Bushido no KoKoRo

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Bushido no KoKoRo
Area delle Discipline Orientali
U.I.S.P. Lombardia
Storia e Filosofia
Bushido no KoKoRo.
Essenza del Bushido.
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Bushido no KoKoRo. Essenza del Bushido.
L’anima interna del bushido non può essere individuata con chiarezza se non si conosce il pensiero
tradizionale. Altrimenti è il suo aspetto esterno (morale, sociale, educativo) che passa in primo
piano, mentre il fine ultimo viene perso di vista o travisato.
La parola viene spesso tradotta letteralmente come: Via del guerriero; tuttavia non si va oltre l’idea
di un codice formativo di pratica morale, giacché la via (Do) viene identificata con la regola, il
dovere, il codice d’onore, peraltro non scritto, dei guerrieri (Bushi).
Nitobe la intende persino, in qualche punto, come una norma di condotta o di etica professionale
intesa ad ordinare i rapporti all’interno di un gruppo sociale.
L’uomo moderno (occidentale ed orientale) è
incline a ridurre tutto agli schemi della sua
razionalità. Egli resta quasi sempre ancorato agli
aspetti esteriori dei fenomeni che analizza ed è
portato, dalle limitazioni della sua cultura
profana, a ridurre persino la religione (quando
essa era ancora qualcosa di diverso) a livello di
morale. Entro tali confini, l’etica del guerriero
non può che apparirgli autonoma e l’idea che
essa dipenda dalla metafisica gli manifesta una
mentalità prelogica e primitiva.
Sul piano esteriore il Bushido è indubbiamente una morale eroica che regola la “retta azione” del
guerriero e disciplina il suo animo.
Ma il carattere più profondo si delinea in correlazione con il concetto indù di Dharma: il dovere
inerente alla propria natura interiore, la legge d’azione legata alla propria casta.
La legge del Kshatriya è il combattimento e la morte, perciò solo la fedeltà al proprio Dharma gli
può consentire la realizzazione spirituale ed il superamento dell’effimera condizione umana.
In un celebre passo del Bhagavad Gîtà, il Dio Krishna dice ad Arjuna:
“Considera il tuo proprio dharma: non puoi esitare. Nessun ideale è più alto per un guerriero che
un giusto combattimento. Felici i guerrieri, o Pàrta, che arrivano, in modo spontaneo, ad un tale
combattimento: una porta aperta verso i Cieli”.
L’azione è dunque spiritualmente efficace solo se è conforme alla natura interiore di chi la esegue.
Non diverso significato hanno in Cina ed in Giappone quelle discipline di vita e di azione, di arte e
di mestiere che vengono chiamate “Vie”.
Sono i “metodi” da seguire al fine di una realizzazione spirituale secondo il proprio modo di essere
uomo.
Ci sono 1e vie dell’ascesi iniziatica, le vie mediate della partecipazione religiosa attraverso i riti, le
vie della pura azione guerriera e delle arti marziali, le vie di approssimazione tramite arti, mestieri e
corporazioni.
L’ideogramma che i cinesi leggono tao (ed i giapponesi: Do o Michi) designa la “Via” nel senso
che abbiamo descritto.
È una nozione fondamentale del pensiero cinese, che non appartiene solo al taoismo e che
rappresenta un complesso di idee e di realtà ben più vasto del significato letterale del termine.
L’ideogramma antico sembra fosse composto dall’immagine grafica di tre idee: una strada, la testa
di un maestro, i piedi di un altro uomo. Si tratta di un discepolo che segue il Maestro sulla Via.
E questa “Via” è il processo, o legge immanente, di un Principio assoluto che, nel suo aspetto
trascendente e metafisico, di là dal mondo manifestato e da quello non-manifestato, viene dai taoisti
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indicato pure con il nome di Tao (che i cristiani assimileranno a quello di Dio ed i buddhisti a
quello di nirvana).
Come legge immanente della Realtà, il Tao è dunque la via che bisogna seguire, in conformità alla
propria natura ed all’Ordine celeste, al fine di riconnettersi al Principio.
Da qui le regole, i metodi, le discipline che:
• per i taoisti saranno le vie: alchemica, ginnica, marziale, respiratoria, alimentare, sessuale ecc.,
• per i confuciani la “Via dei Saggi”,
• per i giapponesi, che designeranno come “Via degli Dei” (Shinto) la loro religione originaria,
saranno, sotto l’influsso dello zen, le vie del tè, dei fiori, del pennello, della poesia, della
medicina, delle numerosissime arti marziali e del Bushido.
Sul piano esteriore tutte queste discipline sembrano portare al dominio di una tecnica o alla
conoscenza di un’arte. Ma, ad un certo punto dell’addestramento, si esce da quell’ambito ristretto
per “sconfinare” su di un piano più elevato, che comporta una purificazione ed una trasformazione
interna del discepolo.
Questi, uscito dai propri limiti angusti, si trova a percorrere la via superiore della realizzazione
spirituale.
Tutte le vie tendevano a questo scopo, ma l’aspetto interno dell’insegnamento veniva, di regola,
tenuto segreto e solo gli allievi più qualificati spiritualmente potevano accedervi.
A questo punto è necessario fare un passo indietro.
Una religione in senso lato o, meglio, una forma di tradizione spirituale ha quasi sempre due aspetti:
uno essoterico o più propriamente religioso e l’altro esoterico o iniziatico.
Per il buddhismo mahayanico i giapponesi usano due termini: tàriki (l’aiuto di un altro) e jiriki (il
fare da sé).
• Tàriki è il potere “ab extra”, cioè la salvazione affidata alla grazia divina, al credere, alle opere
buone, alla recitazione di formule salvifiche. È la via del buddhismo popolare, del jòdò e di tutte
le sette amidiste che confidano nella rinascita nella Terra Pura, nel paradiso del Buddha Amida.
• Jiriki è il potere “ab intra”: la Via verso l’illuminazione per il tramite di una realizzazione
interiore, di uno sforzo interno condotto con autodisciplina e severo addestramento ascetico
sotto la guida di un maestro che ha solo la funzione di istruire sulle tecniche del “risveglio”. È la
via dello zen, dello shingon e del tendai.
A proposito di queste sette buddhiste, in Giappone si diceva: “Il tendai è per la famiglia imperiale,
lo shingon per la nobiltà, lo zen per i samurai ed il jòdò per la massa del popolo”.
Lo zen, dunque, come tutte le “Vie” di approssimazione alla sua dottrina, è una disciplina di
autorealizzazione.
Nell’ambito di una dottrina jiriki, ogni Do ripresenta un aspetto esterno ed uno interno. Quello
interno è il “Cuore” dell’insegnamento, l’essenza della Via. È l’insegnamento esoterico che i
giapponesi chiamano híden.
Ogni via ed ogni scuola aveva il suo híden, cui si giungeva solo dopo aver percorso i gradi inferiori
dell’addestramento.
Secondo il simbolismo adoperato da Guénon, si può dire che il “nocciolo” può essere raggiunto
solo attraverso la “scorza”. Qual’era il “nocciolo” del Bushido? La via del guerriero, strettamente
connessa con lo zen da un lato e con le Vie marziali (Budo) dall’altro, confluiva naturalmente, ad
un livello superiore, verso un’unica disciplina ascetica: quella dello zen.
Tuttavia è possibile collegare direttamente il Bushido, inteso come una “religione” dell’azione
eroica e della lealtà, od anche come “lo zen dei samurai”, ad una forma autonoma di ascesi.
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Il cosciente e predestinato completamento dell’azione eroica era la morte in battaglia od il suicidio
con il rito del seppuku (harakiri) per lealtà (chú), per senso del dovere (giri), o per seguire nel
mondo del “al di là” (yukai) il proprio signore (junshi: il seppuku della “felice partenza”).
Nel periodo del Bushido
guerriero, il samurai che non
concludeva in tal modo la sua
vita, si ritirava in un monastero
zen.
