Attualità in Scienze della Nutrizione Umana

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Attualità in Scienze della Nutrizione Umana
NUTRI.PROFmagazine
Federazione Nutrizionisti Italiani®
Associazione di riferimento nazionale per Medici, Biologi e Dietisti
www.nutriprof.it
Vol. II – anno 2013
Attualità in Scienze della Nutrizione Umana - Scienze dietetiche e Nutrizione Clinica
Riservato ai Soci Nutri.Prof ®
-
INTESTINO
Una nuova nozione: “MicrObesity”
TESSUTO OSSEO
-Metabolismo del tessuto osseo: diete a
confronto – Dalle diete iperproteiche e con
alto PraL alla dieta vegana.
COMPOSIZIONE CORPOREA
-Restrizione calorica e risparmio massa magra
ALIMENTAZIONE E SPORT
-Effetti della co-ingestione di proteine isolate del
siero del latte e carboidrati sul recupero dall’esercizio
d’endurance
METABOLISMO
-Restrizione calorica ed effetti metabolici
su pazienti obesi e diabetici tipo 2
Uova amiche o nemiche del colesterolo?
-
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Consente di effettuare anamnesi dettagliate, supportate da un vasto database di alimenti completo delle
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italiane (INRAN / IEO revisione 2008 / ADI).
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eseguire l’applicativo su qualsiasi pc fisso e mobile.
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Presidente Nutriprof: Prof. Riccardo Monaco
Direttore Scientifico: Dott. Giovanni Borghini
Responsabile progetto: Dott.ssa Barbara Chiarulli
Collaboratori
Dott.ssa Letizia Antonia D’Alessandro
Dott.ssa Arianna Rossoni
Dott. Manuel Salvadori
Dott.ssa Eleonora Spallotta
Dott. Vincenzo Tortora
Distribuzione esclusiva per i soci Nutriprof
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Indice
- MicrObesity a cura di Dott.ssa Arianna Rossoni
Si analizzano le novità più recenti che possono parzialmente spiegare come i
microorganismi simbionti dell’uomo partecipino all’accrescimento delle riserve di
grasso e promuovono tanto l’insulino-resistenza quanto un basso grado di
infiammazione,
tre
determinanti
che
caratterizzano
l’obesità.
………………………………………………………………………………..…….pag.5
-Diete iperproteiche e rischio osteoporosi a cura di Dott.ssa Arianna Rossoni
Si discute se le diete iperproteiche aumentano il rischio di osteoporosi.
Lʼaumentata escrezione di calcio dovuta a diete HP non sembra essere connessa ad
uno squilibrio dellʼomeostasi del calcio. Alcuni dati indicano che un intake di HP
induce un aumento dellʼassorbimento di calcio a livello intestinale.
…………………………………………………………….……………………… pag.22
-Diete a confronto per il benessere osseo a cura di Dott. Vincenzo Tortora
Si approfondicono gli effetti di una dieta iperproteica e/o con alto potenziale di
carico acido renale (PRAL) sull’assorbimento/ ritenzione di calcio (Ca) e sui markers
del metabolismo osseo . Studi recenti rilevano alcun cambiamento nei biomarkers
di riassorbimento o di formazione ossea, indicando che una dieta iperproteica non è
dannosa. …………………………..…………………………………………….pag.45
- Vegetarianismo e perdita massa ossea a cura di Dott.ssa Eleonora Spallotta
Osservazione degli effetti di una dieta vegana e non sulla variazione dei
biomarkers per il benessere del tessuto osseo. Non è stata trovata alcuna
significativa differenza nel tasso di perdita di massa ossea tra i vegani e onnivori.
……………………………………………………………………………….....…pag.55
-Diete ipocaloriche e risparmio massa magra. a cura di Dott. Vincenzo Tortora
La restrizione calorica è uno dei più efficaci modi per promuovere la perdita di peso
ed è noto che attivi vie metaboliche protettive. Assieme alla perdita di peso sono
frequentemente riportate conseguenze indesiderate come la perdita della massa
magra . Le diete ipocaloriche con aumentato introito proteico sono popolari e
possono fornire benefici aggiuntivi attraverso il mantenimento della massa magra,
paragonate ad una dieta normoproteica iperglucidica. ……………………….pag.65
5
-Diete VLCD ed effetti su pazienti diabetici tipo 2. a cura di Dott. Manuel Salvadori
Gli effetti metabolici della restrizione calorica (RC) di per sé potrebbero, almeno in
parte, essere indipendenti dalla riduzione di peso. Studi preliminari hanno voluto
constatare se, nei pazienti obesi diabetici di tipo-2, sette giorni di VLCD influiscono
sul controllo glicemico attraverso cambiamenti sulle cellule β o sulla sensibilità
insulinica o su entrambi…………………………… ……………………...…..pag .76
- Uova amiche o nemiche del colesterolo? a cura di Dott.ssa Letizia A. D’Alessandro
Indagine se un'alimentazione giornaliera di uova, con restrizione dei carboidrati,
altera il metabolismo delle lipoproteine portando a profili lipoproteci aterogenici e
se c’è un’influenza sull’ insulina resistenza in uomini e donne con sindrome
metabolica. ……………………………………………………………………….pag.82
-Effetti della co-ingestione di proteine isolate del siero di latte e carboidrati sul
recupero dall’esercizio d’endurance a cura di Dott. Manuel Salvadori e Dott. Vincenzo
Tortora
La co-ingestione di carboidrati e proteine isolate del siero del latte favorisce effetti
benefici sul recupero e sugli adattamenti all’allenamento d’endurance attraverso
un’aumentata risposta insulinica ed up-regulation dell’espressione del mRNA del
PGC-1 alfa. ………………………………………………………………………..pag.95
6
Il microbiota intestinale come target terapeutico
a cura di Arianna Rossoni
Introduzione
L’obesità, il diabete di tipo 2 e l’infiammazione
cronica di basso grado stanno diventando
epidemie mondiali. In questo contesto, la
letteratura ha ideato un nuovo concetto
chiamato “MicrObesity” (dalla crasi di Microbi e
Obesità) che si propone di decifrare il ruolo
specifico della disbiosi e il suo impatto sul
metabolismo e sulle scorte energetiche
dell’ospite. Analizzaremo le novità più recenti
che possono parzialmente spiegare come i
microorganismi simbionti dell’uomo partecipino
all’accrescimento delle riserve di grasso e
promuovono tanto l’insulino-resistenza quanto
un basso grado di infiammazione - tre
determinanti che caratterizzano l’obesità.
Negli anni recenti sono stati proposti numerosi
meccanismi e sono state identificate diverse
proteine. Tra i fattori collegati al microbiota
intestinale che determinano l’aumento delle
riserve adipose si annoverano: il fattore adiposo
indotto dal digiuno, la protein chinasi AMPattivata, il recettore 41 e il recettore 43
accoppaiti alle G-protein . Inoltre, la scoperta
che un basso grado di infiammazione potrebbe
essere direttamente collegato al microbiota
intestinale
attraverso
l’endotossiemia
metabolica (elevati livelli di lipopolisaccaridi
plasmatici) ha permesso l’identificazione di
nuovi meccanismi coinvolti nel controllo della
barriera intestinale. Tra questi si sono investigati:
l’incidenza del glucagon-like peptide-2, il sistema
degli endocannabinoidi e alcuni batteri specifici
(ad es. Bifidobacterium spp.).
In aggiunta, l’avvento dei trattamenti con
probiotici e prebiotici sembra essere un
promettente approccio “farmaco-nutrizionale”
per far regredire l’alterazione metabolica
dell’ospite collegata alla disbiosi osservata in
obesità.
Nonostante i recenti ed efficaci approcci
biologici ai sistemi molecolari abbiano offerto
una panoramica veramente ottima in questo
“piccolo mondo interiore”, sono necessari più
studi che svelino come cambiamenti specifici al
microbiota intestinale possano influenzare o
contrastare lo sviluppo dell’obesità e patologie
correlate.
Evidenze convincenti supportano la concezione
che l’obesità sia influenzata tanto dallo stile di
vita quanto dalla suscettibilità del soggetto.
L’idea più diffusa circa le cause di obesità è
quella di uno sbilancio tra ingresso e uscita
energetica. Nonostante questa ipotesi sia
largamente accettata, l’incidenza sempre
crescente di obesità negli ultimi 30 anni non può
essere spiegata semplicemente con fattori
genetici. L’obesità è classicamente associata ad
un ampio insieme di alterazioni metaboliche che
includono intolleranza al glucosio, diabete di tipo
2, ipertensione, dislipidemia, disordini della
fibrinolisi, malattie cardiovascolari e steatosi
epatica non alcolica (NAFLD) (Eckel et al., 2005;
Ogden et al., 2007). La maggior parte di queste
alterazioni è collegata all’omeostasi del glucosio
e allo sviluppo di malattie cardiovascolari, che
possono probabilmente risultare da una
combinazione di associazioni variabili tra
genetica e fattori ambientali (Alberti et al., 2005;
Kahn et al., 2006; Matarese et al., 2007). In
aggiunta alle cause di quest’epidemia mondiale,
l’obesità è stata associata con un’infiammazione
cronica di basso grado che contribuisce allo
sviluppo di insulinoresistenza, diabete di tipo 2 e
malattie cardiovascolari (Hotamisligil, 2008;
Shoelson and Goldfine, 2009).
I meccanismi che sottostanno all’obesità,
all’aumento di massa grassa e allo sviluppo di
infiammazione
non sono ancora stati
completamente chiariti.
7
Nei decenni precedenti sono stati indagati
intensamente alcuni processi fisiologici che
regolano il peso corporeo e l’omeostasi
energetica, compresi i segnali periferici e centrali
che controllano l’assunzione di cibo e la loro
integrazione (Small & Bloom, 2004; Wynne et al.,
2005; Levin, 2006; Chaudhri et al., 2008; Neary &
Batterham, 2009). Discuteremo dell’importanza
di uno specifico fattore ambientale che evolve
con noi e con le nostre abitudini dietetiche dalla
nascita alla morte, e che contribuisce all’obesità:
il microbiota intestinale.
Il microbiota intestinale: il nostro piccolo
mondo interiore
Da quando nel Novecento Robert Koch e Ilya
Mechnikov sono stati insigniti di due Nobel in
fisiologia e medicina per le loro scoperte che
collegavano i microbi e la salute umana, si è
indagato sui diversi determinanti dell’interazione
tra ospite e microbiota sia in senso spaziale
(pelle, bocca e intestino) sia temporale (nascita
e senilità). Sappiamo che il microbiota umano
consiste in 10-100 trilioni di microorganismi, un
numero 10 volte superiore a quello delle cellule
che esistono nel corpo umano (Savage, 1977); è
facilmente capibile che sia gli uomini che i
microbi sono continuamente influenzati dalla
loro costante e intima storia co-evoluzionistica.
In più, il microbioma codifica un consorzio di
geni superiore il genoma umano di circa 150
volte.
Questi dati messi insieme portano alla
sorprendente conclusione che noi non siamo
100% umani, ma solo al 10% umani e al 90%
microbi (Fig.1). Nello specifico è risaputo che in
questo “piccolo mondo interiore” l’intestino
provvede ad un importante ruolo biologico e a
funzioni metaboliche non potrebbero essere
espletate dal metabolismo umano (Jia et al.,
2008).
Questa complessa simbiosi e il suo sviluppo sono
probabilmente dipendenti dalle interazioni tra la
genetica ospite-microbi e l’ambiente (Ley et al.,
2006a; Khachatryan et al., 2008). Nonostante
l’esatta composizione del microbiota intestinale
non sia conosciuta, avanzate tecnologie in
metagenomica hanno recentemente iniziato a
sondare i nostri partner microbi (il microbioma
umano) (Qin et al., 2010). E’ stato stimato che
ciascun individuo ospiti almeno 160 specie da un
consorzio di 1000-1150 specie batteriche
prevalenti (Qin et al., 2010). Tra questi batteri, il
90% dei filotipi è membro di due phyla
(Bacteroidetes e Firmicutes), seguiti da
Actinobacteria e Proteobacteria (Eckburg et al.,
2005; Ley et al., 2005; Qin et al., 2010) (Fig.1).
Molto importante è far notare che a causa della
difficoltà di ottenere campioni da regioni
differenti dell’intestino, la maggior parte degli
studi che hanno investigato l’ecologia e l’attività
del microbiota nel tratto intestinale sono stati
condotti usando campioni fecali (Robertfroid et
al., 2010).
Figura 1
Il piccolo mondo interiore.
Noi siamo composti da diverse specie:
eucarioti, batteri e archibatteri. Con una
densità pari a 1011 cellule/g nel colon, è
stato stimato che il censimento dei nostri
microbi supera quello delle cellule
eucariote di 10 volte portando alla
stupefacente conclusione che noi non
siamo al 100% umani, ma al 90% microbi e
al 10% umani.
8
La
comunità
microbiotica
dell’intestino
osservata nei campioni fecali non è
rappresentativa al 100% dell’intero piccolo
intestino: quest’obiezione deve essere tenuta in
considerazione, e usata per incentivare ulteriori
ricerche maggiormente specifiche.
L’evidenza per l’interazione tra il microbiota
intestinale e l’omeostasi energetica
Al giorno d’oggi molta attenzione viene riservata
al ruolo del microbiota intestinale in relazione
all’omeostasi energetica e alle funzioni
metaboliche del soggetto-ospite.
Per questo motivo il microbiota intestinale è
stato recentemente proposto come un fattore
ambientale coinvolto nel peso corporeo e
nell’omeostasi energetica (Backhed et al., 2004,
2005, 2007; Ley et al., 2005, 2006b; Turnbaugh et
al., 2006).
Questo “organo interiorizzato” contribuisce alla
nostra omeostasi attraverso molteplici funzioni
metaboliche e diversi meccanismi di controllo
coinvolti nell’estrazione delle calorie dagli
alimenti ingeriti, e aiuta a stoccare queste calorie
nel tessuto adiposo del soggetto per un utilizzo
successivo.
Ad oggi, la prova inequivocabile per il ruolo del
microbiota
intestinale
nella
gestione
dell’omeostasi energetica proviene da studi
eseguiti su topi privi di flora intestinale (Backhed
et al., 2004, 2007; Fleissner et al.,2010; Rabot et
al., 2010). Ad esempio, i topi cresciuti in assenza
di microorganismi (condizioni di sterilità prive di
batteri e germi) erano più magri del 40% (meno
grasso corporeo) rispetto a topi che vivevano
con un microbiota intestinale normale (topi con
colonizzazione dell’intestino alla nascita o per
Inoculazione, detti topi convenzionalizati),
sebbene questi ultimi mangiassero circa il 30% in
meno rispetto ai topi asettici (Backhed et al.,
2004).
In
maniera
più
notevole,
la
convezionalizzazione dei topi asettici con
microbi prelevati dal cieco di un topo magro
induceva un ragguardevole aumento del peso
corporeo (massa grassa totale) entro due
settimane, sebbene la sua assunzione di cibo
diminuisse (Backhed et al., 2004).
Quest’aumento di massa grassa era anche più
pronunciata quando la comunità microbiotica
dell’intestino era derivata da topi geneticamente
obesi (ob/ob) (Turnbaugh et al.,2006).
Questi risultati sono probabilmente dovuti a
differenze esistenti nel microbioma di topi magri
e obesi e nei metaboliti derivati. In quest’ottica,
Ley et al. hanno dimostrato che topi obesi
esibiscono una notevole differenza nella
ripartizione dei due maggiori phyla (Firmicutes e
Bacteroidetes),
con
un
rapporto
Firmicutes/Bacteroidetes maggiore nel cieco dei
topi obesi rispetto a quello dei topi magri (Ley et
al., 2005).
Per spiegare questi interessanti esperimenti che
collegano la composizione della comunità
microbiotica
dell’intestino
all’omeostasi
energetica sono stati proposti una serie di
meccanismi. Una prima ipotesi suggerita dai
ricercatori
è
stata
l’idea
che
la
convezionalizzazione del microbiota intestinale
risulti in un raddoppio della densità di capillari
sull’epitelio dei villi intestinali, cosa che potrebbe
promuovere l’assorbimento intestinale di
monosaccaridi (Staooenbeck et al., 2002).
Una seconda ipotesi è collegata all’estrazione di
energie da componenti di cibo indigerito, che
sarebbero direttamente fermentati in acidi
grassi da catena corta (SCFAs), i quali
potrebbero da ultimo partecipare alla lipogenesi
epatica de novo attraverso l’espressione di
diversi enzimi chiave come l’acetil CoA
carbossilasi (ACC) e la sintetasi di acidi grassi
(FAS). Sia ACC che FAS sono controllati dalla
proteina legante l’elemento responsivo ai
carboidrati (ChREBP) e dalla proteina legante
l’elemento responsivo agli steroli (SREBP-1)
(Denechaud et al., 2008). In accordo a ciò,
Backhed e colleghi hanno dimostrato che la
convezionalizzazione di topi sterili promuove a
livello epatico l’espressione di ChREBP e SREBP-1
(Backhed et al., 2004) (Fig.2). E’ interessante
notare che lo sviluppo del tessuto adiposo
osservato a seguito della colonizzazione
dell’intestino con microbi non è direttamente
spiegato
dalla
modulazione
della
differenziazione o lipogenesi del tessuto
adiposo.
9
Figura 2
Il microbiota intestinale aumenta lo stoccaggio di energie.
Il microbiota potrebbe essere coinvolto in questo stoccaggio attraverso diversi meccanismi, dimostrati
in larga parte in topi asettici. Attraverso l’aumento della produzione e dell’assorbimento di acidi grassi a
catena corta, il microbiota intestinale provvede a fornire substrati lipogenici all’ospite, e dunque
aumenta la sua lipogenesi epatica e il suo accumulo di grassi attraverso svariati meccanismi. Ad esempio
attraverso la soppressione del fattore adiposo indotto dal digiuno (FIAF) nell’intestino il microbiota
intestinale controlla indirettamente l’attività dell’enzima lipoprotein lipasi (LPL). Inoltre, SCFA partecipa
all’accumulo di grasso attraverso GPR41 e GPR43. Infine, in risposta a una dieta ad elevato contenuto di
grassi, il microbiota intestinale inibisce l’ossidazione di acidi grassi dipendente da AMPK; comunque
dovrebbe essere tenuto in considerazione che esistono altri meccanismi diretti o indiretti (linea
tratteggiata).
E’ stato proposto un ruolo per la lipoproteina
lipasi degli adipociti (LPL). Coerentemente con
questa ipotesi, gli autori hanno suggerito che il
microbiota intestinale promuove l’accumulo di
grassi attraverso un meccanismo che lega i
trigliceridi circolanti con la soppressione
dell’espressione intestinale di un inibitore della
LPL (FIAF, fattore adiposo indotto dal digiuno)
(Backhed et al., 2004). FIAF inibisce l’attività di
LPL, dunque diminuisce il rilascio di acidi grassi
dai triacilgliceroli circolanti. Dunque, a seguito
della
colonizzazione
dell’intestino
dal
microbiota, l’espressione di FIAF è ridotta e ciò
porta a una maggiore attività di LPL e a un
maggiore accumulo di grasso corporeo (Backhed
et al., 2004) (Fig.2). In accordo con quest’ipotesi,
gli autori hanno trovato che topi carenti di FIAF
erano anche resistenti all’aumento di peso
corporeo indotto dal microbiota intestinale
(Backhed et al., 2004).
Ad ogni modo, un recente studio ha suggerito
che il meccanismo FIAF non è universalmente
associato allo sviluppo di massa grassa
determinata dal microbiota intestinale. Per
esempio, è stato recentemente dimostrato che
topi asettici sottoposti a dieta ricca di grassi
mostravano un aumento dell’espressione
intestinale di mRNA di FIAF senza cambiamenti
nei livelli di FIAF circolanti quando comparati a
topi convenzionalizzati (Fleissner et al., 2010).
Una terza ipotesi esplora ulteriormente i
meccanismi che sottostanno alla relazione
esistente tra la resistenza di topi asettici
all’obesità dieto-indotta (dieta ricca di grassi) e a
disordini metabolici associati (Fig.3) (Backhed et
al., 2007).
10
In questo studio, l’attivazione di protein chinasi
attivate da AMP (AMPK) spiega l’apparente
resistenza di topi asettici allo sviluppo di obesità
in risposta a una dieta ricca di grassi (Backhed et
al., 2007). Più precisamente, si è scoperto che il
microbiota intestinale sopprime l’ossidazione di
acidi grassi guidata da AMPK nel fegato e nel
muscolo scheletrico (Backhed et al., 2007)
(Fig.3).
Una quarta ipotesi coinvolge invece SCFAs.
Samuel et al. hanno dimostrato che topi con una
specifica comunità microbica fermentativa ai
quali è stata soppressa l’espressione del
recettore 41 accoppiato a G-protein (GPR41)
resistono all’aumento di grasso in modo migliore
rispetto ai loro fratelli che esprimono tale
recettore (Samuel et al., 2008). SCFAs agiscono
come molecole di segnale e sono ligandi specifici
per almeno due recettori accoppiati a G-protein,
GPR41 e GPR43 (Le et al., 2003).
In accordo con il potenziale ruolo giocato da
queste GPRs nello sviluppo di massa grassa, un
recente studio ha dimostrato che topi ai quali è
stato soppresso il recettore 43 accoppiato a Gprotein (GPR43) sono resistenti all’obesità
indotta dalla dieta (Bjursell et al., 2011).
Di conseguenza quest’insieme di esperimenti
supporta fortemente l’idea che metaboliti
specifici provenienti dall’intestino (ad es.SCFAs)
agiscano in svariati modi (ad es. come substrati
energetici e come regolatori metabolici) (Fig.3).
L’idea originale che il microbiota intestinale
contribuisca all’estrazione di energia dalla dieta
attraverso una maggior produzione di SCFAs è
stata ostacolata da numerosi paradossi. Per
esempio non è chiaro in che modo la maggior
quantità di SCFAs trovata nelle feci di animali o
soggetti obesi possa direttamente contribuire
allo sviluppo di massa grassa e aumento del peso
corporeo (Ley et at., 2005, 2006b; Turnbaugh et
al., 2006).
Figura 3
Il microbiota intestinale è coinvolto nella genesi di disordini metabolici associati ad obesità: un modello.
L’obesità nutrizionale (dieta ad alto contenuto di grassi) e genetica (topi ob/ob) è associata ad una disbiosi
intestinale. Questo porta a determinare la permeabilità intestinale (un’alterata distribuzione delle proteine
delle giunzioni serrate ZO-1 e occludine), promuovendo l’endotosisemia metabolica e iniziando lo sviluppo
di un basso grado di infiammazione e di insulino-resistenza nel fegato, nei muscoli e nel tessuto adiposo.
11
Al contrario rispetto agli esperimenti standard
condotti con una dieta a pasti, i topi asettici
alimentati con diete ad alto contenuto di grassi
erano resistenti all’obesità indotta dalla dieta
tipica occidentale, mentre l’intake energetico e il
contenuto energetico fecale erano equivalenti
nei topi asettici e nei topi convenzionalizzati. I
nostri risultati indicano inoltre che una dieta
arricchita con specifici carboidrati non digeribili
porta a una maggiore produzione intestinale di
SCFA ed è dunque in grado di rallentare
l’aumento ponderale, lo sviluppo di massa grassa
e la severità dei casi di diabete (Cani et al., 2004,
2005a, b, 2006a, b).
Questi specifici carboidrati non digeribili
rappresentano il concetto proprio dei prebiotici:
“La stimolazione selettiva della crescita e/o
della/e attività di uno o più generi/specie
microbiche nella flora batterica intestinale che
conferiscono benefici salutistici all’ospite”
(Roberfroid et al., 2010). In più, queste
componenti prebiotiche promuovono l’aumento
e lo sviluppo di ceppi batterici abili a digerire
polisaccaridi e fornire energia in più all’ospite,
andando al contempo ad aumentare la massa
totale dei batteri nel colon (Kleessen et al., 2001;
Kolida et al., 2007, 2006).
Sono stati pubblicati solo pochi ma promettenti
studi riguardanti potenziali approcci terapeutici
basati sulla modulazione del microbiota
intestinale umano. E’ ben conosciuto che
specifici cambiamenti nella composizione del
microbiota attraverso l’uso di prebiotici possa
promuovere in maniera molto consistente la
produzione di SCFA (Roberfroid et al., 2010). E’
interessante notare che questo fenomeno è
stato associato a cambiamenti nel modo di
alimentarsi grazie ad un meccanismo collegato
alla modulazione della produzione e secrezione
di peptidi intestinali (ad es. peptide-1 glucagonlike [GLP-1], peptide-YY e grelina). Per esempio,
in soggetti in salute, l’introduzione di fruttani
inulino-simili
(18-20
g/giorno)
ha
significativamente aumentato la fermentazione
del microbiota intestinale (Piche et al., 2003;
Cani et al., 2009a). In questi studi, l’integrazione
con prebiotici era associata a un aumento dei
livelli plasmatici di GLP-1 (Piche et al., 2003; Cani
et al., 2009a) e di peptide-YY (Cani et al., 2009a).
In due studi differenti la fermentazione di
prebiotici da parte del microbiota intestinale è
stata messa in relazione a più bassi livelli di fame
e aumento della sazietà, e di conseguenza ad
una diminuzione dell’intake energetico totale di
circa il 10% (Cani et al., 2006a, 2009a). Altri due
studi, uno di Archer et al. (2004) e uno di Whelan
et al. (2006), hanno confermato che la
fermentazione di carboidrati non digeribili da
parte del microbiota intestinale era in grado di
controllare il comportamento che porta
all’assunzione di cibo e l’impatto sull’intake
energetico. E’ importante notare che
cambiamenti nel microbiota intestinale indotti
dai prebiotici in pazienti obesi diminuiscono i
livelli circolanti di grelina e aumentano quelli di
peptide-YY (Parnell & Reimer, 2009).
Ad ogni modo, alcune pubblicazioni riportano
che dosi massicce ma anche molto blande
(<8g/giorno) di prebiotici non incidono
necessariamente sull’appetito (Peters et al.,
2009; Hess et al., 2011). Uno studio recente ha
dimostrato che una singola dose di prebiotici (ad
es.inulina) è in grado di aumentare
significativamente i livelli plasmatici postprandiali di GLP-1 e di diminuire i livelli plasmatici
di grelina (Tarini & Wolever, 2010).
Questa scoperta contraddice la precedente idea
che solo una modulazione persistente e
prolungata sia necessaria a determinare effetti
sulla funzione endocrina dell’intestino. Per
quanto riguarda i meccanismi coinvolti nella
secrezione endogena di peptidi intestinali, è
stato proposto che SCFAs entrino direttamente
in azione a seguito della fermentazione
intestinale. Per esempio, alcuni autori hanno
proposto che l’acetato giochi un ruolo in questa
regolazione importante, dal momento che
hanno scoperto che la modulazione di SCFAs
plasmatici è collegata a cambiamenti nei peptidi
intestinali
coinvolti
nella
regolazione
dell’appetito, ma anche ad una diminuzione di
marker d’infiammazione in soggetti insulinoresistenti (Freeland et al., 2010a; Freeland &
Wolever, 2010).
12
I dati a nostra disposizione supportano la
convinzione che il flusso metabolico dipendente
dal microbiota giochi un ruolo nella regolazione
delle riserve energetiche del corpo non sempre
intese solo come riserve di grasso.
La complessità del microbiota intestinale è
tutt’ora sotto indagine sia in uomini magri che
obesi. Sebbene diversi studi osservazionali
abbiano associato alcuni specifici phyla o ceppi
ad obesità (Ley, 2010) o ad anoressia
(Armougom et al., 2009), esistono risultati
discordanti. Al di là di queste discrepanze,
interventi terapeutici o modulazioni specifiche
della composizione del microbiota intestinale
attraverso l’uso di prebiotici sono stati efficaci a
dimostrare la crescita e l’espansione di alcuni
ceppi batterici, la cui presenza è spesso
associata a effetti benefici per la salute (ad
es.Bifidobacterium spp.).
Per esempio, il contributo relativo di
Bifidobacterium spp. merita maggiori ricerche
nel campo dell’obesità (Boesten & de Vos, 2008;
Boesten et al., 2009; Turroni et al., 2009). Inoltre
l’approccio prebiotico sembra anche interessare
per aiutare a promuovere altri batteri benefici. In
più, si è dimostrato che l’integrazione con
fruttani simil-inulina sia in grado di aumentare
Faecalibacterium prausnitzii in volontari sani
(Ramire-Farias et al., 2009).
Questi batteri hanno dimostrato di saper
modulare l’infiammazione e il diabete in soggetti
obesi (Furet et al., 2010). Da ultimo, il ceppo
Lactobacillus spp., appartenente al phylum dei
Firmicutes, è soggetto a risultati controversi e a
discussioni all’interno della letteratura (Raoult,
2008; Armougom et al., 2009; Delzenne & Reid,
2009; Ehrlich, 2009; Santacruz et al., 2009;
Andreasen et al., 2010; Aronsson et al., 2010;
Balamurugan et al., 2010; Kadooka et al., 2010;
Luoto et al., 2011, 2010). Questo dibattito è
inerente alla potenziale associazione tra
lattobacilli e obesità. Stando alle conoscenze
attuali, il dibattito rimane irrisolto: è probabile
che quest’associazione esista ma in modo
duplice, dal momento che alcune specie sono
protettive nei confronti dell’obesità mentre altre
sono di fatto associate all’aumento di peso.
Un’analogia molto semplice può essere proposta
facendo cenno al ceppo commensale di
Escherichia coli, che può essere visto come
potenziale agente patogeno, tenendo però
presente che dei ceppi specifici di E.coli (come
Nissle 1917) hanno un impatto positivo
sull’infiammazione intestinale (Trebichavsky et
al., 2010). Questi dati sottolineano quanto sia
cruciale porsi l’interrogativo di quali effetti
associati all’obesità siano ceppo-specifici e,
ancora più importante, quali meccanismi stanno
alla base di azioni differenti.
Il microbiota intestinale, l’infiammazione e
l’insulino-resistenza
Sebbene un consistente corpo di evidenze
supporti l’idea che l’estrazione di energia dalla
dieta da parte del microbiota intestinale porti in
molteplici modi allo sviluppo di obesità e
disordini metabolici ad essa collegati, queste
teorie non hanno mai sondato le interazioni tra i
microbi dell’intestino, i disordini metabolici
collegati
all’obesità
e
l’insorgenza
di
infiammazione cronica di basso grado. Diversi
studi supportano l’idea che quest’infiammazione
possa derivare dall’infiltrazione di macrofagi
negli organi (tessuto adiposo, muscoli e fegato),
condizione che promuove la secrezione di fattori
pro-infiammatori (Weisberg et al., 2003; Xu et al.,
2003; Tordjman et al., 2008; Olefsky & Glass,
2010).
Cionondimeno, l’esatto ruolo dei macrofagi e la
sorgente e tipologia di fattori che scatenano
l’attivazione del sistema immunitario in questo
specifico contesto rimane materia di dibattito
(Odegaard & Chawla, 2008; Kosteli et al., 2010).
Data la pletora di fattori infiammatori (ad
es.interleuchina-1 [IL-1], fattore-α di necrosi
tumorale
[TNF-α],
proteina-1
monocite
chemotattica [MCP-1], sintetasi inducibile
dell’ossido nitrico [iNOS], interleuchina-6 [IL-6])
che sono fattori di causa dell’indebolimento
dell’azione
dell’insulina
(o
dell’insulinoresistenza) e di diverse interazioni molecolari tra
immunità e segnali insulinici, abbiamo cercato un
potenziale fattore in grado di spiegare questi
meccanismi.
13
Ad esempio, la chinasi c-Jun N-terminale (JNK), il
fattore di trascrizione nucleare kB (NF-kB) e la
chinasi proteica attivata dai mitogeni (MAPK)
controllano specifiche vie molecolari che
giocano un ruolo cruciale nello sviluppo di
infiammazione ed insulinoresistenza.
L’effetto pro-infiammatorio di una dieta ad alto
contenuto di grassi è stato attribuito in larga
parte alle proprietà infiammatorie degli acidi
grassi dietetici (ad es.acido palmitico).
Recentemente è stato proposto che questi acidi
grassi stimolino una risposta infiammatoria
attraverso l’attivazione del recettore di LPS (tolllike receptor-4 [TLR-4]) che manda segnali ad
adipociti e macrofagi, che potrebbero
contribuire all’infiammazione del tessuto
adiposo nell’obesità (Shi et al., 2006; Suganami
et al., 2007a, b).
Ad ogni modo la connessione diretta tra acidi
grassi e TLR4 è stata rivisitata e contestata
(Erridge & Samani, 2009). Questi step molecolari
giocano un ruolo cruciale nell’integrazione di
risposta immune e metabolica nei confronti di
infezioni attraverso l’azione di composti derivati
da
batteri
gram-negativi,
chiamati
lipopolisaccaridi (LPS) (Guha & Mackman, 2001).
Dunque, dato che l’obesità e il diabete di tipo 2
sono strettamente associati ad un basso grado
di infiammazione cronica e dato che esiste
un’intricata influenza reciproca tra i recettori
coinvolti nelle interazioni dei microbi umani,
abbiamo investigato il ruolo di un fattore
collegabile ai microbi nell’eziologia dell’obesità e
di disordini associati.
Recentemente abbiamo definito i LPS derivati
dal microbiota intestinale come il primum
movens
nello
sviluppo
precoce
dell’infiammazione e di patologie metaboliche
(Cani et al., 2007a). Più precisamente abbiamo
dimostrato che l’eccesso di grassi dietetici non
solo aumenta l’esposizione sistemica ad acidi
grassi potenzialmente proinfiammatori e loro
derivati, ma facilita anche lo sviluppo di
endotossiemia metabolica (ad es.aumento di
LPS plasmatici) (Cani & Delzenne, 2007; Cani et
al., 2007a). Dato che i LPS possono determinare
infiammazione ovunque nel corpo e che
interferiscono sia con il metabolismo che con la
funzione del sistema immunitario, questa nuova
ipotesi fornisce una nuova prospettiva riguardo
il ruolo di prodotti derivati dal microbiota
intestinale e il nostro metabolismo. In accordo a
ciò, è sempre maggiormente riconosciuto che il
sistema immunitario innato e le vie metaboliche
siano funzionalmente intrecciate (Olefsky &
Glass, 2010).
Una serie di esperimenti ha dimostrato che i
batteri intestinali possono iniziare i processi
infiammatori associati all’obesità e all’insulinoresistenza attraverso la modulazione dei livelli
plasmatici di LPS (Fig.4).
