jonas jonasson

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JONAS JONASSON
IL CENTENARIO CHE SALTÒ DALLA FINESTRA E
SCOMPARVE
Traduzione di Margherita Podestà Heir
Editing by: comablack
Nessuno ci sapeva stregare meglio di mio nonno materno quando, seduto sulla panchina di
legno e chino sul bastone, raccontava le sue storie masticando tabacco.
“Ma… è vero, nonno?” chiedevamo stupiti noi nipoti.
“Quelli che dicono soltanto la verità non sono degni di essere ascoltati,” rispondeva il
nonno.
Questo libro è dedicato a lui.
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Indice
CAPITOLO 1......................................................................................................................... 4
CAPITOLO 2......................................................................................................................... 5
CAPITOLO 3......................................................................................................................... 9
CAPITOLO 4....................................................................................................................... 17
CAPITOLO 5....................................................................................................................... 23
CAPITOLO 6....................................................................................................................... 25
CAPITOLO 7....................................................................................................................... 38
CAPITOLO 8....................................................................................................................... 45
CAPITOLO 9....................................................................................................................... 57
CAPITOLO 10..................................................................................................................... 61
CAPITOLO 11.....................................................................................................................66
CAPITOLO 12..................................................................................................................... 76
CAPITOLO 13..................................................................................................................... 83
CAPITOLO 14..................................................................................................................... 99
CAPITOLO 15................................................................................................................... 102
CAPITOLO 16................................................................................................................... 109
CAPITOLO 17................................................................................................................... 122
CAPITOLO 18................................................................................................................... 125
CAPITOLO 19................................................................................................................... 142
CAPITOLO 20................................................................................................................... 145
CAPITOLO 21................................................................................................................... 151
CAPITOLO 22................................................................................................................... 153
CAPITOLO 23................................................................................................................... 156
CAPITOLO 24................................................................................................................... 164
CAPITOLO 25................................................................................................................... 168
CAPITOLO 26................................................................................................................... 180
CAPITOLO 27................................................................................................................... 190
CAPITOLO 28................................................................................................................... 196
CAPITOLO 29................................................................................................................... 200
EPILOGO........................................................................................................................... 201
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CAPITOLO 1
Lunedì 2 maggio 2005
Di certo Allan Karlsson avrebbe potuto pensarci prima e, magari, comunicare agli interessati
la sua decisione. In effetti non aveva mai riflettuto troppo sulle cose. Ecco perché quell’idea
non ebbe neanche il tempo di fissarsi nella sua testa che già aveva aperto la finestra della
stanza al pianterreno della casa di riposo di Malmköping, nel Sörmland, per poi sgusciare
fuori e atterrare nell’aiuola sottostante.
La manovra richiedeva un certo fegato, dal momento che Allan compiva cent’anni proprio
quel giorno. Solo un’ora dopo nella sala comune della casa di riposo avrebbero avuto inizio
i festeggiamenti. Sarebbe stato presente persino il segretario comunale. E l’inviata del
giornale locale. E tutti gli ospiti dell’ospizio. E tutto il personale, capitanato dalla ringhiosa
e arcigna infermiera Alice.
Soltanto il festeggiato non aveva la benché minima intenzione di partecipare.
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CAPITOLO 2
Lunedì 2 maggio 2005
Ancora incerto sul da farsi, Allan Karlsson se ne stava seduto nell’aiuola di viole del
pensiero che correva lungo uno dei lati della casa di riposo. Indossava una giacca marrone e
pantaloni dello stesso colore, ai piedi un paio di pantofole sempre marroni.
Non si poteva dire che seguisse la moda, ma a quell’età si trattava senz’altro di un fatto
perdonabile. Stava fuggendo dalla sua festa di compleanno – evento di per sé straordinario,
dato che non capita a tutti di arrivare a cent’anni.
Allan stava meditando se tornare o meno a scavalcare la finestra per prendere scarpe e
cappello, ma quando si accorse che il portafoglio era al suo posto, nella tasca interna della
giacca, desistette. In più occasioni l’infermiera Alice aveva mostrato di possedere un certo
fiuto (indipendentemente da dove Allan nascondesse l’acquavite, per esempio, lei la trovava
sempre). E magari proprio in quel momento si stava aggirando per l’edificio già piena di
sospetti… Meglio sparire finché era in tempo, pensò Allan prima di abbandonare l’aiuola
sulle ginocchia malferme. Nel portafoglio, per quanto riuscisse a ricordare, aveva alcune
banconote da cento corone, i suoi risparmi. Bene! Sparire avrebbe comportato qualche
spesa.
Guardandosi alle spalle, lanciò un’occhiata in direzione dello stabile che fino a un attimo
prima aveva considerato la sua ultima dimora, dopodiché si disse che sarebbe morto da
qualche altra parte.
Con ai piedi le sue pantofole pisciose (quando urinano, gli uomini d’età avanzata raramente
riescono a raggiungere un punto che vada più in là delle proprie scarpe), il vecchio si
incamminò per la sua strada. Oltrepassò un parco e uno spiazzo all’interno del piccolo
centro abitato, normalmente silenzioso e tranquillo, dove a giorni alterni si teneva il
mercato. Dopo qualche centinaio di metri entrò nell’area che circondava la chiesetta
medievale, orgoglio della cittadina, per poi raggiungere una panchina posta nel bel mezzo
delle lapidi e riposarsi le ginocchia. La sacralità del luogo non era tale da impedire ad Allan
di starsene in pace sulla panchina. Ironia della sorte, scoprì di essere nato lo stesso giorno di
un certo Henning Algotsson, sepolto sotto la pietra tombale lì di fronte. La differenza
consisteva nel fatto che il povero Henning era spirato sessantun anni prima.
Se fosse stato il tipo, Allan si sarebbe chiesto il perché di una morte così prematura, a soli
trentanove anni, ma in realtà era uno che non si impicciava degli affari altrui, non quando
poteva farne a meno, cosa che accadeva quasi sempre.
Si mise invece a riflettere su un’altra questione: aveva sbagliato a pensare che l’unica
alternativa fosse finire i suoi giorni in quella casa di riposo. Benché avesse qualche
acciacco, sarebbe stato molto più istruttivo sfuggire alle grinfie dell’infermiera Alice che
stare lì in attesa di giacere lungo stecchito sotto due metri di terra.
A questo punto il festeggiato si alzò, e sfidando le ginocchia doloranti si congedò da
Henning Algotsson per riprendere la sua fuga improvvisata.
Attraversò il cimitero finché non si ritrovò davanti un muretto in pietra che gli sbarrava la
strada. Non era più alto di un metro, ma Allan aveva cent’anni e non era un campione di
salto. Al di là del muretto c’era la stazione dei pullman di Malmköping, e in quell’istante
Allan realizzò che le sue gambe lo stavano conducendo proprio lì. Una volta, molti anni
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prima, aveva attraversato l’Himalaya. Quella sì che era stata un’impresa! Immaginò di
trovarsi di fronte all’ultimo ostacolo e si concentrò a tal punto che il muretto rimpicciolì
davanti ai suoi occhi, fin quasi a scomparire. Individuato il punto più basso, a dispetto
dell’età e delle ginocchia, lo scavalcò. Raramente c’era ressa a Malmköping e quella
giornata di primavera non faceva eccezione. Non aveva ancora incontrato anima viva dal
momento in cui aveva preso la sua decisione. Anche la sala d’attesa della stazione era
mezzo deserta quando ci arrivò strascicando le pantofole. Al centro della stanza, l’una
contro l’altra, c’erano due file di panchine dotate di schienale. Tutti i sedili erano vuoti. Sul
lato destro della stanza c’erano due sportelli: uno era chiuso, mentre dietro l’altro sedeva un
tipo piccolo e magro con un paio di occhialetti tondi, capelli radi con la riga di lato e
l’uniforme. Quando Allan fece la sua apparizione, l’omino alzò lo sguardo dallo schermo
del computer con espressione afflitta. Forse gli pesava il caos pomeridiano, pensò Allan,
rendendosi conto di non essere l’unico viaggiatore nella sala.
In un angolo c’era un giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba
incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla schiena. Magari non
sapeva leggere, visto che continuava a scuotere la porta del gabinetto per disabili come se il
termine “Chiuso”, a caratteri neri su sfondo giallo fosforescente, non avesse per lui alcun
significato.
Finalmente il giovane si dedicò alla porta accanto, anche se il problema adesso era un altro:
non voleva separarsi da una grossa valigia grigia con le rotelle, ma purtroppo il gabinetto
non era grande abbastanza per entrambi. Allan arguì che il giovane avrebbe dovuto lasciare
il bagaglio all’esterno se intendeva dare sfogo ai suoi bisogni corporali, oppure spingere
dentro la valigia e rimanere fuori lui.
Tuttavia, concentrato com’era a muovere le sue povere gambe, non era poi così interessato
alle questioni del giovane. A piccoli passi si diresse verso l’omino dietro lo sportello, per
chiedere se ci fosse un mezzo di qualsiasi tipo in partenza per una qualunque destinazione
nei minuti successivi, e se c’era quanto costava.
L’omino aveva un’aria stanca. E doveva anche aver perso il filo del discorso, perché dopo
qualche secondo di riflessione chiese: “E verso quale meta è diretto il signore?” Con
rinnovato slancio, Allan gli ricordò che la scelta della destinazione era subordinata a: 1)
orario di partenza; 2) costo del biglietto.
L’omino rimase in silenzio qualche altro secondo, mentre studiava la tabella degli orari e
lasciava sedimentare le parole di Allan.
“Il pullman numero 202 parte per Strängnäs fra tre minuti. Le va bene?” Sì, ad Allan andava
bene. Così, fu informato che il veicolo sarebbe partito dalla piazzola lì di fronte e che la
cosa migliore sarebbe stata acquistare il biglietto dal conducente.
Allan si domandò cosa ci stesse a fare l’omino allo sportello se non per vendere biglietti, ma
non disse niente. Magari se lo domandava anche lui. Invece lo ringraziò, facendo il gesto di
sollevare il cappello che nella fretta aveva lasciato in stanza.
Si accomodò quindi su una panchina, sprofondando nei suoi pensieri: la dannata festa di
compleanno sarebbe iniziata alle tre e mancavano solo dodici minuti. In qualsiasi momento
avrebbero potuto bussare alla sua porta e da lì in poi sarebbe scoppiato il finimondo.
Il festeggiato rideva tra sé quando con la coda dell’occhio si accorse che qualcuno si stava
avvicinando. Era il giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba
incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla schiena. Si stava dirigendo
proprio verso di lui, trascinando la grossa valigia con le rotelle. Allan concluse che il rischio
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di dover conversare con il capellone era notevole, tuttavia la cosa avrebbe anche potuto
risultare interessante: si sarebbe fatto un’idea del modo di ragionare dei ragazzi d’oggi.
In effetti un dialogo ebbe luogo, e nemmeno così complesso. Il giovane, dopo essersi
fermato a qualche metro di distanza da Allan, sembrò studiarlo prima di dire: “Senti un po’.”
Allan rispose educatamente con un buongiorno e chiese in che modo potesse essergli
d’aiuto. Ecco. Il giovane voleva che gli tenesse d’occhio la valigia mentre andava al
gabinetto. O, stando alle sue parole: “Devo andare a cagare.” Allan rispose educatamente
che, nonostante fosse vecchio e malandato, la vista gli funzionava bene, pertanto non
reputava troppo impegnativo dare un’occhiata alla valigia. Detto questo, lo esortò a
espletare i propri bisogni con una certa celerità dal momento che lui era in attesa del
pullman.
Evidentemente il giovane non recepì le ultime parole, visto che si mosse a passi svelti verso
il gabinetto mentre Allan stava ancora parlando.
Il vecchio non era uno che si irritava con facilità, che ce ne fosse o meno motivo, dunque
non si irritò neanche davanti al rozzo comportamento del giovane. Perse però la buona
disposizione, cosa che avrebbe avuto parecchia importanza in vista di ciò che doveva
accadere di lì a poco.
Ciò che accadde fu che il pullman numero 202 fece la sua comparsa pochi secondi dopo che
il giovane si era richiuso alle spalle la porta del gabinetto. Allan diede un’occhiata prima al
pullman, poi alla valigia, poi di nuovo al pullman e poi ancora una volta alla valigia.
“A quanto pare ha le rotelle,” constatò. “E anche una cinghia per tirarla.” Così Allan si
sorprese a prendere – e qui lo si può ben dire – una decisione di capitale importanza.
Il conducente del pullman, premuroso e gentile, aiutò l’anziano signore a caricare la sua
grossa valigia.
Dopo averlo ringraziato, Allan estrasse il portafoglio dalla tasca interna della giacca. Il
conducente gli chiese se intendeva andare fino a Strängnäs, mentre Allan passava in
rassegna le proprie sostanze: seicentocinquanta corone svedesi in banconote, più qualche
moneta. Pensando che fosse il caso di tenere da conto i suoi pochi averi, mostrò al
conducente un biglietto da cinquanta corone e chiese: “Con questi fino a dove posso
arrivare?” Divertito, il conducente rispose che di solito le persone sapevano dove volevano
andare, non dove sarebbero potute arrivare con i soldi che avevano in tasca. In ogni modo,
dopo aver consultato la sua tabella, gli comunicò che con quarantotto corone poteva arrivare
fino alla stazione di Byringe.
Al vecchio la proposta parve buona. Ebbe il suo biglietto, nonché due corone di resto. Il
conducente sistemò la valigia appena rubata nel vano bagagli dietro la postazione di guida.
Allan andò a sedersi in prima fila sul lato destro. Da lì riusciva a vedere la sala d’attesa. La
porta del gabinetto era ancora chiusa quando il conducente del pullman, ingranata la marcia,
partì. Allan si augurò che il giovane avesse trascorso nel gabinetto un momento felice, vista
la sorpresa che lo attendeva.
Quel pomeriggio il pullman diretto a Strängnäs era tutt’altro che affollato. Sul fondo sedeva
una donna di mezz’età salita a Flen, al centro c’era una giovane madre che a Solberga aveva
sudato sette camicie per introdursi nel veicolo con i due figli, uno dei quali ancora in
carrozzina, mentre davanti c’era un uomo molto vecchio partito da Malmköping, che si
stava giusto chiedendo la ragione per cui aveva appena rubato una grossa valigia grigia
dotata di quattro rotelle. Forse perché non gli era costato niente? O forse perché il
proprietario era uno zotico e un villano? O, ancora, perché la valigia poteva contenere un
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paio di scarpe e, chissà mai, anche un cappello? O forse perché non aveva niente da
perdere? No, Allan non era in grado di darsi una spiegazione. Di tanto in tanto bisognava
prendersi qualche libertà – ecco quello che pensò prima di mettersi comodo.
Alle tre il pullman superò Björndammen. Allan si disse che fino a quel momento poteva
ritenersi decisamente soddisfatto della giornata. Chiuse gli occhi per schiacciare un pisolino.
Nello stesso istante l’infermiera Alice bussò alla porta della camera numero 1 della casa di
riposo di Malmköping. Più e più volte.
“Adesso basta, Allan. Il segretario comunale e tutti gli altri sono già arrivati. Mi senti? Ti sei
attaccato di nuovo alla bottiglia per caso? Ora vedi di uscire, Allan! Allan?” Più o meno
contemporaneamente, alla stazione di Malm-köping si apriva la porta di quello che si
sperava fosse un gabinetto funzionante, da cui il giovane uscì più leggero in tutti i sensi.
Aggiustandosi la cintura con una mano e lisciandosi i capelli con l’altra, fece qualche passo
verso il centro della sala d’attesa. Poi si fermò di colpo e, realizzato che tutti i sedili erano
vuoti, tornò a passarli in rassegna prima a destra e poi a sinistra.
A quel punto esclamò ad alta voce: “Ma che cazzo, brutto stronzo bastardo fottuto…”
Quindi proseguì: “Ti ammazzo, vecchiaccio di merda. Aspetta solo che ti metta le mani
addosso.”
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CAPITOLO 3
Lunedì 2 maggio 2005
Il 2 maggio, passate da poco le tre del pomeriggio, a Malm-köping svanì la quiete:
situazione che si sarebbe protratta per parecchi giorni. L’infermiera Alice, sfumata la rabbia
e assalita dall’inquietudine, tirò fuori il passepartout. Dal momento che Allan non aveva
fatto nulla per nascondere la sua fuga, fu immediatamente chiaro che il festeggiato se l’era
svignata dalla finestra. A giudicare dalle impronte, prima di dileguarsi era rimasto fermo per
un po’ in un punto dell’aiuola.
In virtù del suo ruolo, il segretario comunale si sentì in dovere di assumere il comando delle
operazioni. Ordinò ai presenti di dividersi in coppie e dare il via alle ricerche. Allan non
poteva essersi allontanato molto, indi per cui le squadre dovevano concentrarsi sui dintorni.
Una squadra fu inviata al parco, una al Monopolio di Stato per la vendita di alcolici
(l’infermiera Alice sapeva che ogni tanto Allan si smarriva là dentro), un’altra nei restanti
negozi di Storgatan e un’altra ancora al podere sulla collina. Il segretario comunale sarebbe
rimasto alla casa di riposo per badare agli altri vecchi e meditare sulle mosse successive.
Chiese a tutti coloro che avevano preso parte alle ricerche di essere discreti: non era
necessario pubblicizzare inutilmente l’accaduto. In tutto quel trambusto, il segretario
comunale non si rese però conto che una delle squadre appena costituite era formata da
un’inviata del giornale locale e dal suo fotografo.
La stazione dei pullman non rientrava nelle aree indicate dal segretario comunale.
Eppure una squadra investigativa si trovava anche lì: era composta da un solo elemento,
nella fattispecie un giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba
incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla schiena, che aveva passato
al setaccio ogni angolo della stazione. Visto che era risultato impossibile scovare sia il
vecchio sia la valigia, il giovane si diresse deciso verso l’omino dietro lo sportello ancora
aperto con l’intento di estorcergli informazioni sui piani di viaggio dell’anziano.
L’omino, palesemente stanco ma intenzionato a tenere alto l’orgoglio della categoria, spiegò
al giovane sbraitante che la privacy dei viaggiatori di quella stazione non era cosa su cui
scherzare. Aggiunse deciso che non aveva alcuna intenzione di fornire all’interessato le
informazioni che lui richiedeva con tanta insistenza.
Il giovane rimase in silenzio per un attimo, con l’aria di stare valutando le parole appena
sentite. Quindi si spostò sulla sinistra, piazzandosi davanti alla porta non troppo robusta
dell’ufficio. Senza curarsi di verificare se fosse chiusa a chiave o meno, prese lo slancio per
abbatterla con un calcio. L’impatto fu tale che schegge di legno si sparsero per ogni dove.
L’omino non ebbe neanche il tempo di alzare la cornetta del telefono che si ritrovò a
dimenare le gambe ad alcuni centimetri dal suolo, mentre il giovane lo teneva sollevato di
peso per le orecchie.
“Forse non saprò cosa è la privacy, ma so far parlare la gente,” disse il giovane mollando di
colpo la presa e facendo ricadere il malcapitato sulla sua sedia girevole.
Vedendo di non tralasciare alcun dettaglio, si mise dunque a spiegare ciò che intendeva fare
con i suoi attributi in caso di disobbedienza. La descrizione risultò così vivida che l’omino
decise su due piedi di spifferare tutto quello che sapeva, e cioè che probabilmente il vecchio
era salito sul pullman diretto a Strängnäs. Se poi avesse con sé una valigia, lui non era in
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grado di dirlo, dal momento che non era tipo da spiare i viaggiatori.
Detto questo, l’omino rimase in silenzio in attesa di una qualche reazione da parte del
giovane, e subito arrivò alla conclusione che sarebbe stato meglio fornire ulteriori dettagli.
Comunicò quindi che lungo il tragitto tra Malmköping e Strängnäs c’erano dodici fermate e
il vecchio sarebbe potuto scendere a una qualsiasi di queste. L’unico in grado di saperlo era
il conducente del pullman, che secondo la tabella degli orari sarebbe rientrato a
Malmköping alle 19,10 della sera stessa per la corsa di ritorno per Flen.
Il giovane si sedette accanto al malcapitato con le orecchie doloranti.
“Devo riflettere,” disse.
E così fece. L’omino avrebbe di certo scucito anche il numero di cellulare del conducente, e
l’avrebbe chiamato seduta stante per dirgli che la valigia che il vecchio si portava appresso
era rubata. Il rischio, però, era che il conducente si mettesse in contatto con la polizia, cosa
che il giovane non voleva nella maniera più assoluta. E poi, a ben pensarci, non c’era alcuna
fretta: il vecchio sembrava davvero in là con gli anni, e con quel bagaglio sarebbe stato
costretto a spostarsi in treno, autobus o taxi se intendeva proseguire il viaggio oltre la
stazione di Strängnäs. Di conseguenza, avrebbe lasciato parecchie tracce del suo passaggio:
insomma, il giovane avrebbe senz’altro trovato qualcuno che, sollevato di peso per le
orecchie, gli indicasse dove si era diretto il vecchio. Il giovane riponeva grande fiducia nella
propria capacità di persuadere la gente a raccontargli ciò che sapeva.
Finito di riflettere, stabilì di aspettare il pullman e affrontare il conducente senza eccessiva
condiscendenza.
Presa questa decisione, si rialzò informando l’omino di cosa sarebbe successo a lui, a sua
moglie, ai suoi figli e alla sua casa se avesse fatto menzione dell’accaduto alla polizia o a
qualsiasi altra persona.
L’omino non aveva né moglie né figli, ma desiderava ardentemente conservare in buone
condizioni sia le orecchie sia gli attributi. Quindi giurò sull’onore delle Ferrovie che non
avrebbe rivelato nulla a nessuno.
Mantenne la promessa fino al giorno dopo.
Le squadre mandate in perlustrazione rientrarono alla casa di riposo per riferire quanto
avevano scoperto. Cioè niente. Il segretario comunale, che fosse stato per lui non avrebbe
mai chiamato la polizia, stava ancora rimuginando sul da farsi quando l’inviata del giornale
locale gli chiese: “Adesso cosa pensa di fare, segretario comunale?” Questi rimase muto per
qualche secondo, poi disse: “Interpellare la polizia, chiaro.” Dio, come odiava la libertà di
stampa.
Allan fu svegliato dal conducente che, scuotendolo con garbo, lo avvisò che erano arrivati
alla stazione di Byringe. Un attimo dopo stava scaricando la valigia dalla porta anteriore,
con Allan alle calcagna.
Il conducente chiese se il signore se la sarebbe cavata da solo, domanda a cui l’interessato
rispose che non doveva preoccuparsi. Dopo averlo ringraziato, Allan lo salutò con un gesto
della mano e il pullman riprese la statale 55 verso Strängnäs.
Il sole del pomeriggio trapelava attraverso gli alti abeti. Allan cominciava a sentire freddo,
con addosso soltanto la giacchetta leggera e le pantofole. E di Byringe nessuna traccia, a
parte la stazione. C’erano boschi, boschi e nient’altro che boschi. E, sulla destra, una
stradina sterrata.
Allan pensò che nella valigia della quale, in preda alla fretta e alla smania di combinarne
una delle sue, si era appropriato potevano esserci dei vestiti più pesanti.
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Ma era chiusa con un lucchetto, e senza un cacciavite o qualsiasi altro attrezzo era
impossibile forzarlo. Doveva muoversi o sarebbe morto di freddo lungo la strada.
L’esperienza gli diceva che tanto non ci sarebbe riuscito.
Tirandola per la cinghia posizionata su uno dei due lati corti, la valigia con le rotelle si mise
in movimento. Quindi, con passi strascicati, Allan imboccò la stradina sterrata che si
addentrava nel bosco. Dietro di lui, la valigia avanzava sobbalzando a destra e a sinistra sul
pietriccio.
Dopo qualche centinaio di metri Allan giunse a quella che, come poté intuire, era la stazione
di Byringe: un edificio fatiscente e abbandonato davanti a dei binari ancora più fatiscenti e
abbandonati.
Per quanto Allan fosse uno splendido centenario, erano avvenute troppe cose in troppo poco
tempo. Si sedette sulla valigia intenzionato a raccogliere forze e pensieri: alla sua sinistra si
ergeva l’edificio a due piani della stazione, cadente e malmesso. Le finestre al pianterreno
erano sbarrate da tavole di legno fissate con dei chiodi. Sulla destra, i binari in disuso si
allontanavano a perdita d’occhio, rigidi e dritti come fusi, sprofondando nel bosco. La
natura non era ancora riuscita a inghiottirli del tutto, ma era solo questione di tempo.
Il marciapiede in legno era ancora più malmesso. Lungo l’asse più esterna si intravedeva
ancora la scritta: “Non attraversare i binari”. Non c’era nessun pericolo a farlo adesso, pensò
Allan. Ma quale persona sana di mente si sarebbe mai avventurata su quel marciapiede?
La risposta non tardò ad arrivare, dato che proprio in quel momento si aprì la porta della
stazione e un uomo sui settant’anni con berretto, camicia a quadri e gilet di pelle nera, occhi
castani e barbetta grigia, uscì dall’edificio sui suoi robusti stivali. Prima di concentrarsi sul
vecchio che gli stava davanti, verificò che le assi non gli cedessero sotto i piedi.
Fermo al centro del marciapiede, l’uomo dal berretto esibiva un atteggiamento vagamente
ostile che però abbandonò immediatamente, forse constatando la scarsa o nulla pericolosità
del poveretto che aveva osato invadere il suo territorio.
Allan, seduto sulla valigia appena rubata, non sapeva cosa dire e non aveva neanche voglia
di parlare, ma prese a sbirciare insistentemente l’uomo dal berretto in attesa della sua prima
mossa. Che giunse quasi subito, benché molto meno minacciosa di quanto si era annunciata.
“Chi sei e cosa ci fai sul mio marciapiede?” domandò l’uomo dal berretto.
Allan non rispose: non riusciva a stabilire se aveva davanti un amico o un nemico.
Pensò che comunque sarebbe stato saggio non entrare in rotta di collisione con l’unica
persona in grado di ricoverarlo al caldo prima del gelo della sera. Per questo decise di
raccontare le cose esattamente come stavano.
Dichiarò dunque di chiamarsi Allan, di avere compiuto cent’anni proprio quel giorno, di non
passarsela male per la sua età – tanto da essere fuggito dalla casa di riposo e aver rubato una
valigia a un giovane di certo non entusiasta della cosa –, di avere le ginocchia indolenzite e
di desiderare vivamente un po’ di riposo.
Finita l’esposizione dei fatti rimase in silenzio e, sempre seduto sulla valigia, aspettò il
responso.
“Accidenti,” disse l’uomo dal berretto scoppiando a ridere. “Un ladro!” “Un vecchio ladro,”
replicò Allan serio.
Tenendo lo sguardo fisso sul marciapiede, l’uomo dal berretto si diresse verso Allan per
osservarlo più da vicino.
“Hai davvero cent’anni?” domandò. “Allora avrai fame.” Allan non capì la logica del
ragionamento, però di fame ne aveva. Chiese allora cosa proponesse il menù e se fosse
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possibile includere un bicchierino.
L’uomo dal berretto si presentò come Julius Jonsson e lo aiutò ad alzarsi annunciando che
alla valigia ci avrebbe pensato lui, che per cena era previsto arrosto d’alce, sempre che fosse
di suo gradimento, e che per nulla al mondo sarebbe mancato un goccetto.
Allan arrancò sul marciapiede. Fu il dolore a confermargli che era vivo.
Julius Jonsson non parlava con nessuno da molti anni, pertanto lo sconosciuto munito di
valigia fu il benvenuto. Un cicchetto per un ginocchio e uno per l’altro, seguiti da un paio
per la schiena e la nuca e da un altro ancora per stuzzicare l’appetito, resero l’atmosfera
inizialmente fredda assai calorosa. Alla domanda di Allan su come campasse per vivere,
Julius rispose con una lunga storia.
Era nato più a nord, a Strombacka, non lontano da Hudiksvall, unico figlio della coppia di
contadini Anders ed Elvina Jonsson. Aveva lavorato come garzone nel podere di famiglia,
ricevendo una quotidiana dose di botte dal padre che lo considerava un fannullone. L’anno
in cui compì venticinque anni, la madre morì di cancro. Julius ne soffrì molto. Poco dopo il
padre finì inghiottito da una palude nel tentativo di salvare una mucca. Anche in questo caso
Julius soffrì molto, essendo parecchio legato all’animale.
Il giovane Julius non era tagliato per fare il contadino (il padre aveva dunque ragione al
riguardo), così vendette tutto a eccezione di alcuni ettari di bosco che a suo avviso gli
sarebbero tornati utili da vecchio.
Si trasferì a Stoccolma, dove in due anni riuscì a sperperare l’intero patrimonio prima di
tornare a vivere al paesello.
Con un certo zelo partecipò a una gara d’appalto per la consegna di cinquemila pali della
luce per la Hudiksvallstraktens Elektriska. Dato che non nutriva grande interesse per dettagli
quali il pagamento dei contributi ai dipendenti e delle imposte in genere, Julius vinse la
gara. Con l’aiuto di una decina di rifugiati ungheresi riuscì a consegnare in tempo i pali
della luce, in cambio di più soldi di quanti non riuscisse a immaginare.
Le cose erano andate lisce, ma Julius era stato costretto a una piccola truffa poiché gli alberi,
al momento dell’utilizzo, non erano cresciuti a sufficienza. Fu per questo che i pali
risultarono più corti di circa un metro, ma nessuno se ne sarebbe accorto se non fosse stato
che tutti i contadini della zona si erano appena procurati una trebbiatrice nuova.
