Sahara Libre La questione sahrawi

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Di Meo
ph Giulio
La questione sahrawi
dalle radici fino ai
nostri giorni
arci.it
«Una storia di dolore, di profughi,
di tenacia di chi resiste all’occupazione.
I Sahrawi hanno una dignità
che include qualcosa di metafisico.
Una storia di impegno,
di cittadinanza,
per tenere aperta la via al vento, e alle stelle,
di questa patria che un poco è anche nostra.
Se abbiamo il senso dei diritti
e della solidarietà»
[ Tom Benetollo ]
Titolo
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Introduzione
di Francesca Chiavacci Presidente nazionale Arci
L’affermazione dell’idea di un sistema di relazioni internazionali ispirato ai valori
della giustizia sociale e della democrazia è parte fondante della missione politica e
dell’agire quotidiano dell’Arci. Questa sfida si rivela per noi prioritaria in contesti
simili a quello attuale, caratterizzato da fondamentalismi e fascismi che rischiano di
prevalere rispetto a una cultura di pace e di diritti.
Non è un caso che l’Arci, associazione culturale, è da tempo impegnata in attività di
solidarietà internazionale, attraverso l’intervento nel dibattito pubblico, attraverso la
promozione e la realizzazione di progetti di cooperazione internazionale, attraverso
la partecipazione a esperienze di reti e alleanze internazionali. Un impegno che cresce “spontaneamente” quando specifiche questioni, particolari storie sono avvolte da
silenzi, indifferenze, falsi miti e pregiudizi.
La vicenda del popolo Sahrawi, costellata da ingiustizie e silenzi, è una di quelle che
esprime la fondatezza delle ragioni di questa sfida e di questo impegno. È una vicenda, una storia per cui vale la pena battersi.
La nostra rete di socie e soci, volontarie e volontari, basi associative sin da subito ha
compreso e “adottato” la causa dei Sahrawi. Da anni sono numerose le esperienze
di sostegno alle ragioni della lotta per l’autodeterminazione di questo popolo verso
il quale quasi sempre la diplomazia internazionale ha preferito voltare lo sguardo da
un’altra parte. Schierarsi al fianco dei Sahrawi, così come accanto al popolo curdo o
alla causa palestinese, per tantissimi circoli e basi associative ha rappresentato e rappresenta lo svolgimento concreto del proprio ruolo di agente e presidio di diffusione
di verità e di una cultura di pace.
L’inedito di Tom Benetollo, che ha segnato la storia della nostra associazione in questa nostra caratterizzazione, che con questa pubblicazione presentiamo, è un’ulteriore testimonianza dell’impegno su questo fronte da parte dell’Arci, del suo gruppo
dirigente, della sua rete radicata nei territori e vuole essere un piccolo contributo per
impedire l’oblio della condizione di un popolo che da troppo tempo conduce in solitudine la propria lotta per l’autodeterminazione.
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Prefazione
di Franco Uda, coordinatore nazionale Arci Pace, solidarietà e cooperazione internazionale
Il prodotto editoriale che state cominciando a sfogliare vuole essere uno strumento
che possa venire in aiuto nel risvegliare la coscienza civile di chi lo legge rispetto a
una delle cause di ingiustizia globale più rilevanti del “secolo breve”: l’indipendenza
e libertà del popolo Sahrawi.
Una causa che a noi dell’Arci è assai cara e sulla quale, nel corso di molti anni, abbiamo profuso iniziative e progetti di diverso tipo e qualità, tanto nazionali quanto
articolati nel territorio.
Il quaderno, o pamphlet, o opuscolo che dir si voglia, che avete sottomano è parte integrante di una campagna di attivazione popolare di solidarietà politica ai Sahrawi
che - seppur nel passato ha avuto molti protagonisti e attivisti, complice il fatto che
ancora non ha avuto gli esiti attesi - si sta perdendo con lo scorrere del tempo e necessita quindi di un vigoroso rilancio.
Ci consente inoltre di riportare alla memoria l’impegno di Tom Benetollo, indimenticato Presidente nazionale dell’Arci e uno dei protagonisti di primo piano nella sensibilizzazione a questa causa in campo nazionale e internazionale, attraverso un suo
studio di ricerca per la Peace University di Bedford (UK) del 2004, che qui è pubblicato integralmente. Questo scritto è stato integrato, con un capitolo aggiuntivo, per
arrivare ai nostri giorni nella narrazione della storia e delle traversie di questo popolo.
Abbiamo inoltre inserito il contributo di Marisa Rodano - partigiana, fondatrice e
poi Presidente dell’UDI (Unione Donne Italiane), Deputata, Senatrice e Europarlamentare, grande esperienza in campo internazionale - che ha seguito con passione e
competenza le vicende legate al popolo Sahrawi, come Segretaria generale dell’Ansps (Associazione Nazionale di Solidarietà con il Popolo Sahrawi).
È uno strumento agile che, senza alcuna pretesa di completezza, può consentire a
tutti di immergersi in un racconto che si snoda attraverso i secoli per scoprire le radici
e le ragioni dei Sahrawi, dal loro esodo dalla penisola arabica fino alle vicende a noi
contemporanee.
La conoscenza di una causa è certamente condizione necessaria per abbracciarla e
farla propria, per suscitare empatia, atteggiamento dell’anima ma anche precondizione della politica, poichè il suo contrario - l’apatia - non ha mai prodotto alcuna
dinamica collettiva per il cambiamento della società.
Conoscere la storia e la cultura di un popolo, le aspirazioni e le sue lotte sociali, ci è
anche di grande aiuto a vivere e interpretare il presente - quello delle nostre società
anestetizzate dalla ricerca della ricchezza - e discernere, con maggior consapevolezza, i traguardi effimeri dalle conquiste raggiunte: se riusciremo a elevare lo sguardo
dal nostro cortile, a saper guardare oltre il nostro orizzonte, saremo anche capaci di
riscoprire bellezza e significato di parole come libertà, democrazia e diritti.
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Indice
Introduzione
di Francesca Chiavacci, Presidente nazionale Arci 5
Prefazione
di Franco Uda, coordinatore nazionale Arci
Pace, solidarietà e cooperazione internazionale 7
La questione sahrawi dalle radici
di Tom Benetollo 11
... fino ai nostri giorni
di Franco Uda 33
Le sfide verso la libertà. Una ‘road map’ per il popolo sahrawi
di Marisa Rodano, componente assemblea ANSPS
(Associazione Nazionale di Solidarietà con il Popolo Sahrawi) 41
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Titolo
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La questione sahrawi
dalle radici
di Tom Benetollo
La Rivista Italiana di Difesa è preoccupata. In un lungo e puntuale articolo, l’autorevole fonte di informazioni militari segnala un allarme che viene dal Sahara occidentale. Mi capita di parlarne perfino con Fidel Castro, una sera all’Avana. Anche Castro,
come i militari italiani, esprime inquietudine. Lo fa da vecchio amico dei Sahrawi,
e come leader di un paese che ospita ogni anno centinaia di studenti Sahrawi, ne
cura e assiste altrettanti. Castro lo dice: la pace, là, è in pericolo. Può riprendere una
guerra sanguinosa. Essa sarebbe devastante per gli equilibri di un’area grande dieci
volte l’Italia.
Nessuno se ne cura, ma potrebbe essere così. La frontiera tra Algeria e Marocco, di
fatto, è chiusa dai tempi della guerra di quarant’anni fa: la cosiddetta Guerra delle
Sabbie. A sud, la Mauritania potrebbe essere coinvolta da questo potenziale conflitto.
Il Sahara occidentale, escluso dalla storia, dimenticato dalla geopolitica (perfino l’acuta rivista di geopolitica, Limes ha dimenticato di trattare l’argomento, nel numero
speciale dedicato all’Africa cinque anni fa) riemerge dai gorghi.
Se guardi la carta geografica dell’Africa, a sud del Marocco, seguendo la costa l’Oceano Atlantico, c’è una lunga fascia di terra, inquadrata da confini chiaramente
derivati da spartizioni coloniali.
È un territorio grande all’incirca come l’Italia continentale (266 mila kmq). Nelle
carte coloniali: Rio de Oro.
Antoine de Saint Exupery, che volava da quelle parti alla fine degli anni Venti, con
i suoi aerei postali diretti in Sud America, lo chiamava «patria di vento e di stelle».
Ne subì il fascino guardando il territorio dall’alto; ne ebbe paura infinita quando precipitato al suolo - aspettava soccorso. Come una terra totalmente altra. E davvero
è così.
Da più di un quarto di secolo, i movimenti di solidarietà lo chiamano Rasd, Repubblica Araba Sahrawi Democratica. Questa Repubblica, riconosciuta da un’ottantina
di Stati (tra questi, non figura l’Italia), si è costituita per affermare l’indipendenza (di
un popolo, della sua terra) colpita da un’occupazione giuridicamente e politicamente
illegale, da parte del Regno del Marocco.
Pochi conoscono questa storia, anche se - tenacemente - un movimento italiano, fatto
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di associazioni, e forze sociali, gruppi giovanili e singoli cittadini ha costruito una
preziosa quanto sconosciuta esperienza di solidarietà. Grazie al supporto di centocinquanta enti locali, di decine di parlamentari, di pochi e coraggiosi giornalisti e
intellettuali. La stessa cosa avviene in altri paesi d’Europa.
Come disse Josè Palau, compianto esponente dei movimenti civici spagnoli, e internazionalista meraviglioso: «Quella della Gente del Deserto (è il significato di Sahrawi)
è una delle pochissime cause in cui non ci sono dubbi su dove sta la giustizia». E lo
diceva anche da vecchio amico del popolo marocchino.
Il territorio di cui si parla ha una storia antica e affascinante. Al tempo del Neolitico,
era uno degli insediamenti chiave degli umani. Si presentava come una savana, a
temperatura sostanzialmente temperata. Gli abitanti vivevano di caccia, e vi sono
tracce abbondanti della presenza umana. Basta cercare, e si trovano graffiti e pitture
primitive in molti luoghi. Si individuano veri e propri percorsi neolitici, lunghi decine
di chilometri. Nonostante questi luoghi siano lontani dalle (peraltro pessime) camionabili, loschi figuri hanno trafugato capolavori, svellendoli dalle rocce, obbligando le
forze di sicurezza Sahrawi a una vigilanza serrata.
Si tratta di luoghi solitari e bellissimi. Estese, piatte pietraie si alternano a dune miste
di sabbia e roccia. Ondulati avvallamenti si fanno verdi quando cade qualche goccia
di pioggia. Basse catene di monti fermano lo sguardo, che da un punto appena elevato può dirigersi lontano.
E scopri che anche questo remoto deserto ha una sua vita complessa. Sotto il volo di
falchi bellissimi, c’è la vita dei nomadi, che a piccoli gruppi percorrono le vie, conosciute da secoli, della pastura. Una vita spaventosamente dura. È la vita di commercianti e trasportatori, che su stracarichi camion, spesso di trent’anni fa, percorrono
vie di comunicazione - vere strade, mai - segnate da vaghi cartelli, da vecchi copertoni
dipinti.
