La dimensione spirituale e religiosa alla fine della vita

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La dimensione spirituale e religiosa alla fine della vita
Capitolo settimo
La dimensione spirituale
e religiosa alla fine della vita
Laura Campanello e Giovanni Sala
La maggior preoccupazione dell’uomo non è la ricerca del piacere
o il tentativo di evitare il dolore,
ma la comprensione del senso della sua vita.
Ecco perché l’uomo è perfino disposto a soffrire,
a condizione però di sapere che le sue sofferenze
hanno un significato.
Viktor Frankl
La dimensione spirituale riguarda tutti e accompagna tutte le
fasi dell’esistenza. Non sempre l’uomo ha modo di esplicitarla. Essa
ha a che fare con l’interezza della persona e quindi con la propria
visione del mondo, con la concezione che la persona ha della vita,
della morte e con il modo di rapportarsi alla realtà e alle situazioni
che vive.
I bisogni spirituali nascono con l’uomo stesso ed evolvono con
lo sviluppo della persona. Tali bisogni possono manifestarsi come
sofferenza spirituale durante la fase avanzata della malattia, in modo
particolare con l’avvicinamento alla morte. Per dimensione spirituale
non si intende solo l’aspetto religioso o confessionale (vale a dire determinato dall’adesione a una particolare confessione religiosa), ma bensì
i più ampi ambiti di valori e convinzioni profonde che compongono la
complessità della spiritualità umana. (SICP, 2007)
Nel momento della malattia e ancor più dell’avvicinarsi della
morte, è possibile che questa dimensione, insieme alle domande di
cui è portatrice, emerga in modo più intenso e urgente, anche sotto
forma di paura, rabbia, tensione, smarrimento. Proprio per questo
non sempre è facilmente riconoscibile.
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Ma cosa si intende quando si parla di «dimensione spirituale» della persona?
Questo termine ha trovato spazio nella letteratura contemporanea, in modo particolare, a partire dalle riflessioni e dall’esperienza
di quella che è considerata una delle pioniere delle cure palliative,
Cicely Saunders (Saunders, 2008). Il suo approccio alla persona
malata è rivolto alle diverse dimensioni che la compongono e
proprio per questo, quando parla del dolore della persona, essa lo
intende come «dolore totale», volendo comprendere, con questa
espressione, il dolore non più solo fisico, ma anche psicologico,
sociale e spirituale.
La parola «spirituale» permette di far capire come [tale dimensione
comprenda] non solo [il] pensiero, ma tutto lo psichismo dell’individuo
[…]: l’individuo si eleva alla vita dello Spirito oggettivo, ossia si colloca
nella prospettiva del Tutto. (Hadot, 1988)
Esistono diverse definizioni di «dimensione spirituale», alcune
delle quali specificatamente date nell’ambito delle cure palliative.
Ad esempio, Cauzzo afferma che:
Si può intendere come spiritualità l’aspirazione dell’uomo a trovare
un senso alla sua esistenza, l’insieme delle convinzioni e dei valori
che lo guidano e in base ai quali organizza la sua vita, il bisogno di
superarsi e di tendere alla trascendenza. Questa dimensione spirituale è anteriore all’adesione a un credo religioso o all’appartenenza
a una Chiesa; essa assume la connotazione più specifica di religiosità
quando trova la sua sorgente o la sua risposta in una fede e nella
relazione con Dio e si esprime attraverso un particolare sistema di
credenze, simboli, riti, persone che fanno da mediazione tra Dio e
l’uomo. (Cauzzo, 2006)
Da questa definizione si comprende meglio quale relazione
ci sia tra la dimensione spirituale e quella religiosa, tante volte
ancora confuse tra loro anche tra chi opera accanto alla persona
malata. Risulta invece chiaro che la dimensione religiosa è parte
della dimensione spirituale, è una modalità attraverso cui la si
nutre e la si esprime.
La spiritualità è pertanto quella dimensione interiore dell’uomo che gli consente di dare senso e significato al proprio agire,
alle proprie scelte, insomma, alla propria storia, fatta di vissuti, di
desideri, di timori, di relazioni. Aiutare la persona a prendere atto
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della propria dimensione spirituale significa quindi, prima di tutto,
aiutarla a interrogarsi sui significati profondi e ultimi dell’esistenza
e, specie se non è stato fatto nel corso della vita stessa, può diventare
ancor più necessario e urgente poterlo fare nel tempo della malattia
e dell’avvicinarsi della propria morte, anche se in un momento del
genere può risultare più complesso e difficile.