Il primo esperimento che ha supportato una
connessione tra il microbiota intestinale e una
dieta ad alto contenuto di grassi ha portato alla
scoperta dell’esistenza di una disbiosi microbica
tra topi magri alimentati normalmente e tra topi
alimentati con una dieta ad alto contenuto di
grassi.
In questo studio, una dieta ad alto contenuto di
grassi ha aumentato i livelli plasmatici di LPS
(endotossiemia metabolica) di due o tre volte. La
dieta ad alto contenuto di grassi è anche stata
connessa a specifici cambiamenti nella comunità
microbica intestinale, con una riduzione marcata
di Bifidobacterium spp., batteri connessi ai
Bacteroides ed Eubacterium rectale-Clostridium
coccoides (Cani et al., 2007a, c). La rilevanza del
segnale dei LPS allo sviluppo di un basso grado di
infiammazione indotto dalla dieta è stata
successivamente esplorata da uno studio su topi
mancanti del co-recettore CD14 del TLR-4: CD14/-. Dopo quattro settimane di dieta ad alto
contenuto di grassi, questi topi esibivano più
massa grassa e un peso corporeo maggiore,
oltre che un basso grado di stato infiammatorio
(fegato, tessuto adiposo e muscoli).
In modo ancora più rilevante, in assenza di un
recettore per LPS i topi erano resistenti
all’obesità dieto-indotta e disordini collegati
(compresa insulino-resistenza epatica) (Cani et
al., 2007a).
Abbiamo anche dimostrato che l’endotossiemia
metabolica cronica prodotta da infusioni
subcutanee croniche di LPS (che mimano
l’endotossiemia
metabolica)
riduce
significativamente l’infiammazione e l’insulinoresistenza.
14
Figura 4 I cambiamenti indotti dai prebiotici nel microbiota intestinale possono eliminare i
disordini che si associano all’obesità.
I prebiotici modulano la composizione del microbiota intestinale in un modo molto complesso in
risposta a obesità genetica o dieto-indotta (ad es., aumentando Bifidobacterium spp.). Il
trattamento con prebiotici diminuisce la permeabilità intestinale e l’endotossemia metabolica ma
aumenta l’insulino-resistenza, la steatosi e il basso grado di infiammazione. Uno dei meccanismi che
spiega questo fenomeno è l’aumentata produzione endogena di GLP-2, che ristabilisce le funzioni di
barriera dell’intestino.
Riguardo l’aumento di massa grassa, la gestione
cronica con LPS aumenta la massa sottocutanea
e viscerale rispettivamente di circa il 30% e 40%.
E’ stato notato che l’aumento relativo alla massa
grassa e al peso corporeo riconducibili al
trattamento con LPS o alla dieta ad elevato
contenuto di grassi e senza carboidrati utilizzati
in questo protocollo era minore rispetto a quello
osservato in una dieta di tipo
occidentale.
Cionondimeno,
altri
studi
favoriscono quest’ipotesi perché in assenza del
recettore di LPS (modelli CD14-/- o TLR-4-/-) i topi
sono resistenti ai disordini metabolici dietoindotti (Cani et al., 2007a; Tsukumo et al., 2007;
Davis et al., 2008; Roncon-Albuquerque et al.,
2008).
E’ stato successivamente investigato il ruolo dei
LPS derivati dal microbiota intestinale in quanto
essi risultano essere fattori di stimolazione di un
basso grado di infiammazione, di diabete di tipo
2 e di insulino-resistenza, un’indagine che ha
riguardato topi obesi sia per via nutrizionale che
per via genetica attraverso una specifica
modulazione della composizione del microbiota
intestinale (Cani et al., 2008; Membrez et al.,
2008). In primo luogo, abbiamo trovato che un
cambiamento nel microbiota intestinale
attraverso il trattamento antibiotico protegge
verso lo sviluppo di massa grassa indotto dalla
dieta, intolleranza glucidica, insulino-resistenza,
infiammazione e stress ossidativo. Questo
insieme di studi suggerisce in modo incisivo che
una dieta ad alto contenuto di grassi potrebbe
non essere causa diretta di obesità.
In secondo luogo, abbiamo trovato che topi
ob/ob geneticamente obesi esibivano un
migliore fenotipo metabolico (cioè insulinoresistenza e infiammazione) a seguito di una
manipolazione del microbiota intestinale,
mentre il loro aumento ponderale totale
rimaneva invariato (Cani et al., 2008). Per
chiarire meglio il ruolo dei LPS nella patogenesi
dell’infiammazione e dell’insulino-resistenza
associate all’obesità, abbiamo deciso di
interferire con il segnale dei LPS attraverso l’uso
di due modelli specifici. Nel primo modello
abbiamo somministrato infusioni sottocutanee
croniche di LPS (polimixina B o inibitori di
15
endotossine) per quattro settimane a topi ob/ob
geneticamente obesi. Il secondo modello
consisteva in una generazione di topi ob/ob
mancanti del recettore CD14 per LPS (ob/ob
CD14-/-).
I risultati ottenuti seguendo l’investigazione di
tutti questi specifici modelli hanno indicato una
significativa diminuzione dell’infiammazione e
dell’infiltrazione dei marker di macrofagi insieme
con una migliorata tolleranza al glucosio e
insulino-resistenza (Cani et al., 2008). Questi
esperimenti
dimostrano
chiaramente
il
contributo all’endotossiemia metabolica da
parte di derivati da LPS del microbiota
intestinale.
Coerentemente con quest’insieme di dati, altri
studi hanno riportato che i livelli plasmatici di
LPS sono elevati in topi ob/ob e db/db (Brun et
al., 2007). In più, il trattamento con polimixina B,
che elimina specificamente i batteri gramnegativi ed inoltre estingue LPS, diminuisce la
steatosi epatica (Pappo et al., 1991). Insieme con
i primi risultati, queste scoperte suggeriscono
fortemente che il contributo del microbiota
intestinale all’endotossiemia metabolica ha a che
fare sia con l’obesità genetica che con quella
indotta dalla dieta. Il rapporto tra una dieta ad
alto contenuto di grassi, l’obesità, il diabete di
tipo 2 e i LPS è stato successivamente
confermato nell’uomo. Negli ultimi 3-4 anni,
numerosi studi hanno confermato l’ipotesi di
un’endotossiemia metabolica indotta da una
dieta ad alto contenuto di grassi in soggetti sani
e obesi. Prima, Erridge et al. hanno esaminato i
livelli di concentrazione di endotossiemia in
soggetti umani sani e hanno trovato che pasti ad
alto
contenuto
di
grassi
inducono
un’endotossiemia metabolica che raggiunge
rapidamente concentrazioni sufficienti a indurre
un certo grado di infiammazione (Erridge et al.,
2007). Abbiamo anche scoperto un link tra
intake energetico (dieta ad alto contenuto di
grasso) ed endotossiemia metabolica in una
coorte di 211 soggetti (Amar et al., 2008). In più è
stato dimostrato che l’endotossiemia metabolica
in volontari sani aumenta il TNF-α nel tessuto
adiposo e le concentrazioni di IL-6 , oltre che
l’insulino-resistenza (Anderson et al., 2007).
Creely et al. hanno recentemente rinforzato
l’ipotesi che l’endotossiemia metabolica possa
agire come fattore collegato al microbiota
intestinale e coinvolto nello sviluppo di diabete
di tipo 2 e obesità nell’uomo (Creely et al., 2007).
Un recente studio che investigava l’impatto degli
inibitori alle lipasi pancreatiche e gastriche ha
messo in evidenza il legame tra l’endotossiemia
metabolica e l’alterazione della tolleranza al
glucosio (Dixon et al., 2008). Inoltre è stato
dimostrato che cambiamenti nell’endotossemia
metabolica in pazienti obesi con diabete 2 sono
inversamente correlati a diversi parametri
plasmatici (ad es.trigliceridi, colesterolo,
glucosio e insulina) (Al-Attas et al., 2009). Da
ultimo, la relazione tra dieta ad elevato
contenuto di grassi ed endotossemia metabolica
è stata confermata in diversi studi indipendenti
(Ghoshal et al., 2009; Ghanim et al., 2009;
Deopurkar et al., 2010; Laugerette et al., 2011).
Messe insieme queste scoperte rinforzano il
ruolo giocato dall’intake (e dall’assorbimento) di
grassi
nello
sviluppo
dell’endotossiemia
metabolica.
Sebbene molti dati supportino la tesi di un
meccanismo dipendente dall’attivazione del
complesso LPS-TLR-4/CD14, alcune evidenze
emergenti supportano il concetto che altri TLR
potrebbero essere coinvolti nello sviluppo
dell’insulino-resistenza e di un basso grado di
infiammazione
associati
all’obesità.
Recentemente, diversi studi indipendenti che
investigavano il ruolo di TLR-2 hanno associato
causalmente lo sviluppo di obesità dieto-indotta
e disordini metabolici a questo recettore
associato a patogeni (Davis et al., 2011; Ehses et
al., 2010; Himes & Smith, 2010; Kuo et al.,2011).
TLR-2 riconosce un largo numero di molecole
contenenti lipidi, compreso il lipopeptide
batterico (Lien et al., 1999). In più l’espressione e
l’induzione di TLR-2 sono direttamente
controllati da LPS, ma TLR-2 può anche essere
indotto dal TNF-α e da CD14 (Lin et al., 2000).
Questi dati sono stati successivamente
confermati, ed è stato proposto che la upregolazione di TLR-2 in presenza di bassi ma
clinicamente rilevanti livelli di prodotti microbici
sia un importante meccanismo attraverso il
16
quale il sistema immunitario aumenta la sua
risposta a infezioni recenti (ad es.LPS) (Nilsen et
al., 2004). Dunque abbiamo proposto che
l’endotossiemia metabolica porti all’attivazione
di TLR-2, e dunque all’amplificazione dei segnali
del complesso LPS/TLR-4/CD14 a stimolare la
risposta infiammatoria. Diversi studi hanno
proposto che acidi grassi saturi promuovano
l’infiammazione di basso grado e l’insulino
resistenza
attraverso
un
meccanismo
dipendente da TLR-4 (Shi et al., 2006; Suganami
et al., 2007a, b).
Comunque, è stato suggerito che l’effetto di
acidi grassi saturi sull’attivazione di TLR-4 possa
essere dovuta alla contaminazione da LPS dei
preparati di acidi grassi o dell’albumina del siero
bovino (utilizzata in questi studi) (Erridge &
Samani, 2009). Si può suggerire con più certezza
che questi acidi grassi sono coinvolti
profondamente nella stimolazione del sistema
immunitario innato, ma probabilmente in
congiunzione con un’iniziale stimolazione di LPS
del complesso TLR-4/CD14 e una conseguente
stimolazione TLR-2. Diverse osservazioni sono a
sostegno di quest’ipotesi: i) l’alterazione del
microbiota intestinale con antibiotici protegge i
topi da un’obesità dieto-indotta e da disordini
metabolici, anche in presenza di recettori
funzionanti TLR-4/2 (Cani et al., 2008); ii) topi a
cui sia stato soppresso CD14 non sviluppano
insulino-resistenza indotta dai grassi e
infiammazione di basso grado, anche qualora i
recettori TLR-4 e TLR-2 siano completamente
espressi (Cani et al.,2007a; Roncon-Albuquerque
et al., 2008), comunque dovrebbe essere
ricordato che CD14 è richiesto per
un’appropriata funzionalità sia di TLR-2 che di
TLR-4 (Buwitt-Beckmann et al., 2005; Heine &
Ulmer, 2005); e iii) i topi asettici alimentati con
una dieta ad alto contenuto di grassi sono
resistenti allo sviluppo di infiammazione indotta
da una dieta ad alto contenuto di grassi e
resistenti ad insulino-resistenza, sebbene si siano
completamente digeriti e assorbiti i grassi
ingeriti (Backhed et al., 2007; Rabot et al.,2010).
Presi insieme, questi esperimenti suggeriscono
che una cascata di segnale iniziata da un
meccanismo dipendente da LPS/TLR-4/CD14
attiva di conseguenza l’espressione di TLR-2 a
supporto della risposta infimmatoria del sistema
immunitario innato.
Il microbiota intestinale e la permeabilità
intestinale: uno sguardo nella “MicrObesità”
Tra le cause potenzialmente coinvolte nello
sviluppo di un’endotossiemia metabolica,
numerosi studi supportano l’idea che un
mutualismo ospite-batteri porti al controllo delle
funzioni della barriera intestinale (Brun et al.,
2007; Cani et al., 2008, 2009b; De La Serre et al.,
2010; Muccioli et al., 2010).
L’endotossiemia metabolica (o anche alti livelli
plasmatici di LPS) può essere il risultato di
molteplici meccanismi, compresa l’aumentata
produzione di endotossine su stimolazione di
cambiamenti del microbiota intestinale (Cani et
al., 2007a, c). In condizioni fisiologiche l’epitelio
intestinale agisce come una barriera continua ed
efficace che previene la translocazione batterica
(ad es.LPS). Però diverse situazioni endogene
e/o esogene sono associate ad un’alterazione di
questa funzione protettiva.
Tra i fattori che portano ad un intestino
permeabile (e quindi ad una condizione che
promuove l’endotossemia metabolica) sono
state proposte la stasi allo stress (Mazzon &
Cuzzocrea, 2008), l’assunzione di alcol (Nanji et
al., 1993; Nishida et al., 1994; Adachi et al., 1995;
Enomoto et al., 1998; Rivera et al., 1998;
Enomoto et al., 2001) e le radiazioni (Paulos et
al., 2007). In più, noi e altri abbiamo
recentemente proposto che cambiamenti nella
distribuzione e localizzazione della zonulina
Occludens-1 (ZO-1) e occludine (due proteine di
giunzioni serrate) nel tessuto intestinale siano
associate con un’aumentata permeabilità
intestinale, che si riscontra in topi obesi e
diabetici (Fig.4) (Brun et al., 2007; Cani et al.,
2008, 2009b; De La Serre et al., 2010; Muccioli et
al., 2010). Diversi meccanismi sembrano spiegare
il legame tra il cambiamento del microbioma
intestinale in obesità e cambiamenti nelle
funzioni della barriera intestinale (Fig.4 e 5).
17
In un recente studio abbiamo dimostrato che
l’alterazione attraverso prebiotici del microbiota
intestinale di topi geneticamente obesi può agire
in modo favorevole sulla barriera intestinale; il
meccanismo attraverso il quale i probiotici
migliorano la permeabilità intestinale nel
particolare contesto di obesità rimane da
definirsi. Ad ogni modo abbiamo investigato il
ruolo di uno specifico peptide intestinale
coinvolto nel controllo della proliferazione di
cellule epiteliali e nell’integrità di barriera
intestinale, chiamato peptide-2 glucagon-like
(GLP-2) (Jeppesen et al., 2001; Thulesen et al.,
2001; Martin et al., 2005; Chiba et al., 2007; Dube
& Brubaker, 2007).
Abbiamo investigato questo particolare peptide
perché in nostri lavori precedenti avevamo
trovato che cambiamenti indotti dai prebiotici
nel microbiota intestinale promuovevano la
sintesi di GLP-1 (mRNA proglucagone e peptide
GLP-1) nel colon prossimale attraverso un
meccanismo collegato alla differenziazione delle
cellule precursori in cellule enteroendocrine
(Cani et al., 2004, 2005a, b, 2006b; Cani et al.,
2007b; Delzenne et al., 2007). Dato che entrambi
i GLP sono prodotti e secreti dalle cellule-L e
dato che la produzione di GLP-1 endogeno
aumenta con cambiamenti indotti da prebiotici
nella flora batterica intestinale, abbiamo
focalizzato la nostra ricerca su GLP-2.
Abbiamo trovato che un’aumentata produzione
endogena di GLP-2 era associata ad una
migliorata funzionalità della barriera mucosale
attraverso la restaurazione dell’espressione e
distribuzione di proteine delle giunzioni serrate
(Fig. 4). Per investigare più in profondità il ruolo
di GLP-2 nell’effetto protettivo dei prebiotici,
abbiamo bloccato i recettori per GLP-2 in
concomitanza a cambiamenti associati ai
prebiotici nella flora intestinale. Gli antagonisti di
GLP-2 hanno completamente bloccato le
maggiori caratteristiche del trattamento
prebiotico.
Dunque, senza una funzionalità del recettore
GLP-2, il trattamento prebiotico è destinato a
fallire
nella
riduzione
dell’endotossemia
metabolica, dell’infiammazione epatica e dei
marker di stress ossidativo.
Messi insieme questi dati supportano l’ipotesi
che cambiamenti specifici nel microbiota
intestinale migliorino la permeabilità intestinale
e il tono infiammatorio attraverso meccanismi
GLP-2 dipendenti (Cani et al., 2009b) (Fig.4).
A seguito di questi interessanti cambiamenti
nella permeabilità intestinale con trattamento
prebiotico, sono state condotte misurazioni
della permeabilità intestinale a livello del digiuno
e ileo, mentre sono state rilevate modulazioni
del microbiota intestinale nella parte distale
dell’intestino (colon). Tra i potenziali meccanismi
coinvolti, abbiamo proposto che il cambiamento
del microbiota intestinale controlla e aumenta la
produzione endogena del peptide GLP-2
derivato dal proglucagone intestinotrofico, non
solo nel colon ma anche nel digiuno (Cani et al.,
2009b); di conseguenza migliorerebbe la
funzionalità di barriera intestinale nella parte
superiore dell’intestino sia attraverso circoli
regolatori autocrini che paracrini (Cani et al.,
2009b).
In più era stato precedentemente trovato che i
prebiotici aumentano l’altezza dei villi, la
profondità delle cripte e la densità degli strati
mucosali nel digiuno e nel colon (Kleessen et al.,
2003). Non possiamo poi ignorare che
l’integrazione con prebiotici influenzi la
comunità microbiale che risiede nella prima
parte dell’intestino, sebbene quest’ipotesi
rimanga da confermare. Un meccanismo
aggiuntivo
potenzialmente
coinvolto
nell’impatto del microbiota intestinale sullo
sviluppo di obesità e disordini correlati è il
sistema
degli
endocannabinoidi
(eCB).
L’interesse per questo sistema biologico origina
dalle seguenti osservazioni:
1. La massima espansione del tessuto adiposo in
obesità è caratterizzata da un basso grado di
infiammazione, forse controllato dal microbiota
intestinale (attraverso LPS);
2. L’obesità è anche caratterizzata da un
aumentata responsività al sistema eCB (ad es.,
alterata
espressione
del
recettore
1
cannabinoide (CB1 mRNA) e aumentatol ivello
plasmatico di eCB, e aumentati livelli di eCB nel
tessuto adiposo) (Engeli et al., 2005; Bluher et
al., 2006; Matias et al., 2006; Cote et al., 2007;
18
D’Eon et al., 2008; Starowicz et al., 2008; Di
Marzo et al., 2009; Izzo et al., 2009; Muccioli et
al., 2010);
3. LPS stimola la sintesi di eCB (in vivo e in vitro)
(Di Marzo et al., 1999; Maccarrone et al., 2001;
Liu et al., 2003; Hoareau et al., 2009);
4. Il blocco genetico o farmacologico del
recettore CB1 protegge dall’obesità, dalla
steatosi e dal basso grado di infiammazione
attraverso meccanismi non ancora risolti (OseiHyiaman et al., 2005; Gary-Bobo et al., 2007;
DeLeve et al., 2008; Osei-Hyiaman et al., 2008).
Date quest’evidenze emergenti che il sistema
eCB, l’infiammazione e l’obesità sono
interconnesse, abbiamo deciso di investigare in
che modo il microbiota intestinale e le funzioni di
barriera possano convergere in un meccanismo
molecolare. Usando differenti modelli per
studiare l’inter-relazione tra l’ospite e la sua
comunità intestinale di microbi, abbiamo
scoperto che cambiamenti specifici della flora
batterica
intestinale
diminuiscono
selettivamente l’attività del sistema eCV nel
colon e nel tessuto adiposo (tali cambiamenti
comprendono topi asettici verso convenzionali;
trattamenti
dietetici
che
cambiano
drasticamente o selettivamente la composizione
del microbiota intestinale; dis-regolazione
genetica delle interazioni tra batteri intestinali e
ospite). (Muccioli et al., 2010).
Sia in topi obesi per via dietetica che genetica, il
sistema eCB era iperattivato nell’intestino e nel
tessuto adiposo (Fig.5). Abbiamo trovato che il
sistema eCB, e più specificamente il recettore
CB1, controlla la funzione della barriera
intestinale. Per esempio il blocco del recettore
CB1 in topi obesi riduce la permeabilità
intestinale attraverso il miglioramento della
distribuzione e localizzazione di proteine di
giunzioni serrate (ZO-1 e occludine) (Fig.5).
In più, l’attivazione di CB1 aumenta in vitro e in
vivo i marker di permeabilità intestinale
(Alhamoruni et al., 2010; Muccioli et al., 2010).
Dunque questo studio ha dimostrato in primo
luogo che i recettori di CB1 controllano la
permeabilità intestinale attraverso interrelazioni
con il microbiota intestinale (Muccioli et al.,
2010). Inoltre abbiamo dimostrato l’esistenza di
uno scambio reciproco tra eCB e microbiota
intestinale che partecipa alla regolazione
dell’adipogenesi (Muccioli et al., 2010) (Fig.5).
Abbiamo anche scoperto che cambiamenti nel
microbiota intestinale attraverso l’uso di
prebiotici promuovono la normalizzazione della
responsività del sistema eCB sia nell’intestino
che nel tessuto adiposo. Questi effetti sono
fortemente associati alla diminuzione della
permeabilità intestinale, dell’endotossiemia
metabolica e dello sviluppo di massa grassa
(Fig.5). Cionondimeno, dovrebbe essere
ricordato che anche se esistono forti correlazioni
tra la composizione del microbiota intestinale ed
elementi che controllano le funzioni di barriera
intestinale (ad es.GLP-2 e il sistema degli
endocannabinoidi), il diretto coinvolgimento di
specifici microbi intestinali e/o metaboliti
microbiali rimane da essere spiegato.
Conclusioni
Il nuovo concetto di “MicrObesità” ha portato
alle dimostrazioni dell’impatto del microbiota
intestinale sul metabolismo della persona e delle
sue riserve energetiche.
Ogni anno, numerose evidenze emergenti
possono aiutare la comunità scientifica a capire
meglio questo piccolo mondo nascosto sotto la
pelle della nostra pancia.
Evidenze convincenti supportano la convinzione
che la comunità microbica partecipa allo
sviluppo di deposizione di massa grassa, insulinoresistenza e basso grado di infiammazione
(fattori che caratterizzano l’obesità). Lo sviluppo
di metodi analitici efficaci porterà a spiegare con
sempre maggiori conoscenze la complessità del
microbiota intestinale.
19
Figura 5 Il microbiota intestinale determina la permeabilità intestinale e la fisiologia del tessuto adiposo
attraverso il circolo regolatorio del sistema LPS-eCB.
Il sistema eCB è iper-attivato nell’intestino con un conseguente aumento della permeabilità intestinale,
dei livelli plasmatici di LPS e dell’infiammazione sistemica. L’influenza reciproca del sistema eCB e del
microbiota partecipa alla regolazione dell’adipogenesi in modo diretto attraverso l’azione sul tessuto
adiposo e in modo indiretto attraverso l’aumento dei livelli plasmatici di LPS. I cambiamenti indotti con il
trattamento di prebiotici nel microbiota intestinale diminuiscono la responsività del sistema eCB sia
nell’intestino che nel tessuto adiposo, e dunque migliorano la barriera intestinale e normalizzano
l’adipogenesi.
Cionondimeno, questo porterà anche diversi
nuovi interrogativi riguardanti i meccanismi
attraverso i quali i batteri intestinali
interagiscono con l’uomo. Le risposte a queste
domande-chiave saranno cruciali per lo sviluppo
di futuri trattamenti “à la carte” per le patologie
collegate a disbiosi. In questa prospettiva, anche
se dovrebbe essere più propriamente verificato,
i prebiotici rappresentano uno strumento
promettente, e che è già disponibile.
Bibliografia
20
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22
23
Assunzione di proteine, il bilancio del calcio e gli effetti sulla salute
a cura di Arianna Rossoni
Diete ad elevato contenuto di proteine (HP)
esercitano un effetto ipercalciurico pur tenendo
costanti i livelli di assunzione di calcio, sebbene
gli effetti specifici dipendano dalla natura delle
proteine dietetiche. Un pH urinario inferiore è
stato osservato in soggetti che hanno
unʼalimentazione HP. La combinazione di questi
due effetti sembra essere associata a condizioni
dietetiche che favoriscono la demineralizzazione
dello scheletro. Lʼaumentata escrezione di calcio
dovuta a diete HP non sembra tuttavia essere
connessa ad uno squilibrio dellʼomeostasi del
calcio. In contraddizione a ciò, alcuni dati
indicano che un intake HP induce un aumento
dellʼassorbimento di calcio a livello intestinale.
Non esistono dati clinici a supporto dellʼipotesi
che diete HP abbiano un effetto negativo sulla
salute delle ossa, eccezion fatta per una
concomitante condizione di inadeguato apporto
di calcio. Lʼintake HP promuove la crescita delle
ossa e ritarda processi di osteopenia, e una dieta
bassa di proteine è stata associata ad un
maggiore rischio di fratture allʼanca. Lʼaumento
di acido e di escrezione calcica dovuta a diete HP
è stata anche accusata di creare condizioni
organiche favorevoli a calcoli renali e patologie
ai reni.
Tuttavia in soggetti sani non sono stati registrati
effetti negativi di diete HP sui reni né in studi
osservazionali né in studi di intervento:
sembrerebbe che diete HP possano essere
deleterie solo in pazienti con preesistenti
disfunzioni metaboliche renali. Dunque la dieta
HP non sembra portare a perdita di calcio osseo:
il ruolo delle proteine sembra essere più
complesso di quanto si creda, e probabilmente è
dipendente da altri fattori dietetici e dalla
presenza di altri nutrienti nella dieta.
Le diete ricche di proteine sono state associate a
modificazioni del calcio urinario e ad escrezioni
acide, due fattori che si sospettano riflettere uno
stato di blanda acidosi che potrebbe portare a
condizioni
ambientali
favorevoli
a
demineralizzazione dello scheletro e sviluppo di
calcoli renali.
Il metabolismo delle proteine dietetiche
contribuisce alla produzione endogena di acidi,
soprattutto attraverso lʼossidazione di acidi
aminosolfurici e fosfoproteine. Tuttavia altri
risultati supportano una relazione positiva tra
lʼintake di proteine e la salute delle ossa. Per
analizzare la letteratura collegata a queste
tematiche abbiamo condotto ricerche nel
database
MEDLINE
attraverso
PubMed
utilizzando le seguenti parole-chiave: diete ad
elevato contenuto di proteine, proteine
dietetiche, assunzione di proteine, assunzione di
carne, equilibrio acido-base, escrezione acida
renale netta, ipercalciuria, equilibrio del calcio,
calcio
urinario,
escrezione
di
calcio,
assorbimento di calcio, salute delle ossa, massa
ossea e fratture. La lista di riferimenti è stata
revisionata per studi supplementari rilevanti. Eʼ
stato anche fatto un tentativo per interpretare
le differenze tra gli effetti riportati con riguardo
alle variazioni di assunzioni dietetiche.
24
Assunzione di proteine, calcio urinario,
escrezioni acide ed equilibrio del calcio
Proteine dietetiche e calcio urinario ed escrezioni
acide
Studi controllati di assunzione dietetica hanno
mostrato un effetto ipercalciurico delle diete HP
quando le proteine supplementari erano date in
forma purificata (caseina, lattoalbumina,
proteine del glutine del grano, albume in
polvere), con unʼescrezione urinaria di calcio
aumentata di 0,7-2,2 mg per ogni grammo di
proteine supplementari ingerite, a costanti livelli
di intake di calcio (Johnson et al., 1970; Anand
and Linkswiler, 1974; Kim and Linkswiler, 1979;
Schuette et al., 1980; Hegsted and Linkswiler,
1981; Hegsted et al., 1981; Zemel et al., 1981;
Schuette and Linkswiler, 1982; Lutz, 1984; Trilok
and Draper, 1989; Pannemans et al., 1997;
Wagner et al., 2007) (Tabella 1).
Lʼaumentata escrezione urinaria di calcio è stata
osservata sia in donne onnivore che vegetariane
(Ball and Maughan, 1997) e in soggetti che
seguivano la dieta Atkins (Reddy et al., 2002).
Altri studi non riportano cambiamenti nei livelli
urinari di calcio a seguito di diete ad elevato
consumo di carne comparate a diete a basso
consumo di carne (Spencer et al., 1978, 1983,
1988). Lʼeffetto ipercalciurico di diete HP
dipende certamente dalla natura delle proteine
dietetiche, e bisogna anche tenere conto che
diversi alimenti ad HP, come carne o prodotti
caseari, contengono anche componenti che
limitano lʼescrezione urinaria di calcio.
Per esempio, il fosforo esercita un effetto
ipocalciuretico
che
contrasta
lʼeffetto
ipercalciuretico determinato dallʼintake proteico.
Quando lʼassunzione di proteine e calcio è
tenuto costante, un aumento dellʼassunzione di
fosforo causa una diminuzione del calcio urinario
tra il 40 e 65% a seconda del livello di assunzione
proteica (Hegsted et al., 1981).
Le diete HP sono anche associate a
unʼaumentata escrezione acida, che si riflette in
una diminuzione del pH urinario e un aumento
dellʼescrezione acida renale totale.
In studi a nutrizione controllata, comparando
diete con bassi e alti livelli di proteine, il pH
urinario risultava ridotto di 0,3-0,8 unità quando
lʼassunzione di proteine era aumentata di 40-60
g/giorno (Lutz, 1984; Trilok and Draper, 1989;
Reddy et al., 2002; Roughead et al., 2003).
Sono stati riportati aumenti nellʼescrezione acida
renale netta entro un range di 0,4-1 mEquiv per
ogni
grammo
di
proteine
dietetiche
supplementari (Schuette et al., 1980; Hegsted
and Linkswiler, 1981; Schuette and Linkswiler,
1982; Lutz, 1984; Reddy et al., 2002).
Il livello di escrezione acida supplementare
indotto da maggiori assunzioni proteiche
potrebbe dipendere dalla natura delle proteine
ingerite.
Per esempio, lʼescrezione acida renale netta era
positivamente associata a unʼassunzione di
proteine non di origine casearia (Hu et al., 1993)
e proteine totali (Frassetto et al., 1998), ma non
ad unʼassunzione di proteine vegetali (Frassetto
et al., 1998).
Comunque, lʼaumentato carico acido renale a
seguito di diete HP non è necessariamente
associato a modificazioni del carico acido
sistemico. Il pH plasmatico e la concentrazione di
bicarbonati rimane entro range di normalità
quando lʼaumento delle proteine dietetiche
raggiunge un massimo di 164 g/giorno (Reddy et
al., 2002) o 2 g/kg (Wagner et al., 2007).
Il fatto che lʼequilibrio acido-base sistemico
venga preservato suggerisce che il carico acido
indotto
dalle
proteine
può
essere
adeguatamente gestito dai reni attraverso
lʼescrezione dellʼeccesso di acidi prodotti e
attraverso lʼattivazione di sistemi tampone.
Lʼassunzione di proteine e lʼequilibrio del calcio
Lʼequilibrio del calcio viene definito come:
“l’ assunzione data dalla dieta del calcio” meno
“somma delle escrezioni urinarie e fecali di
calcio”. Sebbene vi sia un ampio consenso
riguardo lʼassociazione tra aumentato introito di
proteine dietetiche ed aumentata escrezione
urinaria di calcio, lʼeffetto di diete HP
sullʼequilibrio totale organico di calcio è meno
chiaro (Tabella 2).
25
In alcuni studi le diete HP associate ad un
aumento dei livelli urinari di calcio erano anche
associate ad un bilancio di calcio minore e
negativo se comparate a diete a basso
contenuto di proteine (LP) (Johnson et al., 1970;
Anand and Linkswiler, 1974; Kim and Linkswiler,
1979; Allen et al., 1979b; Hegsted et al., 1981;
Schuette and Linkswiler, 1982; Lutz, 1984); la
diminuzione del bilancio giornaliero di calcio era
in un range di 1-1.6 mg per ogni grammo di
proteine extra. Altri studi non riportano
cambiamenti nel bilancio di calcio a seguito di
diete HP, non si osservano cambiamenti né
nellʼescrezione
urinaria
di
calcio
nè
nellʼassorbimento di calcio quando le proteine
erano fornite come carne (Spencer et al., 1983;
Draper et al., 1991); si è osservata una
diminuzione dellʼescrezione fecale di calcio, che
compensa lʼaumentato calcio urinario quando le
proteine supplementari venivano aggiunte alla
dieta in forma di proteine purificate (Cummings
et al., 1979; Pannemans et al., 1997).
Le discrepanze esistenti tra gli effetti riportati
negli studi di diete HP circa il bilancio di calcio
possono essere parzialmente spiegate con la
difficoltà a misurare lʼomeostasi totale del calcio.
In primo luogo le perdite fecali di calcio (che
devono essere misurate per un periodo di 5-10
giorni per essere rappresentative alla dieta) sono
10 volte superiori delle perdite urinarie di calcio,
e un errore nella determinazione di calcio fecale
può
fortemente
incidere
nella
stima
dellʼomeostasi del calcio. In più alcuni fattori
dietetici, come lʼintroito di calcio e fosforo, sono
in grado di modulare il bilancio di calcio. Ad
elevati livelli di introito di calcio, lʼaumento
dellʼintroito di fosforo causa un cambiamento
del bilancio di calcio da negativo a positivo
(Hegsted and Linkswiler, 1981). Un introito
elevato di proteine e di fosforo è stato associato
ad un bilancio di calcio positivo quando lʼintake
di calcio stesso è elevato, ma ad un bilancio
negativo quando lʼintake di calcio è basso
(Schuette and Linkswiler, 1982). Questi effetti
sono particolarmente importanti se si tiene in
considerazione che lʼaumento di proteine
dietetiche attraverso la dieta quotidiana si
accompagna generalmente ad un aumento
di
intake di fosforo, dal momento che carne e
latticini sono alimenti ricchi tanto di proteine
quanto di fosforo: ciò potrebbe spiegare perché
piccoli cambiamenti nel bilancio di calcio
vengono osservati soprattutto in studi nei quali
lʼintroito HP è derivante da un elevato consumo
di carne e latticini piuttosto che da proteine
purificate.
