Malinconia
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Malinconia
Il «mal di vivere» risale al XVIII secolo, ma il malessere che designa esiste da quando l’uomo cerca di dare un senso alla sua esistenza.Giànell’Antichitài medici descrivevano pazienti colpitidasindromidepressive eproponevanorimediabase di piante per guarirli. I filosofi si interrogavano sull’ambivalenza di queste«affezionidell’anima», caratterizzate da stanchezza, accidia, malinconia, noia, inquietudine, spleen, nichilismo,nausea,angoscia, depressione. Il mal di vivere ha preso forme diverse nel corsodeisecoli,tuttesempre legate al malessere della condizione umana. Da Lucrezio a Schopenhauer, numerose menti illuminate hanno analizzato la malinconia e molti vi hanno visto il temperamento per eccellenza dei «grandi uomini».DaEschiloaCioran passando per Shakespeare, il maldiviverehaispiratoipiù grandi autori della cultura occidentale. Dall’impossibile rivolta di Prometeo contro il destino, all’angoscia dell’uomo contemporaneo che affronta le trappole della libertà, questo libro svela come il mal di vivere sia il pegno da pagare per i progressidellaciviltà. Georges Minois, professoredistoria,hascritto numerose sintesi sulla storia della cultura occidentale. In particolarericordiamo:Storia dell'ateismo (Editori Riuniti, 2000),LaChiesaelaguerra (Dedalo2003),Storiadelriso e della derisione (Dedalo 2004). Incopertina: Heinrich Vogeler, Sensucht,1908, Privatbesitz. La nostra società rifiuta i pessimisti, i depressi,gliangosciati. Il mal di vivere è quindi una malattia dei tempi moderni che bisognacurareacolpidi antidepressivi? Oppure, come ci insegnano i grandi malinconici della storia, è la sola ragione di vita, in quanto segno del progresso del pensiero e della coscienza? La grandezza dell’uomo, in fondo, sta anche nelle sueferite. Scansione,Ocre conversioneacuradi Natjus LadridiBiblioteche Storiaeciviltà 61 GeorgesMinois Storiadelmal divivere Dallamalinconiaalla depressione © 2003, Edition de la Martinière Titolo originale: Histoire du mal de vivre. De la mélancolieàladépression Traduzione di Manuela Carbone Volume pubblicato con il contributodelMinisterodegli Affari Esteri francese e il Ministero della Cultura francese-CentreNationaldu Livre. © 2005 Edizioni Dedalo srl,Bari www.edizionidedalo.it Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge22aprile1941,n.633) Capitoloprimo Inprincipioeralafatica divivere Un Egizio, all’alba della civiltà di quattromila anni fa, disgustatodallospettacolodel mondo, scrive le sue riflessioni sotto forma didialogodellasuaanima.Le sue parole superano i confini deltempo: La mia anima si affanna inutilmente a cercare di persuadere un infelicearestareinvitae a impedirmi di raggiungere la morte prima del dovuto. Mostrami piuttosto quanto è bello iltramonto!Eforsecosì terribile? La vita ha una durata limitata: persino gli alberi finiscono per cadere. Potrebbero sparireimali,manonla mia infelicità. Colui che miete uomini mi porterà via comunque, senza riguardo,magariinsieme a un criminale qualunque, dicendo: «Ti porto via, poiché il tuo destino è di morire, anche se il tuo nome continuerà a vivere...»’ (papiro Berlino3024). Questo testo, conosciuto con il titolo Ode del disperato,lungalitaniadiuno scriba anonimo che aspira alla propria mòrte, è la più antica espressione individuale del mal di vivere checisiastatatrasmessa: Lamorteè oggidavantia mecomela saluteper l’infermo Comeuscire fuoridauna malattia. Lamorteè oggidavantia me Come l’odoredella mirra Come sedersisottola velainun giornodivento. Lamorteè oggidinanzia me Comeil profumodelloto Come sedersisull’orlo dell’ebbrezza. Lamorteè oggidinanzia me Comelafine dellapioggia Comeun uomoche ritornaacasa dopouna campagna oltremare. Lamorteè oggidinanzia me Come quandoilcielo sirasserena Comeil desideriocheè inunuomodi rivederela propriacasa dopo innumerevoli annidi prigionia2. QuestoAmletodelMedio Regnononèuncasounicodi quell’epoca. Papiri e geroglifici testimoniano che i disperati si suicidavano nella valle del Nilo: alcuni si gettavano in pasto ai coccodrilli,altrisilasciavano annegare, altri ancora si sferravanouncolpod’asciao dispada3. Soffrire, invecchiare, morire, per cosa poi? Le prime manifestazioni del mal di vivere derivano dall’esperienza delle difficoltà dell’esistenza e ne conserviamo numerose testimonianze nell’antico Vicino Oriente. Ad Akkad, l’antica Mesopotamia, alcune tavolette rinvenute fanno eco al tedio dello scriba egizio, come il Dialogo pessimista fra il padrone e il suo servitori, colmo di osservazioni disincantate e il Dialogosullamiseriaumana, che stigmatizza l'ingiustizia universale: «La folla loda la parola di un uomo preminente, esperto in crimini, ma avvilisce l’essere umile che non ha commesso violenza alcuna. Il malfattore ègiustificato,mentreilgiusto viene cacciato. Il bandito riceve l’oro, il debole rimane affamato. La potenza del cattivo viene fortificata ancora di più, mentre l’invalido, il debole, viene schiacciato»5. Amara constatazione che porta a una visione dell’esistenza ben diversa dalle confortanti rassicurazioni fornite dalla saggezzatradizionale.Questa giustizia immanente è una menzogna, ripetono i testi di saggezza babilonese: sono i più furbi a prosperare, non i più virtuosi. L’uomo che riflette non può che essere pessimista. Persino l’eroe Gilgamesh fallisce nella sua ricerca della «pianta della vita», che gli avrebbe permesso di sfuggire al dolore, alla vecchiaia e allamorte. Ilmaleèovunqueegiàse ne cercano le cause. I miti babilonesi attribuiscono le sofferenze dell’umanità a divinità misteriose. La vitad’oltretomba,negliinferi, nonsaràmigliore6.Davantia simili prospettive, come stupirsi del fatto che i Babilonesi abbiano sofferto di disturbi che ricordano la nostra depressione ansiosa? Unsacerdotedescrivecosìla condizione di un penitente: «Malattia, languore, indebolimento, sofferenza si sono impadroniti di lui. Lamenti e sospiri, oppressione, angoscia, paura, tremore si sono impossessati straziandoli - dei suoi desideri»7. PressoiPersianilastessa amarezza trapela dalla lettura diErodoto,cheriportaqueste parole di Artaban in un dialogo con Serse, il quale, mostrandogli le sue armate, afferma: «Fra un secolo nessuno di quegli uomini sarà vivo». Artaban risponde:«Enonv’ènessuno che non abbia desiderato, un giorno o l’altro, morire tanto i mali della vita prevalgono suibeni»8.Erodotonarrache per i Traust la nascita era un’occasione di lutto e di tristezza e la morte un’occasione di tripudio: «Seduti intorno al neonato, i parenti piangono, deplorando tutti i mali che egli dovrà soffrire una volta nato, enumerando tutte le miserie umane; e invece lieti e scherzando seppelliscono chi è morto dicendo come spiegazione che, liberato da tanti mali, egli è in completa felicità»9. «Vanitàdellevanità...» Il mondo ebraico non sfugge a queste cupe considerazioni: «Maledetto il giorno in cui nacqui», esclama Geremia (20,14), che aggiunge: «Perché [Dio] non mi fece morire nel grembo materno; mia madre sarebbe stata la mia tomba e il suo grembo gravido per sempre. Perché mai sono uscito dal seno materno per vedere tormenti e dolore (...)?» (20,17-18). Diversi salmi, dagli accenti decisamente malinconici, evocano la brevità della vita (Sai 101), la miseria della condizione umana (Sal 89) o l’irrimediabile tristezza delregnodeimorti(Sal87). Ma sono due libri tardivi dell’Antico Testamento a esporre in tutta la sua ampiezza il mal di vivere nelle culture semitiche del Medio Oriente antico. Il primo, il libro di Giobbe, si inscrive nella stirpe di una tradizionemoltoanticadicui abbiamo rinvenuto le tracce in Egitto e ad Akkad. CompostoversolafinedelV secolo a.C., in un’epoca in cui gli Ebrei cominciavano a interrogarsi sui loro valori religiosi,hafattoesploderela rabbia impotente dell’uomo che si sente vittima di un arbitrioodiosoechesichiede perché gli sia stato dato di nascere: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui sidisse:“Èstatoconcepitoun uomo!”» (3, 3); «Stanco io sono della mia vita! Darò libero sfogo al mio lamento» (10,1); «L’uomo, nato di donna,brevedigiorniesazio di inquietudine» (14,1); «E perchénonsonomortofindal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo?» (3,11); «[Perché dare la luce] a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio da ogni parte ha sbarrato?» (3,23). ContrariamenteaGiobbe, prostrato dall’accumularsi di disgrazie, la schiera dei suoi amici ottimisti proclama che la vita è bella, che vale la pena di essere vissuta e che Dio è buono. Poiché Jahvé non ha mai punito degli innocenti, Giobbe è sicuramente colpevole di qualcosa, ma che egli conservi la speranza, poiché «Dio non rigetta l'uomo integro» (8, 20). Davanti alla cecità dei fedeli che non riescono a capire la rivolta dell’uomo sofferente, Giobbe rimette in riga il branco di conformisti: «È vero, sì, che voi siete la voce del popolo e la sapienza morirà con voi! [...] Tacete! State lontani da me: parlerò io, mi capiti quel che capiti [...]. Mi uccida pure, non me ne dolgo...»(12,2;13,13-15).Il dibattito è aspro; Giobbe è tentatodalsuicidiomatuttosi conclude miracolosamente per il meglio. Tale opera è stata l’occasione per un’esposizione completa dello sconforto degli innocenti che soffrono. Attraverso la finzione, l’autore proclama la sua indignazionecontrounasorte ingiusta, la sua rivolta contro unavitamiserabile. L’espressione del mal di vivere si spinge molto più lontano nel libro dell’Ecclesiaste, o Qoelet. Questotesto,compostonelIII secolo a.C., subisce l’influenza della filosofia greca: a tale riguardo si è parlato, a ragione, di epicureismo,discetticismo.Il pessimismo integrale che esprime ci rimanda alla nausea esistenziale, all’angoscia di Kierkegaard, alla disperazione di Schopenhauer. Scrive padre Sertillanges che «L’Ecclesiaste non comprende e non ammette la vita, fortemente scosso e accasciato dal suo mistero. Un profondo sentimento del circolo perpetuo delle cose, dei ritorni eterni, dà al suo pensiero una specie di terrificante monotonia. Si ha l’impressione che il poeta getti, con una lugubre tranquillità, fango sulle nostre illusioni [...]. Noi pensiamo che non si possa andare oltre questo pessimistico distacco»10. Nulla serve, afferma il Qoelet: «Vanità delle vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sottoilsole?Unagenerazione va, una generazione viene, ma la terra resta sempre la stessa» (1, 2-4). Ho provato tutto, ci racconta. La ricchezza, le donne, tutti i beni della terra: «ed ecco, tuttoèvanitàeuninseguireil vento» (1, 14). Il riso, la gioia: «Follia!». La saggezza: «Chi accresce il sapere,aumentaildolore»(1, 18). Mi guardo intorno: disgrazie, oppressioni, abusi, follia. L’esistenza è solo preoccupazione e noia: «Ho preso in odio la vita, perchémièsgraditoquantosi fa sotto il sole. Ogni cosa infattièvanitàeuninseguire ilvento»(2,17). Questo testo ha messo in imbarazzoleautoritàcristiane cheraramentelohannocitato, se non per insistere sulla sua conclusione: «Temi Dio e osservaisuoicomandamenti» (12,13).Dopododicicapitoli di lamentele sull’universale vanità dell’esistenza, questa lezione finale è una ben magra consolazione: il Qoelet è l’esito di una saggezza plurisecolare di cui abbiamo conservato qualche frammento eteroclita mostrando che dal Nilo all’altopiano dell’Iran, dal golfo Persico all’Asia Minore, le civiltà più antiche hanno conosciuto una corrente di profondo pessimismo. Molto presto, quindi, gli uomini hanno considerato la vita come una maledizione: ciò ha fatto sì che alcuni di loro si siano spintifinoalsuicidio.Certo,i casi di morte volontaria menzionati nella Bibbia Abimelech, Sansone, Zimri, Achitòfel, Saul, Razis, Tolomeo, Macrone - trovano spiegazionenelfattochesono avvenute in circostanze particolari, ma anche diversi profeti, quali ad esempio Geremia,EliaeGiona,hanno pensatodiuccidersi. Laspiegazione filosofica:ilpessimismo greco Neanche la Grecia antica può esattamente definirsi il paese della gioia di vivere. I Greci avevano un senso profondo della tragicità dell’esistenza,cometantimiti cercano di spiegare. Gli uomini sono nati dalle ceneri dei Titani, che Zeus ha fulminato poiché avevano divorato suo figlio Zagreus, pertanto recano in essi una tara originaria. Da quando Pandora ha aperto il famoso vaso, tutti i mali si sono riversati sull’umanità. Un destino implacabile segnalavitadiognuno,ilcui filoètessutodalleParche.Gli esseri umani non sono che giocattoli fra le mani di dèi più inquietanti che rassicuranti, come il grande Pan, che scatena il panico, e Dioniso,l’imprevedibile. Alla radice del pessimismo greco vi è il sentimento di un destino ineluttabilesucuil’uomonon ha presa alcuna: siamo agli antipodi del disagio moderno che gli esistenzialisti attribuiranno all’angoscia dell’uomo di fronte alla sua totalelibertà.Sel’uomoviene privato della sua libertà, allora rivoltarsi è inutile. Prometeo ne vive in prima persona l’esperienza. La sua storia, che Eschilo ha inscenatoversoil450a.C.in Prometeo incatenato, simboleggia infatti il fallimento della rivolta controlacondizioneumana. I miti che impregnano la poesia e la tragedia diffondono una concezione fondamentalmente pessimisticadell’esistenza: E infinite tristezze vagano fra gli uomini e piena è la terra di mali, pieno n’è il mare; i morbi fra gli uomini, alcuni di giorno, altri di nottedasolisiaggirano, ai mortali mali portando...11, afferma Esiodo. «Non nascere è per gli uomini la miglior cosa, né vedere i raggi ardenti del sole»12, scrive Teognide nelle sue elegie. Forse perché partecipide’mali Foste dell’uomo, di cuinullaalmondo, Diquantointerraha spiroemoto,eguaglia L’altamiseria?13 leggiamo nell’Iliade; Bellerofonte, che «errava solitario sulla piana di Aleron, il cuore divorato dal dolore»èconsideratodaJulia Kristeva come uno dei primi depressi della cultura occidentale14. Èventuranonessere. È gran gioia discendere, seallavitas’emerse, là donde al mondo si venne,presto15, declamal'EdipoaColono di Sofocle, cui fa eco il Cresfonte di Euripide: «Bisogna compiangere il neonato che va verso tanti mali, rallegrarci invece per colui che muore e depone i suoi affanni, dire parole di buon augurio nello scortarlo alledimorediAde»16. Le prime reazioni ponderate di fronte alla vita sono quindi grida di dolore e noninniallagioia.Numerosi aneddoti illustrano questo pessimismo innato, come la risposta data dal vecchio SilenoareMida:«Megliodi ognicosaènonesserenati,e dopo di ciò morire subito dopo la nascita». Erodoto narra di un famoso incontro fra il re Creso e il legislatore Solone: «Spinto dalla narrazione di Solone intorno alla felicità di Tello, Creso gli chiese chi avesse vistosecondodopodiquello, certo di ottenere almeno il secondoposto.Quelloinvece rispose: “Cleobi e Bitone. Essi, che erano Argivi di stirpe [...]. Addormentatisi nel tempio stesso, i giovani non si levarono più, ma ebberotalfine.[...]Ottennero lamigliorfinedellavita,ein essi il dio mostrò che meglio èperl’uomomorirepiuttosto chevivere”»17. Sin dal IV-V secolo a.C. Eraclito e Democrito affermano, ciascuno a modo proprio, che il mondo è disseminato di insidie; il primo lo ha detto piangendo, il secondo ridendo. Eraclito, che Diogene Laerzio e Teofrastopresentanocomeun misantropo malinconico, si lamenta della condizione umana. Le parole che Lucianoglifapronunciarein Una vendita di vite all’incanto ricordano quelle delQoelet: Oforestiero,iocredo che tutte le cose umane sono triste e deplorabili, etuttesonosoggettealla morte: però sento pietà di voi, e piango. Il presente non mi par bello;ilfuturomiscuora assai, e vi dico che il mondoanderàinfiamme ed in rovine. Io piango chenienteèstabile,tutto si rimescola e si confonde: il piacere diventa dispiacere; la scienza, ignoranza; la grandezza, piccolezza; tuttovasossopra,egira, e cangia nel giuoco del secolo18. Democrito concorda senz’altrosulfattochelavita sia solo una pietosa commedia, tuttavia egli preferisce riderne che piangerne.Ilmondoèperlui ununiversoinfinitoedeterno, composto di atomi e sorretto da un rigido determinismo, nel quale gli uomini si agitano come burattini e si creanoognisortadiproblemi primadimoriremiseramente. Un testo tardo lo vede in conversazione con Ippocrate: l’uomo è pazzo, gli spiega, poiché «non ha alcuna vergognadidirsifelice»19. Laspiegazionemedica: labilenera Se le religioni si accontentano di diffondere miti che esaltano la rassegnazione, le correnti filosofiche tentano di fornire spiegazioni razionali. Sin dal Vsecoloa.C.essecercanodi comprendere il fenomeno del mal di vivere, che designano con il preciso termine di malinconia. Per i medici si tratta innegabilmente di una disposizione psicologica, come sostiene la teoria degli umori, proveniente a sua volta dalla teoria di Pitagora, elaborata da Empedocle, secondo la quale il corpo umanoècompostodaquattro elementi, corrispondenti a loro volta ai quattro elementi cosmici: sole, terra, aria e mare. L’equilibrio di ogni essere umano dipende dall’equilibrio interno di questi quattro elementi, cui corrispondono i quattro umori: la flemma, fredda e umida; il sangue, caldo e umido; la bile gialla, calda e secca; la bile nera, fredda e secca. Le proporzioni dei quattro umori determinano il temperamento della persona. Il malinconico è colui in cui predomina la bile nera (melaina cholé). Se in eccesso, la bile nera provoca sintomifisiologicicomepelle opaca, calvizie, balbuzie, ma anche sintomi psicologici, in particolare «l’ansia e l’abbattimento costanti», secondo l’aforisma VI, 23 di Ippocrate. Sarà proprio il grande medico greco, intorno al 400 a.C., a fissare nei secoli la teoria degli umori. Egli sostiene, infatti, che la malinconiasia«lacondizione più vicina alla malattia», pur non essendo di per sé una malattìa. Tale temperamento, che favorisce il pessimismo, sarebbe dunque legato a un eccesso di bile nera, che peraltro nessuno ha mai visto.Taleeccessoèdovutoa una disposizione naturale, la cui sede è localizzabile nel cervello,oaunavvenimento: un trauma psicologico, ad esempio, oppure un eccessivoeprolungatocarico di lavoro. «È il cervello a provocare follia o delirio, a ispirarci il timore e la paura, giorno e notte, a causare l’insonnia,afarcicommettere errori, a renderci ansiosi senza motivo, distratti, a portarci ad agire in modo contrario rispetto a quanto di solito faremmo. Tutti questi stati di cui soffriamo provengono da un cervello non sano che diventa anormalmente caldo, freddo, umido o secco». La malinconia è quindi un fenomeno sia fisiologico che psicologico. Il fatto che un eccesso di bile nera provochi una visione pessimistica dell’umanità viene confermato nel colloquiofittiziofraIppocrate e Democrito inscenato nello Pseudo Ippocrate, romanzo epistolaredelIsecolo. Ippocrate associa inoltre lo stato malinconico sia all’autunno che alla vecchiaia. Se questo stato si aggrava, degenera in «tristezza, ansia, abbattimento morale, tendenza al suicidio», oltre che in «avversione per l’alimentazione,disperazione, insonnia, irritabilità, agitazione». Occorre curarlo assumendo rimedi a base di mandragora ed elleboro, ma ancheadottandounamigliore igiene di vita. Il re di Macedonia Perdicca II sarebbe guarito dalla malinconia seguendo la raccomandazione di Ippocrate, che gli aveva consigliato di sposare la donnacheamava. Galeno, l’altro grande nome della medicina greca, insiste maggiormente sull’aspetto psicosomatico della malinconia. Egli si ispira infatti al trattato Della melancolia del medico Rufo d’Efeso (prima metà del II secolo),chedistingueduetipi di malinconia, una proveniente da una «combinazione di umori innata» e l’altra da una «combinazione di umori dovuta a un cattivo regime»20. Secondo Rufo, la riflessione e l’afflizione causano la malinconia21. Le menti più fini sono le più soggette al male di vivere: «Coloro la cui intelligenza è molto sottile e penetrante scivolano facilmente nella malinconia, poiché agiscono con rapidità e sono fervidi di premeditazione e immaginazione»22. Il malinconico si riconosce dai tratti somatici: gonfio, esitante, la pelle scura; ma si tradisce anche per un certo tipo di comportamento, come lo sguardo basso, depresso, misantropo. Egli è triste senza ragione, è soggetto a accessi di gioia immotivati, ed è concupiscente. Agli occhi di Rufo, la causa fìsica di tale umore non è propriamente la bile, ma il sangue ispessito e raffreddato. Galeno modifica di poco questa teoria: le neuropatologie,afferma,sono la conseguenza di uno stato ipocondriaco, dovuto esso stessoallasecrezionediumor nerodapartedelfegato,dello stomaco o dall’intestino; questa bile provoca la formazionediunvaporecupo che sale al cervello e avviluppal’immaginazionein una nebbia offuscante. Egli afferma anche che un’attività di riflessione intellettuale troppo intensa provoca svariate reazioni fisiologiche, poiché «le operazioni e le affezioni dell’anima dipendono dal temperamento delcorpo»23. Galeno, che un tempo esercitòlaprofessionemedica a Roma, testimonia dell’elevato numero di malinconici che la città contava nella seconda metà del II secolo. Egli parla di «adolescentifragiliemagria causa dell’ansia e della depressione»; i suoi pazienti presentavano«unsonnoraro, disturbato, interrotto, palpitazioni, vertigini [...]; sono tristi, ansiosi, diffidenti, pensano di essere perseguitati, posseduti da un demone, odiati dagli dèi». Come Rufo, anche Galeno pensachelamalinconiapossa spiegarsi con una mancanza di attività sessuale: ormai marcio, infatti, il fluido sessuale -maschile o femminile - contamina il cervello. Infine Galeno traccia un identikit del malinconico: magro, capelli scuri, peluria abbondante e nera, pelle scura, vene prominenti, testa inclinata verso il suolo, viso spesso contratto in una smorfia. Il trattamento che propone ricorda quello di Ippocrate: igiene di vita (esercizio fisico, lavaggio delle mani prima dei pasti, attività sessualeregolare)efarmacia base di piante (preparazione di un insieme di pepe bianco, zafferano, coloquintide, mirra, miele, acquasalataevinomele). Da queste descrizioni traspare il fatto che la medicina dell’Antichità sia pervenuta molto presto a una nosologia corretta della depressione, identificando in essa un tipo di temperamento di cui alcuni aspetti sono positivi, in particolare la lucidità intellettuale. Solo i casi eccessivi, quelli che conducono a disturbi del comportamento, sono patologici. Lamalinconia,il temperamentodei grandiuomini Unfamosotestoattribuito ad Aristotele, il Problema XXX,1,affermachiaramente: «Tutti gli uomini che furono eccezionali in filosofia, in politica,inpoesiaonellearti erano [...] manifestamente malinconici»24. Bellerofonte, Aiace e altri personaggi storici come Empedocle, Socrate, Platone e, in varia misura, tutti i grandi uomini, erano malinconici per natura. Questi esseri eccezionali, atipici, «sono condannati ad essere infelici»25, conferma Aristotele all’inizio della sua Metafisica. Questo temperamento «procura al cuore tristezze inesplicabili; da qui le impiccagioni,soprattuttofrai giovani,maavolteanchefra i personaggi in età più avanzata»26. Il Problema XXX, 1, stabilisce una distinzione fondamentale fra i malinconici patologici e i malinconici per natura. Nei primi un’alterazione temporanea e accidentale dell’umore malinconico provoca un eccesso di calore o di freddo, provocando crisi di depressione, fobia, epilessia, furore, abbattimento completo o sovreccitazione. Nei secondi, chepossonoessereinperfetta salute, la sovrabbondanza di bile nera è permanente e naturale. I malinconici per naturahannodotieccezionali: sono tristi, ma non necessariamente depressi; angosciati, ma non nevrotici. Sembra quindi che il pessimistanonsiaunmalato, ma un uomo fuori del comune,lucido,anchesenon indenne dalle malattie malinconiche; sempre sul filo del pensiero sublime, il minimopassofalsorischiadi farlo precipitare negli abissi. L’uomo«normale»,coluiche presenta un basso livello di bile nera, vive senza porsi domande e trova che la vita sia bella, nonostante tutte le sofferenze. Come giustamente fa notare Julia Kristeva, «con Aristotele la malinconia, equilibrata dal genio, è coestensiva all’inquietudine dell’uomo nell’Essere. Abbiamo vistol’annunciodell’angoscia heideggeriana come Stimmung del pensiero. In maniera analoga Schelling vi scopriva “l’essenza dellalibertà umana”, l’indice della“simpatiadell’uomocon la natura”. Quindi il filosofo sarebbe “malinconico per eccessodiumanità”»27. Ilmalinconicoèdotatodi caratterisecondariimportanti, in particolare di forti bisogni sessuali: I malinconici sono per lo più dei lussuriosi, poiché lo slancio d’amore è della stessa natura del soffio d’aria. Ne è un indizio il membro della vergogna, nel vedere come, nella suapiccolezza,sigonfia crescendo rapidamente. Persino prima di essere in grado di emettere lo sperma, i ragazzi ancora giovani traggono un certo piacere quando, vicino alla pubertà e incapaci di trattenersi,sisfreganole parti vergognose. Ebbene, è chiaro come sia il soffio d’aria a passare e uscire dai canali da cui più tardi il fluido verrà emesso. Allo stesso modo, l’emissione di sperma nel commercio sessuale, e il suo getto, provengono evidentemente dalla spintadell’aria28. La natura aerea del loro umore si traduce anche nell’apparenza fisica: «La maggior parte è magra e con le vene prominenti: la causa non è l’abbondanza di sangue,madiaria»29. Cheimalinconiciabbiano personalità fuori dal comune Platone l’aveva già notato, ma a suo parere la causa era sovrannaturale: il malinconico è animato da un «furore» divino, un soffio che gli conferisce una maggiore lucidità. «Se infatti l’essere in preda a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengonodallamania,appunto invirtùdiundonodivino»30, dichiara Socrate nel Fedro. Come sempre, tuttavia,l’interventodeglidèi è ambiguo e pericoloso. La malinconia non è lontana dalla follia e dalla mania, caratteristica della mantica, valeadiredeldonoprofetico, e può portare alla tirannia: «Unuomodiventauntiranno quando, per natura, per abitudine, o per entrambe le ragioni, egli è ebbro, sibarita e malinconico»31, osserverà AuloGellio. Secondo gli astrologi, la cui scienza è all’epoca in piena espansione, l’ambivalenzadeimalinconici può essere spiegata con l’influenza del pianeta Saturno. Saturno è il vecchio dio Cronos, il divoratore di bambini,cheOmeroeEsiodo presentano come solitario, esiliato in un luogo lontano dopo essere stato detronizzato da suo figlio Zeus; mangiatore di carne viva che vagabonda sotto terra, esso è l’essere mostruoso e sanguinario che Goya ha rappresentato forse meglio di chiunque altro. Tuttavia è anche un dio caritatevole, inventore dell’agricoltura e delle tecniche, che regnò nell’età d’orosuun’umanitàallostato di natura. La sua assimilazione al pianeta più distantedalSole,quindiilpiù freddo, sembra risalga all’epoca ellenistica. I saturnini,comelidescrivead esempioVettiusValensnelII secolo, sono generalmente inquieti, pessimisti e misantropi;hannogliocchie i capelli neri, spesso e volentierisonoavarieavolte maleodoranti.Inoltre,acausa della lentezza di rivoluzione del pianeta Saturno, sarebbero portati all’indolenza, se non persino all’inerzia,allapesantezza,da cui il legame con il piombo. Ciò nonostante, a volte essi possegganoledotinecessarie «alla gloria e all’alto rango». Se, nell’insieme, l’influenza di Saturno viene considerata nefasta, gli astrologi trovano rapidamente il modo di conciliare le contraddizioni delle loro previsioni distinguendo fra le diverse fasi di Saturno: il pianeta può anche essere favorevole, significare la felicità, la ricchezza, lo spirito di profezia, la vocazione di medico, di geometra o di filosofo. I neoplatonici sottolineano gli aspetti positividiSaturno.Macrobio e Proclo considerano che i pianeti, in posizione intermedia fra il mondo terrestre e il mondo divino, non possano che avere un’influenza benefica. Saturno corrisponde al pensiero razionale e speculativo;essosimboleggia la contemplazione superiore,ilpensieroispirato, ma produce anche apatia e tristezza. Coloro che soggiacciono all’influenza di Saturno, essenzialmente i malinconici, sonoesserieccezionali,siain positivo che in negativo. Nel periodo del Rinascimento, Marsilio Ficino ricorderà che lamalinconia«èraramenteil segno di un carattere o di un destino ordinario; essa indica piuttosto un uomo che vive separato dagli altri, divino o bestiale, felice o attanagliato dallamiseriapiùestrema»32. Tutte queste speculazioni mostrano come il mal di vivere fosse ampiamente diffuso nel mondo grecoromano. Coloro che i medici definiscono «malinconici» non hanno evidentemente niente a che vedere con gli «infelici»dell’epoca:schiavi, contadini, artigiani, troppo occupati a sopravvivere per permettersi stati d’animo simili.Ilmaldivivererimane un lusso relativo ancora per molto tempo e assume una connotazione positiva agli occhi degli intellettuali, che distinguono la malinconia patologica dal temperamento malinconico. La prima è curabilecondiversirimedi;il secondo è una disposizione naturale che conferisce all’individuo capacità fuori dalcomune. LucrezioeSeneca, testimonidelmaldi vivereromano ApartiredalIsecoloa.C. il mondo romano viene pervaso da un vero e proprio disagio esistenziale. Le questioni religiose, spesso trattate in Grecia, iniziano a minare la grande forza corrosiva dei valori tradizionali, causando la diffusione della noia in una classeurbanariccaeoziosa. Prendiamo l’epicureismo, lafilosofianatadall’angoscia. Epicuro, all’inizio del III secolo a.C., sostiene che l’umanità è sofferenza: «Il mondo intero vive nel dolore; esso è più incline al dolore che a qualsiasi altro sentimento, non c’è bisogno che ogni essere vivente lo dimostri, poiché la sorte stessa dell’essere superiore non contraddice in alcun modo questa verità universale». Se vogliamo sfuggire a questa angoscia, dobbiamo abbandonare le speranze illusorie diffuse dalle religioni e sfruttare la nostra dimora terrestre dosandone sapientemente i piaceri. La morale epicurea, molto esigente, dà vita a due correnti contrapposte: lo spirito di puro godimento da un lato e la disperazione dall’altro, il cui più brillante rappresentante è Lucrezio (98-55a.C.). Lucrezio è un «malinconico» di grande levatura,checorrispondealla definizione del Problema XXX,1,manonèunmaniaco depressivo, contrariamente al ritratto che ne ha fatto il dottor Logre in un libro del 1947, L’Anxiété de Lucrèce. Angosciato, ma non squilibrato, poiché l’angoscia èpiùunsegnodiluciditàche di follia, egli è testimone del mal di vivere che si diffonde a Roma in questo difficile periodo del I secolo a.C. e che i Romani chiamano taedium vitae, la fatica di vivere. In effetti le circostanze sono favorevoli alla sua espressione. Le ripetute guerre civili, le violenze, la corruzione e gli omicidi provocano un distacco dai valori tradizionali,mentrel’afflusso delle ricchezze provenienti dallo sfruttamento delle conquiste incoraggia l’ozio e la dissolutezza. Questo contesto, di cui ci sono familiari molti elementi, fa nascere «un clima di depressione generale»33. «Davanti alla visione apocalittica di un mondo che minacciava di crollare in mezzo alle rovine di Roma e al massacro dei suoi cittadini più eminenti, uno scoramento senza limiti si impadronìdelleanimeedelle menti più illuminate», scrive Yolande Grisé nel suo studio intitolato Le suicide dans la Rome antique. «È così che, delusi e scoraggiati dagli orrori delle prime guerre civili e preoccupati dalla prospettiva di guerre ancora piùterribili,alcunicittadiniin cerca di evasione, di oblio e di riposo senza risveglio amaronéundomanitemibile sprofondaronoinunasortadi noiamorbosaeansiosa»34. Lucrezio fa parte di queste «menti più illuminate». Nato in un’illustre famiglia dalla tradizione consolare, ricco, amico di celebrità come Cicerone, Attico o Catullo, egli rifiuta di entrare nell’arena dei combattimenti politici. Preferendo tenersi in disparte e riflettere sulla condizione umana, egli dedicailsuoDererumnatura a un amico, Memmio, politicocorrotto,ambiziosoe senza scrupoli. In questa superba testimonianza sulla noia e il mal di vivere che colpiscono i Romani agiati, egli spiega come essi cerchino di fuggire; ma aggiunge che «in questo modo si fugge soltanto se stessi, ma non ci si stacca da ciòchesivuolefuggire»35. Se l’uomo prova disgusto per se stesso è perché ignora il senso della propria esistenza e il destino che gli vieneriservatodopolamorte. Come un malato che ignori la vera natura del male: se riuscisse a scoprirla pure tra grandi dolori riuscirebbe a curarsi e a vivere in modo migliore. Questo è un problemadieternoenon solodiore, di un futuro infinito, nel quale qualsiasi mortale trascorrerà tutto il tempo che segue la morte36. Per dare un senso alla propria vita, l’uomo si è inventatodèi,miti,inferi,ma ora trema davanti alle sue creazioni; tutto è ora per lui oggetto d’angoscia: paura della morte, degli dèi, delle punizioni, della sofferenza, della malattia, dei tormenti della coscienza. Eppure Epicuro ha tentato di illuminarlo mostrando quale menzogna fossero gli dèi. Il Dererumnaturavuoleessere un libro di consolazione: spiegando «la natura delle cose», Lucrezio mira a rassicurare i suoi contemporanei.Dimenticatei miti inventati dai sacerdoti, consiglia; gli uomini non sono che effimeri insiemi di atomi che vagano senza scopo in un universo indifferente. Non bisogna aver paura della morte, poiché l’aldilà non esiste; anzi, bisogna accoglierla, la morte. Cosa c’è di più ridicolo,infatti,delcercaredi prolungare di qualche anno unavitainutileeinsensata? Anche se prolungassimo la vita oltreildovuto mairidurremmoquel tempo che appartiene allamorte: non si può restar morti per un tempo più breve. Potresti allungare la vitaanchedimoltisecoli ma la morte, comunque, resterà sempreeterna: nésaràmenolungaancheseoggisoltanto chiudessimo gli occhi-dellamortediun altro che sia già morto in passato, anche in tempi remoti37. Secondo una tradizione consolidata, Lucrezio si sarebbe suicidato all’età di quarantatre anni. Tuttavia le sue idee non possono spiegarsi unicamente riferendosi all’epoca tormentata. I periodi di crisi nonsonocheuncatalizzatore che favorisce la presa di coscienza dell’assurdità del mondo, il quale non è meno assurdo nei periodi di equilibrio o di apogeo delle civiltà,mailsistemadivalori esistente, anche se effimero, fornisce un’illusione di spiegazione che soddisfa i più. Quando il decoro ufficiale dei valori civici, politici e religiosi vacilla, i più lucidi si ritrovano di fronte al nulla dell’esistenza: «Accogli questo dolore, poiché ti insegnerà molto», consigliaOvidio. La confisca del potere politicodapartedeidittatorie degliimperatoriaccentueràle frustrazioni. Provando un disagio esistenziale, alcuni si rivolgono alla riflessione filosofica pessimistica, mentre altri cercano di ingannarelanoiaconviaggio svariati altri piaceri. L’opera di Seneca ne è testimone: nella Roma del I secolo,iltaedium vitae ha la megliosuipatrizialpuntoda diventare un vero e proprio problema sociale. Lo sviluppo dello stoicismo, a partiredalleguerreciviliedal principato, è in se stesso un segno di pessimismo che si diffonde nelle élite colte. Fissare come ideale di condottal’adesioneall’ordine del mondo, mentre proprio quest’ordinesembramancare, non significa forse riconoscere l’inutilità di qualsiasi sforzo volto a cambiare le cose? Seneca afferma: Nongiungoancoraa dire che è più fortunato chicesseràbenprestodi vivere. [...] Di questo tempo quanta parte è occupata dalle lacrime, dalle angosce? Quanta dalla morte prima che sopraggiunga pur desiderata, quanta dalla malattia, dalla paura? E gli anni dell’inesperienza e delle sterili attività quanta ne consumano? Metà di tutto questo trascorre nel sonno. Aggiungi le fatiche,ilutti,ipericoli, e capirai che anche in un’esistenzalunghissima è veramente poca la partechesivive.[...]La vitanonènéunbenené un male, è un luogo doveesistonoilbeneeil male38. Non lamentiamoci però della brevità di questa vita: «Nonèpocoiltempoanostra disposizione, è molto invece quellocheperdiamo»39. Per il suo amico Serenus chesilamentadinonriuscire a stare fermo un minuto e di non sentirsi soddisfatto in alcunluogo,Senecascriveun trattato, La serenità dello spirito, in cui osserva che questa fatica di vivere che eglichiamafaticadisestessi, èdivenutamoltocomune.La descrizione che ne fa ricorda quelladiLucrezio: Sono tutti nella stessa situazione, sia quelli afflitti dall’incostanza, dalla noia e dal cambiare continuamenteidea-per essi è sempre preferibile ciò che hanno lasciato sia quelli che marciscono nell’indolenza. [...] E tuttociòrisultapiùgrave quando, disgustati da qualche cocente insuccesso, ci si rifugia nella vita privata, nella solitudine degli studi cose insopportabili per un animo tutto preso dalla vita politica, amante dell’azione e irrequietopernatura,che in se stesso, si capisce, trova poche soddisfazioni,[...]Diqui eccolabennotanoia,la scontentezza di sé, l’irrequietezza di uno spirito che non trova pace da nessuna parte, e l’amara e penosa sopportazione dell’inattività, soprattutto quando rincresce ammetterne le cause e la vergogna obbliga a tenersi dentro la pena, e la ambizioni, come imprigionate in uno spazio ristretto e senza sbocco, si soffocano da sole. Di qui la tristezza, l’abbattimentoelemille perplessità dell’animo indeciso, tenuto in ansia dalle speranze che si sono appena concepite e reso triste da quelle che sonostatedeluse.Diqui lo stato d’animo di chi odia la tranquillità del suoritiroesilamentadi non avere niente da fare [...]. Si passa da un viaggio all’altro e di spettacolo in spettacolo. Come dice Lucrezio: «Così ciascuno cerca sempre di sfuggire a se stesso». Ma con quale vantaggio, se non ci riesce?Stasempredietro e addosso a se stesso, come un compagno estremamente fastidioso [...].Certunidaciòsono stati spinti al suicidio perché, pur cambiando continuamente, ricadevano negli stessi propositi e non avevano lasciatospazioanessuna novità: cominciò a disgustarli la vita e persino il mondo, ed ecco affacciarsi la tipica domanda, frutto del piacere deluso: «Sempre le stesse cose! E fino a quando?»40. Vana agitazione e abbattimento,disgustodisée del mondo: i sintomi sono proprio quelli della depressione. Per combatterla, SenecaconsigliaaSerenusdi trovareun’occupazionechelo motivi, anche se per farlo bisognerebbe almeno credere che valga la pena di devolvere le proprie energie all’umanità. Ora, il taedium vitaenonèsoloscontentezza di sé, ma anche disgusto per gli altri: «Non basta allontanarelecausepersonali di tristezza: a volte siamo colti dalla misantropia [...]. Allora l’anima si perde nelle tenebre e una cupa notte la circonda, come se si trattasse divirtùchenonleèpermesso di sperare che gli altri abbiano, né vantaggioso di avereinsestessa»41. Noia, disgusto, nausea: i testi di Seneca illustrano il carattere atemporale del taedium vitae. Continui a cambiare residenza, scrive a Lucilio, a causa della «tristezza e il tormento del tuocuore»;credicheiviaggi serviranno a distrarti, ma in realtà «ti chiedi perché pur vagabondandodaunluogoad un altro non ti sentimeglio»42. La vita è noiosa, ma paradossalmente si ha paura di perderla. Temiamo la vecchiaia, poiché «chi è condotto alla morte dalla vecchiezza, non ha alcun motivo di speranza». «Non volle vivere, chi non vuole morire.Infattilavitacièstata concessa colla limitazione dellamorte»43.Ilrifiutodella morte non è forse un rifiuto della vita, una vita che ci è stata imposta e fatta passare come un privilegio e la cui sola certezza è che conduce alla morte? La paura della morte è un elemento fondamentale di questo stato d’animo. Tale intuizione conduceSenecaadanalizzare un’altracomponentedelmale di vivere: la presa di coscienza del tempo che passa. «Prima il tempo non miparevacosìveloce:orami sembra che esso passi con straordinaria rapidità, sia perché sento avvicinarsi la fine, sia perché comincio a porre attenzione e a fare il calcolo degli anni perduti», scrive nella Lettera 49. Questanuovapreoccupazione diventerà un tema classico nelle espressioni del mal di vivere. Iltaediumvitaecome ragionelegittimadi suicidio Seneca osserva che il disgusto per la vita è all’originedinumerosisuicidi in tutte le categorie sociali: «Non pensare che solo i grandi uomini abbiano avuto la forza di spezzare le catene dellaschiavitùumana;Catone strappò con le sue mani l’animachenonerariuscitoa gittar fuori con la spada; non credere che possa farlo lui solo: uomini di infima condizione sociale si sono messi in salvo con straordinario impeto e, non potendo morire a loro agio e nemmeno scegliere il mezzo che volevano per darsi la morte, hanno afferrato quello checapitavasottomanoecon la loro violenza hanno tramutato in armi oggetti di perséinnocui»44. Tutti i mezzi sono buoni, compreso quello che consiste nel soffocarsi con la spugna per asciugare le parti intime ad uso collettivo nei bagni pubblici, come fece un gladiatore germanico: «Ognunogiudichicomecrede l’azione di quest’uomo indomito, ma sia chiaro: alla schiavitù più pulita è preferibile la morte più sozza»45. Seneca cita anche altri esempi che approva. Se la vita diventa troppo dolorosa, l’uomo ha almeno la libertà di lasciarla: «Ti piace vivere? Vivi; se no, puoi tornare da dove sei venuto»46, proclama Seneca, pur deplorando il fatto che molti si tolgano la vita un po’ troppo alla leggera: «L’uomo coraggioso e saggio non deve fuggire dallavita,mauscirne.Sieviti anzitutto quel sentimento che si è impadronito di molti: il desiderioanelodimorire»47. Nel mondo greco-romano la morte volontaria è un’annosa questione. Aristotele enumera le argomentazioni contro il suicidio, a suo parere atto di viltà di fronte alle proprie responsabilità, un’ingiustizia perpetrata contro se stessi; le vicissitudini dell’esistenza vanno affrontate a qualunque costo, poiché ne va del buon funzionamento della città. Anche i pitagorici si oppongono al suicidio, ma per ragioni completamente diverse: l’anima deve espiare finoallafinepoichéècaduta in un corpo in seguito a una sozzura originaria; l’associazione dell’anima e del corpo è basata su rapporti numerici la cui armonia verrebbe spezzata dal suicidio. Secondo Eraclito, questa bella teoria non avrebbe comunque impedito a Pitagora di lasciarsi morire difamepertediodivivere. Platone è molto più esitante in proposito. Nelle Leggi e gli dichiara che bisogna rifiutare la sepoltura pubblica di coloro che si suicidano, salvo in caso di malattia molto dolorosa e incurabile, di vita troppo miserabile e di condanna (Socrate). Nel Fedone il suo imbarazzo è palese: pur affermando che il suicidio non è forse auspicabile nella città, Socrate ritiene che la morte sia talmente desiderabile che il filosofo non possa che aspirarvi, la sua «condanna» del suicidio manca pertanto di convinzione: «In base a questo, dunque, non è precetto irragionevole che nessuno debba uccidere se stesso prima che Dio non gli mandi un perentorio comando, come ha fatto ora con noi»48. Catone avrebbe letto due volte il Fedone prima di suicidarsi, fatto che può essere interpretato sia come una mancanza di chiarezza tale da richiedere una rilettura, sia come mancanza di ammirazione. I neoplatonici della tarda Antichità saranno invece feroci avversari della morte volontaria:Plotino,Porfirioe Microbio dichiarano che, poiché il fine della vita è purificare l’anima, l’unione con il corpo non deve essere spezzataviolentementeprima della scadenza fissata dagli dèi. I detrattori del suicidio subordinano l’individuo a un ordine sovrannaturale e agli interessi della collettività. I sostenitori del libero suicidio pongono l’individuo come valore supremo, essere autonomo e libero, dotato del potere di decidere da solo della propria vita e della propria morte. All’interno di questo schema generale, ogni tipo di sensibilità accentua tale o talaltro aspetto. I cinici professano un distacco completo nei confronti della vita,sequestanonpuòessere condotta secondo ragione: Antistene ritiene che coloro che non siano dotati di un’intelligenza sufficiente farebbero meglio a impiccarsi. Il suo discepolo Diogene spinge all’estremo questo principio: per vivere bene occorre una ragione retta, oppure una corda. Gli Epicurei ritengono che nel caso la vita diventi insopportabile, sia saggio riflettere e andarsene in silenzio e senza precipitazione, «come se si uscisse da una stanza pienadifumo». Anche gli stoici suggeriscono un suicidio ponderato quando la ragione ci mostra che si tratta della soluzione più degna per conformarci all’ordine delle cose,oquandononpossiamo più seguire la linea di condotta che ci eravamo prefissati. La vita e la morte sonoindifferenti,poichétutto è travolto dall’universo panteista. «Il saggio può a ragionedarelavitaperlasua patriaeisuoiamici,eancora uccidersi se soffre di dolori atroci,sehaperdutounartoo se ha una malattia incurabile». Così Diogene Laerzio riassume il pensiero stoico sulla morte volontaria, illustrato dal suicida Zenone all’età di novantotto anni: «Uscendo dalla sua scuola cadde e si ruppe un dito ma, battendo la mano per terra disse, rivolgendosi a Niobe: “Arrivo. Perché mi chiami?”, dopodiché si strangolò e morì». Che il suicidio sia un diritto fondamentale della persona umanaloscriveancheSeneca a Lucilio: alcuni sostengono che occorra attendere il termine che la natura ha prescritto. Ma chi sostiene tale pensiero non si rende contodiprecludersilalibertà. Questidibattitiriguardano le élite colte, mentre nelle classi popolari il suicidio è circondato da un timore superstizioso. Diverse testimonianze indicano come ad Atene, nel IV secolo a.C., il corpo dei morti suicidi subisse un trattamento particolare. Secondo Aristotele l’uomo che si dà la morte viene colpito dal disonore, poiché commette un’ingiustizia contro la città49. Egli utilizza qui il termine atimia, il cui significato è abitualmente riconducibile alla perdita di diritti civici. Alla stessa epoca, il retore Eschine proclama: «In caso di suicidio, seppelliamo lontano dal corpo la mano che causò la morte»50. Plutarco, nella sua biografia di Temistocle, evoca un luogo nel distretto ateniese di Melite, dove «gli addetti alle esecuzionigettanoicorpidei condannatiamorteeportano le vesti e i cappi degli impiccati e dei giustiziati»51. Nell’isola egea di Kos una legge del ΙΠ secolo a.C. dispone che una maledizione colpiscalevestieicappiche sianoservitiaunsuicidio52. La stessa ripugnanza esisteva certamente nel mondo ebraico. Flavio Giuseppe scrive: «Presso di noi è stabilito che i suicidi non possono aver sepoltura primadelcalardelsole,eciò nonostante si ritenga un dovere quello di seppellire anche i nemici»53. Il Semahot, uno dei libri che commentano la Legge che cita i pareri di molteplici rabbini, conclude che in caso disuicidio«laregolagenerale è che il pubblico deve partecipare a tutto quanto rappresenti un segno di rispetto per i viventi; non deve partecipare a quanto rappresenti un segno di rispetto per la morte»54. Il Talmud contiene invece tradizioni diverse e contraddittorie. Nelmondoromanoalcuni libri liturgici ordinano che il corpo di colui che si è impiccato venga «gettato senzasepoltura».Plinionarra che Tarquinio faceva crocifiggere i cadaveri dei suicidi. La maledizione si estende alle vigne vicine al luogo dell’impiccagione: il vinocheverràprodottodatali vigneti non dovrà essere offerto agli dèi55. Il collegio funerario di Sarsina, in Umbria,rifiutaisuoiservizia chi si uccide in maniera degradante, mentre quello di Lavinio è più draconiano: «Chiunque, per una qualunque ragione, abbia attentatoallapropriavita,non ha diritto alla ratio funebris»56. L’immagine del suicidio nell’Antichitàsembradunque abbastanzaconfusa.Ilsuicida è inquietante, soprattutto l’impiccato, poiché si teme che, con il suo atto, disturbi gli altri morti e inquini i luoghi. Ma le pratiche discriminatorie nei confronti del suo cadavere non sono generalizzate.Lafilosofiaela morale comune non condannano sistematicamente il fatto di uccidersi, la cui responsabilità è a volte attribuita alle influenze astrologiche: quando Marte è opposto al Sole o alla Luna, scrive Tolomeo, questa costellazione «causa morte durantelottecivilioinguerra a opera di nemici, o per suicidio»57. Vettius Valens ritiene persino che gli astri determinino le modalità di suicidio. Neanche il mondo romanocondannadeltuttola mortevolontaria,chehafatto la gloria dei grandi uomini che incarnano i valori supremi: Catone, Bruto, Cassio, Caio Gracco, Antonio,Varo,Seneca,senza parlare della giovane Lucrezia58. Nessuna legislazione rifiuta sistematicamente il suicidio. Le leggi romane, elaborate nel corso dei secoli e così come le troviamo compilate nei codici della tarda Antichità, il Corpus jurise il Codex di Teodosio, sono molto esplicite: la preoccupazione del legislatoreèdievitarecheun individuosfuggaallaconfisca dei beni prevenendo la sua condanna con un testamento seguito da suicidio, poiché talibenipasserebbero ai suoi eredi, a detrimento del fisco. Tutte le leggi riconoscono la legittimità del suicidio provocato dal dolore, dalla follia, dalla vergogna, dall’ostentazione (iactatio), dal disgusto e dalla fatica di vivere (taedium vitae). Un rescritto di Antonino il Pio risalente al II secolo prevede quanto segue: «Se viene provatochetuofratellootuo padre, non accusato di alcun crimine, si è impiccato per sfuggire a un qualche dolore fisicooaldisgustoperlavita, oppure per rabbia o follia o altrecircostanze,alloraisuoi beni vanno ai suoi eredi, che abbia redatto o meno un testamento»59.Lostoicismoè divenuto legge, consacrando la legittimità del suicidio a causa della fatica di vivere, riconoscenza indiretta della banalità del taedium vitae nellasocietàromana. Dueelementiconfermano che per i Romani il diritto al suicidio per taedium vitae è da considerare un diritto fondamentale. Da un lato, nell’esercito, il tentativo di suicidio viene assimilato alladiserzioneepunitoconla morte, ma è giudicato scusabile e punito con una semplice destituzione infamante se causato da «un dolore intollerabile, o da una malattia,odaqualcheluttoo per un’altra causa»60. Tale altra causa, precisa Adriano, puòessereiltaediumvitae,il furor o il pudor. Solo gli schiavi non possono godere di questo diritto. Il suicidio causato dalla fatica di vivere èilsegnodell’uomolibero. Dall’altro lato, a partire dal III secolo, mentre il potereimperialeevolveverso il dispotismo, la legislazione sul suicidio si inasprisce, ma la fatica di vivere resta l’ultimo motivo legittimo per congedarsi dall’esistenza. Un testo del giurista Marzio (inizio VI secolo) condanna senza ambiguità il suicidio «senzaragione»(sinecausa): colui che tenta di uccidersi «deve essere punito, a meno che non sia stato condotto a taleattodallafaticadivivere o dall’impazienza causata da qualche dolore. È assolutamente giusto che debba essere punito se ha attentato a se stesso senza ragione»61. Neifatti,poi,èdavveroil mal di vivere che porta a togliersi la vita? Difficile rispondereaquestadomanda, poiché andiamo a scontrarci conlamancanzadistatistiche sulle cause della mortalità nell’Antichità, oltre che con l’impossibilità di determinare le ragioni esatte dei suicidi e soprattuttodeicasidifaticadi vivere. Il suicida, infatti, non è forse sempre colpito dalla fatica di vivere? Pur tenendo ben presenti questi limiti, tentiamo di stilare un bilancio. Nella sua notevole opera From Autothanasia to Suicide. Selfkilling in Classical Antiquity62, Anton Van Hooff ha studiato circa 960 casi di suicidio nel mondo grecoromano e ha dimostrato come tutte le classi ne fossero coinvolte, dagli schiavi ai patrizi più ricchi. Secondo le parole di Seneca, tutti i mezzi sono buoni per mettere fine ai propri giorni: il 4% si uccide indirettamenteinseguitoaun attodiprovocazione;il6%si uccide con il fuoco, l’8% smettendo di alimentarsi (inedia),il10%conilveleno (dalla cicuta all’oppio), il 16% gettandosi nel vuoto, il 18% per impiccagione (proporzione certamente molto più elevata fra il popolino e gli schiavi), il 40% si uccide con il pugnale o con la spada, strumento considerato nobile63. Secondo lo stesso studio,su923casiincuisono indicati i motivi del suicidio, più della metà (54%) sono dovuti alla vergogna o alla disperazione nel cercare scampo (pudor e desperatio salutis)·, il dolor rappresenta solo il 13 % dei casi, l'impatientia il 5 % e il taedium vitae il 2 %. Se aggiungiamo queste ultime tre cause, possiamo considerare che il male di vivere sia all’origine di un solosuicidiosucinque. I giovani e gli anziani sono i più colpiti. Per quanto riguarda le donne, Ippocrate spiega le loro tendenze suicide con un cattivo flusso sanguigno: accumulandosi, il sangue delle mestruazioni può esercitare una pressione sugli organi vitali e quindi diffondere nel corpo un umore cupo. L’unica soluzione è il matrimonio. «Nei casi in cui le giovani soffrano di tali affezioni, consiglio loro di vivere con degli uomini il prima possibile»64. Altri autori avanzanounaspiegazionepiù verosimile: le giovani sono più soggette alla malinconia suicida poiché vengono confinate in casa e vengono loro vietati i divertimenti: «Non ci è permesso vedere nemmeno la luce del giorno, siamo tenute nascoste nelle nostre stanze, in preda ai nostri pensieri»65. Quanto ai giovani,Aristoteleritieneche si impicchino con maggior frequenza rispetto agli adulti poiché non hanno ancora acquisito il «calore vitale» che è la fonte della forza di carattere,tuttaviasisuicidano raramente a causa del taedium vitae: secondo AntonVanHooff,infatti,tale causa riguarderebbe solo l’1%diessi66. La proporzione è invece molto più elevata fra gli anziani: l'11 % si suicida per taedium vitae, l'11 % per dolor,il23%perimpatientia. Quasilametàdeisuicidisono dovutiquindialmaldivivere a livello generale. Non stupiamocene:gliAntichinon cercavanoinfattidipresentare la vecchiaia sotto una buona luce, solo Cicerone tentò di riabilitarla nel suo De senectute. Secondo Diogene Laerzio la maggior parte dei filosofi greci, raggiunta una certa età, avrebbe messo fine ai propri giorni: Speusippo a sessantotto anni, Epicureo a settantuno, Zenone lo stoico, Cleante e Anassagora a settantadue, Diogene a ottanta,Pitagoraaottantadue. Questi esempi prestigiosi diffondono l’idea che il suicidio sia la realizzazione della vita da filosofo. Luciano, per una volta finalmente serio, raccontainfattilafinedelsuo maestro Demonax all’età di centoanni:«Quandocapìche non poteva più occuparsi di se stesso, citò a coloro che erano con lui i versi che recitano gli araldi dei giochi: “I giochi sono terminati, i premi sono stati assegnati; amici, è tempo di andare”. Quindi, astenendosi dal mangiare, lasciò la vita con lo stesso buon umore che lo aveva sempre contraddistinto»67. Gli epigrammi ellenistici riportano numerosi suicidi di persone anziane. Nel mondo latino alcune iscrizioni funerarieindicanoavolteche il defunto, anziano, si era ucciso per taedium vitae . Una delle più esplicite è quella di un uomo di lettere, Marco Pomponio Bassulo, intorno al 120 d.C., che spiega sulla sua tomba: «Affranto dalle angosce di uno spirito oppresso e dai moltidoloridelcorpo,chemi fecero provare disgusto per entrambi, mi sono dato la morte che desideravo»68. Questo esempio è conforme alla concezione stoica enunciata da Seneca nellasuaLettera58aLucilio: «Non attaccherò me stesso spinto di mia mano, spinto dal dolore: morire in questo modo significa essere sconfitti. Se tuttavia mi sarò reso conto che dovrò sopportarlo per sempre, me ne andrò non a causa della sofferenza di per se stessa, ma perché essa mi impedirà tutto ciò che rappresenta sostanza e ragione di vita. Debole e pavido è colui che muoreperildolore,mastolto colui che vive allo scopo di soffrire»69. L’insegnamento di questa lezione verrà raccolto da molti anziani patriziromanidellafinedelI secolo e dell’inizio del II. PlinioilGiovaneriportanelle sue lettere diversi esempi di vecchi malati che hanno decisodilasciaredegnamente questa vita. Uno dei suoi amici,dell’etàdisessantasette anni, paralizzato dalla gotta, sofferente «i dolori più incredibili e più immeritati», si è appena dato la morte, gesto che, nota Plinio, «solleva la mia ammirazione di fronte alla grandezza della sua anima». In un’altra lettera egli evoca Tito Aristo, che «soppesò deliberatamenteleragioniper vivere e per morire», dopodiché si diede la morte. Egli cita anche il caso di Arria, una Romana che, per incoraggiare suo marito vecchioemalatoasuicidarsi, gli diede l’esempio uccidendosi davanti a lui. O ancora la commovente storia di una vecchia coppia di umili cittadini: poiché l’uomo era affetto da un’ulcera incurabile, la consorte «gli consigliò di mettere fine ai suoi giorni e, accompagnandolo, gli mostrò la via con il suo esempio trasformandosi nel mezzo della sua morte poiché, attaccandosi a suo marito, si gettò nel lago». Strabone ed Eliano non esitano a presentare il suicidio degli anziani come un sacrificio benefico per la comunità evocando l’usanza di Ceos, un’isola in cui i più anziani si riuniscono periodicamente per bere «la cicuta, con una ghirlanda sullatesta,comprendendoche sono diventati inutili per la patria quando le loro facoltà mentali iniziano a venire meno». Il numero degli uomini che si uccide per taedium vitae e per impatientia è tre volte superiore rispetto alle donne,tuttaviasonorariicasi di suicidio conosciuti negli adulti di mezza età. Tacito menziona Ludo Arrunzio, implicato in un processo per complicità con Albucilla, avversario di Tiberio: egli avrebbe potuto essere risparmiato, ma dichiarò che «era vissuto abbastanza», e «si aperse le vene»70. Ceciilo Cornuto si uccide nelle stesse circostanze71. Svetonio, dal cantosuo,citaCneioLentulo, spinto al fastidio per la vita (ad fastidium vitae) da Tiberio. In tutti questi casi celebri riportati dagli storici romani, il taedium vitae è determinato da circostanze particolari: accuse ingiuste, malattie dolorose, lutti. Ma Luciano, consapevole più di chiunque altro dell’assurdità fondamentale del mondo, per il quale la vita è una commedia grottesca in cui il caso distribuisce i ruoli creando così gli schiavi e i padroni, i malati e i sani, i belli e i brutti, non è tentato dall’ideadiporrefineaisuoi giorni e raccomanda una saggezza disincantata: «Passare attraverso la maggior parte degli eventi ritienilo senza prendere nulla sul serio». Il pessimismo integrale può sfociare nella risata.Infindeiconti,osserva Yolande Grisé, «il suicidio per taedium vitae comedescrittoeanalizzatoda LucrezioeSenecaerauncaso più eccezionale di quanto si potesse credere: nella maggior parte dei casi citati dagli Antichi il suicidio mirava ad uscire da una situazione particolare che paralizzava la voglia e il desiderio di vivere più che a riferirsialdisgustoperlavita stessa»72. Lamalinconiacome tarapsicologicae morale Fino al I secolo a.C. la malinconia, al di fuori delle sue forme patologiche, ha mantenuto l’aura prestigiosa conferitale dal Problema XXX,1 aristotelico: essa è la prerogativa dei grandi uomini. Per gli stoici è certo unamalattia,maunamalattia considerata «come un privilegio negativo del saggio»73. Alcuni la rendono persino una normale disposizione dell’uomo: «Sono un uomo, ecco una buona ragione per sentirmi triste», constatava Menandro. Nel I secolo a.C. il medico Asclepiade di Bitinta, trasferitosi a Roma, vede già negli stati depressivi un inizio di disordine mentale: il furore (phrenesis) e la tristezza (tristizia) sono forme croniche di irregolarità dell’immaginazione che provocanotristezzaofelicità. Le sue cure sono anzitutto di ordine psicologico: viaggi, musica, conversazioni gradevoli, ma anche bagni, massaggi, esercizio fisicomoderato:sitrattadella stessa terapia suggerita nel I secolo d.C. da Menodoto di Nicomedia, il quale raccomanda anche l’assunzione di elleboro, che ha fama di sviluppare l’intelligenza. Nel II secolo l’immagine della malinconia è già decisamente appannata. Aulo Gellio,nellesueNottiattiche, si prende gioco di ciò che considera come un’affettazione alla moda, tipica degli intellettuali: «Va detto però che questo stato depressivo chiamato “atrabile” non colpisce i soggetti meschini o ignobili; è una malattia a suo modo eroica, che dà il coraggio di dire la verità, senza riguardo né delle circostanze, né della misura»74. Il medico Areteo di Cappadocia fa una descrizione della malinconia che assomiglia molto a ciò che noi definiamo depressione ansiosa: «Il malinconicosiisola;hapaura di essere perseguitato e imprigionato; è tormentato dalle superstizioni; è terrorizzato; crede che i suoi fantasmi siano reali; lamenta mali immaginari; maledice la vita e desidera la morte. Egli si sveglia bruscamente e si sente molto affaticato. In alcuni casi, la depressione sembra essere quasi una mania:ipazientisonosempre ossessionati dalla stessa idea epossonoesserealcontempo depressiepienidienergia»75. La malinconia è la malattia degli anziani, dei grassi, dei deboli, dei tristi, dei solitari,aggiungeAreteo,che pensa di poter aiutare i pazienti descrivendo il loro male e consigliando loro il consumo di more e di pere, oltrecheunpo’disesso.Alla stessaepocaunaltromedico, Archigene da Apamea, vede nella malinconia anche una specie di malattia maniacale, un inizio di follia, con paure irragionevoli, visioni, tendenza al suicidio, alla misantropia, all’avarizia, alla golosità; il malinconico è magro; ha la pelle scura e l’alito pesante. Nel III secolo un trattato erroneamente attribuito a Sorano d’Efeso definisce il malinconico «furbo, avido, depresso, misantropo e timido»76. Siamoinsensibilmentepassati dallamedicinaallamorale;il mal di vivere è divenuto una tara sociale oltre che una grave deficienza psicofisiologica. Tutto è prontoperlademonizzazione della malinconia e la sua assimilazionealpeccato. 1 A. ERMAN, Gespräch einesLebensmüdenmitseiner Seele:ausdemPapyrus3024 der Königlichen Museen, in Abhandlungen der königlichen preussischen Akademie der Wissenschaften, Verlag der Konigl.,Berlino1896. 2A.P.LECA,La medicina egizia al tempo dei faraoni, Ciba-GeigyEdizioni,1986,p. 320. 3 E. OTTO e W. HELCK (a cura di), Lexikon der Ägyptologie, Harrassowitz, Wiesbaden 1984,vol. 5, col. 823. 4Ègiàinquest’otticache, nel 1984, Jackie Pigeaud sosteneva la causa di unastoriadellamalinconia0. PIGEAUD,Prolégomènesàune histoire de la mélancolie, in «Histoire, Economie et Société», 1984 n. 4, pp. 501510).Eglihaanchegettatole basi per uno studio della malinconia nell’antichità (J. PIGEAUD,Poliesetcuresde la folte chez les médecins de l’antiquitégréco-romaine.La manie, Les Belles Lettres, Parigi 1987, e J.PIGEAUD,La maladie de l'ame. Étude sur la relation de farne et du corps dans la tradition médico-philosophique antique, Les Belles Lettres, Parigi 1989). Nella stessaotticasivedaancheY. HÉRSANT, Mélancolies, «Bulletindufran°ais.Journal delaComédiefrançaise»,Sur le rire et la folte, Rivages, Parigi1991. 5J.B.PRITCHARD(acura di), Ancient Near Eastern Texts Relating to the Old Testament, Princeton University Press, Princeton 1950,p.438. 6Ivi,p.439. 7 Abbiamo studiato questi aspetti in G. MlNOIS, Histoire des enfers, Fayard, Parigi 1991; trad, it., Piccola storia dell’inferno,Il mulino, Bologna 1995, e Id., Les origines du mal, Fayard, Parigi2002. 8A.D.SERTILLANGES, Il problema del male, Morcelliana,Brescia1951,p. 67. 9 ERODOTO, Storie, V, 4, Bur,Milano2001,p.13. 10 A.D. SERTILLANGES, Il problema del male, cit., pp. 135-136. 11ESIODO,Le opere e i giorni, 101-104, Garzanti, Milano1985,p.9. 12 TEOGNIDE, Elegie, BibliotecaUniversaleRizzoli, Milano 1989, II, 425-426, p. 143. 13 OMERO, Iliade, XVII, 562-565. 14J.KRISTEVA,Soleil noir; depression et mélancolie,Gallimard, Parigi 1987, p. 17; trad, it., Sole nero. Depressione e malinconia, Feltrinelli, Milano1989. 15 SOFOCLE, Edipo a Colono, in Tutte le tragedie, Newton & Compton, Roma1991,p.336. 16 EURIPIDE, Cresfonte, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano 1974,5,116-120, pp. 15-16. 17ERODOTO,Storie, dt., 1,31,pp.109-110. 18 LUCIANO DI SAMOSATA,Unavendita di vite all'incanto, Giusti, Livorno1924. 19 Pseudo Ippocrate, IV, XVII,25. 20 RUFO D’EFESO, OEuvres, a cura di Ch. Daremberg e Ch.-E. Ruelle, Parigi1879p.357,12. 21Ivi,p.455,31. 22Ivi,p.457,18. 23 Cf. J.-Fr. GAUTIER, L'Ame et les passions, Parigi 1995, p. 91: «La sottomissione dell’anima ai mali del corpo che si manifestano durante le malinconie, le frenesie e le manie». 24 Problema XXX, 1, 953. L’autore ha usato la traduzione dal francese apparsa in R. KLIBANSKY, E. PANOFSKY E F. SAXL, Saturne et la mélancolie: études historiquesetphilosophiques: nature, religion, médecine et art,Gallimard,Parigi1989, . 52; trad. it. Saturno e la melanconia: studi di storia della filosofia naturale, religione, arte, Einaudi, Torino1983. 25 ARISTOTELE, Metafisica,I,2. 26ID„ProblemaXXX,1, 955a,3. 27 J. KRISTEVA, Sole nero,cit. 28 ARISTOTELE, Metafisica,cit.,1,954a. 29Ibidem. 30 PLATONE,Tutte le opere, Newton & Compton, Roma 1997; Fedro, 244a, p. 455. 31 PLATONE, La Repubblica,LibroVIII. 32MARSILIOFICINO, De vita triplici, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1991 33 E. COURBAUD, Horace, sa vie, sa pensée à l’époque des Épitres, Hachette,Parigi1914,p.139. 34 Y. GRISÉ,Le suicide dans la Rome antique, Les BellesLettres,Parigi1983,p. 70. 35 LUCREZIO, De rerum natura, Libro ΙΠ, Newton & Compton, Roma 2000; 10681069,p.191. 36 LUCREZIO, De rerum natura, cit., 10701074,pp.192-193. 37 Ivi, 1087-1094, p. 193. 38 SENECA, Lettere morali a Lucilio, vol. II, Mondadori, Milano 1995; Lettera99,10-12,p.803. 39SENECA,Labrevità dellavita,inLabrevitàdella vita,Laserenitàdellospirito, Gribaudo Editore, Cavallermaggiore 1989,1, 3, p.81. 40 SENECA, La serenità dello spirito, cit., II, 6-15,pp.17-21. 41Ibidem. 42 SENECA, Lettere a Lucilio, UTET, Torino 1969; Libro III, Lettera 28,1,2, p.179. 43ID.,Lettera30,10,p. 191. 44 ID., LIBRO VIII, Lettera70. 45 SENECA, Lettere a Lucilio,cit. 46Ibidem. 47ID.,Lettere morali a Lucilio,cit.,vol. I, Libro III, Lettera24,p.133. 48 PLATONE, Fedone, Editrice La Scuola, Brescia 1984,VI,62c. 49 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Bur, Milano 1986,vol.I,V,3. 50 ESCHINE, Contro Ctesifonte, Mondadori, Milano1995,§245,pag.131. 51 PLUTARCO, Vite, UTET,Torino1992,vol.I,p. 413. 52F.SOKOLOWSKI(a cura di), Lois sacrées des cités grecques, De Boccard, Parigi1969,p.267. 53 FLAVIO GIUSEPPE, La guerra giudaica, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1982, vol.I,HI,376-377. 54 The Tractate «Mourning» (Semahot). Regulations Relating to Death, Burial and Mourning, Yale University Press, Londra1966. 55 A J.L. VAN HOOFF, From Autothanasia to Suicide: Self-killing in Classical Antiquity, Routledge,Londra-NewYork 1990,pp.164-165. 56Ivi,p.166. 57 TOLOMEO, Le previsioni astrologiche (Tetrahiblos), IV, 9, Fondazione Lorenzo Valla, Milano1985,p.339. 58G.MiNOIS,Histoire du suiäde, Fayard, Parigi 1995, pp. 61-74 e M. G R I F F I N ,Philosophy, Cato, and Roman Suicide, «Greece andRome»,33,1986. 59CodexJuris,libro9, titolo50,§1. 60Digest,48,19,§38. 61Ivi,p.23. 62 VAN HOOFF A J.L., From Autothanasia to Suicide,cit. 63Ivi,p.23. 64Ibidem. 65Ibidem. 66 VAN HOOFF A.J.L., From Autothanasia to Suicide,cit. 67Ivi,p.36. 68 Berlage J., Ziekten en sterfgevallen in de brieven Van Plinius de Jongere, «Hermeneus», 9, 1938, pp. 66-73. 69 SENECA, Lettere morali a Lucilio,cit., vol. II, Lettera58,36,p.299. 70 TACITO, Annali, VI, 48,1,3,UTET,Torino1969, p.559. 71Ivi,IV,28,2,p.423. 72 Y. GRISÉ,Le suicide..., cit.,pp.72-73. 75 R. KLIBANSKY, E. PANOFSKYEESAXL,Saturnoe lamelanconia,cit. 74 AULO GELLIO, Notti attiche, II, VII, 4, UTET, Torino1992,p.1307. 75 Citato da A. SOLOMON, The noonday demon: an atlas of depression, Scribner, New York 2001; trad, it., Il demone di mezzogiorno: depressione: la storia, la scienza, le cure, Mondadori, Milano2002. 76 R. KLIBANSKY, E. PANOFSKYEESAXL,Saturno elamelanconia,cit.,p.62. Capitolosecondo Lademonizzazionedel maldivivere:l'acedia medievale Rivolto verso la vita futura, l’aldilà eterno, il cristianesimo è naturalmente portato a concepire l’esistenza terrestre come una prova purificatrice, una «valle di lacrime» la cui traversata ci condurrà alla felicità eterna. La vita è il tempo dell’esilio, spiega SanPaolo1;lamortesegnala fineditutteleproveeilbuon cristiano non può che augurarsi che arrivi presto. Questomondoèunmondodi perdizione, votato al demonio,dovelospiritodeve condurre un’eterna battaglia contro la carne, considerazione che porta Origene ad affermare che dovremmo piangere il giorno del nostro compleanno. Tuttavia la disperazione diventa repentinamente una colpa morale il cui responsabile designatoèildiavoloilquale, sin dal peccato originale, turbalavitadegliuomini.La Chiesa dunque combatterà questo mal di vivere demonizzato che gli autori spiritualichiamanoacedia. Nascitadell’accidia negliambientieremitici (Sant’EvagrioPonticoe SanGiovanniCassiano) L’accidia sembra compiere una vera e propria strage negli ambienti cenobitici e monastici del IV e V secolo. Evagrio Pontico (345-399), un cenobita nato nel Ponto e ritiratosi per sedici anni nel deserto egiziano, attira l’attenzione su questo strano malessere che coglie il solitario verso mezzogiorno. L’asceta, indebolito dalle privazioni, sfinito dal sole a picco, cade nel più completo stato di abbattimento; viene colto dal disgusto, dalla nausea; tutto gli sembra immobile, persino l’implacabilesolechesembra fermarsi;lasuamenteiniziaa divagare; egli è assalito dalle visioni e attende la morte comeunaliberazione.Questa immensa tristezza e il languoreprovatodalsolitario si accompagnano a una noia profonda, nel senso di inodiare (avere in odio): collera contro questo luogo, contro la decisione di esservicirecato,controcoloro che hanno scelto l’esistenza stessa. «Alla fine, scrive Sant’Evagrio, [l’accidioso] scivola in un sonno poco profondo, poiché la fame risveglia la sua anima e la fa sprofondare nuovamente nelle sue ossessioni». Le tentazioni infatti si moltiplicano, in particolare i pensieri erotici. Secondo un suo discepolo, Sant’Evagrio avevapresolaviadeldeserto persfuggireallaseduzionedi una donna. Poco prima di morire, Sant’Evagrio stesso ammette che il desiderio carnale lo aveva abbandonatosolodapoco. È evidente che dietro questo languore si celi il demone di mezzogiorno, che colpisce fra le dieci del mattino e le due del pomeriggio. Questo «diavolo meridiano», come viene anche chiamato, tenta di esasperare il cenobita, approfittando della sua debolezzafisicaperispirargli il disgusto della sua condizione. Sant’Evagrio Pontico stesso avrebbesperimentatolavisita del demone di mezzogiorno in un’allucinazione: «Tre diavoli un giorno gli andarono incontro sotto formadiministridellaChiesa nel calore di mezzogiorno, e siconciaronoinmododanon farsiriconoscere»2,narrauna versione copta della Vie d’Évagre. Altri testi lo descrivono con una precisioneclinica:«Allaterza ora, il diavolo dell’accidia ci dà i brividi, il mal di testa e persino dolori alle viscere [...].Quandoèinpreghiera,il diavololofaancorascivolare nel sonno e lacera ogni versetto con sbadigli intempestivi»3. Paul Bourget nel 1914 e Jean Guitton nel 1955fornirannounaversione laica del diavolo di mezzogiorno, assimilandolo all’insorgenza delle pulsioni sessuali nell’uomo che, entrando nell’autunno della vita, cerca di dar fuoco alle ultime micce mentre è contemporaneamente assalito datendenzedepressive4. Nel V secolo un altro cenobita egiziano, San Nilo, fornisce una descrizione pittorescadelmonacocolpito daacedia,incuiritroviamoi sintomi menzionati da Sant’Evagrio: Il malato ossessionato dall’accidia tienegliocchifissisulla finestra e la sua immaginazione crea per lui un visitatore fittizio; al minimo cigolio dellaporta,egliscattain piedi; al rumore di una voce corre a guardare dallafinestra;ma,invece di scendere in strada, toma a sedersi al suo posto,intorpiditoecome coltodastupore.Quando legge viene interrotto dall’inquietudine e scivola quasi subito nel sonno; si strofina il viso con due mani, si stira le ditae,trascurandoilsuo libro,fissagliocchisulla parete; quando li riporta sul libro percorre poche righe, farfugliando la fine di ogni parola che legge; allo stesso tempo si riempie la testa di calcoli oziosi, conta le pagine e i fogli dei quaderni, finisce per richiudere il libro perfarneunpoggiatesta; cade quindi in un sonno breve e leggero, da cui trae una sensazione di privazione e di fame imperiosa5. Lo studio dell’accidia monastica, tuttavia, resta legato soprattutto al nome di San Giovanni Cassiano (365435). Dopo aver trascorso lunghi anni nel deserto egiziano, dove incontra le celebrità della solitudine, Cassiano viaggia in Oriente; viene ordinato diacono da San Giovanni Crisostomo, si stabilisceaMarsigliadal410 al 435 dove fonda due monasteri, fra cui quello di Saint-Victor;redigetreopere, fra cui le Istituzioni cenobitiche (De institutis coenobiorum, 418), in cui descrive l’organizzazione della vita monastica. In quest’opera egli enumera la lista degli otto vizi che minacciano i monaci; la golosità, la fornicazione, l’avarizia, la collera, la tristezza, l’accidia, la vanagloria e l’orgoglio6, e accosta l’accidia al taedium vitae pagano. Egli non la considera una malattia fisica legata alla bile, come la malinconia, ma un peccato ispirato dal diavolo, che riguarda anzitutto il disgusto per i beni spirituali. Ma se togliamoilcontestocristiano, l’accidioso somiglia molto al depresso: ecco infatti come Cassiano descrive l’azione deldemonedell’accidia: Non appena questo male si è insinuato nell’animo del monaco vi produce l’avversione per il luogo, il fastidio per la cella e perfino la disconoscenza e il disprezzo per i fratelli che vivono presso di lui olontanidalui,comese fossero dei negligenti e delle persone poco spirituali. Lo rende inoperoso e inerte di fronte a tutti i lavori da eseguire dentro le pareti dellasuacella,enongli consente di risiedere nellacellaediattendere alla lettura. Egli si lamenta assai di frequente di non aver conseguito alcun profitto; deplora e si rammarica di non ricavare alcun frutto finché rimarrà legato a quella comunità. S’affligge di trovarsi, in quel posto, del tutto privo di ogni profitto spirituale, proprio lui che,purpotendoreggere gli altri e giovare a molti, non è stato in grado di edificare nessuno e neppure di guadagnare qualcuno attraverso la sua condotta e la sua personale dottrina. Egli esalta i monasteri posti in regioni lontane e, in più, configura quei luoghi come maggiormente vantaggiosi al progresso dello spirito e più efficaci per la salvezza; egli dipinge pure le comunità dei fratelli che vi dimorano come viventi in piena cordialità e tutte introdotte in una convivenzaspirituale.Al contrario, tutto ciò che gli viene per le mani gli diviene gravoso, e non solo non trova nessun lato di edificazione nei fratelli che vivono in quel luogo, ma va dicendo che neppure si può avere il vitto sufficiente per sopravvivere, senza una dura fatica. Infine egli finisceperpersuadersidi non potersi salvare, restandoinquelluogo,a meno che, abbandonata quella cella, con la quale, rimanendovi ancora, sarebbe destinato a perire, egli non si decide a liberarsene quanto prima. In seguito, le ore 11 e quelle del mezzogiorno producono in lui una spossatezza fisica e un’esigenza di cibo così intensa da procurarglilasensazione di essere ridotto allo stremo e alla stanchezza provocata da un lungo viaggio o da una gravissimafaticaocome seegliavessedifferitoil momento di prendere cibo per un digiuno durato per due o tre giorni. In quello stato egli si mette allora a guardare tutto ansioso quaelà,deplorandoche nessuno dei fratelli venga a fargli visita, e così più esce dalla cella e vi rientra, e osserva frequentemente il sole, come se quello volgesse al tramonto troppo lentamente. E in realtà egli si sente sorpreso, senza rendersene ragione, da certaqualeconfusionedi mente, come avvolto da tetra caligine, divenuto ormaiapaticoenegatoa ogni attività dello spirito7. Se questa passione, inmomentialterniecon i suoi attacchi d’ogni giorno, variamente distribuiti secondo circostanze impreviste e diverse, riuscirà a prendereildominiodella nostraanima,ciseparerà un po’ alla volta dalla visione della contemplazione divina fino a deprimere interamente la stessa anima dopo averla distolta da tutta la sua condizione di purezza. [...] Questo vizio impedisce di essere tranquilli e miti con i propri fratelli e rende impazienti e aspri di fronte a tutti gli uffici dovuti ai vari lavori e alla religione. Perduta così ogni facoltà di buone decisioni e compromessa la stabilità dell’anima, quellaposizionerendeil monaco come disorientato e ebbro, lo infiacchisceeloaffonda in una penosadisperazione8. A volte questa disperazioneportaalsuicidio: «Esisteancheunaltrogenere di tristezza, più detestabile, che non porta il colpevole a redimere la propria vita o a correggere i vizi, ma a una disperazione mortale: tale tristezzahaimpeditoaCaino di pentirsi dopo l’assassinio di suo fratello e ha spinto Giuda, dopo il tradimento, a impiccarsi per disperazione invecechearipararealdanno causato»9. La causa può esserelacollera,unasperanza delusa, una frustrazione, o ancora l’azione del diavolo: «La malizia del Nemico ci opprime repentinamente con un’afflizione tale per cui non riusciamo nemmeno a ricevere, con la nostra affabilità naturale, le persone che ci sono care o che dobbiamoincontrare»10. Il rimedio esiste ed è il lavoro, ma senza eccessi, poichéancheinquestocasoil diavolo è in agguato! Cassiano ha conosciuto un monaco che si dedicava anima e corpo ai lavori manuali:nonsmettevamaidi costruire case, con un etiope (valeadireconun’immagine deldiavolo)«chedavaconlui colpi di martello, poi lo spingeva a continuare questo lavoro forsennato [...]. Il fratello, spossato dalla fatica, voleva riposare, mettere fine al lavoro. Ma lo spirito maligno lo incitava e lo animava»11. L’accidia:la depressionedeimonaci (altoMedioevo) Alla fine del IV secolo l’accidia è talmente diffusa cheilpoetaAusoniodescrive il monaco tipico come un «Bellerofonte triste, indigente, che abita luoghi deserti, che vaga taciturno[...]fuoridisé»12.Il mondo laico, ritornato a una certa barbarie, è all’epoca troppo occupato da questioni vitali di sopravvivenza per preoccuparsidell’introspezione Ma diverse ragioni contribuiscono a rendere i monasteri veri e propri focolaridiaccidia:ungenere di vita che favorisce un costanteritornoasestessi,la presenza minacciosa dei demoni e la paura dell’inferno.L’ossessioneper l’aldilà, la negazione al proprio corpo della minima soddisfazionedeisuoibisogni naturali e il pesante senso di colpa portano i monaci dell’alto Medioevo a cadere facilmente nella trappola del maldivivere,giàconsiderato come una colpa morale, o della tristitia, la cattiva tristezza. La distinzione fra accidia e tristezza sembra allora molto labile, se non puramente formale, come testimoniano le opere di un monaco divenuto papa alla fine del VI secolo, Gregorio Magno. Egli, con il suo temperamento malinconico, inquieto, forse persino paranoico13, affetto da dolori gastrici («Già da molti anni sono tormentato da frequenti dolori intestinali, e il mal di stomaco mi colpisce ad ogni oraeinogniistante»,scrivea Leandro di Siviglia), si è naturalmente interessato al mal di vivere e ha dedicato unagrossaopera,iMoralia,a Giobbe.Latristezza,cheegli conosce palesemente bene e che include nella sua lista personale dei sette vizi, è a suoparereunmalediorigine spirituale. Egli afferma che dalla tristezza derivano la disperazione,lapusillanimità, il torpore nei confronti dei doveri,ladebolezzadifronte alle tentazioni, il rancore, la malizia, la pesantezza del cuore,illanguore,iltaedium. Scrive Bernard Forthomme: «La figura del cristianesimo cupoecontagioso[...]prende forse da qui la sua origine nascosta»14. Sono numerosi gli autori spirituali di quest’epoca oscura che si sono accostati allatristezzaeall’accidia,pur senza assimilarle completamente. Già Sant’Evagrio riteneva che la tristezza rappresentasse un terrenofavorevoleall’accidia; nel V secolo, l’anonimo Vie deSynclétiqueafferma che il diavoloèresponsabilediuna tristezza assolutamente irragionevole che alcuni hanno denominato accidia; nell'VIII secolo Teodolfo d’Orléans utilizzerà l’espressione «accidia oppure tristezza»eAlcuinoparleràdi tediodelcuore. Tristezza senza causa apparente, languore e disgusto, l’accidia si manifesta allo stesso tempo con una propensione alla dispersività, alla distrazione superficiale e persino al riso, che non è meno pericoloso della tristezza, secondo le regolemonasticheegliscritti spirituali15. «Scoppiare a ridere e essere scossi dai singulti non fa parte dell’animotranquillo»,scrive San Basilio nelle sue GrandiRegole.Nella Vita di Eutimio,padredeldesertonel IV-V secolo, un vecchio monaco riprende un compagno che è scoppiato a ridere: «Il demonio, fratello, si è preso gioco di te. Il tuo risononhasensonéragione. Sappi dunque che spettegolare o ridere fuori luogo è follia per un monaco». Nella presa di coscienza del mal di vivere, lo stile di vita eremitico in Oriente ha certamente giocato un ruolo catalizzatore. Gli anacoreti si ritirano per anni in un vuoto immenso, in condizioni propizie alla noia e al disgusto di sé: «Aridità desolante del deserto, privazione estrema inflitta al proprio corpo, frugalità e monotonia dell’alimentazione, regolarità e uniformità inesorabile dei propri tempi di preghiera»16. Siamoquiinpresenzadelmal di vivere allo stato puro. Ne Les hommes ivres de Dieu, Jacques Lacarrière sottolineava come gli uomini che vivevano nel deserto descrivessero esattamente le stesse caratteristiche dell’angoscia esistenziale riportate dai filosofi e dagli psicologi contemporanei17. Giorgio Agamben, in Stanze, osservava a sua volta nel 1994 che gli effetti dell’accidia (malitia,o amore-odio del bene;rancor, o rivolta della cattiva coscienza contro coloro che predicano bene; pusillanimitas, o piccolezza d’animo; desperatio, o certezza di essere condannati; evagatio mentis, o fuga dell’anima nelle fantasticherie; importunitas mentis,oincapacitàdifissare il pensiero; curiositas; verbositas; instabilitas loci) sono precisamente le caratteristiche che Heidegger attribuiva al sentimento della banalità quotidiana, alla noia diffusa nellasocietàdimassaeanche alla tristezza angosciata diKierkegaard. Il solitario del deserto di milleseicento anni fa soffre dello stesso mal di vivere degli abitanti delle megalopoli sovraffollate e brulicanti del XXI secolo, osserva Bernard Forthomme nel2002:«Incosaèmoderna l’accidia? Nel fatto che colpiscepersonechelavorano su se stesse alla ricerca della propria identità. La nostra società, dove abbiamo più tempo per riflettere, si ricollega a ciò che, per il monaco d’Egitto, rappresentava una rottura difficile da immaginare oggi, quella con il mondo del lavoro agricolo, cui rinunciava per votarsi al lavoro su se stesso, in pieno deserto. Nella nostra epoca è come se tutta la società avesse la tendenza a lavorare su se stessa, e allo stesso tempo sperimentasse questa prova all’epoca conosciuta solodalmonaco»18. Ilviziomalinconico Sin dal Medioevo il mal di vivere viene considerato uno degli otto vizi principali di ispirazione diabolica. La «tristezzamalinconica»èuno stato di cui approfitta il diavolo per indurci in tentazione, come scrive San Giovanni Crisostomo intorno al 380 al suo discepolo, il monaco Stagirio, che disperava della propria salvezza, aveva tendenze suicide e presentava disturbi comportamentali: «Più nocivo di qualunque potenza diabolica è l’eccesso di athumia (scoramento); il demonio si impossessa delle sue vittime e le controlla grazie a essa; ma, una volta eliminata, egli non potrà più suscitare nulla di funesto in alcuno»19. Isidoro di Siviglia (570-630) stabilisce persino alcune analogie etimologiche difantasiaperspiegarechela melancholia viene da malus, ilmale,cheasuavoltaviene da mélan, la bile nera in greco: «Malus, cattivo, con riferimentoalfielenerochei Greci chiamano mélan·. da qui anche il nome melanconicidatoacoloroche rifuggono dal vivere in comuneconaltriesseriumani e sospettano degli amici più cari»20. A partire dall’XI secolo, tutti i grandi pensatori scolastici si interessano all’accidia, che accostano sempredipiùallamalinconia, poiché i sintomi non riguardano più soltanto i monaci,maancheisecolarie i laici. Se la Chiesa si dimostra più flessibile rispetto al mal di vivere, prendendo in prestito i concetti medici e filosofici, è anche grazie all’effetto del rinnovamento apportato dal pensiero naturalista del XII secolo, epoca in cui viene gradualmente riscoperto Aristotele. L’accidia resta infatti una nozione abbastanza vaga. Alcuni la vogliono simile alla pigrizia, altri alla tristezza (come Adam the Scot, che nel ΧΠ secolo, rivolgendosi ai monaci, descrive come segue gliaccessidiaccidia:«Spesse volte, quando siete soli nella vostra cella, vi coglie una sorta di inerzia, di languore dello spirito e di disgusto cordiale...»21),altriancoraal disgusto malinconico, se non persinoallacollera. Se accostiamo l’accidia all’idea di pigrizia, di pesantezza, di lentezza, di inerzia, è certamente anche perché Saturno, il pianeta lento, è ancora associato alla malinconia. Ritroviamo qui tutti i cliché negativi dell’Antichità riguardo a questa«tristastella»,comela chiamerà Cecco d’Ascoli nel 1327. Sembra che durante il IX secolo il legame fra Saturno e la malinconia si consolidi sotto l’influenza degli astrologi arabi. Scrive AbuMasar: La natura di Saturno è fredda, secca, amara, oscura, nera, violenta e ruvida; ma a volte è anche fredda, umida, pesante e fetida [...]. Saturno non vuole il bene di nessuno ed esercita il suo potere anche sugli anziani e sulle persone astiose; sulla paura, i rovesci di fortuna, le preoccupazioni, gli accessi di tristezza, la scrittura, la confusione [...], l’afflizione, le miserie della vita, lo sgomento, le perdite, le morti, le eredità, i cantifunebriegliorfani; sututtelecosevecchie,i nonni, i padri, i fratelli maggiori, i servitori, i valletti delle scuderie, gliavarietutticolorodi cui le donne reclamano l’attenzione, su coloro che sono coperti di obbrobrio, sui ladri, i becchini, i profanatori di cadaveri, i conciatori eicontabili22. Questa immagine poco lusinghiera del malinconico viene ripresa da Alcabizio, che aggiunge una serie di dettagli poco piacevoli. L’uomonatosottoilsegnodi Saturno è avaro, ingannatore, collerico, crudele, perfido, ipocondriaco: Egli è cattivo, mascolino, durante il giorno è freddo, arido, malinconico, ha potere sui padri [...], sulla vecchiaia e il rimbambimento,ifratelli maggiori e gli antenati, l’onestà nei discorsi e nell’amore, e l’assenza di slanci spontanei Egli ha inoltre potere sull’odio, l’ostinazione, l’inquietudine, il dolore, le lacrime, i lamenti, l’opinionesfavorevole,il sospetto fra gli uomini Si dice di lui che sia anche magro, timido, gracile, rigido, cheabbia latestagrossa e il corpo piccolo, la bocca e le mani grandi, le gambe arcuate anche se belle da vedere quando cammina, la testa sporgente, il passo pesante e strascicato, in buona intesa con l’astuziael’inganno23. Queste idee astrologiche sono inizialmente combattute conforzanelnomedellibero arbitrio dagli autori cristiani comeGuillaumed’Auvergne, vescovodiParigi.Malaloro parvenza pseudoscientifica finisce per sedurre anche il pensiero occidentale24. Nel XII secolo Alain de Lille, il «Dottore universale», tratteggia un’immagine desolantediSaturno: In questo luogo Saturno percorre gli spazi del suo cammino avido, E avanza con passo pesante, attardandosi a lungo.[...] Quiregnanodoloree gemiti, lacrime, discordia,terrore; Siètristi,sièlividi, cisicolpiscedasoliesi èmaltrattati25. Bernard Silvestre, nella sua cosmologia, conferisce a Saturno un’immagine di morte, di personaggio vecchio, crudele e distruttore26. Sempre nel XII secolo, l’inglese Daniel de Morley, che rientra dai suoi viaggi con alcuni libri arabi, associa a Saturno l’idea dipesantezza,divolgarità,di oscurità27. Per lui come per i precedenti autori, questo pianeta è grandemente responsabile dei temperamenti malinconici. Nel XIII secolo Bartolomeo Anglico è esplicito: «Ecco perché,natoeconcepitosotto i suoi auspici, il bambino muore oppure gli toccano in sorte le peggiori qualità. Secondo Tolomeo e il suo libro sugli astri, infatti, Saturno è la causa dell'uomo oscuro, brutto, autore di azioni inique, pigro, pesante, triste, raramente felice o sorridente»28. Michele Scoto, che Dante ha messo nel suo Infernoacausadellepratiche astrologiche e magiche, delinea il saturnino come essere triste, pigro, astioso, timido, invidioso, avaro, misantropo; fisicamente brutto, con pelle scura e piccoli occhi fissi al suolo; ricurvo e sessualmente poco attivo. Guido Bonatti, ennesimoastrologo,rincarala dose:«Èunesseredisgustoso e maleodorante, intriso di puzza di caprone; si tratta poi di uomini che mangiano molto»29. Se l’astrologia assolve la malinconia dalla demonizzazione, dando a credere che certe forme di mal di vivere siano una fatalità, in compenso non vi vede più il temperamento degliuominieccezionali. La distinzione fra malinconici e accidiosi sembra riguardare essenzialmente gli aspetti fisici: solo i primi sono etichettati per la loro magrezzaeperl’opacitàdella loro pelle. Per contro, la teoria degli umori si applica sia agli uni che agli altri: il diavolo, che provoca l’accidia, agisce per mezzo della bile o del flegma; egli tenta«imalinconicidiinvidia e tristezza», scrive il domenicano Laurentd’Orléans.Inqualche modo la malinconia è una malattia da cui alcuni sono afflitti indipendentemente dalla loro volontà, in particolar modo perché si trovano sotto l’influenza di Saturno; tuttavia questa malinconia si trasforma in peccato, in vizio morale e in accidia in coloro che si lasciano andare: distinzione moltoteoricaperò,poichégli autori spirituali riflettono soprattutto sulla malinconia in termini morali e le manifestazioni che prendono in considerazione sono la tristezza, la scontentezza del cuore, l’amarezza, la perditadisperanza. Per alcuni il temperamento malinconico è quindiunasortadiprovache conferisce loro dei meriti per aver combattuto contro di essa. Per altri la predominanza della bile nera èunaconseguenzadirettadel peccatooriginale30.Ildegarda di Bingen, nel XII secolo, lo afferma chiaramente. Prima della caduta, scrive, «prima che Adamo trasgredisse il precetto divino, quello che adesso è la bile, riluceva in lui come cristallo e aveva in sé il gusto delle opere buone»31. Ma la malinconia «è per natura in ogni uomo, sin dalla prima tentazione del Diavolo, perché l’uomo trasgredì il precettodivino,mangiandola mela. E da questo cibo si sviluppò la malinconia in Adamoeintuttalasuastirpe, equestaprovocanegliuomini ogni sorta di malattia»32. I malinconici hanno un aspettorepellente;sonoanche dei veri e propri bruti perversi, violentano le donne e impazziscono di rabbia se non riescono a soddisfare i propri bisogni. Ildegarda ne fa un ritratto avvincente nel capitolo «De melancholias» del suo trattato Causae et curae: [...]Illorocoloritoè forte,perchéiloroocchi sono ignei e viperini, e lelorovenesonoduree forti e trasportano un sangue scuro e robusto, lelorocarnisonogrosse e dure, e grosse sono le loro ossa, dal midollo scarso, che tuttavia arde convigore;infatti,conle donne sono come animali e incontinenti come vipere [...]; ma sono aspri, avari e insensati, eccessivi nella passione e senza misura con le donne, come asini. Se abbandonano siffatta passione, incorrono facilmente nella follia, al punto di diventare frenetici; e se appagano la loro passione nella relazione con le donne, non soffriranno della follia dellamentet···]33. Ildegarda evoca con crudezza la violenza del desiderio che nasce nei testicoli del malinconico, «i due tabernacoli», e il rigonfiamento del pene riempito d’aria. Ritroviamo qui l’antica concezione della natura aerea dell’umore malinconico: Il vento del piacere, che cade nei tabernacoli di questi uomini, arriva congrandesmodatezzae con un moto talmente repentino, da essere simile al vento che d’improvviso scuote la casa con violenza. E la discendenza dell'uomo viene educata con tale tirannia, che anche in questa, pur dovendo sbocciare in fiore, si ritorceperl’asprezzadei modi viperini [...]