallisce non può
cheprenderselaconsestesso.
La società dei diritti senza
doveri aggiunge inoltre le
proprie angosce: angoscia
della
scelta
permanente, angoscia del
fallimentocolpevolizzante,in
amore come negli affari,
angoscia della rivalità, della
presenza libera degli altri società di tutti i timori e di
tutte le paure. Dopo il
disincantodelmondo,cheha
smascheratotuttiimitietutte
le illusioni, l’individuo
si ritrova solo di fronte al
proprionulla.Nonsonopiùi
rivoluzionari a minacciare la
società,maidepressi.
La società postmoderna è
una terribile macchina di
produzionedelladepressione.
Certo, la scienza ha mostrato
cheilfenomenodepressivoè
un problema di chimica
cerebrale, una mancanza di
neurotrasmettitori,
confermando quindi che tale
fenomeno esisteva anche nel
passato, proprio come il
cancro, che un tempo
era chiamato con altri nomi.
Non sapremo mai se i grandi
malinconici e accidiosi dei
secoli passati mancassero di
serotonina,maèevidenteche
avessero più facilità di
inserimento in una società
che offriva consolazioni
religiose e che valorizzava la
penitenza,
l’austerità,
l’ascetismo,
l’autoaccusa, e anche una
certa forma di tristezza
cristiana.Soloicasipiùgravi
attiravanol’attenzione.
La società edonistica e
umoristica
moderna
contribuisce al contrario a
mettere in evidenza il
depresso,aadditarloconaria
dirimproverocomeelemento
di disturbo nell’atmosfera di
gioia
convenzionale
e
superficiale. Nell’èra della
contraddizione,
dell’atteggiamento cool e
soft,deldinamismomotivato,
della comunicazione senza
complessi,ildepressosinota
e si colpevolizza. Egli ha
tuttoperesserefelice;senon
loè,nonpuòcheesserecolpa
sua.Difronteaquesticasidi
tristezzainvincibile,lasocietà
èdisarmata.Qualirimedipuò
offrire,
se
non
gli
antidepressivi? Come stupirsi
deldilagaredelmaldivivere
edell’aumentodelnumerodi
suicidi, e soprattutto dei
tentatividisuicidio?
Le vittime del mal di
vivere
psicologico
condividono in generale i
valoridisiffattasocietà:sesi
sentono in colpa è appunto
perché non riescono a
mostrarsi all’altezza delle
esigenze
del
mondo
circostante rispetto alle
modalità dello stato d’animo
edonistico.
Non
meno
importante, e giudicato
ancora più severamente, è
il mal di vivere intellettuale,
quellodeisemplicipessimisti
che rifiutano il modello
culturale
e
sociale
contemporaneo e vedono nel
camminodellaciviltàfondate
ragioni
per
allarmarsi.
Razionali e lucidi, essi
annunciano le sventure, e gli
eventi danno loro spesso
ragione. Essi sono quindi
considerati pericolosi, poiché
ilmiglioramentodellivellodi
istruzione non può che
estendere
la
loro
influenza. Qualsiasi essere
umano che inizi a riflettere è
unpotenzialepessimista.
Come un organismo
biologico,lasocietàsecernei
propri anticorpi per lottare
contro i virus e i microbi
distruttori, in questo caso i
depressi apatici e gli
intellettuali pessimisti, agenti
di disgregazione del morale
generaleedeltessutosociale.
Oltre ai farmaci, efficaci sui
neurotrasmettitori
ma
impotenti
contro
il
pessimismo, l’arma più
temibile contro il mal di
vivere è l’infantilizzazione
degli individui attraverso
l’azione
di
multimedia
semprepiùpotenti.Nelnome
della gioia di vivere,
assistiamo a una gigantesca
regressione
culturale
e
intellettuale.
La
mondializzazione
dell’istupidimento
è cominciata: i suoi attori si
adoperanoatenerelontanele
problematicheeilbisognodi
riflessione occupando il
tempoliberodellemassecon
ogni sorta di gioco. La
tecnologia procura i mezzi
necessari, dal cellulare che
permette di parlare ovunque
per non dire niente e di
ricevere informazioni inutili
attraverso Internet, fino ai
computer
e
sofisticati
apparecchi televisivi che
focalizzano l’attenzione delle
folle
sul
virtuale
e
l’aneddotico, lasciando la
realtà e le cose importanti
nelle mani di dirigenti che
soddisfano così le loro
fantasie di potere. La società
consumistica, favorendo la
demoltiplicazione di bisogni
sempre più futili di cui
procura la soddisfazione
immediata, contribuisce a
mantenere un clima euforico
eunafalsaideadiprogresso,
sedando le coscienze e
scacciando la noia, al prezzo
di una regressione umana a
livello
biologico.
La
questionedelsensoglobalesi
dissolvenelperseguimentodi
innumerevoli piccoli bisogni
artificiali. Le domande
sorgono nel momento in cui
le
necessità
vengono
soddisfatte: occorre quindi
fare in modo che ne nascano
incessantemente di nuove.