Raramente, attendamenti. Rarissimamente, costruzioni (di sabbia pressata, di incerta
malta). Ti imbatti in antichi cimiteri Tuareg (lastre di pietra, per segnare le tombe alla
maniera islamica). E tracce di guerra, che ti riportano bruscamente al tempo presente. Le bombe a frammentazione. L’aereo abbattuto, il carro armato distrutto. Sono
marocchini. Senti una profonda Pietas. In quegli spazi smisurati, di quei relitti hai la
sensazione, davvero, che siano fuori contesto, che appartengano a extraterrestri.
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Ma non si tratta di una Terra Nullius. Il Regno del Marocco ha cercato anche di affermare questo concetto giuridico. Sostenendo che il Sahara occidentale, non abitato - non
appartenente ad alcuno - fosse dunque a disposizione, il Marocco poteva giustificare
l’occupazione. Questa presunzione è stata giudicata formalmente non valida dalle corti
internazionali. E a ragione. Perché parliamo di una terra che ha una storia vera, e riconoscibile.
Partiamo da lontano. Nei primi decenni del 1200, iniziava la dislocazione su quel territorio di un gruppo di diverse tribù, il cui nucleo iniziale, Maquil, arabo (se ne aggiunsero
altre) iniziò il cammino dallo Yemen. I motivi? Si ipotizzano guerre e tensioni, derivate
da lotte di potere, sovrappopolazione, questioni di sopravvivenza. Non si esclude però
nemmeno una ragione legata alla partecipazione alla spinta proselitistica dell’Islam (una
componente di quelle tribù, quella Shorfa, reclama la discendenza dal Profeta). Può anche essersi trattato di un mix tra motivi diversi, a noi comunque sconosciuti.
La migrazione si dirige verso nord, cerca spazio sulla scia dei grandi movimenti di islamizzazione che hanno travolto il vecchio Impero d’Oriente. Lo spazio più ampio si apre
a ovest, ma le tribù, per trovare un proprio insediamento, devono attraversare Egitto,
Libia, Tunisia, Algeria. L’insediamento avviene lentamente, e l’assetto tribale si fa più
chiaro. Ci sono componenti arabe; arabo-berbere; neri.
Si tratta delle mitiche 40 tribù Sahrawi, i cui rappresentanti diedero vita a un Consiglio
(Aid Arba’in) che gestiva i rapporti, stabiliva regole e leggi, decideva su questioni amministrative, e anche sulla pace e la guerra. Era un organismo basato sull’uguaglianza dei
diritti e dei doveri. L’organizzazione generale del sistema-Sahrawi di quei lunghi secoli si
potrebbe definire una mescolanza tra la democrazia tipicamente tribale e quella appresa
nel cammino, che ricorda la Polis. Le gerarchie sono forti, all’interno delle tribù (anche
se temperate dal nomadismo); ma nessuna tribù accetta la supremazia di un’altra.
Non si tratta di un mondo idilliaco. Ci sono contrasti, anche aspri. Le tribù Shorfà - che
si definivano discendenti dal profeta Maometto - rivendicavano primato e poteri. Ma le
“tribù guerriere” glieli contestavano. Vi era anche la schiavitù. Si trattava di un modello
che, in generale, consentiva larghe autonomie. Chiaramente, nelle condizioni del tribalismo.
Mentre, limitatamente, procedeva la stabilizzazione - la costruzione dei primi insediamenti - la gran parte dei Sahrawi continuava nel condurre il nomadismo.
I Sahrawi erano Sahel (che vuol dire: quelli della Costa). Un nome che li distingueva dagli
altri Tuareg.
Erano i Tell (che venivano dai monti marocchini e algerini).
Erano i Guebla (mauritani, a Sud). Erano i Sharq (quelli che venivano da Est).
Si trattava di denominazioni generali, di indicazione d’identità, perché certamente tribù
e gruppi Tuareg si spostavano su territori molto vasti.
Avvenivano mescolanze, si intrecciavano percorsi - con un codice di comportamento,
frutto di un sovrapporsi di patti, relazioni e conoscenze reciproche, per il rispetto di
interessi, competenze, proprietà. Non mancavano conflitti, anche sanguinosi, ma, nel
complesso, si trattava di un modello consolidato, che aveva un suo equilibrio, una sua
stabilità. Equilibrio e stabilità che trovavano coesione anche attraverso la fede islamica
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comune (sunnita), e la condivisione linguistica (lingua Hassaniya, molto legata all’arabo classico).
La dimensione Sahrawi si misurava con il condizionamento storico del Marocco, rispetto al quale esprimeva il Siba’ (dissidenza permanente); con l’Africa sahariana ancora animista, dove i sahrawi ebbero un ruolo di importanza storica per la loro opera
di islamizzazione: nacquero molte scuole religiose, e dal 1400 quella è chiamata la
Terra dei Santi. E infine, la presenza spagnola incide progressivamente sempre di più.
La Spagna era giunta nella seconda metà del 1400 sulle coste sahrawi. Erano insediamenti, all’inizio precari, di sostegno ai percorsi marittimi, e alla pesca (le acque
erano e sono ricchissime). La penetrazione spagnola fu molto lenta, attraversò secoli,
e si consolidò nel 1700.
In una situazione di incertezza, la Spagna negoziò con il Marocco il suo spazio di
occupazione.
Il trattato di Meknes, punto di riferimento di una lunga stagione, viene firmato tra i
due mentre in Europa infuriano le guerre napoleoniche (1799). Esso dà alla Spagna
uno spazio di conquista. Si tratta di uno spazio in gran parte potenziale, perché il
territorio è inesplorato, e con i metodi di allora praticamente incontrollabile sul piano
militare.
Il contingente militare peraltro era scarso: in media, cinquecento soldati (tra Cap
Juby, dove soggiornerà nei suoi voli Saint Exupery; Villa Cisneros; La Guera).
L’assetto coloniale prende forma con la Conferenza di Berlino. In quel cruciale 1885,
le grandi potenze si divisero il mondo, letteralmente. È là che si riconosce la sovranità
spagnola sul Rio de Oro.
Sul terreno, la situazione è diversa. I presidi militari si muovono poco e di malavoglia.
Intorno, le tribù sahrawi scoraggiano avventure.
Ma in verità la Spagna stessa poco si cura di questo territorio. In una logica più di
competizione coloniale, che per altri fini, essa allarga il proprio insediamento quando
la Francia, espandendosi nel deserto algerino meridionale e in Mauritania, punta
chiaramente all’egemonia nel Nord-Africa occidentale, prevalendo infine sullo stesso
Marocco (1912).
Si arriva alla determinazione dei confini anche per evitare tensioni e conflitti. Ma intanto i Sahrawi non restano passivi, di fronte alle occupazioni incrociate. Il Marabutto Ma’l- Haynin combatte contro la Francia, sostenendo il pretendente al trono del
Marocco, Mulay Hafiz. Questi si batteva contro l’occupazione francese - appoggiata
dal fratello, nonchè da una gran parte dello stesso notabilato “collaborazionista” marocchino.
Ma’l-Haynin è una figura da genuina epopea guerriera. Fonda la città santa di Smara
nel 1895, è protagonista di innumerevoli battaglie e scorrerie, fino alla sua morte nel
1910. Ma la lotta non finisce qui.
Le fortune sono alterne: gli uomini fedeli a Ma’l-Haynin arrivano a occupare per
un attimo perfino Marrakesh, nel 1912. L’anno dopo, viene distrutta Smara da un
contingente francese che arriva nel Sahara spagnolo in virtù del cosiddetto diritto
d’inseguimento.
Sono i tempi in cui la retorica coloniale è al suo apice. Presentata come una lotta tra
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la civiltà e la barbarie, perfino la Legione Straniera splende di una falsa luce gloriosa.
Perfino il brutale Tercio spagnolo. La realtà è molto più prosaica e rozza. Nei deserti
si gioca una partita senza esclusione di colpi. La categoria della gloria appare fuori
posto, in quella situazione aspra. Casomai, essa spetta ai Sahrawi, visti i rapporti di
forza, stellarmente a favore dei colonialisti.
I Sahrawi colpiscono duramente, con le loro incursioni. I francesi costituiscono truppe cammellate, in genere con scarsa fortuna. Gli spagnoli, più tardi, arruolano anche
i Sahrawi - gli unici a conoscere il territorio - per stroncare le ribellioni. Ma questo
arruolamento avrà esiti scarsi: non ci saranno che poche decine, al massimo duecento
soldati (anzi: paramilitari) al servizio della Spagna.
L’occupazione può dirsi comunque conclusa attorno al 1930 (più o meno al tempo in
cui Graziani “normalizzò” la Libia con massacri terrificanti). Ma altra cosa è il controllo effettivo del territorio. Più facile, per gli spagnoli, il rafforzamento degli insediamenti, che via via diventano vere e proprie città, anche se di piccole dimensioni. La
dimensione urbana crea un piccolo grande sconvolgimento negli equilibri Sahrawi,
ma sarà sempre ammortizzata dalla profonda condivisione di culture, tradizioni e storia. Episodi degni del peggior primitivismo repressivo,come quello dell’incendio della
biblioteca di Smara (dove si raccolgono preziosissimi manoscritti religiosi, storici, letterari) ad opera dei francesi (nel 1913, come sopra detto) non fanno che richiamare
l’attenzione sulle radici sahrawi, e favorire un processo identitario.
La Spagna degli anni Trenta è quella dei grandi contrasti sociali e politici. Viene
la Guerra Civile, devastante: un milione di morti, un milione di profughi su una
popolazione di meno di trenta milioni di persone. Viene prima la ricostruzione della Spagna, e l’obiettivo di stare fuori dal gigantesco conflitto mondiale. Il dittatore
Franco non ha certo molto in testa il Rio de Oro, che rimane periferia depressa. Il
franchismo ha un’idea amministrativa e autoritaria del rapporto con questa colonia,
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come altrove. Questa sostanziale passività degli occupanti lascia spazio a nuove speranze. Il secondo conflitto mondiale, militarmente, non coinvolge la Spagna. Ma da
questo conflitto emerge una spinta travolgente a superare il colonialismo. Orizzonti
impensabili di emancipazione si fanno strada. Troppo grande la rivoluzione culturale
che ha determinato quella guerra. Nasce “politicamente” il diritto internazionale. La
sconfitta di regimi reazionari fondati sulla supremazia razziale, sulla logica del dominio, sullo “sterminismo” (l’espressione la prendo a prestito dal grande storico inglese
Thompson) - regimi che avrebbero voluto schiavizzare gli sconfitti - apriva uno spazio
politico-culturale mai visto. Si spostava l’asse terrestre, fu scritto. Il colonialismo scopre di essere un gigante d’argilla. Diventa insostenibile per le stesse potenze vincitrici
che detenevano colonie: per i possedimenti di Francia e Gran Bretagna inizia il conto
alla rovescia.
Ed ecco che, mentre i marocchini organizzano la lotta per l’indipendenza, succede
qualcosa di importante, tra i sahrawi più emancipati e coscienti: si arruolano volontari nell’Esercito di Liberazione marocchino. Si tratta di centinaia di combattenti.
