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Omero
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Emanuele Santi
Il portiere e lo straniero
© 2013 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.
Via Saturnia 14, 00183 Roma
www.lasinodoroedizioni.it
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6443-188-8
ISBN ePub 978-88-6443-189-5
ISBN pdf 978-88-6443-190-1
Copertina di Massimo Fagioli
A Valerio
L’idea
Non ricordo esattamente dove e quando, ma un giorno ho
letto da qualche parte che Albert Camus aveva la passione
per il calcio. E non è stata soltanto distrazione, la mia, se non
ho saputo riconoscere al volo l’importanza della notizia, considerato che me ne ero lasciato sfuggire l’aspetto più interessante: Albert Camus aveva addirittura giocato come portiere
a livello giovanile. Le fotografie in bianco e nero che lo ritraggono con il cappotto nella fredda Parigi oppure in maniche
di camicia sotto il sole dell’amata Algeri, rivelano tutte una
profondità di sguardo e di pensiero fuori dal comune, nonché
una vivissima e inafferrabile luce negli occhi, ma nessuna di
esse riesce a mettere in mostra un fisico particolarmente atletico. Sebbene l’aver difeso in gioventù i pali della squadra
juniores dell’Università di Algeri non sembra aver influito sulla massa corporea del grande intellettuale di lingua francese,
i suoi trascorsi calcistici ne hanno tuttavia arricchito la statura
morale, la formazione umana e in particolar modo la capacità
di guardare il mondo e le persone. Lo ha detto egli stesso, più
volte, in tante occasioni diverse.
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Ricordo benissimo invece quando ho letto Lo straniero.
Innanzitutto perché ero in piena separazione dalla donna
mamma del mio bimbo, di soli 3 anni e mezzo, e poi perché
si tratta di un libro che ti resta dentro e che non esce più. Ne
avevo trovata una copia su una delle tante bancarelle dell’estate romana, l’estate del 2007. Giravo a vuoto tra gli stand di
una festa di “Liberazione” in zona Piramide e, forse perché
annoiato dai soliti dibattiti, mi ero messo a guardare i libri.
Ovviamente era un’opera che conoscevo soltanto di fama, per
cosiddetta cultura generale, ma di cui (colpevolmente e senza
alcuna attenuante) avevo sempre rimandato la lettura. Ai tempi della scuola, la moribonda scuola pubblica, Camus non
l’avevo mai sentito nominare né in filosofia né in letteratura.
Il sorteggio delle materie per gli orali della maturità, all’epoca,
oltre all’italiano testa di serie, mi aveva dato da scegliere tra
storia, lingua straniera e fisica (materia alla quale ero allergico). La simpatia verso l’italiano era direttamente proporzionale a quella per la titolare di cattedra, storia aveva fatto arenare il programma di filosofia, quanto a lingua e letteratura
straniera la mia sezione non era quella condannata al francese.
E così portai storia e inglese, uscii con cinquantadue sessantesimi dal liceo scientifico e non avevo ancora sentito parlare
di Albert Camus.
Lo straniero si fece leggere tutto in una sera. La prima metà
tra i tavolini all’aperto di una rovente rosticceria gestita da
egiziani juventini sulla circonvallazione Gianicolense, accompagnando un kebab con birra nostrana. La seconda, la parte
del processo di Meursault, la affrontai a casa, nella stanza che
per via della separazione avevo preso in un appartamento a
pochi passi dalla stazione Trastevere.
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Feci notte fonda, ma lo finii e mi venne quasi voglia di ricominciare a fumare. Anch’io infatti, come il personaggio principale, avevo smesso da poco. L’impiegato protagonista vi era
stato costretto dall’irreversibile indifferenza verso le cose della
vita nonché dalla mancanza di sigarette all’interno della prigione. L’impiegato lettore, invece, dall’obbligo di mantenersi
in forma per continuare a correre dietro al suo bimbo che già
scalpitava con il pallone tra i piedi.
