Come Walt Disney ha cambiato tutto

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Come Walt Disney ha cambiato tutto
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T. D. Allman
Come Walt Disney
ha cambiato tutto
National Geographic, marzo
2007; Titolo originale: How Walt
Disney changed everything.
The Theme-Parking,
Megachurching, Franchising,
Exurbing, McMansioning of
America – Scelto e tradotto da
Fabrizio Bottini
Tutto quello che succede oggi in America accade qui, lontanissimo dal
suburbio di scatolette bianche di una generazione fa. La regione di
Orlando è diventata la Sala Principale della Mostra per il crescente potere
dei nostri esurbi: grumi informi e ameboidi spuntati dal nulla in cui si
concentra popolazione, lontana dai centri urbani. Enormi comunità
sparpagliate, dove sempre più americani scelgono di stare, dove crescono
più rapidamente i posti di lavoro, è più veloce la costruzione delle case,
centri commerciali e megachiese si moltiplicano man mano arrivano
nuove persone. Chi sono, tutte queste persone? Sono me, sono voi, e
assomigliano sempre di meno ai mitici “Dick e Jane” cogli occhi azzurri
dell’America suburbana.
L’esplosione di Orlando è visibile in qualunque centro commerciale o
ingorgo del traffico. La si vede anche dallo spazio. Quando sono stati
lanciati i primi satelliti, la Florida fotografata di notte avea l’aspetto di due
“L” una di fronte all’altra: una lunga fila di luci sul lato atlantico della
penisola; un’altra lungo il Golfo del Messico. In mezzo, l’oscurità. Oggi le
due “L” sono diventate una “H” inclinata. La Florida centrale brilla come se
dallo spazio esterno ci fosse atterrata una creatura fosforescente che ha
cominciato a riprodursi. Ingoia gli insediamenti che esistono trasformando
brughiere e acquitrini in una piatta conurbazione di superstrade
congestionate e parcheggi. Tutto ciò si chiama “Orlando”, marchio di
fabbrica per una regione con due milioni di abitanti.
Quando la gente l’incredibile trasformazione di Orlando da buco sperduto
in una palude a metropoli del XXI secolo, inevitabilmente comincia
dall’uomo e dal topo. Il topo è Mickey, l’uomo Walt Disney. Se non fosse
per Disney, si dice qui, la regione di Orlando si chiamerebbe Ocala, città
rivale sulla stessa strada. Disney volò per la prima volta sopra la Florida
centrale in un aereo affittato con nome falso per tenere il segreto sulla
missione. Era il fatale 22 novembre 1963. L’assassinio di Kennedy
avrebbe segnato per sempre l’America. Lo stesso, la decisione presa da
Walt Disney il medesimo giorno, di trasformare un centro agricolo
nell’interno della Florida in un epicentro del turismo mondiale.
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Orlando era il capoluogo della Orange County, ma non erano gli agrumeti
ad aver spinto Disney alla sua spedizione aerea segreta. Durante il volo,
si concentrò su un’area deserta a sud-ovest di Orlando, dove gli alligatori
erano molto più numerosi delle persone. C’era roccia porosa calcarea
sotto il fango vegetale. Quella che appariva terraferma era punteggiata da
bacini chiusi di acque torbide, qualcuno grande come una casa, altri come
un grosso villaggio. “Eccolo” proclamò Disney indicando il luogo selvaggio
della Florida dove sognava di creare Epcot, Prototipo Sperimentale della
Città Americana del Futuro.
Nei due anni seguenti,
con la complicità del
ceto dirigente locale di
Orlando, Disney
acquistò in segreto oltre
10.000 ettari. La gente
era lieta di vendere a
buon prezzo quella
terra di poco valore. Il
suolo fangoso era
inutile per l’agricoltura.
Lontano dalle spiagge
della Florida. Caldo e
afoso gran parte
dell’anno, ma tanto
freddo nei brevi inverni
della Florida centrale
che periodicamente si gelavano i raccolti di agrumi.
Chi mai avrebbe voluto venire in vacanza in un posto del genere? La gran
parte degli americani, pensava Disney, dopo il trattamento della sua
magia di marketing. Negli anni ’60 in tutto il paese i suburbi stavano
sostituendo i vecchi quartieri urbani. I centri commerciali facevano fallire le
vecchie vie di negozi. Non c’era una casa di campagna o di città che non
avesse la sua antenna TV sul tetto. Disney capì che nei decenni a venire
sarebbero stati spettacoli come Il Club di Topolino, non il clima o la
geologia, a decidere i posti di vacanza preferiti dalla famiglia americana
come sicuri e gradevoli. Quel giorno, volando sopra la Florida centrale,
Disney decise che sarebbe stato lui, non la realtà, a decidere cosa
dovesse essere il Regno Magico nella fantasia e nelle abitudini di spesa di
milioni americani negli anni seguenti.