I Sahrawi l’hanno fatto per solidarietà anticolonialista, per trovare un’alleanza, per
aprire una strada alla futura indipendenza dello stesso Sahara occidentale.
La situazione si fa incandescente, tanto da suggerire operazioni combinate franco-spagnole, per togliere spazio ai ribelli. Siamo nel 1956, e l’operazione Ouragan
colpisce duramente. Sangue e sofferenze, di combattenti e di civili. Ma lo sradicamento della lotta non avviene. La resistenza continua.
La Francia molla, ma l’indipendenza marocchina, che si raggiunge già nel 1956,
non aprirà la strada a quella sahrawi. Re Muhammed V pensa a dare una prospettiva al suo paese, non ad altro. Con la Spagna, fissa un accordo (Cintra, 1958). Nel
contempo, correnti nazionalistiche marocchine (come l’Istiklal), e leader nazionalisti
come Allal el Fassi. Puntano al Grande Marocco. Il Grande Marocco è immaginato
con i confini ben dentro l’Algeria e i Mali, fino a tutto il Sahara occidentale e gran
parte della Mauritania. È una via piena di sangue. È quella che porterà alla Guerra
delle Sabbie con la neonata Repubblica d’Algeria, guerra che scoppia nel 1963 (un
anno dopo l’indipendenza algerina) su chiara iniziativa marocchina. E porterà, a
Sud, all’occupazione del Sahara occidentale. La visione di una potenza marocchina
capace di egemonizzare quella regione prende corpo, anche in termini di alleanze
militari (in direzione Usa, contro l’Algeria non allineata e vicina all’Urss). Ma il Marocco non ha la forza per sostenere quest’ambizione. E, anzi, problemi sociali ed economici; spese militari; contraddizioni politiche mettono il Marocco in una condizione
di subalternità. Un popolo fiero e importante nella storia della Regione, viene - come
dire - ingabbiato. Ci saranno pesanti repressioni interne. La democrazia politica sarà
colpita a lungo, e spesso. Molti marocchini emigreranno. Per bisogno, sì. Ma sappiamo in quanti modi si coniuga il bisogno.
Nel Sahara occidentale, anzi, nel Rio de Oro spagnolo, intanto, è successo un fatto
molto importante. A metà degli anni 50 si individuano, nei giacimenti di Bou Kraa,
tanti fosfati da sbalordire. Si tratta, in effetti, di qualcosa che mette il Rio de Oro tra
i primi produttori mondiali. Questa scoperta porta, nel 1958, la Spagna a dare una
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nuova forma alla sua colonia. Ora il Sahara occidentale, suddiviso in due province, è
posto alla pari del territorio spagnolo. È terra spagnola a tutti gli effetti.
Si tratta di una finzione formale alla quale però la Spagna vuole dare consistenza:
c’è una rappresentanza nelle Cortes (con tre deputati); si creano consigli provinciali,
comunali e locali. Più tardi, nel 1967, si crea un parlamento Sahrawi, con poteri unicamente consultivi (ovviamente), che cerca di rifarsi all’antica Aid Arba’in di cui si
parlava all’inizio. Si chiama Giamaa. È un modo per valorizzare i collaborazionisti,
e per ingraziarsi i sahrawi. Il tentativo, più in generale, è quello di mettere in moto
meccanismi capaci di rompere gli assetti tradizionali. Una (peraltro molto debole)
modernizzazione, senza lo sviluppo di diritti effettivi. Frantz Fanon sapeva quel che
diceva, nei Dannati della Terra, a proposito delle politiche colonialiste, tese a rendere subalterni i colonizzati, attraverso forme ormai note di finta emancipazione, e di reale
dipendenza - con l’obiettivo di creare una sorta di coscienza inferiore.
Il vento dell’emancipazione arriva anche nel Sahara occidentale. Non poteva essere
diversamente. Gli anni Sessanta sono quelli della decolonizzazione. E subito i nuovi
paesi si trovano di fronte a un bivio: una è la strada della neo-dipendenza, l’altra
porta nell’area dei paesi non allineati. I Sahrawi quest’alternativa ce l’hanno sotto
gli occhi. Il Marocco ha già scelto: Usa e Francia. L’Algeria sceglie la strada opposta.
L’indipendenza è conquistata a caro prezzo, con una vera rivoluzione anticolonialista. E questo paese, subito, entra in gioco. I suoi leaders (nonostante Ben Bella cada
presto) sono parte di un movimento che attraverso il Sud del mondo, con un’orgogliosa strategia di cambiamento. Sono gli anni della grande speranza terzomondista.
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Una speranza legittima, figlia di sofferenze lancinanti, piena di voglia di riscatto. Che
Guevara passava per Algeri. Nkrumah, in Ghana, l’alfiere delle lotte dell’Africa nera,
intrecciava con l’ Algeria rapporti forti.
Insomma, è il tempo della Tricontinentale: Asia, Africa, America latina hanno energie popolari enormi da mettere in campo, per una radicale trasformazione del mondo, con idee di nuovi socialismi. Nonostante sconfitte tremende (mezzo milione di
morti, in Indonesia, nel colpo militare contro Sukharto); nonostante la drammatica
morte di Guevara e tanto altro, lo spirito del tempo pervade anche un gruppo di
giovani Sahrawi.
Sanno che l’Onu, nel 1963, ha inserito il Sahara occidentale nella lista calda, quella
dei territori ai quali dovrà essere applicato il diritto all’autodeterminazione. Due anni
dopo, l’Assemblea generale dell’Onu fa un ulteriore passo: chiede alla Spagna di
liberare il territorio, ed anche Ifni (la Spagna cederà Ifni al Marocco). L’Onu chiede
altresì la convocazione di un referendum sull’autodeterminazione. La Spagna si aggrappa a tutto, per evitare che il dispositivo si metta in azione. E cerca di “integrare”
i sahrawi.
I giovani Sahrawi che vogliono l’emancipazione sono figli dell’acculturazione, del sapere (spesso autodidatta), delle innovazioni che la stessa Spagna ha introdotto. Anche
quei piccoli cambiamenti aprono grandi varchi. Segno che i tempi erano maturi. Lo
sono per due motivi: nascono nuove attività (miniere, trasporti, commercio); si diffonde una profonda insofferenza verso le spinte di rivendicazione da parte marocchina
(la cosiddetta “marocchinità” del Sahara occidentale).
I giovani diventano protagonisti di iniziative inedite. Hanno potuto entrare in contatto con fermenti esterni (nei viaggi di studio e di lavoro; negli scambi che cominciano
ad avvenire). E sanno di avere intorno un vasto consenso, di rappresentare qualcosa
che s’è veramente, tra le genti sahrawi.
Ed è un Sahrawi che ha avuto una formazione all’estero, ad avere un ruolo centrale nella costruzione del movimento indipendentista. È Mohammed Bassiri. Ha
viaggiato e lavorato in Medio oriente; ha conosciuto personalità del nasserismo e
del pan-arabismo progressista. È stato anche in Marocco, dove ha lavorato in riviste
dell’opposizione. Ma dove ha anche trovato un’avara solidarietà per la causa che ha
nel cuore: la liberazione del suo paese d’origine. E Bassiri torna, e va a Smara. Non
c’è spazio per lui, come giornalista. La polizia lo tiene d’occhio. Uno dei pochi lavori
intellettuali disponibili, è alla scuola coranica di Smara.
Bassiri non perde l’occasione. Tanto più che l’islam, pur in quella città santa, è praticato sì con rigore, ma anche con saggezza e moderazione. Per Bassiri, l’insegnamento
è anche un modo per contattare persone, soprattutto giovani. Per alcuni anni, questo
lavoro di tessitura funziona, sotto traccia, fino alla formazione del Movimento di
Liberazione del Sahara - una denominazione tipica del tempo in cui si colloca. Sarà,
nella sua breve vita, una forza con radici gracili. Ma il coraggio, la limpidezza morale
e politica di questi giovani lascerà il segno, nella riconoscenza e nell’affetto della gente
Sahrawi.
Essa non sfugge al controllo spagnolo. Così, quando il Movimento sceglie di mostrarsi - contrastando una manifestazione di collaborazionisti - è violentemente represso.
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Accade a El Ayoun, capitale del Sahara occidentale. Siamo nel giugno 1970. Ci sono
decine di morti. Bassiri e altre centinaia di dimostranti vengono fermati. Molti sono
ancora in carcere, oggi. Di Bassiri, nessuna traccia, mai più. La crudeltà della repressione cancella il Movimento, ma accentua la simpatia e il consenso di tanti Sahrawi in particolare, di quelle fasce moderate di popolazione che considerava sì avventurosa
la via all’indipendenza, ma non certo meritevole di tanta barbara repressione. Inoltre,
molte vittime erano figli di quella che possiamo chiamare l’elite locale, o persone di
indiscusso prestigio personale. Le stesse componenti collaborazioniste furono messe
in difficoltà da tanto cieco estremismo repressivo.
È la fine del vecchio mondo coloniale, dei vecchi equilibri stanchi e fradici. Tutte le
lezioni vengono tratte. Occorre costruire un movimento nuovo. Forte di un’analisi più
realistica della lotta, degli equilibri di forza. E che rispecchi la situazione che si è prodotta, ora, con questa repressione. Inizia una nuova ricerca. Una buona notizia viene
da lontano: l’Onu, nel 1972, per la prima volta, per il Sahara occidentale si dichiara
per il diritto all’indipendenza (non solo all’autodeterminazione).
È questo il percorso che darà vita al Fronte Polisario, che è l’acronimo di Frente Popular
de Liberacion para Saquiet el-Hamra y Rio de Oro. È il 10 maggio 1973. Qualche decina
di persone si riunisce in congresso. Vengono essenzialmente da due esperienze. Una,
è quella della lotta armata indipendentista delle origini, che raccoglie combattenti
sperimentati come Moahammed Ould Ziou. L’altra, è di un gruppo di intellettuali
che, ha studiato in Marocco, e che condividono una convinzione: l’indipendenza verrà solo contando sulle proprie forze. Li guida El Wali, Mustafà Sayyed, che è eletto
segretario generale.
Eppure la carta costitutiva e il programma non hanno nulla di radicale. Di radicale c’è
la scelta della lotta armata. È la risposta all’impossibilità, mille volte verificata, di percorrere vie pacifiche: non c’è
nemmeno un barlume di spazio democratico, nella cupa oppressione spagnola. C’è solo la Garrota. Il franchismo
la userà. E produrrà, impietosamente,
desaparecidos. Il vecchio paternalismo
ha gettato la sordida maschera.
Il Polisario fa la sua prova generale. È
un atto più simbolico che militare. È il
20 maggio del 1973. Nell’avamposto
di El Khanga irrompe un gruppo del
Polisario. Per quanto male armato, riesce a disarmare i soldati presenti. Sono
Sahrawi anch’essi, che decidono di
non battersi contro i loro compatrioti.