Introito
proteico
e
metabolismo del calcio
modulazioni
del
La gestione della modulazione di calcio renale
Lʼeffetto ipercalciurico delle proteine dietetiche
probabilmente deriva da unʼalterazione della
gestione di calcio renale (Tabella 3). Un aumento
dellʼassunzione di proteine di 2 o 3 volte causa
un aumento della filtrazione glomerulare pari al
6-20% (Kim and Linkswiler, 1979; Allen et al.,
1979b; Schuette et al., 1980; Hegsted and
Linkswiler, 1981; Hegsted et al., 1981; Zemel et
al.,1981), determinando di conseguenza un
aumentato carico di filtrazione di calcio.
In parallelo, il riassorbimento tubulare
frazionato risulta diminuito del 0.9-2% quando
lʼaumento delle proteine assunte con la dieta è
del 100-200% (Kim and Linkswiler, 1979; Hegsted
and Linkswiler, 1981; Hegsted et al., 1981; Zemel
et al., 1981).
Queste modulazioni della funzione renale
sembrerebbero essere dovute ad un effetto
diretto delle proteine sulle cellule renali, mentre i
livelli circolanti dellʼormone che maggiormente
regola il metabolismo del calcio (lʼormone
paratiroideo) non variano allʼaumentare
dellʼintake proteico (Kim and Linkswiler, 1979;
Allen et al., 1979b; Schuette et al., 1980).
Alterazioni della gestione del calcio renale
possono anche essere associate allʼaumentata
escrezione acida associata ad un intake HP.
Viene riportato che lʼescrezione di calcio urinario
aumenta di circa 100 mg/giorno a seguito di una
dieta acidificante in confronto a una dieta
basificante (Buclin et al., 2001).
26
Alcune meta-analisi di studi nei quali lʼintake
acido-base è stato manipolato con cambiamenti
del cibo assunto o con integratori mostrano una
correlazione positiva tra lʼescrezione acida
urinaria netta e il calcio urinario, con un aumento
di 0.9-1.4 mg del calcio urinario per ogni
aumento dellʼescrezione acida di 1 mEquiv.
(Fenton et al., 2008, 2009).
Il rapporto tra acidi ed escrezione di calcio è
stato successivamente supportato dal fatto che
un aumento di basi attraverso la dieta in forma di
bicarbonato di sodio contrasta parzialmente
lʼeffetto ipercalciuretico della dieta HP (Lutz,
1984). Più nello specifico, lʼaumentata
escrezione urinaria di calcio a seguito di diete HP
è spesso attribuita, almeno parzialmente,
allʼaumento dellʼescrezione urinaria di solfati che
derivano dallʼaumentato metabolismo di acidi
aminosolfurici (Schette et al.,1980).
Ad ogni modo gli acidi amino solfurici aggiunti a
diete LP in una quantità pressoché simile a quella
presente in diete HP causano un aumento del
calcio urinario che giustifica solo il 44%
dellʼaumento causato da diete HP (Zemel et al.,
1981), suggerendo dunque che altri fattori siano
coinvolti nellʼipercalciuria protein-indotta (come
ad esempio lʼescrezione di ammoniaca).
Anche alcuni ormoni che influenzano
lʼescrezione di calcio, come insulina, ormoni della
crescita e glucocorticoidi, potrebbero essere
coinvolti nellʼeffetto ipercalciuretico delle
proteine (Allen et al., 1981; Zemel et al., 1981).
La modulazione dellʼassorbimento intestinale del
calcio alimentare
La più vecchia ipotesi riguardante lʼaumentato
calcio urinario indotto da diete HP è stata che le
proteine dietetiche sono in grado di stimolare
lʼassorbimento intestinale di calcio. Tuttavia
lʼeffetto delle diete HP sullʼassorbimento
intestinale di calcio rimane ancora poco chiaro
(Tabella 2).
McCance et al. (1942) per primi osservarono che
soggetti sottoposti a diete LP (<70 g/giorno)
avevano unʼassorbimento intestinale di calcio
ridotto del 20% rispetto a soggetti che seguivano
diete HP (>145 g/giorno).
Queste prime scoperte furono successivamente
confermate da alcuni studi di intervento (Lutz
and Linkswiler, 1981; Schuette and Linkswiler,
1982), mentre altri studi sono stati inefficaci a
dimostrare una qualsiasi correlazione tra
proteine dietetiche e assorbimento intestinale di
calcio (Schuette at al., 1980; Hegsted and
Linkswiler, 1981; Hegsted et al., 1981).
Ad ogni modo in questi studi lʼassorbimento di
calcio è stato stimato usando il metodo
dellʼequilibrio, ossia misurando la differenza
esistente tra lʼassunzione di calcio e le perdite di
calcio fecale.
Dal momento che quantificare le perdite fecali è
tecnicamente difficile e che questo metodo
potrebbe non rilevare piccoli cambiamenti
nellʼassorbimento, i risultati andrebbero
interpretati con cautela. Il reale assorbimento
potrebbe inoltre essere sottostimato poiché è
impossibile dissociare lʼescrezione fecale di
calcio di origine endogena e quella dietetica.
Più recentemente alcuni metodi che utilizzano
isotopi del calcio, come il metodo dellʼacqua
doppiamente marcata che è lʼattuale goldstandard (Heaney, 2000) o il metodo del
radiotracciante, hanno offerto uno strumento
più affidabile per stimare lʼassorbimento
intestinale di calcio, ma i risultati circa lʼeffetto
delle proteine dietetiche sullʼassorbimento di
calcio rimangono contradditori. A parità di
condizioni sperimentali, alcuni studi di
intervento hanno trovato che diete HP (1.5-2
g/kg comparate a 0.5-1 g/kg di proteine
consumate giornalmente) inducono un aumento
dellʼassorbimento di calcio associato ad un
aumento dellʼescrezione di calcio in donne
premenopausa e postmenopausa (Kerstetter et
al., 1998, 2005; Hunt et al., 2009), mentre altri
studi non hanno trovato alcuna correlazione tra
dieta HP ed assorbimento di calcio, a dispetto di
un’aumentata escrezione di calcio (Kerstetter et
al., 2006; Ceglio et al., 2009).
Uno studio osservazionale longitudinale e alcuni
studi di intervento che hanno utilizzato il
metodo del radiotracciante per stimare
lʼequilibrio del calcio non hanno trovato alcun
effetto delle diete HP sullʼassorbimento
intestinale di calcio; in questi studi non è stata
27
trovata correlazione tra proteine alimentari ed
escrezione di calcio (Spencer et al., 1983;
Dawson-Hughes and Harris, 2002; Roughead et
al., 2003).
I livelli di calcio dietetico potrebbero modulare
lʼeffetto dellʼintake proteico sullʼassorbimento di
calcio, e ciò contribuirebbe a spiegare i risultati
contradditori. In effetti Hunt et al. (2009) hanno
dimostrato che un introito di HP quando
comparato a LP aumenta lʼassorbimento di
calcio solo in presenza di basso intake di calcio
(700 mg/giorno), e non con alto introito (1500
mg/giorno).
Non è ancora chiaro il possibile meccanismo che
stimola lʼassorbimento intestinale di calcio in
risposta a proteine alimentari. Lʼassorbimento di
calcio avviene in primo luogo nel duodeno, dove
le secrezioni acide gastriche permettono di
mantenere lʼambiente a un pH<6.0, necessario
per la solubilizzazione dei sali di calcio derivanti
dal cibo ingerito (Goss et al., 2007). La
produzione acida gastrica viene stimolata non
solo dal sistema nervoso parasimpatico, ma
anche da segnali chimici, da nutrienti incluso
Ca2+ (Hade and Spiro, 1992; Geibel and Wagner,
2006) e da alcuni aminoacidi (Konturek et al.,
1978; Strunz et al., 1978). Dunque le proteine
alimentari potrebbero aumentare la solubilità
del calcio attraverso la stimolazione della
produzione acida gastrica (DelValle and Yamada,
1990; Schulte-Frohlinde et al., 1993). In più si è
visto che alcuni derivati dalla digestione di
proteine, come ad esempio la caseina,
potrebbero stimolare lʼassorbimento intestinale
di calcio attraverso interazioni dirette con il
calcio stesso (Ferraretto et al., 2001; Erba et al.,
2002). Per determinare cambiamenti nel bilancio
del calcio con diete HP sono particolarmente
importanti i dati riguardo le variazioni
dellʼassorbimento intestinale di calcio. Infatti,
sebbene il calcio urinario sia spesso riportato
come marker del metabolismo calcico, esso non
è ancora un indicatore esatto delle perdite totali
di calcio poiché potrebbero esserci differenze
nellʼassorbimento intestinale di calcio che
compensano i cambiamenti dellʼescrezione di
calcio.
La mobilizzazione del calcio osseo e la ritenzione
netta di calcio
In accordo allʼipotesi acidificante, la dieta HP
causerebbe un eccesso di carico acido che
andrebbe neutralizzato dal rilascio di ioni
bicarbonato dalla matrice ossea, un meccanismo
che è accompagnato dalla perdita di ioni sodio,
potassio e una piccola quantità di ioni calcio
(Green and Kleeman, 1991), e di conseguenza
lʼaumento del riassorbimento osseo si
rifletterebbe
nellʼaumento
dellʼescrezione
urinaria di calcio (Barzel and Massey, 1998;
Remer, 2000; Frassetto et al., 2001; New, 2003)
(Tabella 4). Il carico acido potrebbe anche
diminuire lʼattività osteoblastica ed aumentare
quella
osteoclastica,
determinando
un
riassorbimento netto osseo con mobilizzazione
di calcio (Bushinsky, 1989; Krieger et al., 1992;
Alpern and Sakhaee, 1997). Ad ogni modo non ci
sono dati sperimentali convincenti a supporto di
questa teoria. Esistono risultati contradditori sui
cambiamenti nellʼidrossiprolina urinaria, marker
del metabolismo del collagene, in risposta a
diete HP; alcuni studi riportano un aumento dei
livelli di escrezione urinaria di idrossiprolina a
seguito di diete HP (Kim and Linkswiler, 1979;
Schuette and Linkswiler, 1982), mentre altri studi
non osservano alcun cambiamento (Allen et al.,
1979b; Hunt et al., 1995).
Assunzione di proteine e salute delle ossa
Non esistono dati clinici per dimostrare effetti
negativi sulla salute delle ossa a seguito
dellʼassunzione di proteine
Lʼassunzione di proteine si correla positivamente
con la massa ossea in diverse zone dello
scheletro ed in ogni categoria di popolazione, dai
bambini a uomini e donne anziani.(Hirota et al.,
1992; Geinoz et al., 1993; Devine et al., 1995;
Cooper et al., 1996; Feskanich et al., 1996;
Teegarden et al., 1998; Hannan et al., 2000;
Sellmeyer et al., 2001; Whiting et al., 2002; Ilich
et al., 2003; Alexy et al., 2005; Budek et al., 2007;
Chen et al., 2007; Chevalley et al., 2008; Thorpe
et al., 2008).
28
Nella loro review sistemica, Darling et al. (2009)
hanno notato che la maggior parte delle indagini
cross-sezionali o delle review di studi di coorte
non riportano né associazione né effetto
benefico tra proteine e massa minerale ossea
(BMD), e solo unʼindagine ha trovato una
correlazione negativa tra le proteine e il
contenuto minerale corporeo. Hanno dunque
concluso che le proteine dietetiche, se non
significativamente
favorenti,
non
sono
nemmeno nocive alla densità ossea. Un più
recente studio longitudinale che ha coinvolto
540 donne in menopausa non ha trovato alcun
effetto avverso sul BMD a seguito di un
aumentato intake proteico (5-25% dellʼenergia
totale giornaliera) (Beasley et al., 2010). Gli studi
frequentemente citati che supportano lʼeffetto
deleterio delle diete HP sulla salute ossea sono
analisi retrospettive dellʼincidenza di frattura
allʼanca di donne in menopausa provenienti da
paesi differenti (Abelow et al., 1992; Frassetto et
al., 2000); tali studi hanno trovato che
lʼincidenza più alta di frattura allʼanca si verifica
nei paesi occidentali, che hanno un maggior
consumo di proteine animali dietetiche.
Nonostante ciò ci sono diverse ovvie limitazioni
a questi studi, come notato da Bonjour (2005). In
primo luogo, i paesi con la maggiore incidenza di
frattura allʼanca sono anche quelli con
lʼaspettativa di vita più lunga, che è un
determinante importante del rischio di fratture
osteoporotiche (Kannus et al., 1996).
Lʼassunzione di proteine è stata valutata sulla
popolazione totale ma non sullo specifico
gruppo in studio. Inoltre le differenze interetniche circa il rischio di fratture osteoporotiche
sono ben conosciute e potrebbero essere
attribuibili a molti fattori, tra cui la struttura
ossea, il genotipo e lo stile di vita (Nelson e
Megyesi, 2004; Lei et al., 2006). Altri dati
epidemiologici apportano qualche debole
evidenza che lʼincidenza di fratture è collegata
ad una maggiore assunzione di proteine. Nello
studio “Nursesʼ Health” durato 12 anni e
condotto negli Stati Uniti, le donne che
consumavano >95 g di proteine al giorno
avevano un aumentato rischio di frattura
allʼavambraccio ma non allʼanca (Feskanich et al.,
1996).
In unʼindagine retrospettiva norvegese, lʼelevato
rischio di frattura allʼanca è stato associato a
unʼelevata assunzione di proteine non
provenienti dai latticini solo quando lʼassunzione
di calcio era concomitantemente bassa (Meyer
et al., 1997). La maggiore limitazione di entrambi
gli studi è stato lʼuso di un questionario di
frequenza alimentare mandato per posta, con
un numero di risposte limitato e una limitata
stima di altri fattori dello stile di vita o dietetici
che potrebbero contribuire al rischio di frattura.
Al contrario numerosi altri studi prospettici
hanno trovato unʼassociazione chiaramente
negativa tra lʼassunzione di proteine e il rischio di
frattura allʼanca negli anziani (Huang et al., 1996;
Munger et al., 1999; Wengreen et al., 2004; Misra
et al., 2010). In una meta-analisi di studi di
coorte, Darling et al. (2009) non hanno trovato
associazione tra lʼassunzione di proteine e il
rischio di fratture. In più, in studi di intervento la
supplementazione orale di proteine ha
significativamente migliorato la prognosi clinica
dopo fratture alle anche riscontrate negli anziani
(Delmi et al., 1990; Tkatch et al., 1992; Schurch et
al., 1998).
Impatto dellʼassunzione di calcio sul rapporto tra
intake proteico e salute delle ossa
Esistono alcune evidenze che lʼeffetto benefico
dellʼassunzione di proteine sulla massa minerale
ossea sia meglio espresso quando lʼintegrazione
sia di calcio che di vitamina D è adeguata
(Heaney, 2001, 2002; Dawson-Highes, 2003). Tra
le donne norvegesi è risultato che lʼintake
proteico non si correla al rischio di frattura
allʼanca, eccetto quando questʼintake è ai livelli
più elevati e in associazione a basso introito di
calcio (Meyer et al., 1997).
29
Uno studio dʼintervento durato tre anni ed
effettuato su uomini e donne over-65 non ha
trovato correlazione tra assunzione di proteine e
BMD nel gruppo placebo (che assumeva una
quantità normale di calcio), mentre la dieta HP
del gruppo con supplementazione di calcio ha
registrato un effetto benefico sulla BMD
(Dawson-Hughes and Harris, 2002).
Presi insieme, gli studi riguardanti lʼassunzione di
proteine e la salute delle ossa suggeriscono che
lʼelevato intake proteico derivante dal cibo
promuove la crescita ossea e ritarda la perdita
ossea, e che diete LP sono associate con un più
elevato rischio di fratture allʼanca. Gli effetti
positivi dellʼintake di proteine alimentari sulla
salute delle ossa sembra essere dipendente,
almeno in parte, dallʼassunzione di calcio. Il
mantenimento di unʼadeguata forza e densità
ossea con il procedere dellʼetà è altamente
dipendente dal mantenimento di unʼadeguata
massa muscolare, e la massa muscolare è
viceversa dipendente da unʼadeguato intake di
proteine di alta qualità (Wolfe, 2006; Heaney and
Layman, 2008).
Meccanismi che supportano lʼeffetto benefico
delle proteine sulla salute delle ossa
I meccanismi attraverso i quali le proteine
influiscono positivamente sulla salute delle ossa
sono perlopiù connesse al fattore-1 di crescita
insulino-simile (IGF-1). Lʼassunzione di proteine
induce la produzione e lʼazione dellʼIGF-1 sia studi
su animali che in studi sullʼuomo (Schurch et al.,
1998; Heaney et al., 1999; Arjmandi et al., 2003;
Dawson-Hughes, 2003; Ceglia et al., 2009).
IGF-1 è il maggiore regolatore del metabolismo
osseo che può agire come regolatore sistemico e
locale della funzione osteoblastica (Mohan et al.,
1992; Langdahl et al., 1998) e come fattore
accoppiante delle ossa che rimodella e attiva sia
il riassorbimento che la formazione ossea (Rubin
et al., 2002).
Come rivisto da Bonjour et al. (1997) e da Thissen
et al. (1994),l’ impatto delle proteine dietetiche
sullʼIGF-1 e viceversa lʼimpatto dellʼIGF-1 sulla
salute delle ossa ha un ruolo chiave nella
prevenzione dellʼosteoporosi.
In cavie da laboratorio adulte, una dieta LP ha
dimostrato saper diminuire i livelli plasmatici di
IGF-1 e di indurre un bilancio osseo negativo con
diminuita
formazione
ed
aumentato
riassorbimento (Ammann et al., 2000; Bourrin et
al., 200a, b).
Questʼeffetto
viene
invertito
con
la
supplementazione aminoacidica (Ammann et al.,
2000).
Assunzione di proteine, funzione renale e
formazione di calcoli renali
Si ritiene che i potenziali effetti nocivi delle
proteine dietetiche nei riguardi della funzione
renali possano essere dovuti al “sovralavoro”
indotto dalle proteine stesse sui reni. Infatti,
come mostrato precedentemente, le diete HP
causano un aumento della filtrazione
glomerulare e unʼiperfiltrazione (Kim and
Linkswiler, 1979; Schuette et al., 1980; Hegsted
and Linkswiler, 1981; Hegsted et al., 1981; Zemel
et al., 1981; Brenner et al., 1982; Bilo et al., 1989;
Metges and Barth, 2000; Tuttle et al., 2002;
Frank et al., 2009; Burodom, 2010).
In modelli animali, le diete HP inducono
ipertrofia renale (Addis, 1926; Wilson, 1933;
Hammond and Janes, 1998), ma non in modo
sistemico (Robertson et al., 1986; Collins et al.,
1990; Lacroix et al., 2004) e stando alle nostre
conoscenze attuali non è chiaro il legame tra
ipertrofia renale indotta dalle proteine o
iperfiltrazione e problemi renali in soggetti sani.
Solo un recente studio ha dimostrato che nei
maiali una dieta HP a lungo termine (4-8 mesi) ha
come risultato un aumento della dimensione dei
reni con evidenze cliniche di danno renale (Jia et
al., 2010). Mentre, Martin et al. (2005)
concludono che non cʼè unʼevidenza significativa
di unʼassociazione tra intake di proteine elevate
e inizio o progressione di danni renali in soggetti
sani. Per esempio, in uno studio osservazionale
unʼassunzione elevata di proteine animali è stata
correlata con un declino della funzione renale in
donne con problemi renali preesistenti, ma non
in donne con una funzione renale normale
(Knight et al., 2003).
30
In studi di intervento di lunga durata che hanno
incluso soggetti sani sovrappeso o obesi senza
preesistenti disfunzioni renali, la dieta HP non ha
influenzato negativamente la funzione renale,
sia che avesse aumentato il valore di filtrazione
glomerulare e le dimensioni dei reni (Skov et al.,
1999), sia che non lʼavesse fatto (Brinkworth et
al., 2010). Ad ogni modo, le diete HP sembrano
accelerare il deterioramento renale in pazienti
con disfunzioni a questi organi, e la restrizione
proteica è una strategia molto comune per
postporre la progressione della malattia renale
(Klahr, 1989; Pedrini et al., 1996; Robertson et
al., 2007). Martin et al. (2005) suggeriscono che
in persone sane, lʼipertrofia renale aumentata
dalla filtrazione glomerulare e lʼiperfiltrazione
indotta dallʼintroito di HP potrebbe essere il
frutto di un normale adattamento fisiologico
allʼaumentata domanda rivolta ai reni,
conseguente al loro ruolo di tampone di acidi.
Presi insieme questi risultati suggeriscono che
diete HP non dovrebbero avere un effetto
negativo su persone sane ma potrebbero
accelerare i problemi renali in persone con
pregresse disfunzioni a questi organi.
Un altro effetto potenzialmente negativo
dellʼassunzione di diete HP, in particolare se
proteine animali, riguarda la relazione con la
formazione di calcoli renali. Lʼassunzione HP
induce un aumento del calcio e dellʼescrezione
acida, che sono considerate essere sostanze
potenzialmente litogene (Robertson et al., 1979;
Wasserstein et al., 1987). Studi prospettici hanno
trovato un aumentato rischio di formazioni di
calcoli a seguito di un intake elevato di proteine
animali in uomini e donne senza precedenti
episodi di calcolosi (Curhan et al., 1993, 1997),
mentre altri studi riportano un rischio non
modificato o ridotto (Hirvonen et al., 1999;
Curhan et al., 2004). Elevati introiti di proteine
animali (carne) sono correlati negativamente
con marker di formazione di calcoli in uomini con
storia di calcolosi recidivante, mentre non sono
stati registrati cambiamenti in soggetti sani
(Nguyen et al., 2001). Eʼ possibile che, come per i
problemi renali, le proteine derivate dalla dieta
siano dannose solo per pazienti con disfunzioni
preesistenti (Jaeger et al., 1983; Hess,2002).
In più, sebbene una supplementazione di calcio
potrebbe essere associata ad un aumentato
rischio di formazione di calcoli (Curhan et al.,
1997), elevati introiti di calcio dietetico hanno
dimostrato diminuire il rischio di formazione di
calcoli renali in soggetti sani (Curhan et al., 1993,
1997, 2004). Così come lʼintake elevato di calcio
riduce lʼassorbimento di ossalati, altro
importante fattore di rischio per la formazione di
calcoli renali, lʼaumento dellʼintake di calcio
potrebbe diminuire lʼescrezione urinaria di
ossalati e in questo modo controbilanciare
lʼeffetto promuovente la formazione dei calcoli
per lʼaumento del calcio urinario (Heaney, 2006).
Questo risultato suggerisce che prodotti lattierocaseari potrebbero essere benefici per prevenire
la formazione di calcoli renali in soggetti sani.
Lʼimpatto di altri fattori dietetici sulla salute
delle ossa e la funzione renale
Lʼeffetto delle proteine dipende anche dalla
presenza di altri nutrienti nella dieta (Tabella V).
Alti introiti di frutta e verdura sono associati ad
ossa sane negli adulti e negli anziani sia uomini
che donne (New et al., 1997, 2000; Tucker et al.,
1999, 2001; New, 2002, 2003; Hardcastle et al.,
2011) e ad un ridotto rischio di formazione di
calcoli in pazienti ad alto rischio (Trinchieri et al.,
2006; Taylor et al., 2010). Questʼeffetto benefico
di frutta e verdura è probabilmente dovuto al
loro elevato contenuto di magnesio e potassio.
Negli adulti sani il bicarbonato di potassio si è
dimostrato essere ipocalciurico (Lemann et al.,
1993; Sebastian et al., 1994; Whiting et al., 1997)
ed è stato positivamente associato alla salute
delle ossa (New et al., 1997; Tucker et al., 1999).
Sebbene non sia ancora chiaro se l’ effetto dei
sali di potassio sullʼescrezione di calcio, sulle
ossa e sui reni sia dovuto ad un effetto
alcalinizzante dei bicarbonati o allʼeffetto del
potassio di per sé stesso. La somministrazione di
KHCO3 riduce lʼescrezione urinaria di calcio, ma
la somministrazione di altri sali bicarbonati
(NaHCO3) non ha avuto unʼeffetto sistemico
sullʼequilibrio del calcio in soggetti sani (Lutz,
1984; Lemann et al., 1989).
31
Nei topi, la somministrazione di vari estratti
vegetali
ha
indotto
unʼinibizione
del
riassorbimento
osseo
in
vivo,
indipendentemente dal loro contenuto di basi
(Muhlbauer et al., 2002). Questi dati
suggeriscono un possibile ruolo del potassio
stesso. In uno studio di coorte di circa 650 donne
pre- e post-menopausa si è trovata una
correlazione inversa tra il potassio dietetico e il
calcio
urinario,
senza
alcun
effetto
sullʼomeostasi del calcio poiché la calciuria
ridotta era controbilanciata da una riduzione
dellʼassorbimento intestinale di calcio (Rafferty
et al., 2005).
In più, il potassio è stato identificato come il
maggior stimolatore dellʼescrezione urinaria di
citrati, che è un inibitore della formazione di
calcoli di calcio (Demigne et al., 2004; Marangella
et al., 2004). Lʼingestione di alcali come citrato di
potassio e magnesio ha ridotto il rischio di
formazione di calcoli renali in uno studio
controllato randomizzato in un periodo di 3 anni
(Ettinger et al., 1997).
Il contenuto alcalino e la ricchezza di potassio in
frutta e verdura sono positivamente correlati a
una ridotta escrezione di calcio, salute delle ossa
e ridotto rischio di formazione di calcoli renali in
soggetti ad alto rischio.
Le diete HP sono state anche accusate di
costituire un ambiente favorevole a colacoli
renali e patologie renali per causare lʼaumento
degli acidi e dellʼescrezione di calcio, ma non
sono stati trovati effetti negativi di diete HP sui
reni in soggetti sani, e le diete HP potrebbero
essere deleterie solo in pazienti con funzioni
renali preesistenti. Ad ogni modo, diete HP sono
spesso caratterizzate dallʼavere bassi apporti di
frutta e verdura, che si sono già dimostrati
essere benefici per la salute delle ossa e la
funzione renale. Di conseguenza, per valutare gli
effetti degli introiti dietetici sul bilancio del
calcio, salute delle ossa e funzionalità renale,
bisogna prendere in considerazione non solo i
nutrienti, ma anche possibili deficit alimentari.
Conclusioni
Sebbene le diete HP inducono un aumento
nellʼescrezione netta di acidi e di calcio urinario,
non sembrano essere connesse ad uno squilibrio
dellʼomeostasi del calcio e non ci sono dati clinici
a supporto dellʼipotesi di un effetto nocivo delle
diete HP sulla salute delle ossa, eccetto che nel
contesto di un inadeguato apporto di calcio.
Dunque è più probabile che lʼeccessiva
escrezione urinaria di calcio con diete HP non
origini da perdita di calcio osseo ma da un
aumento dellʼassorbimento intestinale.
32
Tab.I
33
Tab.II
34
35
36
Tab.III
37
38
Tabella I - I principali effetti riportati da diete HP sullʼescrezione acida renale in associazione a unʼaumentata
escrezione di calcio urinario, in relazione al tipo e alla quantità di proteine dietetiche
Abbreviazioni: C =caseina; CF = studio a nutrizione controllata (tutto il cibo è stato fornito ai soggetti); CO =
studio crossover
(sia randomizzato che non randomizzato); FE = dieta libera;
FR = documentazione del cibo introdotto; G = gelatina; HP = elevate proteine; LA =lattoalbumina; LP= proteine
basse; RNAE= escrezione acida renale netta; TA= acidi titolabili; WE= albumi in polvere; WG =glutine del grano.
a Cambiamenti nei valori dei parametri a seguito di diete HP sono state comparate a diete LP: il simbolo ↑
indica un aumento dei valori del parametro, il simbolo ↓ indica una diminuzione dei valori del parametro, il
simbolo = indica cambiamenti non significativi dei valori del parametro.
b La differenza nella quantità di proteine in diete HP comparate a diete LP (quantità di proteine in dieta LP vs
quantità di proteine in dieta HP).
Tabella II - Effetti maggiori sul bilancio di calcio, assorbimento intestinale di calcio e escrezione urinaria di
calcio riportati da diete con differenti livelli di proteine
Abbreviazioni: C =caseina; CF=studio a nutrizione controllata (tutto il cibo è stato fornito ai soggetti); CO=
studio crossover (sia randomizzato che non randomizzato); FE=dieta libera; FR=documentazione del cibo
introdotto; G=gelatina; HP=elevate proteine; LA=lattoalbumina; LP=proteine basse; RNAE=escrezione acida
renale netta; TA=acidi titolabili; WE=albumi in polvere; WG=glutine del grano; il simbolo ? indica che
lʼinformazione non è data nellʼarticolo.
a Stimato come bilancio di Ca in dieta HP - Bilancio di Ca in dieta LP; <0 indica bilancio negativo di Ca in dieta
HP.
b = indica che il livello di introito di calcio o fosforo è mantenuto costante attraverso i livelli proteici con
supplementazione; > indica aumentati livelli di introito di calcio o fosforo con dieta HP.
c Livelli più bassi e più alti di intake proteico sono riportati se >2 livelli di intake proteico sono stati investigati.
d Risultati dallo stesso studio, con due differenti livelli di introito di fosforo
e Risultati dallo stesso studio, con tipi differenti di supplementazione proteica
f Risultati dallo stesso studio, con due differenti tipi di supplementazione proteica (animale e vegetale)
g Risultati dallo stesso studio, con due differenti livelli di introito di calcio
Tabella III - Effetti principali riportati in diete HP riguardo la gestione renale di calcio
Abbreviazioni: CF = studio a nutrizione controllata (tutto il cibo è stato fornito ai soggetti); CO=studio crossover (sia randomizzato che non randomizzato); fact. = studio fattoriale; FTR=riassorbimento tubolare
frazionato; GFR = tasso di filtrazione glomerulare; HP = alte proteine; LP = basse proteine; NS = cambiamenti
non significativi; ? indica che lʼinformazione non è presente nellʼarticolo.
a Cambiamenti in HP comparati con LP (valore nella dieta HP - valore nella dieta LP).
b = indica che il livello di introito di calcio è stato mantenuto costante attraverso i livelli di proteine con
supplementazione; > indica livelli più elevati di introito di calcio o fosforo con la dieta HP.
c Risultati da studi senza valutazione del FTR.
d Caseina, lattoalbumina, glutine di grano, albumi in polvere addizionati alla dieta HP per raggiungere elevati
livelli di intake proteico
39
Tab.IV
40
Tabella IV –
Risultati controversi riguardo lʼeffetto delle diete HP sul metabolismo del calcio e riassorbimento osseo
Abbreviazioni: b-ALP = fosfatasi alcalina osso-specifica; CF = studio a nutrizione controllata (tutto il cibo è stato
fornito ai soggetti); CO= studio cross-over; DPD=deossipiridinolina; FE= dieta libera; HP= alte proteine;
HYP=idrossiprolina; LP=basse proteine; IGF-1 = fattore-1 di crescita insulino-simile; NTX= telopeptide N-terminale;
PR= studio randomizzato in parallelo; PTH=ormone paratiroideo; OC=osteocalcina; 1.25-OH2-D =
1.25
diidrossicolecalciferolo.
a Cambiamenti nei valori presi come parametro in diete HP comparate a diete LP: ↑ indica un aumento dei valori
dei parametri, ↓ indica una diminuzione dei valori dei parametri, = indica cambiamenti non significati nei valori dei
parametri.
b Cambiamenti in diete HP comparate a diete LP (valori in diete HP - valori in diete LP).
c = indica che i livelli dellʼintake di calcio sono mantenuti costanti attraverso i livelli proteici con supplementazione;
> indica più alti livelli di intake di calcio o fosforo con diete HP.
41
Tabella 5 - I principali effetti di elevati introiti di frutta e verdura e di potassio nei confronti del calcio e
dellʼequilibrio acidobase, delle ossa e della salute renale
Effetti di una dieta ricca in frutta e verdura :
SULLA SALUTE DELLE OSSA
• Associazione positiva tra intake di frutta e verdura e BMD e massa ossea
New et al. (1997); Tucker et al. (1999); New et al. (2000); Tucker et al. (2001); New (2003); Hardcastle et al. (2011)
• Attività inibitoria della verdura sul riassorbimento osseo
→ Non mediato da un eccesso di basi: composti farmacologicamente attivi? Effetto delo stesso K ?
Muhlbauer et al. (2002)
SULLA SALUTE RENALE
• Correlazione positiva tra diete ad elevato intake di frutta, vegetali, cereali integrali, noci e prodotti caseari e
basso intake di carne rossa e processata (ovvero, basso indice PRAL) e maggiore escrezione urinaria di citrati
→ Riduzione del rischio di calcoli
→ Effetto benefico di frutta e vegetali sulle ossa e sulla salute renale: effetto di un eccesso di basi e/o della
composizione di nutrienti (K)
Trinchieri et al. (2006); Taylor et al. (2010)
Effetto del potassio
SULLʼEQUILIBRIO DI CALCIO:
• Riduzione dellʼescrezione urinaria di Ca e bilancio di Ca positivo nella somministrazione a breve termine di
KHCO3 in adulti sani
Lemann et al. (1989); Lemann et al. (1993); Sebastian et al. (1994); Whiting et al. (1997)
• Nessun effetto sistemico sulla somministrazione a breve termine di NaHCO3 sullʼescrezione
sull escrezione urinaria di Ca
→ Possibile effetto dello stesso K e non solo di bicarbonato di K
Lutz (1984); Lemann et al. (1989)
• K dietetico è associato a escrezione urinaria di Ca, ma senza alcun effetto sul bilancio di Ca; lʼassorbimento
intestinale di Ca è ridotto
→ Effetti differenti dipendono dalla sorgente di K
Rafferty et al. (2005)
SULLA SALUTE DELLE OSSA
• Associazione positiva tra alti intake di K e BMD e massa ossea
New et al. (1997); Tucker et al. (1999); New et al. (2000); Tucker et al. (2001)
SULLA SALUTE RENALE
• Prevenzione di calcoli di ossato di calcio con la supplementazione di citrato di potassio-magnesio in pazienti ad
alto rischio
Ettinger et al. (1997); Zerwekh et al. (2007)
Possibili meccanismi del K
• Effetti sul bilancio di calcio
→ Stimolazione della capacità di riassorbimento renale di fosfati, che porta a più basse concentrazioni sieriche di
1.25- diidrossicolecalciferolo e conseguente diminuzione dellʼassorbimento intestinale di Ca
Jaeger et al. (1983); Rafferty and Heaney (2008)
42
• Effetto sul bilancio acido-base
→ Neutralizzazione dellʼeccesso di ioni solfato fornita dagli acidi amino-solfurici
Markovich et al. (1999)
→ Modulazione di diversi processi attivati dallʼacidosi
Caudarella et al. (2003); Tosukhowong et al. (2005)
• Effetto sulla formazione di calcoli
→ Effetto positivo sullʼescrezione di citrati
Marangella et al. (2004); Demigne et al. (2004)
→ Modulazione di vari processi attivati dallʼacidosi
Caudarella et al. (2003); Tosukhowong et al. (2005)
Abbreviazioni: BMD, densità minerale ossea; PRAL, potenziale carico acido renale
Bibliografia
43
44
45
46
Una dieta con elevate quantità di proteine della carne e potenziale
carico acido renale aumenta l’assorbimento parziale di calcio e
l’escrezione urinaria di calcio senza influenzare i markers del
riassorbimento o della formazione ossea in donne in menopausa.
a cura di Vincenzo Tortora
Anche se essenziale per la salute delle ossa,
l’apporto proteico, specialmente da fonti
animali, in grandi quantità è stato considerato un
fattore di rischio per l’osteoporosi o le fratture
(1-4) per l’aumento dell’escrezione urinaria di
calcio (Ca) risultate dall’acidosi metabolica
indotta dal metabolismo proteico (5-8).
