Attualità in Scienze della Nutrizione Umana
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Attualità in Scienze della Nutrizione Umana
NUTRI.PROFmagazine Federazione Nutrizionisti Italiani® Associazione di riferimento nazionale per Medici, Biologi e Dietisti www.nutriprof.it Vol. II – anno 2013 Attualità in Scienze della Nutrizione Umana - Scienze dietetiche e Nutrizione Clinica Riservato ai Soci Nutri.Prof ® - INTESTINO Una nuova nozione: “MicrObesity” TESSUTO OSSEO -Metabolismo del tessuto osseo: diete a confronto – Dalle diete iperproteiche e con alto PraL alla dieta vegana. COMPOSIZIONE CORPOREA -Restrizione calorica e risparmio massa magra ALIMENTAZIONE E SPORT -Effetti della co-ingestione di proteine isolate del siero del latte e carboidrati sul recupero dall’esercizio d’endurance METABOLISMO -Restrizione calorica ed effetti metabolici su pazienti obesi e diabetici tipo 2 Uova amiche o nemiche del colesterolo? - 1 NUTRI.PROFmagazine Federazione Nutrizionisti Italiani® Associazione di riferimento nazionale per Medici, Biologi e Dietisti www.nutriprof.it Consente di effettuare anamnesi dettagliate, supportate da un vasto database di alimenti completo delle porzioni, costantemente aggiornato ed implementato con i valori delle principali banche dati ufficiali italiane (INRAN / IEO revisione 2008 / ADI). Il database attuale, completamente stampabile, vanta oltre 4.000 alimenti/ricette e 114 componenti bromatologiche, compreso indice e carico glicemico, ORAC (Oxygen Radical Absorbance Capacity), PRAL (Potential Renal Acid Load). 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Vincenzo Tortora Distribuzione esclusiva per i soci Nutriprof 4 Indice - MicrObesity a cura di Dott.ssa Arianna Rossoni Si analizzano le novità più recenti che possono parzialmente spiegare come i microorganismi simbionti dell’uomo partecipino all’accrescimento delle riserve di grasso e promuovono tanto l’insulino-resistenza quanto un basso grado di infiammazione, tre determinanti che caratterizzano l’obesità. ………………………………………………………………………………..…….pag.5 -Diete iperproteiche e rischio osteoporosi a cura di Dott.ssa Arianna Rossoni Si discute se le diete iperproteiche aumentano il rischio di osteoporosi. Lʼaumentata escrezione di calcio dovuta a diete HP non sembra essere connessa ad uno squilibrio dellʼomeostasi del calcio. Alcuni dati indicano che un intake di HP induce un aumento dellʼassorbimento di calcio a livello intestinale. …………………………………………………………….……………………… pag.22 -Diete a confronto per il benessere osseo a cura di Dott. Vincenzo Tortora Si approfondicono gli effetti di una dieta iperproteica e/o con alto potenziale di carico acido renale (PRAL) sull’assorbimento/ ritenzione di calcio (Ca) e sui markers del metabolismo osseo . Studi recenti rilevano alcun cambiamento nei biomarkers di riassorbimento o di formazione ossea, indicando che una dieta iperproteica non è dannosa. …………………………..…………………………………………….pag.45 - Vegetarianismo e perdita massa ossea a cura di Dott.ssa Eleonora Spallotta Osservazione degli effetti di una dieta vegana e non sulla variazione dei biomarkers per il benessere del tessuto osseo. Non è stata trovata alcuna significativa differenza nel tasso di perdita di massa ossea tra i vegani e onnivori. ……………………………………………………………………………….....…pag.55 -Diete ipocaloriche e risparmio massa magra. a cura di Dott. Vincenzo Tortora La restrizione calorica è uno dei più efficaci modi per promuovere la perdita di peso ed è noto che attivi vie metaboliche protettive. Assieme alla perdita di peso sono frequentemente riportate conseguenze indesiderate come la perdita della massa magra . Le diete ipocaloriche con aumentato introito proteico sono popolari e possono fornire benefici aggiuntivi attraverso il mantenimento della massa magra, paragonate ad una dieta normoproteica iperglucidica. ……………………….pag.65 5 -Diete VLCD ed effetti su pazienti diabetici tipo 2. a cura di Dott. Manuel Salvadori Gli effetti metabolici della restrizione calorica (RC) di per sé potrebbero, almeno in parte, essere indipendenti dalla riduzione di peso. Studi preliminari hanno voluto constatare se, nei pazienti obesi diabetici di tipo-2, sette giorni di VLCD influiscono sul controllo glicemico attraverso cambiamenti sulle cellule β o sulla sensibilità insulinica o su entrambi…………………………… ……………………...…..pag .76 - Uova amiche o nemiche del colesterolo? a cura di Dott.ssa Letizia A. D’Alessandro Indagine se un'alimentazione giornaliera di uova, con restrizione dei carboidrati, altera il metabolismo delle lipoproteine portando a profili lipoproteci aterogenici e se c’è un’influenza sull’ insulina resistenza in uomini e donne con sindrome metabolica. ……………………………………………………………………….pag.82 -Effetti della co-ingestione di proteine isolate del siero di latte e carboidrati sul recupero dall’esercizio d’endurance a cura di Dott. Manuel Salvadori e Dott. Vincenzo Tortora La co-ingestione di carboidrati e proteine isolate del siero del latte favorisce effetti benefici sul recupero e sugli adattamenti all’allenamento d’endurance attraverso un’aumentata risposta insulinica ed up-regulation dell’espressione del mRNA del PGC-1 alfa. ………………………………………………………………………..pag.95 6 Il microbiota intestinale come target terapeutico a cura di Arianna Rossoni Introduzione L’obesità, il diabete di tipo 2 e l’infiammazione cronica di basso grado stanno diventando epidemie mondiali. In questo contesto, la letteratura ha ideato un nuovo concetto chiamato “MicrObesity” (dalla crasi di Microbi e Obesità) che si propone di decifrare il ruolo specifico della disbiosi e il suo impatto sul metabolismo e sulle scorte energetiche dell’ospite. Analizzaremo le novità più recenti che possono parzialmente spiegare come i microorganismi simbionti dell’uomo partecipino all’accrescimento delle riserve di grasso e promuovono tanto l’insulino-resistenza quanto un basso grado di infiammazione - tre determinanti che caratterizzano l’obesità. Negli anni recenti sono stati proposti numerosi meccanismi e sono state identificate diverse proteine. Tra i fattori collegati al microbiota intestinale che determinano l’aumento delle riserve adipose si annoverano: il fattore adiposo indotto dal digiuno, la protein chinasi AMPattivata, il recettore 41 e il recettore 43 accoppaiti alle G-protein . Inoltre, la scoperta che un basso grado di infiammazione potrebbe essere direttamente collegato al microbiota intestinale attraverso l’endotossiemia metabolica (elevati livelli di lipopolisaccaridi plasmatici) ha permesso l’identificazione di nuovi meccanismi coinvolti nel controllo della barriera intestinale. Tra questi si sono investigati: l’incidenza del glucagon-like peptide-2, il sistema degli endocannabinoidi e alcuni batteri specifici (ad es. Bifidobacterium spp.). In aggiunta, l’avvento dei trattamenti con probiotici e prebiotici sembra essere un promettente approccio “farmaco-nutrizionale” per far regredire l’alterazione metabolica dell’ospite collegata alla disbiosi osservata in obesità. Nonostante i recenti ed efficaci approcci biologici ai sistemi molecolari abbiano offerto una panoramica veramente ottima in questo “piccolo mondo interiore”, sono necessari più studi che svelino come cambiamenti specifici al microbiota intestinale possano influenzare o contrastare lo sviluppo dell’obesità e patologie correlate. Evidenze convincenti supportano la concezione che l’obesità sia influenzata tanto dallo stile di vita quanto dalla suscettibilità del soggetto. L’idea più diffusa circa le cause di obesità è quella di uno sbilancio tra ingresso e uscita energetica. Nonostante questa ipotesi sia largamente accettata, l’incidenza sempre crescente di obesità negli ultimi 30 anni non può essere spiegata semplicemente con fattori genetici. L’obesità è classicamente associata ad un ampio insieme di alterazioni metaboliche che includono intolleranza al glucosio, diabete di tipo 2, ipertensione, dislipidemia, disordini della fibrinolisi, malattie cardiovascolari e steatosi epatica non alcolica (NAFLD) (Eckel et al., 2005; Ogden et al., 2007). La maggior parte di queste alterazioni è collegata all’omeostasi del glucosio e allo sviluppo di malattie cardiovascolari, che possono probabilmente risultare da una combinazione di associazioni variabili tra genetica e fattori ambientali (Alberti et al., 2005; Kahn et al., 2006; Matarese et al., 2007). In aggiunta alle cause di quest’epidemia mondiale, l’obesità è stata associata con un’infiammazione cronica di basso grado che contribuisce allo sviluppo di insulinoresistenza, diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari (Hotamisligil, 2008; Shoelson and Goldfine, 2009). I meccanismi che sottostanno all’obesità, all’aumento di massa grassa e allo sviluppo di infiammazione non sono ancora stati completamente chiariti. 7 Nei decenni precedenti sono stati indagati intensamente alcuni processi fisiologici che regolano il peso corporeo e l’omeostasi energetica, compresi i segnali periferici e centrali che controllano l’assunzione di cibo e la loro integrazione (Small & Bloom, 2004; Wynne et al., 2005; Levin, 2006; Chaudhri et al., 2008; Neary & Batterham, 2009). Discuteremo dell’importanza di uno specifico fattore ambientale che evolve con noi e con le nostre abitudini dietetiche dalla nascita alla morte, e che contribuisce all’obesità: il microbiota intestinale. Il microbiota intestinale: il nostro piccolo mondo interiore Da quando nel Novecento Robert Koch e Ilya Mechnikov sono stati insigniti di due Nobel in fisiologia e medicina per le loro scoperte che collegavano i microbi e la salute umana, si è indagato sui diversi determinanti dell’interazione tra ospite e microbiota sia in senso spaziale (pelle, bocca e intestino) sia temporale (nascita e senilità). Sappiamo che il microbiota umano consiste in 10-100 trilioni di microorganismi, un numero 10 volte superiore a quello delle cellule che esistono nel corpo umano (Savage, 1977); è facilmente capibile che sia gli uomini che i microbi sono continuamente influenzati dalla loro costante e intima storia co-evoluzionistica. In più, il microbioma codifica un consorzio di geni superiore il genoma umano di circa 150 volte. Questi dati messi insieme portano alla sorprendente conclusione che noi non siamo 100% umani, ma solo al 10% umani e al 90% microbi (Fig.1). Nello specifico è risaputo che in questo “piccolo mondo interiore” l’intestino provvede ad un importante ruolo biologico e a funzioni metaboliche non potrebbero essere espletate dal metabolismo umano (Jia et al., 2008). Questa complessa simbiosi e il suo sviluppo sono probabilmente dipendenti dalle interazioni tra la genetica ospite-microbi e l’ambiente (Ley et al., 2006a; Khachatryan et al., 2008). Nonostante l’esatta composizione del microbiota intestinale non sia conosciuta, avanzate tecnologie in metagenomica hanno recentemente iniziato a sondare i nostri partner microbi (il microbioma umano) (Qin et al., 2010). E’ stato stimato che ciascun individuo ospiti almeno 160 specie da un consorzio di 1000-1150 specie batteriche prevalenti (Qin et al., 2010). Tra questi batteri, il 90% dei filotipi è membro di due phyla (Bacteroidetes e Firmicutes), seguiti da Actinobacteria e Proteobacteria (Eckburg et al., 2005; Ley et al., 2005; Qin et al., 2010) (Fig.1). Molto importante è far notare che a causa della difficoltà di ottenere campioni da regioni differenti dell’intestino, la maggior parte degli studi che hanno investigato l’ecologia e l’attività del microbiota nel tratto intestinale sono stati condotti usando campioni fecali (Robertfroid et al., 2010). Figura 1 Il piccolo mondo interiore. Noi siamo composti da diverse specie: eucarioti, batteri e archibatteri. Con una densità pari a 1011 cellule/g nel colon, è stato stimato che il censimento dei nostri microbi supera quello delle cellule eucariote di 10 volte portando alla stupefacente conclusione che noi non siamo al 100% umani, ma al 90% microbi e al 10% umani. 8 La comunità microbiotica dell’intestino osservata nei campioni fecali non è rappresentativa al 100% dell’intero piccolo intestino: quest’obiezione deve essere tenuta in considerazione, e usata per incentivare ulteriori ricerche maggiormente specifiche. L’evidenza per l’interazione tra il microbiota intestinale e l’omeostasi energetica Al giorno d’oggi molta attenzione viene riservata al ruolo del microbiota intestinale in relazione all’omeostasi energetica e alle funzioni metaboliche del soggetto-ospite. Per questo motivo il microbiota intestinale è stato recentemente proposto come un fattore ambientale coinvolto nel peso corporeo e nell’omeostasi energetica (Backhed et al., 2004, 2005, 2007; Ley et al., 2005, 2006b; Turnbaugh et al., 2006). Questo “organo interiorizzato” contribuisce alla nostra omeostasi attraverso molteplici funzioni metaboliche e diversi meccanismi di controllo coinvolti nell’estrazione delle calorie dagli alimenti ingeriti, e aiuta a stoccare queste calorie nel tessuto adiposo del soggetto per un utilizzo successivo. Ad oggi, la prova inequivocabile per il ruolo del microbiota intestinale nella gestione dell’omeostasi energetica proviene da studi eseguiti su topi privi di flora intestinale (Backhed et al., 2004, 2007; Fleissner et al.,2010; Rabot et al., 2010). Ad esempio, i topi cresciuti in assenza di microorganismi (condizioni di sterilità prive di batteri e germi) erano più magri del 40% (meno grasso corporeo) rispetto a topi che vivevano con un microbiota intestinale normale (topi con colonizzazione dell’intestino alla nascita o per Inoculazione, detti topi convenzionalizati), sebbene questi ultimi mangiassero circa il 30% in meno rispetto ai topi asettici (Backhed et al., 2004). In maniera più notevole, la convezionalizzazione dei topi asettici con microbi prelevati dal cieco di un topo magro induceva un ragguardevole aumento del peso corporeo (massa grassa totale) entro due settimane, sebbene la sua assunzione di cibo diminuisse (Backhed et al., 2004). Quest’aumento di massa grassa era anche più pronunciata quando la comunità microbiotica dell’intestino era derivata da topi geneticamente obesi (ob/ob) (Turnbaugh et al.,2006). Questi risultati sono probabilmente dovuti a differenze esistenti nel microbioma di topi magri e obesi e nei metaboliti derivati. In quest’ottica, Ley et al. hanno dimostrato che topi obesi esibiscono una notevole differenza nella ripartizione dei due maggiori phyla (Firmicutes e Bacteroidetes), con un rapporto Firmicutes/Bacteroidetes maggiore nel cieco dei topi obesi rispetto a quello dei topi magri (Ley et al., 2005). Per spiegare questi interessanti esperimenti che collegano la composizione della comunità microbiotica dell’intestino all’omeostasi energetica sono stati proposti una serie di meccanismi. Una prima ipotesi suggerita dai ricercatori è stata l’idea che la convezionalizzazione del microbiota intestinale risulti in un raddoppio della densità di capillari sull’epitelio dei villi intestinali, cosa che potrebbe promuovere l’assorbimento intestinale di monosaccaridi (Staooenbeck et al., 2002). Una seconda ipotesi è collegata all’estrazione di energie da componenti di cibo indigerito, che sarebbero direttamente fermentati in acidi grassi da catena corta (SCFAs), i quali potrebbero da ultimo partecipare alla lipogenesi epatica de novo attraverso l’espressione di diversi enzimi chiave come l’acetil CoA carbossilasi (ACC) e la sintetasi di acidi grassi (FAS). Sia ACC che FAS sono controllati dalla proteina legante l’elemento responsivo ai carboidrati (ChREBP) e dalla proteina legante l’elemento responsivo agli steroli (SREBP-1) (Denechaud et al., 2008). In accordo a ciò, Backhed e colleghi hanno dimostrato che la convezionalizzazione di topi sterili promuove a livello epatico l’espressione di ChREBP e SREBP-1 (Backhed et al., 2004) (Fig.2). E’ interessante notare che lo sviluppo del tessuto adiposo osservato a seguito della colonizzazione dell’intestino con microbi non è direttamente spiegato dalla modulazione della differenziazione o lipogenesi del tessuto adiposo. 9 Figura 2 Il microbiota intestinale aumenta lo stoccaggio di energie. Il microbiota potrebbe essere coinvolto in questo stoccaggio attraverso diversi meccanismi, dimostrati in larga parte in topi asettici. Attraverso l’aumento della produzione e dell’assorbimento di acidi grassi a catena corta, il microbiota intestinale provvede a fornire substrati lipogenici all’ospite, e dunque aumenta la sua lipogenesi epatica e il suo accumulo di grassi attraverso svariati meccanismi. Ad esempio attraverso la soppressione del fattore adiposo indotto dal digiuno (FIAF) nell’intestino il microbiota intestinale controlla indirettamente l’attività dell’enzima lipoprotein lipasi (LPL). Inoltre, SCFA partecipa all’accumulo di grasso attraverso GPR41 e GPR43. Infine, in risposta a una dieta ad elevato contenuto di grassi, il microbiota intestinale inibisce l’ossidazione di acidi grassi dipendente da AMPK; comunque dovrebbe essere tenuto in considerazione che esistono altri meccanismi diretti o indiretti (linea tratteggiata). E’ stato proposto un ruolo per la lipoproteina lipasi degli adipociti (LPL). Coerentemente con questa ipotesi, gli autori hanno suggerito che il microbiota intestinale promuove l’accumulo di grassi attraverso un meccanismo che lega i trigliceridi circolanti con la soppressione dell’espressione intestinale di un inibitore della LPL (FIAF, fattore adiposo indotto dal digiuno) (Backhed et al., 2004). FIAF inibisce l’attività di LPL, dunque diminuisce il rilascio di acidi grassi dai triacilgliceroli circolanti. Dunque, a seguito della colonizzazione dell’intestino dal microbiota, l’espressione di FIAF è ridotta e ciò porta a una maggiore attività di LPL e a un maggiore accumulo di grasso corporeo (Backhed et al., 2004) (Fig.2). In accordo con quest’ipotesi, gli autori hanno trovato che topi carenti di FIAF erano anche resistenti all’aumento di peso corporeo indotto dal microbiota intestinale (Backhed et al., 2004). Ad ogni modo, un recente studio ha suggerito che il meccanismo FIAF non è universalmente associato allo sviluppo di massa grassa determinata dal microbiota intestinale. Per esempio, è stato recentemente dimostrato che topi asettici sottoposti a dieta ricca di grassi mostravano un aumento dell’espressione intestinale di mRNA di FIAF senza cambiamenti nei livelli di FIAF circolanti quando comparati a topi convenzionalizzati (Fleissner et al., 2010). Una terza ipotesi esplora ulteriormente i meccanismi che sottostanno alla relazione esistente tra la resistenza di topi asettici all’obesità dieto-indotta (dieta ricca di grassi) e a disordini metabolici associati (Fig.3) (Backhed et al., 2007). 10 In questo studio, l’attivazione di protein chinasi attivate da AMP (AMPK) spiega l’apparente resistenza di topi asettici allo sviluppo di obesità in risposta a una dieta ricca di grassi (Backhed et al., 2007). Più precisamente, si è scoperto che il microbiota intestinale sopprime l’ossidazione di acidi grassi guidata da AMPK nel fegato e nel muscolo scheletrico (Backhed et al., 2007) (Fig.3). Una quarta ipotesi coinvolge invece SCFAs. Samuel et al. hanno dimostrato che topi con una specifica comunità microbica fermentativa ai quali è stata soppressa l’espressione del recettore 41 accoppiato a G-protein (GPR41) resistono all’aumento di grasso in modo migliore rispetto ai loro fratelli che esprimono tale recettore (Samuel et al., 2008). SCFAs agiscono come molecole di segnale e sono ligandi specifici per almeno due recettori accoppiati a G-protein, GPR41 e GPR43 (Le et al., 2003). In accordo con il potenziale ruolo giocato da queste GPRs nello sviluppo di massa grassa, un recente studio ha dimostrato che topi ai quali è stato soppresso il recettore 43 accoppiato a Gprotein (GPR43) sono resistenti all’obesità indotta dalla dieta (Bjursell et al., 2011). Di conseguenza quest’insieme di esperimenti supporta fortemente l’idea che metaboliti specifici provenienti dall’intestino (ad es.SCFAs) agiscano in svariati modi (ad es. come substrati energetici e come regolatori metabolici) (Fig.3). L’idea originale che il microbiota intestinale contribuisca all’estrazione di energia dalla dieta attraverso una maggior produzione di SCFAs è stata ostacolata da numerosi paradossi. Per esempio non è chiaro in che modo la maggior quantità di SCFAs trovata nelle feci di animali o soggetti obesi possa direttamente contribuire allo sviluppo di massa grassa e aumento del peso corporeo (Ley et at., 2005, 2006b; Turnbaugh et al., 2006). Figura 3 Il microbiota intestinale è coinvolto nella genesi di disordini metabolici associati ad obesità: un modello. L’obesità nutrizionale (dieta ad alto contenuto di grassi) e genetica (topi ob/ob) è associata ad una disbiosi intestinale. Questo porta a determinare la permeabilità intestinale (un’alterata distribuzione delle proteine delle giunzioni serrate ZO-1 e occludine), promuovendo l’endotosisemia metabolica e iniziando lo sviluppo di un basso grado di infiammazione e di insulino-resistenza nel fegato, nei muscoli e nel tessuto adiposo. 11 Al contrario rispetto agli esperimenti standard condotti con una dieta a pasti, i topi asettici alimentati con diete ad alto contenuto di grassi erano resistenti all’obesità indotta dalla dieta tipica occidentale, mentre l’intake energetico e il contenuto energetico fecale erano equivalenti nei topi asettici e nei topi convenzionalizzati. I nostri risultati indicano inoltre che una dieta arricchita con specifici carboidrati non digeribili porta a una maggiore produzione intestinale di SCFA ed è dunque in grado di rallentare l’aumento ponderale, lo sviluppo di massa grassa e la severità dei casi di diabete (Cani et al., 2004, 2005a, b, 2006a, b). Questi specifici carboidrati non digeribili rappresentano il concetto proprio dei prebiotici: “La stimolazione selettiva della crescita e/o della/e attività di uno o più generi/specie microbiche nella flora batterica intestinale che conferiscono benefici salutistici all’ospite” (Roberfroid et al., 2010). In più, queste componenti prebiotiche promuovono l’aumento e lo sviluppo di ceppi batterici abili a digerire polisaccaridi e fornire energia in più all’ospite, andando al contempo ad aumentare la massa totale dei batteri nel colon (Kleessen et al., 2001; Kolida et al., 2007, 2006). Sono stati pubblicati solo pochi ma promettenti studi riguardanti potenziali approcci terapeutici basati sulla modulazione del microbiota intestinale umano. E’ ben conosciuto che specifici cambiamenti nella composizione del microbiota attraverso l’uso di prebiotici possa promuovere in maniera molto consistente la produzione di SCFA (Roberfroid et al., 2010). E’ interessante notare che questo fenomeno è stato associato a cambiamenti nel modo di alimentarsi grazie ad un meccanismo collegato alla modulazione della produzione e secrezione di peptidi intestinali (ad es. peptide-1 glucagonlike [GLP-1], peptide-YY e grelina). Per esempio, in soggetti in salute, l’introduzione di fruttani inulino-simili (18-20 g/giorno) ha significativamente aumentato la fermentazione del microbiota intestinale (Piche et al., 2003; Cani et al., 2009a). In questi studi, l’integrazione con prebiotici era associata a un aumento dei livelli plasmatici di GLP-1 (Piche et al., 2003; Cani et al., 2009a) e di peptide-YY (Cani et al., 2009a). In due studi differenti la fermentazione di prebiotici da parte del microbiota intestinale è stata messa in relazione a più bassi livelli di fame e aumento della sazietà, e di conseguenza ad una diminuzione dell’intake energetico totale di circa il 10% (Cani et al., 2006a, 2009a). Altri due studi, uno di Archer et al. (2004) e uno di Whelan et al. (2006), hanno confermato che la fermentazione di carboidrati non digeribili da parte del microbiota intestinale era in grado di controllare il comportamento che porta all’assunzione di cibo e l’impatto sull’intake energetico. E’ importante notare che cambiamenti nel microbiota intestinale indotti dai prebiotici in pazienti obesi diminuiscono i livelli circolanti di grelina e aumentano quelli di peptide-YY (Parnell & Reimer, 2009). Ad ogni modo, alcune pubblicazioni riportano che dosi massicce ma anche molto blande (<8g/giorno) di prebiotici non incidono necessariamente sull’appetito (Peters et al., 2009; Hess et al., 2011). Uno studio recente ha dimostrato che una singola dose di prebiotici (ad es.inulina) è in grado di aumentare significativamente i livelli plasmatici postprandiali di GLP-1 e di diminuire i livelli plasmatici di grelina (Tarini & Wolever, 2010). Questa scoperta contraddice la precedente idea che solo una modulazione persistente e prolungata sia necessaria a determinare effetti sulla funzione endocrina dell’intestino. Per quanto riguarda i meccanismi coinvolti nella secrezione endogena di peptidi intestinali, è stato proposto che SCFAs entrino direttamente in azione a seguito della fermentazione intestinale. Per esempio, alcuni autori hanno proposto che l’acetato giochi un ruolo in questa regolazione importante, dal momento che hanno scoperto che la modulazione di SCFAs plasmatici è collegata a cambiamenti nei peptidi intestinali coinvolti nella regolazione dell’appetito, ma anche ad una diminuzione di marker d’infiammazione in soggetti insulinoresistenti (Freeland et al., 2010a; Freeland & Wolever, 2010). 12 I dati a nostra disposizione supportano la convinzione che il flusso metabolico dipendente dal microbiota giochi un ruolo nella regolazione delle riserve energetiche del corpo non sempre intese solo come riserve di grasso. La complessità del microbiota intestinale è tutt’ora sotto indagine sia in uomini magri che obesi. Sebbene diversi studi osservazionali abbiano associato alcuni specifici phyla o ceppi ad obesità (Ley, 2010) o ad anoressia (Armougom et al., 2009), esistono risultati discordanti. Al di là di queste discrepanze, interventi terapeutici o modulazioni specifiche della composizione del microbiota intestinale attraverso l’uso di prebiotici sono stati efficaci a dimostrare la crescita e l’espansione di alcuni ceppi batterici, la cui presenza è spesso associata a effetti benefici per la salute (ad es.Bifidobacterium spp.). Per esempio, il contributo relativo di Bifidobacterium spp. merita maggiori ricerche nel campo dell’obesità (Boesten & de Vos, 2008; Boesten et al., 2009; Turroni et al., 2009). Inoltre l’approccio prebiotico sembra anche interessare per aiutare a promuovere altri batteri benefici. In più, si è dimostrato che l’integrazione con fruttani simil-inulina sia in grado di aumentare Faecalibacterium prausnitzii in volontari sani (Ramire-Farias et al., 2009). Questi batteri hanno dimostrato di saper modulare l’infiammazione e il diabete in soggetti obesi (Furet et al., 2010). Da ultimo, il ceppo Lactobacillus spp., appartenente al phylum dei Firmicutes, è soggetto a risultati controversi e a discussioni all’interno della letteratura (Raoult, 2008; Armougom et al., 2009; Delzenne & Reid, 2009; Ehrlich, 2009; Santacruz et al., 2009; Andreasen et al., 2010; Aronsson et al., 2010; Balamurugan et al., 2010; Kadooka et al., 2010; Luoto et al., 2011, 2010). Questo dibattito è inerente alla potenziale associazione tra lattobacilli e obesità. Stando alle conoscenze attuali, il dibattito rimane irrisolto: è probabile che quest’associazione esista ma in modo duplice, dal momento che alcune specie sono protettive nei confronti dell’obesità mentre altre sono di fatto associate all’aumento di peso. Un’analogia molto semplice può essere proposta facendo cenno al ceppo commensale di Escherichia coli, che può essere visto come potenziale agente patogeno, tenendo però presente che dei ceppi specifici di E.coli (come Nissle 1917) hanno un impatto positivo sull’infiammazione intestinale (Trebichavsky et al., 2010). Questi dati sottolineano quanto sia cruciale porsi l’interrogativo di quali effetti associati all’obesità siano ceppo-specifici e, ancora più importante, quali meccanismi stanno alla base di azioni differenti. Il microbiota intestinale, l’infiammazione e l’insulino-resistenza Sebbene un consistente corpo di evidenze supporti l’idea che l’estrazione di energia dalla dieta da parte del microbiota intestinale porti in molteplici modi allo sviluppo di obesità e disordini metabolici ad essa collegati, queste teorie non hanno mai sondato le interazioni tra i microbi dell’intestino, i disordini metabolici collegati all’obesità e l’insorgenza di infiammazione cronica di basso grado. Diversi studi supportano l’idea che quest’infiammazione possa derivare dall’infiltrazione di macrofagi negli organi (tessuto adiposo, muscoli e fegato), condizione che promuove la secrezione di fattori pro-infiammatori (Weisberg et al., 2003; Xu et al., 2003; Tordjman et al., 2008; Olefsky & Glass, 2010). Cionondimeno, l’esatto ruolo dei macrofagi e la sorgente e tipologia di fattori che scatenano l’attivazione del sistema immunitario in questo specifico contesto rimane materia di dibattito (Odegaard & Chawla, 2008; Kosteli et al., 2010). Data la pletora di fattori infiammatori (ad es.interleuchina-1 [IL-1], fattore-α di necrosi tumorale [TNF-α], proteina-1 monocite chemotattica [MCP-1], sintetasi inducibile dell’ossido nitrico [iNOS], interleuchina-6 [IL-6]) che sono fattori di causa dell’indebolimento dell’azione dell’insulina (o dell’insulinoresistenza) e di diverse interazioni molecolari tra immunità e segnali insulinici, abbiamo cercato un potenziale fattore in grado di spiegare questi meccanismi. 