È la cultura occidentale stessa ad esibire la morte in modo tale
che non sembri riguardare direttamente l’individuo se non come
spettatore di film, videogiochi o notizie di cronaca nera, mettendoci
nella condizione in cui, quando si parla o si tratta di vivere l’esperienza della propria morte o della morte di un proprio caro, ci si
imbatte nella sgradevole sensazione di mancanza di linguaggio, di
gesti, di orizzonte di senso entro cui poterla affrontare. E ci si trova
quasi completamente «impreparati a morire» o impreparati ad accompagnare il morente: «Quale constatazione più raggelante sulla
società moderna del fatto che quasi tutti muoiono impreparati, così
come hanno vissuto, impreparati a vivere?» (Rinpoche, 1994).
Accogliere e riconoscere le domande spirituali della persona
malata può condurre talvolta ad abbracciare una determinata confessione religiosa. Se c’è una «fede» l’orizzonte è maggiormente
definito, nel senso che la collocazione della questione avviene entro
ambiti, riti e possibilità che sono date dalla confessione stessa e dai
suoi «ministri». L’assistente spirituale (che non per forza è religioso,
sacerdote, ma può essere anche laico) o quanti si stanno prendendo
cura della persona malata, sono chiamati, nella misura in cui ne
venga fatta richiesta esplicita, a fare entrare in gioco quelle figure
o «ministri» propri della confessione cui il soggetto appartiene. Si
comprende che, diversamente dall’accompagnamento spirituale, che
può essere svolto da chiunque sia disposto a farsi carico delle domande legate all’esistenza e condividerle col malato, l’accompagnamento
religioso necessita invece di figure proprie: il sacerdote cattolico,
piuttosto che il pastore valdese, il monaco buddista, ecc.
L’imprescindibile compito di conoscere se stessi
I passi che conducono verso la morte sono particolarmente
difficili, sia per chi li sta compiendo, sia per chi a lui si affianca. La
morte è un evento doloroso, ineluttabile e irreversibile che accomuna
tutti gli esseri umani, ponendosi come domanda forte e imprescindi-
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bile di senso e significato per l’esistenza stessa: «Ciò di cui la pratica
filosofica deve prendersi cura è la vita nella sua normalità e, quindi,
nella precarietà del suo senso e nell’inconsapevolezza di questa
precarietà» (Màdera e Tarca, 2003, p. 42). Di più: è l’uomo stesso,
nella sua condizione di malattia, di impotenza e di riduzione delle
possibilità di vita a diventare domanda di senso per se stesso e per
gli altri. Egli si manifesta senza più maschere, con il suo bisogno di
essere riconosciuto e accolto come persona, come appello vivente
che chiede ascolto, come esigenza di presenza e bisogno di gratuità
da parte di chi lo incontra.
Il problema non è dunque comunicare la verità al malato, ma condividere la verità del malato. Una diagnosi infausta scatena meccanismi
di autodifesa e di elusione anche nei familiari e nel personale curante
e richiede un lavoro su di sé di assunzione della morte e del dolore da
parte di chi deve poi anche comunicarla e farne partecipe il malato.
Il diritto del malato a essere informato sul suo stato di salute, come
sulle medicine che gli vengono somministrate e sulle terapie che gli
vengono prospettate, va di pari passo con il dovere del medico o di chi
è al corrente della reale condizione del malato di non giocare questo
sapere come potere. Ciò che è in gioco è l’autenticità della relazione con
il malato e la verità umana, esistenziale del malato stesso: questa non
può essergli sottratta, non può essergli celata da altri che la gestiscono
contro la sua volontà. (Manicardi, 2006, pp. 49-50)
Proprio per questo è necessario che gli operatori che avvicinano il morente abbiano precedentemente riflettuto sulla propria
dimensione spirituale. Questo esercizio è infatti imprescindibile,
non tanto per offrire essi stessi delle risposte, ma innanzitutto per
saperle riconoscere, accogliere ed eventualmente rinviare a quanti
se ne possono fare carico.
Una nuova organizzazione dello spazio relazionale
Quando un operatore si rende disponibile a riconoscere nella
persona malata una domanda spirituale sta già compiendo un primo passo verso una possibile risposta: gli sta offrendo la propria
disponibilità a prendersi cura della sua vita.