Il sistema autostradale interstate, cominciato dall’amministrazione
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Eisenhower come parte della Guerra Fredda al comunismo, si stendeva
già attraverso l’America. Disney scelse Orlando perché stava alla
confluenza di due tra le più importanti di queste nuove arterie, quelle che
oggi sono la Interstate 4 e la Florida Turnpike. C’era anche un motivo
profondamente personale per collocare Disney World qui: lo stesso che
attira ancor oggi le persone a Orlando. In questa zona centrale della
Florida, paludosa, vuota, piena solo di insetti, Walt Disney sentiva la
possibilità di una seconda occasione.
Il suo parco a tema originale – Disneyland, nella California meridionale –
si stendeva su meno di 120 ettari. Era stato immediatamente circondato
dal pasticcio suburbano inevitabilmente attirato dal suo successo: motel,
fasce commerciali, parchi di divertimenti che lo scopiazzavano. Disney
non si era mai perdonato di aver fatto Disneyland troppo piccola, e ora in
Florida sperava di rimediare all’errore. Iniziò a pensare a una
Adventureland dove niente era lasciato al caso. I visitatori in arrivo non
potevano scegliersi da soli dove parcheggiare; sorridenti personaggi della
Disney l’avrebbero fatto al loro posto. In questo nuovo Magic Kingdom più
grande e più bello, l’acqua non poteva essere certo quella torbida normale
della Florida centrale. E così fu prosciugato il lago Bay, tolti i fanghi,
pompata acqua pulita nella laguna vuota. Anche la terra ferma si
trasformava in un’altra illusione alla Disney: ora attraversando il parco a
tema in realtà si cammina sul tetto di un immenso edificio di controllo
sotterraneo da cui tutto viene deciso, gestito, alimentato.
Veduta di una delle sedi della First Baptist megachurch (GoogleEarth)
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Il nuovo impero Disney della Florida centrale sarebbe stato venduto come
di Disney World. La denominazione ufficiale era, e resta, Reedy Creek
Improvement District. Grazie a una perfetta intesa con l’amministrazione
statale, i terreni comprati dalla Disney furono separati dal resto della
Florida a formare il Magic Kingdom, al di fuori e al di sopra della legge.
Ancora oggi, le attrazioni di Disney World sono esenti dalle ispezioni di
sicurezza statali. Ne resta fuori anche il processo democratico. Il potere
resta nelle mani di un comitato di controllo composto di alleati della
Disney. Per quanto siate disposti a pagare un appartamento in
comproprietà a Disney World, non potete diventarne del tutto proprietari, e
ufficialmente residenti, e dunque votare per il comitato. Celebration, l’area
residenziale a tema della Disney che evoca l’atmosfera di una cittadina
americana prima degli anni ‘40, è dotata di un municipio, ma non di un
governo municipale.
Il parco a tema più rivelatore di Orlando non è nemmeno della Disney.
SeaWorld è popolato da squali e balene presi dall’oceano e trasportati per
ottanta chilometri all’interno (Marineland, l’attrazione acquatica originaria
della Florida, è ridotta a un fossile di sé stessa). Ogni anno, centinaia di
migliaia di persone scendono lungo la costa atlantica e poi si inoltrano
nella terraferma a visitare la principale attrazione di acqua marina
d’America. SeaWorld esprime l’essenza di Orlando, un luogo la cui
particolarità è quella di staccare l’esperienza dal contesto, di estrarre la
forma dalla sostanza, e poi vendere il biglietto di ingresso.
In questo spazio dei pionieri esurbani, c’è una enorme possibilità di scelta
anche se le scelte sono illusorie. Qui la vita è davvero uno stile: non si
vuole abitare in un quartiere che sa un prodotto di massa, una
“comunità”? Nessun problema. I costruttori di Orlando, come i fabbricanti
di caffè solubile, propongono una quantità di sapori, compreso il gusto
Tradizione. Dal punto di vista strutturale, sembra identico agli altri.
Soltanto, invece di particolari decorativi vagamente mediterranei, le case
al gusto Tradizione hanno finiture in stile coloniale. Nel vivace centro di
Orlando, si può anche abitare in un loft, come si farebbe a Chicago o New
York. Ma questi sono loft nuovi di zecca per chi predilige lo stile
postindustriale, in un posto che non è mai stato industriale.
Le mille luci di Orlando non sono la sfarzosa sfilata di Las Vegas o le
orgogliose insegne di New York. Orlando brilla invece dei noti marchi
dell’America delle grandi catene: Denny's, Burger King, Quality Inn,
Hampton Inn, Hertz. C’è anche la trasformazione dell’esotico nel familiare.