Un altro ricordo legato alla lettura di Lo straniero riguarda
la pubblicazione del mio primo libro. Fu proprio in quei giorni, infatti, che un piccolo editore toscano al quale un mese
prima avevo mandato un romanzo breve mi contattò perché
voleva pubblicarlo. E pensare che l’unico motivo che mi aveva
indotto a spedirglielo era stato l’accattivante titolo della collana: “Minimal”. Ero fuori di me dalla gioia. Nella stessa settimana, allora, ripresi Lo straniero e lo lessi un’altra volta. Nessuno avrebbe mai il coraggio di dire che Camus abbia scritto
il suo romanzo in forma minimalista, ma nel rileggerlo feci
maggior attenzione alle caratteristiche di quello stile personalissimo: una narrativa asciutta ed estremamente essenziale
che, mentre descriveva i fatti attraverso la prima persona di
Meursault, era capace di scavare inesorabilmente nel profondo del lettore.
Fu con l’arrivo dell’inverno successivo che iniziai la collaborazione con il settimanale “left”, la nuova testata giornalistica che, dall’inizio del 2006, rimpiazzando l’agonizzante
“Avvenimenti”, aveva fatto irruzione nel panorama dell’informazione e della cultura italiane. Usciva in edicola il venerdì
con una novantina di pagine dense di attualità, cultura, scienza, arte, scuola e società. Un amico che vi scriveva fin dai pri-
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mi numeri mi aveva chiesto più volte di provare a sottoporre
ai direttori l’idea per una rubrica di storia del calcio, una rubrica che trovasse ispirazione e ragion d’essere nel recupero
di quei valori e di quei significati ormai assenti nello squallido
circo mediatico del pallone di oggi. Valori e significati che,
coerentemente con la linea editoriale della rivista, fossero
sbandierati come sinonimi di libertà, uguaglianza, laicità e diritti civili.
Passata la fisiologica paura iniziale, cominciai a scrivere
qualcosa e a girarla come allegato di posta elettronica al direttore editoriale con cui ero entrato in contatto. Il primo pezzo
che buttai giù e che trovai il coraggio di mandare in redazione
parlava proprio dell’Algeria. Raccontavo una partita della Nazionale algerina che, in realtà, neanche avevo visto in diretta.
Si era giocata il 16 giugno del 1982 a Gijon nelle Asturie, gara
valida per i mondiali di Spagna. La Rai, che all’epoca godeva
dell’esclusiva, aveva deciso di trasmettere la più quotata Francia-Inghilterra che andava in scena nel catino del San Mamès
di Bilbao anch’essa alle cinco de la tarde. E così, mentre una
doppietta di Bryan Robson piegava la fortissima Francia di
Platini, la matricola Algeria, all’esordio assoluto nel campionato del mondo, sconfiggeva per 2-1 nientemeno che la Germania Ovest di Karl-Heinz Rummenigge, vincitore del Pallone
d’oro negli ultimi due anni. Era la stessa Germania Federale
che arrivò in finale contro gli azzurri di Bearzot dopo essere
riuscita a superare quel girone preliminare grazie a una combine con i cugini austriaci proprio ai danni della sorprendente
Algeria, eliminata dalla differenza reti. Era la splendida generazione di Rabah Madjer, berbero cabilo, e di Lakhdar Belloumi, il rais di Mascara, Pallone d’oro d’Africa.
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Finiva il 2007, era metà dicembre. Il mio bimbo aveva
compiuto 4 anni e il mio primo libro era stato appena presentato alla Fiera della media e piccola editoria di Roma. Con
l’anno nuovo, il 2008, i miei articoli continuavano ad accumularsi presso la redazione di “left” ma il venerdì non venivano ancora pubblicati. Inoltre, nessuno dei miei contatti mi
faceva sapere se dovessi smettere di mandare pezzi o se dovessi continuare. Non avevo nemmeno notizie o anticipazioni
sull’eventuale decisione circa il voler accogliere o meno la rubrica. Ma forse era meglio così. Finché la mattina di venerdì
1° febbraio, telefonai alla mia ex compagna per l’ordinario
passaggio di consegne relative all’andare a prendere il bimbo
all’asilo dopo il lavoro e all’ora in cui riportarlo a casa da lei.
Mi disse: «Hai visto? Sei diventato un giornalista sportivo!».