Soldati, sì, ma soprattutto povera gente. Che ascolta ad occhi sbarrati quei
ribelli dalle parole nuove e scioccanti:
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alcuni di loro seguiranno il
Polisario.
Il Polisario sceglie l’opera
di conquista del consenso,
e la lotta armata è sempre
finalizzata a obiettivi politici. È una costante nella
vita del Fronte. Che non ricorrerà mai, nemmeno nei
momenti più disperati, alla
«bomba nucleare dei poveri», il terrorismo. Se il primo congresso del Polisario
è quello della scelta della
lotta, il secondo, che si tiene
nell’agosto del 1974, si incentra sull’ indipendenza, e
sui contenuti che essa dovrà
avere. Emerge il progetto di
un paese nuovo. E si vuole mettere un punto fermo
perché, mentre si vede la
fine del tunnel colonialista
(segnato dall’infinita agonia del dittatore Franco, tenuto ormai in vita a forza), si colgono tendenze annessionistiche marocchine (e non solo).
I patrioti Sahrawi non si fidano. Cercano alleati affidabili. Li trovano nell’Algeria.
L’avvicinamento procede con passi successivi. All’inizio gli algerini sono cauti. Vogliono capire gli orientamenti del Polisario. La geografia dell’area è semplice, ma
esprime una realtà aspra. Algeria e Marocco mantengono rigidamente le posizioni
politiche e ideologiche proprie. Il dialogo fa poca strada. A sud, la debolissima Mauritania, indipendente dal 1960 ma sotto tenuta a bacchetta dalla Francia, ha pochissima voce in capitolo. Nasconde però qualche velenoso revanscismo.
I Sahrawi sono lieti di assistere a incontri fra i governi di quei paesi (fin dal 1970), in
cui si esplicitano accordi tesi a sostenere le deliberazioni Onu per la decolonizzazione
del Sahara occidentale. Ma temono che il Marocco voglia coinvolgere gli altri in un
progetto di spartizione, con una sorta di complicità.
Il Re del Marocco ha bisogno di un successo politico, che lo tragga fuori dalle strette
che ha di fronte nel paese, dove c’è un diffuso malcontento sociale, e dove i militari
stessi sono artefici di attentati al sovrano (nel 1971 e nel 1972). Questa fibrillazione
però trova una evidente indisponibilità degli algerini: perciò i sahrawi stringono con
loro un’alleanza sempre più salda.
Il Polisario sviluppa la sua azione in un contesto internazionale segnato da uno slancio anticolonialista evidente. Nel lontano Viet Nam, come nelle colonie portoghesi, si
sgretola il sistema. Se pesa la tragedia del Cile popolare che cade in mano a Pinochet
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nel settembre 1973, a Lisbona il fradicio tardofascismo di Caetano viene spazzato via
nel 1974 da una rivolta militare per la democrazia. La Spagna non ha più governi
fascisti “fratelli” in Europa, perchè nello stesso anno cade la dittatura dei colonnelli
in Grecia. È tutta una storia che volge al termine.
Sono anni decisivi, di intrighi e di sporchi giochi di potere, in Spagna. Il capo del
governo spagnolo, Carrero Blanco, viene ucciso nel 1973, in un attentato dell’Eta.
È l’ultimo uomo forte del regime; l’ultima personalità degna di questo nome. Dopo
di lui, nessuno riesce a trovare, tra i franchisti, una prospettiva politica. Si va verso
la dissoluzione del regime, anche se i suoi colpi di coda sono tremendi. La Garrota
torna a stringere, muoiono ancora gli antifascisti spagnoli.
In questa dinamica, il Polisario si sviluppa fortemente. Il Sahara occidentale può
cadere nelle sue mani come una mela matura. L’unica alternativa che appare alla
Spagna franchista, è, a questo punto, di governare lo sbocco all’indipendenza per
affidare il paese a una classe dirigente vicina, possibilmente subalterna, alla Spagna
stessa. Per questo, occorre una svolta rapida e ben congegnata. Nell’agosto del 1974
(appena caduto, come si è detto, il fascismo in Portogallo e Grecia), la Spagna dichiara la propria intenzione di tenere il referendum a lungo negato.
Procede subito dopo a un censimento (il primo nella storia locale). Risulteranno censiti 20 mila europei e poco meno di 74 mila “indigeni” (per questi, il numero è in
difetto, perché molti nomadi Sahrawi, lontani dai centri abitati, non sono stati certamente censiti). La Spagna procede altresì a consolidare il ceto dirigente. Promuove
la nascita di un partito artificiale, formato da un giro di notabili collaborazionisti
(alcuni peraltro in buona fede). Si tratta dell’effimero Partito dell’ Unione Nazionale
Sahrawi.
La mossa spagnola è abile. Tende a spiazzare il Polisario come il Marocco, e conta su un atteggiamento non ostile dell’Algeria. Un Sahara occidentale debolissimo,
potremmo dire “asettico”, e sradicato dal terreno del Non Allineamento? Ecco una
soluzione accettabile per la Spagna.
La Spagna avrebbe così potuto mantenere un ruolo strategico nella regione, garantendo la stabilità - peraltro continuando nello sfruttamento delle risorse naturali, del
commercio. D’altra parte, si sa, i popoli usciti dal colonialismo hanno diritto ad avere
il loro padre protettore…
Il Re del Marocco è molto nervoso. Non può assistere impotente a una situazione che
gli sfugge di mano e che sarebbe usata contro di lui. Da un lato, scalpitano i falchi,
che riescono ad avere consenso popolare. Sono ambienti prossimi alla monarchia, e
che vogliono nel contempo avere un proprio peso specifico. Si determina un’alleanza. All’opinione pubblica marocchina il Sahara occidentale viene presentato come
una grande opportunità di benessere, e si profila un condizionamento culturale già
proteso all’occupazione, presentata peraltro come un fatto di patriottismo. Un’operazione culturale e politica ben organizzata, utilizzata lucidamente dal Re.
Hassan II, mentre lavora sul piano interno, procede a porre ostacoli sul terreno internazionale. Intanto, nel settembre 1974 il Marocco ricorre alla Corte internazionale
di giustizia dell’Aia per avere un pronunciamento circa i diritti storici del Marocco
sul Sahara occidentale. Nel contempo, cerca un accordo con la Mauritania, che ha
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da poco (1969) riconosciuto. Obiettivo: coinvolgere questo poverissimo paese, governato dall’ambizioso Ould Daddah, in una partita di spartizione. Insieme, i due paesi,
all’Assemblea generale dell’Onu, chiederanno alla Corte dell’Aia di esprimersi sulla
vecchia questione, se il Sahara occidentale sia Terra Nullius; e se esistessero rapporti
giuridici con Marocco e Mauritania. Questa richiesta passa con l’astensione della
Spagna. L’Onu dà via libera a questa richiesta alla Corte dell’Aia, ma vuole anche
sapere che cosa succede nel Sahara occidentale. E invia una missione per verificare la
fattibilità di un referendum di autodeterminazione.
Arriviamo così al drammatico 1975. A maggio, la missione dell’Onu inizia effettivamente a svolgere il suo lavoro, con estrema precisione, e in totale autonomia. Svolge
moltissimi incontri, e ovunque riscontra il prestigio e il radicamento del Polisario.
A ottobre, quasi in contemporanea, escono il parere della Corte dell’Aia, e il rapporto
della missione dell’Onu. Il combinato disposto è netto. La Corte dice intanto che il
Sahara occidentale non può considerarsi Terra Nullius, e che, se pure sono esistiti
“rapporti giuridici”, essi non hanno mai avuto caratteri tali da vincolare la sovranità,
né da impedire l’applicazione del diritto di autodeterminazione. Il rapporto dell’Onu
riferisce che «la popolazione, o almeno la quasi unanimità delle persone incontrate, si
è pronunciata categoricamente a favore dell’indipendenza e contro le rivendicazioni
territoriali di Marocco e Mauritania».
La via per il referendum sembrerebbe spianata. Ma il Marocco si muove con determinazione. Sa di avere il sostegno di Stati Uniti e Francia. Circostanza vuole, inoltre, che
in quella fase la stessa Mauritania sia componente di turno del Consiglio di Sicurezza.
Il Marocco invoca un compromesso. Il segretario generale, Kurt Waldheim, invece di
scegliere, come sarebbe stato suo dovere perfino istituzionale, la via del referendum,
prende tempo in consultazioni il cui esito è assolutamente scontato: non c’è accordo
tra le parti. In questa situazione di stallo, il Marocco, forte di un sistema esplicito o
tacito di complicità, apre una trattativa con la Spagna. Mentre si avviano le trattative,
la situazione sul terreno si fa tesissima. Il quadro è segnato dalla malattia di Franco,
che è in coma da metà ottobre.
I militari rifiutano di cedere al Marocco - ma la nuova leadership di Arias Navarro
cerca una soluzione di compromesso. Perché? Per mantenere buoni rapporti con il
Marocco (vista la bruciante questione aperta di Ceuta e Melilla, città - colonie spagnole sulla costa marocchina), e per puntare a un accordo preventivo, e di garanzia,
sul futuro, relativamente alle risorse della pesca e del sottosuolo.
Lo stesso nuovo Re, Juan Carlos, si reca a El Ayoun. Ma il Marocco assesta un
colpo micidiale, di grande abilità politica e propagandistica. Organizza una gigantesca operazione di coinvolgimento della popolazione marocchina. È la Marcia Verde.
Trecentomila persone, tutte disarmate, su una infinita colonna di camion stracolmi,
entrano nel nord del Sahara occidentale. È il 6 novembre 1975. Il colore verde della
marcia viene dalle bandiere, quelle dell’islam, che vengono sventolate. Le forze armate spagnole si ritirano, per evitare un contatto che non sarebbe reggibile, innanzitutto
sul piano politico. Il dopo Franco non si sarebbe mai potuto aprire con un bagno di
sangue di indifesi, oltretutto su una vicenda di colonialismo. Di qui il cedimento, diciamo pure sotto ricatto. Quasi tutte le forze politiche marocchine sostengono questa
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iniziativa, che apre la strada a una infinita stagione di sofferenze per i sahrawi.
Quali le razioni? Innanzitutto, si registra una ferma protesta da parte del Polisario. Il
Consiglio di Sicurezza chiede immediatamente il ritiro. L’Algeria di Boumedienne si
muove con fermezza - anche verso la Mauritania. Ma ormai la situazione è davvero
precipitata, e il 14 novembre 1975, a Madrid, Marocco, Mauritania, Spagna firmano
un accordo. È una scelta drammatica, quanto illegale, che può avvenire solo con il
sostegno di altri importanti attori internazionali.
La Spagna cede l’intero territorio al Marocco e alla Mauritania, ottenendo grandi
concessioni economiche sul territorio, e altre compensazioni nelle relazioni tra gli
stati. Ceuta e Melilla, storiche rivendicazioni marocchine, finiranno nel dimenticatoio. Anche l’espansionismo straccione del mauritano Ould Daddah è soddisfatto.
Non solo: in questo modo, si sente sicuro rispetto ai progetti di Grande Marocco
(questo trattato, implicitamente, rafforza il riconoscimento della Mauritania da parte
del Marocco).