. Infatti, la tentazione del Diavoloinquestiuomini infuria a tal punto, che se possono uccidono la donna durante l’unione, perché in loro non operano né carità né trasporto.Illorofiglioo le loro figlie avranno una grande insania diabolica nei costumi e nei vizi, essendo stati concepitisenzaamore34. Senza scadere nella stravaganza,ancheGuillaume de Conches, nel XII secolo, considera la malinconia una conseguenza del peccato originale, ma la sua esigenza di razionalità lo spinge a darne una spiegazione «scientifica». Riconciliando teologia e biologia, egli spiega che l’uomo è stato creatocaldoeumido;acausa del trauma per l’espulsione dalparadisoeperledifficoltà della sua nuova vita, egli avrebbe perduto calore e umidità in proporzioni diverse, causando i temperamenti collerici (caldo esecco),flemmatici(freddoe umido) e malinconici (freddo e secco). Il temperamento ideale è quello sanguigno (caldo e umido), poiché si avvicina maggiormente alla condizione originaria. Ecco perché, afferma Guillaume, esistono animali malinconici, flemmatici e collerici, ma non esistono animali sanguigni. Secondo Ildegarda, solo i sanguigni sarebbero in grado di ingravidare le femmine malinconiche, che descrive come esseri tristi, sterili, incostanti,soggettiafollia. Unariabilitazione relativa Altri autori sembrano avere un’opinione meno negativa della malinconia, pur mantenendo comunque una certa ambiguità. Costantino l’Africano, fondatore della scuola di medicina di Salerno, dedica alla malinconia un trattato che influenzerà notevolmente il Medioevo. Nato intorno al 1015, egli vive per più di trent’anni nel mondo arabo, ciò porterebbe a pensare che fosse anche musulmano prima di convertirsi al cristianesimo. In seguito, verso il 1050, raggiunse il monastero di Monte Cassino, dove morì nel 1086. Buonconoscitoredegliscritti arabi sulla medicina, egli si ispira a Ishaq ibn ‘Amran, autore di un’opera sulla malinconia, che egli descrive, a immagine degli Antichi, come «una malattia dello spirito avente cause psicologiche»35. Costantino l’Africano ha certamente letto le opere di Avicenna, il quale attribuiva cause puramente fisiologiche alla malinconia. Egli è stato certamente influenzato anche da Rufo d’Efeso, che assimilava l’umore malinconico al «sangue ispessito e raffredato». Forse impressionato dal clima dei monasteri, egli afferma nel suotrattatochelamalinconia è «particolarmente diffusa»36 nell’Italia cristiana. A Monte Cassino,inognicaso,unodei suoi compagni, il monaco Guaferio, compone il racconto miracoloso di un pellegrinochesidàlamortea causa della tentazione diabolica37. Per Costantino i malinconici presentano sintomicontraddittori,poiché in effetti qualsiasi atteggiamento estremo può tradire malinconia: «Alcuni amano la solitudine, l’oscurità, la vita tagliata fuori dal resto del mondo; altri amano i luoghi spaziosi, la luce, i prati, i giardini dai frutti abbondanti e dai numerosi ruscelli. Alcuni amano montare il proprio cavallo, ascoltare musiche diverse, conversare con persone sagge o gradevoli [...]. Alcuni dormono troppo, altri piangono, altri ancora ridono»38. Il malinconico è soggettoapaureingiustificate poiché la sua immaginazione nonèpiùequilibrata. Le cause sono varie quanto i sintomi e a quelle fisiche si aggiungono quelle intellettuali: diventano malinconici coloro che cercano di approfondire troppo le cose, di trovare le ragioni di tutto, di studiare troppoafondolescienzeela filosofia. Ritroviamo quil’associazionetrailmaldi vivere e le preoccupazioni intellettuali.«Ipensieriardui, il continuo rammentare, lo studio, l’esame approfondito, l’immaginazione, la ricerca delsignificatodellecose,così come le visioni e i giudizi, siano essi fondati o solo semplicisospetti[...]possono in poco tempo portare l’anima alla malinconia, se questa si immerge troppo profondamente in siffatte attività»39; essi inoltre «incorporano la malinconia [...]nellacoscienzadellaloro debolezza intellettuale e, nello sconforto provocato da tale debolezza, divengono malinconici. Il motivo per il qualelaloroanimasiammala [...] risiede nella fatica e nell’abusodelleloroforze»40. Fra gli intellettuali cristiani la riscoperta progressiva di Aristotele, a partire dall’inizio del XIII secolo, contribuisce ulteriormente ad attenuare la visione negativa della malinconia. Alexander Neckham, morto nel 1217, è il primo a ricordare che Aristotele«affermachesoloi malinconici sono intelligenti [...] a causa della fecondità della memoria, fredda e secca,oacausadell’astuzia». Alberto Magno tenta di riabilitare alcune forme di malinconia, ma solo a malincuore e per deferenza nei confronti di Aristotele. Egli ha difficoltà nel trovare un posto per il malinconico positivo e, nel suo ragionamento, non sipreoccupadellapsicologia. Eglidistingueunamalinconia naturale, dovuta alla contaminazione del sangue che restituisce esseri oscuri, diffidenti, misantropi e con impulsi suicidi, e una malinconiainnaturale,dovuta alla combustione (adustio) degli umori naturali, che può contribuire a sviluppare qualità intellettuali ed eccezionalmente produrre grandi uomini: «Gli esseri così dotati avranno convinzioni ferme e passioni saldamente regolate; saranno anche assidui al dovere e possiederanno le più grandi virtù. Di conseguenza Aristotele dichiara nel sui librodei Problemi che tutti i grandi filosofi, come Anassagora e Talete di Mileto, e tutti coloro che si sono distinti per il coraggio eroico, come Ettore, Enea, Priamoealtri,eranoinquesto senso degli eroi malinconici»41. Questi malinconici positivi sono alti e magri, dalla «carne soda», mentre i malinconici negativi sono esili e scuri. Alla stessa epoca Guillaume d’Auvergne vede nella complessione malinconica almeno un grande vantaggio: quello di allontanareipiaceriterrestrie di favorire lo studio delle scienze religiose. Il malinconicorifuggeilmondo esitrovaquindiportatoperil lavoro intellettuale e la meditazione: «Per questi motivi, Aristotele pensava che tutti gli uomini eminentemente dotati fossero malinconici»42. In caso di eccesso, tale temperamento propizio può evidentemente degenerare in malattia, e sfociarenellafollia. Poco tempo dopo il medico e filosofo Pietro d’Albano, morto intorno al 1315,redigeuncommentoal Problema XXX, 1 (Expositio problematum Aristotelis)in cui distingue a sua volta due forme di malinconia: il temperamento, che egli associa agli uomini eccezionali, e la forma patologica. Ilpeccatodiaccidia, maldivivere colpevolizzante Più che alla malinconia, gli scolastici si interessano all’accidia. Peccato ispirato dal diavolo, l’accidia dà forma a descrizioni più precise, molto più vicine alla realtà poiché basate sulla pratica della confessione, eccezionale strumento di studiodellanaturaumana. Manualidiconfessoriedi morale sono fonti essenziali per comprendere le diverse concezioni medievali del mal di vivere. Nelle Somme destinate ai confessori l’accidiaèintimamentelegata alla pigrizia: l’accidioso fa fatica ad alzarsi al mattino, arriva in ritardo alla messa, dove si addormenta oppure chiacchiera. Egli trascura i suoi doveri, si perde in divertimenti vari, appare linfatico, o senza motivazione, diremmo noi oggi. Un simile atteggiamento tradisce manifestamente una mancanza di entusiasmo per la vita e per questo mondo meraviglioso che Dio ha creato, ed è un segno di disperazione che può denotaretendenzaalsuicidio. I libri sulla morale annoverano l’accidia fra i sette peccati capitali, la cui lista diviene quasi ufficiale a partire dal ΧΙΠ secolo. L’accidia vi è spesso definita come causa di instabilità del monaco, che non porta a termine i suoi doveri e vorrebbe cambiare abbazia; essa è una condizione legata alla sonnolenza che si manifesta conpesantezzadellepalpebre e un sentimento d’oppressione.PierDamiano, nellasuaDeinstitutisordinis eremitarum (1057), parla dell’«oradipuntadelgiorno, momento in cui l’accidia ci cadegravosamenteaddosso». Nella stessa epoca, Otloh di Sant’Emmeran descrive lo stato di indecisione, di inquietudine,dipusillanimità, di scoraggiamento, di autocommiserazione che porta il monaco a dubitare dell’esistenza di Dio e a desiderare che manifesti chiaramente la sua presenza43. Tutti i grandi autori scolastici del XIII secolo hanno dedicato alcuni sviluppi all’accidia, accentuando determinati aspetti attorno al comune denominatore della pigrizia e della tristezza. Così Guglielmo d’Auxerre, nellasuaSummaaurea,verso il 1220, insiste sulla mancanza di fiducia in se stesso dell’accidioso, in cui vede un’ulteriore mancanza di fiducia nell’aiuto divino. Egli sostiene che questo tipo di accidia produca la malizia (pereccessodidiffidenza),la disperazione,lapusillanimità, il rancore, il torpore, il vagabondaggio intellettuale, vale a dire l’incapacità di fissarsi su un determinato oggetto (altri ritengono invece che i malinconici abbiano tendenza a fissarsi tropposuununicooggettodi studio...). A metà del secolo il francescano David d’Asburgo, che sostiene l’esistenza di cause fisiche e morali, distingue diversi tipi di accidia, gli uni di competenza del medico, gli altridicompetenzadelprete: «Il vizio di accidia è di tre generi. Il primo è una certa amarezza dello spirito [...], incline alla disperazione, alla diffidenza, ai sospetti e porta a volte la sua vittima a darsi la morte quando viene attanagliata da un dolore inconsulto. Il secondo genere di accidia è un certo torpore che porta sonnolenza eilconfortodelcorpo[...],il quale casca dal sonno di fronte al lavoro e si delizia nell’ozio. Si tratta della pigrizia vera e propria. Il terzo genere è un disgusto solo verso le cose che riguardano Dio, mentre nelle altre occupazioni la sua vittimaèattivaeilsuospirito è sollevato»44. Tristezza, torpore, disgusto delle cose spirituali: ritroviamo ancora la stessa trilogia in Alessandro di Hales, verso il 1245. L’accidia è un peccato, ripete il teologo inglese, che tuttavia aggiunge: «Spesso l’accidia proviene da una malinconia: taleèilmotivopercuinonsi tratta del peccato più grande, nédiunacolpaincurabile»45. Dieci anni dopo anche San Bonaventura, discepolo di Alessandro, esita fra malinconia e accidia e affronta un problema cruciale: come distinguere l’accidia che conduce alla disperazione, e quindi alla tendenza suicida, dal desiderio di morte paoliniano e mistico in vista del ricongiungimento con Dio? Come spiegare che il desiderio di morire è peccato negli uni e virtù negli altri? La differenza risiede nella motivazione, sostiene Bonaventura: i primi cercano di sottrarsi alle prove della vita, mentre queste sono necessarie alla salvezza; i secondiaspiranoapartecipare alla Passione di Cristo. Ma è certo che sia gli uni che gli altri provano un forte disgustoperquestavita. L’idea della tendenza al suicidio è anche al centro della riflessione del cistercense Cesario di Heisterbach. Nel suo Dialogus miraculorum, redatto intorno al 1223, troviamo una preziosa collezionediesempiattestanti la frequenza del suicidio nei monasteri, sia tra gli uomini che tra le donne, sia per la disperazione data dall’attesa della salvezza, sia per la perdita di fede in Dio. Appoggiandosi a eventi reali che verranno utilizzati anche dai medici e dagli psichiatri del XIX secolo, egli descrive gli accidiosi come colpiti da sonnolenza durante l’ufficio, abitati da un demonedimezzogiornosotto formadigattoodiserpentee come esseri balbuzienti che profferiscono parole incomprensibili somiglianti a versi di animali, lo sguardo torbido come se avessero dellapagliaodelfangonegli occhi, madidi di sudore: essi faticano ad alzarsi, sono sempre stanchi, hanno continuamentetroppocaldoo troppo freddo e dubitano dellalorolegittimità. Da parte francescana, il celebre predicatore Jacques de Vitry compone verso il 1220 una Historia occidentalis in cui spiega che l’accidia e la tristezza hanno un ruolo importante nella moltiplicazione delle eresie, degli scismi e delle dispute all’interno della Chiesa nel XII secolo: «Gli uomini perdevano ogni coesione sotto l’influenza della tristezza e dell’accidia»46. Gli spiriti inquieti sono fattori di divisione, di discordia, di ansia e disperazione. Di fronte a questa situazione sono spuntati vari riformatori e creatori di nuovi ordini per restaurare gioia spirituale e devozione. Fra di essi, sicuramente, Francescod’Assisi:«Eglinon voleva vedere tristezza sui volti, poiché essa riflette spesso l’indifferenza, la cattiva disposizione d’animo e il freno del corpo nell’intraprendere opere buone»; «si guardino [i fratelli] dal mostrarsi esteriormente tristi e oscuramente ipocriti, ma che gioiscano nel Signore, felici, amabili e gradevoli come si conviene»47. Francesco riprendeisuoifratelliquando livedetristiesisforzaasua volta di fuggire l’accidia: «Quandocadointentazioneo nell’accidia, se considero la gioia del mio compagno, passo da tale tentazione e da tale acedia alla gioia interiore». A suo parere la tristezza è legata all’avarizia: povertà e gioia sono le sue antitesi. Per fuggirla occorre evitarel’ozio,chefavoriscela scarsa lucidità dell’immaginazione. Un giorno, tentato dall’inquietudine, Francesco iniziaacostruireuncestinoin vimini, che getta poi nel fuoco poiché causa di distrazionedallapreghiera. I domenicani affrontano l’accidia da un’angolazione differente. Nella Summa vitiorum (1236), Guilelmus Peraldus ne parla diffusamente, spiegando che la sua causa è l’ozio. Potremmo riassumere le sue parole con la famosa affermazione di Candido: «Il lavoro allontana da noi tre mali: la noia, il vizio e il bisogno». Il cattivo impiego del tempo è un tema relativamente nuovo, che presto si diffonderà parallelamente allo sviluppo delle attività commerciali. Esso è al contempo causa e conseguenza dell’accidia, poiché fra i sedici vizi provocati da questa, Peraldus vi inserisce la dilatio, cioè il fatto di rimandare sempre i doveri da portare a termine. Inoltre il domenicano mostra come la vita monastica sia propizia all’accidia : il giovane monaco entusiasta e presuntuoso, confrontandosi conlamonotonia,l’inerzia,il grigiore della ripetitività perpetua, cade nello scoraggiamento e nel torpore tipici dei monaci più anziani. Tale accidia si traduce in segni di insofferenza di fronte ai rimproveri, in tristezza, disperazioneetaediumvitae·, qui Peraldus si ispira chiaramenteaSeneca. Soffermiamoci infine su Tommaso d’Aquino, la cui analisi dell’accidia nella Somma teologica è di notevolefinezzapsicologicae rievoca i tratti caratteristici della depressione moderna: «È una tristezza opprimente che produce nell’animo dell’uomo una depressione tale per cui egli non ha più voglia di fare nulla, alla stregua delle cose che, impregnate di acido, diventano completamente fredde. Ecco perché l’accidia procura un certo fastidio per l’azione.Alcunidiconoanche che l’accidia sia un torpore dell’anima che impedisce di cominciareafaredelbene»48. Tristitiaedesperatio, fattoridisuicidiofrail clero Il mal di vivere del Medioevo, fortemente sentito presso gli intellettuali, ha rappresentato un’importante causa di suicidio. La rilevanza insospettata di tale fenomeno è stata recentemente evidenziata da Alexander Murray in un’opera notevole in ogni suo punto e che può essere ritenuta esaustiva49. Considerata la povertà, l’eterogeneità e la raritàdellefontimedievalisu questo tema, essere riusciti a raccogliere 546 casi di suicidionelMedioevoèstata una vera e propria impresa. Le statistiche stilate dall’autore rivelano che gli uominisisuicidanoduevolte più delle donne, ma che queste ultime fanno tre o quattro volte più tentativi, secondo i dati conformi alle osservazioni contemporanee. Un po’ più della metà si impicca, il 30% si annega, il 15% usa un’arma da taglio. Ci si uccide preferibilmente durante tre periodi dell’anno, aprile, luglio e dicembre, di lunedì,solitamentealmattino odopoleseidisera. Fra i suicidi notiamo un’enorme predominanza del clero: circa un terzo del totale. Certo il termine «clero» ha un significato abbastanza generico, inoltre questa categoria viene maggiormente registrata rispetto alle altre per ragioni di rivalità fra giurisdizioni civili ed ecclesiastiche relativamente ai beni del suicida. Tuttavia, appare innegabile che il tasso di suicidio fra il clero sia stato sensibilmente superiore al tasso globale, dato che tenderebbe a confermare l’importanza e la gravità della forma religiosa dell’accidia. Questa impressione è corroborata dai motivi per suicidarsi: un quarto è attribuito alla tristitia (o malinconia senza ragione) e alla desperatio religiosa. Nel 1170 gli esempi fioccano50, come nel caso di questo premostratense del Lincolnshire, a proposito del qualelacronacaracconta:«Il cuore di Henry era infranto dallamalinconia.Guidatodal diavolo, ha fatto un bagno caldoesiètagliatolevenedi entrambelebraccia;inquesto modo, e di sua spontaneavolontà,opiuttosto di sua libera follia, ha messo fine alla propria vita». Nel 1256 il cappellano dell’ospedale di Westgate, a Newcastle, si impicca; verso il 1300 un cistercense di Villers, in Belgio, si uccide perché non sopporta più la solitudine. Il suicidio diventa pratica comune tanto per molti monaci anonimi di San Gallo quanto per il cardinale Andreas Zamonetic, che si strangolanel1483;peralcuni templari, per un alto dignitario della chiesa di Strasburgo nel 1484 e, nello stesso anno, per un monaco premostratense di SaintPierremont, vicino a Metz, o ancora per un francescano di Pisa che si getta in un pozzo attorno al 1280, come riporta lacronacadiSalimbene. Cesario di Heisterbach riporta numerosi casi, fra cui quelli di monaci portati al suicidio perché l’eccesso di devozione li aveva resi accidiosi, come il cistercenseBaldwinnel1220: «Alla fine, le veglie e il lavoro eccessivo surriscaldarono il suo cervello.Divennecosìdebole che una notte, prima che la comunità si alzasse per le mattutine, si recò in chiesa, salì sul banco dei novizi, si fece un nodo attorno al collo conlacordadellacampana,e saltò». E anche come questa cistercense, nella stessa epoca, in un convento della Mosella: «Qualche mese fa, unareligiosadietàavanzatae di santa reputazione, fu colpita così pesantemente dal vizio di malinconia, con accessi di blasfemia, di dubbio e di miscredenza, che cadde nella disperazione. Iniziarono a crescere in lei i dubbi più gravi riguardo ciò in cui aveva sempre creduto sin dall’infanzia, e riguardo ciòincuidovevacredere».Si gettò così nella Mosella. Sempre attorno al 1220, un francescano, vecchio compagno di San Francesco, si impicca «per impazienza». Cesario di Heisterbach riporta anche la storia di un altro cistercense che aveva conosciuto, che «divenne malinconico e timoroso (pusillanimis). L’ansia per i suoi peccati divenne tale che perse ogni speranza nella vita eterna. Il suo problema non riguardava i dubbi sulla fede, ma solo il fatto di disperare della sua salvezza». Egli si annegò nellostagnodelconvento.Per Cesario, questo monaco «si dibattevacontroilviziodella malinconia e per tale ragione era pieno di accidia: questi fattori fecero nascere la disperazione nel suo cuore». Verso il 1240 Tommaso diCantimprénarralastoriadi un domenicano che si uccise perché il priore del convento era stato troppo severo. All’inizio del XIV secolo Ugo di Trimberg, insegnante nell’abbazia di SaintGangolf, vicino a Bamberg, scrive che i monaci che si dedicano eccessivamente agli esercizi religiosi «si impiccanoosiaffogano». A volte il numero di suicidi raggiunge un livello talechesipuòparlaredivero eproprioproblemasociale.È quantoaccadeaFirenzeverso il 1300. Tutte le testimonianze contemporanee concordano in proposito. Boccaccio narra che molti in città iniziarono a impiccarsi, come se fossero in preda a una maledizione divina. Anche Jacopo della Lana osservacheilviziotipicodei fiorentini fosse di impiccarsi, mentre quello degli aretini fosse di gettarsi nei pozzi. Benvenuto da Imola afferma che, a quei tempi, molti fiorentini si impiccavano; secondo Pietro Alighieri,figliodiDante,era molto frequente che gli uomini si impiccassero in quella città. Cino da Pistoia scrive che taluni si uccidevano per noia di vivere, per follia furiosa, o per vergogna, o per qualsiasi altra causa, come accadeva fra numerosi fiorentini. Un secolo più tardi, ancora, il poeta Saviozzo da Siena, autore dei poemi d’amore Disperata, in cui l’innamoratoricorrealricatto del suicidio con la sua bella, si uccide nel 1419, perpetuando la tradizione fiorentina51. Dante, il più illustre dei fiorentini di quest’epoca, riserva ai suicidi una posizione di tutto rispetto nell'Inferno. La morte volontaria, per ragioni sconosciute, sembra essere divenuta una vera e propria epidemia: Cino da Pistoia parla infatti di «noia di vivere». Questo passaggio in terra fiorentina ci dà l’occasione per ricordare che Dante mette gli accidiosi nel Purgatorio (canto XVII); la loro colpa è stata la tiepidezza, la lentezza, la trascuratezza delle cosespirituali,eccoperchéla loro punizione sarà di essere assillatidaunamoregiustoe da una volontà leale. Nel Purgatorio dantesco le anime si aggirano a gran velocità urlando di andare sempre più forte, senza stare a perderetempoconl’amore,e gemendodinonpoterrestare, per quanto assalite dalla voglia di muoversi. Non perdere tempo: questa preoccupazione annuncia l’arrivo di una nuova epoca. L’ossessione per il buon impiego del tempo diverràrapidamenteunadelle componentidelmaldivivere. Già intorno al 1330, poco dopolaDivina Commedia, il domenicano Domenico Cavalca dedica unapartedellasuaDisciplina allanecessitàdicombatterela perdita di tempo, l’ozio e l’accidia52. Nel canto VII dell’Inferno di Dante, i collericifarfugliano: Fitti nel limo, dicon: «Tristifummo ne l’aere dolce che dalsols’allegra, portando dentro accidiosofummo: or ci attristiam nella bellettanegra»53. Tristezza, asprezza, bassezza, brontolio: questi collerici costretti per sempre nella loro condizione sono forse degli accidiosi? La questione resta controversa. ForseDantedistingueduetipi di accidia: quella legata alla tiepidezzaspirituale,punitain purgatorio con un attività sfrenata e quella, più grave, legata alla collera, punita nell’inferno con lo sprofondamento nel fango: «Figlio, or vedi l’anime di colorcuivinsel’ira»(Inferno, Canto VII, 115-116), diceVirgilioalpoeta. SecondoDanteilsuicidio è una violenza contro se stessi,enonunaconseguenza dell’accidia e della malinconia. Egli riserva una punizione terribile a coloro chesiuccidono.Edèproprio un suicida illustre come Pier della Vigna, consigliere di FedericoIImortonel1260,a descrivere a Dante il loro supplizio:leanimedeisuicidi non possono essere riunite al loro corpo; esse vengono disseminate e diventano arbusti dai rami taglienti, torturati dalle arpie che vi costruiscono il loro nido; i corpi vengono trascinati e appesiaquestirami. Il caso di Firenze nel 1300 resta eccezionale. Tuttavia è vero che per ogni epoca vi sono documenti attestanti la frequenza delle morti volontarie. Raban Maur,abatediFuldadall’822 all’847, a proposito della tristezzaeccessivadichiarain un sermone: «Ne conosco molti che si sono allontanati così tanto dalla retta via, sia della mia epoca che di quelle dei miei predecessori». Il suo contemporaneo Christian de Stablo conferma, precisando che: «I vescovi sono responsabili di questa pratica, poiché non spiegano al popolo che coloro che si tolgono la vita non mettono fine alla sofferenza e all’infelicità, ma le aggravano, poiché passano dai mali attuali a mali ben peggiori»54. Nel XII secolo San Bernardo deplora in un sermone: «Ne abbiamo conosciuti molti, caduti nelle mani del demonio, che si sono annegati o impiccati»55. Poco dopo Ildegarda di Bingen scriverà: «Ma la tentazionedelDiavolospesso si ritorce nella malinconia e rende l’uomo triste e disperato; molti uomini soffocano e sono distrutti in tal modo dalla disperazione»56. All’inizio del XIII secolo, Jacques da Vitry constata che «la tristezza causa la morte di numerose persone». San Bonaventura afferma che «molti si uccidono e detestano la propria vita»; «davvero molto spesso» la disperazione porta al suicidio57. Si tratta certamente di un’impressione soggettiva, ma gli indizi sono troppo numerosi e le dichiarazioni troppo concordanti perché se ne possa dubitare: il suicidio è una realtà per tutto il Medioevo. Alexander Murray cita ancora le testimonianzediTommasodi Chobham, Alessandro di Haies, Johannis Walensis, David d’Asburgo, che muovono tutte nella stessadirezione58.Sialefonti giuridiche che canoniche e teologiche ne attribuiscono prevalentemente la responsabilità alla «disperazione». E questo può sembrarci un’evidenza. In effetti questo termine, pur denotandosempreunpeccato grave, designa svariate situazioni. Leautoritàspiritualieil suicidio La condanna del suicidio da parte della Chiesa non è stata immediata; i teologi hanno esitato a lungo: la Bibbia, fonte principale dei precetti morali, non è chiara in proposito: come metter fineallaquestionedeimartiri più o meno volontari e delle vergini che si uccidono per evitareildisonore?Origenee Geremia sono i primi a pronunciarsi chiaramente contro il suicidio, ma senza fornire solide motivazioni, perlequalioccorreattendere Sant’Agostino che, ne La città di Dio, formula un interdettointangibile: Questo diciamo, questo affermiamo, questo in tutte le maniere dimostriamo, cioèchenessunodevedi propria volontà darsi la morte né per sottrarsi alle avversità temporali, per non cadere nelle pene eterne, né per i peccati di un altro, per non incominciare egli stesso a macchiarsi d’un peccato proprio e gravissimo, mentre il peccato altrui non lo macchiava; nessuno devetogliersilavitaper i suoi peccati passati, a cagione dei quali ha ancora più bisogno di vivere, per potersi meritareilperdonocome la penitenza; nessuno deve farlo nemmeno per il desiderio d’una vita migliore, che si spera dopo la morte, poiché per quelli che sono colpevolidisuicidionon v’è speranza, dopo la morte, di una vita migliore59. Tale interdetto assoluto è ancora soltanto un parere teologico. I canoni disciplinari dei concili lo trasformeranno gradualmente in legge per i cristiani. Il Concilio di Orléans (533), di Braga (561) e di Auxerre (fine del VI secolo) proibiranno ogni tipo di cerimoniareligiosaedeposito di offerte per i suicidi. Secondo quanto disposto dal Concilio di Toledo (693), «il contagio della disperazione si è radicato così profondamente in certi uomini» che, quando vengono sottomessi a punizioni,ildiavololispinge atogliersilavita;seriescono ascamparlo,dovrannosubire unapenitenzaprimadiessere reintegrati nella comunità. Progressivamente tutte le forme di morte volontaria vengono vietate. I penitenziali anglosassoni dei secoli VIII e IX giustificanoesclusivamenteil suicidio dei pazzi o «demoniaci»; occorre tuttavia che questi ultimi abbiano condotto un’esistenza onorevole prima di essere posseduti dal diavolo. Il suicidio per disperazione è considerato il più grave di tutti, poiché colui che lo commette crede che i suoi peccati vadano al di là di qualunque perdono. Così facendo egli pecca sia contro Dio (poiché dubita della misericordia, come Giuda) che contro la Chiesa (poiché dubita del potere di intercessione). Allo stesso tempo, la disperazione si imponecomeunodeipeccati più gravi poiché torna a contestare il ruolo della Chiesa nel perdono delle colpe per mezzo dell’assoluzione, una Chiesacheaffermaperaltroil suo statuto di intermediario universaleeobbligatofraDio egliuomini. Il miglior rimedio contro la disperazione è la confessione, che diventa obbligatoria una volta l’anno a partire dall’inizio del XIII secolo, ma che era comunquegiàmoltodiffusa.I manuali per confessori insistono a lungo su questo punto. Quello di Robert Grosseteste, ad esempio, indica che alcuni cristiani disperati non si confessano perché pensano che Dio non voglia perdonarli, o perché i loro peccati sono talmente enormi da non ritenersi capaci di compiere la penitenza che verrà loro inflitta, o ancora perché sentono di non avere le forze per lottare contro le cattive tendenze. Gli autori spirituali si riferiscono qui all’esempio di Caino, che si dispera perché pensa che il suo peccato sia troppo grave peressereperdonato. La disperazione può quindi essere il risultato di qualunque peccato. È la mancanza di fiducia, ma anche una mancanza di fede chedominaimplicitamentela tentazione suicida. Questa idea si trova già in un penitenziale inglese dell’VIII secolo, il Discipulus Umbrensis, così come anche nel celebre Manuale di Dhuoda (IX secolo) e in numerose Vitedisanti.L’accostamento fra deperatio e suicidio (o suicidia, poiché il termine compare per la prima voltanel1178nelDequatuor labyrinthis Franciae del canonico agostiniano di Parigi Guillaume de SaintVictor) viene consacrato nel XIII secolo da numerose autorità. Pertanto, la maggior parte delle volte, i suicidi sono attribuiti semplicemente alla disperazione. Unmanualeinglesedestinato aipreticitauntipodiaccidia caratterizzata dalla «disperazione o fatica di vivere»; fonti francesi e italianemenzionanonumerosi casi di suicidio «per disperazione»60. San Bonaventura scrive: «Esiste un’altra forma di disperazione,percuiunuomo chesidisperaradicalmentesi nasconde dalla vista del perdono divino, come feceCaino[...].Unpeccatodi questo tipo si accompagna sempre alla malizia, poiché coluichesidisperainquesto modo,peravercommessoun peccatooaltracosa,desidera metterefineallapropriavita; perquestaragioneaccadeche talidesperatissimisiuccidano moltospesso»61. Dietro tale disperazione ritroviamo spesso il diavolo, incriminato dagli antichi penitenzialideisecoliVII-XI, come il Judicia Theodori, contenente le risposte date dall’arcivescovo di Canterbury Teodoro alle domande dei preti62 nel periodocompresotrail668e il 690. Tale manuale, spesso copiatoeimitato,distinguedi fatto diversi casi: se l’individuo si è ucciso «a causadelladisperazioneoper una qualche paura, o per cause sconosciute, lasciamo chesiaDioagiudicareenon osiamo pregare per lui». Ma, come abbiamo visto, presto viene introdotta una nuova e più severa legislazione, la quale giustifica solamente un tipo di suicidio: quello degli «indemoniati», vale a dire i pazzi. Le Somme dei confessori, che prendono il posto dei penitenziali a partire dal XII secolo, adottanoquestaposizione. Curiosamente, sia il diritto canonico che il diritto civile si mostrano molto indulgenti nei confronti dei tentativi di suicidio che non vanno a buon fine: «Chiunque tenti di uccidersi per impiccagione o con qualsiasi altro mezzo, e che non venga abbandonato da Dio al momento della morte, dovràespiarelepropriecolpe con cinque anni di penitenza»63, dichiara ad esempio il Poenitentiale vigilanum del IX secolo. Le sanzioni sono effettivamente molto leggere: si va dalla riprovazione al controllo. In compenso, il cadavere del suicida è sottoposto a pene infamanti. Le vittime del suicidio vengono sepolte fuori del cimitero, a volte all’incrociodeicammini,con unpioloconficcatonelpetto; ilorobenivengonoconfiscati elalorocasadistrutta.Simili pratichesispieganoforseper la paura del-l’inquinamento causato da un atto «contro natura» e alimentata dalla presenza di un cadavere, come nell’Antichità64. Talvolta si giungeva addirittura a pensare che un suicidio potesse provocare vere e proprie catastrofi naturali, come a Venezia, dove due cronache affermano, a proposito della terribile tempesta che sconvolse la città nel 1342: «C’era a Venezia un maestro di scuola che, per povertà e disperazione,sidonòanimae corpo al Nemico, poiché si diede la morte per impiccagione. Per questa ragione si produsse qui a Venezia la più terribile tempesta che si fosse mai vista»65. Ritroviamo la stessa spiegazione alla fine del XV secolo nella Cronaca di Norimberga, a proposito di una tempesta che seguì ilsuicidiodiunmonaco. Ambiguitàdella disperazionecristiana Nell’arte e nella letteratura del Medioevo, Giuda è l’archetipo della disperazione. Alcune miniature lo rappresentano impiccato, con la scritta «Giuda che si disperò», di fronteallavirtùcontrapposta, la speranza. Innumerevoli rappresentazioni di questa scena, scolpite, dipinte su vetro, come anche molti verbali di suicidi «per disperazione», riportano lamenzione«comeGiuda»66. Spesso il diavolo è nelle vicinanze. Sappiamo che le Scritture non sono chiare a proposito della sorte di Giuda. Se la tradizione dell’impiccagione ha finito con l’imporsi è perché sembrava la più verosimile psicologicamente, moralmenteeteologicamente: il peccato conduce alla disperazioneeladisperazione al suicidio, schema meccanicamente applicato in numerosi processi per suicidio. I cristiani del Medioevo credevano peraltro che altri «cattivi» della Bibbia avessero conosciuto la stessa sorte: circolano voci ad esempio sulla morte di Pilato e di Erode, propagate dalle Storie ecclesiastiche di Eusebio, La LeggendaaureaeiChronica diOttoVonFreising. Gliautorichescrivonoin lingua volgare associano quasi sempre il suicidio alla disperazione. Come spiega Alexander Murray, «essi utilizzano dei derivati vernacolati di desperatio in uncontestodisuicidio,sicché parolecomedesperazioneeil francese désespoir potevano in realtà significare «suicidio», un uso che aveva il doppio vantaggio dell’eufemismo e dell’unione dell’attoinesprimibileconun peccato conosciuto ed esprimibile»67. I teologi si sforzano di andare ancora più a fondo nella questione. Se, in un primotempo,siaccontentano di riprendere la condanna senza appello di Agostino e di spiegarla con l’intervento del diavolo, a partiredalXIIsecoloiniziano a imbastire una teoria maggiormente elaborata per condannare il suicidio sia in nome dei precetti religiosi che in nome della ragione. Abelardo è il primo a sviluppare ampiamente tale argomentonellasuaTeologia cristiana.Nel 1159 Giovanni di Salisbury, nel suo Policratico, confuta l’idea di coraggio che circondava i prestigiosi suicidi dell’Antichità:«Questamorte è la morte delle persone completamentedisperate.Èla morte di coloro che, pur essendo ancora fisicamente vivi, sono già morti prematuramente nello spirito. In breve, si tratta della morte dichicgiàmorto,nondichi è vivo»68. Giovanni di Salisbury è consapevole del paradossocristiano:«Occorre quindi attaccarsi alla vita in modo tale da arrivare a disprezzarla,edisprezzarlain maniera tale da meritare la salvezza». San Bernardo invitaisuoinoviziadunvero e proprio esercizio di equilibrismo esortandoli a praticare il disprezzo di se stessi69.Laregolacistercense è, ai suoi occhi, il miglior garantecontroladepressione: se Giuda fosse stato un cistercense, non si sarebbe suicidato. Avvalendosidellaragione edellanatura,igranditeologi delXIIIsecoloriprenderanno le argomentazioni di Aristotele per giustificare l’opposizione al suicidio. Tommaso d’Aquino vede nel suicidiosiauncriminecontro Dio, contro la natura, che contro la società e contro se stessi:èquest’ideachespiega la punizione originale inflitta da Dante nell'Inferno alle vittime del suicidio. Nel XIV secolo Giovanni XXII, papa dal 1316 al 1334 e fervente ammiratore di San Tommaso,daluicanonizzato, riprende e consacra la sua argomentazione in un sermone tenutosi ad Avignone70.Egliaffermache molte persone si uccidono perché credono in questo modo di sfuggire al mal di vivere: «Potreste pensare che il desiderio di SanPaolodivenirepresoper essere riunito a Cristo possa essere interpretato in questo modo, facendo della morteunbene,einbaseaciò chiedere perché, in questo caso, non dovreste uccidervi». Riprendendo esplicitamente le teorie di Aristotele, il papa risponde: «Questo è chiaro, secondo quanto afferma l'Etica, capitoloV»,dichiaraallafine dellasuaformulazione. Ilcristianesimomedievale demonizzataliangosce,incui vedeunamancanzadifiducia inDio,epromettel’infernoa colorochesidisperanoeche rifiutano le prove della vita. In questo modo non fa che aggravare il mal di vivere degli animi più fragili presi, da un lato, dalle loro sofferenze terrestri ben reali e, dall’altro, dall’idea di sofferenze ancora peggiori che li attendono in caso non riescano a sopportare la loro condizione.Ilmaldivivereè un peccato e, pur vietando di soccombervi, la Chiesa lo alimenta aggiungendovi l’angoscia supplementare della dannazione. In questo modo viene a crearsi un cerchio infernale: l’accidia fa incombere la minaccia dell’inferno e la minaccia dell’inferno alimenta l’accidia;bisognadisprezzare la vita terrestre, ma allo stesso tempo trovarla bella esoprattuttononporvifine. 12Cor.,5,8. 2 Citato da B. FORTHOMME, De l’acédie monastique à l'anxiodépression. Histoire philosophique de la transformation d’un vice en pathologie, Le PlessisRobinson,Sanofi-Synthélabo, Parigi2000,p.528. 3Apophtegmese Scala paradisi, in B. FORTHOMME, op. cit., p. 582. 4 P. BOURGET, Le démon de midi, Plon-Nourrit et C.ie, Parigi 1914; trad, it., Il demone meridiano. Salani, Firenze 1956; J. GUITTON,L'Amourhumain; suivi de deux essais sur les relations de famille et sur le démondemidi,Aubier,Parigi 1955; trad, it., Saggio sull'amore umano, Morcelliana,Brescia1954. 5 SAN NILO, De octo spiritibusmalitiae,cap.14. 6 GIOVANNI CASSIANO, Le istituzioni Cenobitiche, Edizioni Scritti Monastici, Abbazia di Praglia, Bresseo di Teoio (PD)1989,libroV,p.141. 7 GIOVANNI CASSIANO, Le istituzioni,cit.,X,2,pp.247248. 8GIOVANNICASSIANO,Le istituzioni...,cit.,IX,p.240. 9Ibidem. 10Ibidem. 11 ID., Consolationes, IX,6. 12AUSONIO,Epistola 22,70, in Epistole, Il Cardo, Venezia1995,p.52. 13 B. FORTHOMME, Del’acédie...,cit.,p.449. 14Ivi,p.456. 15G.MINOIS,Histoire du rire et de la dérision, Fayard, Parigi 2000, pp. 95134;trad,it.,Storiadelrisoe della derisione, Dedalo, Bari 2004. 16 T.-M. HAMONIC, L'acédie et l’ennui spiritual selon saint Thomas, in L'ennui: féconde mélancolie, a cura di D. Nordon, Autrement, Parigi 1998, p. 92. 17 J. LACARRIÈRE, Les hommes ivres de Dieu, Arthaud,Parigi1961. 18 B. FORTHOMME, in «Magazinelittéraire»,n.411, luglio-agosto2002,p.31. 19 SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, A Stagirio tormentato da un demone, CittàNuova,Roma2002. 20 ISIDORO DI SIVIGLIA, Etimologie o Origini, vol. I, UTET,Torino2004,p.843. 21ADAMTHESCOT,De quadripartitoexercitiocellae, cap.24,Parigi,J.-P.Migne,t. 153,p.842. 22 Citato da R. KLIBANSKY,E.PANOFSKYe E SAXL, Saturno e la melanconia: studi di storia della filosofia naturale, religione, arte, Einaudi, Torino1983. 23 R. KLIBANSKY, E. PANOFSKY e E SAXL, Saturnoelamelanconia,cit. 24G.MINOIS,Histoire de l'avenir. Des prophètes à la prospective, Fayard, Parigi1996,pp.199-228. 25 ALAIN DE LILLE, Anticlaudianus,IV,8. 26 E. GlLSON, La cosmologie de Bernardus Silvestris, Archivi di storia dottrinale e letteraria del Medioevo,t.III,Parigi1928. 27D.DEMobley,Liber de naturis inferiorum et superorum, a cura di K. Sudhoff,Lipsia1917. 28BARTOLOMEOANGLICO, De proprietaribus rerum, VIII,23. 29 GUIDO ΒΟΝΑΤTI De astronomia, 1,3, in R. Klibansky, F. Panofsky e F. Saxl, Saturno e la melanconia,cit. 30G.MINOIS,Lesorigines dumal.Unehistoiredupéché originel,Fayard,Parigi2002, cap.2. 31 ILDEGARDA DI BINGEN, Cause e cure dell’infermità, Sellerio, Palermo1997,p.218. 32Ivi,p.82. 33Ivi,p.127. 34 ILDEGARDA DI BINGEN, Causeecure,dt. 35 AVICENNA, Liber canonis,III,1,4,cap.XIX. 36 COSTANTINO AFRICANO, Della melancolìa, Tip. E. Possidente, Roma 1959. 37 A. MURRAY, Suicide in the Middle Ages, Oxford University Press, Oxford1998,t.1,pp.278-285. 38 COSTANTINO AFRICANO, Della melancolia, cit. 39Ibidem. 40 COSTANTINO AFRICANO, Della melancolia, cit. 41 ALBERTO MAGNO, De animalibus libri XXVI nach der Cölner Urschrift, a cura di Stadler, Aschendorff, Münster1916-1921,vol.I,p. 330. 42 GUILLAUME D’AUVERGNE,De universo, II, 3,20. 43 OTLOH DI SANT’EMMERAN, Das Buch von seinen Versuchungen: e. geistl.Autobiographieaus.d. 11. J.h., Aschendorff, Münster1977. 44 DAVID D’ASBURGO, Formula novitiorum. De interioris hominis reformatione,acuradiBigne, t.25,p.893. 45ALESSANDRODIHALES, Sommateologica,III,558b. 46 JACQUES DE VITRY, HistoriaOccidentalis,cap.V. 47 SAN FRANCESCO D’ASSISI,Gliscrittieifioretti. 48 SAN TOMMASO D’AQUINO, Somma teologica, Ia,Iiae,Q37,a1. 49 A. MURRAY, Suicide..., eit., t.1: The Violent Against Themselves, 1998;t.II:TheCurseofSelfmurder, 2000; t. III: The Mapping of Mental Desolation, di prossima pubblicazione. 50 Tutti gli esempi seguenti sono tratti da A. MURRAY, Suicide..., cit., t. I. 51 A. MURRAY, Suicide...,cit.,t.1,pp.85-91. 52 D. CAVALCA, Disciplina degli spirituali, Bottali,Roma1838,cap.19. 53 DANTE, Divina Commedia, Inferno, canto VII,121-126. 54CHRISTIAN DESTABLO, Commentale sur l’Évangile deMatthieu,cap. 55 SAN BERNARDO, Sermone sui cantici, n. 66, § 13. 56ILDEGARDA DIBINGEN, Causeecure,cit.,p.216. 57R.JEHL,Melancholie und Accedia, Schöningh, PaderborneMonaco1984,p. 235,252. 58 A. MURRAY, Suicide...,cit.,t.II,p.365. 59 SANT’AGOSTINO, La città di Dio, I, XXVI, SEI, Torino1958,p.132. 60 A. MURRAY, Suicide..., cit., t. II, ρ. 382, ρρ.387-391. 61 R. JEHL, Melancholie,cit.,p,252. 62 Councils and Ecclesiastical Documents relating to Great Britain and Ireland,Oxford1869-1878,3 voli.,vol.3,ρ.197. 63J.T.MCNEILL EH.M. GARNER, Medieval Handbooks of Penance, Columbia University Press, NewYork1938,p.291. 64 A. MURRAY, Suicide...,cit.,t.Π,pp.55-85. 65Ivi,1.1,p.112. 66 A. MURRAY, Suicide..., cit., t. II, pp. 323339. 67Ivi,p.321. 68 GIOVANNI DI SALISBURY, Policraticus, a cura di C.C.J. Webb, Oxford 1909, 2 voli.,vol. 2, cap. 27, righe 7-10; trad, it., Policraticus: l’uomo di governo nel pensiero medievale,JacaBook,Milano 1984. 69 SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE, S. Bernardi opera4sermonesI[N.1-17] / ad fidem codicum recensverunt, a cura di J. Leclercq e H. Rochais, Ed. Cistercensi, Roma 1966, t. IV,p.76. 70 B.N.F., ms latino 3290,f.16-19. Capitoloterzo Ilsecolodella malinconia(14801630) L’incisioneMelancholiaI di Albrecht Dürer appare nel 1514, mentre nel 1621 viene pubblicata l’opera di Robert Burton Anatomia della malinconia. Fra queste due pietre miliari si colloca il secolodellamalinconia,cheè poi anche il secolo del Rinascimento,dell’Umanesimo e della Riforma. La nascita dello spirito moderno non poteva che essere malinconica. Il fatto di rimettere in discussione certezze plurisecolari suscita meditazione, dubbio, spinge allo studio, al dibattito, alla contestazione. L’umanista che rivendica la propria autonomia è, almeno inizialmente, ottimista, ma certo non è felice, poiché si sente sempre più solo in un mondo via via più vasto. A partire dall’epoca di Cristoforo Colombo la Terra è diventata più grande; da Copernico in poi l’universo cresce incessantemente (Giordano Bruno azzarda persino che sia infinito); con Lutero Dio si allontana: niente più icone, niente più intercessori né indulgenze.L’umanistainizia a intravedere la solitudine dell’uomonell’universo. Umanesimoe individualismocome fattoridiinquietudine Ilnuovointellettualeèun solitario, chiuso nel suo studio fra libri e mappe astronomiche, non divulga le sue scoperte, diffida dei suoi simili e delle reazioni che le autorità religiose potrebbero avere. Nel mondo scientifico il disagio diventa chiaramente percepibile: Copernico rivela solo a malincuore le sue ipotesi e altri sono manifestamente depressi, come Paracelso, Cornelio Agrippa o Geronimo Cardano, il matematico astrologo che si suicidò nel 1575, come già aveva fatto suo padre nel 1524. Alla solitudine si aggiungono le incertezze materiali. Molti intellettuali vivono in condizioni precarie e spesso sotto l’egida di qualche ricco mecenate; alcunimettonopersinofineai loro giorni, come l’umanista Bonaventure Despériers nel 1544. Spirito troppo libero, legato agli ambienti contestatari protestanti dell’entourage di Margherita di Navarra, ammiratore degli Antichi e in particolare di Seneca, di cui traduce le opere, questo intellettuale originale e pessimista, divenuto sospettoso di tutto, cade nella disperazione nel momento in cui viene abbandonato dalla sua protettrice. Si getta allora sulla sua spada e viene trovato trafitto da parte a parte. L’altra causa di disperazionecheminacciagli umanisti è la conquista impossibile del sapere universale.Laloroinsaziabile fame di conoscenza porta i piùansiosiamisurareilimiti della mente umana. La disillusione è amara per coloro che avevano creduto che la scienza universale fosse a portata di mano. Scrive Dùrer: «Vorremmo sapere molto e detenere la verità su tutte le cose. Ma la nostra intelligenza ottusa non può raggiungere la perfezione dell’arte, della verità e della saggezza. Al fondo delle nostre conoscenze non v’è chemenzognaeletenebreci avviluppano così impietosamente che, pur procedendo con prudenza, inciampiamoadognipasso». Faust incarna la frustrazione dell’intellettuale posto di fronte ai limiti della mente umana e il fatto che il suo mito nasca nel XVIsecolononèuncaso.A Francoforte, nel 1587, al momento della sua pubblicazione, la Storia del Dottor Faust non è che la storia anonima e semi-storica della vita di un avventuriero dissoluto, astrologo, mago e ciarlatano, che muore tragicamente nel 1540. L’autoreillustralatentazione dellasapienzaillecitaottenuta con un patto diabolico e sottolinea la smisuratezza di Faust: astrologo, matematico, teologo e medico, egli volle sondarelefondamentaultime del cielo e della terra, e sarà proprio la sua bulimia di conoscenza,chiamata«furore malinconico»,acondurloalla disperazione quando capisce che la conoscenza assoluta è fuori dalla sua portata e che deve abbandonare il sapere acquisito nel corso di tutta una vita di lavoro. Christopher Marlowe riprende la storia l’anno seguente e ne amplia il significato in una magnifica tragedia: Faust vuole uguagliare Dio e, davanti al suo fallimento, pensa di uccidersi. Secondo gli autori delXVIsecolo,dietroquesto mito si cela una della cause essenziali della malinconia: l’eccesso di lavoro intellettuale. Religione e umanesimo non sono però i soli temi in discussione, il disagio riguarda infatti anche i cambiamenti socioeconomici. Il capitalismo nascente inizia a rifiutare gli obblighi corporativi; le strutture tradizionalicomelafamiglia, le corporazioni, le comunità religiose vacillano, provocando il declino delle pratiche comunitarie. Questa progressione dell’individualismo, nella religionecomenellaculturae nell’economia, si traduce in un interesse crescente di ognuno per la propria immagine. Studi di fisionomia,ritratti,autoritratti e autobiografie mostrano la nascitadiunnarcisismocheè esso stesso fonte di malinconia. L’interesse per l’aspetto fisico è dato dal fatto che, secondo la concezioneplatonica,ilcorpo è l’immagine dell’anima. Marsilio Ficino, uno dei grandi iniziatori di questo ritorno alla ribalta del platonismo, scrive nel 1484: «Ovviamente non possiamovederel’anima[...], mapossiamovedereilcorpo, che è ombra e immagine dell’anima e per similitudine possiamo supporre che in un bel corpo risiedaunabellaanima.Ecco perchépreferiamoaveredegli allievi belli»1. Poiché l’aspetto dovrebbe rivelare il carattere, numerosi trattati sullafisionomiaelaboranoun sistema complesso di corrispondenze, come il De humana physiognomia di Giambattista della Porta (1586) o l'Examen de ingenios para los ciencias di JuanHuarte(1575). L’uomodiventailproprio oggetto di studio. Il ritratto diviene, infatti, un genere pittorico in pieno sviluppo. Nel XV secolo sono principalmente i personaggi dell’alta aristocrazia, ma anche la borghesia, a voler lasciare un’immaginediséegliartisti del XVI secolo si cimentano sempre di più nell’arte dell’autoritratto. Oltre a un banale segno d’orgoglio, bisogna vedere in questa tendenza il segnale di una crescente inquietudine. Ritratti e autoritratti sono altresì dei tentativi per fermare gli «irreparabili oltraggi» del tempo, per fissare la propria immagine e trasmetterla, immutabile, alle generazioni future. Nel XVII secolo Rembrandt realizzerà più di un centinaio di autoritratti, dove è possibile ammirarlo man mano giovane, vecchio, sorridente, serio, arrabbiato, mendico o nelle vesti di un principe. È fuor d’ogni dubbio che vi sia in questo una forma ansiosa del desiderio di immortalità: «Rembrandt dipinge unicamente il presente del suo viso, il qui e ora. Ogni ritrattoèunasospensionedel tempo.Leoperesuccessivedi Rembrandt sono una serie di tempi fermati, non una durata»2, scrive Pascal Bonafoux. Victor Stoichita, da parte sua, ritiene che Rembrandt «affidi all’autorappresentazione periodica il suo desiderio di salvezza»3. Autoritratti,autobiografie, il procedimento è sempre il medesimo: si vuole plasmare la propria immagine, autogiustificarsi e immortalarsi nella posa scelta. All’origine dell’autobiografia vi è infatti spessoun’angosciadeltempo che passa e un’angoscia rispetto allo sguardo dell’altro. La prima autobiografia è datata 1542 ed è quella del matematico e filosofo Geronimo Cardano, grande depresso che finisce persuicidarsi4.Essaèseguita da quella di Benvenuto Cellini, turbolento artista avventuriero che tenterà il suicidio e narrerà tale episodionellesueMemorie5. I Saggi di Montaigne si ricollegano in un certo qual modo a questa corrente. Scrive Jean Starobinski: «La riprovazione di Pascal [rispetto alle confessionidiMontaigne],mi sembra, non si rivolge solo a un atto di orgoglio ma, più profondamente, al peccato di disperazione commesso da Montaigne quando, invece di rispondere alla morte con un atto di fede nella promessa divina,ricorreallaletteratura, all’arte, per tracciare un’immaginedellasuavitada affidare alla posterità»6. Si può discutere della malinconia di Montaigne, come vedremo, ma la sua evoluzione si allinea all’insorgenzadell’inquietudine moderna, cioè l’inquietudine dell’individuo incentrato su se stesso e con uno sguardo ansioso su un mondo che va pericolosamentealladeriva.Il mal di vivere di questi precursoridellamodernitàha, come fonte prima, l’inadeguatezza fra sé e il mondo. SottoilsegnodiCrono Al centro del malessere degli umanisti c’è anche il tempo, percepito come distruttoreenoncomemezzo per raggiungere la liberazione.Perquestiuomini cheriscopronolabellezzadel corpo e del viso, che cominciano a riabilitare la materia, che ammirano l’umanità e le sue realizzazioni artistiche e intellettuali, il tempo diventa ilnemicoprincipalecheviene a offuscare la bellezza, a indebolire le capacità e ad annunciare la morte. Molto significativo, a questo proposito, è il fatto che nel corsodeisecoliXVeXVIsi realizzi la fusione fra allegoria del Tempo e rappresentazione di Saturno. Il tempo e il temperamento malinconico sono ormai indissociabili.Kronosdiventa Cronoegeneralamalinconia. Fra il 1340 e il 1370, per illustrare l’opera II Trionfo del Tempo del Petrarca, alcuni artisti hanno inizialmente fissato l’immagine del Tempo rappresentandolo come un vecchio ricurvo appoggiato sullestampelleeprovvistodi uno o due paia di ali a raffigurareilsusseguirsidelle stagioni.Talvoltavieneanche rappresentato con una falce per ricordare che è foriero di morte. Nel XV secolo tale immagine si accompagna a una o due clessidre, come possiamo notare su una miniatura fiorentina del British Museum datata 14601470: canuto e barbuto, il vecchio figura su un carro trainatodaduecervi;sottosi possono leggere questi versi delPetrarca: Che più d’un giorno èlavitamortale? Nubil e brev’ e freddoepiendinoia, che pò bella parer, manullavale.[...] Così, fuggendo, il mondosecovolve, né mai si posa né s’arrestaotorna, finchev’àricondotti inpocapolve7. La fusione di Saturno e del Tempo genera effetti ambigui. Il temibile astro aveva una cattiva reputazione: arido e freddo, associato alla vecchiaia, alla lentezza, all’invalidità, alla sofferenza, alla bile nera e alla malinconia, esso doveva teoricamente influenzare i becchini, i mendicanti, i criminali, coloro che esercitavano professioni infamanti e provocare dissapori e infermità. I neoplatonici, Marsilio Ficino principalmente, nato egli stesso sotto il segno di Saturno, tentano di riabilitarlo. Più «elevato» di Giove, si dice che governi la mente, favorisca la meditazione e permetta di carpire i segreti più inaccessibili. Scrive Pico della Mirandola: «Saturno incarna la natura intellettuale votata esclusivamente ad amministrare e mantenere in movimento, attraverso le sue regole, quanto le viene sottoposto[...].Sidiceinfatti che Saturno produca uomini contemplativi, mentre Giove conferisca loro le funzioni di principe, governatore e amministratore dei popoli»8. Insomma, i saturnini sono personestraordinarie. Ma molti non ne sono convinti. Nel 1516 Baldung Grien rappresenta SaturnoCronocomeunvecchioirsuto dallo sguardo perfido; un’incisionemoltosuggestiva diMartenVanHeemskerklo raffigura con la falce del Tempo mentre divora la gambadiunbambinoeregna sugli impiccati, sugli agrimensori e sugli storpi. L’umanista tedesco KonradCeltis,natoanch’egli sottoilsegnodiSaturno,non perdona a questo pianeta di avergli arrecato «grandi dispiaceri» e lo supplica di smettere di scagliare le sue «frecceammorbanti». Saturno-Crono diviene il distruttoredellareputazionee della bellezza, come si evince, secondo Pieter Bruegel il Vecchio, da un’incisione di Philippe GalleintitolataTempusomnia et singola consumens(1574), in cui Saturno siede su una grande clessidra intento a divorare un bambino e a tenere un serpente che si morde la coda. Una moltitudine di simboli fanno di quest’opera un vero e proprio ricettacolo di misfatti del tempo. Nella tradizione dei Trionfi di Petrarca, Saturno guida un carro trainato da due cavalli che raffigurano la Notte e il Giorno e viene seguito dalla Morte a cavallo, che prende le fattezze di uno scheletro, vestito di un sudario, che brandisce la falce. In primo piano un ammasso di strumentimusicali,diutensili perlapitturaelascritturaedi simboli del potere, oggetti che rappresentano le vanità umane. Sullo sfondo naufragio e incendio, ma anchefesteggiamentipopolari attornoall’alberodelmaggio: sono gli eventi della vita che vengono velocemente superati9. Il XVI secolo vede la diffusione di questi tipi di incisioni e di pitture raffigurantiidannideltempo. DaDüreraBaidungGrien,da Georg Pencz a Hermannus Posthumus, gli artisti rivaleggiano nel macabro, nell’atroce e nell’orrido. Il tempoèl’ossessionedelXVI secolo: i pittori lo rappresentano, i poeti lo declamano, dai sonetti di Shakespeare alla rosa di Ronsard.IltemadelleVanità ne è un ennesima illustrazione. Comparso nel XV secolo, questo stile pittorico, incentrato sul memento mori, si sviluppa dopo il 1500 in scene che associano cultura e morte, come un personaggio biblico o un Padre della Chiesa, San Geronimo in particolare, in uno studio circondato da libri e da strumenti scientifici e con di fronte un teschio. Il San Geronimo di Joos Van Cleve ad esempio, datato 15241530, è rappresentato di fronte a un libro aperto con l’indice appoggiato su un teschio. Quelli di Dürer, di Lucas Van Leyden e di Marinus Van Reymerswaele riproducono questo gesto. Il teschio è spesso presente nei dipinti del XVI secolo, presenza ossessiva che incombe anche sui potenti e che a volte si fonde nella scena, come nell’anamorfosi de Gli ambasciatori di Hans Holbein, talvolta addirittura affermando la sua vittoria, comeneIItrionfodellamorte diPieterBruegel(1562).Una tale frequenza del tema della morte e del tempo distruttorenonpuòcheessere segno di una riflessione malinconica sull’esistenza umana. Eppurelegrandicalamità sono terminate. L’Europa, chescopreeconquistanuove terre,conosceunforteslancio economico. Le conoscenze progrediscono, l’arte di viveresiraffina,almenonella circoscritta élite protagonista della fortuna e della rinascita; la mente umana si libera e si sorprende di se stessa. Questa seconda rinascita sembra gioiosa, ma l’apparenza inganna: i progressi stessi della mente umana la rendono più lungimirante sulla sua miseria, e soprattutto, l’uomo comincia a rendersi conto di essere responsabile delle proprie sofferenze. Sottol’effettodelleideedi Lutero e Calvino, gli autori interiorizzano il peccato originale, prendendo coscienza del loro stato di corruzione irrimediabile che annientaqualsiasisperanzadi progresso morale10. L’uomo medievale si sentiva vittima rassegnatadeicastighidivini; l’uomo del Rinascimento trova conferma di essere la causa delle proprie disgrazie. Ci sono meno carestie, ma la guerra è endemica (si scatenano in particolare le guerre di religione); vi sono meno casi di peste, ma viene mandato al rogo un numero sempre maggiore di maghi, stregheederetici.Cisivanta della ragione, ma ci si comporta in modoirrazionale;sirivendica piùautonomiarispettoalDio vendicatore, ma ci si rende contodinonvalerepiùdilui. Fra l’uomo e Dio, chi è l’immagine l’uno dell’altro? Tutto ciò non può che alimentarecuperiflessioni. MarsilioFicinoe CornelioAgrippa:la riabilitazionedella malinconia La malinconia viene rivendicatacomeunsegnodi profondità e genio grazie al grande processo di riabilitazione operato da MarsilioFicino. La posizione del Fiorentino si spiega anzitutto con un fattore psicologico esistenziale, cui conferisce rispettabilità dandogli unaparvenzadiintellettualità platonica. Marsilio Ficino è un depresso, su questo non c’èdubbio;losievinceanche dalleparolechescrivealsuo amico Giovanni Cavalcanti: «In questo momento non so, percosìdire,ciòchevoglio;a menoforsecheiononvoglia ciò che so e voglia ciò che non so». Inquieto, febbrile e indeciso,eglisisenteinfelice senzaragione: Del resto, quale meraviglia? Tutte le voltechecenestiamoin ozio ci sentiamo tristi come se fossimo in esilio, nonostante che non riusciamo a comprendere la causa della nostra tristezza o, addirittura, non ci pensiamoaffatto.Daciò deriva che l’uomo non può vivere in solitudine. Infattiriteniamodipoter scacciarelatristezzache si cela nel nostro animo tramiteilcommerciocon gli altri uomini e per mezzo della molteplice varietàdeglisvaghi.Ma, ahimè, troppo ci sbagliamo! Nel bel mezzo dei divertimenti spessosospiriamoe,alla fine della festa, ce ne andiamo più tristi di come ci eravamo venuti11. Diversamentedall’accidia medievale,chespessoveniva tradottainterminidiletargia, Ficino si definisce sempre in movimento, irragionevolmenteagitato.La novità è che questo è motivo di esaltazione per lui, che dà un’interpretazionelusinghiera della sua malinconia, elaborando una teoria in cui mette insieme Platone, Plotino (di cui traduce le opere), Aristotele, la medicina, l’astrologia e il cristianesimo. Bizzarra sintesi,chesedurràunabuona parte dell’élite intellettuale. La mente umana, «vapore di sangue, pura, sottile, calda e chiara», subisce l’influenza dei pianeti, spiega Ficino nel primo volume dei suoi Libri de vita triplici. I nati sotto il segnodiSaturnosonoportati allamalinconia;èunsegnodi genialità, poiché Saturno è il piùpotenteeilpiùnobiledei pianetiedelevalospiritofino alla contemplazione delle cose segrete, superiori, chepermettonodiaccedereal mondo trascendente, inaccessibileaglialtriuomini. Questa qualità è rafforzata dalla predominanza, nel malinconico, della bile nera che, «simile essa stessa al centro del mondo, spinge l’anima a ricercare il centro delle cose singolari. Essa si innalza fino alla comprensione delle cose più alte, tanto più che si accorda pienamente con Saturno, il più alto dei pianeti». Ma nel momento in cui il filosofo è in piena meditazione, il suo corpo viene sottoposto a una tensione insostenibile, come se la sua anima si dovesse staccaredalcorpo: Ma tra tutti gli uomini di lettere sono infestati dall'umor nero specialmente quelli che, deditiallostudioassiduo della filosofia, astraggono la mente dal corpo e dalle cose corporee e la fissano sulle realtà senza corpo: sia perché questa è un’attività particolarmente difficile, che richiede anche una tensione mentale particolare; sia perché fintanto che tengono la mente a contatto con la verità incorporea, per tutto quel tempo sono costretti a tenerla disgiunta dal corpo; sicchéillorocorposifa non di rado semivivo e quasi soffocato dalla malinconia. E il nostro Platone descrive questa situazione nel Timeo, quando dice che l’animo, per frequente e intensa contemplazione delle cose divine, a tal punto si fa vigoroso e potente, che si distacca dalpropriocorpoaldilà di ciò che la natura sopporta; e nei suoi movimenti più intensi talvolta o l’abbandona, in qualche modo, o non di rado dà l’impressione di scompaginarlo12. Ficinoriconciliadunqueil concetto aristotelico del malinconico brillante, l’ispirazione platonica del «furore divino», l’influenza astrologica saturnina e gli effetti fisiologici della bile nera. Si può essere malinconici dalla nascita, comeFicinostesso,natonella fase ascendente di Saturno, e allorasièspintinaturalmente verso lo studio delle cose spirituali; oppure malinconici perdeformazione,inuncerto qual modo per adozione, e votarsiallavorointellettuale. Improvvisamente Saturno prende un’aura di immenso prestigio grazie a Platone, il quale viene arbitrariamente catalogato sotto il suo segno. A Firenze, l’Accademia platonica è il centro del suo culto, con un piccolo gruppo di saturnini, fra cui Lorenzo il Magnifico, il suo medico Pierleoni e Ficino, tutti malinconici e fieri di esserlo. Il prestigio di questo circolo va a contribuire grandemente alla riabilitazione della malinconia, fino a ergerla a «temperamento obbligato» dell’intellettuale del XVI secolo. Ma ecco il rovescio della medaglia: la malinconia è sofferenza, mal di vivere, e Ficino deve esserne consapevole, poiché, pur esaltandone il carattere superiore, egli dedica lunghe digressioni al modo di combatterla. Saturno è ambivalente: esso innalza lo spirito, ma può anche condurre alla follia o alla debolezza. Bisogna dunque diffidaredellasuainfluenzae prenderelemisurenecessarie per moderarla. Ficino prende quindi spunto dalla medicina e consiglia, sulla scia degli altri autori medievali, medicinalieinalazioniabase di piante. Il ricorso a questi veri e propri antidepressivi deve essere completato dai talismani, che permettono di concentrare l’influenza di altri pianeti al fine di equilibrare quella di Saturno. Infine, una buona igiene di vita contribuirà ad alleviare gli effetti della malinconia. Anzitutto è consigliabile evitare tutti gli eccessi: l’intellettuale deve bere e mangiare con moderazione, fare l’amore raramente; è raccomandabile inoltre che si faccia fare dei massaggi; che si alzi presto e che per prima cosa vada in bagno; inoltre è consigliabile che inizi lo studio all’alba, con una piccolapausaaogniora;che il pomeriggio legga preferibilmente gli Antichi; che non lavori la sera e la notte; che abiti in una casa gradevole e orientata nella giusta direzione; che ascolti lamusicaefacciapasseggiate a piedi, di preferenza «nelle regioni alte, temperate, dove il cielo è sereno, poiché il contattoconiraggidelsolee delle stelle è più libero e più puro;essicolmanolamentee lo spirito del mondo, che sgorga abbondante attraverso diessi». I Libri de vita triplici hanno un grande successo. Conventiseiedizioniinlatino nell’arco di un secolo e molteplici traduzioni,diffondonointutta l’Europa dotta l’immagine dell’intellettualemalinconico. Malamalinconianonrimane a lungo un privilegio dei filosofi. Molto presto anche artisti e scienziati rivendicheranno questo temperamento ispirato. Sin dal XIII secolo il teologo Henri de Gand aveva riflettuto sui rapporti fra malinconia e attitudine allamatematica,distinguendo due tipi di uomini dal punto di vista delle capacità intellettuali: coloro che sono dotati per la speculazione metafisica, poiché la loro mente non è disturbata dall’immaginazione, e coloro che non riescono a ragionare senza immaginare l’oggetto della loro riflessione. Fra questi ultimi, le menti matematiche hanno l’intelligenza inquinata dall’immaginazione e la consapevolezza di questo limite li rende malinconici: «Il loro intelletto non può superare la loro immaginazione [...]. Per quanto cogitino, occorre che ilpensierosiestendao,come il punto geometrico, che occupi una posizione nello spazio. Per questo sono malinconici, e sono migliori nella matematica che nella metafisica, poiché non possono estendere la loro intelligenza al di là della magnitudinesucuisifondano lematematiche»13. All’inizio del XVI secolo un pensatore tedesco, Agrippa di Nettesheim, più conosciuto sotto il nome di CornelioAgrippa,rovesciale prospettive nel suo Occulta philosophia(1510). Per Agrippa, l’umore malinconico influenza le tre qualità dell’anima: lo spirito, ilcuioggettoèlaconoscenza dei segreti divini; la ragione, chestudiagliesserinaturalie l’uomo;l’immaginazione,che dirigeleattivitàmeccanichee artistiche. Ammiratore di MarsilioFicino,egliapplicaa questi tre campi le sue idee riguardanti l’influenza saturnina: il furore saturnino stimola lo spirito dei grandi teologi e profeti; la ragione deigrandidottiefilosofie,in ultimo, l’immaginazione dei grandiartisti,anchesemagari non hanno potuto compiere alcuno studio in tale campo. L’ispirazione artistica è un vero e proprio delirio malinconico: Si dice anche che l’umore melanconico abbia tanto potere da costringere gli spiriti celesti a incarnarsi nel corpo umano, così che gli uomini melanconici parlano e agiscono sotto la loro ispirazione superiore [...]. L’anima, esaltata dall’umoremelanconico, rompe le pastoie delle membraedelcorpoesi diffonde tutta nel dominio della immaginazione, divenendo ricetto dei demoni di ordine inferiore, da cui spesso apprende le arti più sottili. Perciò spesso è dato vedere un uomo ignorante e grossolano trasformarsi in abile pittore, in eccellente architetto, o in altro artista[...]14. Come Marsilio Ficino, Cornelio Agrippa si ispira al contempo a Saturno, ad Aristotele e a Platone per mostrare che ogni uomo geniale è in realtà un malinconico: Saturno[...],essendo freddo e secco come lo stesso umore, vale ad aumentarlo a conservarloeaesaltarlo. Inoltre Saturno, essendo l’autore stesso della contemplazionearcanae alieno dagli affari pubblici e il più alto dei pianeti, storna le anime dalle occupazioni esteriori, le trascina verso le meditazioni interiori, le attira verso le cose future, come intendeAristotilenelsuo libro dei Problemi. In virtù della malinconia, egli dice, molti uomini sono divenuti indovini e hannopresagitoilfuturo ealtrihannopoetato.Di più dice che tutti coloro chesisonodistintinelle scienze erano per lo più melanconici. Democrito e Platone condividono tale opinione e asseriscono che molti melanconici hanno tanta spiritualità da sembrare più che uomini divinità. [...]EneiProblemi dice che le Sibille, le Baccanti, Nicerato di Siracusahannopoetatoe presagitoilfuturoperla forza del loro umore melanconico.[...]Alcuni melanconici, d’ordinario grossolani inabili e dotati di scarso spiritualismo, quali Esiodo, Ione di Chio, Tinnico il Calcifico, Omero e Lucrezio, trasportati da improvviso furore,diventanopoetie creano opere tanto ammirevoli che appena essi stessi giungono a intenderle15. Il legame fra genio artistico e malinconia si imponerapidamente,alpunto da divenire un cliché che viene affibbiato d’ufficio a personaggi dalla reputazione diuominisereni,equilibratie felici di vivere, come Raffaello. Nel 1519 un incaricato d’affari di Ferrara, tale Pauluzzi, scrive a riguardo di essere «portato alla malinconia, come tutti quelli che possiedono talenti cosìeccezionali»16.Nel1585 talelegamediventaevidentee la critica di Romano Alberti neprecisaleragioni: I pittori divengono malinconici perché, volendo imitare, devono mantenere i fantasmi all’interno del loro intelletto: a questo fine, li esprimono in seguito nel modo in cui li avevano visti inizialmente in presentia, nel momento stesso;equestononuna sola volta, ma continuamente, poiché è proprio in questo che consisteilloroesercizio: ecco perché il loro spirito è tanto astratto e separato dalla materia e, diconseguenza,provoca la malinconia. Aristotele, peraltro, sostiene che significhi intelligenza e lungimiranza, poiché, sempre secondo lui, quasi tutti gli esseri intelligenti e lungimiranti sono stati malinconici17. Lamodadella malinconia,dall’Italia all’Inghilterra I malinconici sono ovunque, scrive Robert Burton nel 1621: «Questa malattia crudele [...] sta attualmente flagellando, su quasituttal’Europa,lenostre persone di qualità»; essa è «così comune nella nostra epoca di stupidità che solo una persona su mille ne è indenne». Ma quanti sono gli autentici malinconici? È impossibile saperlo, poiché per molti è solo un modo di apparire, «esattamente come la Melancholia dipinta da Albrecht Dürer: una donna triste, appoggiata sul gomito, gli occhi fissi e i vestititrascurati»18. In ogni caso i libri sulla malinconia si contano a decine. Citiamo, per la Francia, Le miroir du mélancholique di Meury Riflant (1543), il Second discours auquel est traicté des maladies mélancholiques etdesmoyensdelesguérirdi André Du Laurens (1595), il trattato De la mélancolie di Guibelet (1603), il Traité de l’essenceetguérisond’amour ou de la mélancolie érotique di J. Ferrand (1612) e il TraitédelamélancoliediLa Mesnardière(1635). Le opere del tardo Rinascimento danno prevalentemente un’immagine lusinghiera dellamalinconia.Certo,èuna malattia, ma la malattia degli esseri eccezionali che, nel dolore,permettediaccederea verità altrimenti nascoste ai comuni mortali, affermano sia l’olandese Lennio che gli spagnoliQuartedeSanJuane Luis Mercado, o l’italiano GiovanniBattistaSilvatico. Se gli autori distinguono diverse varietà di malinconia - religiosa, amorosa, furiosa, cinica, misantropica e altre restano comunque unanimi nell’affermare che provenga dall’Italia. Tuttavia anche l’Inghilterra viene invasadalvirusMelancholia. Sin dal 1532 un nobile veneziano,dopounsoggiorno di due mesi a Londra, constata che in questa città «molti sono portati a impiccarsi o a gettarsi in un pozzo e a lasciarsi annegare»19; nel 1562 l’ambasciatore imperiale a Londraosservachegliinglesi si suicidano spesso: «La settimana scorsa quattordici persone, fra uomini e donne, sisonoucciseimpiccandosio gettandosinelTamigi»20. Nei castelli stile Tudor e in particolare elisabettiani, la galleria dei ritratti è estremamente rivelatrice: spesso emaciati, in un mistoditristezzaeseverità,i visi austeri dei personaggi vestiti di nero tradiscono la volontà deliberata degli aristocratici di presentarsi come malinconici, come se vedesseroinquestounsegno didistinzione. Apartiredaglianni1580, la letteratura si impadronisce di questo tema, ed è in Inghilterra che compaiono tutte le grandi opere sulla malinconia e il suicidio: A Treatise of Melancholy di Timothie Bright (1586) e Anatomiadellamalinconiadi Robert Burton, su cui torneremo, ma anche il romanzo filosofico di Philip Sydney, The Countess of Pembroke’s Arcadia (1580), ilsaggiodiFrancescoBacone sulla morte (1607), il Biathanatos di John Donne (1610), The City of Dreadful Night and other poems, dove James Thomson descrive in versi la Melancholia I di Dürer, «che supera ogni intelligenza». Gli eroi depressinonsicontanopiùa teatro: oltre ai suicidi shakespeariani, un centinaio di opere di Robert Wilmot, MarySydeny,SamuelDaniel, Thomas Kyd, Ben Jonson, John Marston, Thomas Heywood, Thomas Dekker, Francis Beaumont, John Fletcher e William Rowley,frail1580eil1625, mettono in scena quasi duecento morti volontarie. Visibilmenteinquestoc’èpiù diunamoda:ilfattochetanti eroi arrivino a preferire il suicidio come sola via onorevole di uscita tradisce un malessere socioculturale. «Lo smarrimento morale dei giacobiniapparequiinmodo indiscutibile», scrive Bernard Paulin, autore di un grande studio sull’argomento21. Un personaggio di William Rowley si suicida persino senza motivo: «Poiché comunque dovrò morire, un giornovalel’altro». Ma prendiamo in considerazione il maestro William Shakespeare, che da solo mette in scena ben cinquantaduesuicidi.Tuttala sua opera è infatti una variazionesultema«essereo non essere». La vita, con i suoi drammi spinti fino al parossismo, vale la pena di essere vissuta? Amleto è il principe dei malinconici, il modello dei depressi. Perseguitatodalpropriosenso del dovere, velleitario, egli vaga ponendosi domande esistenziali; ora febbrile ora abbattuto, erra nei cimiteri, parlaconunteschio,pensadi uccidersi e non si uccide, sirifugianellafolliasimulata. Ed è questo giovane infelice cheShakespeareonoraconil più bel monologo della letteratura,l’interrogativoche riassume tutta la condizione umanaeanchetuttoilmaldi vivere: la riflessione ci paralizza, «il vigore delle nostre risoluzioni arrugginisceall’ombrapallida del pensiero». Soffriamo, ma l’immaginazioneciimpedisce di mettere fine a tali sofferenzeconlamorte. La vita è una grande storia folle, «è un racconto narrato da un idiota, pieno di grida, strepiti, furori», dice Macbeth.«Appenanati,vedi, noi si piange perché ci si ritrova all’improvviso su questo palcoscenico di pazzi», conferma un personaggio del Re Lear. Se sapesse la sorte che lo attende, «il più felice dei giovani d’oggi mirando al corso della propria vita, ai pericoli corsi nel passato ed alle avversità dell’avvenire, chiuderebbe quel libro, ansiososoldivivereadagiato nella supina attesa della morte», rincara la dose il re Enrico IV. Gli eroi shakespeariani illustrano le diverse sfaccettature del mal di vivere, coronato dalla consapevolezza del tempo che passa. «E niente potràfardifesacontrolafalce del Tempo», declama il Sonetto 12 - constatazione scoraggiante, ripresa indefinitamente: Io penso allora al destinodellatuabellezza Ché tu pure ne andrai tra i rifiuti del tempo. La soluzione è quindi lasciare questo mondo? Il problema di Amleto rimane irrisolto. Shakespeare studia la gamma completa dei motivi di morte volontaria: amore, gloria, rimorso,rovina,disperazione, cui si aggiunge sempre una dose di qui pro quó, di illusione, di errore, di grottesco. L’apice è il suicidio mancato del duca di Gloucester in Re Lear. Questo vecchio, cieco, infelice e disilluso dinanzi alla cattiveria del mondo, si fa guidare da suo figlio, che finge di essere pazzo, fino alle scogliere di Dover, per gettarsi poi nel vuoto. Conosciamo la storia: il pazzo conduce il cieco su una collinetta dall’altezza irrisoria,dacuiilciecospicca un salto da pulce da cui esce indenne. La farsa può continuare. Alcuni hanno visto nell’aridità di questa scena un nichilismo moltomoderno:tuttoèvuoto, compreso il cielo; tutto è illusione, comprese la vita e lamorte22. A immagine dei suoi egregi contemporanei, Jacopo, il malinconico di Come vi piace, è un uomo tristeecontentodiesserlo:«È belloesseretristietaciturni», afferma. A ognuno la sua malinconia: «La mia malinconia non è quella dell’intellettuale ch’è solo invidia; né quella del musico ch’è un prodotto del suofantasticare;nédell’uomo di corte, ch’è alterigia; né quella del soldato, ch’èambizione;nédell’uomo di legge, ch’è scaltrezza; né delladama,ch’ècivetteria;né infine quella dell’innamorato chelecomprendetuttemesse insieme.Unamalinconiach’è tutta mia, un amalgama di moltiingredienti,undistillato di molti elementi maturati nelle meditazioni nei miei svariati viaggi per il mondo, il cui continuo ruminare interno m’avvolge tutto, come in un mantello d’una tristezza molto variegata»23. Jacopo dimentica la malinconia del buffone, poiché neanche Falstaff sfugge allo spleen: «Però, perdio, son proprio giù di corda come un gatto castrato o un orso al laccio [...] ( ) come il mugular d’una zampognadelLincolnshire»«o come la palude di Moor Ditch», aggiunge il principe Enrico24. Osserviamo come questi paragoni tradiscano un’estensione della qualità malinconica alle cose, ai paesaggi. La malinconia tendeadiventareunelemento indipendente, che può caratterizzare sia un luogo cheunapersona. Lespiegazionimediche Mentre i letterati disquisiscono sul mal di vivere dei loro contemporanei, i medici si chiedono se non sia semplicemente una questione di bile nera. Nel sangue, scrive Ambroise Paré, c’è «una certa proporzione e misuraditaliumoricheviene mantenuta all’interno del corpo, aiutandolo a rimanere in salute: tuttavia, se si guasta, essa è causa di malattia». Se predomina l’umore malinconico, esso provocauntemperamentoche corrisponde al vento del nord, alla terra, all’autunno, allavecchiaia,ecolorochene sono colpiti sono «tristi, irritabili, duri, severi, rudi, invidiosi e timidi». Questa predominanza dell’umore nero si spiegherebbe con un cattivo funzionamento dell’ipocondrio,uninsiemedi organisituatinell’addome,in particolare la milza, il cui ruolo sarebbe di assorbire l’eccessodibilenera;quando la milza non svolge più questo ruolo, la bile si diffonde nel corpo e il soggetto viene allora colpito dalla malinconia ipocondriaca. Inoltre, la bile in eccesso si modifica producendo vapori caldi tossici per il cervello e causandoidee«nere».Avolte tali vapori esalano dalla bocca, con il rischio di contaminareivicini.Uncerto Allemand, «temendo di aspirare in chiesa una quantità troppo grande di vapori malinconici esalati dalla folla di fedeli contriti»25, preferì starsene a casa durante la settimana santapoiché,inqueitempidi penitenza e di rimorsi, l’aria di chiesa era satura di vapori malinconici contagiosi. Controglieccessidibilenera vengono raccomandate medicine «evacuative» per purgare il corpo, «alterative» per diluire l’umore, «confortative» per ridare la gioia di vivere, insomma, gli antidepressivi del XVI secolo. Ambroise Paré sa che la malinconia può anche avere causepsichiche,i«fastidiele alterazionidellamente».Egli narra ad esempio che, nel 1552, un cameriere del re si uccise per non essere stato abbastanza aggraziato. Per evitare paure e grosse preoccupazioni, egli suggerisce di condurre una vitaequilibrata,diascoltarela musica,diberevinoleggero. Alla fine del XVI secolo, anche un altro medico famoso, André Du Laurens, nel suo Discorso delle malattiemalinconiche,insiste sull’incidenza dello stile di vita, in particolare sull’eccesso di studio, pur avendo tutta un’altra idea delle cause fisiologiche. Se i malinconicivedonotuttonero è perché il loro cervello è offuscato dalle esalazioni di bile nera: «Gli spiriti e i vapori neri passano continuamente, dai nervi, dalle vene e dalle arterie, dal cervello all’occhio, questo provoca ombre e apparizioni ingannevoli nell’aria, e dall’occhio tali forme vengono riprodotte nell’immaginazione».Poiché, a suo parere, le immagini arrivano agli occhi dal cervello, egli raccomanda di circondarsi di luci vive e piacevoli, come il rosso, il gialloeilverde. Il medico olandese Lennio,dalcantosuo,ritiene che l’umore malinconico sia particolarmente attivo fra le tre del pomeriggio e le nove di sera, quando «il fegato si purga e getta fuori la sua schiumaequalsiasigeneredi escremento, che arriva fino alla milza: ciò causa, durante queste ore, l’ottenebramento dell’intendimento umano, mentre lo spirito, avvolto da una spessa coltre di fumo, siritrovatristeeabbattuto»26. Tuttavia, intorno alla fine del secolo, i medici si orientanosempredipiùverso le spiegazioni psicologiche. Pierre Pigray, riportando alcuni eventi degli anni ’90 del 1500, racconta che aveva visitato con i suoi colleghi Renard e Falaiseau quattordicipoveridiavoli,fra uomini e donne, sospettati di stregoneria, ma che in realtà soffrivano di un’immaginazione malata. Li interrogarono «su diversi punti, riguardo a come si diventa malinconici; ma trovammo solo dei poveri stupidi dall’immaginazione distorta, gli uni che non temevano di morire, gli altri che lo desideravano: la nostraopinionefudipropinar loro dell’elleboro per purgarli»27. Nel 1620, Joseph du Chesne de La Violette fornisce una descrizione del pazientemalinconicocheben corrisponde ai sintomi della depressione nervosa. Si vede il malato «camminare lentamente,latestachina,nei dintorni di cimiteri e luoghi deserti:gliocchifissiaterra, tutti pieni di lacrime [...], la bocca che non proferisce verbo». Si tratta, scrive il medico,diuna«passioneche turba lo spirito, debilita tutte le facoltà animali, corrompe tutti i nostri sensi interni ed esterni[...],distorcelefacoltà immaginative e cogitative». Egli la chiama «tristezza, afflizione, languore» e le attribuisce cause sia fisiologiche («umore o sangue malinconico e annerito») che dietetiche («carni malinconiche che causano sangue malinconico») e psicologiche (le sofferenze e le difficoltà della vita). Tutto ciò rende il cervello «oscuro, tenebroso» e provoca «spavento e paura»28. Nello stesso periodo, l’italiano Tomaso Garzoni effettua una descrizione clinica degli stati depressivi che ha potuto osservare in un ospedale veneziano29. Se la nosografia si rivela pertinente,lamedicinainvece non progredisce assolutamente sulle cause fisiologiche della depressione. Nel 1607 Fernel parla ancora dell’umore malinconico come di «un fluido spesso nella consistenza, freddo e secco nel temperamento»30, vale a dire un processo fisico molto materiale. Altri, al contrario, lasciano da parte le teorie di Ippocrate e ragionano in termini di «qualità», che si trasmettono dal corpo all’anima senza alcun supporto materiale, quindi in termini psicologici più che medici. A metà del XVII secolo Thomas Sydenham, noto medico inglese, ritiene che i malinconici siano «persone che, al di là di questo, sono molto sagge e sensateechehannounacume e una sagacia straordinari». AncheAristotelehaosservato a ragione che i malinconici hanno più presenza di spirito deglialtri31. Iteologicontrola malinconiadiabolica Il mal di vivere diventa dunqueunavirtù?L’arteela letteratura riabilitano la malinconia; la medicina le restituisce la sua dimensione psicologica; l’élite sociale modella su di essa i canoni di comportamento. Tuttavia sia il clero che i teologi continuano a considerarla comepervasadaun’influenza diabolica e restano quindi fondamentalmente ostili, contemplando nei loro sermoni accidia, pigrizia e malinconia. Nel 1489 il carmelitano Battista Spagnoli ci restituisce il seguente ritratto allegorico della pigriziamalinconica: Ed ecco la madre di tutte le preoccupazioni, incapace della minima attività, inadatta a svolgere il minimo ufficio: Pigrizia, nutrita fra le compagne di Megera, saccente in apatia e maestra di nevrastenia. Seduta in disparte,gliocchifissial suolo,ilciglioarricciato dall’aria corrucciata, livida, scapigliata, si gratta con un’unghia adunca la testa piena di pulci. Ha il viso sporco, le mani grasse, la barba umida che gocciola di bava, dal naso una sempiterna goccia che cola. Essa è rachitica, la suaschienaèricurvaeil petto è scavato; sotto il torace stretto la pancia somiglia a un otre, come se soffrisse di idropisia;legambesono gracili, le ginocchia sporgenti che ne rallentano il passo, le articolazioni logorate da unagottamaligna32. Un secolo dopo il francescano Noël Taillepied fustiga più sobriamente, ma sempre con la stessa fermezza,i«malinconiciegli insensati [...] saturnini che rimuginano e inventano innumerevoli chimere»33. Le suddette chimere vengono suscitate dal diavolo, che sfrutta la tristezza malinconica per portare alla disperazione gli uomini che ne rimangono vittime. I demonologi ritengono che il temperamento malinconico sia un segnale sospetto, caratteristico dei maghi e delle streghe, e così lo concepiva II martello delle streghe. Jean Wier, medico, sosteneva che le visioni fantastiche fossero suscitate dall’eccessodiumorneronel cervello. Egli scrive, negli anni ’60 del 1500, che «il diavolo, nemico subdolo, furbo e sornione, induce di buongradolamalinconianel sesso femminile, incostante a causadellasuacomplessione, ingenuo, malizioso, impaziente, malinconico per il fatto di non riuscire a controllare le proprieemozioni»34. Lucas Cranach ha magnificamente illustrato questo concetto riprendendo gli scritti di Lutero, secondo il quale «lo spirito afflitto dalla tristezza deve avere una paura estrema» di Satana. «L’umore malinconico è un bagnopreparatodaldiavolo», ripeteilriformatoreaimonaci medievali. I suoi Discorsi a tavola insistono: «La tristezza, le epidemie e la malinconia vengono da Satana»; «colui che è tormentato dalla tristezza, dalla disperazione o altri dispiaceri ha un verme nella coscienza»35. Lucas Cranach quindi, in una serie di dipinti dal 1528 al 1532 intitolati Malinconia, mette in luce il legameconlastregoneria.La suaallegoriasipresentaconi tratti di una giovane dal viso illuminato da un misterioso sorriso appena accennato. Non ha assolutamente la gravità della Malinconia tormentata dell’incisione di Dürer, ma è comunque più inquietante. Nel dipinto espostoalMuseoUnterlinden di Colmar la giovane, con i suoi occhi a mandorla, accenna uno sguardo obliquo e diabolico, comequelloditutteledonne di Cranach. Con un coltello taglia un ramo per farne una bacchetta magica: bisognava infatti rimuovere la corteccia per evitare che gli spiriti non si insinuassero fra questa e il legno. Ai suoi piedi è accucciato il «cane della malinconia», mentre quattro piccoli putti giocano sull’altalena-alcunicriticivi hanno riconosciuto dei simboli alchemici. Una grande finestra si apre su un paesaggio tormentato e, in una grossa nube nera, è rappresentata una corsa satanica di streghe che cavalcano un caprone, un maiale, un drago e un toro, che trascina un cavaliere armatoversoilsabba36. La malinconia è oggetto di vasti dibattiti presso i mistici. Santa Teresa d’Avila si è interessata da vicino a questotema,surichiestadelle religiose del convento San Giuseppe di Salamanca. Le comunità di clausura sembrano infatti conoscere anch’esse una forte recrudescenza dei casi di malinconia, che non è ammessa nella religione, scrive la santa, ma la maggior parte delle volte, quando il male viene scoperto, è già troppo tardi: «Pur cercando con grande cura di evitarlo, questo umore è così subdolo, nascosto e difficile da scoprire che ce ne accorgiamo solo quando ormai non possiamo più espellere le sorelle che ne sono colpite»37. Come comportarsi allora con le sorelle malinconiche? Questione delicata, poiché il diavolo se ne serve per impadronirsi degli altri: «Se non stanno in guardia ci riuscirà,perchél’effettodella malinconia è di oscurare e disturbarelaragione,cuinon riesce a far arrivare le nostre passioni»38. Santa Teresa d’Avila è stata testimone dell’immensa sofferenza provata da coloro che sono «umili e temono di offendere il Signore [pertanto] si conformano in tutto all’obbedienza e sopportano il loro male facendo come le altre, nonostante le grandi lacrime che versano e la lotta che devono interiormente sostenere. Certo che così il loro martirio si fa più grande, ma non meno grande sarà pure il loro premio: fanno il purgatorio in questa vita, ne saranno esenti nell’altra»39. Nonostante possa contribuire alla salvezza, è meglio cercare comunque di eliminare questo male, anche a costo di impiegare rimedi estremi, poiché potrebbe contaminare l’intera comunità: Siccome ho visto ed ho trattato a lungo con tali persone, ripeto che nonv’èaltrodafareche da ricorrere a tutti i mezzi e a tutte le vie possibili per ridurle in soggezione. Se non bastano le parole, si ricorraaigrandicastighi; se non è sufficiente tenerle in carcere un mese, vi si tengano quattro, essendo questo il più gran bene che si possa fare alle loro anime. [...] Sembrerebbe un’ingiustizia castigare un’inferma come una sana, sotto pretesto di nonpoterfarealtrimenti. - Ma allora sarebbe un’ingiustizia anche legareefustigareimatti, e bisognerebbe lasciare che ammazzassero gli altri!... Micredano,chel’ho provato per esperienza: fra tutti i rimedi che ho adoperato, non ve n’è uno più efficace di questo. Se la Priora, mossa da compassione, lascerà che comincino a prendersi delle libertà, verrà giorno che non potrà più dominarle; e quando vorrà mettervi riparo,giàtutteneavran subitol’influsso40. Per sradicare la malinconia, malattia «più pericolosa di quelle in cui ne va della vita», bisognerà fare in modo di tenere sempre occupate le sorelle, imponendo«funzionichenon lasciano loro il tempo di sognare». Santa Teresa d’Avila prova compassione per le sorelle che soffrono di depressione, ma osserva con irritazione che molti altri vengono colpiti da questamalattiaallamodaene traggono un pretesto per esimersi dai doveri più faticosi: Temo che con la scusa di quest’umore il demonio cerchi di soggiogarsimolteanime. Oggi questo male è più che mai diffuso, tanto più che sotto il nome di melanconia si fa passare ogni capriccio e propria volontà. Sarebbe bene, secondome,cheinostri conventi, come pure in ogni altro, non lo si designasse mai con questonomechesembra importare libertà, ma lo si chiamasse grave malattia - e quanto grave! - e la si curasse cometale41. Recrudescenzadei suicidi Ilsecolodellamalinconia è anche quello in cui le autorità religiose rafforzano la loro campagna di demonizzazione del suicidio. ComeallafinedelMedioevo, i contemporanei hanno l’impressione di un forte aumentodelnumerodimorti volontarie. Erasmo, nei suoi Colloqui, in ragione della velocitàacuigliuominivisi precipitano, si chiede quale sarebbe la situazione se gli uomini non avessero paura della morte. Un po’ più avanti,nel1542,Luteroparla di un’epidemia di suicidi in Germania e nel 1548 l’arcivescovo di Magonza crede di svelarne un’altra, mentre a Norimberga nel 1569 ne vengono recensiti quattordici casi. Nella stessa epoca, Henri Estienne dichiara: «Quanto al nostro secolo, abbiamo le orecchie colme di esempi [di suicidio],siadiuominichedi donne», e Montaigne narra che, secondo suo padre, a Milano ci sarebbero stati venticinque suicidi in unasettimana. Fantasia o realtà? In Inghilterra, presso gli archivi della giurisdizione reale del King’s Bench, dove vengono giudicati i casi di morte sospetta, la progressione del numero di suicidi è regolare e spettacolare: da 61 casi fra il 1500 e il 1509 si passa a 940 dal 1570 al 157942, dati checonfermanol’opinionedi William Gouge, il quale scrive nel 1637: «Suppongo che non vi siano secoli dall’inizio del mondo che forniscano più esempi di questa umanità disperata quanto il nostro secolo attuale,equestovalepertutti i tipi di persone, religiosi, laici,istruiti,ignoranti,nobili, plebei, ricchi, poveri, liberi, asserviti, uomini, donne, giovanievecchi»43.Lastessa constatazione vale per il mondo germanico: a Norimberga il numero di suicidi registrati aumenta di dodici volte tra il 1500 e il 160044; nel territorio di Zurigosipassada2casitrail 1500 e il 1550 a 35 fra il 1600 e il 165045. Le cronachemunicipaliriportano un numero crescente di suicidi,comeaMetz. L’inasprimento della legislazione tradisce la preoccupazionedelleautorità: nelXVIsecolo,inInghilterra, si iniziano a impalare i cadaveri dei morti per suicidio, ad appenderli per i piedi in Francia, a usare mezzi ancora più draconiani in Italia46. Iniziano poi a comparire le storie dei fantasmi delle vittime del suicidio che vengono ad assillare i vivi. Parlare di psicosi sarebbe certamente esagerato, ma le cronache, le memorie e i diari personali accordano sempre più spazio alla registrazione delle morti volontarie. Un artigiano tornitore londinese, Nehemiah Wallington, descrive accuratamente tutti i suicidi nel suo diario e tiene un quaderno particolare dedicato a coloro che hanno attentato alla propria vita. Per quanto buon puritano, egli stesso ha tentato undici volte di porre fine ai suoi giorni: «Satana mi ha tentato di nuovo, e gli ho resistito ancora. Allora mi ha tentato unaterzavoltaeglihoceduto brandendo il mio coltello e portandolo alla gola. Allora Dio, nella sua bontà, mi ha fattorifletteresuciòcuisarei andato incontro se mi fossi tolto la vita [...]