Comunque, contrariamente all’ipotesi che un
elevato apporto proteico infici la salute ossea,
molte osservazioni epidemiologiche correlano
un elevato apporto proteico con l’anabolismo
del tessuto osseo, inclusa un’associazione con
un’aumentata densità minerale ossea o
diminuito rischio di fratture (9-14), con poche
evidenze che indicano associazioni negative (15,
16). I risultati di trial ben controllati condotti su
esseri umani con isotopi del Ca mostrano che un
apporto
proteico
elevato
aumenta
l’assorbimento di Ca (17-20). Se questo aumento
nell’assorbimento intestinale di Ca possa
sopprimere l’ipercalciuria in una dieta con una
grande differenza nel carico acido non è ancora
chiaro. Inoltre, il riportato effetto deleterio di
una dieta iperproteica sul tessuto osseo può
dipendere da altri fattori, come l’apporto di
calcio (20). Le nostre precedenti ricerche sul
fatto che diete con elevata vs. bassa quantità di
proteine animali non avessero effetti avversi
sulla ritenzione di 47Ca o sull’induzione di
calciurea (17) erano opinabili per la piccola
differenza relativa (~32 mEq/d) nel potenziale
carico acido renale (PRAL) tra le due diete (21). Il
PRAL, come misura del carico acido-base dei cibi,
può essere utilizzato per stimare l’escrezione
acida renale netta (22-24). Dunque, lo scopo di
questo studio con controllo dell’alimentazione
era investigare come l’assorbimento e la
ritenzione di Ca e l’escrezione urinaria di Ca fosse
influenzata da diete con elevati vs. bassi apporti
di proteine animali con differenze sostanziali nel
PRAL, col più basso e più alto quintile di PRAL
come stimato in recenti studi incrociati (25).
I soggetti dello studio erano donne sane, non
fumatrici, in menopausa , reclutate attraverso
annunci pubblici e televisivi, radiofonici, stampati
e su internet. Le donne erano selezionate per
partecipare se soddisfavano i seguenti criteri di
selezione: 40-75 aa di età; almeno 3 aa dall’ultima
mestruazione; ormone follicolo-stimolante > 40
IU/L; BMI entro il 5° e 95° percentile secondo
l’età; nessuna patologia apparente determinata
tramite esami di screening fisici e del sangue
(funzionalità tiroidea, epatica, cardiaca e renale
normali); e nessun segno di osteoporosi come
indicato dal punteggio T sulla densità minerale
ossea < o = a -2.5 per la regione del collo del
femore o per l’intera regione vertebrale (L1-L4)
determinate tramite assorbimetria a raggi X a
doppia energia (Hologic Delphi QDR); no uso
usuale di medicazioni; sospensione di qualsiasi
supplemento nutrizionale e medicazione
contenente Ca (e.g. antiacidi con Ca-carbonato)
o qualsiasi medicazione nota per interferire con
il metabolismo del Ca ed osseo per la durata
dello studio; ed accordi per non fare lampade
abbronzanti. Alle partecipanti è stato suggerito
di mantenere il loro normale pattern di sonno,
lavori casalinghi ed attività occupazionali. Le
caratteristiche basali delle partecipanti allo
studio sono mostrate nella tabella 1.
Le donne hanno consumato due diete
sperimentali: bassa in proteine e PRAL (LPLP) o
alta in proteine e PRAL (HPHP). (La
nomenclatura “low-protein” – LP – si riferisce
alla differenza tra le due diete; la dieta LPLP
aveva una quantità di proteine pari a quella
raccomandata.)
47
Le diete sono state fornite in modo casuale per 7
settimane ognuna, con una settimana di
intervallo tra i periodi sperimentali, in cui le diete
non erano controllate (1.5 settimane totali)
(Figura 1). Dopo 3 settimane di modulazione
nutrizionale (e.g. alle settimane 4 ed 11), un
menù di 2 giorni interi di ciascuna dieta è stato
marcato con 47Ca. L’assorbimento di Ca è stato
determinato con scintigrafia del corpo completo
per 4 settimane dopo l’ingestione dei pasti
marcati con isotopo. Campioni di sangue ed
urine sono stati presi a diversi intervalli di tempo
(Figura 1) per valutare gli effetti della dieta sui
biomarkers
del metabolismo osseo e
dell’adattamento renale al carico acido.
Durante i due periodi di dieta di 7 settimane,
tutti gli alimenti e le bevande sono stati forniti
come dieta pesata e controllata con un menù di
due giorni (tabella 1). Le diete erano
programmate in base alle tabelle di
composizione USDA (26). La composizione dei
nutrienti ed i valori di PRAL per le diete sono
mostrati nella tabella 2. I valori di PRAL sono
stati calcolati utilizzando la formula seguente:
PRAL (mEq/d) = (mg P/d X 0.0366) + (g
proteine/d X 0.4888) – (mg K/d X 0.0205) – (mg
Ca/d X 0.0125) – (mg Mg/d X 0.0263) (22). I valori
dei fitati e dei minerali dietetici sono stati
misurati analiticamente. Basandosi sull’introito
calorico medio delle partecipanti di 9.4 MJ (2250
kcal)/d, le diete LPLP e HPHP contenevano circa
61 e 118 g di proteine/d o 0.8 e 1.6 g di
proteine/kg peso corporeo, rispettivamente. Le
differenze nel contenuto proteico sono state
ottenuto primariamente aumentando le porzioni
di carne (principalmente manzo) ottenendo 12 e
68 g di proteine della carne per la LPLP e la
HPHP rispettivamente. Per massimizzare la
differenza in PRAL, paragonata con la dieta
LPLP, la dieta HPHP non solo conteneva elevate
quantità di carne ma anche più derivati del grano
e meno vegetali e frutta ricchi di potassio. In
accordo, la dieta LPLP enfatizzava prodotti a
base di patate e grandi quantità di frutta,
verdura e frutta secca, mentre la dieta HPHP
forniva riso, pasta ed altri derivati del grano e
bassi apporti di frutta e verdura.
Come risultato, le diete LPLP ed HPHP avevano
-48 e 33 mEq di PRAL rispettivamente, per una
differenza di 81 mEq/d.
Il latte scremato era la fonte primaria di calcio
per entrambe le diete (tabella 2). La quantità di
latte era divisa in porzioni uguali ad ogni pasto.
Lo studio è stato condotto nel Grand Forks (circa
48° N), North Dakota, tra la fine di Gennaio e
l’inizio di Maggio. Per stabilizzare i livelli di
vitamina D, ogni partecipante ha ricevuto una
supplementazione giornaliera di 10 mcg di
colecalciferolo partendo da 3 settimane prima di
iniziare le diete controllate e continuando
attraverso tutto lo studio. All’inizio della dieta,
tutte le partecipanti hanno ricevuto in aggiunta
un multivitaminico giornaliero, contenente 10
mcg di colecalciferolo (tabella 2, nota in fondo).
Il latte scremato era inoltre fortificato con
vitamina D, fornendo addizionali 2.5 mcg alla
dieta da 9.4 MJ.
Per mantenere il peso corporeo, gli introiti
calorici sono stati aggiustati cambiando
proporzionalmente le quantità dei cibi. Il caffè, il
tè, le bevande dolcificate artificialmente non a
base di cola (contenenti acidi citrico e non acido
fosforico) e introiti di sale erano personalizzati,
limitati a 2 porzioni totali giornaliere e tenuti
costanti durante lo studio. Il consumo dell’acqua
della condotta cittadina e le gomme da
masticare non sono state controllate, avendo le
analisi indicato un basso contenuto minerale.
Alle donne è stata data una lista di medicazioni
senza obbligo di ricetta approvate, dentifrici ed
adesivi dentali che contenevano minime
quantità di calcio ed altri minerali. Tutti gli
ingredienti della dieta tranne l’acqua sono stati
pesati con un’accuratezza dell’1% e, ove
possibile, comprati da lotti di produzione singoli.
Le partecipanti hanno consumato un pasto (la
colazione) al Centro di Ricerca nei giorni
infrasettimanali e gli altri altrove.
48
Tabella 1. Caratteristiche di base delle partecipanti
Caratteristica
Età (aa)
Peso, kg
BMI
Valori sierici
Ca ionizzato, mmol/L
TRAP, U/L
Creatinina, mcmol/L
C-telopeptide del collagene di tipo I,
pmol/L
PTH, pmol/L
OC, nmol/L
IGF-1, nmol/L
OPG, pmol/L
sRANK, pmol/L
25-idrossicolecalciferolo, nmol/L
Valori urinari
Ca, mmol/die
Mg, mmol/die
P, mmol/die
K, mmol/die
Creatinina, mmol/die
Oxalato, mmol/die
pH
Ammonio, nmol/die
Acidità titolabile, mEq/die
Acidi organici liberi, mEq/die
N-telopeptide, nmol BCE/die
N-telopeptide, nmol BCE/mmol
DPD, nmol/L
Media
56.9
71.4
26.8
SD
3.2
10.1
3.1
1.2
5.1
64.2
10
0.1
0.5
10.6
5
7.1
1.7
16.6
5.5
286
60.5
2.0
1.0
5.9
0.6
174
16.3
4.0
2.9
22
43
5.3
0.32
6.2
28
20
32
201
44
7.5
2.1
1.0
7
16
3.2
0.29
0.4
7
11
6
87
23
2.6
Dopo 3 settimane di riequilibrazione ad ogni
dieta, tutti i pasti del menù di due giorni sono
stati marcati con un totale di 148 kBq (4 mcCi) di
tracciante 47Ca. L’isotopo (con emivita 4.5 giorni)
è stato ottenuto con attivazione neutronica
(Università del Missouri, Columbia, MO) del 47Ca
stabile (come Ca bicarbonato, arricchito al
30.89%; Oak Ridge National Research
Laboratory, TN). Il 47Ca è stato aggiunto al latte
in proporzione al contenuto di Ca di ogni pasto
così che l’attività specifica dell’isotopo
rimanesse costante per ogni pasto. Il latte
marcato è stato fatto decantare per almeno 12 h
prima dell’amministrazione. Tutti i pasti marcati
sono stati consumati sotto la supervisione dei
Ricercatori al centro di ricerca.
La ritenzione di Ca dalla dieta è stata
determinata con un contatore scintigrafico
standard (27, 28). La conta scintigrafica totale è
stata eseguita prima (basale) e 1-3 h dopo il
primo pasto marcato (prima che fosse escreto
l’isotopo), poi due volte ogni settimana per il
resto di ogni protocollo dietetico. I dati della
conta corporea totale sono stati corretti per il
decadimento radioattivo al punto centrale dei
giorni dei pasti marcati. La precisione della
misurazione della conta corporea totale era
dell’1.4%. La ritenzione di 47Ca misurata è
presentata per 21 giorni. (29)
49
I campioni di sangue sono stati presi la mattina a
digiuno alle settimane: zero (prima di iniziare la
dieta), 3, 5 e 7 di ciascun periodo dietetico. Le
donne hanno fornito 2 raccolte di urine delle 24
h consecutivamente durante le settimane 0, 1, 2,
3, 5 e 7 di ogni periodo dietetico per monitorare
l’escrezione renale dell’acido e del Ca e qualsiasi
risposta adattativa al trattamento dietetico. Per
minimizzare la variabilità, i campioni sono stati
conservati e misurati negli stessi gruppi di analisi
per ogni volontario per quei valori che
rimangono stabili se congelati.(30) (31) (32)
(33)(24)
Paragonata con la dieta LPLP, la dieta HPHP
aumentava significativamente la frazione
dell’isotopo di Ca ritenuta dal corpo a 21 giorni
dall’amministrazione dell’isotopo stesso (Tabella
3). Paragonata con la dieta LPLP, la dieta HPHP
aumentava la percentuale del Ca assorbito dalla
dieta (P < 0.05) (Tabella 3). Nonostante un
leggere aumento del contenuto di Ca con la
dieta LPLP (Tabella 2), l’ aumentata efficienza
dell’assorbimento di Ca tendeva ad aumentare la
quantità di Ca assorbita dalla dieta HPHP (P <
0.12) (Tabella 3).
Tabella 2. Composizione in macronutrieni e PRAL delle diete sperimentali
LPLP
HPHP
Proteine, % energia
10
20
Proteine totali, g
61
118
Proteine della carne, g
12
68
Proteine/peso corporeo, g/kg
0.86 +/- 0.08
1.70 +/- 0.21
Grassi, % energia
30
30
Carboidrati, % energia
60
50
Fibra dietetica, g
28
20
Fitati dietetici, mg
661 +/- 11
790 +/- 3
Calcio, mg
907 +/- 55
865 +/- 96
Fosforo, g
1.27 +/- 0.22
1.79 +/- 0.06
Magnesio, mg
387 +/- 10
334 +/- 16
Potassio, g
5.00 +/- 0.11
3.45 +/- 0.12
Sodio, g
3.81 +/- 0.33
3.56 +/- 90.5
PRAL, mEq
-48
33
Note
1. I dati sono valori medi +/- SD, n = 3 per la composizione dietetica dei menù di due giorni, basati
su un introito calorico medio di 9.4 MJ/die.
2. Le proteine, i grassi, i carboidrati e la fibra dietetica sono stati calcolati utilizzando le tabelle di
composizione USDA (26). I fitati, i minerali e gli elettroliti sono stati analizzati come descritto
nel testo.
3. Le diete contenevano supplementazione di vitamina D contenente 10 mcg di colecalciferolo e
multivitaminico con entente vitamina A acetata (1391 mcg), acido ascorbico (170 mg),
colecalciferolo (10 mcg), d-alfa-tocoferolo acetato (13 mg), pirodixina (4.1 mg),
cianocobalamina (13.4 mcg), tiamino (3.4 mg), riboflavina (4.0 mg), niacina (50 mg) e acidi
folico (1172 mcg).
4. Il PRAL è stato calcolato (22) come: PRAL (mEq/die) = (mg P/die X 0.0366) + (g proteine/die X
0.4888) – (mg K/die X 0.0205) – (mg Ca/die X 0.0125) – (mg Mg/die X 0.0263).
50
Tabella 3. Ritenzione ed assorbimento di Ca in donne in menopausa che consumano diete
controllate LPLP o HPHP per 7 settimane ognuna in uno studio crociato.
LPLP
HPHP
SD Interpolato
P
di
21
16.9
19.7
3.8
0.05
Assorbimento, %
22.3
26.5
5.4
0.05
Ca
200
227
46
0.12
Ritenzione
47Ca
a
giorni, %
assorbito,
mg/die
Note.
1. I valori sono medie minime quadratiche e SD interpolati, n = 16
I maggior livelli di proteine dietetiche aumentava
l’escrezione di Ca urinario (P = 0.005) per il
periodo dietetico di 7 settimane (156 vs. 203 +/63 mg/die per la LPLP e la HPHP
rispettivamente). La differenza dieta-correlata
nell’escrezione del Ca urinario era consistente
dalla settimana 1 fino alla 7, senza nessuna
indicazione di adattamento (l’effetto del tempo
e l’interazione tra la dieta ed il tempo non era
significativo [P > 0.4]) (Tabella 4). Assumendo
che l’assorbimento di Ca sia rimasto lo stesso in
tutto lo studio, la differenza netta tra il Ca
assorbito (Tabella 3) e l’escrezione urinaria
(Tabella 4) non differiva tra dieta LPLP ed HPHP
(55 vs. 28 +/- 51 mg/die per la LPLP ed HPHP
rispettivamente, P > 0.05).
Il magnesio urinario era inferiore ed il fosforo
maggiore quando le donne hanno consumato la
dieta HPHP paragonata alla dieta LPLP, il che
riflette il contenuto minerale della dieta (Tabella
4). I trattamenti dietetici non hanno influenzato
l’escrezione di cloro e di sodio (Tabella 4).
La dieta HPHP aumentava significativamente
l’acidità urinaria (Tabella 4) paragonata con la
dieta LPLP. Le donne avevano maggiore
escrezione urinaria di ione ammonio quando
hanno consumato la dieta LPLP (P < 0.0001).
Come risultato, il pH urinario differiva di 1.2 unità
durante i due periodi dietetici (P < 0.0001).
Le differenze nello ione ammonio ed il pH
urinario erano consistenti dalla settimana 1 alla
settimana 7, suggerendo che l’escrezione
urinaria di acidi rispondeva ai trattamenti
dietetici entro le prime settimana senza ulteriori
adattamenti (Tabella 4). La dieta HPHP
aumentava l’escrezione urinaria di creatinina
(Tabella 4) paragonata con la dieta LPLP (P <
0.0001), riflettendo il maggior contenuto
dietetico di carne. I trattamenti dietetici non
avevano effetti significativi sui markers di
riassorbimento osseo, sia su NTX urinario delle
24 h sia su DPD al mattino. La dieta HPHP
riduceva l’escrezione urinaria degli acidi organici
liberi (P < 0.0001) e di ossalati (P = 0.0004)
paragonata con la dieta LPLP, che riflette
probabilmente il maggior contenuto di frutta e
verdura della dieta LPLP.
Paragonata con la dieta LPLP, la dieta HPHP
aumentava le concentrazioni di IGF-1 (P < 0.0001)
e diminuiva le concentrazioni di PTH sierico (P <
0.001) (Tabella 5).
I trattamenti dietetici non influenzavano
significativamente altri biomarkers sierici, come
il Ca ionico, l’ attività della fosfatasi acida
tratrato-resistente (TRAP) , creatinina, la
concentrazione sierica del telopeptite incrociato
carbossiterminale del collagene osseo (CTX),
51
Tabella 4. Escrezioni e concentrazioni urinarie in donne sane in menopausa che consumano diete controllate LPLP ed
HPHP per 7 settimane in uno studio controllato.
Note.
1.
2.
3.
I valori sono medie quadratiche minime ottenute dall’ANCOVA con SD interpolato per le urine delle 24 h
tranne dove indicato, n = 16.
I valori di ogni variabile alla settimana 0 (wk 0) sono utilizzati come covarianze.
Per i dati trasformati logaritmicamente (ossalato, acidi organici liberi e deossipridinolina-DPD), la media
geometrica nelle unità non trasformate è indicata nelle parentesi.
52
l’osteocalcina(OC), l’osteoprotegerina sierica
(OPG) ed sRANKL . Alle partecipanti sono state
fornite supplementazioni di vitamina D prima e
durante lo studio per impedire i possibili
cambiamenti nello stato della vitamina D che
hanno un effetto potenziale di confondere le
misurazioni dell’assorbimento del Ca. Basandosi
sulle misurazioni del 25-idrossicolecalciferolo alle
settimane, 3, 5 e 7 di ogni periodo dietetico, lo
stato della vitamina D delle partecipanti non
cambiava durante lo studio. Per il range risultate
delle
concentrazioni
sieriche
di
25idrossicolecalciferolo (32.5 – 9.5 nmol/L), non
c’erano correlazioni tra questa variabile e
l’assorbimento di Ca (P > 0.05) come valutato
separatamente per ognuno dei due trattamenti
dietetici.
Discussione
In questo studio controllato di 15 settimane, è
stato mostrato che comparata con una dieta
con basse quantità di proteine animali e basso
PRAL, una dieta con elevato contenuto di
proteine
animali
e
PRAL
aumentava
l’assorbimento frazionale di Ca dietetico, che era
approssimativamente compensato da una
aumentata escrezione di Ca.
La quantità di Ca assorbita era maggiore della
quantità urinaria di Ca escreta in entrambe le
diete; questo era un risultato atteso, perché il
contenuto di Ca dietetico in questo studio era
associato con un bilancio di Ca positivo (35).
Relativamente alla dieta LPLP, la dieta HPHP
aumentava l’escrezione urinaria di Ca, risultato
consistente con altre ricerche (18, 20, 36-38).
Paragonata con la dieta LPLP, la dieta HPHP
conteneva 57 g/die di proteine in più e
aumentava l’escrezione urinaria di Ca di 47
mg/die, una quantità simile di proteine di quella
presente in altri studi (18, 39). In uno studio con
simile contenuto proteico a quello del presente
studio, ma con una minore differenza di PRAL tra
le due diete (20), la dieta iperproteica
aumentava l’escrezione urinaria di Ca di soli 23
mg/die. Questo è consistente con la proposta
che il carico acido dietetico piuttosto che le
proteine sia il maggior fattore che contribuisce
all’aumentata escrezione urinaria di Ca.
È stato dimostrato che controbilanciare l’acidosi
con minerali che inducono la formazione di basi
diminuisce l’escrezione urinaria di Ca attribuita
ad un introito proteico elevato (40-43). I dati
sull’assorbimento del Ca e l’escrezione urinaria di
Ca non dovrebbero essere utilizzati come un
indicatore del bilancio corporeo totale di Ca o
mobilizzazione di Ca dalle ossa senza misurare
l’escrezione fecale e/o endogena di Ca. Per
esempio, Kerstetter et al. (18) hanno riportato
che nonostante una dieta iperproteica aumenti
l’escrezione urinaria di Ca, effettivamente
diminuisce la frazione del Ca urinario di origine
ossea. Comunque, l’aumento dell’assorbimento
frazionale di Ca dovuto alla dieta HPHP può aver
parzialmente
compensato
l’aumento
nell’escrezione urinaria di Ca.
La quantità di Ca nelle diete era leggermente al
di sotto della RDA di 1000 mg Ca/die (44) ma più
alta degli introiti tipici delle donne in menopausa
negli Stati Uniti (44) o dei livelli di Ca in studi
simili che investigavano gli effetti delle proteine
sul metabolismo del Ca (17, 18, 20). I 4 punti
percentuali in più nell’assorbimento di Ca
frazionale quando le donne hanno consumato la
dieta HPHP paragonata alla dieta LPLP
contenenti circa 900 mg/die di Ca (Tabella 3) in
questo studio sono paragonabili ad un altro
studio in cui le diete contenevano circa 800
mg/die di Ca (18). Comunque, l’aumento
dell’assorbimento di Ca dovuto alle proteine
dietetiche può dipendere dal contenuto di Ca
della dieta; in uno studio (20), le proteine
dietetiche aumentavano significativamente
l’assorbimento di Ca se la dieta forniva 675 mg
Ca/die, ma non se venivano forniti 1510 mg di
Ca/die. Le proteine possono aumentare
l’assorbimento di Ca aumentando la sua
solubilità nel lume intestinale, mentre alti introiti
di Ca possono saturare i recettori per
l’assorbimento del Ca, limitando l’aumento
indotto dalle proteine (18).
Come ci si aspetta dalla composizione dietetica,
l’acidità titolabile era aumentata con la dieta
HPHP, mentre il pH era diminuito, un risultato
consistente con altri studi (17, 20). Nonostante
ricerche precedenti hanno suggerito un possibile
adattamento dell’acidità urinaria col tempo (17),
53
Tabella 5. Marker biochimici in donne sane in menopausa che consumano diete LPLP o HPHP per 7 settimane
ognuna in uno studio incrociato.
Note.
1.
2.
3.
I valori sono medie quadratiche minime con SD interpolato ottenuto da ANCOVA, n = 16.
I valori di ogni parametro alla settimana 0 (wk 0) sono covarianze.
Per i dati trasformati logaritmicamente, la media geometrica nelle unità non trasformate è indicata
nelle parentesi.
54
nessun adattamento nell’acidità urinaria o
nell’escrezione di Ca è stata osservata in 7
settimane in questo studio.
L’IGF-1 è un potente agente anabolico che
aumenta la formazione di tessuto osseo e la
massa ossea tramite l’aumento del numero e
della proliferazione degli osteoprogenitori (45).
Nello studio presente, la dieta HPHP aumentava
l’IGF-1 di circa il 20% paragonata con la dieta
LPLP, un dato confermato da molti altri studi
(20, 46-49). In maniera simile in alcuni (50, 51),
ma non in tutti (17, 20) gli studi, la
concentrazione
sierica
di
PTH
era
significativamente inferiore quando le donne
hanno consumato la dieta LPLP. Nello studio
presente ed in altri (50, 51), la diminuzione del
PTH sierico può essere stata una normale
risposta
compensatoria
all’aumento
dell’assorbimento di Ca associato con l’introito
proteico, per mantenere livelli di Ca ematici
normali.
Poiché ad ogni partecipante è stata fornita una
supplementazione giornaliera di vitamina D in
aggiunta a multivitaminici contenenti vitamina D
e latte magro fortificato con vitamina D, lo stato
della vitamina D delle donne in questo studio era
nei range normali (52) utilizzando come
indicatore la concentrazione sierica di 25idrossicolecalciferolo. Dunque, lo stato della
vitamina D non dovrebbe essere un fattore che
influenza i nostri ritrovamenti riguardo i dati di
assorbimento del Ca, perché non ci sono state
differenza nello stato della vitamina D tra i due
gruppi.
Lo studio presente non ha rilevato cambiamento
nei
biomarkers
potenziali
dell’attività
osteoclastica, come il TRAP, il CTX e l’sRANKL
ematici ed il DPD urinario, o i biomarker
dell’attività osteoblastica, come l’OPG e l’OC
sierico. I cambiamenti osservati nell’IGF-1 e nel
PTH erano apparentemente insufficienti per
indurre cambiamenti rilevabili nei biomarker
dell’attività degli osteoclasti o degli osteoblasti.
Molte osservazioni epidemiologiche hanno
mostrato che l’introito proteico a lungo termine
è positivamente associato con la densità
minerale ossea (9, 11, 13, 53). Diverse recenti
meta-analisi hanno concluso che le proteine
sono benefiche per la salute ossea (54) e che il
carico acido indotto dalle proteine non
promuove la perdita minerale ossea o
contribuisce allo sviluppo dell’osteoporosi (55,
56). I risultati del presente studio sono in
accordo con questi ritrovamenti.
In conclusione, nelle donne in menopausa, una
dieta elevata in proteine e PRAL aumentava
l’assorbimento di Ca, compensando almeno
parzialmente la maggiore escrezione urinaria.
Non è stato osservato alcun cambiamento nei
biomarkers di riassorbimento o di formazione
ossea, indicando che una dieta iperproteica non
è dannosa. Comunque, l’aumento dell’IGF-1
sierico combinato con la diminuzione del PTH
serico suggerisce che una dieta iperproteica
potrebbe essere vantaggiosa sulla salute ossea.
Letteratura citata
55
56
Vegetarianismo e perdita ossea
a cura di Eleonora Spallotta
Il vegetarianismo è sempre più popolare nelle
società
occidentali.
Recenti
valutazioni
dimostrano che il 3 e il 5% della popolazione
(Gottfredson et al., 2005; Vinnari et al., 2009)
segue una dieta vegetariana, e questa
proporzione sta crescendo nel tempo.
In Asia, se bene non ci sia una statistica ufficiale,
si ritiene che il numero dei vegetariani sia più
alto rispetto ai paesi occidentali. Il
vegetarianismo è visto come uno stile di vita
salutare, perché si pensa che gli individui con la
dieta vegetariana hanno un più basso rischio di
malattie croniche e un più basso rischio di
mortalità rispetto alla popolazione generale,
sebbene la differente mortalità tra i gruppi
vegetariani e non, è una questione controversa
(Chang-Claude et al., 2005; Key et al., 2009a, b).
La salute dell’osso tra i vegetariani è stata
oggetto di preoccupazione per qualche tempo.
Sebbene la densità minerale ossea (BMD) nei
vegetariani, in modo particolare i vegani, è più
bassa rispetto ai non vegetariani (Ho-Pham et
al., 2009a ); il rischio di frattura nei vegetariani
non è differente rispetto a quello dei non
vegetariani (Appleby et al.2007). In uno studio si
è mostrato che i monaci Buddisti rigorosamente
a dieta vegana avevano un BMD simile ai non
vegetariani, malgrado il precedente gruppo
avesse un più basso intake di calcio rispetto
all’altro (Ho-Pham et al., 2009b).
Il BMD in donne post menopausa è somma del
picco di massa ossea (raggiunto tra l’età di 20-30
anni) e la successiva perdita ossea legata all’età
(Riggs et al., 1998). Comunque non ci sono stati
studi longitudinali che valutassero il tasso di
perdita ossea tra i vegetariani. La perdita ossea
deriva da uno squilibrio tra due processi opposti
di formazione ossea e riassorbimento osseo, ma
pochi studi hanno esaminato l’ associazione tra i
markers del turnover osseo e la perdita ossea nei
vegetariani.
Descrizione dell’indagine
Nell’indagine proposta si cerca di stabilire il tasso
di perdita ossea e rischio di frattura, e la loro
associazione con i markers del turnover osseo e
lo stato di vitamina D in un gruppo di vegani e
onnivori in modalità di studio prospettico.
Il contesto dello studio è stata la città di Ho Chi
Minh (in passato Saigon) la più grande città e
centro economico del Vietnam. Lo studio fu
progettato come un’ inchiesta longitudinale la
quale coinvolse 20 monasteri e templi all’interno
della città. I templi erano selezionati in modo
random da 286 templi e monasteri che erano
schedati da un’associazione locale Buddista.
Sono state inviate lettere di invito a ogni
monastero o tempio per invitare le suore di età
superiore ai 50 anni per partecipare allo studio.
57
Successivamente sono state selezionate in
modo random dall’archivio elettorale in ogni
collegio circostante il tempio, famiglie dove c’
erano donne residenti con età di 50 o più anni a
cui viene spedita una lettera di invito. Le donne
ricevevano un check-up gratuito e la misurazione
della densità ossea, ma non ricevevano alcun
incentivo finanziario.
In media, hanno partecipato allo studio tra le 5-6
suore di ogni tempio-monastero. Le suore sono
vegane in senso stretto perché loro provengono
dalla scuola buddista di Mahayana. Le loro diete
non includevano alcun prodotto di origine
animale o marino. Nessuno dei partecipanti
aveva malattie in grado di influenzare l’
osteoporosi (ipertiroidismo, iperparatiroidismo,
problemi renali, sindrome da malassorbimento,
alcolismo, colite cronica , mieloma multiplo,
leucemia e artrite cronica) oppure ha usato in
precedenza terapie che interferiscono con il
metabolismo osseo (per esempio , leparina,
Warfarin, tirosina ed estrogeni). Ogni individuo è
stato esaminato due volte: al basale e alla visita
del follow up. Le misurazioni al basale sono state
prese nell’ Aprile e nell’Agosto del 2008. La visita
di follow up venne realizzata tra Aprile e Luglio
2010.
I dati clinici includono la pressione sanguigna,
l’impulso e la storia riproduttiva (ovvero l’età
del menarca e l’età della menopausa). La storia
medica ossia, le precedenti fratture, il
precedente e il corrente uso delle terapie
farmacologiche, venne
ottenuta da un
questionario standardizzato. La pressione
sanguigna venne presa dopo che tutti i
partecipanti erano stati in una stanza silenziosa
per 5 minuti ed era stata misurata per 3 volte.
Il questionario inoltre richiedeva dati sull’attività
fisica e i fattori dello stile di vita. Le domande
richieste riguardavano il numero medio di ore
giornaliere spese in ognuno dei 5 livelli di attività
basate su un questionario simile. Le 5 attività
erano : attività basale (addormentato o
sdraiato), sedentario (seduto o in piedi), leggera
(camminata qualunque), moderata (giardinaggio
e costruzione) e pesante (sollevamenti o
giardinaggio pesante).
Un fattore intensivo o ponderato basato sul
consumo
approssimativo
di
ossigeno
necessitava per ogni livello di attività di essere
moltiplicato per il numero di ore impegnate in
ogni attività, quali attività basale 1, sedentaria 1.1,
leggera 1.5, moderata 2.4 e pesante 5.
I risultati prodotti per tutte le attività erano poi
sommati per produrre un indice di attività fisica
totale. Alle donne veniva chiesto di riferire la loro
attività presente e passata di fumatrici, l’ uso di
alcool e di caffè. Parametrici antropometrici
ottenuti , includevano l’età, il peso, l’altezza. Il
peso corporeo è stato misurato usando una
bilancia elettronica indossando i vestiti ma senza
scarpe. L’altezza è stata determinata senza
scarpe con uno stadio metro portatile.
L’analisi nutrizionale venne analizzata al basale.
Ai partecipanti venne chiesto di compilare un
questionario strutturato per raccogliere i dati
riguardanti le abitudini alimentari di 2 giorni. Il
questionario include otto items sul cibo in
generale, includendo riso, pesce, carne rossa,
carne bianca, uova, derivati del latte, vegetali e
frutti. Abbiamo usato campioni, cucchiai e
bicchieri di varia taglia per aiutare i partecipanti a
stimare la loro assunzione di cibo. I dati vennero
poi inseriti nel “Eiyokun”, un software specifico
per analizzare i componenti nutrizionali del cibo
Vietnamita. I nutrienti stimati da questo
programma include il totale delle calorie, l’intake
di proteine vegetali e animali, lipidi vegetali e
animali, carboidrati, l’intake nella dieta di calcio,
fosfato, sodio, potassio e magnesio.
La valutazione per le eventuali fratture vertebrali
è stata fatta con raggi X. I raggi X sono stati presi
alle visite iniziali e al follow-up. La classificazione
delle fratture vertebrali attualmente utilizzata è
quella descritta da Genant (Genant et al., 1993).