Dai suoi uffici centrali di Orlando, la Darden Corporation, la prima della
città a entrare nella classifica delle 500 di Fortune, distribuisce in massa
alimenti tematizzati. Trasforma in standard aragoste giganti e olive
ovunque.
Ovunque a Orlando si vedono all’opera le forze che stanno trasformando
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l’America, da Fairbanks a Little Rock. É il vero paradigma del XXI secolo:
una crescita basata sul consumo, non sulla produzione; una società non
fondata sulle risorse naturali, ma sulla dissipazione di capitali accumulati
altrove; luogo delle possibilità infinite, tenuto insieme – per quanto sia
possibile i qualche modo farlo – dal riconoscersi condiviso nei segnali
stradali, nei marchi, negli spettacoli TV, nelle personalità, anziché in una
storia comune. In nessun luogo è rappresentata in modo più vivo e
rivelatore la sovrapposizione di cos’è in realtà l’America, rispetto a cosa
dovrebbe essere.
Benvenuti nel paese che è un parco a tema
“Mi sono innamorato della sensazione di possibilità” racconta Rick Tesch,
uno dei protagonisti dello sviluppo moderno di Orlando. “La vedo come
una grande occasione, globalmente”. Tesch ne parla come ci si potrebbe
riferire a una catena di agenzie per auto a noleggio. Invece, sta parlando
di religione. Negli anni ‘80, il ceto dirigente di Orlando ha deciso che
poteva diventare un luogo di punta anche nella fede oltre che nei parchi a
tema. Per Tesch, uomo devoto che lavorava all’epoca alla Orlando
Economic Development Commission, l’occasione di attirare qui le
organizzazioni religiose fu al tempo stesso un privilegio e una sfida.
Uno dei primi coinvolti fu Bill Bright, lo scomparso fondatore della Campus
Crusade for Christ. Come Disney, Bright era partito dalla California
meridionale; la sua impresa spirituale, come già quella di Disney per
l’intrattenimento, presto ebbe bisogno di nuovi spazi. Tesch si impegnò a
dimostrare che Orlando era il posto giusto dove la Campus Crusade
poteva mettere radici. Il simbolo di Hometown U.S.A. a Orlando era un
elemento di attrazione. Lo stesso valeva per il fatto che, in campo
religioso come in altri, Orlando fosse all’apice dei grandi cambiamenti in
America. Originariamente appendice meridionale dell’area della Bible Belt,
Orlando si stava evolvendo verso forti valori spirituali e culturali di tipo
Middle American, grazie alla migrazione di massa verso la Florida
centrale da tutti gli Stati Uniti.
Si dice che Bright abbia affermato, Dio vuole che io venga qui, dopo una
visita di esplorazione. E voleva la stessa cosa anche la Orlando Economic
Development Commission. Con la collaborazione di leaders civici e
associazioni private, si perfezionò un accordo secondo il quale alla
Campus Crusade for Christ, per realizzare qui a Orlando il suo World
Center for Discipleship and Evangelism, venivano ceduti gratuitamente 67
ettari di terreno. Un equivalente del contratto della Disney per Reedy
Creek, che rapidamente trasformò Orlando in un importante fulcro di
attività religiose. Oggi nell’area sono insediate decine di megachiese e
organizzazioni religiose, molte con bilanci multimiliardari.
La megachiesa rappresenta il culmine – almeno sinora – dell’integrazione
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della pratica religiosa nello stile di vita americano fatto di autostrade,
attenzione al borsellino, grande distribuzione. L’ascesa a Orlando della
megachiesa principale, First Baptist Church, da piccola congregazione a
organizzazione potente e ricca, va di pari passo con la trasformazione
della città. Il punto di svolta, come tante volte accade qui, è quando lo
spirito della missione si incrocia con l’occasione immobiliare.
Nei primi anni ‘80, il pastore della First Baptist Jim Henry, pensa che la
chiesa debba uscire dal centro di Orlando. É arrivato qui nel 1977 dalle
zone rurali del Mississippi. “Sentivo che a città stava decollando. C’erano
buoni collegamenti: spirituali, d’affari, politici” racconta. Ha previsto che la
vecchia zona centrale non sarebbe stato più l’epicentro di Orlando. Dietro
sua insistenza si forma un comitato per la ricerca di nuovi spazi. “Ho detto
cercate dei terreni e pensate con 150 anni d’anticipo. Volevo che ci
trasferissimo dove sarebbe nato il nuovo centro di Orlando”.