La persona gravemente malata, porta generalmente sul suo
corpo i segni evidenti e premonitori dell’ineluttabile avvicinarsi
della morte. È il corpo stesso, con il suo linguaggio inequivocabile,
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a farsi strada dentro il silenzio delle due parti, e a preannunciare al
malato e al suo caro, l’avvento di un’interruzione definitiva di una
vicinanza e di un equilibrio relazionale. Per entrambi, uscire dal
ritmo dell’esistenza, fino a poco tempo prima abituale, richiede una
nuova organizzazione della vita, implica la necessità di fare bilanci
relativi alle scelte affrontate nel corso dell’intera esistenza, alle
priorità date, alla strade non percorse, alle rinunce fatte, ai rimorsi
o alle soddisfazioni, e così via.
Tutte dimensioni che nella fase finale della vita divengono
urgenti, necessitano di essere espresse attraverso le parole tanto
quanto nei gesti, nei silenzi, nel pianto e nei più disparati sentimenti
ed emozioni.
Raccogliere la memoria del passato
Avvicinare con verità l’evento della propria morte può voler dire
fare i conti, in modo concreto, con il proprio passato, senza cadere nel
nostalgico malessere di ciò che non si è fatto, detto o saputo, quanto
piuttosto raccogliere con gratitudine quella parte buona che la vita
ci ha regalato, riconsiderando cosa si ha avuto, cosa si è fatto, cosa
si è dato e quanto si è riusciti a perdonare o a farsi perdonare. Può
diventare necessario rileggere il proprio percorso di vita cercando
di fare un bilancio dei passi fatti, tentando una sorta di ri-tessitura
di senso della propria vita, per provare, quando fosse necessario,
a riconciliarsi con essa, attraverso il racconto di sé, ripercorrendo
le scelte fatte, le rinunce sostenute, le relazioni vissute e gli eventi
significativi che hanno reso ciascuno ciò che è oggi. Talvolta, però,
questo percorso può portare a raccogliere «solo» amarezza, dolore,
delusione, fallimento… Accogliere anche percorsi come questi può
diventare importante perché la persona possa sentirsi accolta per
quello che è e cercare di «darsi pace».
Questo percorso può essere fatto attraverso la ricerca delle
risorse già presenti nella persona, attraverso la riattivazione di
risposte e di domande precedentemente poste alla vita e a se stessi,
o ascoltate da altri: attraverso, insomma, una specie di rivisitazione
dei propri vissuti attuali e passati, delle diverse risposte esaminate
nel corso della vita intera.
La domanda di senso ha a che fare, in prima battuta, con il
malato ma, essendo ogni storia fatta soprattutto di relazioni, riguarda
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anche il parente tanto quanto l’operatore, ciascuno con il proprio
ruolo, le proprie capacità e possibilità di stare dentro la relazione
stessa. L’accompagnamento spirituale ha a che fare, in qualche misura, con tutte le persone coinvolte nella storia presente e passata del
morente. L’operatore può quindi cogliere l’opportunità, situandosi
entro la relazione tra paziente e parente, di stare dentro un dialogo
diretto, di farsi «tramite» di quelli indiretti, e soprattutto di ascoltare
i desideri di entrambe le parti: da una parte accogliendo le necessità
e le modalità con cui il malato sceglierà di vivere la propria malattia
e la propria morte; dall’altra evitando di affaticare o snaturare le
modalità e le necessità del parente che, ove presente e disponibile,
deve restare attivo e collaborante nel processo di cura.
Il «come» della vita e della morte
Il «come» morire, quindi, ha a che fare con il «come» si è vissuti. Riguarda la possibilità e l’opportunità per ciascuno di trovare
la propria «via» verso la morte, legata alla «via» della propria vita.
Poter scegliere «come» morire può assumere diverse modalità molto
concrete: da soli, in silenzio, accompagnati da un dialogo, lasciando
dei propri scritti, dando sfogo al pianto, sistemando pendenze concrete o delegando qualcuno a farlo (finanze, confessioni, attività).
C’è anche un «come» che lascia dietro di sé un vuoto incolmabile
generato da spaccature che non si sono più ricomposte, da fallimenti da cui non ci si è riscattati, da amarezze che hanno portato
a una chiusura sempre più inaccessibile. E anche questo va accolto
e accettato anche dall’assistente spirituale.