Il guerriero era dunque un
volontario della morte e
l’essenza del suo addestramento
era la preparazione alla morte
eroica.
Nell’Hagakure, un testo del
XVII secolo di cui parleremo
più avanti, c’è un passo,
giustamente famoso:
“Bushido
significa
la
determinata volontà di morire.
Quando ti troverai al bivio delle
vie e dovrai scegliere la strada,
non esitare: scegli la via della
morte.
In ciò non porre alcuna speciale ragione e la tua mente sia salda e pronta. Qualcuno potrà dire
che se tu muori senza raggiungere alcun obiettivo, la tua morte non avrà scopo: sarà come la
morte di un cane. Ma quando ti trovi al bivio non devi pensare di raggiungere un obiettivo: non è il
momento di far piani. Tutti preferiscono la vita alla morte e, ragionandoci su o facendo progetti, si
sceglierà la strada della vita. Ma se tu manchi allo scopo e resti in vita, sarai in realtà un codardo.
Questa è una considerazione importante. Nel caso tu muoia senza raggiungere un obiettivo, la tua
potrà essere una morte da cane, la morte della “pazzia”, ma non ci sarà alcuna macchia sul tuo
onore. Nel bushido l’onore viene per primo. Perciò ogni mattina ed ogni sera abbi l’idea della
morte impressa nella tua mente. Quando la tua determinazione di morire in qualunque momento
avrà stabile dimora nel tuo animo, tu avrai raggiunto l’apice dell’addestramento del Bushido”.
Uno scrittore guerriero del XVII secolo, Daidóji Yuzan, riprende esortazioni affini dirette ai
samurai:
“L’idea essenziale per il samurai è quella della morte. Dinanzi alla sua mente l’idea deve essere
presente giorno e notte, notte e giorno, dall’alba del primo giorno fino all’ultimo minuto
dell’ultimo giorno dell’anno il samurai deve considerare ogni giorno della sua vita come l’ultimo”.
Il grande guerriero Kusunoki Masashige (1294-1336), salutando per l’ultima volta il figlio ancora
fanciullo, gli raccomandò: “Tieni sempre l’idea della morte presente dinanzi alla tua mente”.
Ed il figlio Masatsura rifiuterà la più bella dama della corte, offertagli dall’Imperatore in
ricompensa del suo lealismo, affermando che la vita di un guerriero doveva servire per la morte e
non per l’amore. Morirà a vent’anni combattendo per l’Imperatore.
Infine, uno dei più grandi maestri di kendo, Tsukahara Bokuden (1490-1572), esprimeva in versi lo
scopo essenziale dell’addestramento dei samurai:
“ il samurai deve apprendere une cosa solamente,
un’una ultima cosa:
affrontare la morte con fermezza”.
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Riprenderemo l’argomento con altri esempi quando parleremo dei rapporti tra il bushido guerriero e
1o zen.
Possiamo ora concludere, riassumendo:
• le Vie marziali (budo) che si esprimono nelle arti marziali (bugei) sono indissolubilmente legate
al Bushido;
• per il loro tramite si ha un avvicinamento all’esperienza spirituale dello zen.
• Ma se si vuole delineare nel “tao del guerriero” una forma autonoma di ascesi, essa deve
ritrovarsi in una disciplina dell’azione pura (che può avere carattere rituale ed iniziatico), come
preparazione alla morte attraverso un’etica eroica che ponga la fedeltà, il dovere, il coraggio e lo
spirito di sacrificio in primo piano.
• Così il samurai può seguire la legge definita dalla propria natura interiore.
Abbiamo valutato il bushido nel suo aspetto essenziale; vediamolo ora nel suo sviluppo temporale.
Possiamo dividere la storia del Bushido in tre periodi.
1. Il bushido guerriero. È il bushido classico dei racconti epici giapponesi. Durato oltre
quattrocento anni, iniziò con il periodo Kamakura (1185), proseguì con l’epoca Ashikaga e
Momoyama, si concluse all’inizio del XVII secolo. Si formò e si sviluppò nello spirito
dominante dello zen.
2. Il bushido confuciano. Iniziò con il periodo Tokugawa (1603) ed ebbe termine con la fine della
società feudale (1868). Si sviluppò in un periodo di pace, durato due secoli e mezzo, sotto
l’influsso prevalente delle dottrine del neoconfucianesimo.
3. Il bushido nazionale. Va dalla Restaurazione Meiji (1868) alla fine della guerra del Pacifico
(1945). Rappresenta la ripresa dei principî fondamentali del bushido diffusi tra il popolo. La
dottrina dominante è lo shintoismo di Stato che è una forma di patriottismo mistico. Il bushido
storico occupa dunque 760 anni della storia giapponese. Secondo la tradizione, l’impero
nipponico fu fondato l’11 febbraio del 660 a. C. Il paese entrò “ufficialmente”nella storia nel VI
secolo d. C., quando furono introdotte, con il buddhismo, la scrittura e la civiltà cinese.
Mancano allora diciotto secoli dei quali solo gli ultimi cinque sono storia: il resto, dicono gli
specialisti abituati a giudicare solo con documenti, è leggenda. Possiamo delineare un periodo
preistorico del bushido venutosi a formare nel lungo corso di tutti questi secoli “bui”?
Certamente, se prendiamo in esame i racconti mitologici e le antiche gesta del primi abitatori,
come appaiono nel Kojiki e nel Nihongi, i giapponesi si presentano subito come un popolo
guerriero e, come giustamente nota il Sansom, la relazione di totale dedizione mistica fra
vassallo e Signore, fra guerriero e capo, risale al sistema patriarcale dei tempi feudali e persino
preistorici. È dunque nel segno dell’antica religione dei kami che si possono individuare le
prime tracce di una “via” del guerriero. Lo shintoismo è una delle forme tradizionali che
alimentarono il bushido: esaminandone i rapporti ed i retaggi tracceremo pure una specie di
preistoria del bushido.
Kami To Eiyù. La Via degli Dei e degli Eroi.
Tra le fonti spirituali cui attinge il bushido, l’originaria religione dei kami, così intimamente
radicata nell’animo dei giapponesi (anche in quelli che ostentano distacco o ne irridono la mitologia
primitiva), non è valutata nella sua giusta misura. I contributi del confucianesimo sono, sopra tutto
per gli ultimi secoli, più facilmente individuabili; così lo shinto e lo zen passano in seconda linea.
Taluni per contro, colti da idiosincrasia per tutto ciò che sa di guerresco e presi da forte attrazione
per certo buddhismo oleografico e popolare tutto amore e compassione, si affannano ad accrescere
l’importanza dello shinto, cui attribuiscono l’origine delle arti marziali e quindi del bushido. Lo
shinto porta al bushido il senso divino della stirpe, la fierezza di un retaggio guerriero degli avi
divenuti Dei, lo spirito eroico e gentile della terra di Yamato (Yamatodamashii), il culto degli
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antenati e la pietà filiale, il senso sacro della spada, i sentimenti (inespressi, poiché da millenni
connaturati nella psiche del popolo giapponese) della purezza, della sincerità e della fedeltà. Così,
certe virtù confuciane, tipiche del bushido, trovano in realtà la loro originaria e vivente espressione
nella “Via dei kami”.
È stato detto che lo shinto non è una
religione, poiché non ha una morale
espressa e codificata. Anche Suzuki,
attento
divulgatore
dello
zen,
definisce lo shinto “un mucchio di
superstizioni mitologiche e di
sciocchezze ultranazionalistiche”.
In primo luogo facciamo osservare lo
strano fenomeno di una religione,
definita primitiva e animistica, un
paganesimo che gli evoluzionisti
relegano ad uno stadio infantile e
prelogico dell’umanità, che resiste per
secoli al confronto di una religione
“superiore” come il buddhismo
mahayanico, al potere corrosivo del
“razionalismo” cinese, alla forza
dissacrante del pensiero europeo, al
trauma tenibile della sconfitta nel
1945.