Il gruppo individua un terreno di 65 ettari vicino all’incrocio di due
superstrade, che danno accesso sia all’aeroporto che a Disney World, e
Henry capisce che la First Baptist ha trovato la sua terra promessa. Oggi
la chiesa mette a disposizione gli stessi elementi di spazio verde, ampi
parcheggi, edifici bassi che si trovano nei migliori complessi commerciali o
residenziali di Orlando. La crescita è avvenuta adattando i servizi ai
bisogni di una comunità avida di appartenenza. Offre laboratori per
genitori, sale gioco per adolescenti, gruppi di sostegno per divorziati.
“Abbiamo fato la stessa cosa che fanno Wal-Mart o il football” spiega
Henry. “Abbiamo abbandonato l’idea che grande è brutto”.
Alla trasformazione fisica della chiesa si è accompagnata quella filosofica.
“Non siamo qui a imporre la nostra fede” dice Henry, già presidente della
Southern Baptist Convention. É stato uno dei promotori della decisione
della Southern Baptist di pubblicare scuse ufficiali agli afroamericani per il
sostegno dato nel passato a schiavitù e segregazione. Henry si è opposto
al boicottaggio della Southern Baptist, poi terminato, di Disney World
perché ammetteva visitatori apertamente omosessuali.
É un percorso rivelatore, quello da una piccola congregazione del
Mississippi alla megachiesa di Orlando, non solo più grande, ma diversa
in modo che sembra inimmaginabile. Nel frattempo Henry, che non è più
pastore, è diventato un’autorità nella gestione e sviluppo delle
megachiese. Il suo libro Dangerous Intersections spiega come le chiese si
devono confrontare con la propria crescita. Come racconta Henry, uno dei
trucchi più riusciti per portare la gente a pregare è quello di guidarla
dentro e fuori dai parcheggi. Alla First Baptist, i sermoni sono coordinati
col tempo necessario ai fedeli a salire in macchina e inserirsi in
superstrada. C’è un sistema in codice a colori che impedisce ai predicatori
di dilungarsi troppo, e di creare così degli ingorghi sulle rampe di accesso,
o caos nei parcheggi.
“Si comincia dalla fede” dice Henry, e almeno nel suo caso si diventa
esperti di gestione del traffico.
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Molte poche persone, parlando degli immensi cambiamenti che stanno
rimodellando Orlando e le loro vite, si ricordano di un altro genio
americano che ha lasciato il suo segno qui, prima ancora che arrivasse
Disney. Jack Kerouac – guru, cattivo ragazzo, superstar letteraria autore
del manifesto della Beat Generation, Sulla Strada – arrivò qui a Orlando,
in autobus, nel dicembre 1956. Un anno dopo, in un furore creativo durato
undici giorni, scrisse I Vagabondi del Dharma in una casa con una pianta
di mandarini sul retro, spalando parole nella sua macchina da scrivere qui
nel cuore della piatta e rovente Florida.
La tumultuosa visione di Kerouac è un urlo di avvertimento contro le
catene di plastica che, lui intuiva, stavano imprigionando lo spirito
dell’uomo nell’America a metà del secolo. Guardando i suoi vicini dalla
finestra, ne disprezzava “la mancanza di identità middle-class che trova la
sua perfetta espressione … nelle file di case decorose col prato e la
televisione in ogni soggiorno, tutti che guardano la stessa cosa e pensano
la stessa cosa nello stesso momento”. Se Disney cercava di dominare,
Kerouac impersona l’ansia Americana di evitare il dominio. Disney
seguiva la vecchia idea secondo cui se si riesce a dominare a sufficienza
la natura si può costruire un mondo libero dai problemi che assillano le
persone in posti come la fascia fredda settentrionale. Kerouac evoca una
America senza radici, dove per quanto si vagabondi non si raggiunge mai
la destinazione.
Non esistono due personalità più profondamente americane e più
radicalmente diverse, e tutte e due sono finite a Orlando. Una
convergenza profetica che solleva una domanda: riguardo al futuro
americano, chi dei due è stato il miglior profeta, rispetto a quello che noi e
il nostro paese siamo diventati da allora? Come popolo, come nazione,
siamo come le sorridenti “maschere” di Disney? O assomigliamo di più a
personaggi vagabondi e un po’ smarriti, come Kerouac e la sua banda?
La casa di Kerouac a Orlando
La risposta sembra chiara: in tutto il mondo, Orlando è sinonimo della
cultura da parco a tema che si è impossessata dell’America. In nessun
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altro luogo appare così totale il trionfo dell’ethos Disney, e pure emerge
qualcosa di paradossale conoscendo il luogo. A cinquant’anni di distanza,
lo spirito inquieto di Kerouac aleggia ancora libero per i centri commerciali
discount di Orlando. Si insinua nei cinema multisala e frequenta i chioschi
fast-food delle grandi catene. Ovunque ci si stufa di tosare il prato, o si
mandano a quel paese le rate dell’auto, rieccoci nella Orlando di Kerouac,
perché tutti, come lui, un tempo stavano altrove. E almeno per un attimo,
Orlando è sembrata loro, come fu per l’apostolo del Beat, un posto dove
le bollette non hanno mai una scadenza, e il passato non ci perseguita.