Persino
i
detrattori
del sistema partecipano a
questa
regressione,
proponendo facili risposte
alla domanda sul senso
globale-unarispostachiarae
semplicistica che seduca gli
animiangosciatidallalibertà.
Due secoli e mezzo dopo
l’Illuminismo,laprogressione
sconcertante di convinzioni
irrazionali è significativa
della reazione contro un mal
di vivere dilagante: dietro al
successodell’astrologia,della
preveggenza,dellesette,degli
integralismi, si ritrova negli
adepti la volontà di alienare
volontariamente una libertà
troppo pesante da sostenere,
generatrice di angoscia,
aggrappandosi a un credo
semplicisti-co,deterministico,
checonsentediattribuiretutti
gliavvenimentiaunapotenza
esterna. Il fatalismo consola,
dicevaSchopenhauer.
Il progresso umano ha
liberato il pensiero, ma allo
stessotempohaincrementato
l’angoscia di questo pensiero
che si ritrova solo con se
stesso,soloelibero.Daquiil
malessere, mal di vivere che
un tempo solo le menti
eccezionali conoscevano, e
che oggi coinvolge intere
folle. Il progresso del
pensiero è inseparabile dal
progresso del mal di vivere;
pertalemotivosiinsinuaora
la
tentazione
di
tornare indietro, di una
regressionedelpensieroverso
l’animalità
(creare
continuamente
bisogni
artificiali
per
assorbire la mente nel
perseguimento della loro
soddisfazione),
verso
l’oscurantismo
(fissare
la mente su credenze
semplicisticheerassicuranti).
Ecco più o meno a che
punto siamo. Una sorta di
bivio,diincrociodeicammini
fra l’idiozia e la depressione,
fra un avvenire di imbecilli
felici o di intellettuali
depressi. L’autore di queste
righe, si sarà capito,
preferisce ancora la seconda
soluzione. Mi sembra possa
essere la giusta strada
dell’umanità, poiché la
grandezza dell’uomo non
consistenell’esserefelice,ma
nell’essere
consapevole, lucido. Si
prevede quindi un aspro
scontro fra i sostenitori delle
duecondizioni.
Tuttaviaèlecitochiedersi
seesistaunaterzapossibilità:
inchemodol’uomopotrebbe
diventare
contemporaneamente
più
consapevole e più felice?
Siamo onesti: ci sono
sinceramente più motivi per
essere
ottimisti
che
pessimisti? Certo, piccoli
rimasugli
di
felicità
galleggiano sull’oceano delle
sofferenze. Far finta di
credere che sia possibile
migliorare questa situazione,
quando è già stato fatto per
migliaia di anni e quando,
sempredamigliaiadianni,la
sofferenza e la morte hanno
sempre vinto tutte per
battaglie, è il colmo della
malafede. Allora, invece che
sognare
beatamente
e
proclamarechelavitaèbella,
insultando folle di esseri
sofferenti, guardiamo in
faccialarealtà:siamoqui,sei
miliardidimicrobiperdutisu
un pianeta inquinato, in un
universo infinito, fra i due
infiniti del tempo, come
diceva Pascal. Prospettiva
esaltante, certo, ma piuttosto
spaventosa!
Siamoquindigrandinella
nostra
infelicità,
senza
rinunciare a ciò che, per il
momento,cirendesuperioria
tuttol’universo:laragione.E
ricordiamolalezionedituttii
malinconici e di tutti
i depressi: il mal di vivere è
forse la sola ragione per
vivere, in quanto segno del
progressodelpensieroedella
coscienza. La grandezza
dell’uomo, in fondo, sta
anchenellesueferite.
Indicedeinomi
AbelardoPietro,62.
AbùMasar,43.
AckermannLouise,218.
AdamTheScot,43.
Adriano,29.
AgambenGiorgio,41,95,
285.
Agrippa di Nettesheim
(dettoEnricoCornelio),75.
AichingerIlse,266.
AlaindeLille,44.
AlbertoMagno,49.
Alberti,144.
AlbertiRomano,77.
Alcabizio,44.
Alcuino,41.
Alembert Jean Le Rond
d’,150.
Alessandro di Hales, 45,
58.
AlexanderNeckham,49.
Argenson Marc Renée de
Voyerd’,149.
Argenson René-Louis de
Voyerd’,151,174.
Aristotele, 16-17, 25, 27,
30, 43, 49, 63,73,76-77,84,
242,248.
Arndt Johan-Christian,
172.
AronRaymond,322.
Arrieta(dottor),198.
ArtaudAntonin,308.
AsclepiadediBitinia,33.
AtticoTitoPomponio,20.
AubignéAgrippad’,100.
Agostino (santo), 58-59,
62.
AuloGelilo,17,34.
Ausonio,40.
Avicenna,48.
Amiel,147,166.
AnatrellaTony,306.
Anassagora,31,49.
Andreas
Zamonetic
(cardinale),55.
Andry(dottor),144.
Antistene,26.
Antonio(imperatore),28.
AntoninoilPio,29.
Archigene da Apamea,
34.
AreteodiCappadocia,34.
Bachaumont Louis Petit
de,149,169.
Bacone Francesco, 78,
104.