Ma una siffatta, e totalitaria, violazione dei diritti di autodeterminazione non resta
senza risposta. Il movimento Sahrawi prende ulteriore slancio, e due processi avanzano in contemporanea: l’occupazione e la resistenza. Una resistenza che si fa sempre
più efficace. A rafforzare il Polisario vengono, in blocco, poliziotti e riservisti in forza
alla vecchia amministrazione spagnola, mentre l’occupazione ha un evidente carattere aggressivo. Difendere la popolazione civile, diventa il primo obiettivo. Su questo, si
accende uno scontro durissimo.
Inizia, già alla fine del 1975, l’esodo delle popolazioni. È un esodo di decine di mi23
gliaia di persone, spesso sotto bombardamento. L’aviazione marocchina usa perfino
il napalm. A Guelta Zemmour avviene un odioso massacro. Non sarà che il primo, di
quelle dimensioni, con un centinaio di morti.
Perfino l’accondiscendente Giamaa - l’assemblea consultiva Sahrawi di cui si è parlato sopra - decide a fine novembre l’autoscioglimento,
Il Polisario costituisce in Consiglio provvisorio di 40 membri (richiamandosi alla vecchia assemblea tradizionale). Viene eletto un presidente, Mahammed Ould Ziou,
leader nazionalista e tradizionalista.
L’Assemblea delle Nazioni Unite chiede l’applicazione del principio di autodeterminazione. Naturalmente, l’appello rivolto ai firmatari del Patto di Madrid cade nel
vuoto. Inutile sarà altresì una missione Onu nel Sahara occidentale. Non potrà che
constatare che, nel clima dell’occupazione, ogni referendum è del tutto inattuabile.
Il 26 febbraio del 1976 è la data in cui è fissato il ritiro della Spagna. Con impeccabile formalismo, alle ore Zero del 27 febbraio nasce la Repubblica Araba Sahrawi
Democratica. La dichiarazione avviene a Bir Lahlu, in territorio liberato. È figlia di
una grande speranza, e di un grande coraggio. È un progetto forte, quello che ne esce.
Lo sguardo è all’unità araba, attraverso un percorso di unità maghrebina. In questo
orizzonte, la Rasd sarà una repubblica. Riconosce l’islam come religione, l’arabo
come lingua. Politicamente, il fondamento della repubblica sarà il carattere democratico e socialista - nel senso della giustizia sociale. La sintonia con un vasto movimento
in corso nel mondo arabo è evidente, ma è evidente anche una caratterizzazione culturalmente sobria ed equilibrata, priva di estremismi religiosi o nazionalistici.
La Rasd è una sorta di Stato in esilio. Ma in quello Stato, effettivamente, si vivranno
coerentemente i principi costituzionali - sia pure nelle drammatiche condizioni date.
La Rasd viene immediatamente riconosciuta dall’Algeria. Il contrasto politico tra
Marocco ed Algeria è al calor bianco, e rischia di esplodere per il combinato disposto
di due fattori: l’Algeria espelle migliaia di marocchini dal suo territorio; le forze ma24
rocchine distruggono un convoglio di aiuti militari algerini al Polisario, con decine di
morti. Le relazioni diplomatiche, già molto frigide in seguito alla Guerra delle Sabbie,
si interrompono per decisione del Marocco.
Fino alla primavera del 1976, il grosso dell’evacuazione dei civili è avvenuto. Infuria
la guerra. Il Polisario ora può passare alla controffensiva.
Gli obiettivi sono soprattutto due. A nord, i campi di fosfati di Bou Kraa (nel 1976,
per effetto degli attacchi del Polisario, praticamente cessa l’estrazione). A sud, le operazioni contro il fragile esercito della Mauritania e per bloccare la produzione delle
miniere di ferro di Zuerate (fonte essenziale per le esportazioni e la valuta pregiata).
La strategia del Polisario punta a mettere in ginocchio la Mauritania. Già nel giugno
del 1976 una colonna sahrawi arriva a colpire Nouakcott. È un raid temerario, realizzato grazie alle prestazioni delle veloci Land Rover, opportunamente trasformate
in mezzi armati di mitragliere pesanti, di lanciarazzi, e cannoni leggeri senza rinculo.
Si tratta di un’operazione militare da manuale. In effetti, ottiene un risultato politico
e propagandistico straordinario. Ma il presso di sangue è anch’esso pesante. Nella
ritirata, i Sahrawi contano diverse perdite. Tra esse, quelle del leader del Polisario,
l’indimenticato El Wali.
El Wali, giovane e affascinante capo carismatico, non è solo un comandante militare
erede delle tradizioni guerriere tuareg. È anche, soprattutto, il primo ispiratore di una
strategia attenta al terreno della politica, delle alleanze.
Josè Palau, da diverse testimonianze, ricavò l’immagine di una sorta di giovane Ho
Chi Minh, convinto che la causa per la quale si batteva era parte di una più larga lotta di liberazione. Una lotta internazionale. La sua perdita sarà sentita molto, ma nel
contempo alimenterà la leggenda di un popolo di combattenti indomiti, che non si
fanno intimidire dalla sproporzione dei rapporti di forza. Un popolo guidato da una
politica accorta, che farà tesoro dell’alleanza con l’Algeria, senza furbizie e opportunismi, così come di altri, più lontani alleati - i paesi dell’Est, Cuba.
Perché quello alla fine degli anni Settanta è sì un tempo in cui la Guerra Fredda
trova un assestamento (prima dello showdown da Gorbaciov in poi), ma anche un
tempo di regole ferree nelle relazioni internazionali. Ma il Polisario non guarda solo
allo scenario Est Ovest, non si concepisce come una pedina in quella scacchiera.
C’è il movimento dei Non Allineati; c’è l’Organizzazione per l’Unità Africana che,
forndatasi nel 1963, è ormai un soggetto stabile e importante; ci sono anche i nuovi
sommovimenti in corso in Europa a dare spazio politico.
Il Polisario guarda alla nuova Spagna, e trova amici tra comunisti e socialisti ed anche
in ambito conservatore; ha dalla sua sindacati, movimenti di giovani, e anche ex-coloniali. Avvia relazioni in Italia: trova rapporti a sinistra, ma anche tra i dc; nei sindacati
e negli Enti locali, tra i giovani e altrove.
Fondamentale è già il contributo della Lega per i diritti dei popoli. L’Unità sarà un
giornale particolarmente attento alle vicende sahrawi. Giancarlo Pajetta, responsabile dell’ufficio internazionale del Pci, sarà vicino a questo piccolo grande popolo. Si
delinea un solido schieramento di solidarietà internazionale.
Mahammed Abdelaziz, ferito anch’esso nel corso dei combattimenti, si troverà a
prendere il posto di El Wali, con cui condivideva un’amicizia profonda.
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È Abdelaziz a guidare i sahrawi in una lotta per la vita e la morte. Se il Polisario viene
battuto sul campo; se non riesce ad allargare il suo riconoscimento, e perciò i suoi legami internazionali, la causa sahrawi sarà una delle tante vicende perse nei gorghi del
mondo. L’Africa ne è piena. E la questione kurda - mai nemmeno discussa all’Onu
- dà ancor oggi la misura della difficoltà drammatica di entrare nell’agenda politica.
È la logica raggelante, crudele, della Realpolitik, specialmente nel tempo delle Guerra Fredda, dove ogni cosa ha connessioni spesso imprevedibili. Certo, pesano in quegli anni le incrinature profonde nel mondo arabo (che in breve diventeranno vere e
proprie rotture storiche). Pesano le contraddizioni nel mondo africano. Ma il Polisario
è deciso a una lotta a fondo, a utilizzare quei problemi per aprirsi un varco. E lo apre.
Non importa se la Mauritania, evaporato il velleitario nazionalismo di Ould Daddah,
torna a chiedere assistenza alla Francia, vecchia potenza dominante. Il Polisario tornerà a dare un colpo micidiale a Nouakcott nel luglio del 1977 con un altro, più fortunato raid. E la Mauritania vacilla. Il suo esercito - mai più numeroso di cinquemila
unità - è male armato e soprattutto demotivato. Le popolazioni Maure hanno antichi,
potremmo dire ancestrali rapporti con i Sahrawi. Anche se non sono mancate contese
e tensioni, non c’è una radice di aggressività etnica o nazionalistica tra questi popoli.
Né i gruppi di potere trovano interessi a questa guerra. Anzi, vengono pesantemente
danneggiati.
Inoltre, le sconfitte militari portano discredito al Paese, tanto più che il ritorno della Francia provoca reazioni negative nell’area e nelle stesse relazioni inter-africane.
Ould Daddah è quindi su una strada senza uscita, e nel luglio del 1978 verrà estromesso da una decisa azione “chirurgica” dell’esercito.
All’inizio, il nuovo gruppo dirigente della Mauritania cerca un compromesso con i
Sahrawi che permetta una qualche persistenza dell’occupazione del Sahara occidentale. Il Marocco fa molte pressioni in questo senso, perché teme l’isolamento: restando da solo a occupare il Sahara occidentale, apparirebbe anche più evidente l’arbitrio
e l’illegalità di quanto è avvenuto. L’alleanza con la Mauritania è in questo senso
importante, e lo è anche per il coinvolgimento della Francia anche da quel versante.
Ma la situazione non regge. Il Polisario ormai ha una netta superiorità sul terreno, e
si potrebbe trascinare una situazione di occupazione di fatto - da parte sahrawi - di
una larga area della Mauritania. Una situazione paradossale, e gravida di instabilità.
Ma il Polisario non vuole avventure che tocchino i confini, o che creino instabilità.
Punta chiaramente a dissuadere la Mauritania dal continuare la sua occupazione
nella fascia sud del Sahara occidentale, e a chiudere il conflitto su quel versante. Dopo
qualche mese, la Mauritania avvia trattative. La guerra, di fatto, finisce rapidamente,
e nell’agosto del 1979, Polisario e Mauritania firmano ad Algeri un accordo di pace
che rappresenterà una svolta importantissima. Anche perché, nel corso degli anni,
si affermeranno buoni rapporti tra le parti: grandi spazi, una specie di immensa retrovia, saranno agibili senza formalità (la frontiera è, di fatto, aperta). Il nomadismo
Sahrawi potrà svolgersi senza problemi.
Sul piano politico, un ostacolo è tolto nella complessa e dura discussione dentro
l’OUA.
Il Marocco alza il livello dello scontro, occupando il territorio lasciato dalla Mau26
ritania nel Sahara occidentale. Non conta l’aumento delle
spese militari, né le perdite subite: da un primo contingente
di occupazione stimato in 50
mila unità, il Marocco passa a
centomila. E deve indebitarsi
acquistando armi sempre più
costose dagli Stati uniti e dalla
Francia.
Mentre il Movimento dei Non
Allineati porta il Polisario in
palma di mano, in Africa il
Marocco riceve colpi diplomatici durissimi. Hailè Selassiè - grande alleato di Hassan II - cade in Etiopia. La progressiva radicalizzazione
della posizione etiopica stessa toglie una sponda importante al Marocco, in questo
scenario.