. Su questo pensiero mi sono sciolto in lacrime e ho gettato il coltello»47. John Dee annota diversi esempisimilinelsuodiario48. Fra il 1597 e il 1634, il medico e astrologo Richard Napier riporta, dal canto suo, 139 tentativi di suicidio di cui annota accuratamente le circostanze. Tutti, certamente, attribuiscono i suicidi alla «disperazione». Maqualisonolecauseditale disperazione?Principalmente, il diavolo. Lutero assimila i suicidi a un assassinio commesso da Satana: «A più diunoeglispezzailcolloofa perdere la ragione; alcuni li anneganell’acqua,moltisono quellichespingealsuicidioe molti altri a sofferenze atroci».Ilsuicidaèposseduto dal demonio, ciò lo rende irresponsabile.Il1°dicembre 1544 Lutero, scrivendo a proposito di una posseduta chesierauccisa,dichiarache il pastore incaricatosi di inumarla non deve essere biasimato, poiché questa donna può essere considerata una vittima di Satana. Ciò nonostante, aggiunge, bisogna prendere seri provvedimenti, poiché il diavolo rischia di diventare semprepiùaudace:«Conosco moltiesempisimili;mailmio giudizio ordinario è che le persone siano semplicemente stateuccisedaldiavolo[...];il magistrato fa bene a punire con la stessa severità, per paura che Satana prenda coraggio e si manifesti. Il mondo deve essere messo in guardia poiché, nel suo atteggiamentoepicureo,crede cheildiavolononesista»49. I cattolici non hanno dubbisulfattochelepersone che commettono suicidio siano possedute dal diavolo. NoëlTaillepiedadduce come prova «eventi strani» che accompagnano sempre tali morti sospette50.I «disperati» sono persone «che si donano al diavolo», scrive Pierre Le Loyer: «Non bisogna meravigliarsisetuttiigiornii diavolisimostranoaqualche disperato [...], promettono loro aiuto, li convincono a uccidersieamorireunavolta per tutte per smettere di soffrire»51. Il teologo Jude Serclier sostiene a sua voltacomeildiavoloproduca «una grande e amara tristezza» che conduce al suicidio, e conferma che la pratica tende a diffondersi: «Nel nostro secolo se ne vedono esempi in ogni momento, in qualunqueluogo»52. Il diavolo approfitta di tutte le difficoltà dell’esistenza per spingere al suicidio, in particolare delle disgrazie che affliggono i poveri:PierredeL’Estoilene riporta numerosi esempi nel suo «Journal». Tuttavia c’è un motivo che richiama l’attenzione: la «noia di vivere».L’espressioneritorna spesso nella penna dei giuristi, come Jean Papon, che scrive: «Che sia per noia di vivere o per la gloria di sapere come sia l’altro mondo, colui che si toglie spontaneamentelavita,senza mania, senza malattia né tormento»53 merita le pene più severe. Per modo di dire, poichésitratterebbedipunire un morto. Allo stesso modo Louis Charondas Le Caron reclama la punizione delcadavereelaconfiscadei beni contro coloro che si uccidono per «noia di vivere»54. Questa nuova insorgenza dell’antico taediumvitaecorrispondealla riscoperta dei valori grecoromani. Umanisti ed eruditi del Rinascimento sono infatti sensibili agli esempi di nobiltà rappresentati dai suicidi di Lucrezio, Catone o Bruto. Tali inquietudini e condanne non fanno che confermare l’impressione generale:daglianni1480agli anni 1630, un malessere si impadronisce delle élite intellettuali e sociali. Questa malinconiageneraleèsempre più diffusa, tanto più che, secondo Marsilio Ficino, è reputato segno di profondità. È pur vero che questa opinione non è unanime, infatti le autorità religiose vedono sempre il diavolo dietro la malinconia e certi medici lo confermano, come il dottor Lennio, che scrive: «I demoni, vale a dire gli spiriti aerei, che hanno una grande conoscenza e scienza delle cose [...], non solo si confondonofragliumori,ma spingono anche gli intendimenti dell’uomo a qualsiasi nefandezza [...]. È cosìcheSatanahaesasperato la malinconia di Saul, spingendolo a commettere assassiniietradimentiemolte altre cose ben infelici»55. A suo parere la malinconia può essere una punizione inviata da Dio agli eretici56. Persino un saggio come Pierre Charron non condivide l’infatuazione dei suoi pari perlamalinconia,incuivede «passione codarda, bassa e vile»,echebisogna«odiaree fuggire con tutte le [nostre] forze»57. Nonostante queste riserve, la malinconia è tipica dell’epoca in esame. Il mal di vivere del Rinascimento non è più accidia medievale e peccato contro la speranza, ma una condizione mentale legata alla nascita della modernità. Se costituisce una semplice moda per i più superficiali, a corte ad esempio, nelle personalità più sensibili è invece una prima presa di coscienza dei problemi dell’Essere. Il mal di vivere del Rinascimento,comeabbiamo appena visto, è anzitutto intellettuale. Nella cultura popolare la malinconia conserva una connotazione negativa, quando non è del tutto semplicemente assimilata alla follia, come del resto testimoniano diversi proverbi del XVI secolo:«Fuggilamalinconia, tristezza e follia», «La malinconia fa ammalare il sano e fa morire il malato», «Essere in preda alla malinconia significa seppellire la propria vita»58. Intellettuali e artisti sono affascinati dalla malinconia che resta, ciò nonostante, misteriosa: la studiano, la sezionano, la trattano come se fosse una persona. Albrecht Dürer ne trae ispirazione per creare un celebre quadro allegorico e, un secolo dopo, Robert Burton ne descrive l’anatomia. 1 Citato da S. DAVIES, Renaissance Views of Man, Manchester University Press, Manchester 1978, p. 38. 2 P. BONAFOUX, Rembrandt, autoportrait, Skira, Ginevra 1985, p. 8 e ID., Les peintres et l’autoportrait,Skira, Ginevra 1984. 3V.I.STOICHITA,Peindre le passage: autoportrait et autobiographie dans l’œuvre de Rembrandt, in Le Temps dans la peinture, Atti del colloquio dell’Institut l’homme et le temps a La Chaux-de-Fonds, 26-28 novembre 1992, La Chauxde-Fonds,L’Institutl’homme etletemps,1994. 4 G. CARDANO, Della miavita,SerraeRiva,Milano 1982. 5 Mémoires de Benvenuto Cellini, a cura di G. Maggiora, Société Littéraire de France, Parigi 1953. 6 JEAN STAROBINSKI, Montaigne en mouvement, Gallimard, Parigi 1982, p. 50; trad. it., Montaigne: il paradosso dell’apparenza, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 53-54. 7 F. PETRARCA, Triumphus Temporis, in Opere, Mursia, Milano 1968, pp.311-313. 8 Citato da J. DELUMEAU,Lepéchéetla peur: la culpabilisation en Occident,XIIIe-XVIIIesiècles, Fayard, Parigi 1984, p. 194; trad.it.,Ilpeccatoelapaura: l’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Il Mulino,Bologna1987. 9Ph.JUNOD,Allégoriesdu tempsettempsdel’allégorie, inLeTempsdanslapeinture, cit.,p.67. 10G.MINOIS,Lesorigines dumal:unehistoiredupéché originel,Fayard,Paris2002. 11 MARSILIO Ficino, Teologia platonica, Zanichelli,Bologna1965,IV, Vol.7,2,p.233. 12 ID., De Vita, Edizioni dell’Immagine, Pordenone 1991,1,4,p.21. 13 HENRI DE GAND, Quodlibeta,II,quest.9. 14 ENRICO CORNELIO AGRIPPA, La filosofia occulta o la magia, Vol. I, I, 60, Edizioni Mediterranee, Roma1991,p.110. 15Ivi,p.109. 16 G. CAMPORI, Documents inédits sur Raphaël, «Gazette des Beaux-Arts», 14, 1863, p, 452. 17 R.ALBERTI, Trattato della nobiltà della pittura, Francesco Zannetti, Roma1585,p.17. 18 R. BURTON, The Anatomy of Melancholy, Tudor Publishing Company, New York 1948; trad, it., L'anatomia della malinconia, Marsilio,Venezia2003. 19 Citato da A. MURRAY, Suicide in the Middle Ages, Oxford University Press, Oxford 1998,1.1,p.376. 20 C. BARRON, C. COLEMEN E C. GOBI (a cura di), The London Journal of Alessandro Magno 1562, «London Journal», 9, 1983, pp.136-152. 21 B. PAULIN, DU couteau àlaplume.Lesuicidedansla littérature anglaise de la Renaissance (1580-1625), L’Hermès et Saint-Étienne, Università di Saint-Étienne, Lione1977,p.533. 22 J. KOTT, Shakespeare nostro contemporaneo, Feltrinelli,Milano1983. 23 SHAKESPEAKE, Come vipiace,IV,1. 24 ID., Enrico IV, 1° parte,1,2. 25 Citato da JEAN STAROBINSKI, Histoire du traitement de la mélancolie des origines à 1900, J.R. Geigy, Basilea 1960, p. 40; trad, it., Storia del trattamento della malinconia dalleoriginial1900,Guerini e Associati, Milano 1990, p. 58. 26L.LENNIO,Lessecrets miracles de nature et divers enseignemens de plusieurschose,1566,p.249. Pertuttiquestiaspetti,siveda anche L. BABB, The Elizabethan Malady; A Study of Melancholia in English Literaturefrom1580to1642, MichiganStateCollegePress, East Lansing 1951, che contienenumerosecitazioni. 27P.PIGRAY,Epitome des préceptes de médecine et chirurgie, Pierre & Benoist Bailly, Lione 1643, libro VII, cap. X: Comment on doit rapporter d’aucunes maladies où il y a passion d’esprits. 28 J. Du CHESNE DE LAViolette,Lepourtraictde laSanté,oùestreprésentéla reigle unique et particulière de bine sainement et longuement vivre, Parigi 1620,pp.112-114. 29 T. GARZONE, L’Hospidale de’ Pazzi incurabili,Venezia 1617, pp. 43-47. 30 J. FERNEL, Universa medica, Francoforte 1607, p. 121. 31 T. SYDENHAM, Médecine pratique, Parigi 1784, p. 399; trad, it., Medicina pratica, Co’ Tipi dell’Ed. Giuseppe Antonelli, Venezia1841. 32 Musae reduces. Antologie de la poésie latine dans l’Europe de la Renaissance, a cura e traduzionediP.LaurenseC. Balavoine, E.T. Brill, Leida 1975,2voll.,vol.1,p.93. 33N.TAILLEPIED,Traité de l’apparition des esprits, Rouen1600,p.19. 34 J. WlER, Histoire, disputes et discours des illusions et impostures des diables, Delahaye et Lecrosnier, Parigi 1885,1.1, p.300. 35 M. LUTERO, Discorsi a tavola, n. 832 e 122. 36 D.KOEPPLIN e T. FALK, Lukas Cranach: Gemälde, Zeichnungen, Druckgraphik, catalogo dell’esposizione del Kunstmuseum di Basilea, 15 giugno-8 settembre, Brikhäuser, Basilea1974. 37 SANTA TERESA D’AVILA,Fondazioni, VII, in Opere, Postulazione GeneraleO.C.D.,Roma. 38Ibidem. 39Ivi,p.1127-1128. 40 ID., Le Fondazioni e opere minori, Edizioni Paoline,Alba1977,pp.11261128 41Ivi,p.1128. 42M.MACDONALDeT. MURPHY, Sleepless Souls. Suicide in Early Modern England, Clarendon Press,Oxford1990. 43 W. GOUGE, introduzione al libro di J. SYM, Life’s Preservation, Londra1637. 44 J. DIESELHORST, Die Bestrafung der Selbstmörder im Territorium der Stadt Nürnberg, Norimberga 1953,pp.186-189. 45M.SCHÄR,Seelennöte der Untertanen, Chronos, Zurigo1985. 46 A. MURRAY, Suicide...,cit.,1.1,p.373. 47 Citato da MACDONALD e MURPHY, Sleepless...,cit.,p.50. 48 J. DEE, The Private Diary of John Dee,a cura di J.O.Halliwell,Londra1842. 49 CL. METTRA e J. MICHELET (a cura di), Mémoires de Luther écrits par lui-mème, Mercure de France,Parigi1990,p.272. 50 N. TAILLEPIED, Traité de l’apparition..., cit., p.138. 51 P. LE LOYER, Discours des spectres, Parigi 1608,p.307. 52 J. SERCLIER, AntidemonHistorial,Parigi1609, p.293. 53 J. PAPON, Recueil d’arrestz notables, Lione 1557,libroXXII,titolo10. 54 L.C. LE CARON, Commentaire au titre XXXIX du livre I du somme rural de Jean Bouteiller, Parigi 1603. 55L.LENNIO,Lessecrets miracles,cit.,p.254. 56L.LENNIO,Dehabitu et constitutione corporis, Anversa1561. 57P.CHARRON,Dela sagesse, Parigi 1836, p. 59, 284. 58Recueildessentences notables, diets et dictons communs, Anversa 1568, e riportati da J. DELUMEAU, op. cit. Capitoloquarto DaDüreraBurton: ritrattoeanatomia dellamalinconia 1514:MelancholiaI Quando, nel 1514, Albrecht Dürer realizza l’incisione Melancholia I, ha trentotto anni e ha perduto le sue illusioni. Verso i trent’anni credeva ancora nella possibilità di raggiungere la bellezzaassolutaeuniversale grazie alle scienze matematiche,mapocoapoco scivola in un oscuro scetticismo, aggravato da visioni e sogni e, nel 1512, afferma che «non esiste essere vivente sulla terra che possa dire o provare quale sia la più bella raffigurazione dell’uomo». Molto prima di questa data, Dürer aveva già dato profondisegnidimalinconia, comeperaltroconfermanosia il suo autori-tratto, che un’osservazione del suo amico Melanchthon e alcune allusioni a una malattia della milza, che i medicidell’epocaclassificano fraimorbimelancholia1. Nel1502eglirappresenta la malinconia con le sembianze di un vecchio su un’incisione destinata a ornare la copertina dell’opera di Conrad Celtes, Libri amorum. L’incisione riunisce i quattro temperamenti, conformemente agli archetipi medievali, e raffigura un vecchio scarno, calvo, dall’aria imbronciata e misantropica, assimilato a Bora,ilventodelnordfreddo e secco: il vecchio soffia sulla vegetazione, da cui pendono pezzi di ghiaccio. Siamoancoranellatradizione delleallegoriedelXVsecolo, in cui il temperamento malinconico è fortemente disprezzato. All’epoca Dürer non sembra conoscere gli scritti di Marsilio Ficino, pubblicati (1497) da Koberger, padrino delpittore. L’incisione del 1514, invece,èdirettamenteispirata al De vita triplici dell’umanista fiorentino, come ha mostrato Raymond Klibansky2.Percinquesecoli lagiovanealataassortainuna misteriosa meditazione in mezzo a un’improbabile confusione di oggetti haaffascinatonumerosipoeti che l’hanno celebrata con accenti romantici. James Thomson le dedica un lungo poema in cui le fa dono diamareriflessioni: The sense that every strugglebringsdefeat Because fate holds no prize to crown success; That all the oracles aredumborcheat Because they have nosecrettoexpress; Thatnonecanpierce the vast black veil uncertain Because there is no lightbeyondthecurtain: Thatisallvanityand nothingness3. Théophile Gautier le si rivolgeinquestitermini: Toi, le coude au genou,lementondansla main, Tu rèves tristement aupauvresorthumain: Que pour durer si peu la vie est bien amère, Que la science est vaine et que l’art est chimère4. Non sorprende neanche il fatto che i pittori espressionisti siano stati attratti da un’incisione così evocativa della disperazione. OskarKokoschka ha visto in quest’opera «l’espressione più angosciante dell’assenza disperanzaedellapaura,che sono tuttavia profondamente umane». Più vicino a noi Giorgio Agamben, nelle Stanze, pensa che l’angelo meditativo di Dürer sia piuttosto l’emblema dell’uomo che tenta di dare corpo ai propri fantasmi attraverso l’espressione artistica. Già all’inizio del XX secolo il critico d’arte Heinrich Wölffin constatava: «Ogni anno nascono nuove spiegazioni, cosa naturale fintantoché gli autori non avranno la disciplina necessaria per evitare di attribuire a Dürer qualsiasi tipo di idea dell’uomo moderno». E Raymond Klibansky, dopo aver riportato tali testimonianze, scrive nel 1988: «Oggi possiamo scegliere fra le diverse interpretazioni elaborate di carattere astrologico, psicanalitico, alchemico, sociologico, teologico, teosofico, francomassone, numerologico, magicoefilosofico»5. Che questa incisione abbia suscitato così tante interpretazioni è la prova del genio umanista di Dürer. Come tutte le opere geniali, essa non gli appartiene più e va oltre le sue intenzioni personali. Il senso esatto che Dürer le ha voluto dare è senz’altro di un certo interesse, ma deriva dall’erudizione storica. Raymond Klibansky ha proposto una spiegazione sensata di ogni simbolo. Il pugno chiuso del personaggio, che sostiene la testa, rafforza l’impressione di forte concentrazione, «La concentrazione fanatica di una mente che ha realmente colto un problema, ma nello stesso momento si sente incapace sia di risolverlo che di lasciarlo cadere»6. La mano destra tiene un compasso, ma è inerte: essa rappresenta l’inanità del lavoro sensato. Sul viso, nell’ombra, risaltano gli occhibrillanti,animatidauno sguardo intenso che sconfina nell’invisibile. La lunga capigliatura è trascurata, segno del disprezzo delle convenzioni umane. La testa riposa sulla mano sinistra, segno di stanchezza, didolore,difatica,maanche di pensiero creatore. La donna sogna pur essendo sveglia: gli strumenti abbandonati evocano la trascuratezza, la pigrizia e quindi l’accidia medievale: la sega, la mola, la pialla, il compasso,cosìcomeancheil libro sulle ginocchia, i cui fermagli non sono ancora stati aperti. Tuttavia leprospettivesonocapovolte: L’inattività della Melanconia, da letargo dell’indolente e stato d’incoscienza per chi dorme, si è trasformata nell’assillo cogente dell’uomo ipersensibile. Entrambisonoindolenti, col suo compasso impugnato meccanicamente, che la sciattaMelancholiadelle illustrazioni dei calendari col suo inutile fuso; però quest’ultima non sta facendo nulla perché dall’indolenza è scivolata nel sonno, l’altra perché il suo spiritoèpresodavisioni interiori, per cui l’affaccendarsi con arnesi pratici le sembra senza senso. L’«indolenza» in un caso è al di sotto dell’attività esteriore; nell’altroaldisopra7. Ai piedi della Malinconia un cane, animale ritenuto serio, sempre in caccia e che non dà tregua alle sue prede; un pipistrello, simbolo dei malinconici, porta un filatterio su cui è inscritto il titolo dell’incisione. Il mare, insecondopiano,ricordache Saturno è il protettore dei marinai. La Malinconia indossa una corona di ranuncoli d’acqua e di crescione, piante acquatiche che agiscono come antidoto alla secchezza terrea del temperamento malinconico. Al muro, un quadro magico, simbolo astrologico destinato a favorire l’influenza curativa diGiove.Numerosistrumenti perlageometriasuggeriscono che Saturno è molto legato a questa scienza. Bilancia, clessidra, orologio, borsa, chiavi: tutti questi oggetti sono associati alla malinconia. Quanto al bambino alato, il putto occupato a scrivere in mezzo a questa improbabile babele, egli rappresenterebbe l’attività senza pensiero, per contrapposizione al pensiero senza attività dellaMelancholia. La forza di questa incisione si impone da sola per la sorprendente e misteriosaconcentrazionedel personaggio. Concepita dopo la consacrazione letteraria di Marsilio Ficino, Melancholia I immortala e rende universale il mal di vivere. Questa donna è una novella Eva,eogniessereumanopuò riconoscersi in lei. Un anno dopo, in un’acquafòrte intitolata L’Uomo disperato, Dürerdefiniscemeglioilsuo soggetto,raffigurandoquattro tipi di malinconia. Questa incisione, molto enigmatica, mostra un giovane uomo dal sorriso vuoto che, con un boccaleinmano,siavvicinaa una donna nuda; egli rappresenterebbe il malinconico sanguigno, datosi a Bacco e Venere. Gli altri tre personaggi sarebbero i malinconici collerici, flemmatici e naturali. Dürer, le cui opere sono impregnate di una tragicità morbosa - si pensi ai Cavalieri dell’Apocalisse o al Cavaliere, la morte e il diavolo-èl’araldodelsecolo dellamalinconia. Michelangelo,Holbeine Montaigne:trevolti dellamalinconia Michelangeloèl’apoteosi artistica della malinconia. Il suoPensierosodellacappella MedicidiFirenzeraffigurala malinconia sotto i tratti di Lorenzo de’ Medici: viso triste e dito sulla bocca indicano il silenzio meditativo. Con Michelangelo la malinconia rompe gli argini. Nel suo Trattato di caratterologia (1946), René Le Senne lo descrive come la tipologia di persona malinconica ma appassionata:«Lamelanconia profonda di Michelangelo infonde alla sua opera un’infinità irriducibile, inesauribile, da cui tutte le opere traggono la caratteristica di rivelare la preponderanza definitiva dell'anima sull’azione»8. Questo artista geniale che soleva dire: «La mia gioia è la malinconia», si compiace visibilmente nell’amarezza. Nel suo studio psicanalitico, Marie-ClaudeLambotteviha visto «la rimozione di una forzapulsionaleilcuiesubero aggressivo non ha potuto esprimersi»9. Anche la psicanalisi si è interessata a un altro grande pittore del XVI secolo, Hans Holbein, la cui opera rivela un temperamentoprofondamente malinconico. Julia Kristeva gli dedica una lunga dissertazione in Sole nero,incuiscrivequanto,per tutta la vita, egli fosse «un adepto della depressione disillusa, sino all’estinzione diogniartificiosinall’interno dell’artificio tristemente, scrupolosamente manierato»10. Holbein, che non si allinea ad alcun credo particolare, che ha servito Enrico VIII e che è stato amico della sua vittima Thomas More, ha meravigliosamente colto la personalità dei suoi modelli, pensiamo in particolare alla concentrazione serena di Erasmo. Nei suoi ritratti, inoltre, è spesso presente la morte. Sotto le maschere di carne appare il teschio, simbolo dell’insensatezza dituttelenostrerealizzazioni. Il teschio è onnipresente, si pensi ad esempio alla Danza macabra·, nascosto in anamorfosi, esso compare persino ai piedi dei due importanti personaggi degli Ambasciatori. «Non vogliamo con ciò sostenere che Holbein fosse un melanconico, né che abbia dipinto dei malinconici. Più profondamentecisembrache a partire dalla sua opera [...] un momento malinconico (una perdita reale o immaginaria del senso, una disperazione reale o immaginaria, una cancellazione reale o immaginaria dei valori simbolici, che investe persino i valori della vita) mobiliti la sua attività estetica,chetrionfasuquesta latenza melanconica pur conservandonelatraccia»11. Iltrionfodellamorte,che rende vane e derisorie le nostre attività, esplode anzituttonelCristomortodel 1521-1522. Il dipinto non lascia più adito ad alcun dubbio:sitrattapropriodiun cadavere, di un realismo tale che Dostoevskij farà dire a uno dei suoi personaggi: «Questo quadro! Ma più di uno, guardando questoquadro,puòperderela fede!»12. Questa morte sembra definitiva. Holbein non è il pittore della resurrezione, spiega Julia Kristeva: «La morte del Cristo offre un sostengo immaginario all’irrappresentabile angoscia catastrofica propria dei malinconici. [...] La depressione grave o la melanconia clinica parossistica rappresentano un vero e proprio inferno per l’uomo, e più ancora, forse, perl’uomomodernoconvinto di dovere e di potere realizzare tutti i suoi desideri di oggetti e di valori. La derelizione del Cristo offre un’elaborazione immaginariaaquestoinferno. Per il soggetto essa offre come un’eco dei suoi istanti insopportabili di perdita di senso, di perdita del senso dellavita»13. Dal Cristo morto di Holbein al Trionfo della morte di Bruegel, la disperazione del Rinascimento esplode alla luce del sole. Le più grandi menti del XVI secolo hanno percepito l’avvento di unanuovaangoscia,ovveroil sentorechelamortepotrebbe davvero essere definitiva. A quale altra conclusione potrebbe arrivare una mente razionale davanti allo spettacolo delle atrocità fanatiche cui si dedicano i cristiani? Se c’è un segno dell’assurditàdelmondo,non è forse il fatto che una religione,nonostantesostenga di essere basata sull’amore universale, possa provocare l’odio omicida fra i suoi adepti? Ed è in fondo ciò che afferma Montaigne. Questo significa che anche lui è un malinconico? Lo vediamo difendersi da tale definizione nel suo capitolo «Della tristezza»: «Io non sono affatto esente da questo stato d’animo, e non l’amo e non nefaccioconto,sebbenecisi sia mossi ad onorarlo di particolarefavore,comecosa assai pregevole. Se ne vestono la saggezza, la virtù, la coscienza: ornamento sciocco e mostruoso. Gli Italiani hanno più propriamente battezzato col suo nome la cattiveria. È infatti una qualità sempredannosa,semprefolle e, come qualità vile e bassa, gli Stoici la vogliono lontana dai saggi»14. Montaigne non è forse contraddistinto da un temperamento triste, ma il semplice fatto che abbia potuto concepire il progetto di scrivere iSaggi «il suo progetto» secondo Pascal, «affascinante progetto» secondo Voltaire non è forse un segno di malinconia? Egli stesso, peraltro,ammettedidarsialla scrittura per scacciare la malinconia: «È un umor melanconico, e per conseguenza molto contrario alla mia indole naturale, derivata dal tormento della solitudine nella quale da qualcheannomierorifugiato, chemihamesso,d’untratto, in mente questa stranezza di occuparmiascrivere»15. Il fatto che si ritiri dalle attività umane è un altro segno di distacco malinconico: il vero saggio deve liberarsi da questa mischia assurda che è la vita pubblica;ilsoloruolochegli convenga è quello di spettatore della tragicommedia umana, dramma «pieno di rumore e di furore, che non significa nulla». Montaigne e Shakespeare si completano: l’uno mette in scena ciò che l’altro descrive. Quando mi sono ritirato dal mondo, spiegaMontaigne,credevodi poter riposare: «Ultimamente mi sono ritirato in casa, deciso finché potrò a non occuparmi d’altro che di trascorrere in riposo e appartato quel poco che mi restadivita.Miparevadinon poter fare più grande favore almiospiritochedilasciarlo in pieno ozio, a conversare con se stesso e a fermarsi e adagiarsiinsé»16.Tuttavialo spirito ozioso «mi partorisce tante chimere e tanti mostri fantastici, gli uni sugli altri, senza ordine e senza motivo che, per considerarne a mio agiol’assurditàelastranezza, ho cominciato a registrarli sperando col tempo di vergognarmidimestesso»17. «Montaigne ha vinto la malinconia con la malinconia», scrive Michael Andrew Screech18. Inattivo, spettatore del mondo, ma spettatore intelligente, egli non può che essere malinconico. Dopo la morte del suo amico intimo La Boétie, egli cerca nella scrittura una «veemente distrazione» meditando, analizzando, strappando le maschere da commedianti dai volti di tutti gli uomini, intravedendoquindilaverità. Ma la verità non è che una chimera,lapiùpericolosache ci sia, poiché trasforma tutti coloro che credono di averla afferratainfanaticidistruttori deglialtriedisestessi.Sono quelli che ritengono di possedere la verità a rendere invivibile questo mondo. Lo scettico Montaigne sa bene che «la nostra condizione è tantoridicolaquantorisibile», ma preferisce riderne piuttosto che piangerne: «Democrito e Eraclitosonostatiduefilosofi dei quali il primo, trovando vana e ridicola la condizione umana, non usciva in pubblico che con una faccia beffarda e ridente; Eraclito, avendo pietà e compassione di questa stessa nostra condizione, teneva il viso continuamente triste, e gli occhipienidilacrime.[...]Io preferiscol’umoredelprimo, non perché è più piacevole ridere che piangere, ma perché esso è più sdegno e perché ci condanna più dell’altro: e mi sembra che noi non possiamo mai essere disprezzati abbastanza per quantolomeritiamo»19. Il fatto che il riso possa essere una forma di disperazione è quello che afferma anche Agrippa d’Aubigné quando descrive gli orrori dei massacri religiosi.NeiTragiciColigny assiste, durante una visione, alla mutilazione del proprio cadavere, scena che lo fa ridereperquantoè«comicoil successo della grande tragedia»20. Ne La Primavera, nauseato dal secolo in cui vive, egli dichiara: «Cerco i deserti, le roccelontane,leforestesenza sentieri, le querce marce». Luis de Camoens esprime la disperazione per essere nato, per essere«sfuggitoallasepoltura materna», per essere sottoposto a un destino implacabile. «Il mio cuoreavvizzitodallanoianon aspetta che la sepoltura», scrive Mathurin Régnier, mentre Du Bellay compone una Complaintedudésespéré eRonsardosservanegliInni: [...]Nousnesommes rien Qu’uneterreanimée, etqu’unevivanteombre, Lesujetdedouleurs, de misères et d’encombres[...] Tant nous sommes chétifs et pauvres journaliers, Recevant sans repos maux sur maux à milliers21. Posa manierista? Moda letteraria?Luoghicomuni?Di tutto un po’, certo, ma anche molto di più. Se tutti questi poeti sfruttano il filone malinconico è perché sanno bene che avranno un qualche tipo di riscontro, poiché la malinconia impregna la società in cui vivono. Peraltro, quando una simile atmosfera persiste perunsecoloemezzo,nonsi può più parlare di moda, quanto di una vera e propria tendenza culturale profonda, analizzata in particolare da due britannici, Timothie BrighteRobertBurton,lecui opere costituiscono documentifondamentalidella storiadellementalità. TimothieBrighteil Dellamelanconia (1586) TimothieBrightèmedico al Saint Bartholomew’s Hospital di Londra ma, allo stesso tempo, è attratto dalla vocazione religiosa. Il suo approccio alla malinconia tenta quindi di conciliare la spiegazione psicosomatica e la spiegazione teologica. Come medico egli resta fedele alla tradizione ippocratica degli umori: l’umoremalinconicoprodotto dalla milza può offuscare il cervello con i suoi vapori; la mente genera visioni sgradevoli, le quali provocano reazioni di tristezzanelcuore: I disturbi melanconici sono soprattutto la tristezza e lapaura,dacuiderivano la diffidenza, il dubbio, lamancanzadifiduciain se stessi, o la disperazione. Il soggetto èavoltefurioso,avolte apparentementefelice-a causadiunasortadiriso sardonico e falso secondo la disposizione d’animo che governa questi diversi atteggiamenti. I tristi e pensierosi dipendono dall’umore melanconico, la parte più grossolana del sangue, succo o escremento che, quando non supera il suo grado normale di calore, viene designato come freddo. Lasuasedeprincipalesi trova nella milza e disturba il cuore con i suoivapori;poi,salendo al cervello, sottopone l’immagina-zione al terrore dei falsi oggetti. Esso inquina sia la sostanza che gli spiriti del cervello, portandolo a inventare, senza sollecitazioni esterne, immagini fittizie mostruose che spaventanoilpensiero:il giudizio, ricevendole come le vengonopresentatedallo strumento fuori equilibrio,letrasmetteal cuore, il quale neanche lui possiede giudizio né discernimento e che, dando credito al falso rapporto del cervello, fa esplodere una passione smodata contro ogni ragionevolezza22. La malinconia è anzitutto una patologia fisiologica dovutaall’abbondanzadibile nera che influisce sulla mente, il male diventa allora psichico. È a questo punto che il diavolo può attaccare: approfittando delle paure, delle angosce, dei dubbi, spinge il soggetto di fronte a problematiche che ne compromettono la fede e lo conducono alla disperazione. Se l'anima cede alle suggestioni diaboliche durante le crisi di depressione, la malinconia diventapeccato. La malinconia, quindi, plasma contemporaneamente sia il corpo che la mente. Bright stila un ritratto psicofisiologico del soggettomalinconico:magro, occhi scavati, faccia imbronciata,«avvampandodi timidezza,tienelatestabassa e china. Cammina a passi lenti,insilenzio,indifferente, fugge la luce e la folla, si chiude preferibilmente nell’isolamento e nell’oscurità». Ha il polso debole, la digestione lenta e l’evacuazionedifficoltosa. II malinconico è sospettoso, si applica nella meditazione, si mostra circospetto, fa sogni terribili e spaventosi. Egli è triste, pieno di paure, difficilmente monta in collera, ma quando succede vi rimane per lungo tempo e non si riconcilia facilmente. È invidioso e geloso, incline a prendere male le cose, se stimolato mostra di poter essere estremamente appassionato. Da queste due disposizioni del cervello e del cuore nasce una tendenza alla solitudine, al dolore, al pianto e al riso malinconico, ai sospiri, ai singhiozzi, ai lamenti23. Bright dedica cinque capitoli alla malinconia religiosa generata dalla paura della dannazione, in seguito Burton svilupperà maggiormente questa idea. Egli studia anche gli effetti degli eccessi di lavoro intellettuale, che consuma gli spiriti sottili indispensabili al nostro calore e al nostro equilibrionaturali: Poiché se la persona ama questo studio, sia il cuore che la mente si prodigano con i loro spiriti,econessileparti più sottili del succo naturale e degli umori delcorpo.Seinvecenon le piace e le viene imposto, la separazione della mente dall’inclinazione del cuoregeneranellanostra natura una sofferenza tale cui in genere segue una grande perdita dello spirito vitale e degli umori più rari e sottili del corpo, che sono per così dire la sede del nostro calore naturale, affinano tutti i nostri umori e purificano i nostrispiriti24. Bisogna quindi sapersi limitare, evitare lo studio di materie sconosciute, fare esercizio fisico ma senza eccessi, ascoltare la musica, distrarsi. La cura sarà psicologica, nella tradizione delle «consolazioni», secondo Seneca. Il malinconico ha bisogno di un «medico filosofo», professione diffusa durante il XVI secolo. Egli farà anche ricorso a trattamenti medici, in particolare agli infusi di elleboro per depurare la milza, favorire le evacuazioni, combattere il freddoelasecchezza.Fragli altri antidepressivi dell’epoca citiamo l’avorio, l’ambra, il mieleeilcornodelliocornoprodotto raro, crediamo, e quindi molto costoso. E poi, certamente,anchelepurghee isalassi. L’opera di Timothie Brightriassumelaconcezione correntedellamalinconiache circola verso la fine del XVI secolo. Il suo più grande risultato è di essere stata utilizzata da Shakespeare per crearepersonaggimalinconici quali Jacopo, ma soprattutto Amleto, meditabondo e depresso, solitario, suicida e velleitario, il cui equilibrio psicologico viene spezzato dalla morte brutale del padre e dal nuovo matrimonio, ugualmente brutale, di sua madre25. Il libro di Robert Burton è invece di tutt’altra portata. RobertBurton,un depressonelXVII secolo Robert Burton nasce nel 1577, nel castello di famiglia di Lindley nel Warwickshire, nel cuore dell’Inghilterra. La sua infanzia di studente non gli lascia che brutti ricordi. Essendo egli il cadetto, deve intraprendere la strada della vita religiosa. Nel 1593 entra all’Università di Oxford, nel collegio di Brasenose, poi, nel 1599, in quello di Christchurch. Avendo poche possibilità di diventare vescovo e non volendosi rinchiudere in una curia di campagna, resterà pertuttalavitaunchiericodi Christchurch. Questo eterno studente, come afferma egli stesso, conduce «una vita privata silenziosa, sedentaria e solitaria». Nessuno si accorge di lui poiché non frequenta le celebrità di Oxford. Egli vive con i redditidiunaodueproprietà e si ritiene soddisfatto: «Non sono né ricco né povero; possiedo poco, non desidero niente; tutto il mio tesoro è nella torre di Minerva». Il suo tesoro sono i libri, cheamateneramente:egliha accesso alle immense biblioteche dell’università e la sua biblioteca personale è davvero considerevole, poichécorrispondeaunterzo della famosa biblioteca di Oxford, la Bodleian Library26. Burton ci passa la vita, in biblioteca, accumulando così un’erudizione colossale su tutte le materie e tutte le epoche. Sempre al corrente delle ultime novità, egli cita Rabelais, Montaigne, Cervantès, Machiavelli, Bodin, Bruno, Campanella, Paracelso, Bacone, Galileo, Keplero, Grozio. «La passione per i libri, come quella per la lettura, è probabilmenteuntrattotipico della malinconia», scrive Jackie Pigeaud nella postfazione all’edizione francesedell’Anatomiadella malinconia27. Come Montaigne nella suatorre,Burtonsirinchiude nel suo collegio in cui vive una vita filtrata dai libri, pur sapendo di farne sovente cattivouso:«Hosfogliatoalla rinfusa vari cantori nelle nostre biblioteche, con pocovantaggiopermancanza di sufficiente abilità, ordine, memoria e discernimento»28, confessa. Gli umanisti, i retorici, i predicatori di quest’epoca ricorrono spesso allacitazioneperrafforzarele loro dimostrazioni. Burton si serve invece della loro autorevolezza come di uno scudo, poiché manca di fiducia nel proprio pensiero: «Non puoi avere di me un’idea peggiore di quanto non l’abbia già io di me stesso»29,afferma. Depresso e consapevole di esserlo, Burton si lancia nella scrittura per fuggire la propria malinconia, esattamentecomeMontaigne, per il quale prova un sentimento di vicinanza fraterna. La scrittura, tutti i malinconici lo sanno, permette alla mente di uscire dallasueossessionifissandosi sulle questioni formali del linguaggio. Ma il malinconicoèinstancabile.Il librodiBurtonècompostoda non meno di duemila pagine. Nell’anno 2000 Bernard Hoepffner, che ha realizzatolaprimatraduzione francese integrale di quest’opera monumentale, confessa: «Ho tradotto l'Anatomia per cercare di evitare la malinconia»30. Curare il male con il male è senza dubbio l’unico rimedio perilmalinconico. Burton presenta il suo librocome«unantidotoaciò che fu la causa primordiale del mio male»31. Ma il malinconico non può cheparlaredisestesso,anche quando parla degli altri, poiché la sua malinconia impregna la visione che ha del mondo. Montaigne lo fa apertamente e Burton indirettamente: quando sembra parlare d’altro, è ancoraesempreluiadessere in primo piano. Non è un casosel’autobiografiaappare nel XVI secolo. Come molti altri, Burton cerca di tranquillizzarsi ricostruendo la propria vita, spiegandola asestesso,unmodocomeun altro per convincersi che non èstatatotalmentevana. In molti si sono riconosciutinelmaldivivere di cui Burton tratteggia l’anatomia: il fatto che un trattato così voluminoso sia stato oggetto di cinque edizioni mentre l’autore era ancora in vita è abbastanza notevole;inoltre,almomento del suo decesso, si preparava a uscirne una sesta. Il suo successo va ben oltre la sua epoca, con quarantotto edizioni fino al XIX secolo, comprese le edizioni economiche. Ancora nel 1989, ha visto la luce un’edizione critica in lingua inglese32. Dal XVII secolo quest’opera non ha mai smesso di ispirare gli autori; in Inghilterra tutti i grandi malinconici vi hanno fatto riferimento: Milton, Sterne, Lambs,Keats,Byron,ilquale tuttavia non ne aveva una grande opinione, asserendo che fosse utile «per un uomo che desidera acquisire la reputazione di essere istruito senza fare sforzi». Quanto al celebre dottor Johnson, noto ipocondriaco, egli dichiarava che fosse il solo libro capace di farlo alzare due ore prima delsolito. L'anatomia della malinconia è una raccolta confusaparagonabileaquella checircondalaraffigurazione dellaMelancholiaIdiDürer, dicuièil«pendant»letterario a un secolo di distanza.Burtonperaltrovisi riferisce esplicitamente nella descrizione dell’aspetto e del comportamento dei malinconici: Estremamente appassionati, essi vogliono intensamente ciò che desiderano, e cercano ciò che desiderano con grande ardore; sempre ansiosi e premurosi, diffidenti e timorosi, invidiosi, cattivi,avoltegenerosia profusione, altre volte molto risparmiatori, ma più spesso avidi di guadagno, brontoloni, insoddisfatti, inclini al lamento continuo, invidiosi, burberi, incapaci di dimenticare un’offesa, portati alla vendetta, rapidamente fuori controllo e di grande violenza in tutto ciò che immaginano, poco affabili nelle parole, né capaci dei complimenti più comuni, ma testardi, imbronciati, tristi, austeri, sempre in meditazione,fissatinelle loro idee; esattamente come la Melancholia dipinta da AlbrechtDürer33. Per quanto riguarda l’apparenza fisica, Burton si accontentadiriportareciòche già pensavano Ippocrate, Galeno, Rufo, Du Laurens e altri. Gli sarebbe bastato guardarsi allo specchio per descrivere la propria malattia, ma preferisce tratteggiarla attraverso le pagine dei libri. Magri, rugosi, i malinconici presentano barba floscia, labbra spesse e vene gonfie; soggettiadiarreasecondogli uni, a costipazione secondo gli altri, essi possono soffrire di mal di stomaco, insonnia, vertigini, palpitazioni, sudori freddi, pruriti, balbuzie, tremori, flatulenze; i loro disturbi digestivi provocano alito pesante, peti e rutti, urinaacida,escrementidurie neri.Questorivoltanteritratto non è che l’accumulo di osservazioni disparate di diversiautori.Nellacitazione seguente egli testimonia la svalutazione di sé che caratterizzaspessolepersone malinconiche e che può spiegare, in parte, la loro timidezza:«Essecredonoche tutti le guardino e si rendano conto dello stato in cui versano; la paura, il sospetto stesso bastano per farli precipitare in questa condizione»34. Più interessanti sono i tratti psicologici. Anzitutto, i malinconici sono paurosi. Diffidenti, hanno paura di tutto e di tutti, temono di perdereipropribenieilloro status, si allarmano per un nonnulla. Non smettono di agitarsi, di digrignare i denti, di sospirare, di rattristarsi,dilamentarsi, di criticare, di mormorare, di essere rancorosi, di piangere [...], di sentirsi depressi; il loro animo è disturbato da pensieri inquietanti e lancinanti, sono scontenti sia di se stessi che degli altri, o ancora delle vicende pubbliche, di quelle che non li riguardano, degli avvenimenti passati, presenti o futuri; il ricordo di qualche disgrazia,diunaperdita, di una ferita, di un’ingiuria, ecc., oggi che sono in pace, li tormentaancoradipiùdi quando l’avevano appenasubita35. Si saranno riconosciuti, qui, i sintomi della depressione. L’inquietudine perpetua porta i malinconici ad accarezzare l’idea della morte, che temono e desiderano contemporaneamente. Essi parlano di suicidio, ma non sonoingradodicommetterlo. Qui Burton presenta reminiscenzediSeneca: Si autocommiserano, piangono,silamentanoe credono di condurre una vita delle più miserabili: maiunuomoèstatocosì malridotto,tuttiipoveri infelici che incontrano sono, rispetto a loro, estremamente fortunati; ogni mendicante che viene a bussare alla portaèpiùfelicediloro, scambierebberovolentieri la propria vita con la sua, in particolare se sono soli, oziosi e separati dai compagni abituali, straziati, scontenti o irritati; il dolore, la paura, l’ansia, lo scontento, la stanchezza,lapigrizia,il sospetto, o ancora qualunquealtrapassione simile,s’impadroniscedi loroconviolenza36. La malinconia porta a volteall’epilessia,allacecità, alla follia, poiché colui che soffre non è più in grado di provare piacere nella vita. Come Giobbe, egli maledice il giorno della sua nascita; il malinconico è un vero Prometeo le cui viscere sono continuamente divorate dall’angoscia. Se molti non osano suicidarsi, altri superano brillantemente l’ostacolo; «Siamo quotidianamente testimoni di un buon numero di tristi esempi». Burton li condanna, ma invita i suoi contemporanei a giudicare meno severamente «coloro che si fanno violenza o che, in stato di crisi, esercitano la violenza contro gli altri [...], poiché alcuni sono pazzi, hanno momentaneamente perso lucidità, oppure sono malinconici da molto tempo e, essendo ormai arrivati a livelli estremi, non sanno più quellochefanno»37. Tuttavia Burton si mostra relativamente compiacente neiconfrontideimalinconici. Costoro, spiega, sono dotati di qualità che spesso fanno difetto negli altri uomini, ad iniziare dalla perspicacia: «Sono giudiziosi, saggi e ricchi di spirito: poiché sono della stessa opinione di questo aristocratico, la malinconia fa progredire le idee degli uomini più di qualsiasi altro umore, essa permette di meditare più profondamente di qualunque altre forte bevanda»38. Hanno molto senso dell’umorismo e sono laconici, poiché «preferisconoscrivereciòche pensano invece che dirlo e amano la solitudine sopra ogni altra cosa», come Diogene e Timone. «Essi rifiutano di frequentare i propri compagni, persino la famiglia e gli amici più cari, poichésonoconvintichetutto ilmondoliosservi,siprenda giocodiloro,lidisprezzi,rida di loro o li maltratti»39. Qui Burtonpensaevidentementea se stesso: poiché sono modesti e timidi, «è raro che riescano ad arrivare agli alti ranghidellasocietà». In un primo tempo la malinconia è in generale uno «degli umori più piacevoli». Il malinconico ama «stare da solo, vivere solo, passeggiare da solo, meditare, restare a letto per giornate intere, sognare, per così dire, ad occhiaperti,elasciarsiandare per concepire migliaia di fantasie.Èquestoilmomento di massima felicità per loro, in un istante sono in paradiso»40. Poi passano dal paradiso all’inferno: «Se esiste un inferno sulla terra, devetrovarsinelcuorediuna personamalinconica». La depressione viene già considerata, all’epoca, una malattia immaginaria, superabile a condizione di fare uno sforzo su se stessi e di non prendersi troppo sul serio: «Spesso accade che le persone in buona salute si facciano beffa della pusillanimità dovuta all’abbattimento e degli altri sintomidellamalinconia,che ne sparlino e si stupiscano di simili quisquilie, futilità che, secondoloro,sonofacilmente evitabili, basterebbe volerlo»41. La reazione dell’ambiente circostante non è cambiata in quattro secoli. Già molto moderno, l’atteggiamentodiBurtonnei confrontidelmondoalimenta consapevolmente la sua malinconia. Egli dichiara subito di essersi messocomodamenteafarelo spettatore della commedia e di osservare, dalla sua torre d’avorio, la vana agitazione degliuomini. Sono un semplice spettatore delle avventurose vicende degli uomini, di come essirecitinoleloroparti, che non si presentano congrandevarietàcome accadedisolitosulpalco diunteatro42. Ciò che segue può sorprendereillettoredelXXI secolo, il quale tende a credere che la valanga di notizie catastrofiche e di cronache orribili sia un fenomeno contemporaneo reso possibile dai mezzi di comunicazionemoderni: Sento delle novità tutti i giorni e le solite notizie di guerre, pestilenze, incendi, inondazioni, furti, assassinii, massacri, meteore, comete, prodigi, strane apparizioni: sento di borghi conquistati, città assediate in Francia, Germania, Turchia, Persia,Polonia,ecc.[...], sfilate di truppe ogni giorno, preparativi di guerra e così via, frutto di questi tempi burrascosi, battaglie, uomini trucidati, duelli, naufragi, piraterie, battaglie navali, trattati di pace, alleanze, stratagemmi e sempre nuovi pericoli. [...] Ogni giorno nuovi libri, opuscoli, notiziari, storie,intericataloghidi volumi di tutti i tipi, nuovi paradossi, opinioni, scismi, eresie, controversie filosofiche, religiose,ecc.43. Dinanzi a tutti questi drammi, come non vedere «che il mondo intero è folle, malinconico, che sta vaneggiando»? Burton ricorda che il Qoelet affermava la stessa cosa, ma alla sua epoca è molto peggio: «Mai come oggi c’è stato un motivo tanto legittimo per ridere, mai così tantistoltiepazzi».Supiùdi un centinaio di pagine egli ripete,intutteleforme,cheil mondo è una «gabbia di pazzi».ComeinShakespeare, che Burton conosce bene, i pazzi guidano i ciechi. Guardate «la gente comune seguire come tante pecore uno di questi tali, trascinati per le corna sopra un burrone, alcuni per zelo, altri per timore». Burton rimugina sui mali dell’umanità. Rinchiuso nella sua biblioteca come un leoneingabbia,eglialimenta lasuamalinconiacontuttele notizie che gli arrivano, sentendosisolidaleconisuoi simili,chenonhannochiesto di venire al mondo più di quanto lo abbia fatto lui: «Nessun uomo è felice in questavita». Lecause Le cause di questo male sono numerose. La prima è ovviamente il peccato originale,acausadelqualeil malesièriversatonelmondo: Adamo, infatti, sprofondò nella malinconia immediatamente dopo la caduta. Più interessanti sono le causesecondarie.Burtonnon sembra credere all’influenza astrale, che definisce «futilità» dopo avere esposto in alcune pagine le varie opinioni a riguardo. L’ereditarietà gli sembra un fattore molto più importante. Ricordando numerose idee dellasuaepoca,secondocuii bambini concepiti durante lemestruazionidellamadre,o da un vecchio, o da una donna dall’animo pesante, stupida o collerica, sono generalmente dei depressi, egli afferma che la razza umana è sulla via della degenerazione: «L’umanità starebbemoltomegliosesolo le persone sane nel corpo e nello spirito fossero autorizzate a sposarsi»44, afferma, riportando le parole di Fernel. Burton è chiaramente favorevole all’eugenismo su larga scala. Egli infatti trova deplorevole che l'attività umana più importante, quella che consiste nel mettere al mondoaltriesseriumani,non vengaregolamentata. Oggi, a causa del nostro lassismo a questo proposito, poiché autorizziamo il matrimonio di tutti colorochelodesiderano, poiché siamo troppo indulgenti, liberali e tolleranti in tanti campi, subiamo la totale confusionedellemalattie ereditarie, nessuna famiglia viene risparmiata, quasi tutti gli uomini vengono colpiti da una qualche grave infermità e, per quanto si faccia, sono sempre i più anziani a sposarsi, come se fossero stalloni di razza, o ancora i ricchi, gli imbecilli, i tarati, gli zoppi o gli infermi, gli impotenti, gli intemperanti, i depravati e coloro che si sono consumatinelleorge45. Un’altra causa di malinconia è la vecchiaia. A causa dell’affievolimento progressivodeglispiritivitali, gli anziani sono di animo triste. La malinconia può inoltre risultare da un cattivo regime alimentare. Burton è inesauribile a questo proposito, ma le sue interminabili raccomandazioni hanno di che rendere tristi: egli infatti sconsiglia la carne di manzo, di maiale e di coniglio, il latte e i suoiderivati,lamaggiorparte dei volatili, del pesce, della frutta e della verdura, il pane integrale,tuttiivinidicolore scuro e la birra; bandisce i pasti troppo abbondanti o troppo raffinati, ma anche i regimi alimentari troppo inflessibili... Lamalinconiasispiegaa volte con la mancanza di secrezionicorporee,comenel casodeglistitici,dicoloroin cui cessa il flusso emorroidaleedelledonneche non hanno più le mestruazioni. In questa categoria Burton accorda un ampio spazio alla mancanza di attività sessuale: «L’astinenza provoca un tipo particolare di malinconia nelle donne anziane, le suore e le vedove», nei monaci e neipreti,eintutticoloroche sono troppo timidi per fare l’amore abbastanza spesso46. Ecomesemprecitanumerosi esempi, come «questo prete buono, onesto e devoto che, non volendo né sposarsi né finireperandareneibordelli, venne colto da una grave malinconia». Il motivo è che il seme non utilizzato marcisce e diventa un vero e proprio veleno i cui vapori arrivano fino al cervello. La stessa cosa vale per il fluido sessuale delle donne, ma attenzione: «La mancanza di temperanzainamoreènociva quanto l’eccesso contrario; Galeno dichiara che la malinconia fa parte delle malattie aggravate dalla copulazione». In verità la malinconia può essere generata da qualsiasi tipo di causa: la cattiva qualità dell’aria, un’esposizione prolungata al sole,lamancanzaol’eccesso di esercizio fisico, il troppo sonno, un grande dolore, la paura improvvisa, una disgrazia, l’odio, l’invidia, la gelosia, la collera, una grave preoccupazione, desideri insoddisfatti, la cupidigia,lapassionesfrenata per il gioco, l’orgoglio, una gioia eccessiva, un lutto, l’esilio, un matrimonio infelice, la perdita della libertà, della bellezza o della salute, un terremoto, l’apparizione di uno spettro, lo scherno, la miseria, le amicizie sgradevoli, i vicini cattivi, indossare biancheria sporca, avere «un alito puzzolente, membra deformi, una gobba, la perdita di un occhio, di una gamba, di una mano, un colorito pallido, la magrezza, il rossore». Leggendo questo inventario sembra impossibile riuscire a evitare la malinconia, che rischia di essere scatenata anchedallacadutadeicapelli, osserva Burton, il quale cita la frase immortale dell’illustreSinesiodiCirene: «Laperditadicapellidasola colpisce crudelmente il cuore»47. Il nostro autore non ha ancora finito con l’elenco delle cause: ci sono ancora i malinconici che hanno succhiato il mal di vivere attraverso il latte di una balia «folle o sciocca», quelli la cui educazione è stata troppo severa, quelli a cui sono state raccontate «storie di mendicanti, di orchi e di gobelin», quelli che sono stati raddrizzati a colpi di frusta e di minacce, quelli la cui educazione è stata invece troppoindulgente,quelliicui difetti fisici hanno intaccato la mente per mezzo degli spiriti vitali, poiché «non esiste parte del corpo che, in condizione di disequilibrio, non possa provocare questa malattia». Soprattutto Burton dedica tutta la terza parte del suo libro, vale a dire trecentocinquanta pagine, a duetipidimalinconiachegli stanno particolarmente a cuore:lamalinconiaamorosa elamalinconiareligiosa. La prima, come abbiamo detto, gli viene ispirata dalle sue frustrazioni personali: quest’uomosolitarioetimido riversalasuastizzacontrole donne,conaccentifortemente misogini,facendodell’amore, che non ha potuto conoscere, lafontediunamoltitudinedi mali che conducono alla malinconia, persino al suicidio. L’amore porta alla gelosia, la quale provoca tormenti senza fine. Ma Burtonsirimproveraanchedi dedicaretantotempoaquesto tema: «Cosa ho a che fare io con le suore, le ragazze, le vergini, le vedove? Già io sono celibe e conduco una vitamonacaleinuncollegio». Per quanto riguarda la malinconia religiosa, si tratta di un vero e proprio flagello: «Niente al mondo provoca tanta follia, tanti sintomi sbalorditivi quanto la superstizione, l’eresia, gli scismi, per ammettere che questo tipo di malinconia sia pari a tutti gli altri di cui ho già parlato, che è molto più comune e che i suoi effetti sono molto più stravaganti, che abbrutisce e domina gli umani più di tutti gli altri generi di malinconia già citati»48. Vengono presi di mira soprattutto i cattolici (Burton è un anglicano convinto), ma anchelealtrereligioni: Se Democrito fosse vivo e vedesse anche solo la superstizione della nostra epoca, la nostra follia religiosa [...] cosa direbbe? Tanti che si professano cristiani e tuttavia ben pochi che imitano Cristo; tanto parlare di religione [...], tante cerimonie, assurde e ridicole. [...] Se avesse incontrato alcuni dei nostri devoti pellegrini che vanno a piedi scalzi a Gerusalemme, Loreto, Roma, Santiago di Compostela,Canterbury, per strisciare di fronte a quelle false reliquie mangiate dai vermi; se fosse stato presente ad una messa, e avesse visto tutto quel baciare santini, crocifissi, quel curvare di schiene, inchini, i loro vani abiti ecerimonie[...],battersi il petto [...], i loro breviari, balle, rosari, esorcismi, pitture, strane croci, favole e gingilli; se avesse letto la Leggenda d’Oro?, il Corano dei Turchi, il Talmud degli Ebrei, i Commenti rabbinici, cosaavrebbedetto?49. Icattolicisonoinclinialla disperazione quando si rendono conto che le loro preghiere sono vane. Ma i predicatori puritani, «questi ministri tonanti del culto» non valgono tanto di più e hanno portato al suicidiopiùdiunapersona.I preti papisti offuscano le menti parlando di visioni, apparizioni, possessioni. Non che il diavolo non abbia niente a che fare con la malinconia religiosa, anzi, ne approfitta per tentare gli animi fragili e spingerli fino all’ateismo, che Melancthon designa come «mostruosa malinconia» o «malinconia avvelenata». L’ateismo è un fattore di malinconia nocivo quasiquantoilcattolicesimo. Lecure Ma veniamo al trattamentodiquestoflagello. Si tratta poi davvero di un flagello? La questione è legittima poiché Burton sembra dilettarsi nella sua tristezza, riconoscendole volentieri alcuni vantaggi. I malinconici sono persone degne di stima, «raramente tanto ambiziosi, impudenti e importuni quanto gli altri; essinonsononéimbroglioni, né ingannatori, né scrocconi, né chiacchieroni, né tenutari dicasechiuse,néparassiti,né depravati, né ubriaconi, né puttanieri; la necessità e i loro difetti li costringono all’onestà»50. Virtuosi per necessità: «Se noi, i malinconici, non siamo così pervertitiquantoipeggioridi noi, è grazie a nostra signora laMalinconia».Inostridifetti hannoinfattiunlatopositivo: l’amore per la solitudine favorisce la meditazione, il sospetto rende prudenti, la paura incoraggia la sobrietà, la stanchezza della vita allontanadaipiacerieffimeri. In una parola, se non siamo felici, è lo scotto da pagare per la nostra intelligenza, la nostra lungimiranza e la nostra cultura: «L’ignoranza è un rimedio sovrano contro tutti i mali[...],iperfettiidiotisela cavano meglio, non sono né invasi dalle preoccupazioni, né tormentati dalle paure e dall’ansia come gli uomini assennati». Guardate quanto sono felici gli americani: «Vivremmo forse meglio se possedessimo la semplicità illetterata e la grossolana ignoranza degli abitantidellaVirginia»51. Tuttavia Burton suggerisce alcuni rimedi contro la malinconia, che ritiene quindi essere soprattuttounmale.E,nuova contraddizione, egli non applica tali rimedi, anzi. Proprio lui che non è maiuscitodaOxforddichiara che«nonc’èmigliorrimedio perunuomomalinconicodel cambiamento d’aria, della diversità di luoghi e dei viaggi distanti dalla propria casaperscopriremodidiversi di vivere»52. Lui, che non tocca mai una donna, cita Velesco di Taranto per il quale «in mancanza di rapporti sessuali, lo spirito sicaricaditristezzaeilcorpo diviene pesante e cupo»53. Lui che non frequenta nessuno è convinto che «il miglior rimedio sia di condividere la nostra miseria con un amico invece che rinchiuderla in noi stessi»54, inoltre raccomanda di «mangiare spesso». Potremmo citare molti altri esempi a testimonianza del fatto che Burton si compiacessedelsuomale. In effetti poi, Burton consigliava soprattutto di condurre una vita equilibrata edievitarequalsiasieccesso. Senzagrandiillusioni,poiché «chiedereaunmalinconicodi smettere di avere paura, di esseretriste,ècomechiedere a un malato di smettere di soffrire». I suoi rimedi sono dunque semplici osservazioni dettate dal buon senso, che del resto sono fuori dalla portata della stragrande maggioranza dei suoi contemporanei. Ma la malinconia non è forse, a quest’epoca, una malattia di lusso? Quindi, se volete mantenerla entro limiti accettabili, fatevi costruire una bella casa, correttamente orientata,dovel’ariasiasana; «Piantate rose, violette, fiori dal profumo gradevole sotto le finestre, bouquet fra le mani»; stabilitevi in una regione dal clima gradevole, nel paese di Montaigne,adesempio:«Nel Périgord, in Francia, l’aria è sottile e salubre, le epidemie o le malattie contagiose sono rare,laregioneèmontagnosa e arida: gli uomini che vi abitano sono in buona salute, agili e vigorosi»55. Poi conduceteunavitapiacevole: ascoltate la musica, invitate gli amici, viaggiate, fate l’amore ogni tanto, dormite bene:settooottooreanotte, suunfianco«eavolteanche sulla pancia, ma mai sulla schiena». La sera, un bicchiere di vino dolce, poi «coricarsiinlenzuolapulitee morbide», ascoltare una musicadolceprimadiandare a letto o una volta coricati. Non è male anche avere in giardini una vasca con un getto d’acqua, il cui «piacevolefruscio»placherài vostri sensi. Un altro consiglio: «È molto salutare lavarsi spesso le mani e il viso, cambiarsi gli abiti, portare biancheria pulita, esserevestitiinmododecente e armonioso, poiché la sporciziaintaccaedeprimele persone che sono volontariamente trascurate o che lo sono per necessità; essademoralizza»56. Insomma, bisogna occuparsi del corpo e dell’anima. E poi andare agli spettacoli! Ce ne sono certamente nella vostra regione, «una processione, o una sfilata come durante le incoronazioni, i matrimoni e altresolennitàdelgenere,[...] il ricevimento di un ambasciatoreodiunprincipe, mascherate,spettacoli,fuochi d’artificio, ecc.»57. E le battaglie! «Potete osservare una battaglia nel momento dell’azione, come quelle di Crécy, di Azincourt o di Poitiers» -vittorie, preferibilmente -, che pacchia! E se avete perso queste grandi occasioni, sappiate che ne verranno organizzateancora. Se seguirete queste sane raccomandazioni, vi sentirete giàmeglio.Lasciateviandare, esoprattuttononinterrogatevi troppo sul senso dell’esistenza. A cosa servechiedersi:«Cosafaceva Dioprimadellacreazionedel mondo? Perché l’ha creato proprio in quel momento e nonprima?Sel’hacreatodal nulla, o nell’ottica di un disegno particolare, allora com’è possibile che Dio sia immutabile e infinito? [...] se Dio è infinitamente e unicamente buono, perché dovrebbe trasformare o distruggere il mondo? Se capovolge ciò che è buono, come può Egli stesso rimanere buono? Se annienta il mondo a causa del male, come può essere libero dal male che ha reso cattivo ilmondo?ecc.[Tuttequeste] domande [sono] una più assurdaefolledell’altra»58. Altre sane occupazioni permetteranno alle donne di scacciare la malinconia. La lista dà l’impressione che Burton, vecchio scapolo frustrato, non riesca decisamente a perdonare al gentil sesso il fatto di averlo lasciatoindisparte: Quanto alle donne, per sostituire le attività di studio, hanno il loro curiosolavoroconl’ago, i loro ricami, i loro merletti a tombolo e tutta una serie di deliziosi oggetti che costruiscono da sole per decorare le case, i cuscini, i tappeti, le sedie,glisgabelli,[...]le confetture,leconserve,i distillati, ecc., che mostrano agli stranieri [...].Tuttociòsostituisce studilaboriosi»59. Per chi, nonostante tutto, fosse ancora afflitto dalla malinconia, esistono anche medicine e trattamenti farmaceutici. Burton cita alcuni degli ottocento purgativi o alterativi conosciuti dalla medicina di allora, il cui fine era di favorire l’espulsione dell’umore malinconico che si accumula in alcuni punti delcorpo.Ilrimediomigliore è ancora il salasso, per il quale Burton consiglia un metodo naturale: «Le sanguisughe sono molto apprezzate per curare la malinconia, particolarmente sulleemorroidi»60. Oggi il libro di Robert Burton ci sembra un buon rimedioperlamalinconia.La sua semplice lettura ci regala ore di divertimento, ed è a torto che egli teme di annoiarci: «Dopo questi discorsi noiosi...», scrive all’iniziodellasotto-divisione 3delmembro5dellasezione 2 della prima parte, dopo seicento pagine dedicate alle cause della malinconia e prima di iniziare le millequattrocento pagine di descrizione del trattamento. Nella sua epoca Burton dà provadigrandeumanità.Ciò chedescrivenonèsoltantola malinconia,malacondizione umana, con i suoi limiti, le sue piccolezze, le sue illusioni, insomma, il mal di vivere.Lasuaepocaignorail politichese, inventato dai moderni per celare le sofferenzedelmondo.Burton rivela l’anatomia della condizione umana: l’uomo è infelice, anche se tenta di persuadersi del contrario. «In questa vita sono numerosi i flagelli che possono abbattersi su un mortale: matrimonio, bambini, domestici,maestri,compagni, vicini, i nostri difetti, l’ignoranza, gli errori, l’intemperanza, l’indiscrezione, le infermità, ecc»61. L’uomo passa il tempo a scontrarsi con i propri limiti, a sbattere la testa contro i muri della sua prigione. Tuttavia ha paura di uscirne, anche quando gli si apra la porta, di cui peraltro ha le chiavi: la morte lo solleverebbe, ma egli la rifiuta. Quando parla di questa misteriosa contraddizionecheèalcentro della condizione umana, Burton è equiparabile a Montaigne, afferma persino Schopenhauer. Tutti i teorici del mal di vivere arriveranno allamedesimaconstatazione: Lavitaèfastidiosae dolorosaanchepercolui che vive al meglio; nascere è una sventura, vivere un dolore, morire unapena;lamortemette un punto finale alle nostremiserie,etuttavia nonriusciamoapensarci [...]. Poiché non esiste piacere quaggiù cui non sia unito un po’ di dolore; il pentimento lo segue da vicino. Se mi nutro abbondantemente, spesso sono malato o scoraggiato; se vivo in modo frugale, la fame e la sete non saranno placate; non mi sento bene né quando sono pieno né quando sono a digiuno; se vivo onestamente brucio di concupiscenza; se mi lascio andare al piacere, mi affatico e affamo la mia anima, le causo pregiudizio, come anche al mio corpo. Per una così infima quantità di gioia, quanti dolori; dopo così poco piacere, unacosìgrandemiseria! Trovo sgradevole sia coricarmi che alzarmi, sia mangiare che guadagnarmi da vivere; le preoccupazionieifastidi mi accompagnano per tuttoilgiorno,lepauree i sospetti per tutta la vita. Sono scontento. Perché allora desidero tantovivere?62. 1 M.J. FRIEDLÄNDER, Albrecht Dürer, Lipsia 1921, pp.146sgg. 2 R. KLIBANSKY, E. PANOFSKYeESAXL,Saturnoe lamelanconia:studidistoria della filosofia naturale, religione, arte, Einaudi, Torino1983. 3 J. THOMSON, The City of Dreadful Night and other Poems, Watts, London 1934; trad, it., La città della terribilenotte,a cura di Mill Romano, Panozzo, Rimini 2000. Sentire che ogni lotta termina con una sconfitta, / Poichéildestinononpremiai successi; / Che la voce degli oracolièmutaoingannatrice, / poiché in essi non è custoditoalcunsegreto;/Che niente può strappare il misteriosovelonero,/oltreil quale, senza luce, nessuno può vedere, / E che tutto è sempre vanità e nulla [traduzionenostra]. 4 «Tu, il gomito sul ginocchio, il mento nella mano, / sogni tristemente il povero destino umano: / che la vita è assai amara per durare così poco, / che la scienza è vana e l’arte una chimera[traduzionenostra]. 5 R. KLIBANSKY, E. PANOFSKY E F. SAXL, Saturno elamelanconia,cit. 6Ivi,p.299. 7 R KLIBANSKY, E. PANOFSKY E E SAXL, Saturno elamelanconia,dt.,p.298. 8R.LESENNE,Traitéde caractérologie, PUF, Parigi 1957, p. 339; trad, it.,Trattatodicaratterologia, SEI,Torino1960,p.340. 9 M.-CL. LAMBOTTE,Le discours mélancolique: de la phénomenologie à la métapsychologie, Anthropos, Parigi2003,p.66;trad,it.,Il discorso melanconico: dalla fenomenologia alla metapsicologia, Boria, Roma 1999. 10T.KRISTEVA,Sole nero. Depressione e malinconia, Feltrinelli, Milano1989,p.109. 11J. KRISTEVA, Sole nero, cit.,p.111. 12 F. DOSTOEVSKIJ, L’idiota, I taccuini per «L'idiota», Sansoni, Firenze 1961,p.274. 13 J. KRISTEVA, Sole nero, cit.,p.115. 14 M. DE MONTAIGNE, Saggi, Edizioni Casini, Firenze 1965,1,2,p.7. 15Ivi,II,8,p.389. 16 M. DE MONTAIGNE, Saggi,cit.,1,8,pp.28-29. 17Ivi,p.29. 18 M.A. SCREECH, Montaigne&melancholy:the wisdom of the Essays, Duckworth, Londra 1983. 19 M. DE MONTAIGNE, Saggi,cit.,1,50,pp.309-310. 20 A. D’AUBIGNÉ, I tragici,libroII,v.1436. 21 «[...] Non siamo null’altro / Se non una terra animata, e un’ombra vivente, / Oggetto di dolori, miserie e fardelli [...] / Per quanto siamo miseri e poveri giornalieri, / Che ricevono senza posa mali su mali a migliaia» [traduzione nostra]. 22T.BRIGHT,ATreatiseof Melancholy, Theatrum orbis terrarum, Amsterdam 1969; trad, it., Della melanconia, Giuffré,Milano1990. 23 T. BRIGHT, Della melanconia,cit. 24Ibidem. 25 J. DOVER WILSON, Shakespeare’s Knowledge of A Treatise of Melancholy by Timothy Bright, in What Happens in Hamlet, Cambridge University Press, Cambridge 1935, pp. 309320. 26 N.K. KIESSLING, TheLibraryofRobertBurton, Oxford Bibliographical Society, Oxford1988. 27 R BURTON, The Anatomy of Melancholy, Tudor Publishing Company, New York 1948; trad, it., L'anatomia della malinconia, Marsilio,Venezia2003. 28 R. BURTON, L'anatomia della malinconia, cit. 29Ibidem. 30Ibidem. 31Ibidem. 32T.C.FAULKNER,N.K. KIESSLINGeR.L.BLAIR(acura di), R. Burton, the Anatomy of Melancholy, Clarendon Press, Oxford 1989. Un volume di commenti è apparsonel1998. 33 R. BURTON, L'anatomia della malinconia, cit. 34 R. BURTON, L' anatomia della malinconia, cit. 35Ibidem. 36 R. BURTON, L'anatomia della malinconia, cit. 37Ibidem. 38Ibidem. 39Ibidem. 40 R. BURTON, L'anatomia della malinconia, cit. 41Ibidem. 42Ibidem. 43 R. BURTON, L' anatomia della malinconia, cit. 44Ìbidem. 45 R. BURTON, L’anatomiadellamalinconia, cit. 46Ibidem. 47 R. BURTON, Lanatomia dellamalinconia,cit. 48 R. BURTON, L'anatomia della malinconia, cit. 49Ibidem. 50 R. BURTON, L’anatomiadellamalinconia, cit. 51Ibidem. 52 R. BURTON, L'anatomia della malinconia, cit. 53Ibidem. 54Ibidem. 55Ibidem. 56 R. BURTON, L'anatomia della malinconia, cit. 57Ibidem. 58Ibidem. 59Ibidem. 60 R. BURTON, L'anatomia della malinconia, cit. 61Ibidem. 62R.BURTON,L'anatomia dellamalinconia,cit. Capitoloquinto Pessimismocristianoe nascitadellanoianel secoloXVII La grande speranza erasmiana di veder nascere un’umanità ragionevole è naufragata nelle guerre di religione. Probabilmente l’umanesimo toccava solo un’infima minoranza di intellettuali, totalmenteincapacidiopporsi alle forze irrazionali dei credenti manipolati dai principidelRinascimento.La fede nell’uomo si è rivelata utopicaquantolafedeinDio e questa presa di coscienza spiega in gran parte il pessimismo del XVII secolo, un pessimismo di ispirazione giansenista, generatore di un profondomaldiviverechesi traduce in diffidenza intellettuale nei confronti delle capacità umane. Il movimento si è spesso riproposto nel corso della storia, ogni volta che un ottimismo sconsiderato ha lasciatointravederedeigrandi domani.Gliumanistiavevano creduto nell’uomo, ma i fanatismi sfrenati avevano ben presto dissipato questa ingenuità. Il XVII secolo riporta brutalmente al realismo: a causa del peccato originale, non si può sperare in niente di buono nell’uomo. LatristezzadelGrand Siècle Gli artisti dell’inizio del XVII secolo hanno spesso rappresentato malinconia e tristezza attraverso allegorie, comelaMalinconiadiCesare Ripa(1611)oL'Allegriaela malinconia di Abraham Janssens (1623). A partire dagli anni ’20 del 1600 predominano le vanités in cui i teschi, i pendoli, gli orologi e altri oggetti simbolici illustrano il trascorrere del tempo e il carattere effimero dell’esistenza. Il tempo, sempre lui, vecchio impietoso, viene quindi rappresentato in una moltitudine di allegorie: su questo tema sono state recensite settantadue rappresentazioni1. Persino gli orologi a volte appaiono a forma di teschio, come il magnificoesemplaredel1650 conservato all'Ashmolean MuseumdiOxford. Nel 1656 l’introduzione del pendolo negli orologi da parte di Christian Huygens rende il tempo ancora più tangibile. In questo stesso anno Ludwig Pfanstill realizza una vanité dove, dietro una giovane ragazza dai seni nudi, appare nello specchio uno scheletrospoglio.PersinoJan Steen, dalla vena spesso satirica, si lancia in questo genere con II guardiano del libro della morte (1663) o II mondo è un palcoscenico (1667): innamorati, giocatori e nullafacenti se la spassano in un albergo, mentre dal fienile un ragazzo osserva condiscrezionefacendobolle di sapone, un teschio al suo fianco. La vanité di Abraham Van der Schoor ci ricordainmodopiùdirettoil nostro destino: sei teschi e alcuneossasparseallarinfusa su un tavolo, con una clessidra, due rose, una candela accesa e alcuni carteggi. Pieter Claesz esegue, dal canto suo, una Vanitànaturamorta,doveun teschio sovrasta libri, papiri, penna, scrittoio e spartiti. In un Teschio con quadrante solare attribuito a Sebastian Stosskopf, il teschio si trova su un grosso libro. Harmen Van Steenwyck, nella sua Natura morta con pesce, lo colloca vicino a un orologio,aunaconchigliaea unasciaboladasamurai. I suicidi continuano nel regno di Luigi XIV. San Simone parla di una dozzina di suicidi nell’alta nobiltà. In Inghilterra, un volantino anonimo del 1647 dichiara che gli annegamenti e le impiccagioni sono divenuti talmentefrequentichenonvi si fa neanche più caso2. Qualche anno più tardi William Denny scriverà che gli risuonano nelle orecchie tutti i racconti di morte volontaria di cui si sente parlare a Londra3. In questa stessacittà,dal1629al1660, JohnGrauntcontada15a36 suicidi all’anno secondo gli annunci funerari pubblicati dallastampa,cifrecheritiene essere ampiamente inferiori alla realtà4. Il tribunale del King’s Bench giudica 780 casidisuicidiofrail1620eil 1629, e 720 fra il 1650 e il 1659. Alcuni casi di particolare richiamo alimentano la cronaca: il pittore italiano Domenico Zampieri, detto il Domenichino,nel1641,poiil suo compatriota Francesco Borromininel1667.Treanni prima, Nicolas Pierrot d’Ablancourt, scrittore dall’animo tormentato, disgustatodallavita,silascia morire di fame. Nel 1671 Lord North, personalità malinconica, si uccide in seguito alla morte di sua moglie. Medici e filosofi cercano una spiegazione. I teologi continuano a incriminare il diavolo, ma i pensatori laici invocano sempre di più la follia.IlmedicoWillis,lecui opere complete saranno pubblicate a Lione nel 1681, definisce la malinconia «una follia senza febbre né furore, accompagnata da paura e tristezza»5.Glispiritianimali, travolti da una debole agitazione, divengono oscuri etenebrosi,spiegaWillis,ele immagini nel loro cervello si velano «d’ombra e di tenebre».L’individuodiventa triste e può avere reazioni morboseesuicide. Per evitare tali reazioni, Cartesio raccomanda un accorgimento dettato dal semplice buon senso: poiché non sappiamo cosa ci aspetta dopo la morte, restiamo in vita, anche se quaggiù il male ha la meglio sul bene. Egli stesso non sembra particolarmente interessato ai sentimenti di inquietudine e di malinconia che colpiscono così tanti uomini e donne. Questo intellettuale puro guarda con commiserazione i malinconicichelocircondano e che, ai suoi occhi, soffrono di una malattia di origine puramente fisiologica. Nel suo trattato L'uomo, egli si limita a spiegare l’inquietudine come mancanza di uguaglianza nell’agitazione degli spiriti animali. Ne Le Passioni dell’anima, Cartesio descrive più nel dettaglio gli effetti fisici della tristezza: «Nella tristezza [...] le aperture del cuoresonomoltoristrettedal nervolinochelecirconda,eil sangue delle vene, non essendo affatto agitato, va verso il cuore in misura scarsissima; tuttavia i passaggi per cui il succo dei cibi scorre dallo stomaco e dagli intestini verso il fegatorestanoaperti,equindi l’appetito non diminuisce, a meno che l’odio, spesso accompagnato dalla tristezza, non chiuda quelle vie»6. Le persone tristi sono pallide, poiché il viso non è ben irrorato dal sangue, a meno che non vi siano in gioco sentimenti d’amore, odio o desiderio, nel cui caso il visodiventarosso. Tristezza e inquietudine sono quindi guasti che si producono nella macchina umana,essinonpotrebberoin alcun modo provenire dalla mente, che è guidata dallasolaragione.Maidifetti del corpo ricadono sul buon funzionamento della mente, generando «umori confusi e inquietanti».NelDiscorsosul metodo,Cartesioselaprende con le «vane inquietudini e dissapori» che perturbano il comportamento razionale. Scartando ogni spiegazione psicologica del mal di vivere, egli afferma che l’uomo debba seguire la ragione, che ci permette di arrivare alla verità. A suo parere, quindi, il mal di vivere proviene dai difetti nella macchina corporea di alcuni uomini; è compito della medicina ripararli. Malebranche riprende i punti salienti di questa spiegazione, ma la ricolloca in un contesto religioso, unendo il fisico e il metafisico. Lungi dall’avere la serenità del suo maestro, egli è un animo tormentato cheapplicaall’animalalegge diinerziadeicorpievedenel disagio dell’essere la presenza di un movimento noneffettuato:Dio,infatti,ci infonde una certa quantità di movimento verso il bene, quindi verso di Lui; se l’anima si ferma durante questa tensione, essa conserva «il movimento per spingersi oltre», generando l’inquietudine. Ma Malebranche non si fermaaquestaosservazionee ne fa un elemento centrale dell’apologetica: egli si spinge fino ad arrivare al cuore religioso di questo XVIIsecolopessimista.Tutte le forme di inquietudine, del mal di vivere e della malinconia sono, da un lato, la conseguenza del peccato originale, che ha distrutto lo stato di integrità inizialedellanaturaumana,e dall’altro la prova che siamo chiamati a un bene superiore. Non proveremmo questa inquietudine se non fossimo ossessionati dall’insoddisfazione della nostracondizionepresente.È questo sentimento di mancanza fonda-mentale che il malabranchiano Bernard Lamy esprime chiaramente: «Tutte le nostre inquietudini provengono dalla sensazione di essere stati creati per qualcosadigrande,senzaben capire cosa sia questa grandezza [...]. Allo stesso tempo, poiché sentiamo chetuttociòcheincontriamo èpiccolo,nonsiamocontenti, siamo disgustati da ciò che abbiamo [...]. È la causa di tuttelegrandirivoluzioniche leggiamo nelle storie»7. Malebranche stesso scrive: «Finché gli uomini avranno un’inclinazione per unbenecheoltrepassailloro, forse, e che essi non posseggono, avranno sempre un’inclinazione segreta per tutto ciò che presenta i caratteri del nuovo e dell’eccezionale»8; «la nostra volontà, sempre riarsa da un’ardente sete, sempre agitata da desideri, sollecitudini e ansie per il bene che non possiede, non può tollerare se non molto a fatica che lo spirito si soffermi per qualche tempo su verità astratte che non lo toccano e che essa giudica incapacidirenderlafelice»9. L’inquietudine è quindi indissolubilmente legata alla decadenza dell’umanità ed è al contempo una punizione e unospronoversoilbene.Con il suo abituale ottimismo, Leibniz ne contempla anzitutto l’aspetto positivo: l’inquietudine tesse la trama deinostrisentimenti,sianella tristezza che nel piacere. Si tratta dunque della tensione permanente verso «un bene più grande»: «Trovo ch’essa è indispensabile alla felicità dellecreature,laqualefelicità non consiste mai in un possesso congiunto, che le renderebbeinsensibiliecome stupide, sebbene in un continuo e non interrotto progresso verso beni sempre piùgrandi;progressochenon può mancare d’essere accompagnato da un desiderio o almeno da una irrequietezzacontinua»10. Ilpessimismo giansenista Tuttavia, l’ottimismo del filosofo tedesco è decisamente minoritario nel XVII secolo, che versa in un’atmosfera di profondo pessimismo religioso. Questo è anzitutto il secolo del giansenismo -persino i suoi detrattorinesonopermeati-e del peccato originale, un secolo in cui i teologi proclamano che, sin dal peccatodiAdamo,siamotutti criminali sul punto di essere giudicati e condannati11. Certo,igesuitiaffermanoche ci resta il libero arbitrio, ma per farne buon uso bisogna condurre una vita talmente asceticadascoraggiareanche le persone animate dalle migliori intenzioni. Peraltro i gesuiti e i giansenisti sono decisamente d’accordo su un punto: la maggior parte dell’umanità finirà all’inferno. «Gli eletti, rispetto al resto del mondo, non formano che un piccolo gruppo che passa quasi del tutto inosservato», afferma Massillon; «È certo che il numero degli eletti sarà il più esiguo e che cisarannoincomparabilmente più dannati», conferma Bourdaloue; «Su mille persone,neancheunaventina verrà effettivamente salvata» osserva Malebranche; «Non c’è verità più sorprendente nella dottrina cristiana di quella che ci dimostra l’esiguo numero di eletti»12 rincaraladoseNicole. Per quest’ultimo, come per tutti i giansenisti, abbiamo perso la capacità di faredelbene,amenochenon siamounodeirariprivilegiati predestinaticuiDioaccorderà la grazia. Tutti gli altri si ritroveranno all’inferno: i noncristiani,chiaramente,ma anche l’immensa maggioranzadeibattezzatiei bambini morti senza essere stati battezzati. Una simile certezza non può che causare disperazione; ma la disperazioneèunpeccatoche porta dritti all’inferno! I giansenisti che diffondono questa dottrina sono combattuti fra due estremi inconciliabilipoiché,secondo la formula pascaliana, bisogna «vivere nel mondo senza prendervi né parte né gusto». Questa esigenza radicale di assoluto non può accontentarsi dei valori umani,sempreimperfetti,che implicano sempre una scelta. Rifiutando di impegnarsi nelle imprese umane, il giansenista si ritira dal mondopurrestandoinquesta vita. Condannando senza appello questo mondo come brutto e non avendo alcuna speranza di poterlo cambiare prima della fine dei tempi, egli porta con sé una tentazione fondamentale di morte: «Vivere nel mondo significa vivere ignorando la natura dell’uomo, conoscerla significa comprendere che egli non può salvare i valori autentici se non rifiutando il mondo e la vitaintramondana,scegliendo la solitudine e - al limite - la morte»13, scrive Lucien Goldmann, che sottolinea anche la similitudine fra l’atteggiamento pascaliano e quello di Faust: la passione del sapere universale e la consapevolezza della sua totale vanità. Tale discordia porta il primo a sprofondare in una frustrante accettazione del mistero di questo Dio inafferrabile, e il secondoavolersisuicidare. Il giansenismo autentico si spinge fino al limite della riflessione logica sulla condizione umana ma, così facendo, conduce ad una situazionedistallo:daunlato il mondo, radicalmente brutto, che nessuna azione potrà mai migliorare; dall’altrounDioinafferrabile cheinvialasuagraziasoloa un esiguo numero di eletti; in mezzo l’uomo, assetato di assolutoeconsapevoledinon poterlo avere. L’unica via d’uscitasarebbeilnulla,mail giansenismo lo rifiuta nel nome di Dio, padrone assoluto della vita. L’uomo è rinchiuso nella trappola terrestre, il solo ostacolo al suicidio è la fede, una fede che il giansenismo rende fragile facendo di Dio un essere la cui caratteristica principaleèl’assenza. È pur vero che agli occhi dei giansenisti la paura è salutare. Questa «santa inquietudine», come la definiscel’abateDuguet,èun segnodipredestinazione,edè in ogni caso una condizione necessaria alla salvezza. «Tutti gli uomini del mondo sono obbligati a credere, ma di una credenza mista a paura e non accompagnata dalla certezza di far parte di quel piccolo numero di eletti che Dio vuole salvare», spiega Pascal negli Scritti sulla grazia. Noto giansenista, l’oratore Gilles Vauge osserva: «Questa paura che alberga anche nei giusti e nei santi è uno dei mezzi attraverso cui Dio suole eseguire il decreto della sua predestinazione. Lungi dall’affievolire la fiducia che ognuno di noi è obbligatoadaverealpensiero di far parte del numero di eletti, essa deve al contrario rafforzarla, in quanto strumento della nostra salvezza.Questoèlostatoin cui Dio vuole che restiamo per giungervi»14. Abbiate paura, quindi, per evitare l’angoscia,inqualchemodo. Unaspiritualità morbosa Nonèaffattofacileessere cristiani nel XVII secolo: le correnti non gianseniste, infatti, non sono certo più rassicuranti. La spiritualità berulliana,adesempio,èuna delle più sconfortanti che esistano. Il cardinale de Bérulle (1575-1629) vede nella terra «una cloaca di sconcezzeediabomini,euna valledilacrime,dimorteedi miseria». L’uomo è schiavo delpeccato,proclama:«Ecco la base da cui partiamo ed ecco la nostra eredità, la nostrapotenza:nemicidiDio, prigionieri del diavolo, schiavi del peccato, eredi dell’inferno, ostaggi sacrificati alla morte, e alla morteeterna»15. Il cattolicesimo, quindi, è cultura di morte o cultura di vita?LaletturadiBérullenon lasciaalcundubbio: L’essere, la vita e l’eredità che riceviamo da Adamo non è che morteeperlamorte.[...] Il mondo è la ghigliottina del nostro supplizio, non solo siamo obbligati a morire, ma siamo anche condannati a morire. Viviamo sulla terracomesefossimoin attesa della sentenza e dell’esecuzione: i nostri pensieri, i consigli, le parole sono impotenti, inutili, nella deformità della morte. Non basta, in tutto questo, riconoscere il nostro stato di morte; poiché il diavolo riconosce bene che si tratta di morte, egli non è migliore, né più virtuoso. Ma occorrecheciabituiamo all’idea che Dio tratta tuttoquestocomemorte, edobbiamointuttoeper tuttotrattarcicomemorti [...).L’ultimogiornoDio farà morire nel fuoco Adamo e tutte le sue opere [...]. Ciò di cui abbiamo appena parlato èla morte che la natura reca con sé a causa del peccato:maesisteanche la morte che riceviamo attraverso la grazia, che sopravviene nel momento in cui ci avviciniamo alle cose divine, volendo far morire la natura: ed esiste la morte persino nella luce e nei sentimenti di grazia, in onore della morte di Gesù e della sua vita, cheeracosìdivinamente umana. La verità e la giustiziadiDiovogliono [...]checicomportiamo, nel mondo, come dei morti; e infine ci ridurranno come dei morti con la loro potenza, senza curarsi della nostra volontà. La grazia che il Figlio di Dio è venuto a portarenelmondoèuna grazia di morte, non di vita [...], ed egli stesso havolutomorire,luiche èvitastessa,persalvarci enonfarciconsumareda questamorte.InGesùci sono sia lamorte che la vita, ma la morte è manifesta,mentrelavita ènascosta16. Simili passaggi si ritrovano in Charles de Condren, Jean-Jacques Olier, il fondatore del seminario, o ancora in padre Surin. Nel 1686,tuttavia,l’abateClaude Fleurycontinuaastupirsidel fatto che la devozione abbia fama di rendere malinconici: «La devozione viene ancora accusata di rendere tristi e, addirittura, infelici, perché in effetti è possibile vedere che molte fra le persone che si dicono devote sono tristi, criticheelamentose;manulla di tutto ciò è più distante dallo spirito del cristianesimo, che è uno spirito di dolcezza, tranquillità e gioia; elamalinconiaèannoverata, daipiùantichipadrispirituali, fralesettooottofontiditutti i peccati, come la gola e l’impudicizia»17. Il fatto è che Fleury è rimasto fermo alla concezione medievale dell’accidia, rigorosamente condannata dai teologi. AncheilrecollettoSporeroil francescano Lucien Ferraris assimilano la tristezza malinconica alla pigriziaspirituale. In quest’epoca in cui i cristiani si trovano ad affrontare molteplici contraddizioni teologiche, anche i più dotti corrono il grossorischiodicaderenella disperazione. Così parla il dottore di cui Vincenzo de’ Paoliraccontalastoriaalfine di trarre una lezione morale control’ozio: Ho conosciuto un dottore famoso che per molto tempo aveva difeso la fede cattolica contro gli eretici, in qualità di teologo [...]. Poiché la defunta regina Margherita lo aveva fatto chiamare presso di sé per via della sua scienza e della sua pietà,eglifuobbligatoa lasciare i suoi impieghi; e poiché non predicava né catechizzava più, si trovòassalito,nelriposo in cui versava, da una rudetentazionecontrola fede. Ciò ci insegna, tra l’altro, quanto sia pericoloso restare nell’ozio, sia del corpo che dello spirito [...]. Questo dottore dunque, vedendosi in uno stato vergognoso, si rivolse a me per rivelarmi di essere agitato da tentazioni assai violente contro la fede [...] e persino da disperazione, fino al punto di volersi gettare da una finestra. Si era ridottoaestremitaliche fu necessario esentarlo dal recitare il suo breviario e dal celebrare lasantamessa,epersino dallapreghiera;tantopiù che non appena iniziava a recitare il Pater, gli sembravadivederemille spettri che lo turbavano profondamente; e la sua immaginazione era talmente inaridita, e il suo spirito talmente sfinito a forza di rinnegare le tentazioni, che non riuscì più a produrnealcuna18. Noiaespiritoclassico L’altra faccia del mal di vivere è la noia, insidiosa minaccia di disgregazione della personalità. Gli uomini non hanno certo atteso il Grand Siècle per cominciare ad annoiarsi: la noia è una dellecomponentideltaedium vitaecomeanchedell’accidia e della malinconia. Essa ora diventaunmalepsicologicoa pieno titolo, avvertito in quanto tale sia dagli autori laicichedagliautorireligiosi. Uno scrittore del Grand Siècle, La Motte-Houdar (1672-1731),dichiarache«la noia nacque un giorno dall’uniformità». Ora, cosac’èdipiùuniformedella culturaclassica,cheapplicaa tutti i campi il principio di unità: fede, letteratura, governo,arte,economia,tutto è regolato in maniera autoritaria e gerarchica in funzione di questo ideale unitario. La sua forma più evoluta è la monarchia assoluta, la quale prevede un sovrano e regi intendenti che devono fare applicare in modo uniforme le leggi in tutto il regno; una religione, ufficialeeobbligatoria;codici che regolano le attività economiche; un’etichetta puntigliosacherendelacorte un balletto meccanico di precisione; una lingua depurata, strutturata, grammaticalmente statica, rigido strumento di un pensiero rigorosamente razionale; una letteratura basata su regole severe, dall’alessandrino alle tre unità del teatro; un’arte codificata dalle Accademie che impone convenzioni uniformi e la cui realizzazione più compiuta è forse un’architettura geometrica. In questa arte classica c’è una volontà di immobilità e di eternità, una negazione dell’evoluzione e del tempo:ilpalazzoclassicoeil suo giardino sono concepiti per essere visti in un solo colpo d’occhio, insieme compiuto la cui bellezza e armonia possono essere scoperte solo se guardate da una terrazza. Linea dritta, simmetria, semplicità delle forme: non c’è posto per la scoperta progressiva e per la sorpresacomenelbarocco. Questo ideale deve molto al pessimismo dell’epoca. Poiché il mondo è corrotto dalleconseguenzedelpeccato originale, poiché l’uomo lasciatoalleproprieforzenon può che fare del male, la libertà di creazione può sfociare solo nel caos, nell’anarchia delle concupiscenze sfrenate. Perché la vita sociale sia possibile occorre un potere assoluto, capace di imporre regole severe in tutti i campi e di soffocare tutti i dubbi,tuttelequestioni,tutte le contestazioni. Nell’ambito della morale, è il grande secolo della casistica, codificazione raffinata dei problemidicoscienza;tuttoè previsto e calcolato, non ci sono più incertezze, generatrici di disagio. Lasciare affiorare i dubbi cartesiani è solo falsa apparenza, un metodo per affermare con maggiore certezzaleevidenzediquesto mondo. Neanche l’aldilà presenta più misteri, poiché i teologi ne rivelano tutti i segreti.Dopolamortetuttoè regolato come in un cerimoniale reale o in un processo criminale; ognuno puògiàconsultareilcatalogo delle pene che lo attendono all’inferno o al purgatorio. Quanto all’etichetta del Giudizio finale, essa viene ripetutamente descritta nei sermoni. Ognicosaeogniuomoal proprio posto, in un’armonia statica: la perfezione risiede nell’immobilità. Inquadrato, guidatoesorvegliato,l’uomo non deve più porsi alcuna domanda. L’ordine classico dovrebbe rassicurarlo, ma la ripresa delle redini culturali e politiche si traduce in un’esigenzadirigiditàmorale einunformalismofreddoche generanolanoia,formatipica del mal di vivere nel XVII secolo in Francia e nei paesi che la ergono a modello. Il secolo di Luigi XIV non ha fiducia nell’uomo e ripone le sue speranze nell’aldilà. Per molti versi si tratta quindi di un secolo di divieti e frustrazioni. Da parte sua, sin dalla Controriforma il barocco privilegia il movimento, la messa in discussione, il tempo, la sorpresa, la spontaneità: può per questo essere ritenuto più ottimista? Gli oggetti inanimati, tema barocco per eccellenza, mostrano che qualsiasi forma di agitazione è vana. Il barocco è parente stretto del grottesco, e il mondo grottesco è inquietante: tutto èincerto,instabileelamorte è la vincitrice ultima. Nel Grand Siècle l’inquietudine barocca e la noia classica rappresentano i due versanti del mal di vivere, di cui Saint-Simon fornisce l’illustrazione mondana e Pascal l’interpretazione religiosa. Le Memorie del duca di Saint-Simon rappresentano la commedia umana. Il microcosmo della corte oscilla costantemente fra l’inquietudine e la noia. I cortigiani,sempreall’ertaper evitareilminimopassofalso, vivonoinunostatodiestrema tensionenervosa.Nonappena si sottraggono a questa tensione, cadono in un «vuotoinsopportabile»,come Gaspard de Fieubet (16271694), consigliere di Stato in pensione: «Pontchartrain mandò suo figlio a trovarlo. Egli,conpocadiscrezione,si azzardò a chiedergli cosa facesse. “Cosa faccio?” gli risposeFieubet,“miannoio;è la mia penitenza, mi sono divertito troppo”. Egli non si lasciavaandaresuniente,esi annoiava talmente che l’itterizia lo colse e morì di noianelgirodipochianni»19. Il maresciallo de Noailles, dimessosi dalla sua carica di capitano della guardia, cade in depressione: «Quel vuoto gli fu insopportabile», e Saint-Simon stesso, ritiratosi temporaneamente a La Ferté nel 1714, scrive al duca di Orléans: «Il limbo è insopportabile, non resisto più [...]. Le mie tenebre mi fanno infuriare [...]. Non soquantodureràl’esiliodalla corteeildistaccodalmondo, che mi tiene distante da tutto». In un Préambule alle Notes sur les duchés-pairies, Saint-Simon descrive la noia che assilla il cortigiano ritiratosi dalla corte: «Il tempo libero che improvvisamente si sostituisce alle occupazioni continue di tutti i diversi momenti della vita forma un grandevuotochenonèfacile né da sopportare né da riempire. In questa condizione, la noia irrita e l’impegnoinqualsiasiattività provoca disgusto. Anche i divertimenti vengono disdegnati. Questo stato non può essere duraturo: alla fine si cerca, seppur controvoglia, diuscirne»20. I moralisti e i predicatori classici hanno ampiamente sfruttato il tema della noia. «Lanoiaèentratanelmondo attraverso l’ozio», scrive La Bruyère. Massillon adatta Pascalneisuoisermoni: Niente è più triste per la maggior parte degliuominideltrovarsi soli con se stessi e di essere costretti a guardare nel proprio cuore. Come ci travolgono le passioni vane; quali attaccamenti criminali ci insudiciano; quali mille desideri illegittimioccupanotutti i movimenti del nostro cuore; ritornando in noi, troviamo solo un vuoto spaventoso, rimorsi crudeli, pensieri cupi e riflessioni tristi. Cerchiamo quindi nella varietà delle occupazioni e nelle distrazioni eterne l’oblio dinoistessi.Temiamoil tempo libero come segnale di noia e crediamoditrovarenello scompiglio e nella molteplicità delle incombenze esterne l’ebbrezzagioiosacheci fa camminare senza che ce ne accorgiamo, e che ci permette di non sentire più il peso di noistessi21. PerMassillonlanoianon èinagguatosoloinseguitoal ritiro dalla vita di corte: «Tuttalavitadeigrandinonè che una bieca precauzione contro la noia; la loro stessa vita non è che una triste noia. Ciò nonostante la portanoavanti,affrettandosia moltiplicare i piaceri: tutto è già logoro, per loro, nel momento stesso in cui varcano le soglie della vita, nei loro primi anni provano già i fastidi e l’insipidezza chelastanchezzaeillogorio del tutto sembrano attribuireallavecchiaia»22. Pascalhaesploratoquesto aspetto particolare del mal di vivere con la sua abituale profondità per farne un’argomentazione apologetica. Questo «passionale tormentato», secondo la Caratterologia di Le Senne, che lo considera come «il corrispondente simmetrico del sentimentale Kierkegaard»23, vede nella noia il segno per eccellenza della miseria umana. In un libro sulla malinconia di Kierkegaard, Harvie Ferguson ha recentemente sviluppato quest’idea: «Pascal è davvero il primo a definire la noia come l’esperienza centrale della modernità.Lanoiaèinerente all’individualismo secolare, che è il solo fondamento morale della società moderna [...]