BadiouAlain,275.
Baechlerjean, 313,317-
319,321-322.
Ballanche Pierre-Simon,
197.
BarrèsMaurice,268.
Barruel(abate),169.
BartheFélix,249.
Barthélémy Jean-Jacques
(abate),159.
BartolomeoAnglico,45.
BartonRalph,312.
Baudelaire Charles, 221223,326.
BayetAlbert,250-252.
BeardGeorgeMiller,248.
BeaumontFrancis,79.
Beausobre,157,163.
BeauvoirSimonede,280,
282.
BeckAaron,301.
BeckettSamuel,266-268,
275,308.
BellayJoachimdu,101.
Bénichou Paul, 213, 216,
220.
BoswellJames,182-192.
Boulainvilliers,136.
Bourdaloue Louis, 124,
190.
Bourdin,252,254.
BourgetPaul,36-37,244,
268.
Bourquelot,254.
BousquetJoe,283.
BowlbyJohn,301.
BrandtMike,312.
BraudMichel,279.
BretonAndré,160,263.
BennGottfried,265.
BenthamJeremy,207.
BenvenutodaImola,56.
BerdiaevNicolas,240.
BérégovoyPierre,312.
BergmanIngrid,312.
Berlioz Hector, 221, 223,
233.
BernardSilvestre,44.
Bernardo di Chiaravalle
(santo),63.
Bernis
François
de
(cardinale),140.
BertrandDominique,219.
BérullePierrede,126.
Bésenval(baronedi),151,
157,164-165.
BettelheimBruno,283.
BiamontiFrancesco,269.
BichatXavier,139-140.
BlackmoreRichard,144.
BlondelJean,151,161.
BlountCharles,156.
Boccaccio,56.
Bodinjean,104.
Boehme,264.
BoerhaaveHermann,143.
Bolingbroke Henry Saint
John,156.
BonafouxPascal,68.
Bonaparte
Luigi
Napoleone,201.
Bonaventura (santo), 5152,58,60.
Borromini
Francesco
Castelli,121.
BoryJean-Louis,312.
Bossange,250.
BossuetJacquesBénigne,
159.
Brierre de Boismont
Alexandre,254-255.
BrightTimothie,78,101104,171.
BronteAnne,197.
Bronté Branwell Patrick,
197.
BrontéCharlotte,197.
BrontéEmilyJane,197.
BrownJohn,146.
BruegelPieterilVecchio,
70-71,98.
BrunoGiordano,65.
Bruto,28,90,168.
Büchner Georg, 196-197,
209.
BuffetBernard,312.
BuffonGeorges,143.
BurkeEdmund,146.
BurnsRobert,197.
Burton Robert, 65,7778,91,93,101, 103-118, 134,
139,141, 184,190, 248, 297298,305,326.
BuzzatiDino,273.
Byron George, 106, 194,
196,201,207,220.
CabanisPierre,252.
CalaferteLouis,279-280.
Calmeli,252.
Calvino,72.
CamoensLuisde,101.
Campanella Tommaso,
104.
Camus Albert, 217, 223,
241-242,274,282.
CarcoFrancis,280,283.
Cardano Geronimo, 66,
68.
Cartesio,121-122.
Casanova
Giovanni
Giacomo,160,182.
Cassio,28.
Catone, 24, 26, 28,
90,168,199,252.
Catullo,20.
CavalcaDomenico,56.
CavalcantiGiovanni,72.
Cazauvieilh,254.
Ceccod’Ascoli,43.
CelanPaul,267.
CelliniBenvenuto,68.
CeltesConrad,93.
CervantèsMiguelde,104.
Cesario di Heisterbach,
52,55.
Challemel-Lacour Paul
Armand,232.
ChamfortNicolasde,154.
CharcotJean-Martin,248.
CharronPierre,91.
Chateaubriand François
René de, 137-138, 193-195,
198-199,203-205,254.
Chatterton Thomas, 173,
179,199,214.
CondillacEtienneBonnot
de,137,188.
CondrenCharlesde,127.
Congreve William (sir),
166.
Constant Benjamin, 194,
202-203.
CopernicoNicola,65.
Costantinol'Africano,4749.
CostePierre,136.
CranachLucas,85-86.
Crawford,168.
CruikshankIsaac,160.
DagermanStig,283.
DalìSalvador,264.
Dalida,312.
DanieldeMorley,44.
DanielSamuel,79.
Dante Alighieri, 45, 5657,63.Daquin,145.
Davidd’Asburgo,51,58.
DavidsonRichard,302.
Deffand (marchesa di),
138,159-160,177-178.
DekkerThomas,79.
Chénier,150.
Chesne de la Violette
Josephdu,83.
Cheyne Georges, 145146,166,185.
Choiseul Madame de,
178.
ChristiandeStablo,57.
Ciaikovskij Piotr Ilitch,
223.
Cicerone,20,31.
CinodaPistoia,56.
Cioran Émile Michel,
269-270, 274, 276-278, 283,
325.
ClaeszPieter,120.
Cleante,31.
Cocteau Jean, 266, 280,
283.
CohenAlbert,283.