D’altra parte, l’avvicinarsi della fine della vita può riscattare
da una vita naufragata e consentire la capacità, e forse la necessità,
di vivere l’oggi, di vivere intensamente il momento presente, unico,
tanto prezioso in quanto limitato: è il tempo in cui la vita si vede «per
quella che è», le cose si vedono «come sono», e si impara magari
anche a consegnarsi con libertà a quel destino ineluttabile che tutti
ci accomuna e che per qualcuno ha il volto del Trascendente:
Straordinaria trasformazione. Le tue forti, attive mani sono legate.
Impotente, solo, vedi la fine della tua azione. Ma tu prendi fiato, e ciò
che è giusto poni, silenzioso e consolato, in mani più forti, e ti senti
appagato. Solo un istante attingesti beato alla felicità, e poi la consegnasti a Dio, perché le desse splendido compimento. (Bonhoeffer,
2002, p. 532)
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Accanto al malato: i gesti della cura
Non c’è carità più grande che aiutare una persona a morire bene
(Rinpoche, 1994)
Stare accanto alla persona morente richiede la disponibilità
al dialogo e insieme invoca la forza di una vicinanza. Un dialogo
capace di offrirsi nelle sue molteplici forme, fatte di parole, di gesti,
di simboli ma anche di silenzi e di attese. Una presenza amica in
cui lo spazio di questo incontro domanda che sia profondamente
autentico, capace cioè di custodire con l’altro quelle domande e quei
sentimenti veri che riguardano entrambi (la persona malata come
colui che se ne prende cura, sia esso un familiare o un operatore),
abitando quella dimensione che tanto li accomuna nel limite e
nella vulnerabilità quanto nelle possibilità. Infatti, se morire è una
forma di «perdita di controllo» su noi stessi e sul mondo, allora
nella morte dell’altro siamo chiamati ad accogliere questa verità che
inequivocabilmente riguarda tutti, e a condividerla nella forma della
prossimità di chi sceglie di camminare «stando accanto» (Bianchi
e Manicardi, 2000).
La morte dell’altro mi interroga sulla mia morte e le domande
dell’altro hanno bisogno di essere accolte da chi – precedentemente
– abbia compiuto questo lavoro su di sé, abbia già preso in considerazione quali sono gli aspetti e i valori capaci di dare senso alla
sua vita. L’anticipare questo compito esistenziale diventa una delle
condizioni necessarie che rendono capaci di un ascolto autentico e
serio di quanto si agita nel cuore dell’altro, senza pretendere di dare
risposte: «Non possiamo accompagnare gli altri in un territorio che
non abbiamo esplorato in prima persona» (Ostaseski, 2006).
Alcune indicazioni pratiche
Elenchiamo qui di seguito, anche attraverso alcuni esempi (ma
che, come si può ben comprendere, non esauriscono un argomento
molto vasto), alcune delle tante forme concrete con cui è possibile
avvicinare il malato e stargli accanto.
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Ascoltare…
Il primo modo di stare accanto al morente è la disponibilità ad
un ascolto vero. «…Un’espressione che spesso cito: “Sto cercando
qualcuno a cui rivolgermi che dia l’impressione di sforzarsi di capirmi”» (Saunders, 2008).
Spesso avviene che le domande più importanti vengano fuori
nel momento in cui meno ce lo aspettiamo, e proprio perché improvvise, sono capaci di scatenare in noi tutta una serie di emozioni
quali la paura, l’imbarazzo o la voglia di fuggire o di rispondere
velocemente… In realtà, queste sono proprio le domande che necessitano di essere accolte.
Per esempio: «Muoiono tante persone qui?», «Sento che ormai
non ce la posso fare più!», «La vuoi capire che sto morendo?...».
Sono domande come queste a spiazzare il parente e l’operatore, e
gli eventuali tentativi di risposta ci rivelano il bisogno di difenderci
dall’entrare in un «campo minato», quello della morte.
Sappiamo invece che le risposte «di fuga» possono bloccare
il dialogo: «Ma no, qui non muore nessuno», «Dài, vedrai che tra
un po’ ti rimetti e starai sicuramente meglio»; «Ma cosa dici? Non
devi assolutamente pensare queste cose».
In questo modo non stiamo aiutando l’altro a prendere consapevolezza di quanto sta accadendo, ma forse ci stiamo solo difendendo da qualcosa che in fondo fa male anche a noi. Rischiamo
così di precludere al malato la possibilità di chiudere la propria
esistenza esprimendo quei bisogni che sente necessari per dare
senso anche al suo morire.