Il radiologo, una volta diagnosticata la natura
osteoporotica della frattura vertebrale, esegue
una valutazione visiva semiquantitativa dei
radiogrammi del rachide, classificando le altezze
vertebrali in lieve (grado 1) osservando una
riduzione dell’altezza del 20-25% nelle vertebre
anteriori, al centro e/o posteriormente alta;
moderata (grado 2) per una riduzione del 25-40%
e severa (grado 3) per una riduzione maggiore
del 40% .
58
Per la misurazione della densità minerale ossea
( BMD) sono stati presi in esame tramite DEXA il
collo del femore, colonna lombare ( LS) e corpo
intero. La BMD era espressa in g/cm² o in TSCORE, che rappresenta il numero di deviazione
standard dal picco di massa ossea (preso in età
tra i 20 e i 30 anni). Poiché c’era una mancanza
della popolazione di riferimento in BMD in
Vietnam, abbiamo scelto il database Tailandese
di riferimento per determinare il T-Score
(Limpaphayom et al., 2001).Utilizzando i criteri
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Kanis,
2002) , abbiamo classificato le donne in due
gruppi basati sul T-score: quelle con osteoporosi
se il loro T-score era ≤ -2.5, e quelle senza
osteoporosi se il loro T-score era > -2.5.
Per l’analisi biochimica i campioni di sangue
furono presi di mattina (ore 07.00-12.00)dopo un
digiuno notturno di 12 ore. Il siero a digiuno è
stato prelevato per calcio, creatinina, enzimi
epatici, protocollagene di tipo 1 propeptide Nterminale(PINP), telopeptide C-terminale del
collagene di tipo 1 o beta cross laps (β CTX),
ormone paratiroide e 25 idrossivitamina D (25
(OH)D).
All’inizio dell’indagine, 210 donne (105 vegane e
105 onnivore) hanno partecipato allo studio. Due
anni dopo, 181 donne (88 vegane e 93 onnivore)
sono rimaste nello studio. Così, 29 donne
(13%)sono rimaste fuori dallo studio. Le ragioni
dell’ abbandono sono state: la morte (cinque),
non interessate (nove),
immobilità e / o
mancanza di mezzi di trasporto (cinque),
l'emigrazione (quattro) e perse al follow-up
(cinque). Rispetto all’analisi di coorte, il gruppo
perso al follow-up era più vecchio (66 rispetto a
61 anni; p = 0,014) e ha avuto più bassa BMD LS
(0,70 e 0,77 g/cm2, p = 0,014; Tabella 1). Non ci
sono state significative differenze in altre
caratteristiche cliniche tra i due gruppi. Per
l'analisi di coorte (n = 181), non ci sono differenze
significative per quanto riguarda età, peso,
altezza e BMD tra vegani e onnivori. Tuttavia,
rispetto gli onnivori, i vegani avevano un intake
di calcio alimentare, proteine totali e lipidi
significativamente più basso (Tabella 2).
Sebbene la BMD nei vegani è stata leggermente
inferiore rispetto agli onnivori, nessuna delle
differenze erano statisticamente significative
(Tabella 3). Risultati delle analisi dei lipidi hanno
mostrato che i livelli di colesterolo totale dei
vegani erano ~10% (p = 0.006) inferiori rispetto
agli onnivori. Tuttavia, non vi era alcuna
differenza significativa in trigliceridi e leptina tra
vegani e onnivori. Non ci sono state anche
differenze significative nella βCTX e i livelli di
PINP tra vegani e onnivori. I vegani hanno avuto
livelli sierici del 18% più bassi di 25 (OH) D
(P<0.0001) rispetto agli onnivori.
Come previsto, l’ormone paratiroide nei vegani
era più alto rispetto agli onnivori, ma la
differenza raggiunta non è stata statisticamente
significativa (P=0.09).
Tabella 1 Le caratteristiche basali dei partecipanti stratificati per il follow-up
_____________________________________________________________________________________________________
A termine del follow-up
Persi al follow up
P-value
(n = 181)
(n = 29)
_____________________________________________________________________________________________________
I vegani (n,%)
88 (83.8)
17 (16.2)
Onnivori (n,%)
93 (88.6)
12 (11.4)
Età (anni)
61 (9.2)
66 (10.4)
0.014
BMD
della colonna lombare (g/cm2) 0,77 (0,15)
0,70 (0,13)
0,019
BMD
del collo del femore (g/cm2)
0,63 (0,11)
0,59 (0,10)
0,062
Corpo intero BMD (g/cm2)
0,90 (0,11)
0,86 (0,12)
0,074
_____________________________________________________________________________________________________
Abbreviazione: BMD, la densità minerale ossea.
I valori rappresentano la media (Š.D.).
59
Tabella 2 Le caratteristiche basali dei partecipanti stratificati allo stato del follow-up
___________________________________________________________________________________________________________
Vegani (n=88)
Onnivori (n=93)
P-value
___________________________________________________________________________________________________________
Età (anni)
60 (9)
61 (9)
0.617
Durata dieta vegana (anni )a
34 (20, 43)
0
Età menopausa (anni)
48 (4.8)
49 (4.9)
0.103
Età menarca (anni)
15 (2.0)
15.0 (2.1)
0.439
Parità b
0.6 (1.7)
3.0 (2.0)
<0.001
Peso (kg)
53 (9)
54 (6)
0.556
Altezza (cm)
148 (6)
150 (5)
0.164
Body mass index (kg/m2)
24 (3)
24 (3)
0.885
Massa magra (kg)
32.3 (4.7)
32.5 (3.4)
0.721
Massa grassa (kg)
18.7 (5.2)
19.3 (4.4)
0.425
% grasso corporeo
34.6 (5.7)
35.6 (6.4)
0.300
Pressione sistolica (mmHg)
124 (19)
121 (915)
0.373
Pressione diastolica (mmHg)
77 (10)
77 (9)
0.990
Frequenza polso
77 (8)
76 (7)
0.174
Intake di calcio(mg/day)a
300 (182, 432)
590 (420, 763)
<0.0001
Proteine totali(mg/day)a
36 (28, 53)
62 (53, 73)
0.015
Lipidi totali (mg/day)a
21 (15, 32)
35 (28, 46)
<0.0001
Calorie totali (cal/day)a
1093 (870, 1286)
1429 (1246, 1726)
0.0005
Esercizio mattutino (n, %)
67 (76.1)
75 (80.6)
0.461
Assunzione di Caffè (n, %)
26 (29.5)
44 (47.3)
0.025
Uso di alcool (n, %)
0
9 (9.7)
0.011
___________________________________________________________________________________________________________
a Media(25th and 75th percentile). Per le variabili ‘esercizio mattutino’, ‘assunzione di caffè’ e ‘uso di alcool’, i valori sono in
riferimento al numero delle donne e alla percentuale del numero totale del campione per ogni gruppo.
b Venti suore sono state precedentemente sposate e hanno avuto figli prima di diventare suore.
I valori rappresentano la media (s.d.).
Tabella 3 – Valori alla rilevazione basale per BMD, vitamin D, PTH, lipidi e ormoni
___________________________________________________________________________________________________________
Vegani (n=88)
Onnivori (n=93 )
Differenza (95% CI)
P-value
___________________________________________________________________________________________________________
Colonna vertebrale BMD (g/cm2)
0.77 (0.14)
0.79 (0.13)
-0.02 (-0.06, 0.03)
0.401
Osso femoraleBMD (g/cm2)
0.62 (0.14)
0.64 (0.13)
-0.02 (-0.06, 0.02)
0.203
25(OH)D (ng/ml)
26.1 (7.4)
31.6 (6.9)
-5.6 (-7.6, -3.4)
<0.0001
PTH (ng/l)
45.8 (19.4)
40.5 (21.9)
5.3 (-0.8, 11.4)
0.089
Creatinina (mmol/l)
0.81 (0.13)
0.83 (0.13)
-0.015 (-0.053, 0.022)
0.429
Glucosio (mmol/l)
4.94 (1.62)
4.79 (0.89)
0.14 (-0.24, 0.52)
0.455
Trigliceridi (mmol/l)
2.20 (1.44)
1.87 (0.86)
0.33 (-0.02, 0.68)
0.062
Proteina C-reattiva (mg/l)
3.23 (5.71)
2.52 (3.13)
0.71 (-0.63, 2.05)
0.301
Colesterolo totale (mmol/l)
5.10 (1.07)
5.55 (1.10)
-0.45 (-0.77, -0.13)
0.006
Calcio sierico (mmol/l)
1.51 (0.57)
1.22 (0.29)
0.29 (0.16, 0.43)
<0.0001
Leptina(ng/ml)
17.9 (15.4)
16.0 (10.7)
1.9 (-2.0, 5.7)
0.333
bCTX sierico (pg/ml)
486 (251)
476 (226)
10 (-59, 80)
0.774
PINP (ng/ml)
58.5 (25.4)
56.6 (32.8)
1.9 (-6.7, 10.6)
0.657
___________________________________________________________________________________________________________
Abbreviazione: BMD, densità minerale ossea; CI, intervallo di confidenza; PINP, pro collagene di tipo 1 propeptide N-terminale;
PTH, ormone paratiroide; siero bCTX, telo peptide C-terminale del collagene di tipo 1; 25(OH)D, 25-idrossivitamina D.
I valori rappresentano la media (s.d.).
60
Tabella 4 - Prevalenza dello stato vitaminico in vegetariani e non vegetariani
________________________________________________________________________
25(OH)D livello
Vegans
Onnivori
P-value
(ng/ml)
(n=88)
(n=93)
________________________________________________________________________
≤20
24 (27.3)
6 (6.5)
0.0002
≤25
41 (46.6)
15 (16.1)
<0.0001
≤30
64 (72.7)
43 (46.2)
0.0003
≤50
88 (100.0)
91 (97.9)
0.167
________________________________________________________________________
Abbreviazione: 25(OH)D, 25-idrossivitamina D.
I valori riguardano I numeri delle donne e la percentuale specifica del (in parentesi).
Utilizzando i livelli del 25(OH)D <30 ng/ml
(Holick, 2007), la prevalenza della vitamina D era
insufficiente per il 73% dei vegani contro il 46%
degli onnivori (P=0.0003). Utilizzando i livelli del
25 (OH)-D <20 ng/ml (Holick, 2007), la prevalenza
del deficit di vitamina D era del 27% nei vegani,
quattro volte superiore a quella degli onnivori
(6.5%; P=0.0002; Tabella 4).
Riguardo alla variazione per la BMD c’è stato un
cambiamento sito-dipendente. La FN BMD
diminuiva nei vegani (media±s.d., -0.86 ± 3.81
%/anno), ed era leggermente più bassa rispetto
la diminuzione negli onnivori (-1.91±3.45 %/anno;
P=0.08). LS BMD nei vegani mostra un leggero
incremento (0.85±4.94 %/anno), che non era
differente in modo significativo dal tasso
osservato negli onnivori (0.89±3.22 %/anno;
P=0.078; Tabella 5).
L'analisi per età ha rivelato che il calo del FN
BMD aumenta con l'avanzare dell'età, in modo
tale che quelli con età di 70+ anni aveva un
maggior tasso di perdita di massa ossea (-1,03% /
anno) rispetto a quelli di età compresa tra i 60 e
69 anni (- 0,54% / anno). Per LS BMD, il tasso di
variazione è stato anche l'età dipendente: -0,07 %
/ anno tra quelli di età 50-59 anni; 1 % / anno tra
quelli di età 60-69 anni e 1,15% / anno tra quelli di
+ 70 anni di età.
Per quanto riguarda LS, il tasso di variazione
della BMD è risultata significativamente legata
all'età, alla massa magra,alle proteine vegetali, ai
grassi animali e all’uso di corticosteroidi (Tabella
6).
Per quanto riguarda FN, il tasso di cambiamento
rispetto al BMD è stato associato all'avanzare
dell'età, alla massa magra e alla massa grassa, ai
grassi animali e al rapporto proteine animali :
proteine vegetali.
Questi
fattori
hanno
descritto
complessivamente il 9% e il 13% della varianza
rispettivamente al cambiamento nella LS e FN
BMD.
Andando ad osservare l’incidenza delle fratture
durante il periodo di follow-up di 2 anni, 10
donne (5 vegane e 5 onnivore) avevano subito
una nuova frattura vertebrale. Non c’era alcuna
differenza significativa nell'incidenza di fratture
vertebrali tra vegani e onnivori. Ulteriori analisi
hanno rivelato che una storia personale di
precedenti fratture
era associata ad un
aumentato rischio di fratture successive.
Tuttavia, l'impiego di corticosteroidi, la carenza
di vitamina D e osteoporosi non sono stati
associati ad un aumentato rischio di fratture
(Tabella 7).
Discussione
La salute delle ossa nei vegetariani è stato un
argomento di preoccupazione per un po 'di
tempo, perché in media hanno BMD inferiore
rispetto ai non-vegetariani (Craig, 2009;. HoPham et al, 2009a), e un BMD più bassa è un
fattore di rischio per fratture dovute a fragilità
(Kanis, 2002; Nguyen et al., 2005a, 2007b).
61
Tabella 5 - Tasso di variazione (% / anno) della BMD classificata per gruppo
_____________________________________________________________________________________________________________
Vegani (n = 88)
onnivori (n = 93)
Differenza (IC 95%)
P-value
_____________________________________________________________________________________________________________
Età (anni)
61,7 (9,5)
61,6 (9,6)
0,08 (- 2.53, 2.68)
0.954
BMD della colonna lombare (g/cm2) 0,85 (4,94)
0,89 (3,22)
-0.04 (- 1.36, 1.29)
0.958
BMD del collo del femore (g/cm2)
- 0,86 (3,81)
1,91 (3,45)
1,04 (-0.12, 2.21)
0.080
BMD corpo intero (g/cm2)
1,16 (2,38)
1,81 (3,56)
- 0.64 (- 1,63, 0,34)
0,197
_____________________________________________________________________________________________________________
Abbreviazioni: BMD, la densità minerale ossea, IC, intervallo di confidenza.
Tabella 6 - Determinanti di cambiamenti nella densità minerale ossea: analisi di regressione
_________________________________________________________________________________________________________________
Coefficiente di regressione (se)
coefficiente standardizzato
P-value
_________________________________________________________________________________________________________________
BMD lombare della colonna vertebrale (g/cm2)
Età (anni)
Massa magra (kg)
L'uso di corticosteroidi (sì)
Proteine vegetali (mg / giorno)
Grasso vegetale (mg / giorno)
0.105 (0.034)
0.195 (0.074)
- 1.879 (0.813)
- 0.075 (0.035)
0.142 (0.045)
0.235
0.192
- 0.166
- 0.223
0.417
0.002
0.009
0.022
0.036
0.002
BMD del collo femorale (g/cm2)
Età (anni)
-0.072 (0.038)
-0.137
0.051
Massa magra (kg)
0.277 (0.089)
0.234
0.002
Massa grassa (kg)
0.183 (0.075)
0.182
0.016
Grasso animale (kg)
- 0.065 (0.030)
- 0.170
0.028
Proteine animali/proteine vegetali
-0.244 (0.094)
-0.192
0.01
_________________________________________________________________________________________________________________
Abbreviazione: BMD, la densità minerale ossea.
R2 per BMD della colonna lombare: 0,15 e del collo femorale: 0,18
62
Tabella 7 - Fattori di rischio per nuove fratture vertebrali
Fattore di rischio
Numero di
frattura / totale
Tasso di
incidenza (%)
RR (95% CI)
Gruppo
Onnivori
5/93
5.4
1.0
I vegani
5/88
5.7
1.02 (0.54, 1.92)
Frattura precedente
No
3/143
2.1
1.0
Sì
7/38
18.4
8.78 (2.38, 32.4)
Impiego di corticosteroidi
No
7/153
4.6
1.0
Sì
3/28
10.7
2.34 (0.64, 8.52)
Carenza di vitamina D
No
9/151
6.0
1.0
Sì
1/30
3.3
0.56 (0.01, 4.25)
Fascia d'età (anni)
50-59
4/97
4.1
1.0
60-69
3/45
6.7
1.62 (0.38, 6.92)
70+
3/39
7.7
1.87 (0.44 , 7.95)
Osteoporosi
No
7/154
4.5
1.0
Sì
3/27
11.1
2.76 (0.76, 10.0)
___________________________________________________________________________________________________________________
Abbreviazioni: CI, intervallo di confidenza; RR, rischio relativo
Tuttavia, non vi è stato alcuno studio
longitudinale per valutare l'associazione tra il
vegetarianismo e perdita ossea, che è anche un
fattore di rischio per fragilità di frattura (Nguyen
et al., 2005b). In questo studio prospettico, è
stato osservato che il tasso di perdita ossea nelle
FN dei vegani non era diversa da quella nei nonvegetariani. Non c'era neanche una differenza
significativa nell'incidenza di frattura tra i due
gruppi. Questi risultati confermano l'opinione
che il vegetarianismo non eserciti effetti negativi
sulla salute delle ossa.
La perdita ossea dopo la menopausa è un
fenomeno universale. In Popolazioni caucasiche
il tasso di FN perdita ossea varia tra 0,7 e 2 % /
anno (Ensrud et al, 1995;.. Jones et al, 1994). I
risultati di questo studio hanno mostrato che il
tasso di perdita di massa ossea è stata ~1% /
anno, in linea con i risultati precedenti nelle
donne caucasiche (Nguyen et al., 2007a).
Tuttavia, si è constatato che la perdita di BMD è
stata osservata principalmente nell'anca, non al
LS .
In realtà, la BMD LS tendeva ad aumentare con
l'avanzare dell'età, e questo risultato è anche
coerente con dati precedenti per quanto
riguarda le donne caucasiche (Jones et al, 1994.;
Nguyen et al., 2005b). Esiste una incertezza
delle modifiche differenziali della BMD ed è
altamente possibile che l’ aumento di BMD LS è
stata artificialmente indotta da osteofitosi
(Jones et al., 1995), che si trova comunemente in
individui con osteoartrosi. Tuttavia, non è stata
valutata osteofitosi in questo studio, e di
conseguenza non è possibile effettuare
inferenza sulla grandezza dell'effetto osteofitosi
sul cambiamento di BMD LS. Comunque il
presente risultato conferma che BMD al LS non è
una
misura
ideale
per
la
diagnosi
dell'osteoporosi nelle donne in postmenopausa.
Abbiamo trovato effetti significativi relativi
all’assunzione di calcio nella dieta e vitamina D
sulla perdita ossea. L'assunzione di calcio nella
dieta tra i partecipanti di questo studio è stato
relativamente basso, ma non ha avuto effetti
negativi sulla perdita di tessuto osseo.
63
Infatti, l’assunzione alimentare media di calcio
nei vegani è stato solo di 375 mg / die, molto
inferiore alle assunzioni osservate nei nonvegetariani (683 mg /giorno). In entrambi i
gruppi, l'assunzione di calcio nella dieta era ben
sotto il livello raccomandato di 1000 mg / die.
Nondimeno, i bassi livelli di calcio nella dieta non
hanno avuto alcun effetto negativo su BMD o
perdita ossea in entrambi i gruppi, vegetariani e
onnivori. Preoccupante, quasi 3/4 dei vegani
avevano livelli insufficienti di 25 (OH) vit D , più
di un quarto il livello di carenza. Anche se questi
tassi di prevalenza erano significativamente più
alti rispetto ai non-vegetariani, la differenza non
sembra tradursi in effetti negativi sulla densità
ossea o perdita ossea. In effetti,non abbiamo
trovato alcuna correlazione significativa tra 25
(OH) vitD e BMD o cambiamenti nella densità
minerale ossea. Nonostante l'associazione nulla
potrebbe essere attribuito alla dimensione del
campione, agli errori di misura sia di BMD che di
25 (OH) D, e alla durata del follow-up, la scoperta
suggerisce che la vitamina D può avere un
effetto modesto, se presente, sul tasso di
perdita ossea nelle donne in postmenopausa.
I tassi di perdita ossea sono molto variabili tra
individui ed i fattori considerati in questo studio
spiegano una minima parte della varianza. Oltre
l'età, le misure della composizione corporea
(cioè la massa magra e grassa massa) hanno
avuto un effetto 'positivo' sulla perdita ossea,
che sembra suggerire che il mantenimento di un
peso corporeo stabile durante il periodo postmenopausa può essere protettivo contro la
perdita ossea (Nguyen et al., 1998, 2000). È
interessante notare che, i lipidi di origine animale
e il rapporto di proteine animali e vegetali ha
avuto un effetto significativo sulla perdita ossea
al FN. Precedenti studi hanno osservato che una
maggiore assunzione di proteine animali hanno
ridotto il rischio di frattura, ma altri studi hanno
dimostrato che gli individui con una maggiore
assunzione di proteine animali avevano un
maggior tasso di perdita di massa ossea
(Sellmeyer et al., 2001) e un aumento del rischio
di frattura (Feskanich et al., 1996).
D'altra parte, negli anziani, la supplementazione
di proteine possono avere un effetto protettivo
contro la frattura dell'anca (Munger et al, 1999;.
Tylavsky e Anderson, 1988).
Così, i risultati ottenuti in riferimento all’attuale
letteratura suggeriscono che una maggiore
assunzione di proteine animali può avere effetti
negativi sulla salute delle ossa. Questo risultato è
coerente con l'ipotesi che le proteine animali
produce una grande quantità di acido endogeno,
che porta ad aumentare il riassorbimento osseo
(Barzel e Massey, 1998) e ad avere una maggiore
perdita di massa ossea.
La frattura è il risultato finale dell’ osteoporosi.
In questo studio, non è stata riscontrato alcuna
differenza significativa nell’ incidenza di frattura
tra vegani e onnivori. Un precedentemente
grande studio (Appleby et al., 2007) ha rilevato
che, sebbene vegani avevano un rischio
leggermente più elevato di fratture da fragilità
rispetto agli onnivori (rischio relativo 1.3),
qualche vegetariano come gruppo non aveva un
rischio maggiore di fratture rispetto agli
onnivori.
Va notato che in questo studio abbiamo
considerato solo la morfometrica frattura
vertebrale, non qualsiasi tipo di frattura. Inoltre,
la dimensione del campione del presente studio
è modesto e la durata del follow-up è
relativamente breve, e potrebbe non essere
sufficiente a delineare un vero e proprio effetto
di vegani su rischio di frattura.
L’ osso è il risultato netto di due processi opposti
di formazione e riassorbimento. Riassorbimento
osseo e la formazione potrebbero essere
valutati rispettivamente da beta-cross-lap e
PINP. In questo studio, abbiamo scoperto che
non vi era alcuna differenza significativa per
quanto riguarda marcatori tra vegani e onnivori,
e che non vi era alcuna associazione significativa
tra i marcatori e il tasso di perdita ossea. Inoltre,
nessuno dei 2
marcatori era significativo
relativamente al rischio di frattura.
Presi
insieme, questi dati suggeriscono che la dieta
vegana non esercita effetti negativi sul
riassorbimento osseo o formazione ossea.
64
I risultati del presente studio devono essere
interpretati nel contesto dei punti di forza e
debolezza dello studio stesso. Il disegno
prospettico di questo studio consente una
migliore quantificazione della perdita di massa
ossea rispetto ad altri studi trasversali. La
tecnologia DEXA per la misurazione della BMD è
considerata una gold standard per la valutazione
della salute dello scheletro.
Tuttavia, lo studio potrebbe essere sbilanciato
verso il gruppo dei sani, così come coloro che
hanno abbandonato o si sono persi al follow-up
tendevano ad avere BMD inferiore rispetto al
gruppo che ha completato il follow-up.
Si può quindi affermare che il presente studio
può rappresentare un sottovalutazione del tasso
di perdita ossea. La durata di follow-up (per
esempio, 2 anni) può essere adeguato per
valutazione dei cambiamenti nel BMD, ma
potrebbe non essere sufficiente per la
valutazione del rischio di frattura in gran parte a
causa della rarità della frattura nella popolazione
generale. Inoltre, la maggior parte dei
partecipanti provenivano dalle aree urbane, che
non può rappresentare il vero tasso di perdita di
tessuto osseo nella comunità generale.
In sintesi, questo studio prospettico non ha
trovato alcuna significativa differenza nel tasso
di perdita di massa ossea tra i vegani e onnivori.
Anche se i vegani hanno avuto una più alta
prevalenza di carenza di vitamina D e più bassi
introiti di calcio nella dieta rispetto agli onnivori, i
due fattori non sono stati associati con la perdita
ossea. Un elevato apporto di proteine animali e
di lipidi può aumentare il tasso di perdita ossea
nelle donne in post-menopausa.
Bibliografia
65
66
Espressione genica della via di segnalazione dell’mTOR e
dell’ubiquitina-proteasoma nel mantenimento della massa magra a
seguito di perdita di peso con dieta iperproteica ipocalorica
a cura di Vincenzo Tortora
La restrizione calorica è uno dei più efficaci modi
per promuovere la perdita di peso ed è noto che
attivi vie metaboliche protettive. Assieme alla
perdita di peso sono frequentemente riportate
conseguenze indesiderate di perdita della massa
magra (tessuto muscolare magro). Le diete
ipocaloriche con aumentato introito proteico
sono popolari e possono fornire benefici
aggiuntivi attraverso il mantenimento della
massa magra, paragonate ad una dieta
normoproteica iperglucidcica. Comunque, il
meccanismo preciso con cui una dieta
iperproteica può mitigare la perdita di massa
magra indotta da una dieta per la perdita di peso
non è stato completamente chiarito. Il
mantenimento della massa magra dipende dalla
stimolazione della sintesi proteica tramite il
complesso mTOR, anche se durante la
restrizione calorica una diminuzione del tessuto
muscolare (atrofia) può conseguire ad uno shift
omeostatico a favore del catabolismo proteico.
Questa review descrive la relazione tra la
composizione in macronutrienti delle diete
ipocaloriche e la perdita di peso utilizzando
indicatori
metabolici.
Specificatamente
valutiamo gli effetti di un aumentato introito
proteico
e
della
restrizione
calorica
sull’espressione genica nel muscolo scheletrico,
con particolare riguardo alla biosintesi,
degradazione ed espressione dei geni nella via di
segnalazione ubiquitina-proteasoma ed mTOR,
inclusi MuRF-1, MAFbx/atrogina-1, mTORC1 ed
S6K1.
La strategia principale attuale per il trattamento
dell’obesità (BMI ≥30 kg/m2) è il consumo di una
dieta low-fat (<30% dell’energia totale) a ridotto
introito calorico e l’attuazione di un aumento
nell’attività fisica con lo scopo di creare un
bilancio energetico negativo. Negli individui
sovrappeso od obesi, anche una modesta
riduzione di peso (5 kg) può avere benefici
significativi sulla salute, incluso il miglioramento
della sensibilità insulinica (1), della funzione delle
isole pancreatiche beta (2), del controllo
glicemico, della pressione sanguigna (3) e dei
markers del danno ossidativo cellulare (4).
Comunque, durante la perdita di peso indotta
dalla modificazione dello stile di vita, la perdita
della massa magra (FFM) metabolicamente
attiva è una indesiderata conseguenza
frequentemente riportata (5). L’emergente
evidenza suggerisce che un elevato rapporto
proteine/carboidrati in una dieta low-fat con
restrizione calorica (CR) può mitigare le riduzioni
nella FFM durante la perdita di peso attraverso
l’aumento della sintesi proteica muscolare e/o la
riduzione del catabolismo proteico, migliorando
dunque il bilancio proteico muscolare netto (6).
Il meccanismo preciso attraverso cui un
aumentato introito proteico può mitigare la
perdita di massa magra indotta dalla perdita di
peso non è stato completamente chiarito. In
condizioni eucaloriche la continua degradazione
delle proteine che avviene negli organi e tessuti
vitali è rimpiazzata nello stato post-prandiale
tramite il rifornimento di aminoacidi derivanti
primariamente dalla componente della FFM che
costituisce il muscolo scheletrico (7).
67
Al contrario, nello stato post-prandiale, le
proteine muscolari sono ripristinate attraverso
l’aumento della sintesi proteica muscolare
stimolato dall’alimentazione, processo che
avviene quasi esclusivamente per via delle
proteine che costituiscono gli alimenti ingeriti
(8). Una volta che i fabbisogni per un adeguato
substrato in grado di ripristinare le proteine
muscolari sono superati, la risposta proteica
indotta dall’alimentazione è inibita (9).
Assumendo un adeguato apporto proteico, la
crescita delle proteine muscolari che avviene
durante lo stato alimentato bilancia la perdita di
proteine muscolari che avviene nella fase post
assorbitiva permettendo giorno dopo giorno alla
massa muscolare scheletrica di rimanere
relativamente costante (7, 10). Comunque,
l’eccessivo introito nutrizionale di aminoacidi e
glucosio, oltre il fabbisogno organico per
mantenere l’omeostasi e la produzione
energetica per i processi cellulari, porta alla
resistenza insulinica nel muscolo scheletrico
tramite una disregolazione della via di
segnalazione dell’insulina e potenzialmente
promuovendo il catabolismo proteico (11, 12).
La riduzione della FFM che tipicamente avviene
durante la perdita di peso indotta dalla
restrizione calorica (CR) implica anche un
bilancio proteico negativo netto nel muscolo
scheletrico. Ci sono numerosi plausibili
meccanismi, molti dei quali mediati dalle
proteine dietetiche, che possono fornire alcune
spiegazioni per il bilancio proteico negativo
netto. Questi includono un aumentato tasso di
catabolismo delle proteine muscolari in risposta
alla restrizione calorica tramite la sovra
regolazione degli enzimi del catabolismo
proteico (13, 14); un’inadeguato introito di
proteine per pasto e conseguentemente un
ridotto tasso massimale post-prandiale di sintesi
proteica muscolare (8, 15); una ridotta
ingestione di numero di pasti/proteine durante il
giorno e conseguentemente un ridotto numero
di intervalli di tempo ad elevata sintesi proteica
muscolare (16, 17); e/o un ridotto tasso di sintesi
proteica post-prandiale associata al tipo/qualità
di proteine che sono ingerite (18, 19).
Anche se probabilmente un aumentato introito
di proteine dietetiche durante la CR mitiga le
riduzioni della FFM tramite uno o più di questi
meccanismi, sono richiesti successivi trial clinici
randomizzati e ben controllati per investigare il
contributo di ognuno di questi fattori e se esiste
una configurazione dietetica ottimale che può
completamente preservare la perdita di FFM.
Questa review valuta le attuali evidenze
suggerendo che un aumentato apporto proteico
dalla dieta durante la perdita di peso indotta
dalla CR può mitigare la riduzione della FFM nelle
persone sovrappeso ed obese tramite la
diminuzione del catabolismo proteico ed il
miglioramento dei fattori metabolici, quando
paragonato a dieta con quantità di proteine
standard, iperglucidiche ed ipocaloriche. I
meccanismi principali sono discussi con riguardo
alla via di segnalazione dell’ubiquitinaproteasoma e del target della rapamicina nei
mammiferi (mTOR) e la loro associazione con la
CR e la ritenzione della FFM.
Una dieta iperproteica ipocalorica è tipicamente
considerata essere costituita da circa il 30%
dell’energia giornaliera totale dalle proteine, il
40% dai carboidrati ed il 30% dai grassi, con
introito calorico di circa 6000 kj/die (1400 kcal)
per le donne e 7000 kj/die (1600 kcal) per gli
uomini. Una dieta con introito proteico standard
e carboidrati elevati è tipicamente costituita dal
15% dell’energia totale derivante da proteine, il
55% dai carboidrati ed il 30% dai grassi.
È stato dimostrato che una dieta alta in proteine,
bassa in grassi paragonata ad una dieta ad alti
carboidrati, con proteine standard, ipocalorica,
risulta in una perdita di peso maggiore (20-25) e
vantaggi metabolici (maggior riduzione nel
colesterolo totale e nei trigliceridi negli uomini
[26, 27] e ridotta perdita di FFM nelle donne [2831]) (tabella 1).
Comunque, c’è anche un numero di studi che
non hanno mostrato differenze nella perdita di
peso totale (28, 30, 32-34) o la ritenzione di FFM
(22, 23, 35-37) quando regimi ipocalorici
iperproteici sono stati paragonati ad una dieta
elevata in carboidrati.
68
Tabella 1 - Cambiamenti (Δ) nella massa magra (FFM), massa grassa e peso corporeo totale ± errore standard della media in
donne da studi precedenti che hanno esaminato gli effetti di un aumentato introito calorico e della perdita di peso sulla
composizione corporea (Farnsworth et al. [28]; Lucombe-Marsh et al. [65]; Noakes et al. [5]; Layman et al. [29]; Piatti et al.,
1994 [31]).
† Dati da studi effettuati solo su donne
** Indica una significativa ritenzione della massa magra nel gruppo a dieta dieta HP (iperproteica); * indica una tendenza.
Esistono
ulteriori
evidenze
apportando
confusione in quanto mostrano una maggior
perdita di FFM in uomini iperinsulinemici a
seguito di una dieta iperproteica paragonata con
una con introito proteico standard (38).
Comunque, questa perdita è stata solo di 0.9 kg
e gli autori hanno concluso che i soggetti
normoinsulinemici sembrano avere riduzioni del
peso migliori, minor abbassamento della spesa
energetica e normalizzazione dei livelli di insulina
in una dieta iperproteica paragonata ad una
dieta isocalorica iperglucidica.
Un aumentato effetto termogenico può dare
alle diete iperproteiche un vantaggio metabolico
rispetto alle diete iperglucidiche. È stato
dimostrato che le proteine dietetiche hanno un
significativo maggiore effetto sulla termogenesi
basale (rispetto a carboidrati e grassi) (39, 40)
ed il turnover di azoto è aumentato (indicando
che la sintesi proteica è elevata) (39). In studi in
condizioni eucaloriche, nel breve termine (3
mesi) l’aumento dell’introito dietetico di
proteine diminuiva significativamente il grasso
corporeo e preservava la massa magra nei
partecipanti magri sani( 41).
Comunque, è stato trovato che un elevato
apporto proteico (>1.8 g/kg die) a lungo termine
in soggetti a cui era appena stato diagnosticato
diabete mellito (DM) insulino-dipendente e
soggetti sani, aumenta le concentrazioni di
insulina plasmatica e diminuisce l’ossidazione di
glucosio risultando in uno stato di resistenza
insulinica ed intolleranza al glucosio ma questi
sono stati piccoli studi osservazionali e non
interventi controllati (42, 43).