ColeridgeSamuelTaylor,
173,194.
Collobert Danielle, 281,
283.
ColomboCristoforo,65.
Comte-Sponville André,
322.
DelacroixEugène,201.
DeleuzeGilles,85.
Delisle de Sales, 159,
162,173.
DellaPortaGiacomo,67.
DelumeauJean,70,91.
DelvauxPaul,264.
Democrito, 12,14, 76,
100,113,160.
Demonax,31.
Denis(madame),174.
DennyWilliam,120.
DeprunJean,135.
DewaerePatrick,312.
Diderot Denis, 138, 140141, 149-151, 154-155, 159,
162-163.
Diogene(ilCinico),239.
Diogene Laerzio, 12, 26,
31.
DixOtto,263.
DonneJohn,78.
Dorat,150.
Dostoevskij Fedor, 98,
239,241-242,244,326.
DrieuLaRochellePierre,
283.
Dubois de Rochefort
Guillaume,163.
DubuffetJean,264.
DuCampMaxime,221.
DucisJean-François,150.
Dufour
Jean-François,
142.
Duguet(abate),125.
Du Laurens André, 78,
82,106.
DumasAlexandre,251.
Dürer Albrecht, 6566,71,77,79,85, 91, 93-96,
106,224.
Durkheim
Émile,
203,214,249,255-261.
Dutil(dottor),248.
FedidaPierre,308.
FedericoII,57.
Feller,169.
FénelonFrançoisde,190.
Ferguson Harvie, 131132,134,200,239.
Fernel,83,111.
FerrandJ.,78.
FerrarisLucien,127.
FerrerNino,312.
FerruGuillaume,250.
Feucher d’Artaize, 141,
153.
Fichte Johann Gottlieb,
197.
Ficino Marsilio, 18,
67,70,72-74,76,90,94,96.
Fitzgerald Francis Scott,
267.
Flaubert Gustave, 220-
221.
Eckhart,264.
EinsteinKarl,265.
Eliano,32.
Elvezio Claudio Adriano,
163.
Empedocle,13,16.
Engelke,265.
EnricoIV,80-81.
EnricoVIII,97.
EnsorJamesSydney,248,
263.
Epicuro,19,21.
Eraclito,12,25,100.
Erode,62.
FlavioGiuseppe,27.
FlegDaniel,283.
FletcherJohn,79.
FleuryClaude,127.
Fontenelle Bernard Le
Bovierde,134,159,163-164.
Forthomme Bernard, 36,
40,42.
Fourcroy
Antoine
Francoisde,252.
Francesco
d’Assisi
(santo),52-53,55.
FranklinBenjamin,188.
FreudSigmund,241,284288,307.
Froment (madame de),
186.FromentinEugenio,161.
Erodoto,7-8,12.
Eschilo,10.
Eschine,27.
Esiodo,11,18,76.
Esquirol
Jean-Etienne,
252-253.
EstienneHenri,88.
Euripide,11.
Evagrio Pontico (santo),
35-36.
EvelynJohn,166.
EyHenry,324.
Fahret,250,252.
FavreRobert,149,155.
Galbraith John Kenneth,
312.
Galiani
Ferdinando
(abate),155.
Galeno Claudio, 1415,106,112,248.Galileo,104.
GallFranzJoseph,252.
GallePhilippe,70.
GarrickDavid,183.
GaryRomain,280,283.
GarzoniTomaso,83.
GautierJean-Franfois,15,
270.
Gautier
Théophile,
94,196,213,219-220.
GeliertChristian,186.
Genlis(madamede),182.
GérardFrançois,198.
Geremia,8,10,58.
Geronimo(santo),71.
Giauque Francis, 278279,283.
GibbonEdward,167.
GilbertNicolas,152.
GillrayJames,160.
GiorgioIII,183.
Giovanni XXII (papa),
63.
Giovanni Cassiano, 35,
37-39,298.
Giovanni Crisostomo, 37,
42.
Giovanni di Salisbury,
62-63.
GirodetLouis,198.
GlasJohn,190.
Goethe Johann Wolfgang
von, 173, 186, 193, 198-199,
239.
Goeze(pastore),173.
GoldmannLucien,125.
GoncourtEdmondeJules
de,181-182,244.
GorgiadiLentini,239.
GougeWilliam,88.
GoyaFrancisco,18,198.
Grabbe Christian, 197,
208-209.
GraccoCaio,28.
GrassGünter,266.
GrauntJohn,120-121.
GrayThomas,196,207.
GreenJulien,280.
GreghFernand,267.
GregorioMagno,40.
GrienBaidung,70-71.
Grimm,159,169,173.
GriséYolande,20,33.
GrosAntoine,198.
GroszGeorges,263.
Grozio,104.
GrunbergerBéla,287.
Guibelet,78.
GuilelmusPeraldus,53.
Guillaume d’Auvergne,
44,49.
Guillaume de Conches,
47.
Guillaume de SaintVictor,60.
Guillemin,170.
GuittonJean,36-37.
GuizotFrançois,195.
Hamonic Thierry-Marie,
41.
Hardy,169.