Riconoscere e accogliere domande come queste significa offrire la possibilità di un rilancio, manifestare la voglia di stare con
l’altro dentro uno spazio che potremmo sentire decisamente poco
familiare. Non è forse più umano — e quindi vero! — dare all’altro la
possibilità di stare dentro quel mondo, spesso oscuro, della propria
malattia e dell’avvicinarsi della morte avendo qualcuno accanto?
Magari solo per rendere questo tratto di vita un po’ meno ostile, per
dargli la sensazione di sentirsi meno solo, oppure semplicemente
per dirgli con la propria presenza che, forse anche con un fare un po’
«goffo», «Ci sono!» e ci sto a rimanerti accanto, anche se il «buio»
fa paura anche a me.
Può risultare differente dire: «C’è una ragione particolare che
ti ha spinto a farmi questa domanda?», «Senti che le tue condizioni
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fisiche sono peggiorate? C’è qualcosa che ti sta particolarmente
preoccupando?», «Senti il bisogno di parlare con qualcuno che
ti possa aiutare in questo momento ad affrontare quello che stai
vivendo?»… Lascio aperti i confini, le possibilità di risposta, gli
rimando che — se vuole! — può e possiamo parlare apertamente di
quanto sta accadendo; o magari possiamo offrirgli la possibilità di
un interlocutore disponibile a dialogare con lui, specie se desidera
un ministro della sua religione.
Gli stiamo regalando l’opportunità di esprimere e insieme
esplorare quel complesso mondo di sentimenti, di emozioni e di
bisogni che abitano, spesso in modo confuso, l’anima di chi vive
l’avvicinarsi della morte.
Cosa dire e cosa non dire…
Anche il nostro silenzio può rivelarsi spazio che accoglie, che
offre ospitalità. Ci sono silenzi che se vengono frettolosamente
riempiti o evitati ostacolano la possibilità di proseguire il dialogo.
Si dice che non è sempre facile stare in silenzio; ed è vero! Chi ha
provato a vivere tempi prolungati di silenzio di fronte all’altro avrà
sperimentato senz’altro un po’ di imbarazzo, senso di impotenza,
disagio... Quel silenzio gli avrà sussurrato nella mente: «Vedi che
neanche tu hai una risposta? E allora a cosa servi?». E allora mi domando: «Sono capace di riconoscere in me questi sentimenti? Li so
accogliere? Sono disponibile e sperimentarli? Ma soprattutto me la
sento di stare davanti all’altro assediato da questi sentimenti?».
C’è silenzio e silenzio. Sono almeno due le modalità con cui
possiamo vivere l’aspetto significativo e promettente del silenzio.
Il primo riguarda quelle soste che si creano nel corso di un
dialogo. Non sono affatto inutili. Chi ci sta davanti, durante questa
sosta, non sta fermo: la sua mente continua a interrogarsi, a esplorare
il proprio mondo interiore fino a fare affiorare nuove questioni o
emozioni. È uno spazio che si riempie, ed è l’altro a riempirlo nella
maniera di cui si sente capace, nella modalità che gli è propria.
Ancora una volta, non siamo noi a dare le risposte: è l’altro che «si
fa risposta» alle sue domande.
Ma c’è anche un’altra forma di vivere il silenzio che è quello di
chi non ha nulla da ribattere, un modo indiretto con cui possiamo
dire: «Hai ragione tu!». Di fronte a sentimenti scomodi come la
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rabbia dell’altro, la ribellione, l’impotenza, la delusione, il silenzio
può diventare «parola» eloquente, che conferma all’altro tutto il
diritto di rivelare, nel modo che gli è proprio, quel mondo così
confuso e agitato che porta dentro di sé. Magari avremo perso — è
il caso di dirlo: per il bene dell’altro! — la possibilità di sentirci
«bravi», all’altezza della situazione con una risposta a tutto, ma la
persona malata avrà ottenuto la possibilità, che magari con altri
non osa concedersi, di esprimere il proprio dolore, di lasciare che
il «temporale» esploda con la sua forza dirompente, senza sentirsi
emarginato o consegnato alla propria solitudine.
A questo proposito ci sono tante parole che spesso è meglio
non dire!