“Perché non venire a Orlando e mollare la pazza Florida delle superstrade
immacolate e fantastici supermarket?” scriveva Kerouac al poeta Beat
Lawrence Ferlinghetti, nel 1961. Ma anche a Orlando, come in tutti gli altri
posti dove vagava, Kerouac non trovò pace. La Florida diventò per lui,
dopo che aveva smesso di scrivere, un posto per bere, alla fine un posto
per morire. La casetta al 1418 di Clouser Avenue dove Kerouac scrisse il
suo romanzo ora è una specie di multiproprietà letteraria, con gli scrittori
che ci passano tre mesi per volta, sperando di incrociare la maniacale
vena del genio di Kerouac.
Epcot nel pieghevole pubblicitario
Le cose non sono poi nemmeno andate come intendeva Walt Disney. La
gente si affolla al Magic Kingdom per vedere coi propri occhi quello che
ha già visto in TV, ma Epcot, l’amato progetto di Disney di creare la città
del futuro dove le persone abitano e lavorano immerse in una armonia
high-tech, non è mai diventato realtà. La gente non era interessata alle
visioni future estreme di Disney. Epcot è stata un tale fallimento che i
responsabili della Disney si sono trovati di fronte all’imbarazzante
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prospettiva di abbandonarla. Invece, l’hanno trasformata in un’altra
attrazione turistica. Oggi Epcot offre un nostalgico pastiche di cittadina
turistica della costa anni ’40, a 97 chilometri dal mare più vicino, con
scelte di ristorazione tematizzate su luoghi come Gay Paree, percorso
nello spazio profondo, multiproprietà “Key West”.
Ma nel suo tentativo di creare un Magic Kingdom esente da squallore e
complicazioni, Disney ha innescato un’orgia di crescita fuori controllo, che
ancor oggi non mostra segni di rallentamento. Ci sono relitti di parchi a
tema sparsi su tutto il paesaggio di Orlando, nello stesso modo in cui ci
sono fabbriche vuote nelle aree industriali. Attrazioni ora defunte, come
Splendida Cina, che proponeva una Grande Muraglia in miniatura, andate
in bancarotta perché troppo realistiche. Non hanno proposto quello che si
vuole assolutamente dai parchi tematici: fantasie corrispondenti a quello
che cerca il pubblico pagante.
Epcot: veduta da GoogleEarth
Oggi Orlando è un crogiolo di tutti gli elementi che Disney tentava di
dominare. Nel quartiere Parramore, si può fare provvista di crack,
anfetamine, polvere degli angeli. Secondo l’istituto di ricerca Morgan
Quitno, nel 2006 qui si sono raggiunte città come Detroit o St. Louis,
entrando fra le 25 aree più pericolose d’America. Da qui le guardie armate
all’ingresso delle “communities” dove si entra soltanto per invito. La zona
di Orlando ha anche uno dei più alti tassi di mortalità di pedoni in incidenti
stradali fra le aree metropolitane del paese. Quarant’anni dopo il sorvolo
del destino di Disney, Orlando è un luogo di enorme vitalità, diversità,
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bruttezza, contrasti, inventiva, possibilità, e speranze deluse, e non c’è
nessun figurante in costume da personaggio dei cartoni che possa
spiegare alle gente come vivere, figuriamoci dove parcheggiare.
Nel pomeriggio di mercoledì 2 febbraio 2005, migliaia di persone sono
rimaste scioccate accendendo la radio mentre tornavano verso casa. Le
Supremes erano state abolite; a Kenny Rogers era stato dato il
benservito. Senza preavviso o spiegazioni, le frequenze FM 100,3,
famosa stazione “golden oldies” di Orlando (nota come Big 100s), era
sparita. Il suo posto era stato preso da Rumba 100,3, nuova emittente
della Florida centrale specializzata nel sound latino. Per gli appassionati
del genere oldies, è stato come se un gruppo si ispanici armati di
tamburelli avesse fatto irruzione nell’abitacolo dell’auto.
Un incidente che rappresenta un buona guida per leggere la Orlando di
oggi. Venticinque anni fa, appariva un’oasi sicura a chi cercava di evitare
tutti gli immigrati che si riversavano a Miami e rimodellavano la vita di tutto
il paese. Si soleva dire: “Per favore, l’ultimo americano ad andarsene si
ricordi di portare la bandiera”. Ora, come dimostrava la morte di Big 100s,
Miami era stata soltanto un’anticipazione, non un’aberrazione. Oggi
nell’area di Orlando ci sono circa 400.000 ispanici: il 20% della
popolazione totale.