. Lasciato a se stesso, l’uomo produce, nel più profondo della sua anima, un’immagine di perfezione chenonpuòraggiungere.Èla persistenza di questo desideriodifelicitàcherende insulso e senza vita tutto ciò che non gli è legato; è il sentimento di perdita e di desiderio di una perfezione scomparsa che ci spinge costantemente a impegnarci inattivitàfutili»24. Sappiamo che Pascal distingue due generi di noia, unodeiqualièlanoiabanale, generata dall’inoperosità, quella del personaggio di Saint-Simon:«Cosìscorrevia tutta la vita. Si cerca riposo combattendo certe difficoltà; e,superatechesiano,ilriposo diventainsopportabile,perché si pensa alle miserie presenti oppure a quelle che ci minacciano»25. Noi cerchiamo di tenere la mente occupata proprio contro questo tipo di noia, attività che comincia molto presto, poiché gli educatori sanno bene che per rendere felici i bambini occorre tenerli occupati, fissar loro degli obiettivi da raggiungere. Per renderli infelici, «basterebbe liberarli da tutte quelle cure: allora vedrebbero se stessi, penserebbero a quel che sono, dove vanno. [...] Appena hanno un momento direspiro,siconsiglialorodi impiegarlo a divertirsi, a giocare e ad assorbirsi sempre per intero in qualche occupazione»26. Persino «un re privo di distrazioni è un uomopienodimiserie». L’esperienza della noia banaleèinsépositiva,poiché ci permette di prendere coscienza della vanità della nostra condizione: «Chi nonlavede,aparteigiovani che sono tutti immersi nel chiasso,nelledistrazionienel pensiero dell’avvenire? Ma toglieteloroladistrazioneeli vedrete inaridirsi di noia. Avvertono allora il loro nulla senza conoscerlo, poiché è proprio infelice condizionequelladiritrovarsi inunatristezzainsopportabile non appena si è ridotti alla considerazione di sé senza essere distratti da nulla»27. Pertanto tutti i mezzi sono buoni per uscire daquestanoia,compresiipiù futili, «come un biliardo e unapalladacolpire».Tuttele occupazioni umane si riducono a passare il tempo cercando di dimenticare il nulla, si tratta semplicemente di distogliere il pensiero: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza,hannorisolto,per viver felici, di non pensarci»28. «Il piacere della solitudine riesce incomprensibile»29. Ma correre da un piacere all’altrononbastaascacciare la vera noia, quella nel senso pascaliano del termine. Questa noia, infatti, è il tessutostessodellacoscienza, una forma di angoscia religiosa fondamentale, l’esatto equivalente dell’inquietudine malabranchiana: «L’uomo dunqueècosìsventurato,che si annoierebbe anche senza alcun motivo di noia, semplicemente per la sua conformazione»30. La noia aumenta sensibilmente nei periodi di riposo: «Nulla è così insopportabile all’uomo come essere in pieno riposo, senza passioni, senza faccende,senzasvaghi,senza occupazione.Eglisenteallora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza,lasuaimpotenza, il suo vuoto. E subito sorgeranno, dal fondo della sua anima il tedio, l’umor nero,latristezza,ilcruccio,il dispetto, la disperazione»31. In queste condizioni è illusorio cercare la pace e la serenitàrientrandoincontatto con se stessi attraverso la meditazione: si troverà solo un precipizio senza fine, invece del Dio che ci si aspettava. In fondo alla noia l’inquietudine, poi l’ansia e infine la disperazione: «Nel vedere l’accecamento e la miseria dell’uomo, nell’osservaretuttol’universo muto e l’uomo privo di luce, abbandonato a se stesso e come smarrito in questo angolo dell’universo, ignaro di chi ve l’ha messo, di cosa vi è venuto a fare, di cosa diverrà morendo, incapace di qualsiasiconoscenza,iocado nelterrore[...].Emistupisco di come con tutto ciò non si cada nella disperazione per unostatocosìmiserabile.[...] Ugualmente incapace di intravedere il nulla donde è tratto e l’infinito dov’è inghiottito.Cosafaredunque, se non percepire qualche parvenza del mezzo nelle cose, in un’eterna disperazione di conoscere sia ilprincipiosialafine?»32. Persifradueinfiniti,inun angolo dell’universo, senza sapere perché: ecco precisamente la condizione umana. Pascal, colto da vertigini davanti a tali prospettive, o piuttosto davanti a questo vuoto, deperisce: «L’introversione pascaliana peggiora fino ad arrivare a un ritiro psicotico dal mondo»33, scrive Harvie Ferguson. Caduto in uno «stato di annientamento», Pascalmuorenel1662,all’età di trentanove anni. Non si può guardare il nulla negli occhicosìimpunemente. Nel 1690 Eustachio Manfredi fonda a Bologna l’Accademia degli Inquieti, «nome abbastanza opportuno per i filosofi moderni che, non essendo più legati ad alcuna autorità, cercano e cercheranno sempre»34, scriveFontenelle.Taleevento ha una portata simbolica e segna il passaggio dall’inquietudine religiosa all’inquietudine secolare, un nuovo passo verso lo spirito moderno. La crisi di coscienza europeadegliannitrail1680 eil1715favacillareilcredo nelcarattereirrimediabiledel peccatooriginale.Ildubbiosi insinua, dando vita a una nuova speranza. La generazione del giovane Voltaire, nato nel 1694, non crede più che la felicità sia davvero impossibile sulla terra; l’uomo può rendere vivibile il suo soggiorno terrestre. Il primo umanesimo, quello del XVI secolo, affondava le sue radici in una fede illuminata, ma i due termini si erano rivelati inconciliabili e l’umanesimo era stato stritolato dal fanatismo. Questa volta l’uomo tenterà dicavarseladasolo.Ilnuovo umanesimo sarà puramente secolare, e persino anticlericale, se non addirittura antireligioso e materialista. L’avventura, tuttavia, non è privadirischi.L’autonomiaè unascommessaaudacesuun avvenireincerto,dacuinasce questa inquietudine, nuova forma di un mal di vivere secolarizzato al fondo delqualepotrebbetrovarsila felicità, oppure un nuovo fallimento, generatore di una malinconia più profonda ancoradiquelladiBurton. 1F.SAXL,Veritas, filia temporis, in Philosophy & history: e Essays presented to E. Cassirer, Clarendon Press, Oxford 1936, pp. 197- 222. 2 A Petition unto his Excellencie, Sir Thomas Fairfax, Occasioned by the Publishing of the Late Remonstrance,Londra1647. 3 W. DENNY, Pelicanicidium,Londra1652. 4 J. GRAUNT, Natural and Political Observations Mentioned in a Following Index, and Made upon the Bills of Mortality, John Martyn and James Allestry, Oxford; trad, it., Osservazioni naturali e politichefattesuibollettinidi mortalità, a cura di Enzo Lombardo, La Nuova Italia, Firenze1987. 5 T. WlLLIS, Opera omnia, Lione 1681, t. II, p. 238. 6CARTESIO,Lepassioni dell’anima, in Opere filosofiche, vol. 4, art. 105, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 62. 7 B. LAMY (padre), Entretiens sur les sciences dans lesquels on apprend commel’onsedoitservirdes sciencespoursefairel’esprit justeetlecœurdroit[avecla méthoded'étudier], a cura di Fr. Girbal e P. Clair, PUF, Parigi 1966, p. 120 [Lione 1694]; trad. it.. Trattenimenti sopra le scienze del padre Bernardo Lami prete dell’Oratorio di Francia, nei quali s'insegna il metodo di studiare le scienze, e come valersi di queste pel buon regolamento dell'intelletto, e del cuore, in Rovereto: nella stamperia di Pierantonio Bernolibrajo,1734. 8 N. MALEBRANCHE, La ricerca della verità, IV, 3,1, Laterza,Bari1983,p.380. 9 Ivi, III, 1, IV, II, pp. 296-297. 10 G.G. LEIBNIZ, Nuovi saggi sull’intelletto umano, vol. I, II, 21, § 36, Laterza,Bari1909,p.163. 11 G. MINOIS, Les origines du mal: une histoire du péché originel, Fayard, Parigi 2002, capitolo 5: Le péché originel, fondement de lacultureclassique. 12G.MINOIS,Piccola storiadell’inferno,IlMulino, Bologna1995. 13L.GOLDMANN,Le Dieu caché: étude sur la vision tragique dans les «Pensées» de Pascal et dans le théâtre de Racine, Gallimard, Parigi 1959, p. 241;trad.it.,IlDionascosto: studio sulla visione tragica nei Pensieri di Pascal e nel teatro di Racine, Laterza, Bari1971,pp.325-326. 14 G.VAUGE,Traité de l'espérancechrétienne,contre l’esprit de pusillanimité de défiance, et contre la crainte excessive, Butard, Parigi 1765,p.218. 15 P. DE BÉRULLE (cardinale), Œuvres, Parigi 1665,p.523. 16 P. DE BÈRULLE (cardinale), Œuvres, cit., pp. 662-663. 17C.FLEURY,Traitédu choix et de la méthode des études, Parigi 1686, p. 126; trad. it., Trattato della scelta e del metodo degli studi del signor Claudio Fleury, in Padova: nella stamperia del Seminario appresso Giovanni Manfre, 1729. 18 L. ABELLY, La vie du vénérable Vincent de Paul, Parigi 1664, p. 116; trad. it., Della vita di S. Vincenzo de’ Paoli fondatore e primo superiore generale della Congregazione della missione e delle Figlie della carità, Stamperia di Francesco Tizzoni, Roma 1677. 19 L. DE ROUVROY (duca di Saint-Simon), Mémoires, Gallimard, Parigi 1983, t. II, p. 409; trad. it., Memorie, Einaudi,Torino1973. 20 Citato da D. VAN DER CRUYSSE, La mort dans les mémoires de SaintSimon: Clio au jardin de Thanatos,Nizet,Parigi1981, p.96. 21 J.-B. MASSILLON, Sermon du lundi de la Passion,Parigi1745. 22 ID., Petit Carême, sermon du 3eme dimanche, Renouard,Parigi1810. 23 R. LE SENNE, Trattato di caratterologia, SEI,Torino1960,p.334. 24 H. FERGUSON, Melancholy and the Critique of Modernity: Soren Kierkegaard's Religious Psychology, Routledge, Londra1995,pp.25-26. 25 B. PASCAL, Pensieri, Einaudi, Torino 1962,p.154. 26Ivi,pp.156-157. 27Ivi,p.35. 28 B. PASCAL, Pensieri,cit.,p.150, 29Ivi,p.152. 30Ivi,p.111. 31Ivi,pp.150-151. 32 B. PASCAL, Pensieri,cit.,pp.157,163. 33 H. FERGUSON, Melancholy...,cit.,p.30. 34 B. LE BOVIER DE FONTENELLE, Œuvres complètes,Parigi 1818,t.1, p. 446. Capitolosesto L'inquietudinedegli Illuministi Il XVIII secolo ha una reputazione ingannevole. Lo spirito,l’ironia,laleggerezza, l’eleganza, la ragione, le scienze, il deismo accattivante, l’ottimismo, il progresso, la critica sociale e politica: tutto questo non è falso, ma nasconde il fondo malinconico di un’epoca segnata dall’inquietudine, come ha mostrato l’opera classica di Jean Deprun1. Un’inquietudine inizialmente avvertita come positiva, poiché indice di uno stato di insoddisfazione che spinge all’azione per colmare tale mancanza e che può quindi costituire il motore del progresso. L'inquietudinecome spintaadagire Nel 1690, anno in cui in Italia viene fondata l’Accademia degli Inquieti, John Locke scrive che l’inquietudine è lo sprone principale,senonl’unico,che spinga l’industria e l’attività degli uomini2: «L’inquietudine che l’uomo prova a causa dell’assenza di qualcosa che potrebbe dargli piaceresefossepresenteèciò chevienechiamatodesiderio, che può essere più o meno grande, a seconda che tale inquietudine sia più o meno ardente». Soffermiamoci sul termine «inquietudine». Pierre Coste, il primo traduttore francese del libro di Locke, ha spiegato nel 1700 il motivo per cui lo avevascelto:«Uneasinessèil termineinglesedicuisiserve l’autore in questo contesto e che ho deciso di rendere con inquiétude [inquietudine, N.d.T.], che non esprime esattamente la stessa idea. Ma, che io sappia, non abbiamo altri termini in francese che si avvicinino a questo. Per uneasiness, l’autore intende lo stato d’animo di un uomo che non si sente a suo agio, la mancanza di agio e di tranquillitàdell’anima,chein questo caso è puramente passiva»3. L’inquietudine è quindi uno stato psicologico, una sofferenza morale che provoca un desiderio. Questa sensazione di mancanza ha perso la sua dimensione religiosa per divenire una spinta ad agire, mentre il possesso del bene ambito, la soddisfazione, generano apatia e noia. Nel XVIII secolo l’Occidentale diviene un uomo inquieto, i cui bisogni non sono mai soddisfatti. La ricerca dolorosa, l’inquietudine, oppurelanoia:Schopenhauer vedrà in questi elementi i pilastridellanostrainfelicità. IfilosofidelXVIIIsecolo si riversano in massa nella breccia aperta da Locke, che contrappone due forme del mal di vivere: la forma dinamica e la forma apatica. In un’opera di Spinoza, Boulainvilliers definiscel’inquietudinecome una «sensazione di disagio» legata al «desiderio intimo attraverso cui ogni essere sensibile è portato a perseverare nel suo essere e nella sua modalità particolare»4. L’apologetica cristiana, spiega, definiva l’inquietudine come esperienza di una mancanza, l’espressione di un desiderioassoluto,ilsegnodi una ricerca del divino. Dal canto suo, egli considera questodesideriounfenomeno naturale: «Siamo esseri sensibili, impegnati a creare continuamente nuove idee e nuovi desideri all’affacciarsi diogninuovapercezione»5. Qualche anno più tardi Vauvenargues scriverà a Mirabeau che «prova, spesso e nitidamente, questa inquietudine che è la fonte delle passioni», e gli descriverà l’«umore cupo» che spinge gli animi forti all’azione, mentre quelli deboli si accontentano di rimuginare sulla loro malinconia. Nella sua Introduction à la connaissance de l’esprit humain(1746),eglivaancora più in profondità, spiegando che l’inquietudine proviene dal «sentimento di imperfezione», esperienza intima di una sconfitta del nostro essere, che confessa di provare frequentemente. Condillac analizza le diverse sfaccettature dell’inquietudine nel suo Traité des sensations (1754), dal «malessere o lieve insoddisfazione», fino al tormento vero e proprio. Helvétius, in Dello spirito (1758), mostra che la paura della noia è la fonte di tutte le grandi azioni umane: «La noia gioca il ruolo più importante soprattutto nelle società, in cui le grandi passioni vengono frenate sia dai costumi che dalla forma di governo; per me diventa quindi il movente universale». L’oratore Bernard Lamy, discepolo di Malebranche, aveva già riflettuto su questa idea nei suoi Trattenimenti sopralescienze,tuttavia egli pensava piuttosto all’inquietudine di origine religiosa, in cui vedeva una fontediturbamento:«Tuttele nostre inquietudiniprovengonodalla sensazione di essere stati creatiperqualcosadigrande, senza ben comprendere cosa sia questa grandezza. [...]Allostessotempo,poiché sentiamo che tutto ciò che incontriamoèpiccolo,nonne siamo affatto contenti, siamo disgustati da quello che abbiamo, vogliamo qualcos’altro.Èquestocheci faamareilcambiamento,edè la causa di tutte le grandi rivoluzioni di cui leggiamo nelle storie, in cui vediamo i tratti dell’ambizione e dell’inquietudine degli uomini»6. Un secolo e mezzo dopo il grande conservatore Chateaubriand considererà questa inquietudine collettiva come un pericoloso fattore rivoluzionario; egli infatti afferma che si tratti di «un non so cosa, nascosto non so dove, e questo non so cosa sembra essere la ragione effettiva di tutte le rivoluzioni. Tale ragione segretaètantopiùinquietante poiché non si riesce a scorgere nell’uomo della società. Ma l’uomo della società non ha forse iniziato a essere l'uomodella natura? È quindi costui che bisogna interrogare. Questo principio sconosciuto non nasce forse dalla vaga inquietudine,tipicadelnostro cuore, che crea in noi il disgusto sia per la felicità cheperl’infelicitàecispinge di rivoluzione in rivoluzione finoallafinedeisecoli?»7. Per la stragrande maggioranza dei filosofi, tuttavia,siimponeunascelta. «O sbadigliare, o essere euforici», dice Diderot. «La vitaèsolonoia,oppurepanna montata»,affermaVoltaire.Il filosofo di Fernay è egli stesso un inquieto che «va in bestia», come scrive alla sua amica Madame du Deffand, la quale, dal canto suo, si consuma nella noia: «Mi scrivete che vi annoiate, e io vi rispondo che vado su tutte lefurie.Eccoiduepernidella vita,l’insipidezzaoilvuoto». Il fatto che l’uomo sia «nato per vivere nelle convulsionidell’inquietudine, o nel letargo della noia», è l’idea espressa in modo pittoresco nella fine di Candido ovvero dell’ottimismo: «E quando non si disputava, era così eccessiva la noia che la vecchia osò un giorno dir loro:-Iovorreisaperequalè la peggiore cosa, o l’essere offesa cento volte dai pirati negri, il passare per le bacchette fra’ Bulgari, l'esser frustato e impiccato in un auto-da-fè, l'essere notomizzato, remare in galera, provare infine tutte le miserie che noi abbiamo passato,oppureilrestarquia nonfarniente.-Questaèuna gran questione, disse Candido». Alla vigilia della Rivoluzione, Sénac de Meilhan formula quest’idea in modo più diretto ne L'émigré. «L’uomo viene attirato in senso contrario da due propensioni opposte: l’orrore della noia e l’amore del riposo; la grande arte è riuscire a sfuggire all’uno senza offuscare troppo violentemente l’altro, trovare unaviadimezzofrailletargo elaconvulsione». Dell’inquietudine viscerale La domanda ora è se questainquietudinecollettiva, chesecondoalcuninonhapiù molto a che vedere con ciò cheLockechiamava«lostato diunuomochenonsisentea proprio agio», permetta di trasformare il mondo. Rifiutando l’interpretazione religiosa, i filosofi tentano di comprendere questa forma del mal di vivere, non senza una certa confusione. L’Encycolopédie la descrive come«unsintomodimalattia più comunemente designato nel linguaggio ordinario dai termini ansia, angoscia, lattazione, ecc.». L’ansia rimanda invece all’inquietudine e all’angoscia,cheasuavoltaè «una sensazione di soffocamento,dipalpitazione e di tristezza». La lattazione, invece, «si ha quando i malati,essendoestremamente agitati, non riescono a mantenere lo stesso atteggiamento a lungo [...]; presentano una fisionomia triste che li porta spesso a sospirareegemere;[...essa]è pressappoco uguale all’ansia,all’inquietudine». Il dottor Louis de Lacaze cerca di chiarire le cose nel suoTempledubonheur,dove fornisce una curiosa spiegazione. Quando l’uomo provapaura,ilsuocervellosi concentra sulle precauzioni da prendere e allenta il controllo sugli organi. Il diaframma, che in condizioni normali comprime la massa intestinale, ne causa invece ladilatazione,provocandoun effettosgradevole:ècosìche «siformae[...]siaccrescela sensibilità, la delicatezza del centro diaframmatico, e di conseguenza lo stato di agitazione, di tristezza, di timoreodiffidenzachesipuò spesso osservare nelle persone dominate dalla paura»8. Questo stato genera quindi una «sensazione abituale di inquietudine». Ci troviamo in un circolo vizioso: la paura produce agitazione, che a sua volta genera nuove paure, ecc. Daquinascel’espressionedi «stampo delle paure» utilizzata da Lacaze: «Tale disposizione può essere vista come una specie di stampo delle paure che, a seconda dell’aggravamento della condizione fisica, ne produce continuamente di nuove, senza che esistano reali motivazioni»9. I rimedi che propone Lacaze riguardano l’igiene di vita e ricordano i consigli di Burton: fare esercizio fisico, evitare la meditazione eccessiva, avere ambizionilimitate. L’inquietudine, che in Pascal era un segno di vuoto spirituale e un desiderio di Dio, diventa quindi volgare paura con Lacaze. Questa perdita di dignità sarà confermata alla fine del secolo da Bichat, il quale sostiene, nelle sue Recherches physiologiques, che«tuttociòcheattienealle passioni appartiene alla vita organica», in particolare alle viscere10, e poco dopo da Pinel, il quale vede nell’inquietudine, insieme alla tristezza e al dispiacere, uno dei sintomi delle crisi maniacali11. Le persone che risultano essere maggiormente a rischio sono gli adolescenti, poichéturbatidallapubertàe dalla costante ricerca di un oggetto di cui ignorano la natura. Tale oggetto, nella fattispecie, è Dio, spiegano gli apologeti, che vedono in questaricercaunsegno,quasi una prova dell’esistenza dell’Essere assoluto. Tale oggetto è l’unione sessuale e non l’unione mistica, ribattono invece i filosofi più audaci. Scrive Diderot che arriva un momento «in cui quasi tutti i ragazzi e ragazze cadono nella malinconia; sono tormentatidaun’inquietudine sottile che coinvolge tutto e che non trova nulla che la plachi. Essi cercano la solitudine; piangono, il silenzio dei conventi li tocca; l’immagine della pace chesembraregnarenellecase religiose li seduce. Confondono i primi sintomi diuntemperamentochesista sviluppando con la voce di Dio che li chiama a sé, ed è proprio quando la natura li sollecitacheessiabbracciano un genere di vita contrario al desiderio della natura»12. Ecco che l’inquietudine scendeancoradiunlivello,ci troviamo ora all’altezza del bassoventre.PerDiderot,ma anche per Rousseau o per ilcardinaledeBernis,ilquale analizzalapropriaesperienza di vocazione religiosa, il cristianesimo ha snaturato, nel senso etimologico del termine, il subbuglio della pubertà, attribuendo a un richiamo divino ciò che è un semplicerichiamosessuale,e sfruttando questa sublimazione per reclutareilproprioclero. Le donne, a causa della loro complessione, sono ancora più soggette a questo genere di inquietudine, afferma Pierre Roussel nel suo Sistema fisico e morale della donna : «Un’altra qualità fisica concorre a rendere più mobili le parti sensibili della donna: è il loro tipico grado di flaccidità»13. Ancora più del ragazzo, la giovane donna prova, durante la pubertà, delle «dolci inquietudini»: «Questo nuovo stato causa nella giovane donna una sovrabbondanza di vita che cerca di espandersi e di comunicare. Ella avverte tale bisogno attraverso dolci inquietudinieslancichesono lavocetirannicaedolcedella voluttà»14. Le donne, scrive Diderot, «in età adulta sono ridotte al silenzio, soggette a unmalesserechelepreparaa diventare mogli e madri: tristi, inquiete, malinconiche, alfiancodigenitoriallarmati non solo per la salute della loro figlia, ma anche per il suo carattere: poiché è in questo istante critico che una giovane donna diventa ciò cheresteràpertuttalavita»15. In Rousseau, l’inquietudine femminile diventa il tema delle dispute religiose. Precedendo Marx, egli attribuisce a M. de Wolmar la formula secondo la quale la religione è «l’oppiodelledonne»16. L’inquietudine coinvolge anche le persone anziane. Passata una certa età, scrive Feucher d’Artaize, discepolo di Rousseau, «per quanto l’uomo si guardi intorno e cerchi affannosamente consolazione, nulla lo rassicura, tutto lo spaventa e lodilania»17. I sintomi di tale inquietudine assomigliano molto alla descrizione che Burton faceva della malinconia, il termine stesso viene peraltro ancora utilizzato. Coloro che ne soffrono sono «tristi, sognatori, inquieti, costanti nello studio e nella meditazione, capaci di sopportareilfreddoelafame; hanno il viso austero, il colorito scuro, bruno, il viso costipato», secondo l'Encyclopédie; sono «ingegnosi, costanti, ostinati, pensierosi, inquieti, timorosi, taciturni, tristi, lenti ad agire»18 secondo Quesnay; sono «tristi, sognatori, agitati e timorosi»19 secondo Antoine Le Camus, che è anche il primo a osservare che la malinconia non è necessariamente un handicap e che anzi favorisce persino una visione realistica delle cose: «Questa timidezza e questo dolore non sono poi quei grandi mali che ci si immagina. Perché l’anima, poco distratta dagli oggetti che la circondano, si occupa solodellefantasticherieutilie valuta tutto secondo il giusto valore»20. Nel 1770, JeanFrançois Dufour insiste sempre sulla paura e la tristezza che si impadroniscono degli animi inquieti: «Ecco perché i malinconici amano la solitudine e rifuggono la compagnia, ciò li rende più attaccati all’oggetto del loro delirio o alla loro passione dominante, qualunque essa sia, mentre appaiono indifferenti rispettoalresto»21. Causeerimedi Le descrizioni non cambiano,maincompensole spiegazioni si evolvono. In questo secolo della ragione vedono la luce teorie dotte, e il loro numero lascia pensare che il mal di vivere si celi anche nei personaggi infiocchettati e imparruccati dell’epoca. Inoltre, tutte vengono elaborate da medici,eanchequestorientra nellospiritodell’Illuminismo. Lachiavedelcomportamento umano si trova nel funzionamento della macchina fisiologica e delle relazioni sociali. Filosofi e teologi dipendono ora dalle scoperte mediche. La scienza progredisce, certo, ma attraverso una moltitudine di tentativicheaprononumerose pistefalse. AllafinedelXVIIsecolo, ilmedicoThomasWillisapre la strada alla teoria maniacodepressiva, mostrando che la malinconiapuòdegenerarein furore e provocare crisi suicide. La causa sarebbe un movimento disordinato degli spiriti animali, che va a colpire il corretto svolgimento delle funzioni del cervello facendolo fissare suunsolooggettoeportando quindilapersonaaunaforma di delirio22. All’inizio del XVIII secolo l’olandese Hermann Boerhaave riprende l’idea che la malinconia sia «un delirio lungo, persistente e senza febbre, durante il quale il malato è continuamente pervaso dal medesimo pensiero»23. Secondo la sua teoria, detta «iatromeccanica», il corpo è una macchina diretta dal cervello,cheinviaagliorgani unliquidonervosotrasportato dal sangue. Se il sangue è troppo grasso, o se il liquido nervoso non è sufficientemente abbondante, la macchina non funziona correttamente e provoca malinconia. Boerhaave stabilisce quindi un legame fra malinconia e circolazione del sangue e sostiene che gli intellettuali sianoparticolarmentesoggetti alla malinconia, poiché la riflessione intensa mobilita unagrandequantitàdiliquido nervoso e la mancanza di esercizio fisico disturba l’equilibrio dei componenti del sangue. Il Dizionario universale di medicina di James, i cui sei volumi sono stati tradotti in francese tra il 1746 e il 1748, riprende una spiegazione simile: se il sangue e gli umori circolano in maniera irregolare, il cervello, sede di tutte le funzioni immaginative e intellettuali, viene intaccato nella sua regolarità. Ritroviamo la stessa teoria nel De melancholia et morbis melancholicis di Anne-Charles Lorry, pubblicato nel 1765, secondo il quale questo stato può provocare suicidi passivi per «semplice inerzia e tetro stupore». Anche Quesnay afferma che la malinconia sia la conseguenza di una scarsa circolazione del sangue attribuibile al cattivo stato dei vasi. Antoine Le Camus sostienecheprovengasiadal sangue cattivo che dal pessimostatodeivasi:«Ivasi stretti e rigidi, il sangue spessoevischioso,dacuigli umori si separano con difficoltà»24. È per tale ragione che i malinconici sono caratterizzati da «un colorito scuro e giallo, dai capelli neri, la pelle ruvida e l’estremamagrezza». NellasuaStorianaturale, Buffon tira in ballo i «vapori». Parlando dell 'Homo duplex, egli mostra come il suo umore vengaguidatodadueprincìpi contraddittori: «Il primo è una luce pura accompagnata dacalmaeserenità,unafonte salutare da cui emanano scienza, ragione e saggezza; l’altro è un falso chiarore che brilla solo con la tempesta e nell’oscurità, un torrente impetuoso che imperversa, trascinando con sé le passioni e gli errori». Quandoèilsecondoprincipio adominare,vengonoprodotti i cosiddetti «vapori». Mentre quando i due princìpi si affrontano con uguale potenza, l’individuo è colto dalla tentazione del suicidio: «Questo è il punto della noia più profonda, del disgusto di se stessi che noncilasciaaltrodesideriose non quello di cessare di essere e che ci permette quel tanto di azione che basta per distruggerci, ritorcendo implacabilmente contro noi stessi le armi del furore». L’uomodivieneallora«ilpiù infelice di tutti gli esseri», la sua volontà viene annientata edèirresistibilmentespintoal suicidio. Ancora nel 1785 il dottor Andry, nelle sue Recherchessurlamélancolie, distingue tre tipi di stati malinconici, fra cui due conducono alla morte volontaria: il delirio maniacale e l’ipocondria acuta. L’ipocondria sarebbe responsabile delle tendenze suicide. Essa viene spesso chiamataincausadaRichard Blackmore che, nel suo Treatise of Spleen and Vapours, or Hypocondriacal and Hysterical Affections (1752) l’ha definita, al pari dell’isteria, una «costituzione morbifica degli spiriti». Nel 1755, il tedesco Alberti stabilisce il legame fra l’ipocondria e il desiderio di morte in De morbis imaginariis hypocondriacorum.Nel1767, nel suo celebre Observations on the Nature, Causes and CureofthoseDiseaseswhich have been commonly called Nervous, Hypochondriac, or Hysterical (1767), Robert Whytt propone una classificazione dei disordini comportamentali e considera «lo scoramento, l’abbattimento, la malinconia o persino la follia»25 sintomi dell’ipocondria. Per lottare contro queste malattie nervose esistono delle cure. Contro «la debolezza, lo scoramento e l’abbattimento», Whytt consiglia in particolare la china; il tartaro ha invece proprietà detergenti per sbloccare le vie circolatorie: «Per quanto ho avuto occasione di notare, il tartaro solubile è più utile nelle affezioni maniacali o malinconiche che dipendono dagli umori nocivi». Joseph Raulin, autore di un trattato sulle «affezioni vaporose», consiglia invece diversi ingredienti dai poteri, teoricamente, dissolventi, comelafuligginedeicamini, idecottidionisco,lapolvere delle zampe di gambero e il «bezoar gioviale»26. Altri medici vantano le virtù dei bagni doccia27. Per dissipare leideefissemolticonsigliano anche i soggiorni in campagna e la musica. Quanto agli spettacoli e airomanzi,laloroefficaciaè controversa, ma la maggior parte delle volte viene giudicata nefasta. Il teatro esalta l’immaginazione inmodosregolato,soprattutto nelle donne, che si infiammano facilmente per passioni immaginarie. Anche l’eccesso di lavoro intellettuale, che indurisce il cervello, può avere effetti nefasti. Nel 1778 Tissot ammonisceisuoicolleghisui pericoli che corrono nell’opera Avis aux gens de lettressurleursauté. A queste diverse cause fisiologiche occorre ricollegare la spiegazione basata sul clima. L’inglese George Cheyne mostra come il clima oceanico, fresco, umidoeinstabilecontribuisca alla pene-trazione di gocciolined’acquanellefibre delcorpoumano,causandone la perdita di stabilità e predisponendole alla follia suicida. La presupposta influenza della luna deve essere classificata tra lo stesso tipo di cause. Il tema dellunatismo,spessoevocato nei secoli XVI e XVII, più raro nel XVIII, riappare infattineglianni’80del1700 sottounaformadiversalegata allameteorologia:itrattatidi Toaldo (1784) e di Daquin (1792)28 presentano l’influenza della luna sull’atmosfera come una causa di deregolamentazione delcervelloinalcunisoggetti predisposti. Alivellogenericotuttigli eccessi,chesitrattidiattività mentali o fisiche, sono considerati fenomeni di disturbo per il cervello e in grado di generare malinconia e mania suicida. L'Encyclopédie, al lemma «Mania», fornisce numerosi esempi: «Le passioni dell’anima, la concentrazione mentale, gli studi forzati, le meditazioni profonde, la collera,latristezza,lapaura,i dolori protratti e cocenti, l’amoredisdegnato». Lamalinconia,dal disprezzoallarinascita Sempre presente come una patologia, la malinconia hapersoilprestigiodelquale aveva goduto alla fine del XVI secolo; essa è temuta persino perché considerata più o meno come una forma di follia dolce, che può condurre al suicidio. In Inghilterra gli ambienti conservatori la attribuiscono aldistaccodaivalorireligiosi, aimisfattidellavitamoderna, aldeclinodellamorale.Molti vi vedono un segno di depravazione, come il dottor Samuel Johnson, che ha conosciuto e superato in prima persona la malinconia. Sempreprontoadarelezioni, egli è convinto che l’eccesso di comodità indebolisca la resistenza. «In Scozia, narra, dovelagenteingeneralenon vive né nell’opulenza né nel lusso, so che la follia è molto rara». Il reazionario Edmund Burke è categorico: «La malinconia, la depressione,ladisperazionee spesso il suicidio sono le conseguenze dalla tetra visione delle cose prodotte dal nostro stato di rilassamento. Il rimedio migliore a tutti questi mali è l’eserciziofisicooillavoro». John Brown osserva: «La nostra vita effeminata e rilassata,unitaalnostroclima insulare, ha provocato un aumento della depressione e deidisturbinervosi»29. George Cheyne, come abbiamo appena visto, pensa che il clima britannico abbia un’influenza nefasta, spiegazione peraltro alla moda nella prima metà del secolo, a cui si allineano Montesquieu e persino un autentico dotto, César de Saussure: nel 1727, disgustato dal clima londinese, egli scrive che, se fossestatoinglese,sisarebbe suicidatodaparecchiotempo. Cheyne aggiunge tuttavia anche altre ragioni per spiegare la malinconia ai suoi compatrioti: il riscaldamento a carbone, il consumo di carne di manzo poco cotta, il disordine morale, l’ateismo. Su quest’ultimo punto, tutti i detrattori dell’Illuminismo concordano: i popoli sono demoralizzati dal progresso dello spirito filosofico. Sin dal 1699 la principessa Palatinascriveva:«Lafedesi è spenta in questo paese, al punto tale che non si trova più un solo giovane che non voglia essere ateo [...]; si sostienepersinochel’elevato numero di suicidi che stiamo conoscendo dipenda dall’ateismo [...]. Solo lunedì scorso, un avvocato di Parigi sièsuicidatonelproprioletto con un colpo di pistola»30. Qualche anno più tardi padre Lamy osserva: l’aumento dei suicidi «è un effetto dell’epicureismo»31. È chiaro che le forze religiose e conservatrici diffidino della malinconia profonda, ma anche i sostenitori dell’Illuminismo la considerano come una forma di malattia mentale. Coloro che soffrono di gravi disordinimentalisonospesso rinchiusi e sottoposti a cure spaventose. Gli altri sono vittime del sospetto circostante. Certo, gli Illuministi preferiscono l’inquietudine alla malinconia. Ciò nonostante, un filosofo tedesco, probabilmente il più grande del secolo, già nel 1766 intona il più bell’inno alla malinconia che sia mai stato scritto, annunciando il male del secolo romantico. Incarnazione della ragione, Immanuel Kant ne ha visto chiaramente i limiti, li ha analizzati e criticati, ed è sicuramente il più indicato peracclamarelanuovastella. Solo il malinconico può raggiungere la vetta dell’estetica e della morale. Egli tende al sublime, anche se triste e stanco della vita, poichélasuacoscienzaacuta del bene e del male gli conferisceglistrumentiadatti per misurare l’odiosa piccolezza della condizione umana: La persona il cui sentire tende al malinconico non viene così definita perché, priva delle gioie della vita, si strugge in una oscura malinconia, ma perchélesuesensazioni, quando si dilatano oltre una certa misura, o imboccano una direzione errata, approdano a questa tristezza dell’anima più facilmente che ad altre condizioni di spirito. È melanconico ha dominante il sentimento del sublime. Persino la bellezza,allaqualeegliè altrettanto sensibile, non tende soltanto ad affascinarlo ma, ispirandogli ammirazione, a commuoverlo. Il godimento del piacere è inluipiùcomposto,non perquestomenointenso; ma ogni commozione suscitata dal sublime ha per lui maggiore attrattiva di tutti gli affascinanti allettamenti del bello. [...] È perseverante, e per questo subordina le sue sensazioni ai princìpi. [...] L’uomo di temperamento melanconico si cura poco di ciò che gli altripensanooritengono buono o vero, egli si basa soltanto sul suo criterio di giudizio; dal momento che i moventi delle sue azioni prendonoinluilanatura di princìpi, non è facile fargli cambiare il suo modo di pensare; la sua fermezza si tramuta talvolta anche in ostinazione [...]. L’amicizia è sublime e perciò si addice al suo modo di sentire; può forse perdere un amico incostante, ma questi non perderà lui con altrettanta rapidità. Persino il ricordo di un’amicizia ormai spenta è per lui ancor degno di considerazione. [...] Egli è un buon custode dei segretipropriealtrui.La veracità è sublime ed egli odia le menzogne e la dissimulazione della natura umana [...]. Non prova indulgenza per alcun basso servilismo e la libertà spira nel suo nobile petto. Tutte le catene, da quelle dorate che si portano a corte sino al pesante ferro dei galeotti, sono per lui odiose. È un severo giudice di se stesso e degli altri e non di rado avverte tedio di sé e delmondo32. Questo testo introduce il trionfo della malinconia romantica che i pittori iniziano a personificare nei trattidiunadonnalanguidae meditabonda, come nei quadridiFrançoisLagrenéeo nei ritratti aristocratici di Reynolds. Ildolorediesistere Il secolo dei Lumi ha trascurato la malinconia a vantaggio dell’inquietudine, tuttavia anche quest’ultima è una forma di mal di vivere. Unadellegrandiossessionidi questo secolo è stata la ricerca della felicità, che si rivelerà ben presto una chimeracapacediridurrealla disperazione i suoi adoratori. Alle radici della sua conquista e del suo raggiungimento vi è la forte convinzione che la vita sia anzitutto sofferenza. Quest’idea, che era verità teologica nel Grand Siècle, viene secolarizzata dagli Illuminsti, che in qualche modo la interiorizzano.Perlamaggior parte degli intellettuali, di qualunque sensibilità, il mal di vivere costituisce il tessuto stesso dell’esistenza, sotto qualsiasi forma esso si manifesti: «Esistiamo di un’esistenza povera, contenziosa, inquieta», scrive Diderot. La noia, questo «vuoto tremendo», è sempre inagguatosiapergliscrittori che per i personaggi dei romanzi; la malinconia ne attanagliamolti,mentreisuoi «vapori» colpiscono in particolare le donne33. L’inquietudine non risparmia nessuno e non si esprime unicamente nei romanzi, dove gli eroi si forgiano un destino di sventurachetrasfiguraleloro prove e dona loro la forza di amare: «Quale fonte inesauribile di sensibilità è la sofferenza!», leggiamo nelle Réflexionsd’unjeunehomme (1786). Le memorie e le cronache del bel mondo e degli ambienti equivoci traboccano di storie patetiche di personaggi che si consumano nella malinconia inseguitoaunadisgraziaoa unamalattia:M.dePomereu, tubercolotico a venticinqueanni,sirinchiude con «un’ossifraga34 viva che era sempre posata sulla sua scrivania; questo animale silenzioso e triste gli piaceva»; M. d’Argenson muore nel 1721 «della malattia del ministro caduto in disgrazia, una specie di spleen da cui quasi tutti vengono colti e di cui la maggior parte perisce»35; la marchesa di Prie si spegne a ventinove anni, nel 1727, «dopo essersi trascinata per quindicimesinelsuoesilio»; Rousseau portava in giro la sua tristezza a Charmettes e, nel 1770, confessa: «Se quaggiùmivenissechiestodi scegliere ciò che voglio essere,risponderei:morto». Questo secolo, considerato leggero, è invece ossessionatodallamorteedal suo fornitore principale, il tempo. Robert Favre hadedicatoaquestotemaun magnifico studio su come quest’epoca di piaceri sia stata in realtà un’epoca di paure36. Si potrebbero citare centinaia di esempi che denotano la sensazione di soffocamento, come questo versodid’Alembert: Un instant ici-bas nous venons pour souffrir, Jeter autour de nous unregardetmourir37. Nella seconda metà del secoloilfascinoperlerovine, le tombe, i monasteri e la solitudineconferisceunostile crepuscolareaquestacultura, evocata da Loaisel de TréogatenellesueSoiréesde mélancolie (1777), in cui l’eroe esclama: «Non posso piùrespiraresottouncielodi piombo». Il fascino per i mostri,icimiterieilmacabro ingeneraletraduceundisagio descritto da Dorat nel suoLe malheureux imaginaire (1777): «E sufficiente gettare uno sguardo attento sul quadro della società per vedervi regnare questo tormento, questa agitazione, questodelirioinquietodiuna fantasia malata che produce fantasmi, che non crede a nessuno dei beni di cui gode, che realizza tutti i mali che prevede, si agita dolorosamente in mezzo alle delizie e si avvelena alle stesse fonti da cui dovrebbe provenire l’antidoto»38. Il principe di Ligne, apparentemente felice, sostieneditrascorrerenottidi tormento e agitazione, con sogni pieni di «lamenti», di «urla», di «furore». Scrive Robert Mauzi: «Queste diverse forme di disagio dell’animadenotanounacrisi profonda. L’esistenza e la coscienza si dissociano. L’esistenza pura viene messa a nudo e affiora prepotentemente. Essa diviene cupa, anarchica; la coscienza non riesce più a occuparsene, a stabilizzarla»39. Il tempo scorre, a scapito di Chénier, Ducis, Léonard, Diderot, Mme de Lambert e tanti altri, come Sébastien Mercier che, per questo motivo, ha orrore degli orologi: «Su tutti i camini ci sono pendoli a sproposito, è una moda lugubre. Non c’è niente di più triste da contemplare che un pendolo: ci si vede scorrere dentro la propria vita»40. Alcuni precipitano nella nevrosi, comeilfigliodelReggente,il duca d’Orléans, che arriva a negare la nascita e la morte, sospeso in una durata atemporale: «La sua mania non si limitava a credere che non si morisse, ma si estendeva persino alle nascite,cuinondavamaggior credito»41. Egli rifiuta di accettare la morte della sua amante così come la nascita deisuoibambini. Molti rimpiangono di esserenati,persinoilvescovo Le Franc de Pompignan, fortementecontrarioalleidee dei filosofi. Di seguito un esempiodellesueinvettive: Que l’homme est malheureux! Que sa vie estcruelle! Il naìt comme la fleur,ilestfoulécomme elle; Ses maux sont mille fois plus nombreux que sesjours[...] Dieu qui m’as condamné, pourquoi m’as-tufaitnaìtre, Si je dois à jamais souffrir?42. Il culto dell’infelicità si esprime in abbondanza nei romanzi, dove le decine di eroideploranoilgiornodella loro nascita. Ci si può chiedere,aquestopunto,sesi tratti di letteratura o posa. Si potrebbe pensare a un fenomeno di moda, a giudicaredall’elevatonumero dicasi.Èpurveroperòchela moda cela sempre un pizzico diautenticità,tantopiùchesi aggiunge a altri segnali tipici, come ad esempio il rifiuto di mettere al mondo nuovevittime. Nella sua opera Loisirs philosophiques (1756), Jean Blondel narra che «quando gli venne proposto di sposarsi, il maresciallo de Gassion rispose che non aveva abbastanza stima della vita per condividerla con qualcuno»43. Dorval, ne Il figlio naturale di Diderot, rifiuta di diventare padre poiché ciò significherebbe gettare un essere umano «in un caos di pregiudizi, di stravaganze, di vizi e di miserie». Queste amare osservazioni non sono appannaggio dei soli intellettuali: stando al marchese di Argenson, i giovani contadini della Turenna pensano «che non valga la pena di far nascere degli infelici come loro». Diononc’èpiù,oquanto meno si è allontanato. I filosofi si trovano ad affrontare un vuoto angosciante e a chiedersi quale sia il senso della vita, dadoveprovengatuttaquesta infelicità umana. L’accumularsi delle catastrofi accresce lo sgomento,dimostrandochela natura non è decisamente miglioredelDiovendicatore. Sostenitori e detrattori dell’Illuminismo discutono sul significato da attribuire alle catastrofi naturali, della cui ampiezza e frequenza si prende coscienza forse per la prima volta. L’avvocato giansenista Le Paige (17121802) colleziona le relazioni sui cataclismi inviate dai mercantiediplomaticiditutta Europa. La cronaca pullula: maremoto nella valle del Gange nel 1737; distruzione diLimaedelportodiCallao a causa di un terremoto nel 1746; sisma in Francia nel 1750; passaggio di meteore nel 1754; terremoto di Lisbona nel 1755 (che causa centomila morti e le cui ripercussioni si estendono finoalMarocco,conottomila vittime a Meknès e tremila a Fès); inondazione del Danubionel1756;incendioa La Fère-Champenoise nel 1776;terremotoinSicilianel 1783. Grazie al progresso della stampa e all’accelerazione delle comunicazioni, i contemporanei hanno l’impressionecheledisgrazie simoltiplichino;ciòportaLa Paigeadaprirelasuaraccolta con un inquietante discorso sui «segni e i flagelli della giustizia di Dio». Persino le menti più razionali si mostrano colpite. Nel 1755 spade fiammeggianti solcano icielidiGermania,Svizzerae Francia;unmercantefrancese scrive allora al suo corrispondente di Lisbona: «In Germania sono tutti costernati e contriti, camminano tremebondi e temono che la collera del Signore esploda, come è successo in Spagna, in Portogallo e in altri paesi. Pregate dunque senza posa, digiunateaffinchérisparmila nazionefrancese»44. Lo «spettacolo della natura» non potrebbe essere più divertente. Invece di vedervi le meravigliose realizzazioni della Provvidenza, Nicolas Gilbert teme le foreste, «lugubri asili»,coniloro«alberitristi evotatiallamorte».Allafine delsecolo,Senancourdecanta nelle sue Reveries i paesaggi selvaggi delle Alpi, ma solo per dire che l’autunno è l’immagine della nostra triste condizione, di «questa terribilenecessitàchecreaper poidistruggere». Ilpessimismo dell’Illuminismo L’austero Maupertuis, inventore dell’espressione «mal di vivere», osserva che «nella vita ordinaria, la sommadeimalisuperaquella dei beni». «Tutti i divertimenti degli uomini dimostrano l’infelicità della loro condizione: qualcuno gioca a scacchi, altri vanno a caccia, ma è solo per evitare le percezioni più dolorose». Riscontriamo lo stesso pessimismo presso l’autore anonimo dei Dialogues des animaux ou le Bonheur (1762), che arriva ad affermare che gli animali sono più felici degli uomini. Le Réflexions d’un jeune homme (1786) accolgono lo sfogo emotivo di Feucher al pensiero di tutti i mali che affliggono la vita umana: «Invano l’orgoglio sussurra di essere il sigillo della mia grandezza, il principio della mia forza, la causa della mia regalità!Cosamiimportadel vano trono della natura se sonoinfelice!Èlafelicitàche voglio, e se il bruto vive meno sofferenze, allora voglio essere al suo posto!»45. Meglio essere un animale in effetti: più siamo sensibili e intelligenti, più soffriamo, osserva il principe di Ligne. L’uomo semplice soffre perchétaleèlanaturaumana; ma l’uomo che pensa soffre doppiamente poiché uomo e, in quanto tale, consapevole dell’umanità sofferente. Nessuna creatura ragionevole può dirsi felice, sostiene Nougaret, che esprime lo sconforto di colui che è appenasfuggitoallamorte: Eccomi gettato nuovamente su questo miserabile globo! Dovrò continuare a percorrere la penosa strada della vita; faccio parte della schiera degli esseri sofferenti e infelici, quando mi rallegravo di veder distruggere la mia fragile esistenza e di addormentarmi nella notte del nulla. Devo prepararmi a nuovi dolori, poiché è sufficiente esistere per provare la sventura e le sofferenzecontinueeper essere dilaniato dagli strali del dolore. Quale creaturaragionevolepuò dirsi realmente felice? L’indigente immerso nella miseria e il ricco chenaviganell’opulenza non hanno forse entrambi motivo di afflizione? Se esistesse unessereumanosempre felice per il proprio destino, la sua felicità verrebbedisturbatadallo spettacolo degli innumerevoli mali che tormentano i tristi abitanti della terra. Ahimè! Provavo così tanto piacere nel sentire arrivare poco a poco la distruzione del mio essere!46. Chi meglio dei preti può conoscere lo sgomento umano? L’abate Trublet non tradisce il segreto della confessione quando racconta: «Ho trovato meno felici o più infelici di quanto credessi la maggior parte di colorochemihannoapertoil cuore, affidato le loro pene e narrato la storia della loro vita. I confessori sono a conoscenzadimolticriminie diinfelicitàsegrete;benchéa confessarsi non siano certo i piùmalvagieipiùtristi.[...]I rimorsi e i pentimenti del passato, i desideri e le inquietudini per il futuro vengono ad aggiungersi al disgustoealmalcontentoper il presente. La vita trascorre così»47. Questo mal di vivere ha almenoilmeritodiaiutarcia sopportarel’ideadellamorte. Troviamo in questa fase alcuni accenti già rilevati nei libertinidelXVIIsecolo,che sostenevanounatteggiamento di tranquillo pessimismo. «È bene stabilire qualche principio atto a diminuire il nostro attaccamento alla vita, e di conseguenza a renderci indifferenti alla morte», scrive il barone d’Holbach. Di fronte alle disgrazie della vita, Diderot afferma: «Non esiste che una virtù: la giustizia; non esiste che un dovere: rendersi felici; non esiste che un corollario: non sopravvalutare la vita e non temerelamorte». Alla fine del secolo Chamfort infrange un’ulteriore barriera: «I flagelli psichici e le calamità della natura umana hanno reso necessaria la società, la qualenonfacheaggravarele disgrazie della natura. Gli inconvenienti della società hanno condotto alla necessità di un governo, e il governo accresce le sventure della società. Ecco la storia della natura umana». A questo stadio la disperazione è irrimediabile e porterà Chamfortamettereinpratica una delle sue massime: «Vivere è una malattia, la curaèlamorte». Nel XVIII secolo si può osservare un sorprendente punto di convergenza tra credenti e non credenti: il disgusto per la vita terrestre. «Valledilacrime»pergliuni, sognoassurdoperglialtri,la vitanonvalelapenadiessere vissuta e il più grande bene che possiamo desiderare è la morte che, per gli atei, si affaccia sul nulla. La Mettrie è categorico: «La morte è la fine di tutto; dopo di lei, lo ripeto, un abisso, un nulla eterno; tutto è già stato detto e fatto [...], la farsa è stata recitata». Questa prospettiva non è forse molto allettante, ma la vita umana come la descrive Diderot in una lettere a Sophie Volland lo è forsedipiù? Nascere nell'imbecillità,inmezzo a grida e dolore; essere preda dell’ignoranza, dell’errore, del bisogno, delle malattie, della cattiveria e delle passioni; ritornare man mano all’imbecillità, dal momento in cui balbettiamo fino al momento in cui farnetichiamo,viverefra bricconi e ciarlatani di ogni tipo; spegnersi fra unuomocheviprendeil polso e l’altro che vi annebbia la mente; non sapere da dove arriviamo, perché siamo arrivati qui, dove andiamo: ecco ciò che chiamiamo il presente piùimportantedeinostri genitoriedellanatura:la vita48. Per sfuggire a un simile inferno,ipiùspaventatidalla morte hanno un valido sostituto, la droga. Il medico La Mettrie loda le virtù dell’oppio, che scopre nel XVIII secolo: «Getta l’uomo felice in uno stato tale che sembradoveresserelatomba del sentimento, per quanto diventa l’immagine della morte. Quale dolce letargo! L’anima non vorrebbe mai uscirne». L’abate Galiani, autore dei Dialoghi sul commercio dei grani, non ne è meno entusiasta. In una lettera del 1777, rassicura Madame d’Epinay riguardo a sua madre, che usa e abusa della sostanza: Ignorate forse che tutto l’Oriente, vale a dire almeno la metà del genere umano, vive con l’oppio, o per meglio dire nell’oppio, fino alla decrepitezza? L’Occidente si serve del vino invece che dell’oppio, e ne trae lo stesso vantaggio. Non conoscete alcuna vecchia ubriacona? Ebbene, vostra madre sarà un’ubriacona d’oppio [...]. Mettetevi ben in testa che, poichélavitanonèaltro cheunammassodimali, disofferenzeedidolore, «Dio fece dell’inebriarsi la virtù dei mortali». L’oppio, il vino e il tabacco, le tre droghe più inebrianti, sono il contravveleno della vita degli asiatici, degli europei, degli americani49. La lista delle testimonianzesulpessimismo dei Lumi è davvero interminabile. Esse sono così numerose che ci si potrebbe chiedere da dove sia potuta arrivarelafamadileggerezza e di gioia di vivere di questo periodo. Certo, c’è stato un primo XVIII secolo più ottimista,quandoLeibniz,nel 1710, riteneva che «tutto è perilmeglionelmiglioredei mondi possibili». Filosofi e teologi tentano di giustificare e di minimizzare l’esistenza del male, integrandola nell’armonia dell’universo,conloscopodi mostrare che il peccato originale era un peccato felice, benefico, una felix culpa50. Sin dalla fine degli anni ’80 del 1600, Malebranche considerava il peccato originale una parte necessariadeldisegnodivino: Dio l’ha permesso per poter ricreare un mondo migliore attraverso l’Incarnazione di suo Figlio che ha, in qualche modo, divinizzato la creazione: «Ad ogni modo Diohaprevistoepermessoil peccato. È sufficiente questo. È una prova certa che l’Universo restaurato da Gesù Cristo valga di più del medesimoUniversonellasua primitiva costruzione, altrimenti Dio non avrebbe mai lasciato corrompere la propria opera. Questo è un segno sicuro che il disegno principale di Dio è l’Incarnazione del figlio»51. Leibniz aggiunge, riguardo a questo tema, che non solo il peccato originale ha effetti estremamentepositivi,maera soprattutto inevitabile. Quando Dio crea, non può che creare un essere imperfetto, altrimenti creerebbesestesso,eidiversi mali contribuiscono all’equilibrioglobale. A quest’epoca in Inghilterravièlatendenzaad addolcire le conseguenze dalla caduta originaria: il peccato di Adamo scompare, oppure viene ridotto a un incidente di percorso dagli effettisecondarimoltoleggeri nelle teodicee elaborate da Charles Blount, Mathew Tindal, John Taylor, Conyers Middleton, Bolingbroke, Shaftesbury. I platonici di Cambridge e i latitudinari, come l’arcivescovo di Canterbury JohnTillotson,affermanoche lanostranaturaèintattaeche l’istruzione è in grado di ridurre le proporzioni del male. Nel 1702 il vescovo WilliamKing,nelDeorigine mali, dimostra che il male non è che una privazione, un’assenza necessaria all’esistenza degli esseri creati. Nel suo Essay on Man, Alexander Pope «ritocca» l’affermazione di Leibniz, riequilibrando il «tutto è bene» con «tutto è il male minore possibile». Anche se fra le due formule c’è ben più di una semplice sfumatura... Anche i gesuiti, a modo loro, contribuiscono al mantenimento di un certo grado di ottimismo, difendendo lo «stato di natura». A loro dire, il peccato originale non ci ha fatto perdere tutto. Dio ci ha tolto solo i doni sovrannaturali elargiti alla natura umana al momento della creazione; ci resta quindi il libero arbitrio. I filosofi della prima generazione, quella del Mondain di Voltaire, invecenonsannochefarsene di questa storia del peccato originale e sostengono che l’uomo sia qui per trovare la felicità nei piaceri. L’Illuminismo, l'Enlightment el'Aufklärung si ritrovano in un ottimismo giovanile. La storia culturale ha preso in considerazione soprattutto questa prima parte del XVIII secolo. Nel 1755 tale ottimismo viene messo in discussione dall’AccademiadiBerlino,la quale chiede di rivedere il sistema di Pope contenuto nell’affermazione: «Tutto è bene». Si tratta dunque, in primo luogo, di determinareilverosignificato di quest’affermazione, conformementeall’ipotesidel suo autore; poi di metterla a confronto con il sistema dell’ottimismo o della scelta migliore, per sottolinearne esattamente i rapporti e le differenze; infine di definire le ragioni ritenute più valide nello stabilire o nel distruggereilsistema. Nello stesso anno si verifica il terremoto di Lisbona che, secondo Paul Hazard, segna l’oscillazione del secolo dall’ottimismo al pessimismo: «A partire da Candido, la sentenza viene pronunciata e la causa perduta»52. Robert Mauzi ha contestato questa divisione cronologica, mostrando che i due atteggiamenti coesistono lungo tutto il secolo, il quale vede apparire simultaneamente e parallelamente sia le opere più cupe che le più illuminate: Prévost racconta la vita piena di calamità di Cleveland nel 1732, nel momento in cui Voltaire decanta le gioie dell’esistenza; nel 1754 SavérienpubblicaL'Heureux, treanniprimadiLeSpleendi Bésenval; l’euforia più beata del secolo, l’Essai sur le bonheur di Beausobre, è contemporanea di Candido, e ÈHomme heureux di Le Prévost d’Exmes viene pubblicato nel 1776, lo stesso anno in cui Rousseau, l’uomoinfelice,scrive: Gettato sin dall’infanzia nel vortice del mondo, apprendo di buon’ora con l’esperienza che non ero fatto per viverci e che non sarei mai riuscito a dare al mio cuore ciò di cui aveva bisogno. Avendo dunque smessodicercarefragli uomini la felicità che sentivo di non potervi trovare, la mia ardente immaginazione saltava già oltre lo spazio della mia vita, appena cominiciata, come su un terreno che mi era sconosciuto, per posarsi su un piano tranquillo dovepotermifermare53. «All’inizio del secolo si crede nella felicità facile, raggiungibile seguendo la natura, cioè dando soddisfazione agli istinti e allepassioni.Malesensibilità cambiano e, alla fine del secolo, la felicità viene concepita come il risultato di una lotta perpetua contro lanatura,controlepassionie gli istinti: la felicità diventa virtù, e la virtù è difficile da raggiungere. Il capovolgimento è spettacolare e, in definitiva, rivela nonostante tutto un passaggio dall’ottimismo al pessimismo». Robert Mauzi parla di una «mitologia dell’infelicità»54: «Tuttavia, alla domanda se l’uomo sia felice, sembra proprio che la risposta sia stata la maggior parte delle volte negativa, poiché ci si continua a porre altre due domande: “Perché l’uomo non è felice se il suo desiderio di esserlo è così forte?”e“C’èforse,permera ipotesi, un qualche modo per diventarlo?”»55. Esserefelici: un’ossessionedegli infelici LafamadelXVIIIsecolo come periodo felice è dovuta inparteallaquantitàdiscritti dedicati alla felicità: più di una cinquantina di trattati nellasolalinguafrancese.Ma questa ossessione della felicitànonèpiuttostoindice di una mancanza? Come non fareunparalleloconl’attuale proliferazione di opere per sconfiggere la depressione e sul dovere di essere dinamici e felici? L’ossessione della felicitàuccidelafelicità. Anche gli intellettuali dell’Illuminismo hanno sottolineato questo punto: «Sragionare tristemente sulla felicità è il destino di quasi tutti coloro che hanno scrittoqualcosainproposito», commenta Grimm nel 1767, mentre nel 1772 l’abate Barthélémy confida a Madame du Deffand: «Siamo infastiditi da tutti questi trattati, da tutti questi poemi sulla felicità composti da uomini comuni tremendamente tristi». Che utilità possono avere, si chiedeHolbach:«Nulladipiù vago, di più affliggente, di più impraticabile dei consigli elargiti dalla maggior parte dei moralisti può portarci a essere felici». Prendete Maupertuis, un uomo «cupo, irascibile, nemico di tutti i talenti che non aveva», a detta di Delisle de Sales, ebbene, «Maupertuis, che ha credutopertuttalavitaeche probabilmente ha dimostrato di non essere felice, ha appenapubblicatounoscritto sulla felicità», nota ironicamente Montesquieu, egli stesso autore di alcuni paragrafi sul tema in Miei pensieri. Tuttavia il risultato non è così probante: «Dopo avere letto Maupertuis, vorrete quasi essere morti», ironizza Madame de Puisieux. Quanto alla gente felice chescrivesullafelicità,iloro trattati, sostiene Diderot, «non sono che la storia della felicitàdicolorochelihanno scritti».NelsuoDiscourssur le bonheur, «Fontenelle ci dice solo come Fontenelle fosse felice», osserva SaintLambert. Delisle de Sales rincara la dose: «Quando scrive sulla felicità, tutto ciò che insegna ai suoi contemporanei è come fu felice nella sua fredda apatia». Helvetius, «favorito anche dalla natura e dall’ordine sociale, bello, ricco, sensibile e sempre amato», compone un poema suLebonheur:chevantaggio puòtrarredaunasimileopera un uomo brutto, povero, inacidito,nonamato,vecchio emalato? Ora, secondo il principio generalmente ammesso nel XVIII secolo, l’uomo è fatto per essere felice. Lo diceva già Bossuet che il solo obiettivo dell’uomo era di essere felice; lo ripeteva Voltaire che la grande questione, e la sola che bisogna prendere in considerazione, è di vivere felici. Tutti ricercano la felicità,perpoiaccorgersiun giorno o l’altro che è irraggiungibile o, peggio ancora,cheèunmiraggioche svanisce appena lo si tocca, concetto che Madame de Puisieux riesce a esprimere conunabellaimmagine:«La felicità è una palla che rincorriamo quando rotola e che allontaniamo con i piedi quando si ferma». La felicità risiede nella speranza della felicità, vale a dire che in realtà non esiste, o che è talmente ridotta che esitiamo a chiamarla felicità: «La felicità è un momento che nonvorremmoscambiarecon il non-essere», scrive Montesquieu. E se la felicità consistesse semplicemente nelnonessereinfelici?«Non c’è altra felicità al mondo se non quella del nostro corpo con i suoi cinque sensi in buono stato e, per la nostra anima, di avere un amico: tutto il resto è una chimera», confida Voltaire alla sua amica Madame du Deffand, la quale approva: «Per me la felicità consiste nel rifuggire duemali,idoloridelcorpoe lanoiadell’anima». Persino il riso non è sempre divertente. Il XVIII secolo ha inventato lo humor nero, come ha mostrato André Breton mettendo Jonathan Swift in vetta alla sua Anthologie. I più amareggiati sono proprio coloro che hanno la responsabilità di farci ridere, comeicaricaturistibritannici: ilsinistroGeorgeCruikshank, l’acido Rowlandson, il cupo James Gillray che, stanco di questo mondo di folli, si suicida nel 1815. In Francia Figaro, frizzante plebeo cheincarnalagioiadivivere, confessa: «Mi affretto a ridere di tutto per paura di ossere obbligato a piangerne»; e il riso di Senancour fa eco a quello di Democrito: «La vita mi annoia e mi diverte. Andare, alzarsi, fare tanto rumore, preoccuparsi di tutto, misurarel’orbitadellecomete e, dopo qualche giorno, sdraiarsilà,sottol’erbadiun cimitero: mi sembra abbastanza burlesco per essere vissuto fino alla fine». Poiché la vita è solo una miserevole farsa, meglio riderne: «Trovare la comicità delle cose le rende già meno tristi», ed ecco perché «cerco in ogni cosa il carattere bizzarro e ambiguo che possa trasformarlainunrimedioper le mie miserie [...]. Rido di dolore e vengo considerato unapersonaallegra». Lafelicità:una chimera? Ci sono quindi persone felici nel secolo dei Lumi? Probabilmente sì, a cominciare da Casanova. Ecco uno che non è triste: «Per alcune persone la vita nonèaltrocheuninsiemedi sventure,scrive.Machiparla così è sicuramente malato o povero, poiché se godesse di buona salute, se avesse la borsa ben piena, l’allegria nel cuore, se avesse una Cecilia o una Marina, e la speranza in qualcosa di sempre migliore, oh, certamentecambierebbeidea. Li considero dei pessimisti, che possono essere esistiti solo tra filosofi pezzenti e teologi disonesti o irascibili»56. Persino d’Holbach ammette che «per quanto ne dica una teologia tristeounafilosofiacollerica, qualunque uomo che sappia gioire, pur non trovando una felicità completa in questo mondo, può almeno incontrarvi una torma di piccoli piaceri fatti per renderefelicelasuaesistenza opercostituire,inqualunque momento, un potente diversivoallesuepene»57. Entrambi hanno la vita facile, è vero. Ma, assicura Fromentin nel suo Traité du bonheur(1706),tuttipossono essere felici, i ricchi come i poveri. Secondo Blondel sarebbepersinopiùfacileper i poveri, che non hanno bisogno di molto per essere felici; anzi, la maggior partedellevoltesonoinfelici, ma hanno la fortuna di non saperlo: Fatemi passare in rassegna questa gente grossolanaesenzalumi, natanellecondizionipiù abiette. Presentatemi questi uomini che chiamate le infelici vittime dei capricci del destino e che hanno conosciuto la miseria sin dal giorno in cui hanno aperto gli occhi. Trascorrono la vita a mangiare, lavorare, dormire e a rendere infelici gli altri. Siate certi che siete voi adaverepiùpietàdiloro di quanta ne abbiano loropersestessi.Hanno meno passioni perché hannomenoidee,questo è ovvio. L’abitudine a soffrire fa loro perdere quella di credere che soffrono.Èunaspeciedi ignoranza della loro miseria; e se sanno di essere infelici, lo sanno più o meno quanto noi sappiamo di dover morire. Ecco un comportamento ammirevole della Natura: quando fa nascere le persone nella miseria, essa dona lorouncarattereadattoa sosteneretalecondizione e persino a dimenticarla58. Inizialmente l’abate Trublet sembra accondiscendere: «Il numero dipersonefelicisuperaquello degli infelici? Credo di sì, perché sono abbastanza portatoapensarechevisiano piùpersonefelicicheinfelici negli strati sociali più bassi, fra il popolo, gli artigiani, i contadini,idomestici,ecc.La maggiorpartedegliuominisi trovainquestecondizioni.Se il padrone non è felice, lo sono i suoi servi, ed esistono piùservichepadroni».Poisi domanda: tutti questi contadini dall'aria felice, lo sarannopoiveramente? Forse la penserei diversamente sulle condizioni disagiate, se le conoscessi meglio [...]. Guardo il popolo, questa folla di uomini costretti ai lavori più duri, questi contadini che portano il peso del giorno e del caldo, e scorgo segni di gioia, sentoilorocanti.Ilmio cuore se ne rallegra, poiché mi rendo conto che, nonostante tutto, sono felici. Mi avvicino e mi congratulo per la loroallegria.Maessimi rispondono che cantano solo per aiutarsi a sopportare il lavoro, ad addolcirlo e a distrarsi, per sentire meno le loro pene. Non cantano perché sono felici, ma per rallegrarsi un poco, se possibile, o almeno per non abbattersi del tutto59. Allo stesso modo gli schiavi neri cantano i blues nei campi di cotone, ma questononsignificaperforza chesianofelici. Trublet ha almeno il merito di essere consapevole del problema, in questo tempoincuilaclasseelitaria non pensa a fare la rivoluzione.Lamaggiorparte dei filosofi, illuministi e detrattori dell’Illuminismo non si pongono il problema, poichélafelicitànonpuòche provenire dallo spirito. I contadini, grezzi e incolti, sononecessariamenteinfelici. «In qualche modo potremmo dire che il popolo provi solo sensazioniecheilsentimento glisiasconosciuto»(Madame Thiroux d’Arconville); «Il popolo è raramente felice, poichéconfondeglistrumenti della felicità con la felicità stessa» (Delisle de Sales). L’infelicedellecittàèancora più infelice degli infelici dei campi, spiega Sébastien Mercier: «Essere felici a Parigi è quasi impossibile, poiché i godimenti altezzosi dei ricchi si svolgono troppo vicino agli sguardi dell’indigente, il quale ha motivo di sospirare vedendo questi sperperi rovinosichenonarrivanomai finoalui.Perquantoriguarda la felicità, egli è ben al disottodelcontadino»60. Diderot è forse il più lucidoeilpiùonesto.Nonsa se gli operai siano felici, ma non vorrebbe essere al loro posto: Crederei di più alle delizie della giornata di un carpentiere, se a parlarmene fosse il carpentiere e non un fermiere generale, le cui braccia non hanno mai provato la durezza del legno o la pesantezza dell’ascia. Questo carpentiere beato,lovedoasciugarsi il sudore dalla fronte, portarsi le mani sui fianchi per alleviare la fatica delle reni, ansimare in ogni momento, misurare con il suo compasso lo spessore della trave. Forse è assai dolce essere carpentiere o segatore di pietre, ma francamente, non voglio quel tipo di felicità, neanche se accompagnata da un ricordo gradevole, ad ogni colpo di scure o di sega,delpagamentoche mi spetterebbe a finegiornata61. E i ricchi sono felici? Le grandi menti rispondono in massa in modo negativo. Le ragioni non mancano: la ricchezza moltìplica i desideri, le vanità e le frustrazioni (Trublet ed Elvezio); i ricchi provano «l’inquietudine nella ricerca», il «disgusto nel godimento», la «disperazione nellaprivazione»62(Lévesque de Pouilly). Si tratta di «persone sfaccendate, che trovanodifficileammazzareil tempodelleventiquattrooree cheimpieganotuttigliartifici immaginabiliperarrivarefino in fondo alla giornata»; «questioziosichevegetanoe credono di vivere [...] per ripagarsi della noia che li coglie fanno due toelette al giorno» (Mercier). Sono attanagliati da una doppia contraddizione che fa sì che la loro ricchezza, dando loro tuttiimezzidiesserefelici,li privi di ogni tendenza alla felicità. L’accumularsi dei piaceri smussa la loro sensibilità e diventano disillusi e letargici; l’estensionedeiloroaffarine accresce la vulnerabilità e quindi ne moltiplica le inquietudini (Guillaume Dubois de Rochefort)63. Rousseau mostra quanto i ricchi, avendo esteso artificialmente il loro essere, diano origine a una seriedimali,senzacontarela cattiva coscienza che li perseguita subdolamente: l’evangelico «Guai a voi, ricchi», è uno dei temi familiarideisermoni. La felicità è dunque inaccessibile? Vietata sia ai ricchi che ai poveri, essa sembra riservata alla condizione intermedia cui tutti sembrano ambire: la «mediocrità». Vi è un accordo unanime impressionante su questo punto: «La mediocrità è un parapetto» (Montesquieu); «Felice mediocrità! Solo tu puoifarelafelicitàdelgenere umano» (Madame Thiroux d’Arconville); «Ah! Troppo felice mediocrità!»(Beausobre);«È nellostatodibeatitudinedella mediocrità che ci si può preparare alla filosofia senza tantisforzi»(Mably). Questo ideale ha un modello, un eroe modesto comeconviene:Fontenelle,il centenariofelice.Certolasua felicità non ha niente di spettacolare,mahaunmerito incomparabile: esiste, mentre tutte le altre sono solo chimere. Inoltre egli adotta uno stile di vita moderato e prudente, ben lungi dagli estremi e dagli eccessi. L’uomosicreadellechimere e passa il tempo a volerle realizzare.Tuttiinostridolori vengono dall’immaginazione, ciò è fonte di molteplici frustrazioni.Invecediquesto, considerate freddamente i vostrilimiti;banditetuttociò che è mito e convinzione irrazionale; credete a ciò che vedete; intraprendete solo progetti alla vostra portata; vivetenellaconcretezza,nella realtà, nella ragionevolezza. Fontenelle sa bene che le «grandimenti»disprezzanola sua tecnica della felicità a piccole dosi. I «grandi uomini» sono quelli che sognano e permettono di sognare. «Convengo sul fatto che a questa felicità manchi una cosa che, secondo i comuni modi di pensare, sarebbe necessaria: non ha alcunfulgore».Addirittura!Il fulgoreèforsenecessarioalla felicità? «Chi vuole essere felice si contenga e si rafforziilpiùpossibile». Inunsecolochesognadi cambiare la società, Fontenellehapocarisonanza. La maggior parte dei filosofi sostengonocheisuoiconsigli siano validi solo per lui. La condizione«mediocre»èsolo unequilibrioinstabilefradue pericoli: la povertà e la ricchezza. Per evitare di cadere nella prima, è necessario mirare alla seconda, andandosi quindi a cercaremoltepreoccupazioni. Due opere pubblicate a metà del secolo illustrano quanto il problema della felicità sia divenuto un caso scolastico ossessionante. Nel 1754Savérien,neL’Heureux, inventa una sorta di Giobbe dell’Illuminismo: Félix, uomo onesto, va in rovina; sua moglie viene assassinata; viene tradottoingiudizioperilsuo omicidio, di cui peraltro è innocente;vieneimprigionato e condannato a morte. Contrariamente al personaggio biblico, egli accetta di buon grado queste prove e trova persino un modo per trarne godimento, mostrando così che il saggio è in grado di vedereillatopositivoditutte le circostanze della vita. Ma, come nel libro di Giobbe, nonècheunamessainscena: ilreavevavolutometterealla prova il suo incrollabile ottimismo. Nel 1757 Bésenval, nell’opera Le Spleen, arriva più o meno alla stessa conclusione. Un personaggio attira su di sé tutte le catastrofi: tradito da tutti, vedovo sconsolato, si rompe unbracciodurantelacacciae perde le sue preziose collezioni. Tuttavia non si inacidisce né si amareggia, poiché ritiene che la sua sventura faccia parte della condizione umana: «Riconosco che sia raro trovare nella vita di un solo uomo un accumularsi tanto funestodifattispiacevoli.Ma in fondo, signore, non ho fatto che provare le sventure legateaidiversigeneridivita che avevo sposato, per poi soccombere ai pericoli cui ognuno è esposto». Dimostrazione ambigua, poiché significa anche che l’esistenza umana «normale» è un tessuto di sventure e di catastrofi.Lafelicitàconsiste semplicemente nel saper incassare i colpi... Alla domanda:«Dunquenonesiste alcuna felicità?», egli risponde: «Non la felicità perfetta.Perfelicitàsiintende una condizione di godimento permanente: dove può esistere qualcosa di simile? Le nostre situazioni dipendono da talmente tante circostanze che è impossibile che si combinino in modo da procurare una condizione stabile; da qui derivano le privazioni,lecontrarietàe,di conseguenza, l’infelicità. Se, per un rarissimo caso, questa condizione desiderabile non dovesse venire meno, allora la sazietà e il disgusto prendono velocemente il postodeldisagioeproducono lo stesso effetto. Ciò che vi dico sembra affliggervi, signore: cercate di non riflettere, sarete meno infelice»64. L’esame delle opere rivela un XVIII secolo inquieto,allaricercadinuovi valori. Il distacco religioso apre alcune prospettive, ma apre soprattutto una finestra su quanto è sconosciuto. Gli autori esprimono in modo ancorasporadicoedispersivo i loro interrogativi, le loro incertezze e paure. Nell’espressione del mal di vivere non c’è ancora niente di sistematico: esso appare come una serie di problematiche individuali dovesimescolanosperanzee paure. La filosofia dei Lumi non è propriamente una filosofia del mal di vivere, come sarà invece nel secolo seguente, quanto piuttosto una filosofia dell’inquietudine, fatta di reazioni individuali sempre più pessimistiche, che ha creato una chimera chiamata felicità e ha cercato i mezzi per trasformarla in realtà, rendendosi poi conto della sua illusione. Toccherà alXIXsecolotrarreledovute lezioni da questa esperienza, dando il via alla costruzione deisistemidelladisperazione. Se vi è un criterio inconfutabile del mal di vivere,quelloèsicuramenteil suicidio. Togliersi la vita in completacognizionedicausa è la dimostrazione suprema del disgusto per la vita, qualunque ne sia l’origine. Viaggiando a ritroso nelle epoche più antiche, la mancanza di statistiche e i tabù riguardanti questa pratica tanto condannata ci hanno costretto a limitarci a osservazioni sommarie. Nel XVIII secolo non c’è più spazio per il dubbio: il suicidio entra nel costume sociale, se ne parla senza più esitare, gli vengono dedicati interi trattati e si pubblicano persino le lettere delle sue vittime. La morte volontaria forzailmurodelsilenzio. Lamalinconiasuicida Così come in molti altri ambiti culturali, gli inglesi anche in questo si ergono a precursori, tanto da far considerare - a torto -la malinconia suicida quale carattere distintivo del loro temperamento.Intalsensogli indizi abbondano, a partire dalle impressioni personali: «Il numero di suicidi e pazzi malinconici di cui si sente parlare in Inghilterra nell’arco di un anno è più elevato rispetto a quello di tutta una larga parte dell’Europa»65, afferma William Congreve già nel 1698. Nel 1705 il memorialista John Evelyn osserva che non si era mai conosciuto un così alto numero di persone che si sono tolte la vita come in quegli ultimi anni, sia fra le classi di livello più alto che fralealtre66.Sicominciagià a parlarne nel continente, dove la principessa Palatina scrive: «I suicidi sono molto comuni fra gli inglesi: la nostra regina d’Inghilterra mi ha detto che, per tutto il tempoincuièrimastainquel paese, non è passato un solo giorno senza che qualcuno, uomoodonna,siimpiccasse, si accoltellasse o si facesse saltareilcervello»67.Ildottor George Cheyne, personaggio già incontrato nel capitolo precedente e a sua volta depresso, è preoccupato «per la recente frequenza e l’aumento quotidiano di suicidi strani e straordinari», e pubblica nel 1733 The English Malady per spiegare questo fenomeno. A suo parere, un quarto degli inglesi delle classi medie e superiori soffrirebbero di malinconia. Le sue impressioni sono confermatedaisondaggisulla mortalità pubblicati dai giornali londinesi, che danno provadiunaumentocostante del numero annuale dei suicidinellacapitale:sipassa daunamediadi18frail1680 e il 1690 a più di 50 fra il 1730 e il 1740. Sin dal 1711 WilliamWitherssuggerivadi scrivere un manuale pratico sull’arte del suicidio68 e nel 1756 Edward Moore propone ironicamente di costruire un «albergo del suicidio», offrendo i mezzi più raffinati per mettere fine ai propri giorni69. Spesso è la rovina a spingere gli aristocratici a suicidarsi: secondo le cifre riportate dal conte di Buckinghamshire, nel corso del secolo si uccidono 21 membri del Parlamento e 35 personaggi della nobiltà fra il 1750 e il 1798. La notorietà delle vittime amplifica evidentemente l’eco della loro morte, ma anche alcuni casi di suicidio dovuti al semplice disgusto per la vita vengono ampiamente commentati: nel 1700 un rilegatore londinese e sua moglie, Richard e Briget Smith, si impiccano dopo avereuccisolalorobambina; essilascianotrelettereincui spiegano il gesto adducendo come causa la tristezza della loroesistenza. Anche i filosofi vogliono dire la loro. Così Berkeley si appiglia alla miscredenza mentre, intorno al 1755, HumecomponeunSaggiosul suicidio, trattato in cui giustifica la libertà del gesto estremo, pubblicato in Inghilterrasolonel1777.Nel 1732 Radicati, piemontese esiliato a Londra, pubblica una Dissertazione filosofica sulla morte, in cui afferma che abbiamo la libertà totale di lasciare la vita quando questa diventa un fardello. Dal canto suo lo storico Edward Gibbon glorifica, dopo un viaggio a Roma, la mortevolontariadegliantichi Romani.Itrattatifavorevolio contrari al suicidio si moltiplicano70. A Londra, intorno al 1780, vengono organizzati alcuni dibattiti pubblici; il «Times» del 27 febbraio 1786 annuncia il tema di uno di essi: «Il suicidio come atto di coraggio?», cui si può assistere per sei pence. Nel 1789, lo stesso giornale dichiaracheilsuicidioè«ora un soggetto generico di conversazione in tutte le classisociali». Ilcasofrancese In Francia la censura vigila, ma la questione preoccupaifilosofi,chesono divisi sull’argomento. Secondoilbaroned’Holbach, ciò che spinge gli uomini a darsi la morte «è un temperamento inacidito dalle sofferenze, una costituzione biliosa e malinconica, è un vizio dell’organizzazione, unproblemanegliingranaggi [...]. La morte è l’unico rimedio alla disperazione, momento in cui la spada è l’unica vera amica, la sola rimasataaconsolarel’infelice [...]. Quando più niente sostienel’amorepersestessi, vivereèilpiùgrandedeimali e morire è un dovere per chi vuolefuggirlo». Voltaire osserva che l’uomo è fatto in modo da sopportare tutte le sofferenze piuttosto che sopprimerle: «Gli apostoli del suicidio ci dicono che è ampiamente permesso lasciare la propria dimora quando se ne diventa stanchi. D’accordo, ma la maggior parte degli uomini amano di gran lunga di più dormire in una catapecchia che all’addiaccio». Poiché le tendenze suicide sono favoritedall’ozio,«unmezzo quasideltuttosicuropernon cedereallavogliadiuccidervi è avere sempre qualcosa da fare». Per questo ci si uccide di più nelle città: «Il lavoratorenonhailtempodi essere malinconico, sono gli oziosi che si uccidono [...]. Come rimedio basterebbe un po’ di esercizio fisico, la musica, la caccia, la commedia, una bella donna». A ogni modo, se decidete di uccidervi, lasciate sempretrascorrereottogiorni prima di passare all’azione; sarebbe alquanto sorprendente che l’istinto di conservazione non avesse la meglio. Voltaire moltiplica inoltre le esortazioni nei confronti dei suoi amicitentatidimetterfineai loro giorni: «Uccidersi non appartiene alle persone amabili, ma solo agli spiriti insocievoli come Catone, Bruto [...], tuttavia è necessario che la gente di buona compagnia viva», scrive all’inglese Crawford. Anche Rousseau appare esitante nella Nuova Eloisa e decide di non pronunciarsi, facendo invece parlare Saint-Preux con paroleafavoredelsuicidio,e Milord Edouard con argomentazioniasfavore. I filosofi francesi non tranciano giudizi, ma il fenomeno li tocca da vicino, tanto più che hanno l’impressione che vi sia un aumento delle morti volontarie. Nel 1771 Grimm dichiara di vivere in «un tempo in cui la mania di uccidersi è diventata cosa comune e frequente»71. Nel 1772 Hardy conferma: «Gli esempi di suicidio si moltiplicano giorno dopo giorno nella nostra capitale, dove sembra venga adottato tutto il carattere e il genio della nazione inglese»72. Nel 1773 Feller, nel suo Catechismo filosofico, cita i suicidi, «così frequenti in questosecolo»,evedeinessi un «effetto dato dall’incredulità»73. Nel 1777 le Mémoires philosophiquesdubarondeX riprendono la stessa idea, mentre Voltaire pensa che i francesi si uccidano tanto quanto gli inglesi, soprattutto incittà. Queste cifre sono ovviamente solo delle stime. Alcune sono inferiori alla realtà,comelacinquantinadi morti volontarie a Parigi nel 1764 riferite da Voltaire, mentrealtresonoampiamente esagerate, come i 1.300 suicidi annuali attribuiti alla capitale nel 1781 dall’abate Barruel,ilqualeritieneanche che la Francia abbia perduto per questa ragione 130.000 persone nell’arco di mezzo secolo74. La cifra sostenuta da Sébastien Mercier nel suo Tableau de Paris del 1782 sembrapiùsensata:egliparla infatti di 150 suicidi all’anno nella capitale75, vale a dire unamediacheoscillafra18e 25 ogni 100.000 abitanti, equivalente a quella francese del 1990 (21 ogni 100.000 abitanti). Secondo Mercier questa cifra è in crescita dal 1760, ma «la polizia ha cura di nascondere i suicidi all’opinionepubblica». Alcuni casi celebri alimentano le conversazioni, come quello del 1° febbraio 1723, quando l’abate Raguenet si taglia la gola con un rasoio. Autore di una Vita di Cromwell, questo ecclesiastico ricco e istruito, perfettamente sano di mente, sembra avere messo fine ai proprigiorniperchéstancodi vivere. Il suo è uno dei primi suicidi filosofici del secolo, che in seguito però si moltiplicheranno,contantodi commenti di gazzettieri e memorialisti. Le famose Mémoires secrets di Bachaumont,checontengono unacronacadituttiglieventi del mondo letterario e della societàallamodadal1762al 1787, citano fra numerosi avvenimentimondaniesemimondani molte morti volontarie dettate dalla disperazione, dal dolore o dalla stanchezza per la vita, che vengono ricollegate alla modainglesedell’epoca. La curiosità manifestata in questo campo dagli autori successivi alle Mémoires secrets è indicativa del fatto che, dietro una riprovazione formale, si esprime un interesse non privo di ammirazione, ma soprattutto curioso e in qualche modo affascinato. Il 21 maggio 1762 leggiamo che, da qualche anno, molte persone muoiono di «consunzione», cioè di suicidio commesso perdisperazione:«Lepersone che hanno interesse a nascondere quest’infelicità domesticahannofattocredere che fosse un incidente. Da duemesisièaconoscenzadi più di dieci persone conosciute che sono state vittime di una tale frenesia. Questo taedium vitae è il seguito della sedicente filosofia moderna, che ha intaccato menti troppo deboli per essere veramente filosofiche»76. Il 5 maggio 1769, le Mémoires lanciano un nuovo grido d’allarme riguardo al suicidio di un giovane impiccatosi perché nonavevaavutosuccessoagli inizi della sua carriera teatrale: «Non era pensabile che questa moda britannica avrebbe influenzato i cittadini fino a questi livelli. Da qualche tempo simili eventi si moltiplicano e, oltre a quelli che non vengono resi pubblici, ve ne sono molti che vengono nascosti per riguardo delle famiglie e per evitare il progresso funesto di questa cosiddetta mentalitàfilosofica,contraria, oltretutto, anche alla politica, alla ragione e al vero eroismo»77. Il 26 settembre 1770, le Mémoires secrets commentano come segueilsuicidiodiunbarone tedesco: «Sembra che la scontentezza di vivere, che colpisce a livelli considerevoli in questa capitale, sia stata la causa di tale suicidio»78. Alcuni giorni dopo, il 5 ottobre, un tale Guillemin, primo violino delre,indebitatofinoalcollo, si uccide a coltellate, «in un accesso di disperazione». Il 26 febbraio 1772, le Mémoires secrets citano il suicidio di un uomo che si è ucciso in provincia con un colpo di pistola per ragioni puramente filosofiche, dopo aver lasciato un biglietto in cui «dichiara che, non essendo stato consultato per essere stato dato alla luce, crede di poterne anche fare a meno senza chiedere l’opinionedinessuno»79. Il16giugno1775,sempre secondoleMémoiressecrets, «in questo paese due inglesi sisonorecentementeuccisie sembrano venuti a corroborare la mania che i francesihannoattintoproprio da loro e di cui oggi danno l’esempio»80. Non è che uno scambio di favori, poiché i giornali britannici segnalano, alla stessa epoca, che numerosi nobili del continente si sono recati in Inghilterra per suicidarsi, in una sorta di pellegrinaggio nel paese della morte volontaria. Essi riportano infattiilsuicidiodiunnobile francese a Greenwich e quello del figlio di un generale tedesco a Hyde Park nel 1789; nel 1797 il figlio del «re di Corsica» si spara un colpo in testa a Westminster Abbey; l’anno seguente, in un caffè, il duca di Sorrentino decide di imitarlo. Nel 1789 ha luogo un altro suicidio altisonante, quello del figlio cadetto del cancelliereMaupeou,ilquale sbarca in Inghilterra con una grossa somma di denaro e si uccide con un colpo di pistola a Brighton, lasciando un laconico biglietto di cui nessuno capisce il senso: «Muoioinnocente,ilCielomi ètestimone». L’Inghilterra e la Francia non sono gli unici paesi toccati dall’aumento dei suicidi. In Germania, dal 1742,Süssmilchseneoccupa in un’opera che precede gli studi demografici, Die göttlicheOrdnung.Ciò che è ancora solo un abbozzo si concretizzaneglianni’80del 1700 con i primi dati concreti. Un cronista, che attinge informazioni dalle autoritàdiBerlino,trail1781 e il 1786 conta un totale di 239 suicidi nella capitale prussiana (vale a dire l’8% dei decessi), così suddivisi: 136 annegamenti, 56impiccagioni,42mortiper arma da fuoco e 8 per sgozzamento. Vengono inoltre fornite ulteriori cifre allarmanti riguardo a Francoforte sul Meno.Persinoinunapiccola borgata come Kuenzelsauam-Kocherfluss si contano quattromortivolontarieintre anni. A causa della rapida urbanizzazione, il tasso di suicidio aumenta in Prussia, ciò accentua l’indebolimento dei legami tradizionali della famiglia e della religione, destrutturando una società in piena mutazione, vittima della crescita demografica e della crisi economica. L’aumentodellapopolazione, una situazione più precaria, individui spesso lasciati a se stessi senza poter contare sulla solidarietà quotidiana: tuttelecircostanzefavorevoli sembranoessereriunite81. I suicidi diventano più numerosi anche nei paesi scandinavi. In Svezia, secondo il professor Arne Jarrick, che ha studiato gli archivi della corte criminale di Stoccolma dal 1700 al 1788 e della provincia meridionale di Västergätland dal 1635 al 182182, le ragioni più frequentemente invocate riguardano la nozione di malinconia, termine che ricopre«tristezza,malinconia, depressione, nervosismo, paura, angoscia, afflizione», cui occorre aggiungere i casi di «disperazione»,di«faticadel mondo e di se stessi». Il professor Jarrick attribuisce un ruolo importante al pessimismo religioso che contraddistingue il luteranesimosvedeseedicui dà testimonianza l’opera di Johann-Christian Arndt, Quattro libri sul vero cristianesimo. Illustrazione dello «spirito suicida della dottrinacristiana,pernondire di Cristo stesso», Arndt sostiene che «un buon cristiano deve odiare la propria vita», poiché essa è unveroeproprioinferno.Lo svedese Johann Robeck, autore di uno dei suicidi più celebri del secolo, è certamente un luterano convertito al cattolicesimo, ma è soprattutto un animo fragile.Nel1735componeun trattatoinlatinochegiustifica il suicidio, il De morte voluntaria philosophorum vivorumetbonorumvivorum. Terminato il suo libro, si vesteconisuoiabitimigliori, affittaunabarchettaaBrema, si allontana dalla costa e scompare; il suo corpo si arena sulla costa qualche giorno dopo. Il suo trattato sarà pubblicato l’anno successivo. L’anno1770inaugurauna nuovaepocadelmaldivivere suicida. A Lione due giovani amanti, il maestro d’armi Faldoni, afflitto da un male incurabile,elasuaamatache non vuole sopravvivergli, si uccidono in una cappella. Nella commozione generale gli «amanti di Lione» divengono gli eroi di un racconto intitolato Histoire tragique des amours de Thérèse et de Faldoni;, LéonardePascaldeLagouthe ne traggono ispirazione per i lororomanzi;DelisledeSales ammira i nuovi Romeo e Giulietta, e Rousseau scrive: «Il sentimento ammira e la ragione tace». Nasce così il suicidioromantico. Lo stesso anno un poeta inglese diciassettenne, genio incompreso che aspira a una rapida gloria, ridotto alla povertà,siavvelenanellasua stanza di Holborn, a Londra. Nel giro di qualche anno, Thomas Chatterton diventa un mito: poesie, dipinti, statue, fazzoletti con la sua effigie gli conferiscono una gloria postuma. Keats, Coleridge, Wordsworth e Vigny ne celebrano i componimenti. Nel 1774 il suicidio letterariodelgiovaneWerther conosce un successo prodigioso. Traduzioni e riedizioni del libro di Goethe vedono la luce a ripetizione. Presto Chatterton eWerthercreanoveriepropri emuli. Il «Times» riporta numerosi casi, come quello della bella diciassettenne Eleanor Johnson; mentre Grimm ne cita altri. La werthermania prende proporzioni inquietanti:ragazzieragazze, con una copia del libro in tasca, si annegano, si sparano in testa, si buttano dallafinestra.ScriveMadame deStaèl:«Wertherhacausato più suicidi della più bella donna del mondo». Goethevieneprestoaccusato: il professor Schlettwein lo definisce «avvelenatore pubblico»; il suo libro è considerato «infame», declama il pastore Goeze; «immorale e riprovevole», si scaglia il vescovo di Bristol; «Goethe è imperdonabile», sostiene il «Mercure de France». Reazioni assurde, evidentemente, ma significative: da secoli i romanzieri raccontavano storie di suicidi senza suscitare la minima condanna, mentre negli anni 1770 e 1780 l’opinione pubblica -molto sensibilizzataalproblema-si dichiara turbata: nel 1761 Rousseau ne discute nellaNuovaEloisa;nel1770 viene pubblicato il libro di Hume e nel 1773 appare la storia dei soldati di Saint- Denis. I giornali pubblicano nuovi casi ogni settimana. Il fattocheWertherabbiaavuto unatalerisonanzarappresenta un indice rivelatore, non una causa. Probabilmente si potrebbe sostenere la medesima constatazione oggi a proposito della pedofilia. Il romanziere che sfrutta al momento giusto un fatto sociale innesca un’eco sproporzionata. Queste reazioni, siano esse di ammirazione o di ostilità, traducono il malesserecrescentedellafine del XVIII secolo. Il mal di vivere, che prefigura il male del secolo definito in seguito da Musset, fa da cornice all’episodio rivoluzionario e imperiale. Esso riguarda essenzialmente i giovani, annoiati in questo periodo crepuscolare dell’Ancien Régime dove tutto sembra essere bloccato. La generazione successiva di giovani, non appena passato l’entusiasmo rivoluzionario, siannoierànuovamente. Il mal di vivere della gioventù preromantica è il malessere di una generazione che cresce in un mondo sclerotizzato, le cui strutture sono ormai solo schemi rigidi mentre i valori che le sostenevano hanno perso molto della loro credibilità. Questa gioventù cercaunnuovosensodadare all’esistenza, ma si trova di fronte solo le risposte stereotipate di un regime ormailogoro. LuigiXVildepressoe Voltairel’inquieto Il secolo dei Lumi trabocca di inquieti e di malinconici, specie fra gli intellettuali,manonsolo.Ilre Luigi XV era «di una tristezza e di un’inquietudine da far pietà», scrive d’Argenson,ilqualeracconta anche che nel 1741, ad esempio,duranteunacenada Madame de Mailly, «non mangiò che un morso, bevve una coppa e disse che non avrebbe mangiato di più. Dopodiché cadde in una malinconia nera simile a vapori e da cui non fu mai possibile farlo uscire, per quanta felicità si potesse portare».IlducadiLuynesha descritto il carattere depressivo del sovrano: «Il carattere del re non è né vitale, né allegro; esso ha piuttosto dell’irascibile [...]