13 Ad esempio, la chinasi c-Jun N-terminale (JNK), il fattore di trascrizione nucleare kB (NF-kB) e la chinasi proteica attivata dai mitogeni (MAPK) controllano specifiche vie molecolari che giocano un ruolo cruciale nello sviluppo di infiammazione ed insulinoresistenza. L’effetto pro-infiammatorio di una dieta ad alto contenuto di grassi è stato attribuito in larga parte alle proprietà infiammatorie degli acidi grassi dietetici (ad es.acido palmitico). Recentemente è stato proposto che questi acidi grassi stimolino una risposta infiammatoria attraverso l’attivazione del recettore di LPS (tolllike receptor-4 [TLR-4]) che manda segnali ad adipociti e macrofagi, che potrebbero contribuire all’infiammazione del tessuto adiposo nell’obesità (Shi et al., 2006; Suganami et al., 2007a, b). Ad ogni modo la connessione diretta tra acidi grassi e TLR4 è stata rivisitata e contestata (Erridge & Samani, 2009). Questi step molecolari giocano un ruolo cruciale nell’integrazione di risposta immune e metabolica nei confronti di infezioni attraverso l’azione di composti derivati da batteri gram-negativi, chiamati lipopolisaccaridi (LPS) (Guha & Mackman, 2001). Dunque, dato che l’obesità e il diabete di tipo 2 sono strettamente associati ad un basso grado di infiammazione cronica e dato che esiste un’intricata influenza reciproca tra i recettori coinvolti nelle interazioni dei microbi umani, abbiamo investigato il ruolo di un fattore collegabile ai microbi nell’eziologia dell’obesità e di disordini associati. Recentemente abbiamo definito i LPS derivati dal microbiota intestinale come il primum movens nello sviluppo precoce dell’infiammazione e di patologie metaboliche (Cani et al., 2007a). Più precisamente abbiamo dimostrato che l’eccesso di grassi dietetici non solo aumenta l’esposizione sistemica ad acidi grassi potenzialmente proinfiammatori e loro derivati, ma facilita anche lo sviluppo di endotossiemia metabolica (ad es.aumento di LPS plasmatici) (Cani & Delzenne, 2007; Cani et al., 2007a). Dato che i LPS possono determinare infiammazione ovunque nel corpo e che interferiscono sia con il metabolismo che con la funzione del sistema immunitario, questa nuova ipotesi fornisce una nuova prospettiva riguardo il ruolo di prodotti derivati dal microbiota intestinale e il nostro metabolismo. In accordo a ciò, è sempre maggiormente riconosciuto che il sistema immunitario innato e le vie metaboliche siano funzionalmente intrecciate (Olefsky & Glass, 2010). Una serie di esperimenti ha dimostrato che i batteri intestinali possono iniziare i processi infiammatori associati all’obesità e all’insulinoresistenza attraverso la modulazione dei livelli plasmatici di LPS (Fig.4). Il primo esperimento che ha supportato una connessione tra il microbiota intestinale e una dieta ad alto contenuto di grassi ha portato alla scoperta dell’esistenza di una disbiosi microbica tra topi magri alimentati normalmente e tra topi alimentati con una dieta ad alto contenuto di grassi. In questo studio, una dieta ad alto contenuto di grassi ha aumentato i livelli plasmatici di LPS (endotossiemia metabolica) di due o tre volte. La dieta ad alto contenuto di grassi è anche stata connessa a specifici cambiamenti nella comunità microbica intestinale, con una riduzione marcata di Bifidobacterium spp., batteri connessi ai Bacteroides ed Eubacterium rectale-Clostridium coccoides (Cani et al., 2007a, c). La rilevanza del segnale dei LPS allo sviluppo di un basso grado di infiammazione indotto dalla dieta è stata successivamente esplorata da uno studio su topi mancanti del co-recettore CD14 del TLR-4: CD14/-. Dopo quattro settimane di dieta ad alto contenuto di grassi, questi topi esibivano più massa grassa e un peso corporeo maggiore, oltre che un basso grado di stato infiammatorio (fegato, tessuto adiposo e muscoli). In modo ancora più rilevante, in assenza di un recettore per LPS i topi erano resistenti all’obesità dieto-indotta e disordini collegati (compresa insulino-resistenza epatica) (Cani et al., 2007a). Abbiamo anche dimostrato che l’endotossiemia metabolica cronica prodotta da infusioni subcutanee croniche di LPS (che mimano l’endotossiemia metabolica) riduce significativamente l’infiammazione e l’insulinoresistenza. 14 Figura 4 I cambiamenti indotti dai prebiotici nel microbiota intestinale possono eliminare i disordini che si associano all’obesità. I prebiotici modulano la composizione del microbiota intestinale in un modo molto complesso in risposta a obesità genetica o dieto-indotta (ad es., aumentando Bifidobacterium spp.). Il trattamento con prebiotici diminuisce la permeabilità intestinale e l’endotossemia metabolica ma aumenta l’insulino-resistenza, la steatosi e il basso grado di infiammazione. Uno dei meccanismi che spiega questo fenomeno è l’aumentata produzione endogena di GLP-2, che ristabilisce le funzioni di barriera dell’intestino. Riguardo l’aumento di massa grassa, la gestione cronica con LPS aumenta la massa sottocutanea e viscerale rispettivamente di circa il 30% e 40%. E’ stato notato che l’aumento relativo alla massa grassa e al peso corporeo riconducibili al trattamento con LPS o alla dieta ad elevato contenuto di grassi e senza carboidrati utilizzati in questo protocollo era minore rispetto a quello osservato in una dieta di tipo occidentale. Cionondimeno, altri studi favoriscono quest’ipotesi perché in assenza del recettore di LPS (modelli CD14-/- o TLR-4-/-) i topi sono resistenti ai disordini metabolici dietoindotti (Cani et al., 2007a; Tsukumo et al., 2007; Davis et al., 2008; Roncon-Albuquerque et al., 2008). E’ stato successivamente investigato il ruolo dei LPS derivati dal microbiota intestinale in quanto essi risultano essere fattori di stimolazione di un basso grado di infiammazione, di diabete di tipo 2 e di insulino-resistenza, un’indagine che ha riguardato topi obesi sia per via nutrizionale che per via genetica attraverso una specifica modulazione della composizione del microbiota intestinale (Cani et al., 2008; Membrez et al., 2008). In primo luogo, abbiamo trovato che un cambiamento nel microbiota intestinale attraverso il trattamento antibiotico protegge verso lo sviluppo di massa grassa indotto dalla dieta, intolleranza glucidica, insulino-resistenza, infiammazione e stress ossidativo. Questo insieme di studi suggerisce in modo incisivo che una dieta ad alto contenuto di grassi potrebbe non essere causa diretta di obesità. In secondo luogo, abbiamo trovato che topi ob/ob geneticamente obesi esibivano un migliore fenotipo metabolico (cioè insulinoresistenza e infiammazione) a seguito di una manipolazione del microbiota intestinale, mentre il loro aumento ponderale totale rimaneva invariato (Cani et al., 2008). Per chiarire meglio il ruolo dei LPS nella patogenesi dell’infiammazione e dell’insulino-resistenza associate all’obesità, abbiamo deciso di interferire con il segnale dei LPS attraverso l’uso di due modelli specifici. Nel primo modello abbiamo somministrato infusioni sottocutanee croniche di LPS (polimixina B o inibitori di 15 endotossine) per quattro settimane a topi ob/ob geneticamente obesi. Il secondo modello consisteva in una generazione di topi ob/ob mancanti del recettore CD14 per LPS (ob/ob CD14-/-). I risultati ottenuti seguendo l’investigazione di tutti questi specifici modelli hanno indicato una significativa diminuzione dell’infiammazione e dell’infiltrazione dei marker di macrofagi insieme con una migliorata tolleranza al glucosio e insulino-resistenza (Cani et al., 2008). Questi esperimenti dimostrano chiaramente il contributo all’endotossiemia metabolica da parte di derivati da LPS del microbiota intestinale. Coerentemente con quest’insieme di dati, altri studi hanno riportato che i livelli plasmatici di LPS sono elevati in topi ob/ob e db/db (Brun et al., 2007). In più, il trattamento con polimixina B, che elimina specificamente i batteri gramnegativi ed inoltre estingue LPS, diminuisce la steatosi epatica (Pappo et al., 1991). Insieme con i primi risultati, queste scoperte suggeriscono fortemente che il contributo del microbiota intestinale all’endotossiemia metabolica ha a che fare sia con l’obesità genetica che con quella indotta dalla dieta. Il rapporto tra una dieta ad alto contenuto di grassi, l’obesità, il diabete di tipo 2 e i LPS è stato successivamente confermato nell’uomo. Negli ultimi 3-4 anni, numerosi studi hanno confermato l’ipotesi di un’endotossiemia metabolica indotta da una dieta ad alto contenuto di grassi in soggetti sani e obesi. Prima, Erridge et al. hanno esaminato i livelli di concentrazione di endotossiemia in soggetti umani sani e hanno trovato che pasti ad alto contenuto di grassi inducono un’endotossiemia metabolica che raggiunge rapidamente concentrazioni sufficienti a indurre un certo grado di infiammazione (Erridge et al., 2007). Abbiamo anche scoperto un link tra intake energetico (dieta ad alto contenuto di grasso) ed endotossiemia metabolica in una coorte di 211 soggetti (Amar et al., 2008). In più è stato dimostrato che l’endotossiemia metabolica in volontari sani aumenta il TNF-α nel tessuto adiposo e le concentrazioni di IL-6 , oltre che l’insulino-resistenza (Anderson et al., 2007). Creely et al. hanno recentemente rinforzato l’ipotesi che l’endotossiemia metabolica possa agire come fattore collegato al microbiota intestinale e coinvolto nello sviluppo di diabete di tipo 2 e obesità nell’uomo (Creely et al., 2007). Un recente studio che investigava l’impatto degli inibitori alle lipasi pancreatiche e gastriche ha messo in evidenza il legame tra l’endotossiemia metabolica e l’alterazione della tolleranza al glucosio (Dixon et al., 2008). Inoltre è stato dimostrato che cambiamenti nell’endotossemia metabolica in pazienti obesi con diabete 2 sono inversamente correlati a diversi parametri plasmatici (ad es.trigliceridi, colesterolo, glucosio e insulina) (Al-Attas et al., 2009). Da ultimo, la relazione tra dieta ad elevato contenuto di grassi ed endotossemia metabolica è stata confermata in diversi studi indipendenti (Ghoshal et al., 2009; Ghanim et al., 2009; Deopurkar et al., 2010; Laugerette et al., 2011). Messe insieme queste scoperte rinforzano il ruolo giocato dall’intake (e dall’assorbimento) di grassi nello sviluppo dell’endotossiemia metabolica. Sebbene molti dati supportino la tesi di un meccanismo dipendente dall’attivazione del complesso LPS-TLR-4/CD14, alcune evidenze emergenti supportano il concetto che altri TLR potrebbero essere coinvolti nello sviluppo dell’insulino-resistenza e di un basso grado di infiammazione associati all’obesità. Recentemente, diversi studi indipendenti che investigavano il ruolo di TLR-2 hanno associato causalmente lo sviluppo di obesità dieto-indotta e disordini metabolici a questo recettore associato a patogeni (Davis et al., 2011; Ehses et al., 2010; Himes & Smith, 2010; Kuo et al.,2011). TLR-2 riconosce un largo numero di molecole contenenti lipidi, compreso il lipopeptide batterico (Lien et al., 1999). In più l’espressione e l’induzione di TLR-2 sono direttamente controllati da LPS, ma TLR-2 può anche essere indotto dal TNF-α e da CD14 (Lin et al., 2000). Questi dati sono stati successivamente confermati, ed è stato proposto che la upregolazione di TLR-2 in presenza di bassi ma clinicamente rilevanti livelli di prodotti microbici sia un importante meccanismo attraverso il 16 quale il sistema immunitario aumenta la sua risposta a infezioni recenti (ad es.LPS) (Nilsen et al., 2004). Dunque abbiamo proposto che l’endotossiemia metabolica porti all’attivazione di TLR-2, e dunque all’amplificazione dei segnali del complesso LPS/TLR-4/CD14 a stimolare la risposta infiammatoria. Diversi studi hanno proposto che acidi grassi saturi promuovano l’infiammazione di basso grado e l’insulino resistenza attraverso un meccanismo dipendente da TLR-4 (Shi et al., 2006; Suganami et al., 2007a, b). Comunque, è stato suggerito che l’effetto di acidi grassi saturi sull’attivazione di TLR-4 possa essere dovuta alla contaminazione da LPS dei preparati di acidi grassi o dell’albumina del siero bovino (utilizzata in questi studi) (Erridge & Samani, 2009). Si può suggerire con più certezza che questi acidi grassi sono coinvolti profondamente nella stimolazione del sistema immunitario innato, ma probabilmente in congiunzione con un’iniziale stimolazione di LPS del complesso TLR-4/CD14 e una conseguente stimolazione TLR-2. Diverse osservazioni sono a sostegno di quest’ipotesi: i) l’alterazione del microbiota intestinale con antibiotici protegge i topi da un’obesità dieto-indotta e da disordini metabolici, anche in presenza di recettori funzionanti TLR-4/2 (Cani et al., 2008); ii) topi a cui sia stato soppresso CD14 non sviluppano insulino-resistenza indotta dai grassi e infiammazione di basso grado, anche qualora i recettori TLR-4 e TLR-2 siano completamente espressi (Cani et al.,2007a; Roncon-Albuquerque et al., 2008), comunque dovrebbe essere ricordato che CD14 è richiesto per un’appropriata funzionalità sia di TLR-2 che di TLR-4 (Buwitt-Beckmann et al., 2005; Heine & Ulmer, 2005); e iii) i topi asettici alimentati con una dieta ad alto contenuto di grassi sono resistenti allo sviluppo di infiammazione indotta da una dieta ad alto contenuto di grassi e resistenti ad insulino-resistenza, sebbene si siano completamente digeriti e assorbiti i grassi ingeriti (Backhed et al., 2007; Rabot et al.,2010). Presi insieme, questi esperimenti suggeriscono che una cascata di segnale iniziata da un meccanismo dipendente da LPS/TLR-4/CD14 attiva di conseguenza l’espressione di TLR-2 a supporto della risposta infimmatoria del sistema immunitario innato. Il microbiota intestinale e la permeabilità intestinale: uno sguardo nella “MicrObesità” Tra le cause potenzialmente coinvolte nello sviluppo di un’endotossiemia metabolica, numerosi studi supportano l’idea che un mutualismo ospite-batteri porti al controllo delle funzioni della barriera intestinale (Brun et al., 2007; Cani et al., 2008, 2009b; De La Serre et al., 2010; Muccioli et al., 2010). L’endotossiemia metabolica (o anche alti livelli plasmatici di LPS) può essere il risultato di molteplici meccanismi, compresa l’aumentata produzione di endotossine su stimolazione di cambiamenti del microbiota intestinale (Cani et al., 2007a, c). In condizioni fisiologiche l’epitelio intestinale agisce come una barriera continua ed efficace che previene la translocazione batterica (ad es.LPS). Però diverse situazioni endogene e/o esogene sono associate ad un’alterazione di questa funzione protettiva. Tra i fattori che portano ad un intestino permeabile (e quindi ad una condizione che promuove l’endotossemia metabolica) sono state proposte la stasi allo stress (Mazzon & Cuzzocrea, 2008), l’assunzione di alcol (Nanji et al., 1993; Nishida et al., 1994; Adachi et al., 1995; Enomoto et al., 1998; Rivera et al., 1998; Enomoto et al., 2001) e le radiazioni (Paulos et al., 2007). In più, noi e altri abbiamo recentemente proposto che cambiamenti nella distribuzione e localizzazione della zonulina Occludens-1 (ZO-1) e occludine (due proteine di giunzioni serrate) nel tessuto intestinale siano associate con un’aumentata permeabilità intestinale, che si riscontra in topi obesi e diabetici (Fig.4) (Brun et al., 2007; Cani et al., 2008, 2009b; De La Serre et al., 2010; Muccioli et al., 2010). Diversi meccanismi sembrano spiegare il legame tra il cambiamento del microbioma intestinale in obesità e cambiamenti nelle funzioni della barriera intestinale (Fig.4 e 5). 17 In un recente studio abbiamo dimostrato che l’alterazione attraverso prebiotici del microbiota intestinale di topi geneticamente obesi può agire in modo favorevole sulla barriera intestinale; il meccanismo attraverso il quale i probiotici migliorano la permeabilità intestinale nel particolare contesto di obesità rimane da definirsi. Ad ogni modo abbiamo investigato il ruolo di uno specifico peptide intestinale coinvolto nel controllo della proliferazione di cellule epiteliali e nell’integrità di barriera intestinale, chiamato peptide-2 glucagon-like (GLP-2) (Jeppesen et al., 2001; Thulesen et al., 2001; Martin et al., 2005; Chiba et al., 2007; Dube & Brubaker, 2007). Abbiamo investigato questo particolare peptide perché in nostri lavori precedenti avevamo trovato che cambiamenti indotti dai prebiotici nel microbiota intestinale promuovevano la sintesi di GLP-1 (mRNA proglucagone e peptide GLP-1) nel colon prossimale attraverso un meccanismo collegato alla differenziazione delle cellule precursori in cellule enteroendocrine (Cani et al., 2004, 2005a, b, 2006b; Cani et al., 2007b; Delzenne et al., 2007). Dato che entrambi i GLP sono prodotti e secreti dalle cellule-L e dato che la produzione di GLP-1 endogeno aumenta con cambiamenti indotti da prebiotici nella flora batterica intestinale, abbiamo focalizzato la nostra ricerca su GLP-2. Abbiamo trovato che un’aumentata produzione endogena di GLP-2 era associata ad una migliorata funzionalità della barriera mucosale attraverso la restaurazione dell’espressione e distribuzione di proteine delle giunzioni serrate (Fig. 4). Per investigare più in profondità il ruolo di GLP-2 nell’effetto protettivo dei prebiotici, abbiamo bloccato i recettori per GLP-2 in concomitanza a cambiamenti associati ai prebiotici nella flora intestinale. Gli antagonisti di GLP-2 hanno completamente bloccato le maggiori caratteristiche del trattamento prebiotico. Dunque, senza una funzionalità del recettore GLP-2, il trattamento prebiotico è destinato a fallire nella riduzione dell’endotossemia metabolica, dell’infiammazione epatica e dei marker di stress ossidativo. Messi insieme questi dati supportano l’ipotesi che cambiamenti specifici nel microbiota intestinale migliorino la permeabilità intestinale e il tono infiammatorio attraverso meccanismi GLP-2 dipendenti (Cani et al., 2009b) (Fig.4). A seguito di questi interessanti cambiamenti nella permeabilità intestinale con trattamento prebiotico, sono state condotte misurazioni della permeabilità intestinale a livello del digiuno e ileo, mentre sono state rilevate modulazioni del microbiota intestinale nella parte distale dell’intestino (colon). Tra i potenziali meccanismi coinvolti, abbiamo proposto che il cambiamento del microbiota intestinale controlla e aumenta la produzione endogena del peptide GLP-2 derivato dal proglucagone intestinotrofico, non solo nel colon ma anche nel digiuno (Cani et al., 2009b); di conseguenza migliorerebbe la funzionalità di barriera intestinale nella parte superiore dell’intestino sia attraverso circoli regolatori autocrini che paracrini (Cani et al., 2009b). In più era stato precedentemente trovato che i prebiotici aumentano l’altezza dei villi, la profondità delle cripte e la densità degli strati mucosali nel digiuno e nel colon (Kleessen et al., 2003). Non possiamo poi ignorare che l’integrazione con prebiotici influenzi la comunità microbiale che risiede nella prima parte dell’intestino, sebbene quest’ipotesi rimanga da confermare. Un meccanismo aggiuntivo potenzialmente coinvolto nell’impatto del microbiota intestinale sullo sviluppo di obesità e disordini correlati è il sistema degli endocannabinoidi (eCB). L’interesse per questo sistema biologico origina dalle seguenti osservazioni: 1. La massima espansione del tessuto adiposo in obesità è caratterizzata da un basso grado di infiammazione, forse controllato dal microbiota intestinale (attraverso LPS); 2. L’obesità è anche caratterizzata da un aumentata responsività al sistema eCB (ad es., alterata espressione del recettore 1 cannabinoide (CB1 mRNA) e aumentatol ivello plasmatico di eCB, e aumentati livelli di eCB nel tessuto adiposo) (Engeli et al., 2005; Bluher et al., 2006; Matias et al., 2006; Cote et al., 2007; 18 D’Eon et al., 2008; Starowicz et al., 2008; Di Marzo et al., 2009; Izzo et al., 2009; Muccioli et al., 2010); 3. LPS stimola la sintesi di eCB (in vivo e in vitro) (Di Marzo et al., 1999; Maccarrone et al., 2001; Liu et al., 2003; Hoareau et al., 2009); 4. Il blocco genetico o farmacologico del recettore CB1 protegge dall’obesità, dalla steatosi e dal basso grado di infiammazione attraverso meccanismi non ancora risolti (OseiHyiaman et al., 2005; Gary-Bobo et al., 2007; DeLeve et al., 2008; Osei-Hyiaman et al., 2008). Date quest’evidenze emergenti che il sistema eCB, l’infiammazione e l’obesità sono interconnesse, abbiamo deciso di investigare in che modo il microbiota intestinale e le funzioni di barriera possano convergere in un meccanismo molecolare. Usando differenti modelli per studiare l’inter-relazione tra l’ospite e la sua comunità intestinale di microbi, abbiamo scoperto che cambiamenti specifici della flora batterica intestinale diminuiscono selettivamente l’attività del sistema eCV nel colon e nel tessuto adiposo (tali cambiamenti comprendono topi asettici verso convenzionali; trattamenti dietetici che cambiano drasticamente o selettivamente la composizione del microbiota intestinale; dis-regolazione genetica delle interazioni tra batteri intestinali e ospite). (Muccioli et al., 2010). Sia in topi obesi per via dietetica che genetica, il sistema eCB era iperattivato nell’intestino e nel tessuto adiposo (Fig.5). Abbiamo trovato che il sistema eCB, e più specificamente il recettore CB1, controlla la funzione della barriera intestinale. Per esempio il blocco del recettore CB1 in topi obesi riduce la permeabilità intestinale attraverso il miglioramento della distribuzione e localizzazione di proteine di giunzioni serrate (ZO-1 e occludine) (Fig.5). In più, l’attivazione di CB1 aumenta in vitro e in vivo i marker di permeabilità intestinale (Alhamoruni et al., 2010; Muccioli et al., 2010). Dunque questo studio ha dimostrato in primo luogo che i recettori di CB1 controllano la permeabilità intestinale attraverso interrelazioni con il microbiota intestinale (Muccioli et al., 2010). Inoltre abbiamo dimostrato l’esistenza di uno scambio reciproco tra eCB e microbiota intestinale che partecipa alla regolazione dell’adipogenesi (Muccioli et al., 2010) (Fig.5). Abbiamo anche scoperto che cambiamenti nel microbiota intestinale attraverso l’uso di prebiotici promuovono la normalizzazione della responsività del sistema eCB sia nell’intestino che nel tessuto adiposo. Questi effetti sono fortemente associati alla diminuzione della permeabilità intestinale, dell’endotossiemia metabolica e dello sviluppo di massa grassa (Fig.5). Cionondimeno, dovrebbe essere ricordato che anche se esistono forti correlazioni tra la composizione del microbiota intestinale ed elementi che controllano le funzioni di barriera intestinale (ad es.GLP-2 e il sistema degli endocannabinoidi), il diretto coinvolgimento di specifici microbi intestinali e/o metaboliti microbiali rimane da essere spiegato. Conclusioni Il nuovo concetto di “MicrObesità” ha portato alle dimostrazioni dell’impatto del microbiota intestinale sul metabolismo della persona e delle sue riserve energetiche. Ogni anno, numerose evidenze emergenti possono aiutare la comunità scientifica a capire meglio questo piccolo mondo nascosto sotto la pelle della nostra pancia. Evidenze convincenti supportano la convinzione che la comunità microbica partecipa allo sviluppo di deposizione di massa grassa, insulinoresistenza e basso grado di infiammazione (fattori che caratterizzano l’obesità). Lo sviluppo di metodi analitici efficaci porterà a spiegare con sempre maggiori conoscenze la complessità del microbiota intestinale. 19 Figura 5 Il microbiota intestinale determina la permeabilità intestinale e la fisiologia del tessuto adiposo attraverso il circolo regolatorio del sistema LPS-eCB. Il sistema eCB è iper-attivato nell’intestino con un conseguente aumento della permeabilità intestinale, dei livelli plasmatici di LPS e dell’infiammazione sistemica. L’influenza reciproca del sistema eCB e del microbiota partecipa alla regolazione dell’adipogenesi in modo diretto attraverso l’azione sul tessuto adiposo e in modo indiretto attraverso l’aumento dei livelli plasmatici di LPS. I cambiamenti indotti con il trattamento di prebiotici nel microbiota intestinale diminuiscono la responsività del sistema eCB sia nell’intestino che nel tessuto adiposo, e dunque migliorano la barriera intestinale e normalizzano l’adipogenesi. Cionondimeno, questo porterà anche diversi nuovi interrogativi riguardanti i meccanismi attraverso i quali i batteri intestinali interagiscono con l’uomo. Le risposte a queste domande-chiave saranno cruciali per lo sviluppo di futuri trattamenti “à la carte” per le patologie collegate a disbiosi. In questa prospettiva, anche se dovrebbe essere più propriamente verificato, i prebiotici rappresentano uno strumento promettente, e che è già disponibile. Bibliografia 20 21 22 23 Assunzione di proteine, il bilancio del calcio e gli effetti sulla salute a cura di Arianna Rossoni Diete ad elevato contenuto di proteine (HP) esercitano un effetto ipercalciurico pur tenendo costanti i livelli di assunzione di calcio, sebbene gli effetti specifici dipendano dalla natura delle proteine dietetiche. Un pH urinario inferiore è stato osservato in soggetti che hanno unʼalimentazione HP. La combinazione di questi due effetti sembra essere associata a condizioni dietetiche che favoriscono la demineralizzazione dello scheletro. Lʼaumentata escrezione di calcio dovuta a diete HP non sembra tuttavia essere connessa ad uno squilibrio dellʼomeostasi del calcio. In contraddizione a ciò, alcuni dati indicano che un intake HP induce un aumento dellʼassorbimento di calcio a livello intestinale. Non esistono dati clinici a supporto dellʼipotesi che diete HP abbiano un effetto negativo sulla salute delle ossa, eccezion fatta per una concomitante condizione di inadeguato apporto di calcio. Lʼintake HP promuove la crescita delle ossa e ritarda processi di osteopenia, e una dieta bassa di proteine è stata associata ad un maggiore rischio di fratture allʼanca. Lʼaumento di acido e di escrezione calcica dovuta a diete HP è stata anche accusata di creare condizioni organiche favorevoli a calcoli renali e patologie ai reni. Tuttavia in soggetti sani non sono stati registrati effetti negativi di diete HP sui reni né in studi osservazionali né in studi di intervento: sembrerebbe che diete HP possano essere deleterie solo in pazienti con preesistenti disfunzioni metaboliche renali. Dunque la dieta HP non sembra portare a perdita di calcio osseo: il ruolo delle proteine sembra essere più complesso di quanto si creda, e probabilmente è dipendente da altri fattori dietetici e dalla presenza di altri nutrienti nella dieta. Le diete ricche di proteine sono state associate a modificazioni del calcio urinario e ad escrezioni acide, due fattori che si sospettano riflettere uno stato di blanda acidosi che potrebbe portare a condizioni ambientali favorevoli a demineralizzazione dello scheletro e sviluppo di calcoli renali. Il metabolismo delle proteine dietetiche contribuisce alla produzione endogena di acidi, soprattutto attraverso lʼossidazione di acidi aminosolfurici e fosfoproteine. Tuttavia altri risultati supportano una relazione positiva tra lʼintake di proteine e la salute delle ossa. Per analizzare la letteratura collegata a queste tematiche abbiamo condotto ricerche nel database MEDLINE attraverso PubMed utilizzando le seguenti parole-chiave: diete ad elevato contenuto di proteine, proteine dietetiche, assunzione di proteine, assunzione di carne, equilibrio acido-base, escrezione acida renale netta, ipercalciuria, equilibrio del calcio, calcio urinario, escrezione di calcio, assorbimento di calcio, salute delle ossa, massa ossea e fratture. La lista di riferimenti è stata revisionata per studi supplementari rilevanti. Eʼ stato anche fatto un tentativo per interpretare le differenze tra gli effetti riportati con riguardo alle variazioni di assunzioni dietetiche. 24 Assunzione di proteine, calcio urinario, escrezioni acide ed equilibrio del calcio Proteine dietetiche e calcio urinario ed escrezioni acide Studi controllati di assunzione dietetica hanno mostrato un effetto ipercalciurico delle diete HP quando le proteine supplementari erano date in forma purificata (caseina, lattoalbumina, proteine del glutine del grano, albume in polvere), con unʼescrezione urinaria di calcio aumentata di 0,7-2,2 mg per ogni grammo di proteine supplementari ingerite, a costanti livelli di intake di calcio (Johnson et al., 1970; Anand and Linkswiler, 1974; Kim and Linkswiler, 1979; Schuette et al., 1980; Hegsted and Linkswiler, 1981; Hegsted et al., 1981; Zemel et al., 1981; Schuette and Linkswiler, 1982; Lutz, 1984; Trilok and Draper, 1989; Pannemans et al., 1997; Wagner et al., 2007) (Tabella 1). Lʼaumentata escrezione urinaria di calcio è stata osservata sia in donne onnivore che vegetariane (Ball and Maughan, 1997) e in soggetti che seguivano la dieta Atkins (Reddy et al., 2002). Altri studi non riportano cambiamenti nei livelli urinari di calcio a seguito di diete ad elevato consumo di carne comparate a diete a basso consumo di carne (Spencer et al., 1978, 1983, 1988). Lʼeffetto ipercalciurico di diete HP dipende certamente dalla natura delle proteine dietetiche, e bisogna anche tenere conto che diversi alimenti ad HP, come carne o prodotti caseari, contengono anche componenti che limitano lʼescrezione urinaria di calcio. Per esempio, il fosforo esercita un effetto ipocalciuretico che contrasta lʼeffetto ipercalciuretico determinato dallʼintake proteico. Quando lʼassunzione di proteine e calcio è tenuto costante, un aumento dellʼassunzione di fosforo causa una diminuzione del calcio urinario tra il 40 e 65% a seconda del livello di assunzione proteica (Hegsted et al., 1981). Le diete HP sono anche associate a unʼaumentata escrezione acida, che si riflette in una diminuzione del pH urinario e un aumento dellʼescrezione acida renale totale. In studi a nutrizione controllata, comparando diete con bassi e alti livelli di proteine, il pH urinario risultava ridotto di 0,3-0,8 unità quando lʼassunzione di proteine era aumentata di 40-60 g/giorno (Lutz, 1984; Trilok and Draper, 1989; Reddy et al., 2002; Roughead et al., 2003). Sono stati riportati aumenti nellʼescrezione acida renale netta entro un range di 0,4-1 mEquiv per ogni grammo di proteine dietetiche supplementari (Schuette et al., 1980; Hegsted and Linkswiler, 1981; Schuette and Linkswiler, 1982; Lutz, 1984; Reddy et al., 2002). Il livello di escrezione acida supplementare indotto da maggiori assunzioni proteiche potrebbe dipendere dalla natura delle proteine ingerite. Per esempio, lʼescrezione acida renale netta era positivamente associata a unʼassunzione di proteine non di origine casearia (Hu et al., 1993) e proteine totali (Frassetto et al., 1998), ma non ad unʼassunzione di proteine vegetali (Frassetto et al., 1998). Comunque, lʼaumentato carico acido renale a seguito di diete HP non è necessariamente associato a modificazioni del carico acido sistemico. Il pH plasmatico e la concentrazione di bicarbonati rimane entro range di normalità quando lʼaumento delle proteine dietetiche raggiunge un massimo di 164 g/giorno (Reddy et al., 2002) o 2 g/kg (Wagner et al., 2007). Il fatto che lʼequilibrio acido-base sistemico venga preservato suggerisce che il carico acido indotto dalle proteine può essere adeguatamente gestito dai reni attraverso lʼescrezione dellʼeccesso di acidi prodotti e attraverso lʼattivazione di sistemi tampone. Lʼassunzione di proteine e lʼequilibrio del calcio Lʼequilibrio del calcio viene definito come: “l’ assunzione data dalla dieta del calcio” meno “somma delle escrezioni urinarie e fecali di calcio”. Sebbene vi sia un ampio consenso riguardo lʼassociazione tra aumentato introito di proteine dietetiche ed aumentata escrezione urinaria di calcio, lʼeffetto di diete HP sullʼequilibrio totale organico di calcio è meno chiaro (Tabella 2). 