Mi precipitai in edicola e vidi il mio nome sia nel sommario
accanto al titolo della rubrica sia nell’apposita pagina in cui
campeggiava una splendida foto raffigurante l’evento descritto. Era il famoso rigore a cucchiaio di Antonin Panenka che
valse alla Cecoslovacchia il titolo europeo del 1976. Evidentemente la redazione aveva scelto quello come primo articolo
da pubblicare. Si trattava del calcio di rigore decisivo dopo i
tempi supplementari della finalissima del campionato europeo per nazioni. Uli Hoeness aveva sbagliato l’ultimo per la
sempiterna Germania Ovest e i baffi di Panenka avevano avuto tra i piedi il match point. Ciò che contribuì a rendere indimenticabile un penalty calciato in quel modo era stata anche
la celebrità del portiere avversario. E già, perché chi rimase
ingannato da un simile colpo di genio non era mica uno
sprovveduto qualsiasi ma il grande, grandissimo Sepp Maier,
campione d’Europa nel 1972 e del mondo nel 1974 con la sua
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Nazionale, nonché vincitore di tre coppe dei Campioni consecutive con il Bayern di Monaco dal 1974 al 1976. Un mostro
sacro. Peccato che Albert Camus non lo abbia mai visto giocare.
E così iniziai a veder pubblicato, ogni venerdì, un articolo
che parlava di un calciatore famoso, di una partita storica, di
una squadra di club, di una Nazionale, di un allenatore, di
un’edizione dei mondiali o di una stagione del campionato
italiano. Raccontavo la storia recente, la cronaca, i capi di Stato, i dittatori, gli arbitri, le tattiche. Raccontavo i rifiuti, le
combine, le scommesse, gli scandali, le ipotesi e le certezze.
Squadre sorpresa e squadre simpatia. Campioni affermati e
campioni dimenticati. Bidoni di lusso e lussi sfrenati. Tutto il
calcio ricordo per ricordo, memoria per memoria. Talvolta
vissuta in prima persona, talvolta in terza. La storia raccontata
attraverso il calcio, con gli occhi del calcio, con il filtro del
calcio. Il calcio come droga preferita dalle dittature, dalle democrazie illuminate, dalle monarchie costituzionali e da quelle parlamentari. Il calcio che non si ferma neanche davanti
alla guerra, neanche sotto le bombe. Il calcio come mezzo di
lotta, il calcio come rivendicazione, come gioco degli uomini
tutti uguali, il calcio come propaganda. Il calcio dilettantistico
dell’Est europeo e il calcio paradossalmente milionario dei
paesi poveri. Il calcio come chiave di lettura, come termometro sociale e politico, il calcio come autodeterminazione dei
popoli. E, perché no, anche il calcio amato dalle donne.
Un giorno, dopo tre anni di apprezzata rubrica, dopo un
altro breve romanzo pubblicato con un editore milanese e dopo aver acconsentito (ormai già da un anno e mezzo) davanti
al giudice del Tribunale dei Minori di Roma che il mio bimbo
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andasse a vivere con la sua mamma a Barcellona per iniziare
le scuole elementari, venni a sapere dei trascorsi dilettantistici
e della passione per il football del giovane Albert Camus, passione stroncata a soli 17 anni da una terribile tubercolosi che
gli impedì di raggiungere i livelli più alti costringendolo a ‘ripiegare’ sulla filosofia, sulle lettere e sul teatro. Per qualcuno,
forse, sarà stato meglio così, ma pochi sanno che Albert Camus, senza il calcio, non sarebbe stato Albert Camus.
Sul numero 14 di “left” di venerdì 8 aprile 2011, il mio articolo si intitolava Il portiere e lo straniero e parlava dell’importanza del football nella formazione umana del grande intellettuale nato nell’Algeria francese e innamorato del ruolo
di portiere, ruolo strettamente legato alla sua futura e indelebile identità di scrittore. Fu un piccolo successo personale.
L’articolo venne addirittura letto nel corso della trasmissione
radiofonica Pagina 3 che andò in onda lo stesso venerdì mattina sulle frequenze di Radio3 Rai. Fu segnalato in un blog di
selezionate rassegne stampa e mi procurò un interessante contatto da parte di una casa editrice specializzata in pubblicazioni legate al mondo dello sport e del calcio in particolare.
Mi veniva chiesto di poter raccogliere tanto di quel materiale
sul Camus portiere in modo da ricavarne un libro. In realtà
l’idea mi balenava in mente già da tempo, ma sapevo quanto
sarebbe stato difficile. Come avrei fatto a scrivere dell’adolescenza di uno scrittore di lingua francese cresciuto ad Algeri?