La Rasd è riconosciuta già nel 1976 da dieci paesi africani. Al vertice di Monrovia,
nel luglio 1979, viene adottato un piano che prevede il referendum sull’autodeterminazione. Quattro mesi dopo l’Assemblea generale dell’Onu, recependo quanto deliberato dall’OUA, riconosce esplicitamente il Polisario come il rappresentante del
popolo del Sahara occidentale. È una passo in avanti enorme. Con questa formula,
il Polisario finalmente ha riconosciuta formalmente la sua cittadinanza nella politica
internazionale; non si tratta più di riconoscimenti unilaterali, ascrivibili alle logiche
dei blocchi politico militari.
Questo riconoscimento sarà prezioso nel lontano futuro (quello di oggi), e viene messo in valore subito. Nel 1980, la Rasd conta 45 riconoscimenti. Cosa decisiva, 26 sono
africani. L’OUA conta in tutto, allora, 50 Stati membri.
La novità politica è evidente: la Rasd ha potenzialmente i numeri per entrare come
Paese nell’OUA. Questo preoccupa il Marocco, che ha di fronte una possibile sconfitta politica - tanto più che spira ancora nel continente un forte vento anticolonialista, che viene soprattutto dai Paesi della cosiddetta Linea del Fronte, quella che si
confronta con il Sudafrica dell’Apartheid, protagonista di virulente avventure militari
in Namibia e Angola. È un Sudafrica peraltro alleato al Marocco, e fornitore di materiali e di consulenze militari.
Sul campo, il Marocco si trova in crescenti difficoltà. Nonostante gli sforzi, non riesce ad arginare le moderne Ghazzu (quelle che l’italiano traduce in “razzie”, in realtà, incursioni). Le Land Rover del Polisario arrivano tranquillamente fino alle coste
dell’Oceano Atlantico. Succede perfino che requisiscano battelli da pesca, e relativi
equipaggi, a titolo simbolico, per obbligare i Paesi di provenienza a trattate con la
Rasd i diritti, appunto, sulla pesca. Come a dire: queste risorse sono nostre. I contingenti marocchini il più del tempo stanno sulla difensiva.
L’aviazione certo dà ad essi un temibile potere, ma i missili terra aria sono molto effi27
caci, e si assiste a una limitazione dei raid aerei e della stessa vigilanza.
Hassan II ha però la sua strategia. Innanzitutto, prendere tempo. Anzi, agire sul fattore - tempo come un elemento centrale della politica. Si muove in direzione dei Paesi
africani moderati per rilanciare i rapporti; chiede anche a quanti hanno riconosciuto
la Rasd di dare prova di equilibrio - spendendo anche le sue relazioni internazionali.
Al vertice OUA di Nairobi, nell’agosto 1981, annuncia personalmente la sua disponibilità ad accettate il referendum. La sorpresa è grande. Ma è un fatto strumentale, in
quanto Hassan II dice che il carattere di tale referendum dev’essere “confermativo”.
Un referendum che non permette scelte, che referendum è mai? Appare evidente la
mancanza di volontà politica nella ricerca di dare soluzione alla questione.
Nel frattempo, prende corpo una scelta lungamente elaborata. Quel 1981 che vede
la asserita disponibilità di Hassan II, è un anno di dura confrontation tra i blocchi politico militari (l’anno in cui si sviluppa il reaganismo, la rincorsa nucleare, e si chiude
con il colpo di Jaruzelski in Polonia). È l’anno degli scontri nel Golfo della Sirte (crisi
Usa-Libia) e la vigilia della guerra in Libano. È l’anno in cui, a freddo, il Marocco
inizia la costruzione del primo tratto del Muro.
Il Muro. La prima evocazione, è quella del Muro di Barlino. E non appare infondata.
Il Marocco vuole impedire al Polisario la libertà di movimento, bloccarne la mobilità
militare e la penetrazione politica - cioè spezzare le relazioni parentali e familiari,
separare in tutto e per tutto il mondo sahrawi. Chi è di qua del Muro, sarà sotto occupazione. Non usciranno notizie. Non si potrà entrare, se non con speciali permessi.
Un universo concentrazionario in cui tutto è permesso all’occupante, e nessun diritto
ha l’occupato. Di là, oltre il Muro, ci stiano pure i profughi, i barbari, i terroristi. Gente senza il diritto all’esistenza. Se ne occupino le agenzie dell’Onu, a nutrirli e aiutarli.
I loro amici, sono nemici del Marocco. Non ci interessano.
Il Muro è concepito meticolosamente. Il suo standard è il seguente. altezza consigliata: sei metri (più di quello di Berlino). A distanza regolare - tre o quattro per chilome28
tro - postazioni di vedetta e di prima risposta all’attacco. Direttamente dietro, caserme
protette pesantemente, con blindati e mezzi mobili. E artiglierie. Davanti al muro, un
avvallamento e campi minati. Sistemi radar e elettronici sono in funzione lungo tutto il
Muro.
Nel 1981 il primo tratto di quasi 500 km è destinato a proteggere il sud del Marocco, i
fosfati di Bou Kraa, la capitale El Ayoun, la città santa di Smara. Successivamente, tratto
dopo tratto (se ne conteranno sei) il Muro si sviluppa in modo vagamente parallelo alla
costa, molto all’interno, in modo da coprire due terzi del territorio. Ovviamente, quello
in cui le risorse del suolo e del sottosuolo sono più interessanti.
Il lavoro di costruzione si conclude in tempi molto rapidi, nel 1987. A finanziare il Muro
sono soprattutto Stati Uniti e Francia. In cambio, hanno certamente grandi compensazioni, anche se non si sa bene in cosa consistano.
Per il Polisario, abituato alle tecniche del mordi-e-fuggi, e ad operazioni militari anche
consistenti (talvolta usa anche mezzi pesanti, blindati e carri), però veloci e flessibili, il
Muro significa un cambiamento secco di scenario militare. Bisogna razionalizzare al
massimo l’attacco, concentrare forze, pianificare gli obiettivi. Sapendo che sarà impossibile l’iniziativa in profondità. Bisognerà confidare nella tenacia e nel radicamento degli
ideali di indipendenza nei fratelli sahrawi che sono rimasti di là del Muro.
Bisogna anche, però, dare dei segnali militari. Dimostrare che il Muro non è invincibile. Non è facile far questo, tanto più che l’esercito marocchino dispiega contingenti
impressionanti, per i “numeri” dei sahrawi. Parliamo di centoventi--centocinquantamila
soldati marocchini. La capacità di mobilitazione massima dei sahrawi arriva forse a 20
mila combattenti. E non ricordiamo la disparità degli armamenti, delle comunicazioni,
delle tecnologie.
Il Polisario non si arrende, e attacca ancora. I campi minati e i sistemi tecnologici sono
i nemici più temibili, perché di solito i contingenti militari marocchini restano sulla difensiva. Il Polisario ottiene diversi successi, importanti soprattutto sul piano politico e
perfino psicologico. Si è dimostrato, sia pure a fatica, che il Muro non è invalicabile.
Il Marocco soffre: le spese militari per il contingente, e le spese per la manutenzione
e l’efficienza del Muro stesso, sono molto alte. Si calcola che circa un terzo del bilancio marocchino sia destinato a dare risorse economiche all’occupazione. Difficile fare
la comparazione costi-benefici (le estrazioni, la pesca, l’agricoltura). È evidente però
l’obiettivo politico del Marocco: al riparo, dietro al Muro, radicare l’occupazione, incoraggiando la permanenza di cittadini marocchini, consolidando nuovi insediamenti,
infrastrutture, attività. Determinante è l’elemento numerico: si punta a soverchiare la
popolazione locale con una presenza strabordante di popolazione immigrata.
Lo scopo è chiaro: rendere irreversibile l’occupazione. La repressione si incaricherà senza pietà alcuna - di sradicare movimenti, culture e idee che abbiano relazione con il
Polisario, con l’indipendentismo, o con la semplice difesa dei diritti.
Si apre una fase in cui il sostanziale stallo militare obbliga le parti a una non meno
cruenta lotta diplomatica e politica.
Il Marocco gioca le sue carte, e sono carte pesanti: punta all’associazione alla Comunità
Europea dalla metà degli anni 80, cercando di mettere la vicenda sahriana come un fatto
compiuto. Pur se il nuovo segretario generale dell’Onu, Perez de Cuellar, si dimostra
29
debole, tuttavia la questione Sahrawi resta in agenda. De Cuellar però non fa molto,
se non un’audizione delle parti nel 1986.
La Rasd ha acquisito una grande vittoria politica: la repubblica sahrawi viene annessa all’OUA, come 51mo stato membro. Siamo nel febbraio 1982, ad Addis Abeba,
sempre in un momento pesante della Confrontation Est-Ovest che oltretutto attraversa violentemente l’Africa stessa. La questione Sahrawi non è la sola, a rendere grave il
momento, ma è un casus belli politico di prima grandezza, in quel contesto. Perciò la
riunione segna una profonda rottura: non vi partecipa il Marocco, e i rappresentanti
di diciotto stati africani abbandonano la seduta. Lo strappo è profondo, l’idea stessa
di “unità africana” riceve un ulteriore colpo.
Perciò la Rasd manifesterà sempre grande prudenza nell’ambito dell’OUA. Si sforzerà di dimostrare che non intende essere motivo di divisione. Sceglierà più volte,
unilateralmente, di non partecipare a talune sedute. Si parlerà di assenza volontaria
e temporanea, volendo così significare che la Rasd ne ha diritto, e che la Rasd è
consapevole che è responsabilità di ogni soggetto membro contribuire a creare le
condizioni più favorevoli al lavoro.
L’anno seguente, oltretutto in assenza appunto della Rasd, l’OUA, ancora a Addis
Abeba, chiamerà esplicitamente le parti - Marocco e Rasd - a negoziati diretti volti
alla realizzazione del referendum. Re Hassan II è in difficoltà, in Africa. Si aggiunge
anche lo scorno del riconoscimento della Rasd da parte della Mauritania…
Il Marocco prende una decisione molto pesante: esce dall’OUA. La Rasd viene eletta
alla vice-presidenza dell’OUA.
Sullo scenario internazionale pesa l’assenza dell’Europa. Solo la Francia si muove,
ma ancora in senso contrario al buon diritto. Prevalgono interessi strategici ed economici. Non ne fanno mistero i governi conservatori, e nemmeno quelli della Gauche.
La Spagna vede la vittoria dei socialisti, e si rinsalda una larga corrente di simpatia e
di sostegno alla causa sahrawi. Ma la forza politica della giovane democrazia spagnola è relativa. Continuano a pesare Ceuta e Melilla. E inoltre la Spagna, che guarda
all’integrazione europea, non vuole contrasti con un paese-chiave, com’è appunto la
Francia.