In men che non si dica la Hudiksvallstraktens Elektriska piantò i pali a destra e a manca
lungo i campi e i prati del paese, e quando arrivò il giorno della trebbiatura in un’unica
mattinata furono tranciati i fili della luce in ventisei punti diversi da ventidue trebbiatrici
diverse, tutte nuove di zecca. Una parte del villaggio di Hälsingland rimase per settimane
senza corrente elettrica, la trebbiatura si bloccò e le mungitrici smisero di funzionare. Non
molto tempo dopo si scatenò la collera dei contadini, prima contro la Hudiksvallstraktens
Elektriska, quindi contro il giovane Julius.
“Non si può certo dire che si siano dimostrati tolleranti. Mi sono dovuto nascondere per
sette mesi all’albergo di Sundsvall, senza più il becco di un quattrino. Un altro goccetto?”
chiese Julius.
Allan accettò. L’arrosto d’alce era stato accompagnato dalla giusta quantità di birra, e
adesso si sentiva tanto bene da aver quasi paura di morire.
Julius proseguì con il suo racconto. Dopo che un giorno era stato sul punto di essere
investito da un trattore (guidato da un contadino dallo sguardo omicida) nel centro di
Sundsvall, capì che il paese non avrebbe dimenticato a breve il suo piccolo errore, così
decise di trasferirsi a Mariefred, dove visse di furtarelli fino a quando, stanco della vita
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cittadina, non scovò la stazione abbandonata di Byringe, che acquistò con le
venticinquemila corone svedesi trovate nella cassaforte della locanda di Gripsholm. E
adesso viveva lì, principalmente di assistenza sociale, caccia illegale nelle abetaie e
produzione e distribuzione di acquavite clandestina; in più, rivendeva oggetti di proprietà
altrui. Nel circondario non godeva di grande popolarità, riferì Julius. Allan rispose che era
abbastanza comprensibile.
Quando Julius propose un ultimo bicchierino “come des-sert”, Allan disse di aver sempre
avuto un debole per quel tipo di dessert, ma prima doveva assolutamente fare visita a un
certo posticino, qualora una tale comodità fosse stata disponibile in quella dimora. Dopo
essersi alzato e aver acceso il lampadario – stava cominciando a fare buio – Julius gli indicò
un punto dicendo che c’era un gabinetto sulla destra, promettendo inoltre dell’acquavite
appena decantata allorché Allan avesse concluso.
Allan trovò il bagno laddove gli era stato indicato. Si mise in posizione per urinare e come
sempre le gocce non arrivarono tutte a destinazione: alcune gli atterrarono morbidamente
sulle pantofole.
A un certo punto, a metà dell’operazione, Allan sentì un rumore. Il suo primo pensiero,
bisogna ammetterlo, fu che Julius stesse trafficando con la valigia rubata. Ma poi il rumore
svanì. Qualcuno stava salendo le scale.
Allan realizzò che esisteva il serio pericolo che i passi appartenessero a un giovane dalla
corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con
la scritta “Never Again” sulla schiena. E se davvero fosse stato lui, non c’era da scherzare.
Il pullman proveniente da Strängnäs arrivò alla stazione di Malmköping tre minuti prima
dell’orario previsto. Il veicolo era vuoto, e dopo l’ultima fermata il conducente aveva
schiacciato l’acceleratore più del solito per concedersi una sigaretta prima di riprendere la
corsa per Flen.
Non aveva neanche tirato la prima boccata che gli apparve davanti un giovane dalla
corporatura esile, i capelli lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con
la scritta “Never Again” sulla schiena. O meglio: il conducente non aveva ancora letto
quelle parole, però c’erano.
“Deve andare in direzione di Flen?” Pose la domanda con fare incerto, perché in quel
giovane c’era qualcosa che non lo convinceva.
“Non vado a Flen. E neanche tu,” fu la risposta.
Aspettare quattro ore il ritorno del pullman era stato decisamente troppo per la sua pazienza.
Dopo due ore era arrivato alla conclusione che, se si fosse impadronito di un’auto, avrebbe
potuto raggiungere il pullman molto prima di Strängnäs. E come se non bastasse la cittadina
era stata invasa dalle volanti della polizia. Da un momento all’altro sarebbero arrivate alla
stazione, e gli agenti avrebbero interrogato l’omino allo sportello chiedendogli perché
appariva così terrorizzato e come mai la porta dell’ufficio era stata sfondata.
Comunque, il giovane non capiva il motivo di tutta quella polizia. Il capo della Never Again
aveva scelto Malmköping come luogo della transazione per tre motivi: primo, la vicinanza a
Stoccolma; secondo, i collegamenti relativamente buoni; terzo – e più importante –, il
braccio della legge non era abbastanza lungo da arrivare fin lì. In altre parole, a
Malmköping non c’erano sbirri.
O, più precisamente, non avrebbero dovuti esserci, mentre in realtà pullulavano! Il giovane
aveva già avvistato due volanti e quattro piedipiatti – per quanto lo riguardava, un tipico
assembramento di rappresentanti della legge.
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In un primo momento aveva creduto che lo stessero cercando, il che avrebbe dovuto
significare che l’omino aveva spifferato tutto, cosa che il giovane era però in grado di
confutare decisamente. Nell’attesa non aveva fatto altro che tenerlo d’occhio, ridurgli in
pezzi il telefono e cercare di rimettere insieme la porta dell’ufficio.
Resosi conto che nel pullman appena arrivato non c’erano passeggeri, il giovane decise di
rapire il conducente e appropriarsi del veicolo.
Gli bastarono venti secondi per convincere il conducente a fare inversione e dirigersi di
nuovo verso nord. Quasi un record personale, pensò il giovane accomodandosi sul sedile
che aveva da poco ospitato il vecchio.
Il conducente tremava dalla paura, ma riuscì a superare il peggio fumando una sigaretta
dall’effetto calmante. Era vietato fumare a bordo, ma l’unica persona a cui doveva rendere
conto sedeva di traverso dietro di lui ed era un giovane dalla corporatura esile, i capelli
lunghi, biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again”
sulla schiena.
Durante il tragitto il giovane si informò sulla strada presa dal vecchio ladro di valigie. Il
conducente rispose che il tipo era sceso alla fermata della stazione di Byringe, ma che si era
trattato di un puro caso. Gli raccontò dello scambio di battute e del biglietto acquistato con
quarantotto corone.
Della stazione di Byringe il conducente non sapeva molto, se non che capitava di rado che
qualcuno scendesse o salisse a quella fermata. Che secondo lui nel bosco c’era una stazione
ferroviaria in disuso, e che la cittadina di Byringe si trovava nelle vicinanze. Più lontano di
così il vecchio non sarebbe riuscito ad arrivare, immaginava il conducente. Era vecchio,
appunto, e la valigia pesante nonostante le rotelle.
Il giovane si tranquillizzò. Aveva evitato di telefonare al Capo a Stoccolma, essendo una
delle poche persone capaci di terrorizzare la gente più di lui, anche soltanto a parole. Il
giovane sussultò al pensiero di quello che avrebbe detto il Capo se avesse saputo che la
valigia era scomparsa. Gliel’avrebbe riferito a problema risolto. Ora che sapeva che il
vecchio non si era spinto fino a Strängnäs, la valigia sarebbe tornata in suo possesso più in
fretta del previsto.
“È laggiù,” disse il conducente. “Ecco la fermata della stazione di Byringe.” Rallentò
l’andatura e accostò. Era giunto il suo momento?
No, come si chiarì in seguito. Tuttavia il suo cellulare andò incontro a una morte precoce
sotto il tacco dello stivale del rapitore. Per non parlare della raffica di promesse di morte
dirette ai membri della sua famiglia che il giovane gli rivolse, qualora gli fosse venuto in
mente di contattare la polizia anziché fare di nuovo inversione e proseguire il viaggio verso
Flen.
Una volta sceso, il giovane lasciò che pullman e conducente riprendessero il tragitto. Il
poveretto era così sconvolto che non osò fare inversione di marcia prima di arrivare a
Strängnäs, parcheggiare in mezzo alla strada, entrare in stato di choc nel bar dell’Albergo
Delia e trangugiare in rapida sequenza quattro bicchieri di whisky. Quindi scoppiò in
lacrime davanti al barista sgomento, che dopo altri due whisky gli consentì l’uso del
telefono. A quel punto il pianto riprese con maggiore intensità e il conducente chiamò la sua
compagna.
Nella ghiaia, il giovane individuò delle tracce che indicavano il passaggio della valigia con
le rotelle. La situazione si sarebbe chiarita nel giro di poco tempo. Meglio così, visto che
stava cominciando a fare buio.
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A volte gli sarebbe piaciuto poter pianificare meglio le cose: aveva appena realizzato di
trovarsi in mezzo a boschi avvolti dalle tenebre, e che di lì a poco l’oscurità sarebbe stata
totale. E allora cosa avrebbe fatto?
Le sue speculazioni si interruppero all’improvviso alla vista di un edificio fatiscente, in
parte sbarrato con delle tavole di legno, posto alla sommità della salita che aveva appena
superato. Quando qualcuno accese una luce al piano superiore, mormorò: “Ti ho trovato,
vecchiaccio.” Allan concluse in anticipo quello che stava facendo, quindi aprì la porta del
gabinetto con l’intenzione di capire ciò che stava succedendo in cucina. Ebbe
immediatamente la temuta conferma: riconobbe la voce del giovane, che inveiva contro
Julius nel tentativo di indurlo a rivelargli dove fosse “l’altro vecchiaccio di merda”.
Si avvicinò furtivamente alla porta della cucina, silenzioso nelle sue soffici pantofole. Il
giovane aveva afferrato le orecchie di Julius con la stessa brutalità usata con l’omino di
Malmköping. Mentre strapazzava il poveraccio, continuava a interrogarlo su dove diavolo
fosse finito Allan. Il giovane avrebbe potuto accontentarsi di aver ritrovato la valigia, per
terra al centro della stanza. Il volto di Julius era un’unica smorfia di dolore, ma non dava
segni di voler rispondere. Allan pensò che da qualche parte ci dovesse essere del materiale
adatto a tramortirlo, così ispezionò i dintorni. Tra il ciarpame trovò una quantità di strumenti
papabili: un piede di porco, un’asse, una bomboletta di insetticida spray e una confezione di
veleno per topi. Inizialmente fu sedotto dall’idea del veleno, ma non gli venne in mente
nessun modo per somministrarne al giovane un cucchiaio o due. D’altro canto il piede di
porco era troppo pesante per lui, e l’insetticida… No, meglio l’asse.
Afferrata per bene l’arma e con passo incredibilmente veloce date le sue condizioni, si
piazzò alle spalle della vittima.
Il giovane doveva aver intuito la sua presenza, perché proprio in quel momento lasciò la
presa su Julius e si voltò.
L’asse lo centrò in piena fronte. Rimase fermo con lo sguardo fisso per un secondo, prima di
cadere all’indietro battendo la testa proprio sullo spigolo del tavolo.
Niente sangue, nessun gemito, niente. Era lungo disteso per terra, con gli occhi chiusi.
“Bel colpo,” disse Julius.
“Grazie,” replicò Allan. “Che fine ha fatto il dessert che mi avevi promesso?” Allan e Julius
si sedettero a tavola, con il capellone che dormiva ai loro piedi. Versata l’acquavite, Julius
sollevò il bicchiere per un brindisi.
“Sììì!” esclamò Julius dopo averne ingollato il contenuto. “Immagino che quello sia il
proprietario della valigia?” La domanda era più che altro una constatazione. Allan capì che
era arrivato il momento di fornire a Julius qualche altro particolare.
Non che ci fosse più di tanto da spiegare. La maggior parte delle cose avvenute nel corso
della giornata erano difficilmente comprensibili. Comunque ripeté il racconto della fuga
dalla casa di riposo, e proseguì con il furto casuale della valigia alla stazione di Malmköping
e la segreta paura al pensiero che il giovane, che ora giaceva svenuto a terra, avrebbe potuto
raggiungerlo. Poi espresse le scuse più sincere a Julius per le sue orecchie rosse e doloranti.
Lui quasi si indignò, replicando che Allan non doveva affatto scusarsi: finalmente nella sua
vita c’era un po’ di movimento.
Ora Julius era di nuovo in forma, tanto che suggerì di dare un’occhiata al contenuto della
valigia. Quando Allan sottolineò che era chiusa con un lucchetto, Julius scoppiò in una
risata.
“Da quando un lucchetto costituisce un impedimento per Julius Jonsson?” commentò.
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Ma ogni cosa a suo tempo, aggiunse. Prima bisognava eliminare il problema che giaceva sul
pavimento. Se il giovane si fosse svegliato con l’intenzione di portare a termine quanto
stava facendo prima di crollare, non sarebbe stato piacevole.
Allan propose di legarlo a un albero vicino alla stazione, ma Julius ribatté che se al risveglio
il giovane si fosse messo a urlare lo avrebbero sentito fino in paese, dove abitavano una
manciata di famiglie che avevano buoni motivi per prendersela con lui.
L’idea di Julius era migliore: all’interno della cucina c’era una cella frigorifera dove
conservava la refurtiva e i pezzi d’alce. Al momento la stanza era vuota e non refrigerata.
Julius non raffreddava la stanza inutilmente, dato che l’impianto consumava quantità enormi
di elettricità (a dire il vero Julius si era allacciato illegalmente alla rete elettrica: non era
certo lui a pagare la bolletta, ma bisognava rubare la corrente con intelligenza se si voleva
continuare a godere del servizio).
Dopo aver ispezionato il locale Allan lo reputò una prigione perfetta, senza comodità
eccessive. La stanza, di due metri per tre, era anche troppo rispetto a ciò che si sarebbe
meritato il giovane, ma non sempre è il caso di tormentare la gente più del dovuto.
I due vecchi trascinarono il giovane dentro la cella. Il tipo emise un gemito quando lo
misero a sedere sulla cassa rovesciata posta in un angolo, con le spalle appoggiate alla
parete. A quanto pareva stava per riprendere i sensi. Meglio uscire e chiudere la porta a
chiave.
Detto fatto. A quel punto Julius sollevò la valigia sul tavolo della cucina, e dopo aver dato
un’occhiata al lucchetto pulì per bene la forchetta con la quale aveva appena mangiato
l’arrosto d’alce con patate e si mise ad armeggiarci intorno. Poi invitò Allan ad aprire la
valigia, visto che era stato lui a rubarla.
“Tutto ciò che è mio è tuo,” replicò Allan. “Dividiamo il bottino in parti uguali, ma se
dentro ci sono un paio di scarpe della mia misura le prendo io.” Quindi l’aprì.
“Cazzo,” disse Allan.
“Cazzo,” disse Julius.
“Fatemi uscire!” si sentì urlare dalla cella frigorifera.
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CAPITOLO 4
1905-1929
Allan Emmanuel Karlsson era nato il 2 maggio 1905. Il giorno precedente sua madre aveva
partecipato al primo corteo del 1° maggio di Flen, a sostegno del diritto di voto alle donne,
delle otto ore lavorative e di altri obiettivi irraggiungibili. Il lato positivo della faccenda fu
che lì le cominciarono le doglie, e passata da poco la mezzanotte la donna partorì il suo
primo e unico figlio. Il parto ebbe luogo nella fattoria di Yxhult con l’aiuto della vicina, che
pur non possedendo un particolare talento come levatrice godeva di una certa reputazione
avendo, all’età di nove anni, fatto la riverenza a Carlo XIV che a suo tempo era stato amico
di Napoleone Bonaparte. A difesa della vicina bisogna altresì dire che il bambino che aveva
aiutato a mettere al mondo aveva poi raggiunto l’età adulta, superandola con un discreto
margine.
Il padre di Allan Karlsson era di carattere premuroso e collerico. Premuroso con la famiglia,
collerico nei confronti dell’ordine costituito in generale e di coloro che potevano a suo
avviso rappresentarlo. Non era ben visto dalla buona società locale, soprattutto dopo la volta
in cui, sulla piazza di Flen, si era messo a sostenere l’utilità dei contraccettivi. Ciò che ne
guadagnò furono dieci corone di multa e l’impossibilità di preoccuparsi di nuovo
dell’argomento, dato che, per la vergogna, da lì in poi la madre di Allan gli vietò l’accesso al
talamo. Allan, che all’epoca aveva sette anni, chiese alla madre una spiegazione più precisa
del perché il letto del padre fosse stato trasferito nella legnaia vicino alla cucina, ma l’unica
risposta che ricevette fu di non fare troppe domande se non voleva un bel ceffone. E dal
momento che, come tutti i bambini di tutte le epoche ed età, Allan cercava di scansare le
botte, lasciò cadere la questione.
Da quel giorno il padre apparve sempre più raramente. Di giorno lavorava alla ferrovia, la
sera discuteva di socialismo un po’ dappertutto, e come poi passasse la notte per il figlio
rimase sempre un mistero.
Comunque, non venne mai meno alle sue responsabilità. La maggior parte dello stipendio
veniva consegnata settimanalmente alla moglie, perlomeno fino al giorno in cui non fu
licenziato in tronco: si era scagliato contro un passeggero che aveva fatto in tempo a dirgli
di essere diretto a Stoccolma, per presentare i propri omaggi al re a Palazzo Reale insieme a
migliaia d’altre persone, e a mostrargli quindi di essere pronto a combattere per lui.
“Combatta con me, per cominciare,” aveva replicato il padre di Allan sferrandogli un destro
così forte che l’uomo era finito a terra.
In seguito al congedo immediato che seguì, il padre di Allan non fu più in grado di
mantenere la famiglia. La fama che si era fatto, di persona violenta e promotore dell’uso dei
contraccettivi, gli rese impossibile trovare un altro lavoro. Non restava che attendere la
rivoluzione, o meglio cercare di affrettarla visto che le cose andavano così dannatamente a
rilento. Il padre di Allan era interessato soltanto a raggiungere il suo scopo: il socialismo
svedese necessitava di un modello di riferimento internazionale.
Solamente in questo modo il processo avrebbe subito un’accelerazione e il grossista
Gustavsson e i suoi pari avrebbero cominciato a sudare freddo.
Così, fatte le valigie, se ne andò in Russia a rovesciare lo zar. La madre di Allan, già privata
dello stipendio delle Ferrovie, si trovò in condizione di grande bisogno dopo che il marito
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non solo ebbe lasciato la zona, ma anche il paese.
Poiché il capofamiglia era sparito, la madre di Allan e Allan stesso, appena decenne,
capirono che andava escogitato qualcosa per sostenere l’economia familiare. La madre fece
abbattere quattordici file di betulle alla fattoria, che poi ridusse in legna da ardere, mentre
Allan riuscì a ottenere un lavoro miseramente retribuito come fattorino alla filiale di Flen
della Nitroglycerin AB.
Dalle lettere che regolarmente giungevano da San Pietroburgo (che presto si sarebbe
chiamata Pietrogrado), la madre di Allan poté constatare con crescente stupore che in suo
marito la convinzione che il socialismo fosse una benedizione cominciava a vacillare.
Nelle missive, il marito parlava spesso di amici e conoscenti che facevano parte
dell’establishment politico di Pietrogrado. Colui che veniva citato con più frequenza era un
certo Carl. Un nome non esattamente russo, pareva ad Allan, tanto più che suo padre lo
chiamava Fabbe, perlomeno nelle lettere.
Secondo il padre, la tesi di Fabbe si basava sul presupposto che la gente non sapeva cosa
fosse meglio per lei, pertanto necessitava di qualcuno che le indicasse la direzione. Ecco
perché l’autocrazia era preferibile alla democrazia, almeno finché l’assetto della società
garantito dal livello culturale e dal senso di responsabilità della nazione avesse consentito a
tale autocrazia di agire. Pensa, per esempio, che sette bolscevichi su dieci non sono in grado
di leggere, aveva detto Fabbe sogghignando.
Possiamo forse lasciare il potere nelle mani di una massa di analfabeti?
Nelle lettere spedite alla famiglia, il padre di Allan difendeva tuttavia i bolscevichi al
riguardo, dal momento che Allan e la madre non potevano avere idea di cosa fosse l’alfabeto
russo. Conoscendolo, scriveva, non c’era davvero da stupirsi che la gente fosse analfabeta!
Peggio, invece, era il modo in cui si comportavano: erano sporchi e bevevano vodka, come
in Svezia gli operai che costruivano binari ferroviari lungo tutto il Sörmland. Il padre di
Allan si era sempre chiesto come i binari potessero essere così dritti vista la quantità di alcol
ingurgitata dagli operai, allarmandosi ogni volta che cambiavano direzione.
Con i bolscevichi era lo stesso. Fabbe sosteneva che avrebbero finito per uccidersi a
vicenda, finché non ne fosse rimasto uno soltanto a decidere. A quel punto meglio
appoggiarsi allo zar Nicola, un brav’uomo con la testa sulle spalle.
Fabbe sapeva di cosa stava parlando, avendo incontrato lo zar più di una volta.
Riteneva che Nicola II fosse davvero un uomo di buon cuore. Certo, era stato sfortunato, ma
la iella non sarebbe durata in eterno. La causa della sua malasorte erano stati i cattivi
raccolti e la rivolta dei bolscevichi. E ora, solo perché stava cominciando a mobilitarsi, ci si
erano messi anche i tedeschi. Eppure lo zar lo faceva unicamente a scopo di pace. Di sicuro
non era stato lui a liquidare l’arciduca e sua moglie a Sarajevo. O no?
Ecco come la pensava Fabbe, chiunque egli fosse. Non si sa come, era riuscito a coinvolgere
nei suoi ragionamenti il padre di Allan, che provava una simpatia istintiva per la sfortuna
dello zar. Prima o poi la ruota doveva girare, sia per gli zar russi sia per i comuni mortali
della zona di Flen.
Denaro dalla Russia il padre non ne mandò mai, ma una volta, dopo un paio d’anni dalla sua
partenza, arrivò un pacchetto con un uovo di Pasqua ricoperto di smalto vinto al gioco a
questo suo amico russo, che oltre a bere, discutere e giocare a carte pareva non facesse altro
che fabbricare uova di quel tipo.
Il padre aveva inviato l’uovo di Fabbe in dono alla sua “cara moglie”, la quale si infuriò
commentando che quel maledetto mascalzone avrebbe potuto inviarne uno vero, di uovo,
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così da sfamare la famiglia. Fu sul punto di buttare il regalo fuori dalla finestra, ma alla fine
cambiò idea. Magari il grossista Gustavsson era disposto a scucire qualche soldo: cercava
sempre di risultare stravagante, e stravagante quell’uovo lo era davvero, a detta della madre
di Allan.
Rimase quindi sorpresa quando, due giorni dopo, Gustavsson le offrì diciotto corone per
averlo. Sotto forma di cambiali, ma era meglio di niente.
Da quel momento in poi la madre di Allan sperò che giungessero altre uova, ma nelle
missive che seguirono venne a sapere che i generali dello zar avevano rinunciato
all’autocrazia e quest’ultimo era stato costretto ad abdicare. Il marito era furibondo con il
suo amico produttore di uova che, a causa degli ultimi avvenimenti, si era trasferito in
Svizzera. Lui, invece, sarebbe rimasto lì per combattere il parvenu che aveva preso il potere,
un tale Lenin.
Il tutto assunse per il padre di Allan un risvolto personale, allorché Lenin proibì qualsiasi
forma di proprietà privata il giorno dopo che lui si era procacciato dodici metri quadri per la
coltivazione di fragole svedesi. “Il terreno non è costato più di quattro rubli, ma il mio posto
delle fragole non lo si espropria così, come se nulla fosse,” scrisse il padre di Allan nella sua
ultima lettera alla famiglia. Dopodiché concluse: “Adesso è guerra!” E in effetti guerra fu.
Praticamente in tutto il mondo e per molti anni a venire. Quando scoppiò, il piccolo Allan si
era appena messo a lavorare come fattorino alla Nitroglycerin AB. Caricando i cartoni di
dinamite, ascoltava i commenti degli operai sulla guerra in corso. Si domandava come
facessero a sapere tante cose, stupito del fatto che gli adulti potessero ridursi in quel modo.
L’Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia. La Germania alla Russia. A quel punto la
Germania, che aveva occupato il Lussemburgo nel giro di un pomeriggio, dichiarò guerra
alla Francia. A sua volta la Gran Bretagna fece lo stesso con la Germania e i tedeschi
risposero dichiarando guerra al Belgio.
Allora l’Austria dichiarò guerra alla Russia e la Serbia alla Germania.
E così via. Si aggiunsero anche i giapponesi e gli americani. Gli inglesi per qualche motivo
presero prima Baghdad e poi Gerusalemme. I greci e i bulgari cominciarono a darsi
battaglia, e infine giunse il giorno in cui lo zar di Russia abdicò mentre gli arabi
conquistavano Damasco… “Adesso è guerra!” aveva proclamato il padre di Allan. Subito
dopo qualcuno degli scagnozzi di Lenin aveva ucciso lo zar Nicola e tutta la sua famiglia.
Allan poté quindi constatare che la malasorte dello zar non era finita.
Dopo qualche settimana la rappresentanza diplomatica svedese in missione a Pietrogrado
inviò un telegramma a Yxhult, con la notizia che il padre di Allan era morto.
A dire il vero non sarebbe spettato al funzionario di turno approfondire la questione, ma
probabilmente non riuscì a esimersi dal farlo.
Stando alle sue parole, il padre di Allan aveva recintato con una staccionata un lembo di
terra di dieci, quindici metri quadri coltivato a fragole, proclamando il terreno repubblica
indipendente. Aveva chiamato il suo staterello “La Vera Russia” ed era morto nel tumulto
scoppiato all’arrivo di due soldati intenzionati ad abbattere il recinto. Il padre di Allan era
ricorso subito ai pugni, impedendo ai due militari di trattare. Alla fine non avevano trovato
altra soluzione che ficcargli una pallottola tra gli occhi.
“Non potevi morire un po’ meno da cretino?” era stato il commento della madre di Allan
alla notizia.
Non aveva mai creduto che il marito sarebbe tornato a casa, anche se ultimamente aveva
persino cominciato a sperarlo visto che si era ammalata ai polmoni e faceva sempre più
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fatica a tagliare la legna. La donna emise un profondo sospiro e con questo il suo lutto
terminò. Comunicò ad Allan che si tornava alla situazione di partenza, che così era e sarebbe
stato per sempre. Poi, dopo avergli passato con dolcezza una mano tra i capelli, uscì per
andare a tagliare altra legna.
Allan non aveva afferrato esattamente il significato delle parole materne, ma capì che il
padre era morto, che la madre sputava sangue quando tossiva e che la guerra era finita. Lui
aveva tredici anni ed era bravo a fabbricare esplosivi mescolando nitroglicerina, nitrato di
cellulosa, nitrato di ammonio, nitrato di sodio, farina di legno, dinitrotoluene e
qualcos’altro. Un giorno mi potrà essere utile, pensò uscendo ad aiutare la madre.
Due anni dopo la madre di Allan finì di tossire per sempre e partì per il fantomatico paradiso
dove il padre già si trovava. Sulla soglia della fattoria comparve il grossista Gustavsson, che
esigeva l’estinzione di un debito di 8,40 corone che la madre avrebbe dovuto saldare prima
di lasciare inaspettatamente il mondo. Ma Allan non aveva nessuna intenzione di
rimpinguare le tasche di Gustavsson.
“Questa faccenda dovrà discuterla con mia madre. Vuole che le presti una pala?” Il grossista
sarà stato pure un grossista, ma era anche molto minuto, a differenza del quindicenne Allan.
Il ragazzo stava diventando un uomo, e se fosse stato pazzo anche solo la metà di suo padre
avrebbe potuto inventarsi qualsiasi cosa, ragionò Gustavsson. Da quel momento in poi
l’argomento “debito” non fu mai più toccato.
Come la madre fosse invece riuscita a risparmiare parecchie centinaia di corone, risultò
assolutamente incomprensibile al giovane Allan. I soldi erano sparsi ovunque e furono
sufficienti sia per il funerale sia per dare inizio alla ditta Dynamit-Karlsson. Il ragazzo aveva
soltanto quindici anni, ma alla Nitroglycerin AB aveva appreso il necessario.
Allan si mise a sperimentare allegramente in una buca dietro casa: così allegramente che la
mucca della vicina ebbe un aborto spontaneo a due chilometri di distanza. Ma questo Allan
non lo seppe mai, poiché la vicina, come il grossista Gustavsson, era convinta che il figlio
dei Karlsson fosse matto quanto i genitori.
Allan conservò l’interesse per ciò che accadeva in Svezia e nel mondo. Almeno una volta
alla settimana si recava in bicicletta alla biblioteca di Flen per aggiornarsi.
Accadeva che lì incontrasse giovani infervorati in dibattiti rivolti tutti allo stesso scopo:
attirarlo in qualche movimento politico. Ma l’interesse di Allan a sapere era tanto grande
quanto profondo era il suo disinteresse a farsi coinvolgere.
La giovinezza di Allan fu piuttosto ballerina dal punto di vista politico: da un lato
apparteneva alla classe operaia, avendo smesso di andare a scuola a nove anni per lavorare
in fabbrica. Dall’altro rispettava la memoria del padre, e il padre, nella sua pur breve
esistenza, era riuscito a credere alle idee più disparate: aveva esordito a sinistra, per poi
esaltare lo zar Nicola II e porre fine alla propria vita per via di un contenzioso con Vladimir
Il’ič Lenin.