Hartmann Eduard von,
232-233,259,261,326.
HasencleverWalter,265.
HawkinsJohn(sir),191.
HazardPaul,157.
Heidegger Martin, 42,
269-270,273.
HenrideGand,75.
HerzenAlexandre,240.
HeywoodThomas,79.
HobbesThomas,293.
HoepffnerGerard,105.
Holbach Paul Henri
(barone di), 154, 159-161,
168.
HolbeinHans,71,97-98.
Home,252.
HommayVictor,255.
HuartesJuan,67.
HugoVictor,201,239.
Huguet Michele, 178,
270.
Hume David, 167, 173,
183,189.
HusserlEdmund,275.
HuxleyAldous,246,300.
HuygensChristian,120.
Huysmans
Joris-Karl,
206,268.
IehlDominique,209.
Ildegarda di Bingen, 4647,57-58.
IonescoEugène,266.
Ippocrate, 13-15, 30, 84,
106,316.
IsidorodiSiviglia,42-43.
JacopodellaLana,56.
JacquesdeVitry,52,58.
JamesWilliam,247.
Jamison Kay Redfield,
307.
JanetPierre,248.
JanssensAbraham,119.
JarrickArne,172.
JauffretRégis,270-271.
Jerusalem(abate),186.
Jérusalem Karl Wilhelm,
186.
JohannisWalensis,58.
JohnsonEleanor,173.
Johnson Samuel, 146,
182-186,189,191.
JonsonBen,79.
Juliet Charles, 264, 278,
281-283.
KafkaFranz,264.
KandinskyVassilij,264.
KantImmanuel,147-148.
KarrAlphonse,250.
Keats John, 106, 173,
194,196,207.
KellerGottfried,232-234.
KepleroGiovanni,104.
KierkegaardSoren,9,42,
131-132, 200, 205, 235-239,
259,326.
KingWilliam,156.
Kleist Heinrich von, 193,
199.
Klibansky Raymond, 16,
33-34,43,45,94-95.
KlimtGustave,248.
Koberger,94.
KoestlerArthur,283.
Kokoschka Oskar, 95,
248.
KrausKarl,264.
Kristeva Julia, 11, 16-17,
97-98,218-219,241-242,285286.
KydThomas,79.
La Boétie Etienne de,
100.
LaBruyèreJeande,131.
LacarrièreJacques,41.
LacazeLouisde,139.
LaffitteJacques,195.
LaFontaineJeande,314.
LagoutheLéonard,172.
LagouthePascal,172.
LagrenéeFrançois,148.
Lamartine Alphonse de,
196,199,201,213-214.
Lambotte Marie-Claude,
97,286.
Lambs,106.
LaMesnardièrede,78.
La Mettrie Julien Offroy
de,154-155.
LaMotte-HoudarAntoine
de,128.
Lamy Bernard (padre),
122-123,137,147.
LaurentYves,312.
Laurentd’Orléans,45.
Lautréamont (conte di),
217.
LeandrodiSiviglia,40.
Le Breton David, 309311.
Le Camus Antoine, 142143.
LecontedeLisle,217.
Le Coron Charandos
Louis,90.
Leibniz
Wilhelm
Gottfried, 123,156. Leiris
Michel,283-284,308.
LeLoyerPierre,90.
LenauNicolaus,208.
Lennio,78,82,91.
LenzJacob,208.
Léonard
Nicolas
Germain,150,172.
Leopardi Giacomo, 196-
197,210-213,259.
LePaige(avvocato),152.
Le Prévost d’Exmes
François,157.
LeSenneRené,97,131.
Lespinasse (madame de),
178.
LeVasseurThérèse,187.
LévesquedePouilly,163.
LeviPrimo,322.
Lévi-StraussClaude,281.
Lévy Maurice, 188-189,
191.
Ligne (principe di), 150,
153.
Lipovetsky
Gilles,
290,292-293,321.
LochakGeorges,271.
Locke John, 135-136,
138,293.Loder,252.
Logre(dottor),19.
Lonsdale(Lord),191.
Lorenzo de’ Medici (il
Magnifico),74,97.
LorryAnne-Charles,143.
LouvainJean,279.
Luciano,13,31,33,325.
Lucilio Caio, 22-24, 25,
27,31.
Lucrezia,28.
Lucrezio (Tito Lucrezio
Caro),19-23,33,76,90,325.
LuigiXIV,120,129.
LuigiXV,174.
LuteroMartin,65,72,85,
88-89.
Luynes(ducadi),174.
Mably(abate),163.
MachiavelliNicolò,104.
MacLeanPaul,302.
Macrobio,18.
MagritteRené,264.
Mailly(madamede),174.
MainedeBiran,201-202.
Malebranche
Nicolas,
122-124,137,156.
MalevitchKazimir,264.
MallarméStéphane,216.
Malone,191.
ManfrediEustachio,134.
MannKlaus,283.
MarcelGabriel,275.
Marco
Pomponio
Bassulo,31.
Margherita di Navarra,
66.
MariePierre,290-291.
MarloweChristopher,66.
MarstonJohn,79.