25 In alcuni studi le diete HP associate ad un aumento dei livelli urinari di calcio erano anche associate ad un bilancio di calcio minore e negativo se comparate a diete a basso contenuto di proteine (LP) (Johnson et al., 1970; Anand and Linkswiler, 1974; Kim and Linkswiler, 1979; Allen et al., 1979b; Hegsted et al., 1981; Schuette and Linkswiler, 1982; Lutz, 1984); la diminuzione del bilancio giornaliero di calcio era in un range di 1-1.6 mg per ogni grammo di proteine extra. Altri studi non riportano cambiamenti nel bilancio di calcio a seguito di diete HP, non si osservano cambiamenti né nellʼescrezione urinaria di calcio nè nellʼassorbimento di calcio quando le proteine erano fornite come carne (Spencer et al., 1983; Draper et al., 1991); si è osservata una diminuzione dellʼescrezione fecale di calcio, che compensa lʼaumentato calcio urinario quando le proteine supplementari venivano aggiunte alla dieta in forma di proteine purificate (Cummings et al., 1979; Pannemans et al., 1997). Le discrepanze esistenti tra gli effetti riportati negli studi di diete HP circa il bilancio di calcio possono essere parzialmente spiegate con la difficoltà a misurare lʼomeostasi totale del calcio. In primo luogo le perdite fecali di calcio (che devono essere misurate per un periodo di 5-10 giorni per essere rappresentative alla dieta) sono 10 volte superiori delle perdite urinarie di calcio, e un errore nella determinazione di calcio fecale può fortemente incidere nella stima dellʼomeostasi del calcio. In più alcuni fattori dietetici, come lʼintroito di calcio e fosforo, sono in grado di modulare il bilancio di calcio. Ad elevati livelli di introito di calcio, lʼaumento dellʼintroito di fosforo causa un cambiamento del bilancio di calcio da negativo a positivo (Hegsted and Linkswiler, 1981). Un introito elevato di proteine e di fosforo è stato associato ad un bilancio di calcio positivo quando lʼintake di calcio stesso è elevato, ma ad un bilancio negativo quando lʼintake di calcio è basso (Schuette and Linkswiler, 1982). Questi effetti sono particolarmente importanti se si tiene in considerazione che lʼaumento di proteine dietetiche attraverso la dieta quotidiana si accompagna generalmente ad un aumento di intake di fosforo, dal momento che carne e latticini sono alimenti ricchi tanto di proteine quanto di fosforo: ciò potrebbe spiegare perché piccoli cambiamenti nel bilancio di calcio vengono osservati soprattutto in studi nei quali lʼintroito HP è derivante da un elevato consumo di carne e latticini piuttosto che da proteine purificate. Introito proteico e metabolismo del calcio modulazioni del La gestione della modulazione di calcio renale Lʼeffetto ipercalciurico delle proteine dietetiche probabilmente deriva da unʼalterazione della gestione di calcio renale (Tabella 3). Un aumento dellʼassunzione di proteine di 2 o 3 volte causa un aumento della filtrazione glomerulare pari al 6-20% (Kim and Linkswiler, 1979; Allen et al., 1979b; Schuette et al., 1980; Hegsted and Linkswiler, 1981; Hegsted et al., 1981; Zemel et al.,1981), determinando di conseguenza un aumentato carico di filtrazione di calcio. In parallelo, il riassorbimento tubulare frazionato risulta diminuito del 0.9-2% quando lʼaumento delle proteine assunte con la dieta è del 100-200% (Kim and Linkswiler, 1979; Hegsted and Linkswiler, 1981; Hegsted et al., 1981; Zemel et al., 1981). Queste modulazioni della funzione renale sembrerebbero essere dovute ad un effetto diretto delle proteine sulle cellule renali, mentre i livelli circolanti dellʼormone che maggiormente regola il metabolismo del calcio (lʼormone paratiroideo) non variano allʼaumentare dellʼintake proteico (Kim and Linkswiler, 1979; Allen et al., 1979b; Schuette et al., 1980). Alterazioni della gestione del calcio renale possono anche essere associate allʼaumentata escrezione acida associata ad un intake HP. Viene riportato che lʼescrezione di calcio urinario aumenta di circa 100 mg/giorno a seguito di una dieta acidificante in confronto a una dieta basificante (Buclin et al., 2001). 26 Alcune meta-analisi di studi nei quali lʼintake acido-base è stato manipolato con cambiamenti del cibo assunto o con integratori mostrano una correlazione positiva tra lʼescrezione acida urinaria netta e il calcio urinario, con un aumento di 0.9-1.4 mg del calcio urinario per ogni aumento dellʼescrezione acida di 1 mEquiv. (Fenton et al., 2008, 2009). Il rapporto tra acidi ed escrezione di calcio è stato successivamente supportato dal fatto che un aumento di basi attraverso la dieta in forma di bicarbonato di sodio contrasta parzialmente lʼeffetto ipercalciuretico della dieta HP (Lutz, 1984). Più nello specifico, lʼaumentata escrezione urinaria di calcio a seguito di diete HP è spesso attribuita, almeno parzialmente, allʼaumento dellʼescrezione urinaria di solfati che derivano dallʼaumentato metabolismo di acidi aminosolfurici (Schette et al.,1980). Ad ogni modo gli acidi amino solfurici aggiunti a diete LP in una quantità pressoché simile a quella presente in diete HP causano un aumento del calcio urinario che giustifica solo il 44% dellʼaumento causato da diete HP (Zemel et al., 1981), suggerendo dunque che altri fattori siano coinvolti nellʼipercalciuria protein-indotta (come ad esempio lʼescrezione di ammoniaca). Anche alcuni ormoni che influenzano lʼescrezione di calcio, come insulina, ormoni della crescita e glucocorticoidi, potrebbero essere coinvolti nellʼeffetto ipercalciuretico delle proteine (Allen et al., 1981; Zemel et al., 1981). La modulazione dellʼassorbimento intestinale del calcio alimentare La più vecchia ipotesi riguardante lʼaumentato calcio urinario indotto da diete HP è stata che le proteine dietetiche sono in grado di stimolare lʼassorbimento intestinale di calcio. Tuttavia lʼeffetto delle diete HP sullʼassorbimento intestinale di calcio rimane ancora poco chiaro (Tabella 2). McCance et al. (1942) per primi osservarono che soggetti sottoposti a diete LP (<70 g/giorno) avevano unʼassorbimento intestinale di calcio ridotto del 20% rispetto a soggetti che seguivano diete HP (>145 g/giorno). Queste prime scoperte furono successivamente confermate da alcuni studi di intervento (Lutz and Linkswiler, 1981; Schuette and Linkswiler, 1982), mentre altri studi sono stati inefficaci a dimostrare una qualsiasi correlazione tra proteine dietetiche e assorbimento intestinale di calcio (Schuette at al., 1980; Hegsted and Linkswiler, 1981; Hegsted et al., 1981). Ad ogni modo in questi studi lʼassorbimento di calcio è stato stimato usando il metodo dellʼequilibrio, ossia misurando la differenza esistente tra lʼassunzione di calcio e le perdite di calcio fecale. Dal momento che quantificare le perdite fecali è tecnicamente difficile e che questo metodo potrebbe non rilevare piccoli cambiamenti nellʼassorbimento, i risultati andrebbero interpretati con cautela. Il reale assorbimento potrebbe inoltre essere sottostimato poiché è impossibile dissociare lʼescrezione fecale di calcio di origine endogena e quella dietetica. Più recentemente alcuni metodi che utilizzano isotopi del calcio, come il metodo dellʼacqua doppiamente marcata che è lʼattuale goldstandard (Heaney, 2000) o il metodo del radiotracciante, hanno offerto uno strumento più affidabile per stimare lʼassorbimento intestinale di calcio, ma i risultati circa lʼeffetto delle proteine dietetiche sullʼassorbimento di calcio rimangono contradditori. A parità di condizioni sperimentali, alcuni studi di intervento hanno trovato che diete HP (1.5-2 g/kg comparate a 0.5-1 g/kg di proteine consumate giornalmente) inducono un aumento dellʼassorbimento di calcio associato ad un aumento dellʼescrezione di calcio in donne premenopausa e postmenopausa (Kerstetter et al., 1998, 2005; Hunt et al., 2009), mentre altri studi non hanno trovato alcuna correlazione tra dieta HP ed assorbimento di calcio, a dispetto di un’aumentata escrezione di calcio (Kerstetter et al., 2006; Ceglio et al., 2009). Uno studio osservazionale longitudinale e alcuni studi di intervento che hanno utilizzato il metodo del radiotracciante per stimare lʼequilibrio del calcio non hanno trovato alcun effetto delle diete HP sullʼassorbimento intestinale di calcio; in questi studi non è stata 27 trovata correlazione tra proteine alimentari ed escrezione di calcio (Spencer et al., 1983; Dawson-Hughes and Harris, 2002; Roughead et al., 2003). I livelli di calcio dietetico potrebbero modulare lʼeffetto dellʼintake proteico sullʼassorbimento di calcio, e ciò contribuirebbe a spiegare i risultati contradditori. In effetti Hunt et al. (2009) hanno dimostrato che un introito di HP quando comparato a LP aumenta lʼassorbimento di calcio solo in presenza di basso intake di calcio (700 mg/giorno), e non con alto introito (1500 mg/giorno). Non è ancora chiaro il possibile meccanismo che stimola lʼassorbimento intestinale di calcio in risposta a proteine alimentari. Lʼassorbimento di calcio avviene in primo luogo nel duodeno, dove le secrezioni acide gastriche permettono di mantenere lʼambiente a un pH<6.0, necessario per la solubilizzazione dei sali di calcio derivanti dal cibo ingerito (Goss et al., 2007). La produzione acida gastrica viene stimolata non solo dal sistema nervoso parasimpatico, ma anche da segnali chimici, da nutrienti incluso Ca2+ (Hade and Spiro, 1992; Geibel and Wagner, 2006) e da alcuni aminoacidi (Konturek et al., 1978; Strunz et al., 1978). Dunque le proteine alimentari potrebbero aumentare la solubilità del calcio attraverso la stimolazione della produzione acida gastrica (DelValle and Yamada, 1990; Schulte-Frohlinde et al., 1993). In più si è visto che alcuni derivati dalla digestione di proteine, come ad esempio la caseina, potrebbero stimolare lʼassorbimento intestinale di calcio attraverso interazioni dirette con il calcio stesso (Ferraretto et al., 2001; Erba et al., 2002). Per determinare cambiamenti nel bilancio del calcio con diete HP sono particolarmente importanti i dati riguardo le variazioni dellʼassorbimento intestinale di calcio. Infatti, sebbene il calcio urinario sia spesso riportato come marker del metabolismo calcico, esso non è ancora un indicatore esatto delle perdite totali di calcio poiché potrebbero esserci differenze nellʼassorbimento intestinale di calcio che compensano i cambiamenti dellʼescrezione di calcio. La mobilizzazione del calcio osseo e la ritenzione netta di calcio In accordo allʼipotesi acidificante, la dieta HP causerebbe un eccesso di carico acido che andrebbe neutralizzato dal rilascio di ioni bicarbonato dalla matrice ossea, un meccanismo che è accompagnato dalla perdita di ioni sodio, potassio e una piccola quantità di ioni calcio (Green and Kleeman, 1991), e di conseguenza lʼaumento del riassorbimento osseo si rifletterebbe nellʼaumento dellʼescrezione urinaria di calcio (Barzel and Massey, 1998; Remer, 2000; Frassetto et al., 2001; New, 2003) (Tabella 4). Il carico acido potrebbe anche diminuire lʼattività osteoblastica ed aumentare quella osteoclastica, determinando un riassorbimento netto osseo con mobilizzazione di calcio (Bushinsky, 1989; Krieger et al., 1992; Alpern and Sakhaee, 1997). Ad ogni modo non ci sono dati sperimentali convincenti a supporto di questa teoria. Esistono risultati contradditori sui cambiamenti nellʼidrossiprolina urinaria, marker del metabolismo del collagene, in risposta a diete HP; alcuni studi riportano un aumento dei livelli di escrezione urinaria di idrossiprolina a seguito di diete HP (Kim and Linkswiler, 1979; Schuette and Linkswiler, 1982), mentre altri studi non osservano alcun cambiamento (Allen et al., 1979b; Hunt et al., 1995). Assunzione di proteine e salute delle ossa Non esistono dati clinici per dimostrare effetti negativi sulla salute delle ossa a seguito dellʼassunzione di proteine Lʼassunzione di proteine si correla positivamente con la massa ossea in diverse zone dello scheletro ed in ogni categoria di popolazione, dai bambini a uomini e donne anziani.(Hirota et al., 1992; Geinoz et al., 1993; Devine et al., 1995; Cooper et al., 1996; Feskanich et al., 1996; Teegarden et al., 1998; Hannan et al., 2000; Sellmeyer et al., 2001; Whiting et al., 2002; Ilich et al., 2003; Alexy et al., 2005; Budek et al., 2007; Chen et al., 2007; Chevalley et al., 2008; Thorpe et al., 2008). 28 Nella loro review sistemica, Darling et al. (2009) hanno notato che la maggior parte delle indagini cross-sezionali o delle review di studi di coorte non riportano né associazione né effetto benefico tra proteine e massa minerale ossea (BMD), e solo unʼindagine ha trovato una correlazione negativa tra le proteine e il contenuto minerale corporeo. Hanno dunque concluso che le proteine dietetiche, se non significativamente favorenti, non sono nemmeno nocive alla densità ossea. Un più recente studio longitudinale che ha coinvolto 540 donne in menopausa non ha trovato alcun effetto avverso sul BMD a seguito di un aumentato intake proteico (5-25% dellʼenergia totale giornaliera) (Beasley et al., 2010). Gli studi frequentemente citati che supportano lʼeffetto deleterio delle diete HP sulla salute ossea sono analisi retrospettive dellʼincidenza di frattura allʼanca di donne in menopausa provenienti da paesi differenti (Abelow et al., 1992; Frassetto et al., 2000); tali studi hanno trovato che lʼincidenza più alta di frattura allʼanca si verifica nei paesi occidentali, che hanno un maggior consumo di proteine animali dietetiche. Nonostante ciò ci sono diverse ovvie limitazioni a questi studi, come notato da Bonjour (2005). In primo luogo, i paesi con la maggiore incidenza di frattura allʼanca sono anche quelli con lʼaspettativa di vita più lunga, che è un determinante importante del rischio di fratture osteoporotiche (Kannus et al., 1996). Lʼassunzione di proteine è stata valutata sulla popolazione totale ma non sullo specifico gruppo in studio. Inoltre le differenze interetniche circa il rischio di fratture osteoporotiche sono ben conosciute e potrebbero essere attribuibili a molti fattori, tra cui la struttura ossea, il genotipo e lo stile di vita (Nelson e Megyesi, 2004; Lei et al., 2006). Altri dati epidemiologici apportano qualche debole evidenza che lʼincidenza di fratture è collegata ad una maggiore assunzione di proteine. Nello studio “Nursesʼ Health” durato 12 anni e condotto negli Stati Uniti, le donne che consumavano >95 g di proteine al giorno avevano un aumentato rischio di frattura allʼavambraccio ma non allʼanca (Feskanich et al., 1996). In unʼindagine retrospettiva norvegese, lʼelevato rischio di frattura allʼanca è stato associato a unʼelevata assunzione di proteine non provenienti dai latticini solo quando lʼassunzione di calcio era concomitantemente bassa (Meyer et al., 1997). La maggiore limitazione di entrambi gli studi è stato lʼuso di un questionario di frequenza alimentare mandato per posta, con un numero di risposte limitato e una limitata stima di altri fattori dello stile di vita o dietetici che potrebbero contribuire al rischio di frattura. Al contrario numerosi altri studi prospettici hanno trovato unʼassociazione chiaramente negativa tra lʼassunzione di proteine e il rischio di frattura allʼanca negli anziani (Huang et al., 1996; Munger et al., 1999; Wengreen et al., 2004; Misra et al., 2010). In una meta-analisi di studi di coorte, Darling et al. (2009) non hanno trovato associazione tra lʼassunzione di proteine e il rischio di fratture. In più, in studi di intervento la supplementazione orale di proteine ha significativamente migliorato la prognosi clinica dopo fratture alle anche riscontrate negli anziani (Delmi et al., 1990; Tkatch et al., 1992; Schurch et al., 1998). Impatto dellʼassunzione di calcio sul rapporto tra intake proteico e salute delle ossa Esistono alcune evidenze che lʼeffetto benefico dellʼassunzione di proteine sulla massa minerale ossea sia meglio espresso quando lʼintegrazione sia di calcio che di vitamina D è adeguata (Heaney, 2001, 2002; Dawson-Highes, 2003). Tra le donne norvegesi è risultato che lʼintake proteico non si correla al rischio di frattura allʼanca, eccetto quando questʼintake è ai livelli più elevati e in associazione a basso introito di calcio (Meyer et al., 1997). 29 Uno studio dʼintervento durato tre anni ed effettuato su uomini e donne over-65 non ha trovato correlazione tra assunzione di proteine e BMD nel gruppo placebo (che assumeva una quantità normale di calcio), mentre la dieta HP del gruppo con supplementazione di calcio ha registrato un effetto benefico sulla BMD (Dawson-Hughes and Harris, 2002). Presi insieme, gli studi riguardanti lʼassunzione di proteine e la salute delle ossa suggeriscono che lʼelevato intake proteico derivante dal cibo promuove la crescita ossea e ritarda la perdita ossea, e che diete LP sono associate con un più elevato rischio di fratture allʼanca. Gli effetti positivi dellʼintake di proteine alimentari sulla salute delle ossa sembra essere dipendente, almeno in parte, dallʼassunzione di calcio. Il mantenimento di unʼadeguata forza e densità ossea con il procedere dellʼetà è altamente dipendente dal mantenimento di unʼadeguata massa muscolare, e la massa muscolare è viceversa dipendente da unʼadeguato intake di proteine di alta qualità (Wolfe, 2006; Heaney and Layman, 2008). Meccanismi che supportano lʼeffetto benefico delle proteine sulla salute delle ossa I meccanismi attraverso i quali le proteine influiscono positivamente sulla salute delle ossa sono perlopiù connesse al fattore-1 di crescita insulino-simile (IGF-1). Lʼassunzione di proteine induce la produzione e lʼazione dellʼIGF-1 sia studi su animali che in studi sullʼuomo (Schurch et al., 1998; Heaney et al., 1999; Arjmandi et al., 2003; Dawson-Hughes, 2003; Ceglia et al., 2009). IGF-1 è il maggiore regolatore del metabolismo osseo che può agire come regolatore sistemico e locale della funzione osteoblastica (Mohan et al., 1992; Langdahl et al., 1998) e come fattore accoppiante delle ossa che rimodella e attiva sia il riassorbimento che la formazione ossea (Rubin et al., 2002). Come rivisto da Bonjour et al. (1997) e da Thissen et al. (1994),l’ impatto delle proteine dietetiche sullʼIGF-1 e viceversa lʼimpatto dellʼIGF-1 sulla salute delle ossa ha un ruolo chiave nella prevenzione dellʼosteoporosi. In cavie da laboratorio adulte, una dieta LP ha dimostrato saper diminuire i livelli plasmatici di IGF-1 e di indurre un bilancio osseo negativo con diminuita formazione ed aumentato riassorbimento (Ammann et al., 2000; Bourrin et al., 200a, b). Questʼeffetto viene invertito con la supplementazione aminoacidica (Ammann et al., 2000). Assunzione di proteine, funzione renale e formazione di calcoli renali Si ritiene che i potenziali effetti nocivi delle proteine dietetiche nei riguardi della funzione renali possano essere dovuti al “sovralavoro” indotto dalle proteine stesse sui reni. Infatti, come mostrato precedentemente, le diete HP causano un aumento della filtrazione glomerulare e unʼiperfiltrazione (Kim and Linkswiler, 1979; Schuette et al., 1980; Hegsted and Linkswiler, 1981; Hegsted et al., 1981; Zemel et al., 1981; Brenner et al., 1982; Bilo et al., 1989; Metges and Barth, 2000; Tuttle et al., 2002; Frank et al., 2009; Burodom, 2010). In modelli animali, le diete HP inducono ipertrofia renale (Addis, 1926; Wilson, 1933; Hammond and Janes, 1998), ma non in modo sistemico (Robertson et al., 1986; Collins et al., 1990; Lacroix et al., 2004) e stando alle nostre conoscenze attuali non è chiaro il legame tra ipertrofia renale indotta dalle proteine o iperfiltrazione e problemi renali in soggetti sani. Solo un recente studio ha dimostrato che nei maiali una dieta HP a lungo termine (4-8 mesi) ha come risultato un aumento della dimensione dei reni con evidenze cliniche di danno renale (Jia et al., 2010). Mentre, Martin et al. (2005) concludono che non cʼè unʼevidenza significativa di unʼassociazione tra intake di proteine elevate e inizio o progressione di danni renali in soggetti sani. Per esempio, in uno studio osservazionale unʼassunzione elevata di proteine animali è stata correlata con un declino della funzione renale in donne con problemi renali preesistenti, ma non in donne con una funzione renale normale (Knight et al., 2003). 30 In studi di intervento di lunga durata che hanno incluso soggetti sani sovrappeso o obesi senza preesistenti disfunzioni renali, la dieta HP non ha influenzato negativamente la funzione renale, sia che avesse aumentato il valore di filtrazione glomerulare e le dimensioni dei reni (Skov et al., 1999), sia che non lʼavesse fatto (Brinkworth et al., 2010). Ad ogni modo, le diete HP sembrano accelerare il deterioramento renale in pazienti con disfunzioni a questi organi, e la restrizione proteica è una strategia molto comune per postporre la progressione della malattia renale (Klahr, 1989; Pedrini et al., 1996; Robertson et al., 2007). Martin et al. (2005) suggeriscono che in persone sane, lʼipertrofia renale aumentata dalla filtrazione glomerulare e lʼiperfiltrazione indotta dallʼintroito di HP potrebbe essere il frutto di un normale adattamento fisiologico allʼaumentata domanda rivolta ai reni, conseguente al loro ruolo di tampone di acidi. Presi insieme questi risultati suggeriscono che diete HP non dovrebbero avere un effetto negativo su persone sane ma potrebbero accelerare i problemi renali in persone con pregresse disfunzioni a questi organi. Un altro effetto potenzialmente negativo dellʼassunzione di diete HP, in particolare se proteine animali, riguarda la relazione con la formazione di calcoli renali. Lʼassunzione HP induce un aumento del calcio e dellʼescrezione acida, che sono considerate essere sostanze potenzialmente litogene (Robertson et al., 1979; Wasserstein et al., 1987). Studi prospettici hanno trovato un aumentato rischio di formazioni di calcoli a seguito di un intake elevato di proteine animali in uomini e donne senza precedenti episodi di calcolosi (Curhan et al., 1993, 1997), mentre altri studi riportano un rischio non modificato o ridotto (Hirvonen et al., 1999; Curhan et al., 2004). Elevati introiti di proteine animali (carne) sono correlati negativamente con marker di formazione di calcoli in uomini con storia di calcolosi recidivante, mentre non sono stati registrati cambiamenti in soggetti sani (Nguyen et al., 2001). Eʼ possibile che, come per i problemi renali, le proteine derivate dalla dieta siano dannose solo per pazienti con disfunzioni preesistenti (Jaeger et al., 1983; Hess,2002). In più, sebbene una supplementazione di calcio potrebbe essere associata ad un aumentato rischio di formazione di calcoli (Curhan et al., 1997), elevati introiti di calcio dietetico hanno dimostrato diminuire il rischio di formazione di calcoli renali in soggetti sani (Curhan et al., 1993, 1997, 2004). Così come lʼintake elevato di calcio riduce lʼassorbimento di ossalati, altro importante fattore di rischio per la formazione di calcoli renali, lʼaumento dellʼintake di calcio potrebbe diminuire lʼescrezione urinaria di ossalati e in questo modo controbilanciare lʼeffetto promuovente la formazione dei calcoli per lʼaumento del calcio urinario (Heaney, 2006). Questo risultato suggerisce che prodotti lattierocaseari potrebbero essere benefici per prevenire la formazione di calcoli renali in soggetti sani. Lʼimpatto di altri fattori dietetici sulla salute delle ossa e la funzione renale Lʼeffetto delle proteine dipende anche dalla presenza di altri nutrienti nella dieta (Tabella V). Alti introiti di frutta e verdura sono associati ad ossa sane negli adulti e negli anziani sia uomini che donne (New et al., 1997, 2000; Tucker et al., 1999, 2001; New, 2002, 2003; Hardcastle et al., 2011) e ad un ridotto rischio di formazione di calcoli in pazienti ad alto rischio (Trinchieri et al., 2006; Taylor et al., 2010). Questʼeffetto benefico di frutta e verdura è probabilmente dovuto al loro elevato contenuto di magnesio e potassio. Negli adulti sani il bicarbonato di potassio si è dimostrato essere ipocalciurico (Lemann et al., 1993; Sebastian et al., 1994; Whiting et al., 1997) ed è stato positivamente associato alla salute delle ossa (New et al., 1997; Tucker et al., 1999). Sebbene non sia ancora chiaro se l’ effetto dei sali di potassio sullʼescrezione di calcio, sulle ossa e sui reni sia dovuto ad un effetto alcalinizzante dei bicarbonati o allʼeffetto del potassio di per sé stesso. La somministrazione di KHCO3 riduce lʼescrezione urinaria di calcio, ma la somministrazione di altri sali bicarbonati (NaHCO3) non ha avuto unʼeffetto sistemico sullʼequilibrio del calcio in soggetti sani (Lutz, 1984; Lemann et al., 1989). 31 Nei topi, la somministrazione di vari estratti vegetali ha indotto unʼinibizione del riassorbimento osseo in vivo, indipendentemente dal loro contenuto di basi (Muhlbauer et al., 2002). Questi dati suggeriscono un possibile ruolo del potassio stesso. In uno studio di coorte di circa 650 donne pre- e post-menopausa si è trovata una correlazione inversa tra il potassio dietetico e il calcio urinario, senza alcun effetto sullʼomeostasi del calcio poiché la calciuria ridotta era controbilanciata da una riduzione dellʼassorbimento intestinale di calcio (Rafferty et al., 2005). In più, il potassio è stato identificato come il maggior stimolatore dellʼescrezione urinaria di citrati, che è un inibitore della formazione di calcoli di calcio (Demigne et al., 2004; Marangella et al., 2004). Lʼingestione di alcali come citrato di potassio e magnesio ha ridotto il rischio di formazione di calcoli renali in uno studio controllato randomizzato in un periodo di 3 anni (Ettinger et al., 1997). Il contenuto alcalino e la ricchezza di potassio in frutta e verdura sono positivamente correlati a una ridotta escrezione di calcio, salute delle ossa e ridotto rischio di formazione di calcoli renali in soggetti ad alto rischio. Le diete HP sono state anche accusate di costituire un ambiente favorevole a colacoli renali e patologie renali per causare lʼaumento degli acidi e dellʼescrezione di calcio, ma non sono stati trovati effetti negativi di diete HP sui reni in soggetti sani, e le diete HP potrebbero essere deleterie solo in pazienti con funzioni renali preesistenti. Ad ogni modo, diete HP sono spesso caratterizzate dallʼavere bassi apporti di frutta e verdura, che si sono già dimostrati essere benefici per la salute delle ossa e la funzione renale. Di conseguenza, per valutare gli effetti degli introiti dietetici sul bilancio del calcio, salute delle ossa e funzionalità renale, bisogna prendere in considerazione non solo i nutrienti, ma anche possibili deficit alimentari. Conclusioni Sebbene le diete HP inducono un aumento nellʼescrezione netta di acidi e di calcio urinario, non sembrano essere connesse ad uno squilibrio dellʼomeostasi del calcio e non ci sono dati clinici a supporto dellʼipotesi di un effetto nocivo delle diete HP sulla salute delle ossa, eccetto che nel contesto di un inadeguato apporto di calcio. Dunque è più probabile che lʼeccessiva escrezione urinaria di calcio con diete HP non origini da perdita di calcio osseo ma da un aumento dellʼassorbimento intestinale. 32 Tab.I 33 Tab.II 34 35 36 Tab.III 37 38 Tabella I - I principali effetti riportati da diete HP sullʼescrezione acida renale in associazione a unʼaumentata escrezione di calcio urinario, in relazione al tipo e alla quantità di proteine dietetiche Abbreviazioni: C =caseina; CF = studio a nutrizione controllata (tutto il cibo è stato fornito ai soggetti); CO = studio crossover (sia randomizzato che non randomizzato); FE = dieta libera; FR = documentazione del cibo introdotto; G = gelatina; HP = elevate proteine; LA =lattoalbumina; LP= proteine basse; RNAE= escrezione acida renale netta; TA= acidi titolabili; WE= albumi in polvere; WG =glutine del grano. a Cambiamenti nei valori dei parametri a seguito di diete HP sono state comparate a diete LP: il simbolo ↑ indica un aumento dei valori del parametro, il simbolo ↓ indica una diminuzione dei valori del parametro, il simbolo = indica cambiamenti non significativi dei valori del parametro. b La differenza nella quantità di proteine in diete HP comparate a diete LP (quantità di proteine in dieta LP vs quantità di proteine in dieta HP). Tabella II - Effetti maggiori sul bilancio di calcio, assorbimento intestinale di calcio e escrezione urinaria di calcio riportati da diete con differenti livelli di proteine Abbreviazioni: C =caseina; CF=studio a nutrizione controllata (tutto il cibo è stato fornito ai soggetti); CO= studio crossover (sia randomizzato che non randomizzato); FE=dieta libera; FR=documentazione del cibo introdotto; G=gelatina; HP=elevate proteine; LA=lattoalbumina; LP=proteine basse; RNAE=escrezione acida renale netta; TA=acidi titolabili; WE=albumi in polvere; WG=glutine del grano; il simbolo ? indica che lʼinformazione non è data nellʼarticolo. a Stimato come bilancio di Ca in dieta HP - Bilancio di Ca in dieta LP; <0 indica bilancio negativo di Ca in dieta HP. b = indica che il livello di introito di calcio o fosforo è mantenuto costante attraverso i livelli proteici con supplementazione; > indica aumentati livelli di introito di calcio o fosforo con dieta HP. c Livelli più bassi e più alti di intake proteico sono riportati se >2 livelli di intake proteico sono stati investigati. d Risultati dallo stesso studio, con due differenti livelli di introito di fosforo e Risultati dallo stesso studio, con tipi differenti di supplementazione proteica f Risultati dallo stesso studio, con due differenti tipi di supplementazione proteica (animale e vegetale) g Risultati dallo stesso studio, con due differenti livelli di introito di calcio Tabella III - Effetti principali riportati in diete HP riguardo la gestione renale di calcio Abbreviazioni: CF = studio a nutrizione controllata (tutto il cibo è stato fornito ai soggetti); CO=studio crossover (sia randomizzato che non randomizzato); fact. = studio fattoriale; FTR=riassorbimento tubolare frazionato; GFR = tasso di filtrazione glomerulare; HP = alte proteine; LP = basse proteine; NS = cambiamenti non significativi; ? indica che lʼinformazione non è presente nellʼarticolo. a Cambiamenti in HP comparati con LP (valore nella dieta HP - valore nella dieta LP). b = indica che il livello di introito di calcio è stato mantenuto costante attraverso i livelli di proteine con supplementazione; > indica livelli più elevati di introito di calcio o fosforo con la dieta HP. c Risultati da studi senza valutazione del FTR. d Caseina, lattoalbumina, glutine di grano, albumi in polvere addizionati alla dieta HP per raggiungere elevati livelli di intake proteico 39 Tab.IV 40 Tabella IV – Risultati controversi riguardo lʼeffetto delle diete HP sul metabolismo del calcio e riassorbimento osseo Abbreviazioni: b-ALP = fosfatasi alcalina osso-specifica; CF = studio a nutrizione controllata (tutto il cibo è stato fornito ai soggetti); CO= studio cross-over; DPD=deossipiridinolina; FE= dieta libera; HP= alte proteine; HYP=idrossiprolina; LP=basse proteine; IGF-1 = fattore-1 di crescita insulino-simile; NTX= telopeptide N-terminale; PR= studio randomizzato in parallelo; PTH=ormone paratiroideo; OC=osteocalcina; 1.25-OH2-D = 1.25 diidrossicolecalciferolo. a Cambiamenti nei valori presi come parametro in diete HP comparate a diete LP: ↑ indica un aumento dei valori dei parametri, ↓ indica una diminuzione dei valori dei parametri, = indica cambiamenti non significati nei valori dei parametri. b Cambiamenti in diete HP comparate a diete LP (valori in diete HP - valori in diete LP). c = indica che i livelli dellʼintake di calcio sono mantenuti costanti attraverso i livelli proteici con supplementazione; > indica più alti livelli di intake di calcio o fosforo con diete HP. 41 Tabella 5 - I principali effetti di elevati introiti di frutta e verdura e di potassio nei confronti del calcio e dellʼequilibrio acidobase, delle ossa e della salute renale Effetti di una dieta ricca in frutta e verdura : SULLA SALUTE DELLE OSSA • Associazione positiva tra intake di frutta e verdura e BMD e massa ossea New et al. (1997); Tucker et al. (1999); New et al. (2000); Tucker et al. (2001); New (2003); Hardcastle et al. (2011) • Attività inibitoria della verdura sul riassorbimento osseo → Non mediato da un eccesso di basi: composti farmacologicamente attivi? Effetto delo stesso K ? Muhlbauer et al. (2002) SULLA SALUTE RENALE • Correlazione positiva tra diete ad elevato intake di frutta, vegetali, cereali integrali, noci e prodotti caseari e basso intake di carne rossa e processata (ovvero, basso indice PRAL) e maggiore escrezione urinaria di citrati → Riduzione del rischio di calcoli → Effetto benefico di frutta e vegetali sulle ossa e sulla salute renale: effetto di un eccesso di basi e/o della composizione di nutrienti (K) Trinchieri et al. (2006); Taylor et al. (2010) Effetto del potassio SULLʼEQUILIBRIO DI CALCIO: • Riduzione dellʼescrezione urinaria di Ca e bilancio di Ca positivo nella somministrazione