Dal canto suo la madre aveva maledetto, fra un attacco di tosse e l’altro, tutto e tutti, dal re
ai bolscevichi, non disdegnando nemmeno il primo ministro svedese Hjalmar Branting, il
grossista Gustavsson e – non ultimo – il padre di Allan.
Allan non era affatto uno stupido. Aveva frequentato la scuola solo tre anni, ma gli era
bastato per imparare a leggere, scrivere e fare di conto. E i colleghi di lavoro alla
Nitroglycerin AB, tutti coinvolti politicamente, avevano acceso la sua curiosità nei confronti
del mondo.
Ciò che plasmò definitivamente la sua filosofia di vita fu comunque una frase detta dalla
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madre nel momento in cui avevano appreso della morte del padre. Ci volle del tempo prima
che penetrasse nell’animo del giovane, ma poi non se ne andò.
Così è e sarà per sempre.
Il che implicava tra l’altro il fatto di non farsi notare. Soprattutto in presenza di un motivo
valido. Come, per esempio, quando il telegramma con la notizia della morte del padre
giunse a Yxhult. In sintonia con lo stile di famiglia Allan reagì mettendosi a tagliare la
legna, a lungo e in silenzio. O quando la madre, seguendo la stessa strada, venne caricata sul
carro funebre che attendeva fuori casa. Allan rimase in cucina e osservò la scena dalla
finestra. Poi disse piano: “Ciao, mamma.” Con questo si chiuse un capitolo della sua vita.
Allan convogliò tutte le sue energie nella fabbrica di dinamite, e agli inizi degli anni Venti si
era creato una bella cerchia di clienti nel Sörmland. Il sabato sera, quando i suoi coetanei si
lanciavano nei balli di società, Allan sedeva da solo in casa intento a elaborare nuove
formule per migliorare la qualità della sua dinamite. E la domenica raggiungeva la solita
buca per sperimentare le esplosioni. Mai tra le undici e l’una, però, lo aveva promesso al
parroco di Yxhult affinché non si lamentasse troppo dell’assenza di Allan in chiesa.
Ad Allan piaceva starsene solo. Meno male, dal momento che la sua vita era caratterizzata
dalla solitudine. Rifiutandosi di prender parte al movimento operaio veniva disprezzato dai
socialisti, ma al contempo era troppo lavoratore e figlio di suo padre per poter ambire a un
posto nei salotti borghesi, dove oltretutto troneggiava il grossista Gustavsson, che in nessun
modo intendeva avere a che fare con il moccioso dei Karlsson. Voleva assolutamente evitare
che il ragazzo sapesse quanto aveva guadagnato rivendendo a un diplomatico di Stoccolma
l’uovo comprato per due soldi dalla madre. Grazie a quell’affare il grossista Gustavsson era
diventato l’orgoglioso proprietario di un’automobile di terza mano.
L’affare era stato ottimo, ma in seguito il grossista Gustavsson non fu più così felice.
Una domenica d’agosto del 1925, dopo la funzione religiosa, si mise al volante per fare un
giro, ma soprattutto per farsi vedere. Stranamente, scelse la strada che passava vicino alla
fattoria dei Karlsson a Yxhult. Nella curva davanti alla casa, probabilmente preso da un
certo nervosismo, Gustavsson ebbe problemi con il cambio, e così sia lui sia l’auto finirono
nella famosa buca anziché seguire la strada che svoltava leggermente a destra. Sarebbe stato
già poco piacevole per il grossista invadere il terreno di Allan e dovergli delle spiegazioni,
ma le cose andarono ancora peggio, dato che nel momento stesso in cui Gustavsson riuscì a
fermare l’auto impazzita Allan diede il via alla sua prima esplosione domenicale.
Che qualcosa fosse andato storto lo capì soltanto quando si recò alla buca per valutare i
risultati. Vi trovò sparsi i resti dell’auto del grossista, nonché quelli del grossista medesimo.
La testa, finita nei pressi della casa, era atterrata morbidamente su una zolla erbosa da dove
fissava con espressione vuota la propria rovina.
“Cosa ci facevi nella mia buca?” domandò Allan.
Il grossista non rispose.
Nei quattro anni che seguirono, Allan ebbe parecchio tempo a disposizione per leggere e
migliorare le proprie conoscenze. Venne subito rinchiuso in una casa di cura, anche se non
gli fu facile capire il perché. Fu tirato in ballo il padre di Allan, il vecchio agitatore.
Ciò accadde perché un giovane e ambizioso allievo del biologo della razza professor
Bernhard Lundborg di Uppsala, decise di far carriera servendosi del caso. Dopo diversi
viavai Allan finì tra le grinfie di Lundborg e venne immediatamente sterilizzato per “ragioni
eugenetiche e sociali”. In altre parole fu deciso che Allan era leggermente ritardato e
comunque risentiva troppo dell’eredità paterna, e lo Stato svedese non poteva permettere
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un’ulteriore riproduzione della stirpe dei Karlsson.
La sterilizzazione non disturbò Allan, il quale riteneva di aver ricevuto una meravigliosa
accoglienza nella clinica del professor Lundborg. Fu persino in grado di rispondere a ogni
sua domanda, tra cui che bisogno aveva di far saltare in aria oggetti e persone, e se nelle sue
vene scorreva sangue negroide. Allan rispose dicendo che era in grado di distinguere
abbastanza bene tra oggetti e persone in relazione a una carica di dinamite.
Spaccare un masso che ostruiva la strada poteva produrre una piacevole sensazione.
Se invece di un masso si trattava di un essere umano era sufficiente chiedere alla persona in
questione di spostarsi. Non la pensava così anche il professor Lundborg?
Ma il professor Lundborg non era certo tipo da lasciarsi trascinare in discussioni filosofiche
senza riproporre la domanda sul sangue negroide. Allan rispose che non era facile saperlo,
ma entrambi i suoi genitori erano di pelle bianca; poteva il professore accontentarsi di quella
risposta? Allan aggiunse che gli sarebbe piaciuto terribilmente vedere un negro. Per caso il
professore ne teneva uno da qualche parte?
Il professor Lundborg e i suoi assistenti non rispondevano mai alle domande di Allan
limitandosi a prendere appunti, talvolta per parecchi giorni di fila. In quel periodo Allan
lesse di tutto. Ovviamente i giornali, ma anche i volumi a disposizione nella biblioteca della
clinica. A questo si aggiungevano tre pasti al giorno e una camera singola con bagno. Allan
era felice della sua condizione di paziente coatto. Soltanto una volta l’atmosfera si era
leggermente alterata; fu quando Allan chiese con curiosità al professor Lundborg se fosse
tanto pericoloso essere negri o ebrei. Una volta tanto il professore non rimase in silenzio,
sbraitando che il signor Karlsson doveva pensare agli affari propri e non impicciarsi di
quelli altrui. La situazione ricordò ad Allan quella in cui molti anni prima sua madre lo
aveva minacciato con un ceffone.
Passarono gli anni e gli interrogatori si diluirono sempre di più. Poi il parlamento svedese
aprì un’inchiesta sulla sterilizzazione degli “esseri inferiori da un punto di vista biologico”,
e quando il rapporto venne pubblicato il professor Lundborg si affrettò ad annunciare che il
letto di Allan doveva essere liberato. All’inizio dell’estate del 1929
Allan fu dichiarato guarito e pronto a riprendere il suo posto in società, quindi sbattuto fuori
con due soldi in tasca che non bastavano neanche per il treno fino a Flen. Dovette farsi a
piedi gli ultimi dieci chilometri che lo separavano da Yxhult, ma non gli importava.
Dopo quattro anni passati dietro una grata sentiva il bisogno di sgranchirsi le gambe.
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CAPITOLO 5
Lunedì 2 maggio 2005
Il giornale locale non aspettò un minuto prima di pubblicare sul proprio sito la notizia del
vecchio scomparso il giorno del suo centesimo compleanno. L’inviata era alla ricerca di fatti
succulenti, e grazie ad alcune testimonianze si era fatta l’idea che non fosse da escludere
l’ipotesi del rapimento: a quanto pareva il vegliardo era assolutamente lucido ed era
impossibile che si fosse perso.
Sparire proprio quel giorno era singolare. La radio locale si mise subito in contatto con il
giornale, seguita a ruota dalle radio nazionali, dall’agenzia di stampa TT, da Televideo, dalle
pagine web delle testate più prestigiose e dai telegiornali delle edizioni pomeridiane e serali.
La polizia di Flen non fece altro che lasciare l’onore del caso alla polizia criminale della
contea, che inviò due volanti al commissario Aronsson, quest’ultimo in borghese. Gli agenti
si trovarono presto in compagnia di diverse squadre di reporter che diedero loro una mano a
setacciare la zona. Naturalmente era il capo della polizia della contea a dare disposizioni,
coltivando dentro di sé la speranza di farsi immortalare da qualche macchina fotografica.
Tanto per cominciare gli agenti perlustrarono tutti gli angoli dell’abitato, mentre il personale
e gli ospiti della casa di riposo venivano interrogati. Il segretario comunale era invece
rientrato a casa, a Flen, staccando i telefoni. Non c’era niente da guadagnare dalla sparizione
di un vecchio ingrato, ecco quale fu il suo ragionamento.
Erano giunte anche varie soffiate: chi aveva visto Allan girare in bicicletta per Katrineholm,
chi sosteneva che fosse stato in coda alla farmacia di Nyköping e si fosse comportato in
modo poco garbato. Le segnalazioni furono però scartate per motivi diversi. Per esempio,
era impossibile che fosse stato visto a Katrineholm, dato che aveva pranzato nella sua
camera a Malmköping.
Con l’aiuto di un centinaio di volontari locali, il capo della polizia della contea decise di
improvvisare alcune squadre di soccorso per ispezionare la zona e rimase di stucco quando
non approdarono ad alcun risultato. Era convinto che si trattasse della banale scomparsa di
un anziano affetto da demenza senile, anche se le testimonianze raccolte indicavano che il
vecchio era ancora molto in gamba.
Dalle ricerche non emerse nulla, finché verso le sette e mezzo di sera non arrivò il cane
poliziotto preso in prestito a Eskilstuna. L’animale, dopo aver annusato la poltrona di Allan
e le orme lasciate nell’aiuola di viole del pensiero, puntò sicuro verso il parco, attraversò la
strada fino all’area che circondava la chiesetta medievale, continuò oltre il muretto in pietra
e non si fermò fino a quando non si trovò davanti alla sala d’attesa della stazione di
Malmköping.
La porta era chiusa a chiave. Da un impiegato della Sörm-landstrafiken di Flen la polizia
venne a sapere che nei giorni feriali la stazione chiudeva alle sette e mezzo, quando il
collega di Malmköping finiva il turno, ma aggiunse che se non potevano aspettare il giorno
dopo avrebbero potuto cercarlo a casa. Si chiamava Ronny Hulth e di certo il suo nome era
sull’elenco telefonico.
Mentre il capo della polizia della contea si pavoneggiava davanti ai fotografi e alle
telecamere fuori dalla casa di riposo, annunciando che era necessario proseguire le ricerche
tutta la notte dal momento che il vecchio indossava abiti leggeri ed era probabilmente in
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stato confusionale, il commissario Göran Aronsson suonò al campanello di Ronny Hulth. Il
cane aveva fatto chiaramente capire che il vecchio era stato nella sala d’attesa della stazione,
e Hulth avrebbe potuto dirgli se aveva lasciato Malmköping a bordo di un pullman.
Ma Ronny Hulth non aprì. Sedeva in camera da letto, stretto al suo gatto, con le tapparelle
abbassate.
“Andate via,” mormorò rivolto alla porta d’ingresso. “Via. Via!” E così fece il commissario.
Un po’ perché riteneva che il suo capo sapesse che il vecchio non se n’era andato a zonzo
senza meta, un po’ perché pensava che se Allan era riuscito a salire su un pullman allora era
in buone condizioni. In quanto a Ronny Hulth, doveva trovarsi con la sua compagna. Il
mattino dopo sarebbe passato a fargli visita al lavoro. Sempre che prima non fossero arrivate
notizie del vecchio.
Alle 21,02 la centrale di Eskilstuna ricevette la seguente telefonata: Sì, mi chiamo Bertil
Karlgren e telefono… telefono a nome della mia signora, ecco. Sì… Be’, mia moglie, Gerda
Karlgren, è stata qualche giorno a Flen da nostra figlia e da suo marito. Aspettano un
bambino e così… c’è sempre parecchio da fare, ecco. Ma oggi doveva tornare e ha preso,
ecco, Gerda ha preso il pullman nel primo pomeriggio, ed era oggi, e il pullman passa da
Malmköping, noi abitiamo qui a Strängnäs… Forse non è niente, secondo mia moglie, ma
abbiamo appena sentito alla radio di un vecchio scomparso. Magari l’avete già trovato? No?
Mia moglie dice che a Malmköping è salito sul pullman un uomo molto vecchio che aveva
con sé una valigia molto grande, come se dovesse andare lontano. La mia signora era seduta
in fondo e il vecchio davanti, quindi non ha potuto vederlo bene né sentire quello che si
dicevano lui e l’autista. Cosa hai detto, Gerda? Sì, Gerda dice che lei non è il tipo che si
mette ad ascoltare di nascosto… Comunque è strano… sì, strano… ecco… che il vecchio sia
sceso in un punto a metà strada per Strängnäs. Ha percorso soltanto poche decine di
chilometri con quel valigione. E poi sembrava davvero vecchio. Gerda non sa come si
chiami la fermata, ma era come in mezzo ai boschi… in un punto a metà strada. Tra
Malmköping e Strängnäs.
La conversazione venne registrata, trascritta e inviata via fax all’albergo di Malmköping
dove alloggiava il commissario incaricato di seguire le indagini.
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CAPITOLO 6
Lunedì 2 maggio-Martedì 3 maggio 2005
La valigia era piena fino all’orlo di banconote da cinquecento corone. Julius fece un rapido
conteggio: dieci file in larghezza, cinque in profondità, quindici mazzi per ogni pila,
sicuramente cinquantamila corone ogni mazzo… “Trentasette milioni e mezzo, se non ho
calcolato male,” disse Julius.
“Sono soldi, non c’è che dire,” commentò Allan.
“Fatemi uscire, brutti bastardi,” sbraitò il giovane dalla cella frigorifera.
Faceva sempre più baccano: urlava, scalciava, urlava di nuovo. Allan e Julius avevano
bisogno di riprendersi dopo gli ultimi sorprendenti sviluppi, ma con tutto quel rumore non
era possibile. Ad Allan parve giunto il momento di raffreddare un po’ i bollenti spiriti del
giovane, così accese la ventola del congelatore.
Nel giro di pochi secondi il giovane se ne rese conto. Rimase in silenzio nel tentativo di
riordinare i pensieri. Cosa non facile già in condizioni normali, e adesso aveva anche quello
spaventoso mal di testa.
Dopo essersi fermato qualche minuto a rimuginare, capì che né minacce né calci l’avrebbero
salvato. Doveva chiamare rinforzi dall’esterno. Doveva chiamare il Capo. La sola idea lo
atterriva, ma la vicenda sembrava prendere una piega sempre peggiore.
Esitò qualche altro minuto mentre il freddo aumentava. Alla fine estrasse il cellulare.
Non c’era campo.
La sera si fece notte e la notte mattino. Aperti gli occhi, Allan non riusciva a capire dove
fosse. Era finalmente morto durante il sonno?
Una baldanzosa voce maschile prima gli augurò il buongiorno, poi lo informò che aveva due
notizie da comunicargli, una buona e una cattiva. Quale desiderava sentire per cominciare?
Innanzitutto Allan voleva capire dove si trovasse, e perché. Gli facevano male le ginocchia,
quindi nonostante tutto era ancora vivo. Ma non aveva… e poi non aveva preso… e… non
si chiamava Julius?
I tasselli tornarono al loro posto: Allan era sveglio. Era sdraiato a terra su un materasso,
nella camera da letto di Julius, che ora gli stava ripetendo la domanda. Voleva sapere prima
la notizia buona o quella cattiva?
“Quella buona,” rispose Allan. “La cattiva puoi tralasciarla.” Ok, assentì Julius, e lo informò
che la buona notizia era che la colazione era pronta.
Caffè, tartine con arrosto d’alce e uova del vicino.
Assaporare ancora una volta una colazione che non fosse zuppa d’avena prima di morire:
questa sì che era una buona notizia! Seduto al tavolo della cucina, Allan si dichiarò pronto
ad ascoltare quella cattiva.
“La cattiva notizia…” disse Julius abbassando leggermente il tono. “La cattiva notizia è che
con la sbornia ci siamo dimenticati di spegnere la ventola della cella frigorifera.” “E?” “E…
il tipo là dentro è morto stecchito.” Allan si grattò preoccupato la nuca prima di decidere che
in nessun modo quella penosa notizia gli avrebbe rovinato la giornata.
“Brutta storia,” commentò. “Però devo dire che l’uovo è cotto in modo perfetto, né troppo
né troppo poco.” Il commissario Aronsson si svegliò verso le otto di cattivo umore. Sia che
il vecchio fosse scomparso di sua volontà sia che fosse stato rapito, ritrovarlo non era un
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compito degno di un poliziotto del suo calibro.
Dopo essersi fatto una doccia e vestito, Aronsson scese al pianterreno dell’Albergo
Plevnagården per fare colazione. Lungo il tragitto incontrò un impiegato che gli porse un
fax arrivato in albergo la sera precedente.
Un’ora dopo il commissario Aronsson aveva una nuova visione del caso. Il fax proveniente
dalla centrale di Eskilstuna gli era sembrato all’inizio di dubbio valore, ma quando
Aronsson incontrò un pallido Ronny Hulth allo sportello della stazione dei pullman, non ci
volle molto prima che quest’ultimo cedesse e si mettesse a raccontare quanto era successo.
Subito dopo chiamarono da Eskilstuna per riferire che la Sörmlandstrafiken di Flen aveva
appena scoperto che dalla sera prima mancava un pullman, e che Aronsson doveva
telefonare a una certa Jessica Björkman, compagna del conducente del pullman che
evidentemente era stato prima rapito e poi rilasciato.
Il commissario Aronsson tornò al Plevnagården per bere una tazza di caffè e metabolizzare
le informazioni appena acquisite. Meditando, si mise ad annotare le proprie osservazioni:
Un anziano, Allan Karlsson, fugge da una casa di riposo prima che nella sala comune
comincino i festeggiamenti per il suo centesimo compleanno. Karlsson è, o era,
incredibilmente in forma per la sua età, quantomeno a livello fisico – di questo abbiamo le
prove –, tanto da riuscire a scavalcare una finestra presumibilmente senza aiuti.
Ulteriori accertamenti fanno pensare che agisca da solo. L’infermiera, nonché direttrice
dell’istituto, Alice Englund afferma che “Allan è senza dubbio vecchio, ma è anche un
maledetto farabutto che sa esattamente quello che fa”.
Stando alle tracce seguite dal cane poliziotto, Karlsson, dopo essere rimasto per un po’
fermo in un’aiuola, ha attraversato a piedi parte dell’abitato di Malmköping prima di
dirigersi verso la sala d’attesa della stazione dei pullman dove, secondo il testimone Ronny
Hulth, è andato, o meglio si è trascinato, fino allo sportello dello stesso Hulth, che ha notato
l’incedere lento e affaticato di Karlsson, il quale indossava pantofole al posto delle scarpe.
La testimonianza di Hulth sta inoltre a indicare che Karlsson era in fuga e non aveva una
meta. Voleva allontanarsi il più velocemente possibile da Malmköping, la direzione e la
destinazione erano di secondaria importanza.
Ciò viene peraltro confermato da una tale Jessica Björkman, compagna del conducente
Lennart Ramnér. Non è stato ancora possibile interrogarlo direttamente, in quanto ha
ingerito troppi sonniferi. Ma la testimonianza della Björkman pare attendibile. Karlsson ha
comprato da Ramnér un biglietto in base alla sua disponibilità di denaro.
Casualmente, la meta è risultata la fermata della stazione di Byringe. Casualmente. Non ci
sono motivi per credere che qualcosa o qualcuno stesse aspettando Karlsson proprio lì.
Un altro particolare: a quanto pare Hulth non ha notato il modo in cui Karlsson si è
procurato la valigia prima di salire sul pullman in direzione di Byringe, ma la questione è
risultata subito chiara in seguito alle azioni violente di un presunto membro
dell’organizzazione criminale Never Again.
Jessica Björkman non è riuscita a ottenere alcuna notizia riguardante la valigia dal suo
convivente intontito dai sonniferi, ma il fax inviato dalla centrale conferma come con tutta
probabilità Karlsson – per quanto incredibile – abbia rubato la valigia a un membro della
Never Again.
Il racconto della Björkman, unito al contenuto del fax proveniente da Eskilstuna, porta a
credere che prima Karlsson, verso le 15,20 minuto più minuto meno, poi il membro della
Never Again, circa quattro ore dopo, siano scesi alla stazione di Byringe per poi proseguire
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verso destinazione ignota. Il primo, centenario, si trascinava dietro una valigia, mentre il
secondo era molto più giovane.
Il commissario Aronsson, chiuso il taccuino, bevve l’ultimo goccio di caffè. Erano le 10,25.
“Prossima meta, la stazione di Byringe.” Facendo colazione, Julius passò in rassegna
insieme ad Allan tutto quello che aveva fatto e pensato nelle prime ore del mattino mentre
lui stava ancora dormendo.
Per prima cosa, l’incidente della cella frigorifera. Quando Julius si era reso conto che la
temperatura era rimasta sotto lo zero per almeno dieci ore di fila, aveva afferrato il piede di
porco come eventuale arma di difesa, quindi aveva aperto la porta della cella.
Se il giovane fosse stato in vita, non sarebbe certo stato abbastanza lucido da avere la
meglio su Julius e il suo piede di porco.
Tuttavia la precauzione si era rivelata inutile. Il giovane era accasciato sulla cassa, il corpo
ricoperto di cristalli di ghiaccio e gli occhi persi nel vuoto. In breve, morto come un alce
tagliato a pezzi.
A detta di Julius la cosa era spiacevole, ma anche molto vantaggiosa: infatti, non sarebbe
stato possibile liberare impunemente quel pazzo scatenato. Dopo aver spento la ventola del
congelatore Julius aveva lasciato la porta aperta. Il giovane era morto, ma non per questo
meritava di restare surgelato.
Dopo avere acceso la stufa a legna della cucina per mantenere calda la stanza, Julius aveva
ricontato i soldi. Non erano trentasette milioni e mezzo come gli era sembrato la sera prima,
ma cinquanta.
Allan ascoltò con interesse la relazione di Julius mentre faceva colazione con un appetito
che non ricordava da tempo. Rimase in silenzio fino a quando Julius non giunse ad
affrontare il lato economico della storia.
“Sì, è più facile dividere in due cinquanta milioni. Semplice e chiaro. Scusa, ti spiacerebbe
passarmi il sale?” Julius fece quello che Allan gli aveva chiesto, spiegandogli che sarebbe
stato in grado di dividere in due anche trentasette milioni e mezzo, se necessario, ma
conveniva con lui che con cinquanta era più facile. Poi si fece serio. Sedendosi a tavola di
fronte ad Allan, disse che era venuto il momento di lasciare per sempre la stazione
abbandonata.
Sì, il giovane nella cella frigorifera non avrebbe più creato problemi, ma chi poteva dire
cosa aveva combinato prima di arrivare lì? Da un minuto all’altro sarebbero potuti piombare
in cucina dieci nuovi giovani arrabbiati e urlanti, benché lui avesse smesso di farlo.
Allan era d’accordo, ma ricordò a Julius che lui era parecchio avanti con gli anni, non più
agile come un tempo. Julius promise che avrebbe ridotto i tratti a piedi al minimo
indispensabile. Comunque sia, dovevano andarsene. La cosa migliore era portarsi via il
cadavere. Non sarebbe stato bello per nessuno dei due se qualcuno sulle loro tracce avesse
trovato un morto.
La colazione era finita, era tempo di darsi da fare. Julius e Allan si disposero a trasportare il
cadavere dalla cella frigorifera in cucina, piazzarono il corpo su una sedia e raccolsero le
forze in vista della prossima mossa.
Squadrando il giovane dall’alto in basso, Allan disse: “Per essere così grosso ha piedi
incredibilmente piccoli. Delle scarpe non ha più bisogno, no?” Julius rispose che molto
probabilmente fuori faceva freddo, essendo mattino presto, e il rischio che Allan si
congelasse le dita dei piedi era ben maggiore di quello che correva il giovane. Se secondo
Allan le sue scarpe potevano andargli bene, non doveva fare altro che infilarsele. Chi tace
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acconsente.
Ad Allan andavano un po’ grandi, ma erano di buona qualità e di certo sembravano più
adatte alla fuga di un paio di pantofole consunte.
La mossa successiva consisté nello spostare il giovane in salotto e nel farlo rotolare giù per
le scale. Si ritrovarono tutti e tre sul marciapiede, due in piedi e uno a terra, e Allan si chiese
quale sarebbe stata la prossima azione di Julius.
“Non muoverti,” disse questi ad Allan. “E neanche tu,” aggiunse rivolto al giovane prima di
scendere dal marciapiede ed entrare in una rimessa accanto ai binari.
Poco dopo ricomparve a bordo di un carrello ferroviario.
“Modello 1954,” commentò. “Benvenuti a bordo.” Julius, in testa, guidava, Allan, dietro,
accompagnava il moto del carrello con le gambe, mentre il morto, sul sedile alla destra del
conducente, aveva la testa appoggiata al manico di una scopa e gli occhi vitrei nascosti da
un paio di occhiali da sole.
Erano le 11,05 quando il gruppo si mise in viaggio. Tre minuti dopo una Volvo blu scuro
giunse alla stazione abbandonata di Byringe. Dall’auto scese il commissario Göran
Aronsson.
L’edificio sembrava disabitato, ma un’occhiata più scrupolosa non avrebbe guastato, prima
di proseguire per Byringe e andare a bussare a tutte le porte.
Con cautela Aronsson salì sul marciapiede pericolante. Aprendo la porta d’ingresso
esclamò: “C’è qualcuno?” Non avendo ricevuto risposta, imboccò le scale. Nonostante tutto,
la stazione pareva abitata. Nella stufa a legna della cucina c’erano ancora dei tizzoni accesi,
e sul tavolo i resti di una colazione per due.
Sul pavimento, un paio di pantofole consunte.
La Never Again si definiva ufficialmente un club di motociclisti, ma non era altro che uno
sparuto drappello di giovani delinquenti capitanati da un uomo di mezza età dai trascorsi
ancora peggiori; tutti erano comunque assai decisi a proseguire sulla via del crimine.
Il responsabile della banda si chiamava Per-Gunnar Gerdin, ma nessuno osava chiamarlo
altro che “Capo”, dal momento che lo aveva deciso lui in persona: era alto quasi due metri,
pesava circa centotrenta chili e soleva estrarre il coltello se qualcosa o qualcuno non gli
andava a genio o provava a contraddirlo.
Inizialmente il Capo aveva intrapreso la sua carriera criminale con una certa prudenza.
Insieme a un amico della sua età importava in Svezia frutta e verdura, barando sul paese di
provenienza della merce per fregare lo Stato sulle tasse ed estorcere un prezzo più alto ai
consumatori.
Non c’era niente che non andasse nell’amico del Capo, a parte il fatto che non era di vedute
sufficientemente ampie. Il Capo avrebbe voluto apportare delle innovazioni, per esempio
usando la formalina. Aveva sentito dire che in Asia lo facevano e la sua idea era di importare
polpettine di carne svedesi dalle Filippine, a buon mercato e via nave, che con un adeguato
quantitativo di formalina si sarebbero conservate per tre mesi, se necessario, persino a una
temperatura di trenta gradi.
Il costo sarebbe risultato così basso da non rendere neanche necessario chiamare svedesi
quelle polpettine per venderle. Bastava chiamarle danesi, a detta del Capo, ma il suo amico
non ne voleva sapere. Secondo lui la formalina serviva a conservare i cadaveri, non a dare
alle polpettine la vita eterna.
Così le loro strade si divisero, e da quel momento per il Capo le polpettine alla formalina
rimasero un sogno. Invece, gli venne in mente che bastava calarsi un berretto sulla testa per
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rapinare la ditta concorrente, decisamente troppo corretta, e cioè la Stockholms Fruktimport
AB, portandosi via il ricavato della giornata.
Con l’aiuto di un machete e un ruggito feroce, sbraitando “Fuori il malloppo, se no…”, in
un colpo solo e con sua grande sorpresa il Capo era diventato più ricco di quarantunomila
corone. Perché correre delle grane con le importazioni quando si potevano guadagnare dei
bei soldi senza quasi lavorare?
E così il Capo procedette su quella strada. Per la maggior parte le cose gli andarono bene, a
eccezione di un paio di brevi ferie involontarie nell’arco dei quasi vent’anni trascorsi da
libero professionista nel settore rapine.
Ma dopo un paio di decenni al Capo parve giunto il momento di cominciare a pensare in
grande. Si procurò un paio di scagnozzi molto più giovani di lui a cui diede degli stupidi
soprannomi (uno fu ribattezzato Bullone, l’altro Secchio), con i quali condusse a buon fine
due rapine a dei furgoni portavalori.