È possibile codesto fenomeno senza una forza interna, una tradizione spirituale che tuttora agisca
nella religione dei kami? In secondo luogo, a proposito dell’assenza di una morale, di là dalle
considerazioni che si possono fare circa il rapporto tra religione e morale, si dimentica che l’uomo,
per lo shinto, non è stato creato da un Ente supremo o dagli Dei, ma discende in linea diretta dagli
Dei stessi.
Il giapponese, spiritualmente e biologicamente, si sente kami-no-kó (figlio degli Dei).
Il prof. Fujisawa ha scritto recentemente:
“L’uomo nipponico è indissolubilmente legato ai kami da vincoli biologici e spirituali. In lui scorre
lo stesso sangue divino che scorre negli animali, nelle piante, nei minerali ed in tutte le altre cose
della Natura”.
Un kami (che etimologicamente ha un significato molto vicino al termine “sùperi” dei romani, e
ideograficamente è rappresentato dal carattere cinese Shen, significante in origine, come notano i
commentatori dell’I - King, “ciò che fra le diecimila cose è sottile” o “quello che è imperscrutabile
nella manifestazione”, e che nel taoismo caratterizza shén-jen: l’uomo-divino, l’uomo-trascendente,
non è solo una divinità del Cielo, o un Dio terreno, o un eroe divinizzato, ma può essere anche
l’anima (mitama) di una pianta, di una roccia, di una sorgente.
Il giapponese, che conforma la sua vita al retaggio spirituale degli antenati divini seguendo il
kannagara no michi (che è il riflettere in sé stessi l’immagine dei kami e seguirli nella via divina),
può, in purezza rituale, ritrovare nel proprio cuore (kokoro), aperto alla innata e spontanea sincerità
(makoto), il retto agire. Egli, dunque, non ha bisogno di codificare con regole la sua giusta
condotta. Inoltre, osservano gli shintoisti, la morale codificata regola i rapporti sociali degli uomini,
ma lo shinto si occupa più del problema interiore dell’uomo: è il “conosci te stesso” individuato
nella propria interiorità spirituale.
Lo shinto non è soltanto una mitologia teogonica ed un culto primitivo della natura divinizzata,
come generalmente si crede per difetto d’informazione, ma è una forma tradizionale religiosa
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completa (quindi con un essoterismo ed un esoterismo), con una metafisica e discipline iniziatiche
segrete.
Kitabatake Chikafusa scriveva nel XIV secolo: “La Via degli Dei (shin = kami; tó = dò; shintò in
puro giapponese si legge: kami no míchi) non deve essere svelata che con circospezione”.
Infine, dopo quanto ha scritto Jean Herbert, non è più possibile valutare lo shinto entro i logori
schemi della vecchia ..scienza delle religioni.
Chiariti i punti essenziali, accenniamo in breve alla teogonia shintò ed alla dottrina dell’idea
imperiale: avvio ad un discorso più pertinente.
Da una Essenza primordiale 1o shinto fa sorgere un primo
kami: l’Augusto Signore del Centro del Cielo (Ame-nominaka-nushi-no-kami). Quindi la prima dualità divina, la
coppia dei kami delle origini, da cui discendono le sette
generazioni degli Dei del cielo (Ama-tsu-kami o ten-jin) che
abitano la Grande Pianura del Cielo (Takama-no-hara).
Ultima coppia divina di questi Dei sono Izanagi e Izanami
(che, metafisicamente, verranno assimilati alla diade taoista
dello Yang e dello Yin). Scendendo dal Ponte del Cielo (Amano-hashidate), la coppia divina produce le isole del Giappone e
genera gli Dei della terra (Kuni-tsu-kami), da cui la Grande
Dea luminosa del Cielo (Amaterasu-o-mi-kami), antenata
divina dell’Imperatore.
La Dea solare consegnerà al nipote Ninigi i “tre emblemi” (shinki) del potere imperiale (la sacra
spada, lo specchio sacro ed il gioiello o pietra preziosa) - simboli della natura trascendentale della
sovranità - e lo invierà sulla terra, con una numerosa scorta di kami, a fondare l’Impero giapponese.
Per due generazioni la dinastia giapponese sarà ancora divina, poi con Jinmu Tennò (il Divino
Imperatore Guerriero) si umanizzerà. Si conclude l’èra degli Dei (jin-dai) ed inizia quella degli
imperatori umani (ninnò-dai), che durerà ininterrottamente per ventisei secoli fino all’attuale
Imperatore, centoventicinquesimo successore di Jinmu Tennò. Per designare l’Imperatore il termine
mikado (l’augusta porta) è poco usato in Giappone. Più comune è Tennò (sovrano celeste). Il
discendente dalla Dea solare è anche chiamato Tenshin (figlio del cielo) oppure Aki-tsu-mi-kami
(l’augusta divinità sotto forma umana). Quando, ogni anno, l’imperatore celebra il grande rito nel
tempio di Ise (ove risiede il mitama della Dea solare), egli “incarna lo spirito” della divina antenata e
perviene allo stato di amn+su-hi-tsugi, cioè acquista la “luce spirituale” di
sovrano celeste.
Nelle interprefazioni esoteriche dei dotti giapponesi, l’Imperatore, che
“incarna l’Eterno Presente” (naka-ima) poiché in lui si uniscono il Cielo e la
Terra , è designato col nome di Sumeramikoto. Mikoto (l’augusta parola) è un
epiteto delle divinità: sinonimo di kami; è, in una interpretazione corrente, la
“parola sacra” che provoca l’unione del Cielo con la Terra.
Il termine sumera potrebbe essere inteso come “ciò che recupera la chiarezza
unitaria della trasparenza divina”, ossia il potere che integra e coordina
armonicamente, ricreando l’unità e la chiarezza originarie; ed il Giappone
stesso, tra i tanti nomi allegorici è chiamato anche Sumera-mikuni: il paese
del sumera divino. L’Imperatore è dunque la più alta personificazione di
questo “potere” di rendere chiaro e trasparente il sovramondo divino, la forza
spirituale e celeste che anima il mondo. “Egli impersona ed interpreta il
“mandato del Cielo” (tenmei)”.
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L’atto del governare diventa quindi atto religioso (matsurigoto), in quanto i riti divini (matsuri) ed il
governo del paese (goto) si conformano al principio del sai-sei-ichi (i riti religiosi e gli affari
pubblici vengono ad essere una sola cosa).
La digressione ci consente d’introdurre il discorso sul sentimento di fedeltà all’Imperatore, sul culto
degli antenati e sullo Yamatodamashii: tre gemme che sbocciano da uno stesso ramo e confluiscono
ne Bushido.
La fedeltà all’Imperatore (chúgi), che Evola giustamente paragona alla fides del Medioevo
ghibellino, comprende in sé la fedeltà allo Stato, alle istituzioni ed al popolo giapponese.
In tal senso il sentimento sarà avvalorato dal Bushido nazionale, che lo contrapporrà a quello dei
secoli precedenti, fondato sulla fedeltà al signore feudale. In tempi più antichi e fino al XIV secolo,
la fedeltà all’Imperatore aveva un carattere propriamente religioso e serviva da tramite al
superamento trascendente della personalità umana.