Anche se gli studi osservano unanimamente
benefici favorevoli della restrizione calorica nel
ridurre il peso corporeo e della massa grassa,
una complicazione che si associa ai risultati è la
riduzione della FFM (atrofia muscolare)
frequentemente riportata (5, 44). La FFM è la
maggiore determinate del tasso metabolico
basale (RMR) (45), il che suggerisce che una
diminuzione nella FFM potrebbe diminuire i
progressi di perdita di peso e può predisporre al
riacquisto del peso (46, 47). Inoltre, la perdita di
FFM non è generalmente recuperata in modo
completo nei soggetti che riacquistano peso,
predispondendoli all’insorgenza della “obesità
sarcopenica” (48).
69
Nelle donne, la perdita della performance
muscolare è stata osservata in associazione
dell’insorgenza della menopausa, aumentando la
loro vulnerabilità alla sarcopenia, paragonate
con uomini della stessa età (49). La perdita della
FFM può anche avere effetti peggiorativi nelle
persone anziane in cui l’aumentata perdita
muscolare si correla negativamente con la
capacità funzionale minima per l’autosufficienza
(50).
L’atrofia del muscolo scheletrico, causata da uno
sbilanciamento della sintesi e del catabolismo
proteico, è facilmente osservabile in condizioni
come il diabete non controllato, la cachessia
indotta da tumori, danni al midollo spinale e
scarsa attività muscolare. Una review sulle
proteine dietetiche per l’atrofia muscolare nella
cachessia effettuata da Op den Kamp et al. (51),
ha trovato che la supplementazione con
proteine dietetiche (>1.5 g/kg die) da sola o in
combinazione con l’esercizio fisico mantiene o
addirittura migliora la massa muscolare in questi
pazienti. Inoltre, è stato dimostrato che la
supplementazione di proteine (30 g/die) durante
il mantenimento del peso limiti il riacquisto del
peso perso durante il dimagrimento (52).
I meccanismi attraverso cui un aumentato
apporto proteico mitighi la riduzione della FFM
indotta dalla perdita di peso, come indicato in
alcuni studi, può essere spiegata dall’esame delle
vie molecolari coinvolte nel controllo della
sintesi proteica muscolare (ipertrofia) e del
catabolismo (atrofia). Il fattore di crescita
insulino simile-1 (IGF-1) e PKB/Akt sembrano
giocare un ruolo chiave come target centrali
nella via di sintesi (53) e degradazione proteica
(54). Gli aminoacidi e l’insulina attivano la sintesi
proteica muscolare tramite una proteina chinasi
formata da un complesso serina-treonina,
tramite la via del target della rapamicina nei
mammiferi (mTOR) (figura 1A), col risultato di
aumentare la crescita della massa cellulare (55).
È stato dimostrato che una sovrabbondanza di
nutrienti, in particolare l’aumento dei grassi e
degli
aminoacidi
circolanti,
causi
la
compensazione delle cellule beta-pancreatiche e
l’aumentata attivazione dell’mTOR che può
portare alla resistenza insulinica nei tessuti
periferici responsivi all’insulina (56).
Oltre
alla
disregolazione
dell’omeostasi
glicemica, un alterato segnale insulinico nel
muscolo contribuisce alla perdita muscolare
osservata
nell’obesità,
promuovendo
il
catabolismo proteico tramite l’espressione delle
ubiquitina-ligasi e quindi fornendo una possibile
spiegazione del perché un’alta attività dell’mTOR
nei muscoli delle persone obese e dei topi obesi
non provoca ipertrofia muscolare (11). Gli
individui con DM di tipo 2 possono inoltre avere
alterata sintesi proteica mediata dall’insulina (57,
58) perché il segnale degli aminoacidi al
complesso 1 dell’mTOR (mTORC1) richiede la
stimolazione contemporanea dell’insulina (59),
che genera un loop a feedback negativo sulle
proteine substrato del recettore insulinico (56).
Questo è diverso in adulti più anziani (>65 anni)
dove un’attenuata risposta alla sintesi proteica è
stata osservata, rispetto a giovani adulti (<30
anni) a seguito di esercizi contro resistenza (60),
indicando che gli anziani possono avere alterata
abilità di rispondere allo stimolo anabolico
proteico che risulta in una disregolazione acuta
di questa via di segnalazione (61). Una carenza di
nutrienti (i.e. il digiuno e possibilmente la CR) è
stata proposta come attivatrice della chinasi
attivata dall’adenosina monofosfato (AMPK) e
della deacetilasi nicotinammide adenina
dinucleotide (NAD+)-dipendente, come SIRT1
(Sirtuina 1), che sopprime la via dell’mTOR (62).
C’è una forte indicazione che la disregolazione
del segnale dell’mTOR, e quindi la ridotta abilità
di mantenere la sintesi proteica, avvenga
all’inizio della traduzione, perché i soggetti
anziani presentano più bassa fosforilazione della
chinasi ribosomiale p70S6 1 (p70S6K1) ed
attenuata attività delle chinasi regolate dal
segnale extracellulare 1 e 2 (ERK1/2) e della via di
segnale della chinasi attivante la proteina chinasi
attivata da mitogeni 1 (MNK1), paragonati a
soggetti più giovani a seguito dell’esercizio con
stessa intensità relativa (63).
La sovrabbondanza di nutrienti, in particolare
diete ad alto contenuto di grassi, possono
ridurre la capacità delle leptina e dell’insulina di
promuovere l’attività dell’mTORC1 e di ridurre
l’introito alimentare (11), indicando che la qualità
70
71
Figura 1A. Rappresentazione schematica che raffigura la via di sintesi proteica nel muscolo scheletrico, che
coinvolge il complesso 1 del target della rapamicina nei mammiferi (mTORC1). L’insulina, gli aminoacidi (inclusa
la leucina) iniziano l’attivazione di una cascata di proteina e lipido chinasi risultando in ultima istanza in
aumentata attività dell’mTOR, che facilita la fosforilazione di S6K1 e l’iper-fosforilazione di 4E-BP, con il risultato
di un’aumentata disponibilità di eIF4E per legare eIF4G e formare un complesso attivo eIF4F che risulta in
un’aumentata sintesi proteica (adattato, Layman [88], Anthony et al. [89], Drummond et al. [61], Um et al. [98]
e Kimball [90, 93].
Figura 1B. Il meccanismo proposto in cui una dieta iperproteica ipocalorica aumenta la via di attivazione
dell’IGF-1 PI3K/Akt, fosforilando dunque (P) i fattori di trascrizione FoxO e sotto regolando l’espressione degli
enzimi E3 atrogina-1 e MuRF-1, portando alla riduzione della degradazione proteica nel cellule muscolari
scheletriche. È stato proposto che PGC-1 alfa, SIRT1 ed AMPK inibiscano l’espressione dei fattori di trascrizione
FoxO e dunque sopprimano il catabolismo proteico (adattato, Lecker et al. [70], Bodine et al. [99], Anthony et
al. [89] e Blagosklonny et al. [62]. Le linee tratteggiate raffigurano un’interazione con un meccanismo non
conosciuto. Le linee rosse indicano un segnale inibitorio sulla via.
Figura 1C. Sommario degli eventi di biosintesi e degradazione proteica seguendo una dieta con quantità di
proteine standard, alti carboidrati, paragonata ad una dieta iperproteica ipocalorica.
della dieta, piuttosto che l’età, può essere un
fattore che influisce sulla nostra abilità di
mantenere la sintesi proteica.
Altri non hanno trovato alterazioni nei livelli di
proteine dell’IRS-1, dell’mTOR o del p70S6K nel
muscolo scheletrico in gruppi di obesi e di
diabetici di tipo 2 e sono stati riportati ridotti
trasportatori del Sistema L, famiglia carrier dei
trasportatori degli aminoacidi 43, membro 2
(LAT4) e famiglia carrier dei trasportatori 3,
attivatrice del trasporto degli aminoacidi dibasici
e neutri, membro 2 (CD98hc) nel gruppo con DM
di tipo 2 (64).
Numerosi studi hanno mostrato che le donne
tendono a perdere meno FFM (e.g. 0.1 kg
rispetto ad 1.5 kg) con diete iperproteiche e CR,
rispetto a dieta con apporto proteico standard
(Tabella 1) (28, 29, 31, 65), anche se altri non
hanno mostrato differenze significative nella
perdita di peso totale o di grasso tra i gruppi. La
capacità di ritenere FFM per via dell’aumentato
rapporto proteine/carboidrati durante la CR può
essere mediata dall’effetto dell’introito proteico
sulla secrezione insulinica (66) e la proteolisi
(13). La proteolisi avviene principalmente tramite
la via dell’ubiquitina-proteasoma (UPP), che
degrada sia le proteine citosoliche che nucleari
(67), così come le proteine miofibrillari (68), che
costituiscono la maggior parte delle proteine nel
tessuto muscolare dell’adulto (69).
Studi hanno mostrato che durante il digiuno e
possibilmente durante altre condizioni di bassi
livelli di insulina, una riduzione nella sintesi
proteica ed un aumento nella proteolisi
avvengono attraverso la diminuzione della via di
segnalazione del PI3K/Akt (70), perché l’IGF1/insulina bloccano la sovra-regolazione della
trascrizione dei mediatori chiave della atrofia
muscolare (54). L’IGF-1/insulina inibiscono inoltre
l’espressione di due ligasi E3, la proteina
dell’atrofia muscolare F-box (MAFbx/atrogina-1)
e la proteina a motivi a dita di zinco RING
muscolo specifica (71).
Durante la CR, una diminuzione del muscolo
scheletrico (atrofia) può essere guidata da uno
shift omeostatico a favore del catabolismo
proteico, che può avere un impatto significativo
sulla ritenzione della FFM. La degradazione
proteica muscolare è un processo complesso in
cui sono coinvolte le proteasi lisosomiali, le
proteasi Ca2+-dipendenti, le caspasi e le UPP (72).
L’attività autofagica e proteasomica declinano
con l’invecchiamento e possono contribuire alla
perdita di tessuto muscolare correlata all’età (73,
74). Al contrario, evidenze nei roditori
suggeriscono che la CR aumenta l’attività e
l’efficienza di questi processi di controllo della
qualità cellulare attraverso l’impedimento di un
aumento nell’accumulazione dei carbonili
proteici (75), ritardando l’aumento dell’attività
72
chimotripsina-simile
correlato
con
l’invecchiamento, un indicatore dell’attività
proteasomica (76). È stato mostrato che la
stimolazione della proteolisi osservata durante
l’atrofia è dovuta parzialmente all’attivazione
della UPP (77) e quindi questa via può essere di
rilevo nella perdita di FFM durante la perdita di
peso. Nei roditori, la CR ha mostrato diminuire le
concentrazioni di insulina nel plasma e di IFG-1
sierico fino al 40% (78) (rivisitato in [79]), il che
può influire negativamente sul muscolo
scheletrico.
Poiché è stato indicato che l’IGF-1 blocca la
sovraregolazione della trascrizione di un certo
numero di ubiquitina-ligasi (54), una diminuzione
dell’IGF-1 circolante potrebbe risultare in una
sovraregolazione della MAFbx/atrogina-1 e della
MuRF-1 nel muscolo scheletrico, portando ad un
aumentata proteolisi e quindi perdita di FFM.
Negli esseri umani, una severa CR a lungo
termine (1-6 anni) non ha ridotto i livelli di IGF-1.
Comunque, una riduzione nell’introito proteico
(da 1.67 a 0.95 g/kg die) durante la restrizione
calorica per 3 settimane in un piccolo numero di
volontari ha avuto come risultato una riduzione
dell’IGF-1 sierico (152 ng/mL) (78). È stato trovato
che una dieta iperproteica ipocalorica per 12
settimane con elevate quantità di carne rossa
negli uomini aumenti significativamente i peptidi
IGF-correlati sia totali (HP 23%, HC 18%) che
bioattivi (HP 18%, HC 15%) (80) rispetto ad una
dieta iperglucidica (con quantità di proteine
standard). In donne più anziane con peso stabile,
un aumentato apporto proteico (30 g/die di
supplementazione di siero proteine, per 2 anni)
senza CR ha fatto aumentare significativamente
l’IGF-1 sierico rispetto al placebo (81) indicando
che
l’incremento
dell’apporto
proteico,
attraverso la capacità di elevare l’IGF-1 durante la
CR, può impedire l’aumento della proteolisi
attraverso l’ inibizione della sovraregolazione dei
fattori chiave ubiquitina-ligasi (figura 1B).
Le diete iperproteiche, ipocaloriche sono anche
associate dall’aumentata stimolazione della
produzione di glucagone e di insulina dal
pancreas endocrino, alto turnover del glicogeno
e stimolazione della gluconeogenesi (42, 43).
Aumenti nei livelli di insulina possono stimolare
PI3K/Akt, fosforilando le ramificazioni dei fattori
di trascrizione (FoxO), risultando nella ritenzione
citoplasmatica e nella repressione dell’
espressione dei geni target (82).
Quindi una dieta iperproteica ipocalorica per la
perdita di peso può sopprimere gli elementi
regolatori chiave della UPP. L’iniziazione della
fosforilazione di FoxO1 dalla PKB nel muscolo
scheletrico può diminuire la capacità di FoxO di
stimolare l’espressione degli enzimi ubiquitinaligasi (E3) MAFbx/atrogina-1 e MuRF-1 (83) che,
quando sovraregolati, sono essenziali per la
degradazione proteica e quindi l’atrofia
muscolare (figura 1B). È stato indicato che
eseguendo esercizi di ultra-endurance ed
esercizio in combinazione con la perdita di peso,
la quantità di proteine ubiquitina-coniugate e
l’attività chimotripsina-simile sono diminuite (72,
84). Anche la sovraregolazione dei trascritti
dell’mRNA MuRF1, F-Box e le subunità
proteasomiche C2, sono state osservate così
come le proteine di regolazione dell’autofagia
Atg7 ed LC3B (84), indicando che durante
l’esercizio di ultra-endurance i processi di
controllo della qualità cellulare sono richiesti
possibilmente per migliorare la funzione del
muscolo scheletrico riparando il danno
muscolare. Dunque abbiamo proposto che diete
iperproteiche, ipocaloriche per la perdita di peso
possano fosforilare PKB/Akt e FoxO portando
alla soppressione della trascrizione di di
MAFbx/atrogina-1 e MuRF-1, con il risultato di
frenare la proteolisi che avviene durante la CR
nel muscolo scheletrico (figura 1C), e dunque in
un mantenimento della FFM.
Recentemente è stato indicato che a breve
termine, una dieta isocalorica, iperproteica (10
giorni, >130 g proteine/die) aumentava il
turnover proteico organico totale e l’ossidazione
aminoacidica (leucina) senza alcun aumento
della sintesi proteica o della funzione
mitocondriale sia in soggetti giovani (<25 anni)
che più anziani (>70 anni). Questo indica che un
introito proteico più elevato può stimolare la
sintesi proteica a seguito dell’ingestione del
pasto ma non migliora la sintesi proteica basale.
73
Comunque, il catabolismo proteico post
assorbitivo (sia la degradazione che l’ossidazione
degli aminoacidi) era aumentato durante la dieta
iperproteica (85). Non si sa con certezza se
questo avviene con diete iperproteiche durante
la CR. I prodotti caseari, che contengono
proteine del siero di latte, sono spesso
componenti chiave di una dieta iperproteica, a
bassi grassi. Le proteine del siero di latte
forniscono un’attività di inibizione sull’enzima di
conversione dell’angiotensina e contengono
elevate concentrazioni di lecuina, una
aminoacido a catena ramificata (BCAA) (86).
L’inclusione di proteine del siero di latte in regimi
ipocalorici può risultare in un aumentato
mantenimento del muscolo scheletrico ed
aumentata perdita di tessuto adiposo, con
bilancio energetico negativo (86, 87). Ci sono
inoltre evidenze crescenti che suggeriscono
come i BCAA, in particolare la leucina, abbiano
un ruolo significativo nella regolazione
metabolica, al di là del loro ruolo fondamentale
come substrato per la traduzione di numerose
modificazioni pre- e post-trascrizionali (61). La
leucina stimola la via di trasduzione del segnale
che modula l’inizio della traduzione dell’mRNA
quindi sovraregola la sintesi proteica (89-91). È
stato
identificato
che
l’acido
alfachetoisocaproico, un metabolita della leucina,
stimoli la fosforilazione della proteina stabile al
calore ed all’acidità (PHAS-I), un regolatore
dell’iniziazione della traduzione durante la
mitogenesi cellulare recentemente scoperto
(92). L’azione della leucina nella via di
segnalazione dell’insulina è iniziata dall’mTORC1
(59, 93), che è attivato da una moltitudine di
ormoni (e.g. insulina) e nutrienti (e.g.
aminoacidi) che stimolano la crescita e la
proliferazione cellulare, mentre è repressa da
altri ormoni (e.g. glucocorticoidi) (94). Il
complesso dell’mTOR controlla anche importanti
funzioni negli organi periferici incluso il
metabolismo
ossidativo
muscolare,
la
differenziazione del tessuto adiposo bianco, la
secrezione insulinica dipendente dalle betacellule (95) e l’autofagia muscolare (11).
L’aumento nelle concentrazioni di aminoacidi
stimola l’attività della chinasi mTOR (figura 1A)
ad induce la fosforilazione della proteina
inibitoria legante il fattore eucariotico di
iniziazione 4E (4E-BP1) , promuovendo la sua
dissociazione del fattore di iniziazione della
traduzione E (eIF4E). Una volta dissociato, eIF4E
è disponibile per legarsi con eIF4E per formare
un complesso di iniziazione attivo. È stato
suggerito che la leucina stimoli la sintesi proteica
nel muscolo scheletrico sia tramite meccanismi
insulino-dipendenti che non insulino-dipendenti.
I meccanismi insulino-dipendenti sono associati
con il segnale dell’mTOR attraverso la
fosforilazione della proteina che lega eIF4E 1 (4EBP1) e di S6K1 (59), in contrasto con gli effetti
insulino-dipendenti derivanti da meccanismi non
conosciuti che possono coinvolgere la
fosforilazione di eIF4G e/o la sua associazione
con eIF4E (90). Comunque, anche la disponibilità
di aminoacidi aumenta i livelli di calcio
intracellulare che possono attivare mTORC1
tramite l’attivazione calcio-calmodulina mediata
di la classe III di chinasi PI-3, la proteina umana di
selezione vacuolare 34 (hVps34) (96, 97), la
fosforilazione sia di S6K1 che di 4E-BP1. Come
parte di questa cascata dell’mTOR, è stato
indicato anche che l’IGF-1 attivi la traduzione e la
sintesi proteica muscolare via tuberina/tubero
sclerosi 2 (TSC2). La PKB lavora fosforilando la
TSC2 nei siti di fosforilazione che sono diversi dai
siti di fosforilazione dell’AMPK (53). È stato
suggerito che questa via sia soppressa o
disattivata dalla restrizione calorica attraverso
l’attivazione di AMPK e SIRT1, che avviene anche
con l’somministrazione della metformina (che
mima la CR), e prevedibilmente con
disattivazione della via insulina/PI3K (63). A
quanto ammonta il grado in cui l’obesità causi
una disregolazione di questa via non è chiaro. È
ancora poco noto circa l’impatto di una dieta
iperproteica ipocalorica su questa via.
74
Considerazioni finali
I meccanismi alla base del mantenimento della
massa muscolare seguendo una dieta
iperproteica con CR che miri alla perdita di peso,
sembrano coinvolgere un aumentato consumo
di aminoacidi in particolare leucina, che stimola
la sintesi proteica muscolare via la via di
segnalazione
dell’mTOR.
Comunque,
in
contrasto con le osservazioni fatte su modelli
animali, gli studi negli esseri umani non hanno
mostrato alterazioni nei livelli delle proteine
dell’IRS-1, dell’mTOR o del p70S6K nella massa
muscolare degli obesi e dei diabetici di tipo 2,
paragonandoli a partecipanti magri della stessa
età, e che la CR può di fatti disattivare questa
via. Dunque la stimolazione della via dell’mTOR
per aumentare la sintesi proteica non spiega
completamente la ritenzione di FFM osservabile
in studi con interventi di perdita di peso
effettuati con diete iperproteiche. In questo
studio viene proposto che il meccanismo chiave
può coinvolgere la soppressione degli elementi
regolatori dell’UPP nel muscolo scheletrico per
evitare l’atrofia. Così come una riduzione nella
FFM sembra essere una complicazione che si
associa con la perdita di peso, capire i
meccanismi alla base che si attivano in risposta
alla composizione dei macronutrienti può
aiutarci nel fornire informazioni dietetiche più
comprensibili per i professionisti sanitari e le
persone per facilitare una perdita di peso
salutare ed il mantenimento del peso a lungo
termine per il trattamento dell’obesità.
Bibliografia
75
76
77
Le diete altamente ipocaloriche (VLCD): un veloce strumento per
migliorare la funzionalità delle cellule β nei pazienti obesi con
diabete di tipo 2.
a cura di Manuel Salvadori
Nei pazienti obesi con diabete di tipo 2, i
cambiamenti nello stile di vita volti a far loro
perdere peso risultano nel miglioramento1 o
nella normalizzazione2 del glucosio plasmatico.
Quest’effetto benefico sul controllo della
glicemia è da ricondursi sia alla secrezione
d’insulina che alla sensibilità insulinica3. Gli effetti
metabolici della restrizione calorica (RC) di per
sé potrebbero, almeno in parte, essere
indipendenti dalla riduzione di peso. Sia un
miglior controllo glicemico che una maggiore
sensibilità insulinica sono stati riportati in
pazienti con perdita di peso del ~12% con una
dieta di 400kcal al giorno, in confronto a
persone che hanno ricevuto una dieta di 1000
kcal al giorno che hanno perso lo stesso peso
corporeo (~12%)4. Inoltre, durante i primi 10
giorni di una VLCD elaborata per 40 giorni, già si
osservano i primi effetti sul controllo del
glucosio sanguigno di pazienti diabetici di tipo 2,
quando ancora il peso non era stato davvero
intaccato.2 Quando l’intake calorico è stato
aumentato dopo la riduzione di peso, il glucosio
plasmatico è aumentato, anche se non è stato
riguadagnato peso2,4. Il meccanismo che spiega
questi meccanismi causati da una dieta VLCD in
pazienti con diabete di tipo 2 è stato spiegato
solo da pochi studi. La produzione epatica di
glucosio risulta diminuita5 dopo 7 giorni di VLCD,
così come risulta invece aumentato il livello della
SI5,6. Uno studio seguente ha replicato gli stessi
risultati sugli effetti di una VLCD a breve termine
sulla produzione di glucosio epatico, ma non sul
valore di SI in tutto il corpo7.
Per quanto riguarda la funzionalità delle cellule
β, studi precedenti hanno riportato un
apparente miglioramento nella secrezione
dell’insulina durante l’OGTT dopo una VLCD a
breve termine5.
Comunque, nessuno studio ufficiale è stato
ancora condotto sulla sensibilità delle cellule β al
glucosio, e visto che il glucosio è stato dato
oralmente, altri fattori (ad esempio le incretine,
la grelina) potrebbero essere stati coinvolti. Uno
studio ha riportato un miglioramento nella
riposta delle cellule β durante i clamps
iperglicemici (escludendo i fattori dell’intestino)
dopo otto settimane di VLCD e durante un
periodo di stabilizzazione del peso corporeo
(quindi in assenza di segnale negativo
d’energia)8. Inoltre, secondo il design dello
studio, non è stata investigata la prima fase di
risposta di secrezione al glucosio.
Recentemente, Lim ed altri9 hanno riportato
che, in pazienti con diabete di tipo 2, una VLCD
ha migliorato marcatamente il controllo del
glucosio in pochi giorni e che un miglioramento
sia del livello epatico di SI e della sensibilità delle
cellule β al glucosio intravenoso siano i
meccanismi
principali
coinvolti.
Un
prolungamento della VLCD per ulteriori otto
settimane ha portato ad un’apparente
remissione del diabete. Questo ed altri studi di
meccanismo sono stati sviluppati su pazienti con
un BMI di circa 30-35 nei quali, in accordo con le
linee guida attuali10, la chirurgia bariatrica non
dev’essere considerata come un’opzione
possibile. Nei pazienti con diabete di tipo 2 che
subiscono chirurgia bariatrica, miglioramenti del
controllo glicemico e nella funzionalità delle
cellule β sono rilevabili prima che avvenga una
significativa perdita di peso; c’è inoltre la grande
possibilità che il bypass intestinale possa avere
effetti metabolici (ad esempio sulle cellule β) che
sono indipendenti dall’efficacia sul peso,
probabilmente coinvolgendo il meccanismo
dell’asse incretinico11. Inoltre, la remissione dei
diabetici di tipo 2 dopo la chirurgia bariatrica
arriva a percentuali del 70-80%12.
78
Quindi, sarebbe importante sapere se nei
pazienti estremamente obesi con diabete di tipo
2, che sono i maggiori candidati per la chirurgia
bariatrica, una dieta VLCD a breve termine possa
sortire gli effetti simili a quelli sortiti su pazienti
meno obesi.
E’ stato interessante consultare uno studio in cui
si è voluto constatare se, nei pazienti molto
obesi diabetici di tipo-2, 7 giorni di VLCD
influiscano sul controllo glicemico attraverso
cambiamenti sulle cellule β o su SI o entrambi.
Lo studio aveva come campione quattordici
pazienti con diabete di tipo 2 (7 uomini e 7
donne) con età compresa tra 60.3 ± 3.02 con
diabete che dura da 4.8 ± 1.68 anni. La diagnosi
di diabete è stata stabilita in accordo con i criteri
della American Diabetes Association (ADA)13. I
criteri d’inclusione sono stati i seguenti:
trattamento o solo con dieta o con agenti orali
ipoglicemici, obesità grave (BMI>40) e un buon
controllo metabolico (HbA1c < 7,5%). I
partecipanti sono stati esclusi qualora fossero
trattati con agonisti peptide-1 glucagone-simile,
inibitori della dipeptil peptidase 4, insulina o che
avessero creatinina sierica > 150 μmol/L.
Una settimana prima dell’ammissione in
ospedale, tutti i medicinali ipoglicemici e gli antiipertensivi sono stati sospesi. Per assicurare la
salute dei pazienti, un campione di sangue per la
routine di biochimica è stato raccolto e controlli
sul profilo glicemico e la pressione del sangue
sono stati effettuati ogni giorno.
I partecipanti sono stati studiati alla partenza
dello studio e poi dopo 7 giorni di restrizione
calorica (VLCD). La VLCD consisteva in una dieta
di 400 kcal al giorno, la percentuale di
distribuzione di lipidi, proteine e carboidrati è
stata decisa sulla base degli Italian Standards of
Care14. I chetoni urinari (Aution Sticks, Arkray;
Menarini Diagnostics) sono stati controllati ogni
mattina come markers di aderenza alla dieta.
Il colesterolo plasmatico totale ed i triglicerici,
assieme con l’HbA1c sono stati misurati all’inizio
dello studio e alla fine del periodo di VLCD15,16.
Sia all’inizio che alla fine della VLCD sono stati
condotti degli studi iperglicemici di clamp
insulinici su tutti i pazienti come sopra
descritto18.
Tutti gli esami sono stati eseguiti dopo un
digiuno notturno di 12 ore, mentre i soggetti
erano sdraiati a letto. In tutti i soggetti, due
cateteri intravenosi sono stati inseriti sulla vena
antecubitale e nella vena del polso per
l’infusione delle sostanze e l’analisi del campione
di sangue arterioso, seguendo la tecnica hot
box19. Dopo un periodo di 60 minuti utile a
stabilire il livello basale (~60 fino a 0 min), è
stato effettuato un clamp iperglicemico per i
successivi 120 minuti18. Il glucosio plasmatico è
stato misurato a letto ogni 2-5 minuti al bisogno,
ed è stato clampato a +7,0 mmol/L (+126 mg/dl).
In queste condizioni di costante iperglicemia, la
normale risposta delle cellule β è bifasica, con un
picco insulinico nei primi dieci minuti seguito da
un rilascio monotonale18. Campioni di sangue per
il glucosio, peptide-C ed insulina sono stati
prelevati ogni 2,5 minuti a partire dal minuto 0 al
minuto 15, ed ogni 15 minuti dal minuto 15 al
minuto 120.
La risposta insulinca in acuto (AIR) è stata
calcolata come la media incrementale della
concentrazione plasmatica di insulina a 2.5, 5.0,
7.5 e 10 minuti del clamp iperglicemico18,24. Il
parametro
per la risposta insulinca della
seconda fase (2ndIR) è stato calcolato come la
media incrementale della concentrazione
d’insulina tra il 60esimo ed il 120esimo minuto
del clamp iperglicemico18. La disponibilità di
glucosio durante il clamp è stata calcolata come
la rata di glucosio esogeno infuso corretto
tramite i (piccoli) cambiamenti nel pool
generale. (M value; in μmol · min−1 · m−2 BSA)18.
La clearance metabolica del glucosio durante il
clamp è stata calcolata come il rapporto tra il
valore M e la concentrazione prevalente di
glucosio. 18 In queste condizioni sperimentali, la
clearance metabolica di glucosio soddisfa i
requisiti di una misurazione diretta sperimentale
della dispotition index (DI) della seconda fase
della secrezione insulinica (DI; mL · min−1 · m−2
BSA)25. In ciò si ritrova l’utilizzo totale del
glucosio promosso dalle cellule β alla stessa
concentrazione di glucosio ottenuta con la
sperimentazione. Essa misura la capacità del
corpo di gestire un carico glicemico intravenoso,
79
e riflette l’adeguatezza delle cellule β di
correggere la secrezione insulinica e la clearance
insulinica. La DI ha due vantaggi: 1) è una
misurazione sperimentale diretta, non il
prodotto di due divere correzioni sperimentali e
2) a differenza di tutte le altre DI, non richiede
assunzioni riguardo relazioni matematiche che
collegano sensibilità insulinica (SI) alla risposta
secretoria delle cellule β o alla concentrazione
insulinica glucosio-mediata.25 La SI durante il
clamp iperglicemico è stato calcolato come il
rapporto della clearance metabolica del glucosio
diviso per la concentrazione insulinica media
raggiunta tra il 60° ed il 120° minuto [SI; in (mL ·
min−1 · m−2 BSA)/(pmol/L)] (25).
I principali dati i del modello sono i seguenti:
1.
Parametri della prima fase
La quantità totale dell’insulina secreta nella
prima fase (1stISR; in pmol/m2 BSA) e la
sensibilità al glucosio della prima fase
secretiva (σ1), espressa come l’ammontare
totale di insulina secreta in risposta ad una
concentrazione maggiore di glucosio di 1
mmol/L nel primo minuto dello studio, in
(pmol/m2 BSA)/(mmol/L· min−1).
2. Parametri della seconda fase
La quantità totale di insulina secreta durante
la seconda fase (2ndISR; in pmol/m2 BSA) e
la sensibilità al glucosio della seconda fase
secretiva (σ2) espressa come il costante
livello di secrezione insulinica durante
l’incremento di un livello di glucosio rispetto
alla base – 1mmol/L in (pmol · min−1· m−2
BSA)/(mmol/L).
Alla fine, un’indice di clearance insulinica (in L ·
min−1 · m−2 BSA) è stato calcolato come il
rapporto tra la media di secrezione insulinica
diviso per la media della concentrazione
insulinica durante il clamp iperglicemico.
Dopo la VLCD, la perdita di peso è stata di 3.22 ±
0.56kg, di cui stimata 3.58 ± 0.60 kg (P =
0.0000045), di cui il 42% grasso corporeo. Sia il
BMI che la circonferenza vita sono diminuite
significativamente (P=0,001 per entrambe) –
Tabella.1.
I trigliceridi plasmatici (P= 0,0003) sono
diminuiti, ma non il colesterolo totale (P= 0,78),
dopo la VLCD (Tabella 1).
Il glucosio plasmatico a digiuno è diminuito
significativamente (P = 0.044), mentre nessun
cambiamento significativo è stato osservato
sull’insulina a digiuno (P = 0.699) o sui livelli di
peptide-C a digiuno (P = 0,57). (Tabella 1).
Durante il clamp iperglicemico, sia il valore M
(disponibilità di glucosio) che la DI sono
aumentati significativamente dopo la VLCD (P =
0.008 e P = 0.005 rispettivamente) (Figura 1), ma
la SI non è cambiata significativamente (P = 0,33)
(Tabella 1).
Riguardo i parametri della prima fase di
secrezione insulinica, l’AIR è aumentato
significativamente dopo la VLCD (P = 0,016)
(Figura 2A). Nessun parametro derivato dal
modello di studio (ie. 1stISR o σ1) hanno
dimostrato cambiamenti significativi (P = 0,18 e P
= 0,31, rispettivamente) (Tabella 1).
Per quanto riguarda i parametri della secrezione
insulinica di seconda fase, 2ndISR ha dimostrato
un trend non significativo di aumento(P = 0,096)
dopo la VLCD. Per i parametri derivati dal
modello, invece, 2ndISR è aumentato
significativamente (P = 0,014) (Figura 2B) e σ2 ha
dimostrato un trend non significativo verso
l’aumento dopo la VLCD (P 0 0,068). L’indice di
clearance
insulinica
non
è
cambiato
significativamente (P = 0,39) dopo la VLCD
(Tabella 1).
Discussione
Il maggiore risultato dello studio preso in
esame, è il miglioramento della DI in diabetici
gravemente obesi dopo una settimana di
bilancio energetico negativo. Questo evento
potrebbe essere dovuto, in via teorica, ad uno o
più dei tre cambiamenti: 1) funzionalità
migliorata delle cellule β, 2) l’aumento di SI e 3)
la diminuita clearance insulinica. Abbiamo
rilevato un miglioramento della funzionalità delle
cellule β dopo la VLCD, laddove i cambiamenti in
SI e nella clearance dell’insulina sono stati
minimali.
80
Tabella.1 - Effetti di una VLCD sulle variabili metaboliche ed antropometriche.
Figura 1.
Effetti di una VLCD sul Disposition Index(DI)
Sono rappresentati i dati individuali dei 14
pazienti e i valori netti.
BSA= Body Surface Area.
VLCD = Very Low Calorie Diet.
Figura 2.
Valori Medi (±SEM) AIR (A) e 2ndISR (B) in risposta ad
una VLCD. N = 14 in entrambi i pannelli. AIR, risposta
insulina acuta; VLCD, Very Low-Calorie Diet; 2ndISR,
tasso di secrezione insulinica nella seconda fase, ie,
quantità totale di insulina rilasciata durante la seconda
fase.