Una terza rapina analoga si concluse per tutti e tre con un soggiorno di sei mesi nel
penitenziario di Hall. Fu allora che al Capo venne in mente di fondare la Never Again. I suoi
piani erano ambiziosi: inizialmente la banda sarebbe stata composta da cinquanta membri
suddivisi in tre rami, “rapina”, “droga” ed “estorsione”. Il nome Never Again nacque
dall’intenzione del Capo di creare una struttura così micidiale e a prova di bomba da non
finire mai più, never again, a Hall o in qualsiasi altro penitenziario. La Never Again sarebbe
diventata il Real Madrid del crimine (al Capo piaceva il calcio).
Sulle prime la fase di reclutamento andò molto bene, ma una lettera indirizzata al Capo da
parte della mamma finì nelle mani sbagliate. Nella missiva la madre scriveva tra l’altro che
in carcere il suo piccolo Per-Gunnar doveva stare attento a non frequentare brutte
compagnie, che doveva fare attenzione alle sue tonsille delicate e che non vedeva l’ora di
giocare nuovamente con lui a caccia al tesoro quando fosse tornato a casa.
Dopodiché non servì a nulla che il Capo quasi squartasse con il coltello due iugoslavi in
coda alla mensa e si comportasse in pubblico in modo ancora più violento. La sua autorità
aveva subito un colpo mortale. Dei trenta che erano stati reclutati fino a quel momento,
ventisette se ne andarono. Oltre a Bullone e a Secchio rimase un venezuelano, José María
Rodríguez, segretamente innamorato del Capo, cosa che non ebbe mai il coraggio di rivelare
a nessuno tranne a se stesso.
Al venezuelano fu affibbiato il nome di Caracas. Per quanto il Capo minacciasse e tuonasse,
in prigione non riuscì ad arruolare nessun altro membro per la sua banda. E un bel giorno lui
e i suoi tre sottoposti vennero scarcerati.
A un certo punto il Capo pensò di abbandonare l’idea di costituire la Never Again, ma poi
venne a sapere che Caracas aveva un conoscente colombiano di larghissime vedute e amici
piuttosto interessanti. Fu così, visto che una cosa tira l’altra, che grazie alla Never Again la
Svezia divenne il paese di transito per eccellenza verso l’Europa dell’Est del cartello
colombiano di sostanze stupefacenti. Il giro d’affari si fece sempre più intenso e non ci fu
più né l’occasione né il personale sufficiente per attivare i rami della “rapina” e
dell’“estorsione”.
A Stoccolma il Capo convocò il consiglio di guerra, composto da Secchio e Caracas.
Era successo qualcosa a Bullone, l’imbranato che avrebbe dovuto portare a termine il
miglior colpo della banda. In mattinata il Capo si era messo in contatto con i russi, che
avevano confermato di aver ricevuto la merce – e di aver effettuato il pagamento. Se poi il
corriere della Never Again se l’era svignata con la valigia, questo non era un problema loro.
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Se poi la Never Again voleva dare inizio alle danze per colpa di quella faccenda, i russi non
si sarebbero tirati indietro. Se necessario, sapevano ballare. Sia il valzer sia la mazurca.
Il Capo partì dal presupposto che i russi dicessero la verità (tra l’altro, era sicuro che
sapessero ballare meglio di lui) ed escluse che Bullone fosse sparito volontariamente con il
malloppo, dal momento che era troppo stupido. O troppo intelligente, dipendeva dai punti di
vista.
L’alternativa era che qualcuno a conoscenza della transazione avesse aspettato il momento
giusto a Malmköping, o mentre Bullone era di ritorno a Stoccolma, e lo avesse liquidato per
impossessarsi della valigia.
Ma chi? Il Capo pose la domanda al consiglio di guerra senza ricevere alcuna risposta, cosa
che non lo stupì affatto: da tempo era arrivato alla conclusione che i suoi scagnozzi erano
tutti e tre dei deficienti.
Ordinò immediatamente a Secchio di andare in esplorazione, dato che pensava che
quell’idiota di Secchio fosse meno idiota di quell’idiota di Caracas. Quell’idiota di Secchio
partiva da premesse leggermente migliori per trovare quell’idiota di Bullone e forse
recuperare la valigia con i soldi.
“Vai a Malmköping a dare un’occhiata, Secchio, ma vestiti in borghese perché lì è pieno di
piedipiatti. A quanto pare è scomparso un vecchio bacucco.” Julius, Allan e il morto
procedevano sui binari attraverso i boschi del Sörmland. A
Vidkärr ebbero la sfortuna di imbattersi in un contadino di cui Julius non ricordava il nome.
Stava esaminando il raccolto quando il trio sopraggiunse a bordo del carrello ferroviario.
“Buongiorno,” esclamò Julius.
“Bella giornata,” aggiunse Allan.
Il morto e il contadino non dissero nulla, ma quest’ultimo li osservò a lungo mentre si
allontanavano.
Più si avvicinavano alla fonderia di Åkers Styckebruk, più Julius era preoccupato. Aveva
previsto di incrociare un corso d’acqua dove liberarsi del cadavere, ma non ne aveva ancora
avvistato nessuno. Inoltre stavano per finire su un binario della zona industriale della
fonderia. Tirato il freno, Julius riuscì a fermare in tempo il carrello. Il morto cadde in avanti
andando a sbattere la fronte su una sbarra di ferro.
“Chissà che male in altre circostanze,” commentò Allan.
“Qualche volta essere morti presenta dei vantaggi,” commentò Julius.
Sceso dal carrello, Julius si nascose dietro un albero per sbirciare la zona industriale.
Le porte della fabbrica erano aperte. Guardò l’orologio: erano le 12,10. Ora di pranzo,
concluse, dopodiché gli cadde l’occhio su un grosso container. Informò Allan che si sarebbe
allontanato qualche minuto allo scopo di perlustrare il territorio. L’altro gli augurò buona
fortuna e lo pregò di non perdersi.
Il rischio non c’era, dal momento che Julius doveva percorrere soltanto la trentina di metri
che lo separava dal container. Ci si infilò dentro scomparendo alla vista di Allan.
Poi riapparve. Tornato senza problemi al carrello ferroviario, Julius annunciò che aveva
capito cosa fare del cadavere.
Il container era quasi pieno di cilindri di un metro di diametro e lunghi almeno tre, tutti
confezionati singolarmente in casse di legno dotate di sportello su uno dei lati corti.
Allan era sfinito quando il pesante cadavere del giovane risultò finalmente al suo posto
dentro uno dei cilindri più interni al container, ma si ringalluzzì quando, chiusa la cassa, gli
saltò all’occhio la scritta con l’indirizzo di destinazione.
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Addis Abeba.
“Se non avesse gli occhi chiusi potrebbe vedere il mondo,” disse Allan riferendosi al morto.
“Dai, vecchio,” replicò Julius. “Dobbiamo muoverci.” L’operazione si concluse felicemente
e i due scomparvero fra le betulle molto prima che la pausa pranzo degli operai fosse
terminata. Sostarono sul carrello ferroviario per riprendere fiato. Poco dopo la zona
industriale cominciò ad animarsi. Un operaio caricò altri cilindri nel container, fino a
riempirlo completamente, e una volta finito riprese il suo lavoro.
Allan si chiese cosa producessero in quel posto. Julius sapeva che si trattava di un’antica
fabbrica, che già nel 1600 fondeva cannoni per coloro che durante la Guerra dei trent’anni
aspiravano a uccidere in maniera efficiente.
Ad Allan sembrava assurdo che fin dal 1600 gli uomini si odiassero al punto di ammazzarsi.
Se soltanto si fossero calmati un po’ sarebbero morti lo stesso ma senza scannarsi a vicenda.
Julius rispose che la cosa riguardava tutte le epoche, poi proseguì dicendo che la sosta era
finita ed era venuto il momento di squagliarsela. Secondo i suoi piani i due amici si
sarebbero diretti a piedi verso il centro di Åker e lì avrebbero escogitato qualcosa.
Il commissario Aronsson ispezionò la vecchia stazione ferroviaria di Byringe senza trovare
niente di interessante oltre alle pantofole che forse appartenevano al vecchio scomparso. Le
avrebbe raccolte per mostrarle al personale della casa di riposo.
Sul pavimento della cucina c’erano delle macchie d’acqua che terminavano davanti a una
cella frigorifera non in funzione e con la porta aperta. Difficile trovare un filo conduttore.
Aronsson proseguì verso Byringe. In tutt’e tre le case a cui bussò gli venne detto che un tale
Julius Jonsson abitava al primo piano della stazione, che era un ladro e un truffatore con cui
nessuno voleva avere niente da spartire, e che non avevano sentito nulla di strano la sera
prima e nemmeno dopo. Ma che Julius Jonsson fosse implicato in qualcosa di poco chiaro
era senz’altro possibile.
“Sbattetelo in galera,” pretese il vicino più arrabbiato.
“Per cosa?” chiese stancamente il commissario.
“Perché la notte mi ruba le uova nel pollaio, perché quest’inverno mi ha fregato una slitta
appena comprata e dopo averla riverniciata ha sostenuto che era sua, perché ordina i libri a
mio nome, ficca il naso nella mia cassetta delle lettere per ritirarli e mi lascia il conto da
pagare, perché cerca di vendere acquavite distillata illegalmente a mio figlio di quattordici
anni, perché…” “Sì, sì, va bene. Lo sbatterò in galera,” lo rassicurò il commissario. “Però
prima devo trovarlo.” Aronsson stava rientrando a Malmköping quando, più o meno a metà
strada, gli suonò il cellulare. Era la centrale. Un contadino di Vidkärr, tale Tengroth, aveva
chiamato per fornire un’informazione interessante. Qualche ora prima un noto mascalzone
della zona aveva attraversato i suoi campi a bordo di un carrello ferroviario, lungo i binari
abbandonati che congiungevano Byringe alla fonderia di Åker. Sopra c’erano anche un
vecchio, una valigia piuttosto grande e un giovane con un paio di occhiali da sole che
secondo il contadino Tengroth sembrava avere il comando. Anche se ai piedi portava
soltanto i calzini… “Non ci sto capendo più niente,” sbottò il commissario Aronsson prima
di fare inversione a una velocità tale che le pantofole appoggiate sul sedile del passeggero
volarono a terra.
Dopo qualche centinaio di metri l’andatura già lenta di Allan rallentò ulteriormente. Non si
lamentava, ma Julius vide che le ginocchia iniziavano a cedergli sul serio. Un po’ più avanti,
sulla destra, c’era un chiosco. Julius promise ad Allan che se fosse riuscito a raggiungerlo
gli avrebbe offerto un panino con la salsiccia, e in qualche modo si sarebbe procurato un
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mezzo di trasporto migliore. Allan disse che mai nella vita si era lagnato per un po’ di
stanchezza e non aveva certo intenzione di cominciare ora, ma d’altro canto un panino con
la salsiccia lo avrebbe gradito.
Julius accelerò il passo, Allan arrancava. Quando lo raggiunse, Julius aveva già mangiato
metà del suo panino. Oltre ad avere sbrigato alcune faccende.
“Allan,” esordì, “vieni a salutare Benny. È il nostro nuovo autista privato.” Benny era il
proprietario del chiosco, sulla cinquantina, con ancora tutti i capelli che finivano in una coda
di cavallo. Nel giro di circa due minuti Julius era riuscito a comprare un panino con la
salsiccia, una Fanta e la Mercedes color argento del 1988 di Benny, incluso Benny, per
centomila corone.
Allan diede un’occhiata al proprietario del chiosco, che continuava a rimanere dietro il
bancone.
“Abbiamo comprato anche te o ti abbiamo soltanto ingaggiato?” chiese alla fine.
“Comprato la macchina, ingaggiato l’autista,” rispose Benny. “Inizialmente per dieci giorni,
poi vedremo. A proposito, la salsiccia è inclusa nel prezzo. Vuoi una di queste, più sottili?”
No, e perché mai? Allan ne voleva una normale, se possibile. Poi aggiunse che centomila
corone per una macchina così vecchia erano uno sproposito, con o senza autista, quindi gli
sembrava giusto includere anche una bibita al cioccolato.
Benny accettò. Tanto stava per lasciare il chiosco, e una bibita al cioccolato più o meno se la
poteva ancora permettere. Gli affari andavano male: acquistare un chiosco dalle parti di
Åkers Styckebruk si era dimostrato un pessimo affare, proprio come aveva sospettato.
Il fatto era, spiegò Benny, che già prima che i signori comparissero in modo così tempestivo
lui aveva cominciato a pensare di trovarsi qualcos’altro da fare nella vita. A diventare un
autista privato però non ci aveva pensato.
Sulla base di quello che il proprietario del chiosco aveva appena detto, Allan gli suggerì di
infilare nel bagagliaio un cartone di bibite al cioccolato. Da parte sua Julius promise a
Benny che gli avrebbero procurato un berretto da autista non appena si fosse tolto quello del
chiosco e si fosse dato una mossa, perché era venuto il momento di andare.
Benny aveva la convinzione che il compito di un autista non fosse esattamente quello di
mettersi a discutere con il capo, quindi fece come gli dissero. Il berretto finì nella spazzatura
e le bibite al cioccolato nel bagagliaio insieme a qualche Fanta. Ma Julius volle che la
valigia restasse sul sedile posteriore accanto a lui. Allan prese posto davanti in modo da
poter allungare per bene le gambe.
A quel punto, messa fine alla propria attività commerciale, il proprietario del chiosco si
sedette al volante di quella che pochi minuti prima era stata la sua Mercedes, acquistata per
una bella somma dai due gentiluomini a cui Benny avrebbe prestato i propri servigi.
“Dove vogliono recarsi i signori?” domandò Benny.
“Verso nord, che ne dici?” chiese Julius.
“Sì, va bene,” rispose Allan. “O verso sud.” “Allora diciamo a sud,” disse Julius.
“A sud,” confermò Benny inserendo la prima.
Dieci minuti dopo il commissario Aronsson arrivò ad Åker. Gli bastò far correre lo sguardo
lungo i binari per scoprire la presenza di un vecchio carrello ferroviario abbandonato vicino
alla fonderia.
Purtroppo sul carrello non c’erano tracce visibili. Sul retro della fabbrica gli operai erano
intenti a caricare dei cilindri nei container. Nessuno di loro aveva notato l’arrivo del
carrello, ma avevano visto due vecchi allontanarsi a piedi subito dopo pranzo: uno
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trascinava una valigia piuttosto grande, l’altro lo seguiva a qualche metro di distanza.
Sicuramente erano diretti verso il chiosco della stazione di servizio, ma che strada avessero
preso non lo sapeva nessuno.
Aronsson chiese se erano certi che si trattasse di due uomini e non tre, ma gli operai
ribadirono di aver visto soltanto i due vecchi, nessuna terza persona.
Mentre guidava verso la stazione di servizio Aronsson meditò sulle informazioni raccolte,
delle quali tuttavia gli sfuggiva il nesso.
Per prima cosa si fermò al chiosco. Gli stava venendo fame, quindi cadeva a puntino, ma a
quanto pareva era chiuso. Di certo non era un affare gestirne uno in quel posto dimenticato
da Dio, pensò Aronsson dirigendosi alla stazione di servizio, dove nessuno aveva visto né
sentito niente. Quantomeno furono in grado di fornire ad Aronsson un panino con la
salsiccia, malgrado sapesse di benzina.
Dopo il suo rapido pranzo il commissario visitò il supermercato, il fiorista e l’agenzia
immobiliare dell’abitato. Si fermò a interrogare anche i pochi operai a spasso con il cane, la
carrozzina o la loro dolce metà. Nessuno poteva testimoniare di aver visto due o tre uomini
con una valigia. La pista si concluse definitivamente in un punto indefinito tra la fonderia e
la stazione di servizio. Il commissario Aronsson decise di rientrare a Malmköping. Aveva
con sé un paio di pantofole che dovevano essere identificate.
Il commissario Göran Aronsson telefonò al suo superiore per informarlo dello stato delle
indagini. Il capo gliene fu grato, dal momento che alle due del pomeriggio doveva tenere
una conferenza stampa al Plevnagården e finora non aveva trovato nulla da dire.
Il capo della polizia della contea aveva una certa propensione per il melodramma, che
quando poteva sfruttava appieno. Il commissario Aronsson gli aveva giusto fornito
l’occorrente per l’esibizione del giorno.
Durante la conferenza stampa decise di non porsi alcun freno, a meno che Aronsson non
fosse rientrato in tempo per bloccarlo (cosa del resto poco probabile), e annunciò che ora
come ora la sparizione di Allan Karlsson lasciava pensare a un rapimento, in linea con ciò
che la stampa locale aveva paventato il giorno prima. Per il momento la polizia era in
possesso di informazioni che facevano supporre che Karlsson fosse ancora vivo, anche se in
mano a dei poco di buono.
Le domande dei giornalisti iniziarono a fioccare, ma il capo della polizia della contea seppe
destreggiarsi con abilità: poteva soltanto aggiungere che Karlsson e i suoi presunti rapitori
erano stati visti quello stesso giorno intorno all’ora di pranzo nel piccolo centro abitato di
Åkers Styckebruk, ed esortava i migliori amici della polizia, alias il pubblico, a prendere
contatto con la polizia medesima qualora avessero notato qualcosa.
Con suo gran disappunto, però, l’équipe televisiva se n’era già andata. Questo non sarebbe
accaduto se quell’imbranato di Aronsson gli avesse fornito prima l’informazione relativa a
un possibile rapimento. Comunque, l’“Expressen” e l’“Aftonbladet” erano presenti, così
come il giornale e la radio locali. In fondo alla sala da pranzo del Plevnagården c’era anche
un uomo che il capo della polizia della contea aveva visto il giorno prima. Era forse
dell’agenzia di stampa TT?
Ma Secchio non era della TT, era stato mandato dal Capo da Stoccolma e cominciava a
credere che Bullone si fosse volatilizzato con la grana. In tal caso si poteva considerare un
uomo morto.
Quando il commissario Aronsson giunse al Plevnagården i rappresentanti della stampa si
erano dileguati. Lungo la strada si era fermato alla casa di riposo, dove aveva avuto
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conferma che le pantofole ritrovate appartenevano ad Allan Karlsson (annusandole,
l’infermiera Alice aveva annuito con una smorfia).
Nella hall dell’albergo Aronsson ebbe la sfortuna di imbattersi nel suo capo, il quale gli
riferì com’era andata la conferenza stampa e gli diede l’incarico di risolvere il caso,
preferibilmente in modo da non creare alcun tipo di conflitto tra la realtà e quello che lui
aveva appena affermato.
Poi il capo se ne andò: aveva un mucchio di cose di cui occuparsi. Per esempio, era ora di
far intervenire il procuratore.
Aronsson si sedette davanti a una tazza di caffè per riflettere sul risultato dei suoi ultimi
spostamenti. Quello che gli dava più da pensare era il legame fra i tre a bordo del carrello
ferroviario. Se Tengroth aveva sbagliato affermando che Karlsson e Jonsson non subivano
pressioni da parte del terzo passeggero, allora si poteva parlare di ostaggi, che era quanto il
capo aveva appena dichiarato in conferenza stampa. Tuttavia molto raramente il capo aveva
ragione. Inoltre c’erano testimoni che avevano visto Karlsson e Jonsson camminare per
Åker – con la valigia. In questo caso, era possibile che i due vecchi fossero riusciti ad avere
la meglio su un membro giovane e forte della Never Again buttandolo in un fosso…
Incredibile ma non impossibile. Aronsson decise di richiedere nuovamente l’intervento del
cane poliziotto di Eskilstuna. Per l’animale e il suo addestratore si sarebbe trattato di una
passeggiata dai campi di proprietà del contadino Tengroth fino alla fonderia di Åker.
In qualche punto lungo quel tracciato il membro della Never Again doveva pur essere
scomparso.
Del resto gli stessi Karlsson e Jonsson si erano dissolti fra il retro della fabbrica e la stazione
di servizio – un tragitto di duecento metri. Inghiottiti dalla terra senza che anima viva avesse
notato nulla. L’unica cosa esistente in quel tratto di strada era un chiosco chiuso.
Ad Aronsson suonò il cellulare. Era la centrale, che aveva ricevuto una nuova soffiata:
questa volta il vecchio scomparso era stato visto alla stazione di servizio Mjölby sul sedile
anteriore di una Mercedes, probabilmente rapito dall’uomo di mezza età con la coda di
cavallo seduto al volante.
“Controlliamo?” chiese il collega.
“No,” sospirò Aronsson.
Una lunga vita da commissario gli aveva insegnato a isolare le informazioni giuste dalla
fuffa: un pensiero consolante, visto che quasi tutto era avvolto nella nebbia.
Benny si fermò a Mjölby per fare il pieno. Julius aprì con circospezione la valigia, da cui
estrasse una banconota da cinquecento corone per pagare.
Poi disse che sarebbe sceso per sgranchirsi le gambe, ma chiese ad Allan di rimanere in
macchina a fare la guardia al bagaglio. Questi, stanco dopo gli strapazzi della giornata,
promise che non si sarebbe mosso.
Benny tornò per primo e si accomodò al volante. Subito dopo arrivò Julius, che ordinò di
ripartire immediatamente. La Mer-ce-des riprese il suo cammino verso sud.
Dopo un po’ Julius si mise ad armeggiare con qualcosa sul sedile posteriore. Porse un
sacchetto di cioccolatini ad Allan e a Benny.
“Guardate che cosa ho sgraffignato,” disse.
Allan inarcò le sopracciglia.
“Hai rubato un sacchetto di cioccolatini quando abbiamo cinquanta milioni nella valigia?”
“Avete cinquanta milioni nella valigia?” chiese Benny.
“Accidenti,” commentò Allan.
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“Non esattamente,” intervenne Julius. “Hai avuto centomila corone.” “Più cinquecento per
la benzina,” precisò Allan.
“Allora avete quarantanovemilioniottocentonovantanovemilacinquecento corone nella
valigia?” “Sei veloce a contare,” la lodò Allan.
Per un po’ calò il silenzio. A quel punto Allan decise che era meglio raccontare all’autista
tutta la storia. Se poi Benny avesse voluto rompere l’accordo, non ci sarebbero stati
problemi.
La parte che Benny ebbe maggiore difficoltà a digerire era che una persona fosse stata
uccisa e spedita all’estero. Si era trattato di un incidente, questo sì, anche se c’era di mezzo
una sbornia. L’alcol a Benny non interessava.
L’autista neoassunto rifletté ancora prima di arrivare alla conclusione che all’inizio i
cinquanta milioni erano finiti nelle mani sbagliate, e forse ora sarebbero stati meglio
utilizzati. Inoltre licenziarsi il primo giorno di lavoro non era una bella cosa.
Per questo, promettendo di restare in servizio, chiese ai signori quali fossero i loro piani per
il futuro. Finora non aveva osato domandarlo: la curiosità non gli sembrava la dote migliore
per un autista, ma adesso era diventato complice anche lui.
Allan e Julius ammisero di non averne affatto, ma che sarebbe stato meglio continuare su
quella strada finché non avesse fatto buio, e trovare un posto dove discutere della faccenda.
E così fu.
“Cinquanta milioni,” disse Benny ridendo mentre metteva in moto la Mercedes.
“Qua-ran-ta-no-ve-mi-lio-ni-ot-to-cen-to-no-van-ta-no-ve-mi-la-cin-que-cen-to,” lo corresse
Allan.
Julius fu indotto a promettere che avrebbe smesso di rubare solo per il gusto di farlo.
Confessò che non sarebbe stato facile perché ce l’aveva nel sangue, tuttavia acconsentì
aggiungendo che raramente faceva delle promesse ma quando accadeva manteneva sempre
la parola data.
Il viaggio proseguì in silenzio. Allan si addormentò subito. Julius mangiò un altro
cioccolatino mentre Benny canticchiava una canzone di cui non ricordava il titolo.
Non è facile fermare un giornalista di un’edizione serale che ha fiutato una storia. Non
passarono molte ore prima che i reporter dell’“Expressen” e dell’“Aftonbladet” riuscissero a
farsi un’idea dell’accaduto molto più chiara di quella propinata loro dal capo della polizia
della contea nella conferenza stampa del pomeriggio. Questa volta fu il giornalista
dell’“Expressen” a spuntarla su quello dell’“Aftonbladet”, perché fu il primo a contattare
Ronny Hulth, a recarsi a casa sua e, in cambio della promessa di procurargli un maschio per
la sua gattina, a riuscire a convincerlo a trascorrere la notte in un albergo di Eskilstuna, fuori
dalla portata dell’“Aftonbladet”. Inizialmente Hulth aveva paura di parlare, ricordava bene
le minacce del giovane, ma il giornalista gli promise che sarebbe rimasto anonimo, oltre al
fatto che non gli sarebbe successo nulla se il club dei motociclisti fosse venuto a sapere che
c’era di mezzo la polizia.
Ma l’“Expressen” non si accontentò di Hulth. Persino il conducente del pullman finì nella
rete, così come gli abitanti di Byringe, il contadino di Vidkärr e altra gente di Åker. Il che
portò alla produzione di numerosi articoli dai toni drammatici. Sicuramente pieni di
supposizioni errate, ma date le circostanze si poteva dire che il giornalista avesse svolto un
buon lavoro.
La Mercedes color argento proseguiva il suo viaggio. A poco a poco anche Julius si era
assopito. Allan russava sul sedile anteriore, Julius su quello posteriore con la valigia a mo’
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di scomodo guanciale. Mentre Benny sceglieva la direzione in base al suo intuito.
A Mjölby aveva deciso di lasciare la E4 per imboccare la statale 32 in direzione di Tranås,
dove però non si era fermato, continuando verso sud. Entrato nella contea di Kronoberg
cambiò di nuovo strada, ritrovandosi tra i boschi dello Småland. Lì sperava di trovare un
posto per la notte.
Allan si destò chiedendo se non fosse arrivato il momento di andare a letto. Julius fu
svegliato dalla conversazione che stava avendo luogo nella parte anteriore della macchina.
Si guardò intorno: boschi ovunque. Domandò dove fossero.
Benny riferì che si trovavano poche decine di chilometri a nord di Växjö e che mentre i
signori dormivano aveva riflettuto un po’.
Era arrivato alla conclusione che per motivi di sicurezza sarebbe stato meglio cercare un
posticino defilato dove passare la notte. Non sapevano chi avessero alle calcagna, ma se uno
si appropria di una valigia con dentro cinquanta milioni di denaro sporco non può pensare di
essere lasciato in pace. Per questo aveva abbandonato la strada che li avrebbe condotti a
Växjö, mentre ora si stavano avvicinando all’anonimo centro abitato di Rottne. L’idea di
Benny era di pernottare lì.
“Ben detto,” lo elogiò Julius, “ma non del tutto.” Si spiegò. Nella migliore delle ipotesi a
Rottne avrebbero trovato un alberghetto da quattro soldi poco frequentato. Se una sera
fossero comparsi tre signori senza preavviso, di sicuro avrebbero attirato l’attenzione.
Meglio cercare una fattoria o qualcosa di simile in mezzo ai boschi, dove chiedere un letto e
un boccone.
Benny ammise la bontà del ragionamento, quindi imboccò la prima strada sterrata che vide.
Cominciava a fare buio quando, dopo soli quattro tortuosi chilometri, sul ciglio della strada
scorsero una cassetta delle lettere su cui era scritto “Fattoria del lago”, con accanto una
deviazione che probabilmente li avrebbe condotti lì. Così fu. Dopo cento metri lungo una
stradina tutta curve apparve una casa. Era un edificio rosso dai contorni bianchi, di due
piani, con un fienile e, in prossimità di un laghetto, qualcosa che un tempo doveva essere
stata una rimessa per gli attrezzi.
La casa pareva abitata e Benny parcheggiò la Mercedes proprio là di fronte. Subito ne uscì
una donna sotto i quaranta dai capelli rossi e crespi, con indosso una tuta da lavoro ancora
più rossa e accompagnata da un pastore tedesco.
I tre scesero dall’auto per andarle incontro. Julius lanciò un’occhiata al cane, ma l’animale
non dava segno di voler attaccare. Al contrario, osservava gli ospiti incuriosito.
Julius distolse lo sguardo dalla bestia per rivolgersi alla donna. Dopo averla salutata
educatamente, espose la sua richiesta di pernottare lì e magari mangiare un boccone.
La donna osservò la variopinta compagnia che le stava davanti: un vecchio, un vecchio un
po’ meno vecchio e… un gran bel tipo, dovette riconoscere. E anche dell’età giusta.
E con la coda di cavallo! Rise tra sé e Julius pensò che volesse dare loro il suo assenso,
invece esclamò: “Questo non è un fottuto albergo.” Accidenti, pensò Allan. Non vedeva
l’ora di mangiare qualcosa e mettersi a letto. La vita gli stava succhiando ogni forza proprio
adesso che aveva deciso di ricominciare a viverla. Si poteva dire quello che si voleva della
casa di riposo, ma finché era rimasto là non aveva mai accusato alcun dolore in tutto il
corpo.
Anche Julius sembrava abbacchiato. Disse che lui e i suoi amici si erano persi ed erano
piuttosto stanchi, ma soprattutto erano pronti a pagare se fosse stato concesso loro di
fermarsi per la notte. Potevano anche saltare la cena.
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“Siamo disposti a pagare mille corone a persona per pernottare qui,” incalzò.
“Mille corone?” chiese la donna. “State scappando?” Julius sviò la domanda perfettamente
centrata tornando a spiegarle che avevano alle spalle un lungo viaggio, e che se fosse stato
per lui ce l’avrebbe anche fatta, ma Allan era in là con gli anni.