La fedeltà e la sincerità (makoto), coltivate nel profondo del cuore (kokoro), consentivano al
guerriero di agire “in armonia con il volere degli Dei” (kannagara) e gli permettevano di aprire
l’animo, in virtù anche dei riti dell’Imperatore, “pontifex” fra l’umano ed il divino, al potere
misterioso che unisce i due mondi. In siffatta condizione, la fedeltà trascendente comportava il
desiderio sublime di morire per l’Imperatore: è la “mors triumphalis” del guerriero che si trasforma
in kami. Il culto degli antenati discende dagli stessi principî. Il popolo giapponese sente di
appartenere ad una stessa grande famiglia originaria dal Cielo. Come l’Imperatore venera la Dea
solare, sua divina progenitrice, così ogni gens (uji) onora un capostipite divino: uji-gami (il Dio del
cognome), che si differenzia in ó-uji, se è il Dio della grande gens, e kò-uji, se è il Dio protettore
della famiglia. Tutte le persone collegate tra di loro dal culto del medesimo uji-gami si chiamavano
uji-bito. I capi degli uji ed i capi famiglia celebravano i riti dinanzi al kamidana, il sacrario
domestico, il lararium. Appaiono evidenti le singolari affinità con il culto degli “dii parentes” di
Roma antica. Dal culto degli antenati sorge il sentimento della pietà filiale che il confucianesimo
porrà in particolare risalto. Yamatodamashii, Yamatogokoro e Bushido sono tre nomi uniti da un
simbolo comune: sakura, il fior di ciliegio giapponese. L’anima di Yamato, lo spirito misticoreligioso del patriottismo giapponese, lo Yamatodamashii. Tamashii è l'azione di tama o mitama
cioè dell’essenza che sopravvive alla morte del corpo fisico. Mitama è pure lo spirito dei kami che
abita in un tempio o in un luogo sacro. Il mitama è spesso considerato composto da più parti, di cui
quella inferiore può essere collegata allo spirito vitale ed al genius della stirpe, perciò esso riassume
in sé i concetti tradizionali di “animo” e “spirito”. Yamatogokoro è il “cuore” di Yamato, l’anima
del Giappone, quindi sinonimo di Yamatodamashii in una accezione più sentimentale. Kokoro è la
pronuncia in puro giapponese dell’ideogramma (che raffigura un cuore) letto, con pronuncia sinogiapponese: shin. I cinesi leggono: hsin.
In senso traslato si traduce come “anima”, “spirito”, “coscienza”. I testi zen usano lo stesso
ideogramma per indicare ciò che in occidente viene tradotto col termine di “mente”. Yamatogokoro
è il sentimento profondo che lega i giapponesi al loro paese. In questa espressione è contenuto pure
il sentimento del mono no aware (letteralmente: commozione delle cose), che rende il giapponese
così emotivamente partecipe del ritmo sacro della natura e pronto a manifestare serena compassione
verso le cose belle ed effimere. I celebri versi di Motoori Norinaga (che riportiamo nella traduzione
di Pierre Pascal) suggeriscono l’immagine dell’anima di Yamato:
Shikishima no
Yamato gokoro wo
hito towaba
asahi ni niou
Yama-zakura bana
Se qualcuno domanda
qual è l'anima dell’Yamato:
è un fiore di ciliegio
che profuma il sol levante.
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Scriveva nel 1942 il prof. Shimazu: “I samurai sono l’incarnazione del bushido, attraverso gli
insegnamenti del fior di ciliegio”.
Il mono no aware è il sentimento che provano i giapponesi contemplando la bellezza del ciliegio in
fiore. La bellezza effimera del sakura ricorda la caducità della vita. Nel fior di ciliegio la natura si
rivela pura, come adamantina è la lealtà di un samurai. La fragranza del sakura è simile al nome
onorato di un samurai, che detesta la codardia e si sforza di lasciare dietro a sé un nome fragrante ed
imperituro.
Il fior di ciliegio, giunto a completa fioritura, cade
repentinamente, così l’ideale del samurai è morire
combattendo, senza rimpianto, quando l’ora giusta
è giunta. “Sono caduti come fior di ciliegio”, si
diceva in Giappone dei soldati che avevano
sacrificata la loro vita in battaglia.
Ed un giovane samurai veniva chiamato: “un bushi
simile ad un ciliegio in fiore”. Il sakura è un fiore
gentile, e l’animo del samurai non è solo educato
alla fermezza ma anche alla cortesia, espressione
del mono no aware.
Un tema ricorrente nella pittura giapponese è quello di un famoso eroe del XII secolo, Minamoto
Yoshiye, rappresentato prima della battaglia, chiuso nella sua armatura di guerra, che contempla
immobile un albero di ciliegio e compone un tanka (poesia classica in 31 sillabe) sui petali di
sakura, mentre il vento leggero li faceva cadere sulla sua corazza. Un antico detto giapponese
ricorda: “L’eroe è forte come una montagna, gentile come una brezza”. Il pianto dei samurai, così
frequente negli addii e durante la compilazione dei jisei (i tanka del commiato alla vita), lascerebbe
sorpreso chi non conoscesse il duplice aspetto dell’animo guerriero giapponese: l’imperturbabile
calma di fronte alla morte e la sensibilità gentile affinata dal mono no aware. Con un altro antico
detto giapponese, riassumiamo quanto abbiamo fin qui esposto:
hana wa sakura gi
hito wa bushi.
tra i fiori, il ciliegio:
tra gli uomini, il guerriero.
Il sakura è il samurai ed il bushido è Yamatogokoro. Il contributo dello shinto è determinante nelle
espressioni e nelle immagini che abbiamo descritto.
Prendiamo ora in esame i sentimenti di purezza e di sincerità. La Via dei kami si esprime
essenzialmente nella purezza rituale. Solo chi ha l’animo purificato può entrare in contatto con gli
Dei e far operare le innate virtù.
“Noi giapponesi, scrive il prof. Hirata, discendiamo dai kami ancestrali e siamo perciò
spontaneamente in possesso della via degli Dei (kami no michi = kannagara no michi); ciò
significa che ritroviamo in noi stessi le virtù della devozione verso gli Dei, l’Imperatore ed i
genitori, della benevolenza verso le spose ed i figli; conformandoci alla Natura ed adeguandoci
all’insegnamento dei kami troviamo in noi quelle qualità morali che i confuciani chiamano le
cinque virtù (gojò) ed i cinque grandi principi etici (gorin)” .
Senza la purezza rituale ciò non è possibile. La purezza shinto non ha presupposti morali; la
contaminazione è l’impurità che si contrae venendo a contatto con uomini o cose ritenute
inquinanti. Nella formazione mentale e spirituale che il bushido impone a un samurai (shugyò), si
trovano esercizi che non appartengono allo zen ma allo shinto: le abluzioni sotto le cascate,
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l’ascensione rituale delle montagne, i digiuni preparatori sono pratiche misogi tendenti a purificare
il corpo e lo spirito. Makoto viene generalmente tradotto come sincerità. Il nome, peraltro,
abbraccia concetti più ampi. Comprende le idee di verità, onestà e lealtà. Indica, tra l’altro, lo zelo
con cui il samurai è disposto a seguire la via indicata dal bushido.
Esprime makoto colui che evita di pensare al proprio interesse, che rifugge dal profitto (un usuraio,
dicono in Giappone, manca di makoto), che sa liberarsi dalle passioni e dai conflitti emotivi. Una
setta esoterica dello shinto afferma: “Makoto è l’attitudine di uno spirito risvegliato (alla verità),
ove sono spazzate le otto polveri (le otto contaminazioni) e l’animo è liberato dalla cattiva sorte”.
Per Nakanishi, makoto è lo stato di kannagara; per Ruth Benedict, makoto è una misura
dell’entusiasmo dispiegato, più che una qualità specifica. Makoto significa che le parole debbono
divenire azioni: ciò che si dice deve essere tradotto subito in azione. Makoto, per altri
commentatori, è “sentire e vivere immediatamente le cose del mondo senza la mediazione del
pensiero”.
Dallo stato di makoto sembra derivi il sentimento del mono no aware. È, dunque, un principio
supremo dello shinto, giacché, servendo i kami con makoto, l’uomo si conforma alla loro volontà.
È la qualità essenziale di un uomo di michi, di un uomo che si trova sulla Via.
Concludiamo parlando della spada e del suo significato sacro.