L’improvvisa intrusione di Rumba 100,3 sta a indicare qualcosa di più che
non la semplice maggior diversificazione etnica di Orlando. Una
generazione fa, la decisione segreta di Walt Disney ha cambiato il destino
della città senza che a nessuno fosse chiesto se era d’accordo o meno.
Ora c’è un’altra decisione segreta, stavolta dei lontani dirigenti della Clear
Channel Communications, gigante conglomerato radiofonico, che
determina quale musica ascolterà la gente di Orlando. Anche la stessa
crescita della popolazione ispanica è stata stimolata da una scelta di
marketing. Negli anni ‘90, una compagnia immobiliare aveva delle
difficoltà a vendere spazi in un complesso chiamato Buenaventura Lakes,
e i responsabili delle vendite decisero di fare pubblicità in spagnolo sui
principali giornali di Puerto Rico. Di colpo, iniziarono ad arrivare in massa
portoricani nell’area di Orlando, creando un’alternativa ispanica in Florida
alla Miami prevalentemente cubana.
Oggi Orlando è multiculturale quanto New York, nel vortice della
globalizzazione come qualunque nodo dell’import-export. Il suo sviluppo
ha portato qui nella Florida centrale gente che parla 70 lingue diverse.
Kissimmee, a sud e appena a est di Disney World, in meno di dieci anni
da cittadina di cowboy è diventata centro principalmente ispanico. I
tentacoli della diversità si sono insinuati anche dentro a Disney World.
Pochi turisti se ne accorgono, ma quando i loro bambini abbracciano
Pippo o Minnie, probabilmente stanno abbracciando lavoratori sottopagati
che vengono dallo Sri Lanka o dalla Repubblica Dominicana.
Qualcuno lamenta che i nuovi venuti dai paesi in via di sviluppo non sono
“veri americani”. Altri che chi è venuto dal nord non è un “vero floridiano”.
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“Abbiamo dei cittadini occasionali” spiega Linda Chapin, ex consigliera
della Orange County. La gente si trasferisce in Florida, ma non trasloca la
propria appartenenza. In una situazione del genere, di sradicamento
psicologico e scollamento morale, la questione non è se si riusciranno a
risolvere i problemi della crescita incontrollata. É se esiste qualche
probabilità di provare ad affrontarli.
“Abbiamo consentito alla Florida di trasformarsi tutta in una fascia
commerciale” dice la Chapin. “É questa la nostra grande tragedia”.
Quando presiedeva il consiglio della contea, ha svolto un ruolo chiave
nello scatenare l’irrefrenabile boom edilizio di Orlando. É stata la stratega
del nuovo centro congressi, e di altri progetti pensati per assicurare un
flusso in ingresso di persone nell’area. “C’è il mio nome scritto a lettere
d’oro al centro congressi” racconta. “Mia madre ne era molto orgogliosa”.
Oggi, direttrice per la pianificazione urbanistica all’Università della Florida
Centrale, sta pensando ai modi per rallentare la crescita di Orlando, e per
umanizzarla.
La Chapin è una fra i pochi protagonisti della scena di Orlando che sia
nata qui. A quei tempi, naturalmente, la casa sulla riva del lago dove
ancora abita non era considerate parte di Orlando. Era parecchio fuori in
campagna. Oggi sta sullo stesso lato del centro dell’aeroporto e di Disney
World. Una volta questo era l’Eden. Adesso gli aranceti sono spariti dal
paesaggio. Gli aerei rombano mentre si preparano ad atterrare
nell’aeroporto più affollato della Florida. Lì vicino, South Orange Blossom
Trail [Sentiero dei Germogli d’Arancio n.d.t.] è un caso studio sulla
bruttezza in sei corsie, dove si vende di tutto, dai video per adulti
all’ingrosso ad autentica cucina vegetariana dal sud dell’India. E pure il
vecchio quartiere della signora Chapin possiede ancora quello che qui a
Orlando manca di più: autenticità. “Siamo qui; non siamo in nessun altro
posto” raccontano le basse acque torbide, l’aria pesante, i ciuffi di barba
dei frati coi piccoli insetti rossi.
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Pubblicità del complesso Belavida Resort, Orlando
La Chapin parla dei motivi per cui, all’inizio, cambiare e crescere
apparivano come un’indiscutibile manna. “Credevamo di poter governare
lo sviluppo” ricorda. Nell’arco della sua vita, un contesto da “l’unico limite
è il cielo” ha trasformato Orlando nella città del dilemma suburbano, e
umano. Ma questa è ancora l’America del si-può-fare. Per dirla con una
Linda Chapin che improvvisamente ridiventa ottimista: “Il fatto che
abbiamo distrutto il 90% di tutto non significa che non si possano fare
cose magnifiche col 10% che rimane!”.