81
La VLCD ha causato una drastica diminuzione del
peso, della massa grassa e dei trigliceridi.
Tuttavia, la SI non è stata toccata, in contrasto
col miglioramento della SI epatica riportata da
Lim et al9. La differenza nei soggetti di studio
(gravemente obesi contro obesi/sovrappeso),
nel design sperimentale (clamp iperglicemici
contro clamp isoglicemico insulinici) e nel ruolo
giocato dalla tossicità del glucosio28 potrebbero
spiegare quest’apparente discrepanza.9
Nello studio proposto, si è esplorato la risposta
di secrezione della prima e della seconda fase sia
con indici tradizionali che con parametri derivati
sperimentalmente; questi ultimi hanno misurato
la secrezione insulinica, non la concentrazione, e
la sensibilità delle cellule β al glucosio,
indipendentemente dai cambiamenti nella
clearance insulinica. Anche se dei risultati
statisticamente significativi sono stati raggiunti
solo per AIR e 2ndISR, lo scenario generale è
valido per miglioramenti sia nella prima che nella
seconda fase, per una VLCD durata solo 7 giorni.
In contrasto con ciò, non sono stati rilevati
effetti sull’insulina a digiuno, come evidenziato
dalle misurazioni della concentrazione di insulina
e peptide-C prima del clalmp iperglicemico.
Nei pazienti con diabete di tipo 2, diversi
meccanismi potrebbero essere stati coinvolti nel
miglioramento della funzionalità delle cellule β,
includendo – ma non solo – la terapia
concomitante, la minore variazione di glucosio e
il valore minore di glucosio netto ingerito.
Comunque, l’attenta selezione effettuata sui
pazienti permette di escludere questi fattori
(tossicità del glucosio, variabilità glicemica e
trattamento) sui cambiamenti metabolici
osservati poiché, in questo studio sono stati
compresi solo pazienti diabetici estremamente
obesi con buon controllo glicemico, trattati solo
con dieta o con ipoglicemizzanti orali (sospesi
all’inizio della VLCD).
In generale, i risultati sono in accordo con quelli
ottenuti dallo studio di Lim et. Al, ottenuti in
pazienti con BMI di circa ~30, nei quali
l’importante miglioramento nel controllo del
glucosio causato dalla VLCD è stato dovuto
principalmente a miglioramenti importanti nella
funzionalità delle cellule β e nel SI epatico, senza
evidenze riguardo al SI periferico.
Riguardo i meccanismi che argomentano la
remissione del diabete di tipo 212 dopo la
chirurgia bariatrica, il ruolo potenziale giocato
dall’improvviso bilancio negativo di energia ha
riguadagnato recente attenzione29,30. Dati molto
recenti supportano l’ipotesi che la restrizione
calorica sia una mediatrice di miglioramenti
metabolici immediatamente successivi, in
particolare dopo l’intervento Roux ad Y31,
attraverso una migliorata SI epatica con
conseguente riduzione di glucosio epatico,
almeno nei pazienti diabetici. I dati di questo
studio supportano l’idea che la chirurgia
bariatrica possa migliorare la funzionalità delle
cellule β nei pazienti con diabete di tipo 2,
inducendo il bilancio d’energia negativo.
Riassumendo, è stato verificato che la
restrizione calorica a breve termine di per sé
migliora il controllo glicemico e la funzionalità
delle cellule β in pazienti obesi con diabete di
tipo 2, cioè una classe di potenziali candidati per
la chirurgia bariatrica. Ulteriori ricerche
esploranti il campo del ruolo benefico della
restrizione calorica dopo procedure di chirurgia
bariatrica sono ancora necessarie.
Bibliografia
82
83
Consumo di uova intere migliora il profili lipoproteico e la
sensibilità all'insulina in soggetti con sindrome metabolica
a cura di Letizia Antonia D’Alessandro
L’assunzione giornaliera di uova in un regime
low-carb potrebbe portare ad un’alterazione del
metabolismo lipoproteico, del profilo delle
lipoproteine aterogeniche e a insulino resistenza
in uomini e donne con sindrome metabolica
(MetS).
Per analizzare tale ipotesi è stato effettuato uno
studio randomizzato in singolo cieco. I
partecipanti hanno consumato 3 uva intere al
giorno o il loro equivalente di un sostituto
tuorlo-privo. Il regime alimentare seguito per 12
settimane dai partecipanti era di tipo low-carb
(25-30% delle calorie totali). I partecipanti (n = 37)
erano di mezza età (51,9 ± 7,7 y) e con un BMI
medio di 30.4 ± 5.5 kg/m2 nel gruppo che ha
consumato uova intere e di 30.6 ± 5.1 kg/m2 in
coloro che hanno consumato il sostituto. Circa
2/3 dei partecipanti che ha completato lo studio
era di sesso femminile sia nell’ EGG (7 maschi, 13
gruppi femminili) che nel SUB (5 maschi, 12
femmine).
All’inizio e dopo 12 settimane sono stati valutati:
lipidi plasmatici, apo, oxLDL, CEPT, LCAT. Le
concentrazioni di particelle di lipoproteine e le
dimensioni sono state misurate mediante
spettroscopia di risonanza magnetica nucleare.
Al termine dello studio si è potuto osservare un
miglioramento della dislipidemia aterogenica in
tutti gli individui, come evidenziato dalla
riduzione nel plasma di trigliceridi, apoC-III, apoE,
oxLDL, del diametro delle particelle VLDL,
grandi VDL, IDL totali, LDL piccole e medie (p
<0.05). Inoltre, ci sono stati aumenti dei livelli di
colesterolo HDL, grandi HDL e LDL (P <0.05) in
tutti gli individui. Tuttavia l’aumento delle grandi
HDL e del colesterolo HDL, e la riduzione delle
VLDL totali e delle piccole VLDL è risultato
maggiore negli individui che hanno consumato
uova intere rispetto a coloro che hanno
consumato i sostituti tuorlo-privi (P < 0.05). Si è
evidenziata
una
riduzione
dell’insulina
plasmatica e della resistenza all’insulina mentre
l’attività dell’LCAT e il diametro di HDL ed LDL
sono aumentati nel tempo solo nel gruppo che
ha consumato uova intere (P <0,05).
In definitiva si può affermare che inserendo l’uso
moderato di uova intere in un regime alimentare
restrittivo in carboidrati si ottiene un
miglioramento del profilo delle lipoproteine
aterogeniche e della resistenza insulinica nei
soggetti con sindrome metabolica.
La sindrome metabolica (MetS) è caratterizzata
da una costellazione di fattori di rischio sia per il
diabete di tipo 2 che per le patologie
cardiovascolari (CVD). Un importante contributo
all'elevato rischio di sviluppo di CVD osservato
nella MET è la dislipidemia aterogenica associata
a questa condizione, di cui le cause primarie
sono
l’insulino-resistenza
e
l’adiposità
viscerale[1]. La dislipidemia aterogenica è
caratterizzata da uno specifico profilo
lipoproteico in cui si ritrovano bassi livelli
plasmatici di colesterolo HDL (HDL-C), elevati
trigliceridi a digliuno(TG), e una predominanza di
particelle LDL piccole e dense [2]. Le piccole LDL
sono particolarmente suscettibili all'ossidazione
e alla ritenzione sottoendoteliale [2], e la
sindrome metabolica è spesso associata a elevati
livelli plasmatici di LDL ossidate (oxLDL) [3].
Inoltre nella sindrome metabolica sono evidenti
alterazioni nelle particelle HDL, con riduzioni
dell’HDL-C riferito a un aumento percentuale di
piccoli HDL rispetto ai grandi HDL[4].
Abbreviazioni: Apo, apolipoproteina; CETP, proteina di
trasferimento plasmatico degli esteri del colesterolo;
CHD, malattia coronarica, CRD, dieta povera in
carboidrati; CVD, malattie cardiovascolari; EGG, gruppo
che a consumato 3 uova al giorno; HDL-C, colesterolo
HDL; LCAT, lecitina-colesterolo aciltransferasi; LDL-C,
colesterolo LDL; LPL, lipoproteina lipasi; MetS,
sindrome metabolica; NCEP: ATP III, National
Cholesterol Education Program Adult Treatment Panel
III; NMR, risonanza magnetica nucleare; oxLDL, LDL
ossidate; SUB, gruppo che ha consumato il sostituto
d'uovo privo di tuorlo; TC, colesterolo totale; TG,
trigliceridi.
84
Ci sono prove che le piccole particelle di HDL, le
quali sono predominanti nella Mets, siano
funzionalmente difettose e più suscettibili di
catabolismo [5]. Inoltre nei pazienti con CDV si
osserva una percentuale maggiore di piccole
HDL
[6].
Di contro, le grandi HDL sono associate al rischio
cardiovascolare in maniera inversamente
proporzionale [6,7]. Inoltre, la sindrome
metabolica è spesso associata ad un aumento
delle grandi sottoclassi di VLDL galleggianti
come risultato della resistenza all'insulina [8]. La
sovrapproduzione epatica di grandi VLDL è un
importante contributo alla comparsa di altre
anomalie lipoproteiche della MET [8]. Come
trattamento di prima linea per la sindrome
metabolica sono consigliate strategie alimentari
volte alla perdita di peso. Una strategia dietetica
in cui è prevista la restrizione dei carboidrati è
particolarmente efficace per la perdita di peso e
per migliorare la dislipidemia aterogenica [10].
L’assunzione di carboidrati nel contesto della
resistenza all'insulina è stato dimostrato che
induce la lipogenesi de novo e può direzionare il
metabolismo preferenzialmente alla produzione
di VLDL ricche in TG [11]. Conseguentemente, la
restrizione dei carboidrati nei soggetti con Mets
è associata a un miglioramento globale della
dislipidemia aterogenica, comprese riduzioni
plasmatiche di TG, grandi VLDL, e piccole
sottoclassi di LDL con aumento delle grandi HLD.
Un'altra strategia dietetica compatibile con la
limitazione dei carboidrati che è stata associata a
miglioramenti
nelle caratteristiche
delle
particelle lipoproteiche è il consumo giornaliero
di uova. Nella popolazione sana, l'assunzione
giornaliera di uova sposta la percentuale delle
piccole LDL e HDL verso le loro sottoclassi più
grandi [12]. Inoltre, l'assunzione giornaliera di
uova è stato dimostrato possa aumentare
l’attività della lecitina-colesterolo aciltransferasi
(LCAT), la quale potenzialmente migliora il
trasporto inverso del colesterolo [13,14]. Così,
l’inserimento delle uova nell’alimentazione
quotidiana in un regime low-carb può fornire
benefici aggiuntivi per la dislipidemia
aterogenica tipica delle Mets.
In qualche maniera, al contrario di quanto si
potrebbe pensare si ipotizza che il consumo di
uova intere possa promuovere lo shift tra
lipoproteine più aterogeniche in un contesto di
insulino
resistenza e diabete di II tipo, e questo potrebbe
spiegare i risultati osservati da una ricerca che
collegavano uova e rischio CDV in questi soggetti
[15]. Lo studio descritto di seguito sopperisce
alla mancanza di interventi clinici esaminanti gli
effetti del consumo di uova intere sulle
sottoclassi di lipoproteine in soggetti con
sindrome metabolica. In tale intervento si è
ipotizzato che la restrizioni dei carboidrati
avrebbe avuto effetti favorevoli su lipoproteine,
apolipoproteine e oxLDL in tutti i partecipanti.
Inoltre, i partecipanti che consumavano 3 uova
intere al giorno hanno ottenuto maggiori
miglioramenti complessivi nelle concentrazioni
delle particelle lipoproteiche, nella dimensione
delle particelle, e nell'attività dell'LCAT rispetto
ai partecipanti che hanno consumato le uova
senza tuorlo.
Descrizione dell’indagine
Quaranta uomini e donne di età compresa tra 3070 anni affetti da Sindrome metabolica sono
stati reclutati e arruolati in un intervento
dietetico
di
12
settimane.
I criteri di esclusione includevano il diabete autoriferito, disturbi coronarici e cardiaci, ictus,
problemi renali, malattie del fegato, cancro,
gravidanza in corso o allattamento, e allergia alle
uova.
Tutti i partecipanti hanno dovuto seguire una
dieta moderatamente ristretta in carboidrati
(CRD) per 12 settimane (25% -30% dell’energia da
carboidrati, 25% -30% da proteine, e il 45% -50% da
grassi). La dieta era ad libitum e non c'erano
raccomandazioni o restrizioni specifiche nella
quantità calorica. Studenti laureati qualificati
hanno dato ai partecipanti delle linee guida
dietetiche complete e istruzioni su come seguire
un CRD. In aggiunta al CRD, i partecipanti sono
stati randomizzati in due gruppi a cui è stato
chiesto di consumare o 3 uova al giorno (EGG), o
l'equivalente quantità in uova senza tuorlo
(SUB) per l’intero periodo delle 12 settimane di
studio.
85
Ogni dose giornaliera (1/2 tazza) di uova
conteneva circa 534 mg colesterolo, 0 g di
carboidrati, 16 g di proteine, 12 g di grassi, ed
equivaleva a 186 kcal. Una porzione giornaliera
del sostituto tuorlo-privo conteneva circa 2 g di
carboidrati, 14 g proteine, pari a 60 kcal. I
prodotti a base di uova sono stati dati
sottoforma di liquido ed erano uguali sia in
consistenza e colore. I partecipanti erano
inconsapevoli del gruppo di assegnazione e gli
ovoprodotti sono stati dati bisettimanalmente. I
partecipanti sono stati invitati a evitare di
mangiare uova oltre a quelle assegnate dallo
studio. La conformità è stata monitorata
mediante l'uso di questionari settimanali e della
raccolta di contenitori svuotati. Ai partecipanti è
stato chiesto di mantenere la loro normale
attività fisica, i farmaci, e gli integratori dietetici
utilizzati prima dell’ inizio dello studio di 12
settimane. Un totale di 37 partecipanti (n = 37)
ha completato le 12 settimane di studio (25
donne e 12 uomini) e i loro dati sono stati
utilizzati per le analisi successive.
I partecipanti hanno riportato l’assunzione di
alimenti per 5 giorni alla sesta e dodicesima
settimana del periodo di studio. Ogni
registrazione di 5 giorni consisteva di 3 giorni
settimanali e 2 festivi.
Sono stati eseguiti prelievi a digiuno sui
partecipanti dopo 12 ore di digiuno all’inizio dello
studio e alla dodicesima settimana.
Il colesterolo plasmatico totale a digiuno (TC), il
colesterolo HDL (HDL-C), l’insulina plasmatica e i
trigliceridi (TG) sono stati determinati all’inizio e
alla settimana 12.
L’insulina plasmatica è stata misurata a digiuno
utilizzando l’equazione del Homeostasis Model
Assessment (HOMA-IR) per stimare la resistenza
insulinica basale sull’insulina plasmatica e sulle
misurazioni di glucosio nel plasma [17]. Le
concentrazioni delle particelle VLDL, IDL, LDL,
HDL i loro diametri medi sono stati quantificati
utilizzando la risonanza magnetica nucleare
(NMR) al basale e alla settimana 12. L’NMR può
quantificare contemporaneamente frazioni
lipoproteiche >30 che sono raggruppate in 10
sottoclassi in base al diametro: grandi VLDL (>
60 nm), medie VLDL (35-60 nm), piccole VLDL
(27-35 nm), IDL (23-27 nm), grandi LDL (21,2-23
nm), medie di LDL (19,8-21,2 nm), piccole LDL (1819,8 nm), grandi HDL (8,8-13 nm), HDL medie
(8,2-8,8 nm) e piccole HDL (7,3- 8.2 nm).
Le ampiezze di segnale MNR delle sottoclassi
lipoproteiche sono direttamente proporzionali
alle concentrazioni di particelle. La media
ponderata dei diametri lipoproteici è stata
calcolata sulla base della concentrazione e del
diametro delle sottoclassi di lipoproteine.
Anche se non sono state date specifiche linee
guida o restrizioni caloriche, c’è stata una
riduzione del 24% dell’introito calorico in tutti i
partecipanti dall’inizio dell’indagine sino alla
dodicesima settimana senza differenze tra i due
gruppi.
Conformemente
alla
dieta
moderatamente low-carb, vi sono state riduzioni
nel tempo sia per la percentuale di assunzione di
energia proveniente dacarboidrati (40,9 ± 7,4 vs
28,3 ± 9,5%, p <0,0001) che per il totale quantità
di carboidrati consumati al giorno (211,9 ± 51,8 vs
114,5 ± 55,0 g / d, P <0.0001) per tutti i
partecipanti. L’assunzione di grassi totali (90,7 ±
24,7 vs 81,6 ± 31,4 g / d) e l'assunzione totale di
proteine (86,4 ± 22,6 vs 88,2 ± 28,4 gr / d) non è
cambiata rispetto al basale in entrambi i gruppi.
L'assunzione di energia totale da grassi è
aumentata dal 38,6% ± 6,4% al 45,7% ± 7,4% (p
<0,0001), mentre l'assunzione di energia da
proteine aumentata dal 17,3% ± 3,0% al 23,9% ±
4,1%
(P
<0.0001).
Alla
settimana
12, ci sono state differenze significative tra i
gruppi per l’assunzione di colesterolo e di colina
dalla dieta (EGG vs SUB, P <0.0001). Il gruppo
EGG ha aumentato l’assunzione di colesterolo
del 106% rispetto il basale (359,9 ± 177,7 vs 740,8
± 139,7 mg / die, p <0,0001), mentre il gruppo
SUB l’ha diminuita del 38% rispetto al basale
(344.9 ± 133.1 vs 213.4 ± 83,3 mg / die, p <0.01). Il
gruppo EGG aumentato apporto di colina del 52%
rispetto al basale (332.1 ± 127.4 vs 505.5 ± 113.3, p
<0,0001), mentre il gruppo SUB l’ha diminuita del
29% rispetto al basale (350.1 ± 90.3 vs 247.8 ±
99.9 mg / die, p <0.01).
Dopo 12 settimane, c'è stata una perdita di peso
del 4% rispetto al basale sia per il gruppo EGG
(87,3 ± 20,2vs 83,7 ± 20,5 kg, P <0.0001) che per il
gruppo SUB (85,6 ± 16,2 vs 82,2 ± 14,9 kg, P
<0.0001). I livelli di colesterolo totale del plasma
(TC) e di LDL-C sono rimasti invariati dopo 12
settimane, indipendentemente dal gruppo (P>
0,1) (Tabella 1). Il TC e l’ LDL-C plasmatici non
sono variati nel tempo per il gruppo EGG
nonostante la supplementazione alimentare
86
fornita dal tuorlo d’uovo.
Di
contro,
l'intervento
dietetico
ha
significativamente migliorato i marcatori della
dislipidemia
aterogenica
associata
alla sindrome metabolica (Tabella 1). L’ HDL-C
plasmatico (P <0.0001) è aumentato del 13,6%,
mentre i TG plasmatici (p <0,0001) si sono ridotti
del
24,0%
in
tutti
i
partecipanti.
Conseguentemente, il rapporto TG / HDL-C è
diminuito in modo significativo dal basale alla
settimana 12 sia per il Gruppo EGG (3.2 ± 2.1 vs 1.9
± 1.4, p <0,0001) che nel gruppo SUB (3,4 ± 2,6 vs
2,4 ± 1,5, p <0,05). Il gruppo EGG ha avuto una
risposta HDLC più grande rispetto al gruppo
SUB, mostrando un incremento percentuale
maggiore per il gruppo EGG (19,1%) rispetto al il
gruppo SUB (9,9%) (P <0.05). Il rapporto LDLC/HDL-C, un marcatore comunemente usato per
evidenziare il rischio aterosclerosi, è migliorato
in tutti i partecipanti per lo più a causa
dell’aumento di colesterolo HDL-C (Tabella 1). Il
rapporto LDL-C/HDL-C è diminuito del 9,5% nel
gruppo SUB e del 13,5% nel gruppo EGG rispetto
al basale. Interessante notare che solo i
partecipanti al gruppo EGG hanno avuto una
significativa diminuzione nel rapporto LDLC/HDL-C (P <0,01). Non ci sono stati effetti
significativi
dell'intervento
sul
glucosio
plasmatico a digiuno (dati non mostrati). Al
contrario, l'insulina plasmatica e l’HOMA-IR sono
diminuiti in tutti i partecipanti (Tabella 1).
Se analizzati separatamente, i partecipanti del
gruppo EGG hanno avuto riduzioni significative
di insulina plasmatica (P <0.05) e di HOMA-IR (P
<0.05), mentre
non sono stati osservati
significativi cambiamenti nel gruppo SUB. Come
mostrato in fig. 1A, la dimensione delle particelle
medie VLDL (diametro) è diminuita in modo
significativo per entrambi i sottogruppi. Non ci
sono state significative differenze nelle
variazioni di diametro delle VLDL tra i due
gruppi. Per tutti i partecipanti, i cambiamenti del
TG plasmatico sono stati positivamente associati
a cambiamenti nella dimensione VLDL (r = 0.625,
Tabella 1 – lipidi plasmatici, insulina e insulino resistenza determinata mediante HOMA nei
partecipanti al basale, alla settimana 6 e alla 12 dell’intervento dietetico.
87
P<0,001) (Fig. 1B). A differenza della dimensione
delle VLDL, la dimensione media delle particelle
di LDL è significativamente aumentata dal basale
alla settimana 12 solo per il gruppo EGG (Fig. 1C).
Per tutti i partecipanti, i cambiamenti nel
rapporto TG / HDL-C nel plasma alla 12°
settimana sono stati inversamente associati al
cambiamento nelle dimensioni delle LDL (r = 0,371, p <0.025) (Fig. 1D).
La dimensione media delle particelle HDL è
aumentata significativamente solo per il gruppo
EGG (Fig. 2A)(EGG: 0,22 ± 0,30 vs SUB: 0,05 ±
0,22
nm,
P<0,05).
Per tutti i partecipanti, i cambiamenti nelle
dimensioni delle HDL erano positivamente
associati a cambiamenti nella HDL-C (r = 0.623,P
<0,001) (Fig. 2B).
Il gruppo EGG ha ottenuto significative maggiori
diminuzioni nelle VLDL totali rispetto al gruppo
SUB (P <0,05) (Tabella 2). Le VLDL totali e le
medie VLDL sono diminuite nel gruppo EGG
rispettivamente del 19,2% e 31,1% (P <0.05).
(Tabella 2). Le VLDL totali e medie sono
diminuite nel gruppo EGG rispettivamente del
19,2% e 31,1% (P <0.05). Nel gruppo SUB, invece,
le VLDL totali sono diminuite solo del 0,4% e
leVLDL medie sono aumentate del 15,5%. Per
tutti i partecipanti c’è stata una riduzione del
47,2% delle grandi VLDL (p <0,001) e del 32,1%
delle IDL (P <0.05). Dopo le 12 settimane di
studio ci sono stati cambiamenti significativi
nella concentrazione totale di particelle LDL in
entrambi i gruppi (Tabella 3). Inoltre ci sono stati
cambiamenti significativi nelle specifiche
sottoclassi di LDL, con aumento delle grandi LDL
(P <0,01), e diminuzione delle LDL medie (p
<0.05) e piccole (p <0,05) in tutti i partecipanti.
Le grandi LDL sono aumentate del 22,7% per il
gruppo EGG e dell’11,1% per il SUB. LDL medie e
piccole sono diminuite nel gruppo EGG
rispettivamente del 23,6% e del 22,0% , mentre
nel gruppo SUB le riduzioni osservate sono state
rispettivamente del 5,3% e del 7,3%. Come
mostrato in Tabella 3, alla settimana 12 le oxLDL
plasmatiche sono diminuite del 6,8% rispetto al
basale in tutti i partecipanti (P <0,05).
88
Figura 1 - (A) Variazioni delle dimensioni delle particelle VLDL (diametro) dal basale alla settimana 12 . I valori sono
medie ± SEM. * Indica differenze significative rispetto al basale a P <0,05. (B) Correlazione di Pearson tra le
variazioni di TG plasmatici e le dimensioni delle particelle VLDL dal basale alla settimana 12.
(C) Variazioni delle dimensioni delle particelle di LDL (diametro) dal basale alla settimana 12. I valori sono medie ±
SEM. * Indica differenze significative rispetto al basale a P <0,01.
(D) Correlazione di Pearson tra le variazioni di TG / HDL-C plasmatici e le variazioni delle dimensioni delle LDL dal
basale alla settimana 12.
Figura 2 – (A) Variazioni nella dimensione (diametro) delle HDL dal basale alla settimana 12. I valori sono
medie ± SEM. * Indica differenze significative rispetto al basale a P <0,01.
(B) Correlazione di Pearson tra le modifiche di HDL-C e cambiamenti nella dimensione delle HDL dal
basale alla settimana 12.
Tale riduzione è stata associata ad una
riduzione dei livelli di LDL-C (r = 0.558,
P <0.001), e delle medie e piccole LDL (r =
0,358, p <0.05) (Fig. 3A).
Rispetto al basale, non ci sono stati
cambiamenti
significativi
nella
concentrazione di HDL totali in entrambi i
gruppi (Tabella 4). Tuttavia sono aumentate
le grandi HDL del 30,4% nel gruppo EGG (P
<0.01) e del 10,3% nel gruppo SUB (P <0.05).
Per quanto riguarda le altre sottoclassi di
HDL, le medie HDL sono diminuite del 38,8%
per tutti i partecipanti (P <0,01), mentre non
vi sono state variazioni nel numero delle
piccole HDL per entrambi i gruppi. L’attività
dell'LCAT plasmatico è significativamente
aumentata alla settimana 12 nel gruppo EGG
(P <0,05), mentre non è cambiata per il
gruppo SUB (fig. 3B).
L’ attività del CETP plasmatico non è variata
in entrambi i gruppi (P> 0,5, dati non
riportati).
Le concentrazioni plasmatiche delle
apolipoproteine al basale e alla settimana 12
sono esposte nella tabella 5. Per entrambi i
gruppi non ci sono stati cambiamenti
significativi nella apoA-I plasmatica. Al
contrario, l’apoA-II plasmatica è diminuita
nel corso del tempo per tutti i partecipanti
(P <0,05), senza differenze tra i gruppi.
L’ apoB plasmatica è rimasta invariata in
entrambi i gruppi .
89
Tabella 2 – Numero di IDL, VLDL, grandi, medie e piccole VLDL in tutti i partecipanti al basale e alla settimana 12
dell’intervento dietetico.
Tabella 3 – Numero di LDL totali, grandi, piccole e medie LDL ed LDL plasmatiche ossidate in tutti i partecipanti al
basale e dopo 12 settimane di intervento dietetico.
90
Figura 3 – (A) Correlazione di Pearson tra i cambiamenti del numero delle piccole e medie LDL e i
cambiamenti nelle oxLDL dal basale alla settimana 12. (B) Cambiamenti nell’attività dell’LCAT dal basale alla
settimana 12 in entrambi i gruppi. . I valori sono medie ± SEM. * Indica differenze significative rispetto al
basale a P <0,05.
Tuttavia, le riduzioni delle apoB sono state
associate alla riduzione delle VLDL totali (r =
0,519, p <0,01), delle LDL totali (r = 0,458, p
<0,01), e delle oxLDL (r = 0,353, p <0,05). Le
concentrazioni plasmatiche di apoC-II, apoC-III,
e apoE sono diminuite significativamente in
tutti i partecipanti (P <0,05).
I principali risultati riportati in questo studio
hanno evidenziato che sia la moderata
restrizione dei carboidrati che l'assunzione di
uova intere erano in grado di migliorare la
dislipidemia aterogenica e l’insulino-resistenza
in uomini e donne affetti da sindrome
metabolica. La restrizione glucidica e la perdita
di peso hanno comportato riduzioni dei TG
plasmatici,
l’aumento
del
C-HDL,
e
miglioramenti nella distribuzione delle
sottoclassi delle lipoproteine.
Tutti i partecipanti hanno avuto riduzioni nella
dimensione delle VLDL, delle sottoclassi di
lipoproteine aterogeniche (piccole LDL, grandi
VLDL, IDL), e delle oxLDL.
Inoltre, ci sono stati aumenti del numero di
grandi particelle HDL in tutti i partecipanti,
indicativo di un più sano fenotipo HDL.
Inoltre, coloro che hanno consumato uova
intere hanno avuto ulteriori miglioramenti
nel metabolismo delle lipoproteine, tra cui
aumento del diametro di HDL ed LDL,
maggiori riduzioni nelle VLDL totali e medie
VLDL, e maggiori aumenti delle grandi HDL,
del colesterolo HDL-C, e dell’attività
dell’LCAT rispetto al gruppo SUB.
Le relazioni tra le misure standard dei lipidi
sanguigni, come l’C-LDL e l’HDL-C, e il CVD
sono
ben
definite.
Tuttavia, nonostante la loro importanza
nella predizione della malattia, individui con
valori di lipidi ematici simili spesso possono
avere rischi per CDV molto diversi [18].
In queste circostanze è riciesto l’utilizzo di
test avanzati lipoproteici [19].
L'analisi NMR consente la caratterizzazione
delle sottoclassi lipoproteiche eterogenee
che
possono
differire
nella
loro
aterogenicità,
91
offrendo, così, uno strumento per identificare il
reale rischio cardiovascolare tra individui con
valori simili di lipidi ematici.
Le diverse sottoclassi lipoproteiche misurate
mediante analisi NMR, hanno dimostrato essere
marcatori
di
gravità
della
malattia
cardiovascolare [18], e hanno capacità predittiva
del rischio di CVD [6,7,20,21] e del rischio di
diabete di tipo 2 [22,23]. Queste associazioni
sono spesso indipendenti dagli altri comuni
fattori di rischio, quali l'età e le misurazioni
standard dei lipidi sanguigni. In linea con i noti
effetti dei carboidrati sulla regolazione della
produzione di VLDL-TG [10], si sono avute
riduzioni dei TG plasmatici, del diametro delle
particelle VLDL e del numero delle grandi VLDL
in tutti i partecipanti.
Inoltre, sono state osservate riduzioni delle
apolipoproteine plasmatiche (C-III ed E)
associate alle grandi VLDL-TG ricche.
ApoC-III e apoE sono note per la capacità di
ridurre l’ idrolisi e il catabolismo delle VLDL-TG
inibendo l’ attività LPL [24,25]. Si sono inoltre
osservate maggiori diminuzioni delle VLDL totali
e VLDL medie nel gruppo EGG rispetto al gruppo
SUB. Il numero delle VLDL tot e delle medie
VLDL è stato dimostrato essere positivamente
associato con l’incidenza di CVD [6] e di
diabete di tipo 2 [23]. Le ulteriori riduzioni di
VLDL osservate nel gruppo EGG, possono
essere legate alla riduzione della produzione
epatica di VLDL, risultante dai miglioramenti
dell’insulinemia e dell’ HOMA-IR osservati al
termine
dello
studio.
La dislipidemia aterogenica del Mets è guidata
dalla sovrapproduzione di grandi VLDL TGricche, conseguenza della resistenza insulinica
epatica [8]. Quest’ultima aumenta sia il
substrato lipidico che la disponibilità di apoB
per il montaggio delle VLDL [8]. Le piccole e
medie LDL sono significativamente diminuite
in tutti i partecipanti . Inoltre, c’è stato un
concomitante aumento nelle grandi LDL
(meno aterogeniche). Al contrario delle piccole
LDL, le LDL più grandi non sono generalmente
associate a un rischio cardiovascolare [6].
Inoltre, si è osservato un aumento significativo
della dimensione delle particelle LDL nel
gruppo EGG. E’ stato già dimostrato come
un’alimentazione che prevede l’uso giornaliero
di uova possa determinare l’incremento delle
grandi sottoclassi di LDL e del diametro LDL,
misurato mediante gel elettroforesi [26] e
metodi
NMR
[13].
Tabella 4 – Numero di HDL totali, grandi, medie e piccole HDL in tutti i partecipanti al basale e dopo 12
settimane di intervento dietetico.
92
Tabella 5 – Apolipoproteine plasmatiche nei partecipanti al basale e alla dodicesima settimana di
intervento dietetico.
Più elevate concentrazioni plasmatiche di LDL
sono correlate al’incidenza di CVD [6]. Le
piccole LDL sono state correlate con bassi
livelli di HDL-C ed elevati TG plasmatici che
costituiscono le principali alterazioni delle
lipoproteine nella dislipidemia aterogenica
osservata nella sindrome metabolica [4]. Le
riduzioni delle piccole LDL osservate in
questo studio sono conformi al parallelo
miglioramento dell’ HDL-C, dei TG, e del
rapporto
TG/HDL-C
(utilizzato
come
marcatore di resistenza insulinica) [27].
Le piccole LDL sono particolarmente
aterogeniche, a causa del maggiore tempo di
permanenza e alla maggiore suscettibilità per
l’ossidazione e la ritenzione sottoendoteliale
[2]. Conseguentemente si sono osservate
riduzioni delle oxLDL in tutti i partecipanti, e
questo è associato alla riduzione sia delle
piccole che delle medie LDL [6].
I livelli plasmatici di apoB sono rimasti
inalterati, in accordo con la mancanza di
effetti sul numero totale di LDL
che
contribuiscono al 90% del totale di apoB
plasmatico [28]. I maggiori cambiamenti
osservati nel gruppo EGG sono stati
l’aumento delle grandi LDL e la diminuzione
delle sottoclassi di LDL più piccole.
È importante sottolineare che questi
cambiamenti nella dimensione LDL e delle
sottoclassi
si
sono
verificati
indipendentemente da eventuali variazioni
delle
LDL-C.
Ci sono stati maggiori miglioramenti
significativi sia nella dimensione delle HDL che
nel numero delle grandi HDL nel gruppo EGG
rispetto al SUB. Inoltre, tali aumenti sono stati
fortemente correlati all’aumento di HDL-C
plasmatico, in linea con altri studi NMR [6,20].
Sono stati evidenziati negli uomini in
sovrappeso
miglioramenti
simili
nelle
caratteristiche delle particelle HDL con
l'assunzione giornaliera di uova intere[13].