La persona malata non ha bisogno dei cosiddetti luoghi comuni:
meglio un «sano» silenzio. A volte può addirittura diventare necessario riprendere alcune espressioni che «insistentemente» è lo stesso
malato a ripetere. Espressioni del tipo: «È volontà di Dio», «Speriamo», «Che cosa ci posso fare, è così!». Parole che apparentemente
non dicono niente, ma possono anche dire molto. Perché non provare
a rimandare con domande di questo tipo: «In che senso vivi questa
esperienza come volontà di Dio?». Perché — sempre che quello di
far soffrire l’uomo sia davvero intenzione di Dio! — frasi «tipiche»
come quelle che riguardano il volere di Dio, più che esprimere un
senso religioso rivelano una forma di rassegnazione in qualcosa che
(tanto più se questo «qualcosa» è la morte stessa) si può solo subire
passivamente. Ripetere insistentemente «speriamo» da parte del
malato può diventare anche ritornello «insopportabile» per chi lo
ascolta o espressione che cade inutilmente nel vuoto. Ma se provo a
raccoglierla e a restituirla con domande come «Cosa significa per te
sperare?», può aprire a spazi sconfinati, che rivelano i diversi volti
della speranza, tra i quali magari quello che è capace di offrire a lui
«spazi di luce» nell’avvicinarsi della propria morte.
Come si può notare, i confini tra la dimensione spirituale e
quella religiosa spesso sono molto sottili e anche le questioni che
riguardano la personale adesione a una determinata fede hanno
bisogno di essere meglio comprese, sia da parte del malato sia da
parte di chi se ne prende cura.
Ci sono gesti e riti con cui le diverse confessioni religiose sostengono il doloroso percorso di chi vive la malattia.
Non è raro che l’intervento del sacerdote (ci muoviamo in
questo caso in ambito cattolico) attraverso l’amministrazione di
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alcuni sacramenti quali la confessione, l’eucaristia o l’unzione degli
infermi, portino dei benefici e siano di grande sollievo alla persona
malata.
Occorre talvolta essere attenti ai contesti e alla cultura di chi
si incontra. Esempio tipico è quello legato al sacramento dell’unzione, che si presta ancora oggi a molte forme di fraintendimento.
Esso è soprattutto sacramento per il malato e non necessariamente
per chi «sta morendo»; è balsamo di sostegno nella sua malattia,
segno della vicinanza di Dio a chi vive la sofferenza. Ma il retaggio
della cultura precedente ce lo presenta come sacramento per chi
non ha più alcuna speranza di vita. Ragion per cui può risultare
«forzato» proporre questo sacramento al malato se non è stato
precedentemente preparato a comprenderne il significato. Che
senso ha «mettere angoscia» quando la nostra presenza dovrebbe
essere di sollievo per il malato che non sempre è a conoscenza della
sua imminente morte?
Ci sono poi richieste che provengono direttamente dai parenti
piuttosto che dal malato: in questi casi è sempre opportuno verificare, soprattutto se il malato è sedato o in stato di totale incoscienza,
se quanto viene domandato è in accordo con la sua volontà, con
il suo «modello» di vita. Sono situazioni sempre molto delicate,
soprattutto per il contesto nelle quali si verificano, perché occorre
avere riguardo e discrezione nei confronti del malato tanto quanto
del parente; anche se di fatto l’ultima parola dovrebbe essere di chi
riceve il sacramento.
Ma anche quei gesti che racchiudono in sé significati profondi possono rivelare il loro lato ambiguo se vissuti nella fretta, se
proposti nel momento sbagliato o, ancora, se accolti dal malato
stesso nella più totale incomprensione. Crediamo sia opportuno
non nascondere che anche la bontà di una pratica religiosa può
nascondere il suo lato oscuro, soprattutto quando diventa, per chi
la propone, un modo per non manifestare il suo disagio di fronte
alla persona malata.
Proprio perché portatore di significati profondi, un rito non
può e non deve essere «subìto» dal malato; occorre la delicata e
discreta modalità di chi sa valutare in modo adeguato i tempi e
l’opportunità, o meno, di una determinata pratica, fosse anche un
gesto semplice e quotidiano come una preghiera.
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Accogliere i sentimenti…
A volte capita che l’operatore sanitario sia preso dalla fretta
di portare a termine il proprio lavoro, stretto nei tempi da mille
urgenze. Ma i sentimenti del morente non hanno la cadenza delle
terapie o non emergono in base alla disponibilità di chi gli è accanto: «quando arrivano… arrivano», e non è possibile contenerli.