. Spesso è soggetto a momenti di tristezza e a un umore che occorre conoscere per non urtarlo; inoltre coloro che gli si avvicinano studiano questi momenti con cura e, quando li scorgono, rimandano a tempimigliori,sepossibile,i suoiordini».LuigiXV,come moltialtri,èaffascinatodalla morte. Quando passa vicino ai cimiteri, invia qualcuno a contare le tombe più recenti. Il sovrano è in armonia con il suo secolo: con la sua apatia,egliincarnailconcetto dinoia. Il suo turbolento contemporaneo Voltaire incarna, invece, il versante inquieto. Infaticabile, sempre sulla breccia, egli reagisce a qualsiasi stimolo con una sorprendente capacità di indignazione e di denuncia; egli è l’uomo affaccendato che cerca di fuggire da se stesso per evitare la noia, ed è consapevole di questo quando scrive a Madame Denis: Mais que ferai-je? Où fuir loin de moimème? Ilfautdumonde;on lecondamne,onl’aime: On ne peut vivre avecluinisanslui. Notreennemileplus grand,c’estl’ennui83. Questo avversario di Pascal è l’illustrazione stessa deiPensieri,nellasuavita,la qualeèunafugaperpetuaper evitare la noia, come nella sua opera, lunga variazione sul tema enunciato in Candido:l’uomo è «nato per vivere fra le agitazioni dell’inquietudineenelletargo della noia», o ne Les AdorateursoulaLouangede Dieu (1769): l’uomo è «continuamente in preda a due flagelli che gli animali ignorano: l’agitazione e la noia[...],lequaliequivalgono allascontentezzadisé». L’atteggiamento di Voltairevariaasecondadelle circostanze, ma è nettamente orientatoversoilpessimismo. Inuncertomodolasuavitae la sua opera sono un grande grido di indignazione contro la stupidità umana, contro le ingiustizie e i pregiudizi non sradicabili di questo animale sociale. L’intera storia non è cheilraccontodelleinfelicità edelleatrocitàdell’uomo;gli episodi si accumulano fino alla nausea. Solo la derisione permette di sopportare una consapevolezza così acuta dell’umana infelicità. «Mi corico sempre nella speranza di potermi svegliare prendendomi gioco del genereumano»,scrive. Voltaire ha conosciuto una fase ottimistica all’epoca del Mondain, negli anni ’30 del 1700, ma i lutti, i fallimenti, le delusioni, in poche parole la vita, l’hanno convinto della vera natura dell’esistenza.Sindal1746il suo ottimismo perde terreno, nell’opera Le monde comme il va: «Se non tutto è bene, tutto è passabile». Nel 1748, in Zadig, egli scrive che gli uomini sono «insetti che si divorano a vicenda su un piccolo atomo di melma». Il loro parente più vicino è la formica: «Siamo formiche che vengono continuamente schiacciate e che continuamente si rinnovano; e perché queste formiche ricostruiscano le loro case, e perché inventino qualcosa che assomigli a una poliziaoaunamorale,quanti secoli di barbarie ancora!». Queste formiche sono anche predadellecatastrofinaturali: dopoilterremotodiLisbona, «dovete sentire che il tutto è bene di Pope è solo uno scherzo che non è bene fare agli sventurati; ora, su cento uomini, ce ne sono almeno novanta che sono da commiserare. Tutto è bene non è quindi fatto per il genere umano». Non rimane checoncludere,comehafatto magistralmente Candido nel 1759: «Che cos’è quest’ottimismo? [...] è la manieradisostenerechetutto va bene quando si sta male». Certo, possiamo sempre coltivare il nostro giardinetto aspettando la vecchiaia e la morte. Ma è certo poi che questo «allontana da noi tre mali: la noia, il vizio e il bisogno»?Fraiduemali,poi, bisogna scegliere il minore. La soluzione di Candido, scrive Robert Mauzi, «significa: accettiamo la noia per sfuggire l’angoscia. Perché è proprio la noia che troverà Candido nella sua fattoria, con la sua amata avvizzita e la sua governante orba. E non può che rassegnarvisi, ritornando al ricordo delle sue esperienze passate, o abdicando a qualsiasicoscienza»84. Voltaire lascia i vari Candido locali a occuparsi deigiardinidiFernayedegli stesso partecipa alle lotte del secolo. Gli scontri politici e giudiziari sono il suo divertissement, gli permettonodifuggirelanoia, valeadire,secondoPascal,la sensazione di tristezza. Ripetiamo che PascaleVoltairecondividono profondamente lo stesso pessimismo. Il giovane Voltaire, quando nel 1728 scrive le Remarques sur les Pensées de M. Pascal, finge di non capire, ma è giàd’accordosulprincipiodi base: gli uomini ricercano il divertissement, strumento della nostra felicità più che reazione alla nostra tristezza; essi detestano l’inerzia e grazie a questo l’economia risulta prosperosa. L’osservazione è identica, anche se differisce l’interpretazione: Pascal vi intravede un motivo di malinconia, Voltaire di soddisfazione, ma di una soddisfazione molto limitata. Per mostrare che l’uomo urbano è felice, Voltaire cita una lettera di uno dei suoi amici, che scrive: «Godo di una salute perfetta, ho tutto ciò che rende gradevole la vita, senza amore, senza avarizia, senza ambizione e senzainvidia;efinoaquando tutto questo durerà avrò l’ardore di considerarmi un uomo felice». Sin da quest’epoca, Voltaire sembra avere un’idea molto modesta dellafelicità,che,percomela intende lui, suona un po’ come una sorta di rassegnazione: Tuttigliuominisono fatti, come gli animali e le piante, per crescere, per vivere per un certo tempo,perprodurreloro simili e per morire. In una satirasipotràanche mostrare il cattivo lato dell’uomo,maappenaci si serve della ragione, si dovrà ammettere che di tuttiglianimalil’uomoè il più perfetto, il più felice e il più longevo. Pertanto, invece che meravigliarci e lamentarci dell’infelicità edellabrevitàdellavita, dobbiamo meravigliarci e compiacerci della nostrafelicitàedellasua durata. In seguito Voltaire si avvicina al pessimismo pascaliano, tranne che nella dimensione religiosa. Nel 1728 egli si prende gioco di Pascal, che vede «l’universo come una prigione e tutti gli uomini come criminali che saranno giustiziati», concezionenonmoltodiversa dall’«assemblaggioorribiledi criminalisfortunati»,secondo la sua formula del 1769. E cosa dire di «questo globo che contiene solo cadaveri», di «questo penoso sogno che è la vita», di questo «incubo perpetuo», che lo portano a scrivere nel 1753: «Desidero lamorte»? Ovviamente Voltaire attraversa anche momenti felici, soprattutto quando si trova a dover risollevare il morale dei suoi amici dalle allarmanti tendenze suicide. Quante volte ha dovuto consolare la malinconica Madame du Deffand, una sorta di dovere di solidarietà fra condannati a morte: «Far sentir loro che non sono solo vittime della morte, che devono almeno consolarsi a vicenda»,scrivenelPrécisdu siècle de Louis XV. I pessimisti sono così: come se temessero di contaminare chi sta loro intorno, sono i primi a vietar loro la disperazione,chetuttaviaèla conseguenzadellaconcezione delmondochelipervade. Lanoiaalfemminile Madame du Deffand si trascina dietro una noia implacabile. L’amica dei filosofi, nonostante ami i circoli mondani, non arriva a colmare «il vuoto spaventoso» dell’esistenza e detesta la morte quanto la vita. Pochi hanno avuto la sensazione di essere presi intrappolacomelei. Madame du Deffand, nellasuariccacorrispondenza con le grandi menti del secolo, mette in piazza il suo sentimento di noia: «La noia èunmaledacuinoncisipuò liberare, è una malattia dell’anima con cui la natura ci affligge facendoci dono dell’esistenza; è il verme solitario che assorbe tutto e che non ci fa godere di niente», scrive a Horace Walpole. «Non potete immaginare cosa significhi pensare senza avere alcuna occupazione. Aggiungete a questo un gusto difficile da soddisfareeungrandeamore dellaverità,epossoaffermare che sarebbe meglio non essere nata». E poi ancora: «Ditemi perché, pur detestandolavita,continuoa temere la morte»85. Con VoltaireMadameduDeffand forma la coppia infernale noia/inquietudine. A una delle sue lettere il filosofo risponde: «Mi comunicate che vi annoiate, io invece vi rispondochemivienerabbia. Ecco i due perni della vita, l’insipidezzaoilvuoto». Penso, dunque soffro, dice in sostanza Madame du Deffand, cui, per vincere la noia, manca il senso della derisione, dell’umorismo. Al contrario la sua amica Madame de Choiseul non pensaaffattoesfoggiaquindi una felicità insolente, animale. Fate come me, consiglia a Madame du Deffand, «vivete alla giornata, prendete la vita come viene, approfittate di tutti i momenti»; «quando si tratta di felicità, non bisogna cercare di capire né come né perché»; abbiate pregiudizi, è «il solo freno ai costumi»; accettate i luoghi comuni, smettete di riflettere e sarete felice come me: «Senza sapere né come né perché, io sono felice, molto felice». Vale a dire: vivete da idioti e sarete felici; riflettete e sarete infelici. Ma non c’è idiota che tenga: una volta che si inizia a pensare, nonsipuòtornareindietro.Il mal di vivere degli intellettuali del XVIII secolo è una malattia inseparabile dal progresso del pensiero. Man mano che Dio si allontana e diventa più impercettibile, più incerto, i filosofi prendono consapevolezza della vera tragediacheèl’esistenza. IlmaldiviveredelXVIII secolo si è esteso anche alle donne.NelsecolodeiLumila donna, nella ristretta cerchia dell’élite, può finalmente pensare da sola, scoprendo quindi l’inquietudine che esprime con la sua tipica sensibilità, spesso più fine di quella degli uomini, i quali hannoperaltrobenrecepitoil pessimismo femminile di questo secolo, come testimoniano le eroine della letteratura, quelle dell’abate Prévostcomeanchequelledi Rousseau. Mademoiselle de Lespinasse non scrive forse: «Ioavreidovutofiguraresolo nei romanzi di Prévost»? In altre occasioni si paragona a Fedro e, come Madame du Deffand,sisenteintrappola: «Lamorteèilbisognopiù pressantedellamiaanimaeio mi sento incatenata alla vita»86. Ossessionata dalla suapassione,esclusiva,ellasi rinchiudenellasuavocazione all’infelicità: «Sono stata formata dal grande maestro dell’uomo,l’infelicità»87. In Madame Rolland, nata nel 1754, il risveglio della malinconia è precoce. Ha infatti solo diciassette anni, l’età dei vari Chatterton e Werther,quandoscrive: La dolce malinconia che difendo non è mai triste,essanonècheuna variazionedelpiacere,di cui prende tutto il fascino. Simili alle nuvole dorate che abbelliscono un sole al tramonto, i vapori leggeri della malinconiaintercettanoi raggi del piacere [...], è una moderazione salutare della vivacità della gioia; la addolcisce, la rende più penetrante e più duratura [...]. Essa conferisce una qualche sfumatura di grandiosità e meraviglia a una prospettiva selvaggia, a unaforestasolitaria88. Altracelebrevittimadella noiaèMadamedeStaèl.Nata nel 1766, ha solo otto anni quando viene pubblicato Werther, ma si avvicina ben presto alla «riflessione inquieta» grazie a un padre e aunamadremalinconici89.Il lungo soggiorno in esilio a Coppetaggravailsuospleen: «Mi annoio qui», scrive al suo amante del momento; «sono sempre stata molto portataallanoia»90.Eancora: «Mi annoio, amo fortemente miopadre,maèunculto,ein chiesa si sbadiglia»91. L’anziano Necker è un vecchio imbronciato che non accetta di buon grado la propria vecchiaia. Scrive sua figlia: «Non sopportava di essere vecchio e grasso; la sua stazza, che era divenuta molto grossa e che gli rendevadifficiliimovimenti, gli causava un sentimento di timidezza che lo allontanava dal mondo. Non saliva quasi mai in carrozza: non passeggiava mai quandosapevadipoteressere visto [...]. A volte mi diceva: “Non so perché mi sento umiliato dalle infermità dell’età, ma cosa posso farci, sento che lo sono”»92. Da parte sua, la signora Necker aveva spesso parlato del decadimento provocato dalla vecchiaia, che degrada sia il corpo che lo spirito, e Madame de Staél è stata visibilmente traumatizzata da questidueesempi.Ellainfatti non accetta alcun tipo di osservazione sull’anzianità del padre: «Un giorno qualcunoledissecheilsignor Necker era invecchiato, [...] ed ella rispose che avrebbe considerato suo più grande nemico chi avesse osatoripeteresimiliparole». Madame de Staél ha nutrito la sua malinconia con le letture di Rousseau, il cui fantasma abita luoghi molto vicini, l’isola di Saint-Pierre sitrovainfattinelvicinolago diBienne.Ellaèunacreatura ipersensibile:«Isuoiocchisi riempivano di lacrime alla minima parola severa o sensibile, e si potevano scorgereibattitidelsuocuore sottogliabitialminimomoto di piacere o di pena»93. Nel1790,aventiquattroanni, delinea pressappoco il suo autoritratto nel Portrait de Mélanie, una giovane donna malinconica il cui «cuore avvizzisce, la vita perdecolore».Lamalinconia, «ingrediente della tristezza», è causata dal sentimento doloroso di incompletezza del destino dell’uomo. Ritrovando l’intuizione del Problema XXX, Madame de Staél la erge a emblema del talento: «Nell’epoca in cui viviamo, la malinconia è la vera e propria ispirazione del talento: chi non si sente invaso da questo sentimento nonpuòaspirareaunagrande gloriacomescrittore». Questa grande malinconicaèanchelaprima donna ad avere scritto sul suicidio94. Nel 1796, a trent’anni, ne L'influenza delle passioni sulla felicità, Madame de Staél distingue tre tipi principali di morte volontaria. Il suicidio d’amore è, ai suoi occhi, il piùfacilmentecomprensibile, poiché «è la morte meno temibile di tutte: come sopravvivere all’oggetto che ci ha amato?». Il suicidio filosofico, più raro, presuppone «riflessioni profonde, lunghi lavori su se stessi».Soloanimed’élite,in grado di analizzare serenamente la vita umana, possono arrivare a questo autentico disgusto per l’esistenza. Il terzo caso riguarda il colpevole, per il qualeilsuicidioèuniniziodi riscatto, poiché questa «sublime risorsa» non è alla portata del miserabile assoluto. «C’è qualcosa di sensibile o di filosofico nell’uccidersi che è completamente sconosciuto all’essere umano depravato». Diciassette anni dopo, Madame de Staèl ritorna su questa materia in un piccolo trattato intitolato Réflexions sur le suicide, dove ne contempla gli aspetti psicologici e persino sociologici: gli inglesi si uccidono per impulsività e per senso dell’onore, i tedeschi per «entusiasmo metafisico», i francesi per ardimento. Molte sono le ragioni avanzate per spiegare il malessere femminile di quest’epoca, comprese le cause fisiche: la moda, che chiude la donna in una corazza;lestecchedibalenae i lacci stretti che la opprimono; l’uso di creme e di fondotinta a base di prodottipericolosiperlapelle eipolmoni(bismuto,cerussa, cinabro, zolfo, minio, piombo,mercurio);l’impiego di profumi aggressivi; il consumosmodatodicaffè,di liquoriedicibiacidi.Maldi testa,vapori,malattienervose sarebbero in parte legate a questeabitudininocive.Epoi c’è lo stile di vita: bisogna apparire, brillare nei saloni, avere degli amanti. A immagine di Madame de Pompadouredelleconcubine reali, la donna partecipa al gioco del potere e degli intrighi, e ne paga così le spese: «Il gioco incessante di tutte le facoltà, l’ambizione, la gelosia, la guerra delle rivalità, l’eccitazione dello spirito, dell’amabilità, il lavoro della grazia, le delusioni, le mortificazioni, le vanità che logorano, le passioni che bruciano, quale altra febbre per minare e far vacillare il delicato organismo della donna!»95. Queste righe sono dei fratelli Goncourt che, nel1882,nellorostudiosulla Donna nel Settecento, hanno finemente tratteggiato «l’anima femminile» di quest’epoca, divorata dall’inquietudineesoprattutto dallanoia: La sua vivacità, la sua affettazione, la sua sollecitudine nelle fantasie, sembrano un’inquietudine; e l’impazienza di un malessere appare in questa continua ricerca del gradimento, in questo famoso appetito per il piacere. La donna si prodiga in ogni direzione come se volesseuscirefuoridase stessa [...]. Tuttavia finisce sempre per fermareilsuoslancio:si ritrovaavolerfuggire,e sussurra a se stessa la sofferenzachelalogora. Riconosce il male segreto che ha dentro, il male incurabile che questo secolo porta con sé e che trascina ovunque sorridendo: la noia[...].Piùdell’uomo, per l’esigenza dei suoi istinti, per la finezza della sua sensibilità morale, per il capriccio di tutto il suo essere, la donna doveva soffrire molto di questo malessere del secolo [...]. Ella si getta nelle letture,divoralastoria,i romanzi, i racconti del giorno, e la noia le chiudeillibrofraledita [...]. Corrispondenze, memorie, confessioni, tuttiidocumenti,tuttele rivelazioni familiari del tempo tradiscono e testimoniano questo malessere interiore delle donne. Non v’è sfogo, non v’è lettera in cui il lamento della noia non ritorni come un ritornello, come un gemito[...].Lanoia,per le donne dell’epoca, è il grande male, è, come esse stesse dicono, «il nemico» [...]. Le più corteggiate, le più circondate lanciano gridadidisgustosimilia quelle del morente che gira la testa contro il muro: «Tutti i vivi mi annoiano! La vita mi annoia!»96. A partire dagli anni ’60 del 1700, le donne ergono a proprio idolo Jean-Jacques Rousseau. La spiccata sensibilità di questo autore, la sua tenerezza, la sua propensione per i sogni a occhiapertieper.l’amore,la suainclinazioneperlanatura e la solitudine ridanno unsensoallalorovita.Come iGoncourtfannonuovamente notare, Voltaire è stato lo scrittore degli uomini, Rousseau quello delle donne. Questo timido ammaliatore è stato un gran Don Giovanni sentimentale, un Casanova della tenerezza, il più grande seduttore del suo secoloehatrascinatostuolidi donne nella malinconia romantica. Secondo Madame de Genlis, una delle sue più ferventi ammiratrici, «non esisteva donna veramente sensibile chenonavesseavutobisogno diunavirtùsuperiorepernon consacrare la propria vita a Rousseau, se solo avesse potuto avere la certezza ch’egli l’avrebbe amataappassionatamente». BoswelleJohnson:il dialogodiduedepressi Due britannici in particolare incarnano questo clima culturale e permettono, grazie ai documenti autobiografici, alle memorie e alla voluminosa corrispondenza che hanno lasciato, di disquisire sulle varie componenti e modalità: si tratta del dottor Samuel Johnson, celebre autore del Dizionario, e soprattutto del suo biografo, James Boswell. Questi è un curioso e affascinante personaggio, inquieto, egoista, caratterizzato da un orgoglio puerile («sono chiaramente ungenioemeritochelagente siinteressiame»),ubriacone e soprattutto profondamente depresso. Nato a Edimburgo nel 1740, egli lascia alla sua morte un imponente diario personale in cui racconta senza il minimo pudore gli episodi della sua vita dal 1762, segno evidente di uno spirito malinconico, interamente autocentrico. Si tratta di un documento eccezionale: questo personaggiodisecondopiano si è infatti introdotto senza complessidisortaalcospetto di una moltitudine di personalità, da Giorgio III a WilliamPitt,daDavidHume adAdamSmith,daVoltairea Rousseau,daSamuelJohnson a Joshua Reynolds, trascinandolasuamalinconia pertuttaEuropa. Boswellhaseriprecedenti familiari:unnonno,duezìie una madre, tutti depressi. La sua educazione di base è traumatizzante: il calvinismo terroristico dei genitori, lo sguardo inquisitore di unpadrechenonlasciamaiil suo lavoro di giudice, un precettore severo e dogmatico, ed ecco la prima crisi depressiva all’età di dodici anni. Durante l’adolescenza egli è ossessionatodallapauradella dannazione a causa del conflittotralasuasessualitàe il rigore delle credenze calviniste. La questione del libero arbitrio e della necessità lo logora e scatena la sua seconda crisi a sedici anni. Egli diviene quindi metodista, poi cattolico, scelta che gli costa la rottura dei rapporti con suo padre. Pertuttalavitasaràdilaniato fra i bisogni sessuali, che lo condurranno alla depravazione, e il rimorso persistente suscitato dal puritanesimo dell’educazione ricevuta. Nel 1762, divenuto avvocato, si trasferisce a Londra e inizia a frequentare le celebrità, fra cui l’attore Garrick. Poi incontra Samuel Johnson che, all’epoca,hacinquantaquattro anni. Brutto, burbero, pieno di disprezzo per gli scozzesi, egli è un uomo dai giudizi perentori e tuttavia dall’intelligenza superiore, seppur priva di qualsiasi considerazione per i suoi simili. Ma dietro la sua facciata fastidiosa, questo «orso» nasconde una profonda malinconia, di cui ha subito i primi attacchi a vent’anni.Boswell,chesoffre della stessa afflizione, gli dedicheràunabiografiaincui scrive:«SamuelJohnson,che era dotato di tutti i poteri del genioedell’intelligenzaassai oltre il livello medio della natura umana, era contemporaneamente afflitto da un disturbo così terribile checolorochehannoavutola triste esperienza non invidieranno i suoi doni superiori. In un certo qual modo, sembra molto probabile che ciò sia dovuto aundifettodelnostrosistema nervoso, parte oscura della nostra costituzione»97. Ritroviamo qui il legame fra genio e malinconia. Boswell aggiunge che Johnson «si sentiva invaso da un’orribile ipocondria, perpetuamente irritato, agitato, impaziente, con un fastidio, una tristezza e una disperazione che gli rendevano miserevole l’esistenza». Boswellintrattienespesso Johnsoncondiscorsisullasua malinconia. Durante un dialogo, parlando della costituzionemalinconica [Johnson] osserva: «Un uomo che ne venga colpito, signore, deve evitare i pensieri deprimenti, e nonaffrontarlidipetto. Boswell: - Non deve quindi affrontarli, signore? Johnson: - No, signore. Affrontarli sarebbe follia pura. Egli devetenereunalampada sempre accesa di notte nella sua camera e, se soffre di un’insonnia irrequieta,deveprendere un libro e leggere, e quindi acquietarsi. Dirigere il proprio spiritoèunagrandearte, che si padroneggia solo con un alto grado di esperienzaediesercizio Boswell: - Ma non dovrebbeforsedistrarsi? Nonglifarebbebene,ad esempio, seguire un corsodichimica? Johnson:-Chesegua uncorsodichimicaoun corso di salto con la corda, o qualunque altro corsogliinteressi.Chesi sforzidiaverequantipiù rifugipossibiliperlasua mente, quante più cose possibili in cui possa fuggire da se stesso.L’Anatomiadella malinconia di Burton è un buon libro, anche se forseeccedeincitazioni. Ma c’è molto spirito e molta forza in ciò che dice quando esprime il suo pensiero personale»98. Curatedunqueilmalecon il male: quando siete malinconici, leggete libri sulla malinconia. Johnson pensa che tutti siano più o meno malinconici. Coloro che hanno un carattere equilibrato sono rari e felici, come il pittore Reynolds: «Parlando della malinconia, disse: “Alcuni, peraltro uomini di alta levatura intellettuale, non hanno questi pensieri dolorosi.SirJoshuaReynolds non ha sbalzi d’umore lungo tutto il corso dell’anno [...]. Ma credo che la maggior parte delle persone ne siano colpite a seconda delle loro capacità. Se vivessi in campagnaesoffrissidiquesta malattia, mi sforzerei di prendere in mano un libro; e ogni volta ne troverei di migliori. In verità, bisogna allontanarelamalinconiacon tutti i mezzi, eccetto l' alcol”»99. Johnson riesce a superare la propria malinconia con un accanito lavoro: scrivere un dizionarioèunantidepressivo meraviglioso; se non si diventapazzi,siguarisce.Ma Boswellsidàsempredipiùal bere e il dottore, che teme l’insorgenza della follia, gli consiglia di impegnare la mente: «L’occupazione, signore, e le privazioni, impediscono l’insorgenzadellamalinconia. Credo che, in tutto il nostro esercito in America, non un solo uomo diventi pazzo»100. Boswell cita il casodiuncommercianteche, ritiratosidagliaffari,precipita nellamalinconiaacausadella noia. Egli accoglie le sofferenze della malattia dell’infelicità come un sollievo, rispondendo così a qualcuno che lo compativa: «No, no signore, non mi compatite:ciòchesentooraè il benessere, rispetto alla torturadellospiritodacuimi sonosollevato». Johnson tenta di scuotere il suo giovane amico che parlacontinuamentedellasua malinconia, e nel 1776 gli scrive: «Leggete La malattia inglese di Cheyne, ma non lasciatevi influenzare da questa folle idea che la malinconia sia prova di lungimiranza. Sono molto deluso nel sapere che non avete aperto le vostre scatole di libri. Lo studio e la classificazioneditantivolumi vi avrebbero procurato una distrazione che in queste circostanze sarebbe stata la benvenuta, oltre che utile per tutta la vostra vita. Confesso che sono assai in collera nel vederecheviorganizzatecosì male»101. L’8 maggio 1780, esasperato,scriveancora:«Vi lamentate sempre della malinconia, e da tali lamenti devo concludere che l’amate.Nessunoparladiciò che vuole nascondere, e tutti vogliono nascondere ciò di cui hanno vergogna. Non negatelo; manifestum habemus furem; imponetevi la regola invariabile e obbligatoria di non fare mai menzione delle vostre malattie mentali. Se non ne parlerete mai, ci penserete poco, e se ci penserete poco, vi disturberanno raramente. Quando ne parlate è chiaro checercatedellelodi,odella pietà;manonc’èpostoperle lodi, e la pietà non vi sarà di alcun beneficio. Quindi, a partiredaora,nonparlatenee nonpensatecipiù»102. L'internazionaledella malinconia Boswell è un depresso incurabile.Nelfrattempo,nel 1763, intraprende un viaggio in Europa per chiarirsi le idee. Tuttavia sarà un giro nell’Europa malinconica, durante il quale incontrerà tutti i grandi depressi dell’epoca e scambierà impressionisulmaldivivere. Nel racconto del suo viaggio distinguiamo una sorta di internazionale della malinconia, un clima di malessere ampiamente diffuso negli ambienti intellettuali. Il viaggio inizia in Olanda, dove Boswell intraprende alcuni studi giuridici e subisce un grave attaccodiipocondria,durante il quale teme di diventare pazzo. Il secondo attacco esplode quando gli viene comunicatalamortedelfiglio naturale che aveva avuto da una serva e che non aveva mai visto. Si sposta poi in Prussia. A Brunswick incontra l’abate Jérusalem, chelometteapartedellesue tentazionisuicide:sitrattadel padre di Karl Wilhelm Jerusalem, che si suiciderà nel 1772, ispirando Goethe per il suo Werther. Boswell raccoglie anche la storia di Gualteri, un nevrastenico che si getta dalla finestra durante un pasto con un principe ereditario, e quella di un ministro francese ipocondriacocheogninottesi faceva legare al letto perché aveva paura di suicidarsi. A Lipsia incontra il poeta ChristianGeliert,checrededi morire ogni notte da vent’anni;aCasselincontrail «grande ipocondriaco» Landgrave. Le lettere che scrive a Johnson esprimono i suoi timori di una ricaduta depressiva, timori accresciuti dalle osservazioni dei suoi interlocutori: «Late attenzione, rischiate di diventare ipocondriaco! Bevete molta acqua e fate dell’esercizio fisico», gli consiglia Madame Kircheisen; «Avete una tendenza alla malinconia che vi rende molto instabile», osservaMadamedeFroment, che insiste: «Dovete essere davvero malato per avere pensieri simili!»; «Lateattenzioneagliincubi», lo ammonisce il generale Wylich. Dopo la Prussia, Boswell si reca in Svizzera. Qui, a pochi chilometri l’uno dall’altro,vivonoiduegrandi maestridelpensieroeuropeo, VoltaireeRousseau.Boswell è alla ricerca di un’autorità intellettuale e morale, di un direttore spirituale, di un padre sostitutivochesiaingradodi guidarlo, di rassicurarlo, di indicargli la strada. Perché il mal di vivere significa non trovare il senso della vita. Forse il grande Jean-Jacques halarisposta?Avvicinandosi a Mòtiers, Boswell inizia a sentirsi agitato e «splenetico». Egli si prepara al colloquio con una vera e propria ascesi: giura che non toccherà più una sola donna primadiavervistoRousseau, vale a dire per tre giorni, forse quattro. Il filosofo ha cinquantadue anni ed è fisicamente mal ridotto; Thérèse Le Vasseur, che gli hadatocinquefigli,tuttifiniti all’ospiziodiParigi,vegliasu di lui. Nonostante la stanchezza, egli accorda comunque cinque colloqui, calcolatialminuto,algiovane scozzese, che gliene è riconoscente: «Mi avetedimostratomoltabontà, che peraltro merito». Boswell, che si presenta a Rousseaucomevisitatore,gli fa dono di una breve autobiografia in cui delinea le cause della sua malinconia e si definisce un Eros ipocondriaco: ereditarietà, inquietudine religiosa aggravata dal calvinismo familiare, che entra in conflitto con i suoi forti bisogni sessuali. Egli ha preparato una lista di domande e di temi di conversazione: «suicidio; ipocondria, male reale; follia ereditaria; gesti estremi; le vostre argomentazioni». Egli chiede persino al filosofo se riuscirebbe ad avere trenta donne alla volta, seguendo l’esempio dei suoi patriarchi.Rousseaufalasua parte, è prodigo di consigli. Boswell, così pieno di sé, gli confessa candidamente il suo sgomento: «Mi considero continuamente un essere miserabile, un buono a nulla che dovrebbe sopprimersi». Tuttavia resto in vita: «È ciò che ognuno di noi non può trattenersi dal fare», risponde Rousseaudivertito103. Qualche giorno dopo, Boswell si reca a Fernay, doveriesceaottenerediversi colloquiconVoltaire.Siparla molto di Shakespeare, che Voltairedetesta,edell’Essere supremo, che invece venera. Il filosofo è sempre uguale a se stesso, sarcastico e affascinante, cosa che perlomeno distrae Boswell. Eglièalsettimocielo:«Sono proprio un personaggio sorprendente! Vengo accolto ovunque dal plauso e dal consenso di tutti, e le personalità più eminenti mi riservano l’accoglienza migliore. E per quale motivo poi? Non sono né un grande erudito né un uomo dal giudizio sovrano. Ma il mio animo è nobile e ciò traspare in tutto ciò che dico o faccio. Ho fantasia, umorismo e una buona conoscenza della natura umana»104. Ecco un esempio deltoccanteegocentrismodel malinconico. DaFernayBoswellarriva in Italia: Torino, Parma, Modena, Roma, dove incontra varie celebrità: il naturalista Needham, il filosofo Condillac. Poi, sempre mosso dalla sua malinconia, eccolo in Corsica, dove stringe amicizia con Paoli. Ovunque si fermi, la sua curiosità morbosa lo spinge a visitare le prigioni per andare a trovare i condannati a morte, o assistere alle esecuzioni. Egli interroga i malcapitati, vuolesapereciòcheprovano prima d morire e cerca di leggere gli stati d’animo sui lorovolti.«Provounimpulso irresistibile a essere presente a ogni esecuzione, perché cosìpossoosservareidiversi effetti dell’approccio della morte sugli infelici condannati, in funzione dei lorodiversicomportamenti.E studiandonegliatteggiamenti, imparo a placare e a fortificarelamiaanima»105. Boswell rientra dal suo viaggio con un accresciuto bagaglio di esperienze in svariaticampi.Egliincontraa Londra Benjamin Franklin e William Pitt, ritrova Paoli esiliato, poi si reca in Irlanda per un breve soggiorno e ritorna a Edimburgo, dove inizia a esercitare la professione di avvocato.Nel1769sposasua cugina Margaret Montgomery. La poverina non sa cosa l’aspetta. I primi due anni trascorrono felici, in questo lasso di tempo Boswell smette di tenere il suo diario privato, cosa significativa come sottolinea il suo recente biografo Maurice Lévy: «Il diarioèunostrumentocontro la depressione, il mezzo per esteriorizzare o tenere lontani i demoni intimi: un’arma per i momenti di crisiodiipocondria»106. Poiinizialadiscesanegli inferi. Boswell cade nuovamente in depressione: alcol, donne, violenze, noia, gioco, angosce metafisiche. Estremamente consapevole del suo decadimento, egli ne descrive le tappe nel suo diario. Nel 1774 suo fratello diventa pazzo; Boswell teme chelostessomaleincombasu di lui e affoga la sua «malinconia nera» nell’alcol. Egli alterna i soggiorni a Londra, dove conduce una vita dissoluta, con quelli a Edimburgo, dove muore di noia. I suoi scrupoli religiosi sono sempre ben presenti, così come lo è anche l’ossessione della morte: quando uno dei suoi clienti, John Reid, viene condannato a morte, ebbene, egli fa eseguire il suo ritratto in prigione da un pittore scozzesealfinediconservare itrattidiunuomochestaper morire. Mentre l’artista lavora, Boswell intrattiene il condannato sulla sua imminente esecuzione. Egli annota sul suo diario: «Volevo che il ritratto fosse eseguito mentre incombeva su di lui la minaccia della pena capitale. Se dovesse essere graziato, non dovrebbe esserne informato prima che il quadro sia terminato»107. Egli non perde mai occasione per interrogare colorochestannopermorire, aquestoriguardonehagiusto uno illustre a due passi da casa sua: si tratta di David Hume, un ateo dei più convinti. Il 7 luglio 1776, Boswell lo va a trovare e lo subissadidomande: - «Vicino alla morte, continuate a negare qualunquetipodivitafutura? - Certo... L’idea che possiamo esistere per sempre mi sembra del tutto irragionevole. -Ilpensierodelnullavi spaventa? - Per niente: il nulla dopo la morte non è più spaventoso di quello che precedelanascita». Boswell vacilla: «Non ho potutofareamenodisentirmi assalito da dubbi estemporanei davanti allo spettacolo di un uomo così eminente, così colto, che accettaval’ideadelnulla»108. Allo stesso modo importunerà il vecchio Johnson morente e un vicino ottantaseienne, Lord Kames. Boswell è in attesa di rivelazioni, pone ansiosamenteledomandepiù insidiose, spia i volti; vorrebbe che i morenti confessassero il proprio terrore, e quasi scandalizzato dalla loro calma, osserva indispettito a proposito di Lord Kames: «Nulla che ispirasse il rispetto, nulla di edificante, nessun pensiero pio,nulladisolenneinquesto vecchio giunto alla fine della sua vita!». Quando tocca a suo padre nel 1782, viene colto dalla stessa sorpresa. Nella malinconia di Boswell ci sono tutte le domandedeifilosofi:«Perché esisto? Perché questo mondo è stato creato?»; perché la morte, la sofferenza? Tutto è vano,qualèilsignificatodel tutto? Questi interrogativi lo torturano, egli cerca risposte nelle letture, in particolare in Fénelon e Bourdaloue, e si recaadascoltareisermoniin varie chiese: egli va dai presbiteriani, dagli anglicani, dai glasiti (setta scozzese di John Glas), e persino dai cattolici, nella cappella portoghese di Edimburgo. Tutte queste campane contraddittorie non fanno che accrescere la sua confusione.Nel1781pensaal suicidio, mentre le sue ossessioni proseguono nei sogni. Dice di essere «lugubremente triste», «in una specie di disperazione», «tristemente depresso», «di umorefunebre».Visitapoila prigionediNewgate,studiail voltodegliimpiccati. Dal 1777 al 1783, Boswell trova un modo per esorcizzare la malinconia, almeno in una certa misura: egli pubblica una cronaca dedicata ai suoi argomenti preferiti,lamorte,l’angoscia, ilbere,laverità,nel«London Magazine», sotto lo pseudonimo de «L’Ipocondriaco». In questa rubrica riversa i suoi interrogativi, dà consigli a colorochesoffronodiquesta depressione dello spirito, che egli descrive da vero intenditore: stato di apatia, irrisolutezza, incapacità di prendere una decisione persino nei campi più insignificanti, disprezzo per se stessi, pensieri cupi, pessimismo, fantasie funebri, irritabilità, crisi d’angoscia. Sin dal suo primo articolo si riferisce naturalmente ad Amleto,ilcuicomportamento riflette questi sintomi, e ammette che scrivere gli procura sollievo. Il suo iter ricorda quello del suo malinconico predecessore Robert Burton, che scriveva, anche lui, per guarirsi. Nella ricerca di tutti i rimedi possibili, si rivela essere estremamente contraddittorio: egli infatti raccomanda la pratica religiosa,maanchequelladei piaceri terrestri, a suo avviso prefigurazione dei piaceri celesti:ilvinoeledonne. Nel 1786, dopo molte esitazioni, Boswell si trasferisce a Londra con la sua famiglia, ricadendo nell’ipocondria, nell’alcolismo e nella dissolutezza. La sua sposa deperisce; nel suo diario Boswell si analizza lucidamente, dilaniato da un lato dai rimorsi e, dall’altro, dal bisogno di giustificarsi: «Mia moglie sta molto male edèmoltodepressa[...],sono turbato, nel mio intimo, da questa ricerca sfrenata del piacere che mi ha fatto lasciare una sposa precipitata nello sconforto, proprio lei che non mi avrebbe mai abbandonato, nemmeno nella minimaindisposizione[...].In verità sono convinto di avere fatto bene: poiché ho aggiunto al mio bagaglio alcune esperienze gradevoli, che più avanti diventeranno ricordifelici;sefossirimasto a casa, mi sarei tormentato e avrei fatto più male che bene a mia moglie». La sua povera moglie muore il 4 giugno1789. Sommerso dai problemi finanziari,Boswellsimetteal servizio di Lord Lonsdale, che lo usa per i compiti subalterni più umilianti. Gli resta un’ultima ragione per vivere: ha iniziato a scrivere La vita di Samuel Johnson. Ma ecco arrivare la nuova disillusione: Sir John Hawkins ne pubblica una giustopochimesiprimadella sua.Immensafrustrazioneper uno scrittore, soprattutto per un biografo: l’opera di Hawkins non è ben fatta, ma per il grande pubblico un JohnsonèunJohnson,perché scriverneunsecondo? Boswell pubblica comunque la sua voluminosa opera (millecento pagine in quarto) nel 1791. Il libro è avvincente, commovente, molto poco convenzionale. Quando un malinconico, arrivato quasi alla fase terminale della disperazione, racconta la vita di un altromalinconico,leduevite siconfondono.Labiografiaè al contempo autobiografia e ciraccontasiadiBoswellche di Johnson. Il successo dell’opera è anche dovuto al fatto che si trova in linea con questo XVIII secolo che volge al termine e che vede sorgere il sole nero della malinconiaromantica. Dopo lunghi anni di lavoro dedicati a questa enorme opera, Boswell si ritrova di fronte a un vuoto spaventoso. Riecco affiorare il triste dilemma: alle sofferenze della scrittura segue la temibile noia del riposo. Boswell non ha più alcuno scopo nella vita.Scrive:«Finito,finito,il sognoèfinito.Leingannevoli illusioni della vita sono finite», e al suo amico Malone: «Se solo potessi avere un obiettivo nellavita!».Nell’autunnodel 1792, in questa stagione lugubre, il suo diario diventa una litania disperata: «Nessuna voglia di vivere [...], depresso e nervoso [...], non sono più me stesso [...], tristemente abbattuto [...], il ghiaccio ipocondriaco continua a non sciogliersi [...],diumorelugubreeiroso [...], disperazione e ozio...»109. Boswell si trascinafinoal1795. La vita patetica di questo personaggio illustra l’inquietudine delle élite nel secolo dei Lumi. Boswell spinge fino alla patologia il maldiviverediun’epocache si nutre del vuoto creato dal dubbio religioso. Immerso in un mondo vitaiolo e decadente, egli è tormentato fino alla fine dagli scrupoli legati alla sua educazione calvinista. Combattuto fra dueparadisi,quellopromesso dalla religione nell’aldilà e quello offerto dai piaceri terrestri, egli non ha conosciuto che l’inferno. Il godimentodeipiaceriterrestri è annientato dal pensiero dei piacericelesticheforsesista perdendo.Ilmaldiviveredei Lumièquellodelleepochedi transizione, in cui lo spirito esitafraduesistemidivalori: la vecchia religione non è morta, poiché continua ad assillare le coscienze, mentre le promesse della ragione si fanno sempre più concrete. Fluttuante e irrisolto, lo spiritohaunasolacertezza:il tempo passa, non utilizzato, sprecato, perduto fra inquietudineenoia. 1J. DEPRUN, La philosophie de l’inquiétude en France au XVIIesiècle, J. Vrin,Parigi1979. 2 J. LOCKE, Drafts for theEssayConcerningHuman Understanding and other Philosophical Writings, in TheClarendonEditionofthe Works of John Locke, a curadiP.H.NidditcheG.A.J. Rogers, e successivamente di John W. Yolton, Clarendon Press, Oxford 1990. 3 J. LOCKE, Drafts for theEssay...,cit. 4 H. DE BOULAINVILLIERS, Réfutation des erreurs de Benoit de Spinoza, Bruxelles1731,p.191. 5Ivi,p.192. 6 B. LAMY (padre), Trattenimentisopralescienze del padre Bernardo Lami prete dell’Oratorio di Francia, nei quali s’insegna il metodo di studiare le scienze, e come valersi di queste pel buon regolamento dell’intelletto, e del cuore,in Rovereto: nella stamperia di Pierantonio Berno librajo, 1734. 7 Fr.-R. DE CHATEAUBRIAND, Essai historique, politique et moral sur les révolutions ancienne set modernes, considérées dans leurs rapports avec la Revolution française, libro I, 1°parte,cap.LXX. 8 L. DE LACAZE, Le templedubonheur, Bouillon, 1769,1.1,p.278. 9Ivi,p.280. 10 X. BICHAT, Recherches physiologiques sur la vie et la mort, Parigi 1800; trad, it., Ricerche fisiologiche intorno alla vita ed alla morte, Co’ Tipi dell’ed. Giuseppe Antonelli, Venezia1841. 11 Ph. PlNEL, Nosographie philosophique, Parigi, anno VI; trad, it., Nosografia filosofica o il Metododell’analisiapplicato allamedicina,Napoli1823. 12 D. DIDEROT, Jacques il fatalista e il suo padrone, Mondadori, Milano 1965. 13 P. ROUSSEL, Systemephysiqueetmoralde lafemme,Parigi,5°ed.1809, p.15[1775];trad,it.,Sistema fisico e morale della donna: con un frammento del Sistema fisico e morale dell’uomo, e un Saggio intorno alla sensibilità, Borroni e Scotti, Milano 1853. 14Ibidem. 13 D. DIDEROT, Sur les femmes, in CEuvres, Gallimard, Parigi 1946, p. 954. 16 J.-J. ROUSSEAU, Giulia o la Nuova Eloisa: lettere di due amanti, di una cittadina ai piedi delle Alpi, Rizzoli,Milano1964. 17 FEUCHER D’ARTAIZE, Réflexionsd'unjeunehomme, Londra, Parigi 1786, t. I, p. 169. 18FR.QUESNAY,Essai physique sur l'économie animale, chez Guillaume Cavelier,Parigi1747,p.255. 19 A. LE CAMUS, Médecine de l'esprit, Parigi 1753,t.I,p.299. 20Ivi,t.1,p.300. 21 J.-F. DUFOUR, Essai sur les opérations de l'entendement et sur les maladies qui le dérangent, Amsterdam, Parigi 1770, p. 357. 22 T. WlLLIS, Opera omnia, Lione 1681, t. II, p. 238. 23 H. BOERHAAVE, Aphorismes de Monsieur Hermaan Boerhaave sur la con-noissance et la cure des maladies, Parigi 1745, n. 1089. 24 A. LE CAMUS, Médecine...,cit.,t.I,p.299. 25R.WHYTT,Traitédes maladies nerveuses, hypocondriaques et hystériques,Parigi1777,t.II, p.132. 26J.RAULIN,Traitedes affections vaporeuses du sexe: avec l'exposition de leurs symptömes: de leurs differentes causes: et de la méthode de les guérir, Parigi 1758,p.340. 27 F. DOUBLET e J. COLOMBIER, Instructions sur la manière de gouverner et de traiter les insensés, «Journal de médecine», agosto1785. 28 G.G. CHEYNE, The EnglishMalady,oraTreatise of Nervous Diseases of allKinds,asSpleen,Vapours, Lowness of Spirits, Hypocondriacal and Hysterical Distempers, etc., Londra1733;J.V.TOALDO, Della vera influenza degli astri sulle stagioni e mutazioni di tempo, saggio meteorologico di Giuseppe Toaldo; in Padova: nel Seminario appresso TommasoBettinelli,1797.Su tuttequesteinterpretazioni,si veda J. SENA, The English Malady: the Idea of Melancholy from 1700 to 1760, Princeton University Press,Princeton1967. 29 Passaggi citati in A. SOLOMON, Il demone di mezzogiorno: depressione: la storia, la scienza, le cure, Mondadori,Milano2002. 30 Lettres de Madame duchesse d’Orléans née princesse palatine, a cura di O.Amiel,MercuredeFrance, Parigi1981,p.175. 31 B. LAMY (padre), Démonstrations ou preuves évidentes de la vérité de la religion,Parigi1705,p.150. 32I. KANT, Osservazioni sulsentimentodelbelloedel sublime, Fabbri, Milano 1996,pp.95-97. 33J.RAULIN,Traitédes affections..., cit; P. POMME, Traite des affections ναροreuses des deux sexes: contenant une nouvelle méthode de traiter ces maladies fondée sur des observations, 1760; trad, it., Saggio sopra le affezioni vaporose de’ due sessi: contenente un nuovo metodo di trattar queste malattie fondato sopra delle osservazioni: in Napoli, pressoG.Raimondi,1765. 34 Uccello che si nutre dicarogneeanimalimarinie d’estate diventa predatore di pinguini e altri uccelli antartici[N.d.T.]. 35 Mémoires secrets pour servir à l’histoire de la République des Lettres en France depuis 1762 jusquà nos Jours. Memorie dette di Bachaumont, dal nome di Louis Petit de Bachaumont (1690-1771), la cui raccolta di curiosi aneddoti dal 1762 al 1771 è stata continuata da Pidansat de Mairobert, morto suicida, e in seguito da Moufle d’Angerville fino al1787,t.IV,p.37. 36R.FAVRE,Lamortau siècle des Lumières: dans la littérature et la pensée françaises, Presses UniversitairesdeLyon,Lione 1978. 37Veniamoquaggiùun soloistantepersoffrire/dare un’occhiataattornoemorire. 38 J. DORAT, Le malheureux imaginaire, cit., Prefazione. 39 R.MAUZI, L'idee du bonheur au XVIIIe siècle, AlbinMichel,Parigi1994. 40 L.-S. MERCIER, TableaudeParis,Amsterdam 1782,XII,279. 41 P.-V. DE BÉSENVAL, Mémoires, in Bibliothèque des mémoires relatifsàl’histoiredeFrance pendant le XVIIIe siècle, Parigi1857,t.IV,p.40. 42 LE FRANC DE POMPIGNAN, Hymne VIII, «Quanto è infelice l’uomo, quantoècrudelelasuavita!/ Nasce come il fiore e come lui viene calpestato; /I suoi mali sono mille volte più numerosideisuoigiorni[...]/ Dio che mi hai condannato, perché mi hai fatto nascere, / Se devo soffrire per sempre?» [traduzionenostra]. 43 J. Blondel, Loisirs philosophiques, Parigi 1756, p.84. 44 Citato da B. PLONGERON, Théologie et politique au siècle des Lumières, 1770-1820, Droz, Parigi1973,p.26. 45 FEUCHER D’ARTAIZE, Réflexions...,cit.,p.13. 46P.J.B.NOUGARET, Les méprises ou les illusions du plaisir, Berlino e Parigi 1780,t.I,p.87. 47TRUBLET(ABATE),Essais surdiverssujetsdelittérature et de morale, Parigi 1735, t. III, p. 259; trad, it., Volgarizzamento di saggi sopra diverse materie di letteratura e di morale del sig. ab.e Trublet, in Firenze: nella stamperia Mouckiana,1753. 48 Citato da R. FAVRE, Lamort...,cit.,p.463. 49F.GALIANI(abate), Correspondance,Parigi1881, 2vol.,t.II,p.267. 50 G. MINOIS, Les origines du mal: une bistoire du péché origine!, Fayard, Parigi2002. 51 N. DE MALEBRANCHE, Colloqui sullametafisicalareligionee lamorte,EdizioniSanPaolo, Milano1999,IXcolloquio,p. 286. 52 P. HAZARD, Le problème du mal au XVIIIe siècle, «Romanie Review», 1941,p,163. 53J.-J.ROUSSEAU,Le passeggiate del pensatore solitario, Terza passeggiata, UTET,Torino1968. 54 R. Mauzi,L'idee du bonheur...,cit.,p.24. 55Ivi,p.79. 56 G.G. CASANOVA, Memorie, Garzanti, Milano 1999. 57 P.H. D’HOLBACH, Systeme social, Londra 1773,1.1,p.181. 58 J. BLONDEL, Loisiris...,cit.,p.38. 59 TRUBLET (ABATE), Essais...,cit.,t.III,p.255. 60 L.-S. Mercier, Tableau...,cit.,t.1,p.XV. 61 D. DIDEROT,(Euvres complètes, a cura di J. Assézat e M. Tourneux, Parigi 1875-1877, 20 voll., t. II,p.427. 62L.-J.LÉVESQUE DE POUILLY, Théorie des sentimentsagréables,Barillot &fils,Genève1747. 63 G. Dubois de Rochefort, Histoire critique des opinions des andern et des systèmes des philosophes sur le bonheur, Knapen & fils,Parigi1778. 64 P.-V. DE BÉSENVAL, Le Spleen, Flammarion, Parigi1899,p.37[1757]. 65 W. CONGREVE, The Complete Works, a cura di M. Summers, Londra 1923,t.III,p.206. 66J.EVELYN,TheDiary ofJohnEvelyn,acuradiE.S. de Beer, Clarendon Press, Oxford,1955,p.593. 67 Lettres de Madame duchesse d’Orléans née princesse palatine, a cura di O.Amiel,MercuredeFrance, Parigi1981,p.129. 68W.WITHERS,Some Thoughts concerning Suicide or Self-killing, Londra 1711,p,3. 69 «World», 16 settembre1756,p.1161. 70 Si veda G. Minois, Histoire du suicide, Fayard, Paris1995. 71 F. GRIMM, Correspondence litteraire philosophique et critique, a cura di M. Tourneux, Nendeln,Liecht,t.IX,p.231. 72 S.-P. HARDY, Mes loisirs,Parigi1772,p.323. 73 Fr.-X. DE Feller, Catéchisme philosophique, Parigi 1773, p. 139; trad, it., Catechismo filosofico, ossia Raccolta di osservazioni proprie a difendere la religione cristiana contro de’ suoi nemici, presso Domenico Sangiacomo,Napoli1805. 74BARRUEL(abate),Les Helviennes, Parigi 1781, t. IV,p.272. 75 L.-S. MERCIER, Tableau...,cit.,t.III,p.193. 76 Mémoires secrets..., cit.,t.XVI,p.153, 77Ivi,t,IV,p.234. 78Ivi,t.V,p.171. 79 Memoires secrets..., cit.,t.VI,p.101. 80Ivi,t.VIII,p.79. 81 H. BRUNSCHWIG, La crise de l’état prussien à la finduXVIIIesiedeetlagenèse de la mentalité romantique, PUF, Parigi 1947. 82 Informazioni gentilmente fornite dal professorJarrick. 83 Cosa farò? Dove fuggiròlontanodamestesso? / Il mondo è necessario; locondanniamo,loamiamo:/ Non si può vivere né con lui né senza di lui / Il nostronemicopiùgrandeèla noia. 84 R. MAUZI, L'idee du bonheur...,cit.,p.68. 85 Sulla noia di Madame du Deffand, si veda M. HuGUET, L' ennui et ses discours,PUF,Parigi1984. 86 J. DE LESINASSE, Lettres de Mademoiselle de Lesinasse,Parigi1811,p.60. 87Ivi,p.91. 88 MADAME ROLLAND, Delamélancolie,1771. 89 J.-D. Bredin, Une singulière famille, Jacques Necker, Suzanne Necker etGermainedeStaèl,Fayard, Parigi1999. 90 G.N. de StaelHolstein,Dixannéesd'exil,a cura di S. Balayé e M.V. Bonifacio, Fayard, Parigi 1996,p.313. 91Ibidem,letteraasuo maritodel5febbraio1796. 92 G.N. DE STAELHOLSTEIN, Da caractère de Monsieur Necker et de sa vie privée, in J. NECKER, Manuscrits,acuradiG.N.de Stael-Holstein, Ginevra, annoVIII,p.122. 93 B. DE ANDLAU, La jeunessedeMadamedeStael de 1766 à 1786, Droz,Ginevra1970,p.115. 94 M. OZOUF, Germaine ou l’inquiétude, in Les Mots des femmes. Essai sur la singularité française, Fayard,Parigi1995. 95 E. e J. DE GONCOURT, La femme au XVIIIe siècle, Flammarion, Parigi 1982, p. 321; trad, it., La donna nel Settecento,Feltrinelli,Milano 1983. 96 E. e J. De GONCOURT, Lafemme...,cit. 97J.BOSWELL,TheLife of Samuel Johnson, Londra 1924, 3 voll., t. I, p. 30 trad, it., Vita di Samuel Johnson, Garzanti,Milano1954. 98Ivi,t.II. 99 J. BOSWELL, The Life...,cit. 100Ibidem. 101Ibidem. 102J.BOSWELL,TheLife..., cit. 103 C.H. KULLMAN, BoswellinterviewsRousseau: A Theatrical Production, «The South Carolina Review», 21, n. 2, 1989, pp. 30-45. 104CitatodaM.LÉVY, Boswell, un libertin mélancolique: sa vie, ses voyages, ses amours et ses opinions, ELLUG, Grenoble 2001,p.102. 105Ivi,p.265. 106Ivi,p.180. 107M.LEVY,Boswell..., cit.,p.221. 108 R.B. SCHWARTZ, Boswell and Hume: The Deathbed Interview, in New Light on Boswell: Critical and Historical Essays on the Occasion of the Bicentenary oftheLifeofJohnson,acura di Greg Clingham, Cambridge University Press, Cambridge1991,pp.16-25. 109 M. LÉVY, Boswell..., cit.,p.372. Capitolosettimo IImaledelsecolo romantico:dalfuroredi vivereallospleen(XIX secolo) Nel 1836, nelle Confessioni di un figlio del secolo,ilventisettenneAlfred de Musset tenta di definire il malessere della sua generazione. Egli lo chiama «male del secolo» e lo presenta come l’immensadisillusioneditutti igiovaninati,comelui,frail 1800 e il 1810, che hanno avuto un’infanzia cullata nell’eco dell’epoca napoleonicaechesiritrovano ora sotto la cappa di piombo della Santa Alleanza: «Appena apparve nel cielo l’astro algido della ragione, e i suoi raggi, simili aquellidellafreddadeadelle notticheriversaluceprivadi calore, avvilupparono il mondo in un sudario livido [...], una sensazione di malessereinesprimibileiniziò afermentareintuttiigiovani cuori». Lanoiadeigiovani I giovani si annoiano: è stata loro sottratta ogni prospettiva esaltante, ogni sogno politico di grandezza. Dal 1815 svaniscono le speranze, o le illusioni, di libertà, di uguaglianza e di fraternità.Ritornanoivecchi, e con loro l’antico ordine viene restaurato. Che fare dunque,senonrinchiudersiin se stessi, esplorare il proprio mondo interiore, coltivare i sentimenti leggendo gli scritti preromantici?Lagenerazione precedente ha preparato il terreno: Goethe, nato nel 1749; Chateaubriand, cui la madre «inflisse la vita» nel 1768; Senancour, venuto in questo triste mondo nel 1770; Kleist, strappato al nulla nel 1777, e tutta la schiera degli inglesi malinconici, Coleridge (1772),Byron(1788),Shelley (1792), Keats (1795), già autori di migliaia di poesie e romanzi atti ad alimentare i pensieri oscuri. Prosegue Musset: «Quando le idee inglesi e tedesche passarono quindi sulle nostre teste, fu come un disgusto tetro e silenzioso seguito da una terribile convulsione [...]. Fu come la negazione di tutte le cosedelcieloedellaterrache puòesseredefinitadisincanto o,volendo,disperazione». Il mal di vivere preromantico e romantico è anzituttotipicodeigiovani,la cuienergianontrovasfogoe la cui necessità di sposare grandi cause viene doppiamente frustrata. La prima generazione, delusa dallafreddaragioneincuigli Illuministi avevano riposto tuttelelorosperanze,sivolge ora verso i sentimenti. Per questi giovani i sentimenti si sintetizzano nell’amore, e l’amore è tragico, sempre minacciato dal tempo, dal tradimento, dalla morte. Gli eroi romantici, Werther, René e Oberman, sono tutti infelici. Oberman, ad esempio,pubblicatonel1804 da Senancour, è il prototipo del giovane romantico. Assetatodiassoluto,diverità e di eternità, non fa che incontrare sulla sua strada grettezza, falsità ed effimero. «Cosa mi importa di ciò che può finire?» si chiede. Deluso dalla vita, egli si trascina nella noia, indifferente nei riguardi del futuro, da cui non si aspetta nulla, «e disposto a dimenticare senza fatica il passatodicuinonhogoduto. Ma c’è in me un’inquietudine che non mi lasceràmai;èunbisognoche non conosco, che non concepisco, che mi comanda, mi assorbe, mi travolge al di là degli esseri perituri»1. Triste, stanco, non può tuttavia fare a meno di godere della propria sofferenza: «Da dove viene all’uomolapiùduraturafrale gioiedelsuocuore,lavoluttà della malinconia, l’incanto pieno di segreti che lo abbevera dei suoi dolori e fa sìcheeglicontinui,cosciente della propria rovina, ad amarsi?»2.Obermanèintutto epertuttofratellodelChilde HarolddiByronedelRenédi Chateaubriand,perilqualela vita è permeata da un «profondo sentimento di noia», dell’Adolphe di Benjamin Constant, che deplora i danni causati dall’introspezione, «quest’analisi perpetua per la quale esiste una ragione recondita per tutti i sentimenti, e che in questo modo vengono corrotti all’origine». Leggendo Oberman nel 1833, SainteBeuve ha visto chiaramente come questo libro fosse l’espressione del male del secolo. La seconda generazione, chevedelalucenegliannitra il1800eil1810,subisceuna seconda frustrazione. Scrive infatti Musset nelle Confessioni·. «Tutti questi bambinieranonatidurantela guerra, per la guerra. Avevanosognatoperquindici annilenevidiMoscaeilsole delle Piramidi [...]. Avevano tutto un mondo nella testa; guardavano la terra, il cielo, le strade e i sentieri; tutto eravuoto,elecampanedelle loro parrocchie risuonavano solitarie in lontananza». Poi, nel 1830, in Francia si passa di male in peggio con l’avvento della monarchia borghese.Cheidealepossono proporre ai giovani i vari Laffitte e Guizot se non quello di arricchirsi? Dopo il naufragio dell’idea di progresso razionale degli Illuministi, dell’ideale di libertà del 1789, di gloria militare imperiale, di uguaglianza fraterna delle «TreGloriose»,nonrestache la prospettiva di un’austera esistenzadaborghese.Inaltri paesi la situazione non è migliore: la Santa Alleanza massacra tutto ciò che si muove sul continente europeo, mentre in Inghilterra, dopo le follie della Reggenza, s’instaura l’èra vittoriana, la quale impone i propri valori dalle catapecchiedelproletariatoai saloni soffocanti dell 'Establishment. La scienza comincia sin da ora la sua opera di disincanto sul mondo. Ernest Renan constaterà nel 1848 chelascienza,«applicataalla naturai ne ha distrutto il fascino e il mistero, adducendoforzematematiche laddove l’immaginazione popolare vedeva vita, espressione morale e libertà [...], ed è possibile che di fronte a questa natura sedera e inflessibile creata dal razionalismo alcuni inizino a rimpiangere il miracolo e il fattochel’esperienzaloabbia bandito dall’universo». Il mondo è un insieme di leggi fisicheedireazionichimiche, dove tutto si sussegue inesorabilmente in un determinismo perfetto. Tutto ciòètriste?Forse,ma«chissà se la verità non è anch’essa triste»,sichiedeRenan. Determinismo scientifico, immobilismopolitico,sociale e religioso: come ci si può stupiredellanoiachecolpisce queste generazioni? «Più vado avanti, più mi accorgo cheditempo,ilnostrogrande nemico, ne abbiamo sempre troppo [...]. Che fare? Questoèilproblema»,scrive Vigny.PersinoChateaubriand confessa: «Tutto mi stanca: trascinocondifficoltàlanoia dei miei giorni e vado dappertutto sbadigliando la mia vita». «Cos’è la vita? Esilio, noia, sofferenza», sospira Lamartine, mentre ThéophileGautiersostienedi essere ridotto allo stato vegetativo: «Non sono nulla, non faccio nulla; non vivo, vegeto [...]. A parte i gatti non amo niente, non ho voglia di niente; ho solo una sensazione e solo un’idea: che ho freddo e che mi annoio». Anche Leopardi e Büchner esprimono la loro nausea. I romantici si annoiano, ciò nonostante sono anche convinti che il tempo passi troppo in fretta: «Tempo, sospendiiltuovolo!».Tuttii giovani vedono profilarsi la morte, che li terrorizza e li affascinaallostessotempo.In Italia, Leopardi scrive che il destinohafattounsolodono alla nostra razza, vale a dire lamorte.Maancheinquesto caso gli inglesi occupano un posto d’onore con Thomas Gray, il poeta dei cimiteri; John Keats, per il quale la malinconia «dimora insiemeallabellezza,bellezza che svanisce»; Wordsworth,chevedelavita del poeta come un passaggio dalla gioia all’oppressione e alla follia; e Shelley che, sempre sul tema dell’oppressione,declama: Temo i tuoi baci, fanciullagentile, matunonhaimotivo ditemereimiei; troppo profondamente il mio spiritoèoppresso perché io possa opprimereancheiltuo3. Tuttiquestigiovanihanno unincredibilefuroredivivere e, poiché hanno i minuti contati, cercano di vivere in ogni istante le sensazioni più forti possibile. Vivere intensamentedunque,pernon arrivareall’orribilevecchiaia. Essere giovane e morire sembra diventare il loro motto. Molti non fanno che una breve apparizione, per poi sentirsi immediatamente braccati dalla morte. Shelley sposaun’adolescentedisedici anni, l’abbandona e lei si suicida; sua figlia Clara muorenel1818;sirisposa;il suo secondo figlio muore nel 1819; colpito dalla tubercolosi, egli muore in un naufragio a trent’anni, nel 1822. Keats, anche lui tisico, loprecede,morendoall’etàdi ventiseianninel1821.Byron li segue, egli morirà in Grecia nel 1824. Questa meteora ha avuto il tempo di assaporare tutto e di essere anche disgustato da tutto: pubblicato a diciannove anni, membro della Camera dei Lord a ventuno, incestuoso solo un po’ più avanti, dissoluto, abbandona la sua sposa, partecipa alle cospirazionideiCarbonari,si risposa,perdelafigliadisoli cinque anni, poi spira sulle rovine di Missolonghi all’età ditrentaseianni.Lasuavitaè l’illustrazione dei suoi versi: «I giorni della giovinezza sono i giorni della nostra gloria», poiché «il tempo scolorisce le illusioni». Anche il poeta scozzese Robert Burns muore dopo una vita di stravizi, all’età di ventisetteanni.Echediredei quattro fratelli e sorelle Bronte: Anne, morta a ventiquattro anni nel 1844, Branwell, morto a trentun’anninel1846,Emily, mortaatrent’anninel1848e Charlotte, morta a trentanove anninel1855! Ancheitedeschimuoiono in piena giovinezza. Novalis, la cui giovane fidanzata Sophie muore a soli sedici anni nel 1797, perde suo fratello nel 1798 e passa a migliorvitaaventinoveanni; Christian Grabbe a trentacinque anni; Georg Büchner a ventitré anni. Nel 1806 Fichte, testimone delle ecatombi dei giovani romantici, sostiene che le morti premature siano in qualche modo preferibili: «Passati i trent’anni, fu necessario augurar loro che morissero,perlafelicitàeper il bene del mondo, poiché a partire da quel momento vivevanosolopercorrompere ulteriormente se stessi e il loroentourage»4. In Italia, Giacomo Leopardi ha solo ventidue anni quando scrive che l’entusiasmo, compagno e alimentodellasuavita,siera talmentespentoinluidafarlo rabbrividiredipaura:èquindi tempo di morire. Il giovane Leopardi è un vero e proprio concentrato di infelicità: gobbo,follementeinnamorato senza speranza, segregato in casadaigenitori,mezzocieco e ridicolizzato da tutti, egli si dedica a un lavoro intellettuale forsennato sin dall’età di dodici anni, precipitando nella disperazionepiùcompleta. Il rifiuto della vecchiaia vienesottolineatonel1819da Pierre-Simon Ballanche, che si rivolge simbolicamente ai giovani della sua epoca: «Si direbbe che, scontenti di tutto, la vita non abbia più niente da offrirvi. Avete ancora così pochi ricordi, e giàvibastano[...].Cercatela solitudinecomelosventurato chehaconosciutomillemali, che ha provato tutte le illusioni»5. Esitazionie contraddizionidifronte allamorte I rari romantici che raggiungono la terza età non fanno venire voglia di imitarli. Chateaubriand, idolo della generazione del male del secolo, si pente amaramente per aver vissuto tanto a lungo: «La vecchiaia imbruttiscefinoallafelicità», scrive. Sordo, paralizzato dai reumatismi,scossodaaccessi di tosse, egli affida la sua deriva all’amica di vecchia dataMadameRécamier,asua volta diventata cieca: «Ho vergogna di fare qualsiasi cosa con le mie vecchie ossa [...]. Arrossisco all’idea di occuparmi di due gambe logorequantoleideecaduche cheronzanocomepenosiratti nel mio cervello»6. Ha settantaquattro anni e dovrà trascinarelesuevecchieossa ancorapersei.Eglievoca«la noia delle ore ultime e abbandonate, che nessuno vuole e nessuno desidera. La fine della vita è un’età amara». Raramentesièavutatanta paura di invecchiare e si è detestata così tanto la vecchiaia come in quest’epoca. Verso i sessant’anni, Colerdige, in Youth and Age, si lamenta: «When I was young? Ah,woefulWhen!». I pittori prendono le distanze da questi orridi vecchi,quasideltuttoassenti nella pittura di Girodet, David, Gros e Gérard. Solo Goya li rappresenta, ma unicamente per mostrarne la rivoltante bruttezza: I Vecchi (1812), contrapposti ai Giovani, puzzano di morte e di marcio; Il vecchio errante tra i fantasmi evoca l’angosciadell’autore,eilsuo Saturnodivoratoredibambini è l’orrore allo stato puro. Goya, come Chateaubriand, vive molto male la sua vecchiaia. Nel 1816, a settantanni, si ringiovanisce su un autoritratto, poi, divenuto sordo e gravemente malato, capitola e mostra il suo vero volto a settantatre anni, assistito dal dottor Arrieta7. Nel 1832, all’età di ottantatre anni, muore invece il vecchio Goethe. L’uomo che ha lanciato il Romanticismo con il suo Werther non ha mai smesso di analizzare ogni singolo aspetto della vecchiaia; il mito di Faust, infatti, lo accompagnerà tutta la vita. Egli rimaneggia costantemente quest’opera, dallaprimaversionedel1773 all’ultima, incompiuta, del 1832.Ilfineultimoèdunque ritrovare la giovinezza, a costo di pagarla con la salvezzaeterna: La vecchiaia è così, unafebbrefredda[...] Passatalatrentina, un uomo è come morto8. Ma perché questi vecchi infelici non mettono fine ai proprigiorni?Selavitadopo i trent’anni diventa insopportabile, perché non imitareWerthereChatterton? Qualcunolofa,masonocasi rari: Jacopo Ortis, deluso nel suo amore e nel suo patriottismo9; Schumann, che fa un tentativo; Heinrich von Kleist, giovane soldato ansioso e solitario che, dilaniato fra la ricerca della felicità e il patriottismo, ribellatosi alla «cattiva organizzazione del mondo», si uccide nel 1811 all’età di trentaquattro anni insieme alla sua amata, colpita da un male incurabile. È pur vero che molti altri si suicidano indirettamente conducendounavitadissoluta e cercando le avventure più esaltanti e pericolose; mentre la tubercolosi si occupa di coloro che tentano difuggirla. Solo pochi sfortunati, come Chateaubriand, sopravvivono abbastanza a lungo per pentirsene, solo un rimasugliodispiritoreligioso li trattiene. Scrive infatti Lamartine: «Per quanto mi riguardasareigiàmortomille voltedellamortediCatonese fossi stato della sua stessa religione.Manonlosono,io adoro Dio e i suoi disegni. Credo che la morte paziente in miseria dell’ultimodeimendicantisia più sublime della morte affrettata di Catone sulla sua spada. Morire è una fuga, e non si deve fuggire»10. Se la vita è un supplizio, bisogna accettarla come l’espiazione dei nostri peccati, ma questo non impedisce al poeta di confessare, nelle sue Confidenze, il fatto che ci pensasse continuamente una voltainpensione;inRaphael, inoltre, Julie dice al suo amante: «Oh! Moriamo! Non vedicometuttointornoanoi è preparato perché le nostre duevitesvaniscano?[...]Oh! Moriamo in questa ebbrezza dell’anima e della natura che della morte ci farà sentire sololasuavoluttà!Piùavanti vorremo morire, e forse moriremomenofelici!». Le esitazioni dei romanticiriguardoalsuicidio rispecchianol'immaginedella loro vita ricca di contraddizioni. Questi giovanichesiannoianoeche non hanno abbastanza tempo perapprofittaredellavita,che magnificano la morte e rifiutanodidarsela,ricercano la solitudine gettandosi a capofitto nelle agitazioni del secolo.L’uomosmarritonella solitudine tenta di placare le passioni rifugiandosi nella natura e alimenta la malinconia al contatto conessa:«Lanaturaècoperta da un velo di tristezza [...] e da una profonda e irreprimibile malinconia [...]. Il livello più oscuro e insondabile della natura umana è la malinconia, ecco ciò che unisce l’uomo alla natura,poichéancheinessail livello più profondo è malinconico.Anchelanatura soffre per un bene perduto»11. Queste parole di Schelling raccontano lo sconforto del romantico, il qualesenteche,nonostantela sua retorica, Dio si allontana irrimediabilmenteecheormai egli è solo in una natura anch’essa rimasta orfana. Johann Friedrich Richter, più conosciuto con il nome di Jean-Paul, lo dice ancor più chiaramente: «Nessuno nell’universo è più sol di un ateo.Ilsuocuoreorfano,che ha perduto il più grande dei padri, piange sul cadavere immenso della natura, che nessuno spirito anima né unifica»12. Tuttavia, la prima generazioneromantica,quella degli anni fra il 1800 e il 1830,mantienelasperanzadi poter cambiare il mondo e si precipita nell’azione con un’incredibile ingenuità. Questi giovani in piena crisi d’identità si considerano araldi di una nuova era che indicano la strada verso un idealedilibertà.Laloroarma è la poesia, il poeta ispirato che illumina il mondo, la poesia che guida i popoli. Ergendo la solitudine e la malinconia a emblema di grandezza, essi credono di gettarelucesull’oscurarealtà. Comeseleparole,lerime,le sonorità commoventi potessero contrapporsi ai cannoni! Nefasta illusione in cui si cullano i sognatori, eterne anime candide, giocattoli alla mercé delle forze politiche ed economiche. Decimati sulle barricate, annientatiinGrecia,aNapoli, inPolonia,inSpagna,lasciati morire nelle carceri della Santa Alleanza, i poeti recupereranno il senso della realtà solo a metà del secolo, quando i loro più prestigiosi rappresentanti, smarriti nella politica, uscirannoprecipitosamentedi scena:Lamartine,con18.000 votialleelezionipresidenziali del1848rispettoai5.454.000 di Luigi Napoleone Bonaparte, e Victor Hugo, costretto all’esilio, nel 1851, dallo stessoLuigiNapoleone. Persino gli apparenti successi non sono che uno specchietto per le allodole: nonèByronchehaliberatoi Greci, ma i cannoni imperialistifrancobritannicia Navarin; le barricate del 1830, immortalate da Delacroix, ben lungi dall’essere il trionfo dei giovani «scapigliati, lividi», sono il prodotto dell’avvento deibanchieriorleanisti;enon sono i Castighi di Hugo ad averfattocaderel’Imperonel 1870, ma la temibile armata prussiana. Iromanticiel’analisi delmalessere Questo insieme di esaltazione irrealistica e di disillusione, di noia e di impazienza,disolitudineedi bisogno di azione, di sentimentimorbosiedifame di vita contribuisce al carattere di originalità del mal di vivere del primo Romanticismo. I poeti ne sono stati i portavoce privilegiati, i loro predecessori, infatti, non avevanomaibeneficiatodiun talepubblico,inoltrecredono di dover svolgere un ruolo di primo piano. Essi esprimono il malessere di un’intera generazione, analizzato peraltro da molti intellettualidiquest’epoca. Maine de Biran (17661824) è molto sensibile all’inquietudine dei suoi contemporanei, che anch’egli certamente condivide, ponendolaalcentrodellesue riflessioni nel Journal, dove cerca una spiegazione che vada oltre il quadro storico dell’epoca. All’inizio, nel 1793, egli sembra orientarsi verso l’interpretazionepascaliana: Tuttavia, volendo tornareinnoi,dobbiamo convenire che l’argomentazione di Pascal è forte. In queste materie le prove originate dalle sensazioniintimesonole più forti. Questa inquietudine dell’anima, la mancanza del vero bene e l’incostanza che ne consegue, questa attività indeterminata che sfiora tutti gli oggetti senza trovare nulla che la soddisfi pienamente e che trascina tutti gli uomini, sia selvaggi che civili, attraverso tante follieebizzarrie,lanoia, funesta caratteristica della nostra specie, sconosciutaaglianimali: non so, ma mi sembra che tutto questo annunci qualcosa di particolare e proverebbe(forsenonai freddi filosofi, ma agli animi sensibili che amano riflettere su se stessi) che forse non siamoalnostroposto13. La risposta non è definitiva. Tornando più avanti su questo problema, Maine de Biran tende a fornire una spiegazione di stampo psicologico: «Il fastidio, il disagio, l’inquietudine, il desiderio» provengono dalla differenza dellenostreduenature,quella animale e quella spirituale. Lo spirito ha aspirazioni immensechelanostranatura animale non può soddisfare. Pascal ha quindi torto: «La causa del malessere o del fastidio interiore nell’immobilità totale dei sensi e dello spirito non è intellettualeomisticacomela intende Pascal, ma piuttosto psicologica»14. Maine de Biran si riferisceinparticolarmodoal mal di vivere romantico che, deluso dalla società, trova solo malinconia nellasolitudine.Asuoavviso nella vita ci sono più piaceri che disgrazie. «Non esistono stati in cui si preferisca l’annientamento all’esistenza», scrive, poiché «anche nei mali più grandi, l’immaginazione sa trovare delle compensazioni». Tuttavia siamo logorati dal mal di vivere, che proviene dal dilemma tipico della natura umana: il disgusto del mondo esterno oppure il vuoto del mondo interiore. «Amori tristi, una gravosa concezione dell’esistenza ci allontanano da noi stessi e ci fanno sentire il bisogno di distrazioni o persino di diversivi esterni. Ma il male che ci tormenta aumenta proprioconquestedistrazioni e soffriamo doppiamente per ilfastidiocheproviamoverso le cose del mondo esterno o diunmondochecirepelle,e perlascontentezzaoilvuoto che ci ritroviamo dentro quando siamo obbligati a ritornarci»15. Benjamin Constant (1767-1830), suo contemporaneo,haanalizzato il male del secolo nel suo Adolfo, storia di un giovane che dimentica di vivere a causa dell’eccesso introspettivo. Nella sua corrispondenza Constant sostienecheilmalesseredella sua generazione derivi dalla sensazione che la morte di Diosiastataprematuraeche sia sopraggiunta mentre la suaoperanonerastataancora terminata. Dio ci ha quindi abbandonato in un universo che non sappiamo perché sia stato creato, da qui l’impressione di «finalità senza fine»: il fatto è che «Dio, vale a dire il creatore nostro e di ciò che ci circonda, è morto prima di completarelasuaopera;Egli avevagiàdispiegatomoltidei suoi mezzi, come si innalzano le impalcature per costruire,eametàdellavoro è morto; tutto ora si ritrova fatto con uno scopo che non esistepiùenoi,inparticolare, ci sentiamo destinati a qualcosa di cui non abbiamo laminimaidea»16.Constantè consapevole della tragica differenza fra le nostre aspirazioni smisurate e la piccolezzadelnostrodestino, rinchiusi in una scatola di un metroeottantapercinquanta centimetri: «Sento più che mai il nulla del tutto, come tuttoprometteenonmantiene mai, quanto le nostre forze siano al di sopra del nostro destino e quanto questa sproporzione ci debba rendereinfelici»17. Chateaubriand (17681848), anche lui contemporaneodeidueautori precedenti, grande malinconico, insiste sulle frustrazioni generate dai nostrilimiti.Comeosservava Durkheim, René è un insoddisfatto: «Mi accusano di essere incostante neimieigusti,dinonriuscire a goder troppo tempo d’una chimera, d’essere alla mercé d’unafantasiacheprecorrela fine dei piaceri, come se nonpotesseresistereallaloro durata; mi accusano di sorpassare sempre il fine cui possoarrivare:eiononcerco, ahimè! che un bene sconosciuto, avvertito per istinto. Non è colpa mia se trovo limiti dappertutto, e se quello che è finito non ha permealcunvalore»18. Questa insoddisfazione è destinataadaumentare,pensa Chateaubriand. Essa è stata anzitutto generata dal cristianesimo, che «ha creato un uomo pieno di sogni, tristezza, disgusto e inquietudine che trovano sollievo solo nell’eternità». Mostrando all’uomo la sua vera vocazione, la quale supera i limiti della sua misera esistenza terrena, il cristianesimo ha instillato in lui la scontentezza per la condizione/presente. Ma a ogni modo l’insoddisfazione cresce con il grado di civiltà, poiché i progressi materiali e culturali stimolano l’immaginazione;ilprogresso suscitaisogniemoltiplicale necessità, ciò rende sempre più dolorosa la consapevolezza dei nostri limiti: «Quanto più i popoli procedono nella civiltà, e tanto più questo stato di vacuità delle passioni s’accresce [...], l’immaginazione è ricca, copiosa, meravigliosa, [..Gli antichinonconobberoaffatto questa segreta inquietudine, quest’acerbità delle passioni soffocate che fermentano tutte in un gruppo: un grand’essere politico, i giuochi del Ginnasio e del CampoMarzio,lebisognedel foroedellapiazzapubblicali occupavano di continuo, né mai davan luogo in essi alla noiadell’anima»19. Ciò significa tenere in poco conto il taedium vitae. Tuttavia sopraggiunge qui un’intuizione importante, che aiutaacomprendereilrapido sviluppo del mal di vivere moderno.Difronteaunagio di vita che aumenta con progressione aritmetica, le aspirazioni aumentano di conseguenza, poiché decuplicate dall’immaginazione, come conferma l’evoluzione degli ultimiduesecoli. Chateaubriand aggiunge un’altra riflessione, più congiunturale e forse più discutibile: se ci sono tanti inquieti e angosciati nella nostra epoca, scrive nel 1802 nel Genio del Cristianesimo, è perché i malinconici, prima, erano reclusi nei monasteri, e la Rivoluzione, chiudendo i monasteri, li ha rimessi in libertà: Ma ai giorni nostri, mancati i monasteri, o bsenancolevirtùchead essi conduce, a quest’animeardenti,elle si son trovate, come a dir, forestiere in mezzo agli uomini; perocché disgustate dal secolo, sbigottitedallareligione, son rimase nel mondo, senza darsi al mondo, e allora le son cadute in baliadimillechimere;e allora nascer si vide quella colpevol maniconia che s’ingenera dalle passioni, quand’elle son senza obbietto, e si van di per sé consumandoinuncuore solingo20. I periodi di crisi raddoppiano le energie vitali negli uomini. In una società che si dissolve e si ricompone, [...] l’urto del passato con l’avvenire, la confusione dei vecchi costumi coi nuovi, formano una combinazione che non lascia un minuto solo allanoia.Lepassioniei caratteri in libertà si mostranoconun’energia che non hanno nella società bene ordinata. Il genere umano in vacanzapasseggiaperle strade, libero dai suoi pedagoghi, tornato per unmomentoallostatodi natura e disposto a sentire il bisogno del freno sociale solo quando porterà il giogo dei nuovi tiranni creati dallalicenza21. L’argomento è ambiguo: è la malinconia che spinge il monaco a entrare nel monastero, o è il monastero che rende malinconico il monaco? Il dibattito viene nuovamente aperto dai filosofi, dai teologi e dai medici. Kierkegaard afferma cheiconventifosseroirifugi dei depressi, ma Montalembert sostiene che si tratti di una grossolana distorsione della verità: «Presentare la tesi generale dellavitareligiosacomeasilo perladebolezzaelatristezza, come luogo di rifugio per questa malinconia, che nella vita claustrale era peraltro vietata e perseguita come vizio chiamato acedia, significaopporsiaifattiealla ragione»22. Tra il 1789 e il 1790, il dottor Philippe Pinel aveva portato il suo appoggio scientifico alla soppressione dei voti monastici e degli ordini regolari da parte dell’Assemblea costituente, affermando, nelle sue Réflexions médicales sur l’état monastique, che il monastero rappresentasse un fattore di follia suicida. Appoggiandosi alle testimonianze di accidia e tristitia, scriveva: «Un isolamento eterno e senza speranza, la dura costrizione di tutte le tendenze del cuore portanonell’animaildisgusto e l’amarezza [...]. Una malinconia cupa, triste frutto dell’intorpidimento delle facoltà fisiche e morali, spesso gli accessi della malinconia più profonda, e altre volte le infermità provocate dalla vita sedentaria, avvelenano tutti i momenti dell’esistenza. La follia spesso si affianca al disordinedell’intelletto,enon vi è monastero che non ne offra puntalmente tristi esempi ogni giorno»23. Riferendosi alla «malinconia bigotta», Pinel accusa in effetti tutte le forme di vita religiosa di essere responsabili del disequilibrio psichico. Nel suo scritto La mania: trattato medicofilosofico sull’alienazione mentale,eglisiscagliacontro le predicazioni terrorizzanti e le stravaganze degli ispirati, fonte di gravi stati di malinconia e bigotteria: «Il mio progetto sarebbe stato [...]ditoglieredallalorovista ogni oggetto relativo al culto religioso, ogni dipinto o ogni librochenepotesserievocare l’immagine; di spingerli, in alcune ore del giorno, a letture filosofiche; di accostare abilmente alcuni episodi della vita di antichi saggi, oppure alcuni atti di umanità e patriottismo con lapiùpianullitàedibizzarri delirideglianacoreti»24. La tradizione scientista e anticlericale riprende il tema per tutto il XIX secolo, da Esquinol, discepolo di Pinel, fino a Huysmans, il quale descrive le religiose che «languono, muoiono all’improvviso come quando il cero si spegne con un soffio. È l'acedia dei conventi di clausura che le spegne»25. Nel 1903, un secolo dopo Pinel e in pieno conflitto di separazione della Chiesa dallo Stato, Émile Tardieu, in una classificazione dei generi di noia, cita la «noia per monotonia», o «noia del monaco»: Ha rinunciato alla famiglia, all’amore, alle ricchezze,all’ambizione, ai piaceri, alla libertà, alla sua volontà, a tutto [...], ma non possiede il cielo più di quanto possiedalaterra,sitrova nel bel mezzo [...]. È pieno di risposte imbarazzate e contraddittorie da dare a proposito della noia; a volte giura di non saperne niente, altre confessa di sentirsi soffocare [...]. La noia del monaco è un fatto evidente: la sua vita, così come è istituita, non è che un automatismo incolore, una prova di mummificazione [...], si sospetta in lui infantilismo mentale e, per dirla tutta, incapacità. Egli si accanisce sulla sua distruzione, sul suicidio [...]. La noia monacale riveste innumerevoli forme26. La noia e il clericalismo andrebbero dunque di pari passo. Ancora una volta la malinconia e la tristezza vengono utilizzate nel dibattito ideologico, ciò dimostra la persistenza di questitrattipsicologici.Negli anni fra il 1800 e il 1830, anche Sainte-Beuve è stato vittima di questo malessere tipico della generazione romantica,diquestagioventù che brucia la propria vita per non vederla marcire nella vecchiaia perché, osserva,«lametàdiunavitaè latombadell’altra». Tutti gli ideali finiscono per sprofondare nel pantano delle «relazioni umane». Studiando la spiritualità di Port-Royal e dei solitari, Sainte-Beuve riscopre l’accidia e la paragona alla noiadeiromantici,cheanche lui sembra condividere: «L'acediaèlanoiatipicadel convento, soprattutto nel deserto dove il religioso vive in solitudine; una tristezza sottile, oscura, dolce, la noia dei pomeriggi. Il bisogno dell’infinito ci coglie; ci perdiamo in desideri indefinibili: è il momento incuivorremmosmarrircinel vortice di Faran, o in cui vorremmo gridare insieme a René: «Temporali agognati, alzateviinfretta»27. Levariantinazionalidel malessere Il mal di vivere non era mai stato avvertito in modo così unanime. Il concerto dei lamenti poetici è fonte di ispirazione per la verve dei caricaturistieilsarcasmodei conservatori ma, come nel XVI secolo, un movimentoditaleportatanon può essere una semplice moda, e la vita stessa delle persone estremamente sensibili è la prova dell’autenticità del loro malessere. È stato detto di Lord Byron, il cui stato d’animo si esprime appieno inquestiversi: Contaleoredigioia chetifuronoconcesse, Conta i giorni che passastisenzasoffrire, E apprendi, qual che tusiastato, «Che sempre meglio èilnonessere»28. IlsuicidaShelley,iltriste Keats nella sua Ode alla malinconia, e il sognatore Gray,arrivanoallamedesima constatazione. I poeti,tuttavia,nonsonoisoli ad avvertire il male del secolo.Piùinatteso,maanche più significativo, è il profondo pessimismo di un pensatore come John Stuart Mill, peraltro fondatore con Bentham della dottrina utilitaristica,ilqualeprofessa «che la felicità è auspicabile, echeinfindeicontièpersino la sola cosa auspicabile». Tuttavia,questoedonistaèun depresso,comespessoaccade a coloro che sono preda dell’ossessione della felicità. Nel1826,all’etàdivent’anni, Millattraversaunagravecrisi depressiva. Nella sua Autobiografia egli ricorda che: In questo stato d’animo,decisidipormi direttamente la domanda: «Supponi che tutti gli obiettivi della tua vita vengano raggiunti; che tutte le riforme delle istituzioni e delle opinioni che desideravi si possano realizzare istantaneamente: raggiungeresti così la gioia, la felicità?». E dentro di me, una voce incontenibile rispose: «No!».Inquelmomento il mio cuore sprofondò: tuttelebasisucuiavevo fondato la mia vita crollarono. Tutta la mia felicità risiedeva nella ricerca di questo fine. E il fine aveva perduto il suofascino:comepotrei maiprovareinteressenei mezzi per raggiungerla? Mi sembrava di non averepiùalcunaragione pervivere29. L’idea tedesca di Weltschmerz, la tristezza del mondo, è essenziale nello Sturm und. Drang e nel romanticismo tedesco. Werther ha stimolato lo spirito creativo ispirando autori malinconici come Johann Miller (17501814) o Jacob Lenz (17511792), impazzito nel 1778. Faust ispira invece la disperazione di Nicolaus Lenau(1802-1850).Lavitadi questo dandy che perde la fede in seguito alla morte di suamadre,machenonriesce arassegnarsialmaterialismo, somiglia a un lungo suicidio. Il suo Faust esprime la disperazione di unagenerazionechenonpuò realizzareiproprisognisenza chiedersi, come Mill, se tale realizzazione porterà la felicità. Il teatro romantico tedescodegliannifrail1800 e il 1840 è segnato dalla figura dell’eroe tragico segnato da un destino implacabile, ma che alla fine neavràragionepermezzodi un atto di volontà, riconciliandoquindiildestino elalibertà.Conlasuamorte, accettata o deliberatamente provocata, egli rende la sua vita un successo, ma non è forse proprio in questo il culmine della contraddizione checaratterizzalacondizione umana? Alcuni autori propendono già per l’idea del fallimento dell’essere fino alla sua logica conseguenza finale, vale a dire il nichilismo. «Cosa c’è di più assurdo del mondo? È la demenza onnipotente che sorregge l’orbe dell’universo e lo distrugge», afferma un personaggio di Herzog Theodor von Gothland, un dramma di Christian Grabbe (1801-1836). A ventun anni costui aveva messo in scena la stupidità universale in una commedia-farsa, Scherz, Satire, Ironie und tiefere Bedeutung: ein Lustpiel in drei Aufzugen (Scherzo, satira, ironia e significato nascosto).InHerzogTheodor l’uomo affronta l’assurdità del mondo; la sola condotta degna è la rivolta e il rifiuto disperato, destinato al fallimento. Più o meno contemporaneamente a Stendhal, Grabbe lancia questo grido di rabbia impotente: «La sola scusa di Dioèchenonesiste». Grabbe muore a trentacinque anni. Georg Büchner, a venti-quattro, muore di tifo (1813-1837). Solitario e angosciato, egli vede nell’uomo un fantoccio piagnucoloso sballottato da un inesorabile destino anonimo. Egli scrive alla sua fidanzata: «Mi sono sentito comeschiacciatosottoilpeso dell’orribile fatalismo della storia [...]. L’individuo non è che schiuma sull’onda, la grandezza è un puro caso, il regno del genio uno spettacolo per marionette». Ed è questo spettacolo che mette in scena nella sua Morte di Danton, dramma totalmente riassumibile in quanto segue: «Siamo tuttimarionette,icuifilisono tirati da potenze sconosciute». Questi automi infelicisicredonopadronidel loro destino, ma non appena prendonocoscienzadellaloro vera situazione, sono attratti dalnulla,maneancheilnulla esiste più. «Nessun vuoto in nessun luogo, è tutto un brulicare: il nulla si è ucciso da sé, la creazione è la sua ferita, noi siam le sue gocce di sangue, e il mondo è la tomba in cui esso marcisce»30. Ritroviamopoigliuomini di Woyzeck (1836), fantocci fatti con lo stampino che recitano la loro patetica commedia, mentre un pover’uomo, schernito da tutti, cerca disperatamente il senso del tutto. Eccoci nel grottesco esistenziale, causa diunrisoamaro.Ilregistroè ilmedesimoconLeVegliedi Bonaventura, testo anonimo del 1804 che passa in rassegna i grandi problemi dell’umanità e le conferisce l’immagine di un mondo di pazzi. Una sorta di Elogio della Follia in versione noir, «l’opera, che spesso evoca il grottesco del mondo, è grottesca grazie all’amalgama dei toni, delle prospettive e per via di quel suo cinismo disperato che sfocia continuamente nel nulla»31. «Infondo,tuttoèlastessa cosa», esclama un altro personaggio di Büchner, osservazione che potrebbe, peraltro,esserestataanchedi Johann Friedrich Richter (1763-1825). Il suo romanzo Siebenkäs, pubblicato nel 1796, è un’altra illustrazione del malessere romantico: l’eroeèunartistaimpregnato di infinito, di assoluto, tormentato dai grandi interrogativi sul senso del mondo. La sua giovane moglie, Lenette, è una sposa affettuosa, semplice, preoccupata solo dell’immediata quotidianità. Entrambi si amano sinceramente, ma non riescono a capirsi. Gli sforzi di Lenette per rendere felice suo marito sono destinati a fallire, poiché non basta essere una buona massaia e una buona sposa per fare la felicità di Siebenkäs, continuamente irritato dai dettagli materiali della vita di tutti i giorni: la spazzola e la scopa sono per lui veri e propri «strumenti di passione». Ritroviamo qui il problema dei limiti della condizione umana, della tensione tra il finito e l’infinito. E per completare il quadro, ecco che Cristo rivela che Dio non esiste: «Siamo tutti orfani, voi e io, non abbiamo un padre». Incomunicabilità degli esseri, marionette perdute e manipolate in un mondo assurdo che Dio ha definitivamente lasciato. Difficile eguagliare i limiti della disperazione del Romanticismotedesco. Per trovare un Romanticismo più cupo di quello tedesco nella prima metàdelXIXsecolo,occorre spostarci in Italia, sederci allostessotavolodiLeopardi (1798-1837)eascoltarelesue parole: «Gli uomini verso la vita sono come i mariti in Italia verso le mogli: bisognosi di crederle fedeli benché sappiano il contrario. Così chi deve vivere in un paese, ha bisogno di crederlo belloebuono;cosìgliuomini di credere la vita una bella cosa.Ridicoliagliocchimiei, come un marito becco, e tenero della sua moglie»32. Così parla nel suo diario intellettuale, lo Zibaldone, che comprende le sue riflessioni di uomo solitario. LadisperazionediLeopardiè dovuta in parte alla sua situazione personale, come abbiamo già visto, ma l’autore dei Canti estende la sua infelicità individuale a tutta l’umanità, poiché la nutre dell’humus della malinconia romantica. Certamenteegliriconosceche esistano anche persone felici: si tratta dei sognatori più o menoilluminatieingenuiche attribuiscono un significato spiritualeimmaginarioatutto ciò che vedono, barricandosi cosìinunottimismoeuforico dai tratti schizofrenici. Ci sonoanchepersoneordinarie, che sono in effetti la maggioranza e che sopportano l’esistenza perché vivono «volando basso», senza porsi domande sul significato. E poi ci sono i tormentati, come lui, consapevoli dell’universale vanità delle cose: ciò che è spiritualeèimpalpabilecome ilventoeciòcheèmateriale è destinato a morire. Intrappolato fra le illusioni e lamorte,lavitanonècheun tessutodidoloreedinoia;ci siriposadaquestesofferenze solocadendoinaltreancora. Che tragedia è la vita umana per Leopardi. Sin dall’inizio bisogna consolare erassicurareilbambino: Vergine luna, tale è lavitamortale. Nasce l’uomo a fatica, edèrischiodimorte ilnascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sulprincipiostesso lamadreeilgenitore il prende a consolar dell’esserenato. [...] Ma perché dare al sole, perché reggere in vita chi poi di quella consolarconvenga? Selavitaèsventura, perchédanoisidura? [...] inquale stato che sia, dentro covileocuna, èfunestoachinasce ildìnatale33; mentre alla fine la vecchiaia rappresenta «il più grande di tutti i mali». Fra i due si situa l’infelicità. In mancanza di un Dio, Leopardi accusa la natura, macchina infernale che produce vite solo per condurleallamorte: Madre temuta e pianta Dal nascer già dell’animalfamiglia, natura, illaudabil meraviglia, che per uccider partoriscienutrì, se danno è del mortale immaturo perir, comeilconsenti, in quei capi innocenti? Se ben, perché funesta, perché sovra ogni animale, a chi si parte, a chi rimaneinvita, inconsolabil fai tal dipartita?[...] Come, ahi come, o natura,ilcortisoffre Di strappar dalle braccia All’amicol’amico, alfratelloilfratello, laprolealgenitore, all’amantel’amore:e l’unoestinto, l’altroinvitaserbar? 34. Tutto è una trappola; l’amore potrebbe essere la salvezza, ma più amiamo più la morte della persona cara sarà crudele... Leopardi ironizza in modo amaro su tutti gli incoscienti che dicono di amare la vita, cornutichenonvedonochela loro amante li tradisce quotidianamente con la morte. E, come sempre, i più consapevoli sono i più infelici, mentre gli imbecilli felici portano in giro la loro spensieratezza. Leopardi invidia questi «animali felici». Egli se la prende anche con i cantori del progresso e della civiltà, veri e propri mercanti di illusioni a suo modo di vedere. La storia delle civiltà non è che un passo ulteriore verso un’infelicità sempre più grande. Il «progresso» si traduceconl’accrescersidelle forze del male, che permettono agli uomini di dilaniarsi con sempre più odioepotenza.Equandonon porta alla distruzione dell’uomo, la civilità genera superficialitàenuovibisogni, fonti di ulteriori frustrazioni, mentre pretende di voler fare la felicità collettiva di un’umanità composta da individui tristi. Leopardi trova rivoltante questo raggiro; neanche la naturainertehapiùunsenso; eccoinfatticomeLeopardisi rivolgeallaluna: O graziosa luna, io mirammento Che,orvolgel’anno, sovraquestocolle Io venia pien d’angosciaarimirarti: [...]