Le particelle di HDL si differenziano per
dimensioni, densità e carica a causa delle
differenze di composizione
(proteine e
contenuto lipidico) [29]. Le piccole HDL, più
dense, sono considerate meno ateroprotettive
delle sottoclassi più grandi, e di solito sono
indicative di un fenotipo caratterizzato da
dislipidemia aterogenica [7]. Dimensione delle
particelle HDL misurata mediante NMR è
risultata essere significativamente più piccola
nei pazienti affetti da malattia coronarica
(CHD) rispetto al controllo [7]. Inoltre, le
grandi HDL sono protettive rispetto ai CVD, 93
mentre HDL piccole sono associate alla patologia
cardiovascolare [6,18]. Alcune analisi non hanno
trovato alcuna associazione tra la dimensione
delle particelle HDL e rischio di CHD dopo il
controllo per le concentrazioni plasmatiche di
apoB e trigliceridi [7]. Tuttavia, le terapie che
hanno come risultante HDL più grandi e profili
delle sottoclassi di HDL simili a quelli degli
individui sani possono essere indicative di
miglioramenti del rischio cardiovascolare [30].
Dallo studio è emersa una significativa riduzione
del numero delle HDL medie in
tutti i
partecipanti. Questo era prevedibile, in quanto
osservato anche in altri studi come effetto
parallelo delle riduzioni di assunzione di
carboidrati [13,31,32]. Uno studio di controllo
osservazionale in uomini con sindrome
metabolica ha evidenziato che quelli con meno
HDL medie (misurata mediante NMR) avevano
una maggiore incidenza di morte per malattia
coronarica [33]. Tuttavia, altri studi sui profili
lipoproteici ottenuti mediante NMR non hanno
trovato associazione tra HDL medio e CHD [6,7].
Nello studio qui descritto si sono osservate,
inoltre, riduzioni significative delle apoA-II,
probabilmente dovute alla riduzione delle medie
HDL [34]. L’ApoA-II è stata associata con
un’alterata attività dell'LCAT, ipertrigliceridemia,
e aterosclerosi (in modelli animali) [35]. Così, la
formazione di grandi HDL a scapito delle medie
riflette forse un profilo di sottoclassi di HDL più
ateroprotettive a seguito di consumo di uova.
Non ci sono state variazioni nelle ApoA-I
plasmatiche, in accordo con la mancanza di
variazioni nelle HDL totali, insieme con le
riduzioni di HDL medie, che portano entrambi
apoA-I e apoA-II, e l’incremento delle grandi
HDL, che trasportano prevalentemente apoA-I
[36].
L’attività dell'LCAT è aumentata solo nel gruppo
EGG. Questo risultato è coerente con altri studi
che riportano che l'assunzione giornaliera di
uova aumenta l'attività dell'LCAT [13,14]. Questo
potrebbe essere indicativo di una maggiore
capacità di maturazione dell’HDL [13]. L'LCAT è
di fondamentale importanza nel facilitare la
stabilità e la maturazione delle particelle HDL
[37]. Diversamente dall'LCAT, non ci sono stati
cambiamenti dell'attività plasmatica del CETP in
entrambi i gruppi. Pertanto, un aumento
dell'attività dell'LCAT dovuto al consumo di uova
può essere associato a miglioramenti
nell’inversione del trasporto del colesterolo
mediata dalle HDL. I miglioramenti della
dislipidemia osservati in questo studio sono
almeno paragonabili ai
risultati ottenuti
utilizzando cibi integrali volti ad indirizzare e
migliorare il profilo dei lipidi plasmatici.
Il consumo di 1,5 pompelmi al giorno per 6
settimane si è osservato possa ridurre il
colesterolo plasmatico totale e l’LDL-C negli
adulti in sovrappeso, ma non comporta
miglioramenti del C-HDL [38].
Nei diabetici tipo 2, 4 settimane di consumo
quotidiano di mandorle (~ 60 g al giorno) ha
determinato
nel
9,7%
la
diminuizione
nel rapporto LDL-C/HDL-C rispetto alla dieta di
controllo, derivante da riduzioni nel plasma delle
LDL-C [39]. Nello studio corrente, il consumo di
uova intere è stato associato a una riduzione del
13,5% del rapporto LDL-C/HDL-C rispetto al
basale, principalmente attribuita all’aumento del
19,1%
dell’HDL-C
plasmatica.
Rispetto al sostituto d’uovo privo di tuorlo, gli
effetti osservati col consumo di uova intere sono
probabilmente dovuti proprio al tuorlo.
Questi sono una fonte particolarmente ricca di
fosfatidilcolina esogena (PC) e di altri fosfolipidi
[40]. Questi sono stati associati ad
aumenti di HDL-C in studi su animali e umani
[41,42].
Il fosfolipidi possono essere in parte responsabili
dei miglioramenti osservati nell’HDL-C e nei
profili
delle
HDL.
Tra i punti di forza dello studio si può evidenziare
la praticità dell’intervento dietetico utilizzato. I
risultati dimostrano che anche una moderata
restrizione di carboidrati può portare a
miglioramenti globali nei vari parametri della
sindrome metabolica. Tale modello alimentare
può essere facilmente seguito ed accettato dai
pazienti affetti da sindrome metabolica.
Inoltre, l'inclusione di uova intere, che sono a
basso contenuto di carboidrati, possono
migliorare gli effetti benefici della restrizione dei
carboidrati
sui
lipidi
plasmatici,
sui
profili lipoproteici, e sulla resistenza all'insulina.
Uno dei limiti dello studio è che i partecipanti al
gruppo EGG erano più insulino resistenti rispetto
a quelli del gruppo SUB, e quindi potrebbero
aver maggiormente beneficiato della perdita di
94
peso.
Inoltre potrebbe essere necessario un ulteriore
studio di maggiore durata per affrontare il
consumo più prolungato di colesterolo e colina
in soggetti con sindrome metabolica.
In sintesi, la restrizione dei carboidrati e perdita
di peso migliorano il profilo delle lipoproteine in
individui con sindrome metabolica riducendo
l’oxLDL plasmatico, e modifica la distribuzione
delle sottoclassi lipoproteiche verso una minore
aterogenica. Inoltre, l'inclusione di uova
intereaumenta le grandi HDL, il diametro delle
HDL e delle LDL e l’attività dell'LCAT, riducendo
le VLDL totali e medie. Così, i risultati di questo
studio
suggeriscono
che
consumare
giornalmente uova intere in un regime
alimentare
moderatamente
povero
in
carboidrati favorisca un miglioramento del
profilo lipoproteico aterogenico tipico della
Sindrome metabolica. Ulteriori studi devono
essere condotti per confermare questi risultati.
Bibliografia
95
96
L’ingestione simultanea di carboidrati e proteine del siero di latte
isolate aumenta l’espressione dell’mRNA del PGC- 1 alfa: effetti
sull’adattamento all’allenamento endurance
a cura di Manuel Salvadori e Vincenzo Tortora
La nutrizione ottimale non è richiesta solo per un
normale funzionamento organico, ma lo stato
nutrizionale di un atleta di endurance può
influire negativamente o positivamente sulla sua
performance sportiva (1). Le richieste
nutrizionali degli atleti di endurance includono
fabbisogni calorici più elevati per sostenere
l’attività e ripristinare il glicogeno ed un
aumentato apporto proteico per supportare il
turnover proteico muscolare. Durante l’esercizio
d’endurance i fenomeni che maggiormente
squilibrano l’omeostasi cellulare, i depositi e
l’utilizzo energetico avvengono nei muscoli (2). Il
recupero da una sessione di allenamento di
endurance è fondamentale, dal momento che il
danno muscolare causato durante l’esercizio
parzialmente dovuto alla contrazione muscolare
ed ai cambiamenti ormonali che risultano in una
degradazione
delle
proteine
muscolari,
continuano una volta che l’esercizio viene
cessato (3). Questo danno può peggiorare la
funzione muscolare, il trasporto di nutrienti, il
tasso di resintesi di glicogeno e squilibrare la via
della sintesi proteica (3).
Ripetute sessioni di esercizio d’endurance
risultano in adattamenti strutturali, metabolici e
fisiologici che garantiscono il miglioramento
della prestazione (4). Gli adattamenti a lungo
termine sono un risultato cumulativo di sessioni
di allenamento successivi ed il periodo postallenamento è cruciale nel permettere questi
processi (2). Durante il recupero l’attivazione di
alcune importanti vie di segnalazione avviene
nelle prime ore prima di ritornare a valori basali
in 24 ore (2). Il recupero dall’allenamento
d’endurance richiede il ripristino delle scorte di
glicogeno e la riparazione dei danni muscolari
(5).
La nutrizione è una componente chiave per
supportare l’allenamento pesante e la
competizione (6). La sorgente primaria di
energia durante gli eventi d’endurance è il
glicogeno muscolare (7, 8).
È ben documentato che la deplezione delle
scorte di glicogeno intramuscolari può limitare la
performance durante l’esercizio prolungato (9).
Massimizzare i livelli di glicogeno pre-esercizio
attraverso il carico dei carboidrati è molto
praticato dagli atleti, in aggiunta al ripristino
immediatamente
dopo
l’esercizio
per
ottimizzare il recupero del glicogeno muscolare
(10). Comunque, i soli carboidrati non sono
abbastanza per stimolare in modo significativo la
sintesi proteica e la risposta adattativa
all’esercizio d’endurance (11).
Le proteine sono un substrato estremamente
importante, per la loro influenza sul tasso di
regolazione della sintesi proteica muscolare
(MPS) ed i conseguenti effetti sul fenotipo del
muscolo scheletrico (12). Gli adattamenti
muscolari dipendono dalla disponibilità di un
sufficiente apporto proteico (2). Il tipo di
proteine consumate può influire il processo di
recupero per le differenze nel tasso di digestione
delle proteine e la concentrazione delle stesse
(11). Le proteine delle caseine sono rilasciate
dallo stomaco più lentamente delle proteine
isolate del siero di latte (whey). Dunque, le whey
producono un aumento più rapido e transitorio
della concentrazione degli aminoacidi e
potenzialmente una maggior disponibilità degli
aminoacidi stessi (13). Le proteine whey isolate,
paragonata ad altre fonti proteiche, sono molto
efficaci nel promuovere la sintesi proteica a
seguito dell’esercizio contro resistenza per la
loro alta concentrazione in aminoacidi a catena
ramificata essenziali (14).
97
La modalità dell’esercizio influenza i successivi
adattamenti
muscolari,
con
l’esercizio
d’endurance che risulta primariamente in un
aumentata capacità ossidativa muscolare e
quello contro resistenza in ipertrofia muscolare
(15). L’esercizio d’endurance migliora gli
adattamenti
del
muscolo
scheletrico
aumentando gli attivatori della biogenesi
mitocondriale come il coattivatore-1 alfa del
recettore attivato dai proliferatori dei
perossisomi gamma (PGC-1 alfa) (16, 17).
La regolazione della sintesi proteica coinvolge
diverse vie di segnalazione. Queste sono
influenzate dagli aminoacidi, l’insulina e la
stimolazione meccanica (18). Esiste un ampio
campo di ricerca che dimostra il beneficio della
supplementazione di proteine con l’esercizio
contro resistenza (14, 19, 20). Comunque, la
ricerca è limitata sui benefici della
supplementazione di proteine per atleti
impegnati in allenamenti di endurance. In
particolare, gli effetti della co-ingestione di
proteine isolate del siero di latte e carboidrati sul
recupero dall’esercizio d’endurance e la via del
PGC-1 alfa.
Lo studio preso in esame valuta 2 settimane di
co-ingestione di whey isolate più carboidrati
(CHO + WPI) sulla performance di endurance ed
il recupero, paragonata ad un gruppo isocalorico
con pari carboidrati (CHO). Abbiamo ipotizzato
che CHO + WPI migliori la performance ed il
recupero aumentando i livelli di glicogeno
muscolare e facilitando la risposta adattativa,
paragonato ai soli CHO.
Il campione dello studio è rappresentato da sei
ciclisti d’endurance sani e triatleti che hanno
volontariamente completato lo studio (età 29 +/4 anni, peso 74 +/- 2 kg, VO2_max 63 +/- 3 ml
ossigeno/kg per minuto, altezza 183 +/- 5 cm;
medie +/- SEM). I partecipanti hanno completato
un questionario medico standard prima di
iniziare l’esperimento. L’ammissione allo studio
richiedeva un consumo massimale di ossigeno di
almeno 60 ml di ossigeno/kg per minuto e non
aver consumato supplementazione di whey nelle
ultime 12 settimane prima dello studio.
I partecipanti hanno effettuato il test per la
VO2_max su un cicloergometro. Il test
consisteva in 3 minuti a 3 carichi di lavoro sub
massimali seguiti da un aumento di 25 watt (W)
ogni minuto fino all’esaurimento. Durante il
testo, la frequenza cardiaca (HR) dei soggetti è
stata monitorata ed i gas respiratori sono stati
continuamente misurati con un gas analisi. Le
misurazioni dei gas respiratori sono state
misurate utilizzando spirometria a circuito
aperto e la calorimetria indiretta tramite una
tabella metabolica.
I dati ottenuti dalla VO2_max dei partecipanti
sono stati usati per calcolare il loro carico di
lavoro (70% e 90% della VO2_max) per i test di
esercizio. Una curva standard è stata costruita
da 3 lavori sub massimali e VO2. La VO2_max
predetta è stata poi usata per calcolare la
percentuale dei carichi di lavoro (W) in accordo
all’equazione lineare generata dalla curva
standard.
Completato il testo, i partecipanti sono stati
introdotti ai regimi dietetici e le procedure
sperimentali utilizzate durante lo studio. Era
richiesto che i partecipanti mantenessero il loro
allenamento durante gli interventi dietetici ed i
periodi di washout.
È stato utilizzato un protocollo randomizzato
crociato a singolo cieco per valutare gli effetti
della supplementazione delle proteine whey
isolate sulla performance d’endurance ed il
recupero. Gli interventi dietetici sono stati
casualmente assegnati senza che i partecipanti
lo sapessero, eguagliando le bevande con CHO e
CHO + WPI per sapore, odore ed aspetto.
Ognuno dei protocolli era seguito da 16 giorni
totali (14 giorni seguiti da 2 giorni di carico di
CHO) con un periodo di wash out di 4 settimane
per separare gli interventi dietetici.
Gli interventi dietetici erano isocalorici ed il
contenuto di CHO eguagliato (vedere Tabella 1
per i valori nutrizionali delle diete). Le diete
erano isocaloriche tramite la modulazione della
quantità di grassi consumata, comunque il
contenuto totale di grassi nel gruppo CHO
contribuiva a meno del 30% dell’energia totale.
98
Tabella 1- Contenuto di carboidrati (CHO), proteine (PRO) e grassi (Fat) negli interventi dietetici divisi per
gruppo solo carboidrati (CHO) e gruppo carboidrati + proteine del siero isolate (CHO+WPI)
Le proteine extra a 1.2 g/kg per giorno sono state
supplementare tramite proteine whey isolate
(tabella 2) e fornite con una bevanda sportiva
pronta (tabella 3). Il gruppo CHO ha consumato
la bevanda sportiva, senza le WPI. Nei giorni di
allenamenti i partecipanti erano istruiti a
consumare la bevanda durante e dopo la
sessione allenante e nei giorni di non
allenamento di consumarla in qualsiasi altro
momento del giorno.
Ai partecipanti sono stati forniti tutti i pasti e gli
spuntini durante la durata degli interventi
dietetici per assicurare la consistenza nei livelli di
energia e macronutrienti e per garantire la
compliance. Inoltre, ai partecipanti sono state
fornite delle tabelle come promemoria per
facilitare la documentazione dell’introito
alimentare.
Dopo il completamento dei 16 giorni di interventi
dietetici (CHO o CHO + WPI), i partecipanti sono
giunti al laboratorio il mattino a digiuno. Gli
esercizi sono stati completati su un
cicloergometro e consistevano nel pedalare per
60 minuti al 70% della VO2_max seguiti da 2
minuti di riposo, e poi pedalare fino
all’esaurimento al 90% della VO2_max. A seguito
di questo, i soggetti hanno recuperato in
laboratorio per 6 ore.
Durante le 6 ore di recupero i partecipanti hanno
seguito gli interventi dietetici che avevano prima
della prova di esercizio (CHO o CHO + WPI). Se
essi facevano parte del gruppo solo CHO,
consumavano 4 g/kg di carboidrati, 0.6 g/kg di
grassi e 0.4 g/kg di proteine.
Tabella
2Profilo
amminoacidico
del
supplemento come proteine del siero isolate
usato nelle bevande
* Amminoacidi essenziali
Tabella 3- Informazioni nutrizionali per bevande
sportive
99
Mentre il gruppo con la dieta CHO + WPI
consumava 4 g/kg di carboidrati, 0.4 g/kg di
grassi ed 1.1 g/kg di proteine durante le prime 3
ore delle 6 di recupero. La fonte proteica
durante il recupero per il gruppo CHO + WPI era
primariamente costituita da proteine isolate del
siero di latte fornite con una bevanda sportiva
(0.7 g/kg).
La nutrizione di recupero era eguagliata in
carboidrati e resa isocalorica alterando il
contenuto lipidico della razione fornita.
Campioni di sangue venoso sono stati presi ogni
20 minuti durante l’esercizio al 70% della
VO2_max ed al completamento del test al 90%
della VO2_max. Il sangue è stato preso ogni 10
minuti durante la prima ora ed ogni ora dopo il
test per le rimanenti 6 ore di recupero. Il plasma
è stato successivamente analizzato per le
concentrazioni di glucosio ed insulina.
Le biopsie muscolari sono state prese a riposo,
alla fine dei 60 minuti al 70% della VO2_max,
durante i 2 minuti di pausa, al completamento
del testo fino all’esaurimento al 90% della
VO2_max ed alla fine delle 6 ore di recupero. Le
biopsie muscolari sono state ottenuto dal vasto
laterale. La selezione della gamba è stata casuale
e nella seconda prova è stata fatta la biopsia
sull’altra gamba. I campioni muscolari sono stati
presi utilizzando la procedura di Bergstrom (21)
modificata per l’ago aspirato (22).
Una porzione del muscolo, sottoposto prima a
congelamento , è stata utilizzata per analizzare il
glicogeno muscolare.
Sono state valutate, attraverso l’analisi della PCR
“real-time”, le attività enzimatiche attraverso
l’espressione dell’RNA messaggero (mRNA) per
la glicogeno sintasi, il PGC-1 alfa e la proteina
chinasi
alfa
2
attivata
dall’adenosina
monofosfato (AMPK-alfa2) (24).
I risultati hanno mostrato che Il tempo per
arrivare all’esaurimento o fatica non differiva
significativamente tra CHO (11:14 +/- 1:05 min) e
CHO + WPI (10:05 +/- 1:30 min). La
concentrazione plasmatica di glucosio è
presentata nella figura 1.
Sia per CHO che per CHO + WPI, il glucosio
plasmatico è significativamente aumentato
durante il test al 90% della VO2_max ed è rimasto
elevato paragonato al riposo fino a 40 minuti
durante il recupero, per il gruppo CHOè rimasto
elevato fino a 60 minuti durante il recupero.
Nessuna differenza nel glucosio plasmatico è
stata rilevata tra le prove in ogni momento. La
concentrazione plasmatica di insulina (figura 2)
per le prove CHO è aumentata paragonata al
riposo, dal minuto 40 al 180 durante il recupero
(P < 0.05). Nel gruppo CHO + WPI è aumentata
paragonata al riposo, dal minuto 30 al minuto
180 durante il recupero (P < 0.05).
Il gruppo CHO + WPI ha avuto insulina
significativamente elevata a 180 minuti durante il
recupero (P < 0.05) paragonato al gruppo CHO.
Il contenuto di glicogeno muscolare (Figura 3)
era simile tra CHO e CHO + WPI a riposo. A
seguito dell’esercizio e le 6 ore di recupero in
entrambi i gruppi era minore che a riposo (P <
0.05). Il gruppo CHO + WPI aveva glicogeno
significativamente aumentato dalla fine del test
al 90% della VO2_max alla fine delle 6 ore di
recupero, mentre il gruppo CHO non mostrava
questo aumento. Questo è avvenuto senza
differenza nell’espressione dell’mRNA per la
glicogeno sintasi tra CHO e CHO + WPI (figura 4).
L’espressione del mRNA per l’AMPK-alfa2 (figura
5) rimane simile sia per il gruppo CHO che per il
gruppo CHO+WPI. A seguito della prova di
esercizio al 90% della VO2_max e alla fine della 6
ora del recupero, il gruppo CHO aveva un valore
più basso rispetto al punto di riposo ( rest )
(P<0.05). L’espressione del mRNA della PGC-1
alfa ( Figura 6) era significativamente più alta,
per il gruppo CHO+WPI ,alla fine della 6 ora del
recupero se comparata a tutti i punti della
prova (P<0.05); inoltre
risulta anche
significativamente più alta alla fine della 6 ora
del recupero rispetto al gruppo CHO ( P<0.05)
100
Figura 1- Concentrazione del glucosio plasmatico a confronto tra il gruppo solo carboidrati (CHO) e il
gruppo carboidrati + proteine del siero isolate ( CHO + WPI).
Il giorno della prova con esercizio consisteva in 60 minuti di cicloergometro a 70% della VO2max con prelievi
del sangue presi a riposo e ogni 20 minuti ( riposo, 20,40,60 min). Successivamente si è proceduto ad una
sessione di sforzo massimo arrivando al punto di fatica o esaurimento al 90% della VO2max . Il prelievo venoso
è stato effettuato alla fine di questo sforzo ( O ) . Le 6 ore di recupero hanno visto i prelievi venosi ad
intervalli regolari la prima ora (a 10,20,30,40,60 min ) e poi ogni ora ( 120,180,240,300,360 min ). La
concentrazione del glucosio plasmatico ha un incremento al completamento della prova al 90% della VO2max
per entrambi i gruppi e rimane elevato rispetto alla fase di riposo ( rest) fino a 40 minuti durante la fase di
recupero nel gruppo CHO +WPI (# P <0.05) e fino a 60 minuti nel gruppo CHO (* P <0.05) . Valori medi ± SEM
( n=6).
Figura 2- Concentrazione dell’insulina plasmatica a confronto tra il gruppo solo carboidrati (CHO) e il
gruppo carboidrati + proteine del siero isolate ( CHO + WPI).
Il giorno della prova con esercizio consisteva in 60 minuti di cicloergometro a 70% della VO2max con prelievi
del sangue presi a riposo e ogni 20 minuti ( riposo, 20,40,60 min). Successivamente si è proceduto ad una
sessione di sforzo massimo arrivando al punto di fatica o esaurimento al 90% della VO2max . Il prelievo venoso
è stato effettuato alla fine di questo sforzo ( O ) . Le 6 ore di recupero hanno visto i prelievi venosi ad
intervalli regolari la prima ora (a 10,20,30,40,60 min ) e poi ogni ora ( 120,180,240,300,360 min ). La
concentrazione dell’insulina plasmatica ha un incremento per entrambi rispetto alla fase di riposo ( rest) (
CHO , * P <0.05 e CHO+WPI # P<0.05). A 180 min la concentrazione dell’insulina plasmatica era nettamente
superiore per il gruppo CHO+WPI rispetto al gruppo CHO
( ^ P<0.05) per poi tornare a livelli bsali dopo
101
240 min. Valori medi ± SEM ( n=6).
Discussione
Figura 3- Concentrazione del glicogeno muscolare a
seguito dell’intervento dietetico a 16 giorni e con
successive biopsie muscolari il giorno della prova
d’esercizio al tempo zero ( rest) , a 60 minuti con il
70% della VO2max
, al tempo di esaurimento con il
90% della VO2max e alla fine della 6h di recupero. Il
gruppo (CHO) e il gruppo (CHO+WPI) sono simili a
riposo ( rest) . Per tutte le rilevazioni si evidenzia una
concentrazione più bassa di glicogeno muscolare per
entrambi i gruppi rispetto al basale ( # p <0.05). Alla
fine della 6h del recupero solo il gruppo CHO+WPI ha
un aumento del glicogeno muscolare rispetto al
valore preso alla fine del tempo di esaurimento al 90%
della VO2max
(* P<0.05). Valori medi ± SEM ( n=6).
Le proteine sono considerate un componente
nutrizionale chiave per il successo atletico,
comunque sembra ci sia una mancanza di
informazione riguardante gli effetti di una
combinazione di CHO e supplementazione
proteica sugli adattamenti all’esercizio durante il
recupero. Questo studio paragona per 2
settimane la co-ingestione di proteine isolate del
siero di latte e una dieta elevata in carboidrati
con una dieta isocalorica eguagliata in
carboidrati negli atleti di endurance. La
supplementazione proteica con l’adeguata
disponibilità di carboidrati, inclusa in un
programma di allenamento regolare , non
influenza la performance del lavoro aerobico
intenso o i livelli di glicogeno pre- e postesercizio. Comunque, l’aumento dell’insulina
plasmatica e dell’espressione dell’mRNA
muscolare
per
PGC-1
alfa
con
la
supplementazione CHO + WPI paragonata ai soli
CHO indica un potenziale miglioramento
dell’adattamento all’allenamento che segue la
supplementazione.
I livelli di glicogeno a riposo sono paragonabili
con protocolli precedentemente pubblicati di
carico glucidico (25). La supplementazione con le
proteine isolate del siero aumenta ulteriormente
i livelli basali di glicogeno quando sono forniti
adeguati introiti di CHO (8 g/kg al giorno) su
base giornaliera, a seguito di carico di carboidrati
prima della competizione. Comunque, la
resintesi di glicogeno alla fine delle 6 ore di
recupero è aumentate per il gruppo CHO + WPI e
non per quello CHO. Studi precedenti hanno
mostrato che la co-intestione delle proteine del
siero con i carboidrati consumati prima
dell’esercizio e del periodo di recupero
aumentano la sintesi di glicogeno muscolare
durante il recupero (26-28). Questi studio
utilizzano livelli subottimatli di carboidrati (< 0.8
g/kg per ora) richiesti per la massima sintesi di
glicogeno durante il recupero, suggerendo che la
co-ingestione CHO+WPI può essere benefica
solo per la resintesi di glicogeno quando sono
consumate insufficienti quantità di CHO.
102
Figura 5- Espressione del mRNA della proteina
AMPk-alfa 2 per i due gruppi CHO e CHO+WPI.
C’è differenza significativa solo per il gruppo CHO con
un abbassamento dell’espressione alla fine del punto
di esaurimento al 90% della VO2max e alla fine della 6H
del recupero.
Figura 6- Espressione del mRNA della proteina PGC-1
alfa per i due gruppi CHO e CHO+WPI dopo 16 giorni
di intervento dietetico e al giorno della prova
d’esercizio.
Le biopsie del muscolo sono state prese a riposo (
rest) , dopo 60 min di esercizio al 70% della VO2max,
alla tempo di esaurimento al 90% della VO2max e alla
fine della 6h di recupero. Rispetto alla fine della 6h del
recupero, il gruppo CHO+WPI mostra bassi valori
dell’espressione del mRNA di PGC-1alfa ( # P<0.05).
Dopo la 6h di recupero c’è un significativo incremento
dell’espressione per il gruppo CHO+WPI rispetto al
gruppo CHO ( ^ P<0.05)
Comunque, il presente studio ha mostrato anche
benefici dell’addizione delle proteine isolate del
siero di latte anche quando sono ingeriti valori
ottimali di CHO.
Jentjens et al. (21) hanno trovato che la coingestione di una miscela di aminoacidi in
combinazione con elevati introiti di carboidrati
(1.2 g/kg per ora) durante il recupero accentua
l’elevazione dell’insulina plasmatica. Lo studio
presente ha dimostrato che l’insulina a 180 min
dell’intervallo
di
recupero
seguente
all’ingestione di CHO + WPI è aumentata e che
sul lungo termine c’è una sostenuta elevazione
dell’insulina. Le proteine isolate del siero di latte
sono insulinotropiche (hanno capacità di
stimolare la produzione di insulina) paragonate
alla caseine o ad altre proteine di origine
vegetale (29, 30). È stato mostrato che le
proteine isolate del siero di latte inducano una
risposta insulinica indipendente dalla coingestione di carboidrati (31).
Precedenti studi hanno suggerito che i livelli
aumentati di insulina siano uno dei principali
meccanismi per cui aumentano i livelli di
glicogeno muscolare, via stimolazione dei
trasportatori di glucosio nel muscolo con
conseguente aumento dell’uptake di glucosio e
azione della glicogeno sintasi (28, 32).
L’espressione dell’mRNA per la glicogeno sintasi
non è aumentata in questo studio, indicando
mancanza dello stimolo per l’aumento della
sintesi di glucosio. Comunque, l’aumento
dell’insulina plasmatica durante il recupero dal
CHO + WPI può spiegare l’aumentato ripristino
del glicogeno muscolare osservato nello studio
presente. La precedente riduzione nella
concentrazione di glucosio plasmatico nel
gruppo CHO + WPI (dopo 40 minuti) paragonato
ai soli CHO (dopo 60 minuti) supporta questa
osservazione.
L’insulina può anche avere un ruolo
nell’aumentare il bilancio proteico netto
attenuando la degradazione proteica (33).
Morrison et al. (34) hanno esaminato l’effetto
dell’esercizio d’endurance e la nutrizione (CHO,
proteine e CHO + proteine) sulle vie di
trasduzione del segnale coinvolte nella
traduzione dell’mRNA;
103
il target della rapamicina nei mammiferi (mTOR)
e tre delle sue proteine dipendenti di
segnalazione: proteina ribosomiale s6 chinasi-1
(p70s6k), proteina ribosomiale S6 (rps6) e
proteina 1 legante il fattore di iniziazione 4E (4EBP1). Il gruppo CHO + Proteine ha fatto rilevare
un aumento dell’insulina e degli stati fosforilati
di 4E-BP1 ed rpS6 a 30 minuti dopo l’esercizio,
paragonato al gruppo di soli CHO o sole
proteine.
Anche
l’mTOR
è
coinvolto
nell’attivazione della biogenesi mitocondriale
(35). Queste osservazioni sono in accordo con lo
studio presente che dimostra una risposta
insulinica elevata nel gruppo CHO + WPI, che può
avere
giocato
un
ruolo
nell’aumento
dell’espressione dell’mRNA per PGC-1 alfa. La
biogenesi mitocondriale è un adattamento ben
stabilito con esercizi d’endurance (36), con il
PGC-1 alfa e l’AMPK importanti regolatori di
questo processo nel muscolo scheletrico (36,
37). I cambiamenti nello stato energetico
cellulare attivano AMPK, che quindi fosforila
PGC-1 alfa (36, 38). L’espressione dell’mRNA per
l’AMPK-alfa 2 è diminuita paragonata al riposo
nel gruppo CHO dopo aver pedalato al 90% della
VO2_max e dopo le 6 ore di recupero, anche se
questo non è differente dal gruppo CHO + WPI.
PGC-1 alfa lega e co-attiva un numero di fattori di
trascrizione sia del genoma nucleare che
mitocondriale (36, 39). Una singola sessione di
attività fisica mostra aumentare l’mRNA per il
PGC-1 alfa negli esseri umani (40, 41).
I risultati dal presente studio dimostrano che la
co-ingestione di CHO e WPI aumenta
l’espressione dell’mRNA per il PGC-1 alfa
paragonata ai soli CHO alla fine delle 6 ore di
recupero. Questo risultato può avere importanti
implicazioni per il consumo di CHO + WPI in un
programma di allenamento di endurance e per
l’aumento dell’adattamento muscolare al carico
allenante. Numerosi studi hanno investigato gli
effetti della co-ingestione di carboidrati e
proteine durante e dopo esercizi di tipo
endurance sul tasso di sintesi proteica ed il
bilancio proteico organico totale (42, 43).
Comunque, questi studi non hanno esplorato la
co-ingestione di CHO e proteine sulla via di
segnalazione coinvolta nella sintesi proteica, in
particolare nella via di segnalazione della
biogenesi mitocondriale.
Breen et al. (44) hanno investigato la sintesi
proteica mitocondriale e muscolare miofibrillare
quando carboidrati o carboidrati più proteine
venivano ingeriti dopo esercizi prolungati di
endurance. Questo studio ha trovato che
l’ingestione di carboidrati più proteine
aumentava la sintesi proteica miofibrillare ma
non mitocondriale. Questo è in contrasto con lo
studio presente, in cui l’mRNA per il PGC-1 alfa è
aumentato nel gruppo CHO + WPI paragonato ai
soli CHO. L’esercizio aerobico, come pedalare
per tempi prolungati eseguito nello studio di
Breen et al. (44), rappresenta uno stimolo che
dovrebbe portare ad adattamenti come la
biogenesi mitocondriale e la sintesi proteica
mitocondriale, in cui il PGC-1 alfa è considerato
un regolatore principale. Lo studio presente ha
investigato l’mRNA 6 ore dopo l’esercizio,
mentre Breen et al. (44) hanno misurato la
sintesi proteica a 4 ore dopo l’esercizio. Questo
può essere un tempo troppo breve dopo
l’esercizio ed il consumo di CHO più proteine per
vedere un aumento nella sintesi proteica
mitocondriale (36). È importante notare che lo
studio presente ha incluso 2 settimane di
controllo dietetico e supplementazione prima
del test e che lo studio di Breen et al. ha solo
fornito la supplementazione post-esercizio.
L’introito di CHO dei clicisti allenanti nello studio
di Breen et al. era 5 g/kg al giorno, questo è al di
sotto delle attuali raccomandazioni per gli atleti
(45), mentre nello studio presente sono stati
utilizzati 8 g/kg al giorno, che hanno portato alle
differenti osservazioni in questo studio.
In conclusione si è osservato che 2 settimane di
intervento dietetico di co-ingestione di CHO +
WPI, hanno effetti positivi su aspetti
dell’adattamento all’esercizio d’endurance alla
fine di 6 ore di recupero, a seguito di un test
d’endurance.
104
I livelli di glicogeno muscolare non sono
aumentati ulteriormente prima dell’esercizio,
comunque con la supplementazione di WPI c’è
stato un miglioramento del recupero dal test al
90% della VO2_max alla fine delle 6 ore di
recupero.
I livelli di insulina plasmatica sono aumentati nel
gruppo CHO + WPI durante la fase di recupero.
L’mRNA per il PGC-1 alfa è aumentato alla fine
delle 6 ore di recupero seguendo l’ingestione di
CHO + WPI. La co-ingestione di CHO-WPI dunque
sembra giocare un ruolo importante negli
adattamenti
all’allenamento
d’endurance
tramite l’elevazione dell’insulina plasmatica e
dell’espressione dell’mRNA per il PGC-1 alfa
durante il recupero che può portare ad un
aumentato recupero, biogenesi mitocondriale e
dunque in ultima istanza performance.
Bibliografia
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