Cosa succede se la persona piange, se ha bisogno di dare sfogo
alla propria rabbia, se una preoccupazione la assilla e ha bisogno
di manifestarla? Fortunatamente la nostra disponibilità di tempo
non sempre è vittima degli impegni e allora, quando ci è possibile,
diventa importante lasciare che questi sentimenti possano uscirsene
così come il singolo è capace di consegnarli, magari in modo anche
scomposto e poco chiaro.
Anche il pianto può imbarazzare e ascoltarlo può far vivere una
sorta di impotenza in chi sta vicino al malato. «Dài, non piangere,
devi reagire!» è una frase che nasconde, dietro il velo di un’apparente
buona intenzione (quella, cioè, di sottrarlo alle lacrime…), la richiesta
all’altro di interrompere «qualcosa che mette a disagio».
Incoraggiamenti dati al malato affinché reagisca possono
diventare decisamente frustranti per lui, soprattutto quando
questo «invito» risulta totalmente estraneo alle sue volontà e/o
possibilità:
E devi dar fiducia ai medici e al tuo corpo. Dipendi completamente
da loro. Dai medici, per le cure che ti prestano. Dal corpo, perché è
dalla sua capacità di sopravvivere che dipende la tua. Ed è estranea
alla tua volontà: il corpo segue la propria legge. Si dice: conta il morale,
lo psichico è importante quanto l’organico. Ed è vero. Ma questo non
toglie nulla a ciò che ho detto: la ripresa delle funzioni organiche. C’è o
non c’è; la rimessa in ordine avviene o non avviene. Di più: chi s’illude
che lo psichico, come si dice, sottostà semplicemente alla legge della
volontà? Costui non si conosce ancora. (Bellet, 2000)
Richieste inadeguate di questo tipo rischiano di caricare l’altro della «colpa» di non essere capace di «reagire», oltre al fatto di
dover già fare i conti con la propria morte.
Ci sono contesti nei quali anch’io posso trovarmi a piangere con
lui o semplicemente mi sento di comunicargli la mia commozione per
quanto mi ha appena detto. Perché negar-ci («dono» per entrambi)
questa possibilità, soprattutto quando tutto ciò non nasce dalla
«disperazione» ma da un com-patire che si scopre essere autentico,
vero, e non di rado l’unica e migliore strada possibile?
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Un corpo che chiede rispetto…
La persona malata ci interpella prima di tutto attraverso il
corpo. La necessità che qualcuno se ne prenda cura fa sì che siano
in molti — a volte troppi? — a farne da «padroni»: l’intimità può
venire turbata, lo spazio riservato della stanza è transitato in continuazione da operatori e parenti, la posizione orizzontale segna
inequivocabilmente l’asimmetria imposta nelle relazioni. Eppure è
proprio attraverso il corpo che ci possono venire regalati dal malato
gesti eloquenti, portatori di significati profondi, laddove proprio la
parola si scopre tremendamente inadeguata.
Ci sono tante piccole attenzioni di cui un operatore può — deve?
— diventare consapevole nel prendersi cura della persona malata.
Le camere degli ospedali hanno una porta alla quale è possibile
bussare e aspettare che qualcuno ne consenta l’accesso.
Nella fase terminale spesso accade che la persona malata sia
completamente allettata; mettersi sullo stesso piano stando seduti
accanto a lei è sufficiente a ridurre parzialmente l’asimmetria della
relazione.
Quante volte in una giornata l’operatore «tocca» il corpo
della persona malata per assisterla? Cosa succederebbe se quello
stesso operatore si concedesse, ad esempio, di prenderle la mano
per riconoscersi con lei uomo vulnerabile, offrendole ospitalità e
disponibilità a prendersene cura come essere umano?
Riconoscere e accettare la propria impotenza…
Può sorgere una domanda di fronte a chi è gravemente malato
e vicino alla propria morte: «Che cosa posso fare per aiutarti? Mi
sento così inutile!». Questa domanda se la pone più il parente che
l’operatore. Ma quando è quest’ultimo a chiedersi cosa fare, e constata che il proprio spazio di «azione» sull’altro si è ristretto e che
anche le «risposte» medico-scientifiche non sono più in grado di
offrire soluzioni… ebbene, forse si sta facendo i conti con la propria
impotenza!