“Ne ho compiuti cento ieri,” disse Allan con voce debole.
“Cent’anni?” esclamò la donna quasi spaventata. “Ma che cazzo dici? Terribile.” Rimase in
silenzio per un attimo, sembrava stesse riflettendo.
“Ma sì, cazzo. Sì che potete fermarvi, ma di qualche migliaio di corone non se ne parla
proprio. Come vi ho già detto, io non conduco nessun fottuto albergo.” Benny la guardò
ammirato. Non aveva mai sentito una donna dire così tanto in così breve tempo. Gli
sembrava terribilmente affascinante.
“Mia bella,” intervenne, “è possibile accarezzare il cane?” “Mia bella?” commentò la donna.
“Non ci vedi? Ma accarezza pure, cazzo. Buster è buono. Potete occupare ognuno una
stanza diversa al primo piano, qui ce n’è di posto.
Le lenzuola sono pulite, ma fate attenzione al veleno per topi sul pavimento. La cena sarà
pronta fra un’ora.” La donna superò i tre ospiti per dirigersi verso il fienile, con il fedele
Buster al suo fianco. Benny la chiamò per domandarle se avesse un nome. L’interessata
rispose senza girarsi che si chiamava Gunilla, ma secondo lei “bella” suonava bene, quindi
“continua pure a chiamarmi così, cazzo”. Benny promise di farlo.
“Credo di essere innamorato,” disse Benny.
“Io sono stanco,” disse Allan.
In quel momento si sentì uscire dal fienile un muggito terrificante, che fece spalancare gli
occhi anche allo stremato Allan. Doveva provenire da un animale molto grosso e
probabilmente sofferente.
“Sta’ zitta, Sonya,” disse Bella. “Sto arrivando, cazzo.”
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CAPITOLO 7
1929-1939
La fattoria di Yxhult non era un bello spettacolo. Negli anni passati da Allan sotto le cure
del professor Lundborg era andata in rovina. Le tegole, divelte dalle intemperie, giacevano
sparse sul terreno, per qualche ragione il WC era stato sradicato e una finestra della cucina
rimasta aperta continuava a sbattere.
Allan fece pipì davanti all’ingresso, non disponendo più di un cesso funzionante. Poi entrò
in casa e si sedette nella cucina polverosa. Lasciò la finestra com’era. Aveva fame, ma si
trattenne dall’impulso di guardare cosa ci fosse in dispensa. Era certo che la vista sarebbe
stata desolante.
Era nato e cresciuto in quel posto, e mai aveva sentito la casa tanto estranea. Era forse
arrivato il momento di darci un taglio e mettersi in marcia nella direzione opposta?
As-so-lu-ta-men-te sì.
Rintracciò i vecchi candelotti di dinamite, ed eseguite le manovre necessarie riempì il
carrello della bicicletta con le poche cose di valore che possedeva. All’imbrunire del 3
giugno 1929 Allan se ne andò via da Yxhult, via da Flen. La carica di dinamite detonò come
previsto esattamente trenta minuti dopo. La fattoria di Yxhult saltò in aria e la mucca del
vicino abortì per l’ennesima volta.
Un’ora dopo Allan si trovava alla stazione di polizia di Flen in stato d’arresto. Mentre
consumava la sua cena venne aggredito verbalmente dal capo della polizia Krook. La
polizia di Flen era appena stata dotata di un’auto di servizio, pertanto non c’era voluto molto
a catturare l’uomo che aveva appena ridotto in briciole la sua casa.
Questa volta il capo d’imputazione era chiaro.
“Atti di vandalismo ai danni della salute pubblica,” sentenziò il capo della polizia Krook
con voce autoritaria.
“Potrei avere del pane?” chiese Allan.
No, non poteva. Il capo della polizia Krook se la prese con il suo povero assistente, reo di
aver assecondato le richieste di quel delinquente affamato. Intanto Allan finì di cenare prima
di essere condotto in cella.
“Non avete per caso il giornale di oggi?” domandò. “Per una lettura serale, ecco.” Il capo
della polizia Krook rispose spegnendo la luce e sbattendo la porta. Il mattino dopo la prima
cosa che fece fu chiamare “quel manicomio” a Uppsala per dire loro di venirsi a prendere
Allan Karlsson.
Gli assistenti del professor Lundborg fecero orecchie da mercante: Karlsson aveva concluso
la sua terapia e adesso ce n’erano di nuovi da analizzare. Se solo il capo della polizia avesse
saputo quante erano le persone da rinchiudere: ebrei e zingari, negri e mezzi negri, malati di
mente e altri ancora. Il fatto che il signor Karlsson avesse fatto saltare in aria la propria
abitazione non implicava necessariamente un nuovo soggiorno a Uppsala. Ognuno può fare
quello che vuole in casa propria. O no? Non viviamo forse in un paese libero?
Alla fine il capo della polizia Krook riagganciò. Non se ne cavava un ragno dal buco con
quella gente. Si pentì di non aver permesso a Karlsson di allontanarsi la sera prima
abbandonando la zona, com’era sua intenzione fare.
In conclusione, dopo numerose trattative intavolate nel corso della mattinata, Allan Karlsson
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montò nuovamente in sella alla sua bicicletta con tanto di carrello al traino.
Questa volta con scorte di cibo per tre giorni e doppia coperta in cui avvolgersi in caso di
freddo. Fece un cenno d’addio al capo della polizia Krook, che non ricambiò, e si mise a
pedalare verso nord, tanto una direzione valeva l’altra.
Ormai era pomeriggio inoltrato e la strada prescelta lo aveva condotto a Hälleforsnäs: per
quel giorno poteva bastare. Allan si fermò su un prato, e dopo aver steso la coperta aprì il
pacchetto con il cibo. Mentre masticava una fetta di pane di segale con salsiccia affumicata,
prese a studiare il capannone industriale che si stagliava davanti ai suoi occhi. All’esterno
della fabbrica c’erano un mucchio di cannoni appena fusi. Allan pensò che chi produceva
cannoni poteva magari aver bisogno di qualcuno che al momento opportuno ne assicurasse
il corretto funzionamento. Meditò anche sul fatto che il suo obiettivo non doveva per forza
consistere nell’allontanarsi il più possibile da Yxhult.
Hälleforsnäs poteva bastare. Sempre che ci fosse stato lavoro.
Mettere in relazione i fusti dei cannoni con le sue competenze specifiche era forse un po’
ingenuo da parte di Allan, eppure il ragionamento filava. Dopo un breve colloquio con il
padrone della fonderia, nel quale tralasciò di raccontare alcuni episodi della sua vita, Allan
venne assunto come esperto di esplosivi.
Si sarebbe trovato bene, pensò.
Alla fonderia di Hälleforsnäs la produzione di cannoni era ridotta all’osso e non pareva che
le ordinazioni avessero intenzione di crescere di lì a poco, anzi. Dopo la guerra il ministro
della Difesa Per Albin Hansson aveva tagliato i finanziamenti a scopi militari, mentre
Gustavo V se ne stava nel suo palazzo a rognare. Per Albin, da uomo analitico qual era,
ragionava così: in effetti la Svezia avrebbe dovuto presentarsi meglio equipaggiata alla
guerra, indipendentemente dall’esito finale, ma adesso, dieci anni dopo, armarsi non serviva
più a niente. Oltre al fatto che era nata la Società delle Nazioni.
La conseguenza, per la fonderia del Sörmland, fu che parte della produzione venne
convertita a uso pacifico e parecchi operai persero il lavoro.
Ma non Allan, essendo gli esperti di esplosivi una rarità. Il padrone della fabbrica non
poteva credere ai suoi occhi e alle sue orecchie il giorno in cui Allan apparve mostrandogli
la propria perizia in materia di esplosivi di ogni genere. Finora il padrone della fabbrica
aveva dovuto affidarsi al pirotecnico assunto, ma a dire il vero non si era trattato di un buon
investimento, dato che il tecnico era straniero, sapeva due parole di svedese e aveva i capelli
e tutti i peli del corpo neri. Il padrone non era sicuro di potersi fidare di lui, ma vista la
situazione era stato costretto a farlo.
Allan non giudicava mai le persone in base ai colori e aveva sempre pensato che le
affermazioni del professor Lundborg fossero piuttosto bizzarre. Inoltre, era curioso di
incontrare il primo uomo o la prima donna di colore della sua vita. Leggeva con avidità gli
articoli in cui si parlava dello spettacolo che Josephine Baker avrebbe tenuto a Stoccolma.
Per ora, tuttavia, doveva accontentarsi di Estéban, il suo collega spagnolo, di razza bianca
ma molto scuro.
Allan ed Estéban andavano d’accordo. Condividevano una camera ammobiliata in una delle
casette plurifamiliari per gli operai accanto alla fonderia. Estéban gli raccontò la sua
terribile storia. A Madrid, durante una festa, aveva conosciuto una ragazza e in segreto ne
era nata una relazione relativamente innocente. Estéban non sapeva però che la ragazza era
figlia del primo ministro Miguel Primo de Rivera, uno con cui non si scherzava: Primo de
Rivera governava il paese a suo piacimento e il re che non ci metteva becco. Secondo
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Estéban “primo ministro” era una simpatica perifrasi per dire dittatore. Ma sua figlia era
incredibilmente bella.
I trascorsi di Estéban come operaio non piacevano affatto al potenziale suocero. Nel suo
primo e unico incontro con lui, Estéban seppe di avere due alternative: allontanarsi il più
lontano possibile dal suolo spagnolo, o prendersi una pallottola nella nuca in quel preciso
istante.
Mentre Primo de Rivera toglieva la sicura alla pistola Estéban rispose che aveva appena
scelto l’alternativa numero uno, e camminando a ritroso abbandonò in tutta fretta la stanza,
facendo attenzione a non offrire le spalle all’uomo con la pistola e senza lanciare mezza
occhiata alla giovane che si struggeva in un angolo.
Il più lontano possibile, pensava Estéban, quindi si diresse a nord, e poi ancora più a nord, e
alla fine talmente a nord che i mari diventarono di ghiaccio. A quel punto gli sembrò che
potesse bastare. E lì era rimasto. Aveva trovato lavoro alla fonderia tre anni prima con
l’aiuto di un prete cattolico che gli aveva fatto da interprete e, che Dio ci perdoni, grazie alla
storia inventata che lo vedeva esperto di esplosivi, quando invece in Spagna aveva perlopiù
raccolto pomodori.
Poco alla volta aveva imparato a esprimersi in uno svedese comprensibile ed era diventato
un pirotecnico abbastanza bravo. Adesso, con Allan al suo fianco, stava diventando un vero
professionista.
Allan si trovava bene nella casetta plurifamiliare accanto alla fonderia. Dopo un anno
masticava lo spagnolo. Dopo due lo parlava quasi fluentemente. Ce ne vollero tre, però,
prima che Estéban rinunciasse all’idea di inculcargli il concetto di socialismo internazionale
nella sua variante spagnola. Le aveva provate tutte, ma niente da fare.
Estéban non riusciva a capire quel lato del carattere del suo migliore amico. Non che Allan
proponesse un altro ordine delle cose: semplicemente non se ne interessava. O forse gli
andava bene così. Alla fine a Estéban non era rimasto che accettare la realtà.
Allan aveva a che fare con lo stesso problema, anche se al contrario: Estéban era un buon
amico, benché avvelenato da quella dannata politica. E non era l’unico.
Le stagioni si alternarono senza sosta, fino al giorno in cui la vita di Allan non subì una
svolta. Tutto cominciò quando Estéban ricevette la notizia che Primo de Rivera si era
dimesso e aveva lasciato il paese. Finalmente la democrazia, se non addirittura il socialismo,
era arrivata davvero, ed Estéban non si sarebbe perso lo spettacolo per nulla al mondo.
Meditava quindi di tornare al più presto in Spagna. La fonderia andava sempre peggio, dal
momento che il senõr Per Albin aveva deciso che non ci sarebbero più state guerre.
Estéban era convinto che anche i tecnici sarebbero stati licenziati senza preavviso.
Cosa pensava di fare l’amico Allan? Gli piaceva l’idea di andarsene via con lui?
Allan rifletté: da un lato non era attratto da nessuna rivoluzione, spagnola o di altro genere,
tanto tutto sarebbe sempre rimasto uguale a prima. Dall’altro la Spagna era all’estero, come
tutti i paesi tranne la Svezia, ed essendosi sempre interessato ai paesi stranieri non era poi
così strano che Allan decidesse di andarci a vivere. Magari si sarebbe imbattuto in un uomo
di colore, o anche in due.
Quando Estéban gli promise che ne avrebbero incontrato almeno uno durante il viaggio
verso la Spagna, Allan non poté fare altro che dire di sì. I due amici passarono quindi ai
dettagli pratici. Giunsero alla conclusione che il padrone della fabbrica era “un gran
bastardo” (si espressero proprio così) e non meritava alcun riguardo. Decisero allora di
ritirare la paga settimanale e andarsene senza una parola.
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Fu così che, alle cinque del mattino della domenica successiva, Allan ed Estéban si alzarono
per puntare verso sud, direzione Spagna, a bordo della bicicletta col carrello.
Prima di partire Estéban avrebbe voluto fermarsi davanti all’abitazione del padrone, per
depositare un campione di bisogni mattutini nella brocca del latte lasciata tutte le mattine
accanto al cancello. La questione gli stava molto a cuore, dato che in tutti quegli anni era
stato definito “scimmia” non solo dal padrone della fabbrica ma anche dai suoi figli
adolescenti.
“La vendetta non è una bella cosa,” predicò Allan. “La vendetta è come la politica: si
accanisce fino a quando il brutto diventa peggio e il peggio diventa ancora peggio.” Ma
Estéban insistette. Soltanto perché uno aveva le braccia un po’ pelose e non parlava la lingua
del padrone diventava una scimmia?
Allan acconsentì e i due amici raggiunsero un compromesso: Estéban poteva fare la pipì
nella brocca del latte, ma non la cacca.
Così andarono le cose, e la fonderia di Hälleforsnäs si trovò di colpo senza esperti di
esplosivi. In men che non si dica, alcuni testimoni spifferarono al padrone della fabbrica che
Allan ed Estéban si stavano recando verso Katrineholm o forse ancora più a sud a bordo
della bicicletta col carrello, quindi l’interessato apprese dell’improvvisa mancanza di
personale per le settimane a venire mentre, seduto in terrazza, sorseggiava il latte che Sigrid
gli aveva servito come sempre insieme a un biscotto alle mandorle. S’incupì ulteriormente
perché gli parve che ci fosse qualcosa di strano. Il dolcetto sapeva di ammoniaca.
Decise di aspettare la fine della funzione religiosa per dare una tirata d’orecchie a Sigrid.
Per il momento si sarebbe accontentato di bere un altro bicchiere di latte allo scopo di
togliersi, se possibile, quel saporaccio dalla bocca.
Fu così che Allan Karlsson arrivò in Spagna. Passò tre mesi in giro per l’Europa, e lungo il
viaggio ebbe modo di conoscere molti più uomini di colore di quanto si fosse mai
immaginato. Dopo la prima volta, però, perse subito interesse, perché a quanto pareva non
esisteva alcuna differenza fra loro e i bianchi a parte il colore della pelle; e parlavano tutti
una lingua strana, come del resto i bianchi dello Småland. Da bambino quel Lundborg
doveva aver preso uno spavento a causa di un negro, di questo Allan era convinto.
I due amici trovarono il paese nel caos. Il re si era rifugiato a Roma ed era stato rimpiazzato
dalla repubblica. Da sinistra si acclamava la revolución, mentre la destra era terrorizzata
all’idea di quanto stava succedendo nella Russia di Stalin. Sarebbe accaduto lo stesso anche
in Spagna?
Dimenticando per un attimo che l’amico era un inguaribile apolitico, Estéban cercò di
infondere in Allan lo spirito rivoluzionario, ma questi, come d’abitudine, si mostrò
refrattario. Riconosceva gli stessi toni sentiti in Svezia e non riusciva a capire perché ci si
dovesse arrabattare tanto per cambiare le cose.
Seguì un tentativo di golpe militare da parte della destra, a cui tenne dietro uno sciopero
generale proclamato dalla sinistra. Dopodiché furono indette le elezioni. Vinse la sinistra e
la destra se la prese a male. O forse il contrario. Allan non poteva dirlo con precisione. Fatto
sta che scoppiò la guerra.
Allan si trovava in un paese straniero e l’idea migliore che gli venne fu di tenersi a un
mezzo passo dall’amico, che nel frattempo si era arruolato ed era stato promosso sergente
quando il comandante del plotone aveva capito che era in grado di far esplodere in aria le
cose.
L’amico Estéban portava l’uniforme con orgoglio e non vedeva l’ora di compiere la sua
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prima missione di guerra. Il plotone ricevette l’incarico di far saltare un paio di ponti in una
valle dell’Aragona. Alla squadra di Estéban fu assegnato il primo ponte. Era così eccitato
dalla fiducia concessagli che si issò su una roccia e, afferrato il fucile, lo alzò al cielo
urlando: “Morte al fascismo, morte a tutti i fascist…” Estéban non riuscì a concludere la
frase, perché la testa e la spalla vennero dilaniate da quella che probabilmente fu la prima
granata scagliata dal nemico. Quando ciò accadde Allan si trovava a una ventina di metri da
lui, e fu per questo che non venne investito dai resti dell’amico che si sparsero intorno alla
roccia su cui Estéban era salito da totale incosciente. Uno dei soldati della squadra di
Estéban scoppiò a piangere.
Dopo aver esaminato da vicino quel che rimaneva dell’amico, Allan decise che non valeva
la pena reclamarne la salma.
“Era meglio restare a Hälleforsnäs,” mormorò Allan, preso da un attacco di nostalgia e dal
desiderio di mettersi a tagliare la legna davanti a casa sua.
La granata che aveva ucciso Estéban fu probabilmente la prima di tutta la guerra, e di certo
non l’ultima. Allan valutò l’ipotesi di tornarsene a casa, ma di colpo la guerra era ovunque.
Inoltre si trattava di un viaggio molto, molto lungo, e in Svezia non c’era nessuno ad
aspettarlo.
Così si presentò al comandante del plotone come il più abile pirotecnico del continente,
affermando di essere disposto a far saltare in aria ponti e ogni genere di infrastrutture in
cambio di tre pasti al giorno e vino in abbondanza quando le circostanze lo avessero
permesso.
Il comandante fu quasi sul punto di far fucilare Allan, quando questi si rifiutò caparbiamente
di rendere omaggio al socialismo e alla repubblica pretendendo di lavorare in borghese. O,
stando alle parole di Allan: “Un’altra cosa… se devo far saltare i ponti per te lo faccio con
indosso il mio maglione, se no fallo da solo.” Non era ancora nato un comandante disposto a
farsi trattare in quel modo da un civile.
Il fatto però, era che i resti del suo migliore esperto di esplosivi giacevano sparsi in cima a
un’altura non molto distante da lì.
Mentre il comandante sedeva nella sua poltroncina girevole chiedendosi se il futuro
immediato di Allan prevedesse il reclutamento o la fucilazione, uno dei soldati del plotone si
permise di sussurrargli all’orecchio che il sergente finito disgraziatamente in pezzi aveva
presentato quello strano svedese come un maestro nell’arte delle esplosioni.
Il suggerimento risultò decisivo. Al senõr Karlsson furono assicurati: 1) la permanenza in
vita; 2) tre pasti al giorno; 3) il diritto di lavorare in borghese; 4) il diritto – come per gli
altri – di assaggiare il vino di tanto in tanto, nei limiti della decenza. In cambio avrebbe fatto
esplodere tutto quello che gli veniva indicato. Due soldati furono incaricati di tenere
sott’occhio lo svedese, perché per il momento non si poteva escludere che fosse una spia.
Passarono mesi che divennero anni. Allan faceva saltare tutti i ponti che doveva ed eseguiva
gli ordini con perizia e precisione. Era un lavoro pericoloso. Spesso ci si portava
all’obiettivo strisciando furtivamente, si montava una carica a tempo e si ritornava su terreni
più sicuri. Tre mesi dopo il suo reclutamento uno dei due soldati che facevano la guardia ad
Allan morì (per errore finì in una postazione nemica). Sei mesi dopo toccò all’altro (si era
alzato per stiracchiarsi e fu colpito in pieno petto). Il comandante del plotone non si curò di
sostituirli: fino ad allora il senõr Karlsson si era comportato benissimo.
Allan non amava uccidere inutilmente la gente, perciò quando poteva si premurava di
appurare che il ponte in questione fosse deserto prima di farlo esplodere. Accadde anche in
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occasione del suo ultimo incarico, poco prima che la guerra finisse. Ma non andò come
pensato: piazzata la carica, stava strisciando per nascondersi tra i cespugli vicino a uno dei
piloni di sostegno del ponte, quando apparve una pattuglia nemica capitanata da un signore
di bassa statura carico di medaglie. Giungevano dall’altra estremità del ponte e sembravano
ignorare che nelle vicinanze ci fossero dei repubblicani, e ancora di più che stavano per
andare a fare compagnia eterna a Estéban e ad altre decine di migliaia di spagnoli.
Allan si levò in piedi e si mise ad agitare le braccia.
“Andate via di lì!” urlò rivolto al piccoletto con le medaglie e al suo seguito. “Sparite o
salterete in aria!” Il piccoletto con le medaglie arretrò, ma gli altri gli fecero cerchio intorno
spingendolo al di là del ponte. Non si fermarono prima di aver raggiunto Allan. Puntarono
contro lo svedese otto fucili e almeno uno di loro avrebbe fatto fuoco se in quel momento il
ponte alle loro spalle non fosse esploso. Lo spostamento d’aria spinse il piccoletto con le
medaglie nel cespuglio di Allan. Nel tumulto che ne seguì, nessuno osò sparare per paura di
sbagliare bersaglio. E poi il tizio sembrava un civile. Quando il fumo si diradò non si
parlava più di liquidarlo. Il piccoletto con le medaglie gli strinse la mano, spiegando che un
vero generale sapeva mostrare la propria riconoscenza ma adesso era meglio che il gruppo
ritornasse sull’altro lato, con o senza ponte. Se il suo salvatore voleva seguirli sarebbe stato
il benvenuto: il generale lo avrebbe invitato a cena.
“Paella andaluza,” disse il generale. “Il mio cuoco viene dal sud della Spagna.
¿Comprende?” Sì, Allan capiva. Comprese anche che aveva salvato la vita al generalisímo
in persona, che era stato un bene indossare il suo vecchio maglione piuttosto che la divisa
del nemico, che i suoi amici piazzati su un’altura a qualche centinaio di metri di distanza
stavano seguendo l’evolversi della situazione con i binocoli, e che per la sua incolumità
sarebbe stato meglio cambiare fronte in quella guerra di cui non aveva ancora capito il
motivo.
E poi aveva fame.
“Sí, por favor, mi general,” rispose Allan. “La paella va benissimo. Magari accompagnata da
un bicchiere di vino rosso?” Quando, dieci anni prima, Allan aveva cercato lavoro come
esperto di esplosivi alla fonderia di Hälleforsnäs, aveva scelto di cancellare dal suo
curriculum alcuni dettagli, come ad esempio che era stato in una specie di manicomio per
quattro anni e aveva fatto saltare in aria la propria casa. Forse grazie a questo il colloquio
era andato così bene.
Ci ripensò mentre parlava con il generale Franco. Da un lato non bisognava mentire,
dall’altro non poteva certo essere vantaggioso svelare al generale che era stato lui stesso a
piazzare la carica e che per tre anni aveva lavorato come civile nell’armata repubblicana.
Non che Allan avesse paura di raccontarlo, ma nel caso specifico c’erano in gioco una cena
e un’abbondante libagione di vino. Quando si tratta di cibo e di alcol la verità può anche
essere taciuta, decise Allan, e mentì senza pudore.
Dunque Allan era finito in quel cespuglio fuggendo dai repubblicani, aveva visto dove era
stato piazzato l’esplosivo ed era felice di aver potuto avvisare il generale.
A portarlo in Spagna e in guerra era stato un amico, uno in stretto contatto con lo scomparso
Primo de Rivera. Mentre l’amico era stato ucciso da una granata nemica, lui era arrivato fin
lì. Era caduto nelle grinfie dei repubblicani, ma alla fine era riuscito a scappare.
A quel punto Allan cambiò rapidamente argomento, raccontando che suo padre era stato uno
degli uomini più fidati dello zar Nicola II ed era morto da martire in una diatriba senza
speranza con il capo dei bolscevichi Lenin.
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La cena fu servita nella tenda del generale. Più Allan ingollava vino rosso, più gli aneddoti
sul coraggio del padre diventavano pittoreschi. Il generale Franco non avrebbe potuto essere
più stupito: prima gli veniva salvata la vita, poi scopriva che il suo salvatore era quasi
imparentato con lo zar Nicola II.
Il cibo era eccellente. Il vino scorreva a fiumi nel flusso di brindisi in onore di Allan, di suo
padre, dello zar e della sua famiglia. Alla fine il generale, consegnata ad Allan una grande
patacca a suggello del fatto che fra i due non esistevano più titoli, si addormentò.
Quando si risvegliarono la guerra era finita. Il generale Franco prese il controllo della nuova
Spagna e offrì ad Allan di assumere il comando delle sue guardie del corpo.
Allan ringraziò dicendo che purtroppo era arrivato il momento di tornare a casa, se
Francisco lo avesse scusato, cosa che l’interessato fece. Anzi, scrisse una lettera nella quale
assicurava ad Allan la protezione totale del generalísimo (“Mostrala quando hai bisogno
d’aiuto”), quindi gli destinò una scorta degna di un principe fino a Lisbona, da dove a detta
del generale partivano le navi dirette a nord.
Da Lisbona salpavano imbarcazioni per ogni dove. In piedi sul molo, Allan si mise a
pensare. Poi, sventolando la lettera del generale davanti agli occhi del capitano di una nave
battente bandiera spagnola, ottenne subito il passaggio gratis. Che Allan dovesse lavorare
nel corso della traversata non fu neanche messo in discussione.
La nave non era diretta in Svezia, ma sul molo Allan si era chiesto cosa ci sarebbe tornato a
fare in patria: non aveva trovato nessuna risposta valida.
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CAPITOLO 8
Martedì 3 maggio-Mercoledì 4 maggio 2005
Dopo la conferenza stampa del pomeriggio Secchio si era seduto davanti a una birra a
pensare, eppure più rifletteva sulla situazione e meno riusciva a capire cosa fosse successo.
Bullone si era messo a rapire vecchietti? O le due cose non avevano niente a che vedere
l’una con l’altra? A furia di lambiccarsi il cervello gli venne mal di testa.
Decise quindi di smettere e chiamò il Capo per riferirgli che non aveva nulla da riferirgli.
Ebbe l’ordine di rimanere a Malmköping e attendere nuove istruzioni.
Conclusa la conversazione, Secchio fu di nuovo solo con la sua birra. La situazione stava
diventando troppo confusa, lui continuava a non capire e gli stava tornando il mal di testa.
Ripensò ai tempi passati: gli sovvennero gli anni della giovinezza trascorsi nei dintorni di
casa.
Secchio aveva intrapreso la sua carriera criminale a Braås, a una ventina di chilometri da
dove si trovavano in quel momento Allan e i suoi nuovi amici. Insieme ad altri benpensanti
come lui, aveva fondato il club di motociclisti The Violence. Era lui il capo, era lui che
decideva in quale chiosco sarebbero entrati a rubare depredandolo di sigarette. Era lui che
aveva scelto il nome The Violence, La Violenza. Ed era sempre lui che, sfortunatamente,
aveva affidato alla sua ragazza il compito di cucire il nome della banda su dieci giubbotti di
pelle appena rubati. Si chiamava Isabella e non aveva mai imparato a scrivere correttamente,
né in svedese né tantomeno in inglese.
Fu così che riuscì a ricamare sui giubbotti The Violins. Dal momento che anche i membri
della banda avevano maturato gli stessi gloriosi risultati scolastici senza che nessuna
autorità competente fosse intervenuta, non ce ne fu uno che notò l’errore.
Immaginatevi quindi il loro stupore quando un giorno arrivò una lettera indirizzata a The
Violins di Braås da parte dei responsabili di una sala concerti di Växjö. Chiedevano se il
gruppo fosse appassionato di musica classica, e in quel caso se fosse disposto a comparire in
occasione di un concerto tenuto dalla meravigliosa orchestra da camera cittadina Musica
Vitae.
La cosa irritò Secchio, che pensò che qualcuno si stesse prendendo gioco di lui, così una
notte, lasciando perdere il furto con scasso programmato, puntò su Växjö per scagliare un
cubetto di porfido nella hall della sala concerti. Con lo scopo di insegnare ai responsabili un
po’ di educazione.
Tutto andò secondo i piani, a eccezione del fatto che il suo guanto di pelle accompagnò il
lancio, atterrando insieme al cubetto di porfido nella hall. L’allarme scattò immediatamente,
impedendogli di recuperare l’effetto personale.
Rimanere con un guanto solo non fu per niente piacevole. Era in moto, era notte, e gli si
congelò una mano rientrando a Braås. Ma il peggio fu che la sfortunata Isabella aveva
scritto dentro al guanto nome e indirizzo di Secchio, casomai l’avesse perso. Il mattino dopo
la polizia lo prelevò per interrogarlo.