a breve termine di KHCO3 in adulti sani Lemann et al. (1989); Lemann et al. (1993); Sebastian et al. (1994); Whiting et al. (1997) • Nessun effetto sistemico sulla somministrazione a breve termine di NaHCO3 sullʼescrezione sull escrezione urinaria di Ca → Possibile effetto dello stesso K e non solo di bicarbonato di K Lutz (1984); Lemann et al. (1989) • K dietetico è associato a escrezione urinaria di Ca, ma senza alcun effetto sul bilancio di Ca; lʼassorbimento intestinale di Ca è ridotto → Effetti differenti dipendono dalla sorgente di K Rafferty et al. (2005) SULLA SALUTE DELLE OSSA • Associazione positiva tra alti intake di K e BMD e massa ossea New et al. (1997); Tucker et al. (1999); New et al. (2000); Tucker et al. (2001) SULLA SALUTE RENALE • Prevenzione di calcoli di ossato di calcio con la supplementazione di citrato di potassio-magnesio in pazienti ad alto rischio Ettinger et al. (1997); Zerwekh et al. (2007) Possibili meccanismi del K • Effetti sul bilancio di calcio → Stimolazione della capacità di riassorbimento renale di fosfati, che porta a più basse concentrazioni sieriche di 1.25- diidrossicolecalciferolo e conseguente diminuzione dellʼassorbimento intestinale di Ca Jaeger et al. (1983); Rafferty and Heaney (2008) 42 • Effetto sul bilancio acido-base → Neutralizzazione dellʼeccesso di ioni solfato fornita dagli acidi amino-solfurici Markovich et al. (1999) → Modulazione di diversi processi attivati dallʼacidosi Caudarella et al. (2003); Tosukhowong et al. (2005) • Effetto sulla formazione di calcoli → Effetto positivo sullʼescrezione di citrati Marangella et al. (2004); Demigne et al. (2004) → Modulazione di vari processi attivati dallʼacidosi Caudarella et al. (2003); Tosukhowong et al. (2005) Abbreviazioni: BMD, densità minerale ossea; PRAL, potenziale carico acido renale Bibliografia 43 44 45 46 Una dieta con elevate quantità di proteine della carne e potenziale carico acido renale aumenta l’assorbimento parziale di calcio e l’escrezione urinaria di calcio senza influenzare i markers del riassorbimento o della formazione ossea in donne in menopausa. a cura di Vincenzo Tortora Anche se essenziale per la salute delle ossa, l’apporto proteico, specialmente da fonti animali, in grandi quantità è stato considerato un fattore di rischio per l’osteoporosi o le fratture (1-4) per l’aumento dell’escrezione urinaria di calcio (Ca) risultate dall’acidosi metabolica indotta dal metabolismo proteico (5-8). Comunque, contrariamente all’ipotesi che un elevato apporto proteico infici la salute ossea, molte osservazioni epidemiologiche correlano un elevato apporto proteico con l’anabolismo del tessuto osseo, inclusa un’associazione con un’aumentata densità minerale ossea o diminuito rischio di fratture (9-14), con poche evidenze che indicano associazioni negative (15, 16). I risultati di trial ben controllati condotti su esseri umani con isotopi del Ca mostrano che un apporto proteico elevato aumenta l’assorbimento di Ca (17-20). Se questo aumento nell’assorbimento intestinale di Ca possa sopprimere l’ipercalciuria in una dieta con una grande differenza nel carico acido non è ancora chiaro. Inoltre, il riportato effetto deleterio di una dieta iperproteica sul tessuto osseo può dipendere da altri fattori, come l’apporto di calcio (20). Le nostre precedenti ricerche sul fatto che diete con elevata vs. bassa quantità di proteine animali non avessero effetti avversi sulla ritenzione di 47Ca o sull’induzione di calciurea (17) erano opinabili per la piccola differenza relativa (~32 mEq/d) nel potenziale carico acido renale (PRAL) tra le due diete (21). Il PRAL, come misura del carico acido-base dei cibi, può essere utilizzato per stimare l’escrezione acida renale netta (22-24). Dunque, lo scopo di questo studio con controllo dell’alimentazione era investigare come l’assorbimento e la ritenzione di Ca e l’escrezione urinaria di Ca fosse influenzata da diete con elevati vs. bassi apporti di proteine animali con differenze sostanziali nel PRAL, col più basso e più alto quintile di PRAL come stimato in recenti studi incrociati (25). I soggetti dello studio erano donne sane, non fumatrici, in menopausa , reclutate attraverso annunci pubblici e televisivi, radiofonici, stampati e su internet. Le donne erano selezionate per partecipare se soddisfavano i seguenti criteri di selezione: 40-75 aa di età; almeno 3 aa dall’ultima mestruazione; ormone follicolo-stimolante > 40 IU/L; BMI entro il 5° e 95° percentile secondo l’età; nessuna patologia apparente determinata tramite esami di screening fisici e del sangue (funzionalità tiroidea, epatica, cardiaca e renale normali); e nessun segno di osteoporosi come indicato dal punteggio T sulla densità minerale ossea < o = a -2.5 per la regione del collo del femore o per l’intera regione vertebrale (L1-L4) determinate tramite assorbimetria a raggi X a doppia energia (Hologic Delphi QDR); no uso usuale di medicazioni; sospensione di qualsiasi supplemento nutrizionale e medicazione contenente Ca (e.g. antiacidi con Ca-carbonato) o qualsiasi medicazione nota per interferire con il metabolismo del Ca ed osseo per la durata dello studio; ed accordi per non fare lampade abbronzanti. Alle partecipanti è stato suggerito di mantenere il loro normale pattern di sonno, lavori casalinghi ed attività occupazionali. Le caratteristiche basali delle partecipanti allo studio sono mostrate nella tabella 1. Le donne hanno consumato due diete sperimentali: bassa in proteine e PRAL (LPLP) o alta in proteine e PRAL (HPHP). (La nomenclatura “low-protein” – LP – si riferisce alla differenza tra le due diete; la dieta LPLP aveva una quantità di proteine pari a quella raccomandata.) 47 Le diete sono state fornite in modo casuale per 7 settimane ognuna, con una settimana di intervallo tra i periodi sperimentali, in cui le diete non erano controllate (1.5 settimane totali) (Figura 1). Dopo 3 settimane di modulazione nutrizionale (e.g. alle settimane 4 ed 11), un menù di 2 giorni interi di ciascuna dieta è stato marcato con 47Ca. L’assorbimento di Ca è stato determinato con scintigrafia del corpo completo per 4 settimane dopo l’ingestione dei pasti marcati con isotopo. Campioni di sangue ed urine sono stati presi a diversi intervalli di tempo (Figura 1) per valutare gli effetti della dieta sui biomarkers del metabolismo osseo e dell’adattamento renale al carico acido. Durante i due periodi di dieta di 7 settimane, tutti gli alimenti e le bevande sono stati forniti come dieta pesata e controllata con un menù di due giorni (tabella 1). Le diete erano programmate in base alle tabelle di composizione USDA (26). La composizione dei nutrienti ed i valori di PRAL per le diete sono mostrati nella tabella 2. I valori di PRAL sono stati calcolati utilizzando la formula seguente: PRAL (mEq/d) = (mg P/d X 0.0366) + (g proteine/d X 0.4888) – (mg K/d X 0.0205) – (mg Ca/d X 0.0125) – (mg Mg/d X 0.0263) (22). I valori dei fitati e dei minerali dietetici sono stati misurati analiticamente. Basandosi sull’introito calorico medio delle partecipanti di 9.4 MJ (2250 kcal)/d, le diete LPLP e HPHP contenevano circa 61 e 118 g di proteine/d o 0.8 e 1.6 g di proteine/kg peso corporeo, rispettivamente. Le differenze nel contenuto proteico sono state ottenuto primariamente aumentando le porzioni di carne (principalmente manzo) ottenendo 12 e 68 g di proteine della carne per la LPLP e la HPHP rispettivamente. Per massimizzare la differenza in PRAL, paragonata con la dieta LPLP, la dieta HPHP non solo conteneva elevate quantità di carne ma anche più derivati del grano e meno vegetali e frutta ricchi di potassio. In accordo, la dieta LPLP enfatizzava prodotti a base di patate e grandi quantità di frutta, verdura e frutta secca, mentre la dieta HPHP forniva riso, pasta ed altri derivati del grano e bassi apporti di frutta e verdura. Come risultato, le diete LPLP ed HPHP avevano -48 e 33 mEq di PRAL rispettivamente, per una differenza di 81 mEq/d. Il latte scremato era la fonte primaria di calcio per entrambe le diete (tabella 2). La quantità di latte era divisa in porzioni uguali ad ogni pasto. Lo studio è stato condotto nel Grand Forks (circa 48° N), North Dakota, tra la fine di Gennaio e l’inizio di Maggio. Per stabilizzare i livelli di vitamina D, ogni partecipante ha ricevuto una supplementazione giornaliera di 10 mcg di colecalciferolo partendo da 3 settimane prima di iniziare le diete controllate e continuando attraverso tutto lo studio. All’inizio della dieta, tutte le partecipanti hanno ricevuto in aggiunta un multivitaminico giornaliero, contenente 10 mcg di colecalciferolo (tabella 2, nota in fondo). Il latte scremato era inoltre fortificato con vitamina D, fornendo addizionali 2.5 mcg alla dieta da 9.4 MJ. Per mantenere il peso corporeo, gli introiti calorici sono stati aggiustati cambiando proporzionalmente le quantità dei cibi. Il caffè, il tè, le bevande dolcificate artificialmente non a base di cola (contenenti acidi citrico e non acido fosforico) e introiti di sale erano personalizzati, limitati a 2 porzioni totali giornaliere e tenuti costanti durante lo studio. Il consumo dell’acqua della condotta cittadina e le gomme da masticare non sono state controllate, avendo le analisi indicato un basso contenuto minerale. Alle donne è stata data una lista di medicazioni senza obbligo di ricetta approvate, dentifrici ed adesivi dentali che contenevano minime quantità di calcio ed altri minerali. Tutti gli ingredienti della dieta tranne l’acqua sono stati pesati con un’accuratezza dell’1% e, ove possibile, comprati da lotti di produzione singoli. Le partecipanti hanno consumato un pasto (la colazione) al Centro di Ricerca nei giorni infrasettimanali e gli altri altrove. 48 Tabella 1. Caratteristiche di base delle partecipanti Caratteristica Età (aa) Peso, kg BMI Valori sierici Ca ionizzato, mmol/L TRAP, U/L Creatinina, mcmol/L C-telopeptide del collagene di tipo I, pmol/L PTH, pmol/L OC, nmol/L IGF-1, nmol/L OPG, pmol/L sRANK, pmol/L 25-idrossicolecalciferolo, nmol/L Valori urinari Ca, mmol/die Mg, mmol/die P, mmol/die K, mmol/die Creatinina, mmol/die Oxalato, mmol/die pH Ammonio, nmol/die Acidità titolabile, mEq/die Acidi organici liberi, mEq/die N-telopeptide, nmol BCE/die N-telopeptide, nmol BCE/mmol DPD, nmol/L Media 56.9 71.4 26.8 SD 3.2 10.1 3.1 1.2 5.1 64.2 10 0.1 0.5 10.6 5 7.1 1.7 16.6 5.5 286 60.5 2.0 1.0 5.9 0.6 174 16.3 4.0 2.9 22 43 5.3 0.32 6.2 28 20 32 201 44 7.5 2.1 1.0 7 16 3.2 0.29 0.4 7 11 6 87 23 2.6 Dopo 3 settimane di riequilibrazione ad ogni dieta, tutti i pasti del menù di due giorni sono stati marcati con un totale di 148 kBq (4 mcCi) di tracciante 47Ca. L’isotopo (con emivita 4.5 giorni) è stato ottenuto con attivazione neutronica (Università del Missouri, Columbia, MO) del 47Ca stabile (come Ca bicarbonato, arricchito al 30.89%; Oak Ridge National Research Laboratory, TN). Il 47Ca è stato aggiunto al latte in proporzione al contenuto di Ca di ogni pasto così che l’attività specifica dell’isotopo rimanesse costante per ogni pasto. Il latte marcato è stato fatto decantare per almeno 12 h prima dell’amministrazione. Tutti i pasti marcati sono stati consumati sotto la supervisione dei Ricercatori al centro di ricerca. La ritenzione di Ca dalla dieta è stata determinata con un contatore scintigrafico standard (27, 28). La conta scintigrafica totale è stata eseguita prima (basale) e 1-3 h dopo il primo pasto marcato (prima che fosse escreto l’isotopo), poi due volte ogni settimana per il resto di ogni protocollo dietetico. I dati della conta corporea totale sono stati corretti per il decadimento radioattivo al punto centrale dei giorni dei pasti marcati. La precisione della misurazione della conta corporea totale era dell’1.4%. La ritenzione di 47Ca misurata è presentata per 21 giorni. (29) 49 I campioni di sangue sono stati presi la mattina a digiuno alle settimane: zero (prima di iniziare la dieta), 3, 5 e 7 di ciascun periodo dietetico. Le donne hanno fornito 2 raccolte di urine delle 24 h consecutivamente durante le settimane 0, 1, 2, 3, 5 e 7 di ogni periodo dietetico per monitorare l’escrezione renale dell’acido e del Ca e qualsiasi risposta adattativa al trattamento dietetico. Per minimizzare la variabilità, i campioni sono stati conservati e misurati negli stessi gruppi di analisi per ogni volontario per quei valori che rimangono stabili se congelati.(30) (31) (32) (33)(24) Paragonata con la dieta LPLP, la dieta HPHP aumentava significativamente la frazione dell’isotopo di Ca ritenuta dal corpo a 21 giorni dall’amministrazione dell’isotopo stesso (Tabella 3). Paragonata con la dieta LPLP, la dieta HPHP aumentava la percentuale del Ca assorbito dalla dieta (P < 0.05) (Tabella 3). Nonostante un leggere aumento del contenuto di Ca con la dieta LPLP (Tabella 2), l’ aumentata efficienza dell’assorbimento di Ca tendeva ad aumentare la quantità di Ca assorbita dalla dieta HPHP (P < 0.12) (Tabella 3). Tabella 2. Composizione in macronutrieni e PRAL delle diete sperimentali LPLP HPHP Proteine, % energia 10 20 Proteine totali, g 61 118 Proteine della carne, g 12 68 Proteine/peso corporeo, g/kg 0.86 +/- 0.08 1.70 +/- 0.21 Grassi, % energia 30 30 Carboidrati, % energia 60 50 Fibra dietetica, g 28 20 Fitati dietetici, mg 661 +/- 11 790 +/- 3 Calcio, mg 907 +/- 55 865 +/- 96 Fosforo, g 1.27 +/- 0.22 1.79 +/- 0.06 Magnesio, mg 387 +/- 10 334 +/- 16 Potassio, g 5.00 +/- 0.11 3.45 +/- 0.12 Sodio, g 3.81 +/- 0.33 3.56 +/- 90.5 PRAL, mEq -48 33 Note 1. I dati sono valori medi +/- SD, n = 3 per la composizione dietetica dei menù di due giorni, basati su un introito calorico medio di 9.4 MJ/die. 2. Le proteine, i grassi, i carboidrati e la fibra dietetica sono stati calcolati utilizzando le tabelle di composizione USDA (26). I fitati, i minerali e gli elettroliti sono stati analizzati come descritto nel testo. 3. Le diete contenevano supplementazione di vitamina D contenente 10 mcg di colecalciferolo e multivitaminico con entente vitamina A acetata (1391 mcg), acido ascorbico (170 mg), colecalciferolo (10 mcg), d-alfa-tocoferolo acetato (13 mg), pirodixina (4.1 mg), cianocobalamina (13.4 mcg), tiamino (3.4 mg), riboflavina (4.0 mg), niacina (50 mg) e acidi folico (1172 mcg). 4. Il PRAL è stato calcolato (22) come: PRAL (mEq/die) = (mg P/die X 0.0366) + (g proteine/die X 0.4888) – (mg K/die X 0.0205) – (mg Ca/die X 0.0125) – (mg Mg/die X 0.0263). 50 Tabella 3. Ritenzione ed assorbimento di Ca in donne in menopausa che consumano diete controllate LPLP o HPHP per 7 settimane ognuna in uno studio crociato. LPLP HPHP SD Interpolato P di 21 16.9 19.7 3.8 0.05 Assorbimento, % 22.3 26.5 5.4 0.05 Ca 200 227 46 0.12 Ritenzione 47Ca a giorni, % assorbito, mg/die Note. 1. I valori sono medie minime quadratiche e SD interpolati, n = 16 I maggior livelli di proteine dietetiche aumentava l’escrezione di Ca urinario (P = 0.005) per il periodo dietetico di 7 settimane (156 vs. 203 +/63 mg/die per la LPLP e la HPHP rispettivamente). La differenza dieta-correlata nell’escrezione del Ca urinario era consistente dalla settimana 1 fino alla 7, senza nessuna indicazione di adattamento (l’effetto del tempo e l’interazione tra la dieta ed il tempo non era significativo [P > 0.4]) (Tabella 4). Assumendo che l’assorbimento di Ca sia rimasto lo stesso in tutto lo studio, la differenza netta tra il Ca assorbito (Tabella 3) e l’escrezione urinaria (Tabella 4) non differiva tra dieta LPLP ed HPHP (55 vs. 28 +/- 51 mg/die per la LPLP ed HPHP rispettivamente, P > 0.05). Il magnesio urinario era inferiore ed il fosforo maggiore quando le donne hanno consumato la dieta HPHP paragonata alla dieta LPLP, il che riflette il contenuto minerale della dieta (Tabella 4). I trattamenti dietetici non hanno influenzato l’escrezione di cloro e di sodio (Tabella 4). La dieta HPHP aumentava significativamente l’acidità urinaria (Tabella 4) paragonata con la dieta LPLP. Le donne avevano maggiore escrezione urinaria di ione ammonio quando hanno consumato la dieta LPLP (P < 0.0001). Come risultato, il pH urinario differiva di 1.2 unità durante i due periodi dietetici (P < 0.0001). Le differenze nello ione ammonio ed il pH urinario erano consistenti dalla settimana 1 alla settimana 7, suggerendo che l’escrezione urinaria di acidi rispondeva ai trattamenti dietetici entro le prime settimana senza ulteriori adattamenti (Tabella 4). La dieta HPHP aumentava l’escrezione urinaria di creatinina (Tabella 4) paragonata con la dieta LPLP (P < 0.0001), riflettendo il maggior contenuto dietetico di carne. I trattamenti dietetici non avevano effetti significativi sui markers di riassorbimento osseo, sia su NTX urinario delle 24 h sia su DPD al mattino. La dieta HPHP riduceva l’escrezione urinaria degli acidi organici liberi (P < 0.0001) e di ossalati (P = 0.0004) paragonata con la dieta LPLP, che riflette probabilmente il maggior contenuto di frutta e verdura della dieta LPLP. Paragonata con la dieta LPLP, la dieta HPHP aumentava le concentrazioni di IGF-1 (P < 0.0001) e diminuiva le concentrazioni di PTH sierico (P < 0.001) (Tabella 5). I trattamenti dietetici non influenzavano significativamente altri biomarkers sierici, come il Ca ionico, l’ attività della fosfatasi acida tratrato-resistente (TRAP) , creatinina, la concentrazione sierica del telopeptite incrociato carbossiterminale del collagene osseo (CTX), 51 Tabella 4. Escrezioni e concentrazioni urinarie in donne sane in menopausa che consumano diete controllate LPLP ed HPHP per 7 settimane in uno studio controllato. Note. 1. 2. 3. I valori sono medie quadratiche minime ottenute dall’ANCOVA con SD interpolato per le urine delle 24 h tranne dove indicato, n = 16. I valori di ogni variabile alla settimana 0 (wk 0) sono utilizzati come covarianze. Per i dati trasformati logaritmicamente (ossalato, acidi organici liberi e deossipridinolina-DPD), la media geometrica nelle unità non trasformate è indicata nelle parentesi. 52 l’osteocalcina(OC), l’osteoprotegerina sierica (OPG) ed sRANKL . Alle partecipanti sono state fornite supplementazioni di vitamina D prima e durante lo studio per impedire i possibili cambiamenti nello stato della vitamina D che hanno un effetto potenziale di confondere le misurazioni dell’assorbimento del Ca. Basandosi sulle misurazioni del 25-idrossicolecalciferolo alle settimane, 3, 5 e 7 di ogni periodo dietetico, lo stato della vitamina D delle partecipanti non cambiava durante lo studio. Per il range risultate delle concentrazioni sieriche di 25idrossicolecalciferolo (32.5 – 9.5 nmol/L), non c’erano correlazioni tra questa variabile e l’assorbimento di Ca (P > 0.05) come valutato separatamente per ognuno dei due trattamenti dietetici. Discussione In questo studio controllato di 15 settimane, è stato mostrato che comparata con una dieta con basse quantità di proteine animali e basso PRAL, una dieta con elevato contenuto di proteine animali e PRAL aumentava l’assorbimento frazionale di Ca dietetico, che era approssimativamente compensato da una aumentata escrezione di Ca. La quantità di Ca assorbita era maggiore della quantità urinaria di Ca escreta in entrambe le diete; questo era un risultato atteso, perché il contenuto di Ca dietetico in questo studio era associato con un bilancio di Ca positivo (35). Relativamente alla dieta LPLP, la dieta HPHP aumentava l’escrezione urinaria di Ca, risultato consistente con altre ricerche (18, 20, 36-38). Paragonata con la dieta LPLP, la dieta HPHP conteneva 57 g/die di proteine in più e aumentava l’escrezione urinaria di Ca di 47 mg/die, una quantità simile di proteine di quella presente in altri studi (18, 39). In uno studio con simile contenuto proteico a quello del presente studio, ma con una minore differenza di PRAL tra le due diete (20), la dieta iperproteica aumentava l’escrezione urinaria di Ca di soli 23 mg/die. Questo è consistente con la proposta che il carico acido dietetico piuttosto che le proteine sia il maggior fattore che contribuisce all’aumentata escrezione urinaria di Ca. È stato dimostrato che controbilanciare l’acidosi con minerali che inducono la formazione di basi diminuisce l’escrezione urinaria di Ca attribuita ad un introito proteico elevato (40-43). I dati sull’assorbimento del Ca e l’escrezione urinaria di Ca non dovrebbero essere utilizzati come un indicatore del bilancio corporeo totale di Ca o mobilizzazione di Ca dalle ossa senza misurare l’escrezione fecale e/o endogena di Ca. Per esempio, Kerstetter et al. (18) hanno riportato che nonostante una dieta iperproteica aumenti l’escrezione urinaria di Ca, effettivamente diminuisce la frazione del Ca urinario di origine ossea. Comunque, l’aumento dell’assorbimento frazionale di Ca dovuto alla dieta HPHP può aver parzialmente compensato l’aumento nell’escrezione urinaria di Ca. La quantità di Ca nelle diete era leggermente al di sotto della RDA di 1000 mg Ca/die (44) ma più alta degli introiti tipici delle donne in menopausa negli Stati Uniti (44) o dei livelli di Ca in studi simili che investigavano gli effetti delle proteine sul metabolismo del Ca (17, 18, 20). I 4 punti percentuali in più nell’assorbimento di Ca frazionale quando le donne hanno consumato la dieta HPHP paragonata alla dieta LPLP contenenti circa 900 mg/die di Ca (Tabella 3) in questo studio sono paragonabili ad un altro studio in cui le diete contenevano circa 800 mg/die di Ca (18). Comunque, l’aumento dell’assorbimento di Ca dovuto alle proteine dietetiche può dipendere dal contenuto di Ca della dieta; in uno studio (20), le proteine dietetiche aumentavano significativamente l’assorbimento di Ca se la dieta forniva 675 mg Ca/die, ma non se venivano forniti 1510 mg di Ca/die. Le proteine possono aumentare l’assorbimento di Ca aumentando la sua solubilità nel lume intestinale, mentre alti introiti di Ca possono saturare i recettori per l’assorbimento del Ca, limitando l’aumento indotto dalle proteine (18). Come ci si aspetta dalla composizione dietetica, l’acidità titolabile era aumentata con la dieta HPHP, mentre il pH era diminuito, un risultato consistente con altri studi (17, 20). Nonostante ricerche precedenti hanno suggerito un possibile adattamento dell’acidità urinaria col tempo (17), 53 Tabella 5. Marker biochimici in donne sane in menopausa che consumano diete LPLP o HPHP per 7 settimane ognuna in uno studio incrociato. Note. 1. 2. 3. I valori sono medie quadratiche minime con SD interpolato ottenuto da ANCOVA, n = 16. I valori di ogni parametro alla settimana 0 (wk 0) sono covarianze. Per i dati trasformati logaritmicamente, la media geometrica nelle unità non trasformate è indicata nelle parentesi. 54 nessun adattamento nell’acidità urinaria o nell’escrezione di Ca è stata osservata in 7 settimane in questo studio. L’IGF-1 è un potente agente anabolico che aumenta la formazione di tessuto osseo e la massa ossea tramite l’aumento del numero e della proliferazione degli osteoprogenitori (45). Nello studio presente, la dieta HPHP aumentava l’IGF-1 di circa il 20% paragonata con la dieta LPLP, un dato confermato da molti altri studi (20, 46-49). In maniera simile in alcuni (50, 51), ma non in tutti (17, 20) gli studi, la concentrazione sierica di PTH era significativamente inferiore quando le donne hanno consumato la dieta LPLP. Nello studio presente ed in altri (50, 51), la diminuzione del PTH sierico può essere stata una normale risposta compensatoria all’aumento dell’assorbimento di Ca associato con l’introito proteico, per mantenere livelli di Ca ematici normali. Poiché ad ogni partecipante è stata fornita una supplementazione giornaliera di vitamina D in aggiunta a multivitaminici contenenti vitamina D e latte magro fortificato con vitamina D, lo stato della vitamina D delle donne in questo studio era nei range normali (52) utilizzando come indicatore la concentrazione sierica di 25idrossicolecalciferolo. Dunque, lo stato della vitamina D non dovrebbe essere un fattore che influenza i nostri ritrovamenti riguardo i dati di assorbimento del Ca, perché non ci sono state differenza nello stato della vitamina D tra i due gruppi. Lo studio presente non ha rilevato cambiamento nei biomarkers potenziali dell’attività osteoclastica, come il TRAP, il CTX e l’sRANKL ematici ed il DPD urinario, o i biomarker dell’attività osteoblastica, come l’OPG e l’OC sierico. I cambiamenti osservati nell’IGF-1 e nel PTH erano apparentemente insufficienti per indurre cambiamenti rilevabili nei biomarker dell’attività degli osteoclasti o degli osteoblasti. Molte osservazioni epidemiologiche hanno mostrato che l’introito proteico a lungo termine è positivamente associato con la densità minerale ossea (9, 11, 13, 53). Diverse recenti meta-analisi hanno concluso che le proteine sono benefiche per la salute ossea (54) e che il carico acido indotto dalle proteine non promuove la perdita minerale ossea o contribuisce allo sviluppo dell’osteoporosi (55, 56). I risultati del presente studio sono in accordo con questi ritrovamenti. In conclusione, nelle donne in menopausa, una dieta elevata in proteine e PRAL aumentava l’assorbimento di Ca, compensando almeno parzialmente la maggiore escrezione urinaria. Non è stato osservato alcun cambiamento nei biomarkers di riassorbimento o di formazione ossea, indicando che una dieta iperproteica non è dannosa. Comunque, l’aumento dell’IGF-1 sierico combinato con la diminuzione del PTH serico suggerisce che una dieta iperproteica potrebbe essere vantaggiosa sulla salute ossea. Letteratura citata 55 56 Vegetarianismo e perdita ossea a cura di Eleonora Spallotta Il vegetarianismo è sempre più popolare nelle società occidentali. Recenti valutazioni dimostrano che il 3 e il 5% della popolazione (Gottfredson et al., 2005; Vinnari et al., 2009) segue una dieta vegetariana, e questa proporzione sta crescendo nel tempo. In Asia, se bene non ci sia una statistica ufficiale, si ritiene che il numero dei vegetariani sia più alto rispetto ai paesi occidentali. Il vegetarianismo è visto come uno stile di vita salutare, perché si pensa che gli individui con la dieta vegetariana hanno un più basso rischio di malattie croniche e un più basso rischio di mortalità rispetto alla popolazione generale, sebbene la differente mortalità tra i gruppi vegetariani e non, è una questione controversa (Chang-Claude et al., 2005; Key et al., 2009a, b). La salute dell’osso tra i vegetariani è stata oggetto di preoccupazione per qualche tempo. Sebbene la densità minerale ossea (BMD) nei vegetariani, in modo particolare i vegani, è più bassa rispetto ai non vegetariani (Ho-Pham et al., 2009a ); il rischio di frattura nei vegetariani non è differente rispetto a quello dei non vegetariani (Appleby et al.2007). In uno studio si è mostrato che i monaci Buddisti rigorosamente a dieta vegana avevano un BMD simile ai non vegetariani, malgrado il precedente gruppo avesse un più basso intake di calcio rispetto all’altro (Ho-Pham et al., 2009b). Il BMD in donne post menopausa è somma del picco di massa ossea (raggiunto tra l’età di 20-30 anni) e la successiva perdita ossea legata all’età (Riggs et al., 1998). Comunque non ci sono stati studi longitudinali che valutassero il tasso di perdita ossea tra i vegetariani. La perdita ossea deriva da uno squilibrio tra due processi opposti di formazione ossea e riassorbimento osseo, ma pochi studi hanno esaminato l’ associazione tra i markers del turnover osseo e la perdita ossea nei vegetariani. Descrizione dell’indagine Nell’indagine proposta si cerca di stabilire il tasso di perdita ossea e rischio di frattura, e la loro associazione con i markers del turnover osseo e lo stato di vitamina D in un gruppo di vegani e onnivori in modalità di studio prospettico. Il contesto dello studio è stata la città di Ho Chi Minh (in passato Saigon) la più grande città e centro economico del Vietnam. Lo studio fu progettato come un’ inchiesta longitudinale la quale coinvolse 20 monasteri e templi all’interno della città. I templi erano selezionati in modo random da 286 templi e monasteri che erano schedati da un’associazione locale Buddista. Sono state inviate lettere di invito a ogni monastero o tempio per invitare le suore di età superiore ai 50 anni per partecipare allo studio. 57 Successivamente sono state selezionate in modo random dall’archivio elettorale in ogni collegio circostante il tempio, famiglie dove c’ erano donne residenti con età di 50 o più anni a cui viene spedita una lettera di invito. Le donne ricevevano un check-up gratuito e la misurazione della densità ossea, ma non ricevevano alcun incentivo finanziario. In media, hanno partecipato allo studio tra le 5-6 suore di ogni tempio-monastero. Le suore sono vegane in senso stretto perché loro provengono dalla scuola buddista di Mahayana. Le loro diete non includevano alcun prodotto di origine animale o marino. Nessuno dei partecipanti aveva malattie in grado di influenzare l’ osteoporosi (ipertiroidismo, iperparatiroidismo, problemi renali, sindrome da malassorbimento, alcolismo, colite cronica , mieloma multiplo, leucemia e artrite cronica) oppure ha usato in precedenza terapie che interferiscono con il metabolismo osseo (per esempio , leparina, Warfarin, tirosina ed estrogeni). Ogni individuo è stato esaminato due volte: al basale e alla visita del follow up. Le misurazioni al basale sono state prese nell’ Aprile e nell’Agosto del 2008. La visita di follow up venne realizzata tra Aprile e Luglio 2010. I dati clinici includono la pressione sanguigna, l’impulso e la storia riproduttiva (ovvero l’età del menarca e l’età della menopausa). La storia medica ossia, le precedenti fratture, il precedente e il corrente uso delle terapie farmacologiche, venne ottenuta da un questionario standardizzato. La pressione sanguigna venne presa dopo che tutti i partecipanti erano stati in una stanza silenziosa per 5 minuti ed era stata misurata per 3 volte. Il questionario inoltre richiedeva dati sull’attività fisica e i fattori dello stile di vita. Le domande richieste riguardavano il numero medio di ore giornaliere spese in ognuno dei 5 livelli di attività basate su un questionario simile. Le 5 attività erano : attività basale (addormentato o sdraiato), sedentario (seduto o in piedi), leggera (camminata qualunque), moderata (giardinaggio e costruzione) e pesante (sollevamenti o giardinaggio pesante). Un fattore intensivo o ponderato basato sul consumo approssimativo di ossigeno necessitava per ogni livello di attività di essere moltiplicato per il numero di ore impegnate in ogni attività, quali attività basale 1, sedentaria 1.1, leggera 1.5, moderata 2.4 e pesante 5. I risultati prodotti per tutte le attività erano poi sommati per produrre un indice di attività fisica totale. Alle donne veniva chiesto di riferire la loro attività presente e passata di fumatrici, l’ uso di alcool e di caffè. Parametrici antropometrici ottenuti , includevano l’età, il peso, l’altezza. Il peso corporeo è stato misurato usando una bilancia elettronica indossando i vestiti ma senza scarpe. L’altezza è stata determinata senza scarpe con uno stadio metro portatile. L’analisi nutrizionale venne analizzata al basale. Ai partecipanti venne chiesto di compilare un questionario strutturato per raccogliere i dati riguardanti le abitudini alimentari di 2 giorni. Il questionario include otto items sul cibo in generale, includendo riso, pesce, carne rossa, carne bianca, uova, derivati del latte, vegetali e frutti. Abbiamo usato campioni, cucchiai e bicchieri di varia taglia per aiutare i partecipanti a stimare la loro assunzione di cibo. I dati vennero poi inseriti nel “Eiyokun”, un software specifico per analizzare i componenti nutrizionali del cibo Vietnamita. I nutrienti stimati da questo programma include il totale delle calorie, l’intake di proteine vegetali e animali, lipidi vegetali e animali, carboidrati, l’intake nella dieta di calcio, fosfato, sodio, potassio e magnesio. La valutazione per le eventuali fratture vertebrali è stata fatta con raggi X. I raggi X sono stati presi alle visite iniziali e al follow-up. La classificazione delle fratture vertebrali attualmente utilizzata è quella descritta da Genant (Genant et al., 1993). Il radiologo, una volta diagnosticata la natura osteoporotica della frattura vertebrale, esegue una valutazione visiva semiquantitativa dei radiogrammi del rachide, classificando le altezze vertebrali in lieve (grado 1) osservando una riduzione dell’altezza del 20-25% nelle vertebre anteriori, al centro e/o posteriormente alta; moderata (grado 2) per una riduzione del 25-40% e severa (grado 3) per una riduzione maggiore del 40% . 