Lo sprawl di Orlando si vede anche dallo spazio. Basta andare alla
Cypress Creek High o alla Meadow Woods Middle School, a leggere la
complessità umana negli occhi degli studenti. Il cielo è striato dal rosa
dell’alba quando mi sposto verso il mobile confine esterno di Orlando. 24
chilometri a sud-ovest del centro, raggiungo l’ultimo punto in cui la natura
selvaggia della Florida centrale con l’esplosione demografica si è
trasformata da un giorno all’altro in lottizzazioni residenziali. Se si dovesse
colonizzare la Luna, ecco come fare. Interi quartieri, centinaia di case, che
arrivano all’istante. Lo stesso accade alle persone che ci abitano dentro.
Dal punto di vista della composizione demografica, queste due scuole
corrispondono all’area di Orlando. Sia bianchi che neri sono la minoranza;
la maggioranza etnica dominante è “altri”. Le ho scelte perché sono
scuole caratteristiche, ma visitandole ho scoperto qualcosa di
straordinario : due posti dove oltre 8.000 studenti e insegnanti stanno
trovando nuovi modi di imparare, nuovi modi di vivere insieme.
Alla Cypress Creek e alla Meadow Woods, i grandi avvenimenti non sono
solo quello che ragazzi e professori vedono alla TV. Sono immersi nella
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vita della gente. Alla Cypress Creek, la vicepreside, Vanessa Colon
Schaefer, si sta ancora ricomponendo la vita dopo oltre un anno in Iraq.
Quando la sua unità della Guardia Nazionale è stata inviata là, ha lasciato
un vuoto nella vita della figlia, e di questa scuola. Ci sono ragazzi da oltre
200 paesi diversi che studiano nelle due scuole. “Normalmente gridano il
nome del proprio paese quando glie lo chiedo” racconta Chuck Rivers,
preside alla Meadow Woods. “Una volta però un ragazzino parlava
sottovoce. Gli ho chiesto di ripetere ma continuava a sussurrare, così mi
sono chinato per sentire. Mi ha sussurrato nell’orecchio: Iraq”. E Rivers
aggiunge, senza alcun falso sentimentalismo, “Sono tutti i miei ragazzi”.
Parlo con studenti dalla Colombia, Brasile, Haiti, Giamaica, Corea, Cina,
Filippine, Iran, Russia, Slovacchia, India, e ho soltanto cominciato a
immergermi nella mutazione. “Mia madre viene dalla Germania” dice una
ragazzina, “e mio padre dal Madagascar”. La diversità non è un obiettivo,
un programma, uno stile di vita. É la vita.
Alla Cypress Creek parlo con quelli del programma nazionale per gli
studenti meritevoli. Giro per classi con studenti autistici, o non udenti, o in
qualche modo diversamente abili. Avverto quanto importante sia per i
ragazzi sentirsi integrati, ogni giorno, ad altri diversi da loro mentalmente,
fisicamente, dal punto di vista della razza e della cultura. Il preside della
Cypress Creek è una donna; quello della Meadow Woods è nero. Ricorda
i giorni della segregazione razziale. Ora è responsabile di un processo di
apprendimento in cui le barriere razziali sono l’unica cosa priva si
significato. Qui non si appiattisce nulla. Alla scuola media, i ragazzi
studiano cose che io non ho imparato in tutto l’arco della formazione
scolastica: come dirigere una sinfonia, come circola il sangue, come
riparare un rubinetto, come risolvere controversie apertamente e in modo
nonviolento. Mentre ci salutiamo, il preside dice una cosa che mi rimane
impressa: “Lo facciamo tutti i giorni”.
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Una mattina mi capita quella che qui a Orlando chiamano “Esperienza I4”. Esco in macchina per un appuntamento di mezzogiorno. Che diventa
poi un appuntamento pomeridiano, vista l’ora a cui ci arrivo. Per quasi
un’ora, le auto se ne stanno ferme. É la prima volta che capisco davvero
cosa vuol dire la gente quando definisce la I-4 “il parcheggio di Orlando”.
Non c’è niente di più evidente della necessità di un sistema di
metropolitana a collegare Disney, il centro, l’aeroporto, e tutto quello che
ci sta in mezzo. Ma a Orlando la gente ama la propria macchina, tanto
quanto odia pagare le tasse. Le strade, tracciate nel nulla tanto poco
tempo fa, si stanno già deteriorando.
Essere bloccati nel traffico dà tempo per pensare; mi viene in mente
quanto si diversa dalla realtà l’immagine di Orlando. L’ironia è che la
gente ci va alla ricerca di una tranquillità disneyana: ma nel farlo scatena
qui tutte le sradicate e inquiete contraddizioni d’America. Il traffico da
grande città, la grande criminalità, ma la gente qui a Orlando coltiva l’idea
di essere sfuggita alle difficoltà che le persone incontrano altrove.