. Ma nebuloso e tremulodalpianto Che mi sorgea sul ciglio,allemieluci Il tuo volto apparta, chetravagliosa Eramiavita:edè,né cangiastile, Omiadilettaluna.E purmigiova La ricordanza, e il noverarl’etate Del mio dolore. Oh comegratooccorre Nel tempo giovanti, quandoancorlungo Laspemeebreveha lamemoriailcorso, Il rimembrar delle passatecose, Ancor che triste, e chel’affannoduri!35. Alfred de Musset ha riconosciuto in Leopardi uno spirito affine, cui dedica questaquartinanel1842: Tu marchais en chantant dans ta route isolée; L’heuredernièrevint tantdefoisappelée; Tulavisarriversans crainteetsansremords, Ettugoùtasenfin«le charmedelamort»36. Musset è forse il più oscuro dei romantici francesi della prima generazione. Osserva Paul Bénichou che «una cosa può sorprendere nella maniera in cui Musset evoca questa disperazione: il modo in cui, ben lungi dall’idealizzarla o dall’esaltarla - com’è tipico delRomanticismonoir-edal dare il rifiuto lugubre della speranza di una sorta di privilegio spirituale, egli detesta lo stato d’animo che descrive e maledice coloro che ne sono stati gli iniziatori»37. Gli altri romantici, in effetti, traggono dalla malinconia un sentimento di superiorità non dissimulato, prova di un manifesto godimento nel praticare la loro malinconica introspezione.Lamartineneè una buona illustrazione per mezzo del suo eroe Raphael, che infatti svolge un ruolo di portavoce: Illanguoredituttele cose intorno a me era una meravigliosa consonanza con il mio. Esso cresceva, affascinandola. Mi tuffavo in abissi di tristezza. Ma questa tristezza era viva, abbastanza piena di pensieri, sensazioni, di comunicazioni con l'infinito,dichiaro-scuro nella mia anima perché non desiderassi di fuggirla. Malattia dell’uomo, ma malattia il cui sentimento stesso seduce invece di essere un dolore, e in cui la morte somiglia a un voluttuoso dileguamento nell’infinito. Dolcezza della tristezza, compiacimento di una meditazione sul nulla. Nel 1897 Émile Durkheim riprenderà questo passaggio per illustrare la malinconia moderna, fonte, secondo la sua classificazione, di suicidi dettati dall’egoismo. L’individuo tende ad allontanarsi dalla società, comeLamartine,delusodalla vita politica dopo il suo cocente fallimento all’elezione presidenziale. Egli si chiude in se stesso, medita su se stesso, ma il suo io non è più alimentatodaglieventiedalle cosedelmondoesterno:«Per spiegare il suo distacco dall’esistenza, il soggetto se la prende con le circostanze che lo circondano più da vicino; trova la vita triste, perché è triste. La sua tristezzaglivienedall’esterno [...], dal gruppo di cui fa parte»38. La stessa analisi potrebbe essere applicata ad Alfred de Vigny, un altro deluso dalla vitaattiva,militareepolitica. Dell’esercito ha conosciuto solo l’incolore vita di guarnigioneaPau;inpolitica colleziona delusioni su delusioni, come la rivoluzione del 1830 e l’umiliante sconfitta alle elezionidel1848inCharente. Vulnerabile e pieno di contraddizioni, solitario, ansioso, esitante, discreto, ambizioso, egli rifiuta gli obblighi sociali della celebrità: errore imperdonabile nella società moderna, già divenuta una società di comunicazione. A Parigi egli conduce una vita da eremita, nella «santa solitudine» che tante volte ha esaltato nei personaggidiMosé,diGesù, del pastore, del lupo. L’esempio di Chatterton lo affascina, così come gli eroi shakespeariani, mentre considera la natura una matrigna. Nel Destini è infatti la natura stessa a parlare: vengo chiamata madre, afferma, mentre in realtàsonounatomba: Non lasciarmi mai soloconlaNatura. La conosco fin troppo per non temerla39. Vigny è un grande solitario e la solitudine è per lui causa di noia, uno dei grandi mali dell’esistenza, come più volte ha espresso: «La noia è il grande male dellavita,dicuimalediciamo la brevità; comunque sempre troppo lunga per sapere cosa farne»; «Cos’è l’uomo? Unesserecreatoperviveredi noia e un bel giorno morirne»; «La vita mi stanca e non mi dà alcun piacere». Egli è «nato serio fino alla tristezza»: detesta i ricevimenti, le mondanità, le formalità e vive nell’ascetismo senza alcuno sforzo,semplicementeperché non prova alcun piacere nell’approfittare delle «gioie dellavita». Personalità vulnerabile e affettuosa, Vigny incarna al meglio la malinconia romantica, questo mal di vivere degli animi appassionati costretti in un’epoca propizia alle frustrazioni, che tarpa le ali agli slanci e ai sogni di una generazione che, in giovinezza,avevacredutoche tuttofossepossibile.Lapresa di coscienza di questa realtà ha provocato tristezza, malinconiaedepressione.Ciò porta Shelley ad affermare chelamalinconiafacciaparte integrante dello psichismo umano;latenteepotenzialein tutti, essa si rivela nelleepocheenellesituazioni in cui i desideri, i sogni, le speranze sono troppo elevati rispetto alle facoltà e alle capacità reali. Forgiare un ideale fuori portata è il modopiùsicuroperrendereil terreno fertile al mal di vivere. Lagenerazione maledetta La prima ondata romantica, soprattutto in Francia, conserva comunque una certa fiducia nel futuro, coltivandoildoloreinquanto fonte di ispirazione e di grandezza. Il poeta può indicare la strada, mantenere in vita l’ideale; egli ha un ruolo culturale, sociale e persino politico da svolgere. Il dolore gli conferisce una lungimiranza superiore che gli permette di essere una guida. Questa illusione è già morta in Germania, mentre in Francia viene mantenuta viva dal fermento politicofinoal1848-1850. Poi il crollo, la caduta di Icaro. La generazione nata dopoil1820,quellacheavrà vent’anni fra il 1840 e il 1850, ha perso tutte le illusioni.L’avvenirenonèné deipoetinédegliutopisti,ma è della lotta di classe e del nazionalismo. Cosa può fare il poeta di fronte alla rivoluzioneindustriale?Isuoi sogni non hanno la consistenza dei fumi delle fabbriche. I proletari hanno bisognodicapirivoluzionari; i borghesi di economisti e i politici della Realpolitik, dei cannoni. La prima generazione romantica soffriva per la differenza fra idealismoerealtà;laseconda invecenonhapiùideali.Paul Bénichou ha analizzato come segue questa mutazione:«Nonsicredepiù, nonsivuolepiùcredereaun futuro provvidenziale di umanità ascendente, né a un ruolo privilegiato dei poeti [...].Eraquestalafiduciache aveva animato lo slancio originario del romanticismo poetico; per coloro che l’hanno perduta, tutto è cambiato.Mentrel’umanitàsi trasformava, agli occhi deipoeti,inunafollastupida e crudele, e la sua storia diventava un nonsenso permanente, la Provvidenza ha fatto spazio a un “nulla vasto e nero”, e Dio a un “Ideale”nemico»40. Droga, diavolo, inferno, dannazione,paradisoperduto, blasfemia, disperazione: ecco quali sono ormai i temi poetici: la malinconia cede il posto alla disperazione. La nuova generazione è quella dei «poeti maledetti»: spesso e volentieri abietta e cinica, essanonpuònemmenosentir parlare dell’ottimismo, che considera una vera e propria oscenità, una prova di imbecillità. «Il romanticismo disincantato, che ribalta le proporzioni, trovò terreno fertile nell’uso predominante di un’amarezza senza scampo, e fece di tale ingrediente, reso nobile dall’arte, la condizione dell’eccellenza poetica e l’emblema stesso della modernità. Ha voluto vedere in ogni specie di ottimismo un segno di volgarità, se non addirittura di stupidità. Ha fattobrillareilmalenellesue creazioni e diffamato come menzogna o stupidaggine la speranza nel bene»41. Ognuno esprime la disperazione con la propria sensibilità. Stéphane Mallarmé, che si accontenta di una banale carriera da professore d’inglese, è ossessionato dalla ricerca di un ideale poetico fuori portata. Egli soffre come gli altri [...]alprofumodella tristezza Che pur senza rimpianto lascia e senza amarezza La vendemmia d’un sogno al cuore che l’ha colto42. Paul Verlaine esprime in maniera sublime la sua tristezza ansiosa, quintessenza del mal di vivere assoluto poiché immotivata, nei suoi Poemi saturnini, nei Romanzi senza paroleenellaSaggezza. Egli porta in giro la sua malinconia, il suo «languore monotono»: Si piange e non v’è cagione Nel cuore che si accora. Che? Forse delusione?... È un lutto e non v’è ragione. Non v’è pena peggiore Dinonsaperperché Senz’odio e senza amore Tantapenahailmio cuore43. Jean Moréas aspira a lasciare «tutte le preoccupazioni inutili e la volgare noia dell’orribile città».ArthurRimbaudviveil proprioinfernopersonale:«Io mi credo all’inferno, dunque ci sono. [...] Genitori, avete fatto la mia sventura e avete fatto la vostra! [...] Muoio di stanchezza[,..]»44.«Riusciia cancellare dal mio spirito ogni speranza umana. Suognigioiaperstrangolarla feciilbalzosordodellabestia feroce. [...] La sciagura fu la miadea»45.Scesonegliinferi a ventun anni, Rimbaud rimane in seguito silenzioso, un silenzo che AlbertCamushaseveramente giudicatocome«unconsenso al peggior nichilismo che possa darsi»46. Lautréamont,primadimorire a ventiquattro anni nel 1870, lancia le imprecazioni blasfeme dei Canti di Maldoror, manifestando la propria rabbia nell’«attaccare con tutti i mezzi l’uomo, bestia feroce,eilcreatore».Leconte de Lisle chiede la morte: «Rendici il riposo che la vita ha disturbato». SullyPrudhomme osserva amaramente che nella storia delmondo,comeinquelladi ogni uomo, «per un giorno di calma si paga il prezzo di un’èra di disastri». Catulle Mendèssidisperapersinodei suoioblìi: Après l’angoisse et lafolie, Commelanuitaprès lesoir, L’oubli m’est venu. Carj’oublie, Et c’est mon dernier désespoir47. Louise Ackermann accusa: questo mondo di tristezza è opera di Dio? Allora, «Colui che voleva tutto ha voluto il dolore». È opera della natura? Allora la natura non è che una macchina che produce vita inutile: Elle n’a qu’un désir, lamaratreimmortelle, C’est d’enfanter toujours, sans fin, sans trève,encor. Mère avide, elle a prisl’éternitépourelle Et vous laisse la mort. Toute sa prévoyance estpourcequivanaìtre; Leresteestconfondu dansunsuprèmeoubli. Vous qui avez aimé, vouspouvezdisparaìtre, Son voeu est accompli48. Gérard de Nerval, mentalmentefragile,inbilico fra sogno e realtà, perseguitato dai sogni della giovinezza e dai fallimenti amorosi,èvittimadiunacrisi difollianel1853esisuicida nel 1855. Nel frattempo pubblica El Desdichado, tradotto in francese sia con «Il diseredato» che con «L’infelice»: Io sono il tenebroso, ilvedovo,losconsolato, Il principe d’Aquitania dalla torre abolita: Lamiaunicastellaè morta,eilmioliuto È stellato del sole nerodellamalinconia49. Julia Kristeva ha fornito un’interpretazione psicanaliticadiquestopoema in cui, spiega, si può intravedere la sensazione della privazione di un bene sconosciuto, di uno stato indefinibile: «Orizzonte segreto e intoccabile dei nostri amori e dei nostri desideri, esso assume per l'immaginario la consistenza di una madre arcaica che tuttavia nessuna immagine precisa riesce a inglobare»50. Soffrire senza sapere perché, senza causa definibile, è infatti il segno distintivo dei poeti maledetti. Rifiutando di aggrapparsi a surrogati del sacro come le ideologie e i nazionalismi, molti intuiscono la falsità di questi nuovi valori, mentre quelli antichi, religiosi, si sono ormai dissolti. I poeti maledettisisentonoprivatidi un assoluto, senza nemmeno sapere se esista o se stiano vagando in un’esistenza inconsistente. Nervalhaanchetentatodi uscirne attraverso il riso, utilizzando il burlesco come un rifugio nei suoi Contes et facéties: «Il burlesco nervaliano converte il fallimento sociale in scelta etica. Prevenendo l’autosoddisfacimento, costituisce una forma di distacco che permette di rimediare a qualsiasi paralisi o mummificazione dello spirito [...]. Sorriso in contrappunto, il burlesco si sovrappone agli accenti lirici della disperazione [...]. Esso maschera la malinconia di uno scrittore sempre deluso nelle sue speranze politiche, checollezionafallimentisulla scena come nella vita, incapace di rinunciare all’immaginematerna»51. Ilsuoèstatountentativo simile a quello di Théophile Gautier ne Les grotesques (1831-1833).Ilromanziereha espresso frequentemente amarezza, rancore, rabbia potremmo persino dire, contro il mondo in generale. Egli ha la sensazione di un vero e proprio tradimento, rispetto alle sue speranze giovanili: «A vedere una qualche calamità colpire il mondo, provolostessosentimentodi voluttà acre e amara che si prova quando ci si vendica finalmente d’un vecchio insulto.Omondo,chemihai fatto da indurmi a odiarti tanto? [...] Che mi aspettavo da te, da serbarti ora tanto rancore per avermi ingannato?Aqualeambiziosa speranza hai mentito?»52. Queste parole vendicatrici, che attribuisce all’eroina del suoromanzoLa signorina di Maupin, rivelano lo stato d’animo di questa generazione di intellettuali. Nato nel 1811 e amico di Nerval, anche Gautier è passato attraverso la prima fase romantica, la quale nutriva ancora delle illusioni, un ideale: «Sfido una qualsiasi calamità che si abbatta sul mondo a provocare lo stesso sentimento di acre e amara voluttà che si prova quando finalmentecisivendicadiun vecchio insulto. Oh mondo! Cosa mi hai fatto? Perché ti odio tanto? [...] Cosa mi aspettavo da te per serbarti ora tanto rancore per il tuo inganno? Quale mia alta speranzahaideluso?»53. La generazione del secondo Romanticismo non ha più ideali: si ritrova di fronte alla triste realtà senza alcuna speranza di poterla migliorare. Théophile Gautier ironizza sugli anni del primo Romanticismo: «All’epoca era di moda nella scuola romantica apparire pallidi, lividi, verdastri, un po’ cadaverici se possibile, perché dava un’aria fatale, byroniana, [...] divorata dalle passioni e dai rimorsi». Ormailepassionisonofinite, come anche i rimorsi, per lasciar spazio all’abbattimento, all’apatia amaradicolorochesonostati ingannati dalla vita. Paul Bénichou commenta: «Si tratta di un nichilismo assolutamente nefasto per la comunicazione umana, in cui la differenza tra il bene e il male tende a sfumare e la misantropia a invadere l’esistenzasociale»54. Cadetto di Gautier di dieci anni, anche Gustave Flaubert, nato nel 1821, ha conosciuto una fase di romanticismo appassionato prima di accedere a un realismo pessimista più conforme allo spirito degli ambienti del secolo, quando evoca la noia divivereinunmondoinutile, puramente gratuito, in un paese governato dalla «stupidità borghese». Sistematosi in una proprietà nei pressi di Rouen, in una Normandia dal cielo grigio e senza l’incombenza di doversi guadagnare da vivere (la fortuna di famiglia lo priva della distrazione del lavoro necessario), egli osserva la vanità delle cose, l’immensa stupidità di tutti coloro che credono che tutto ciò abbia un senso: «Soffriamo per una cosa soltanto: la Stupidità, che tuttavia è formidabile e universale». Nel corso degli anni Flaubert ha analizzato la società per scrivere i suoi romanzi e non vi ha trovato che noia e sudiciume dappertutto. Nessuna azione vale l’energia che viene impiegata per essere compiuta: «Mangiare, vestirmi, stare in piedi è un supplizio:sonoazionichemi sono trascinato dappertutto, in tutto, attraverso tutto», scrive a Maxime Du Camp. Contrariamente a quanto affermano i trattati sullamalinconia,iviagginon sonodialcunaiuto.Nel1850 FlaubertsirecainEgittoe,il giorno 14 aprile, annota quanto segue: «Accampati a Philae, sabato, domenica e lunedì - non mi muovo dall’isolaemiannoio-cos’è dunque,mioDio,questanoia, questastanchezzapermanente che mi trascino dappertutto! Mi ha seguito in viaggio! L’ho riportata a casa! Il vestito di Deianira non era incollato alla schiena di Ercolequantolanoialoèalla vita,allamiavita!Solochela divora più lentamente, ecco tutto!»55. La noia è l’intuizione del nulla che si infiltra dappertutto, che fa sbiadire l’esistenza e conferisce ai discorsi umani il carattere insipido dei luoghi comuni e delle insulsaggini. Già a diciotto anni il giovane Flaubert esprimeva la sua nausea della vita in un’opera satirica, Smarh (1839),incuiSatanaportain girouneremitaperunavisita guidata del mondo, che si presenta come un triste carnevale: «La vita? Ah! Per Dio o per il diavolo, è assai strana, assai divertente, assai allegra, assai vera; la farsa è buona, ma la commedia è lunga. La vita è un sudario macchiatodivino,èun’orgia in cui tutti si ubriacano, cantanoevomitano». Diversitàdellospleen: Baudelaire,Wilde, Berlioz,TolstojePoe Charles Baudelaire, contemporaneo di Flaubert, è uno spirito gemello. La noia descritta con precisione chirurgica dal romanziere,vieneevocatadal poeta con sonorità ineguagliabili: Quando il cielo bassoegrevepesacome uncoperchio Sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni,eversa, abbracciando l'intero giro dell’orizzonte, una lucediurna più triste della notte; [...] - E lunghi trasporti funebri, senza tamburi nébande, sfilano lentamente nella mia anima, vinta; laSperanza, piange; e l’atroce Angoscia, dispotica, piantasulmio craniochinato,ilsuo nerovessillo56. Quante volte lo ha ripetuto! «Questo paese ci annoia»;lasciamo«lepianure dellanoia»,«lanoiaeivasti dolori». La noia è l’essenza della condizione umana, poiché all’origine Èva, «morsa dalla noia», ha trasmesso questo veleno alla suaimmensadiscendenza. [...] ridurrebbe volentieri la terra a una rovina einunsolosbadiglio ingoierebbeilmondo; ÈlaNoia!57 [...] la noia, frutto dellacupaindifferenza, prende le proporzioni dell’immortalità58. La noia è la fonte dello spleen,angosciasiafisicache metafisica, soffocamento e scoramento,apatiaedisgusto, cheeglidescriveasuamadre in una lettera datata 30 dicembre 1857: «Ciò che sento è un immenso scoramento, una sensazione di isolamento insopportabile, una paura perpetua di un’infelicità dai contorni vaghi, una sfiducia completa nelle mie forze, un’assenza totale di desideri, un’impossibilità di trovare un divertimento qualsiasi [...]. Mi domandavo continuamente: a che pro questo? A che pro quello? È questa la vera essenza dello spleen». La noia dissolve tutto ciò che tocca, alimentando la grande fatica universale, e si nutre del tempo, la cui relatività poetica ha preceduto la relatività scientifica, questo tempo di cui non si vorrebbe sprecare un solo secondo, e che si dilata rispetto all’eternità: Odolore,οdolore,il Temposimangialavita el’oscuro Nemicochecidivora il cuore cresce e si fortifica del sangue che perdiamo59. Vero è che Baudelaire si rinchiude nella sua infelicità. Sindalliceomostradiessere un allievo cinico e difficile, convinto che lo attenda un «destino eternamente solitario». Geniale e troppo convinto di esserlo, egli si isola, disprezzando la stupidità universale,coltivandol’ironia e l’umorismo, ciò lo porta a temibili paradossi: «Accoppiamo i poveri!»60.Dal1841al1844, egli dilapida l’eredità paterna e conduce un’esistenza da dandy, tendenza in cui intravede il «simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito». Ma il dandismo può anche esprimere un mal di vivere che egli cerca di combattere a oltranza, la provocazione nell’apparenza e la cura eccessiva dei dettagli. Il dandy, scrive Albert Camus, «trae la garanzia della sua esistenza unicamente dal volto degli altri». Costringendosi a un rigore di vita quasi monastico, egli rovescia le prospettive accordando la priorità all’inutile, al superfluo, al dettaglio, pur di esprimereilsuodisprezzoper ilmondoordinario,banale,su cui getta uno sguardo cinico. «Il dandismo, grido di noia»61, è una forma di disperazione, una maniera di affermare la superiorità dell’inutile e l’inutilità dell’azione. Lo spleen si esprime quindiinmodimoltodiversi, matuttiillustranoundisgusto per la vita che impregna il mondointellettualeeartistico della metà del XIX secolo. Ben pochi vi sfuggono, qualunque sia la loro nazionalità e la loro disciplina. La creazione trae ispirazione dalla depressione malinconica, fontedicreatività.Anchefrai compositori predomina l’atmosfera tragica, dal tormentato Schumann al depresso Ciaikovskij, che potevarestareanchedueotre annisenzaprodurrealcunché. Berlioz sognava, a volte, di far saltare in aria l’intero pianeta. Egli scrive nelle sue Memorie: «Esistono due specie di spleen: uno è ironico, beffardo, irascibile, violento, astioso; l’altro, taciturno e cupo, non chiede che l’inazione, il silenzio, la solitudine e il sonno. Chi ne viene colpito diventaindifferenteatutto;la rovinadelmondolopotrebbe commuovere appena. Vorrei allora che la terra fosse una bombapienadipolvere,acui darei fuoco solo per divertirmi». Anche la pittura e la scultura hanno un ruolo di rilievo, dalle strane composizioni di William Blake alle opere tormentate di Rodin, fra le quali II Pensatore è come l’eco moderna della Melancholia I diDürer.Magliscrittorisono evidentemente i più chiacchieroni a riguardo. Riserveremo per il capitolo seguente la storia di coloro chehannoelaboratounveroe proprio sistema della disperazione, e terminiamo con un parallelo che illustra l’internazionalismo della depressionepostromantica.Il romanziere russo Lev Tolstoj e l’americano Edgar Allan Poe hanno entrambi descritto il loro stato d’animo, che stranamente si assomiglia. Ilprimoscrive: La verità era questa: che la vita è non-senso. Era come se avessi vissuto molto a lungo e, camminacammina,fossi arrivato a un abisso e avessi visto chiaramente che davanti a me non c’era nulla, se non la rovina:efermarsinonsi può, e tornare indietro non si può e neppure si può chiudere gli occhipernonvedereche davanti non c’è nulla se non l’inganno della vita e della felicità e le sofferenzevereelavera morte: l’annientamento completo. La vita mi aveva disgustato; una forza invincibile mi trascinava a sbarazzarmene in un modoqualsiasi62. EdeccolaletteradiEdgar AllanPoeaunamico: In questo momento sono in preda a sensazioni sgradevoli. Soffro di una depressione dell’animo che non avevo mai provato prima. Ho combattuto invano gli effetti di questa malinconia. Mi crederai setidicochestoancora male nonostante il miglioramento del mio stato. Dico che mi crederai per la buona ragionecheunuomoche scrive in modo lezioso non scrive così. Ti apro il mio cuore; se troverai che ne valga la pena, leggi.Stomaleenonso il perché. Consolami, tu puoi farlo. Ma presto, o sarà troppo tardi. Scrivimi subito. Convincimi che vale la pena vivere, che è necessario, e avrai dimostrato la tua amicizia. Convincimi a fare ciò che è giusto. Noncrederechesiauno scherzo; compatiscimi! Perché sento che le mie parole sono prive di coerenza, tuttavia cercherò di riprendermi. Soffro di una depressionementaleche, se continua, mi distruggerà63. Due uomini infelici, che esprimono il loro sgomento, la loro sofferenza morale apparentemente senza causa, equindisenzarimedio. La malinconia romantica era congiunturale. Il mal di vivere era divenuto uno stato depressivo autonomo ed endemico che colpiva gli individui al di fuori di qualsiasi contesto culturale o sociopolitico, dalla Russia zarista agli Stati Uniti d’America, passando per l’Inghilterra vittoriana e la Francia imperiale. Non si trattava più del «male del secolo», dell’agitazione dei giovaniannoiatieanimatidal furoredivivere,madelmale della modernità, più grave e durevole. 1 É. PIVERT DE SENANCOUR, Oberman, Rizzoli,Milano1983,p.66. 2Ivi,p.83. 3P.B.SHELLEY, Poesie e lettere, Longanesi, Milano 1996,p.65. 4 Citato da J.-P. Bois, Lesvieux,Fayard,Paris1989, p.271. 5 P.-S. BALLANCHE, Le vieillard et le jeune homme, Alcan,Parigi1928. 6 F.-R DE CHATEAUBRIAND, Lettres à Madame Récamier, a cura di M. Levaillant e E.Beaude Loménie,Flammarion,Parigi, seconda ed., 1998, p.467 (primaed.1951). 7 Goya assistito dal dottorArrieta,1820,Institute ofArts,Minneapolis. 8 J.W. VON GOETHE, Faust,w.6785-6789. 9 U. FOSCOLO, Le ultimeletterediJacopoOrtis, 1799. 10 A. DE LAMARTINE, Cours familier de littérature: un entretien par mois, Parigi1856-1869,p.73. 11CitatodaG.PRICE, TheNarrowPass:AStudyof Kierkegaard’s Concept of Man, Hutchinson, Londra 1963,p.45. 12 Citato da H. FERGUSON, Melancholy and the Critique of Modernity: Soren Kierkegaard’s Religious Psychology, Routledge, Londra 1995, pp. 17-18. 13 P.G. MAINE DE BIRAN, Premier journal, «Del’homme»,inOEuvres,a curadiP.Tisserand,14voli., Parigi1920-1949,1.1,p.26. 14 ID., journal, La Baconnière, Neuchàtel 19541957,3voll.,t.Ili,p.225. 15 Ibidem, in data 30 ottobre1816. 16 Lettera del 4 giugno 1790aMadamedeCharrière, citata in G. RUDLER, La jeunesse de Benjamin Constant,Colin, Parigi 1909, p.376. 17Ibidem. 18 F.R. DE CHATEAUBRIAND, René, Mondadori, Milano 1982, p. 171. 19 F.R. DE CHATEAUBRIAND, Genio del Cristianesimo,LibroIII,Cap. IX, Stabilimento Tipografico Fontana,Torino1843,p.221. 20Ivi,p.222. 21 F.R. DE CHATEAUBRIAND,Genio..., cit., ρ.63. 22CH.FORBES,contedi Montalembert, Les Moines d’Occident depuis saint Benoit jusquà Saint Bernard, Parigi, seconda ed. 1863,1.1,ρ.XXXI. 23PH.PINEL,Réflexions médicales sur l'état monastique, «Journal gratuit»,1970,p.81[1790], 24PH.PINEL,Lamania: trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale, Marsilio, Venezia 1987,pp.63-64. 25 J.-K. HUYSMANS, En route, Parigi 1895, I, 7; trad, it., Per strada, Rizzoli,Milano1961. 26 É. TARDIEU,L'ennui. Étude psychologique, Alcan, Parigi1903,pp.107-113. 27CH.-A.SAINTE-BEUVE, Port-Royal,t.I,libro1,cap.8. 28 LORD BYRON, Euthanasia, trad, di Carlo Rusconi,UnioneTipograficoeditrice, Torino,vol. V, p. 183. 29 Citato da L. WOLPEKT, Malignant Sadness. The Anatomy of Depression, The Free Press, Londra 1999, pp. 7-8 [traduzionenostra]. 30 G. BÜCHNER, La morte di Danton, Rizzoli, Milano1955,p.83. 31 D. IEHL, Le grotesque,PUF, Parigi 1997, p.66. 32 G. LEOPARDI, Zibaldone,NewtonCompton, Roma1997,p.4526. 33 G. LEOPARDI, Canto notturno di un pastore errantedell’Asia,inPoesie. 34 G. LEOPARDI, Sopra un basso rilievo antico sepolcrale,inPoesie. 35 G. LEOPARDI, Alla luna,inPoesie. 36 «Camminavi cantando nella tua strada isolata; / Venne l’ultima ora, tante volte chiamata; / La vedestiarrivaresenzapaurae senza rimorsi, / Gustando finalmente “il fascino della morte”»[traduzionenostra]. 37 P. BÉNICHOU, L’école du désenchantement: Sainte-Beuve, Nodier, Musset, Nerval, Gautier, Gallimard, Parigi 1992, p. 179. 38 É. DURKHEIM, Le suicide. Étude de sociologie, Quadrige/PUF, Paris 1991, p. 315; trad, it., Il suicidio: studio di sociologia, Rizzoli, Milano1997,p.288. 39 A. DE VIGNY, I destini, in Poemi antichi e moderni, I destini, Garzanti, Milano 1991; «La casa del pastore»,III, vv. 279-280, p. 287. 40 P. BÉNICHOU, L’école...,cit.,p.581. 41Ivi,p.585. 42S.MALLARMÉ,Poesie e Prose, Garzanti, Milano 1992,Apparizione,p.17. 43 Tratto da Romanze senzaparole, in M. LANDI (a cura di), Antologia della poesia francese, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2004,p.515. 44 A. RIMBAUD, Una stagione all’inferno. Newton Compton, Milano 1995, pp.43-44. 45Ivi,p.29. 46A.CAMUS,L'uomo in rivolta, in Opere, Bompiani, Milano 2000, p. 717. 47Dopol’angosciaela follia,/Comelanottedopola sera, / L’oblio è giunto.Poichéiodimentico,/ Ed è la mia ultima disperazione [traduzione nostra]. 48 Non ha che un desiderio, l'immortale matrigna, / Partorire sempre, senza fine, senza tregua, ancora. / Madre avida, si è presa l’eternità per sé / E a voi lascia la morte. / Si cura solo di ciò che nascerà; / Il restoèconfusoinunsupremo oblio. / Voi che avete amato, voi potete sparire, / Il suo desiderio è esaudito [traduzionenostra]. 49TrattodaLeChimere, «El Desdichado», in M. Landi (a cura di), Antologia...,cit.,p.437. 50 J.KRISTEVA, Sole nero. Depressione e malinconia, Feltrinelli, Milano1989,p.127. 51 F. SYLVOS, La référence au burlesque dans l’oeuvre de Gérard de Nerval, in Poétiques du burlesque: actes du colloque international du Centre de recherchessurleslittératures modernes et contemporaines del'UniversitéBlaisePascal, 1996, a cura di D. Bertrand, Champion, Parigi 1998, pp. 439,443. 52 T. GAUTIER, La signorinadiMaupin,Rizzoli, Milano1958,p.179. 53Ibidem. 54 P. BÉNICHOU, L’ecole...,cit.,p.532. 55 Citato da P.-M. DE BIASI, Baudelaire/Flaubert. La chute d’Adam et du haromètre, «Magazine littéraire», n. 400, luglioagosto2001,p.37. 56 CH. BAUDELAIRE, I fiori del male, LXXVIII, Spleen, La Stampa, Torino 2003,p.133. 57Ivi,Allettore,ρ.7. 58Ivi,LXXVI,Spleen,p. 131. 59CH.BAUDELAIRE,X,Il nemico,p.29. 60SivedaG.MINOIS, Storia del riso e della derisione,Dedalo,Bari2004, p. 654: Baudelaire: «il riso è satanico,dunqueumano». 61F. COBLENCE, Le dandysme, obligation d’incertitude, PUF, Parigi 1988,p.223. 62 LEV TOLSTOJ, Confessioni,Marietti,Genova 1996,p.42. 63 Citato da L. WOLPERT, Malignant Sadness..., cit., p. 9 [traduzionenostra] Capitoloottavo Isistemidella disperazione:il nichilismodelXIX secolo I malinconici e i pessimisti ci sono sempre stati, ma nel XIX secolo prendono forma le ideologie della disperazione, la cui espressione più completa è il nichilismo. Ma è coerente costruire un sistema di pensiero sulla negazione assoluta, sul rifiuto dell’essere? Affermare che il nulla sia meglio dell’essere ad alcuni sembra impensabile, oppure un chiaro segno di follia. Ma la domanda di Amleto resta in sospeso: quale argomentazione permette di concluderechesiapreferibile l’esserecheilnonessere?La sola giustificazione dell’essereèsestesso,tuttoil resto è sentimento, immaginazione, convinzione intima, istinto vitale, ma in nessuno caso è prova intellettuale, poiché qualunque argomentazione può essere annientata dall’argomentazione contraria. Tutte le giustificazioni tradizionali dell’esistenza, che si basavano essenzialmente sull’idea del sacro, hanno mostrato i loro limiti. Certo, nel XIX secolo si uccide sempre in nome di Dio,dell’uomoodellapatria, ma alcuni hanno compreso quanto siano vane tali illusioni. Il grande meccanismo universale che girasusestessohaperdutoil suofascinoeappareoracome una macchina infernale che perpetua le sofferenze indefinitamente. Schopenhauerfranoia esofferenza L’espressione più completa di questo rifiuto dell’essere nel pensiero occidentale dilaga in Germaniaall’iniziodelsecolo conlapubblicazionenel1818 di un’opera imponente, Il mondo come volontà e rappresentazione. L’autore è ungiovanefilosofotrentenne, Arthur Schopenhauer, appartenente alla prima generazione romantica. Egli condivide la disillusione e il disincanto dei suoi contemporanei, tuttavia vuoleestrapolarneunateoria. Laddove gli altri vedono ancora un semplice fattore congiunturale e sperano sempre in tempi migliori, Schopenhauer discerne una struttura della mente umana. I poeti romantici si dibattono in preda agli eventi fino a partecipare a vere e proprie rivoluzioni; Schopenhauer si distingue dalla mischia considerando il male del secolo come l’espressione di un male molto più profondo, vale a dire il mal di vivere: «La vita oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali»1. L’intera vita umana è un’alternanza ineluttabile di dolore e di noia; l’uomo fugge il dolore solo per sprofondare nella noia. «La vita non è che una lotta continua per l’esistenza, con la certezza di una disfatta finale. [...] Essa non fa che avvicinarsi man mano al grande, al totale, all’inevitabile,all’irreparabile naufragio;sapendocheilsuo è un veleggiare verso il naufragio,versolamorte».Ci muoviamo verso un fine, la morte,cherespingiamoilpiù lontano possibile, poiché siamo animati da una forza misteriosa, incomprensibile, la volontà di vita, che sostiene anche i più infelici: «Ciòchetiendestieinmotoi viventi, è il desiderio di vivere.Orbene:assicuratache abbianolavita,nonsannopiù chefarsene:-sopravvieneun altro stimolo: il desiderio di liberarsi dal peso dell’esistenza, di renderlo insensibile, di “ammazzare il tempo”; in altre parole, di sfuggire alla noia»2. La noia, ossessione dei poeti maledetti, terrore degli intellettuali e grande nemica dell’uomo moderno: «Se il bisogno è il flagello del popolo, la noia è il supplizio delle classi superiori. Nella borghesia, la noia è rappresentatadalladomenica, ilbisognodaglialtriseigiorni della settimana»3. La domenica cristiana è la concretizzazione di questa noia, domenica cupa e grigia incuiiltemposidilataanon finire.AtalpropositoJacques Prévertevocherà: quelli che muoiono di noia la domenica pomeriggio perché vedono venireillunedì eilmartedì,[...] e la domenica pomeriggio sempre così4. Combattere la noia è un dovere di salute pubblica per lo Stato, «poiché insieme al suo estremo opposto, la miseria,formanounamiscela esplosiva in grado di portare gliuominiallemanifestazioni più estreme». Gli imperatori Romaniloavevanocapitoed è noto a tutti quanto sia costato alla Quinta Repubblica, nel 1968, il non avere notato che «la Franciasiannoiava». Tuttavia, afferma Schopenhauer, la noia è inevitabile, così come la sua alternativa, il lavorodivertimento, fonte di sofferenza: «Ecco la verità: dobbiamoessereinfelici,elo siamo». Ci dibattiamo in un caos di problemi, rifuggendo la noia, ma solo percaderenellasofferenza,e fuggendo la sofferenza ripiombiamo nella noia, a tal punto che «non si troverà forsemaiunuomoassennato e sincero, il quale, giunto al fine della sua esistenza, si auguri di tornar da capo, e a taleprospettivanonpreferisca di gran lunga il più assoluto nonessere»5. Per illustrare l’infelicità delmondoinquestoiniziodi rivoluzione industriale, il filosofo non ha che l’imbarazzodellascelta,dalla schiavitù alla condizione operaia. Tutto ciò non porta danessunaparte:siamocome talpechenonsmettonomaidi scavarenelbuiosenzasapere perchinéperqualemotivo,e le nuove generazioni che produciamo faranno la stessa cosa. Perché dunque sentirsi turbati dalla pena di morte? «Si potrebbe credere che si tratti di tutt’altra cosa che non semplicemente abbreviare di qualche anno un’esistenza vuota, triste, inasprita da mille tormenti e sempre incerta; si potrebbe veramentepensarechesiaun evento di importanza straordinaria vedere un individuo arrivare qualche anno prima là dove, dopo un’esistenza effimera, deve restare per miliardi di secoli»6. La sofferenza è accresciuta dalla nostra consapevolezza della sventura. «L’uomo incapace di riflettere è sensibile solo alle sofferenze reali; ma per l’uomo pensante, al tormento reale si aggiunge una perplessità teorica: egli si chiede perché un mondo e una vita, fatti dopo tutto perché li si trascorra in felicità, rispondano così malealloroscopo»7.Comesi può essere ottimisti? «L’ottimismo, nelle religioni come nella filosofia, è un errore fondamentale che sbarra la strada a qualsiasi verità»8. «Non vi è che un errore innato, quello che consiste nel credere che esistiamo per essere felici [...].Piùpersistiamoinquesto errore innato, peraltro reso recidivodadogmiottimistici, piùilmondocisembrapieno di contraddizioni»9.«L’ottimismo quando non sia chiacchiera vuota sulla bocca di persone il cui stupido cervello sia capace soltanto di parole, mi sembra un’opinione, non soltanto assurda, ma veramente empia; un odioso dileggio di fronte alle inesprimibili sofferenze dell’umanità»10. Anche se fosseunsolouomoasoffrire, sarebbe ancora troppo perché tale sofferenza apparirebbe comunque ingiustificata. «Abbiamomoltomenodicui rallegrarci rispetto a quanto abbiamo per cui affliggerci dell’esistenzadelmondo,[...] la sua non-esistenza sarebbe preferibile alla sua esistenza»11. In altri termini il mondo non dovrebbe esistere. Chi è in grado di avanzare la minima giustificazione per l’esistenza del mondo? «Se quindi un uomo osa sollevare tale questione: “Perchénonilnullainvecedi questomondo?”,larispostaè che il mondo non si puògiustificareconsestesso, non può trovare alcuna ragione in se stesso, alcuna causa finale della propria esistenza,nonpuòdimostrare di esistere per se stesso, cioè per il proprio vantaggio»12. Ed è esattamente il motivo per cui le religioni hanno inventato i miti, i quali non fannocheaumentarelanostra inquietudine. «L’uomo dovrà un giorno rendere conto di ogni ora della sua esistenza; ma sarà egli stesso a essere benpiùautorizzatoachiedere anzitutto il motivo per il quale è stato sottratto al riposo e gettato in una situazione così critica, cupa, tormentataedolorosa»13. La vita non è altro che una farsa sinistra. Solo la contemplazione artistica a volte può renderla sopportabile perché, creando una rappresentazione, permette di tenere a distanza ildoloreelanoia:«Cisottrae almondorealeecitrasforma in spettatori disinteressati di questo mondo». Smettere quindi di essere attore in questa pièce tragica per diventare spettatore di un mondo trasfigurato è un atteggiamento che può costituire solo una breve parentesi nella nostra vita. Il riso potrebbe forse essere un’altra soluzione? Schopenhauer disprezza profondamente il riso volgare; a suo parere il vero risoèquelloseriodelfilosofo posto di fronte «all’insormontabile conflitto del voler-vivere e dell’impossibile giustificazione dell’esistenza umana».Neancheilsuicidioè una soluzione, poiché «Il suicida vorrebbe vivere: solo che non è soddisfatto di ciò che gli viene offerto. Distruggendo il suo fenomeno, il suicida non rinunzia dunque al voler vivere, ma unicamente al vivere. Bramerebbe la vita, e vorrebbe che il suo corpo potesse esistere e affermarsi senza ostacoli; soffre atrocemente, perché ciò non gli è permesso dalla complicazione delle circostanze»14. «Il suicidio appare come un atto vano e dissennato; distrugge arbitrariamente il fenomeno particolare, ma la cosa in sé rimane sempre intatta»15. Bisogna quindi superare la malinconia: «L’allentamentodeldesiderio diviveregeneral’ipocondria, lo spleen, la malinconia, e l’esaurimento completo di tale desiderio provoca la tendenzaalsuicidio»16. L’opinionepubblicanonè prontaadaccettareunsistema cosìdisperato.Ilmondocome volontà e rappresentazione è un fallimento editoriale, a tal puntochealcunecentinaiadi esemplari vengono mandate al macero per mancanza di lettori.Latendenzageneraleè di prendere le distanze da questo giovane autore, causa didemoralizzazionepubblica. Egli organizza quindi un corsoaBerlinonel1820,che è poi costretto a lasciare nel giro di dieci mesi permancanzadipartecipanti. Per più di trent’anni Schopenhauer resta in disparte a osservare con amarezzalastupiditàdeisuoi contemporanei, che trionfano con libri di una superficialità desolanteoconautobiografie di celebrità mondane. Nel 1850 egli scrive scoraggiato: «I giornali hanno appena annunciato che Lola Montes ha intenzione di scrivere le suememorie,egiàglieditori inglesi le hanno offertogrossesomme.Eccoa che punto siamo». Il filosofo invecchia restando fedele al pessimismo,cosachenongli impedisce di essere perfettamente equilibrato, come osservano i suoi visitatori. Forse è stata la reputazione della sua opera che, nel 1859, ha portato Challemel-Lacour a rivelare che, in sua presenza, aveva sentito «un soffio gelido attraverso la porta socchiusadelnulla». Nel1844vienepubblicata una seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione, ma neanche questa godrà di maggior successo della prima. La forma è probabilmente una della cause del fiasco editoriale: persino l’ottimismo si venderebbe male in un volume di millecinquecento pagine. Nel 1851 Schopenhauer sfoga la sua disperazione sotto forma di aforismi nelle Parerga et paralipomena, opera che questa volta si rivela un successoechegliconsentedi far pubblicare una terza edizione del Mondo nel 1859,unannoprimadellasua morte. Hartmann,Stirner, Keller,Twain:levarietà delladisperazione Terminata l’epoca del primo romanticismo, quello della malinconia, i sogni scompaiono e giunge il momento dei poeti maledetti. Il grande pubblico è più aperto ai teorici della disperazione,neèconfermail trionfo, nel 1869, della Filosofia dell’inconscio a opera di un discepolo di Schopenhauer, Eduard von Hartmann, un giovane di ventisette anni: quattro edizioni in quattro anni, otto in dodici anni, dodici prima dellafinedelsecolo. Secondo Hartmann sarebbe stato meglio se questo mondo non fosse esistito; la vita è un inganno che nessuno vorrebbe sperimentare nuovamente, la consapevolezza non fa che accrescerelanostrainfelicità, tutto è vano, «l'umanità ha nostalgia del nulla, dell’annichilimento», tuttiipensatoriafavorediun progresso collettivo, che siano socialisti o positivisti, vendono illusioni. Dal canto suo, Hartmann non è convinto dell’astinenza sessuale; egli propone di organizzare un suicidio collettivo dell’umanità, una sorta di eutanasia planetaria. Nel 1874, con l' Autodistruzione del cristianesimo e la religione dell’avvenire, egli afferma che i progressi tecnologici permetteranno un giorno a tutti gli uomini di entrare simultaneamenteincontattoe prenderanno coscienza della loro infelicità; essi metteranno fine alla loro volontà di vivere arrivando alla decisione di una morte collettiva17. Hartmann ha visto giusto per quanto riguarda il lato tecnologico, Internet ha infatti realizzato il suo primo desiderio; ma la società consumistica, fino a ora,hafrustratoilsecondo. Nel 1844 è comparso un ennesimo sistema della disperazione: L' unico e la suaproprietàdiMaxStirner. Pubblicato a Lipsia, il libro viene inizialmente autorizzato e poi vietato. Ci siamo sbarazzati dell’idea di Dio, scrive Stirner, ma l’abbiamo sostituita con un’altra mistificazione, l’Uomo,chenonesistepiùdi quanto esista Dio. La sola realtà è l’Unico, vale a dire l’Io: «Nulla è superiore all’Io», tutti dovrebbero riconoscere questo concetto invecedinascondersidietroi miraggidiumanitàediclassi sociali. L’umanità atea, sfidando un’illusoria essenza umana, non ha fatto che sostituire una tirannia con un’altra persino peggiore della prima: «Trasferendo all’uomociòche,finoaora,è appartenutoaDio,latirannia del sacro non può che diventare più feroce, poiché l’uomo è ormai incatenato allapropriaessenza».Nonc’è Dio,nonc’èl’Uomo,c’èsolo l’Io, e bisogna liberarlo rifiutando tutte le trascendenze e tutti gli idoli, al di là di qualunque idea di comunicazione con l’altro, che è irrimediabilmente fuori portata. La conseguenza è un nichilismo disperato, un vicolo cieco. L’Io è indeterminato, si deve autocreare nelle sue azioni, ma senza illusioni: «Se io pongo la causa su me stesso, l’unico, essa poggia sull’effimero e mortale creatore di sé, il quale consumasestesso,eioposso dire:hopostolamiacausasu nulla»18. L’Io non può che assistere allo spettacolo della propriadistruzione. Queste frasi di Stirner illustrano lo sgomento dei pensatori individualisti del XIX secolo, i quali rifiutano di integrarsi nelle nuove ideologie di massa. Essi avvertono la morte di Dio non solo come liberazione, ma come morte del Padre sulle cui conseguenze meditare. Introversi, inquieti, angosciati,essicapisconoche ormai tutti sono irrimediabilmente soli. I nuovi idoli, come la classe sociale,lanazione,l’umanità, possono solo asservire l’individuo. La democrazia stessa è un Leviatano che divora il cittadino. Scrive Stirner: «Un popolo può essere libero solo a discapito dell’individuo, poiché la sua libertà non coinvolge che lui e non significa l’affrancamento dall’individuo;piùilpopoloè libero, più l’individuo è vincolato.Einfattinell’epoca della sua più grande libertà cheilpopologrecostabilisce l’ostracismo,bandiscegliatei e fa bere la cicuta al più probo dei suoi pensatori». Pertanto la sola liberazione possibile dell’individuo risiede nel nichilismo: «L’umanitàverràseppellita,e sulla sua tomba, Io, finalmentemiounicosignore, Io,ilsuoerede,Iosarò». Una decina di anni dopo, Gottfried Keller esprime l’angoscia della solitudine esistenziale in Heinrich il Verde. Questo romanzo, pubblicato nel 1855, ripercorre la vita di un uomo che, in apparenza, aveva tutto per essere felice, ma che finisce per morire di disperazione. Anche qui il pubblicononriesceaseguire. «La critica non ammette che la tragedia dell’esistenza possanonaverevied’uscita», scrive Jean-Marie Paul a riguardo19. Keller si trova quindi a dover riscrivere la finedelsuoromanzo. Sulla scia dei tedeschi disperati va collocato probabilmente anche un americano altrettanto disperato, Mark Twain. Nato nel 1835, quest’uomo del popoloèungrandeartistadel nonsenso pessimistico integrale. Solo il suo umorismo lo salva, àncora di salvezza di tutti i disperati, masitrattanelsuocasodiun umorismo decisamente noir. In un’opera postuma, Lo straniero misterioso, egli narra l’arrivo di uno sconosciuto in una piccola cittadina austriaca del XVI secolo. Lo sconosciuto è dotato di poteri miracolosi e dà prova di una totale insensibilità morale. Si tratta del nipote di Satana il quale agisce unicamente secondo logica: egli uccide un bambino perché sa che in futuro diventerà infermo; fa impazzire un uomo per evitarglidirendersicontodel destino atroce che lo attende. Tali gesti fanno già risaltare l’assurdità della condizione umana, anche in ciò che di piùrispettabilesembraavere: guarire qualcuno da una malattia non significa forse permettergli di morire più avanti di una malattia ancora peggiore? Questa assurdità sarebbe insopportabile se Dio esistesse. Fortunatamente, inviandociilnipotediSatana per annunciarci la sua inesistenza,Diocihadatoun grande segno del suo senso dell’umorismo: «Non esiste nessun Dio, nessun universo, nessuna razza umana, vita terrena, paradiso, inferno. È tutto un Sogno, un sogno grottesco e senza senso. Non esisti che Tu. E Tu non sei che un Pensiero, un misero Pensiero, un Pensiero inutile, senza un posto dove andare, che vagherà dimenticato persemprenell’eternitàvuota diognicosa!»20. Kierkegaardela psicologiadell’angoscia Nei sistemi della disperazione del XIX secolo, Soren Kierkegaard occupa una posizione originale. Personalità tormentata, gli viene impartita un’educazione protestante eccessivamenteausteradicui mantiene i tratti colpevolizzanti. Durante la sua breve vita (1813-1855) egli passa attraverso tutte le tappe classiche del mal di vivere, dedicandosi interamenteallorostudio. Il titolo della sua opera principale, Aut-Aut (1843), riassumeildrammadellasua vita. Vivere significa essere continuamentepostidavantia delle scelte, ma scegliere è fonte di angoscia, poiché significa rinunciare a qualcosa. L’anno seguente riprende la stessa idea ne II concetto dell’angoscia. Interpretando nuovamente il mito di Adamo ed Èva, Kierkegaard dimostra che l’essenza del peccatooriginaleèl’angoscia della libertà davanti alle infinite possibilità di scelta. Adamositrovavainunostato di innocenza felice, fino al momento del divieto divino,chelohamessonella posizione di dover scegliere: «Il fondamento stesso del potere del serpente [...] risiede nell’arte di provocare l’ansia»21, scrive nel suo Diario. La scelta genera il rimorso, il senso di colpa, la disperazione. Inoltre, aggiunge Kierkegaard, la scelta non è veramente libera, come eglistessohasperimentatoin gioventù: i nostri bisogni, le nostrepulsioni,inostriistinti ci turbano, e tutto questo sottolosguardoimpietosodel Dio dell’amore: «La legge rende l’uomo peccatore, ma l’amorelorendeunpeccatore ancorapiùgrande»22.Adamo nonpuòchesentirsiincolpa, e noi dopo di lui, «davanti a Dio siamo sempre in torto», di modo che «nel cristianesimo esiste un solo vero rapporto: l’odio per se stessi e l’amore per Dio: qualsiasi tentativo di affermazione di sé è una colpa»23. L’angoscia forma il tessuto stesso dell’esistenza. È una paura senza fondamento, è il niente e la sua paura, che paralizzano l’individuo: «La persona colpita dall’angoscia si lamentaperqualcosacheleè caduto addosso, come se dovesse portare un peso, ecc. Questa pressione, questo fardello, non proviene dall’esterno: proprio come quando si parla di un’illusione ottica o acustica, essa è il riflesso interno di qualcosa di esterno»24. L’ansiosoèincapacediagire, è inattivo, apatico, avverte una sorta di nausea. Kierkegaard, che ha passato la vita a studiarsi, analizza questo stato che percepisce continuamente: «La mia vita è cominciata senza spontaneità con una spaventosa malinconia, ed è stata turbata sin dall’infanzia nella sua base piùprofonda»;«Sipuòavere ciò che si vuole, salvo quest’unica cosa: rifiutare il fardello della malinconia che mi costringevainsuopotere[...], di cui ho appena finito di sentirecompletamenteilpeso [...].Ciòsiriallacciavaalmio pensiero malinconico più profondo per cui, a ben vedere, ero un buono a nulla nelverosensodeltermine»25. Kierkegaard ritorna costantemente su quest’idea: la malinconia è sua intima confidente, la sua «amante più fedele». Egli la condivideva con suo padre e sosteneva di non scambiare con lui una sola parola su questo tema, tuttavia riconosceva il fatto che fossero probabilmente i due esseri umani più malinconici mai esistiti a memoria d’uomo26. La malinconia è uno stato incomunicabile poiché la sua causa è sconosciuta; essa è una «tristezza senza causa», una «perdita dell’essere», o ancora «l’isteria della mente»; è il segno distintivo dicolorochepensanotroppo, «la mia sofferenza è dovuta alla sensazione di non essere veramenteunuomo,diessere troppo spirito», e di chi non ha sufficiente volontà: «La malinconia è un peccato [...], è il peccato di non volere profondamente e sinceramente, ed è dunque la madre di tutti i peccati». Ritroviamo qui una reminiscenza dell’accidia medievale:«Miassocioauna vecchia dottrina della Chiesa cheannoveravalamalinconia fraisettepeccaticapitali». Si tratta dunque di una colpa, ma di una colpa felice poiché offre una specie di rifugio dal mondo moderno per il quale Kierkegaard non si sente adatto: un mondo superficiale,dovelatendenza esibizionistica ha la meglio sull’autenticità, dove tutto diventa spettacolo, dove la chiacchiera non è che una caricaturadellaconversazione (le traduzioni inglesi utilizzanoquiilterminechat, chatter). In questo stato di agitazione perpetua, l’individuo è portato a lanciarsi a corpo morto in un attivismo in cui rischia di dissolversi diventando puro oggetto,oppurearinchiudersi in se stesso in uno stato di «solitudineinteriore». Aut-Aut descrive questo atteggiamento malinconico che viene chiamato a svilupparsi, ma che è anche caricodiansiaedisperazione. In questo contesto Kierkegaard delinea il suo maldivivere:«Nonmivadi farnulla.Nonmivad’andare a cavallo, è un esercizio troppoviolento;nonmivadi camminare, mi stanca troppo; non mi va di sdraiarmi, perché, o bisogna restare sdraiato, e questo non miva,obisognerebbealzarsi, e nemmeno questo mi va. Summa summarum: non mi va di far nulla»27.Questa completa apatia si accompagna a una serie di immagini tristi, di sogni inquietanti,dipensieriturbati, di presentimenti oscuri, di ansie inspiegabili. Questo moderno Amleto si definisce continuamente assente da se stesso, straziato fra i rimorsi del passato e le speranze del futuro, nella «noia spaventosa» del presente. Il suo animo è «pesante», e tuttavia «vuoto e insignificante». Lanoia,comel’angoscia, è antica quanto l’umanità: «Adamo si annoiava perché era solo; ecco perché fu creata Èva. A partire da quel momento, la noia si insediò [...]. Adamo ed Èva si annoiarono insieme, dopo Adamo ed Èva, Caino e Abele, si annoiarono in famiglia [...]. Per distrarsi, ebberol’ideadicostruireuna torre così alta da proiettarsi verso il cielo [...]. Essa rappresenta una prova terribile della supremazia della noia in quel momento. Vennero poi dispersi nel mondocomepermettedifare oggiunviaggioall’estero,ma continuaronoadannoiarsi»28. Per combatterla, non possiamofareaffidamentoné sullavoro(«Illavoropuòfar scomparire l’ozio, ma non la noia») né sul divertimento, che è peraltro un’altra forma di noia: «A volte la malinconia che proverai sarà più forte che mai e forse ti prenderàallasprovvista,cosa che non è riuscita ancora a fare sino ad ora»29. Inoltre il divertimento distrugge la personalità.Lasolaeveravia d’uscita è la disperazione, raggiungibileelevandosialdi sopradisestessi,perriuscire a vedere la vanità di tutte le attivitàumane. La malinconia è quindi il temperamento privilegiato grazie al quale possiamo comprendere il mondo e dominarelasuainquietudine. Essaèinrealtàlacondizione normale dell’essere umano. Se molti non la sentono, aggiunge Kierkegaard, è perché la modernitàtendeadappannare la personalità nell’infraumano, sia con un accrescimento dei divertimenti, sia con concetti chesvalutanol’esistenza.Ma la consapevolezza crescente della nostra vera situazione è ineluttabile: «Non c’è dubbio che la nostra sia un’epoca di depressione mentale; la sua ubiquità si basa sulla consapevolezza del mondo moderno come insieme di oggetti individualizzati, isolatinellospazio,emessiin movimento dalle “leggi della natura”, svuotate di qualsiasi intento e scopo, e cieche rispetto alle loro conseguenze»30. Ilnichilismo Nella seconda metà del XIX secolo si afferma una seconda corrente intellettuale che porta tutte le forme di disperazione alla loro conseguenza logica estrema: il nichilismo. Alla fine del secolo il pessimismo di Schopenhauer e l’angoscia di Kierkegaard si fondono insieme: essere al contempo razionalmente convinti che il mondo non dovrebbeessereesoffrireper il fatto di essere al mondo porta alla volontà di distruggerlo. Il nichilismo non è un’esclusiva dei tempi moderni. Per limitarci all’Occidente,ricordiamoche gli scettici e i cinici dell’Antichità usavano un linguaggio che portava alla negazione di qualunque veritàediqualunquerealtà.Il sofista Gorgia di Lentini, nel suo trattato Del non essere o della natura, ha anche dimostrato che è impossibile provare l’esistenza di qualcosa, impossibile formularla e comunicarla, poichéillinguaggiononèche un tessuto di simboli formali privo di una corrispondenza certa con la realtà. L’atteggiamento del cinico Diogene non illustra forse il fattochesarebbepreferibileil nulla a questo mondo? E gli gnostici non affermano forse cheilmondo,intrinsecamente cattivo, debba scomparire? Nel cristianesimo, la mistica dell’annientamento si lega pericolosamente alla nozione divuoto.NelsecolodeiLumi subentrano i materialisti: nasce il cosiddetto «nientismo» che, secondo Sébastien Mercier, negli anni ’80 del 1700 coinvolge una buona partedeiParigini31.All’inizio del secolo l’abate Meslier aveva già espresso, alla fine del suo Mémoire, la fascinazione per il niente: «Finirò quindi con il niente, in fondo non sono più di un niente, e presto sarò niente»32. Il Mefistofele di Goethe afferma: «Sarebbe meglio se non esistesse niente». I romantici riprenderanno questo richiamodelvuoto.Iltermine «nichilismo» inizia a diffondersi nella prima metà del XIX secolo, «e col nichilismo non v’è discussione possibile, poiché il nichilista logico dubita che il suo interlocutore esista, ed egli stesso non è affatto sicuro d’esistere», scrive HugoneIMiserabili. Il termine prende veramente corpo, se così si puòdire,nellalontanaRussia della seconda metà del XIX secolo. Lo troviamo in Tolstoj,grandeammiratoredi Schopenhauer, in Dostoevskij, padre della formula «Se Dio non esiste, tutto è permesso», e soprattutto in Turgenev che, in Padri e figli (1862), fornisce questa definizione: «È un nichilista [...]. Viene dal latino nihil, nulla [...], dunque questa parola indica un uomo, il quale... il quale non ammette nulla?” - “Dì piuttosto:ilqualenonrispetta nulla”ripresePavelPetrovich [...]. “Il quale considera tutto da un punto di vista critico” osservò Arcadij “che non presta fede a nessun principio,daqualsiasirispetto tale principio sia circondato”»33. Come possiamo notare, il termine «nichilista» designa sia uno scettico assoluto, che dubita dell’esistenza del mondo, che un pessimista integraleperilqualeilmondo non dovrebbe esistere, oancorauntipodianarchico che rifiuta qualsiasi valore, morale, politico o altro. Il nichilista Bezarov, l’eroe di Padri e figli, omologa tutti i valori affermando che le attività più nobili sono fare stivali e curare le emorroidi. Ma il termine è più spesso utilizzatodaisuoinemicicon connotazionepeggiorativa,se nonaddiritturaconintentodi insulto: «Il termine “nichilista” è gergale, ed è stato anticipato in Russia dai nemici del movimento radicale e realista. In seguito èrimasto,manoncercateuna definizione del nichilismonell’etimologia»34, scrive nel 1869 Alexandre Herzen, egli stesso esiliato a causa delle sue posizioni rivoluzionarie. Da Cigalev dei Demoni a Suvarin del Germinale,laletteraturaoffre alcuni validi esempi dello scatenamentodiunaviolenza cieca, che disdegna qualunque forma di vita e appare come lo scoppio di unarabbiatrattenutatroppoa lungocontrol’essere. Il nichilismo degli intellettuali russi non è solo una dottrina politica (per molti l’unica soluzione è quella di far saltare tutto), ma è anche legato a una forma di spiritualità ortodossa. Come faceva notare Nicolas Berdiaev,«Ilnichilismorusso ha negato Iddio, lo spirito, l’anima, le norme e i valori supremi. Nondimeno il nichilismo va considerato un fenomeno religioso. Essendo sorto dal terreno spirituale dell’ortodossia, esso potè manifestarsisoloinun’anima che aveva ricevuto una formazione ortodossa. Esso è in certo modo l’ascetismo ortodossostravolto,unasorta di ascetismo privato della grazia»35. Compimento estremo delle diverse forme del mal di vivere, il nichilismo unisce tutte le forze dell’individuo, intelletto e passione, in un’esplosione finale definitivacontrol’essere. e Dostoevskije Maupassant:«Ache pro?» Attraversolalorovitaele loro opere, due scrittori illustrano la violenza di questa corrente tormentata. Il caso di Fedor Dostoevskij (1821-1881), depresso,epiletticoeansioso, ha attirato l’attenzione di numerosi specialisti delle scienze umane e mediche, da Sigmund Freud a Julia Kristeva, da Albert Camus a PhilippeSollers. Dostoevskij insiste sul primato della sofferenza come esperienza primordiale dell’essere umano, come sfondo della coscienza, insistenza nella quale Freud ha visto l’espressione di un «masochismo primario». Tutto accade come se il passaggio alla vita si traducesse con la sensazione di uno squarcio fondamentale, di un trauma incancellabile per la mente; come se la sofferenza fosse il tessuto dell’esistenza e il fondamento di qualunque azione nobile. «E come mai voi siete così fermamente, così solennemente convinti che soltanto ciò che è normale e positivo, in una parola soltanto ciò che apporta prosperità, è vantaggiosoperl’uomo?Non potrebbe darsi che la ragione sbaglinelvalutareivantaggi? Non potrebbe darsi che gli piaccia altrettanto la sofferenza? Non può darsi che per lui la sofferenza sia vantaggiosaesattamentenella stessa misura del benessere? E all’uomo talvolta piace terribilmentelasofferenza,gli piacelafollia,eanchequesto è un fatto»36. Non sorprende che le sventure di Giobbe abbiano infiammato Dostoevskij.Egliscriveasua moglie nel 1875: «Leggo il libro di Giobbe che produce in me un’esaltazione morbosa: smetto di leggere e vado avanti e indietro nella mia stanza per un’ora, quasi piangendo [...]. È una cosa strana,Anna,maquestolibro è uno dei primi che mi abbiano colpito... e allora ero poco più che un lattante...»37. «Soffrire, soffrire molto» è necessario per scrivere. «L’essenziale è la tristezza». Tristezza e sofferenza affascinano Dostoevskij, oltre che ad ispirarlo: «La sera soprattutto, alla luce delle candele, una tristezza ipocondriaca senza ragione». Come hanno notato tutti i grandi malinconici, la consapevolezza di sé è il fattore principale di sofferenzapsichica,epiùtale consapevolezzaèacuta,piùil mal di vivere è esasperato. «Sarebbe stato meglio che fossistatocreatosimileatutti glialtrianimali,vivocioèma non razionalmente cosciente dimestesso:lamiacoscienza è precisamente non un’armonia bensì una discordanza, giacché io sono infelice a causa di essa. Guardate chi è veramente felice al mondo e chi siano quellicheaccettanodivivere! Quellicheaccettanodiessere simili agli animali, appunto, e,perloscarsosviluppodella lorocoscienza,piùvicinialla condizione animale»38. Sulla scia del Problema XXX di Aristotele e per bocca dello studente di Delitto e castigo Raskolnikov, Dostoevskij proclama la grandezza della tristezza, affermando che la sofferenza, il dolore sono inseparabili da un’intelligenza elevata e da ungrandecuore.Iverigrandi uomini probabilmente provanoun’immensatristezza sullaterra. L’intera opera di Dostoevskij consiste nell’analisi perpetua del contenuto,dellecauseedelle forme di tale tristezza. I suoi eroi sono dei disperati che si dibattono contro l’ossessione suicidaelarivoltanichilistae che non riescono a capire se Dio esista o meno. Dostoevskij ha scelto di credere in Dio, pur sapendo che si tratta di una scelta personale gratuita, e incarica i suoi personaggi di esprimere eloquentemente l’opzione atea, quella della rivoltadisperata. Albert Camus ha visto in Ivan Karamazov «l’uomo in rivolta» per eccellenza, in rivolta perché il mondo è sofferenza, e tale sofferenza escludel’esistenzadiunDio, a tal punto che, se questo Dio esistesse sarebbe decaduto per la semplice presenza del male. L’unica scusa di Dio è il fatto di non esistere. Ma, visto che non esiste, tutto è permesso, poiché il mondo non ha senso. L’atteggiamento di Ivan, scrive Camus, «non è soltanto disperazione e negazione, ma soprattutto volontà di disperare e di negare»39, e pertanto di affrancarsi da qualsiasi morale. Nei Demoni (1871), il protagonista Kirillov incarna la tentazione nichilista con unalogicaimplacabile: Ho il dovere di affermare la mia miscredenza, dice Kirillov continuando a misurare la stanza a grandipassi.Permenon c’è niente di più elevatodell’ideacheDio non esista. Ho dalla mia la storia dell’umanità. L’uomo ha inventato Dio per vivere senza uccidersi; tutta la storia universale lo ha fatto finora. Solo io, per la prima volta nella storia universale, non ho voluto inventare Dio. Voglio che lo si sappia una volta per tutte [...]. Non capisco come fino ad oggi un ateo abbia potuto essere consapevole dell’inesistenza di Dio e non uccidersi subito. RiconoscerecheDionon esiste e non riconoscere nellostessoistantechesi è diventati dio è un’assurdità, altrimenti, inevitabilmente, ci si ucciderebbe. L’ateo, prodotto di tale considerazione, dovrebbe quindi suicidarsi. Posizione non condivisa né da Schopenhauer né da Nietzsche,comevedremo,ma a cui si allinea Maupassant nel 1892, un anno prima di morire.GuydeMaupassantè peraltro un grande ammiratore di Schopenhauer, in cui riconosce con devozione «il più grande saccheggiatore di sogni che siamaiesistitosullaterra»,e a cui dedica una novella, Auprèsd’unmort. Maupassant, o l’incarnazione del mal di vivere: il fastidio della vita trapelaintuttalasuaopera.I suoi romanzi, i racconti e le novelle restituiscono l’immagine di un mondo orribile, infernale e tanto più spaventoso poiché reale. Noia, tedio, scoramento, nausea: ecco ciò che sente e provoca nei suoi lettori. Non si può spiegare un simile gradodistanchezza,espresso con un simile talento, attraverso semplici fattori psicologici. Certo, Maupassant è un depresso che sprofonda gradualmente nella follia, e che finisce per suicidarsi per evitare di divenire completamente pazzo, ma egli è anche, e soprattutto, l’espressione di un’epoca,lafinediunsecolo di riflessione sul mal di vivere: il successo della sua opera attesta che il suo pessimismo integrale trova riscontro in diverse migliaiadilettori. Schopenhauer pensava che la contemplazione estetica potesse offrire almeno un attimo di tregua, mentre Maupassant non crede più nell’arte. «Perché questa imitazione vana? Perché questa riproduzione banale delle cose, già così tristi di per se stesse?». La poesia,ilromanzoripetonola stessacosa.«Acosamiserve scoprire cosa sono, leggere ciòchepenso,rivederminelle banali avventure di un romanzo?». «Non sappiamo niente, non vediamo niente, non possiamo niente, non indoviniamo niente, non immaginiamo niente, siamo rinchiusi, imprigionati in noi stessi. E alcuni si meravigliano persino del genioumano!».Riprendendo, tre secoli dopo, il «Che cosa so?» di Montaigne, ecco la conclusione:«Achepro?». L'ultimarivolta: Nietzsche Oltreaessernetestimone, Nietzsche,comeMaupassant, avvertetragicamenteilmaldi vivere.Nelmarzo1883scrive a Franz Overbeck: «Non mi interesso più a niente. Nell’intimo del mio essere, una malinconia nera e immutabile [...]. La cosa peggiore è non capire assolutamente perché devo continuareavivere[...].Tutto mi sembra fastidioso, doloroso, disgustoso». Tuttaviaegliglorificalavita, lotta dolorosa che dobbiamo condurre con entusiasmo, in ungranderisodionisiacoche distrugge gli idoli, schiacciandosenzapietàtutto ciò che a essa si oppone, «al dilàdelbeneedelmale».La disperazionediNietzscheè,a questo proposito, originale e paradossale. Nietzschehalettotuttigli scrittoridelmaldiviveredel suo secolo: Maupassant, Dostoevskij, Bourget, i Goncourt,Schopenhauer,tutti gli attori del nichilismo. Egli ne trae le opportune lezioni in La volontà di potenza (1866), dove si dedica a un esame dettagliato del pessimismo. I costanti progressidelnichilismonella cultura occidentale, scrive, sono il segno di un risentimento, in particolare presso i filosofi i quali, constatandocheilmondonon ha quel significato che si aspettavano di trovare, concludono che non abbia senso affatto e che sarebbe meglio se non esistesse. Questa sensazione di assurdità è, a sua volta, assurda: Il nichilista filosoficoèconvintoche tutto ciò che accade è senza senso e senza utilità:manondovrebbe esistere un essere privo di senso e inutile. Però di dove viene questo: «non dovrebbe esistere?». Dove si prende questo «senso» e questa misura? Il nichilistainfondopensa che la vista di un tale essere vuoto, senza utilità, agisce sopra un filosofo in modo non soddisfacente, gli dà un’impressionedivuoto, di disperazione. Una simile constatazione contraddice la nostra sottile sensibilità di filosofi. Deriva questa assurda valutazione: il carattere dell’esistenza potesse sussistere dipienodiritto...40. Per quale motivo l’esistente dovrebbe avere un senso predeterminato? Il nichilista, piuttosto che accettare un mondo che non corrisponde alle sue categorie, preferisce prenderne le distanze e consigliare il ritiro da esso, l’ascetismo; così facendo, egli «si scaglia contro il benessere fisiologico, in particolarecontrociòcheneè l’espressione, vale a dire la bellezza, la gioia; mentre ciò che è snaturato, tarato, tutto ciò che è dolore e difficoltà, tutto ciò che è brutto, privazione volontaria, spossessamene, mortificazione, sacrificio, suscita soddisfazione e costituirà quindi oggetto di ricerca». La filosofia di Schopenhauer partecipa a questa decadenza scegliendo ilnullaperpurorisentimento. Nietzsche disprezza profondamente tutte le forme di pessimismo, in particolare ciò che definisce il pessimismo della sensibilità, in cui vede un meschino calcolo della somma dei piaceriedeidispiaceri: La somma di dolore vince la somma di piacere:perconseguenza il non essere del mondo sarebbe meglio che il suoessere-«Ilmondoè qualcosa, che ragionevolmente non sarebbe, perché esso procura al soggetto senziente più dolore che gioia» - chiacchiere di questasortasichiamano oggipessimismo! Piacere e pena sono cose accessorie, non cause, sono giudizi di valoredisecondogrado, che si deducono dapprima da un valore primario -qualche cosa che in forma del sentimento esprime l’«utile», il «dannoso» e quindi qualche cosa di assolutamentetransitorio e dipendente. Infatti per ogni «utile», «dannoso» bisognachiederesempre centodiversiache? Io disprezzo questo pessimismo della sensibilità:cheinséèun segno di profondo impoverimento vita41. della Il pessimismo nichilista deve essere superato. L’assenza di senso non deve essere fonte di disperazione, al contrario, deve dare un senso alla vita per mezzo dell’affermazione della volontà, al di là di tutti gli antichi valori del volgare. LargodunquealSuperuomo! Questo volontarismo forsennato è credibile? Ciò che sappiamo della vita di Nietzsche non corrisponde affatto a tale garanzia dionisiaca.Secondocoleiche l’ha amato, Lou Andreas Salomé, Nietzsche era un uomo tormentato, angosciato dalpresentimentodellamorte diDio,disgustatoanchedalla mala fede e dalla compiacenza delle autorità religiose e dal popolo, che fingono di credere ancora ai vecchi dogmi, oppure vi si conformanosoloametà. Si può quindi ancora sperare? Nietzsche non ne sembra così convinto: «Datemi dunque la follia, o voi, esseri celesti, la follia affinché io crea alla fine in me stesso [...]. Il dubbio mi consuma;houccisolaleggee laleggemitormentacomeun cadavere tormenta l’uomo che vive; se non sono altro che legge, allora sono il più reietto di tutti»42. Nietzsche ha cercato di superare il nichilismo, ma è riuscito nell’intento solo chiudendosi in una contraddizione: il superuomo sceglieliberamentediaderire aundestinoineluttabilecheè la negazione della libertà, un destino che sembra portare a questo Ultimo Uomo che aborre,«coluichevivràpiùa lungo», colui che sminuisce ogni cosa, l’uomo dei piccoli piaceri, delle piccole comodità, dei piccoli passatempi, dei piccoli pensieri,checrederàdiavere inventatolafelicità. Dalladerisionealla nevrastenia E come se le categorie moderne della malinconia, dell’angoscia, della depressione, della tristezza, della disperazione e del nichilismo non bastassero a definire il mal di vivere dilagante di questa fine del secolo, ecco comparire nuovamente l’accidia medievale. Nel 1890 Francis Paget pubblica un Introductory Essay Concerning Accidie, e presto Aldous Huxley dedicherà un saggio all’argomento, Accidie, definendola una caratteristica ineluttabile dell’epoca: «Il male del secolo era un male inevitabile; possiamo affermare con un certo orgoglio che abbiamo diritto alla nostra accidia. Per noi non è un peccato, né una malattia da ipocondriaci; è una condizione dell’animo che il destino ci ha imposto»43.InPoint Counter Point (1928), un personaggio mostra tutti i sintomi classici dell’accidia: «Che gli ci volesseuncertocoraggioper non fare niente era vero, poiché rimaneva nell’ozio nonostante i danni della noia cronica [...] che sapeva diventare [...] insopportabilmenteacuta.[...] Questononvalevalapenadi uno sforzo, niente ne valeva la pena. Si limitava a parlare dello stimolo del demonismo [...]. Questa conversazione lo entusiasmava momentaneamente, ma non appena volgeva al termine, egli ricadeva sempre più in basso nella noia e nella tristezza.C’eranomomentiin cuiprovavacomeunaparalisi interiore, come se l’anima stessa perdesse poco a poco consapevolezzadiessere.[...] La vita è così, detestabile e barbosa». Medici, fisiologi e sociologi si interessano a questo fenomeno sociale, e tentano di carpirne i segreti. L’americano William James vede nella malinconia delsuotempolaconseguenza psicologica del distacco dalla fede, mentre nel 1895 il dottor Henry Maudsley fornisce la seguente descrizione dei suoi pazienti depressi: «Il loro stato è incomprensibile e inspiegabile persino a loro stessi. Le promesse della religione e le consolazioni della filosofia, così esaltanti quandononsenehabisogno, e così impotenti quando potrebbero servire, non tornanoloroutilipiùdiparole senza significato. La mente non è veramente disturbata; essiavvertonosemplicemente undoloretalecheparalizzale loro funzioni, che tuttavia sono piene di sofferenze peggiori della follia, poiché, spesso, quando la mente è sufficientemente sana da sentire e percepire il proprio stato abietto, il passo che porta al suicidio è breve»44. Dal canto suo George Savage, nel 1884, chiede che la malinconia venga trattata con un approccio congiunto della medicina e della filosofia: «La malinconia è unacondizionedidepressione mentaleincuilasofferenzaè sproporzionata rispetto alla sua causa apparente o allaformacheprende,poiché lasofferenzamentaledipende da cambiamenti fisici e corporei e non direttamente dall’ambiente»45. La nozione moderna di depressione si delinea gradualmente, tuttavia la ricerca psicofisiologica è ancora ampiamente tributaria delle idee morali, e persino religiose.Tristitiaeacediasi affacciano nuovamente su unasocietàditipovittoriano, dominata da una classe borghese pronta a definire colpa mortale qualsiasiformadialienazione e di deficienza morale e fisica. Il malinconico depressivo è necessariamente una persona che si lascia andare, che manca di energia per affrontare gli ostacoli dell’esistenza, mentre l’uomolucidoecoraggiososa superare le avversità. Tale immagine negativa viene rafforzata dalla volgarizzazione delle idee sulla selezione naturale. Il mondo moderno, con le sue sempre crescenti esigenze di attività, efficacia, rapidità, genera una selezione impietosa, relegando i meno resistentinella«nevrastenia», termine alla moda diffuso persino fra le classi popolari, dove viene utilizzato senza neanche sapere bene che accezioneabbia. Negli ambienti medici, George Miller Beard, a Boston, è il primo ad affermare il concetto di nevrastenia e a differenziarlo dall’isteria e dalle altre neuropatie. Charcot definisce più in dettaglio tale nozione, introduce alcune sfumature, parla di isteronevrastenia. Questiscienziatiinsistonosui sintomi fisiologici, come il mal di stomaco, i disturbi digestivi e vascolari, le affezioni genitali, riprendendo, con termini dotti, le caratteristiche della malinconia già riscontrate da Aristotele e Galeno. Quanto al ruolo dello psichismo, vengono incriminate soprattutto le passioni violente, il sovraffaticamento intellettuale. Anche in questo caso ci si potrebbe chiedere se,daBurtoninavanti,siano stati fatti dei progressi. Il dottor Dutil osserva che la nevrastenia è molto più frequente in Europa a causa delle esigenze della vita moderna in un’economia industrializzata: «La lotta per l’esistenza impone un’attività intensa alle funzioni del sistemanervoso»46.Nel1903 Pierre Janet parla di psicastenia, definita come uno spossamento del tono psicologico. Dalla lipemania e le monomanie dell’inizio del secolo, passando per l’ipocondria, per arrivare alla nevrastenia e alla psicastenia e in attesa della depressione, la proliferazione dei termini illumina soprattutto l’imbarazzo degli ambienti scientifici di fronte a questo fenomeno misterioso che è l’indebolimento del desiderio di vivere. Il mal di vivere rimane un enigma per gli esseri «normali» e una sfida permanentepergliottimisti. Tutte le scienze fanno capolino al suo capezzale, poichéilmalepotrebbeanche essere contagioso ed essere davvero in una fase ascendente. Non esiste settore che non ne sia coinvolto: poesia, romanzo, filosofia,arte:inquest’ultimo campo si pensi alle figure crepuscolari di Kokoschka,Schiele,Klimted Ensor che vengono esposte nei musei. Nel 1893 Edvard Munch dipinge la figura emblematica dell’angoscia moderna,L’urlo. Losviluppodelsuicidio Mai prima, forse, le espressioni del mal di vivere sonostatecosìnumerose,mai hanno avuto una tale risonanza. Ormai lo scoramentononèpiùilsegno distintivo di qualche intellettuale stanco, ma sembradiffondersiintuttigli strati sociali e si traduce con un aumento spettacolare del tassodisuicidi. Nonv’èalcundubbioche il numero di suicidi abbia subito un incremento. Entriamo nell’era delle statistiche e, anche se le cifre riguardo una materia così delicata non sono molto abbondanti, sono tuttavia eloquenti. Émile Durkheim ne ha messe insieme alcune: il numero di suicidi ufficialmente recensiti, e quindidigranlungainferiore allarealtà,passatrail1841e il 1869 da 2.814 a 5.114 in Francia, da 1.630 a 3.544 in Prussia, da 290 a 710 in Sassonia, da 337 a 462 in Danimarca; da 1.349 a 1.588 fra il 1857 e il 1869 in Inghilterra;da244a425trail 1844 e il 1869 in Baviera. L’evoluzione è ancora più netta se consideriamo due rapporti: in Francia si passa da 8,2 suicidi ogni 100.000 abitanti nel 1841, a 11,9 nel 1860, mentre fra le stesse date il tasso di mortalità generale diminuisce da 23,2 ogni1.000abitantia21,4.«Il suicidio oggi è talmente frequente da non commuoverepiùnessuno»47. Sin dal 1838 il ministro BartheincoraggiavalaChiesa a dare prova di severità a causa della recrudescenza delle morti volontarie e dell’apparente indifferenza dell’opinione pubblica in proposito. La Monarchia di Luglio conosce infatti una prima ondata di suicidi che mette in allarme le autorità, con un aumento del 70% fra il 1830 e il 1845. Tutte le categorie sociali sono colpite da tale fenomeno, ma più ancora le due categorie diametralmente opposte: da un lato coloro che vivono ogni giorno nella miseria (operai, domestici, in particolare bambini); dall’altro coloro che pensano alla miseria (benestanti, intellettuali, professioni liberali). Il secolo è contraddistinto da un gran numerodisuicididicelebrità e l’eco di questi casi famosi contribuisce a far aumentare l’importanza del fenomeno pressol’opinionepubblica. La maggior parte degli autori attribuisce l’aumento dei suicidi, senza alcuna distinzione, al materialismo, allo scetticismo, all’ateismo, allo scientismo, al liberalismo, al socialismo e discendonobenpocolecause profonde di questo male moderno48. Nel 1820Reydeletdeplorailfatto che «uomini dal giudizio fuorviato, di carattere malinconico,entusiasmatidal desiderio colpevole di farsi notare, difendono il suicidio»49. Due anni dopo Fabret afferma che «le apologie del suicidio si sono moltiplicate in modo prodigioso dalla fine del XVIII secolo fino ai giorni nostri»50, affermazione manifestamente falsa. Se l’aumentodelmaldivivereè un fatto accertato, nessuna operasiprodiganell’apologia del suicidio. I più audaci dichiarano semplicemente di capirlo: «Onoro il suicidio e oso affermare che qualsiasi uomodibuoncuorecheabbia attraversatogranditraversiee atroci dolori lo possa capire»51, scrive Bossange nel 1832. Guillaume Ferrus, nel1850,ritienecheisuicidi «cheavvengonointornoanoi non ci ispirano mai il disprezzo, raramente il biasimo, a volte la simpatia, sempre la pietà»52. Alphonse Karr pensa, come gli stoici, «che non ci sia niente di più sensato che togliere un abito che non ci fa sentire a nostroagio:lasciareunluogo in cui ci troviamo male; deporre un fardello troppo pesante per le nostre spalle»53. Riconoscere la legittimità del suicidio non significa farne l’apologia, contrariamente a ciò che vorrebbero far credere i sostenitori di un certo tipo di morale. Nei romanzi del XIX secolo, tuttavia, numerose riflessioni sul ritorno in grandestiledeltaediumvitae testimoniano l’evoluzione delle idee. Uno degli eroi di George Sand scrive: «La vita mi annoia, pertanto la lascio. La vera superiorità dell’uomo sullecreatureinertiopassive che lo circondano è il potere di affrancarsi a suo piacimentodalleservitùfatali che chiamiamo leggi della natura. L’uomo può, se lo vuole, non invecchiare. Il leone non può. Meditate suquestotesto,èquestatutta la forza umana». Un altro riprende Seneca quasi parola perparola:«Quandolavitadi unuomoènocivaperalcuni, quando egli è di peso a se stesso, inutile per tutti, il suicidio è un atto legittimo che egli può commettere, se non senza rimpianto di aver fallito nella propria vita, almeno senza rimorso per il fatto di mettervi fine»54. Da parte sua Alexandre Dumas sostiene che il diritto disuicidarsisiaunasemplice misura di equità: «Certo, quando Dio ha fatto degli uomini una lotteria per la morteehadonatoaciascuno di loro solo la forza per sopportare una certa quantità di dolore, ha dovuto pensare che quest’uomo sarebbe crollato sotto il proprio fardello, e che il fardello sarebbe stato troppo perlesueforze[...].Echiha detto che gli infelici non possanorendereinfelicitàper infelicità? Non sarebbe giusto,eDioègiusto»55. Nel 1843 Saint-Marc Girardin, nei suoi Cours de littérature dramatique, attira l’attenzione sull’atmosfera di tristezzaincuisicompiacela letteratura della sua epoca: «Quantifraglieroideinostri romanzi e del mondo stesso, in quanti amiamo la nostra tristezza, che celiamo dietro al nome di malinconia e che nutriamo amorosamente nei nostri cuori! Bisogna odiare questi dolori impostori in cui cidilaniamo;mapoichésono legati alle nostre passioni da mille fibre viventi, non abbiamo la forza di rompere con loro; li accarezziamo, li riscaldiamo con una sorta di tenerezza»56. Le grida d’allarme degli avversari del suicidio non possono nulla contro questa evoluzione, anzi, sono persino la prova della sua importanza. Il silenzio tradizionale che circondava i casi di morte volontaria fino alla Restaurazione viene rispettato sempre di meno. Sin dal 1838, l’autore anonimodiunlibrointitolato Du suicide osserva che «un tempo»questoattoeratenuto segreto. Ma i giornali ne parlano sempre più apertamente, nonostante le manovre delle famiglie per tenerlo nascosto. Se il suicidio resta una tarafamiliareesociale,allora viene capito e accettato sempre di più sul piano individuale, poiché gradatamente cresce la consapevolezza del fatto che ognicasosiaasé.Lastampa non segnala atti di ostilità duranteleesequiedeisuicidi. La riflessione scientifica segue la stessa evoluzione. Nella prima metà del secolo l’ostilitàalsuicidiositraduce in un’incomprensione totale dei fattori psicologici. Il suicidio viene considerato un atto di follia, oppure un atto compiuto in seguito alla perdita del senso morale. Disdegnando i grandi esempi deivariSenecaeCatone,non siriconoscealsuicidioalcuna razionalità. Albert Bayet ha riunito i giudizi di alcuni mediciche,sindall’iniziodel secolo57,praticavanoautopsie sui morti suicidi: Gall ha rilevato un cranio più spesso e più denso della media; Home trova che presentino «i vasi della dura madre molto dilatati»; Récamier «un’ossificazione della dura madre»; Loder «un corpo calloso molto soffice»; Cabanis un cervello «più abbondanteinfosfororispetto al cervello degli altriuomini»;Fourcroy«delle concrezioni nella cistifellea»; Osiander delle lesioni cardiache.Fabretsostieneche la condizione mentale del suicida «debba essere consideratacomeundelirio», osservazione condivisa da Calmeli nel 1844 e da Bourdin nel 1845: il suicidio è sempre una malattia e sempreunattodialienazione mentale. Uno dei grandi specialisti della questione è il dottor Jean-Etienne Esquirol (17721840),medicoallaSalpètrière e a Charenton. Discepolo di Pinel, egli pubblica nel 1820 De la lypémanie ou mélancolie, opera in cui osserva che «l’opinione che portaaconsiderareilsuicidio comel’effettodiunamalattia o di un delirio acuto sembra prevalere ai nostri giorni persinoneiconfrontideitesti di legge e degli anatemi del cristianesimo». La sua opinione personale sembra inizialmente più moderata. Trovandosi a lavorare in pienoperiodoromantico,egli accorda una grande influenza alla noia e si lasciacoinvolgeredalleopere tedeschesullasolitudine.Egli sostiene che il malinconico abbia tendenza a trasformare tutto in discorso di angoscia, capovolgendol’ottimismoeil pessimismo:cosìlareligione, che per alcuni è motivo di consolazione,èperluimotivo di disperazione, poiché si considera dannato. La malinconia non è che un delirioparziale: La malinconia con il delirio, o lipemania, è una malattia cerebrale caratterizzata da delirio parziale, cronico, afebbrile, alimentato da una passione triste, debilitante o oppressiva. La lipemania non deve essere confusa con la mania, caratterizzata da un delirio generale e dall’esaltazione della sensibilità intellettuale; né con la monomania,lacuiforma tipica sono le idee esclusive e una passione espansivaegaia;nécon la demenza, la cui incoerenza e confusione delle idee sono l’effetto dell’indebolimento [...]; [né] con l’idiozia, poiché l’idiota non ha mai saputo ragionare [...]. Nell’ipocondria invece il delirio non sussiste58. MaEsquirolsiallineaben presto all’opinione della maggior parte dei suoi colleghi: «L’uomo attenta ai suoi giorni solo durante il delirio e tutti i morti per suicidio sono degli alienati», scrive nel 1838. L’anno seguente, nell’opera Les maladies mentales, egli afferma, non senza contraddizione, che l’angoscia suicida sia una conseguenza dell’immoralismo: Se l’uomo non ha fortificato per niente la propria anima con le credenze religiose, i precetti della morale, le abitudini all’ordine e al comportamentoregolare, se non ha imparato a rispettare le leggi, a soddisfare i doveri della società, a sopportare le vicissitudini della vita, se ha imparato a disprezzare i suoi simili, a disdegnare gli autori dei suoi giorni, a essereimperiosoneisuoi desideri e capricci, mettendo tutto sullo stesso piano, sarà più disposto di chiunque altro a terminare volontariamente la propria esistenza nel momentoincuisitrovia provare certi dolori o traversie. L’uomo ha bisogno di un’autorità chenedirigalepassioni e ne governi le azioni. Lasciato in balìa della propria debolezza, egli precipita nell’indifferenza,poinel dubbio; nulla sostiene il suo coraggio, egli è disarmato contro le sofferenze della vita, contro le angosce del cuore59. A partire dal 1840 gli studi sul suicidio aumentano vertiginosamente. Vengono inizialmente pubblicati, in questo anno, l'Anatomie du suicide, di Forbes Winslom; De la manie du suicide et de l'esprit de révolte, di Tissot; Du suicide et de l'aliénation mentale di Cazauvieilh; nel 1842 la Storia critica e filosofica del suicidio di Bonafede; le Recherches sur les opinions et la législation enmatièredemortvolontaire pendant le Moyen Age di Bourquelot; le Recherches statistiques sur le suicide di Etoc-Demazy nel 1844; Du suicide considéré comme maladie a opera di Bourdin nel1845. Nel 1856 il medico alienista Brierre de Boismont stilailbilanciodiquestistudi in un’opera sul suicidio che riscontra un certo successo. Ricapitolando la lunga storia dellamalinconia,egliriunisce tutte le forme passate di mal di vivere, taedium vitae, accidia, tristezza, malinconia e, riprendendo l’idea di Chateaubriand, afferma che nel Medioevo i monasteri erano il rifugio dei malinconici, che li eleggevano a rifugio del loro sconforto. Ma la vita monastica non faceva che aggravare il loro stato: «La tristezza,lanoia,lospleen,il fastidioperlavita,amplificati dal silenzio della clausura, la vita contemplativa, l’ascetismo e il misticismo, disponevanoglianimideboli, sognatori, malinconici e già malati a subire l’impatto sociale dell’epoca [...], il timore dell’inferno, la paura dei demoni, il terrore della finedelmondo»60. PerBrierredeBoismontil convento rimane tuttavia la soluzione migliore per i depressi: «Trovate un mezzo migliore da opporre ai rimorsi, causa così frequente di malattie di languore, di affezioni organiche, di allucinazioni, di follia, di suicidio [...]. È questa stessa influenzachehafattoentrare neiconventicosìtantiuomini piegatidaldolore[...].Laloro azione benefica non era passata inosservata al più grande genio dei tempi moderni. Napoleone aveva riconosciuto come necessaria l’esistenza di un certo numero di conventi come asiloperlegrandiinfelicità,i cuori soggetti a penitenza straordinaria, per fungere da rifugio alle fantasie esaltate non più adatte a vivere nel mondo e a cui peraltro il mondo provoca peso e disgusto»61. Ma ora esiste un’alternativaalconvento,ed è il lavoro, volontario e accanito. Ecco la soluzione per i depressi, il rimedio a tutte le malinconie: «Invece di proclamare il diritto al lavoro, come si faceva una volta, bisognerebbe inculcare la voglia di lavorare, svilupparlaneglianimi[...].Il lavoro, ecco la base della tranquillitànellasocietàedel benesseredell’uomo[...].Dio e il lavoro, questi sono i princìpi che dobbiamo diffondere». Tanto più che «lapigriziaècausafrequente di morte volontaria. La proporzione di gente pigra è immensa, bisognerebbe instillare presto la voglia di lavorare»62. Gli Americani ci hanno mostrato la strada giusta:«Esisteunanazionein cui il lavoro per lavorare e per non riposarsi mai rappresenta la tendenza generale; si tratta della nazionedegliAmericani»63. Sarà il lavoro a scacciare la noia. Il cristianissimo BrierredeBoismontsiallinea aVoltaire,maperluilanoia fa parte della condizione umanainquantoconseguenza delpeccatooriginale,edèsu questo substrato che si sviluppanolafaticadivivere, latristezza,l’angoscia.Come Pascal, egli ne fa un’argomentazione apologetica:ilmaldivivereè la prova dell’esistenza di un bene assoluto cui noi aspiriamo: «La noia è un fenomeno psicologico naturale, riscontrabile presso la maggioranza degli uomini. Creatidaunapotenzainfinita da cui la caduta ci ha separato, la nostra origine ci spinge continuamente versodiessa.Inostridesideri illimitati e mai soddisfatti, la nostra continua ricerca di piaceri [...], i nostri fastidi, e infine la nostra noia che si trova in fondo a tutte le cose, non sono che le aspirazioni del finito verso il sovranomaestro»64. Laspiegazione sociologica:Durkheim (1897) Nel XIX secolo la riflessionesulsuicidioesulle suecauseculminanelgrande studio di Émile Durkheim, Il suicidio, del 1897. Quest’opera oggi risulta estremamenteinteressantesia perilsuocontenuto,cheresta scientificamente molto valido, ma anche come testimonianza sullo spirito del tempo. Durkheim ha intrapreso tale studio in seguitoalloshockpsicologico causatogli dal suicidio di Victor Hommay, suo ex studente della Scuola NormaleSuperiore.Difronte alla condanna degli ambienti tradizionalisti, che incriminavano la debolezza dell’individuo, egli vuole mostrare che il suicidio è anzitutto il prodotto di un contestosocialeechel’epoca èfavorevoleall’incrementodi questoatto. Riprendendoleanalisidei suoi predecessori sulla materia, in particolare i più recenti, come Il suicidio di Morselli,pubblicatonel1879, egli ricorda anzitutto la distinzione dei quattro tipi di suicidio operata nei loro studi: il suicidio maniacale, dovutoallealluci-nazionieai deliri;ilsuicidiomalinconico, dovutoaunostatodepressivo cheportaallaminimizzazione dell’importanza della vita, laqualevieneconcepitacome noiosa e dolorosa; il suicidio ossessivo, causato dall’idea fissa della morte; il suicidio impulsivo, scatenato da una pulsione improvvisa. Tutto questo è decisamente insufficiente, pensa Durkheim, poiché equivale a dire che tutti i suicidi sono provocati da motivazioni immaginarie. Durkheim, che raccoglie un’imponente documentazione statistica, constata che i suicidi aumentano regolarmente con l’età e culminano in primavera, all’inizio della settimana,ametàmattinaea metà pomeriggio, nelle regioni settentrionali e, per quanto riguarda la Francia, nel Bacino Parigino e sulla Costa Azzurra, preferibilmente nelle piccole città e in zone abbastanza omogenee.Durkheimesclude l’ipotesi di predisposizioni di tipo razziale, considerazione davveronotevoleinun’epoca in cui la razza tende a rappresentareunaspiegazione universale. Egli esclude anche qualunque determinismo di tipo fisico o climatico. Quanto alle motivazioni individuali, psicologiche, Durkheim sostiene che siano il risultato di un condizionamento sociale: Ciò che chiamiamo statistica dei motivi di suicidio è, in realtà, una statistica delle opinioni che si fanno di questi motivi i poliziotti, spesso subalterni, incaricati del servizio informazioni. Si sa, purtroppo, che le constatazioni ufficiali sono troppo spesso lacunose [...]. Ma v’è di più,quand’anchefossero degne di fede, non potrebbero renderci grandi servizi, perché i moventi attribuiti in tal modo, a torto o a ragione, ai suicidi, non ne sono le vere cause. Lodimostrailfattochei numeri proporzionali di casi imputati dalle statistiche ad ognuna di queste cause presunte permangono quasiidentici65. È il contesto socioeconomico con le sue conseguenzeculturaliacreare le condizioni più o meno favorevoli al suicidio. Durkheimdistinguetretipidi suicidio. Anzitutto quello egoistico, dovuto a un eccesso di individualismo, «lo stato di eccessiva affermazione dell’io individuale nei confronti dell’io sociale ai danni di quest’ultimo. [...] La vita, si dice, è tollerabile soltanto se vi si scorge qualche ragione diessere,sehaunoscopoche valga la pena. Ora, l’individuo, preso a sé, non è un fine sufficiente alla sua attività. È troppo poca cosa»66. Il senso della vita non può che essere collettivo e collettivamente percepito. Sel’individuononfapartedi un gruppo, religioso, politico ofamiliare,«ildolorediventa perluiunmisteroedeglinon può allora sfuggire all’irritante e angosciosa domanda: a che serve? [...] Così, si formano dellecorrentididepressionee di delusione che non emanano da alcun individuo in particolare, ma che esprimono lo stato di disgregazione in cui si trova lasocietà»67. I protestanti si suicidano di più perché la loro integrazione a una chiesa è molto meno forte rispetto ai cattolici. Inoltre essi sono in generale più istruiti, e l’istruzione è un fattore di rimessa in discussione. Ecco perché le donne si suicidano di meno: sono meno istruite, si pongono meno domande sul senso della vita e si accontentano di una vita sociale più limitata: «Con qualche pratica pia, qualche animale da curare, la vecchia zitella si riempie la vita»68. L’uomo è più esigente su questopunto. È distacco religioso generale accresce il disincantoelasolitudine.Per sostituireilcredocisirivolge allascienza,chesuscitadubbi e domande, almeno in un primo tempo. Ma non basta un semplice atto di volontà per sostituire un credo perduto: «Non è possibile ristabilire artificialmente le convinzioni consolidate che sono state travolte dal corso delle cose»69. E non è perviadelsuocontenutoche la religione protegge dal suicidio, ma perché costituisce un gruppo fortemente integrato. Queste osservazioni valgono anche per la famiglia: le persone sposate si suicidano molto meno rispetto ai celibi eallevedove,ecisonomolte meno morti volontarie nelle grandi famiglie che nelle famiglie meno numerose. Il maltusianismo e la disgregazione della cellula familiare sono potenti fattori disuicidio.Ancheiperiodiin cui il tessuto sociale si destruttura, come la fine dell’Impero Romano o la Francia prerivoluzionaria, conosconountassoelevatodi suicidio. In compenso i periodi dei grandi urti, in particolare delle guerre, rafforzano la solidarietà del gruppo e contribuiscono a ridurre il numero dei suicidi, che diminuisce del 14% in Prussia e in Austria durante la guerra austroprussiana. La guerra del 1914-1918 confermeràtaleconstatazione e, in quattro anni, ucciderà gloriosamente altrettanti uomini quanti il suicidio in tresecoli.Alcunivedrannoin questo un ulteriore segno dell’assurdità della condizioneumana. Ilsecondotipodisuicidio è il suicidio «altruista»70, la cui causa è diametralmente opposta alla precedente. In presenza di un eccesso di integrazione all’interno di un gruppo, l’individuo smette di appartenersi; si sente soffocato e incapace di raggiungere l’ideale del gruppo. Questa forma di suicidio riguarda sia i gruppi settari che le società fortemente integrate, come l’esercito,incuiilnumerodi morti volontarie è molto elevato. Laterzacategoriaèquella del suicidio anomico, dovuto adunadislocazioneanarchica o imprevista del gruppo sociale, ad esempio in occasione delle crisi economiche.Nelmomentoin cuiilrapportofralenecessità stimate e la capacità di soddisfarle è fortemente in disequilibrio, l’individuo sprofonda nella disperazione. Durkheim fornisce numerosi dati statistici relativi a crisi recenti:aumentodel51%del numero dei suicidi a Vienna fra il 1872 e il 1874 durante la crisi finanziaria; incremento del 45% a Francoforte.Questaondatadi morti volontarie non è legata all’aumentodellamiseria,ma a una rottura dell’equilibrio fra le necessità e i mezzi per soddisfarle.Questoèancheil motivo per cui ci sono meno suicidi nei paesi poveri: «La povertà protegge dal suicidio», sostiene Durkheim, invece «la ricchezza, coi poteri che conferisce, ci dà l’illusione di far capo esclusivamente a noi stessi. Diminuendo la resistenza che ci oppongono le cose, ci induce a pensare che possono essere conquistateall’infinito»71. L’arricchimento globale della società genera nuovi desiderienuovibisogni,ese un abbassamento repentino del livello di vita rende impossibile la loro soddisfazione, allora prende piedelosconforto. Durkheim ammette che un certo grado di malinconia sia necessario all’equilibrio psichico e sociale. Una societàeuforicanonèsana. È, infatti, un errore crederechelagioiapura sialostatonormaledella sensibilità. L’uomo non potrebbe vivere se fosse completamente refrattario alla tristezza. Visonodoloriaiqualici si può adattare solo amandoli, e il piacere che vi si trova ha necessariamente qualcosadimalinconico. La malinconia è, dunque, patologica soltanto quando prende troppo posto nella vita, ma non è meno patologico che essa ne sia completamente esclusa. Occorre che il gusto per l’espansione gioiosa sia moderato dal gusto contrario; solo a questa condizione esso manterràlamisuraesarà inarmoniaconlecose72. PerDurkheimleideologie della disperazione del XIX secolo non sono affatto responsabili del pessimismo generale e dell’aumento del numero di suicidi. I vari Schopenhauer, Leopardi, Hartmann,Kierkegaardealtri nonsonocheprodotti,riflessi delle società della loro epoca (osservazione che converrebbe sfumare ricordando l’ostilità del pubblicorispettoagliscrittidi Schopenhauer, ad esempio). In ogni caso Durkheim è contrario al suicidio e per lottare contro questa pratica suggerisce di rafforzare i legami sociali, sviluppando l’ideaassociativa,adesempio ditiposindacale. Maldiviveree modernità IllibrodiDurkheimèuna buona occasione per stilare un bilancio del mal di vivere a partire dalla situazione descrittainquestafinediXIX secolodaitonicosìestremi.