E non di uno scrittore qualsiasi, ma di Albert Camus, premio
Nobel per la letteratura nel 1957, cioè di qualcuno sul quale
la dottrina letteraria e filosofica si è ampiamente espressa nel
corso dell’ultimo mezzo secolo. E sicuramente elaborando
concetti ben più profondi di quanto avrei potuto fare io rac-
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contando della sua infanzia nel sobborgo operaio di Belcourt,
della sua adolescenza sui campi di calcio della periferia di Algeri e città limitrofe, e soprattutto dell’influenza che l’amore
per il football ha avuto nella sua vita e nelle sue opere. E in
particolare nel suo romanzo più famoso: Lo straniero. All’invito, tuttavia, risposi con entusiasmo inviando anche un paio
di pagine introduttive sulla storia dell’Algeria francese e una
scaletta sull’ipotetico ordine dei capitoli. Ma rinunciai presto.
Non ricevendo più risposte o comunicazioni in grado di farmi
continuare a lavorarci sopra, lasciai perdere il progetto e lo
accantonai.
Eppure l’idea era bella e si sposava perfettamente con la
filosofia che ispirava la mia rubrica su “left”. Inoltre il 2013
avrebbe coinciso con il centenario della nascita di Albert Camus. Gli stimoli non mi mancavano e allora pensai che, come
avevo sempre fatto, prima avrei scritto il libro e poi sarei andato alla ricerca di un editore. Dopo un primo periodo in cui
sono stato assalito da tutti i tipi di fobie, di paranoie e da tutte
le più ferme convinzioni di non essere capace di portare a termine un lavoro simile, ho provato ad acquisire informazioni,
documenti, brani di saggi e di romanzi e ogni altro dato necessario a ricostruire per grandi linee l’adolescenza e gli esordi
calcistici del personaggio. La ricerca mi aveva portato quasi
alla comprensione (sebbene sempre approssimativa) della lingua francese e alla raccolta disordinata di qualche pagina cui
attribuire a poco a poco anche una parvenza di struttura. Insomma, l’insieme del discorso l’avevo quasi centrato, il progetto mi piaceva e chiunque ne sentiva parlare ne era entusiasta. Però mi mancava ancora qualcosa. Mi mancava il
superamento di qualcosa, forse di un ultimo ostacolo. Mi
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mancava il cosiddetto cambio di marcia oppure, per dirla nel
gergo dell’atletica, la rottura del fiato.
Dopo quasi un anno in cui tutto era rimasto lì da una parte, come una nave ancora in porto che non si decideva a partire, era arrivato un altro inverno. Roma si era ritrovata bloccata dalla neve e, senza che me ne fossi reso minimamente
conto, mi ero bloccato anch’io. E mi ero bloccato da troppo
tempo. Allora dev’essere capitato qualcosa che accade soltanto nelle favole quando l’incantesimo si rompe all’improvviso
e la neve e il ghiaccio, piano piano, iniziano a sciogliersi. E
poi la strega che ti ha paralizzato sparisce proprio perché una
mattina sei tu che ti svegli e capisci finalmente tutto quello
che non avevi voluto capire. Allora, spalanchi le finestre e la
mandi via a bruciare lontano, da sola, con tutto il suo carico
di pesantezza. Oppure perché magari ti accorgi che nella tua
vita è arrivata una donna bellissima a darti mille nuove motivazioni e a farti tornare la voglia di scrivere. Riprendere Lo
straniero e rileggerlo con la consapevolezza che Albert Camus
aveva giocato in porta nei campionati giovanili di Algeri durante gli anni belli e spensierati dell’adolescenza è stato come
vedere le cose da un altro punto di vista: il punto di vista unico e inconfondibile del portiere. Il punto di vista di chi difende, di chi si oppone, di chi si arrende per ultimo. E allora,
forse, ho capito tante cose in più sull’opera più famosa di colui il quale, sia come scrittore che come filosofo, è stato ascritto troppo spesso e troppo in fretta soltanto all’esistenzialismo.