58 Per la misurazione della densità minerale ossea ( BMD) sono stati presi in esame tramite DEXA il collo del femore, colonna lombare ( LS) e corpo intero. La BMD era espressa in g/cm² o in TSCORE, che rappresenta il numero di deviazione standard dal picco di massa ossea (preso in età tra i 20 e i 30 anni). Poiché c’era una mancanza della popolazione di riferimento in BMD in Vietnam, abbiamo scelto il database Tailandese di riferimento per determinare il T-Score (Limpaphayom et al., 2001).Utilizzando i criteri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Kanis, 2002) , abbiamo classificato le donne in due gruppi basati sul T-score: quelle con osteoporosi se il loro T-score era ≤ -2.5, e quelle senza osteoporosi se il loro T-score era > -2.5. Per l’analisi biochimica i campioni di sangue furono presi di mattina (ore 07.00-12.00)dopo un digiuno notturno di 12 ore. Il siero a digiuno è stato prelevato per calcio, creatinina, enzimi epatici, protocollagene di tipo 1 propeptide Nterminale(PINP), telopeptide C-terminale del collagene di tipo 1 o beta cross laps (β CTX), ormone paratiroide e 25 idrossivitamina D (25 (OH)D). All’inizio dell’indagine, 210 donne (105 vegane e 105 onnivore) hanno partecipato allo studio. Due anni dopo, 181 donne (88 vegane e 93 onnivore) sono rimaste nello studio. Così, 29 donne (13%)sono rimaste fuori dallo studio. Le ragioni dell’ abbandono sono state: la morte (cinque), non interessate (nove), immobilità e / o mancanza di mezzi di trasporto (cinque), l'emigrazione (quattro) e perse al follow-up (cinque). Rispetto all’analisi di coorte, il gruppo perso al follow-up era più vecchio (66 rispetto a 61 anni; p = 0,014) e ha avuto più bassa BMD LS (0,70 e 0,77 g/cm2, p = 0,014; Tabella 1). Non ci sono state significative differenze in altre caratteristiche cliniche tra i due gruppi. Per l'analisi di coorte (n = 181), non ci sono differenze significative per quanto riguarda età, peso, altezza e BMD tra vegani e onnivori. Tuttavia, rispetto gli onnivori, i vegani avevano un intake di calcio alimentare, proteine totali e lipidi significativamente più basso (Tabella 2). Sebbene la BMD nei vegani è stata leggermente inferiore rispetto agli onnivori, nessuna delle differenze erano statisticamente significative (Tabella 3). Risultati delle analisi dei lipidi hanno mostrato che i livelli di colesterolo totale dei vegani erano ~10% (p = 0.006) inferiori rispetto agli onnivori. Tuttavia, non vi era alcuna differenza significativa in trigliceridi e leptina tra vegani e onnivori. Non ci sono state anche differenze significative nella βCTX e i livelli di PINP tra vegani e onnivori. I vegani hanno avuto livelli sierici del 18% più bassi di 25 (OH) D (P<0.0001) rispetto agli onnivori. Come previsto, l’ormone paratiroide nei vegani era più alto rispetto agli onnivori, ma la differenza raggiunta non è stata statisticamente significativa (P=0.09). Tabella 1 Le caratteristiche basali dei partecipanti stratificati per il follow-up _____________________________________________________________________________________________________ A termine del follow-up Persi al follow up P-value (n = 181) (n = 29) _____________________________________________________________________________________________________ I vegani (n,%) 88 (83.8) 17 (16.2) Onnivori (n,%) 93 (88.6) 12 (11.4) Età (anni) 61 (9.2) 66 (10.4) 0.014 BMD della colonna lombare (g/cm2) 0,77 (0,15) 0,70 (0,13) 0,019 BMD del collo del femore (g/cm2) 0,63 (0,11) 0,59 (0,10) 0,062 Corpo intero BMD (g/cm2) 0,90 (0,11) 0,86 (0,12) 0,074 _____________________________________________________________________________________________________ Abbreviazione: BMD, la densità minerale ossea. I valori rappresentano la media (Š.D.). 59 Tabella 2 Le caratteristiche basali dei partecipanti stratificati allo stato del follow-up ___________________________________________________________________________________________________________ Vegani (n=88) Onnivori (n=93) P-value ___________________________________________________________________________________________________________ Età (anni) 60 (9) 61 (9) 0.617 Durata dieta vegana (anni )a 34 (20, 43) 0 Età menopausa (anni) 48 (4.8) 49 (4.9) 0.103 Età menarca (anni) 15 (2.0) 15.0 (2.1) 0.439 Parità b 0.6 (1.7) 3.0 (2.0) <0.001 Peso (kg) 53 (9) 54 (6) 0.556 Altezza (cm) 148 (6) 150 (5) 0.164 Body mass index (kg/m2) 24 (3) 24 (3) 0.885 Massa magra (kg) 32.3 (4.7) 32.5 (3.4) 0.721 Massa grassa (kg) 18.7 (5.2) 19.3 (4.4) 0.425 % grasso corporeo 34.6 (5.7) 35.6 (6.4) 0.300 Pressione sistolica (mmHg) 124 (19) 121 (915) 0.373 Pressione diastolica (mmHg) 77 (10) 77 (9) 0.990 Frequenza polso 77 (8) 76 (7) 0.174 Intake di calcio(mg/day)a 300 (182, 432) 590 (420, 763) <0.0001 Proteine totali(mg/day)a 36 (28, 53) 62 (53, 73) 0.015 Lipidi totali (mg/day)a 21 (15, 32) 35 (28, 46) <0.0001 Calorie totali (cal/day)a 1093 (870, 1286) 1429 (1246, 1726) 0.0005 Esercizio mattutino (n, %) 67 (76.1) 75 (80.6) 0.461 Assunzione di Caffè (n, %) 26 (29.5) 44 (47.3) 0.025 Uso di alcool (n, %) 0 9 (9.7) 0.011 ___________________________________________________________________________________________________________ a Media(25th and 75th percentile). Per le variabili ‘esercizio mattutino’, ‘assunzione di caffè’ e ‘uso di alcool’, i valori sono in riferimento al numero delle donne e alla percentuale del numero totale del campione per ogni gruppo. b Venti suore sono state precedentemente sposate e hanno avuto figli prima di diventare suore. I valori rappresentano la media (s.d.). Tabella 3 – Valori alla rilevazione basale per BMD, vitamin D, PTH, lipidi e ormoni ___________________________________________________________________________________________________________ Vegani (n=88) Onnivori (n=93 ) Differenza (95% CI) P-value ___________________________________________________________________________________________________________ Colonna vertebrale BMD (g/cm2) 0.77 (0.14) 0.79 (0.13) -0.02 (-0.06, 0.03) 0.401 Osso femoraleBMD (g/cm2) 0.62 (0.14) 0.64 (0.13) -0.02 (-0.06, 0.02) 0.203 25(OH)D (ng/ml) 26.1 (7.4) 31.6 (6.9) -5.6 (-7.6, -3.4) <0.0001 PTH (ng/l) 45.8 (19.4) 40.5 (21.9) 5.3 (-0.8, 11.4) 0.089 Creatinina (mmol/l) 0.81 (0.13) 0.83 (0.13) -0.015 (-0.053, 0.022) 0.429 Glucosio (mmol/l) 4.94 (1.62) 4.79 (0.89) 0.14 (-0.24, 0.52) 0.455 Trigliceridi (mmol/l) 2.20 (1.44) 1.87 (0.86) 0.33 (-0.02, 0.68) 0.062 Proteina C-reattiva (mg/l) 3.23 (5.71) 2.52 (3.13) 0.71 (-0.63, 2.05) 0.301 Colesterolo totale (mmol/l) 5.10 (1.07) 5.55 (1.10) -0.45 (-0.77, -0.13) 0.006 Calcio sierico (mmol/l) 1.51 (0.57) 1.22 (0.29) 0.29 (0.16, 0.43) <0.0001 Leptina(ng/ml) 17.9 (15.4) 16.0 (10.7) 1.9 (-2.0, 5.7) 0.333 bCTX sierico (pg/ml) 486 (251) 476 (226) 10 (-59, 80) 0.774 PINP (ng/ml) 58.5 (25.4) 56.6 (32.8) 1.9 (-6.7, 10.6) 0.657 ___________________________________________________________________________________________________________ Abbreviazione: BMD, densità minerale ossea; CI, intervallo di confidenza; PINP, pro collagene di tipo 1 propeptide N-terminale; PTH, ormone paratiroide; siero bCTX, telo peptide C-terminale del collagene di tipo 1; 25(OH)D, 25-idrossivitamina D. I valori rappresentano la media (s.d.). 60 Tabella 4 - Prevalenza dello stato vitaminico in vegetariani e non vegetariani ________________________________________________________________________ 25(OH)D livello Vegans Onnivori P-value (ng/ml) (n=88) (n=93) ________________________________________________________________________ ≤20 24 (27.3) 6 (6.5) 0.0002 ≤25 41 (46.6) 15 (16.1) <0.0001 ≤30 64 (72.7) 43 (46.2) 0.0003 ≤50 88 (100.0) 91 (97.9) 0.167 ________________________________________________________________________ Abbreviazione: 25(OH)D, 25-idrossivitamina D. I valori riguardano I numeri delle donne e la percentuale specifica del (in parentesi). Utilizzando i livelli del 25(OH)D <30 ng/ml (Holick, 2007), la prevalenza della vitamina D era insufficiente per il 73% dei vegani contro il 46% degli onnivori (P=0.0003). Utilizzando i livelli del 25 (OH)-D <20 ng/ml (Holick, 2007), la prevalenza del deficit di vitamina D era del 27% nei vegani, quattro volte superiore a quella degli onnivori (6.5%; P=0.0002; Tabella 4). Riguardo alla variazione per la BMD c’è stato un cambiamento sito-dipendente. La FN BMD diminuiva nei vegani (media±s.d., -0.86 ± 3.81 %/anno), ed era leggermente più bassa rispetto la diminuzione negli onnivori (-1.91±3.45 %/anno; P=0.08). LS BMD nei vegani mostra un leggero incremento (0.85±4.94 %/anno), che non era differente in modo significativo dal tasso osservato negli onnivori (0.89±3.22 %/anno; P=0.078; Tabella 5). L'analisi per età ha rivelato che il calo del FN BMD aumenta con l'avanzare dell'età, in modo tale che quelli con età di 70+ anni aveva un maggior tasso di perdita di massa ossea (-1,03% / anno) rispetto a quelli di età compresa tra i 60 e 69 anni (- 0,54% / anno). Per LS BMD, il tasso di variazione è stato anche l'età dipendente: -0,07 % / anno tra quelli di età 50-59 anni; 1 % / anno tra quelli di età 60-69 anni e 1,15% / anno tra quelli di + 70 anni di età. Per quanto riguarda LS, il tasso di variazione della BMD è risultata significativamente legata all'età, alla massa magra,alle proteine vegetali, ai grassi animali e all’uso di corticosteroidi (Tabella 6). Per quanto riguarda FN, il tasso di cambiamento rispetto al BMD è stato associato all'avanzare dell'età, alla massa magra e alla massa grassa, ai grassi animali e al rapporto proteine animali : proteine vegetali. Questi fattori hanno descritto complessivamente il 9% e il 13% della varianza rispettivamente al cambiamento nella LS e FN BMD. Andando ad osservare l’incidenza delle fratture durante il periodo di follow-up di 2 anni, 10 donne (5 vegane e 5 onnivore) avevano subito una nuova frattura vertebrale. Non c’era alcuna differenza significativa nell'incidenza di fratture vertebrali tra vegani e onnivori. Ulteriori analisi hanno rivelato che una storia personale di precedenti fratture era associata ad un aumentato rischio di fratture successive. Tuttavia, l'impiego di corticosteroidi, la carenza di vitamina D e osteoporosi non sono stati associati ad un aumentato rischio di fratture (Tabella 7). Discussione La salute delle ossa nei vegetariani è stato un argomento di preoccupazione per un po 'di tempo, perché in media hanno BMD inferiore rispetto ai non-vegetariani (Craig, 2009;. HoPham et al, 2009a), e un BMD più bassa è un fattore di rischio per fratture dovute a fragilità (Kanis, 2002; Nguyen et al., 2005a, 2007b). 61 Tabella 5 - Tasso di variazione (% / anno) della BMD classificata per gruppo _____________________________________________________________________________________________________________ Vegani (n = 88) onnivori (n = 93) Differenza (IC 95%) P-value _____________________________________________________________________________________________________________ Età (anni) 61,7 (9,5) 61,6 (9,6) 0,08 (- 2.53, 2.68) 0.954 BMD della colonna lombare (g/cm2) 0,85 (4,94) 0,89 (3,22) -0.04 (- 1.36, 1.29) 0.958 BMD del collo del femore (g/cm2) - 0,86 (3,81) 1,91 (3,45) 1,04 (-0.12, 2.21) 0.080 BMD corpo intero (g/cm2) 1,16 (2,38) 1,81 (3,56) - 0.64 (- 1,63, 0,34) 0,197 _____________________________________________________________________________________________________________ Abbreviazioni: BMD, la densità minerale ossea, IC, intervallo di confidenza. Tabella 6 - Determinanti di cambiamenti nella densità minerale ossea: analisi di regressione _________________________________________________________________________________________________________________ Coefficiente di regressione (se) coefficiente standardizzato P-value _________________________________________________________________________________________________________________ BMD lombare della colonna vertebrale (g/cm2) Età (anni) Massa magra (kg) L'uso di corticosteroidi (sì) Proteine vegetali (mg / giorno) Grasso vegetale (mg / giorno) 0.105 (0.034) 0.195 (0.074) - 1.879 (0.813) - 0.075 (0.035) 0.142 (0.045) 0.235 0.192 - 0.166 - 0.223 0.417 0.002 0.009 0.022 0.036 0.002 BMD del collo femorale (g/cm2) Età (anni) -0.072 (0.038) -0.137 0.051 Massa magra (kg) 0.277 (0.089) 0.234 0.002 Massa grassa (kg) 0.183 (0.075) 0.182 0.016 Grasso animale (kg) - 0.065 (0.030) - 0.170 0.028 Proteine animali/proteine vegetali -0.244 (0.094) -0.192 0.01 _________________________________________________________________________________________________________________ Abbreviazione: BMD, la densità minerale ossea. R2 per BMD della colonna lombare: 0,15 e del collo femorale: 0,18 62 Tabella 7 - Fattori di rischio per nuove fratture vertebrali Fattore di rischio Numero di frattura / totale Tasso di incidenza (%) RR (95% CI) Gruppo Onnivori 5/93 5.4 1.0 I vegani 5/88 5.7 1.02 (0.54, 1.92) Frattura precedente No 3/143 2.1 1.0 Sì 7/38 18.4 8.78 (2.38, 32.4) Impiego di corticosteroidi No 7/153 4.6 1.0 Sì 3/28 10.7 2.34 (0.64, 8.52) Carenza di vitamina D No 9/151 6.0 1.0 Sì 1/30 3.3 0.56 (0.01, 4.25) Fascia d'età (anni) 50-59 4/97 4.1 1.0 60-69 3/45 6.7 1.62 (0.38, 6.92) 70+ 3/39 7.7 1.87 (0.44 , 7.95) Osteoporosi No 7/154 4.5 1.0 Sì 3/27 11.1 2.76 (0.76, 10.0) ___________________________________________________________________________________________________________________ Abbreviazioni: CI, intervallo di confidenza; RR, rischio relativo Tuttavia, non vi è stato alcuno studio longitudinale per valutare l'associazione tra il vegetarianismo e perdita ossea, che è anche un fattore di rischio per fragilità di frattura (Nguyen et al., 2005b). In questo studio prospettico, è stato osservato che il tasso di perdita ossea nelle FN dei vegani non era diversa da quella nei nonvegetariani. Non c'era neanche una differenza significativa nell'incidenza di frattura tra i due gruppi. Questi risultati confermano l'opinione che il vegetarianismo non eserciti effetti negativi sulla salute delle ossa. La perdita ossea dopo la menopausa è un fenomeno universale. In Popolazioni caucasiche il tasso di FN perdita ossea varia tra 0,7 e 2 % / anno (Ensrud et al, 1995;.. Jones et al, 1994). I risultati di questo studio hanno mostrato che il tasso di perdita di massa ossea è stata ~1% / anno, in linea con i risultati precedenti nelle donne caucasiche (Nguyen et al., 2007a). Tuttavia, si è constatato che la perdita di BMD è stata osservata principalmente nell'anca, non al LS . In realtà, la BMD LS tendeva ad aumentare con l'avanzare dell'età, e questo risultato è anche coerente con dati precedenti per quanto riguarda le donne caucasiche (Jones et al, 1994.; Nguyen et al., 2005b). Esiste una incertezza delle modifiche differenziali della BMD ed è altamente possibile che l’ aumento di BMD LS è stata artificialmente indotta da osteofitosi (Jones et al., 1995), che si trova comunemente in individui con osteoartrosi. Tuttavia, non è stata valutata osteofitosi in questo studio, e di conseguenza non è possibile effettuare inferenza sulla grandezza dell'effetto osteofitosi sul cambiamento di BMD LS. Comunque il presente risultato conferma che BMD al LS non è una misura ideale per la diagnosi dell'osteoporosi nelle donne in postmenopausa. Abbiamo trovato effetti significativi relativi all’assunzione di calcio nella dieta e vitamina D sulla perdita ossea. L'assunzione di calcio nella dieta tra i partecipanti di questo studio è stato relativamente basso, ma non ha avuto effetti negativi sulla perdita di tessuto osseo. 63 Infatti, l’assunzione alimentare media di calcio nei vegani è stato solo di 375 mg / die, molto inferiore alle assunzioni osservate nei nonvegetariani (683 mg /giorno). In entrambi i gruppi, l'assunzione di calcio nella dieta era ben sotto il livello raccomandato di 1000 mg / die. Nondimeno, i bassi livelli di calcio nella dieta non hanno avuto alcun effetto negativo su BMD o perdita ossea in entrambi i gruppi, vegetariani e onnivori. Preoccupante, quasi 3/4 dei vegani avevano livelli insufficienti di 25 (OH) vit D , più di un quarto il livello di carenza. Anche se questi tassi di prevalenza erano significativamente più alti rispetto ai non-vegetariani, la differenza non sembra tradursi in effetti negativi sulla densità ossea o perdita ossea. In effetti,non abbiamo trovato alcuna correlazione significativa tra 25 (OH) vitD e BMD o cambiamenti nella densità minerale ossea. Nonostante l'associazione nulla potrebbe essere attribuito alla dimensione del campione, agli errori di misura sia di BMD che di 25 (OH) D, e alla durata del follow-up, la scoperta suggerisce che la vitamina D può avere un effetto modesto, se presente, sul tasso di perdita ossea nelle donne in postmenopausa. I tassi di perdita ossea sono molto variabili tra individui ed i fattori considerati in questo studio spiegano una minima parte della varianza. Oltre l'età, le misure della composizione corporea (cioè la massa magra e grassa massa) hanno avuto un effetto 'positivo' sulla perdita ossea, che sembra suggerire che il mantenimento di un peso corporeo stabile durante il periodo postmenopausa può essere protettivo contro la perdita ossea (Nguyen et al., 1998, 2000). È interessante notare che, i lipidi di origine animale e il rapporto di proteine animali e vegetali ha avuto un effetto significativo sulla perdita ossea al FN. Precedenti studi hanno osservato che una maggiore assunzione di proteine animali hanno ridotto il rischio di frattura, ma altri studi hanno dimostrato che gli individui con una maggiore assunzione di proteine animali avevano un maggior tasso di perdita di massa ossea (Sellmeyer et al., 2001) e un aumento del rischio di frattura (Feskanich et al., 1996). D'altra parte, negli anziani, la supplementazione di proteine possono avere un effetto protettivo contro la frattura dell'anca (Munger et al, 1999;. Tylavsky e Anderson, 1988). Così, i risultati ottenuti in riferimento all’attuale letteratura suggeriscono che una maggiore assunzione di proteine animali può avere effetti negativi sulla salute delle ossa. Questo risultato è coerente con l'ipotesi che le proteine animali produce una grande quantità di acido endogeno, che porta ad aumentare il riassorbimento osseo (Barzel e Massey, 1998) e ad avere una maggiore perdita di massa ossea. La frattura è il risultato finale dell’ osteoporosi. In questo studio, non è stata riscontrato alcuna differenza significativa nell’ incidenza di frattura tra vegani e onnivori. Un precedentemente grande studio (Appleby et al., 2007) ha rilevato che, sebbene vegani avevano un rischio leggermente più elevato di fratture da fragilità rispetto agli onnivori (rischio relativo 1.3), qualche vegetariano come gruppo non aveva un rischio maggiore di fratture rispetto agli onnivori. Va notato che in questo studio abbiamo considerato solo la morfometrica frattura vertebrale, non qualsiasi tipo di frattura. Inoltre, la dimensione del campione del presente studio è modesto e la durata del follow-up è relativamente breve, e potrebbe non essere sufficiente a delineare un vero e proprio effetto di vegani su rischio di frattura. L’ osso è il risultato netto di due processi opposti di formazione e riassorbimento. Riassorbimento osseo e la formazione potrebbero essere valutati rispettivamente da beta-cross-lap e PINP. In questo studio, abbiamo scoperto che non vi era alcuna differenza significativa per quanto riguarda marcatori tra vegani e onnivori, e che non vi era alcuna associazione significativa tra i marcatori e il tasso di perdita ossea. Inoltre, nessuno dei 2 marcatori era significativo relativamente al rischio di frattura. Presi insieme, questi dati suggeriscono che la dieta vegana non esercita effetti negativi sul riassorbimento osseo o formazione ossea. 64 I risultati del presente studio devono essere interpretati nel contesto dei punti di forza e debolezza dello studio stesso. Il disegno prospettico di questo studio consente una migliore quantificazione della perdita di massa ossea rispetto ad altri studi trasversali. La tecnologia DEXA per la misurazione della BMD è considerata una gold standard per la valutazione della salute dello scheletro. Tuttavia, lo studio potrebbe essere sbilanciato verso il gruppo dei sani, così come coloro che hanno abbandonato o si sono persi al follow-up tendevano ad avere BMD inferiore rispetto al gruppo che ha completato il follow-up. Si può quindi affermare che il presente studio può rappresentare un sottovalutazione del tasso di perdita ossea. La durata di follow-up (per esempio, 2 anni) può essere adeguato per valutazione dei cambiamenti nel BMD, ma potrebbe non essere sufficiente per la valutazione del rischio di frattura in gran parte a causa della rarità della frattura nella popolazione generale. Inoltre, la maggior parte dei partecipanti provenivano dalle aree urbane, che non può rappresentare il vero tasso di perdita di tessuto osseo nella comunità generale. In sintesi, questo studio prospettico non ha trovato alcuna significativa differenza nel tasso di perdita di massa ossea tra i vegani e onnivori. Anche se i vegani hanno avuto una più alta prevalenza di carenza di vitamina D e più bassi introiti di calcio nella dieta rispetto agli onnivori, i due fattori non sono stati associati con la perdita ossea. Un elevato apporto di proteine animali e di lipidi può aumentare il tasso di perdita ossea nelle donne in post-menopausa. Bibliografia 65 66 Espressione genica della via di segnalazione dell’mTOR e dell’ubiquitina-proteasoma nel mantenimento della massa magra a seguito di perdita di peso con dieta iperproteica ipocalorica a cura di Vincenzo Tortora La restrizione calorica è uno dei più efficaci modi per promuovere la perdita di peso ed è noto che attivi vie metaboliche protettive. Assieme alla perdita di peso sono frequentemente riportate conseguenze indesiderate di perdita della massa magra (tessuto muscolare magro). Le diete ipocaloriche con aumentato introito proteico sono popolari e possono fornire benefici aggiuntivi attraverso il mantenimento della massa magra, paragonate ad una dieta normoproteica iperglucidcica. Comunque, il meccanismo preciso con cui una dieta iperproteica può mitigare la perdita di massa magra indotta da una dieta per la perdita di peso non è stato completamente chiarito. Il mantenimento della massa magra dipende dalla stimolazione della sintesi proteica tramite il complesso mTOR, anche se durante la restrizione calorica una diminuzione del tessuto muscolare (atrofia) può conseguire ad uno shift omeostatico a favore del catabolismo proteico. Questa review descrive la relazione tra la composizione in macronutrienti delle diete ipocaloriche e la perdita di peso utilizzando indicatori metabolici. Specificatamente valutiamo gli effetti di un aumentato introito proteico e della restrizione calorica sull’espressione genica nel muscolo scheletrico, con particolare riguardo alla biosintesi, degradazione ed espressione dei geni nella via di segnalazione ubiquitina-proteasoma ed mTOR, inclusi MuRF-1, MAFbx/atrogina-1, mTORC1 ed S6K1. La strategia principale attuale per il trattamento dell’obesità (BMI ≥30 kg/m2) è il consumo di una dieta low-fat (<30% dell’energia totale) a ridotto introito calorico e l’attuazione di un aumento nell’attività fisica con lo scopo di creare un bilancio energetico negativo. Negli individui sovrappeso od obesi, anche una modesta riduzione di peso (5 kg) può avere benefici significativi sulla salute, incluso il miglioramento della sensibilità insulinica (1), della funzione delle isole pancreatiche beta (2), del controllo glicemico, della pressione sanguigna (3) e dei markers del danno ossidativo cellulare (4). Comunque, durante la perdita di peso indotta dalla modificazione dello stile di vita, la perdita della massa magra (FFM) metabolicamente attiva è una indesiderata conseguenza frequentemente riportata (5). L’emergente evidenza suggerisce che un elevato rapporto proteine/carboidrati in una dieta low-fat con restrizione calorica (CR) può mitigare le riduzioni nella FFM durante la perdita di peso attraverso l’aumento della sintesi proteica muscolare e/o la riduzione del catabolismo proteico, migliorando dunque il bilancio proteico muscolare netto (6). Il meccanismo preciso attraverso cui un aumentato introito proteico può mitigare la perdita di massa magra indotta dalla perdita di peso non è stato completamente chiarito. In condizioni eucaloriche la continua degradazione delle proteine che avviene negli organi e tessuti vitali è rimpiazzata nello stato post-prandiale tramite il rifornimento di aminoacidi derivanti primariamente dalla componente della FFM che costituisce il muscolo scheletrico (7). 67 Al contrario, nello stato post-prandiale, le proteine muscolari sono ripristinate attraverso l’aumento della sintesi proteica muscolare stimolato dall’alimentazione, processo che avviene quasi esclusivamente per via delle proteine che costituiscono gli alimenti ingeriti (8). Una volta che i fabbisogni per un adeguato substrato in grado di ripristinare le proteine muscolari sono superati, la risposta proteica indotta dall’alimentazione è inibita (9). Assumendo un adeguato apporto proteico, la crescita delle proteine muscolari che avviene durante lo stato alimentato bilancia la perdita di proteine muscolari che avviene nella fase post assorbitiva permettendo giorno dopo giorno alla massa muscolare scheletrica di rimanere relativamente costante (7, 10). Comunque, l’eccessivo introito nutrizionale di aminoacidi e glucosio, oltre il fabbisogno organico per mantenere l’omeostasi e la produzione energetica per i processi cellulari, porta alla resistenza insulinica nel muscolo scheletrico tramite una disregolazione della via di segnalazione dell’insulina e potenzialmente promuovendo il catabolismo proteico (11, 12). La riduzione della FFM che tipicamente avviene durante la perdita di peso indotta dalla restrizione calorica (CR) implica anche un bilancio proteico negativo netto nel muscolo scheletrico. Ci sono numerosi plausibili meccanismi, molti dei quali mediati dalle proteine dietetiche, che possono fornire alcune spiegazioni per il bilancio proteico negativo netto. Questi includono un aumentato tasso di catabolismo delle proteine muscolari in risposta alla restrizione calorica tramite la sovra regolazione degli enzimi del catabolismo proteico (13, 14); un’inadeguato introito di proteine per pasto e conseguentemente un ridotto tasso massimale post-prandiale di sintesi proteica muscolare (8, 15); una ridotta ingestione di numero di pasti/proteine durante il giorno e conseguentemente un ridotto numero di intervalli di tempo ad elevata sintesi proteica muscolare (16, 17); e/o un ridotto tasso di sintesi proteica post-prandiale associata al tipo/qualità di proteine che sono ingerite (18, 19). Anche se probabilmente un aumentato introito di proteine dietetiche durante la CR mitiga le riduzioni della FFM tramite uno o più di questi meccanismi, sono richiesti successivi trial clinici randomizzati e ben controllati per investigare il contributo di ognuno di questi fattori e se esiste una configurazione dietetica ottimale che può completamente preservare la perdita di FFM. Questa review valuta le attuali evidenze suggerendo che un aumentato apporto proteico dalla dieta durante la perdita di peso indotta dalla CR può mitigare la riduzione della FFM nelle persone sovrappeso ed obese tramite la diminuzione del catabolismo proteico ed il miglioramento dei fattori metabolici, quando paragonato a dieta con quantità di proteine standard, iperglucidiche ed ipocaloriche. I meccanismi principali sono discussi con riguardo alla via di segnalazione dell’ubiquitinaproteasoma e del target della rapamicina nei mammiferi (mTOR) e la loro associazione con la CR e la ritenzione della FFM. Una dieta iperproteica ipocalorica è tipicamente considerata essere costituita da circa il 30% dell’energia giornaliera totale dalle proteine, il 40% dai carboidrati ed il 30% dai grassi, con introito calorico di circa 6000 kj/die (1400 kcal) per le donne e 7000 kj/die (1600 kcal) per gli uomini. Una dieta con introito proteico standard e carboidrati elevati è tipicamente costituita dal 15% dell’energia totale derivante da proteine, il 55% dai carboidrati ed il 30% dai grassi. È stato dimostrato che una dieta alta in proteine, bassa in grassi paragonata ad una dieta ad alti carboidrati, con proteine standard, ipocalorica, risulta in una perdita di peso maggiore (20-25) e vantaggi metabolici (maggior riduzione nel colesterolo totale e nei trigliceridi negli uomini [26, 27] e ridotta perdita di FFM nelle donne [2831]) (tabella 1). Comunque, c’è anche un numero di studi che non hanno mostrato differenze nella perdita di peso totale (28, 30, 32-34) o la ritenzione di FFM (22, 23, 35-37) quando regimi ipocalorici iperproteici sono stati paragonati ad una dieta elevata in carboidrati. 68 Tabella 1 - Cambiamenti (Δ) nella massa magra (FFM), massa grassa e peso corporeo totale ± errore standard della media in donne da studi precedenti che hanno esaminato gli effetti di un aumentato introito calorico e della perdita di peso sulla composizione corporea (Farnsworth et al. [28]; Lucombe-Marsh et al. [65]; Noakes et al. [5]; Layman et al. [29]; Piatti et al., 1994 [31]). † Dati da studi effettuati solo su donne ** Indica una significativa ritenzione della massa magra nel gruppo a dieta dieta HP (iperproteica); * indica una tendenza. Esistono ulteriori evidenze apportando confusione in quanto mostrano una maggior perdita di FFM in uomini iperinsulinemici a seguito di una dieta iperproteica paragonata con una con introito proteico standard (38). Comunque, questa perdita è stata solo di 0.9 kg e gli autori hanno concluso che i soggetti normoinsulinemici sembrano avere riduzioni del peso migliori, minor abbassamento della spesa energetica e normalizzazione dei livelli di insulina in una dieta iperproteica paragonata ad una dieta isocalorica iperglucidica. Un aumentato effetto termogenico può dare alle diete iperproteiche un vantaggio metabolico rispetto alle diete iperglucidiche. È stato dimostrato che le proteine dietetiche hanno un significativo maggiore effetto sulla termogenesi basale (rispetto a carboidrati e grassi) (39, 40) ed il turnover di azoto è aumentato (indicando che la sintesi proteica è elevata) (39). In studi in condizioni eucaloriche, nel breve termine (3 mesi) l’aumento dell’introito dietetico di proteine diminuiva significativamente il grasso corporeo e preservava la massa magra nei partecipanti magri sani( 41). Comunque, è stato trovato che un elevato apporto proteico (>1.8 g/kg die) a lungo termine in soggetti a cui era appena stato diagnosticato diabete mellito (DM) insulino-dipendente e soggetti sani, aumenta le concentrazioni di insulina plasmatica e diminuisce l’ossidazione di glucosio risultando in uno stato di resistenza insulinica ed intolleranza al glucosio ma questi sono stati piccoli studi osservazionali e non interventi controllati (42, 43). Anche se gli studi osservano unanimamente benefici favorevoli della restrizione calorica nel ridurre il peso corporeo e della massa grassa, una complicazione che si associa ai risultati è la riduzione della FFM (atrofia muscolare) frequentemente riportata (5, 44). La FFM è la maggiore determinate del tasso metabolico basale (RMR) (45), il che suggerisce che una diminuzione nella FFM potrebbe diminuire i progressi di perdita di peso e può predisporre al riacquisto del peso (46, 47). Inoltre, la perdita di FFM non è generalmente recuperata in modo completo nei soggetti che riacquistano peso, predispondendoli all’insorgenza della “obesità sarcopenica” (48). 