È preoccupante che i fattori di demoralizzazione collettiva evocati nel 1897 dal sociologo siano le principali caratteristiche della società contemporanea: trionfo dell’individualismo, distacco dalle grandi religioni strutturate a vantaggio di piccoli gruppi settari; disgregazione della cellula familiare; naufragio dei grandi valori; rimessa in discussione delle certezze; indebolimento delle strutture tradizionali, sindacati, partiti politici; instabilità crescente della vita economica e dell’occupazione che rende fragili i legami professionali. A queste tendenze, che si sono sempre confermate nel corso del XX secolo, aggiungiamo un ennesimo fattore, anch’esso confermatosi: l’invecchiamento di una popolazione sempre più preoccupata dalla fine della vita. La parole di Charles Péguy, attorno al 1900, risuonano sorprendentemente attuali: È sempre il sistema di pensionamento. È sempre il sistema di riposo, di tranquillità, di consolidamento finale e mortuario. Nonpensanochealla pensione [...]. Il loro è un ideale di ospedale di Stato, un’immensa casa di cura finale e mortuaria. Un immenso ospizio. Una casa di cura. Tutta la loro vita non è che un approssimarsi al pensionamento [...]. Come un cristiano si prepara alla morte, il moderno si prepara alla pensione. È una mentalità di pensionanti e di pensionati. Tutto il problema risiede nel sapere se il mondo sia destinato a diventare un immensoospizio. Durkheim non arriva a concludere che il cammino della civiltà occidentale si accompagni ineluttabilmente a un aumento del mal di vivere. Egli ritiene che la civiltà occidentale stia attraversando una fase patologica: «È perciò del tutto possibile, e persino verosimile, che il movimento ascensionaledeisuicidiabbia come origine uno stato patologico che accompagna attualmente il cammino della civiltàsenza,però,essernela condizione necessaria»73. Qualunque civiltà, sostiene, porta con sé un fondo di tristezza collettiva che si esprime «a ondate parziali e intermittenti»,«sottoformadi giudizi frammentari, di massime isolate», «di aforismi malinconici», di «battute proverbiali contro la vita» che sono solo espressioni individuali, isolate. Ma a volte il sentimento del mal di vivere raggiunge una forza e una proporzione tali da provocare l’insorgere di veri e propri sistemi della disperazione. È stato così all’epoca di Epicureo e di Zenone ed è nuovamente cosìall’epocadiDurkheim: La formazione di questi grandi sistemi è, perciò, l’indizio che la corrente pessimistica è giunta a un grado anormale di intensità, dovuto a qualche perturbazione dell’organismo sociale. Sappiamo bene come si sono moltiplicati quei sistemi ai giorni nostri. Per farsi un’idea esatta del loro numero e della loro importanza, non basta considerare le filosofie che hanno ufficialmente questo carattere, come quella di Schopenhauer, di Hartmann, ecc. Dobbiamo anche tener contodiquelleche,sotto nomi diversi, procedono dallo stesso spirito. L’anarchico, l’esteta, il mistico, il socialista rivoluzionario, anche se non disperano nell’avvenire, si trovano per lo meno d’accordo con il pessimista in un ugualesensodiodioodi disgustoperciòcheè,in unmedesimobisognodi distruggere il reale o di sfuggirlo.Lamalinconia collettiva non avrebbe invaso a tal punto la coscienza se non avesse avuto uno sviluppo patologico. Di conseguenza,losviluppo del suicidio che ne risulta è della stessa natura74. Questo passaggio mostra che il malessere sociale e culturaleèdivenutotangibile, sensibile.Nonsitrattadiuna fantasticheria a posteriori dellostorico:ilmaldivivere ha raggiunto proporzioni senza precedenti nella seconda metà del XIX secolo. I sintomi cheDurkheimqualificacome patologici e transitori hanno continuato ad aggravarsi per un secolo, pertanto inizia a profilarsi il dubbio che siano in realtà uno sviluppo normale e durevole della civiltàoccidentale;cheilmal di vivere ne sia una componente necessaria, ineluttabile, irreversibile. Durkheim sottintende involontariamente tale pensiero quando osserva la progressione parallela del livello di vita e del tasso di suicidio. L’innalzamento del livellodivitascatenaunciclo infernale fatto di consumo e di nuovi bisogni. «Non sappiamopiùdovefiniscanoi bisogni legittimi e non ci accorgiamo più del significato dei nostri sforzi». Lasocietàdeiconsumicausa il dominio degli interessi economici,chemoltiplicanoi bisogni artificiali e quindi le cause di frustrazione, poiché non offre altri obiettivi e valori supremi se non la propria soddisfazione. Il fine dell’economia è la prosperità economica, che rafforza la tutela dell’economia stessa, e così di seguito. La spirale che viene a crearsi è una macchinachedistruggesiale aspirazioni morali che spirituali, poiché favorisce due tendenze apparentemente contrapposte, ma in realtà complementari: l’atomizzazione e il gregarismo, l’individualismo e lo spirito di massa. Per essere di massa, il consumo ha bisogno di isolare gli individui, facendo loro proiettare il miraggio della soddisfazione personale e, allo stesso tempo, diffondendoilpiùpossibileil conformismo. Solo e soffocato nella massa, all’esclusiva mercè delle forze economiche, all’individuo non rimangono che due strade: l’istupidimento o il mal di vivere. Vivere quindi nell’euforia e nell’idiozia, oppure nella riflessione e nelladepressione. 1 A. SCHOPENHAUER,Ilmondo come volontà e rappresentazione, Libro IV, Mursia, Milano 1982, p. 353. 2Ivi,p.354. 3Ivi,pp.353-354. 4J.PRÉVERT,Tentativo di descrizione d'un banchetto in maschera a ParigiFrancia, in Parole, Guancia, Parma1998,p.37. 5 A. SCHOPENHAUER, Il mondo...,cit.,p.365. 6Ibidem. 7 A. SCHOPENHAUER, II mondo...,cit. 8Ibidem. 9Ibidem. 10Ivi,p.367. 11Ibidem. 12Ibidem. 13Ibidem. 14 A.SCHOPENHAUER,II mondo...,cit.,pp.440-441. 15Ivi,p.441. 16Ibidem. 17 E. VON HARTMANN, L'autodestruction du cbristianismeetlareligionde l’avenir, traduzione e cura di J.-M Paul, Presses Universitaires de Nancy, Nancy1989. 18 M. SURNER, Der Einzig und sein Eigentum, Stuttgart 1891, p. 412; trad, it., L' unico e la sua proprietà, Mursia, Milano 1990,p.351. 19 J.-M. PAUL, Dieu est mort en Allemagne: des Lumières à Nietzsche, Payot,Parigi1994,p.252. 20 M. TWAIN, LO STRANIERO MISTERIOSO, Einaudi, Torino1993,p.264. 21 S.A. KIERKEGAARD, Diario,Rizzoli,Milano2000. 22 S. KIERKEGAAKD, Diario,cit. 23Ibidem. 24Ibidem. 25Ibidem. 26 S. KIERKEGAARD, Timore e tremore, Aut-Aut, Rizzoli,Milano1986,p.162. 27 S. KIERKEGAARD, Timoreetremore,cit.,p.163. 28S.KIERKEGAARD, Timoreetremore,cit.,p,174. 29Ivi,p.182. 30Ivi,p.187. 31 L.S. MERGER, TableaudeParis,Amsterdam 1783,pp.91sgg. 32 H. FERGUSON, Melancholy and the Critique of Modernity: Soren Kierkegaard’s Religious Psychology, Routledge, Londra1995,p.4. 33I.TURGENEV,Padrie figli, Mondadori, Milano 1988,p.35. 34 A. HERZEN, Dimitri Pisarev et l'idéologie du nihilisme russe, in Le nihilisme,acuradiV.Biaggi, Flammarion, Parigi 1998, p. 14. 35N.BERDIAEV,Lefonti eilsignificatodelcomunismo russo, Cooperativa editoriale «La Casa di Matriana», Milano1976,p.64. 36 J.KRISTEVA, Sole nero. Depressione e malinconia, Feltrinelli, Milano1989,p.154. 37Ivi,p.159. 38 J. KRISTEVA, Sole nero...,cit.,p.156. 39A.CAMUS,L'uomo in rivolta, in Opere, Bompiani, Milano 2000, p. 684. 40 F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, ISIS, Milano1922,§31,p.21 41 F. NIETZSCHE, La volontà...,cit.,§443,pp.215216. 42CitatoinG.MINOIS, Histoire de l’athéisme, Fayard, Parigi 1998, p. 512; trad, it., Storia dell’ateismo, EditoriRiuniti,Roma2003. 43 A. HUXLEY, On the Margin, Chatto & Windus, Londra1948,p.25(Accidie). 44 Citato da A. SOLOMON, Il demone di mezzogiorno: depressione: la storia, la scienza, le cure, Mondadori,Milano2002. 45Ibidem. 46A.DUTIL,Neurasthénie ou malarie de Beard, in Traitédemédecine,acuradi J.-M. Charcot, Parigi, seconda ed. 1905, t. 10, p. 621. 47 É. DURKHEIM, II suicidio:studiodisociologia, Rizzoli,Milano1997,p.177. 48Opererepertoriateda A. BAYET, Le suicide et la morale, Alcan, Parigi 1922,pp.738-740. 49 M. REYDELET, DU SUICIDE CONSIDÉRÉ DANS SES RAPPORTS AVEC LA MORALE PUBLIQUE ET LES PROGRÈS DE LA LIBERTÉ,Parigi1820,p.23. 50 FABRET, De l’hypocondrie et du suicide, Parigi1822,p.92. 51A.BOSSANGE,Des crimes et des peines capitales,Parigi1832,p.299. 52 G. FERRUS, Des prisonniers, de ΐèmprisonnement et des prisons, G. Baillière, Parigi 1850,p.142. 53CitatodaA.BAYET, Lesuicide...,cit.,p.758. 54 A. BAYET, Le suicide...,cit.,p.772. 55 A. DUMAS, Antony, III,3. 56 SAINT-MARC GIRARDIN,Courtdelittérature dramatique, ou l’Usage des passions dans le drame, Parigi1843,t.1,p.109. 57A.BAYET,Lesuicide..., cit.,pp.750-751. 58J.-E.ESQUIROL,De lalypémanieoumélancolie,a curadiJ.Postel,Ed.Sandoz, Tolosa1977,p.85[1820]. 59 ID., Des maladies mentalesconsidéréessousles rapports médical, hygiénique et médico-légal, Amo Press, New York 1976; trad, it., Delle malattie mentali considerate in relazione alla medicina, all'igiene e alla medicina legale, Mariano Cecchi,Firenze. 60 BRIERRE DE BOISMONT,DU SUICIDE ET DE LA FOLIE SUICIDE CONSIDÉRÉS DANS LEURS RAPPORTS AVEC LA STATISTIQUE, LA MÉDECINE ET LA PHILOSOPHIE, G. Bailliere, Parigi1856,p.170. 61Ivi,p.608. 62 BRIERRE DE BOISMONT, DU SUICIDE..., cit., p.92. 63Ivi,p.592. 64Ibidem. 65 É. DURKHEIM, Il suicidio:studiodisociologia, Rizzoli,Milano1997,p.206. 66 É. DURKHEIM, II suicidio...,cit.,pp.240-241. 67Ivi,pp.244-246. 68Ivi,p.248. 69Ibidem. 70 É. DURKHEIM, suicidio...cit.,p.266. 71Ivi,p.327. 72 É. DURKHEIM, suicidio...,cit.,p.327. 73 É. DURKHEIM, suicidio...,cit.,p.329. 74 É. DURKHEIM, suicidio...,cit.,p.331. Il Il II Il Capitolonono Unaculturadelmaldi vivere:modernitàe ansianelXXsecolo Il XX secolo si apre davveroconL’urlodiMunch. Non è difficile immaginare ciò che questo artista allucinatointravede:gliorrori delsecoloavenire;quellidel XX non ne sono che le premesse. Da allora, come a fare da eco al suo urlo, generazioni di intellettuali e di artisti hanno espresso il mal di vivere dei contemporanei. Dagli inizi dell’umanità, nessun altro secolo ha conosciuto un simile susseguirsi di catastrofi, di morti e distruzioni quanto un uomo nato fra il 1900 e il 1910. Come ci si può stupire, o indignare, del fatto che la cultura del XX secolo sia stata così massicciamente pessimistica? Un atteggiamento contrario sarebbe stato semplicemente aberrante. Espressioniartistichee letterariedelmaldi vivere Gli espressionisti sono statiiprimiadelineareitratti salienti di quest’epoca folle. Essi bandiscono la nozione arbitraria di bellezza, illusionedellanostrafantasia, esmascheranol’angosciache si cela dietro gli alibi della civiltà.JamesEnsormostrala morte dietro le smorfie del riso;OttoDixeGeorgGrosz espongono gli orrori della guerra. I surrealisti aprono una finestra sull’assurdo e sulnulla,sirivoltanocontroil tempo («il tempo, farsa vecchia e sinistra, treno in perpetuo deragliamento, pulsazione folle, inestricabile ammasso di bestie morenti e morte»1, scrive André Breton). Dalì, Tanguy e Delvaux immortalano la durata, mentre Magritte la uccide ne Laduratapugnalata(1938)2. Il nichilismo conquista la pittura con Malevitch, le cui superficibianchesonoveree proprie immersioni nel nulla, ispirate da maestri mistici quali Eckhart, Ruysbroeck e Boehme. Ritroviamo il concettodelnullainbiancoe nero anche con Kandinsky, unbiancopienodipossibilità eunnero«senzaavvenirené speranza»3. Dubuffet, che sostiene un «nichilismo attivo», una «deculturizzazione» per mezzo del riso, vuoleapparirecostruttivo,ma un discepolo di Stirner sostiene che «il pensiero occidentale sia viziato dalla propria fame di coerenza, illusione di coerenza»4.I quadri si svuotano, come se la sola cosa degna di essere rappresentatafosseilnulla,il silenzio. L’olandese Bram Van Velde esprime tale concetto con formule laconiche: «Non posso dire nulla. Non ci sono parole; l'importante è essere niente; più si sa e meno si è [...];leparolesonorumore»5. Per questo pittore del nulla, «lapitturaèl’uomodifronte alla sua disfatta». Un’altra forma di disfatta è quella della civiltà, resa con mezzi diversi da Picasso, da Guernica (1937) a L’ossario (1945). L’arte stessa sta commettendo una sorta di suicidio attraverso le opere insensate che osa presentare come provocazioni, come le assurde macchine di Tinguely che si autodistruggono. Un pessimismo senza precedenti si impadronisce della letteratura del XX secolo e sarebbe probabilmente impossibile stilare la lista delle opere riguardanti il mal di vivere. Ricordiamo solo alcune di esse a titolo di riferimento. Franz Kafka segna il passo sin dall’inizio del secolo con temi quali la solitudine, l’assurdo, l’angoscia, mentre l’austriaco Karl Kraus denuncia nel 1909 «il progresso febbrile della stupidità umana», progresso che «produce portafogli in pelle umana». Il suo compatriota Robert Musil osserva che, sin dal XIX secolo, l’Europa ha seguito «il cammino che porta dalla speranza alla disperazione». Nel 1918 il tedesco Oswald Spengler si crea una reputazione di profeta nel Declino dell’Occidente, in cui mostra già i danni dell’influenza dei media sull’opinione pubblica. Nel 1933scrive:«Arrival’epocano, è già arrivata! - in cui non c’è più posto per le animetenereeilabiliideali». Tre anni dopo Paul Valéry, una delle menti più lucide del secolo, ci pregia dellasuafamosateoria:«Noi civiltà ora sappiamo che siamo mortali. [...] Adesso vediamo che l’abisso della storiaèabbastanzagrandeper tutti.Sentiamocheunaciviltà èfragilequantounavita[...]. C’èl’illusioneperdutadiuna cultura europea e la dimostrazione dell’impotenza della conoscenza nel salvare qualunquecosa,c’èlascienza colpitamortalmentenellesue ambizionimoraliedisonorata dalla crudeltà delle sue applicazioni, c’è l’idealismo difficilmente vincitore, profondamente straziato, responsabile dei propri sogni»6. Secondo il disilluso Valéry, «l’universo è un difettonellapurezzadelnonessere». La Germania, duramente colpita dalle catastrofi del secolo, ha contribuito ampiamente ad alimentare la letteratura pessimistica, persino prima della guerra del 1914, con giovani autori come Stramm, Engelke, Sorge, Stadler, tutti uccisi nelle trincee, o Karl Einstein, Walter Hasenclever, Ernst Toller, vittime invece del suicidio. AncheGeorgTrakl,scioccato dalle atrocità della guerra, dalla stupidità e dagli aspetti orridi del mondo moderno, si è probabilmente suicidato nel novembre del 1914, mentre lavorava come farmacista nell’esercito austriaco. Gottfried Benn denuncia le illusioni idealiste erette a moderni idoli; la storia non è che un processo svuotato di significato:«Eccociòchesei, e non sarai mai altro; ecco come vivi, come hai vissuto, come vivrai sempre». Hans Erich Nossach ha vissuto tre quarti di secolo, abbastanza per perdere qualsiasi illusione. Ma «si può vivere senza illusioni, quindi fare piùchevegetare?Esesipuò, quale lingua occorre che parliamo,dalmomentocheci è stata preclusa ogni possibilità di crearci illusioni?». Cosa possiamo fare di fronte alla tentazione delnullasenon«riconoscere il nostro fallimento, senza pietà né ricorso alle scappatoie tradizionali»? «Riconoscere la propria debolezza è la più umana delle nostre azioni». La poetessa Ilse Aichinger, nata nel 1921, e Günter Grass, nato nel 1927, si collocano nella stessa corrente pessimistica. La letteratura francese non è certo più allegra: da Jean Cocteau, che nel 1946 esprime La difficoltà dell’essere («Ho passato la cinquantina, significa che la morte non deve fare molta strada per raggiungermi. La commedia volge al termine. Mirestanopochebattute»),a Samuel Beckett, per il quale stiamo tutti espiando «il peccatodiesserenati».Siamo una società di dannati, condannati a vivere nella melma terrestre prima di marcire. «Il cadavere è l'ultimo escremento dell’uomo», osserva Raymond Queneau, per il quale la scopa e il pendolo sono i due oggetti più rappresentativi dell’esistenza. Lascopa,simbolodell’azione ripetitiva, che ricomincia continuamente, giusto per ammazzare il tempo, e il pendolo, la cui solacontemplazionepermette difuggireiltempo. Henry de Montherlant, prima di suicidarsi nel 1972, ha espresso molte volte il malesserediviveredell’uomo lucido. L’uomo moderno è lucido perché i sogni di una volta si sono consumati al fuoco della storia. Non gli resta che una grande amarezza e un grande pessimismo, espresso ad esempio da Ferrante nella Reine morte·. «Amo scoraggiare. E non amo il futuro [...]. Le donne dicono sempre: “crescere un figlio perchémuoiainguerra!”,ma c’è di peggio: crescere un figlio perché viva e si avvilisca nella vita [...]. Anche voi fate parte di tuttequestecosechevogliono continuare,continuare[...],la vostra malattia è la speranza»7. E che dire di Eugène Ionesco e del suo teatro dell’assurdo, dell’incomunicabilità, nonché il teatro del mondo! Quando II re muore, cioè quando io muoio, cosa mi interessa dell’avvenire radioso delle generazioni future? Bella consolazione, bieca menzogna che si ripete ai morenti da migliaia di anni! Quando muoio, tutto muore, tutto sprofonda nel nulla. Non andiamo a chiedere conforto a Henri Michaux, per il quale «lastoriadiunuomoèlasua caduta»; per tutta la sua vita «ladisperazioneelafaticasi uniscono. E il sole scalda un altroposto»8. Anche per Francis Scott Fitzgerald, «beninteso, qualunque vita è un processo di demolizione». In The Crack-up,egliraccontalasua storia, quella di tanti suoi contemporanei: la depressione avanza man mano che prende coscienza della propria incapacità di raggiungere l’ideale che si è prefissato. L’ideale, pericoloso miraggio, scoraggiante illusione, serve solo a offuscare la realtà paragonandolaaunaluceche non è mai esistita. L’ideale uccide. FraipoetidelXXsecolo si contano innumerevoli disincantati: Paul Celan si uccide nel 1970, come anche la giovane poetessa e romanziera americana SylviaPlathnel1963.Ne La campanadivetroeneiDiari, laPlathraccontalasualunga depressione. Fernand Gregh ha tradotto in versi la sua disperazione: Toute explication de vivreestunmensonge, Qui l’a compris n’a plus ici-bas qu’à mourir9. Siamo tutti irrimediabilmente soli. L’era delle masse è l’èra della solitudine; la folla non è che una sovrapposizione di solitudini che nemmeno l’amorepuòspezzare: L’amour n’est que l’appeldedétressejeté Des deux còtés d’un mur par deux animaux tristes10. Lanoia,radicedelmale moderno La noia s’impone come una delle componenti della vita contemporanea. Beckett la rappresenta attraverso personaggi che non fanno niente e non desiderano niente, che non hanno «né il coraggio di finire né la forza di continuare» e che aspettanoche«passi»,frauno sbadiglio e l’altro; si può persinodirecheassaporinola propria noia, la quale lascia loro in bocca il sapore del nulla.Solol’avvicinarsidella fine produce un leggero fremito di speranza, perché «la fine di una vita rinvigorisce». La vita è grigia, tetra, ripetitiva; nascere è una sfortuna cui fanno seguito anni e anni di noia. Si può solo sperare che non vi sia altraesistenzadopoquesta11. Lanoiahaancheunaltro nome, ed è quello di Marcel Proust. La sua è l’opera del tempoperduto,ilsuoequello dei suoi lettori. Nessuno ha mai esteso il niente su così tante pagine e con così tanto talento.Trasudanonoiaanche i romanzi di Anna di Noailles, di Paul Bourget, di Maurice Barrès, di Joris-Karl Huysmans, esteti snob e dandy che all’inizio del secolo frequentano le capitali della noia, Cabourg e Deauville12.Ancoranoia,più avanti,inFrançoiseSagan,in cui persino i personaggi innamorati hanno la sensazione di «annoiarsi appassionatamente» e di approdare alla disperazione; allora,Bonjourtristesse! È noia anche per Alberto Moravia, che si dedica allo studio delle diverse sfaccettature di questo sentimento,daGliindifferenti (1929)finoaLanoia(1960). La noia è un tipo di rapporto privilegiato con il mondo tipico nella società moderna, a dispetto o a causa della moltiplicazione dei bisogni artificiali creati dalla societàconsumistica.Lanoia provoca vari tipi di atteggiamenti: nostalgia, violenza, regressione, suicidio, e l’uomo consapevole non può far altro che assistere con indifferenza allo spettacolo del mondo. Paradossalmente, Moraviaergelanoiaamotore della storia; se le società progrediscono, scoprono, inventano, si muovono è anche perché si annoiano. La noia,enonlalottadiclasse,è all’origine delle rivoluzioni sindaiprimordi,poichéèper noiacheDiohacreatoilcielo elaterra: Inprincipio,dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio, annoiandosi della noia, creò la terra, il cielo, l’acqua, gli animali, le piante,AdamoedÈva;i qualiultimi,annoiandosi a loro volta in paradiso, mangiarono il frutto proibito. Iddio si annoiò di loro e li cacciò dall’Eden; Caino, annoiato d’Abele, lo uccise;Noè,annoiandosi veramente un po’ troppo, inventò il vino; Iddio di nuovo annoiato degli uomini, distrusseilmondoconil diluvio;maquesto,asua volta, l’annoiò a tal punto che Iddio fece tornare il bel tempo. E così via. I grandi imperi egiziani, babilonesi, persiani, greci e romani sorgevano dalla noia e crollavano nella noia; la noia del paganesimo suscitava il Cristianesimo; la noia del Cattolicesimo, il protestantesimo; la noia dell’Europa faceva scoprirel'America13. La noia è onnipresente anche presso un altro romanziere italiano contemporaneo, Francesco Biamonti.Tuttaviaperlui«la noia è un blocco dell’azione [...], una specie di fantasticheriamistaatristezza attorno alle cose che mi circondano [...]. Questa noia malinconica ci fa superare l’angoscia paralizzante, favorisce il volo dell’immaginazioneepersino della lucidità, e ci evita di alzare il tono e di lanciare grida»14. I romanzi e il teatro non sono i soli a esprimere la noia. Sociologi, psicologi e filosofi ne forniscono interpretazionicherafforzano laconvinzionechelanoiasia una delle caratteristiche della modernità, concetto che può anche essere interpretato come un progresso, per lo meno se si considera la luciditàcomevalorepositivo. «Lanoiaprofondafapartedi queste tonalità fondamentali chetestimonianodelmododi essere dell’uomo per come egliè,dicomevedesestesso e come si pone rispetto alle cose e al mondo»15, scrive Heidegger. Il motivo per cui oggi avvertiamo maggiormente la noia risiede nel fatto che la riflessione è progredita. Gli intellettuali del XX secolo scendono più profondamente dei loro predecessori nelle regioni tenebrose del nostro essere-al-mondo. Non si tratta, beninteso, della noia nel significato banale del termine, quella di cui ci si libera guardando un film, ma della noia fondamentale, la noia di esistere inerente alla coscienza intellettuale moderna, che Cioran così definisce: «Più o meno bruscamente, in se stessi o negli altri, o davanti al paesaggio più bello, tutto si svuota di contenuto e di senso.Ilvuotoèinsestessie fuoridisé.Tuttol’universoè impregnato di nullità. E non c’è niente che ci interessi, niente che meriti la nostra attenzione. La noia è una vertigine, ma una vertigine tranquilla, monotona; è la rivelazione dell’inconsistenza universale»16. Per Cioran, come per Heidegger, l’esperienza della noia permette di accedere alla consapevolezza del nostro essere-al-mondo; in sé è quindi un elemento positivo checirendepiùlucidi. Cioran afferma che tutta la sua vita «è stata dominata dall’esperienza della noia» e che tale esperienza ha rappresentato una sorta di risveglio necessario: «Colui che non conosce noia si trova ancora allo stadio dell’infanzia del mondo». La noia, dice ancora, cambia il nostrorapportoconiltempoe lo immobilizza; rende «domenica» ogni giorno della vita. La stessa cosa osserva anche Michel Huguet in L'ennui ou la douleurdutemps(1987):«La noia è la prova più o meno dolorosa della sensazione della lunghezza del tempo, immobilizzazioneintroduttiva di un vuoto in se stessi e nell’ambiente, tale per cui la rottura dei legami che presuppone sembra mostrarsi come uno spazio bianco, un silenziochepresentalamorte nellavita»17. Più profondamente, Cioran vede nella noia moderna la possibilità per ciascunodidemolirelaretedi significati tessuta dalla società, rete che ci soffoca sotto un eccesso di sensi contraddittori e caotici. La noia, che permette di fare il vuotoarrivandoapercepireil nulla di tutte queste convenzioni, ci permette anche di ricostruirci in tutta libertà e lucidità. In questo senso Cioran non è affatto nichilista. Questo «mistico della noia fu un grande sostenitore del genio di esisteresenzaillusioni,valea dire senza rimorsi inutili»18, scrive Jean-François Gautier. «Esistere senza illusioni» costituisce la sfida dell’epoca contemporanea. Mainquantisonoingradodi accoglierla? Per un Cioran che domina positivamente la noia profonda, quanti sprofondano nella noia superficiale, fattore di apatia e disperazione? Cioran ha visto in questo tipo di noia una reminiscenza dell’accidia medievale, che era considerata peccato perché rendeva seducente il nulla. Più recentemente, il romanziere Régis Jauffret consigliava «di annoiarsi un poco nel corso della vita, poichélanoiaèpiùformativa deldivertimentoaognicosto che ci viene proposto all’interno della nostra società»19. Siamo di fronte a una situazione davvero paradossale:mentreilmondo intellettuale ne decanta unanimemente la virtù, la noia non è mai stata perseguitata con tanto accanimento. La nostra società sembra in stato d’assedio;essahadecretatola mobilitazionegeneralecontro lanoia:centocanalitelevisivi vegliano su di noi, trasmettendo ventiquattr’ore su ventiquattro; cinema, locali, video, viaggi, mostre, festival, animazioni, feste, club, giochi, cellulari e, meraviglia delle meraviglie, Internet, tutti pronti a braccare la noia. Meglio fare di tutto che non fare niente. Scrive Georges Lochak: «Il peggio del peggio è il vuoto: la noia che fa nascere la nostraciviltàdonandoamolti i mezzi per fare tutto, ma senza che ne sappiano il perché [...]. Questa è la noia che si prova di fronte a se stessi e che si cerca di ingannare stordendosi di viaggi (in paesi di cui, alla fine, non si conoscerà forse niente), facendo la coda davanti alle mostre (solo perché pubblicizzate sui cartelloni), studiando le lingue(dicuinonsifaràuso). Facendo «molto rumore per nulla»20. Questa ossessione freneticadiscacciareildelitto della noia è indicativa della vita moderna, divenuta un’interminabile domenica pomeriggiodinovembre. Nauseaeangoscia dell’esistenzialismo Dallanoiaallanauseanon vi è che un passo; esse sono infatti due espressioni letterarie delle stesso mal di vivere moderno. Il libro di Jean-Paul Sartre, pubblicato nel 1938, ha reso la nausea uno dei simboli del mal di vivere contemporaneo. La nausea significa semplicemente prendere coscienza dell’esistenza e dell’assenza diragionediesistere. L’eroe sartriano ripete continuamente: «È dunque questa la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi ci sono alambiccato il cervello! Quantonehoscritto!Eoralo so:ioesisto-ilmondoesiste -eiosocheilmondoesiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mispaventa».«Nehoavutoil fiato mozzo. Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire “esistere”». «L’esistenza non èlanecessità.Esistereèesser lì, semplicemente; gli esistentiappaiono,silasciano incontrare, ma non li si può maidedurre». Egli annota disperatamentesulsuodiario: «Martedì. Niente. Esistito». «Tutto è pieno, l’esistenza è dappertutto,densaepesantee dolce». «Esisto, e non posso sfuggire all’esistenza: Esisto perchépenso[...]enonposso impedirmi di pensare. In questo momento stesso - è spaventoso - se esisto è perché ho orrore di esistere. Sonoio,io,chemitraggodal nientealqualeaspiro:l’odio, il disgusto di esistere sono altrettanti modi di farmi esistere, di affondarmi nell’esistenza». «Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue. Ma la miastessamortesarebbestata di troppo. Di troppo per il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carnecorrosasarebbestatadi troppo nella terra che l’avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate,netteepulitecome denti, sarebbero state anch’esseditroppo:ioerodi troppoperl’eternità». Essere, essere senza sapere perché e senza poter non essere. Perché tutte queste esistenze, «amorfe, vaghe, tristi», «perché tante esistenze, visto che si assomigliano tutte?». A che pro «tante esistenze mancate e ostinatamente ricominciate e di nuovo mancate [...]?». Il tempo stesso si riduce alla semplice esistenza, poiché si riduce al presente: «Ho gettato attorno uno sguardo ansioso: presente, nient’altro che presente [...]. La vera naturadelpresentesisvelava: eraciòcheesiste,etuttoquel che non avevo presente, non esisteva. Il passato non esisteva. Affatto. Né nelle cose e nemmeno nel mio pensiero. [...] Adesso lo sapevo: le cose sono soltanto ciòcheappaiono-edietrodi esse...nonc’ènulla». L’espressione più semplice della sensazione di esistereèlanausea,cherende la vita un inferno. L’inferno, sono anche gli altri: «Mi sembra di appartenere a un’altra specie». Gli altri «son pacifici, un po’ melanconici, pensano a Domani, cioè, semplicemente, a un altro oggi;lecittànondispongono che d’una sola giornata che ritorna sempre uguale ogni mattina. [...] Che imbecilli». «E dire che vi sono imbecilli che attingono consolazioni nelle arti! [...] Sifiguranocheisuonicaptati scorrano in loro, dolci e nutrienti e che le loro sofferenzedivenganomusica, come quelle del giovaneWerther,credonoche la bellezza sia loro pietosa. Coglioni!»21. Sono gli stessi imbecilli, trent’anni dopo, tratteggiaticosìbenedaDino Buzzati ne II Colombre, affaccendati in inutili preoccupazioni, in questa grottesca agitazione del formicaio umano. Alcuni si dicono, e si credono, sinceramente umanisti, altro tentativo di sfuggire alla consapevolezza di esistere. Ma tutti poi, dal santo al gangster, fanno sempre una solacosa:passanoiltempo. Non solo esisto, dice Sartre, ma «sono condannato a essere libero». L’individuo è costantemente posto di fronte a scelte arbitrarie che contribuiscono a tessere la sua essenza, poiché la sua esistenza precede la sua essenza. Cosa c’è quindi di più angosciante di questa libertà esistenziale? Per fuggire tale angoscia, alcuni decidono di seguire ciecamenteunafedereligiosa, un’ideologia. Fatica sprecata, perchésonoliberidiritornare su questa scelta in qualsiasi momento. Poiché la nostra coscienza è sempre pre-occupatadaqualchealtra cosa,cièimpossibileprovare costantemente questaangoscia. Mentre nell’Antichità il mal di vivere si basava sulla sensazione di un destino implacabile,essosibasaoggi sullasensazionediunalibertà assoluta,diunagratuitàtotale delle nostre azioni. Il mondo moderno ha glorificatolalibertà,equesta libertà ora provoca angoscia; leteoriedeterministichesono considerate mere scuse propinate in malafede. Ma cosac’èdipiùangosciantedi unmondodipuragratuità,in cui ognuno esiste e agisce senza ragione, senza causa? La corrente esistenzialista si nutre di questa paura della libertà. Heidegger vi aggiunge l’angoscia legata alla massificazione: l’«io» si dissolve nel pronome «si», dall’accezione collettiva anonima. «Il fatto di trovarsi nelmondoinunacomunione apparentemente tranquilla e fiduciosa è una forma di malessere dell’essere umano». Il pericolo era evidente sotto i regimi totalitari e lo è allostessomodonellasocietà consumistica, che esalta l’individuopermeglioridurlo allo stato di consumatore, omologarlo in categorie, siano esse statisticheosondaggi,efarne un’entità trascurabile che esistesoloinquantoelemento diunapercentuale. Neanche Albert Camus smette mai di ripeterlo. Per lui l’angoscia proviene soprattuttodallasensazionedi assurdità del mondo, colpevole di creare un’indifferenza perfetta: «Se nulla ha senso, [...] tutto è possibile e niente ha importanza». Tuttavia egli vuolereagire,rifiutandosiail suicidio che le soluzioni illusorie che spingono la vita nell’aldilà:«L’assurdohaper me tre conseguenze: la mia rivolta, la mia libertà, la mia passione». È la rivolta che fa la grandezza dell’uomo: «L’uomo è la sola creatura che rifiuti di essere ciò che è»,chevisiaomenounDio: «Nel tempo stesso in cui rifiuta la propria condizione mortale, l’uomo in rivolta rifiuta di riconoscereilpoterechelofa vivere in questa condizione. L’insorto metafisico non è dunque sicuramente ateo, comesipotrebbecredere,ma necessariamenteblasfemo»22. Rivolta e disprezzo: l’atteggiamentodiSisifodeve permettere di dominare la nostra miserabile sorte, poiché «non esiste destino chenonsipossasuperarecon il disprezzo». Ma rivoltarsi controcosa?Controlamorte, contro l’assenza di significato,cheèpoilastessa cosa, poiché la morte toglie qualsiasi significato alla vita. «L’uomo in rivolta non chiede di vivere, ma le ragioni per vivere». Rivolta dei disperati, che non hanno più niente da perdere, e che hanno perso la battaglia prima ancora di iniziarla. Ripercorrendo la storia de L'uomo in rivolta, da Prometeo ai nostri giorni, Camus ci svela la storia dei ripetuti fallimenti dell’uomo contro la propria condizione. Nel migliore dei casi, la rivolta porta a vivere più intensamente possibile nel presente, senza speranze e senza illusioni, «nell’indifferenza rispetto alfuturo,econlapassionedi esaurire tutto quel che ci è dato». «Lacatastrofedella nascita»(Cioran) Tutte le correnti filosofiche del XX secolo sonodellevariazionisultema del mal di vivere. La fenomenologia rileva il fallimento del pensiero razionale nel creare un significato dell’esistenza. In La crisi dell’umanità europea, all’interno dell’opera La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Husserl osserva come la cultura occidentaleabbiacostruitoun sapere che contiene in se stesso la propria forza di autodistruzione. L’empirismo assoluto di Wittgenstein ne è un esempio: il mondo si riduce a una collezione di fattiindipendentielalogicaè un puro formalismo di segni che non può in alcun caso spiegare i fenomeni, poiché «credere a una connessione causaleèpurasuperstizione». Tutte le verità sono solo tautologie incapaci di spiegare il mondo e il senso della vita. Tutte le teorie non sonochechiacchierevuote,e la sola forma di saggezza risiede nel silenzio: «Se non si sa ciò di cui si parla, è meglio tacere». Le filosofie del sospetto generalizzato esprimono lo spirito di un’epoca. Il pessimismo si estende persino ai filosofi credenti, come Gabriel Marcel. Alla fine del secolo, negli atei, il nichilismoprogredisce.Alain Badiou ne percepisce un segno persino nella promozione dell’etica: «L’eticaènichilistaperchéla sua convinzione latente consiste nel fatto che la sola cosa che possa veramente succedere all’uomo è la morte»23.Sottol’etica,infatti, vi è «l’articolazione di una propagandaconservatriceedi un oscuro desiderio di catastrofe». Anche Gianni Vattimoelaboraunatesisulla vittoria del nichilismo, ma vi intravede ancora una possibilità, un progresso, poiché il pensiero, liberatosi dalle illusioni metafisiche e daifalsivalori,puòrifondare il mondo sulla libertà, vale a dire su un’assenza di fondamento. Una tale prospettiva promette più mal diviverechegioia! Anche un pensatore indipendente come Gilles Deleuze ha sviscerato la questione del mal di vivere, evocando nel 1992 la figura di Beckett, l’«esaurito» per eccellenza; l’intellettuale moderno è «esaurito dal nulla», diceva. Deleuze ha ripercorsolegranditappeche hanno portato al nichilismo contemporaneo: l’accusa dell’altro attraverso l’affermazione del sé nell’Antichità; l’autoaccusa colpevolizzante del cristianesimo e la sua sublimazione ascetica, nonché negazione della vita; infine l’accusa e la condanna a morte di Dio nell’epoca moderna. Morte dell’altro, morte di sé, morte di Dio: cosa ci resta? «Tutto è vano»24, meglio spegnersi passivamente, scrive nel suo librosuNietzsche. Fra tutti gli scrittori disperati, uno dei più eloquenti e dei più «noir» è senza dubbio Émile Cioran, che abbiamo già incontrato parlando della noia. Ancora giovanissimo, a ventidue anni, egli scrive Al culmine della disperazione (1933), pamphlet contro la vita di rara violenza e di sorprendentelucidità,sortadi sfogo del suo furore per il fattodiessereinvitachenon gli consente di suicidarsi: «Niente può giustificareilfattodivivere», dichiara; quando tutti gli idealiavrannofallitoneldare senso alla vita, «come continuare a preservarla dal nulla?».Tuttalanostravitaè costruita sulla paura della morte;tuttociòchefacciamo mira a respingerla, pur sapendo che è ineluttabile. «Nonostante la vita sia per me un supplizio, non posso rinunciarvi,poichénoncredo all’assoluto dei valori nel nome dei quali mi sacrificherei. A essere sincero,devodirechenonso perché vivo, né perché non smetto di vivere»25. Anche il nuovo Amleto è quindi perplesso quanto il suo glorioso antenato e se la prende con tutti i motivi avanzati per giustificare la vita, considerandoli meri pretesti fallaci. Preparare il futuro, un avvenire migliore per le prossime generazioni, come i nostri predecessori che si sono sacrificati perché fossimo più felici di loro? «L’ironia suprema consisterebbe nell’accorgersi che costoro furono più felici diquantonoilosiamooggi»; «Sono felici solo coloro che non pensano mai, vale a dire coloro che pensano solo lo stretto necessario per vivere [...]. Gli uomini più infelici sono quelli che non hanno diritto all’incoscienza. Avere una coscienza sempre all’erta, ridefinire continuamente il proprio rapporto col mondo, vivere nella perpetua tensione della conoscenza, questo significa essere perduti per tutta la vita»26. Al diavolo «questa gente abbrutita, che lavora senza ragione o si compiace per il suo contributo al bene dell’umanità, sgobbando per le generazioni a venire sotto l’impulso della più sinistra delleillusioni!»27.Gliideali,i credo,l’arte,lafilosofiasono bazzecole per passare il tempo, poiché tutto va verso ilnulla. Perché non il suicidio quindi? In generale è quanto sostengonogli«abbrutiti»che rimproverano ai pessimisti angosciati di avvelenare loro la vita. La discussione è all’altezza della riflessione dei cosiddetti abbrutiti. Il suicidio filosofico è un mito, scriveCioran.Noncisitoglie la vita in seguito a un ragionamento, ma a causa di determinanti organiche e intime; il suicidio è un atto che coinvolge l’insieme dell’essere («La morte mi disgusta quanto la vita», afferma Cioran). In ogni caso, la possibilità del suicidio è quanto meno un fattore di superiorità che l’uomo possiede rispetto a Dio,ilqualenonpuòinalcun modoannientarsi. Lavitaèassurda,ecoloro che tentano di giustificarla sono degli incoscienti oppure dei bugiardi. «Come si possono avere degli ideali quandosullaterranoncisono che sordi, ciechi e pazzi?»28. Cioran ribadisce insistentemente il suo disgusto per la vita in operedaititolisuggestivi.Nel Sommario di decomposizione (1949) osserva che «la vita non ha alcun senso, non ne può avere». Nessuna religione, nessuna ideologia hamaipotutofornireunasola argomentazionevalidacontro il suicidio; se abbiamo il coraggio di continuare è perché sappiamo che possiamo tirarci fuori in qualsiasi momento. «Demoni fanfaroni, noi rimandiamo la nostra fine: come potremmo rinunciarearibadirelanostra libertà, al gioco della nostra superbia?»29. Allora restiamo in vita, per fare come gli altri; viviamo «per imitazione», «per educazione». «La vita è tollerabile grazie al grado di mistificazione con cui la si prende». Siamo tutti «abitudinari della disperazione, cadaveri che si accettano, sopravviviamo tutti». La raccolta di aforismi pubblicatadaCiorannel1973 con il titolo L’inconveniente di essere nati è a tutti gli effetti una sorta di bibbia del mal di vivere contemporaneo spinta al parossismo. Cioran evoca in queste pagine «la catastrofe della nascita» e vede nella paura della morte una proiezione nel futuro di questo timor panico che ha accompagnatoilnostroprimo istante di vita. In un certo qual modo vi si può trovare una consolazione: il peggio è passato, vale a dire la nostra venuta al mondo. Ma è anche un’esortazione: evitate il peggiore di tutti i crimini, «quello di essere padre». Percercarerassicurazione,gli uomini hanno inventato Dio: «È chiaro come il sole che Diofosseunasoluzioneeche non ne troveremo mai una altrettanto soddisfacente»30. Ma questa soluzione non è più credibile: l’uomo del 2000, che conosce il pietoso naufragioditutteleillusionie ditutteleutopie,nonpuòpiù credereperunsoloistantenel futuro dell’uomo, appunto perché è consapevole della sua tristezza ancor più di quanto lo fossero i suoi antenati. «Sono disposto a credere nel futuro dell’uomo, ma come riuscirci quando si è,malgradotutto,inpossesso delle proprie facoltà? Occorrerebbe il loro tracollo quasi totale, e ancora non basterebbe»31. Ilmalessererivelato (diarieautobiografie) Scrivere, e in particolare scriveredisé,èunmodoper ricostruirsi, per rifarsi un’identità,perinventarsiuna ragione di vita. Il bisogno di raccontarsi è in se stesso un segno di malessere, l’espressione di una malinconiaodiunrancore,e allostessotempolaricercadi conforto. Come abbiamo visto molte volte, il malinconico descrive la propria malinconia per combatterla. Paradossalmente le autobiografie ci insegnano forse di più sulle mentalità collettive che sugli individui, anzituttoperchésonoracconti soggettivi. Qualunque sia lo statodiluciditàedionestàdi un autore, la sua opera è il risultato di una scelta. Egli passa la sua vita al vaglio della sua personalità, dimentica alcuni episodi, ne scartaaltrideliberatamente,e il suo umore del momento coloraisuoiricordidirosao di nero. A tutto ciò si aggiungono gli artifici letterariche,necessariamente, deformanolarealtà. Il diario è probabilmente una forma più autentica rispetto all’autobiografia, nella misura in cui vi si annota nel presente la reazione a caldo. I momenti di disperazione vengono annotati con violenza: «Angoscia, angoscia. Dove miporteràquest’avventura?», scrive Charles Juliet il 24 settembre 1965; «pensierosuicidio», scrive di getto un altro giorno32. Nel suo Journal d’enfer, Francis Giauque scrive nel marzo 1965: «Sonno scomparso. Enclave della disperazione. Alzarsi. Coricarsi. Alzarsi. Coricarsi di nuovo»33. Louis Calaferte scrive,il12febbraio1964: «Cattivo stato d’animo. Abbattimento morale. Instabilità del pensiero. Lavoro inconsistente»34. Nel momento in cui la depressione si aggrava, il diario si interrompe: «Un mese senza aprire il diario. Ho attraversato una crisi morale talmente spaventosa che riportarne i dettagli mi ripugna»35, annota Calaferte il 21 febbraio 1969.I critici hannoosservatochegliautori dei diari personali si suicidano in media tre volte di più degli autori di autobiografie36. Tormentati e più inclini alla scrittura «a caldo» e alle reazioni violente, i primi sono più inclini agli accessi di pessimismo,mentreisecondi rimuginano, riflettono, si analizzano, si interrogano, cercano di dare una forma letteraria alla loro tristezza: «Ed è così che la nostra coscienzacifavili;ècosìche si scolora al pallido riflesso del pensiero il nativo colore del coraggio», diceva giàAmleto37. Diari intimi e racconti autobiograficipresentanouna grande diversità che Michel Braud ha trasformato in un esauriente studio38, da cui risulta l’impressione di un immenso malessere esistenzialeilquale,aldilàdi tutte le situazioni particolari, si estende all’insieme del mondo letterario. Gli avvenimenti della vita personale a volte sono determinanti, come in Virginia Woolf. Molti altri, senza aver conosciuto simili tragedie personali, sono stati profondamente segnati dagli avvenimenti dell’infanzia. Nel 1942, nel suo Voyage intérieur, Romain Rolland evoca «i mostri divoranti della disperazione mortale»39 che ha conosciuto durante l’adolescenza. «Ho attraversato disperazioni senza fine»40, scrive Jean Louvain in II faut tenter de vivre (1943). Anche Simone de Beauvoir, Francis Carco, Romain Gary e Julien Green si riferiscono a fatti risalenti alla loro giovinezza che ne hanno determinato la malinconia. Sotto l’influenza della psicanalisi, gli scrittori del XX secolo hanno avuto la tendenza ad accordare un’importanza primordiale alla loro prima infanzia, soprattuttoapartiredaglianni ’60. Ma la psicanalisi, concepita come strumento terapeutico, può anche provocare angoscia negli esseri ipersensibili che praticano l’autoanalisi. Ad esempio,ilricordodeformato e amplificato del ruolo soffocante della madre è nettamente ansiogeno per Romain Gary e Sylvia Plath. Altri insistono maggiormente sui traumi adolescenziali, comeLouisCalaferte:«Come adolescente mi aspettavo molto dal mondo, di cuiignoravotutto.Acontatto con la sua violenza, la sua ingiustizia e la sua crudeltà, sono stato irrimediabilmente traumatizzato. In fabbrica a tredici anni e mezzo, ho improvvisamente scoperto la forza che reprime l’odio, l’ignoranza»41. L’autobiografia è l’opera degli individualisti, la cui sensibilità esacerbata è più ricettivaaimahcircostanti.Il trionfo della società consumisticadimassa,fattore didisumanizzazione,conduce alcuni alla disperazione. Già nel1935StefanZweigannota nel suo diario lo scoraggiamento che gli ispira questo «ingrassamento delle masse», questo trionfo del nuovo comandamento: «Compra! Compra! Compra!»; gli sembra che il mondosiadirettodaunpazzo che lo «conducaassurdamenteverso l’ignoto». Quando si è umanisti autentici, si può forse assistere senza emozioni al naufragio dell’umanesimo, che peraltro ha tutte le carte in regola per essere definitivo? Il mondo nonhapiùsenso,ecoloroche vogliono ridargliene lo fanno innomediideologieassurde. Stefan Zweig si suicida il 22 febbraio1942. A che pro cercare ancora di dare un senso all’esistenza? L’ossessione dell’«a-che-pro», malattia da cui Jean Cocteau dice di essere stato colpito nel 1953, ècontagiosa.Il26luglioegli annota sul suo diario: «Questa notte, crisi di ossessione dell’“a-che-pro”, caduta a picco in questo grigiorelacuiuscitanonpuò cheesserelamorte»42.Ache pro? Tale domanda esprime anche l’immenso scoramento degli intellettuali di fronte allasconfittadellarazionalità e la regressione culturale, il trionfo della stupidità amorfa della massa e la stupidità fanatica dei credenti di ogni sorta. Gli antro-pologi approdano alla stessa constatazione: «A che serve agireseilpensierocheguida l’azioneconduceallascoperta dell’assenza di senso?»43, si domandaClaudeLévi-Strauss inTristitropici(1955). Anchese«nonmancamai a nessuno una buona ragione per uccidersi»44, sentenzia Cesare Pavese, abbiamo paura del nulla, «una paura più forte di tutto», risponde Danielle Collobert, per cui la vita non diventa altro che passare il tempo: «Occupo il tempo, non faccio che occupare il tempo, come tutti»45. Cosa siamo venuti a fare in questa galera, si chiedono in coro gli autobiografi del XX secolo. Charles Juliet deploralaproprianascita,che paragona a una «espulsione nel tempo». Perché non sono statadimenticatanelnulla?,si chiede Marie Noèl: «Avrei preferitoche[Dio]miavesse risparmiato questo grande problema di vivere e di morire, dimenticata indefinitamente nel sonno senza peccato né tristezza, dove le anime non si sono ancora risvegliate»46, mentre Albertine Sarrazin si impunta sul mistero della proprianascita. Altri ampliano il problema: l’esistenza non è forse già uno scandalo di per se stessa, poiché termina sempre con la morte? Il 30 gennaio 1960 Charles Juliet esprime fortemente questa angoscia nel suo diario: «Qualsiasi processo del pensiero sfocia nel problema della morte, pertanto tutto crolla. Destinato a urlare o a gemere»47. Il 29 ottobre evoca«questavertiginecheci coglie quando arriviamo a realizzare che miliardi di esseri umani ci hanno preceduto, sono esistiti in carne e ossa, hanno avuto un presente, hanno vissuto, amato, goduto, per sparire, alla fine, senza lasciare niente, senza tramandarci alcuna risposta [...]. E anche noi spariremo, ci immergeremo in questo passato»48. E perché non subito? «Suicidarsi a ventiquattro anni significa scegliere la perfezione, rifiutare di lasciarsi logorare daltempo»49.Malapaurac’è sempre. Allora bisogna sopportarsi, «essere prigionieri di se stessi per tutta una vita». Juliet, dopo molti altri, osserva che la nostratristezzaècausatadalla riflessione,echepersfuggire alla disperazione non ci sono che «due soluzioni: o il suicidio, o la vita dell’abbrutito»50. Camus lo aveva detto: «Iniziare a pensare significa iniziare a logorarsi». Da un lato, quindi, l’assurdità della vita; dall’altro la paura della morte. Simone de Beauvoir ha raccontato come per molto tempo avesse ammirato il suicidio metafisico, pur riconoscendo lasuaimpotenzanelmetterlo in pratica: «Avevo troppa paura della morte», che è esattamente quanto afferma anche Paule Régnier nel suo diario: «Tutto finisce nella morte. E pur desiderandola, ne ho paura»51. Irène-Carole Reweliotty, divorata dalla tubercolosi, punta il dito contro l’assurdità della medicina, il cui unico fine è di farci morire in buona salute:«Tuttiquestigiornida subire.Èorribilepensareche così io lotto per vivere e che questo non impedirà che iomuoiacomunque,chesono sconfitta in partenza. Non ha senso fare sforzi per guarire, poichétuttalavitaportasolo allamorte»52. Molto spesso gli autori dei diari intimi e di autobiografie provano un senso di colpa poiché sono convinti della loro mediocrità, della loro incapacità di affermarsi nella vita. Charles Juliet esprime con forza tale concetto: «Fallimento, fallimento. Non riuscire a vivere. A morire. A superarsi. A dare e ricevere. Inevitabilmente ci si sente in colpa. Vergogna per queste mezze misure, questi mezzi fallimenti, questa impotenza, questa colpevolezza, questa vergogna»53. Tentati dal suicidio, si sforzano di inventarsi una ragione per vivere.Latentazionereligiosa è ancora forte in alcuni, ma unavoltaintrodottoildubbio, nulla lo può scacciare. Ci si può giusto aggrappare a un timido«esefossevero?»,che non si può dire se sia un timoreounasperanza:forseè tutto qui, in questo brivido del «se fosse vero»! Se veramente fosse vero, sogna Cesare Pavese54. Altri tentano di motivarsi fissandosi obiettivi umani, come Simone Weil, che chiede una missione pericolosa per trasformare un suicidio in sacrificio. Altri ancora si trascinano, giorno dopo giorno, gesto dopo gesto,senzapensarealfuturo. «Per ritrovare una parvenza di pace, bisogna che mi aggrappi a un tempo senza domani, a un tempo decapitato», scrive Cioran, mentre Juliet cerca un appiglio, come un alpinista sfiancato: «Bisogna resistere, resistere;tuttoqua»;eancora: «Mi accontento di andare avanti, ma non mi aspetto niente». Con più o meno discrezione, innumerevoli autori del XX secolo hanno accennato a qualche malessere. Come Albert Cohen, che scrive «per ingannare la sua disperazione»;FrancisCarco, chevivenel«disgustoenella paura di invecchiare»; Jean Cocteauelesuecrisisull’«a- che-pro»;JoeBousquet,peril quale «l’uomo nasce nel dubbio e, mezzo cieco, non può che esistere nell’inconsapevolezza o nell’angoscia»;RomainGary, che conduce «una battaglia omerica e disperata»; Michel Leiris, convinto che la vita non valga la pena di essere vissuta e che solo la scrittura lo tenga in vita; Henry de Montherlant, che rifiuta il degrado dell’infermità; Georges Perros, che pensa che «quando l’uomo si affaccia su se stesso può andare incontro solo a disastri»; André Suarès, che vorrebbe«dileguarsicomeun soffio»,emoltialtriancora. Tutti, ad un certo momento, hanno pensato al suicidio. Molti lo hanno messo in pratica. Jacques Vaché, che scrive nel 1917 : «Mirifiutodiessereuccisoin tempodiguerra»,aspettache tomi la pace per darsi la morte, nel febbraio 1919. Il suo gesto viene imitato da una folta schiera di personaggi: Vladimir Majakovskij (1930), Daniel Fleg (1939), Virginia Woolf (1941), Stefan Zweig (1942), Pierre Drieu La Rochelle (1945), Klaus Mann (1949), Cesare Pavese (1950), Paule Régnier (1950), Stig Dagerman (1954), Sylvia Plath(1963),FrancisGiauque (1965),HenrydeMontherlant (1972), Danielle Collobert (1978), Romain Gary (1980), Arthur Koestler (1983), Primo Levi (1987), Bruno Bettelheim (1990) e GillesDeleuze(1995). Ilmalessereesplorato dallapsicanalisi In un certo qual modo il mal di vivere contemporaneo è all’origine di una nuova scienzaumana:lapsicanalisi. Nata dall’osservazione dei disturbi psichici profondi, essa ha avuto inizialmente una finalità terapeutica, per poi sfociare in una constatazionepiùinquietante: il mal di vivere e la malinconia fanno parte integrante dello psichismo «normale» e sono soggetti a un processo di sviluppo. Ma anche la psicanalisi, a suo modo, ha contribuito a diffondere il mal di vivere, nellamisuraincuidimostraa che punto il nostro comportamentodipendadalle forze oscure e incontrollabili dell’inconscio, della bestia immonda che alberga in ognuno di noi. Questa nuova scienzapuòguariredaalcune forme di angoscia, ma non può in alcun modo dare un senso alla vita, una ragione per vivere, un valore trascendente. Una volta completato il suo lavoro di demistificazione, essa lascia un vuoto. Dopo aver seguitounpercorsodianalisi, Michel Leiris scrive: «Mi sembra di stare meglio, non sono più ossessionato continuamentedal“tragico”e dall’idea che non so fare niente, di cui non devo vergognarmi. Ma tutto succede esattamente come se lecostruzionifatiscentiincui vivevo siano state scalzate alla base senza che mi sia stato dato niente con cui sostituirle. Ne consegue che, certamente, agisco con maggiore sagacia, ma che il vuotoincuimitrovoèancora più marcato [...]. In questo mondomancaqualcosaperla quale sarei capace di morire»55. Ricordiamo brevemente la spiegazione psicanalitica della malinconia e della depressione. Nel 1917 Sigmund Freud, nella sua opera Lutto e malinconia, avanza una teoria relativa ai meccanismidelmaldivivere che i suoi successori, sia teorici che praticanti, si occuperanno di approfondire. Il punto di partenza è il sentimentodellaperditadiun «oggetto», di una «cosa» amata. Alcuni ergono taleperditaa«lutto»,fissando laproprialibidosuunoggetto che ricorda loro la persona o lacosascomparsa.Glialtri,i malinconici, subiscono una regressione narcisistica in se stessi; la loro libido si fissa sull’Io, che diviene rifugio e sostituto.Inentrambiicasivi èunareazioneambivalentedi amore-odio verso l’oggetto perduto:ilmalinconicoprova allostessotemposofferenzae godimento per questo ritiro solitarioinsestesso. Tuttavia nel malinconico l’oggettoperdutononesistee l’anticipazione della sua perditaèsolofruttodellasua immaginazione. Il malinconico ha nella mente un oggetto ideale il cui possessosirivelaimpossibile; secondo Giorgio Agamben, egli ha un’attitudine a fare apparire come perduto un oggetto che sfugge all’appropriazione56. Tale concezione si ricongiunge a quelladell’accidiamedievale, anch’essa anticipazione di incompiutezza e dannazione.Essatrovaalcune applicazioni anche nella sessualità con il carattere frustrante della pulsione sessuale, sempre incapace di raggiungere veramente il suo oggetto: la mente crea un modello sessuale, il «gruppo sessualepsichico»che,messo a confronto con la realtà, si rivela fuori portata: tale scoperta genera psiconevrosi narcisisticheecomportamenti come la masturbazione. Lo stato malinconico profondo e permanente è tuttavia legato all’anticipazione di una perdita più fondamentale ancora: quella del significato dell’esistenza. Tale significato,alungoagognato, si scontra con una realtà estremamente e irrimediabilmente diversa. Solocolorochesonodotatidi un acume intellettuale sufficiente possono comprendere il carattere irrealizzabile dell’ideale, il carattere illusorio del significato: gli animi malinconici sono in grado, sostiene Freud, di «comprendere la verità con maggiore acutezza rispetto ai soggettinonmalinconici[...], e la sola domanda da porsi potrebbe essere perché sia necessario ammalarsi per avere accesso a una tale verità». Avendo colto anticipatamente la perdita di senso, il malinconico si ritira in se stesso, diviene il suo ultimo rifugio, il solo significante in un mondo insensato. Questo solipsismo provoca un certo stato di autocompiacimento e, allo stesso tempo, una detestazione per se stessi che spingeall’autodistruzione.Lo stato di tristezza malinconica aiuta il soggetto a mantenere l’unità dell’Io. Scrive infatti Julia Kristeva: «In effetti la tristezza ricostituisce una coesione affettiva dell’io che reintegra la sua unità nell’involucro dell’affetto. L’umore depressivo si costituisce come un supporto narcisistico negativo, certo, ma nondimeno capace di offrire all’io un’integrità, sia pure non verbale. Ne deriva che l’affetto depressivo supplisce all’invalidazione e all’interruzione simbolica (al «nonhasenso»deldepresso) e contemporaneamente lo protegge contro il passaggio all’atto suicida, tuttavia tale teoriaèfragile»57. Il malessere del malinconico è caratterizzato anchedaunsentimentoacuto della fuga del tempo, che gli impedisce, a causa dell’anticipazione, di approfittare del momento presente:saperecheilpiacere presente terminerà in ogni casoèsufficienteperrovinare il piacere. Freud racconta di due suoi amici malinconici con i quali stava passeggiando e che non riuscivano a godere delle bellezze della natura in quanto caduche: «La rivolta contro il lutto futuro non permetteva loro di godere della bellezza presente. L’idea che tutto questo fosse fuggevoledavaaentrambiun assaggio del lutto che avrebbero provato al momento della sua fine. E poiché l’anima indietreggia istintivamente dinanzi a qualsiasi dolore, il lorogodimentoeradisturbato dal pensiero della provvisorietà di qualunque bellezza». Ilrisultatoèunaspeciedi paralisi della volontà del malinconico e del depresso, condizione che per lungo tempo è stata denominata nevrastenia o psicastenia e che oggi viene chiamata astenia, o semplicemente statodilanguore,difatica,di indecisione, di fiacchezza. Questa paralisi della volontà è una caratteristica degli accidiosi, come anche di Amleto. A che cosa serve agire se il significato dell’azione è perduto dall’inizio e se siamo noi stessi il significato ultimo? Il malinconico, eccessivamente lucido, si compiace delle sue elucubrazioni interiori: «Si direbbe che l’eccesso di analisi intellettuale annulli il desiderio di agire, come se l’interesse, all’improvviso, non si facesse più sentire, come se fosse intervenuta un’ultima riflessione per capovolgere l’edificio tanto pazientemente costruito. [...] Sondare gli enigmi che limitano il campo del pensiero a svantaggio del campo dell’azione: questa è la contraddizione in cui sprofonda il malinconico e a cui si abbandona, non senza trarneuncertogodimento»58, scrive Marie-Claude Lambotte ne II discorso melanconico. Tutto ciò mostra che la malinconia non è affatto una patologia, ma uno stato d’animo legato alla consapevolezza acuta del nonsenso. Tale consapevolezza, un tempo limitata a pochi individui particolarmente lucidi, capaci di discernere il nonsenso fondamentale dietro le spiegazioni religiose e ideologiche, non può che trovare terreno fertile per diffondersi nel nostro mondo disincantato. La malinconia ritorna nelle epoche in cui i valori vengono rimessi in discussione. È stato così duranteilRinascimento;oggi essa fa parte integrante della coscienzamoderna. Nei casi più gravi il malinconico depresso può arrivare al suicidio, processo che lo psicanalista Béla Grunberger spiega nel modo seguente: in tutti gli esseri umani la nascita è vissuta come un trauma, come la perdita di un paradiso, ma negli esseri «normali» l’equilibrio fra narcisismo e pulsioni si ristabilisce progressivamente per reazione alle aggressioni esterne. Il malinconico, tuttavia, reagisce sempre in senso negativo agli eventi, eglièincapacedicercareedi accettare il piacere. Ogni fallimento subito rafforza le sanzioni contro l’Io, la ferita narcisistica si amplia a causa dell’autoaccusa,etaleperdita progressivadifiduciainibisce sempredipiùlepossibilitàdi azione. «Questo conflitto è responsabile della frattura e dellatensionepermanentefra il narcisismo e l’Io operativo, frattura che dà origine alle diverse varianti della malattia depressiva»59. Il processo regressivo porta all’abdicazione dell’Io, che deve essere soppresso: è il «suicidio del malinconico». Nelmomentoincuiprendela sua decisione, egli è calmo e sereno: «Il suo nuovo volto felice e sorridente riflette la posizione dell’istanza narcisisticacheoccupaormai ilpostodell’Io»60. Sin dal 1920, nell’opera Al di là del principio di piacere, Freud denunciava «l’illusione benefica» secondo la quale il progresso intellettuale tenderebbe alla perfezione umana. La tendenza sarebbe invece all’aspirazione a un ritornoallostatopreorganico: «Può essere difficile, per molti di noi, rinunciare a credere che nell’uomo sia insita una pulsione che lo spinge a cercare la perfezione, una pulsione che lo ha elevato fino all’attuale livellodicapacitàintellettuale e di sublimazione etica, e dallaqualecisipuòattendere l’evoluzione dall’uomo a superuomo. Solo che io non credo nell’esistenza di questa pulsioneinteriore,enonvedo inchemodosipossafarsalva questa benefica illusione»61. Dieci anni dopo, nel Disagio della civiltà, Freud confermava l’idea che il mal di vivere facesse parte della condizione umana e che si sarebbe sviluppato con la modernità. Uncontesto socioculturale favorevolealmaldi vivere Alcune epoche sono più favorevoli di altre all’integrazione sociale del malinconico, in particolare i periodi di stabilità e di immobilismo sociale, in cui ciascuno è al proprio posto e non riesce minimamente a pensare di cambiare. Il malinconico, poiché inattivo e indeciso, non ha scelte con cui confrontarsi; avendo un’opinione mediocre di se stesso e degli altri, egli si adatta facilmente alle grandi religionipessimistichequanto alla natura dell’uomo. La monarchia dell’Ancien Régime lo aggrada, la sua tristezza si confà al periodo. Egli pertanto passerà inosservato: in questo modo siavràtendenzaacredereche il mal di vivere sia meno diffuso. Il malinconico è invece un emarginato nei periodi segnati da sconvolgimenti e instabilità, in cui lo spirito di iniziativa, il senso della comunicazione, i movimenti collettivi, la solidarietà, l’attività, il dinamismo individuale sono percepiti come fattori positivi. Egli si sentefuoriluogoinunmondo che lo considera un malato, un anormale, un depresso patologico. Oggi infatti le cose stanno così. I pessimisti e i depressi che vivevano al riparo dell’oscurità dellasocietàtradizionalesono ora sotto i riflettori degli attivisti della società consumistica; essa li rifiuta come paria dell’edonismo contemporaneo e, simultaneamente, contribuisce a rivelarne l’importanza. Il contesto socioculturale attuale produce soggetti depressi e, al contempo, li esclude: tale contraddizione rappresenta sia la radice del disagio sociale che la spiegazionedelprogressodel mal di vivere. Siamo passati da una società di tipo autoritario,incuigliindividui dovevano conformarsi a un modello e mostrarsi all’altezza dei valori imposti dall’esterno dalla religione e dalla morale, a una società dell’autonomia, in cui l’individuo deve elaborare il proprio«progettopersonale», iproprivalori,fissaredasolo il proprio ideale e imporselo dall’interno. Nel primo caso, coloro che non riuscivano a seguire il modello imposto venivano considerati in rivolta contro il sistema. Nel secondo caso, coloro che falliscono nel raggiungere il modello prefissato perdono autostima e diventano soggettiangosciati. Lasocietàdell’autonomia individuale produce soggetti depressi. Il processo è multiforme: l’individuo, più che mai posto di fronte all’obbligo permanente di scelta, si sente pienamente responsabile dei propri fallimenti. Non è evidentemente un caso se l’esistenzialismo si è sviluppato in concomitanza con la rivoluzione dell’autonomia: l’uomo si percepisce nella pura libertà, egli esiste ed elabora la propriaessenzanell’angoscia. L’individuo ha inoltre il dovere di «realizzarsi». In una società in cui tutto è questione di seduzione, occorre sapersi vendere, dar prova di motivazione, di dinamismo, proiettare un’immaginepositivadisé.Il culto del look e del corpo, l’assillo dei segni dell’invecchiamento e dei tratti non più avvenenti sono un’ulteriore ossessione. Bisogna essere diversi, ma al contempo riconosciuti dai propri simili; tutti questi obblighi sono molto più pesantidiquantononfossero leregolesocialidiuntempo, che richiedevano semplicemente obbedienza e conformismo. Agliobblighidellasocietà del narcisismo si aggiungono gli obblighi e le frustrazioni dellasocietàdeiconsumi,che accompagna necessariamente l’ideale di autonomia e di permissività. Si tratta di stabilire un clima edonistico, che incoraggi la soddisfazione immediata dei bisogni e abolisca i divieti, concetto che presuppone la sparizione dei valori trascendenti e di qualsiasi idea di significato dell’esistenza. Sul piano politico, la democrazia èilsolotipodiregimecapace di soddisfare queste nuove tendenze: essa instaura la libertà di scelta, privilegia l’iniziativa individuale, il dinamismo, l’immagine, l’apparenza e la seduzione, predica la tolleranza - la cui evoluzione naturale è l’indifferenza - la libertà e l’uguaglianza, vale a dire la necessità per ognuno di affermarsi, di trovare un posto, e la possibilità teorica per tutti di appagare i propri desideri e di raggiungere le posizioni più alte: proprio da questo assunto nascono innumerevoli frustrazioni. La democrazia favorisce, per ragionievidentidiseduzione, l’edonismo, l’ottimismo e la permissività. Il politico promette al cittadino la felicità attraverso l’applicazione di un programmasocioeconomicoe le multinazionali gli promettono la felicità con ilconsumoimmediatodibeni sempre più numerosi. L’atmosfera euforica viene mantenuta da festeggiamenti, giochi, animazioni, trasmissioni incentrate sul narcisismo. Tutti questi elementi, analizzati a fondo dai sociologi62, formano un insieme coerente che rappresenta una formidabile macchina di produzione di depressi. Fatto ancora più notevole, questa società edonistica utilizza i suoi soggetti depressi come un settore di consumo per l’industria farmaceutica e i servizi medici, psicologici e parapsicologici; li ricicla come ricicla i rifiuti. Torneremosuquestotema. In definitiva, i modelli proposti dalla società contemporanea generano il mal di vivere in due modi opposti. Da una parte il mal di vivere di tipo psicofisiologico, che può condurre alla depressione in coloro che aderiscono a questi modelli ma che si ritengono incapaci di raggiungerli, costringendosi in una logica di fallimento che mina la loro autostima. Dall’altra,unmaldiviveredi tipo intellettuale, il pessimismo di coloro che rifiutano tali modelli ed effettuanoun’analisinegativa dell’evoluzione dell’umanità - analisi che estendonoall’interaesistenza. Fra questi due poli esistono certamente molte tipologie intermedie, senza contare i pessimistidepressi. Come abbiamo visto ci sonostati,nellastoria,periodi più propizi di altri al mal di vivere. Secondo lo psicanalista Pierre Marie, «è il passaggio progressivo da un mondo chiuso e gerarchizzato a un mondo infinito (ricordiamo Pascal) e indefinito che [...] sembra essere fonte di “diffusione” della depressione: un mondo chiuso,bendefinito,serveda punto di riferimento, dà un senso, condiziona, prescrive lacosagiustaperognuno.Un mondo infinito e indefinito impone invece di riuscire a cavarsela da soli con il propriodesiderio,cosache,a dir poco, e per la maggior parte di noi, paralizza il desiderio»63. Assistiamo per la prima volta al passaggio a un mondo aperto sull’assoluto. Fino ad ora i modelli si erano susseguiti, uno dopo l’altro, ognuno con le proprie regole imposte a tutti dall’esterno. Oggi ci troviamo di fronte a un modello in cui tutto sembra possibile, il peggio come il meglio;unmondoincuiogni cosa vale l’altra, in cui il limite fra il vero e il falso, il realeeilvirtuale,ilbuonoeil cattivo,l’orribileeilbanaleè sempre più labile; il mondo dell’indifferentismo e del «perché no?», dove le superstizioni più aberranti sono considerate rispettabili quanto le posizioni più scientificamente rigorose. Un mondo simile è capace di qualsiasi deriva. È impossibile che una situazione del genere non provochi cupo pessimismoanchenellementi più lucide ed esigenti. Non è un caso se le anticipazioni sono divenute delle controutopie, e se la fantascienza, che un tempo immaginava mondi migliori, annuncia ormaisoloincubi,fracuiuno dei più significativi è il «Big Brother» di Orwell. In un mondo in cui tutto è possibile, ogni previsione, ogni prospettiva diventa impossibile. Tale constatazione è un potente fattorediangoscia,amenodi pervenire all’adozione di un atteggiamento di derisione generalizzata, come Alvin Toffler: «Dobbiamo piegarci di fronte all’evidenza: facciamo parte integrante di un fantastico scherzo cosmico, e questo non ci impedisce affatto di trarne gloria, di apprezzare la comicità della situazione, di riderne e di rideredinoistessi»64.Datale affermazione ritroviamo il concetto per il quale l’umorismo è una forma di educata disperazione. Su scala individuale, come possono i malinconici trovareunpostonellasocietà aperta, permissiva, edonistica e narcisistica? Nel momento in cui tutto diventa possibile, il fallimento è vissuto in modo molto più crudele, poichéèimputabilesoloase stessi e porta quindi alla svalutazione personale. Le società più libertarie sono anche quelle che contano un maggior numero di depressi, poiché sostituiscono il senso di colpa con il disprezzo di sé: è traumatico non riuscire a essere felici in una società in cui la felicità è eretta a un «quasidovere»,incuilagioia di vivere è un criterio di selezione fondamentale in tuttiicampi,inparticolarein quelloprofessionale. Il distacco generalizzato dai valori trascendenti e dal sacro spiana la strada alla democratizzazione della fatica di vivere, eliminando tutte le motivazioni a lungo termine, operazione che sfocia nell’apatia di massa: «Dio è morto, le grandi finalità si spengono, ma tutti se ne fregano: ecco la bella notizia»65, scrive Gilles Lipovetsky, per il quale la scomparsa di significato ha condotto all’indifferenza piuttostochealpessimismoe all’angoscia, caratteristiche che testimoniano «una visione ancora religiosa e tragica». Il vuoto è dappertutto, colmato con preoccupazioni puramente narcisistiche. Indifferente ai problemi mondiali che sfilano fra due pagine di pubblicità e all’inizio di qualche trasmissione propagandistica, l’individuocontinuanellasua ricerca senza scopo e senza ideale,unicamenteacacciadi soddisfazioni immediate. I suoi problemi personali prendono proporzioni smisurate: «Chi ancora, oggi, non è soggetto a drammatizzazione e stress? Invecchiare, ingrassare, imbruttire,dormire,educarei figli,andareinvacanza,tutto costituisce un problema, le attività elementari sono diventate impossibili»66, osservaLipovetsky. L’individuo si dissolve nella molteplicità dei suoi desideri e si disperde in numerose attività. Il verbo «spassarsela» è di un realismo tragico e ambiguo: presentato come un ideale, esso esprime invece la dispersione della personalità, straziata dalle innumerevoli sollecitazioni della società consumistica, e tale dispersione è causa di molteplici disturbi psichici. Come possono esistere relazionistabilifrapersonedi questo genere? «Così si giunge alla fine del deserto; già disintegrato e separato, ciascunodiventaagenteattivo del deserto, lo amplia e lo scava, incapace com’è di “vivere” l’Altro. Non contento di produrre isolamento, il sistema genera ilpropriodesiderio,desiderio impossibile che, appena appagato, si rivela intollerabile: ognuno chiede di essere solo, sempre più solo e, contemporaneamente, non sopporta se stesso, da solo a solo. A questo punto, il deserto non ha più né inizio néfine»67. Siamo individui atomizzati in una società atomizzata; non c’è più gravitazione, né attrazione: gli atomi si scontrano all’uzzolo della libertà, mostrando indifferenza e distacco. In questa poltiglia sociale indifferenziata, il bisogno di riconoscenza e di dominio non può più appoggiarsisucodicievalori unanimemente accettati. Esso può essere soddisfatto unicamente in una lotta permanente di tutti contro tutti, in cui ogni colpo è permesso. La deregolamentazionegeneralizz sfocianelloscompiglio;nonè nemmeno definibile legge della giungla, ma giungla senza legge, dove si hanno solo diritti, tutti i diritti, alla sola condizione di essere capaci di farli valere. I consulenti in comunicazione esistono per insegnare come liberarsi dalle proprie angosce, inibizioni e ansie. Bisogna essere forti, freddi, spietati per sopravvivere, per «rimanere a galla». Questo stato di guerra generalizzata, che Hobbes e Locke immaginavano all’inizio dell’umanità, nello stato precivilizzato, sembra essere lostadioattualedellaciviltà. È più che evidente che questa situazione senza precedenti sia all’origine del mal di vivere. Gli individui non all’altezza della situazionevengonocalpestati; i perdenti, sia per ragioni fisiologichechepsicologiche, vengono declassati. Il bisogno di attirare l’attenzione per sentirsi esistere provoca nuove nevrosi e nuovi disequilibri: comportamenti e abbigliamento sempre più discinti,sfoggiodellapropria intimità,sforzidiindifferenza al fine di sviluppare l’indipendenzaaffettiva,finto distacco - tutta una serie di comportamenti fonte di frustrazioni e destabilizzazioni della personalità. La rimozione sociale e sessuale delle barriere causa la nascita di paure paralizzanti, come la paura maschile dell’impotenza di fronte all’affermazione del diritto femminilealpiacere. La congiunzione della società consumistica e della società dei diritti senza doveri, della libertà e della permissività,incuil’idealesi riduce alla realizzazione narcisistica per mezzo della soddisfazione immediata di bisogni sempre più numerosi e artificiali, conduce alla perditadelsensoglobaleeal mal di vivere generalizzato. La diagnosi di Gilles Lipovetsky si rivela estremamentelucidanellasua caratterizzazione dell’evoluzione sociale attuale come un processo «sistematico di disintegrazione e di individualizzazione narcisistica: più la società si umanizza, più si estende l’impressione di anonimato; più vi sono indulgenza e tolleranza, più aumenta la mancanza di fiducia in se stessi; più si diventa vecchi, piùsihapauradiinvecchiare; meno si lavora, meno si vorrebbe lavorare; più i costumi si liberalizzano, più l’impressione di vuoto guadagna terreno; più la comunicazioneeildialogosi istituzionalizzano, più gliindividuisisentonosolie carenti di contatti; più aumenta il benessere, più la depressioneprevale»68. Certamente i dirigenti della società dei consumi fanno tutto il possibile per mascherare questa depressione, poiché «il morale della truppa», motore del consumo, rappresenta ai loro occhi l’indicatore supremo. La fuga nel consumismo è anche un mezzo per colmare il vuoto lasciato dal distacco dalle grandi fedi religiose, è un farmaco che deve sedare l’ansia nata dalla perdita di senso. Ma i suoi effetti collaterali sono più gravi del male che dovrebbe teoricamentecurare69. L’«èra delvuoto»èanchel’èradella depressione. 1A.BRETON,Dictionnaire abrégédusurréalisme,Corti, Parigi1938,p.27. 2 J. NOVELLE, Métaphysique du temps chez les peintres surréalistes. Magritte, Delvaux, Dalì, in Le temps dans la peinture, Attidelcolloquiodell’Institut l’homme et le temps a La Chaux-de-Fonds, 26-28 novembre 1992, La Chauxde-Fonds,L’Institutl’homme etletemps,1994,p.4L 3 V.V. KANDINSKY, LO spirituale nell’arte, Feltrinelli,Milano1974. 4 J. DUBUFFET, Asphyxiante culture, J.-J. Pauvert, Parigi 1968, p. 58; trad, it., Asfissiante cultura, Feltrinelli,Milano1969. 5CH.JULIET,Rencontres avec Bram Van Velde, in Le nihilisme,acuradiV.Biaggi, Flammarion, Parigi 1998, p. 158. 6P.VALÉRY,VariétéI, in OEuvres, t.1, Gallimard, Parigi1957. 7 H. DE MONTERLANT, LaReinemorte,III,6. 8H.MICHAUX,Lointain intérieur, in OEueres, cit., t. I,p.621. 9«Qualsiasispiegazione sul perché della vita è una menzogna/Achil’hacapito non rimane che morire» [traduzionenostra]. 10 «L’amore non è che un verso di sconforto / emesso da due animali tristi da una parte all’altra di un muro»[traduzionenostra]. 11J. ROUDAUT, Beckett, le désir d’etre rien, «Magazine littéraire», n. 400, luglioagosto2001,pp.48-52. 12 P.-E. ROBERT, Fin de siècle. La lassitude des esthètes, «Magazine littéraire»,cit.,pp.42-43. 13A.MORAVIA,Lanoia, Bompiani, Milano 2001, pp. 10-11. 14 F. BIAMONTI, Interview, «Magazine littéraire»,cit.,p.32. 15 M. HEIDEGGER, Les concepts fondamentaux de la métaphysique; trad, it., Concetti fondamentali della metafisica, Il melangolo, Genova 1999 [traduzionenostra]. 16 E. Μ. CIORAN, OEuvres, Gallimard, Parigi 1995,p.1748. 17 M. HUGUET, L’ennui et ses discours, PUF, Parigi 1984. 18 J.-FR. GAUTIER, Ciorati oulamystiquedel'ennui,in L'ennui.Fecondemélancolie, a cura di D. Nordon, Autrement, Parigi 1998, p. 115. 19 R. JAUFFRET, Interview, «Magazine littéraire»,cit.,p.40. 20 G. LOCHAK, De la fécondité de l'ennui, in L'ennui. Feconde mélancolie, cit.,p.65. 21 J.-P. SARTRE, La nausea, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1985. Rispettivamente pp. 160,165166,171,135,131,168,170,174,1 126,206,226. 22 A. CAMUS, L'uomo in rivolta, in Opere, Bompiani, Milano2000,p.648. 23A.BADIOU,L'ethique: essai sur la conscience du mal, Hatier, Parigi 1993, p.35;trad,it.,Letica:saggio sulla coscienza del male, Pratiche,Parma1994. 24 G. DELEUZE, Nietzsche,savie,sonceuvre, avec un exposé de sa philosophie, PUF, Parigi 1965, p. 29; trad, it., Nietzsche e la filosofia, Feltrinelli,Milano1992. 25 E.M. CIORAN, Al culmine della disperazione, Adelphi,Milano1998. 26Ibidem. 27Ibidem. 28 E. M. CIORAN, Al culmine...,cit. 29 E. M. ClORAN, Sommariodidecomposizione, Adelphi,Milano1996. 30 E.M. CIORAN, L'inconveniente di essere nati,Adelphi,Milano1991. 31Ibidem. 32 CH. JULIET, Journal II, Hachette, Parigi 1979, p. 52 e ID., Journal I, Hachette,Parigi1978,p.31. 33 F. GIAUQUE Journal d’enfer; (suivi de) Poèmes inèdits, Papyrus, Parigi1984,P·51· 34 L. CALAFERTE, Le chemin de Sion: carnets, 1956-1967, Denoél, Parigi 1980,P·97. 35ID.,L'OretlePlomb, Denoel,Parigi1981,p.92. 36B.DIDIER,LeJournal intime,PUF, Parigi 1976; M. LELU, Les Journaux intimes, PUF,Parigi1952. 37 W. SHAKESPEARE, Amleto,III,1. 38 M. BRAUD, La tentation du suicide dans les écrits autobiograpbiques: 1930-1970,PUF,Parigi1992, p.49. 39 R. ROLLAND, Le voyage intérieur, Albin Michel,Parigi1942,p.38. 40J.LOUVAIN,Ilfaut tenter de vivre, Plon, Parigi 1955,p.VI. 41 L. CALAFERTE, Le chemindeSion...,cit.,p.47. 42 J. COCTEAU, Le passédéfini:journalII,1953, a cura di P. Chamel, Gallimard, Parigi 1985, p. 220. 45 C. LÉVI-STRAUSS, Tristi tropici,Il Saggiatore, Milano 1960,p.402. 44 C. PAVESE, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino1968,p.88. 45 D. COLLOBERT, Cahiers, 1956-1978, Laffont, Parigi1983,p.9. 46 M. NOÈL, Notes intimes;suiviesde:souvenirs sur l’abbé Brément, Stock, Parigi 1984, p. 246; trad, it., Diario segreto, SEI, Torino1968. 47CH.JULIET,JournalI, cit.,p.106. 48Ivi,p.145. 49CH.JULIET,JournalI, cit.,p.73. 50Ivi,p.108. 51 P. RÉGNIER, Journal,Plon,Parigi1953,p. 37. 52 I.-C. REWELIOTTY, Journal d’une jeune fille, Parigi1946,p.43. 53CH.JULIET,JournalI, cit.,p.126. 54 C. PAVESE, Il mestieredivivere,cit. 55 M. LEIRIS, L’Age d’homme; précédé de: De la littérature considérée comme une tauromachie, Gallimard, Parigi 1973, p. 201; trad, it., Età d’uomo; Notti senza notte e alcuni giorni senza giorno, Mondadori, Milano 1980. 56G.Agamben,Stanze:la parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi,Torino1973. 57 J.KRISTEVA, Sole nero. Depressione e malinconia, Feltrinelli, Milano1989,p.24. 58 M.-CL.LAMBOTTE,Il discorso melanconico: dalla fenomenologia alla meta- psicologia, Boria, Roma 1999. 59 B. GRUNBERGER, Le narcissisme: essais de psychanalyse, Payot, Parigi 1971, p. 289; trad, it., Il narcisismo: saggio di psicoanalisi, Einaudi, Torino 1998,p.235. 60Ivi,p.247. 61 S. FREUD, Al di là del principio di piacere, Boringhieri, Torino 1975, p. 693. 62 Pensiamo ad esempio alle opere di G. LIPOVETSKY, L’ère du vide: essai sur l’individualisme contemporain, Gallimard, Parigi1983;trad,it.,Leradel vuoto, Luni Editrice, Milano 1995; Le crépuscule du devoir:l’éthiqueindoloredes nouveaux temps démocratiques, Gallimard, Parigi 1998, e molte altre operediqualità,inparticolare anglosassoni, di cui è possibile trovare un’eccellente bibliografia in A. SOLOMON,Ildemonedi mezzogiorno.Depressione:la storia, la scienza, le cure, Mondadori, Milano 2002. 63 Interview de Pierre Marie, «Magazine littéraire», n.411,luglio-agosto2002,ρ. 29. 64 A. TOFFLER, Previews and Premises: An Interview with the Author of «Future Shock» and «The Third Wave», Pan Books, NewYork1983,p.262;trad, it., Previsioni & premesse, Sperling & Kupfer, Milano 1989. 65 G. LIPOVETSKY, L’èra del vuoto, cit., pp. 4041. 66Ivi,p.52. 67Ivi,p.53. 68G.LIPOVETSTY,L’èra delvuoto,cit.,p.141. 69 Si vedano le illuminanti pagine di A. GRJEBINE, Un monde sans dieux,Plon,Parigi1998. Capitolodecimo L'èradelladepressione Secondo le stime ufficiali ogni trenta secondi, da qualche parte del mondo, un uomo o una donna si suicidano, vale a dire più di un milione di persone all’anno,cifrache,peralcuni osservatori, è assai inferiore aidatireali.Unnumeroventi volte superiore di individui tenta il gesto fatale ma sopravvive. Tutti conoscono la vastità del fenomeno, tuttavia esso viene ancora trattato come un segreto di Stato. Oltre ai suicidi non riconosciuti come tali, quanti suicidi indiretti si possono contare per comportamenti a rischio(tabagismo,alcolismo, rapporti sessuali non protetti, ecc.)