La spada è definita l’anima del samurai, il
simbolo della sua dignità, del suo
coraggio e del suo onore. Già nei racconti
mitologici dello shinto la spada è un
simbolo sacro, uno dei “tre emblemi” che
Amaterasu-ò-mi-kami consegna al nipote
Ninigi. Il fratello guerriero della Dea
solare, il Dio Susano-o (il Maschio
Impetuoso) troverà la spada nel ventre del
feroce drago con otto teste da lui ucciso.
Yamato Takeru (il guerriero di Yamato),
l’eroe più famoso dei tempi leggendari,
riceverà dalla sacerdotessa del grande
tempio di Ise la “spada celeste cumulo di
nubi”
(ame-no-murakuno-no-tsurugi)
con la quale, in epici combattimenti,
vincerà gli Ainu.
Si tratta sempre della stessa spada che ora
è un mitama del kami venerato nel
tempio di Atsuta.
I samurai attribuivano alla spada poteri
misteriosi e divini, e la trattavano con la
venerazione che impone un oggetto sacro.
Alla morte del samurai la spada era posta a fianco del suo letto e, quando nasceva un figlio in una
casa di samurai, la spada lo difendeva dagli influssi malefici.
Si racconta del comportamento di due lame forgiate da due famosissimi maestri spadai, Masamune
e Masashige: immerse nelle acque di un ruscello per la prova del filo, la prima tagliava in due le
foglie che la corrente portava a contatto, la seconda deviava dal filo tagliente le foglie che si
avvicinavano; terribilmente efficace quella di Masamune, misteriosamente superiore quella di
Masashige, altrettanto efficace con la sua benevolenza.
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Era sacra anche l’arte dello spadaio: un rito shinto praticato anche da imperatori.
Il maestro spadaio, dopo digiuni e riti preparatori condotti sulle montagne o in ritiro nei templi,
decorava la fucina con le corde sacre delle cerimonie shinto (shimenawa), compiva le abluzioni
purificatorie, si vestiva con i bianchi paramenti dei sacerdoti shinto, accendeva ritualmente il fuoco
con la percussione di pietre, invocava davanti al piccolo altare (kamidana) il Dio protettore della
fucina. Durante il lavoro, che durava più giorni, egli continuava a praticare i riti di purificazione e si
asteneva dal mangiare cibi ritenuti impuri. Nessuno poteva entrare nella fucina e nessuno doveva
rivolgergli la parola. Le formule e le tecniche della tempera costituivano il segreto più geloso di
ogni scuola. Si racconta la storia di un discepolo sleale che, volendo scoprire il segreto della
tempera, immerse improvvisamente la mano nella vasca: la mano ne uscì scheletrita.
In un dramma del No (il Kokaji), scritto nel XV secolo, e ricordato da Suzuki, si narra un’antica
storia che ci può dare una significativa idea dell’importanza religiosa della fucinatura delle spade.
L’Imperatore Ichijò (che regnò verso la fine del X secolo) aveva ordinato al più grande maestro
spadaio del tempo, Munechika Kokaji, la forgiatura di una spada. Munechika non poteva eseguire
l’ordine imperiale senza un abile assistente che lo aiutasse nell’opera. Non avendo, in quel
momento, alcun aiutante, egli pregò il Dio Inari, protettore della sua fucina, di mandargli un valido
aiuto. Nel frattempo, completati i riti purificatori, iniziò i lavori preparatori.
Indi rivolse al Dio Inari questa preghiera:
L’opera che io sto per intraprendere non serve per glorificare la mia arte, ma per obbedire
all’augusto ordine dell’Imperatore che regna sovra l’intero mondo. Io prego tutti gli Dei, numerosi
come le sabbie del Gangà, di venire quaggiù e di aiutare questo umile Munechika che si accinge
ora a forgiare una spada degna delle virtù dell’augusto committente.
Gli Dei intesero la sua sincerità (makoto).
Mentre Munechika compiva i riti dinanzi al kamidana della sua fucina, si udì una voce esortarlo ad
iniziare l’opera e ad avere fiducia negli Dei. Indi comparve una figura misteriosa che lo aiutò a
martellare il ferro. Fu forgiata una spada meravigliosa che l’Imperatore conservò con sacro rispetto.
Nella spada è racchiuso dunque qualcosa di divino.
Il samurai deve essere degno di portarla e deve conformare il suo comportamento alle origini sacre
della spada: il suo “cuore” (kokoro) deve essere unito al “cuore” che anima il freddo acciaio.
Questo è il significato spirituale del detto: “La spada è l’anima del samurai”.
Lo zen, successivamente, attribuirà alla spada ed al combattimento un ulteriore significato; per i
samurai l’ideale sarà: “Non usare la spada, ma essere la spada stessa”.
Questi i principali contributi dello shintò al bushido.
Resterebbe da accennare al culto del Dio della guerra Hachiman-o-kami, particolarmente venerato
dai samurai. Il Dio shinto Hachiman è onorato in quasi cinquantamila templi sparsi in tutto il
Giappone: oltre la metà di tutti i jinia dello shintoismo. Fino alla guerra del Pacifico i soldati
giapponesi, seguendo l’uso degli antichi samurai, portavano con sé, prima di andare al
combattimento, una reliquia proveniente da uno dei templi di Hachiman. E con ciò crediamo di aver
dato sufficienti ragguagli su quanto dello shinto affluì nel bushido, colmando così le lacune
riscontrate nell'opera di Nitobe.
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Zen To Bushi. La Via dello Zen e dei Guerrieri.
Le strutture tipiche di una società feudale, fondata sul sistema gentilizio degli uji, esistettero in
Giappone fino al VII secolo - quando, abolite le autonomie locali, il governo aristocratico di corte
modellò lo Stato sugli schemi formali della dinastia cinese dei T’ang, Il feudalesimo vero e proprio
iniziò nel XII secolo, con il governo shogunale di Kamakura. Il trapasso dal periodo Heian a quello
di Kamakura fu segnato dall’esito dell’epica guerra Gempei tra le grandi famiglie dei Taira e dei
Minamoto. È stato giustamente osservato come i Taira, quali appaiono negli indimenticabili episodi
guerreschi celebrati dall’epica giapponese, pur rappresentando un mondo raffinato e formale,
destinato a soccombere dinanzi a quello rude e virile dei samurai, affrontano la morte come i bushi
di Kamakura, sfatando così la leggenda di un’aristocrazia di corte effeminata e decadente. Fu
dunque la nobiltà guerriera (buke) delle province, furono i signori feudali, i daimyo (grandi nomi)
con il loro séguito di kerai (fedeli vassalli) costituito dai bushi o samurai, che si affermarono sulla
nobiltà di corte (kuge) ed imposero i loro costumi virili e marziali ad una società che, da allora fino
al XIX secolo, manterrà tali caratteristiche.
Nello stesso tempo si andava affermando la setta
buddhista dello zen, altrettanto severa e virile nella
sua disciplina ascetica, libera da speculazioni
dottrinarie e da ritualismi. L’incontro fu quindi
spontaneo: da un lato i guerrieri trovarono nello zen
un metodo di ascesi congeniale alla loro natura,
dall’altro lo zen trovò in essi, più che in altre caste,
uomini adatti a seguire la disciplina del “tirare avanti
diritti senza voltarsi indietro e senza porsi alcun
problema”. Da allora lo zen divenne prevalentemente
la religione dei samurai, ed il bushi, tramite lo zen,
un tipo d’uomo unico e irripetibile nella storia del
genere umano. Nel periodo Kamakura ed in quello
successivo degli Ashikaga, il genio giapponese offrì
due sole grandi strade: la via del monaco e quella del
guerriero.
Quest’ultima,
poi,
se
non
s’arrestava
improvvisamente per la morte eroica del viandante,
confluiva naturalmente nella prima alla fine del
percorso: i grandi samurai si ritiravano nei
monasteri, attendendo in serenità e meditazione la
loro ultima ora terrena.