69 Nelle donne, la perdita della performance muscolare è stata osservata in associazione dell’insorgenza della menopausa, aumentando la loro vulnerabilità alla sarcopenia, paragonate con uomini della stessa età (49). La perdita della FFM può anche avere effetti peggiorativi nelle persone anziane in cui l’aumentata perdita muscolare si correla negativamente con la capacità funzionale minima per l’autosufficienza (50). L’atrofia del muscolo scheletrico, causata da uno sbilanciamento della sintesi e del catabolismo proteico, è facilmente osservabile in condizioni come il diabete non controllato, la cachessia indotta da tumori, danni al midollo spinale e scarsa attività muscolare. Una review sulle proteine dietetiche per l’atrofia muscolare nella cachessia effettuata da Op den Kamp et al. (51), ha trovato che la supplementazione con proteine dietetiche (>1.5 g/kg die) da sola o in combinazione con l’esercizio fisico mantiene o addirittura migliora la massa muscolare in questi pazienti. Inoltre, è stato dimostrato che la supplementazione di proteine (30 g/die) durante il mantenimento del peso limiti il riacquisto del peso perso durante il dimagrimento (52). I meccanismi attraverso cui un aumentato apporto proteico mitighi la riduzione della FFM indotta dalla perdita di peso, come indicato in alcuni studi, può essere spiegata dall’esame delle vie molecolari coinvolte nel controllo della sintesi proteica muscolare (ipertrofia) e del catabolismo (atrofia). Il fattore di crescita insulino simile-1 (IGF-1) e PKB/Akt sembrano giocare un ruolo chiave come target centrali nella via di sintesi (53) e degradazione proteica (54). Gli aminoacidi e l’insulina attivano la sintesi proteica muscolare tramite una proteina chinasi formata da un complesso serina-treonina, tramite la via del target della rapamicina nei mammiferi (mTOR) (figura 1A), col risultato di aumentare la crescita della massa cellulare (55). È stato dimostrato che una sovrabbondanza di nutrienti, in particolare l’aumento dei grassi e degli aminoacidi circolanti, causi la compensazione delle cellule beta-pancreatiche e l’aumentata attivazione dell’mTOR che può portare alla resistenza insulinica nei tessuti periferici responsivi all’insulina (56). Oltre alla disregolazione dell’omeostasi glicemica, un alterato segnale insulinico nel muscolo contribuisce alla perdita muscolare osservata nell’obesità, promuovendo il catabolismo proteico tramite l’espressione delle ubiquitina-ligasi e quindi fornendo una possibile spiegazione del perché un’alta attività dell’mTOR nei muscoli delle persone obese e dei topi obesi non provoca ipertrofia muscolare (11). Gli individui con DM di tipo 2 possono inoltre avere alterata sintesi proteica mediata dall’insulina (57, 58) perché il segnale degli aminoacidi al complesso 1 dell’mTOR (mTORC1) richiede la stimolazione contemporanea dell’insulina (59), che genera un loop a feedback negativo sulle proteine substrato del recettore insulinico (56). Questo è diverso in adulti più anziani (>65 anni) dove un’attenuata risposta alla sintesi proteica è stata osservata, rispetto a giovani adulti (<30 anni) a seguito di esercizi contro resistenza (60), indicando che gli anziani possono avere alterata abilità di rispondere allo stimolo anabolico proteico che risulta in una disregolazione acuta di questa via di segnalazione (61). Una carenza di nutrienti (i.e. il digiuno e possibilmente la CR) è stata proposta come attivatrice della chinasi attivata dall’adenosina monofosfato (AMPK) e della deacetilasi nicotinammide adenina dinucleotide (NAD+)-dipendente, come SIRT1 (Sirtuina 1), che sopprime la via dell’mTOR (62). C’è una forte indicazione che la disregolazione del segnale dell’mTOR, e quindi la ridotta abilità di mantenere la sintesi proteica, avvenga all’inizio della traduzione, perché i soggetti anziani presentano più bassa fosforilazione della chinasi ribosomiale p70S6 1 (p70S6K1) ed attenuata attività delle chinasi regolate dal segnale extracellulare 1 e 2 (ERK1/2) e della via di segnale della chinasi attivante la proteina chinasi attivata da mitogeni 1 (MNK1), paragonati a soggetti più giovani a seguito dell’esercizio con stessa intensità relativa (63). La sovrabbondanza di nutrienti, in particolare diete ad alto contenuto di grassi, possono ridurre la capacità delle leptina e dell’insulina di promuovere l’attività dell’mTORC1 e di ridurre l’introito alimentare (11), indicando che la qualità 70 71 Figura 1A. Rappresentazione schematica che raffigura la via di sintesi proteica nel muscolo scheletrico, che coinvolge il complesso 1 del target della rapamicina nei mammiferi (mTORC1). L’insulina, gli aminoacidi (inclusa la leucina) iniziano l’attivazione di una cascata di proteina e lipido chinasi risultando in ultima istanza in aumentata attività dell’mTOR, che facilita la fosforilazione di S6K1 e l’iper-fosforilazione di 4E-BP, con il risultato di un’aumentata disponibilità di eIF4E per legare eIF4G e formare un complesso attivo eIF4F che risulta in un’aumentata sintesi proteica (adattato, Layman [88], Anthony et al. [89], Drummond et al. [61], Um et al. [98] e Kimball [90, 93]. Figura 1B. Il meccanismo proposto in cui una dieta iperproteica ipocalorica aumenta la via di attivazione dell’IGF-1 PI3K/Akt, fosforilando dunque (P) i fattori di trascrizione FoxO e sotto regolando l’espressione degli enzimi E3 atrogina-1 e MuRF-1, portando alla riduzione della degradazione proteica nel cellule muscolari scheletriche. È stato proposto che PGC-1 alfa, SIRT1 ed AMPK inibiscano l’espressione dei fattori di trascrizione FoxO e dunque sopprimano il catabolismo proteico (adattato, Lecker et al. [70], Bodine et al. [99], Anthony et al. [89] e Blagosklonny et al. [62]. Le linee tratteggiate raffigurano un’interazione con un meccanismo non conosciuto. Le linee rosse indicano un segnale inibitorio sulla via. Figura 1C. Sommario degli eventi di biosintesi e degradazione proteica seguendo una dieta con quantità di proteine standard, alti carboidrati, paragonata ad una dieta iperproteica ipocalorica. della dieta, piuttosto che l’età, può essere un fattore che influisce sulla nostra abilità di mantenere la sintesi proteica. Altri non hanno trovato alterazioni nei livelli di proteine dell’IRS-1, dell’mTOR o del p70S6K nel muscolo scheletrico in gruppi di obesi e di diabetici di tipo 2 e sono stati riportati ridotti trasportatori del Sistema L, famiglia carrier dei trasportatori degli aminoacidi 43, membro 2 (LAT4) e famiglia carrier dei trasportatori 3, attivatrice del trasporto degli aminoacidi dibasici e neutri, membro 2 (CD98hc) nel gruppo con DM di tipo 2 (64). Numerosi studi hanno mostrato che le donne tendono a perdere meno FFM (e.g. 0.1 kg rispetto ad 1.5 kg) con diete iperproteiche e CR, rispetto a dieta con apporto proteico standard (Tabella 1) (28, 29, 31, 65), anche se altri non hanno mostrato differenze significative nella perdita di peso totale o di grasso tra i gruppi. La capacità di ritenere FFM per via dell’aumentato rapporto proteine/carboidrati durante la CR può essere mediata dall’effetto dell’introito proteico sulla secrezione insulinica (66) e la proteolisi (13). La proteolisi avviene principalmente tramite la via dell’ubiquitina-proteasoma (UPP), che degrada sia le proteine citosoliche che nucleari (67), così come le proteine miofibrillari (68), che costituiscono la maggior parte delle proteine nel tessuto muscolare dell’adulto (69). Studi hanno mostrato che durante il digiuno e possibilmente durante altre condizioni di bassi livelli di insulina, una riduzione nella sintesi proteica ed un aumento nella proteolisi avvengono attraverso la diminuzione della via di segnalazione del PI3K/Akt (70), perché l’IGF1/insulina bloccano la sovra-regolazione della trascrizione dei mediatori chiave della atrofia muscolare (54). L’IGF-1/insulina inibiscono inoltre l’espressione di due ligasi E3, la proteina dell’atrofia muscolare F-box (MAFbx/atrogina-1) e la proteina a motivi a dita di zinco RING muscolo specifica (71). Durante la CR, una diminuzione del muscolo scheletrico (atrofia) può essere guidata da uno shift omeostatico a favore del catabolismo proteico, che può avere un impatto significativo sulla ritenzione della FFM. La degradazione proteica muscolare è un processo complesso in cui sono coinvolte le proteasi lisosomiali, le proteasi Ca2+-dipendenti, le caspasi e le UPP (72). L’attività autofagica e proteasomica declinano con l’invecchiamento e possono contribuire alla perdita di tessuto muscolare correlata all’età (73, 74). Al contrario, evidenze nei roditori suggeriscono che la CR aumenta l’attività e l’efficienza di questi processi di controllo della qualità cellulare attraverso l’impedimento di un aumento nell’accumulazione dei carbonili proteici (75), ritardando l’aumento dell’attività 72 chimotripsina-simile correlato con l’invecchiamento, un indicatore dell’attività proteasomica (76). È stato mostrato che la stimolazione della proteolisi osservata durante l’atrofia è dovuta parzialmente all’attivazione della UPP (77) e quindi questa via può essere di rilevo nella perdita di FFM durante la perdita di peso. Nei roditori, la CR ha mostrato diminuire le concentrazioni di insulina nel plasma e di IFG-1 sierico fino al 40% (78) (rivisitato in [79]), il che può influire negativamente sul muscolo scheletrico. Poiché è stato indicato che l’IGF-1 blocca la sovraregolazione della trascrizione di un certo numero di ubiquitina-ligasi (54), una diminuzione dell’IGF-1 circolante potrebbe risultare in una sovraregolazione della MAFbx/atrogina-1 e della MuRF-1 nel muscolo scheletrico, portando ad un aumentata proteolisi e quindi perdita di FFM. Negli esseri umani, una severa CR a lungo termine (1-6 anni) non ha ridotto i livelli di IGF-1. Comunque, una riduzione nell’introito proteico (da 1.67 a 0.95 g/kg die) durante la restrizione calorica per 3 settimane in un piccolo numero di volontari ha avuto come risultato una riduzione dell’IGF-1 sierico (152 ng/mL) (78). È stato trovato che una dieta iperproteica ipocalorica per 12 settimane con elevate quantità di carne rossa negli uomini aumenti significativamente i peptidi IGF-correlati sia totali (HP 23%, HC 18%) che bioattivi (HP 18%, HC 15%) (80) rispetto ad una dieta iperglucidica (con quantità di proteine standard). In donne più anziane con peso stabile, un aumentato apporto proteico (30 g/die di supplementazione di siero proteine, per 2 anni) senza CR ha fatto aumentare significativamente l’IGF-1 sierico rispetto al placebo (81) indicando che l’incremento dell’apporto proteico, attraverso la capacità di elevare l’IGF-1 durante la CR, può impedire l’aumento della proteolisi attraverso l’ inibizione della sovraregolazione dei fattori chiave ubiquitina-ligasi (figura 1B). Le diete iperproteiche, ipocaloriche sono anche associate dall’aumentata stimolazione della produzione di glucagone e di insulina dal pancreas endocrino, alto turnover del glicogeno e stimolazione della gluconeogenesi (42, 43). Aumenti nei livelli di insulina possono stimolare PI3K/Akt, fosforilando le ramificazioni dei fattori di trascrizione (FoxO), risultando nella ritenzione citoplasmatica e nella repressione dell’ espressione dei geni target (82). Quindi una dieta iperproteica ipocalorica per la perdita di peso può sopprimere gli elementi regolatori chiave della UPP. L’iniziazione della fosforilazione di FoxO1 dalla PKB nel muscolo scheletrico può diminuire la capacità di FoxO di stimolare l’espressione degli enzimi ubiquitinaligasi (E3) MAFbx/atrogina-1 e MuRF-1 (83) che, quando sovraregolati, sono essenziali per la degradazione proteica e quindi l’atrofia muscolare (figura 1B). È stato indicato che eseguendo esercizi di ultra-endurance ed esercizio in combinazione con la perdita di peso, la quantità di proteine ubiquitina-coniugate e l’attività chimotripsina-simile sono diminuite (72, 84). Anche la sovraregolazione dei trascritti dell’mRNA MuRF1, F-Box e le subunità proteasomiche C2, sono state osservate così come le proteine di regolazione dell’autofagia Atg7 ed LC3B (84), indicando che durante l’esercizio di ultra-endurance i processi di controllo della qualità cellulare sono richiesti possibilmente per migliorare la funzione del muscolo scheletrico riparando il danno muscolare. Dunque abbiamo proposto che diete iperproteiche, ipocaloriche per la perdita di peso possano fosforilare PKB/Akt e FoxO portando alla soppressione della trascrizione di di MAFbx/atrogina-1 e MuRF-1, con il risultato di frenare la proteolisi che avviene durante la CR nel muscolo scheletrico (figura 1C), e dunque in un mantenimento della FFM. Recentemente è stato indicato che a breve termine, una dieta isocalorica, iperproteica (10 giorni, >130 g proteine/die) aumentava il turnover proteico organico totale e l’ossidazione aminoacidica (leucina) senza alcun aumento della sintesi proteica o della funzione mitocondriale sia in soggetti giovani (<25 anni) che più anziani (>70 anni). Questo indica che un introito proteico più elevato può stimolare la sintesi proteica a seguito dell’ingestione del pasto ma non migliora la sintesi proteica basale. 73 Comunque, il catabolismo proteico post assorbitivo (sia la degradazione che l’ossidazione degli aminoacidi) era aumentato durante la dieta iperproteica (85). Non si sa con certezza se questo avviene con diete iperproteiche durante la CR. I prodotti caseari, che contengono proteine del siero di latte, sono spesso componenti chiave di una dieta iperproteica, a bassi grassi. Le proteine del siero di latte forniscono un’attività di inibizione sull’enzima di conversione dell’angiotensina e contengono elevate concentrazioni di lecuina, una aminoacido a catena ramificata (BCAA) (86). L’inclusione di proteine del siero di latte in regimi ipocalorici può risultare in un aumentato mantenimento del muscolo scheletrico ed aumentata perdita di tessuto adiposo, con bilancio energetico negativo (86, 87). Ci sono inoltre evidenze crescenti che suggeriscono come i BCAA, in particolare la leucina, abbiano un ruolo significativo nella regolazione metabolica, al di là del loro ruolo fondamentale come substrato per la traduzione di numerose modificazioni pre- e post-trascrizionali (61). La leucina stimola la via di trasduzione del segnale che modula l’inizio della traduzione dell’mRNA quindi sovraregola la sintesi proteica (89-91). È stato identificato che l’acido alfachetoisocaproico, un metabolita della leucina, stimoli la fosforilazione della proteina stabile al calore ed all’acidità (PHAS-I), un regolatore dell’iniziazione della traduzione durante la mitogenesi cellulare recentemente scoperto (92). L’azione della leucina nella via di segnalazione dell’insulina è iniziata dall’mTORC1 (59, 93), che è attivato da una moltitudine di ormoni (e.g. insulina) e nutrienti (e.g. aminoacidi) che stimolano la crescita e la proliferazione cellulare, mentre è repressa da altri ormoni (e.g. glucocorticoidi) (94). Il complesso dell’mTOR controlla anche importanti funzioni negli organi periferici incluso il metabolismo ossidativo muscolare, la differenziazione del tessuto adiposo bianco, la secrezione insulinica dipendente dalle betacellule (95) e l’autofagia muscolare (11). L’aumento nelle concentrazioni di aminoacidi stimola l’attività della chinasi mTOR (figura 1A) ad induce la fosforilazione della proteina inibitoria legante il fattore eucariotico di iniziazione 4E (4E-BP1) , promuovendo la sua dissociazione del fattore di iniziazione della traduzione E (eIF4E). Una volta dissociato, eIF4E è disponibile per legarsi con eIF4E per formare un complesso di iniziazione attivo. È stato suggerito che la leucina stimoli la sintesi proteica nel muscolo scheletrico sia tramite meccanismi insulino-dipendenti che non insulino-dipendenti. I meccanismi insulino-dipendenti sono associati con il segnale dell’mTOR attraverso la fosforilazione della proteina che lega eIF4E 1 (4EBP1) e di S6K1 (59), in contrasto con gli effetti insulino-dipendenti derivanti da meccanismi non conosciuti che possono coinvolgere la fosforilazione di eIF4G e/o la sua associazione con eIF4E (90). Comunque, anche la disponibilità di aminoacidi aumenta i livelli di calcio intracellulare che possono attivare mTORC1 tramite l’attivazione calcio-calmodulina mediata di la classe III di chinasi PI-3, la proteina umana di selezione vacuolare 34 (hVps34) (96, 97), la fosforilazione sia di S6K1 che di 4E-BP1. Come parte di questa cascata dell’mTOR, è stato indicato anche che l’IGF-1 attivi la traduzione e la sintesi proteica muscolare via tuberina/tubero sclerosi 2 (TSC2). La PKB lavora fosforilando la TSC2 nei siti di fosforilazione che sono diversi dai siti di fosforilazione dell’AMPK (53). È stato suggerito che questa via sia soppressa o disattivata dalla restrizione calorica attraverso l’attivazione di AMPK e SIRT1, che avviene anche con l’somministrazione della metformina (che mima la CR), e prevedibilmente con disattivazione della via insulina/PI3K (63). A quanto ammonta il grado in cui l’obesità causi una disregolazione di questa via non è chiaro. È ancora poco noto circa l’impatto di una dieta iperproteica ipocalorica su questa via. 74 Considerazioni finali I meccanismi alla base del mantenimento della massa muscolare seguendo una dieta iperproteica con CR che miri alla perdita di peso, sembrano coinvolgere un aumentato consumo di aminoacidi in particolare leucina, che stimola la sintesi proteica muscolare via la via di segnalazione dell’mTOR. Comunque, in contrasto con le osservazioni fatte su modelli animali, gli studi negli esseri umani non hanno mostrato alterazioni nei livelli delle proteine dell’IRS-1, dell’mTOR o del p70S6K nella massa muscolare degli obesi e dei diabetici di tipo 2, paragonandoli a partecipanti magri della stessa età, e che la CR può di fatti disattivare questa via. Dunque la stimolazione della via dell’mTOR per aumentare la sintesi proteica non spiega completamente la ritenzione di FFM osservabile in studi con interventi di perdita di peso effettuati con diete iperproteiche. In questo studio viene proposto che il meccanismo chiave può coinvolgere la soppressione degli elementi regolatori dell’UPP nel muscolo scheletrico per evitare l’atrofia. Così come una riduzione nella FFM sembra essere una complicazione che si associa con la perdita di peso, capire i meccanismi alla base che si attivano in risposta alla composizione dei macronutrienti può aiutarci nel fornire informazioni dietetiche più comprensibili per i professionisti sanitari e le persone per facilitare una perdita di peso salutare ed il mantenimento del peso a lungo termine per il trattamento dell’obesità. Bibliografia 75 76 77 Le diete altamente ipocaloriche (VLCD): un veloce strumento per migliorare la funzionalità delle cellule β nei pazienti obesi con diabete di tipo 2. a cura di Manuel Salvadori Nei pazienti obesi con diabete di tipo 2, i cambiamenti nello stile di vita volti a far loro perdere peso risultano nel miglioramento1 o nella normalizzazione2 del glucosio plasmatico. Quest’effetto benefico sul controllo della glicemia è da ricondursi sia alla secrezione d’insulina che alla sensibilità insulinica3. Gli effetti metabolici della restrizione calorica (RC) di per sé potrebbero, almeno in parte, essere indipendenti dalla riduzione di peso. Sia un miglior controllo glicemico che una maggiore sensibilità insulinica sono stati riportati in pazienti con perdita di peso del ~12% con una dieta di 400kcal al giorno, in confronto a persone che hanno ricevuto una dieta di 1000 kcal al giorno che hanno perso lo stesso peso corporeo (~12%)4. Inoltre, durante i primi 10 giorni di una VLCD elaborata per 40 giorni, già si osservano i primi effetti sul controllo del glucosio sanguigno di pazienti diabetici di tipo 2, quando ancora il peso non era stato davvero intaccato.2 Quando l’intake calorico è stato aumentato dopo la riduzione di peso, il glucosio plasmatico è aumentato, anche se non è stato riguadagnato peso2,4. Il meccanismo che spiega questi meccanismi causati da una dieta VLCD in pazienti con diabete di tipo 2 è stato spiegato solo da pochi studi. La produzione epatica di glucosio risulta diminuita5 dopo 7 giorni di VLCD, così come risulta invece aumentato il livello della SI5,6. Uno studio seguente ha replicato gli stessi risultati sugli effetti di una VLCD a breve termine sulla produzione di glucosio epatico, ma non sul valore di SI in tutto il corpo7. Per quanto riguarda la funzionalità delle cellule β, studi precedenti hanno riportato un apparente miglioramento nella secrezione dell’insulina durante l’OGTT dopo una VLCD a breve termine5. Comunque, nessuno studio ufficiale è stato ancora condotto sulla sensibilità delle cellule β al glucosio, e visto che il glucosio è stato dato oralmente, altri fattori (ad esempio le incretine, la grelina) potrebbero essere stati coinvolti. Uno studio ha riportato un miglioramento nella riposta delle cellule β durante i clamps iperglicemici (escludendo i fattori dell’intestino) dopo otto settimane di VLCD e durante un periodo di stabilizzazione del peso corporeo (quindi in assenza di segnale negativo d’energia)8. Inoltre, secondo il design dello studio, non è stata investigata la prima fase di risposta di secrezione al glucosio. Recentemente, Lim ed altri9 hanno riportato che, in pazienti con diabete di tipo 2, una VLCD ha migliorato marcatamente il controllo del glucosio in pochi giorni e che un miglioramento sia del livello epatico di SI e della sensibilità delle cellule β al glucosio intravenoso siano i meccanismi principali coinvolti. Un prolungamento della VLCD per ulteriori otto settimane ha portato ad un’apparente remissione del diabete. Questo ed altri studi di meccanismo sono stati sviluppati su pazienti con un BMI di circa 30-35 nei quali, in accordo con le linee guida attuali10, la chirurgia bariatrica non dev’essere considerata come un’opzione possibile. Nei pazienti con diabete di tipo 2 che subiscono chirurgia bariatrica, miglioramenti del controllo glicemico e nella funzionalità delle cellule β sono rilevabili prima che avvenga una significativa perdita di peso; c’è inoltre la grande possibilità che il bypass intestinale possa avere effetti metabolici (ad esempio sulle cellule β) che sono indipendenti dall’efficacia sul peso, probabilmente coinvolgendo il meccanismo dell’asse incretinico11. Inoltre, la remissione dei diabetici di tipo 2 dopo la chirurgia bariatrica arriva a percentuali del 70-80%12. 78 Quindi, sarebbe importante sapere se nei pazienti estremamente obesi con diabete di tipo 2, che sono i maggiori candidati per la chirurgia bariatrica, una dieta VLCD a breve termine possa sortire gli effetti simili a quelli sortiti su pazienti meno obesi. E’ stato interessante consultare uno studio in cui si è voluto constatare se, nei pazienti molto obesi diabetici di tipo-2, 7 giorni di VLCD influiscano sul controllo glicemico attraverso cambiamenti sulle cellule β o su SI o entrambi. Lo studio aveva come campione quattordici pazienti con diabete di tipo 2 (7 uomini e 7 donne) con età compresa tra 60.3 ± 3.02 con diabete che dura da 4.8 ± 1.68 anni. La diagnosi di diabete è stata stabilita in accordo con i criteri della American Diabetes Association (ADA)13. I criteri d’inclusione sono stati i seguenti: trattamento o solo con dieta o con agenti orali ipoglicemici, obesità grave (BMI>40) e un buon controllo metabolico (HbA1c < 7,5%). I partecipanti sono stati esclusi qualora fossero trattati con agonisti peptide-1 glucagone-simile, inibitori della dipeptil peptidase 4, insulina o che avessero creatinina sierica > 150 μmol/L. Una settimana prima dell’ammissione in ospedale, tutti i medicinali ipoglicemici e gli antiipertensivi sono stati sospesi. Per assicurare la salute dei pazienti, un campione di sangue per la routine di biochimica è stato raccolto e controlli sul profilo glicemico e la pressione del sangue sono stati effettuati ogni giorno. I partecipanti sono stati studiati alla partenza dello studio e poi dopo 7 giorni di restrizione calorica (VLCD). La VLCD consisteva in una dieta di 400 kcal al giorno, la percentuale di distribuzione di lipidi, proteine e carboidrati è stata decisa sulla base degli Italian Standards of Care14. I chetoni urinari (Aution Sticks, Arkray; Menarini Diagnostics) sono stati controllati ogni mattina come markers di aderenza alla dieta. Il colesterolo plasmatico totale ed i triglicerici, assieme con l’HbA1c sono stati misurati all’inizio dello studio e alla fine del periodo di VLCD15,16. Sia all’inizio che alla fine della VLCD sono stati condotti degli studi iperglicemici di clamp insulinici su tutti i pazienti come sopra descritto18. Tutti gli esami sono stati eseguiti dopo un digiuno notturno di 12 ore, mentre i soggetti erano sdraiati a letto. In tutti i soggetti, due cateteri intravenosi sono stati inseriti sulla vena antecubitale e nella vena del polso per l’infusione delle sostanze e l’analisi del campione di sangue arterioso, seguendo la tecnica hot box19. Dopo un periodo di 60 minuti utile a stabilire il livello basale (~60 fino a 0 min), è stato effettuato un clamp iperglicemico per i successivi 120 minuti18. Il glucosio plasmatico è stato misurato a letto ogni 2-5 minuti al bisogno, ed è stato clampato a +7,0 mmol/L (+126 mg/dl). In queste condizioni di costante iperglicemia, la normale risposta delle cellule β è bifasica, con un picco insulinico nei primi dieci minuti seguito da un rilascio monotonale18. Campioni di sangue per il glucosio, peptide-C ed insulina sono stati prelevati ogni 2,5 minuti a partire dal minuto 0 al minuto 15, ed ogni 15 minuti dal minuto 15 al minuto 120. La risposta insulinca in acuto (AIR) è stata calcolata come la media incrementale della concentrazione plasmatica di insulina a 2.5, 5.0, 7.5 e 10 minuti del clamp iperglicemico18,24. Il parametro per la risposta insulinca della seconda fase (2ndIR) è stato calcolato come la media incrementale della concentrazione d’insulina tra il 60esimo ed il 120esimo minuto del clamp iperglicemico18. La disponibilità di glucosio durante il clamp è stata calcolata come la rata di glucosio esogeno infuso corretto tramite i (piccoli) cambiamenti nel pool generale. (M value; in μmol · min−1 · m−2 BSA)18. La clearance metabolica del glucosio durante il clamp è stata calcolata come il rapporto tra il valore M e la concentrazione prevalente di glucosio. 18 In queste condizioni sperimentali, la clearance metabolica di glucosio soddisfa i requisiti di una misurazione diretta sperimentale della dispotition index (DI) della seconda fase della secrezione insulinica (DI; mL · min−1 · m−2 BSA)25. In ciò si ritrova l’utilizzo totale del glucosio promosso dalle cellule β alla stessa concentrazione di glucosio ottenuta con la sperimentazione. Essa misura la capacità del corpo di gestire un carico glicemico intravenoso, 79 e riflette l’adeguatezza delle cellule β di correggere la secrezione insulinica e la clearance insulinica. La DI ha due vantaggi: 1) è una misurazione sperimentale diretta, non il prodotto di due divere correzioni sperimentali e 2) a differenza di tutte le altre DI, non richiede assunzioni riguardo relazioni matematiche che collegano sensibilità insulinica (SI) alla risposta secretoria delle cellule β o alla concentrazione insulinica glucosio-mediata.25 La SI durante il clamp iperglicemico è stato calcolato come il rapporto della clearance metabolica del glucosio diviso per la concentrazione insulinica media raggiunta tra il 60° ed il 120° minuto [SI; in (mL · min−1 · m−2 BSA)/(pmol/L)] (25). I principali dati i del modello sono i seguenti: 1. Parametri della prima fase La quantità totale dell’insulina secreta nella prima fase (1stISR; in pmol/m2 BSA) e la sensibilità al glucosio della prima fase secretiva (σ1), espressa come l’ammontare totale di insulina secreta in risposta ad una concentrazione maggiore di glucosio di 1 mmol/L nel primo minuto dello studio, in (pmol/m2 BSA)/(mmol/L· min−1). 2. Parametri della seconda fase La quantità totale di insulina secreta durante la seconda fase (2ndISR; in pmol/m2 BSA) e la sensibilità al glucosio della seconda fase secretiva (σ2) espressa come il costante livello di secrezione insulinica durante l’incremento di un livello di glucosio rispetto alla base – 1mmol/L in (pmol · min−1· m−2 BSA)/(mmol/L). Alla fine, un’indice di clearance insulinica (in L · min−1 · m−2 BSA) è stato calcolato come il rapporto tra la media di secrezione insulinica diviso per la media della concentrazione insulinica durante il clamp iperglicemico. Dopo la VLCD, la perdita di peso è stata di 3.22 ± 0.56kg, di cui stimata 3.58 ± 0.60 kg (P = 0.0000045), di cui il 42% grasso corporeo. Sia il BMI che la circonferenza vita sono diminuite significativamente (P=0,001 per entrambe) – Tabella.1. I trigliceridi plasmatici (P= 0,0003) sono diminuiti, ma non il colesterolo totale (P= 0,78), dopo la VLCD (Tabella 1). Il glucosio plasmatico a digiuno è diminuito significativamente (P = 0.044), mentre nessun cambiamento significativo è stato osservato sull’insulina a digiuno (P = 0.699) o sui livelli di peptide-C a digiuno (P = 0,57). (Tabella 1). Durante il clamp iperglicemico, sia il valore M (disponibilità di glucosio) che la DI sono aumentati significativamente dopo la VLCD (P = 0.008 e P = 0.005 rispettivamente) (Figura 1), ma la SI non è cambiata significativamente (P = 0,33) (Tabella 1). Riguardo i parametri della prima fase di secrezione insulinica, l’AIR è aumentato significativamente dopo la VLCD (P = 0,016) (Figura 2A). Nessun parametro derivato dal modello di studio (ie. 1stISR o σ1) hanno dimostrato cambiamenti significativi (P = 0,18 e P = 0,31, rispettivamente) (Tabella 1). Per quanto riguarda i parametri della secrezione insulinica di seconda fase, 2ndISR ha dimostrato un trend non significativo di aumento(P = 0,096) dopo la VLCD. Per i parametri derivati dal modello, invece, 2ndISR è aumentato significativamente (P = 0,014) (Figura 2B) e σ2 ha dimostrato un trend non significativo verso l’aumento dopo la VLCD (P 0 0,068). L’indice di clearance insulinica non è cambiato significativamente (P = 0,39) dopo la VLCD (Tabella 1). Discussione Il maggiore risultato dello studio preso in esame, è il miglioramento della DI in diabetici gravemente obesi dopo una settimana di bilancio energetico negativo. Questo evento potrebbe essere dovuto, in via teorica, ad uno o più dei tre cambiamenti: 1) funzionalità migliorata delle cellule β, 2) l’aumento di SI e 3) la diminuita clearance insulinica. Abbiamo rilevato un miglioramento della funzionalità delle cellule β dopo la VLCD, laddove i cambiamenti in SI e nella clearance dell’insulina sono stati minimali. 