MarxKarl,141.
Marzio,29.
MasarykGeorges,312.
Massillon Jean-Baptiste,
124,131.
MaudsleyHenry,247.
Maupassant Guy de, 241,
243-244.
Maupeou René Nicolas
CharlesAugustinde,171.
Maupertuis Pierre Louis
Moreaude,153,159.
Mauzi Robert, 150, 157158,176.
MayerDanielle,323.
MeilhanSénacde,138.
Melanchthon,93.
MelvilleHerbert,308.
Memmio,20.
Menandro,33.
MendèsCatulle,217.
Menodoto di Nicomedia,
33.
MercadoLuis,78.
Mercier Louis Sébastien,
150,162-163,169,239.
Meslier(abate),239.
MeuryRiflant,77.
MichauxHenri,266.
Michelangelo,97.
MicheletJules,89.
Mida(re),12.
MiddletonConyers,156.
MillerJohann,208.
Milton,106.
MirabeauHonoréde,136.
MishimaYukio,312.
MonroeMarilyn,312.
MontaigneMichelde,68,
88,97,99-100,104-105,115,
117,243.
MontalembertCharlesde,
205.
MontesLola,232.
Montesquieu, 146, 159,
163.
Montgomery Margaret,
188.
Montherlant Henry de,
266,283.
MooreEdward,167.
Moravia Alberto, 268269.
MoreThomas,97.
MoréasJean,217.
MorselliEnrico,256.
MunchEdvard,248,263.
Murray
Alexander,
45,54,56,58,60-62,78,88.
MusilRobertvon,264.
Musset Alfred de, 173,
193-195,213.
NaipaulVidiadhar,297.
NapierRichard,89.
Napoleone,254.
NeckerJacques,179-180.
Necker (madame de),
179.
Needham
John
Tuberville,188.
Nerval Gérard de, 213,
218-220.
NicolePierre,124.
Nietzsche Friedrich, 234,
243-246,275.
NoaillesAnnadi,268.
NoelMarie,281.
North(Lord),121.
NossachHansErich,265.
NougaretP.J.B.,153.
NovalisFriedrich,197.
OkadaYukiko,312.
OlierJean-Jacques,127.
Omero,11,18,76.
Origene,35,58.
Orléans (duca di), 130,
150.
OrtisJacopo,199.
OrwellGeorge,291.
Osiander,252.
Otloh di Sant’Emmeran,
50.
OttovonFreising,62.
OverbeckFranz,244.
Ovidio,22.
PagetFrancis,246.
Palatina
(principessa),
147,166.
PaponJean,90.
Paracelso,65,104.
ParéAmbroise,81-82.
PascalBlaise,68,99,125,
130-134, 139, 175-177, 201202,219,255,290,330.
Paul Jean-Marie, 233234.
Paolo(santo),35,63,156.
PaveseCesare,281,283.
PéguyCharles,260.
PenczGeorg,71.
Petrarca,69-70.
PfanstillLudwig,120.
PicassoPablo,264.
PicodellaMirandola,70.
Pidansat de Mairobert,
149.
PierDamiano,50.
PierdellaVigna,57.
Pierleoni,74.
Pierredel’Estoile,90.
PietroAlighieri,56.
Pietrod’Albano,50.
PigeaudJackie,6,104.
PigrayPierre,83.
PilatoPonzio,62.
Pinel Philippe, 140, 205206,252.
Pitagora,13,25,31.
PittWilliam,183,188.
Plath Sylvia, 267, 280,
283.
Platone,16-17,25-26,7374,76.
PlinioilGiovane,28,32.
Plotino,26,73.
Plutarco,27.
PoeEdgar,224.
Pomme(dottor),149.
PompignanFrancde,151.
PopeAlexander,156-157,
175.
Pompadour(madamede),
181.Porfirio,26.
PostelJacques,253.
Posthumus Hermannus,
71.
PrettyDiane,315.
PrévertJacques,228-229.
Prévost(abate),157-158.
PritchardColin,320.
Proclo,18.
ProustMarcel,268,308.
Puisieux (madame de),
159.
QueneauRaymond,266.
Quesnay François, 141,
143.
RabanMaur,57.
RabelaisFrançois,104.
RadicatiAlberto,167.
Raffaello,77.
Raguenet(abate),169.
Raulin Joseph, 144-145,
149.
Récamier(madame),198.
RégnierMathurin,101.
RégnierPaule,282-283.
ReidJohn,189.
Rembrandt,67-68.
RenanErnest,195.
RenardJules,83.
Reweliotty Irène-Carole,
282.
Reydelet,250.
ReynoldJoshua(sir),148,
183-184.
Richter Johann Friedrich
(dettoJean-Paul),210.
RimbaudArthur,217.
RiordanJ.-J.,312.
RipaCesare,119.
RobeckJohann,172.
RobertGrosseteste,59.
RodinAuguste,224.
Rolland(madame),179.
RollandRomain,279.
RonsardPierre,71,101.
RossetClément,296.
RothkoMarcus,312.
Rousseau Jean-Jacques,
140-141,149,
157158,163,168,173,178,180,182183,187.