Secchio spiegò di essere stato provocato dai responsabili della sala concerti. Per via di
quest’episodio l’ascesa di The Violence, che il giornale locale citò come The Violino, si
arenò e Secchio divenne lo zimbello di tutta Braås. In preda alla collera decise di incendiare
un chiosco anziché accontentarsi di farne saltare la serratura. Il proprietario di origine turco45
bulgara, che si era fermato a dormire in magazzino per fare la guardia, riuscì a salvarsi per
un pelo. Secchio, che questa volta perse l’altro guanto sul luogo del crimine (completo di
nome e indirizzo come il primo), finì poco dopo in galera per la prima volta. Fu lì che
incontrò il Capo, e scontata la pena decise di abbandonare per sempre Braås, oltre che la sua
ragazza. A quanto pareva entrambi gli portavano iella.
The Violence continuò la sua esistenza, così come i giubbotti di pelle con la scritta sbagliata.
Ma la banda cambiò campo d’attività: adesso si dedicava al furto d’auto e alla
manomissione dei contachilometri. Soprattutto l’ultima operazione si era rivelata assai
lucrativa. Come diceva il nuovo capo, il fratellino di Secchio: “Non c’è niente di più hot di
una macchina che dimostra la metà dei suoi chilometri.” Secchio aveva mantenuto contatti
sporadici con il fratello e la sua vita precedente, ma senza sentirne la mancanza.
“Cazzo,” disse a mo’ di commento alla sua storia.
Era faticoso pensare cose nuove e lo era anche ricordare il passato. Meglio bersi un’altra
birra e poi, seguendo gli ordini del Capo, prendere una stanza in albergo.
Era quasi buio quando il commissario Aronsson, insieme all’addestratore e al cane Kicki,
giunse alla fonderia di Åker dopo una bella camminata iniziata a Vidkärr e proseguita lungo
i binari del treno.
L’animale non aveva dato segni di alcun genere durante il tragitto. Aronsson si chiese se la
bestia aveva capito di essere al lavoro e che quella non era una passeggiatina serale, ma
quando il terzetto raggiunse il carrello ferroviario abbandonato il cane cominciò a puntare.
Alzando una zampa, si mise ad abbaiare. In Aronsson si accese una speranza.
“Significa qualcosa?” domandò.
“Sì, certo che sì,” rispose l’addestratore, il quale spiegò che Kicki utilizzava espressioni
diverse a seconda di ciò che intendeva comunicare.
“E allora dimmi cosa intende comunicare!” esclamò il commissario Aronsson sempre più
impaziente, indicando il cane che continuava a stare fermo su tre zampe e ad abbaiare.
“Significa che sul carrello c’era un morto.” “Un morto? Un cadavere?” “Un cadavere.” Per
un attimo il commissario Aronsson visualizzò la scena del membro della Never Again che
uccideva il povero vecchio Allan Karlsson, poi quest’informazione andò a integrare quelle
già acquisite.
“Deve trattarsi del contrario,” borbottò sentendosi improvvisamente sollevato.
Bella servì polpette di carne con patate e mirtilli rossi, e da bere birra e acquavite. I suoi
ospiti avevano fame, ma per prima cosa volevano sapere che animale fosse quello che
avevano sentito.
“Era Sonya,” spiegò Bella. “Il mio elefante.” “Elefante?” chiese Julius.
“Elefante?” chiese Allan.
“Mi sembrava di aver riconosciuto il verso,” commentò Benny.
Il proprietario del chiosco si era innamorato a prima vista. E adesso, alla seconda, il
sentimento si ripresentava immutato. Quella donna che non smetteva di dire parolacce, rossa
di capelli e dal seno florido sembrava uscita da un romanzo di Paasilinna!
Probabilmente il finlandese non aveva mai parlato di un elefante, ma secondo Benny era
solo questione di tempo.
L’anno prima, una mattina d’agosto, l’elefante era apparso nel giardino di Bella e si era
messo a mangiare mele. Se avesse avuto il dono della parola avrebbe raccontato che la sera
precedente era fuggito da un circo a Växjö per cercare qualcosa da bere, dal momento che i
suoi guardiani avevano fatto lo stesso dileguandosi in città invece di pensare al lavoro.
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Al calare del sole era arrivato fino al laghetto di Helgasjön, dove aveva deciso di fare
qualcosa di più che spegnere semplicemente la sua sete. Un bagno rinfrescante sarebbe stato
perfetto, aveva pensato l’elefante prima di immergersi nelle acque lacustri piatte come
l’olio.
Di colpo si erano alzate le onde e il pachiderma era ricorso alla sua innata capacità di
nuotare. In generale questi animali non impiegano la stessa logica degli esseri umani, infatti
l’elefante aveva preferito attraversare due chilometri e mezzo a nuoto, fino a raggiungere la
sponda opposta e ritornare sulla terraferma, anziché fare dietrofront percorrendo quattro
metri.
Questa logica elefantina sortì due conseguenze. La prima fu che venne dichiarato morto sia
dal personale del circo sia dalla polizia, che aveva seguito le sue tracce fino a Helgasjön e
scandagliato i quindici metri di profondità del lago. L’altra fu che il pachiderma,
perfettamente in salute e protetto dal buio, era riuscì ad arrivare fino al giardino di Bella
senza che nessuno lo notasse.
Come questo fosse stato possibile Bella non l’aveva ancora capito, ma leggendo il giornale
locale aveva saputo dell’elefante scomparso e dichiarato morto. Aveva concluso che, vista la
scarsa probabilità che ci fossero molti pachidermi in fuga proprio in quella zona e in quel
momento, l’elefante deceduto e quello vivo e vegeto che si trovava nel suo giardino erano lo
stesso esemplare.
Aveva cominciato col dargli un nome: Sonya, in onore del suo idolo Sonya Hedenbratt.
C’era voluto qualche giorno di mediazione tra Sonya e il pastore tedesco Buster prima che i
due riuscissero a sopportarsi.
Per la povera Sonya, che giustamente mangiava come un elefante, era seguito un inverno
alla costante ricerca di cibo. In modo decisamente tempestivo l’anziano padre di Bella era
passato a miglior vita lasciando in eredità alla sua unica figlia un milione di corone (quando
era andato in pensione, vent’anni prima, aveva venduto la sua ditta di scope gestendo
brillantemente il ricavato). Così Bella aveva smesso di lavorare alla reception del centro
medico di Rottne per fare la mamma a tempo pieno del cane e dell’elefante.
Tornata nuovamente la primavera, Sonya aveva potuto riprendere a nutrirsi di erba e foglie
ed era stato allora che aveva fatto la sua comparsa la Mercedes, la prima visita da quando il
papà serenamente spirato aveva salutato la figlia l’ultima volta, due anni prima. Bella
aggiunse che non aveva alcuna intenzione di nascondere Sonya ai nuovi arrivati.
Seduti in silenzio, Allan e Julius ascoltavano il racconto di Bella, quando Benny disse: “C’è
qualcosa che non va nel barrito di Sonya. Sono convinto che abbia male da qualche parte.”
Bella spalancò gli occhi stupita: “Come cazzo l’hai capito?” Benny non rispose subito, prese
un boccone per avere il tempo di riflettere. Poi disse: “Sono quasi veterinario. Volete la
versione lunga o quella breve?” Tutti optarono per quella lunga, ma Bella insistette perché
prima lei e Benny si recassero nel fienile, dove il quasi veterinario avrebbe potuto dare
un’occhiata alla zampa anteriore sinistra di Sonya.
Sia Allan sia Julius si chiesero come fosse possibile che un veterinario con la coda di
cavallo avesse finito col diventare lo sfortunato gestore di un chiosco in un terrificante
paesino del Sörmland. A proposito, un veterinario con la coda di cavallo, ma quando mai? I
tempi erano davvero impazziti. All’epoca di Gun-nar Sträng, invece, sì che si capiva che
lavoro faceva la gente.
“Il ministro delle Finanze con la coda,” chiocciò Julius. “Questo sì che è tutto dire.” Benny
visitò la povera Sonya con fare competente, forte dell’esperienza acquisita durante il
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tirocinio allo zoo di Kolmården. Un rametto le si era incastrato sotto un’unghia provocando
un’infiammazione alla zampa. Bella aveva già tentato di toglierlo, ma senza abbastanza
vigore. A Benny l’operazione riuscì in un paio di minuti, parlando dolcemente all’animale e
con l’aiuto di una tenaglia. La zampa comunque era infiammata.
“Ci servono degli antibiotici,” dichiarò Benny. “Un chilo almeno.” “Se è questo che serve,
so dove trovarlo,” replicò Bella.
Procurarsi le medicine implicava una capatina notturna a Rottne, e in attesa del momento
buono ritornarono dai propri commensali.
Mangiarono tutti con grande appetito, innaffiando il cibo con birra e acquavite, a eccezione
di Benny che bevve del succo di frutta. Finito l’ultimo boccone si trasferirono in soggiorno
sulle poltrone vicino al camino, dove Benny fu sollecitato ad approfondire il tema del quasi
veterinario.
La storia era cominciata all’epoca in cui Benny e Bosse, il fratello maggiore di un anno,
cresciuti entrambi a Enskede, a sud di Stoccolma, avevano trascorso un certo numero di
estati dallo zio paterno Frank nella contea di Dalarna. Questo zio, chiamato sempre e
soltanto Frasse, era un imprenditore di successo, che possedeva e dirigeva alcune ditte locali
di vario genere. Zio Frasse vendeva qualsiasi cosa: dalle roulotte alla ghiaia, oltre a tutto
quello che ci stava in mezzo. Eccetto mangiare e dormire, aveva dedicato la sua vita al
lavoro. Alle spalle aveva qualche relazione naufragata, dato che le sue donne non
sopportavano che non facesse altro che sgobbare, mangiare e dormire (la domenica si faceva
anche una doccia).
In estate, negli anni Sessanta, Benny e Bosse venivano spediti lì dal padre, il fratello
maggiore di zio Frasse, con la scusa che i ragazzi avevano bisogno di aria pura. Fu così che
impararono a usare l’enorme schiacciasassi della cava di ghiaia dello zio Frasse. Si
divertivano, per quanto il lavoro fosse duro e per due mesi di fila respirassero polvere
piuttosto che aria pura. La sera lo zio Frasse serviva la cena infarcita di prediche. Uno dei
suoi cavalli di battaglia era: “Vedete di farvi una cultura, ragazzi, altrimenti finirete co-me
me.” A dire il vero ai due nipoti non sembrava poi così male finire come lo zio, perlomeno
finché non finì sotto lo schiacciasassi, ma il grande rammarico dello zio Frasse era di aver
frequentato la scuola per troppo poco tempo. Sapeva a malapena scrivere, non capiva
un’acca di inglese e solo in caso di necessità sarebbe riuscito a dire che la capitale della
Norvegia era Oslo, se mai a qualcuno fosse venuto in mente di chiederglielo. Ciò per cui zio
Frasse aveva un talento speciale erano gli affari. Infatti era ricco sfondato.
A quanto ammontasse esattamente il suo patrimonio al momento dell’inatteso decesso era
difficile a dirsi. Bosse aveva diciannove anni e Benny stava per compierne diciotto.
Un giorno furono contattati da un avvocato che comunicò loro che erano stati nominati nel
testamento dello zio Frasse, ma la questione era complicata perciò era necessario un
incontro.
Benny e Bosse si recarono nel suo studio, dove vennero a sapere che un capitale, il cui
ammontare sarebbe rimasto loro sconosciuto ma che in effetti era consistente, attendeva i
due fratelli il giorno in cui avessero ultimato gli studi.
Non solo: per tutto il periodo i fratelli avrebbero ricevuto tramite l’avvocato una discreta
somma di denaro ogni mese, che sarebbe stata adeguata all’aumento del costo della vita.
Questo a condizione che non abbandonassero gli studi, nel qual caso avrebbero perso il
mensile. Lo stesso valeva anche nel caso in cui uno dei due fratelli, finito di studiare, fosse
stato in grado di mantenersi da solo. Il testamento conteneva altri dettagli più o meno
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intricati, ma il punto fondamentale era che sarebbero diventati ricchi solo dopo aver
ultimato gli studi.
Benny e Bosse si iscrissero subito a un corso di sette settimane per saldatori, con la
conferma da parte dell’avvocato che secondo il testamento era sufficiente, “anche se
suppongo che lo zio Frank avesse in mente qualcosa di meglio”.
A metà del corso avvennero due cose. La prima fu che Benny si stancò definitivamente di
essere il bersaglio costante del fratello maggiore. Era sempre stato così, ma adesso bene o
male erano tutti e due adulti e Bosse avrebbe dovuto cercarsi qualcun altro da strapazzare.
La seconda fu che Benny era arrivato alla conclusione che il suo destino non fosse diventare
saldatore: il suo talento in materia era così scarso che non intendeva neppure portare a
termine il corso.
Per questo un giorno i due fratelli litigarono, finché Benny non si iscrisse a un corso di
botanica all’Università di Stoccolma. Secondo l’avvocato il patrimonio era salvo: il cambio
di indirizzo era accettabile, a patto che non sopraggiungessero interruzioni.
Bosse finì il suo corso da saldatore, ma non ricevette un centesimo dei soldi dello zio Frasse
dal momento che suo fratello Benny stava ancora studiando. L’avvocato, stando alle volontà
espresse nel testamento, smise immediatamente di versargli il mensile.
Fu la volta che i ragazzi si odiarono davvero. Quando una notte Bosse, ubriaco, fece a pezzi
la 125 di Benny (moto nuova di zecca, comprata con il denaro ricevuto), finì per sempre
anche l’amore fraterno.
Bosse si diede agli affari seguendo le orme dello zio, ma senza il suo talento. Poco dopo si
trasferì nel Västergötland, un po’ per dare nuovo impulso alla sua attività, un po’ per evitare
di incontrare quel maledetto del fratello. Intanto Benny continuava a rimanere parcheggiato
nel mondo dell’università, anno dopo anno. Il mensile era consistente. Benny si ritirava da
ogni corso prima dell’esame finale e viveva bene, mentre quel delinquente di suo fratello
rimaneva in attesa dei soldi.
Andò avanti così per trent’anni, fino a quando l’avvocato, ormai in età avanzata, non
comunicò che il denaro era finito e non ci sarebbero più stati altri versamenti mensili. In
breve i fratelli potevano dimenticarsi l’eredità, disse l’avvocato, che aveva compiuto
novant’anni e forse era rimasto in vita solo per via del testamento, tanto che un paio di
settimane dopo spirò nella sua poltrona davanti alla TV.
Il fatto risaliva a pochi mesi prima e di colpo Benny era stato costretto a trovarsi
un’occupazione. Per quanto fosse una delle persone più istruite di Svezia ai datori di lavoro
non interessava il suo record, ma un pezzo di carta che certificassela conclusione degli studi
con relativa votazione. Benny aveva ultimato almeno dieci corsi di studio a livello
accademico, ma alla fine era stato costretto a investire in un chiosco.
Benny e Bosse erano rimasti in contatto solo tramite l’avvocato, fino alla comunicazione
dell’esaurimento dell’eredità. Le recriminazioni e le accuse di Bosse erano state così pesanti
che Benny non aveva alcuna intenzione di incontrarlo nel prossimo futuro.
A quel punto del racconto Julius aveva cominciato a inquietarsi a causa delle domande un
po’ insistenti di Bella, che per esempio voleva sapere come mai Benny si fosse unito a Julius
e Allan. Per fortuna la birra e l’acquavite la distrassero dai dettagli. Le girava un po’ la testa,
come ammise lei stessa, e intanto si stava innamorando.
“Cosa sei riuscito a quasi diventare, oltre che veterinario?” chiese con gli occhi che le
brillavano.
Benny, come Julius, riteneva che gli avvenimenti degli ultimi giorni non potessero essere
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spiegati scendendo troppo nei particolari, pertanto fu lieto della piega presa dalla
conversazione. Non era in grado di ripercorrere tutto per filo e per segno, disse, si
apprendono parecchie cose quando per trent’anni di fila si sta seduti a un banco di scuola, a
condizione che si studi anche. Tuttavia Benny poteva affermare di essere quasi veterinario,
quasi medico generico, quasi architetto, quasi ingegnere, quasi botanico, quasi insegnante di
lingue, quasi pedagogo dello sport, quasi storico, oltre a una manciata di altre cose grazie a
un certo numero di corsi brevi in altre materie di specializzazione. Lo si poteva definire
quasi un secchione, dato che in alcuni semestri era riuscito a seguire più corsi.
A Benny venne in mente un’altra cosa che aveva quasi dimenticato. Balzando in piedi e
rivolto a Bella si mise a declamare: Dalla mia vita misera e cupa, dalla lunga notte della mia
solitudine elevo il mio canto su di te, mia sposa, mio unico e scintillante tesoro.
Scese il silenzio, interrotto soltanto da Bella che borbottava qualche parolaccia tra i denti
mentre le si imporporavano le guance.
“Erik Axel Karlfeldt,” chiarì Benny. “Con le sue parole vorrei ringraziare per il cibo e
l’accoglienza. Non ho detto che sono anche un quasi uomo di lettere?” Ma quando invitò
Bella a danzare davanti al camino, lei si rifiutò mormorando che c’era un limite alle
stronzate. A ogni modo Julius notò che era lusingata, tanto che dopo essersi tirata su la
cerniera del giacchino prese a lisciarlo lungo le cuciture a uso e consumo di Benny.
Allan comunicò la sua decisione di ritirarsi mentre gli altri tre passarono al caffè, con
cognac per chi lo voleva. Julius disse subito di sì al trattamento completo, Benny invece si
accontentò della prima parte.
Julius prese a bombardare Bella di domande riguardanti lei e la sua piccola fattoria, un po’
perché era curioso, un po’ perché voleva evitare a ogni costo quesiti su chi fossero loro tre,
dove stessero andando e per quale motivo. Riuscì nell’intento, poiché Bella partì in quinta e
si mise a parlare della sua infanzia, dell’uomo con cui si era sposata a diciott’anni e che
aveva buttato fuori casa dieci anni dopo (quella parte del racconto fu infarcita di molteplici
imprecazioni), del fatto che non aveva figli, che Sjötorp era la casa dove i genitori avevano
trascorso l’estate finché la madre non era morta sette anni prima, che il padre aveva lasciato
che Bella vi si trasferisse in pianta stabile, del lavoro assolutamente insulso come
responsabile della reception al centro medico di Rottne, dei soldi dell’eredità che
cominciavano a diminuire e del fatto che probabilmente era arrivato il momento di mollare
tutto e cercare altro.
“Ho già quarantatré anni,” concluse Bella. “Cazzo, sono a metà strada dalla tomba.” “Di
questo non devi essere così sicura,” commentò Julius.
L’addestratore impartì a Kicki nuovi ordini e il cane riprese a fiutare allontanandosi dal
carrello ferroviario. Il commissario Aronsson sperava che da qualche parte saltasse fuori il
cadavere, ma dopo aver annusato nel raggio di trenta metri l’area della zona industriale
Kicki si mise a girare in tondo, dando l’idea di procedere quasi a casaccio finché non lanciò
un’occhiata implorante al suo padrone.
“Kicki si scusa, ma non sa dove sia finito il cadavere,” tradusse l’addestratore.
Il commissario Aronsson interpretò l’affermazione come se le tracce del morto si fossero
perse vicino al carrello. In realtà, se Kicki avesse potuto parlare avrebbe detto che il corpo
era stato trascinato per qualche metro all’interno della zona industriale prima di sparire. In
quel caso il commissario Aronsson si sarebbe chiesto quali mezzi di trasporto si fossero
allontanati dall’area in questione nelle ultime ore. E la risposta sarebbe stata: un camion con
container diretto al porto di Göteborg. Se così fosse andata, sarebbe stato possibile allertare
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la volante della polizia lungo la E20, e al camion sarebbe stato chiesto di fermarsi in qualche
punto alla periferia di Trollhättan.
Invece il cadavere stava lasciando la Svezia.
Tre settimane dopo, su una chiatta che aveva appena attraversato il canale di Suez un
giovane marinaio egiziano a guardia del carico stava soffocando per via del fetore
proveniente dal container.
Alla fine non riuscì più a resistere. Inumidito uno straccio, se lo assicurò davanti al naso e
alla bocca. Trovò la risposta in uno dei cilindri all’interno del container: c’era un cadavere
in decomposizione.
Il marinaio ci pensò su. Lasciare il corpo dov’era e rovinarsi il resto del viaggio era un’idea
che non lo allettava. D’altra parte, se avesse parlato sarebbe stato costretto a subire lunghi
interrogatori da parte della polizia di Gibuti e la faccenda non si prospettava piacevole.
Neanche la possibilità di liberarsi del cadavere era esaltante, ma infine si decise: prima
ripulì il morto di tutto quello che aveva – doveva pur guadagnarsi qualcosa con tutta quella
fatica –, poi lo gettò in mare.
Fu così che quello che un tempo era un giovane dalla corporatura esile, i capelli lunghi,
biondi e unti, la barba incolta e un giubbotto di jeans con la scritta “Never Again” sulla
schiena, con un tonfo si trasformò in mangime per i pesci del mar Rosso.
A Sjötorp l’allegra combriccola si sciolse prima di mezzanotte. Julius salì al primo piano per
andare a dormire, mentre Benny e Bella partirono con la Mercedes per far visita al centro
medico di Rottne, a quell’ora sicuramente chiuso. A metà strada scoprirono che Allan si era
rintanato sotto una coperta sul sedile posteriore. Svegliandosi, spiegò loro che era uscito per
prendere una boccata d’aria ma poi aveva deciso di trasformare la macchina in un’alcova:
salire le scale fino al primo piano era troppo per le sue povere ginocchia e la giornata era
stata lunga.
“Non ho più novant’anni,” commentò.
Il duo era diventato un trio, ma non era un problema. Bella illustrò il suo piano nel dettaglio:
sarebbero penetrati nel centro medico grazie alla chiave che Bella aveva scordato di
consegnare quando si era licenziata. Poi si sarebbero introdotti nel computer del dottor
Erlandsson, di cui avrebbero usato il nome per compilare la ricetta degli antibiotici e
stamparla. Era necessario conoscere i codici d’accesso del medico, ma anche questo non era
un problema perché, come precisò Bella, il dottor Erlandsson non era soltanto un pallone
gonfiato ma anche un deficiente. Quando un paio d’anni prima era stato installato il nuovo
sistema informatico era toccato a lei insegnare al signorino come si faceva a scrivere e
stampare le ricette con il computer, quindi aveva scelto anche la password.
La Mercedes arrivò sul luogo del crimine. Scesi dalla macchina, Benny, Allan e Bella si
misero a studiare la situazione prima di sferzare l’attacco. Come da copione in quel
momento passò un’auto, e il conducente sbirciò il terzetto che a sua volta ricambiò lo
sguardo. Che un essere umano fosse sveglio dopo la mezzanotte a Rottne era un evento, e
ora erano addirittura in quattro.
La macchina sparì e ogni cosa venne di nuovo inghiottita dal silenzio e dalle tenebre.
Bella condusse Benny e Allan fino alla porta sul retro riservata al personale, e di lì nello
studio del dottor Erlandsson, dove Bella accese il computer.
Tutto procedeva secondo i piani quando di colpo Bella se ne uscì con una sequela
ininterrotta di parolacce. Si era appena resa conto dell’impossibilità di scrivere una ricetta
per “un chilo di antibiotici”.
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“Digita eritromicina, rifaximina, gentamicina e rifampicina, da duecentocinquanta grammi
l’uno,” disse Benny. “Così attacchiamo l’infezione da punti diversi.” Bella lo guardò con
ammirazione, chiedendogli di scrivere lui stesso quanto aveva appena detto. Benny lo fece e
aggiunse una serie di prodotti farmaceutici di base che era meglio avere a disposizione.
Uscire illegalmente dal centro medico fu facile come entrarci illegalmente e il viaggio di
ritorno si concluse senza incidenti. Benny e Bella aiutarono Allan a portarsi fino al primo
piano, e all’una e mezzo di notte a Sjötorp si spense l’ultima luce.
A quell’ora non erano in tanti a essere svegli, ma a Braås, a una ventina di chilometri da
Sjötorp, un giovanotto continuava a rigirarsi nel letto in preda a una crisi d’astinenza da
fumo. Era il fratello minore di Secchio, il nuovo capo di The Violence. Aveva spento
l’ultima sigaretta da tre ore, provando immediatamente il bisogno di fumarne un’altra. Si
stava maledicendo per essersi dimenticato di comprarne un pacchetto prima che in paese
fosse tutto chiuso, cosa che accadeva molto presto.
Aveva pensato di resistere fino al giorno dopo, ma non era ancora scoccata la mezzanotte
che già non ce la faceva più. Fu in quel momento che al fratello di Secchio venne in mente
di rivivere i vecchi tempi e usare il piede di porco per forzare la porta di un chiosco.
Ovviamente non a Braås, lì aveva una certa fama da salvaguardare, inoltre avrebbero subito
sospettato di lui.
La cosa migliore era fare il colpo qualche paesino più in là. La voglia di fumare divenne
insostenibile, così decise di scendere a un compromesso e scelse Rottne, a un quarto d’ora di
strada. Lasciò a casa la moto e il giubbotto, e passata la mezzanotte si allontanò lentamente
a bordo della vecchia Volvo 240. Si stupì nel vedere tre persone che se ne stavano in piedi
senza fare nulla sul marciapiede all’altezza del centro medico: una donna dai capelli rossi,
un tizio con la coda di cavallo e, dietro, un uomo molto vecchio.
Il fratellino non approfondì ulteriormente la situazione (in genere lo faceva di rado).
Proseguì per un chilometro e si fermò sotto un albero a una certa distanza dal chiosco.
Dopo un tentativo fallito di forzare la porta antiscasso, se ne tornò a casa ancora in preda
alla crisi d’astinenza da fumo.
Alle undici del mattino dopo, appena sveglio, Allan si sentiva in gran forma. Diede
un’occhiata fuori dalla finestra, dove le foreste di abeti tipiche dello Småland si estendevano
intorno a un laghetto anch’esso tipico dello Småland. Gli pareva che la geografia del luogo
ricordasse quella del Sörmland. Si preannunciava una bella giornata.
Vestendosi, pensò che forse era arrivato il momento di rimpinguare il proprio guardaroba.
Sia lui sia Benny sia Julius non si erano portati dietro neanche uno spazzolino da denti.
Quando Allan fece il suo ingresso in soggiorno, Julius e Benny erano seduti al tavolo della
colazione. Julius si era fatto una bella passeggiata, mentre Benny aveva dormito a lungo e
profondamente. Bella aveva preparato la tavola, lasciando un foglio con le istruzioni su
come servirsi in cucina. Era andata a Rottne. La lettera terminava con un ordine: i signori
erano pregati di lasciare una certa quantità di cibo nei piatti, gli avanzi sarebbero andati a
Buster.
Allan augurò il buongiorno ai presenti, che ricambiarono il saluto. A quel punto Julius si
permise di esternare il suo pensiero, proponendo di fermarsi un’altra notte a Sjötorp dal
momento che l’accoglienza era stata così meravigliosa. Allan domandò se l’idea fosse stata
suggerita dall’autista, visto che gli era sembrato di cogliere una certa atmosfera la sera
prima. Julius rispose che nel corso della mattinata, oltre a rimpinzarsi di pane tostato e uova,
aveva anche ascoltato i ragionamenti di Benny, il quale in effetti aveva suggerito di
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trascorrere l’intera estate a Sjötorp. A ogni modo la conclusione a cui era arrivato era
unicamente sua: in quale avventura si stavano per buttare, ammesso che non l’avessero già
fatto? Non era forse meglio meditare un giorno in più sul da farsi?
Certo, per poter rimanere a Sjötorp dovevano imbastire una storia plausibile, che
giustificasse chi erano e cosa li univa. E ovviamente era necessario l’assenso di Bella.
Benny seguì con interesse la conversazione tra Allan e Julius, sperando che decidessero di
trascorrere un’altra notte alla fattoria. Ciò che aveva provato per Bella il giorno prima non
era mutato; anzi, ci era rimasto male quando a colazione non l’aveva trovata. Tuttavia aveva
lasciato un biglietto: “Grazie per ieri.” Si riferiva forse alla poesia declamata da Benny?
Non vedeva l’ora che tornasse.
Passò invece quasi un’ora prima che Bella parcheggiasse l’auto in cortile. Quando scese
dalla macchina Benny la vide ancora più bella dell’ultima volta. Non indossava più la tuta
da lavoro, e si chiese se per caso non fosse anche andata dal par-rucchiere.
Mosse alcuni passi verso di lei esclamando: “Mia bella! Bentornata a casa!” Dietro di lui
c’erano Allan e Julius, divertiti da tutte le smancerie amorose che avvenivano sotto i loro
occhi. Ma i sorrisi si spensero nel momento stesso in cui Bella aprì bocca. Infatti, dopo aver
superato velocemente Benny e gli altri due, si fermò sulle scale della veranda e girandosi
disse: “Brutti bastardi! So tutto! E adesso voglio sapere il resto. In soggiorno, ADESSO!”
Poi scomparve dentro casa.
“Se sa già tutto cos’altro le dobbiamo dire?” domandò Benny.
“Sta’ zitto, Benny,” replicò Julius.
“Come volevasi dimostrare,” commentò Allan.
Entrarono in casa docili, pronti ad affrontare il loro destino.
Prima di vestirsi di tutto punto, Bella aveva cominciato la giornata dando da mangiare a
Sonya dell’erba appena tagliata. Aveva dovuto ammettere che desiderava farsi bella per quel
Benny, ecco perché aveva sostituito la tuta da lavoro rossa con un vestitino giallo chiaro e
aveva raccolto i capelli in due trecce. Si era anche truccata un po’, e per rendere il tutto
ancora più seducente si era persino messa qualche goccia di profumo prima di salire sulla
Passat rossa per andare a Rottne a fare la spesa.