In questi secoli di guerre continue, il samurai non fu solo guerriero, fu anche monaco. Da un lato
bushi dal cranio rasato (simbolo dell’ordinazione monacale), che continuavano a combattere ed a
servire il loro Signore; dall’altro monaci armati, come i tenibili “cavalieri della montagna” della
setta Tendai, che guerreggiavano per conto loro.
Ci si chiede: come la dottrina di compassione e di amore universale si accorda con le forme
guerriere del buddhismo giapponese? Anzitutto, lo abbiamo già notato, vi è un buddhismo popolare
e religioso (che attribuisce prevalente valore alla morale) ed un buddhismo iniziatico.
Lo zen, in quanto dottrina jiriki, appartiene a quest’ultima forma.
I1 buddhismo delle origini si accorda con lo zen: fu prevalente dottrina delle caste guerriere,
l’ascesi richiedeva la virtù del guerriero e tutta la dottrina è pervasa da spirito kshatriya.
Il Buddha storico fu di stirpe regale ed anche Bodhidharma, il patriarca dello zen, secondo alcuni
racconti, fu figlio di re: giunto in Cina, assieme alla legge del Buddha insegnò pure l’arte marziale
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del combattere a pugni nudi. È noto infine che il primo buddhista considerò sita (la retta condotta)
non come una morale autonoma, bensì come stadio preparatorio, che si abbandona e si supera lungo
la via dell’ascesi (il paragone della zattera !): la vera spiritualità, come afferma Evola, si trova di là
dal “bene” e dal “male”.
La stretta connessione fra samurai e monaci e fra daimyo e maestri spirituali dello zen, farà sorgere,
su di un terreno già preparato dallo shinto, il bushido nel suo significato essenziale e letterale di
“Via del guerriero”. Il nome sembra abbastanza recente. C’è chi afferma che è stato usato per la
prima volta solo nel XIX secolo, e chi 1o fa risalire al XVII secolo. Nel periodo Kamakura si usò il
termine Kyùba no michi (la Via dell’arco e del cavallo). Quello che importa è non il nome, ma le
realtà spirituali (antichissime) che trovarono nello zen il polo di aggregazione e di definizione.
Riprendiamo il tema della preparazione alla morte quale fondamento principale dell’insegnamento
superiore del bushido.
“Un uomo nato samurai, si raccomandava, deve vivere e morire con la spada in mano”, ed una
vecchia massima consigliava: “Quando esci di casa dimentica moglie e figli, quando impugni la
spada dimentica il corpo”. Entrando più propriamente negli insegnamenti zen il samurai trovava
questi consigli: “Se voi avete un io cosciente, voi avete un nemico; se voi non avete un io cosciente,
voi non avete alcun nemico”.
Ma è nell’Hagakure che si trovano i maggiori riferimenti a quest’ordine di conoscenze.
Il libro è stato scritto nel XVII secolo, quindi in un periodo già sotto l’influsso del
neoconfucianesimo, da un monaco zen. E’ una raccolta di varie note, aneddoti ed osservazioni sul
bushido, ed il titolo significa “nascosto sotto le foglie”, con allusione alla virtù della modestia che
impediva ad un samurai di vantare le proprie qualità.
“Quando stai sul campo di battaglia, si legge nell’Hagakure, chiudi la mente al troppo ragionare,
poiché quando cominci a ragionare sei perduto. Il ragionamento ti priva di quella forza con la quale
puoi aprirti la strada che porta diritto alla meta”.
L’Hagakure insiste sempre sulla
necessaria prontezza che un
samurai deve avere nel sacrificare
la propria vita. Vi si afferma che
nessuna opera grande è stata mai
compiuta senza “divenire pazzo”,
senza cioè rompere il livello della
coscienza ordinaria: per giungere
ad uno stato di superindividualità
ove l’Io superiore stabilmente
dimori
in
una
coscienza
illuminata. Se l’idea della morte
perde il suo potere ammaliante, la
“mente” (si tenga presente quanto
abbiamo detto a proposito di
“kokoro”, “shin” e “hsin”) può
penetrare
direttamente
entro
l’oggetto in sé e guardarlo
dall’interno: ci si trova in uno
stato libero dalle motivazioni
coattive della coscienza.
Ad un livello inferiore, dominare l’idea della morte, sostiene Suzuki, era l’attrattiva maggiore che lo
zen offriva ai samurai; e questo essi lo potevano ottenere senza le sovrastrutture di una religione, di
una morale, di un ritualismo. I samurai occupavano il rango più elevato dei ceti feudali, quel rango
che in altre società è occupato dai sacerdoti.
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La loro vita guerresca, che era una continua preparazione alla morte, li portava, anche
nell’immagine popolare, più vicini delle altre caste ad un contatto con il mondo misterioso del nonumano. In un testo tardivo, rispetto alla tensione eroica e spirituale del periodo che abbiamo
chiamato del bushido guerriero, si manifesta ancora la correlazione tra il bushi e la vita spirituale.
“Il popolo, scriveva il principe di Mito in un indirizzo rivolto ai suoi samurai, è diviso in quattro
caste: shi, nó, kó, shò. Ciascuna casta ha i suoi compiti. La gente del nò si dedica all’agricoltura,
quella del kò all’artigianato, quella del shò al commercio. Qual è dunque il compito dei bushi (shi)?
Mantenere inalterato e puro il sentimento del dovere (gin). La gente delle altre caste si occupa di
cose visibili, i samurai di cose invisibili, insostanziali”.
Nel mondo delle forze sottili ed insostanziali si muovono ed operano, con effetti prodigiosi, tutti i
grandi maestri delle arti marziali. Anche nell’esoterismo shinto si utilizzano tali forze. Aoyama
Shigeyoshi, grande sacerdote (gùji) e maestro di dottrine segrete nel tempio di Iso no kami,
dichiarò recentemente a Jean Herbert:
“Spesso le battaglie in realtà s’ingaggiano entro il tana dei guerrieri combattenti; una forza
misteriosa può agire nel kendo, nel judo e nel karate, ed in altre arti marziali meno conosciute”.
Di là dall’addestramento zen contenuto nelle vie marziali, di cui fra poco tratteremo, anche il solo
bushido poteva condurre allo stesso punto. Ecco un esempio tratto dall’Hagakure. Uno dei più
grandi maestri di kendo, Yagiù Tajima no kami Munenori, fu avvicinato un giorno da un hatamoto
(un samurai al servizio dello Shògun), che gli manifestò il suo desiderio di apprendere la vera arte
del combattimento con la spada. Il maestro gli rispose: “Da quanto mi appare, voi siete già un
maestro di kendo; a quale scuola appartenete?” “Purtroppo, rispose l’hatamoto, non ho mai appreso
l’arte”. Tajima replicò: “Non posso ingannarmi, io sono un maestro ed il mio occhio non sbaglia”.
L’hatamoto, umilmente, sostenne che in effetti lui non sapeva proprio nulla di kendo. Il maestro
soggiunse perplesso: “Sarà come voi dite, tuttavia io sono sicuro che voi siete maestro in
qualcosa”.”Se c’è una cosa, rispose l’hatamoto, di cui posso dire di essere veramente padrone è
questa: quando, ancora bambino, seppi che un samurai non avrebbe mai dovuto temere la morte, mi
sforzai sin d’allora, per lunghi anni, a pensare al problema della morte e del suo superamento, e un
giorno infine tale problema cessò improvvisamente di esistere per me. Alludete forse a questo?”.
“Esattamente, è questo che intendo, rispose Tajima no kami; sono lieto di non essermi sbagliato: il
segreto ultimo del kendo risiede nell’assoluta libertà dal timore della morte. Io ho allenato centinaia
di allievi su questa via, ma finora a nessuno potevo riconoscere la qualità di maestro del kendo.
Voi non avete alcun bisogno di essere istruito sulle
tecniche di combattimento, voi siete già un maestro”.