Altri grandi Paesi hanno ben altro per la testa: la Germania federale è nell’ombelico
del problema Guerra Fredda. La Gran Bretagna della Lady di Ferro sta al fianco degli
Usa e guarda ai problemi apertisi con gli stati latinoamericani in relazione al conflitti
delle Falkland-Malvinas. L’Italia vede crescere un sentimento largo di solidarietà (anche tra le forze di governo, oltre che a sinistra), ma non ha voce in capitolo.
Più sensibili appaiono alcuni paesi più piccoli (dal Belgio alla Scandinavia). Ma ormai
il movimento sente di avere la forza di lanciare un segnale politico di carattere europeo. A Parigi, nel novembre del 1985, si raccoglie una conferenza che riunisce centinaia di parlamentari, enti locali, partiti e associazioni, e personalità diverse. A Parigi
approdano tanti che hanno dato vita a iniziative già di qualche rilievo. A Roma, nel
1980, si era già tenuta una conferenza internazionale giovanile. A Valencia, due anni
dopo, la festa dei giovani del Mediterraneo farà della solidarietà alla causa Sahrawi
un momento forte. Si sviluppano le iniziative sul territorio, le campagne di aiuti e di
accoglienza.
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In Italia, sarà cruciale la figura di Elio Marini, che ha dato un impulso straordinario
all’ impegno umanitario. Centinaia di Enti Locali entreranno in campo per la solidarietà.
Questo avrà grande valore nel mantenimento della coesione della comunità Sahrawi,
che vede aprirsi un’opportunità storica: nell’agosto 1988 l’Onu decide per il referendum sull’autodeterminazione.
Ma qui comincia un’altra storia: quella del tradimento, finora, di una promessa e di
una speranza.
Una storia di dolore di profughi, di tenacia di chi resiste all’occupazione. I Sahrawi
hanno una dignità che include qualcosa di metafisico.
Una storia di impegno di cittadinanza - noi non siamo Saint Exupery - per tenere
aperta la via al vento, e alle stelle, di questa patria che un poco è anche nostra. Se
abbiamo il senso dei diritti e della solidarietà
PS - questo scritto è dedicato alla memoria di Ilaria Alpi, assassinata a Mogadiscio con il suo collega
Miran Hrovatin per aver cercato troppo lontano la verità. Quella stessa verità che viene negata ai
Sahrawi.
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… fino ai nostri giorni
di Franco Uda
«Solo chi è perso nel deserto
Senza canti di uccelli
Né stormire di fronde
Nell’arido grigiore di pietra e sabbia
La vera solitudine conosce»
Basta qualche giornata trascorsa in uno dei campi Sahrawi e un briciolo di conoscenza
della storia di questo popolo, per capire subito che la strofa di questo loro canto tradizionale descrive una condizione esistenziale individuale - valida tanto per chi nel deserto
ci è nato quanto per chi ci è capitato accidentalmente - determinata principalmente
dalla vastità di un mare sabbioso esteso quanto l’intero continente Europeo. Sono gli
«interminati spazi [...], e sovrumani silenzi, e profondissima quiete» che pure la poesia
leopardiana prova a descrivere, non senza un forte senso di smarrimento.
Certamente non descrive la loro condizione collettiva, quella di popolo. Infatti non possiamo dire che nel deserto si siano persi: tutt’altro, nel Sahara occidentale ci volevano
proprio andare. Nè si può affermare che siano soli: non nel senso che intorno a loro ci
siano grandi moltitudini - l’antropizzazione, nel deserto, è molto bassa (circa 1 abitante
ogni 10 kmq, rispetto a 34 abitanti/kmq del continente africano) - ma rispetto a quanto
la causa del popolo Sahrawi ha prodotto in termini di empatia e solidarietà nel mondo.
Una solidarietà che oggi, purtroppo, rischia di essere tristemente seppellita da apatia e
rassegnazione.
Hanno formato una generazione di abili e valorosi diplomatici, alcuni di loro provengono dalle fila dell’esercito dopo il cessate-il-fuoco del 1991, altri sono giovani istruiti
nelle università di mezza Europa (e di Cuba, che non ha mai cessato di fornire il dovuto
sostegno, in molti modi), che incessantemente tessono orditi di relazioni con la società
civile di tutto il mondo, sviluppando elementi concreti di solidarietà politica e umanitaria
raramente riscontrabili nella stessa misura. Diversa fortuna ha avuto in questi ultimi 40
anni la loro causa, non tanto presso le istituzioni internazionali, quanto nelle effettive
conseguenze in termini politico-sostanziali, complici gli intrecci di interessi della Francia
e degli Usa con il Marocco e un ruolo esiziale della Spagna, che pure porta gravi responsabilità storiche. Infatti, dopo l’accordo separato di pace con la Mauritania, nel 1979
l’Assemblea generale dell’ONU (con la risoluzione 34/37) riconosce il Fronte Polisario
come rappresentante legittimo del popolo Sahrawi e domanda al Regno del Marocco di
mettere fine all’occupazione del territorio del Sahara Occidentale. Ma mentre gli occhi
del mondo intero sono attenti e concentrati alle fasi di inasprimento della Guerra Fredda
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prima e al suo processo di distensione - che porterà nel 1989 alla caduta del Muro di
Berlino - più tardi, un’altra opera colossale viene edificata.
Il muro marocchino o muro del Sahara Occidentale - anche noto con il termine Berm
- è una berma (prestito linguistico dall’olandese che definisce un gradino o muretto che si
erige alla base di un terrapieno o di un argine per prevenirne il cedimento) di lunghezza
superiore ai 2.720 km, costruita dal Marocco nel Sahara Occidentale e motivato dal
diritto di difendersi dal Fronte Polisario. Tale struttura difensiva è a tutti gli effetti una
zona militare, dove sono stati costruiti appositi bunker, fossati, reticolati di filo spinato e
campi minati.
Si tratta del muro più grande del mondo dopo la Muraglia Cinese.
Secondo le mappe fornite dalla Missione delle Nazioni Unite per il Referendum nel
Sahara Occidentale (MINURSO) e dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per
i Rifugiati (UNHCR) una parte del muro marocchino si estende per diversi chilometri
anche nel territorio riconosciuto a livello internazionale appartenente alla Mauritania.
La costruzione del muro marocchino si svolse in diverse fasi, ognuna delle quali aveva
lo scopo di ampliare il territorio controllato per la difesa del Marocco dalle sue forze
militari.
Il primo segmento, che non ha nessuna contiguità con quello definitivo, fu edificato nel
giugno del 1982 e circoscrisse l’area a nord-ovest denominata “triangolo utile”.
È la più importante dal punto di vista demografico ed economico, e contiene le città di
Laayoune, di Smara, di Bojador e di Bou Craa, ovvero una porzione importante della
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regione di Saguia el Hamra.
Il secondo muro, edificato a partire dal gennaio 1984, ampliò di una piccola porzione a
sud del territorio controllato dal Marocco. Questo segmento ha due caratteristiche: taglia praticamente in due il territorio controllato dal Fronte Polisario e per un breve tratto
segue il muro cosiddetto definitivo.
Il terzo muro, risalente al maggio 1984, inglobò ad est una piccola parte del territorio
confinante col Marocco con il centro abitato di Hauza.
Strategicamente fu occupata la maggior parte della strada, attualmente non utilizzata,
che conduce da El Ayun a Tindouf e pertanto verso le vecchie piste carovaniere del
deserto del Sahara.
La quarta espansione, risalente al gennaio 1985, si ampliò verso est, inglobando un territorio dove vi sono i centri abitati di Al Farcia e Mahbes. Il muro rasenta il confine algerino e fu prolungato in territorio marocchino per impedire il suo aggiramento.
La quinta fase, risalente al settembre 1985, inglobò una parte del Rio de Oro con i centri
abitati di Guelta Zemmur, Chalwa, Umm Dreiga, Imlili e Dakhla.
La sesta e ultima fase, risalente all’aprile 1987, portò le truppe marocchine vicino ai
confini mauritani. Una stretta striscia di sabbia collega i territori non occupati sotto il
controllo della RASD alla penisola con il centro abitato di La Guera, che fu colonia
spagnola prima di essere inglobata nel Rio de Oro.
Dopo l’aprile 1987 la costruzione dei muri finì, dato che il Marocco non riuscì a inglobare altro territorio. La guerra sanguinosa continuò però fino al 1991.
Queste strutture fortificate si trovano principalmente in un territorio disabitato o scarsamente abitato. Esse sono costituite prevalentemente da sabbia e pareti in pietra o terrapieni alti circa tre metri. Lungo il muro, ogni quattro o cinque chilometri è stanziata una
compagnia militare, formata in gran parte da truppe di fanteria e, in misura inferiore,
da altri corpi militari, come ad esempio i paracadutisti. In totale circa 100.000 soldati
marocchini sono stanziati a presidio della struttura difensiva. Ogni 15 chilometri è invece
installato un radar per fornire dati alle più vicine batterie di artiglieria. Secondo il governo marocchino il muro ha una ragione strategico-difensiva, mentre in realtà serve per
mantenere il controllo su un territorio particolarmente redditizio e strategico.
La principale risorsa economica del Sahara Occidentale infatti, oltre alla pesca e alla pastorizia nomade, è l’estrazione di fosfati, di cui il sottosuolo è ricco. La principale miniera
- a cielo aperto - è situata a Bou Craa e collegata al mare con un nastro trasportatore di
ben 100 km di lunghezza, il più lungo al mondo. La miniera, su una superficie di 250
kmq, è al centro di una vasta regione stimata in 1.200 kmq. Il minerale estratto ha una
densità pari all’85% di fosfato di calcio. Questa, come tutte le altre attività economiche e
commerciali, è controllata dal Marocco (che è, con la produzione del Sahara Occidentale, il terzo produttore mondiale di fosfati). Le Nazioni Unite hanno ribadito l’illegalità
dello sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale da parte del Marocco. Vengono anche stimate importanti riserve petrolifere e di gas, il cui sfruttamento è
bloccato dalla decisione delle Nazioni Unite che impongono di fermarsi alla fase della
ricerca.
La zona controllata dalla Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi non ha invece
alcuna importanza economica.
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I principali obiettivi difensivi dichiarati dal Marocco hanno perso la loro
ragion d’essere nel 1991, quando la
RASD scelse la strada della legalità
internazionale e dell’azione non violenta.
Il Marocco non ha mai fornito mappe
precise dei territori minati, rendendo
difficile le attività di sminamento. Le
tante organizzazioni internazionali
impegnate nel lavoro di bonifica nell’area, in collaborazione con il Fronte
Polisario, l’Associazione Saharawi per
le Vittime delle Mine (ASAVIM) e il
centro di coordinamento MINURSO,
riescono a dare solo una stima approssimativa del numero di ordigni presenti e agli organismi internazionali e alle
ONG operanti non resta che dedicare
parte del proprio impegno in programmi di informazione e sensibilizzazione.
Si parla di circa sette milioni tra mine
- anti-uomo e anti-carro - e residuati
bellici inesplosi, come le micidiali bombe a grappolo: si tratta del più lungo
campo minato continuo nel mondo.
Intanto la popolazione continua a subirne le conseguenze: dal 1975 le vittime sono state
circa 2.500 e questo spiega perchè questo muro viene generalmente definito come un
“muro della vergogna”.