Emilio Salgari è stato celebre per la sua capacità di raccontare posti esotici senza esserci mai stato, ma io non ho né la
fantasia di Salgari né la sfrontatezza dei tanti tipi da bar che,
pur non essendo mai stati in un determinato luogo, preten-
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dono di parlarne come fosse casa loro. Per il passo decisivo,
dunque, mi mancava un’ultima cosa. Un’ultima cosa necessaria. Dovevo andare sul campo, il campo vero, il campo di
gioco, il campo di battaglia. Dovevo andare ad Algeri, Alger
la blanche. Lo stesso luogo che alcune leggende fanno coincidere con quello in cui Ulisse aveva affrontato il canto delle
sirene. Io non potevo scappare. Con Algeri dovevo farci i conti. Mi serviva soltanto un passaporto nuovo, un visto del consolato in zona Parioli, un biglietto aereo per l’altra sponda del
Mediterraneo e magari un paio di giorni liberi dal lavoro. Dovevo andare alla ricerca degli esordi e dei primi passi di Albert
Camus nel mondo del calcio. Dovevo andarci per me e dovevo andarci per lui: per il portiere Albert Camus, per il ragazzo
Albert Camus. Dovevo andarci per ritrovare la stessa forza di
scrivere che avevo una volta e per farla diventare assolutamente nuova. Dovevo andarci per misurare le mie capacità e,
soprattutto, dovevo andarci per poter dire la mia: se Albert
Camus non avesse giocato in porta quando era ragazzo non
avrebbe mai scritto Lo straniero in quel modo fantastico. O
meglio ancora: Albert Camus ha scritto Lo straniero in quel
modo fantastico proprio perché, da ragazzo, ha giocato in
porta.
Emanuele Santi
Roma, febbraio 2013
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IL PORTIERE E LO STRANIERO
1.
Un paese in rivolta
Il teatro della storia è la terra d’Algeria, la terra calda e tormentata dell’Algeria francese, nell’arco di tempo incastrato
tra le due guerre mondiali, quando la meritata e sofferta indipendenza era ancora troppo lontana. L’Algeria è un posto
ricco di passioni, ricco di luce, di mare, di sale, di colori, di
pietra, di deserti e di rivincite. L’Algeria è ricca di genti, di
popoli, di costumi, di porti, di misteri e di città vecchie. Non
è affatto povera d’acqua dolce e abbonda di pescatori d’acqua
salata: uomini sapienti e pazienti nelle cui vene scorre l’antico
sangue dei pirati fenici e sulla cui pelle si intrecciano rughe
fitte. Fitte come interminabili trame di passaggi a centrocampo. L’Algeria è un mondo di commerci per mare e per terra,
un mondo di scambi e di strette di mano, è una nazione dove
un terzo della popolazione è berbera e parla una lingua che
non è mai stata araba e che esisteva prima degli arabi. È una
lingua nomade detta tamazight, con un alfabeto affascinante
e misterioso, tra il greco antico, il fenicio e il geroglifico, scolpito nella roccia e fatto di segni che appartengono alla pietra.
La terra bruna, la sabbia chiara e la vegetazione dai mille volti
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del verde fanno da cornice al Mediterraneo, il quadrante di
navigazione che ondeggia di fronte all’Europa, sponda di Mare Nostrum. Mare di tutti. Il mare che Albert Camus descriveva: «Mattino chiaro dagli smalti marini / Perla latina dai
bagliori liliali: / Mediterraneo»1.
Sull’aereo siedo accanto al finestrino del lato destro. Posso
guardare solamente il mare: un mare duro di un cobalto intenso, tipico del settembre in corso e che, per gli ultimi quaranta minuti di volo, ha tolto di scena la terra sarda riconoscibile ai miei occhi per la presenza di quel gioiello chiamato
Alghero. Poco prima dell’atterraggio, provo a sbirciare verso
i finestrini di sinistra per arrivare in anticipo sulla costa d’Africa e sulle vette dei monti del Djurdjura, ma le poche immagini
che riesco a catturare sono offuscate dalle nuvole alte e vaporose e da un fastidiosissimo sole che, favorito dall’inclinazione
dell’aeroplano in avvicinamento, impedisce di guardare verso
sud. Quando la terra appare all’improvviso, siamo già a bassa
quota. Il blu del mare ha lasciato spazio a un intreccio di colori che, sebbene allegri e brillanti, ricordano quelli di un tessuto mimetico militare. Il verde è acceso e opaco al punto giusto e il marrone sembra lo stesso rosso di un campo da tennis.
È una terra senza trucco e senza neanche l’ombra dei grigi
palazzi di cemento che troppo spesso rovinano il paesaggio.
C’è piuttosto un giallo sabbia che amalgama gli edifici di media altezza della periferia orientale con la terra e con i prati,
con gli immancabili campetti da calcio privi di erba e con i
1
A. Camus, Mediterraneo, in Id., Le voci del quartiere povero e altri scritti giovanili, Rizzoli, Milano 1974, p. 193.
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