80 Tabella.1 - Effetti di una VLCD sulle variabili metaboliche ed antropometriche. Figura 1. Effetti di una VLCD sul Disposition Index(DI) Sono rappresentati i dati individuali dei 14 pazienti e i valori netti. BSA= Body Surface Area. VLCD = Very Low Calorie Diet. Figura 2. Valori Medi (±SEM) AIR (A) e 2ndISR (B) in risposta ad una VLCD. N = 14 in entrambi i pannelli. AIR, risposta insulina acuta; VLCD, Very Low-Calorie Diet; 2ndISR, tasso di secrezione insulinica nella seconda fase, ie, quantità totale di insulina rilasciata durante la seconda fase. 81 La VLCD ha causato una drastica diminuzione del peso, della massa grassa e dei trigliceridi. Tuttavia, la SI non è stata toccata, in contrasto col miglioramento della SI epatica riportata da Lim et al9. La differenza nei soggetti di studio (gravemente obesi contro obesi/sovrappeso), nel design sperimentale (clamp iperglicemici contro clamp isoglicemico insulinici) e nel ruolo giocato dalla tossicità del glucosio28 potrebbero spiegare quest’apparente discrepanza.9 Nello studio proposto, si è esplorato la risposta di secrezione della prima e della seconda fase sia con indici tradizionali che con parametri derivati sperimentalmente; questi ultimi hanno misurato la secrezione insulinica, non la concentrazione, e la sensibilità delle cellule β al glucosio, indipendentemente dai cambiamenti nella clearance insulinica. Anche se dei risultati statisticamente significativi sono stati raggiunti solo per AIR e 2ndISR, lo scenario generale è valido per miglioramenti sia nella prima che nella seconda fase, per una VLCD durata solo 7 giorni. In contrasto con ciò, non sono stati rilevati effetti sull’insulina a digiuno, come evidenziato dalle misurazioni della concentrazione di insulina e peptide-C prima del clalmp iperglicemico. Nei pazienti con diabete di tipo 2, diversi meccanismi potrebbero essere stati coinvolti nel miglioramento della funzionalità delle cellule β, includendo – ma non solo – la terapia concomitante, la minore variazione di glucosio e il valore minore di glucosio netto ingerito. Comunque, l’attenta selezione effettuata sui pazienti permette di escludere questi fattori (tossicità del glucosio, variabilità glicemica e trattamento) sui cambiamenti metabolici osservati poiché, in questo studio sono stati compresi solo pazienti diabetici estremamente obesi con buon controllo glicemico, trattati solo con dieta o con ipoglicemizzanti orali (sospesi all’inizio della VLCD). In generale, i risultati sono in accordo con quelli ottenuti dallo studio di Lim et. Al, ottenuti in pazienti con BMI di circa ~30, nei quali l’importante miglioramento nel controllo del glucosio causato dalla VLCD è stato dovuto principalmente a miglioramenti importanti nella funzionalità delle cellule β e nel SI epatico, senza evidenze riguardo al SI periferico. Riguardo i meccanismi che argomentano la remissione del diabete di tipo 212 dopo la chirurgia bariatrica, il ruolo potenziale giocato dall’improvviso bilancio negativo di energia ha riguadagnato recente attenzione29,30. Dati molto recenti supportano l’ipotesi che la restrizione calorica sia una mediatrice di miglioramenti metabolici immediatamente successivi, in particolare dopo l’intervento Roux ad Y31, attraverso una migliorata SI epatica con conseguente riduzione di glucosio epatico, almeno nei pazienti diabetici. I dati di questo studio supportano l’idea che la chirurgia bariatrica possa migliorare la funzionalità delle cellule β nei pazienti con diabete di tipo 2, inducendo il bilancio d’energia negativo. Riassumendo, è stato verificato che la restrizione calorica a breve termine di per sé migliora il controllo glicemico e la funzionalità delle cellule β in pazienti obesi con diabete di tipo 2, cioè una classe di potenziali candidati per la chirurgia bariatrica. Ulteriori ricerche esploranti il campo del ruolo benefico della restrizione calorica dopo procedure di chirurgia bariatrica sono ancora necessarie. Bibliografia 82 83 Consumo di uova intere migliora il profili lipoproteico e la sensibilità all'insulina in soggetti con sindrome metabolica a cura di Letizia Antonia D’Alessandro L’assunzione giornaliera di uova in un regime low-carb potrebbe portare ad un’alterazione del metabolismo lipoproteico, del profilo delle lipoproteine aterogeniche e a insulino resistenza in uomini e donne con sindrome metabolica (MetS). Per analizzare tale ipotesi è stato effettuato uno studio randomizzato in singolo cieco. I partecipanti hanno consumato 3 uva intere al giorno o il loro equivalente di un sostituto tuorlo-privo. Il regime alimentare seguito per 12 settimane dai partecipanti era di tipo low-carb (25-30% delle calorie totali). I partecipanti (n = 37) erano di mezza età (51,9 ± 7,7 y) e con un BMI medio di 30.4 ± 5.5 kg/m2 nel gruppo che ha consumato uova intere e di 30.6 ± 5.1 kg/m2 in coloro che hanno consumato il sostituto. Circa 2/3 dei partecipanti che ha completato lo studio era di sesso femminile sia nell’ EGG (7 maschi, 13 gruppi femminili) che nel SUB (5 maschi, 12 femmine). All’inizio e dopo 12 settimane sono stati valutati: lipidi plasmatici, apo, oxLDL, CEPT, LCAT. Le concentrazioni di particelle di lipoproteine e le dimensioni sono state misurate mediante spettroscopia di risonanza magnetica nucleare. Al termine dello studio si è potuto osservare un miglioramento della dislipidemia aterogenica in tutti gli individui, come evidenziato dalla riduzione nel plasma di trigliceridi, apoC-III, apoE, oxLDL, del diametro delle particelle VLDL, grandi VDL, IDL totali, LDL piccole e medie (p <0.05). Inoltre, ci sono stati aumenti dei livelli di colesterolo HDL, grandi HDL e LDL (P <0.05) in tutti gli individui. Tuttavia l’aumento delle grandi HDL e del colesterolo HDL, e la riduzione delle VLDL totali e delle piccole VLDL è risultato maggiore negli individui che hanno consumato uova intere rispetto a coloro che hanno consumato i sostituti tuorlo-privi (P < 0.05). Si è evidenziata una riduzione dell’insulina plasmatica e della resistenza all’insulina mentre l’attività dell’LCAT e il diametro di HDL ed LDL sono aumentati nel tempo solo nel gruppo che ha consumato uova intere (P <0,05). In definitiva si può affermare che inserendo l’uso moderato di uova intere in un regime alimentare restrittivo in carboidrati si ottiene un miglioramento del profilo delle lipoproteine aterogeniche e della resistenza insulinica nei soggetti con sindrome metabolica. La sindrome metabolica (MetS) è caratterizzata da una costellazione di fattori di rischio sia per il diabete di tipo 2 che per le patologie cardiovascolari (CVD). Un importante contributo all'elevato rischio di sviluppo di CVD osservato nella MET è la dislipidemia aterogenica associata a questa condizione, di cui le cause primarie sono l’insulino-resistenza e l’adiposità viscerale[1]. La dislipidemia aterogenica è caratterizzata da uno specifico profilo lipoproteico in cui si ritrovano bassi livelli plasmatici di colesterolo HDL (HDL-C), elevati trigliceridi a digliuno(TG), e una predominanza di particelle LDL piccole e dense [2]. Le piccole LDL sono particolarmente suscettibili all'ossidazione e alla ritenzione sottoendoteliale [2], e la sindrome metabolica è spesso associata a elevati livelli plasmatici di LDL ossidate (oxLDL) [3]. Inoltre nella sindrome metabolica sono evidenti alterazioni nelle particelle HDL, con riduzioni dell’HDL-C riferito a un aumento percentuale di piccoli HDL rispetto ai grandi HDL[4]. Abbreviazioni: Apo, apolipoproteina; CETP, proteina di trasferimento plasmatico degli esteri del colesterolo; CHD, malattia coronarica, CRD, dieta povera in carboidrati; CVD, malattie cardiovascolari; EGG, gruppo che a consumato 3 uova al giorno; HDL-C, colesterolo HDL; LCAT, lecitina-colesterolo aciltransferasi; LDL-C, colesterolo LDL; LPL, lipoproteina lipasi; MetS, sindrome metabolica; NCEP: ATP III, National Cholesterol Education Program Adult Treatment Panel III; NMR, risonanza magnetica nucleare; oxLDL, LDL ossidate; SUB, gruppo che ha consumato il sostituto d'uovo privo di tuorlo; TC, colesterolo totale; TG, trigliceridi. 84 Ci sono prove che le piccole particelle di HDL, le quali sono predominanti nella Mets, siano funzionalmente difettose e più suscettibili di catabolismo [5]. Inoltre nei pazienti con CDV si osserva una percentuale maggiore di piccole HDL [6]. Di contro, le grandi HDL sono associate al rischio cardiovascolare in maniera inversamente proporzionale [6,7]. Inoltre, la sindrome metabolica è spesso associata ad un aumento delle grandi sottoclassi di VLDL galleggianti come risultato della resistenza all'insulina [8]. La sovrapproduzione epatica di grandi VLDL è un importante contributo alla comparsa di altre anomalie lipoproteiche della MET [8]. Come trattamento di prima linea per la sindrome metabolica sono consigliate strategie alimentari volte alla perdita di peso. Una strategia dietetica in cui è prevista la restrizione dei carboidrati è particolarmente efficace per la perdita di peso e per migliorare la dislipidemia aterogenica [10]. L’assunzione di carboidrati nel contesto della resistenza all'insulina è stato dimostrato che induce la lipogenesi de novo e può direzionare il metabolismo preferenzialmente alla produzione di VLDL ricche in TG [11]. Conseguentemente, la restrizione dei carboidrati nei soggetti con Mets è associata a un miglioramento globale della dislipidemia aterogenica, comprese riduzioni plasmatiche di TG, grandi VLDL, e piccole sottoclassi di LDL con aumento delle grandi HLD. Un'altra strategia dietetica compatibile con la limitazione dei carboidrati che è stata associata a miglioramenti nelle caratteristiche delle particelle lipoproteiche è il consumo giornaliero di uova. Nella popolazione sana, l'assunzione giornaliera di uova sposta la percentuale delle piccole LDL e HDL verso le loro sottoclassi più grandi [12]. Inoltre, l'assunzione giornaliera di uova è stato dimostrato possa aumentare l’attività della lecitina-colesterolo aciltransferasi (LCAT), la quale potenzialmente migliora il trasporto inverso del colesterolo [13,14]. Così, l’inserimento delle uova nell’alimentazione quotidiana in un regime low-carb può fornire benefici aggiuntivi per la dislipidemia aterogenica tipica delle Mets. In qualche maniera, al contrario di quanto si potrebbe pensare si ipotizza che il consumo di uova intere possa promuovere lo shift tra lipoproteine più aterogeniche in un contesto di insulino resistenza e diabete di II tipo, e questo potrebbe spiegare i risultati osservati da una ricerca che collegavano uova e rischio CDV in questi soggetti [15]. Lo studio descritto di seguito sopperisce alla mancanza di interventi clinici esaminanti gli effetti del consumo di uova intere sulle sottoclassi di lipoproteine in soggetti con sindrome metabolica. In tale intervento si è ipotizzato che la restrizioni dei carboidrati avrebbe avuto effetti favorevoli su lipoproteine, apolipoproteine e oxLDL in tutti i partecipanti. Inoltre, i partecipanti che consumavano 3 uova intere al giorno hanno ottenuto maggiori miglioramenti complessivi nelle concentrazioni delle particelle lipoproteiche, nella dimensione delle particelle, e nell'attività dell'LCAT rispetto ai partecipanti che hanno consumato le uova senza tuorlo. Descrizione dell’indagine Quaranta uomini e donne di età compresa tra 3070 anni affetti da Sindrome metabolica sono stati reclutati e arruolati in un intervento dietetico di 12 settimane. I criteri di esclusione includevano il diabete autoriferito, disturbi coronarici e cardiaci, ictus, problemi renali, malattie del fegato, cancro, gravidanza in corso o allattamento, e allergia alle uova. Tutti i partecipanti hanno dovuto seguire una dieta moderatamente ristretta in carboidrati (CRD) per 12 settimane (25% -30% dell’energia da carboidrati, 25% -30% da proteine, e il 45% -50% da grassi). La dieta era ad libitum e non c'erano raccomandazioni o restrizioni specifiche nella quantità calorica. Studenti laureati qualificati hanno dato ai partecipanti delle linee guida dietetiche complete e istruzioni su come seguire un CRD. In aggiunta al CRD, i partecipanti sono stati randomizzati in due gruppi a cui è stato chiesto di consumare o 3 uova al giorno (EGG), o l'equivalente quantità in uova senza tuorlo (SUB) per l’intero periodo delle 12 settimane di studio. 85 Ogni dose giornaliera (1/2 tazza) di uova conteneva circa 534 mg colesterolo, 0 g di carboidrati, 16 g di proteine, 12 g di grassi, ed equivaleva a 186 kcal. Una porzione giornaliera del sostituto tuorlo-privo conteneva circa 2 g di carboidrati, 14 g proteine, pari a 60 kcal. I prodotti a base di uova sono stati dati sottoforma di liquido ed erano uguali sia in consistenza e colore. I partecipanti erano inconsapevoli del gruppo di assegnazione e gli ovoprodotti sono stati dati bisettimanalmente. I partecipanti sono stati invitati a evitare di mangiare uova oltre a quelle assegnate dallo studio. La conformità è stata monitorata mediante l'uso di questionari settimanali e della raccolta di contenitori svuotati. Ai partecipanti è stato chiesto di mantenere la loro normale attività fisica, i farmaci, e gli integratori dietetici utilizzati prima dell’ inizio dello studio di 12 settimane. Un totale di 37 partecipanti (n = 37) ha completato le 12 settimane di studio (25 donne e 12 uomini) e i loro dati sono stati utilizzati per le analisi successive. I partecipanti hanno riportato l’assunzione di alimenti per 5 giorni alla sesta e dodicesima settimana del periodo di studio. Ogni registrazione di 5 giorni consisteva di 3 giorni settimanali e 2 festivi. Sono stati eseguiti prelievi a digiuno sui partecipanti dopo 12 ore di digiuno all’inizio dello studio e alla dodicesima settimana. Il colesterolo plasmatico totale a digiuno (TC), il colesterolo HDL (HDL-C), l’insulina plasmatica e i trigliceridi (TG) sono stati determinati all’inizio e alla settimana 12. L’insulina plasmatica è stata misurata a digiuno utilizzando l’equazione del Homeostasis Model Assessment (HOMA-IR) per stimare la resistenza insulinica basale sull’insulina plasmatica e sulle misurazioni di glucosio nel plasma [17]. Le concentrazioni delle particelle VLDL, IDL, LDL, HDL i loro diametri medi sono stati quantificati utilizzando la risonanza magnetica nucleare (NMR) al basale e alla settimana 12. L’NMR può quantificare contemporaneamente frazioni lipoproteiche >30 che sono raggruppate in 10 sottoclassi in base al diametro: grandi VLDL (> 60 nm), medie VLDL (35-60 nm), piccole VLDL (27-35 nm), IDL (23-27 nm), grandi LDL (21,2-23 nm), medie di LDL (19,8-21,2 nm), piccole LDL (1819,8 nm), grandi HDL (8,8-13 nm), HDL medie (8,2-8,8 nm) e piccole HDL (7,3- 8.2 nm). Le ampiezze di segnale MNR delle sottoclassi lipoproteiche sono direttamente proporzionali alle concentrazioni di particelle. La media ponderata dei diametri lipoproteici è stata calcolata sulla base della concentrazione e del diametro delle sottoclassi di lipoproteine. Anche se non sono state date specifiche linee guida o restrizioni caloriche, c’è stata una riduzione del 24% dell’introito calorico in tutti i partecipanti dall’inizio dell’indagine sino alla dodicesima settimana senza differenze tra i due gruppi. Conformemente alla dieta moderatamente low-carb, vi sono state riduzioni nel tempo sia per la percentuale di assunzione di energia proveniente dacarboidrati (40,9 ± 7,4 vs 28,3 ± 9,5%, p <0,0001) che per il totale quantità di carboidrati consumati al giorno (211,9 ± 51,8 vs 114,5 ± 55,0 g / d, P <0.0001) per tutti i partecipanti. L’assunzione di grassi totali (90,7 ± 24,7 vs 81,6 ± 31,4 g / d) e l'assunzione totale di proteine (86,4 ± 22,6 vs 88,2 ± 28,4 gr / d) non è cambiata rispetto al basale in entrambi i gruppi. L'assunzione di energia totale da grassi è aumentata dal 38,6% ± 6,4% al 45,7% ± 7,4% (p <0,0001), mentre l'assunzione di energia da proteine aumentata dal 17,3% ± 3,0% al 23,9% ± 4,1% (P <0.0001). Alla settimana 12, ci sono state differenze significative tra i gruppi per l’assunzione di colesterolo e di colina dalla dieta (EGG vs SUB, P <0.0001). Il gruppo EGG ha aumentato l’assunzione di colesterolo del 106% rispetto il basale (359,9 ± 177,7 vs 740,8 ± 139,7 mg / die, p <0,0001), mentre il gruppo SUB l’ha diminuita del 38% rispetto al basale (344.9 ± 133.1 vs 213.4 ± 83,3 mg / die, p <0.01). Il gruppo EGG aumentato apporto di colina del 52% rispetto al basale (332.1 ± 127.4 vs 505.5 ± 113.3, p <0,0001), mentre il gruppo SUB l’ha diminuita del 29% rispetto al basale (350.1 ± 90.3 vs 247.8 ± 99.9 mg / die, p <0.01). Dopo 12 settimane, c'è stata una perdita di peso del 4% rispetto al basale sia per il gruppo EGG (87,3 ± 20,2vs 83,7 ± 20,5 kg, P <0.0001) che per il gruppo SUB (85,6 ± 16,2 vs 82,2 ± 14,9 kg, P <0.0001). I livelli di colesterolo totale del plasma (TC) e di LDL-C sono rimasti invariati dopo 12 settimane, indipendentemente dal gruppo (P> 0,1) (Tabella 1). Il TC e l’ LDL-C plasmatici non sono variati nel tempo per il gruppo EGG nonostante la supplementazione alimentare 86 fornita dal tuorlo d’uovo. Di contro, l'intervento dietetico ha significativamente migliorato i marcatori della dislipidemia aterogenica associata alla sindrome metabolica (Tabella 1). L’ HDL-C plasmatico (P <0.0001) è aumentato del 13,6%, mentre i TG plasmatici (p <0,0001) si sono ridotti del 24,0% in tutti i partecipanti. Conseguentemente, il rapporto TG / HDL-C è diminuito in modo significativo dal basale alla settimana 12 sia per il Gruppo EGG (3.2 ± 2.1 vs 1.9 ± 1.4, p <0,0001) che nel gruppo SUB (3,4 ± 2,6 vs 2,4 ± 1,5, p <0,05). Il gruppo EGG ha avuto una risposta HDLC più grande rispetto al gruppo SUB, mostrando un incremento percentuale maggiore per il gruppo EGG (19,1%) rispetto al il gruppo SUB (9,9%) (P <0.05). Il rapporto LDLC/HDL-C, un marcatore comunemente usato per evidenziare il rischio aterosclerosi, è migliorato in tutti i partecipanti per lo più a causa dell’aumento di colesterolo HDL-C (Tabella 1). Il rapporto LDL-C/HDL-C è diminuito del 9,5% nel gruppo SUB e del 13,5% nel gruppo EGG rispetto al basale. Interessante notare che solo i partecipanti al gruppo EGG hanno avuto una significativa diminuzione nel rapporto LDLC/HDL-C (P <0,01). Non ci sono stati effetti significativi dell'intervento sul glucosio plasmatico a digiuno (dati non mostrati). Al contrario, l'insulina plasmatica e l’HOMA-IR sono diminuiti in tutti i partecipanti (Tabella 1). Se analizzati separatamente, i partecipanti del gruppo EGG hanno avuto riduzioni significative di insulina plasmatica (P <0.05) e di HOMA-IR (P <0.05), mentre non sono stati osservati significativi cambiamenti nel gruppo SUB. Come mostrato in fig. 1A, la dimensione delle particelle medie VLDL (diametro) è diminuita in modo significativo per entrambi i sottogruppi. Non ci sono state significative differenze nelle variazioni di diametro delle VLDL tra i due gruppi. Per tutti i partecipanti, i cambiamenti del TG plasmatico sono stati positivamente associati a cambiamenti nella dimensione VLDL (r = 0.625, Tabella 1 – lipidi plasmatici, insulina e insulino resistenza determinata mediante HOMA nei partecipanti al basale, alla settimana 6 e alla 12 dell’intervento dietetico. 87 P<0,001) (Fig. 1B). A differenza della dimensione delle VLDL, la dimensione media delle particelle di LDL è significativamente aumentata dal basale alla settimana 12 solo per il gruppo EGG (Fig. 1C). Per tutti i partecipanti, i cambiamenti nel rapporto TG / HDL-C nel plasma alla 12° settimana sono stati inversamente associati al cambiamento nelle dimensioni delle LDL (r = 0,371, p <0.025) (Fig. 1D). La dimensione media delle particelle HDL è aumentata significativamente solo per il gruppo EGG (Fig. 2A)(EGG: 0,22 ± 0,30 vs SUB: 0,05 ± 0,22 nm, P<0,05). Per tutti i partecipanti, i cambiamenti nelle dimensioni delle HDL erano positivamente associati a cambiamenti nella HDL-C (r = 0.623,P <0,001) (Fig. 2B). Il gruppo EGG ha ottenuto significative maggiori diminuzioni nelle VLDL totali rispetto al gruppo SUB (P <0,05) (Tabella 2). Le VLDL totali e le medie VLDL sono diminuite nel gruppo EGG rispettivamente del 19,2% e 31,1% (P <0.05). (Tabella 2). Le VLDL totali e medie sono diminuite nel gruppo EGG rispettivamente del 19,2% e 31,1% (P <0.05). Nel gruppo SUB, invece, le VLDL totali sono diminuite solo del 0,4% e leVLDL medie sono aumentate del 15,5%. Per tutti i partecipanti c’è stata una riduzione del 47,2% delle grandi VLDL (p <0,001) e del 32,1% delle IDL (P <0.05). Dopo le 12 settimane di studio ci sono stati cambiamenti significativi nella concentrazione totale di particelle LDL in entrambi i gruppi (Tabella 3). Inoltre ci sono stati cambiamenti significativi nelle specifiche sottoclassi di LDL, con aumento delle grandi LDL (P <0,01), e diminuzione delle LDL medie (p <0.05) e piccole (p <0,05) in tutti i partecipanti. Le grandi LDL sono aumentate del 22,7% per il gruppo EGG e dell’11,1% per il SUB. LDL medie e piccole sono diminuite nel gruppo EGG rispettivamente del 23,6% e del 22,0% , mentre nel gruppo SUB le riduzioni osservate sono state rispettivamente del 5,3% e del 7,3%. Come mostrato in Tabella 3, alla settimana 12 le oxLDL plasmatiche sono diminuite del 6,8% rispetto al basale in tutti i partecipanti (P <0,05). 88 Figura 1 - (A) Variazioni delle dimensioni delle particelle VLDL (diametro) dal basale alla settimana 12 . I valori sono medie ± SEM. * Indica differenze significative rispetto al basale a P <0,05. (B) Correlazione di Pearson tra le variazioni di TG plasmatici e le dimensioni delle particelle VLDL dal basale alla settimana 12. (C) Variazioni delle dimensioni delle particelle di LDL (diametro) dal basale alla settimana 12. I valori sono medie ± SEM. * Indica differenze significative rispetto al basale a P <0,01. (D) Correlazione di Pearson tra le variazioni di TG / HDL-C plasmatici e le variazioni delle dimensioni delle LDL dal basale alla settimana 12. Figura 2 – (A) Variazioni nella dimensione (diametro) delle HDL dal basale alla settimana 12. I valori sono medie ± SEM. * Indica differenze significative rispetto al basale a P <0,01. (B) Correlazione di Pearson tra le modifiche di HDL-C e cambiamenti nella dimensione delle HDL dal basale alla settimana 12. Tale riduzione è stata associata ad una riduzione dei livelli di LDL-C (r = 0.558, P <0.001), e delle medie e piccole LDL (r = 0,358, p <0.05) (Fig. 3A). Rispetto al basale, non ci sono stati cambiamenti significativi nella concentrazione di HDL totali in entrambi i gruppi (Tabella 4). Tuttavia sono aumentate le grandi HDL del 30,4% nel gruppo EGG (P <0.01) e del 10,3% nel gruppo SUB (P <0.05). Per quanto riguarda le altre sottoclassi di HDL, le medie HDL sono diminuite del 38,8% per tutti i partecipanti (P <0,01), mentre non vi sono state variazioni nel numero delle piccole HDL per entrambi i gruppi. L’attività dell'LCAT plasmatico è significativamente aumentata alla settimana 12 nel gruppo EGG (P <0,05), mentre non è cambiata per il gruppo SUB (fig. 3B). L’ attività del CETP plasmatico non è variata in entrambi i gruppi (P> 0,5, dati non riportati). Le concentrazioni plasmatiche delle apolipoproteine al basale e alla settimana 12 sono esposte nella tabella 5. Per entrambi i gruppi non ci sono stati cambiamenti significativi nella apoA-I plasmatica. Al contrario, l’apoA-II plasmatica è diminuita nel corso del tempo per tutti i partecipanti (P <0,05), senza differenze tra i gruppi. L’ apoB plasmatica è rimasta invariata in entrambi i gruppi . 89 Tabella 2 – Numero di IDL, VLDL, grandi, medie e piccole VLDL in tutti i partecipanti al basale e alla settimana 12 dell’intervento dietetico. Tabella 3 – Numero di LDL totali, grandi, piccole e medie LDL ed LDL plasmatiche ossidate in tutti i partecipanti al basale e dopo 12 settimane di intervento dietetico. 90 Figura 3 – (A) Correlazione di Pearson tra i cambiamenti del numero delle piccole e medie LDL e i cambiamenti nelle oxLDL dal basale alla settimana 12. (B) Cambiamenti nell’attività dell’LCAT dal basale alla settimana 12 in entrambi i gruppi. . I valori sono medie ± SEM. * Indica differenze significative rispetto al basale a P <0,05. Tuttavia, le riduzioni delle apoB sono state associate alla riduzione delle VLDL totali (r = 0,519, p <0,01), delle LDL totali (r = 0,458, p <0,01), e delle oxLDL (r = 0,353, p <0,05). Le concentrazioni plasmatiche di apoC-II, apoC-III, e apoE sono diminuite significativamente in tutti i partecipanti (P <0,05). I principali risultati riportati in questo studio hanno evidenziato che sia la moderata restrizione dei carboidrati che l'assunzione di uova intere erano in grado di migliorare la dislipidemia aterogenica e l’insulino-resistenza in uomini e donne affetti da sindrome metabolica. La restrizione glucidica e la perdita di peso hanno comportato riduzioni dei TG plasmatici, l’aumento del C-HDL, e miglioramenti nella distribuzione delle sottoclassi delle lipoproteine. Tutti i partecipanti hanno avuto riduzioni nella dimensione delle VLDL, delle sottoclassi di lipoproteine aterogeniche (piccole LDL, grandi VLDL, IDL), e delle oxLDL. Inoltre, ci sono stati aumenti del numero di grandi particelle HDL in tutti i partecipanti, indicativo di un più sano fenotipo HDL. Inoltre, coloro che hanno consumato uova intere hanno avuto ulteriori miglioramenti nel metabolismo delle lipoproteine, tra cui aumento del diametro di HDL ed LDL, maggiori riduzioni nelle VLDL totali e medie VLDL, e maggiori aumenti delle grandi HDL, del colesterolo HDL-C, e dell’attività dell’LCAT rispetto al gruppo SUB. Le relazioni tra le misure standard dei lipidi sanguigni, come l’C-LDL e l’HDL-C, e il CVD sono ben definite. Tuttavia, nonostante la loro importanza nella predizione della malattia, individui con valori di lipidi ematici simili spesso possono avere rischi per CDV molto diversi [18]. In queste circostanze è riciesto l’utilizzo di test avanzati lipoproteici [19]. L'analisi NMR consente la caratterizzazione delle sottoclassi lipoproteiche eterogenee che possono differire nella loro aterogenicità, 91 offrendo, così, uno strumento per identificare il reale rischio cardiovascolare tra individui con valori simili di lipidi ematici. Le diverse sottoclassi lipoproteiche misurate mediante analisi NMR, hanno dimostrato essere marcatori di gravità della malattia cardiovascolare [18], e hanno capacità predittiva del rischio di CVD [6,7,20,21] e del rischio di diabete di tipo 2 [22,23]. Queste associazioni sono spesso indipendenti dagli altri comuni fattori di rischio, quali l'età e le misurazioni standard dei lipidi sanguigni. In linea con i noti effetti dei carboidrati sulla regolazione della produzione di VLDL-TG [10], si sono avute riduzioni dei TG plasmatici, del diametro delle particelle VLDL e del numero delle grandi VLDL in tutti i partecipanti. Inoltre, sono state osservate riduzioni delle apolipoproteine plasmatiche (C-III ed E) associate alle grandi VLDL-TG ricche. ApoC-III e apoE sono note per la capacità di ridurre l’ idrolisi e il catabolismo delle VLDL-TG inibendo l’ attività LPL [24,25]. Si sono inoltre osservate maggiori diminuzioni delle VLDL totali e VLDL medie nel gruppo EGG rispetto al gruppo SUB. Il numero delle VLDL tot e delle medie VLDL è stato dimostrato essere positivamente associato con l’incidenza di CVD [6] e di diabete di tipo 2 [23]. Le ulteriori riduzioni di VLDL osservate nel gruppo EGG, possono essere legate alla riduzione della produzione epatica di VLDL, risultante dai miglioramenti dell’insulinemia e dell’ HOMA-IR osservati al termine dello studio. La dislipidemia aterogenica del Mets è guidata dalla sovrapproduzione di grandi VLDL TGricche, conseguenza della resistenza insulinica epatica [8]. Quest’ultima aumenta sia il substrato lipidico che la disponibilità di apoB per il montaggio delle VLDL [8]. Le piccole e medie LDL sono significativamente diminuite in tutti i partecipanti . Inoltre, c’è stato un concomitante aumento nelle grandi LDL (meno aterogeniche). Al contrario delle piccole LDL, le LDL più grandi non sono generalmente associate a un rischio cardiovascolare [6]. Inoltre, si è osservato un aumento significativo della dimensione delle particelle LDL nel gruppo EGG. E’ stato già dimostrato come un’alimentazione che prevede l’uso giornaliero di uova possa determinare l’incremento delle grandi sottoclassi di LDL e del diametro LDL, misurato mediante gel elettroforesi [26] e metodi NMR [13]. Tabella 4 – Numero di HDL totali, grandi, medie e piccole HDL in tutti i partecipanti al basale e dopo 12 settimane di intervento dietetico. 