Appollaiato come sempre sul sedile accanto al suo, Buster digrignò i denti quando Bella
fermò la macchina davanti al supermercato. Bella si chiese se la cosa fosse dovuta al fatto
che all’entrata aveva visto la prima pagina dell’“Expressen”, su cui erano riprodotte due
foto: quella sotto raffigurava il vecchio Julius, quella in alto l’ancor più vecchio Allan.
Il testo diceva: La polizia sospetta: CENTENARIO RAPITO dalla criminalità organizzata.
Ricercato noto ladro professionista.
Bella arrossì violentemente, i pensieri le schizzavano in tutte le direzioni. In preda a una
rabbia improvvisa abbandonò l’idea di fare la spesa: i tre lestofanti dovevano sparire prima
di pranzo! Si recò in farmacia per ritirare le medicine elencate sulle ricette che Benny aveva
compilato la notte precedente, quindi acquistò una copia del giornale per approfondire la
notizia.
Più leggeva e più s’infuriava. Eppure i conti non tornavano. Era Benny il membro della
Never Again? Il ladro professionista era Julius? E chi aveva rapito chi? Sembravano andare
così d’accordo… La rabbia alla fine ebbe il sopravvento sulla curiosità, dal momento che,
comunque stessero le cose, lei era stata raggirata. E Gunilla Björklund non la si faceva fessa
rimanendo impuniti! “Mia bella!” Come no!
Seduta in macchina, si mise a rileggere l’articolo: “Lunedì, giorno del suo compleanno,
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Allan Karlsson è scomparso dalla casa di riposo di Malmköping. La polizia sospetta che
l’anziano sia stato rapito dalla banda di criminali Never Again. Infine, dalle notizie in
possesso dell’‘Expressen’ risulta che nella faccenda sia coinvolto anche Julius Jonsson, noto
ladro professionista.” Seguiva un guazzabuglio di informazioni e testimonianze. Allan
Karlsson era stato visto alla stazione dei pullman di Malmköping, dopodiché era salito
sull’autobus diretto a Strängnäs, decisione non gradita a un membro della Never Again. Ma
un momento… “… uomo biondo sulla trentina…” Non corrispondeva alla descrizione di
Benny. Bella si sentì sollevata.
Il mistero però si infittiva, dato che il giorno prima Allan Karlsson era stato avvistato su un
carrello ferroviario nei boschi del Sörmland, insieme al noto ladro professionista Julius
Jonsson e all’infuriatissimo membro della Never Again. L’“Expressen” non era in grado di
descrivere con esattezza che tipo di relazione ci fosse fra i tre, ma secondo la teoria più
accreditata Allan Karlsson era in balia degli altri due. Questo era perlomeno quanto riteneva
il contadino Tengroth di Vidkärr messo sotto torchio dal giornalista dell’“Expressen”.
Infine il giornale rivelava un altro dettaglio, e cioè che il proprietario di un chiosco, Benny
Ljungberg, era sparito senza lasciare tracce il giorno precedente, proprio nei dintorni della
fabbrica di Åker, dove erano stati visti l’ultima volta il vecchio scomparso e il noto ladro
professionista. Particolare riferito dal personale della stazione di servizio di Åker.
Infilato il giornale in bocca a Buster, Bella si precipitò verso la fattoria, dove sapeva di
avere ospiti un centenario, un noto ladro professionista e il proprietario di un chiosco.
Oltretutto quest’ultimo era carino, dotato di grande charme e con evidenti conoscenze
mediche, ma bando al romanticismo. Per un attimo Bella si scoprì più triste che arrabbiata,
anche se prima di arrivare a casa riuscì a montare nuovamente su tutte le furie.
Strappato l’“Expressen” dalla bocca di Buster, Bella mostrò la prima pagina con le foto di
Allan e Julius, quindi, dopo parecchie imprecazioni e ingiurie, si mise a leggere l’articolo ad
alta voce. Quando ebbe finito pretese una spiegazione su quanto stava accadendo in casa
sua, ed estorse ai tre la promessa che se ne sarebbero andati per la loro strada entro cinque
minuti, indipendentemente da dove questa li portasse. Ripiegò il giornale, lo rimise in bocca
a Buster, e incrociate le braccia concluse con un gelido e deciso: “Alloraaa?” Benny lanciò
un’occhiata ad Allan, che lanciò un’occhiata a Julius, che stranamente scoppiò in una risata.
“Noto ladro professionista,” disse. “Ma guarda, niente male.” Bella non si lasciò
impressionare. Era già paonazza e lo divenne ancora di più quando comunicò a Julius che
tra non molto sarebbe diventato un noto ladro professionista a brandelli, se non le avessero
rivelato subito qual era la posta in gioco. Rincarò la dose sottolineando, come già aveva
detto a se stessa, che nessuno poteva fregare impunemente Gunilla Björklund di Sjötorp. Per
rafforzare quanto stava dicendo inforcò un vecchio fucile da caccia appeso alla parete. Era
vero che quell’arma non sparava, spiegò Bella, ma poteva rompere la testa, se necessario, a
un noto ladro professionista, al proprietario di un chiosco e a un vecchio svitato. E ci stava.
La risata di Julius si spense subito. Benny era in piedi, con le braccia che gli penzolavano
lungo il corpo: riusciva soltanto a pensare che la sua fortuna in amore stava per
abbandonarlo. Allora intervenne Allan, che propose a Bella una pausa di riflessione. Con il
suo permesso, desiderava avere un colloquio privato con Julius nella stanza accanto.
Borbottando, Bella accettò, ma ammonì Allan di non fare sciocchezze.
Quest’ultimo, dopo averla rassicurata, prese Julius sottobraccio e lo condusse in cucina.
Chiuse la porta.
Allan esordì domandando all’amico se avesse in mente qualche nuova idea per placare la
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rabbia di Bella. La risposta fu che l’unica possibilità di uscire da quell’impiccio era offrirle
una parte del contenuto della valigia. Allan era d’accordo, ma fece notare che non era una
mossa brillante raccontare ogni giorno a una persona diversa che avevano rubato una valigia
facendo fuori il legittimo proprietario nel momento in cui questo aveva cercato di
recuperarla, per poi impacchettarne il cadavere e spedirlo all’estero.
Secondo Julius Allan esagerava. Finora soltanto uno ci aveva rimesso la pelle, e se l’era
meritato. Se adesso fossero riusciti a fare in modo che la situazione prendesse una piega
chiara, non ce ne sarebbero stati altri.
Allan gli espose in tutta fretta i suoi pensieri. La cosa migliore era dividere il contenuto
della valigia in quattro: Allan, Julius, Benny e Bella. Così non avrebbero corso il rischio che
gli ultimi due parlassero con le persone sbagliate. In cambio loro tre si sarebbero fermati a
Sjötorp fino alla fine dell’estate, quando presumibilmente quella banda di criminali avesse
smesso di cercarli, ammesso e non concesso che lo stessero ancora facendo.
“Venticinque milioni per un tetto qualche settimana,” sospirò Julius con un’espressione che
tuttavia rivelava il suo assenso.
La riunione in cucina era conclusa. I due tornarono in soggiorno. Allan chiese a Bella e
Benny ancora trenta secondi di pazienza, mentre Julius salì in camera per tornare subito
dopo con la valigia. Dopo averla appoggiata sul tavolo al centro della stanza, la aprì.
“Allan e io abbiamo deciso di dividere il malloppo in quattro parti uguali.” “Brutti
bastardi!” esclamò Bella.
“Dividere in parti uguali?” chiese Benny.
“Sì, ma vedi di restituire le tue centomila corone,” rispose Allan. “E il resto dei soldi della
benzina.” “Brutti bastardi del cazzo!” aggiunse Bella.
“Sedetevi che adesso vi racconto,” esordì Julius.
Proprio come Benny, Bella ebbe qualche difficoltà a digerire la parte del cadavere sparito in
un cilindro, mentre era favorevolmente impressionata da Allan che, scappando dalla
finestra, aveva detto addio alla sua vecchia vita.
“Avrei dovuto farlo anch’io dopo quattordici giorni con lo stronzo che avevo sposato.” A
Sjötorp ritornò la calma. Bella e Benny ripartirono in macchina per fare la spesa: cibo,
bevande, vestiti, articoli per l’igiene personale e tante altre cose. Bella pagò tutto in
contanti, con biglietti da cinquecento presi da un mazzo di banconote.
Il commissario Aronsson interrogò la testimone della stazione di servizio di Mjölby, una
donna sulla cinquantina responsabile della sorveglianza. Sia la sua professione sia le sue
osservazioni la rendevano credibile. Fu anche in grado di riconoscere Allan nelle foto
scattate alla festa di compleanno di un ottantenne presso la casa di riposo qualche settimana
prima, foto che l’infermiera Alice aveva avuto la cortesia di distribuire non solo alla polizia,
ma anche alla stampa.
Il commissario Aronsson fu costretto a riconoscere di aver preso sottogamba
quell’informazione, ma non aveva più senso piangere sul latte versato. Si concentrò invece
sull’analisi dei fatti. Se si prendeva in considerazione l’ipotesi della fuga, esistevano due
alternative: o i vecchi e il proprietario del chiosco sapevano dove erano diretti, o si
muovevano alla cieca. Aronsson avrebbe preferito la prima alternativa, essendo più facile
rintracciare una persona che sa dov’è diretta che non una che si muove alla cieca. Anche se
con dei tipi del genere non si poteva mai sapere. Non esisteva alcun legame evidente tra
Allan Karlsson e Julius Jonsson da un lato, e Benny Ljungberg dall’altro. Jonsson e
Ljungberg potevano conoscersi da prima, abitando a una ventina di chilometri di distanza,
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ma era anche possibile che Ljungberg fosse stato rapito e obbligato a guidare. E il vecchio
stesso poteva aver preso parte al viaggio perché costretto con la forza, nonostante ben due
elementi sembrassero smentire questa versione: 1) il fatto che Allan Karlsson fosse sceso dal
pullman proprio alla stazione di Byringe, e apparentemente avesse cercato di sua iniziativa
Julius Jonsson; 2) le testimonianze raccolte, unanimi nel sostenere che Julius Jonsson e
Allan Karlsson, sia sul carrello ferroviario mentre attraversavano i boschi sia mentre si
allontanavano dalla fonderia, parevano essere in ottimi rapporti.
Stando alla testimone, la Mercedes color argento aveva lasciato la E4 per proseguire sulla
statale 32 in direzione di Tranås. Anche se la cosa aveva avuto luogo il giorno prima il
particolare era interessante, poiché chi percorreva la E4 per imboccare la statale 32 a Mjölby
disponeva di una scelta limitata di destinazioni. La zona intorno a
Västervik/Vimmerby/Kalmar era da escludersi, perché in quel caso l’auto sarebbe dovuta
uscire a Norrköping, o eventualmente a Linköping, a patto che avessero preso la E4 a nord.
Anche Jönköping/Värnamo e le destinazioni più a sud erano da scartare, dato che in quel
tratto non c’era alcuna possibilità di lasciare la E4. Forse l’auto avrebbe potuto dirigersi a
Oskarshamn e di lì a Gotland, ma le liste dei passeggeri dellaGotlandsline smentivano tale
eventualità. A questo punto rimaneva soltanto la parte settentrionale dello Småland: Tranås,
Eksjö, forse Nässjö, Åseda, Vetlanda e dintorni. Includendo anche la zona più a sud, fino a
Växjö, se la Mercedes non aveva scelto la via più veloce – ipotesi pienamente plausibile dal
momento che, se i tre si sentivano braccati, ripiegare su strade meno battute sarebbe stata
una decisione ragionevole.
Il motivo per cui era molto più probabile che si trovassero in quella zona era, innanzitutto,
che l’auto aveva a bordo due persone prive di passaporto, quindi difficilmente dirette
all’estero. Inoltre, i collaboratori del commissario Aronsson avevano chiamato tutte le
stazioni di servizio in direzione sud, sudest e sudovest in un raggio fra i trenta e i cinquanta
chilometri da Mjölby. Nessuno aveva notato una Mercedes color argento con tre passeggeri
dall’aspetto singolare. Certo, non era da escludere che avessero fatto benzina a un
selfservice, ma di solito durante un lungo viaggio la gente sceglie stazioni di servizio dotate
di personale, per poter comprare qualcosa di dolce, una bibita o un panino. E infatti una
stazione di servizio dotata di personale i tre l’avevano già scelta una volta: quella di Mjölby.
“Tranås, Eksjö, Nässjö, Vetlanda, Åseda… e dintorni,” concluse il commissario Aronsson
tra sé, prima di borbottare: “E poi?” La mattina, il capo di The Violence di Braås si svegliò
dopo aver trascorso una nottata infernale. Si diresse immediatamente alla stazione di
servizio per rimediare alla crisi d’astinenza da fumo. All’entrata fu accolto dalla prima
pagina dell’“Expressen”. Nella foto grande riconobbe… senza dubbio lo stesso vecchio che
aveva visto a Rottne la sera prima.
Dimenticandosi di comprare le sigarette per la fretta, acquistò invece il giornale. Rimase
sbalordito da quanto stava leggendo. Telefonò subito a suo fratello Secchio.
Il mistero del vecchio scomparso e probabilmente rapito sconvolse la Svezia. Quella sera
stessa TV4 mandò in onda un’inchiesta, “Speciale solo fatti”, dove si parlò suppergiù degli
stessi argomenti già trattati dall’“Expressen” e in parte dall’“Aftonbladet”.
Il programma fu visto da un milione e mezzo di telespettatori, tra cui il centenario in
persona e i suoi tre nuovi amici riuniti a Sjötorp nello Småland.
“Se non sapessi come stanno le cose proverei una gran compassione per quel poveretto,”
commentò Allan.
Bella vedeva tutta la situazione in modo meno sereno: secondo lei Allan, Julius e Benny
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avrebbero fatto meglio a starsene nascosti almeno per un po’. Inoltre, da quel momento in
poi la Mercedes sarebbe rimasta parcheggiata dietro il fienile. Bella pensò anche che il
mattino dopo sarebbe andata a comprare il pullman su cui aveva messo gli occhi da tempo.
C’era l’eventualità di doversi allontanare in fretta e furia nei giorni a venire, e in quel caso si
sarebbe mossa tutta la famiglia, Sonya inclusa.
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CAPITOLO 9
1939-1945
Il 1° settembre 1939 la nave battente bandiera spagnola su cui si era imbarcato Allan
raggiunse il porto di New York. Allan aveva pensato di dare una rapida occhiata in giro
prima di intraprendere il viaggio di ritorno, ma quello stesso giorno uno degli amici del
generalísimo era impegnato in una passeggiata in Polonia, con il risultato che in Europa si
riaccese immediatamente la guerra. Posta sotto sequestro, la nave fu requisita per servire la
marina americana fino alla pace del 1945.
Gli uomini a bordo furono condotti in blocco all’ufficio immigrazione di Ellis Island, dove
vennero sottoposti al seguente interrogatorio: 1) nome?; 2) nazionalità?; 3) professione?; 4)
motivo del soggiorno negli Stati Uniti?
I compagni di Allan dichiararono di essere marinai spagnoli senza nessuna possibilità di
rimpatriare, dato che la nave era sotto sequestro. Fu loro concesso il visto per entrare nel
paese, dove avrebbero dovuto arrangiarsi come potevano.
Allan si distinse subito. Innanzitutto per via del nome, che l’interprete non fu in grado di
pronunciare, poi per il fatto che veniva dalla Suecia. Il momento clou fu quando raccontò di
essere un esperto di esplosivi e di aver maturato esperienza in materia prima nella ditta di
sua proprietà, poi in una fonderia di cannoni e ultimamente nel corso della guerra civile
scoppiata in Spagna.
A quel punto estrasse la lettera scritta dal generale Franco. L’interprete la tradusse con
orrore al funzionario dell’ufficio immigrazione, che subito chiamò il suo capo che
immediatamente riferì al suo.
Per prima cosa fu deciso di rimpatriare all’istante quel fascista svedese.
“Se mi trovate una nave parto anche adesso,” disse l’interessato.
Ma nacquero altre complicazioni. L’interrogatorio proseguì, e più il funzionario di grado
superiore indagava e torchiava lo svedese meno costui gli pareva fascista. E neppure
comunista o nazionalsocialista. Non era nient’altro, all’apparenza, che un esperto di
esplosivi. Il fatto che fosse intimo del generale Franco risultava poi tanto assurdo da
sembrare un’invenzione bella e buona.
Il capo dell’ufficio immigrazione aveva un fratello a Los Alamos, New Mexico, che per
quanto ne sapeva si occupava di bombe e della difesa della nazione. In mancanza di idee
migliori misero Allan in gattabuia e il capo parlò del caso al fratello in occasione della festa
del Ringraziamento nel ranch di famiglia nel Connecticut. Questi rispose che il pensiero di
accollarsi un potenziale accolito di Franco non gli garbava più di tanto, ma un piacere al
fratello l’avrebbe fatto volentieri: laggiù avevano bisogno di persone competenti in materia
e avrebbero potuto affidare allo svedese degli incarichi elementari classificati come non
troppo segreti.
Detto questo, entrambi soddisfatti, si dedicarono al tacchino arrosto.
Qualche tempo dopo Allan prese per la prima volta in vita sua un aereo, e nell’autunno
inoltrato del 1939 fu assegnato alla base militare americana di Los Alamos, dove scoprì di
non spiccicare una parola d’inglese. Un tenente che parlava spagnolo ebbe il compito di
esaminare le competenze dello svedese. Chiese ad Allan di esporre ciò che sapeva.
Al tenente sembrò che lo svedese mostrasse prova di ricchezza d’ingegno, ma non poté fare
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a meno di concludere, con un gran sospiro, che le sue formule esplosive sarebbero riuscite a
malapena a far saltare in aria un’automobile.
“Oh sì,” replicò Allan, “la macchina e anche il grossista. L’ho sperimentato.” A ogni modo
lo tennero. Inizialmente Allan alloggiò in una delle baracche più defilate, ma con il passare
dei mesi e degli anni, avendo cominciato a parlare inglese, le restrizioni che regolavano la
sua presenza alla base divennero sempre meno rigide. Era un collaboratore molto attento:
durante il giorno imparava a preparare esplosivi di tutt’altra potenza rispetto a quelli testati
in gioventù, la domenica, nella buca dietro la casa. La sera, poi, quando la maggior parte dei
giovani militari stanziati a Los Alamos si recavano in città a caccia di donne, Allan se ne
restava nella biblioteca della base, con il proposito di approfondire la conoscenza delle
tecniche più avanzate nell’uso degli esplosivi.
Mentre Allan approfondiva le sue conoscenze, la guerra scoppiata in Europa (e
gradualmente nel mondo) si allargava a macchia d’olio. In attesa di mettere in pratica le
nozioni acquisite, Allan continuava a fungere da collaboratore (anche se assai stimato) e a
incamerare nuove competenze. Oltre che con la nitroglicerina e il nitrato di sodio – quelle
ormai erano bazzecole – cominciava a prendere confidenza anche con l’uranio e altre
sostanze molto più toste e complicate.
A partire dal 1942, a Los Alamos furono introdotte norme di si-cu-rez-za più severe delle
precedenti. Gli scienziati avevano ricevu-to dal presidente Roosevelt l’incarico segreto di
mettere a pun--to una bomba che, in un’unica esplosione, fosse in grado di far saltare in aria,
se necessario, dieci o venti ponti spagnoli, se-con-do i calcoli di Allan.
C’era bisogno di collaboratori anche nel-le stanze più inaccessibili, e allo svedese fu
consentito l’ingresso.
Allan doveva ammettere che gli americani erano davvero scaltri. Anziché accontentarsi
degli elementi a disposizione, stavano valutando l’ipotesi di trattare l’atomo in modo da
provocare un’esplosione senza precedenti.
Nell’aprile del 1945 la sperimentazione era già ben avviata. I ricercatori – e di conseguenza
anche Allan – sapevano come innescare una reazione nucleare, ma non come tenerla sotto
controllo. Il problema lo affascinava, e nelle sere trascorse in biblioteca Allan si mise a
rimuginare su qualcosa su cui nessuno gli aveva chiesto di rimuginare. Non mollò, e una
sera… voilà! Una sera… trovò la soluzione!
Le più alte cariche militari passarono la primavera a discutere della questione con i più
prestigiosi scienziati al mondo, capitanati dal capo e coordinatore Oppenheimer, mentre il
compito di Allan era di servire loro caffè e dolcetti.
Strappandosi i capelli, gli scienziati chiedevano di continuo caffè, i militari si grattavano il
mento e chiedevano altro caffè, ed entrambi borbottavano finendo col chiedere ancora caffè.
E così settimana dopo settimana. Allan aveva trovato la soluzione da tempo, ma pensava che
non fosse compito del cameriere suggerire al cuoco come cucinare, quindi si teneva la sua
scoperta per sé.
Finché un giorno con suo grande stupore non si udì dire: “Scusate, ma perché non dividete
l’uranio in due parti uguali?” Gli uscì mentre stava porgendo una tazza di caffè allo stesso
Oppenheimer.
“Cosa?” chiese quest’ultimo, che più che ascoltare le parole di Allan era rimasto scioccato
dal fatto che il cameriere si fosse permesso di aprire bocca.
Allan non ebbe altra possibilità che continuare: “Sì, se dividete l’uranio in due parti uguali e
fate in modo di farle esplodere l’una contro l’altra sarete in grado di avere il controllo
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dell’esplosione.” “Parti uguali?” chiese Oppenheimer mentre nella sua testa ronzavano mille
altre considerazioni, che tuttavia si ridussero a quelle due parole.
“Mah, in effetti il signor professore ha ragione. Non è necessario che le parti siano grandi
uguali, l’importante è che lo siano abbastanza quando si riuniscono.” Il tenente Lewis, che
aveva garantito per Allan nel ruolo di cameriere, aveva l’aria di volerlo uccidere all’istante,
ma uno degli scienziati riflettendo ad alta voce replicò: “Cosa intende dire con farle
esplodere l’una contro l’altra? E quando? In aria?” “Esattamente, signor fisico. O forse lei è
chimico? Sì? Non c’è nessun problema nel farle esplodere. Il punto è che si dovrebbe
controllare il momento dell’esplosione. Ma una massa critica divisa in due diventa due
masse subcritiche, no? E viceversa due masse subcritiche diventano una massa cri-tica.” “E
come verrebbero fatte esplodere l’una contro l’altra, signor… Mi scusi, ma lei chi è?” chiese
il capo degli scienziati Oppenheimer.
“Io sono Allan.” “Eh… signor Allan, come aveva pensato di procedere?” continuò
Oppenheimer.
“Con una normale, tradizionale carica esplosiva,” spiegò Allan. “Io me ne intendo, ma sono
sicuro che ve la caverete anche da soli.” Gli scienziati in generale e il loro capo in
particolare non erano stupidi. In pochi secondi Oppenheimer risolse una lunghissima
equazione, arrivando alla conclusione che il cameriere probabilmente aveva ragione.
Incredibile che qualcosa di così complicato avesse una soluzione così semplice! Una
normale, tradizionale carica esplosiva posta sulla parte terminale della bomba poteva essere
attivata a distanza per lanciare una massa subcritica di uranio 235 contro una seconda massa
subcritica, trasformandole di conseguenza in un’unica massa critica. I neutroni si sarebbero
messi in movimento e gli atomi di uranio avrebbero dato vita alla fissione. La reazione
nucleare si sarebbe avviata e… “Bum,” disse Oppenheimer tra sé.
“Esattamente,” confermò Allan. “Vedo che il signor professore ha già calcolato tutto.
Qualcuno desidera altro caffè?” In quel momento si aprì la porta della stanza segreta e il
vicepresidente Truman, le cui visite erano rare ma ricorrenti e mai preannunciate, fece la sua
apparizione.
“Sedetevi pure,” disse il vicepresidente agli scenziati, che erano scattati tutti in piedi.
Pur di non disobbedire anche Allan prese posto in una delle poltroncine intorno al tavolo: se
il vicepresidente diceva che bisognava sedersi era meglio farlo, così funzionavano le cose in
America.
Il vicepresidente chiese una relazione sullo stato dei lavori a Oppenheimer che, balzato di
nuovo in piedi, non riuscì a dire altro se non che Mr Allan – e qui lo indicò – aveva appena
capito come tenere sotto controllo l’esplosione. La soluzione di Mr Allan non era ancora
stata verificata, ma secondo Oppenheimer e a nome di tutti i presenti il problema poteva
considerarsi storia passata e nel giro di tre mesi si sarebbe potuta effettuare un’esplosione di
prova.
Il vicepresidente fece un giro di sguardi, ricevendo segni di assenso a mo’ di conferma.
Il tenente Lewis recuperò il suo naturale ritmo respiratorio. Alla fine gli occhi del
vicepresidente si posarono su Allan.
“Credo di poter affermare che lei, Mr Allan, è l’eroe del momento. Avrei bisogno di
mangiare un boccone prima di tornare a Washington. Ha voglia di tenermi compagnia?”
Allan pensò che fosse una caratteristica comune a tutti i capi di Stato invitare qualcuno a
pranzo quando si sentivano soddisfatti di qualcosa, ma non lo disse. Accettò invece l’invito
del vicepresidente e lasciarono insieme la stanza. A uno dei lati lunghi del tavolo sedeva
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Oppenheimer: a vederlo così, sembrava sia sollevato sia infelice.
Il vicepresidente Truman aveva requisito uno dei suoi ristoranti messicani preferiti a Los
Alamos, così lui e Allan lo ebbero tutto per sé, a parte una decina di guardie del corpo
sparse qua e là.
Il capo della sicurezza fece notare che Mr Allan non era americano ed era impossibile
controllarlo mentre sedeva a tu per tu con il vicepresidente, ma Truman dichiarò che quel
giorno Mr Allan aveva compiuto il gesto più patriottico che ci si potesse immaginare.
Era di ottimo umore. Subito dopo cena, anziché recarsi a Washington si sarebbe diretto in
Georgia a bordo dell’Air Force 2, in visita al presidente Roosevelt presso una clinica per la
cura della poliomielite. Harry Truman era sicuro che il presidente sarebbe stato contento di
apprendere quella notizia direttamente da lui.
“Io scelgo il cibo, lei da bere,” disse Truman porgendo la lista dei vini ad Allan.
Poi si rivolse al capocameriere a cui ordinò tacos, enchiladas, tortilla al mais e una serie di
salsine.
“E da bere, sir, cosa desidera?” “Due bottiglie di tequila,” rispose Allan.
Ridacchiando, Truman domandò a Mr Allan se avesse intenzione di spedirlo sotto il tavolo.
Questi replicò che lì aveva imparato che i messicani distillavano superalcolici con la stessa
gradazione di quelli svedesi, ma naturalmente il vicepresidente avrebbe potuto bere del latte
se preferiva.
“No, quello che ho detto ho detto,” ribatté il vicepresidente Truman, che per completare
l’ordinazione chiese anche del limone e del sale.
Tre ore dopo si chiamavano “Harry” e “Allan”: ecco cosa possono fare per la fratellanza tra
i popoli un paio di bottiglie di tequila. Comunque ci volle un po’ prima che il
vicepresidente, sempre più ubriaco, realizzasse che Allan era il nome di battesimo e basta.
Dal canto suo questi era riuscito a raccontare la propria storia fino al momento del grossista
saltato in aria e all’episodio in cui aveva salvato la vita al generale Franco.
Il vicepresidente, invece, si esibì in un’imitazione di Roosevelt che cercava di alzarsi dalla
sedia a rotelle.
Quando la serata era al culmine, accanto al vicepresidente si materializzò il capo della
sicurezza.
“Le posso parlare un attimo, sir?” “Parla,” sbottò lui.
“Preferibilmente a quattr’occhi, sir.” “Cazzo, sei identico a Humphrey Bogart! Sei
d’accordo, Allan?” “Sir…” insistette un po’ a disagio il capo della sicurezza.
“Che cazzo c’è?” sibilò il vicepresidente.
“Sir, si tratta del presidente Roosevelt.” “Che problema ha adesso quel vecchio caprone?”
gracchiò.
“È morto, sir.”
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CAPITOLO 10
Lunedì 9 maggio 2005
Secchio rimase piantato per quattro giorni davanti al supermercato di Rottne nel tentativo di
beccare innanzitutto Bullone, e in secondo luogo un vecchio, una donna di modello un po’
più recente dai capelli rossi, un tipo con la coda di cavallo la cui fisionomia era per il resto
sconosciuta, e una Mercedes color argento. Starsene lì non era stata una sua idea, ma del
Capo. Dopo il colloquio con il fratellino, alias il boss di The Violence di Braås, che gli
aveva detto di aver avvistato il vecchio davanti a un centro medico dello Småland nel cuore
della notte, Secchio aveva riferito immediatamente la notizia alle alte sfere. Il Capo gli
aveva allora intimato di sorvegliare il negozio di alimentari più frequentato del luogo. Il
Capo aveva dedotto che chi circolava per Rottne in piena notte doveva abitare nei paraggi,
che prima o poi doveva venirgli fame, ergo avrebbe avuto bisogno di mangiare, quindi, in
mancanza di cibo, avrebbe dovuto andare a fare la spesa. La logica era ineccepibile. Non per
niente era il Capo. Tuttavia questo era successo quattro giorni prima e adesso Secchio
cominciava ad avere i suoi dubbi.