Nel 1991, con il conseguimento di un cessate il fuoco, l’ONU inviò in missione nel Sahara occidentale una delegazione (MINURSO) col compito di vigilare sulla tregua e organizzare un referendum di autodeterminazione per l’inizio del 1992.
La definizione dei criteri di eleggibilità e della lista elettorale è stata oggetto di numerose
trattative tra il Regno del Marocco e il Fronte Polisario. Un lungo processo di esame minuzioso degli elettori e delle elettrici potenziali ha avuto luogo tra il 1991 e il 1998. Visto
il gran numero dei ricorsi depositati dal Marocco, la lista definitiva degli aventi diritto al
voto non ha potuto essere stabilita poiché il Regno del Marocco non ha voluto applicare
la procedura d’appello che era stata concordata tra le due parti e approvata dal Consiglio
di Sicurezza. L’unico censimento disponibile - condotto nel 1974 dalla Spagna - fissa il
numero dei Sahrawi in 74.902, mentre il censimento effettuato dall’ONU in vista del
referendum fissava - nel 2000 - gli aventi diritto al voto in circa 84.200.
Nel 2003 James Baker, inviato speciale delle Nazioni Unite, propose un piano in due fasi
che, dopo una transizione di 5 anni in cui il Marocco e il Sahara Occidentale avrebbero
governato insieme nei territori occupati, sarebbe dovuto culminare con il referendum,
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ma il piano non trovò il favore del Marocco.
Nell’aprile 2007 l’ONU ha ribadito l’impegno a favore di una soluzione politica definitiva e, in diverse e successive votazioni, il prolungamento della missione MINURSO, oggi
ancora in atto. Tra i compiti di tale missione non è tuttavia presente quello di monitoraggio dei diritti umani.
Vogliamo qui ricordare il ruolo di associazioni come AFAPREDESA (Asociación de Familiares de Presos y Desaparecidos Saharauis), nata come risposta civile e non violenta
alla situazione critica del rispetto dei diritti umani: l’associazione si è mossa sulla particolarità locale, ovvero la presenza degli scomparsi, come Aminatou Haidar, riapparsa
dopo oltre quattro anni di totale assenza di sue notizie. Di altri 500 invece non si sa più
nulla.
Un grave episodio esemplificativo di repressione e abuso della forza accadde nell’ottobre
2010, nel campo di Gdeim Izik, il campo della dignità e della libertà, dove si riunirono oltre
20.000 Sahrawi come ribellione alle proprie condizioni di vita e contro le discriminazioni subite dal governo marocchino. Un mese più tardi i militari del Regno del Marocco
attaccarono in maniera brutale il campo sparando su civili inermi, e rovesciando con
elicotteri acqua bollente sulle tende: il bilancio è di decine di morti, centinaia di feriti
e di arresti. Noam Chomsky affermerà successivamente che «qui è nata la primavera
araba».
Particolarmente significativa, da un punto di vista simbolico e politico, la visita che il
Segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon ha effettuato il 5 marzo 2016 nelle “zone
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liberate” del Sahara Occidentale, ribadendo il proprio impegno personale nel processo
di promozione del referendum di autodeterminazione del popolo Sahrawi e visitando
il campo profughi di Smara, colpito qualche mese prima da una terribile inondazione.
L’episodio più recente da menzionare, che segnerà certamente il futuro della storia che
fino a qui abbiamo raccontato, è dello scorso 31 maggio 2016, quando si è spento a Tindouf Mohamed Abdelaziz, Segretario generale del Fronte Polisario e Presidente della
Repubblica Araba Sahrawi Democratica, uno dei principali protagonisti degli ultimi
25 anni. La sua guida politica ha portato il Fronte Polisario alla guerra limpia, che è attualmente l’unica resistenza che applica in pieno i principi della nonviolenza, credendo
fermamente che la via della liberazione dovesse essere intrapresa attraverso la legalità
internazionale e la via diplomatica.
Possiamo quindi riassumere dicendo che da 40 anni la popolazione Sahrawi continua
a subire gravi violazioni delle proprie libertà e diritti fondamentali: scomparse forzate,
esecuzioni sommarie o extragiudiziali, arresti arbitrari, torture, processi da tribunali militari, attentati alle libertà di associazione, di manifestazione, di espressione.
Da 40 anni, 160.000 Sahrawi vivono in campi dei rifugiati autogestiti nel sud algerino,
in attesa di poter esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione. Il clima ostile del
deserto rende la loro vita estremamente difficile. L’aiuto internazionale fornisce loro un
paniere alimentare - calcolato su bisogni d’emergenza - ma insufficiente a lungo termine. Così, malgrado i grandi sforzi dei Sahrawi stessi, la popolazione soffre di carenze e
malattie causate dalla situazione e vede i propri giovani crescere senza prospettive per il
futuro, malgrado il livello elevato della scolarizzazione.
Nel frattempo – in violazione della IV Convenzione di Ginevra - il Regno del Marocco
ha proceduto al trasferimento di una parte della sua popolazione nel territorio occupato
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del Sahara Occidentale, di cui sfrutta le ricchezze naturali a suo proprio profitto con la
complicità di imprese multinazionali.
Oggi, tenuto conto della rinuncia della Spagna ad assumere le proprie responsabilità di
potenza amministrante, il territorio non autonomo del Sahara Occidentale si trova sotto
la responsabilità diretta dell’ONU.
Eppure, dopo tutto ciò detto, stupisce la loro allegria, la disarmante limpidezza con la
quale cercano o accolgono un approccio nuovo, i sorrisi di cui non sono avari, gli sguardi
al tempo stesso apertamente ingenui e carichi di sofferenze troppo profonde per essere
raccontate. Tenacemente vivono in uno dei luoghi più inospitali del pianeta, dove la
terra non è generosa e non produce frutti per sviluppare una seppur minima economia
di autosussistenza. Ma le scuole sono molto frequentate e di buon livello, gli ospedali e i
dispensari dignitosi e con medici e operatori competenti: sono questi i frutti migliori di
una cooperazione dal basso, fatta di centinaia di municipalità di mezza Europa, di associazioni e ONG che collaborano con le professionalità locali, continuando a garantire
un vero e proprio sistema di welfare che regge le fragilità sociali presenti. Di questo c’è
ancora bisogno.
Appare però chiaro come oggi una più decisa azione presso le istituzioni nazionali e
internazionali, verso il mondo della politica, attraverso azioni di sensibilizzazione e di
lobbying, sia non più procrastinabile, ed è quanto chiedono alla nostra associazione e al
mondo intero: è tempo di una ‘road map’ per il popolo dei Sahrawi, per la ricerca di una
soluzione nel segno del diritto internazionale, che ponga fine alle violazioni dei diritti
umani nell’ultima colonia del XXI° secolo. Aprire la strada dell’autodeterminazione per
questo popolo non va solo nella direzione della ricerca della giustizia e dell’ottenimento della libertà, ma la spinta verso la stabilizzazione di questa area corrisponde a una
necessità che dovrebbe scuotere tutte le istituzioni internazionali, a partire dalla vicina
Europa.
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Titolo
40
Le sfide verso la libertà
Una ‘road map’ per il popolo sahrawi
di Marisa Rodano, componente assemblea ANSPS (Associazione nazionale di Solidarietà con il Popolo Sahrawi)
La puntuale, precisa, ricchissima ricostruzione storica delle vicende dell’Africa subsahariana che Tom Benetollo ha scritto nel 2004 e che viene adesso ripubblicata induce a interrogarsi sulla situazione e sulle prospettive che si profilano oggi per il popolo Sahrawi, a
più di cinquanta anni dalla risoluzione dell’ONU che sanciva il diritto del popolo Sahrawi
all’autodeterminazione; a quaranta anni dall’invasione del Sahara occidentale da parte
delle truppe marocchine, che costrinsero i Sahrawi a fuggire e a costruire la tendopoli di
Tindouf e dall’inizio della battaglia per l’autodeterminazione e per l’indipendenza; a venti anni dal “cessate il fuoco” indetto dall’ONU. E, oltretutto in un situazione resa incerta
dalla immatura scomparsa di Mohammed Bel Aziz, leader storico del Fronte Polisario.
Riusciranno - è il primo quesito che ci si deve porre - i Sahrawi a darsi rapidamente una
leadership condivisa?
Operazione tanto più urgente in un momento segnato da drammatiche convulsioni nel
Continente africano e nel Medio Oriente. Siamo di fronte, infatti, a una guerra aperta tra
diverse fazioni e con l’I.S. in Libia, in Siria, in Iraq, al confine tra Turchia e il Kurdistan; a
scontri armati nel Mali e in Nigeria; a un conflitto tuttora irrisolto tra Israele e Palestina.
Un’ondata migratoria senza precedenti (anche se non sembra, al momento, coinvolgere
L’Algeria) muove dall’Africa verso l’Europa. Passività, incertezze, divisioni caratterizzano
l’atteggiamento dell’Unione Europea nei confronti di tali fenomeni. Ne consegue, anche
se non è una novità, una grave disattenzione dei paesi europei e anche degli Stati Uniti
nei confronti della lotta del popolo Sahrawi. Sarebbe in primo luogo necessaria la continuazione della politica di Abdel Aziz diretta a privilegiare il negoziato rispetto alle spinte
verso la ripresa della lotta armata e alla crescente fuga dei giovani Sahrawi, che spesso
hanno studiato all’estero, verso l’Europa. Come ha scritto Omar Mih, «Pur tra molte
difficoltà, quello di Abdel Aziz è stato un messaggio di valore universale: quello della lotta
non violenta come metodo e pensiero per la definitiva soluzione del conflitto». La sua capacità di tener unito il popolo Sahrawi e i suoi dirigenti, di costruire, sia pur in esilio, uno
Stato, riconosciuto dall’Unione Africana, il suo esempio, la sua fortezza, la sua dignità,
la sua capacità diplomatica e la sua fiducia nel negoziato sono un lascito prezioso. Ma
è altrettanto indispensabile che il Segretario Generale dell’ONU continui nell’azione di
promuovere il negoziato tra la RASD e il Regno del Marocco per la fissazione di una data
per la celebrazione del referendum. Sempre più urgente appare altresì l’esigenza che l’ONU affidi alla Minurso il compito di vigilare sulle violazioni dei diritti che continuano nei
Territori Occupati e il potere di intervenire nei confronti del Regno del Marocco e degli
autori di tali violazioni, superando le persistenti opposizioni a tale mandato della Francia
e anche della Spagna. È infine importante che tutti gli amici del popolo Sahrawi, in Italia
e nel mondo continuino a sostenere con ogni mezzo la causa Sahrawi.
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a cura di
Arci nazionale
si ringrazia
Valentina Roversi
Tutte le foto sono di Giulio Di Meo
e fanno parte del libro Il deserto intorno
[email protected]
Progetto grafico e realizzazione
Claudia Ranzani
Stampa
CSR - Srl
Via di Salone 131/c - 00131 Roma
Copertina del quaderno realizzato dall’Arci nazionale 1999