Un grande guerriero del XVI secolo, signore di un
feudo e monaco zen, Uesugi Kenshin, così esortava i
suoi samurai:
“Quelli che si attaccano alla vita, muoiono; e quelli
che sfidano la morte, vivono.
La cosa essenziale è la Mente (shin); guardate in
questa Mente e prendete stabile possesso in questo
stato di Superindividualità.
Voi comprenderete allora che c’è qualcosa in voi di
là dalla morte e dalla vita. Io stesso, giunto al grado
supremo della meditazione (samàdhi), ho avuto la
coscienza illuminata e so di che cosa vi sto parlando.
Quelli che non son disposti a dare la loro vita ed a
correre incontro alla morte non sono veri guerrieri”.
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Un passo dell’Hagakure sostiene:
“Non è vero samurai chi non sa andare di là dalla vita e dalla morte. Quando vien detto che tutte le
cose si ritrovano in una sola Mente, voi potete suppone che esista un qualcosa che può essere
conosciuto come “Mente”; ma in verità è proprio una mente attaccata alla vita ed alla morte che
deve essere definitivamente abbandonata. In tal caso potrete compiere azioni meravigliose, poiché
avrete raggiunto uno stato superindividuale della coscienza (mente) chiamato: mushin no shin che,
in accordo con quando disse il grande maestro Takuan, è uno stato della mente non più turbato dai
problemi della morte o dell’immortalità”.
Cerchiamo ora di chiarire alcune formule tipicamente zen come “andare di là dalla vita e dalla
morte” e “mushin”.
Sarà, necessariamente, una spiegazione schematica che, peraltro, ci consentirà d’introdurre il
discorso sullo zen incluso nelle vie marziali (budo).
L’andare di là dalla vita e dalla morte significa, per lo zen, superare la divisione del mondo in
oggetto e soggetto. Il mondo della diversità (shabetsu) è tale solo perché l’ignoranza cosmica
(mumyò) e la mania (bonnò), cioè la forza intossicante delle passioni, ottenebrano, nell’”Io” che
noi crediamo di essere (ma che in realtà è solo un aggregato di elementi impermanenti, immerso
nell’angoscia del divenire), la capacità di vedere nella propria natura più profonda. Questa natura è
il “volto originario” dell’Io superiore che i buddhisti chiamano il “cuore del Buddha”, l’Assoluto.
Ritrovare la nostra Essenza superiore, distruggendo le aggregazioni caduche ed effimere dell’Io
terreno ed illusorio è compito di ogni ascesi. “Lasciando la presa”, si dissolvono ignoranza e mania
e ci si apre ad una visione improvvisa, lucida ed intuitiva (quindi né concettuale, né psicologica, né
intellettuale) dell’identità assoluta (byòdò), in cui si risolvono ogni antitesi ed ogni dualità, perciò
anche: vita e morte.
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Questa coscienza illuminata o conoscenza intuitiva suprema è prajna, la facoltà spirituale d’ordine
metafisico che abolisce appunto ogni separazione fra conoscitore e conosciuto.”Risvegliarsi” a
questa conoscenza è il satori, l’Illuminazione, il fine ultimo dello zen.
Da questa esperienza metafisica, che rappresenta il superamento della condizione umana, si
apprende, ultima verità ed estremo paradosso (per chi è ancora legato al pensiero discriminante), che
prajna è immanente in ogni uomo e che diversità ed identità sono la stessa cosa: il mondo del
divenire e l’Assoluto coincidono.
Da una diversa angolatura e ad un certo grado, il risveglio di prajna è chiamato mushin (vuoto
mentale) o munen (assenza di pensiero) o muga (non-io). In codesto stato spirituale, abolite le
discriminazioni tra soggetto ed oggetto, tra io e non-io, si è raggiunta la perfetta identità e
simultaneità tra volontà ed azione: è il punto d’arrivo delle Vie marziali (budo) o arti marziali
(bugei) nel segno dello zen. Tutto l’addestramento tende a questa meta, e non si possiede veramente
un’arte se non si giunge allo stato di mushin. Ma chi raggiunge questo stato è già sulla via che
conduce alla liberazione: l’arte non gli serve più. Qui s’incontrano zen, budo e bushido.
Di là dal modo schematico, seguiamo ora lo stesso ordine di considerazioni, riassumendo la celebre
lettera sul fine ultimo del kendo, scritta dal monaco Takuan al maestro Yagiù Tajima no kami
Munenori. “La mente comune, vien detto, ferma la sua attenzione sull’oggetto della sua azione.
Questo fermarsi, questo avere la consapevolezza di quello che si sta facendo è l’ostacolo maggiore
da superare nell’addestramento del kendo secondo i principî dello zen. Se un avversario attacca, e
chi si difende fissa la sua attenzione sulla spada del nemico, si è sconfitti in partenza. Se la mente si
ferma su di un qualunque oggetto, sia questo la spada dell’avversario, l’avversario stesso, la propria
spada, il proprio corpo, l’azione che si vuole intraprendere in difesa o in attacco, si è in ogni modo
dominati e vinti. L’opposizione fra soggetto e oggetto deve essere superata. L’attacco e la difesa
devono diventare una cosa sola. Dovendo combattere contro dieci uomini uno dopo l’altro, l’azione
di attacco deve sgorgare spontanea, senza alcuna soluzione di continuità, con movimento fluido e
sereno”.
Un allievo desidera apprendere l’arte del kendo.
Da profano, all’inizio delle lezioni, le sue parate saranno istintive.
Dopo un lungo periodo di tempo apprenderà minuziosamente tutte le tecniche di attacco e di difesa.
Combattendo, ora, cercherà di applicare le tecniche che ha appreso; facendo questo la sua mente
sarà consapevole dell’azione: egli avrà perduto l’originale senso d’innocenza e di libertà. Solo nella
terza fase, dopo un altro lungo periodo di addestramento, egli riuscirà finalmente a dimenticare le
tecniche (che peraltro il suo “corpo” avrà appreso in modo autonomo), e la sua mente ritornerà
libera ed istintiva come era all’inizio, ma ad un livello diverso.
Il discepolo infatti è divenuto maestro ed il ritorno alle origini gli appare da una posizione
superiore: dallo stato incondizionato di mushin. Nella fase intermedia dell’addestramento, egli si
era trovato nelle stesse condizioni narrate nella parabola del millepiedi. Quest’ultimo camminava
tranquillo e spontaneo; gli chiesero come faceva a coordinare così bene tutti i movimenti delle mille
gambe; ci pensò, e non riuscì più a camminare.
Vien posta la domanda: se la mente non può essere fermata su alcunché di esterno: quando si
combatte dove bisogna dirigerla? Se la si concentra nel tanden (che è il “campo di cinabro” del
taoismo, il centro vitale dell’uomo, idealmente situato tre centimetri sotto l’ombelico), si ottiene
l’effetto voluto e si liberano ed utilizzano le forze impersonali e sottili dell’energia vitale (ki), che
danno possibilità meravigliose.
Ma il fenomeno non interessa lo zen che vuol portarsi più oltre.
La mente deve lasciar andare sé stessa in assoluta fluidità, senza fermarsi in alcuna parte del corpo:
è il mushin no shin, la mente consapevole della sua non consapevolezza: la “mente imperturbabile”
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(fudò-shin). Per raggiungere questo stato di “vuoto mentale” nelle arti marziali come in tutte le
altre arti intese come “do”, si percorrono, più o meno, gli stessi stadi dello sviluppo spirituale della
disciplina zen monacale. Diremo soltanto, per chi ha qualche conoscenza dello zen, che questa
graduale purificazione è allegoricamente rappresentata dalle “dieci figure dell’uomo e della vacca
(o del bue)”:
1. si cerca la Verità;
2. si scopre la Verità;
3. si riconosce la Verità;
4. si vede la Verità;
5. si sperimenta la Verità;
6. si domina la Verità; .