È vero; è possibile far finta di niente e passare oltre! Di fronte
alla disperazione dell’altro, di fronte alle sue «eccessive» paure, di
fronte a quelle domande che non hanno risposta, verrebbe da dire:
«Ora la mia parte è finita; non so proprio che dire; mi ritiro».
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In effetti l’impossibilità di dare risposte, la perdita di controllo
sull’altro può arrivare a farci sentire totalmente inutili. Forse, proprio in questi momenti, è importante imparare ad «esserci», senza
particolari pretese, provando ad evitare la fuga. Anche la nostra
presenza parla: «comunque io sto con te, non ti abbandono, non
ti lascio solo».
Davvero crediamo sia possibile accogliere la propria impotenza
e provare a cambiare la domanda in questo modo: «Che cosa/come
posso «essere» per aiutarti?». Il significato di fondo è completamente
diverso: la relazione si rivela «altra»! Forse non si sarà in possesso
di strategie infallibili, ma offrirsi all’altro con umanità, accoglierlo
per ciò che è, fargli sentire che la sua vita ha per noi comunque
importanza, ebbene, ci sembra che non sia cosa da poco!
Conclusione
Solo quando saremo disposti a lasciare
che il loro morire ci aiuti a morire bene
potremo aiutare loro a vivere bene.
Quando possiamo affrontare la morte con speranza,
possiamo vivere la vita con generosità.
(Nouwen, 1995)
Al termine di questo capitolo, che speriamo possa orientare
e aiutare coloro che avvicinano il malato alla fine della sua vita,
possiamo concludere sottolineando gli aspetti principali dell’accompagnamento spirituale e religioso:
– all’interno della dimensione spirituale, che si pone come questione
il senso e i valori dell’esistenza, può emergere ed essere in essa
compresa la dimensione religiosa;
– chiunque, in quanto essere umano, può farsi carico dell’accompagnamento spirituale del malato purché abbia preso su di sé,
prima ancora di avvicinare l’altro che soffre, la domanda di senso
che l’esistenza impone, specie nelle dimensioni del dolore e della
morte;
– farsi carico della domanda sul senso della vita permette di fare
i conti con il silenzio, la sensazione di impotenza, il mistero, la
paura, non solo del malato ma di ogni essere umano;
124
– il dialogo, i gesti, la memoria biografica, la ricerca di risorse
interne alla persona sono parte integrante e fondamentale della
cura e dell’assistenza spirituale;
– è la relazione autentica tra i soggetti ciò che permette l’emergere
delle domande e delle eventuali risposte;
– lo stesso ministro di culto, preposto all’assistenza religiosa, può
e deve essere non solo capace di entrare in una relazione che è —
prima di tutto — profonda e sincera sul piano umano, ma deve
anche poter accedere alla dimensione spirituale che ha a che fare
con l’intera dimensione umana, non solo quella religiosa, specie
là dove questa non sia presente o richiesta.
Gli obiettivi della cartella LCP-I
La cartella LCP-I prevede che il personale rifletta (o che abbia riflettuto in precedenza) su questa dimensione dell’assistenza
e che valuti i bisogni spirituali e religiosi del paziente. In accordo
con quanto detto più ampiamente in questo capitolo, suggerisce di
considerare la specificità della persona e dei suoi bisogni.
Tabella 7.1
La cartella LCP-I: Valutazione iniziale
Obiettivo 6: Valutati i bisogni religiosi/spirituali
a) Paziente
b) Famiglia/altri
Sì ❑ No ❑ In coma ❑
Sì ❑ No ❑
Considerare specifici bisogni culturali
Considerare il sostegno dell’assistente spirituale
Tradizione religiosa identificata, se sì, specificare
Sostegno dell’assistente spirituale offerto
Sì ❑ No ❑ NA ❑
In ospedale Tel: __________ Nome: ___________ Data/ora: ____
All’esterno Tel: __________ Nome: ___________ Data/ora: ____
Commenti (identificati bisogni particolari ora, nell’imminenza del
decesso, al decesso e dopo il decesso)
La cartella LCP-I prevede poi una valutazione continua ogni
dodici ore del paziente relativamente alla dimensione spirituale.
In particolare viene richiesto che il sostegno religioso e spirituale,
se richiesto, sia offerto.
125
Tabella 7.2
La cartella LCP-I: Valutazione continua ogni 12 ore
Obiettivo: È stato dato appropriato sostegno religioso/spirituale
• Il sostegno dell’assistente spirituale può essere di aiuto
• Considerati i bisogni culturali
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Per approfondire
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