92 Tabella 5 – Apolipoproteine plasmatiche nei partecipanti al basale e alla dodicesima settimana di intervento dietetico. Più elevate concentrazioni plasmatiche di LDL sono correlate al’incidenza di CVD [6]. Le piccole LDL sono state correlate con bassi livelli di HDL-C ed elevati TG plasmatici che costituiscono le principali alterazioni delle lipoproteine nella dislipidemia aterogenica osservata nella sindrome metabolica [4]. Le riduzioni delle piccole LDL osservate in questo studio sono conformi al parallelo miglioramento dell’ HDL-C, dei TG, e del rapporto TG/HDL-C (utilizzato come marcatore di resistenza insulinica) [27]. Le piccole LDL sono particolarmente aterogeniche, a causa del maggiore tempo di permanenza e alla maggiore suscettibilità per l’ossidazione e la ritenzione sottoendoteliale [2]. Conseguentemente si sono osservate riduzioni delle oxLDL in tutti i partecipanti, e questo è associato alla riduzione sia delle piccole che delle medie LDL [6]. I livelli plasmatici di apoB sono rimasti inalterati, in accordo con la mancanza di effetti sul numero totale di LDL che contribuiscono al 90% del totale di apoB plasmatico [28]. I maggiori cambiamenti osservati nel gruppo EGG sono stati l’aumento delle grandi LDL e la diminuzione delle sottoclassi di LDL più piccole. È importante sottolineare che questi cambiamenti nella dimensione LDL e delle sottoclassi si sono verificati indipendentemente da eventuali variazioni delle LDL-C. Ci sono stati maggiori miglioramenti significativi sia nella dimensione delle HDL che nel numero delle grandi HDL nel gruppo EGG rispetto al SUB. Inoltre, tali aumenti sono stati fortemente correlati all’aumento di HDL-C plasmatico, in linea con altri studi NMR [6,20]. Sono stati evidenziati negli uomini in sovrappeso miglioramenti simili nelle caratteristiche delle particelle HDL con l'assunzione giornaliera di uova intere[13]. Le particelle di HDL si differenziano per dimensioni, densità e carica a causa delle differenze di composizione (proteine e contenuto lipidico) [29]. Le piccole HDL, più dense, sono considerate meno ateroprotettive delle sottoclassi più grandi, e di solito sono indicative di un fenotipo caratterizzato da dislipidemia aterogenica [7]. Dimensione delle particelle HDL misurata mediante NMR è risultata essere significativamente più piccola nei pazienti affetti da malattia coronarica (CHD) rispetto al controllo [7]. Inoltre, le grandi HDL sono protettive rispetto ai CVD, 93 mentre HDL piccole sono associate alla patologia cardiovascolare [6,18]. Alcune analisi non hanno trovato alcuna associazione tra la dimensione delle particelle HDL e rischio di CHD dopo il controllo per le concentrazioni plasmatiche di apoB e trigliceridi [7]. Tuttavia, le terapie che hanno come risultante HDL più grandi e profili delle sottoclassi di HDL simili a quelli degli individui sani possono essere indicative di miglioramenti del rischio cardiovascolare [30]. Dallo studio è emersa una significativa riduzione del numero delle HDL medie in tutti i partecipanti. Questo era prevedibile, in quanto osservato anche in altri studi come effetto parallelo delle riduzioni di assunzione di carboidrati [13,31,32]. Uno studio di controllo osservazionale in uomini con sindrome metabolica ha evidenziato che quelli con meno HDL medie (misurata mediante NMR) avevano una maggiore incidenza di morte per malattia coronarica [33]. Tuttavia, altri studi sui profili lipoproteici ottenuti mediante NMR non hanno trovato associazione tra HDL medio e CHD [6,7]. Nello studio qui descritto si sono osservate, inoltre, riduzioni significative delle apoA-II, probabilmente dovute alla riduzione delle medie HDL [34]. L’ApoA-II è stata associata con un’alterata attività dell'LCAT, ipertrigliceridemia, e aterosclerosi (in modelli animali) [35]. Così, la formazione di grandi HDL a scapito delle medie riflette forse un profilo di sottoclassi di HDL più ateroprotettive a seguito di consumo di uova. Non ci sono state variazioni nelle ApoA-I plasmatiche, in accordo con la mancanza di variazioni nelle HDL totali, insieme con le riduzioni di HDL medie, che portano entrambi apoA-I e apoA-II, e l’incremento delle grandi HDL, che trasportano prevalentemente apoA-I [36]. L’attività dell'LCAT è aumentata solo nel gruppo EGG. Questo risultato è coerente con altri studi che riportano che l'assunzione giornaliera di uova aumenta l'attività dell'LCAT [13,14]. Questo potrebbe essere indicativo di una maggiore capacità di maturazione dell’HDL [13]. L'LCAT è di fondamentale importanza nel facilitare la stabilità e la maturazione delle particelle HDL [37]. Diversamente dall'LCAT, non ci sono stati cambiamenti dell'attività plasmatica del CETP in entrambi i gruppi. Pertanto, un aumento dell'attività dell'LCAT dovuto al consumo di uova può essere associato a miglioramenti nell’inversione del trasporto del colesterolo mediata dalle HDL. I miglioramenti della dislipidemia osservati in questo studio sono almeno paragonabili ai risultati ottenuti utilizzando cibi integrali volti ad indirizzare e migliorare il profilo dei lipidi plasmatici. Il consumo di 1,5 pompelmi al giorno per 6 settimane si è osservato possa ridurre il colesterolo plasmatico totale e l’LDL-C negli adulti in sovrappeso, ma non comporta miglioramenti del C-HDL [38]. Nei diabetici tipo 2, 4 settimane di consumo quotidiano di mandorle (~ 60 g al giorno) ha determinato nel 9,7% la diminuizione nel rapporto LDL-C/HDL-C rispetto alla dieta di controllo, derivante da riduzioni nel plasma delle LDL-C [39]. Nello studio corrente, il consumo di uova intere è stato associato a una riduzione del 13,5% del rapporto LDL-C/HDL-C rispetto al basale, principalmente attribuita all’aumento del 19,1% dell’HDL-C plasmatica. Rispetto al sostituto d’uovo privo di tuorlo, gli effetti osservati col consumo di uova intere sono probabilmente dovuti proprio al tuorlo. Questi sono una fonte particolarmente ricca di fosfatidilcolina esogena (PC) e di altri fosfolipidi [40]. Questi sono stati associati ad aumenti di HDL-C in studi su animali e umani [41,42]. Il fosfolipidi possono essere in parte responsabili dei miglioramenti osservati nell’HDL-C e nei profili delle HDL. Tra i punti di forza dello studio si può evidenziare la praticità dell’intervento dietetico utilizzato. I risultati dimostrano che anche una moderata restrizione di carboidrati può portare a miglioramenti globali nei vari parametri della sindrome metabolica. Tale modello alimentare può essere facilmente seguito ed accettato dai pazienti affetti da sindrome metabolica. Inoltre, l'inclusione di uova intere, che sono a basso contenuto di carboidrati, possono migliorare gli effetti benefici della restrizione dei carboidrati sui lipidi plasmatici, sui profili lipoproteici, e sulla resistenza all'insulina. Uno dei limiti dello studio è che i partecipanti al gruppo EGG erano più insulino resistenti rispetto a quelli del gruppo SUB, e quindi potrebbero aver maggiormente beneficiato della perdita di 94 peso. Inoltre potrebbe essere necessario un ulteriore studio di maggiore durata per affrontare il consumo più prolungato di colesterolo e colina in soggetti con sindrome metabolica. In sintesi, la restrizione dei carboidrati e perdita di peso migliorano il profilo delle lipoproteine in individui con sindrome metabolica riducendo l’oxLDL plasmatico, e modifica la distribuzione delle sottoclassi lipoproteiche verso una minore aterogenica. Inoltre, l'inclusione di uova intereaumenta le grandi HDL, il diametro delle HDL e delle LDL e l’attività dell'LCAT, riducendo le VLDL totali e medie. Così, i risultati di questo studio suggeriscono che consumare giornalmente uova intere in un regime alimentare moderatamente povero in carboidrati favorisca un miglioramento del profilo lipoproteico aterogenico tipico della Sindrome metabolica. Ulteriori studi devono essere condotti per confermare questi risultati. Bibliografia 95 96 L’ingestione simultanea di carboidrati e proteine del siero di latte isolate aumenta l’espressione dell’mRNA del PGC- 1 alfa: effetti sull’adattamento all’allenamento endurance a cura di Manuel Salvadori e Vincenzo Tortora La nutrizione ottimale non è richiesta solo per un normale funzionamento organico, ma lo stato nutrizionale di un atleta di endurance può influire negativamente o positivamente sulla sua performance sportiva (1). Le richieste nutrizionali degli atleti di endurance includono fabbisogni calorici più elevati per sostenere l’attività e ripristinare il glicogeno ed un aumentato apporto proteico per supportare il turnover proteico muscolare. Durante l’esercizio d’endurance i fenomeni che maggiormente squilibrano l’omeostasi cellulare, i depositi e l’utilizzo energetico avvengono nei muscoli (2). Il recupero da una sessione di allenamento di endurance è fondamentale, dal momento che il danno muscolare causato durante l’esercizio parzialmente dovuto alla contrazione muscolare ed ai cambiamenti ormonali che risultano in una degradazione delle proteine muscolari, continuano una volta che l’esercizio viene cessato (3). Questo danno può peggiorare la funzione muscolare, il trasporto di nutrienti, il tasso di resintesi di glicogeno e squilibrare la via della sintesi proteica (3). Ripetute sessioni di esercizio d’endurance risultano in adattamenti strutturali, metabolici e fisiologici che garantiscono il miglioramento della prestazione (4). Gli adattamenti a lungo termine sono un risultato cumulativo di sessioni di allenamento successivi ed il periodo postallenamento è cruciale nel permettere questi processi (2). Durante il recupero l’attivazione di alcune importanti vie di segnalazione avviene nelle prime ore prima di ritornare a valori basali in 24 ore (2). Il recupero dall’allenamento d’endurance richiede il ripristino delle scorte di glicogeno e la riparazione dei danni muscolari (5). La nutrizione è una componente chiave per supportare l’allenamento pesante e la competizione (6). La sorgente primaria di energia durante gli eventi d’endurance è il glicogeno muscolare (7, 8). È ben documentato che la deplezione delle scorte di glicogeno intramuscolari può limitare la performance durante l’esercizio prolungato (9). Massimizzare i livelli di glicogeno pre-esercizio attraverso il carico dei carboidrati è molto praticato dagli atleti, in aggiunta al ripristino immediatamente dopo l’esercizio per ottimizzare il recupero del glicogeno muscolare (10). Comunque, i soli carboidrati non sono abbastanza per stimolare in modo significativo la sintesi proteica e la risposta adattativa all’esercizio d’endurance (11). Le proteine sono un substrato estremamente importante, per la loro influenza sul tasso di regolazione della sintesi proteica muscolare (MPS) ed i conseguenti effetti sul fenotipo del muscolo scheletrico (12). Gli adattamenti muscolari dipendono dalla disponibilità di un sufficiente apporto proteico (2). Il tipo di proteine consumate può influire il processo di recupero per le differenze nel tasso di digestione delle proteine e la concentrazione delle stesse (11). Le proteine delle caseine sono rilasciate dallo stomaco più lentamente delle proteine isolate del siero di latte (whey). Dunque, le whey producono un aumento più rapido e transitorio della concentrazione degli aminoacidi e potenzialmente una maggior disponibilità degli aminoacidi stessi (13). Le proteine whey isolate, paragonata ad altre fonti proteiche, sono molto efficaci nel promuovere la sintesi proteica a seguito dell’esercizio contro resistenza per la loro alta concentrazione in aminoacidi a catena ramificata essenziali (14). 97 La modalità dell’esercizio influenza i successivi adattamenti muscolari, con l’esercizio d’endurance che risulta primariamente in un aumentata capacità ossidativa muscolare e quello contro resistenza in ipertrofia muscolare (15). L’esercizio d’endurance migliora gli adattamenti del muscolo scheletrico aumentando gli attivatori della biogenesi mitocondriale come il coattivatore-1 alfa del recettore attivato dai proliferatori dei perossisomi gamma (PGC-1 alfa) (16, 17). La regolazione della sintesi proteica coinvolge diverse vie di segnalazione. Queste sono influenzate dagli aminoacidi, l’insulina e la stimolazione meccanica (18). Esiste un ampio campo di ricerca che dimostra il beneficio della supplementazione di proteine con l’esercizio contro resistenza (14, 19, 20). Comunque, la ricerca è limitata sui benefici della supplementazione di proteine per atleti impegnati in allenamenti di endurance. In particolare, gli effetti della co-ingestione di proteine isolate del siero di latte e carboidrati sul recupero dall’esercizio d’endurance e la via del PGC-1 alfa. Lo studio preso in esame valuta 2 settimane di co-ingestione di whey isolate più carboidrati (CHO + WPI) sulla performance di endurance ed il recupero, paragonata ad un gruppo isocalorico con pari carboidrati (CHO). Abbiamo ipotizzato che CHO + WPI migliori la performance ed il recupero aumentando i livelli di glicogeno muscolare e facilitando la risposta adattativa, paragonato ai soli CHO. Il campione dello studio è rappresentato da sei ciclisti d’endurance sani e triatleti che hanno volontariamente completato lo studio (età 29 +/4 anni, peso 74 +/- 2 kg, VO2_max 63 +/- 3 ml ossigeno/kg per minuto, altezza 183 +/- 5 cm; medie +/- SEM). I partecipanti hanno completato un questionario medico standard prima di iniziare l’esperimento. L’ammissione allo studio richiedeva un consumo massimale di ossigeno di almeno 60 ml di ossigeno/kg per minuto e non aver consumato supplementazione di whey nelle ultime 12 settimane prima dello studio. I partecipanti hanno effettuato il test per la VO2_max su un cicloergometro. Il test consisteva in 3 minuti a 3 carichi di lavoro sub massimali seguiti da un aumento di 25 watt (W) ogni minuto fino all’esaurimento. Durante il testo, la frequenza cardiaca (HR) dei soggetti è stata monitorata ed i gas respiratori sono stati continuamente misurati con un gas analisi. Le misurazioni dei gas respiratori sono state misurate utilizzando spirometria a circuito aperto e la calorimetria indiretta tramite una tabella metabolica. I dati ottenuti dalla VO2_max dei partecipanti sono stati usati per calcolare il loro carico di lavoro (70% e 90% della VO2_max) per i test di esercizio. Una curva standard è stata costruita da 3 lavori sub massimali e VO2. La VO2_max predetta è stata poi usata per calcolare la percentuale dei carichi di lavoro (W) in accordo all’equazione lineare generata dalla curva standard. Completato il testo, i partecipanti sono stati introdotti ai regimi dietetici e le procedure sperimentali utilizzate durante lo studio. Era richiesto che i partecipanti mantenessero il loro allenamento durante gli interventi dietetici ed i periodi di washout. È stato utilizzato un protocollo randomizzato crociato a singolo cieco per valutare gli effetti della supplementazione delle proteine whey isolate sulla performance d’endurance ed il recupero. Gli interventi dietetici sono stati casualmente assegnati senza che i partecipanti lo sapessero, eguagliando le bevande con CHO e CHO + WPI per sapore, odore ed aspetto. Ognuno dei protocolli era seguito da 16 giorni totali (14 giorni seguiti da 2 giorni di carico di CHO) con un periodo di wash out di 4 settimane per separare gli interventi dietetici. Gli interventi dietetici erano isocalorici ed il contenuto di CHO eguagliato (vedere Tabella 1 per i valori nutrizionali delle diete). Le diete erano isocaloriche tramite la modulazione della quantità di grassi consumata, comunque il contenuto totale di grassi nel gruppo CHO contribuiva a meno del 30% dell’energia totale. 98 Tabella 1- Contenuto di carboidrati (CHO), proteine (PRO) e grassi (Fat) negli interventi dietetici divisi per gruppo solo carboidrati (CHO) e gruppo carboidrati + proteine del siero isolate (CHO+WPI) Le proteine extra a 1.2 g/kg per giorno sono state supplementare tramite proteine whey isolate (tabella 2) e fornite con una bevanda sportiva pronta (tabella 3). Il gruppo CHO ha consumato la bevanda sportiva, senza le WPI. Nei giorni di allenamenti i partecipanti erano istruiti a consumare la bevanda durante e dopo la sessione allenante e nei giorni di non allenamento di consumarla in qualsiasi altro momento del giorno. Ai partecipanti sono stati forniti tutti i pasti e gli spuntini durante la durata degli interventi dietetici per assicurare la consistenza nei livelli di energia e macronutrienti e per garantire la compliance. Inoltre, ai partecipanti sono state fornite delle tabelle come promemoria per facilitare la documentazione dell’introito alimentare. Dopo il completamento dei 16 giorni di interventi dietetici (CHO o CHO + WPI), i partecipanti sono giunti al laboratorio il mattino a digiuno. Gli esercizi sono stati completati su un cicloergometro e consistevano nel pedalare per 60 minuti al 70% della VO2_max seguiti da 2 minuti di riposo, e poi pedalare fino all’esaurimento al 90% della VO2_max. A seguito di questo, i soggetti hanno recuperato in laboratorio per 6 ore. Durante le 6 ore di recupero i partecipanti hanno seguito gli interventi dietetici che avevano prima della prova di esercizio (CHO o CHO + WPI). Se essi facevano parte del gruppo solo CHO, consumavano 4 g/kg di carboidrati, 0.6 g/kg di grassi e 0.4 g/kg di proteine. Tabella 2Profilo amminoacidico del supplemento come proteine del siero isolate usato nelle bevande * Amminoacidi essenziali Tabella 3- Informazioni nutrizionali per bevande sportive 99 Mentre il gruppo con la dieta CHO + WPI consumava 4 g/kg di carboidrati, 0.4 g/kg di grassi ed 1.1 g/kg di proteine durante le prime 3 ore delle 6 di recupero. La fonte proteica durante il recupero per il gruppo CHO + WPI era primariamente costituita da proteine isolate del siero di latte fornite con una bevanda sportiva (0.7 g/kg). La nutrizione di recupero era eguagliata in carboidrati e resa isocalorica alterando il contenuto lipidico della razione fornita. Campioni di sangue venoso sono stati presi ogni 20 minuti durante l’esercizio al 70% della VO2_max ed al completamento del test al 90% della VO2_max. Il sangue è stato preso ogni 10 minuti durante la prima ora ed ogni ora dopo il test per le rimanenti 6 ore di recupero. Il plasma è stato successivamente analizzato per le concentrazioni di glucosio ed insulina. Le biopsie muscolari sono state prese a riposo, alla fine dei 60 minuti al 70% della VO2_max, durante i 2 minuti di pausa, al completamento del testo fino all’esaurimento al 90% della VO2_max ed alla fine delle 6 ore di recupero. Le biopsie muscolari sono state ottenuto dal vasto laterale. La selezione della gamba è stata casuale e nella seconda prova è stata fatta la biopsia sull’altra gamba. I campioni muscolari sono stati presi utilizzando la procedura di Bergstrom (21) modificata per l’ago aspirato (22). Una porzione del muscolo, sottoposto prima a congelamento , è stata utilizzata per analizzare il glicogeno muscolare. Sono state valutate, attraverso l’analisi della PCR “real-time”, le attività enzimatiche attraverso l’espressione dell’RNA messaggero (mRNA) per la glicogeno sintasi, il PGC-1 alfa e la proteina chinasi alfa 2 attivata dall’adenosina monofosfato (AMPK-alfa2) (24). I risultati hanno mostrato che Il tempo per arrivare all’esaurimento o fatica non differiva significativamente tra CHO (11:14 +/- 1:05 min) e CHO + WPI (10:05 +/- 1:30 min). La concentrazione plasmatica di glucosio è presentata nella figura 1. Sia per CHO che per CHO + WPI, il glucosio plasmatico è significativamente aumentato durante il test al 90% della VO2_max ed è rimasto elevato paragonato al riposo fino a 40 minuti durante il recupero, per il gruppo CHOè rimasto elevato fino a 60 minuti durante il recupero. Nessuna differenza nel glucosio plasmatico è stata rilevata tra le prove in ogni momento. La concentrazione plasmatica di insulina (figura 2) per le prove CHO è aumentata paragonata al riposo, dal minuto 40 al 180 durante il recupero (P < 0.05). Nel gruppo CHO + WPI è aumentata paragonata al riposo, dal minuto 30 al minuto 180 durante il recupero (P < 0.05). Il gruppo CHO + WPI ha avuto insulina significativamente elevata a 180 minuti durante il recupero (P < 0.05) paragonato al gruppo CHO. Il contenuto di glicogeno muscolare (Figura 3) era simile tra CHO e CHO + WPI a riposo. A seguito dell’esercizio e le 6 ore di recupero in entrambi i gruppi era minore che a riposo (P < 0.05). Il gruppo CHO + WPI aveva glicogeno significativamente aumentato dalla fine del test al 90% della VO2_max alla fine delle 6 ore di recupero, mentre il gruppo CHO non mostrava questo aumento. Questo è avvenuto senza differenza nell’espressione dell’mRNA per la glicogeno sintasi tra CHO e CHO + WPI (figura 4). L’espressione del mRNA per l’AMPK-alfa2 (figura 5) rimane simile sia per il gruppo CHO che per il gruppo CHO+WPI. A seguito della prova di esercizio al 90% della VO2_max e alla fine della 6 ora del recupero, il gruppo CHO aveva un valore più basso rispetto al punto di riposo ( rest ) (P<0.05). L’espressione del mRNA della PGC-1 alfa ( Figura 6) era significativamente più alta, per il gruppo CHO+WPI ,alla fine della 6 ora del recupero se comparata a tutti i punti della prova (P<0.05); inoltre risulta anche significativamente più alta alla fine della 6 ora del recupero rispetto al gruppo CHO ( P<0.05) 100 Figura 1- Concentrazione del glucosio plasmatico a confronto tra il gruppo solo carboidrati (CHO) e il gruppo carboidrati + proteine del siero isolate ( CHO + WPI). Il giorno della prova con esercizio consisteva in 60 minuti di cicloergometro a 70% della VO2max con prelievi del sangue presi a riposo e ogni 20 minuti ( riposo, 20,40,60 min). Successivamente si è proceduto ad una sessione di sforzo massimo arrivando al punto di fatica o esaurimento al 90% della VO2max . Il prelievo venoso è stato effettuato alla fine di questo sforzo ( O ) . Le 6 ore di recupero hanno visto i prelievi venosi ad intervalli regolari la prima ora (a 10,20,30,40,60 min ) e poi ogni ora ( 120,180,240,300,360 min ). La concentrazione del glucosio plasmatico ha un incremento al completamento della prova al 90% della VO2max per entrambi i gruppi e rimane elevato rispetto alla fase di riposo ( rest) fino a 40 minuti durante la fase di recupero nel gruppo CHO +WPI (# P <0.05) e fino a 60 minuti nel gruppo CHO (* P <0.05) . Valori medi ± SEM ( n=6). Figura 2- Concentrazione dell’insulina plasmatica a confronto tra il gruppo solo carboidrati (CHO) e il gruppo carboidrati + proteine del siero isolate ( CHO + WPI). Il giorno della prova con esercizio consisteva in 60 minuti di cicloergometro a 70% della VO2max con prelievi del sangue presi a riposo e ogni 20 minuti ( riposo, 20,40,60 min). Successivamente si è proceduto ad una sessione di sforzo massimo arrivando al punto di fatica o esaurimento al 90% della VO2max . Il prelievo venoso è stato effettuato alla fine di questo sforzo ( O ) . Le 6 ore di recupero hanno visto i prelievi venosi ad intervalli regolari la prima ora (a 10,20,30,40,60 min ) e poi ogni ora ( 120,180,240,300,360 min ). La concentrazione dell’insulina plasmatica ha un incremento per entrambi rispetto alla fase di riposo ( rest) ( CHO , * P <0.05 e CHO+WPI # P<0.05). A 180 min la concentrazione dell’insulina plasmatica era nettamente superiore per il gruppo CHO+WPI rispetto al gruppo CHO ( ^ P<0.05) per poi tornare a livelli bsali dopo 101 240 min. Valori medi ± SEM ( n=6). Discussione Figura 3- Concentrazione del glicogeno muscolare a seguito dell’intervento dietetico a 16 giorni e con successive biopsie muscolari il giorno della prova d’esercizio al tempo zero ( rest) , a 60 minuti con il 70% della VO2max , al tempo di esaurimento con il 90% della VO2max e alla fine della 6h di recupero. Il gruppo (CHO) e il gruppo (CHO+WPI) sono simili a riposo ( rest) . Per tutte le rilevazioni si evidenzia una concentrazione più bassa di glicogeno muscolare per entrambi i gruppi rispetto al basale ( # p <0.05). Alla fine della 6h del recupero solo il gruppo CHO+WPI ha un aumento del glicogeno muscolare rispetto al valore preso alla fine del tempo di esaurimento al 90% della VO2max (* P<0.05). Valori medi ± SEM ( n=6). Le proteine sono considerate un componente nutrizionale chiave per il successo atletico, comunque sembra ci sia una mancanza di informazione riguardante gli effetti di una combinazione di CHO e supplementazione proteica sugli adattamenti all’esercizio durante il recupero. Questo studio paragona per 2 settimane la co-ingestione di proteine isolate del siero di latte e una dieta elevata in carboidrati con una dieta isocalorica eguagliata in carboidrati negli atleti di endurance. La supplementazione proteica con l’adeguata disponibilità di carboidrati, inclusa in un programma di allenamento regolare , non influenza la performance del lavoro aerobico intenso o i livelli di glicogeno pre- e postesercizio. Comunque, l’aumento dell’insulina plasmatica e dell’espressione dell’mRNA muscolare per PGC-1 alfa con la supplementazione CHO + WPI paragonata ai soli CHO indica un potenziale miglioramento dell’adattamento all’allenamento che segue la supplementazione. I livelli di glicogeno a riposo sono paragonabili con protocolli precedentemente pubblicati di carico glucidico (25). La supplementazione con le proteine isolate del siero aumenta ulteriormente i livelli basali di glicogeno quando sono forniti adeguati introiti di CHO (8 g/kg al giorno) su base giornaliera, a seguito di carico di carboidrati prima della competizione. Comunque, la resintesi di glicogeno alla fine delle 6 ore di recupero è aumentate per il gruppo CHO + WPI e non per quello CHO. Studi precedenti hanno mostrato che la co-intestione delle proteine del siero con i carboidrati consumati prima dell’esercizio e del periodo di recupero aumentano la sintesi di glicogeno muscolare durante il recupero (26-28). Questi studio utilizzano livelli subottimatli di carboidrati (< 0.8 g/kg per ora) richiesti per la massima sintesi di glicogeno durante il recupero, suggerendo che la co-ingestione CHO+WPI può essere benefica solo per la resintesi di glicogeno quando sono consumate insufficienti quantità di CHO. 102 Figura 5- Espressione del mRNA della proteina AMPk-alfa 2 per i due gruppi CHO e CHO+WPI. C’è differenza significativa solo per il gruppo CHO con un abbassamento dell’espressione alla fine del punto di esaurimento al 90% della VO2max e alla fine della 6H del recupero. Figura 6- Espressione del mRNA della proteina PGC-1 alfa per i due gruppi CHO e CHO+WPI dopo 16 giorni di intervento dietetico e al giorno della prova d’esercizio. Le biopsie del muscolo sono state prese a riposo ( rest) , dopo 60 min di esercizio al 70% della VO2max, alla tempo di esaurimento al 90% della VO2max e alla fine della 6h di recupero. Rispetto alla fine della 6h del recupero, il gruppo CHO+WPI mostra bassi valori dell’espressione del mRNA di PGC-1alfa ( # P<0.05). Dopo la 6h di recupero c’è un significativo incremento dell’espressione per il gruppo CHO+WPI rispetto al gruppo CHO ( ^ P<0.05) Comunque, il presente studio ha mostrato anche benefici dell’addizione delle proteine isolate del siero di latte anche quando sono ingeriti valori ottimali di CHO. Jentjens et al. (21) hanno trovato che la coingestione di una miscela di aminoacidi in combinazione con elevati introiti di carboidrati (1.2 g/kg per ora) durante il recupero accentua l’elevazione dell’insulina plasmatica. Lo studio presente ha dimostrato che l’insulina a 180 min dell’intervallo di recupero seguente all’ingestione di CHO + WPI è aumentata e che sul lungo termine c’è una sostenuta elevazione dell’insulina. Le proteine isolate del siero di latte sono insulinotropiche (hanno capacità di stimolare la produzione di insulina) paragonate alla caseine o ad altre proteine di origine vegetale (29, 30). È stato mostrato che le proteine isolate del siero di latte inducano una risposta insulinica indipendente dalla coingestione di carboidrati (31). Precedenti studi hanno suggerito che i livelli aumentati di insulina siano uno dei principali meccanismi per cui aumentano i livelli di glicogeno muscolare, via stimolazione dei trasportatori di glucosio nel muscolo con conseguente aumento dell’uptake di glucosio e azione della glicogeno sintasi (28, 32). L’espressione dell’mRNA per la glicogeno sintasi non è aumentata in questo studio, indicando mancanza dello stimolo per l’aumento della sintesi di glucosio. Comunque, l’aumento dell’insulina plasmatica durante il recupero dal CHO + WPI può spiegare l’aumentato ripristino del glicogeno muscolare osservato nello studio presente. La precedente riduzione nella concentrazione di glucosio plasmatico nel gruppo CHO + WPI (dopo 40 minuti) paragonato ai soli CHO (dopo 60 minuti) supporta questa osservazione. L’insulina può anche avere un ruolo nell’aumentare il bilancio proteico netto attenuando la degradazione proteica (33). Morrison et al. (34) hanno esaminato l’effetto dell’esercizio d’endurance e la nutrizione (CHO, proteine e CHO + proteine) sulle vie di trasduzione del segnale coinvolte nella traduzione dell’mRNA; 103 il target della rapamicina nei mammiferi (mTOR) e tre delle sue proteine dipendenti di segnalazione: proteina ribosomiale s6 chinasi-1 (p70s6k), proteina ribosomiale S6 (rps6) e proteina 1 legante il fattore di iniziazione 4E (4EBP1). Il gruppo CHO + Proteine ha fatto rilevare un aumento dell’insulina e degli stati fosforilati di 4E-BP1 ed rpS6 a 30 minuti dopo l’esercizio, paragonato al gruppo di soli CHO o sole proteine. Anche l’mTOR è coinvolto nell’attivazione della biogenesi mitocondriale (35). Queste osservazioni sono in accordo con lo studio presente che dimostra una risposta insulinica elevata nel gruppo CHO + WPI, che può avere giocato un ruolo nell’aumento dell’espressione dell’mRNA per PGC-1 alfa. La biogenesi mitocondriale è un adattamento ben stabilito con esercizi d’endurance (36), con il PGC-1 alfa e l’AMPK importanti regolatori di questo processo nel muscolo scheletrico (36, 37). I cambiamenti nello stato energetico cellulare attivano AMPK, che quindi fosforila PGC-1 alfa (36, 38). L’espressione dell’mRNA per l’AMPK-alfa 2 è diminuita paragonata al riposo nel gruppo CHO dopo aver pedalato al 90% della VO2_max e dopo le 6 ore di recupero, anche se questo non è differente dal gruppo CHO + WPI. PGC-1 alfa lega e co-attiva un numero di fattori di trascrizione sia del genoma nucleare che mitocondriale (36, 39). Una singola sessione di attività fisica mostra aumentare l’mRNA per il PGC-1 alfa negli esseri umani (40, 41). I risultati dal presente studio dimostrano che la co-ingestione di CHO e WPI aumenta l’espressione dell’mRNA per il PGC-1 alfa paragonata ai soli CHO alla fine delle 6 ore di recupero. Questo risultato può avere importanti implicazioni per il consumo di CHO + WPI in un programma di allenamento di endurance e per l’aumento dell’adattamento muscolare al carico allenante. Numerosi studi hanno investigato gli effetti della co-ingestione di carboidrati e proteine durante e dopo esercizi di tipo endurance sul tasso di sintesi proteica ed il bilancio proteico organico totale (42, 43). Comunque, questi studi non hanno esplorato la co-ingestione di CHO e proteine sulla via di segnalazione coinvolta nella sintesi proteica, in particolare nella via di segnalazione della biogenesi mitocondriale. Breen et al. (44) hanno investigato la sintesi proteica mitocondriale e muscolare miofibrillare quando carboidrati o carboidrati più proteine venivano ingeriti dopo esercizi prolungati di endurance. Questo studio ha trovato che l’ingestione di carboidrati più proteine aumentava la sintesi proteica miofibrillare ma non mitocondriale. Questo è in contrasto con lo studio presente, in cui l’mRNA per il PGC-1 alfa è aumentato nel gruppo CHO + WPI paragonato ai soli CHO. L’esercizio aerobico, come pedalare per tempi prolungati eseguito nello studio di Breen et al. (44), rappresenta uno stimolo che dovrebbe portare ad adattamenti come la biogenesi mitocondriale e la sintesi proteica mitocondriale, in cui il PGC-1 alfa è considerato un regolatore principale. Lo studio presente ha investigato l’mRNA 6 ore dopo l’esercizio, mentre Breen et al. (44) hanno misurato la sintesi proteica a 4 ore dopo l’esercizio. Questo può essere un tempo troppo breve dopo l’esercizio ed il consumo di CHO più proteine per vedere un aumento nella sintesi proteica mitocondriale (36). È importante notare che lo studio presente ha incluso 2 settimane di controllo dietetico e supplementazione prima del test e che lo studio di Breen et al. ha solo fornito la supplementazione post-esercizio. L’introito di CHO dei clicisti allenanti nello studio di Breen et al. era 5 g/kg al giorno, questo è al di sotto delle attuali raccomandazioni per gli atleti (45), mentre nello studio presente sono stati utilizzati 8 g/kg al giorno, che hanno portato alle differenti osservazioni in questo studio. In conclusione si è osservato che 2 settimane di intervento dietetico di co-ingestione di CHO + WPI, hanno effetti positivi su aspetti dell’adattamento all’esercizio d’endurance alla fine di 6 ore di recupero, a seguito di un test d’endurance. 104 I livelli di glicogeno muscolare non sono aumentati ulteriormente prima dell’esercizio, comunque con la supplementazione di WPI c’è stato un miglioramento del recupero dal test al 90% della VO2_max alla fine delle 6 ore di recupero. I livelli di insulina plasmatica sono aumentati nel gruppo CHO + WPI durante la fase di recupero. L’mRNA per il PGC-1 alfa è aumentato alla fine delle 6 ore di recupero seguendo l’ingestione di CHO + WPI. La co-ingestione di CHO-WPI dunque sembra giocare un ruolo importante negli adattamenti all’allenamento d’endurance tramite l’elevazione dell’insulina plasmatica e dell’espressione dell’mRNA per il PGC-1 alfa durante il recupero che può portare ad un aumentato recupero, biogenesi mitocondriale e dunque in ultima istanza performance. Bibliografia 105 106