7. si dimentica la Verità;
8. si dimentica di essere il portatore della verità;
9. si ritorna all’origine;
10. si riposa nel Nulla (poiché si è reciso ogni vincolo).
Per concludere l’argomento, citiamo per intero il cosiddetto “credo del samurai”. È una specie di
manifesto che descrive lo stato ideale in cui viene a trovarsi un samurai educato dal bushido: lo
stato di mushin o di muga, dal quale sgorgano le più stupefacenti azioni.
Non ho genitori: il Cielo e la Terra sono i miei genitori.
Non ho casa: il saika tanden (centro vitale dell’uomo) è la mia casa.
Non ho poteri divini: la lealtà (chúgi) è il mio potere divino.
Non ho mezzi: I’obbedienza è il mio mezzo.
Non ho poteri magici: la forza interiore è il mio potere magico.
Non ho né vita né morte: l’”Assoluto “ è la mia vita e la mia morte.
Non ho corpo: la stoica impassibilità è il mio corpo.
Non ho occhi: la luce del lampo è i miei occhi.
Non ho orecchi: la sensibilità è i miei orecchi.
Non ho membra: la prontezza è le mie membra.
Non ho legge: l’autodifesa è la mia legge.
Non ho l’arte della guerra: sakkatsu jizai (letteralmente: libero di uccidere e di restituire la vita) è la
mia arte della guerra.
Non ho progetti: il kisan (è il ciuffo del samurai; vale per acciuffare l’occasione per i capelli) è i
miei progetti.
Non ho miracoli: il Dharma (la Legge del Buddha, l’ordine del Cosmo) è i miei miracoli.
Non ho principi: l’adattabilità a tutte le circostanze (rinkiòhen) è i miei principi.
Non ho tattiche preordinate: il kyo-jitsu (la vacuità e la pienezza) è la mia tattica.
Non ho capacità: il toi sokumyo (la prontezza di spirito) è la mia capacità.
Non ho amici: la mia mente è i miei amici.
Non ho nemici: l’imprudenza è i miei nemici.
Non ho armatura: jin-gi (la sensibilità umana ed il senso del dovere: le due virtù cardinali dei
confuciani) è la mia armatura.
Non ho castello: fudò-shin (la mente imperturbabile) è il mio castello.
Non ho spada: mushin è la mia spada.
Concludiamo questa ricognizione sul bushido guerriero, riassumendo:
1. l. lo zen, che nei periodi Kamakura e Ashikaga ha influito in modo notevole e duraturo su tutta
la civiltà giapponese, riflettendosi in ogni aspetto della vita e dell’arte, ha trovato nei samurai e
nel bushido la forma più congeniale e più completa di manifestazione, dopo la vita monastica;
2. il bushido guerriero non può essere in alcun modo dissociato né dallo zen né dalle arti marziali.
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Infine, due esempi di spirito bushido: il primo riguarda monaci che muoiono come samurai; il
secondo narra di samurai che muoiono come monaci.
Nell’aprile del 1582 Kaisen, abate del monastero di Yerin-ji, aveva dato ospitalità ad alcuni samurai
seguaci del suo discepolo Shingen, che Oda Nobunaga aveva sconfitto. Nobunaga assediò il
monastero e minacciò di darlo alle fiamme se non gli venivano consegnati i rifugiati. I monaci
rifiutarono. Si raccolsero nella sala principale e si schierarono bene allineati come per la consueta
meditazione. L’abate pronunciò il suo ultimo sermone, poi disse: “Noi ora siamo circondati dalle
fiamme; come potreste voi, in questo momento critico, girare la vostra ruota del Dharma?
Esprimete il vostro parere!” Ognuno rispose secondo il grado di elevazione spirituale cui era giunto.
Per ultimo l’abate espresse le sue conclusioni: “Per una tranquilla meditazione, non c’è bisogno di
andare sui monti o vicino ai fiumi; quando la mente è imperturbabile, il fuoco stesso è fresco e
rinfrescante”. E così tutti entrarono nel fuoco del supremo grado della meditazione (samàdhi).
Dalle cronache del Taiheiki riprendiamo, nella traduzione di Suzuki, un esempio di junshi, di
suicidio cioè commesso per seguire nella morte il proprio Signore.
Nel maggio del 1333 la grande famiglia degli Hòjò, che per oltre un secolo aveva governato il
Giappone, è al tramonto.
Kamakura è attaccata dalle truppe di Nitta Yoshisada e posta in fiamme. Hòjó Takatoki preferisce il
seppuku alla capitolazione, e si uccide con tutti i familiari, i parenti, i servitori ed i samurai. Uno
dei nobili samurai al servizio degli Hójó avvolge sull’impugnatura della spada, con la quale sta per
uccidersi, una lettera di sua nipote, moglie di Nitta Yoshisada: la lettera gli garantiva la salvezza e
la libertà. Scrive Auriti: “I1 guerriero vinto combattendo per il suo Signore, che si ritira in un
tempio e, dopo aver composto il jisei, cioè il canto di commiato dalla vita, se la toglie serenamente,
squarciandosi l’addome con la spada dall’elsa (tsuba) ornata con sobrietà e dalla lama elegante
nella linea e tagliente nel filo, esprime la storia, la religione, la letteratura, l’arte e lo spirito eroico
che il periodo Kamakura tramandò nei secoli”.
L’episodio narrato nel Taiheiki parla di Shiaku Shinsakon Nyudo, un samurai di rango non molto
elevato nella gerarchia della corte shogunale di Kamakura.
Quando egli stava per uccidersi, chiamò il suo figlio maggiore Saburózaemon e gli disse:
“Kamakura, circondata dai nemici, sta per cadere. Io sto per seguire il destino del mio Signore come
suo leale vassallo (kerai). Tu sei ancora giovane e non hai l’obbligo della fedeltà verso il nostro
Signore, poiché non sei ancora entrato al suo servizio. Cerca di sfuggire alla tragedia che si avvicina
e diventa un monaco: al servizio del Buddha potrai celebrare i riti per i nostri spiriti. Nessuno ti
biasimerà se ti salverai per fare questo”.
Ma Saburózaemon rispose: “Io non sono stato ancora ammesso al diretto servizio del nostro
Signore, ma come vostro figlio sono stato allevato sotto la sua benevola protezione. Se io già avessi
seguita la via del monaco, il fatto si presenterebbe in modo diverso. Poiché sono nato in una
famiglia di samurai, non posso abbandonare voi ed il vostro Signore: nessuna vergogna sarebbe più
grande di questa. Se voi volete seguire il destino del nostro Signore, lasciate che io vi preceda e vi
faccia da guida nello stretto sentiero del di là”. E già prima delle ultime parole, egli si era aperto il
ventre con la sua spada.
Suo fratello Shirò, osservando la scena, si preparò rapidamente a seguire l’esempio di
Saburózaemon. Ma il padre lo fermò dicendo: “Non avere tanta fretta, tu devi seguire l’ordine ed
aspettare la mia morte”.
Shirò rinfoderò la sua wakizashi (spada corta) e sedette tranquillamente davanti a suo padre,
aspettando gli ordini.
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Il padre allora gli disse di portargli uno scanno; si sedette a gambe incrociate come i monaci zen
durante la meditazione, e quietamente sciolse l’inchiostro nella tazza, intinse con cura il pennello, e
scrisse il suo poema di morte (jisei) su di un pezzo di carta:
“Tenendo questa spada,
io taglio in due il Vuoto;
nel mezzo del grande fuoco,
un fiume di rinfrescante brezza!”.
Quindi compì il rito del seppuku tagliandosi lentamente il ventre; il figlio Shirò completò il rito, in
accordo con gli usi prescritti dal bushido, tagliando con un colpo di spada la testa del padre. Poi,
con quella stessa spada, si uccise.
Tratto da: Bushido; di Inazò Nitoube. Edizione; Sannò-Kai
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