RousselPierre,140-141.
Rowlandson
Thomas,
160.
RowleyWilliam,79.
Rufo d’Efeso, 14-15, 48,
106.
Ruysbroeck,264.
SaganFrangoise,268.
Saint-MarcGirardin,251.
Saint-Simon (Louis de
Rouvray,ducadi),130-132.
Saint-Lambert
Jean
Françoisde,159.
Saint-Preux,168.
Sainte-Beuve
Charles
Augustin,195,206-207,213.
SalengroRoger,312.
Salomé Lou Andreas,
245.
SandGeorge,250.
San Juan Huarte de, 67-
78.
SarrazinAlbertine,281.
Sartre Jean-Paul, 271,
273.
SaussureCésarede,146.
SavageGeorge,247.
Savérien,157,164.
SaviozzodaSiena,56.
Schelling Friedrich von,
16,200.
Schlettwein (professore),
173.
Schopenhauer Arthur, 9,
117, 136, 227-232, 238-239,
243-245, 259, 261, 325-326,
329.
ScotoMichele,45.
Schumann Robert, 199,
223.
ScreechMichael,100.
SebergJean,312.
Senancour Etienne Pivert
de,192,160,193-194.
Seneca, 19, 22-25, 27-28,
30-33, 53, 66, 103, 107,251252.
SerclierJude,90.
Serenus,22-23.
Serse,7.
Sertillanges(padre),7,9.
Shaftesbury,156.
Shakespeare William, 71,
79-81, 99, 103-104, 110,
187,279,308.
Shelley Percy Bysshe,
194,196,207,215.
ShelleyClara,196.
Silvatico
Giovanni
Battista,78.
SilversAnita,308.
SinesiodiCirene,112.
SmithAdam,183.
Socrate,16-17,25.
Sofocle,11.
SollersPhilippe,241.
Solomon Andrew, 34,
146,247,290,295,298,302,
305-307, 320-323. Sorano
d’Efeso,34.
Sorge,265.
Sorrentino(ducadi),171.
SpagnoliBattista,84.
SpenglerOswald,265.
SpinozaBaruch,136.
Sporer,127.
StadlerErnst,49,265.
Staèl (madame de), 173,
179-181.
StaelNicolasde,312.
Stagirio,42.
StarobinskiJean,68,82.
SteenJan,120.
Stendhal,209.
StéphaneRoger,312.
Sterne,106.
Stirner Max, 232-234,
264.
StoichitaVictor,68.
StosskopfSebastian,120.
Strabone,32.
Stramm,265.
StuartMillJohn,207.
Styron William, 296-297,
301.
SuarèsAndré,283.
Sully-Prudhomme
(pseudonimo
di
RenéFrançoisArmand),217.
Surin(padre),127.
Süssmilch,171.
Svetonio,32.
SwiftJonathan,160.
SydenhamThomas,84.
SydneyPhilip,78.
Tacito,32.
Taillepied Noèl, 84-85,
89-90.
TaletediMileto,49.
TanguyYves,264.
TardieuÉmile,206.
Tarquinio,28.
TaylorJohn,156.
TaylorShelleyE.,307.
Temistocle,27.
Teodolfod’Orléans,41.
Teodoro (vescovo di
Canterbury),60.
Teodosio,28.
Teofrasto,12.
TeognidediMegera,11.
Teresa d’Avila (santa),
86-87.
Thiroux
d’Arconville,
Madame,162-163.
Thomas Louis-Vincent,
322.
TinnicoilCalcifico,76.
Tommaso
d’Aquino
(santo),53,63.
Tommaso di Cantimpré,
55.
Tommaso di Chobham,
58.
Tommaso(santo),63.
ThomsonJames,79,94.
Tiberio,32.
TillotsonJohn,156.
Timone,108.
TindalMathew,156.
TinguelyJean,264.
Tissot,145,253.
TitoAristo,32.
Toaldo,145.
TofflerAlvin,291.
TollerErnst,265.
Tolomeo,10,28,45.
Tolstoj Lev, 221, 224,
239.
TurgenevIvan,239-240.
TraklGeorg,265.
TréogateLoaiselde,150.
Trublet(abate),154,161163.
Twain Mark, 232, 234235.
UgodiTrimberg,55.
VachéJacques,283.
ValéryPaul,265.
VanCleveJoos,71.
Van der Cruysse Dirk,
131.
VanderSchoorAbraham,
120.
Van Heemskerk Marten,
70.
VanHooffAnton,28,3031.
VanLeydenLucas,71.
VanReymerswaele,71.
Van Steenwyck Harmen,
120.
VanVeldeBram,264.
Varo,28.
VattimoGianni,275.
VaugeGilles,125-126.
Vauvenargues Luc de
Clapiersde,136.
VerlainePaul,216.
VettiusValens,18,28.
Vigny Alfred de, 173,
195,214-215.
Vincenzo de’ Paoli
(santo),127-128.
Virgilio,57.
VollandSophie,155.
Voltaire, 99, 134, 138,
157, 159-160, 168-169, 174178,182-183,187,255.
Wellington Nehemiah,
89.