? L’intero pianeta è coinvolto:unrecenterapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che nei paesi in via di sviluppoilnumeroannualedi suicidi, che nel 1990 era di 593.000, passerà nel 2020 a 995.000. Ladepressione: situazioneattuale Parallelamente, il numero di casi di depressione è in piena espansione. Anche in questo caso, il fenomeno è planetario. Negli Stati Uniti più di 19 milioni di persone, cioè il 6% della popolazione, soffrono di depressione cronica; 28 milioni di persone assumono regolarmente antidepressivi;il15%diesse finiranno per suicidarsi. A causa dei disturbi psichici e fisiologici che provoca, in particolareidisturbicardiaci, «la depressione è probabilmentelaprimacausa di mortalità nel mondo», afferma Andrew Solomon. Secondo lo stesso autore, il 10%degliAmericanisaranno colpiti da una forte depressione nel corso della vita e il 50% conosceranno presto o tardi i sintomi depressivi. Tutte le fasce d’età sono coinvolte, ma la progressione più marcata riguarda i giovani, in cui il legame fra depressione e suicidioèmoltoforte:il40% degli adolescenti americani che si toglie la vita è depresso.Nelterzomondo,il rapporto Global Burden of Diseasedell’OMS indica che la depressione, quarto problema di salute nel 1990, sarà il problema numero uno nel2020,valeadireil6%del peso totale delle spese nel settoresanitario. Il mondo è entrato nell’èra della depressione e con ogni probabilità non siamo che agli inizi. Le conclusioni che si possono trarre dalle analisi recenti di sociologi, psicologi, psicanalisti,psichiatri,medici ed economisti non lasciano alcun dubbio, e il tema appassiona i nostri contemporanei a giudicare dalle tonnellate di pubblicazioni a esso dedicate: più di tremila articoli e libri ogni anno, senza contare tutto il materiale reperibile su Internet,chevabenoltreogni possibilestatistica. Riportiamo qualche esempio. Nel 2002, il «Magazine littéraire», dedicando un intero numero alla depressione1, ha pubblicato le interviste fatte ad alcuni intellettuali vittime di questa patologia. Le loro osservazioni presentano numerosi punti in comune. Clément Rosset, che ha descritto il proprio calvario nella Route de nult2, insiste sulla particolarità della depressione, che è «priva di natura definibile, poiché non ha causa apparente». «Non sono in grado di esprimere l’orrore che provo e che mi accompagna per circa un’ora alcune mattine, al momento di alzarmi dal letto». Per quanto riguarda il progresso del male nella società attuale, Rosset esita: la depressione esisteva forse primasottoaltrinomi,«maè probabile che ci sia stato un incremento [...] a causa dell’aggravamento della solitudine provocato dalla societàmoderna,cheisolagli individuiinvecediunirli». Con Un’oscurità trasparente 3,WilliamStyron ha pubblicato nel 1990 un classicodellaletteraturasulla depressione, in cui il romanziere americano descrivelapropriaesperienza durata due anni. Egli è inizialmente perplesso, poiché non distingue alcuna causa razionale. Il suo Io sprofonda coscientemente nella decadenza: angoscia, apatia, fastidio di sé, nausea, ebetudine, disperazione, noia - manifestazioni più volte descritte nell’accidia, la malinconia, il taedium vitae, che culminano qui nella tentazione del suicidio. Styron si trova in completo stato di incomunicabilità e parla «dell’incapacità di fondo, da parte delle persone, di immaginare una forma di malessere tanto estranea all’esperienza quotidiana». Eglidichiara:«Nonsapròmai che cosa causò la mia depressione, e nessun altro, per quanto lo riguarda, potrà mai saperlo». VidiadharNaipaulesprimele stesse sensazioni e descrive questa impressione di disgregazione de sé e del mondo ne L' enigma dell’arrivo4. Nel 1999, facendo chiaramente allusione a Burton, il professore di biologia Lewis Wolpert pubblica Malignant Sadness. The Anatomy of Depression, in cui racconta ciò che definisce «la peggiore esperienzadellamiavita,più terribile persino del vedere mia moglie morire di cancro»5. Il pensiero del suicidio lo assilla ma, dice, «pur essendo biologo, non conoscevo metodi sicuri per uccidermi [...], non volevo rischiare di ritrovarmi in uno stato peggiore ancora, se possibile»6. Poi pensa a sua moglie e ai suoi figli. Wolpert viene ricoverato, perde qualsiasi interesse per la vita e per il lavoro e, come gli altri, è incapace di trovarelecausedelsuomale. Nel 1994, in La felicità difficile, una giovane donna, ElizabethWurtzel,descrivein modo avvincente la sua depressione: «Lentamente, nel corso degli anni, i dati si accumulano nel vostro cuoreenellavostramente;si installa in voi un programma informatico di totale negatività, a causa del quale la vita vi è sempre più insopportabile.Manoncifate nemmeno caso; credete che sia una cosa normale, il fatto di invecchiare [...], e poi un giornovirendetecontochela vostra vita è semplicemente atroce, che non vale la pena di essere vissuta, che è un orroreeunamacchianerasul terreno bianco dell’esistenza umana. Una mattina vi sveglierete con la paura di vivere»7. Questa condizione non ha niente a che vedere con la tristezza ordinaria della vita; si tratta piuttosto di un’assenza incomprensibile per gli altri: «assenzad’affetto,assenzadi sentimento, assenza di risposta, assenza di interesse». Nel 2001 Andrew Solomon pubblica Il demone dimezzogiorno.Depressione: lastona,lascienza,lecure.Il fantasma di Burton continua adaleggiare,associatoquesta volta a quello di Cassiano e dell’accidia, evocati dal «demone di mezzogiorno» (noonday demon). Quest’opera è al contempo una testimonianza personale e uno studio dei diversi aspetti della depressione. Ritroviamo l’esperienza di un male che sembra distruggere ogni energia - in questo caso persino l’energia necessaria per uccidersi. Secondo Solomon, il punto essenziale della depressione è la perdita di qualsiasi capacità di provare piacere, come se si prendesse congedo da se stessi, una discesa nell’infernoquotidiano,senza peròconoscernelacausa. Fin da ora si può tentare una descrizione sociologica della diffusione della depressione, di cui le donne sono vittime due volte di più rispetto agli uomini, fatto attribuitoaragionisiafisiche che culturali: maggiormente soggette alle variazioni ormonali che accompagnano la pubertà, il ciclo mestruale, il concepimento, il parto e la menopausa, le donne ne subiscono il contraccolpo psichico.Ildominiomaschile nella società accentua la loro angoscia, e l’evoluzione attuale, che ne accresce il ruolo professionale senza tuttavia ridurre le loro responsabilità familiari, è un fattore aggravante. Aggiungiamo che le donne sono in generale meno violente degli uomini (i suicidi maschili sono il doppio rispetto a quelli femminili). Scrive infatti Solomon, «dedicarsi ad atti violenti non è un buon modo per curare la depressione. Tuttavia è molto efficace: negare l’innato poterecurativodellaviolenza sarebbeungrossoerrore»8. La depressione sopraggiungeinparticolarein due periodi della vita: l’adolescenza, con il 5% dei depressi clinici, dovuta essenzialmente agli squilibri ormonali, e la vecchiaia. Qui sipossonodistinguereancora due gruppi di cause: da una parte i cambiamenti nel metabolismo biologico, l’abbassamentodellivellodei neurotrasmettitori, in particolare la serotonina; dall’altra i fattori sociobiologici: isolamento, difficoltà di ogni tipo che rendono difficile la vita quotidiana e, peggio ancora, ilricoveronegliospizienelle case di cura: si stima che un terzo dei pazienti ospitati all’interno di tali strutture versi in una situazione di profondadepressione. Un gruppo particolarmente colpito è quello degli omosessuali, presso i quali il tasso di depressione è quattro volte superiore alla media, soprattutto, si pensa, a causa delledifficoltàdiinserimento sociale che incontrano, nonostante alcuni medici avanzino anche cause genetiche. Per quanto riguardaledifferenzeetniche, il dibattito è sempre aperto: presso alcuni popoli, in particolare quelli latini, la depressione si esprimerebbe forse maggiormente attraverso un male fisico, mentre in altri popoli si tradurrebbe con disturbi di carattere prevalentemente psichico. Attualmente non esistono elementi di risposta seri sull’argomento. Solo il particolarissimo caso degli Inuit è stato riconosciuto: l’enorme proporzione di depressi e di suicidi sarebbe legata al tabù riguardante l’espressione dei sentimenti personali; l’individuo tiene per sé tutte le emozioni e questa impossibilità di comunicazione affettiva ha ripercussioni evidenti sull’equilibrio psichico9. Lespiegazioni:un fenomenosconcertante Tutte le discipline umane hanno cercato di spiegare il misterioso problema sociale delladepressione.Lapostain gioco culturale è considerevole,poichédaessa dipende tutta l’antropologia: l’uomo sarebbe dunque una macchina il cui comportamento è comandato esclusivamente dalle reazioni psicochimiche? Oppure è un animale sociale che dipende anzitutto dall’organizzazione globale della società? Egli è forse un’unità psicologica, governata da forze psichiche individuali sia a livello conscio che inconscio e, in questo caso, qual è la natura ditaliforzepsichiche? La prima ipotesi ha dalla sua il peso dell’efficacia terapeutica: se gli antidepressivi riescono a limitare gli effetti della depressione, allora significa che si tratta di un fenomeno biologico. La medicina lo localizza a livello dei neurotrasmettitori, piccole molecole che permettono il passaggio degli impulsi elettrici da un neuroneall’altroattraversole sinapsi. Una produzione deficitaria dei due principali neurotrasmettitori, la serotoninaelanoradrenalina, rallenta le funzioni cerebrali; il fine degli antidepressivi della categoria Prozac o Luvox è di stimolare tale produzione.Anchegliormoni svolgono un ruolo rilevante, in particolare l’ACTH (adrenocorticotrophic hormone), che regola la produzionediadrenalinaedi cortisolo in risposta a una situazionedistress.Ineuroni possiedono ricettori di cortisolo: una concentrazione troppo elevata e troppo costante di quest’ultimo può causare depressione: «Tale concetto ècaricodisignificato,poiché mostra che la depressione, con tutte le sue ricadute psicologiche, può avere un’origine puramente biologica»10, scrive Lewis Wolpert. L’autopsia eseguita sui cadaveri dei suicidi mostra sempre un’eccezionale concentrazione di corticotropina nel cervello, contrapposto a un basso livellodiserotonina. Questi dati di fatto sono ormai innegabili, e la prova più schiacciante è rappresentata dall’efficacia degli antidepressivi. L’industria farmaceutica ha trovato in questa produzione unafontediprofitticolossali, elemento che può contribuire alla falsificazione dei dati sulla depressione. L’ampiezza del fenomeno depressivo è probabilmente dovutainparteallapubblicità fatta da coloro che ne traggono un vantaggio economico. Il mal di vivere diventa una sfida economica. Il mondo non starebbe peggio se sei miliardi di individui prendesserosempreilProzac! È la vecchia storia del Migliore dei mondi, pubblicata da Aldous Huxley nel 1932: un’umanità programmata per essere felice.Nessunalibertàma,in compenso,felicità;nientepiù odio, gelosie, guerre; al minimo malessere, come ad esempio la voglia di pensare, un sorso di rimedio miracoloso, il soma, restituisce l’euforia. «Felicità automatica, ottenuta con la soppressione di qualunque ostacolo fra il desiderio e la realizzazione, [...] felicità obbligatoria». I «cittadini» non hanno alcun diritto politico, ma in fondo a cosa servirebbe? L’organizzazionepoliticanon ha forse come fine di assicurare la felicità della collettività? E infatti questa felicità è assicurata, poiché ognuno è fatto per essere felice. È facile disprezzare una simile eventualità nel nome di un’umanità di benestanti. I miliardi di esseri umani vittime della libertà, attualmente ridotti alla subumanità dalla miseria, sarebbero probabilmente di diverso avviso. In Noi, Evgenij Zamjatin, che immaginava anch’egli un mondo che barattasse la sua libertà con la felicità, scriveva: «Sapete, la vecchia leggenda del paradiso, siamo noi,èassolutamenteattuale.I due abitanti del paradiso si videroproporreduescelte:la felicità senza libertà o la libertà senza felicità, nessun’altra soluzione. Quegli idioti hanno scelto la libertà e, naturalmente, hanno desiderato per secoli le catene. Abbiamo appena trovato la maniera di rendere lafelicitàalmondo». Un’altra spiegazione del maldiviverecomeprezzoda pagare per la libertà è complementare all’aspetto psicologico. Molti pensano che gli squilibri ormonali e dei neurotrasmettitori siano provocati da eventi della vita psicologica e sociale. Abbiamo parlato dell’angoscia esistenziale, dell’anticipazione della perditadisensoinpsicanalisi. John Bowlby accorda una grande importanza al trauma causato dalla separazione del bambino dai genitori, evento che crea un sentimento di insicurezzaduraturo11.Aaron Beck attribuisce un ruolo di grande rilevanza alle idee di svalutazione di sé inculcate nella prima infanzia12. Tutti gli eventi importanti della vita sono suscettibili di scatenare tale processo. Finora, tuttavia, nessuna prova tangibile è venuta a rinforzare queste ipotesi, mentre sappiamo che alcune persone messe nelle medesime circostanze nonsviluppanounasindrome depressiva. Tali osservazioni non invalidanonecessariamentele teorie psicologiche né le teorie sociologiche esposte nel capitolo precedente: semplicemente non si può stabilire uno stretto legame deterministico fra questo contesto e la depressione. La societàmodernadellalibertà, del narcisismo e della permissività resta certo ansiogena, ma la depressione puòancheesserescatenatada circostanze felici: William Styron ha avvertito le prime avvisaglie mentre si recava a Parigiperricevereunpremio letterario. C’è forse un legame di causa-effetto? Styron non lo sa, e si accontenta di scrivere: «La depressione è un disturbo della mente così misteriosamente crudele e inafferrabile per il modo in cui si manifesta all’Io e all’intelligenza, che le serve come mezzo e sfugge a qualunquedescrizione». Andrew Solomon non si sbilancia molto di più: «Diciamolochiaramente:non sappiamo veramente cosa provochi la depressione. Non sappiamo davvero perché alcune cure possono essere efficaci contro la depressione. Non sappiamo come la depressione sia apparsa nel processo evolutivo. Non sappiamo perché le stesse circostanze provochino le depressione in unapersonaenoninun’altra. Non sappiamo quale sia il ruolo della volontà in questocontesto»13. In queste condizioni, le terapie alternative a quelle mediche sembrano molto aleatorie. Basate sulle parole, esse utilizzano il metodo psicanaliticoperriportarealla memoria gli eventuali traumi delpassato(terapiacognitiva) o per indagare fra le pieghe della vita quotidiana presente (terapia interpersonale). Si possono ottenere alcuni risultati, anche se in modo relativamenteempirico. Anche altre strade sono possibili, seppur ancora poco esplorate. Lo studio del genoma porterà probabilmente preziose informazioni: il carattere misterioso della depressione potrebbeancheesseredovuto a una predisposizione genetica. Dal canto loro, alcuni neurologi esplorano le strutture della coscienza e cercano di scoprire se la depressionepotrebberisultare da un disfunzione fra i tre livelli del cervello: il livello interno, o rettiliano, sede dell’istinto; il livello medio, limbico, sede dell’emozione; il livello superiore,sededellefunzioni cognitiveedelragionamento. Paul MacLean pensa che la loro cattiva coordinazione possa provocare la depressione14. Utilizzando la tomografia computerizzata, Richard Davidson e la sua équipe dell’università del Wisconsin lavorano sulla teoria del cervelloasimmetrico,laquale sostiene che la depressione sia dovuta a una cattiva comunicazione fra i due emisfericerebrali15. Nell’otticaevoluzionistica sono state elaborate diverse altre ipotesi. Esse hanno in comune il fatto di assumere come premessa necessaria che la depressione sia, o sia stata,unareazionepositivadi difesa contro una minaccia esterna,unaspeciediriflesso di autoconservazione. Secondoalcuni,sitratterebbe di un riflesso ancestrale derivato dall’epoca in cui, nelle orde dell ’Homo sapiens, dopo una prima sconfitta, i meno forti si ritiravano dalla competizione per la leadership, per non rischiare la vita una seconda volta. Secondo altri la depressione, come il dolore fisico, sarebbe un meccanismo di difesa che ci avverte di un pericolo e ci permette un’analisi più lucida, ma che, lasciandoci senza difese, attira la compassione e l’aiuto degli altri. Essa potrebbe essere anche la conseguenza dello scatenamentointempestivodi meccanismi difensivi, utili in se stessi ma non adattati alla situazione. Infine, secondo una concezione tipicamente darwiniana dell’evoluzione per sopravvivenza degli elementichehannoraggiunto un miglior grado di adattamento, la depressione potrebbe nascere dalla differenzafrailnostronuovo ambiente e determinate capacità cerebrali che non si siano evolute abbastanza in fretta per affrontare tale ambiente. Il contesto tecnologico e socioeconomicoevolveinfatti in maniera infinitamente più veloce del cervello, che si trova quindi a dover affrontare nuovi pericoli che colgono impreparati i suoi sistemi di difesa. È infatti a causadellapressionecostante esercitata sugli individui programmati per affrontare minacce specifiche che ci sarebbero molti più depressi nelle società dei paesi sviluppati industriali e postindustriali. La pressione viene anche dalla necessità permanente di scegliere: davanti a un numero di opzioni sempre crescente, il cervello non riesce più a far fronte alla situazione - si trattadiunfattored’ansiapiù volte sottolineato. Le possibilità di cambiare, di incontrare e di scegliere possono provocare una sorta di stordimento, ad esempio fraimigliaiadiprodottiperil consumo e le centinaia di canalitelevisivi. Il cervello ha anche sempre più difficoltà nel ritrovarsi in un ambiente via via più complesso e misterioso. Viviamo in un mondo di macchine il cui funzionamento è sconosciuto alla stragrande maggioranza degli utenti, dal telefono cellulare a Internet, passando per la televisione: paradossalmente i progressi tecnologicichepermettonodi dominarelanaturacreanoun ambiente artificiale, estraneo, inafferrabile, incomprensibile nei suoi meccanismi; unambienteincuiilrealeeil virtualesiintersecanosempre di più, confondendo tutti i punti di riferimento. Il movimento è generale: vero- falso, bene-male, realevirtualeeilimitisonosempre piùlabili.Lacomplessitàeil carattere indefinito dei dati rendono più angoscianti i processidecisionali. Unaluciditàcreatrice chedisturbalasocietà edonistica Tutti questi fattori possono scatenare il mal di vivere a diversi livelli, di cui la depressione nervosa è considerato l’ultimo stadio. La società contemporaneacontribuiscea produrre questa condizione molto più di quanto non contribuisca a combatterla. Questa è forse la sua contraddizione più profonda. L’atmosfera narcisistica ed edonistica predominante, che erge a valore supremo la realizzazionediséelaricerca del piacere immediato come surrogato della felicità, è radicalmente ostile a qualunqueformaditristezza. Questodoveredifelicitàè una forma ulteriore di stress, forse la più grave di tutte, poiché colpevolizza in profondità l’individuo che, a dispettooacausadellalibertà e delle innumerevoli macchine di cui dispone, fallisce nel raggiungimento della soddisfazione personale di vivere. Tutto è fatto per tenerlo a distanza, ostracizzarlo e sminuirlo. Anzitutto è opportuno definire il tipo di minaccia in agguato: descriverla, etichettarla,classificarlafrale patologie psicosomatiche. L’Associazione psichiatrica americana l’ha fatto: il suo DSM IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, quarta edizione) parladidepressioneprofonda quando un individuo avverte per almeno due settimane cinque dei seguenti sintomi: umore depresso per la maggior parte della giornata; diminuzione dell’interesse o del piacere; perdita o aumentosignificativodipeso; insonnia o eccesso di sonno; fatica;riduzionedelcontrollo deimovimenti;sensidicolpa o di indegnità; incapacità di concentrarsi o di pensare; pensieri di morte o di suicidio. Si parlerà di depressione più leggera o didistimiase,perunperiodo di almeno due settimane, l’individuo prova per un minimodisettegiorniduedei seguenti sintomi: perdita o aumento dell’appetito; mancanzaoeccessodisonno; fatica o perdita di energia; abbassamento del livello di amor proprio; mancanza di concentrazione o incapacità di prendere decisioni; disperazione. Anche l’OMS ha stabilito i suoi criteri nell'ICD 10 (International Classification ofDiseases). Tali classificazioni, che immortalano rigidamente il mal di vivere e vorrebbero circoscriverlo in una nosologia moderna, potrebberointuttoepertutto essere tratte da L‘anatomia della malinconia di Robert Burton.Gliautori,chehanno recentementeammessoilloro stato depressivo, sono comunquereticentidifrontea queste classificazioni rigide cheassimilanoladepressione a una mera malattia, dimenticando che può anche corrispondere, come l’antica malinconia,aunacondizione. Tuttelecondizionichenonsi conformano al modello sociale dominante sono trattatecomemalattie.Ilcaso dell’omosessualità dimostra quanto la mentalità collettiva faccia fatica ad accettare la «depatologizzazione» di uno stato per riconoscerne la «normalità». Gli omosessuali hanno formato gruppi di pressione per reclamare il riconoscimento della loro differenza. Difficile, però, immaginare una lobby di depressi. Negli Stati Uniti esiste un’Associazione nazionale della depressione e della mania depressiva (NDMDA), ma la sua efficacia è molto limitata. Quando verrà riconosciuto il dirittoalmaldivivere? Andrew Solomon si chiede se una «malattia» che colpisce un quarto dell’umanità possa essere ancora classificata come tale, senonsitrattipiuttostodiun fatto sociale, e se la sua classificazione come malattia non sia un ulteriore fatto sociale rivelatore della fobia della tristezza in un mondo edonistico. La depressione è stigmatizzataindiversimodi, alla stregua di un AIDS spirituale. I colloqui per le assunzioni non sono forse mirati a rilevare i minimi segniditristezza?Lagioiadi vivere e l’entusiasmo fanno parte delle competenze professionali. Il costo sociale della depressione è un altro tema colpevolizzante, che dipinge ildepressocomeunasortadi parassita e la lotta contro la depressione come un dovere nazionale. Assenze ripetute, bassa produttività, cure continue,fortepercentualetra disoccupati e poveri (poiché non si vuole dar loro un lavoro):adesempio,agliStati Uniti i depressi costano annualmente 50 miliardi di dollari (ma quanto fanno guadagnare all’industria farmaceutica?). Viene messa sottoaccusaanchel’influenza nefasta che questi soggetti esercitano sull’entourage sia familiarecheprofessionale. Il depresso è in generale un incompreso: egli stesso non riesce a comprendere i motivi della sua tristezza. Inoltre, ancora troppo spesso la società considera la depressione come una mancanza di volontà, un lasciarsiandarecolpevole,un abbandono delle responsabilità,unpo’comeil suicidio che, a volte, l’accompagna.Sottoaccusaè l’egocentrismo, l’incapacità di adattarsi alla realtà, e a tal proposito Tony Anatrella scrive: «Il depresso si è infiammato troppo in fretta perunideale.Lasuatristezza proviene dalla difficoltà nel rinunciare a questo io idealizzato che tuttavia non trova riscontro nella realtà. Purrifiutandolaricercadiun ideale diverso da se stesso, egli ha finito per perdere i suoi punti di riferimento nell’esistenza, per vivere nella paura di una perdita futura e nell’ossessione della morte»16. Tale colpevolizzazione della depressione è un peso supplementarecheildepresso deve sopportare. Racconta Andrew Solomon: «Numerose persone con le quali ho parlato per scrivere questolibromihannochiesto dinondivulgareilloronome, di non rivelare la loro identità. Domandai loro cosa pensavano che sarebbe successo se la gente avesse scoperto la loro depressione. “Saprebbero che sono debole”, mi disse un uomo»17. Questa testimonianza di autosvalutazione illustra a quale punto la società dei «vincenti», dei «combattenti», sia impietosa neiconfrontideilooser. La depressione, malattia vergognosa perché sedicente causa di debolezza. La depressione,stato«anormale» quindi, sottintendendo che lo stato normale sia la felicità. Ecco quanto ha deciso lasocietàedonisticache,allo stesso modo, utilizza questa argomentazione per opporsi alle richieste di eutanasia per i malati: sono i depressi a chiedere il suicidio assistito. Ciò significa che non si trovano nel loro stato normale, e di conseguenza non sono nel pieno possesso della loro libertà di scelta. Seguendo questo ragionamento,sololepersone felici - i normali - sono veramenteliberedisuicidarsi. Se i depressi sono quindi considerati in maniera tanto negativa, è anche perché rappresentano lo scheletro nell’armadio della società edonistica la quale, funzionando unicamente sul «morale della truppa», non può tollerare queste Cassandre che oscurano l’umore consumistico a colpi di «a che pro?». Ciò che li rendeinsopportabili è la loro lucidità,èilfattocheabbiano ragione: il mondo non sta andando bene. «I depressi hanno visto il mondo troppo chiaramente, hanno perso il vantaggio selettivo della cecità»18, scrive Solomon. I test moderni mostranocheinondepressisi illudono sulla possibilità di controllare gli eventi della vita; mentre i depressi sono più lucidi riguardo alle loro capacità reali. Freud aveva già osservato che il malinconico «ha una visione più acuta della verità rispetto ai non malinconici». Un autore recente, Shelley Taylor,confermache«coloro che sono affetti da lieve depressione hanno una visionepiùnitidadisestessi, del mondo e del futuro rispetto alle persone normali»19. Forse non sarannoimeglioarmatinella lotta della vita, che richiede una buona dose di incoscienza, ma la loro lucidità ne fa veri e propritestimonidell’umanità. Nel1994,ilgrandestudio di Kay Redfield Jamison sui legami fra la depressione e il temperamento artistico si rivela altamente significativo20. In tutte le epoche vi è stata, fra artisti e poeti, una forte percentuale di depressi: un tasso trenta volte superiore rispetto al resto della popolazione per i poeti britannici e irlandesi fra il1705eil1805,euntassodi suicidio cinque volte superiore tra le loro fila. Nell’epoca contemporanea artisti, poeti e compositori contano una quantità di depressi tre volte maggiore rispetto agli scienziati e agli uomini d’affari; il 20% degli autori eruditi si sono suicidati. Su un gruppo di trenta scrittori moderni, l’80% presentava tendenze depressive. Jamison ha intervistato cinquanta scrittorieartistibritannici,in maggioranza uomini, dell’età media di cinquantatre anni: più di un terzo di essi aveva giàseguitountrattamentoper disturbi depressivi, tutti hanno constatato che tali periodi di depressione coincidevano con un’intensa creatività, una sorta di «febbre della scrittura», accompagnata da ansia e insonnia, paure e malinconia. Tutto accade come se il doloreinterioreilluminassela natura e il senso (o il nonsenso)dellavita,comese obbligasse a porsi domande su se stessi e sull’esistenza, giustificando le parole del poeta: «L’uomo è un apprendista,ildoloreèilsuo maestro». Herman Melville definisce così queste illuminazioni: «In questi lampi rivelatori del fuoco meraviglioso del dolore, vediamolecosecomesono,e anche se le ombre calano nuovamente dopo questi momenti elettrici, e i contorni degli oggetti riprendono il loro posto, essi hanno perduto il potere di ingannare»21. L’uomo «normale», ordinario, vive in questa scenografia ingannevole che confonde con la realtà; il malinconico, invece, sa che «Il mondo intero è un palcoscenico, e gli uomini e le donne, tutti, non sono che attori», come diceva Shakespeare. La società ha bisogno che questi uomini e queste donne prendano sul serio il loro ruolo, che ci credano. Non ha bisogno di verità, ma di efficienza. Essa allontana dunque i depressi, ergendo a modelli i campioni dell’efficienza, offerti all’ammirazione delle masse, come gli sportivi di altolivellolecuiperformance esigono una «mente d’acciaio» che escluda il minimo briciolo di dubbio e didepressione. Far tacere i depressi e la loro lucidità significa evidentemente contribuire alla perpetuazione di tutte le illusioni. Curare i depressi, così come si curano i dissidenti negli ospedali psichiatrici dei regimi totalitari, è dunque una necessità per la società edonistica.Èquantodenuncia la filosofa Anita Silvers, specialista di bioetica all’Università di San Francisco: «Chi insiste sul fatto che ogni tipo di depressione debba essere trattata a livello medico si avventura su un sentiero alquanto arduo. Poiché il pericolo è che gli stessi farmaci che permettono agli individui di abituarsi alla sofferenza cronica, contribuiscanoancheallaloro accettazione degli ambienti intolleranti o oppressivi, rendendo improbabilileproteste»22. Gli psicologi hanno segnalato altri aspetti positivi della depressione, la quale svolgerebbe un ruolo difensivo dell’io rispetto al progettodimorte,stimolando lo spirito creativo. Michel Leiris, come anche Samuel Beckett o Marcel Proust lo avevanogiàrilevato.Èunpo’ in questo senso che Pierre Fedida parla dei «benefici delladepressione».«Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire letteralmente dall’inferno», affermavaAntoninArtaud. Maldiviveree comportamentia rischio Questa società contemporaneadelvuoto,che tenta di riciclare i depressi che produce, genera comportamenti sostitutivi del suicidio, comportamenti tollerabili perché inquadrabili, poiché servono da sfogo alla disperazione profonda del mondo. La disperazione può essere un potente motivo d’azione: nessuno è più determinatodichinonhapiù niente da perdere - i manipolatoridelterrorismolo sannobene. Occorre dunque mettere la disperazione motivante al servizio della società, proponendo attività che possano mettere in pericolo esclusivamente la vita di coloro che le praticano, i quali possono persino essere assunti a modelli: alpinisti, navigatori, escursionisti,sportiviestremi. Sempre più imprese organizzano attività esterne, le outdoor sessions, poiché hanno capito l’interesseperquestepratiche al fine di migliorare l’efficenzadeidipendentiela loro capacità di affrontare situazioniimpreviste.Sitratta anchediunmezzoperridare una parvenza di significato alla vita, ricreando momenti «magici» di effimero svago. L’invasionerecentediquesto termine privo di senso è molto indicativa. Nel 2000, 60.000 francesi hanno partecipatoasvariateattività, con grande profitto dei produttori di attrezzature varie. L’ultimo grido è il viaggiospazialeinorbita,con lo slogan che recita: «Da qualchepartec’èmagia!». La società consumistica sa quindi trarre profitto persino dallo stato d’animo che le è più ostile: il mal di vivere, poiché è proprio questo a spingere stuoli di impiegati anemici a correre rischi per spezzare la monotonia di una vita iper protetta e iper organizzata, fattore di stress; per sentirsi di nuovo vivi, in una specie di grande gioco che faccia venire i brividi. In una parola: spezzare la noia, questa grande minaccia del mondo contemporaneo, scendendo le rapide in canoa oinkayakopartecipandoalle escursionineldeserto.Chi,se non individui in preda a un profondo mal di vivere, potrebbedarsiaquestigiochi daboyscout? È sicuramente la giovinezza il periodo in cui i comportamentiarischiosono più numerosi, e tanto più pericolosi poiché non controllabili. Per David Le Breton, autore di un recente studio sul soggetto, i comportamenti a rischio assunzione di droghe, alcol, comportamenti pericolosi, rapporti sessuali non protetti, giochi rischiosi — sono una risposta a «un malessere diffuso dell’esistenza [...], un modo di affrontare le avversità o la sofferenza»23. Secondo i sondaggi, il 22% dei giovani si definisce «disperato». I grandi responsabili dell’angoscia durante la giovinezza sono l’eccessodilibertàel’assenza di punti di riferimento: «La libertà è un valore per colui che possiede i mezzi simbolici per utilizzarla e sa affrontare gli ostacoli disseminatisulsuocammino; per l’altro, invece, essa generapaura»24. Anche il crollo dell’autorità genitoriale per tacita abdicazione viene spesso incriminato: il padre stesso, su cui si focalizzavano atteggiamenti di rivolta e rispetto, ha perso la sua aurea di punto di riferimento;eglimostraisuoi dubbi, viene colpito dalle crisidimezzaetà,vaincontro a problemi di coppia, condivide i compiti domestici, vuole restare giovane ed essere un «amico» per i suoi figli, mentre questi ultimi già lo superano nella padronanza delle tecnologie per il tempo libero. Il modello freudiano delpadrecastratoreèinviadi estinzione. L’adolescente si formavaperaffrontarelavita, forgiavalapropriapersonalità per mezzo della dialettica amore-odio nei confronti di questo temibile personaggio. Paragonabile oggi a una sorta di ectoplasma, l’adolescente ha sempre meno punti di riferimento e, sin dalla più giovane età, è immerso in un clima circostante di permissività. La libertà è positiva solo quando viene conquistata; quando viene data senza controparte, allora diventa un veleno che può rivelarsimortale. Questi giovani sono degli autodidatti forzati della vita: che trovino da soli il senso della propria esistenza, sperimentando i falsi valori senza guide né strutture! Lo sgomento è quasi inevitabile. Una delle soluzioni a questo mal di vivere originario è abdicare radicalmente alla propria libertà entrando in unasetta:accettareillavaggio del cervello e una dottrina banale rassicurante significa farla finita con i continui interrogativi. La ricerca della spiritualità non ha niente a che vedere con il fenomeno settario, che è anzitutto una droga antidepressiva, un rimedio al mal di vivere. Scrive David Le Breton: «La ricerca della spiritualità evocata come principale motivo di adesione, è secondaria rispetto alla questione essenziale, quella della voglia di vivere e del significatodell’esistenza[..da setta] è probabilmente, in un primo tempo, un modo per neutralizzare un’ondata depressivadilagante.Lesette forniscono risposte sicure ai grandi interrogativi dell’esistenza, laddove le nostre società hanno perduto una parte del loro orientamento antropologico lasciando l’individuo, nella migliore o peggiore delle ipotesi, in unalibertà“senzalimiti”»25. Il comportamento a rischio è un’altra risposta al maldiviverediunagioventù che si è trovata immediatamente immersa nella «società del vuoto». Bisogna mettere alla prova questa esistenza insipida, darle un sapore, avvicinarsi alla morte per poter apprezzare maggiormente la vita e, se alla fine di questa ordalia non c’è che morte, allorasignificachelavitanon vale davvero la pena di essere vissuta. Quando i giovani di una società arrivano a questo punto, la società in questione può iniziare a interrogarsi sul proprioavvenire.Giovaniche rischianolavitaequelladegli altri per riuscire a darle un senso; adulti che rischiano la vita per sfuggire la noia di un’esistenza superprotetta eccoisintomidiunprofondo mal di vivere. Le sette, i comportamenti a rischio, la violenza sono i segni della stessa ansia. Pensare di poter tornareindietroèillusorio,la frecciadeltempohaunasola direzione. La soluzione implical’accettazionedelmal di vivere da parte di un umanesimodell’angoscia. Tale conclusione presuppone anche un altro tipo di atteggiamento nei confronti della morte volontaria, segno fatale del mal di vivere. «Al “non ho chiesto io di nascere” fa eco “posso scegliere di morire”», ricorda David Le Breton, per il quale, tuttavia, i comportamenti a rischio non rappresentano forme di suicidio latente: «Esse si distinguono in tutto e per tutto dalla volontà di morire, non sono forme maldestre di suicidio, ma scappatoie simboliche per trovare rassicurazione sul valoredellapropriaesistenza, respingendo il più lontano possibile la paura della propria mediocrità personale. Si tratta di riti intimi di costruzione del senso»26. Nonostantetutto,cisembravi siaunostrettolegame. Secondo le statistiche, i nostri contemporanei sostengono sempre di più di volerlasciarevolontariamente la vita, a iniziare dalle celebrità, il cui esempio si ricongiunge sempre di più a quello degli antichi Romani. Abbiamo menzionato gli uomini e le donne di lettere, ma sono coinvolti anche il mondo dello spettacolo e quellomediatico,inposizione privilegiata nel misurare la dimensione tragicomica dell’esistenza, da Ingrid Bergman ad Achille Zavatta, passandoperMarilynMonroe (1962), Mike Brandt (1975), Jean Seberg (1979), Patrick Dewaere (1982), Yukiko Okada(1986),Dalida(1987), Roger Stéphane (1994) e Nino Ferrer (1998). Il mondo politico ha visto i suicidi di Roger Salengro (1936), Pierre Bérégovoy (1993), Roger Quilliot (1998); il mondo dell’arte quelli di Nicolas de Staèl (1955), Marcus Rothko (1970), Ralph Barton, Bernard Buffet (1999); e ancora Yukio Mishima (1970), Jean-Louis Bory (1979), Yves Laurent (1991). Ognuno di questi suicidi corrisponde certamente a una situazione particolare, ma anche la quantità di tali casi è estremamente rivelatrice, in particolare di una maggiore familiaritàconunattocheper molto tempo è stato considerato tabù. Non è sicuro che la proporzione reale di suicidi sia inaumento;peressereprecisi non si tratta di una banalizzazione, quanto piuttosto di un’accettazione crescente da parte della società. Anche se gli studi statistici restano difficili, la dissimulazione diminuisce. Gli osservatori risultano essere più interessati al fenomenoduranteiperiodidi crisi, poiché vi vedono un segno di malessere che vogliono sottolineare, falsandocosìleprospettive.È accaduto ad esempio nel 1881, quando Tomas Masaryk vide nel suicidio il risultato della generalizzazione dell’insegnamento che portavasemprepiùpersonea porsi domande senza risposta sul senso della vita, in un periodo di distacco dalle fedi religiose27. Nel 1929, la stampa creò il mito di un’ondata di suicidi in seguito al crack di Wall Street. John Kenneth Galbraith ha mostrato che in realtà non ci fu nessun aumento significativo: 1.331 suicidi nell’ottobre del 1929 negli Stati Uniti, e 1.344 a novembre, vale a dire il numero abituale. I casi di richiamo che erano stati segnalatinonavevanonullaa che fare con il crac, come quello di Riordan, l'8 novembre, ricco finanziere e buon cattolico. La Chiesa imputò la sua morte a una folliapasseggera28. Ilmaldiviveretroppo vecchioetroppo malato Le cifre dei suicidi sono certo impressionanti, ne abbiamo fornite solo alcune29. L’opera classica di Jean Baechler ne fornisce molteperilperiodoanteriore al 197530, giungendo all’abituale constatazione di un tasso che aumenta con l’etàintuttiipaesi:inFrancia c’è un numero otto volte superiore di suicidi fra gli over 65 anni rispetto alla fasciad’etàcompresatrai15 e i 24 anni, quattro volte superiore in Inghilterra e negli Stati Uniti, tre volte superiore in Germania. Queste cifre lasciano dunque presagire un aumento negli anni a venire, con l’incremento della speranza di vita. È già possibile osservare un’impennata spettacolarenellagenerazione del baby boom, divenuta quella del papy boom: secondo uno studio del 2002 condottodallaDirezionedelle ricerche, degli studi, della valutazione e delle statistiche (DREES) del Ministero per gli Affari sociali, «la probabilità di suicidio fra le personenatenel1956èquasi due volte maggiore rispetto alle persone nate nel 1930». Gli autori del rapporto concludono: «Nel 2010, le persone nate nel 1945 avranno 65 anni. Si può temereunaumentodeisuicidi con l’invecchiamento delle generazioni del dopo guerra»31. Lo studio attribuisce questo fenomeno al fatto che tale generazione è quella che ha fatto saltare i valori e le norme nel 1968 e che,inseguito,haconosciuto la crisi e la disoccupazione. La generazione della permissività, della libertà assoluta, per la quale era «vietato vietare», si ritrovaoradifrontealnulla. Ma ci sono anche fattori permanentichepermettonodi comprendere l’alto tasso di suicidifralepersoneanziane: ripetuti problemi di salute, indebolimento di tutte le facoltà, perdita d’autonomia, bruttezza, solitudine, mancanza di speranza. Proclamare che la vecchiaia possa essere felice è la menzogna peggiore della società contemporanea. Chi ha fretta d’invecchiare? Chi avrebbe l’audacia di affermareintuttacoscienzae nel più profondo dell’anima che la terza età sia quella della felicità? Il salone di un ospizio ha forse l’aria di essere un paradiso terrestre? Levecchiesignoresullasedia a rotelle che sonnecchiano o giocano a scarabeo aspettando la morte hanno l’ariadidivertirsifollemente? Persino fra quelli «meglio conservati» (abominevole espressione che denota tutta la sorpresa nel vedere questi morti viventi un po’ meno decrepiti di quanto non ci si aspetti), in quanti accettano gioiosamente la vecchiaia? E la scienza promette che vivremosemprepiùalungoe «ben conservati»... Ma durantequestotempo,sempre piùanzianieanziane(perché questi termini fanno paura se la vecchiaia è sinonimo di gioia di vivere?) si danno la morte: e non è la contraddizionepeggioredella società contemporanea. Il prolungamentodellasperanza di vita moltiplica drammaticamente i casi di depressione e di suicidio, che probabilmente sarebbero ancora più numerosi se la paura non ci attanagliasse fino al momento in cui cadiamo nella completa dipendenza dagli altri, rendendo l’atto impossibile senzaassistenza. Alcuni hanno il coraggio di andarsene prima della decadenza, prima della disumanizzazione. Il caso di Roger Quilliot è degno di essere ricordato. Ex ministro dell’Urbanistica e dell’Edilizia abitativa, senatore e sindaco di Clermont-Ferrand, erudito, scrittore, grande lavoratore e uomorigoroso,eglisisuicida il 17 luglio 1998 con la moglie Claire inghiottendo dei barbiturici. Ha settantatre anni ed è malato. Con la sua sposa redige una lettera che spiegaillorogesto: Ci capirete se dico che la nostra scelta comune di morte volontaria è un atto sia di libertà che di amore per la vita nella sua pienezza? Che almeno nessuno si senta in colpa. «Vorrei che a questa età ci si congedasse dalla vita come da un banchetto, ringraziando il proprio ospite, e che si faccia fagotto» diceva La Fontaine, che non seppe conformarsi a questa saggezza e morì molto male. È vero che per questo cattolico una morte stoica era impensabile e, nell’aldilà, l’inferno attendeva ancora i peccatori. Noi non crediamonell’aldilà.Per noi agnostici tutto succede sulla terra e ritorna alla terra: l’idea di un sonno definitivo nongenerainquietudine. Ricordando che la loro vitaerastatapienadigioie,di dolori e d’amore, proseguono: Con l’età il degrado accelera; aumentano i ricoveriinospedale;non solo non potremmo più essere utili né ai nostri cari né alla società, ma rischieremmo sempre più di rappresentare un peso per loro [...]. Poiché la morte vince comunque, tanto vale affrontarla insieme e in piedi, vivi, perché bisogna esserlo per affrontare la notte [...]· Nulla è mai scontato per l’uomo, ma tuttosommato,inluic’è più da ammirare che da biasimare. Aggiunto a mano: «Ecco, abbiamo fatto il nostro tempo». L’umanesimo non può elevarsi oltre. Rianimando Claire Quilliot, la società ha separato due esseri che tuttavia aveva unito e che avevano liberamente deciso di andarsene insieme. Chi ha commessoilverocrimine? Mal di vivere degli anziani di fronte alla propria decadenza; mal di vivere degli handicappati sofferenti e incurabili, che domandano di aiutarli a morire. L’eutanasia sta per diventare un vero problema di società. Alcuni casi mediatizzati hanno sollevato la questione, che riguarda peraltro decine di migliaia di individui nel mondo. Limitiamoci a un solo caso: nel maggio 2002, Diane Pretty è deceduta. Da tempo sofferente per una malattia nervosa incurabile che le aveva provocato paralisi e dolore, chiedeva che suo marito fosse autorizzato ad aiutarla a morire senza incorrere in sanzioni penali. Poiché la legge inglese si era mostrata inflessibile, Diane si era appellata alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che avevarespintolasuarichiesta nell’aprile 2002, condannandola a soffrire inutilmente per un altro mese. Mettere fine ad atroci sofferenze perfettamente inutili non fa evidentementepartedeidiritti dell’uomo. Come giustificare una simile decisione? Tutti i discorsi sull’assistenza, le cure, il conforto non sono quindi che mere ipocrisie? Nel nome dei resti secolarizzati di una morale cristianachevietaachiunque di disporre della propria vita, qualsiasi essere umano che abbia avuto la «fortuna» di nascere, ha il dovere di restare in vita, fino al limite estremo. Tale posizione diventa sempre più intollerabile: secondo un sondaggioneldicembre2002, l’88% dei francesi sono risultati favorevoli all’eutanasia. Legalizzata nei Paesi Bassi, in Belgio e in Svizzera, essa è ora oggetto di dibattito negli Stati Uniti, dovelacontraddizioneconla pena di morte, ancora inflitta con una certa leggerezza, è una sfida all’umanità e alla ragione.Nel1996,seifilosofi americani hanno firmato una lettera in favore dell’eutanasia, dichiarando che«vietarequestapossibilità a pazienti in fase terminale che si trovano in condizioni di estrema sofferenza, o condannatiaun’esistenzache consideranointollerabile,può essere giustificato solo sulla base di una convinzione religiosa o etica sul valore o sulsensodellavitastessa.La nostra Costituzione vieta al governo di imporre tali convinzioni ai propri cittadini»32. Lo stesso anno, lo Stato dell’Oregon adotta una legislazione molto liberale, il DeathwithDignityAct.Tutto quello che il paziente deve fare è compilare un formulario intitolato: «Richiesta di intervento medico per terminare la mia vita in maniera umana e degna». Tale documento, che deve essere firmato davanti a due testimoni, termina con la formula: «Chiedo che il mio medico curante prescriva un farmaco che ponga fine alla mia vita inmanieraumanaedegna»33. Ma l’Oregon è solo uno di cinquantaStati...Nel1997,la Corte Suprema americana respinge all’unanimità due appelli in favore dell’eutanasia. Le autorità morali, politiche, religiose e sanitarie continuano a essere molto reticenti all’idea di permettere l’abbreviazione di sofferenzeinutili. Tuttavia, persino nella Chiesacattolicaprendeforma una timida evoluzione. Nel 1980, il Vaticano pubblica una Dichiarazione sull’Eutanasia che, con molteplici precauzioni, ammette che «non si può imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere a un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio (o eutanasia): significa piuttosto lasempliceaccettazionedella condizione umana, o il desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare».Unavoltaammesso questo principio, rimane da decideredovesisituiillimite fra la proporzione e la sproporzione... Quanto alla classe medica, la sua ostilità si rifà al giuramento di Ippocrate, il cui articolo riguardante il divieto formale di somministrare un farmaco letale era, originariamente, l’espressione di una minoranza34. Il fine ultimo della medicina continua a essere quello di lottare contro la morte; poiché il compito è impossibile, occorre fare in modo che ognuno di noi muoia almeno in buona salute, in mancanza di ciò, il piùtardipossibile.Ildirittoa unamortedegnanonèancora statoacquisito. Suicidioedepressione: duediverseformedel maldivivere I malati terminali non sonoisoliabussareallaporta d’uscita della vita. L’incremento fra i giovani è spettacolare e aumenta con il livello degli studi. Fra gli studenti le incertezze riguardano il futuro: i problemimateriali,lafragilità psicologica e l’accesso a una letteratura di riflessione, di contestazione, di rimessa in discussione portano a una presa di coscienza precoce dell’assurdità dell’esistenza. Già nel 1971 un sondaggio condotto fra 421 studenti di Colonia mostrava che il 54,6% riteneva che la vita non avesse senso; il 36,1% sosteneva di concepire una situazione in cui il suicidio fosse l’unica soluzione; il 21,9% aveva pensato al suicidiosenzapassareall’atto vero e proprio, il 7,6% ci pensavaseriamente35. Tuttavia, interrogati sulle situazioni suscettibili di condurli al suicidio, la loro classifica risultava essere, nell’ordine, una malattia incurabile, una situazione estrema, un fallimento affettivo e, in ultima istanza, il crollo dei valori, di una certa concezione del mondo. Davanti a tali esiti Jean Baechler osserva che «la disperazione e il disgusto perlavitaeranotemiletterari [...] che difficilmente potevanocondurrealsuicidio effettivo [...]. Non ho mai sentito di qualcuno che si sia ucciso perché una lettura l’avevaconvintodelfattoche la vita non avesse senso. Lo scritto poteva piuttosto aver persuaso qualcuno già convinto in partenza. Dubito anche fortemente che qualcunosisiamaiuccisoper ragioni esclusivamente filosofiche»36. Per questo autore il suicidio «designa qualunque comportamento che cerchi e trovi la soluzione di un problema esistenziale attentando alla vita del soggetto»37. Si tratta di un atto che mette in gioco l’intera personalità ed «è altamente probabile che nessunosisiamaiuccisoper unragionamentoastratto». La psichiatria attribuisce il suicidio sia all'iperemotività,nonchéstato di inquietudine e insicurezza che porta a reagire in maniera eccessiva alle sollecitazioni dell’ambiente circostante, sia alla ciclotimia. In quest’ultimo caso distinguiamo i malinconici, o ansiosi cronici, e i depressi costituzionali, caratterizzati da una profonda tristezza, in particolare mattutina temperamento che conosce due fasi critiche nel corso dellavita:frai18ei25anni edopoi50anni. Senza rifiutare categoricamente queste spiegazioni, frutto di lunghe osservazioni, Jean Baechler ricorda che il suicidio, atto esclusivamente umano, è un’opzione razionale. Contrariamente a quanto sosteneva la psichiatria nel XIX secolo, i pazzi si suicidano raramente. «Il suicidio è un atto positivo, che presuppone una capacità minima di combinare i pensieri e le azioni; laddove la coscienza si dissolve, non troviamo il suicidio»38. Analizzando le lettere dei morti suicidi, Baechler aggiunge: «Il suicidio non è né una malattia né una pulsione,essoèunasoluzione a un problema [...], una soluzione che può essere considerata non solo logica, maancherazionale,poichéla fuga è probabilmente la migliore soluzione possibile per chi non vuole precipitare nella follia»39. Per questo autore il suicidio è sempre il risultato di un calcolo da parte di una persona che si pone in condizione di scacco e che vuole fuggire da una situazione intollerabile (suicidio «escapista»), o colpirequalcunoattraversola propria morte (suicidio aggressivo), o compiere un sacrificio (suicidio ablativo),oppureadottareuna condotta a rischio (suicidio ludico). Secondo Baechler, esiste un tasso costante di suicidio in tutte le società: essononpuòessereridotto,a meno che non si possa agire sulpatrimoniogenetico.Tutte le campagne profilattiche, scrive, «non hanno mai cambiato alcunché rispetto alla realtà del suicidio. I suicidicisarannosempreein proporzione più o meno costante. È una realtà deplorabile: essa può portare acrederechesiailtributoche l’uomo paga per la sua condizione di essere vivente, che il suicidio sia una delle rappresentazioni dell’umanità»40. Tale diagnosi è stata contestata dagli autori di un brevelibroapparsonel1985, Parolesdesuicidaires,incui i protagonisti dichiarano: «Pensiamo che il suicidio possa scomparire come la pena di morte, la tortura, la schiavitù e la prostituzione»41. Tale osservazione sembra illusoria ed è contraddetta dall’evoluzione attuale. Il contenuto dell’opera tenderebbe peraltro a smentirla. Protestando contro la totale appropriazione del dibattito sul suicidio da parte degli «specialisti» che non hanno alcuna esperienza personaleditendenzesuicide, il libro sostiene il diritto a esprimersi di coloro che hanno tentato il suicidio, poiché solo loro sono in grado di analizzare il proprio stato.«Lacausaprofondadei suicidi è da ricercarsi nell’inadeguatezza dei due universi, quello del suicida e quello che lo genera. Il suicidanonriesceaintegrare il proprio vissuto interiore nell’organizzazionesocialein cuièproiettato.Tuttiimezzi di espressione abituali gli sono preclusi e, non potendo rinunciare alla propria protesta, egli muore lentamente [...]. Coloro che tentanoilsuicidioediventano poivittimedelloroattosono colorochenonsonoriuscitia rinunciare alla propria protestaeperiquali“l’aiuto” non è stato sufficientemente efficace. Essi hanno resistito al lavaggio del cervello, non hannocedutoaisuoicolpi.La cosa divertente è che ne muoiono»42. L’inadeguatezza fra l’universo interiore del suicida e l’organizzazione sociale è puntuale, se non evidente, ma tende piuttosto ad accreditare l’idea di una permanenza del numero di suicidi, se non addirittura del loro aumento, dal momento che l’evoluzione sociale non fachecrearenuovesituazioni favorevoli al suicidio. Ci saranno sempre delle inadeguatezze, e probabilmente esse andranno via via crescendo. Un’inchiestabritannicasvolta nel 1996 indica infatti un aumentodel93%delnumero di suicidi fra le ragazze di età compresa tra i 15 e i 24 annifrail1974eil1992nel West Midlands: l’aumento è in ragione del 36% al nord del paese e del 14% nel sudovest. Secondo il professor Colin Pritchard dell’Università di Southampton, queste cifre sono una conseguenza dell’ingresso massiccio delle donne nella carriera professionale, il quale genera una pressione supplementare e un cambiamento di immagine che ha bisogno di nuovi punti di riferimento: «Le donne trovavano l’identità sociale all’interno delle loro famiglie e delle lorocase,maillavoroadesso conferisce loro una nuova identità sociale, come accade per i ragazzi [...]. Le donne vogliono avere successo nel lavoro,pursubendoancorala pressione del doversi occupare della famiglia. Le giovani madri delle classi medie assumono le baby sitter per poter continuare a lavorare, pur soffrendone e colpevolizzandosi [...]. L’accumulo di tutto questo stress e pressioni ne conduce alsuicidiounnumerosempre maggiore»43. Per aiutarle sonoprevistealcunestrutture, ma questo non risolve il problema: «I servizi psichiatriciesocialinonsono maistaticosìefficienti,male giovanidonnenonriesconoa beneficiarne. Proprio come gli uomini, esse hanno paura di ammettere di avere, a volte,bisognodiaiuto». Così, non solo l’evoluzione della società continuerà a creare inadeguatezze, ma susciterà anche comportamenti che impediscono di risolverle: il modello dell’uomo o della donna d’affari competitivo, efficiente, dinamico, sempre padrone della situazione, obbliga a camuffare il disagio interiore portando al crollo. Modelli più esigenti, in una società che peraltro si definisce umoristica e che consiglia distacco e disinvoltura: tali sconcertanti contraddizioni sono evidenti fattori d’angoscia. Aggiungiamo l’esistenza di sistemieducativicheformano meno che mai il carattere, accreditando idee di facilità, di gioco, di assenza di selezione, cioè l’inverso di ciò che i giovani troveranno entrando nella giungla del mercato del lavoro. Tutto ciò concorre a creare condizioni angoscianti, fattori di depressioneesuicidio. Ma la relazione fra depressione e suicidio è più complessa di quanto sembri. Per la maggior parte di psicologi, sociologi e testimoni di tali eventi, la depressione è più un’alternativa che un fattore di suicidio, nella misura in cuiquest’ultimoèunattoche richiede un guizzo di energia non indifferente. Certo, constata Andrew Solomon, «l'auto-esame e l’elucubrazione possono condurre al suicidio, frequente negli artisti e altre persone creative. Ma il tasso èelevatoanchefragliuomini d’affari competitivi: sembrerebbe che alcune qualità che favoriscono il successofavoriscanoanchele tendenze suicide. Gli scienziati, i compositori e gli uominid’affaridialtolivello hanno una tendenza a uccidersi cinque volte maggiore rispetto alla popolazione generale; gli scrittori, soprattutto i poeti, presentano un tasso di suicidio ancora più elevato»44. Tutto ciò conferma già che follia e suicidio non hanno niente in comune. Secondo Jean Baechler il comportamento depressivo potrebbe essere una reazione di difesa che permette di evitare il suicidio: l’apatia, l’insonnia, la perdita della libido,l’anoressia,ildisgusto di sé fanno perdere la voglia di vivere quanto la voglia di morire. Gilles Lipovetsky pensa peraltro che il suicido contemporaneo, in particolar modoquellodeigiovani,non abbia un significato esistenziale particolare; esso è, come la maggior parte degli altri gesti nella società narcisistica, una reazione immediata, irriflessiva: «Il suicidioderivamaggiormente da una spontaneità depressiva, dal flip effimero, che non dalla disperazione esistenzialedefinitiva»45. Ritorniamo alla testimonianza capitale di Andrew Solomon, che ha sperimentato i tormenti della depressioneedellatentazione suicida, che ha aiutato la madre malata a mettere fine ai propri giorni, che ha frequentatoalungolecasedi curaperdepressiepotenziali vittime del suicidio. Le sue prove, la moltitudine di casi che riporta, il carattere moderato, razionale, equilibrato della sua opera conferiscono un peso eccezionale al suo giudizio: «Il diritto al suicidio dovrebbe essere una libertà civile fondamentale: nessuno dovrebbe essere costretto a vivere contro la propria volontà [...]. È di particolareimportanzaperme proclamare [...] che, dal punto di vista dell’individuo, bisogna difendere ferocemente il diritto dilasciarevolontariamentela vita, in quanto privilegio umanoinalienabileeche,dal punto di vista della società, non è sicuro che i suicidi rappresentino un inconveniente, poiché riguardano una popolazione comunque problematica»46. Ma i pregiudizi associano ancorasuicidioefollia,come mostra questo test realizzato ad Harvard: un gruppo di medici che doveva pronunciarsi su alcuni suicidi diagnosticòlafolliaal22%se ignoravachesitrattassediun caso di suicidio, e al 90% se veniva loro detto che era suicidio47. Le prese di posizione in favore della libertà di ciascuno di disporre della propria vita sono sempre più numerose: «Nessuno è responsabile della propria nascita, ognuno è libero di scegliere la propria morte, quindi di rifiutare il fardello che ha ricevuto senza che gli fosse stato chiesto»48, scriveva Raymond Aron. Da parte sua, il sociologo e antropologo Louis-Vincent Thomas ricordava che «solo le vittime del suicidio possono e devono prendersi le proprie responsabilità», e non spetta ai legislatori occuparsi di una questione tantointima49. Anche André ComteSponvilleècategoricoquanto Jean Baechler: il diritto al suicidio è un diritto fondamentale della persona. «Il suicidio non è un problema giuridico. Esso riguarda esclusivamente me, e nessuno può vietarmelo senza cadere nel ridicolo o nell’abusodipotere-sesono in possesso delle mie facoltà mentali. Se il suicidio è un diritto, ed è certo che lo sia, tale diritto è tanto più assoluto quanto si prende gioco del diritto. Esso è massima e minima libertà. Indietro, preti! Indietro, giudici!»50. Il filosofo, peraltro, avvicina il suicidio all’eutanasia: «Il suicidio, spesso, non è che l’eutanasia di se stessi», poiché «non è la vita che vienerifiutata,mal’anzianità, la solitudine, la schiavitù dellamalattiaodellamiseria, l’agonia [...]. La morte è troppo lunga, spesso, se la vita è troppo breve. Quando nonsidesiderapiù,oquando non si può più prolungarla, è legittimoabbreviarla». Il suicidio è un atto tipicamente umano. Quando l’uomoèavvilitoallostatodi bestia, non desidera più uccidersi: raramente ci si uccide in tempo di guerra, come non ci si uccideva nei campidiconcentramento-ci si uccide dopo, quando si ridiventauomini.Aproposito dei prigionieri liberati nei campi di concentramento nazisti, Primo Levi scriveva che non appena sentivano di ritornare a essere uomini, e cioè responsabili, le loro sofferenze riemergevano. Allora riflettevano sulla loro vita, sugli orrori di cui ogni uomoècapace,sull’assurdità deltutto,ealcunifinivanoper uccidersi.Iltassodisuicidio, peraltro, aumenta man mano chesisalenellascalasociale e intellettuale. Nella parte bassa della scala predomina laviolenza;nellapartealtail suicidio. Allo stesso modo è raro che i depressi suicidi si uccidano durante una grave crisi; lo fanno più che altro dopo, quando ritornano a essere padroni delle proprie capacità di azione e di analisi. Secondo Andrew Solomon, «Il suicidio non è l'ultima spiaggia dell’animo depresso. Il suicidio è la rivolta dello spirito contro se stesso, una doppia disillusione che è fuori della portata dello spirito depresso». Così, «lo spirito suicida può essere un sintomodelladepressione,ed è anche un fattore di attenuazione. Il pensiero del suicidio permette di attraversare la fase depressiva. Nulla mi fa piùpauradelpensieroche,da un momento all’altro, io possa perdere la capacità di suicidarmi»51. Tutti coloro che si credono responsabili per gli altri, come le autorità religiose, morali, politiche, vedono spesso in questi discorsipericoloseincitazioni al suicidio. Hanno paura che turbino l’equilibrio sociale e scalzino la fiducia che la società ha in se stessa; una societàchesisenteincolpa,o quanto meno sotto accusa. Scrive Danielle Mayer: «Così, per via del suo significato e delle sue conseguenze, il suicidio disturba la società, che potrebbe essere tentata, se nonviprestasseattenzione,di reagire - in qualche modo istintivamente attraverso un utilizzo troppo ampio del suo strumento preferito di autoprotezione, vale a dire il diritto alla repressione»52. La nostra società permissiva, piena di contraddizioni, fustiga la libertà suprema del suicidio. Se confisca la parola sulla mortevolontaria,èperché«il suicida è un guastafeste»53. «Guastafeste» nel vero senso dellaparola,poichélasocietà moderna, o post moderna, si definisce una società caratterizzata dalle feste, un po’ come un tempo ci si gettava a corpo morto nei festeggiamenti durante le grandi epidemie di peste. Oggi non si scappa più dalla peste,madalvuoto. La depressione contemporanea è certamente una conseguenza della democratizzazione della malinconia elitaria. La sua recente esplosione corrisponde alla scoperta del baratro interiore una volta scostate le scenografie ideologiche e religiose che mascheravano l’abisso. In questo senso, nulla permetterà di arrestare la progressione di questa «patologia della libertà», secondo l’espressione di Henry Ey. Si è già passati alla sua banalizzazione. I farmaci l’addormenteranno, ma l’umanità potrà davvero accontentarsi a lungo di un’esistenza«narcotizzata»? 1«Magazinelittéraire», n.411,luglio-agosto2002. 2C.ROSSET,Routede nuit: épisodes cliniques, Gallimard,Parigi1999. 3 W. STYRON, DarknessVisibile:AMemory of Madness, Random House, Londra 1990; trad, it., Un’oscurità trasparente, Mondadori,Milano1999,pp. 24e49. 4 V.S. NAIPAUL, L'enigma dell’arrivo, Mondadori,Milano1988. 5 L. WOLPERT, Malignant Sadness. The Anatomy of Depression, The Free Press, Londra 1999, p. 15. 6Ivi,p.64. 7Ivi,p.129. 8 A. SOLOMON, Il demone di mezzogiorno. Depressione: la storia, la scienza, le cure, Mondadori, Milano2002. 9 A. SALOMON, Il demonedimezzogiorno,cit. 10L.WOLPERT,Malignant Sadness,cit.,p.109. 11J. BOWLBY, Attachment and Loss, Penguin Books, Londra 1981, t. III: Loss: Sadness and Depression; trad, it., La perdita della madre, Bollati Boringheri, Torino1983. 12 A. BECK, Cognitive Therapy: A 30 Year Retrospective, «American Psychology», 46, 1991, pp. 368-375. 13 A. SOLOMON, II demone di mezzogiorno, cit., p.29. 14 P. MACLEAN, The Triune Brain in Evolution: Role in Paleocerehral Functions, Plenum Press, NewYork1990. 15 D.J. DAVIDSON, Approach-Withdrawal and Cerebral Asymmetry: Emotional Expression and BrainPhysiology,«Journalof Personality and Social Psychology», 58, n. 2, 1990, pp.330-341. 16T.ANATRELLA,Nonà la société dépressive, Flammarion, Parigi 1995, p. 10. 17 A. SOLOMON, Il demonedimezzogiorno,cit. 18 A. SOLOMON, II demonedimezzogiorno,cit. 19S.E.TAYLOR,Positive Illusion, West Publishing, NewYork1989, 20 K.R. JAMISON, Touched with Fire. ManicDepressive Illness and the Artistic Temperament, Free Press, New York 1994; trad, it Toccato dal fuoco: temperamento artistico e depressione, TEA, Milano 1997. 21 Citato da L. WOLPERT, Malignant Sadness,cit.,p.82. 22 A. SILVERS, ProtectingtheInnocentsfrom Physician-Assisted Suicide: The Courts leave it to the States, in Physician Assisted Suicide. Expanding the Debate,acuradiM.P.Battin, R. Rhodes e A. Silvers, New YorkeLondra1998,p.140. 23 D. LE BRETON, Conduitesàrisques:desjeux de mort au jeu de vivre, PUF,Parigi2002,p.45. 24Ivi,p.55. 25 D. LE BRETON, Conduitesàrisques...,cit.,p, 97. 26Ivi,p.62. 27 T.G. MASARYK, Der Selbstmord als sociale Massenerscheinung der modernen Civilisation, Vienna1881. 28 J.K.GALBRAITH, The Great Crash, 1929, Pelican Books,Londra1961,pp.150151;trad,it.,Ilgrandecrollo, Bollati Boringheri, Torino 1991. 29PerlaFrancia,èstato fornitounbilanciorecenteda M. DEBOUT, La France du suicide,Stock,Parigi2002. 30 J. BAECHLER, Les suicides, Calmann-Lévy, Parigi1975. 31In«Ouest-France»,2 settembre2002. 32 The Philosophers’ Brief Amici Curiae, citato in Physician Assisted Suicide. Expanding the Debate,cit.,p.431. 33 Oregon Death with Dignity Act, Oregon revised statutes, 1996, Suppl.127.800-127.897. 34 Physician Assisted Suicide. Expanding the Debate,cit.,p.354. 35 C. BESOZZI, Soziologische Theorien und soziale Probleme: eine UntersuchungzumStudentenSelbstmord, «Revue européenne de sciences sociales,25,1971,pp.49-72. 36 J.BAECHLER, Les suicides,cit.,p.414. 37 J. BAECHLER, Les suicides,cit.,p.77. 38Ivi,p.111. 39Ivi,p.293. 40 J. BAECHLER, Les suicides,cit.,pp.101-102. 41 A.PATRICK et al., Paroles de suicidaires. Cette vie passée à la sauver, Chronique sociale, Lione 1985,p.109. 42Ivi,pp.91,93. 45 In «The Times», 10 agosto1996 44 A. SOLOMON, Il demonedimezzogiorno,cit. 45 G. LIPOVETSKY, L'èradelvuoto,LuniEditrice, Milano1995,p.236. 46 Prefazione del libro di J. BAECHLER, Les suicides, cit.,p.101. 47 A. SOLOMON, Il demoneamezzogiorno,cit. 48 Prefazione del libro di J. BAECHLER, Les suicides, cit.,p.1. 49 L.-V. THOMAS, À proposdusuicide:lepointde vue d’un thanatologue, «Agora. Ethique, médecine, société», n. 14-15, giugno 1990,p.19. 50A.COMTE-SPONVILLE, La mort volontaire, «Agora. Éthique, médecine, société», cit.,p.25. 51 A. SOLOMON, II demonedimezzogiorno,cit. 52D.MAYER,Enquoi le suicide intéresse-t-il le droit?, «Agora. Ethique, médecine, société», cit., p. 36. 53 F. ZENATI, «Revue trimestrielle de droit civil», 1988,p.422. Conclusione Lungo queste pagine abbiamo visto scorrere coorti di disperati, malinconici, pessimisti: le loro numerose testimonianze illustrano la permanenzadelmaldivivere attraverso i secoli. Da Lucrezio a Cioran, da Luciano a Schopenhauer, quante menti hanno lucidamente espresso la loro tristezzaoillorodisgustoper lavita?Natoconlacoscienza riflessiva,ilmaldivivereèil prezzo da pagare della riflessione umana e non il segno di un disequilibrio patologico. Il pensiero si radica nel malessere. Sin dalle origini della riflessione, l’uomo ha cercato di dare un senso alla vita, ma ogniprogressodelpensierolo ha reso più esigente, indebolendo le risposte di ordine sovrannaturale e rafforzando la consapevolezzadellatragedia dell’esistenza. Durante i secoli le autorità morali hanno coltivato il mal di vivere con ambiguità. La Chiesa sosteneva che esistesse una tristezza buona e una cattiva: la colpa di Adamo ha trasformato il nostro soggiorno terrestre in una valle di lacrime e dobbiamo esseretristiacausadeinostri peccati - questa è la tristezza buona. Quella cattiva è la tristezza che ci porta alla disperazione, che ci fa perdere fiducia in Dio, che vede solo l’inferno e ci fa maledire il mondo e il suo creatore. La vita del cristiano è stata a lungo un difficile equilibrismo fra l’angosciaelasperanza,frala paura e la consolazione, un percorso di guerra dall’esito incerto. La Chiesa ha mantenuto i suoi fedeli prospettando loro delle possibilità, ma mai vere e proprie certezze, generando fatalismo e indipendenza. La Chiesa non amava le prove, nemmeno quelle dell’esistenzadiDio.UnDio evidente, irrefutabile, certo quanto l’esistenza del sole o diunaveritàmatematica,non faceva al caso suo. A cosa sarebbe servito se la verità fosse diventata un’evidenza? Alcuni teologi hanno avanzato «prove» mai confermate dalla Chiesa, preferendo parlare di segni razionali.Ildubbioèsalutare, a condizione di non soccombervi. Credere senza aver visto, tale era l’esigenza cristiana, peraltro generatrice di angoscia, soprattutto negli ambienti in cui veniva praticata l’introspezione, cioè neimonasteridelMedioevoe poi all’interno dell’élite intellettuale illuminata dell’umanesimo e della Riforma. I progressi dell’individualismo nel XVI secolo hanno condotto alla grande rinascita della malinconia, che avrà il suo apogeoattornoal1600conil suocantoreRobertBurton:il mal di vivere inizia a secolarizzarsi. Nel XVIII secolo diventa il rovescio della medaglia dell’Illuminismo: man mano che si delinea l’idea di progresso, la noia e l’inquietudine guadagnano terreno, per sfociare, nel XIX secolo, nelle filosofie della disperazione. Schopenhauer incarna il mal di vivere intellettuale nella misuraincuiessopuòessere espresso da una mente equilibrata,lucidaerazionale; Kierkegaard rappresenta invece il mal di vivere psicologico, emotivo. Ma, chesiapessimismoassolutoo angosciadepressiva,ilmaldi vivere resta essenzialmente una questione elitaria. Dalla malinconia romantica allo spleen di Baudelaire, dalla disperazione di Hartmann al nichilismo di fine secolo, la tristezza incombe sul mondo intellettuale: «I veri grandi uomini devono provare una tristezza immensa sulla terra», scrive Dostoevskij. II XX secolo democratizzaquestatristezza, non tanto con i suoi orrori, quanto con il progresso dell’istruzioneedeltenoredi vita.L’uomosemplicediuna volta, assorbito dai problemi elementari di sopravvivenza, riceveva risposte a domande che probabilmente non si poneva affatto. Soffriva perché viveva male, non per il mal di vivere. Ma ora in Occidente non si vive più male; con il miglioramento della qualità della vita, un numero sempre crescente di persone hanno rimesso in discussione la vita stessa. Al «viver male» è seguito il malessere, e la malinconia dell’élite ha conquistato lasocietàintera. Lanostraepocabanalizza ladepressioneattribuendolaa molteplici fattori: il clima economico, con la società liberale della concorrenza selvaggia che rifiuta gli indecisi, i timidi, i solitari, i misantropi, i pessimisti; il clima sociale, che erge a modelloivincentiescludendo contemporaneamente i perdenti; il clima culturale, che esalta il narcisismo e l’edonismo, l’autonomia, la libertà assoluta nel nome della quale ognuno deve «realizzarsi» da solo. Tutto ciò porta alla «società dello stress»,pressionepiùfortedi quella che consisteva nel seguire una via imposta, poiché chi fallisce non può cheprenderselaconsestesso. La società dei diritti senza doveri aggiunge inoltre le proprie angosce: angoscia della scelta permanente, angoscia del fallimentocolpevolizzante,in amore come negli affari, angoscia della rivalità, della presenza libera degli altri società di tutti i timori e di tutte le paure. Dopo il disincantodelmondo,cheha smascheratotuttiimitietutte le illusioni, l’individuo si ritrova solo di fronte al proprionulla.Nonsonopiùi rivoluzionari a minacciare la società,maidepressi. La società postmoderna è una terribile macchina di produzionedelladepressione. Certo, la scienza ha mostrato cheilfenomenodepressivoè un problema di chimica cerebrale, una mancanza di neurotrasmettitori, confermando quindi che tale fenomeno esisteva anche nel passato, proprio come il cancro, che un tempo era chiamato con altri nomi. Non sapremo mai se i grandi malinconici e accidiosi dei secoli passati mancassero di serotonina,maèevidenteche avessero più facilità di inserimento in una società che offriva consolazioni religiose e che valorizzava la penitenza, l’austerità, l’ascetismo, l’autoaccusa, e anche una certa forma di tristezza cristiana.Soloicasipiùgravi attiravanol’attenzione. La società edonistica e umoristica moderna contribuisce al contrario a mettere in evidenza il depresso,aadditarloconaria dirimproverocomeelemento di disturbo nell’atmosfera di gioia convenzionale e superficiale. Nell’èra della contraddizione, dell’atteggiamento cool e soft,deldinamismomotivato, della comunicazione senza complessi,ildepressosinota e si colpevolizza. Egli ha tuttoperesserefelice;senon loè,nonpuòcheesserecolpa sua.Difronteaquesticasidi tristezzainvincibile,lasocietà èdisarmata.Qualirimedipuò offrire, se non gli antidepressivi? Come stupirsi deldilagaredelmaldivivere edell’aumentodelnumerodi suicidi, e soprattutto dei tentatividisuicidio? Le vittime del mal di vivere psicologico condividono in generale i valoridisiffattasocietà:sesi sentono in colpa è appunto perché non riescono a mostrarsi all’altezza delle esigenze del mondo circostante rispetto alle modalità dello stato d’animo edonistico. Non meno importante, e giudicato ancora più severamente, è il mal di vivere intellettuale, quellodeisemplicipessimisti che rifiutano il modello culturale e sociale contemporaneo e vedono nel camminodellaciviltàfondate ragioni per allarmarsi. Razionali e lucidi, essi annunciano le sventure, e gli eventi danno loro spesso ragione. Essi sono quindi considerati pericolosi, poiché ilmiglioramentodellivellodi istruzione non può che estendere la loro influenza. Qualsiasi essere umano che inizi a riflettere è unpotenzialepessimista. Come un organismo biologico,lasocietàsecernei propri anticorpi per lottare contro i virus e i microbi distruttori, in questo caso i depressi apatici e gli intellettuali pessimisti, agenti di disgregazione del morale generaleedeltessutosociale. Oltre ai farmaci, efficaci sui neurotrasmettitori ma impotenti contro il pessimismo, l’arma più temibile contro il mal di vivere è l’infantilizzazione degli individui attraverso l’azione di multimedia semprepiùpotenti.Nelnome della gioia di vivere, assistiamo a una gigantesca regressione culturale e intellettuale. La mondializzazione dell’istupidimento è cominciata: i suoi attori si adoperanoatenerelontanele problematicheeilbisognodi riflessione occupando il tempoliberodellemassecon ogni sorta di gioco. La tecnologia procura i mezzi necessari, dal cellulare che permette di parlare ovunque per non dire niente e di ricevere informazioni inutili attraverso Internet, fino ai computer e sofisticati apparecchi televisivi che focalizzano l’attenzione delle folle sul virtuale e l’aneddotico, lasciando la realtà e le cose importanti nelle mani di dirigenti che soddisfano così le loro fantasie di potere. La società consumistica, favorendo la demoltiplicazione di bisogni sempre più futili di cui procura la soddisfazione immediata, contribuisce a mantenere un clima euforico eunafalsaideadiprogresso, sedando le coscienze e scacciando la noia, al prezzo di una regressione umana a livello biologico. La questionedelsensoglobalesi dissolvenelperseguimentodi innumerevoli piccoli bisogni artificiali. Le domande sorgono nel momento in cui le necessità vengono soddisfatte: occorre quindi fare in modo che ne nascano incessantemente di nuove. Persino i detrattori del sistema partecipano a questa regressione, proponendo facili risposte alla domanda sul senso globale-unarispostachiarae semplicistica che seduca gli animiangosciatidallalibertà. Due secoli e mezzo dopo l’Illuminismo,laprogressione sconcertante di convinzioni irrazionali è significativa della reazione contro un mal di vivere dilagante: dietro al successodell’astrologia,della preveggenza,dellesette,degli integralismi, si ritrova negli adepti la volontà di alienare volontariamente una libertà troppo pesante da sostenere, generatrice di angoscia, aggrappandosi a un credo semplicisti-co,deterministico, checonsentediattribuiretutti gliavvenimentiaunapotenza esterna. Il fatalismo consola, dicevaSchopenhauer. Il progresso umano ha liberato il pensiero, ma allo stessotempohaincrementato l’angoscia di questo pensiero che si ritrova solo con se stesso,soloelibero.Daquiil malessere, mal di vivere che un tempo solo le menti eccezionali conoscevano, e che oggi coinvolge intere folle. Il progresso del pensiero è inseparabile dal progresso del mal di vivere; pertalemotivosiinsinuaora la tentazione di tornare indietro, di una regressionedelpensieroverso l’animalità (creare continuamente bisogni artificiali per assorbire la mente nel perseguimento della loro soddisfazione), verso l’oscurantismo (fissare la mente su credenze semplicisticheerassicuranti). Ecco più o meno a che punto siamo. Una sorta di bivio,diincrociodeicammini fra l’idiozia e la depressione, fra un avvenire di imbecilli felici o di intellettuali depressi. L’autore di queste righe, si sarà capito, preferisce ancora la seconda soluzione. Mi sembra possa essere la giusta strada dell’umanità, poiché la grandezza dell’uomo non consistenell’esserefelice,ma nell’essere consapevole, lucido. Si prevede quindi un aspro scontro fra i sostenitori delle duecondizioni. Tuttaviaèlecitochiedersi seesistaunaterzapossibilità: inchemodol’uomopotrebbe diventare contemporaneamente più consapevole e più felice? Siamo onesti: ci sono sinceramente più motivi per essere ottimisti che pessimisti? Certo, piccoli rimasugli di felicità galleggiano sull’oceano delle sofferenze. Far finta di credere che sia possibile migliorare questa situazione, quando è già stato fatto per migliaia di anni e quando, sempredamigliaiadianni,la sofferenza e la morte hanno sempre vinto tutte per battaglie, è il colmo della malafede. Allora, invece che sognare beatamente e proclamarechelavitaèbella, insultando folle di esseri sofferenti, guardiamo in faccialarealtà:siamoqui,sei miliardidimicrobiperdutisu un pianeta inquinato, in un universo infinito, fra i due infiniti del tempo, come diceva Pascal. Prospettiva esaltante, certo, ma piuttosto spaventosa! Siamoquindigrandinella nostra infelicità, senza rinunciare a ciò che, per il momento,cirendesuperioria tuttol’universo:laragione.E ricordiamolalezionedituttii malinconici e di tutti i depressi: il mal di vivere è forse la sola ragione per vivere, in quanto segno del progressodelpensieroedella coscienza. La grandezza dell’uomo, in fondo, sta anchenellesueferite. Indicedeinomi AbelardoPietro,62. AbùMasar,43. AckermannLouise,218. AdamTheScot,43. Adriano,29. AgambenGiorgio,41,95, 285. Agrippa di Nettesheim (dettoEnricoCornelio),75. AichingerIlse,266. AlaindeLille,44. AlbertoMagno,49. Alberti,144. AlbertiRomano,77. Alcabizio,44. Alcuino,41. Alembert Jean Le Rond d’,150. Alessandro di Hales, 45, 58. AlexanderNeckham,49. Argenson Marc Renée de Voyerd’,149. Argenson René-Louis de Voyerd’,151,174. Aristotele, 16-17, 25, 27, 30, 43, 49, 63,73,76-77,84, 242,248. Arndt Johan-Christian, 172. AronRaymond,322. Arrieta(dottor),198. ArtaudAntonin,308. AsclepiadediBitinia,33. AtticoTitoPomponio,20. AubignéAgrippad’,100. Agostino (santo), 58-59, 62. AuloGelilo,17,34. Ausonio,40. Avicenna,48. Amiel,147,166. AnatrellaTony,306. Anassagora,31,49. Andreas Zamonetic (cardinale),55. Andry(dottor),144. Antistene,26. Antonio(imperatore),28. AntoninoilPio,29. Archigene da Apamea, 34. AreteodiCappadocia,34. Bachaumont Louis Petit de,149,169. Bacone Francesco, 78, 104. BadiouAlain,275. Baechlerjean, 313,317- 319,321-322. Ballanche Pierre-Simon, 197. BarrèsMaurice,268. Barruel(abate),169. BartheFélix,249. Barthélémy Jean-Jacques (abate),159. BartolomeoAnglico,45. BartonRalph,312. Baudelaire Charles, 221223,326. BayetAlbert,250-252. BeardGeorgeMiller,248. BeaumontFrancis,79. Beausobre,157,163. BeauvoirSimonede,280, 282. BeckAaron,301. BeckettSamuel,266-268, 275,308. BellayJoachimdu,101. Bénichou Paul, 213, 216, 220. BoswellJames,182-192. Boulainvilliers,136. Bourdaloue Louis, 124, 190. Bourdin,252,254. BourgetPaul,36-37,244, 268. Bourquelot,254. BousquetJoe,283. BowlbyJohn,301. BrandtMike,312. BraudMichel,279. BretonAndré,160,263. BennGottfried,265. BenthamJeremy,207. BenvenutodaImola,56. BerdiaevNicolas,240. BérégovoyPierre,312. BergmanIngrid,312. Berlioz Hector, 221, 223, 233. BernardSilvestre,44. Bernardo di Chiaravalle (santo),63. Bernis François de (cardinale),140. BertrandDominique,219. BérullePierrede,126. Bésenval(baronedi),151, 157,164-165. BettelheimBruno,283. BiamontiFrancesco,269. BichatXavier,139-140. BlackmoreRichard,144. BlondelJean,151,161. BlountCharles,156. Boccaccio,56. Bodinjean,104. Boehme,264. BoerhaaveHermann,143. Bolingbroke Henry Saint John,156. BonafouxPascal,68. Bonaparte Luigi Napoleone,201. Bonaventura (santo), 5152,58,60. Borromini Francesco Castelli,121. BoryJean-Louis,312. Bossange,250. BossuetJacquesBénigne, 159. Brierre de Boismont Alexandre,254-255. BrightTimothie,78,101104,171. BronteAnne,197. Bronté Branwell Patrick, 197. BrontéCharlotte,197. BrontéEmilyJane,197. BrownJohn,146. BruegelPieterilVecchio, 70-71,98. BrunoGiordano,65. Bruto,28,90,168. Büchner Georg, 196-197, 209. BuffetBernard,312. BuffonGeorges,143. BurkeEdmund,146. BurnsRobert,197. Burton Robert, 65,7778,91,93,101, 103-118, 134, 139,141, 184,190, 248, 297298,305,326. BuzzatiDino,273. Byron George, 106, 194, 196,201,207,220. CabanisPierre,252. CalaferteLouis,279-280. Calmeli,252. Calvino,72. CamoensLuisde,101. Campanella Tommaso, 104. Camus Albert, 217, 223, 241-242,274,282. CarcoFrancis,280,283. Cardano Geronimo, 66, 68. Cartesio,121-122. Casanova Giovanni Giacomo,160,182. Cassio,28. Catone, 24, 26, 28, 90,168,199,252. Catullo,20. CavalcaDomenico,56. CavalcantiGiovanni,72. Cazauvieilh,254. Ceccod’Ascoli,43. CelanPaul,267. CelliniBenvenuto,68. CeltesConrad,93. CervantèsMiguelde,104. Cesario di Heisterbach, 52,55. Challemel-Lacour Paul Armand,232. ChamfortNicolasde,154. CharcotJean-Martin,248. CharronPierre,91. Chateaubriand François René de, 137-138, 193-195, 198-199,203-205,254. Chatterton Thomas, 173, 179,199,214. CondillacEtienneBonnot de,137,188. CondrenCharlesde,127. Congreve William (sir), 166. Constant Benjamin, 194, 202-203. CopernicoNicola,65. Costantinol'Africano,4749. CostePierre,136. CranachLucas,85-86. Crawford,168. CruikshankIsaac,160. DagermanStig,283. DalìSalvador,264. Dalida,312. DanieldeMorley,44. DanielSamuel,79. Dante Alighieri, 45, 5657,63.Daquin,145. Davidd’Asburgo,51,58. DavidsonRichard,302. Deffand (marchesa di), 138,159-160,177-178. DekkerThomas,79. Chénier,150. Chesne de la Violette Josephdu,83. Cheyne Georges, 145146,166,185. Choiseul Madame de, 178. ChristiandeStablo,57. Ciaikovskij Piotr Ilitch, 223. Cicerone,20,31. CinodaPistoia,56. Cioran Émile Michel, 269-270, 274, 276-278, 283, 325. ClaeszPieter,120. Cleante,31. Cocteau Jean, 266, 280, 283. CohenAlbert,283. ColeridgeSamuelTaylor, 173,194. Collobert Danielle, 281, 283. ColomboCristoforo,65. Comte-Sponville André, 322. DelacroixEugène,201. DeleuzeGilles,85. Delisle de Sales, 159, 162,173. DellaPortaGiacomo,67. DelumeauJean,70,91. DelvauxPaul,264. Democrito, 12,14, 76, 100,113,160. Demonax,31. Denis(madame),174. DennyWilliam,120. DeprunJean,135. DewaerePatrick,312. Diderot Denis, 138, 140141, 149-151, 154-155, 159, 162-163. Diogene(ilCinico),239. Diogene Laerzio, 12, 26, 31. DixOtto,263. DonneJohn,78. Dorat,150. Dostoevskij Fedor, 98, 239,241-242,244,326. DrieuLaRochellePierre, 283. Dubois de Rochefort Guillaume,163. DubuffetJean,264. DuCampMaxime,221. DucisJean-François,150. Dufour Jean-François, 142. Duguet(abate),125. Du Laurens André, 78, 82,106. DumasAlexandre,251. Dürer Albrecht, 6566,71,77,79,85, 91, 93-96, 106,224. Durkheim Émile, 203,214,249,255-261. Dutil(dottor),248. FedidaPierre,308. FedericoII,57. Feller,169. FénelonFrançoisde,190. Ferguson Harvie, 131132,134,200,239. Fernel,83,111. FerrandJ.,78. FerrarisLucien,127. FerrerNino,312. FerruGuillaume,250. Feucher d’Artaize, 141, 153. Fichte Johann Gottlieb, 197. Ficino Marsilio, 18, 67,70,72-74,76,90,94,96. Fitzgerald Francis Scott, 267. Flaubert Gustave, 220- 221. Eckhart,264. EinsteinKarl,265. Eliano,32. Elvezio Claudio Adriano, 163. Empedocle,13,16. Engelke,265. EnricoIV,80-81. EnricoVIII,97. EnsorJamesSydney,248, 263. Epicuro,19,21. Eraclito,12,25,100. Erode,62. FlavioGiuseppe,27. FlegDaniel,283. FletcherJohn,79. FleuryClaude,127. Fontenelle Bernard Le Bovierde,134,159,163-164. Forthomme Bernard, 36, 40,42. Fourcroy Antoine Francoisde,252. Francesco d’Assisi (santo),52-53,55. FranklinBenjamin,188. FreudSigmund,241,284288,307. Froment (madame de), 186.FromentinEugenio,161. Erodoto,7-8,12. Eschilo,10. Eschine,27. Esiodo,11,18,76. Esquirol Jean-Etienne, 252-253. EstienneHenri,88. Euripide,11. Evagrio Pontico (santo), 35-36. EvelynJohn,166. EyHenry,324. Fahret,250,252. FavreRobert,149,155. Galbraith John Kenneth, 312. Galiani Ferdinando (abate),155. Galeno Claudio, 1415,106,112,248.Galileo,104. GallFranzJoseph,252. GallePhilippe,70. GarrickDavid,183. GaryRomain,280,283. GarzoniTomaso,83. GautierJean-Franfois,15, 270. Gautier Théophile, 94,196,213,219-220. GeliertChristian,186. Genlis(madamede),182. GérardFrançois,198. Geremia,8,10,58. Geronimo(santo),71. Giauque Francis, 278279,283. GibbonEdward,167. GilbertNicolas,152. GillrayJames,160. GiorgioIII,183. Giovanni XXII (papa), 63. Giovanni Cassiano, 35, 37-39,298. Giovanni Crisostomo, 37, 42. Giovanni di Salisbury, 62-63. GirodetLouis,198. GlasJohn,190. Goethe Johann Wolfgang von, 173, 186, 193, 198-199, 239. Goeze(pastore),173. GoldmannLucien,125. GoncourtEdmondeJules de,181-182,244. GorgiadiLentini,239. GougeWilliam,88. GoyaFrancisco,18,198. Grabbe Christian, 197, 208-209. GraccoCaio,28. GrassGünter,266. GrauntJohn,120-121. GrayThomas,196,207. GreenJulien,280. GreghFernand,267. GregorioMagno,40. GrienBaidung,70-71. Grimm,159,169,173. GriséYolande,20,33. GrosAntoine,198. GroszGeorges,263. Grozio,104. GrunbergerBéla,287. Guibelet,78. GuilelmusPeraldus,53. Guillaume d’Auvergne, 44,49. Guillaume de Conches, 47. Guillaume de SaintVictor,60. Guillemin,170. GuittonJean,36-37. GuizotFrançois,195. Hamonic Thierry-Marie, 41. Hardy,169. Hartmann Eduard von, 232-233,259,261,326. HasencleverWalter,265. HawkinsJohn(sir),191. HazardPaul,157. Heidegger Martin, 42, 269-270,273. HenrideGand,75. HerzenAlexandre,240. HeywoodThomas,79. HobbesThomas,293. HoepffnerGerard,105. Holbach Paul Henri (barone di), 154, 159-161, 168. HolbeinHans,71,97-98. Home,252. HommayVictor,255. HuartesJuan,67. HugoVictor,201,239. Huguet Michele, 178, 270. Hume David, 167, 173, 183,189. HusserlEdmund,275. HuxleyAldous,246,300. HuygensChristian,120. Huysmans Joris-Karl, 206,268. IehlDominique,209. Ildegarda di Bingen, 4647,57-58. IonescoEugène,266. Ippocrate, 13-15, 30, 84, 106,316. IsidorodiSiviglia,42-43. JacopodellaLana,56. JacquesdeVitry,52,58. JamesWilliam,247. Jamison Kay Redfield, 307. JanetPierre,248. JanssensAbraham,119. JarrickArne,172. JauffretRégis,270-271. Jerusalem(abate),186. Jérusalem Karl Wilhelm, 186. JohannisWalensis,58. JohnsonEleanor,173. Johnson Samuel, 146, 182-186,189,191. JonsonBen,79. Juliet Charles, 264, 278, 281-283. KafkaFranz,264. KandinskyVassilij,264. KantImmanuel,147-148. KarrAlphonse,250. Keats John, 106, 173, 194,196,207. KellerGottfried,232-234. KepleroGiovanni,104. KierkegaardSoren,9,42, 131-132, 200, 205, 235-239, 259,326. KingWilliam,156. Kleist Heinrich von, 193, 199. Klibansky Raymond, 16, 33-34,43,45,94-95. KlimtGustave,248. Koberger,94. KoestlerArthur,283. Kokoschka Oskar, 95, 248. KrausKarl,264. Kristeva Julia, 11, 16-17, 97-98,218-219,241-242,285286. KydThomas,79. La Boétie Etienne de, 100. LaBruyèreJeande,131. LacarrièreJacques,41. LacazeLouisde,139. LaffitteJacques,195. LaFontaineJeande,314. LagoutheLéonard,172. LagouthePascal,172. LagrenéeFrançois,148. Lamartine Alphonse de, 196,199,201,213-214. Lambotte Marie-Claude, 97,286. Lambs,106. LaMesnardièrede,78. La Mettrie Julien Offroy de,154-155. LaMotte-HoudarAntoine de,128. Lamy Bernard (padre), 122-123,137,147. LaurentYves,312. Laurentd’Orléans,45. Lautréamont (conte di), 217. LeandrodiSiviglia,40. Le Breton David, 309311. Le Camus Antoine, 142143. LecontedeLisle,217. Le Coron Charandos Louis,90. Leibniz Wilhelm Gottfried, 123,156. Leiris Michel,283-284,308. LeLoyerPierre,90. LenauNicolaus,208. Lennio,78,82,91. LenzJacob,208. Léonard Nicolas Germain,150,172. Leopardi Giacomo, 196- 197,210-213,259. LePaige(avvocato),152. Le Prévost d’Exmes François,157. LeSenneRené,97,131. Lespinasse (madame de), 178. LeVasseurThérèse,187. LévesquedePouilly,163. LeviPrimo,322. Lévi-StraussClaude,281. Lévy Maurice, 188-189, 191. Ligne (principe di), 150, 153. Lipovetsky Gilles, 290,292-293,321. LochakGeorges,271. Locke John, 135-136, 138,293.Loder,252. Logre(dottor),19. Lonsdale(Lord),191. Lorenzo de’ Medici (il Magnifico),74,97. LorryAnne-Charles,143. LouvainJean,279. Luciano,13,31,33,325. Lucilio Caio, 22-24, 25, 27,31. Lucrezia,28. Lucrezio (Tito Lucrezio Caro),19-23,33,76,90,325. LuigiXIV,120,129. LuigiXV,174. LuteroMartin,65,72,85, 88-89. Luynes(ducadi),174. Mably(abate),163. MachiavelliNicolò,104. MacLeanPaul,302. Macrobio,18. MagritteRené,264. Mailly(madamede),174. MainedeBiran,201-202. Malebranche Nicolas, 122-124,137,156. MalevitchKazimir,264. MallarméStéphane,216. Malone,191. ManfrediEustachio,134. MannKlaus,283. MarcelGabriel,275. Marco Pomponio Bassulo,31. Margherita di Navarra, 66. MariePierre,290-291. MarloweChristopher,66. MarstonJohn,79. MarxKarl,141. Marzio,29. MasarykGeorges,312. Massillon Jean-Baptiste, 124,131. MaudsleyHenry,247. Maupassant Guy de, 241, 243-244. Maupeou René Nicolas CharlesAugustinde,171. Maupertuis Pierre Louis Moreaude,153,159. Mauzi Robert, 150, 157158,176. MayerDanielle,323. MeilhanSénacde,138. Melanchthon,93. MelvilleHerbert,308. Memmio,20. Menandro,33. MendèsCatulle,217. Menodoto di Nicomedia, 33. MercadoLuis,78. Mercier Louis Sébastien, 150,162-163,169,239. Meslier(abate),239. MeuryRiflant,77. MichauxHenri,266. Michelangelo,97. MicheletJules,89. Mida(re),12. MiddletonConyers,156. MillerJohann,208. Milton,106. MirabeauHonoréde,136. MishimaYukio,312. MonroeMarilyn,312. MontaigneMichelde,68, 88,97,99-100,104-105,115, 117,243. MontalembertCharlesde, 205. MontesLola,232. Montesquieu, 146, 159, 163. Montgomery Margaret, 188. Montherlant Henry de, 266,283. MooreEdward,167. Moravia Alberto, 268269. MoreThomas,97. MoréasJean,217. MorselliEnrico,256. MunchEdvard,248,263. Murray Alexander, 45,54,56,58,60-62,78,88. MusilRobertvon,264. Musset Alfred de, 173, 193-195,213. NaipaulVidiadhar,297. NapierRichard,89. Napoleone,254. NeckerJacques,179-180. Necker (madame de), 179. Needham John Tuberville,188. Nerval Gérard de, 213, 218-220. NicolePierre,124. Nietzsche Friedrich, 234, 243-246,275. NoaillesAnnadi,268. NoelMarie,281. North(Lord),121. NossachHansErich,265. NougaretP.J.B.,153. NovalisFriedrich,197. OkadaYukiko,312. OlierJean-Jacques,127. Omero,11,18,76. Origene,35,58. Orléans (duca di), 130, 150. OrtisJacopo,199. OrwellGeorge,291. Osiander,252. Otloh di Sant’Emmeran, 50. OttovonFreising,62. OverbeckFranz,244. Ovidio,22. PagetFrancis,246. Palatina (principessa), 147,166. PaponJean,90. Paracelso,65,104. ParéAmbroise,81-82. PascalBlaise,68,99,125, 130-134, 139, 175-177, 201202,219,255,290,330. Paul Jean-Marie, 233234. Paolo(santo),35,63,156. PaveseCesare,281,283. PéguyCharles,260. PenczGeorg,71. Petrarca,69-70. PfanstillLudwig,120. PicassoPablo,264. PicodellaMirandola,70. Pidansat de Mairobert, 149. PierDamiano,50. PierdellaVigna,57. Pierleoni,74. Pierredel’Estoile,90. PietroAlighieri,56. Pietrod’Albano,50. PigeaudJackie,6,104. PigrayPierre,83. PilatoPonzio,62. Pinel Philippe, 140, 205206,252. Pitagora,13,25,31. PittWilliam,183,188. Plath Sylvia, 267, 280, 283. Platone,16-17,25-26,7374,76. PlinioilGiovane,28,32. Plotino,26,73. Plutarco,27. PoeEdgar,224. Pomme(dottor),149. PompignanFrancde,151. PopeAlexander,156-157, 175. Pompadour(madamede), 181.Porfirio,26. PostelJacques,253. Posthumus Hermannus, 71. PrettyDiane,315. PrévertJacques,228-229. Prévost(abate),157-158. PritchardColin,320. Proclo,18. ProustMarcel,268,308. Puisieux (madame de), 159. QueneauRaymond,266. Quesnay François, 141, 143. RabanMaur,57. RabelaisFrançois,104. RadicatiAlberto,167. Raffaello,77. Raguenet(abate),169. Raulin Joseph, 144-145, 149. Récamier(madame),198. RégnierMathurin,101. RégnierPaule,282-283. ReidJohn,189. Rembrandt,67-68. RenanErnest,195. RenardJules,83. Reweliotty Irène-Carole, 282. Reydelet,250. ReynoldJoshua(sir),148, 183-184. Richter Johann Friedrich (dettoJean-Paul),210. RimbaudArthur,217. RiordanJ.-J.,312. RipaCesare,119. RobeckJohann,172. RobertGrosseteste,59. RodinAuguste,224. Rolland(madame),179. RollandRomain,279. RonsardPierre,71,101. RossetClément,296. RothkoMarcus,312. Rousseau Jean-Jacques, 140-141,149, 157158,163,168,173,178,180,182183,187. RousselPierre,140-141. Rowlandson Thomas, 160. RowleyWilliam,79. Rufo d’Efeso, 14-15, 48, 106. Ruysbroeck,264. SaganFrangoise,268. Saint-MarcGirardin,251. Saint-Simon (Louis de Rouvray,ducadi),130-132. Saint-Lambert Jean Françoisde,159. Saint-Preux,168. Sainte-Beuve Charles Augustin,195,206-207,213. SalengroRoger,312. Salomé Lou Andreas, 245. SandGeorge,250. San Juan Huarte de, 67- 78. SarrazinAlbertine,281. Sartre Jean-Paul, 271, 273. SaussureCésarede,146. SavageGeorge,247. Savérien,157,164. SaviozzodaSiena,56. Schelling Friedrich von, 16,200. Schlettwein (professore), 173. Schopenhauer Arthur, 9, 117, 136, 227-232, 238-239, 243-245, 259, 261, 325-326, 329. ScotoMichele,45. Schumann Robert, 199, 223. ScreechMichael,100. SebergJean,312. Senancour Etienne Pivert de,192,160,193-194. Seneca, 19, 22-25, 27-28, 30-33, 53, 66, 103, 107,251252. SerclierJude,90. Serenus,22-23. Serse,7. Sertillanges(padre),7,9. Shaftesbury,156. Shakespeare William, 71, 79-81, 99, 103-104, 110, 187,279,308. Shelley Percy Bysshe, 194,196,207,215. ShelleyClara,196. Silvatico Giovanni Battista,78. SilversAnita,308. SinesiodiCirene,112. SmithAdam,183. Socrate,16-17,25. Sofocle,11. SollersPhilippe,241. Solomon Andrew, 34, 146,247,290,295,298,302, 305-307, 320-323. Sorano d’Efeso,34. Sorge,265. Sorrentino(ducadi),171. SpagnoliBattista,84. SpenglerOswald,265. SpinozaBaruch,136. Sporer,127. StadlerErnst,49,265. Staèl (madame de), 173, 179-181. StaelNicolasde,312. Stagirio,42. StarobinskiJean,68,82. SteenJan,120. Stendhal,209. StéphaneRoger,312. Sterne,106. Stirner Max, 232-234, 264. StoichitaVictor,68. StosskopfSebastian,120. Strabone,32. Stramm,265. StuartMillJohn,207. Styron William, 296-297, 301. SuarèsAndré,283. Sully-Prudhomme (pseudonimo di RenéFrançoisArmand),217. Surin(padre),127. Süssmilch,171. Svetonio,32. SwiftJonathan,160. SydenhamThomas,84. SydneyPhilip,78. Tacito,32. Taillepied Noèl, 84-85, 89-90. TaletediMileto,49. TanguyYves,264. TardieuÉmile,206. Tarquinio,28. TaylorJohn,156. TaylorShelleyE.,307. Temistocle,27. Teodolfod’Orléans,41. Teodoro (vescovo di Canterbury),60. Teodosio,28. Teofrasto,12. TeognidediMegera,11. Teresa d’Avila (santa), 86-87. Thiroux d’Arconville, Madame,162-163. Thomas Louis-Vincent, 322. TinnicoilCalcifico,76. Tommaso d’Aquino (santo),53,63. Tommaso di Cantimpré, 55. Tommaso di Chobham, 58. Tommaso(santo),63. ThomsonJames,79,94. Tiberio,32. TillotsonJohn,156. Timone,108. TindalMathew,156. TinguelyJean,264. Tissot,145,253. TitoAristo,32. Toaldo,145. TofflerAlvin,291. TollerErnst,265. Tolomeo,10,28,45. Tolstoj Lev, 221, 224, 239. TurgenevIvan,239-240. TraklGeorg,265. TréogateLoaiselde,150. Trublet(abate),154,161163. Twain Mark, 232, 234235. UgodiTrimberg,55. VachéJacques,283. ValéryPaul,265. VanCleveJoos,71. Van der Cruysse Dirk, 131. VanderSchoorAbraham, 120. Van Heemskerk Marten, 70. VanHooffAnton,28,3031. VanLeydenLucas,71. VanReymerswaele,71. Van Steenwyck Harmen, 120. VanVeldeBram,264. Varo,28. VattimoGianni,275. VaugeGilles,125-126. Vauvenargues Luc de Clapiersde,136. VerlainePaul,216. VettiusValens,18,28. Vigny Alfred de, 173, 195,214-215. Vincenzo de’ Paoli (santo),127-128. Virgilio,57. VollandSophie,155. Voltaire, 99, 134, 138, 157, 159-160, 168-169, 174178,182-183,187,255. Wellington Nehemiah, 89. WalpoleHorace,178. WeilSimone,283. WhyttRobert,144. WillisThomas,121. WildeOscar,221. WilmotRobert,79. WinslomForbes,253. WithersWilliam,167. Wittgenstein Ludwig Joseph,275. WolmarM.de,141. Wolpert Lewis, 208, 225, 297,300,308. WoolfVirginia,279,283. Wordsworth William, 173,196. WurtzelElizabeth,297. Wylich(generale),186. ZavattaAchille,312. Zenone di Cizio, 26, 31, 260. ZweigStefan,280,283. Indice Capitoloprimo In principio era la fatica divivere «Vanitàdellevanità...» La spiegazione filosofica: ilpessimismogreco Laspiegazionemedica:la bilenera La malinconia, il temperamento dei grandi uomini Lucrezio e Seneca, testimoni del mal di vivere romano Il taedium vitae come ragionelegittimadisuicidio La malinconia come tara psicologicaemorale Capitolosecondo La demonizzazione del mal di vivere: l'acedia medievale Nascita dell’accidia negli ambienti eremitici (Sant’Evagrio Pontico e San Giovanni Cassiano) L’accidia: la depressione deimonaci(altoMedioevo) Il vizio malinconico Una riabilitazionerelativa Il peccato di accidia, mal diviverecolpevolizzante Tristitia e desperatio, fattoridisuicidiofrailclero Le autorità spirituali e il suicidio Ambiguità della disperazionecristiana Capitoloterzo Ilsecolodellamalinconia (1480-1630) Umanesimo e individualismo come fattori diinquietudine SottoilsegnodiCrono Marsilio Ficino e Cornelio Agrippa: la riabilitazione della malinconia La moda della malinconia, dall’Italia all’Inghilterra Lespiegazionimediche I teologi contro la malinconiadiabolica Recrudescenzadeisuicidi Capitoloquarto Da Dürer a Burton: ritratto e anatomia della malinconia 1514:MelancholiaI Michelangelo, Holbein e Montaigne: tre volti della malinconia TimothieBrighteilDella melanconia(1586) Robert Burton, un depressonelXVIIsecolo LecauseLecure Capitoloquinto Pessimismo cristiano e nascita della noia nel secolo XVII La tristezza del Grand Siècle Ilpessimismogiansenista Unaspiritualitàmorbosa Noiaespiritoclassico Capitolosesto L' inquietudine degli Illuministi L’inquietudine come spintaadagire Dell’inquietudine viscerale Causeerimedi La malinconia, dal disprezzoallarinascita Ildolorediesistere Il pessimismo dell’Illuminismo Essere felici: un’ossessionedegliinfelici Lafelicità:unachimera? Lamalinconiasuicida Ilcasofrancese Luigi XV il depresso e Voltairel’inquieto Lanoiaalfemminile Boswell e Johnson: il dialogodiduedepressi L’internazionale della malinconia Capitolosettimo II male del secolo romantico: dal furore di vivere allo spleen (XIX secolo) Lanoiadeigiovani Esitazioni e contraddizioni di fronte alla morte I romantici e l’analisi del malessere Le varianti nazionali del malessere Lagenerazionemaledetta Diversità dello spleen·. Baudelaire, Wilde, Berlioz, TolstojePoe Capitoloottavo I sistemi della disperazione: il nichilismo delXIXsecolo Schopenhauer fra noia e sofferenza Hartmann,Stimer,Keller, Twain: le varietà della disperazione Kierkegaard e la psicologiadell’angoscia Ilnichilismo Dostoevskij e Maupassant:«Achepro?» L’ultima rivolta: Nietzsche Dalla derisione alla nevrastenia Losviluppodelsuicidio La spiegazione sociologica:Durkheim(1897) Maldivivereemodernità Capitolonono Una cultura del mal di vivere:modernitàeansianel XXsecolo Espressioni artistiche e letterariedelmaldivivere La noia, radice del male moderno Nausea e angoscia dell’esistenzialismo «La catastrofe della nascita»(Cioran) Ilmalessererivelato(diari eautobiografie) Il malessere esplorato dallapsicanalisi Un contesto socioculturale favorevole al maldivivere Capitolodecimo L'èradelladepressione La depressione: situazioneattuale Le spiegazioni: un fenomenosconcertante Una lucidità creatrice che disturbalasocietàedonistica Mal di vivere e comportamentiarischio Il mal di vivere troppo vecchioetroppomalato Suicidio e depressione: due diverse forme del mal di vivere Conclusione Indicedeinomi