Stamattina fa freddo, così in auto accendo il riscaldamento, anche se per
la maggior parte dell’anno fa spaventosamente caldo. Sopra di me passa
un ponte, e giusto a completare l’immagine della Orlando lontanissima dal
modello all-American, un grosso camion attraversa il sovrappasso.
Caratteri rossi giganteschi sulla fiancata proclamano “Lucky Noodles”, in
inglese e in cinese; trasporta derrate verso i supermercati asiatici della
città.
Per qualche motivo gli aggraziati caratteri cinesi sul camion mi fanno
tornare in mente le strofe di quella vecchia canzoncina Disney:
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Quando esprimi un desiderio a una stella
Non importa chi sei
Qualunque cosa voglia il tuo cuore
Si avvererà.
“Se credi davvero nei sogni” prosegue la canzone, “Nessun desiderio è
esagerato”.
Walt Disney ha sempre taciuto sull’argomento religione; non si parla di
Dio nei suoi oltre 40 film animati, e in nessuno dei parchi a tema c’è una
chiesa. Invece, il vangelo secondo Disney è un messaggio ottimistico di
autorealizzazione, di voler qualcosa con tanta convinzione da trasformare
i propri sogni in realtà. I risultati sono evidenti ovunque si guardi, a
Orlando.
La Orange County non produce più arance. Gelate, parassiti,
urbanizzazione, hanno distrutto le piantagioni. Cosa succede alla terra,
quando smette di produrre quello che la pubblicità chiama raggio di sole
liquido? Un giorno vado a vedere un ex aranceto, che adesso si chiama
Isleworth. É la gated community più esclusiva di Orlando. Le case si
vendono per milioni di dollari, anche se né l’ambiente – normali
appezzamenti sulla riva del lago né le case – del genere McMansion, da
dimensioni solo immense fino a meravigliosamente pantagrueliche –
giustificano tanto prezzo o tanto prestigio. La gente spende così tanto, per
entrare a Isleworth, perché così si compera anche il biglietto di ingresso a
un sogno. Sogno che in questo caso vuol dire stare gomito a gomito con
Tiger Woods e simili. Arnold Palmer ha comprato qui quando è venuto a
Orlando, e in meno di vent’anni 20 la sua è diventata quella che si
considera una ricchezza antica.
Non molto lontano, a Kissimmee, sulla statale 192 si affollano motel che
affittano stanze per lunghi periodi a famiglie che non possono permettersi
un appartamento, e piccoli campi da golf per chi non potrà mai giocare a
Isleworth. La strada college la I-4 con la Florida Turnpike, ed è diventata
una discarica di tutto, sogni compresi, quanto si incanala verso la Florida
centrale. Vicino a un’insegna che offre voli in elicottero a prezzi ridotti,
l’aeromobile sta a terra ronzante, il motore gira, le pale ruotano, giusto di
fianco alla strada, su uno spiazzo non più grande del prato di una villetta.
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Veduta aerea della gated community di Isleworth
Potrei terminare qui la mia odissea a Orlando, con la grande fuga
americana che ci abbandona qui sperduti a Kissimmee, ma Orlando mi ha
insegnato che lo spirito umano si esalta anche nei posti più strani.
Orlando ci mostra come, nonostante la nostra ansia di costruire utopie, il
vero paese delle meraviglie rimane la nostra diversità, la nostra
imprevedibilità. Alla scuola Cypress Creek, uno studente mi ha detto: “Ho
trovato la bellezza a Kissimmee”. Eric Strunz, all’epoca nelle classi
superiori, era come un pellegrino, smarrito in un deserto spirituale,
quando l’ha trovata. “Un tempio buddista, proprio lì, a Kissimmee. Mi
sono tolto le scarpe e sono entrato. Mi piaceva la calma, la serenità. Ha
cambiato la mia vita. Ho capito per la prima volta che c’erano altri modi di
capire il mondo”.
Poi Eric mi ha mandato via e-mail l’indirizzo web del tempio buddista. Ho
scoperto che Wat Florida Dhammaram non era un’altra “attrazione” a
tema buddista, dove si paga un biglietto per essere infilato in una versione
da cartoni animati di una cultura straniera. Si tratta di un vero tempio,
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costruito per le necessità spirituali della crescente comunità buddista della
Florida centrale.
Mentre me ne andavo da Disney World, alla fine avevo trovato la vera
Epcot d’America, nello stesso modo in cui Eric aveva trovato la sua
rivelazione alla Kerouac.
“Il Monaco mi ha benedetto”, ricordava.
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