WalpoleHorace,178.
WeilSimone,283.
WhyttRobert,144.
WillisThomas,121.
WildeOscar,221.
WilmotRobert,79.
WinslomForbes,253.
WithersWilliam,167.
Wittgenstein
Ludwig
Joseph,275.
WolmarM.de,141.
Wolpert Lewis, 208, 225,
297,300,308.
WoolfVirginia,279,283.
Wordsworth
William,
173,196.
WurtzelElizabeth,297.
Wylich(generale),186.
ZavattaAchille,312.
Zenone di Cizio, 26, 31,
260.
ZweigStefan,280,283.
Indice
Capitoloprimo
In principio era la fatica
divivere
«Vanitàdellevanità...»
La spiegazione filosofica:
ilpessimismogreco
Laspiegazionemedica:la
bilenera
La
malinconia,
il
temperamento dei grandi
uomini
Lucrezio e Seneca,
testimoni del mal di vivere
romano
Il taedium vitae come
ragionelegittimadisuicidio
La malinconia come tara
psicologicaemorale
Capitolosecondo
La demonizzazione del
mal di vivere: l'acedia
medievale
Nascita dell’accidia negli
ambienti
eremitici
(Sant’Evagrio
Pontico e San Giovanni
Cassiano)
L’accidia: la depressione
deimonaci(altoMedioevo)
Il vizio malinconico Una
riabilitazionerelativa
Il peccato di accidia, mal
diviverecolpevolizzante
Tristitia e desperatio,
fattoridisuicidiofrailclero
Le autorità spirituali e il
suicidio
Ambiguità
della
disperazionecristiana
Capitoloterzo
Ilsecolodellamalinconia
(1480-1630)
Umanesimo
e
individualismo come fattori
diinquietudine
SottoilsegnodiCrono
Marsilio
Ficino
e
Cornelio
Agrippa:
la
riabilitazione
della
malinconia
La
moda
della
malinconia,
dall’Italia
all’Inghilterra
Lespiegazionimediche
I teologi contro la
malinconiadiabolica
Recrudescenzadeisuicidi
Capitoloquarto
Da Dürer a Burton:
ritratto e anatomia della
malinconia
1514:MelancholiaI
Michelangelo, Holbein e
Montaigne: tre volti della
malinconia
TimothieBrighteilDella
melanconia(1586)
Robert
Burton,
un
depressonelXVIIsecolo
LecauseLecure
Capitoloquinto
Pessimismo cristiano e
nascita della noia nel secolo
XVII
La tristezza del Grand
Siècle
Ilpessimismogiansenista
Unaspiritualitàmorbosa
Noiaespiritoclassico
Capitolosesto
L' inquietudine degli
Illuministi
L’inquietudine
come
spintaadagire
Dell’inquietudine
viscerale
Causeerimedi
La
malinconia,
dal
disprezzoallarinascita
Ildolorediesistere
Il
pessimismo
dell’Illuminismo
Essere
felici:
un’ossessionedegliinfelici
Lafelicità:unachimera?
Lamalinconiasuicida
Ilcasofrancese
Luigi XV il depresso e
Voltairel’inquieto
Lanoiaalfemminile
Boswell e Johnson: il
dialogodiduedepressi
L’internazionale
della
malinconia
Capitolosettimo
II male del secolo
romantico: dal furore di
vivere allo spleen (XIX
secolo)
Lanoiadeigiovani
Esitazioni
e
contraddizioni di fronte alla
morte
I romantici e l’analisi del
malessere
Le varianti nazionali del
malessere
Lagenerazionemaledetta
Diversità dello spleen·.
Baudelaire, Wilde, Berlioz,
TolstojePoe
Capitoloottavo
I
sistemi
della
disperazione: il nichilismo
delXIXsecolo
Schopenhauer fra noia e
sofferenza
Hartmann,Stimer,Keller,
Twain: le varietà della
disperazione
Kierkegaard
e
la
psicologiadell’angoscia
Ilnichilismo
Dostoevskij
e
Maupassant:«Achepro?»
L’ultima
rivolta:
Nietzsche
Dalla derisione alla
nevrastenia
Losviluppodelsuicidio
La
spiegazione
sociologica:Durkheim(1897)
Maldivivereemodernità
Capitolonono
Una cultura del mal di
vivere:modernitàeansianel
XXsecolo
Espressioni artistiche e
letterariedelmaldivivere
La noia, radice del male
moderno
Nausea
e
angoscia
dell’esistenzialismo
«La catastrofe della
nascita»(Cioran)
Ilmalessererivelato(diari
eautobiografie)
Il malessere esplorato
dallapsicanalisi
Un
contesto
socioculturale favorevole al
maldivivere
Capitolodecimo
L'èradelladepressione
La
depressione:
situazioneattuale
Le
spiegazioni:
un
fenomenosconcertante
Una lucidità creatrice che
disturbalasocietàedonistica
Mal di vivere e
comportamentiarischio
Il mal di vivere troppo
vecchioetroppomalato
Suicidio e depressione:
due diverse forme del mal di
vivere
Conclusione
Indicedeinomi