La concentrazione andava diminuendo: ecco perché all’inizio non fece caso alla donna dai
capelli rossi che parcheggiò una Passat rossa anziché la Mercedes color argento che lui si
aspettava di vedere. Comunque, visto che la tipa ebbe la magnanimità di passare sotto il suo
naso mentre si dirigeva al supermercato, Secchio ebbe la fortuna di non farsela scappare.
Non era sicurissimo che fosse lei, ma in base a quanto aveva sentito l’età e i capelli rossi
dovevano essere quelli.
Secchio telefonò al Capo a Stoccolma, che non fu altrettanto entusiasta: aveva sperato di
beccare Bullone o perlomeno quel maledetto vecchio.
A ogni modo… Secchio avrebbe dovuto annotarsi il numero di targa dell’auto e poi,
discretamente, pedinare la rossa. Fatto questo lo avrebbe richiamato.
Il commissario Aronsson aveva trascorso gli ultimi quattro giorni all’albergo di Åseda, dato
che a suo avviso era importante trovarsi sul posto qualora fosse emersa qualche nuova
testimonianza.
Dal momento che ciò non era accaduto era sul punto di rientrare, quando i colleghi di
Eskilstuna si fecero vivi. Le intercettazioni telefoniche del capo della Never Again
PerGunnar Gerdin avevano dato risultati.
Gerdin o “il Capo” – come veniva chiamato – era diventato celebre qualche anno prima,
quando lo “Svenska Dagbladet” aveva riportato che al penitenziario di Hall era in corso un
reclutamento volto a dar vita a una nuova organizzazione criminale detta Never Again. Altri
rappresentanti dei media avevano seguito la pista e il telegiornale aveva reso pubblico sia il
volto sia il nome del personaggio chiave, Gerdin. Che il progetto fosse naufragato per via di
alcune frasi contenute nella lettera della madre rimase un segreto.
Un paio di giorni prima il commissario Aronsson aveva ordinato di pedinarlo e intercettarne
le telefonate, e la cosa aveva dato i suoi frutti. La conversazione era stata registrata,
trascritta e spedita via fax ad Aronsson: – Pronto?
– Sì, sono io.
– C’è qualcosa di nuovo?
– Sì, forse. Sono davanti al supermercato e proprio in questo momento è entrata una befana
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dai capelli rossi.
– Da sola? Niente Bullone? Nessun vecchio?
– No, solo la tipa. Non so se… – Ha una Mercedes?
– Mah, non ne ho viste… nel parcheggio non ce ne sono, quindi dev’essere con un’altra
macchina.
(silenzio per cinque secondi)
– Pronto?
– Sì, ci sono. Sto pensando, cazzo, qualcuno deve pur farlo.
– Sì, io… – Ci sarà più di una donna dai capelli rossi nello Småland… – Sì, ma ha l’età
giusta rispetto a quanto… – Seguila, prendi il numero di targa, non muoverti ma vedi che
strada prende. E, cazzo, fa’ attenzione a non essere scoperto. Poi mi riferisci.
(silenzio per cinque secondi)
– Hai capito o te lo devo ripetere?
– No, no, ho capito. Mi faccio sentire appena si muove qualcosa.
– E la prossima volta chiamami sull’altro cellulare, quello ricaricabile, te l’ho già detto che
le telefonate di servizio devono passare di lì! O no?
– Sì, ma non è soltanto quando abbiamo qualche affare in ballo con i russi? Non pensavo
che l’avessi acceso adesso che… – Idiota!
(poi mugugni e fine della conversazione)
Letto il rapporto, il commissario cercò di mettere in ordine i nuovi elementi.
“Bullone”, che Gerdin aveva nominato, doveva essere Bengt Bylund, uno dei più noti
membri della Never Again, ora presumibilmente morto. Quello che aveva chiamato doveva
invece essere Henrik “Secchio” Hultén, alla ricerca di Bullone in qualche punto dello
Småland.
Aronsson ebbe la conferma di averci visto giusto. Trasse le sue conclusioni: Allan Karlsson
si trovava in qualche punto dello Småland in compagnia di Julius Jonsson, Benny Ljungberg
e della sua Mercedes. E di una donna dai capelli rossi, di età sconosciuta ma non troppo
giovane visto che l’avevano chiamata befana. D’altro canto per gente come Secchio befane
lo si diventava presto.
Alla Never Again di Stoccolma erano convinti che Bullone fosse in giro col gruppetto. In
quel caso: era in fuga dai suoi compagni? Perché non aveva dato notizie? Certo, perché è
morto! Ma il Capo non lo sapeva, perciò credeva che si fosse nascosto nello Småland
insieme a… ma cosa c’entrava la donna dai capelli rossi?
Aronsson diede ordine di verificare i legami di parentela di Allan, Benny e Julius. Forse
avevano una sorella o una cugina dai capelli rossi che abitava nello Småland… “Ha l’età
giusta rispetto a quanto…” aveva detto Secchio. Rispetto a cosa? Rispetto a quello che
aveva detto qualcuno? Qualcuno che aveva visto il gruppetto nello Småland e aveva
chiamato per informarli? Era un peccato che le intercettazioni telefoniche fossero iniziate
solo da un paio di giorni.
Secchio aveva seguito la rossa che usciva dal supermercato. I casi erano due: o era la donna
sbagliata o… lo avrebbe portato dove si trovavano Allan Karlsson e i suoi amici.
In quel caso il Capo si sarebbe messo in viaggio per estorcere ad Allan e al suo seguito la
verità su quanto era successo a Bullone e soprattutto alla sua valigia.
Aronsson chiamò il giudice per le indagini preliminari di Eskilstuna. All’inizio Conny
Ranelid non aveva mostrato grande interesse per il caso, interesse che tuttavia aumentava
ogni volta che il commissario gli sottoponeva una nuova questione.
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“Non bruciarti Gerdin e il suo scagnozzo,” disse Ranelid.
Dopo aver piazzato due scatoloni pieni di vettovaglie nel bagagliaio della Passat, Bella partì
per Sjötorp.
Secchio la seguiva a distanza di sicurezza. Per prima cosa telefonò al Capo (sul cellulare
ricaricabile, ovviamente; possedeva un certo istinto di conservazione) per comunicargli il
modello della macchina e il numero di targa. Promise che si sarebbe fatto risentire quando
fosse arrivato alla meta.
La direzione era quella di Rottne, ma la rossa svoltò in una strada sterrata. Secchio
riconobbe la zona perché una volta aveva partecipato a una gara di orientamento per auto in
cui era arrivato ultimo. La sua ragazza era il navigatore: a metà gara si era accorta di tenere
la cartina al contrario.
La strada sterrata era asciutta e la macchina della rossa sollevava un sacco di polvere.
Così, Secchio poteva seguirla senza per forza starle a distanza ravvicinata. Ma il polverone
scomparve dopo qualche chilometro. Maledizione! Secchio diede una botta all’acceleratore,
ma la nuvoletta era svanita nel nulla.
All’inizio fu preso dal panico, ma si calmò presto: la donna doveva aver girato da qualche
parte lungo la strada. Bastava fare inversione e trovare il punto esatto.
Ripercorsi un paio di chilometri, pensò di essere vicino alla soluzione: vide una cassetta
delle lettere. Proprio in quel punto cominciava una stradina: la rossa aveva svoltato lì!
A causa del rapido evolversi della situazione, Secchio si fece prendere la mano. Girato
troppo velocemente il volante, lui e la macchina schizzarono sulla stradina che portava
chissà dove. Oltrepassata la cassetta delle lettere, Secchio mise totalmente da parte la
prudenza.
Prima ancora che se ne rendesse conto, si ritrovò nel cortile di una piccola fattoria. Un altro
po’ e non avrebbe neppure avuto il tempo di frenare, falciando il vecchio che stava dando da
mangiare a un… elefante?
In Sonya Allan aveva trovato una nuova amica. Del resto i due avevano parecchie cose in
comune: uno era scappato saltando dalla finestra per dare una svolta alla propria vita, l’altra
si era buttata nel lago per la stessa ragione. Inoltre entrambi avevano visto il mondo. Per
giunta il muso di Sonya era pieno di rughe, proprio come quello di un centenario molto
saggio, si era detta Allan.
Sonya non eseguiva numeri circensi per chiunque, ma quel vecchio le piaceva. Le portava la
frutta, le grattava la proboscide e le parlava con gentilezza. Era proprio una persona
gradevole. Così quando le chiedeva di sedersi lei lo faceva, e quando le domandava di
ruotare su se stessa lei eseguiva. Gli aveva addirittura mostrato di sapersi drizzare sulle
zampe posteriori senza che lui le impartisse alcun comando.
Ricevere una mela o due per compensare la fatica e ulteriori grattatine sulla proboscide era
una semplice formalità. Sonya non si lasciava comprare da nessuno.
Bella se ne stava seduta sulle scale della veranda insieme a Benny e Buster, con del caffè
destinato ai bipedi e dei dolcetti per cani al quadrupede. Assistevano all’amicizia che stava
sbocciando nel cortile mentre Julius, giù al lago, pescava senza sosta pesce persico.
Il tepore primaverile non mollava. Il sole splendeva da una settimana e secondo le previsioni
l’alta pressione sarebbe durata anche nei giorni a venire.
Benny, che oltre a tutto il resto era anche quasi architetto, aveva fatto uno schizzo per
mostrare a Bella le modifiche da apportare al pullman perché piacesse anche a Sonya.
Quando era venuta a sapere che Julius non era soltanto un ladro ma anche un vecchio
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commerciante di legname piuttosto abile con chiodi e martello, Bella aveva confidato a
Buster che si erano fatti un fior fiore di amici ed era stata una fortuna che non fossero
ripartiti la sera del loro arrivo. A Julius era bastato un pomeriggio per fabbricare l’arredo del
pullman seguendo le istruzioni di Benny. Sonya se la spassava a entrare e uscire dal veicolo
insieme ad Allan per provare ogni cosa. Il pachiderma sembrava approvare, benché non
capisse la necessità di possedere due ricoveri piuttosto che uno. Il pullman era un po’
strettino ma offriva una duplice scelta di radici da masticare, a sinistra e davanti, mentre
l’acqua si trovava sulla destra. Il pavimento era rialzato e leggermente inclinato all’indietro,
così che per gli escrementi di Sonya ci fosse una canalina di spurgo. Il tubo era stato
riempito di fieno, in modo da assorbire quanto espulso nel corso del viaggio.
Era stato messo a punto anche un sistema di aerazione sotto forma di fori lungo le fiancate,
oltre a un pannello di vetro scorrevole che permetteva a Sonya di non perdere di vista la sua
padrona durante il viaggio. In altre parole il pullman era diventato un mezzo di trasporto di
lusso per elefanti, e tutto questo in un paio di giorni.
Più il gruppetto si preparava a partire, meno i suoi componenti sembravano pronti a farlo.
La vita a Sjötorp era veramente piacevole. Soprattutto per Benny e Bella, che già la seconda
notte erano arrivati alla conclusione che sarebbe stato un peccato usare camere e letti
separati potendo stare insieme. Le sere trascorrevano davanti al camino ed erano rallegrate
dal buon vino, dal buon cibo e dagli eccentrici racconti autobiografici di Allan.
Lunedì mattina il frigorifero era quasi vuoto e per Bella giunse il momento di recarsi
nuovamente a Rottne per le provviste. Il viaggio avvenne a bordo della sua vecchia Passat.
La Mercedes rimase al suo posto, nascosta dietro il fienile.
Il risultato fu uno scatolone pieno di cose per lei e i ragazzi e una cassa di mele argentine
appena arrivate per Sonya. Rientrata a casa la consegnò ad Allan, sistemò il resto nel frigo e
nei pensili della cucina e si sedette nella veranda con Benny e Buster, munita di fragole
appena arrivate dal Belgio. Insieme a loro, durante una delle sue rarissime pause dalla pesca,
c’era anche Julius.
Fu in quel momento che una Ford Mustang fece la sua apparizione in cortile, rischiando di
falciare sia Allan sia Sonya.
Chi sembrò prendersela con più calma fu Sonya, così concentrata sulla mela che stava per
ricevere da Allan da non sentire né vedere niente di quanto stava succedendo. In realtà si
rese conto di tutto, visto che si bloccò con il sedere puntato su Allan e il nuovo arrivato nel
bel mezzo di una giravolta.
Il secondo a non scomporsi fu Allan, che nella vita si era trovato così spesso vicino alla
morte che una Ford Mustang piombata lì a rotta di collo non lo sconvolgeva certo. A patto
che si fermasse in tempo, come in effetti fece.
Il terzo fu Buster, addestrato a non saltare su né ad abbaiare in presenza di sconosciuti.
Teneva comunque le orecchie alte e aveva gli occhi fissi come due biglie di vetro: si trattava
di seguire lo sviluppo della situazione.
Bella, Benny e Julius invece sussultarono. Balzati in piedi, aspettavano di vedere cosa
sarebbe accaduto.
Quello che accadde fu che Secchio, superato un momento d’imbarazzo, uscì barcollando
dalla Ford Mustang dopo aver rovistato nella borsa abbandonata dietro a uno dei sedili
anteriori alla ricerca di una pistola. Trovata l’arma, prima la puntò contro il deretano
dell’elefante, poi, ripensandoci, la spostò su Allan e quindi sugli amici in veranda. Poi
esclamò (senza troppa fantasia): “Mani in alto!” “Mani in alto?” Era la cosa più stupida che
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Allan avesse sentito in vita sua, e subito si mise ad argomentare in merito. Cosa pensava che
sarebbe successo, il signore? Che lui, un vecchio di cent’anni, gli avrebbe scagliato contro
una mela? O che la pazza là in fondo lo avrebbe ingozzato di fragole belghe? O che… “Va
bene, tenete le mani dove diavolo volete ma non provate a fare scherzi.” “Scherzi?”
“Adesso vedi di piantarla, vecchiaccio, e sputa fuori dov’è finita quella maledetta valigia.
E da chi l’hai avuta.” Ecco, pensò Bella, qui finisce la pacchia. Dovevano fare i conti con la
realtà. Nessuno fiatò, tutti riflettevano fino a farsi fumare il cervello, a eccezione
dell’elefante che non sentendosi coinvolto direttamente pensò bene che fosse giunto il
momento di fare la cacca, e quando un pachiderma decide di defecare raramente la cosa
passa inosservata a chi si trova nelle vicinanze.
“Merda,” commentò Secchio, che arretrò repentinamente di qualche passo davanti al
liquame che sgorgava dall’animale. “Che cazzo ci fate con un elefante?” Anche questa volta
nessuna risposta, ma Buster non seppe più trattenersi. Aveva capito che c’era qualcosa che
non andava. Avrebbe voluto abbaiare contro il nuovo arrivato, ma conoscendo le regole
emise un leggero ringhio che permise a Secchio di accorgersi della presenza del pastore
tedesco sulla veranda. Sollevando la pistola arretrò di due passi, pronto a sparare se
necessario.
Proprio in quel momento nella mente di Allan balenò un’idea. Era un’idea ardita e correva il
rischio di rimanerci secco, ma chi aveva detto che fosse immortale?
Inspirando profondamente, si mosse. Con un sorrisetto sulle labbra avanzò verso il tipo con
la pistola, e ricorrendo alla sua voce più tremolante disse: “Che bellissima arma! Funziona?
Posso vederla?” Benny, Julius e Bella pensarono che gli avesse dato di volta il cervello.
“Fermati, Allan!” esclamò Benny.
“Sì, fermati, vecchiaccio, se no ti faccio secco,” gridò Secchio.
Allan continuò a camminare con la sua andatura incerta. Secchio arretrò ancora, tese il
braccio puntandogli la pistola contro e… fece esattamente quello che Allan aveva sperato:
eseguì un ulteriore passo indietro… Chi si è trovato a mettere un piede nella massa
appiccicosa e viscida degli escrementi freschi di un elefante sa che è impossibile mantenere
l’equilibrio. Secchio non lo sapeva, ma lo imparò immediatamente. Il piede sinistro gli
scivolò all’indietro, riuscì a mantenersi in equilibrio aiutandosi con le braccia, portò indietro
anche il piede destro e magicamente si trovò dentro la melma. Poi cadde, atterrando
morbidamente sulla schiena.
“Siediti, Sonya, siediti,” disse con dolcezza Allan, attuando così la seconda parte del suo
piano.
“No, cazzo, Sonya, no,” urlò Bella, che aveva capito.
“Porca merda,” fu il commento di Secchio, sdraiato per l’appunto nella medesima.
Sonya, che dava la schiena a tutti loro, aveva udito chiaramente il comando di Allan, e dal
momento che il vecchio era sempre così gentile fece quello che le era stato chiesto.
Inoltre pensò che anche la sua padrona fosse d’accordo, poiché nel suo vocabolario la parola
“no” non esisteva.
Quindi eseguì. Atterrò di sedere su un ammasso morbido e caldo e subito si sentì il rumore
di qualcosa che scricchiolava seguito da un breve gemito, dopodiché cadde il silenzio.
Adesso che era seduta avrebbe finalmente avuto la sua mela?
“Così se n’è andato anche il numero due,” commentò Julius.
“Cazzo, merda,” commentò Bella.
“Accidenti,” commentò Benny.
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“Eccoti una mela, Sonya,” disse Allan.
Henrik “Secchio” Hultén non proferì verbo.
Per tre ore il Capo aspettò di ricevere notizie da Secchio, poi giunse alla conclusione che a
quell’imbranato fosse successo qualcosa. Non riusciva a capire perché la gente non si
limitasse a eseguire gli ordini, semplicemente.
Doveva intervenire di persona, era evidente. Si mise a cercare il numero di targa fornitogli
da Secchio. Non ci volle molto prima che, con l’aiuto del registro della motorizzazione,
venisse a sapere che si trattava di una VW Passat rossa di proprietà di una certa Gunilla
Björklund, Sjötorp, Rottne, Småland.
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CAPITOLO 11
1945-1947
Non è facile tornare sobri in quattro e quattr’otto se ci si è scolati una bottiglia di tequila,
eppure fu proprio quello che successe al vicepresidente Harry S. Truman.
Il decesso inaspettato del presidente Roosevelt costrinse Truman a dare un taglio alla
piacevole cenetta con Allan e a ordinare che lo portassero immediatamente alla Casa
Bianca, a Washington. Rimasto solo al ristorante Allan dovette affrontare una lunga
discussione con il capocameriere, non avendo alcuna intenzione di pagare il conto di tasca
propria. Alla fine quest’ultimo accolse l’argomentazione di Allan, che gli spiegò come il
futuro presidente degli Stati Uniti andasse considerato persona assolutamente degna di
credito, oltre che facilmente reperibile.
Dopo una passeggiata rigeneratrice Allan rientrò alla base militare, dove riprese il suo posto
di collaboratore dei migliori fisici, matematici e chimici d’America – anche se adesso tutti
lo guardavano con un certo imbarazzo. Ma l’atmosfera si era fatta così pesante che dopo
qualche settimana gli parve arrivato il momento di rimettersi in circolazione. Una telefonata
da Washington per il signor Karlsson lo trasse d’impaccio: “Ciao Allan, sono Harry.” “Harry
chi?” “Truman, Allan. Harry S. Truman. Il presidente, che diavolo!” “No, ma che piacere!
Che bello risentirti, signor presidente. Non hai dovuto prendere i comandi anche durante il
viaggio di ritorno, spero.” No, per fortuna. Infatti, nonostante la gravità del momento, il
presidente si era addormentato di colpo su uno dei divanetti dell’Air Force 2 e non si era
svegliato fino all’atterraggio, cinque ore dopo.
Adesso però Harry Truman aveva un bel po’ di faccende da sbrigare ricevute in eredità dal
suo predecessore, e proprio a questo proposito avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di Allan,
sempre che lui fosse d’accordo.
Confermata la propria disponibilità, il mattino seguente Allan lasciò per sempre la base di
Los Alamos.
La stanza ovale era in effetti ovale come se l’era immaginata. Adesso Allan si trovava lì,
seduto davanti al suo compagno di bevute di Los Alamos, ad ascoltare ciò che aveva da dire.
La faccenda era la seguente: il presidente era costantemente tampinato da una donna che per
motivi di carattere politico non poteva ignorare. La tipa in questione si chiamava Song
Meiling. Allan ne aveva sentito parlare? No?
Comunque sia, era la bellissima moglie del capo del Kuo-min-tang cinese, Chiang Kaishek.
Aveva studiato in America, era un’ottima amica della signora Roosevelt, attirava migliaia di
persone ovunque apparisse e aveva tenuto un numero infinito di discorsi al Congresso. Ora,
la signora stava perseguitando il presidente Truman affinché questi mantenesse le promesse
fatte dal presidente Roosevelt circa la lotta al comunismo.
“Lo sapevo che si ricadeva di nuovo in politica,” commentò Allan.
“È piuttosto difficile evitare l’argomento se sei il presidente degli Stati Uniti,” ribatté
Truman.
Per il momento tirava vento di bonaccia tra il Kuomintang e i comunisti, visto che entrambe
le fazioni erano impegnate in un fronte comune in Manciuria, ma subito dopo la
capitolazione dei giapponesi le lotte intestine tra i cinesi sarebbero sicuramente riprese.
“Come fai a essere sicuro che i giapponesi capitoleranno?” chiese Allan.
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“Sei tu che dovresti saperlo,” rispose il presidente prima di cambiare argomento.
Quindi riprese la sua disquisizione – incredibilmente noiosa – sull’evolversi della situazione
in Cina. Secondo i rapporti pervenuti dai servizi segreti americani i comunisti godevano del
vento a favore, mentre gli stessi servizi segreti erano fortemente in disaccordo con la tattica
militare portata avanti da Chiang Kai-shek. Quest’ultimo puntava a mantenere il controllo
sulle città, lasciando campo libero alla diffusione del comunismo nel resto del paese. Gli
agenti americani avrebbero potuto liquidare senza alcun problema il capo dei comunisti,
Mao Tse-tung, ma in quel caso c’era il rischio che le sue idee attecchissero ancora di più tra
la popolazione. Persino la moglie di Chiang Kai-shek, l’irritante Song Meiling, aveva capito
che bisognava fare qualcosa di più, e per questo motivo aveva ordito un piano militare
alternativo da mettere in atto parallelamente a quello del consorte.
Il presidente si dilungò su questo piano alternativo, ma Allan aveva smesso di ascoltare
concentrando invece l’attenzione sulla stanza ovale. Si chiedeva se le finestre fossero
munite di vetri antiproiettile, dove conducesse la porta a sinistra, e rimuginava sul fatto che
non doveva essere facile portare in tintoria quel gigantesco tappeto… Infine fu costretto a
interrompere il presidente, prima che a questi venisse in mente di fargli delle domande
sull’argomento.
“Scusa, Harry, ma cosa vuoi che faccia?” “Si tratta, come ti dicevo, di fermare l’avanzata
dei comunisti nel paese…” “E cosa vuoi che faccia?” “Song Meiling esige da parte degli
americani un supporto militare più consistente, il che significa che pretende ulteriori
integrazioni agli armamenti già messi a disposizione finora.” “E cosa vuoi che faccia?” La
terza volta che Allan tornò a porre la domanda il presidente tacque per prendere fiato. Poi
disse: “Voglio che tu vada in Cina a fare saltare in aria i ponti.” “Perché non l’hai detto
subito?” esclamò Allan radioso.
“Il maggior numero di ponti possibile. Voglio che tu distrugga tante strade controllate dai
comunisti quante…” “Che bellezza vedere un paese nuovo,” disse Allan.
“Voglio che tu istruisca gli uomini di Song Meiling sull’arte di far esplodere i ponti e
che…” “Quando devo partire?” Allan, che era un esperto di esplosivi a tutti gli effetti e che,
travolto dall’euforia dell’alcol, aveva fatto amicizia con il nuovo presidente americano, era e
rimaneva comunque uno svedese. Se si fosse minimamente interessato al gioco della
politica, forse avrebbe chiesto al presidente perché fosse stato scelto proprio lui per quella
missione. Il presidente sarebbe stato pronto a soddisfare la sua curiosità, e quasi sicuramente
gli avrebbe spiegato che agli Stati Uniti non conveniva condurre due progetti di supporto
militare paralleli e potenzialmente contrastanti in Cina. Ufficialmente gli Stati Uniti
sostenevano in grande stile Chiang Kai-shek e il suo partito, il Kuomintang, ma adesso
quest’appoggio veniva segretamente potenziato con un ulteriore carico di esplosivi
reclamato e ottenuto dalla moglie di Chiang Kai-shek, la bellissima, americanizzata e vipera
(secondo il presidente) Song Meiling. Il peggio era che Truman non poteva escludere
l’ipotesi che il tutto fosse stato deciso da Song Meiling e dalla signora Eleanor Roosevelt
davanti a una tazza di tè. Uffa, che rottura.
Comunque, l’unica faccenda che gli rimaneva da sbrigare consisteva nel fare incontrare
Allan Karlsson e Song Meiling. Da quel momento in poi per lui la questione era chiusa.
Il passo successivo era di carattere più formale, visto che la decisione era già stata presa.
Ciononostante gli veniva richiesto di, per così dire, premere il bottone. Su un’isola a est
delle Filippine l’equipaggio di un B52 aspettava il segnale da parte del presidente. Erano
stati eseguiti tutti i test. Niente poteva andare storto.
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Il giorno seguente era il 6 agosto 1945.
La gioia che Allan Karlsson aveva provato all’idea dei nuovi orizzonti che gli si
dischiudevano davanti subì un brutto colpo durante il primo incontro con Song Meiling.
Ad Allan era stato comunicato di recarsi da lei nella suite di un albergo a Wash-ing-ton.
Dopo essersi aperto un varco tra due file di guardie del corpo ed essersi trovato di fronte a
Madame, le porse la mano dicendo: “Buongiorno, signora, mi chiamo Allan Karlsson.”
Song Meiling ignorò la mano. Indicò invece una poltrona accanto a lei.
“Seduto!” ordinò.
Nel corso degli anni Allan era stato accusato di essere qualsiasi cosa – un pazzo, un fascista
– ma mai un cane. Valutò l’ipotesi di lamentarsi del tono poco gentile della signora, ma
decise di lasciar correre per sapere quanto prima cosa sarebbe successo dopo. Oltretutto la
poltrona sembrava molto comoda.
Non appena si fu seduto, Song Meiling si buttò in quello che agli occhi di Allan era il
peggio che gli potesse capitare, e cioè una disquisizione politica. La donna tirò in ballo il
presidente Roosevelt, che aveva dato ordine di portare avanti quella missione. Ad Allan
parve decisamente strano, dato che nessuno poteva condurre delle operazioni militari
dall’aldilà.
Song Meiling parlò dell’importanza di fermare i comunisti, di impedire a quel bellimbusto
di Mao Tse-tung di diffondere il suo veleno politico in provincia, e – particolare assai
significativo, secondo Allan – del fatto che Chiang Kai-shek non dovesse saperne nulla.
“Come ve la passate voi due in quanto a sesso?” chiese Allan.
Song Meiling rispose che la questione non riguardava certo un miserabile come lui.
Karlsson era stato inviato lì dal presidente Roosevelt per ricevere ordini da lei nel corso
della missione, pertanto l’unica cosa che doveva fare era rispondere alle sue domande.
E basta.
Allan, che in genere non si arrabbiava ritenendo di non essere dotato del talento necessario,
decise questa volta di risponderle a tono: “L’ultima notizia che ho sentito su Roosevelt è che
ci ha lasciati. Se nel frattempo fossero intervenute delle variazioni la cosa sarebbe apparsa
sui giornali. Per quanto mi riguarda, sono qui perché me lo ha chiesto il presidente Truman.
Se però la signora intende continuare a fare la scontrosa, tolgo il disturbo e me ne lavo le
mani. La Cina la posso visitare un’altra volta e di ponti ne ho fatti saltare tanti che per me
bastano e avanzano.” Song Meiling non si era più trovata di fronte a qualcuno che la
contraddicesse dalla volta in cui la madre aveva tentato di impedire il suo matrimonio con
un buddista.
L’episodio risaliva a molti anni prima e a ogni modo sua madre aveva avuto modo di
scusarsi, visto che proprio grazie a quelle nozze la figlia era diventata una stella del
firmamento.
Song Meiling si vide costretta a riflettere. Evidentemente aveva sbagliato a giudicare la
situazione. Fino a quel momento gli americani avevano tremato ogni volta che era apparsa
al fianco dei suoi cari amici, il signore e la signora Roosevelt. Dunque, come avrebbe potuto
trattare quell’essere seduto al suo fianco se non come tutti gli altri? Chi era quell’imbranato
che Truman le aveva sbolognato?
Di sicuro Song Meiling non era tipo da fraternizzare con chiunque, ma la sua
determinazione era più forte dei suoi principi. Per questo cambiò tattica.
“A quanto pare ci siamo dimenticati di salutarci come si deve,” disse porgendo la mano ad
Allan all’occidentale. “Meglio tardi che mai!” Allan non serbava rancore a lungo. Dopo
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averle stretto la mano sorrise come se non fosse successo nulla. Mentre non era poi così
d’accordo sull’affermazione “Meglio tardi che mai”. Suo padre, per esempio, era diventato
fedele suddito dello zar Nicola II il giorno prima della rivoluzione bolscevica.
Due giorni dopo, insieme a Song Meiling e a venti uomini scelti tra le sue guardie del corpo,
Allan era già in volo per Los Angeles, dove li attendeva la nave che li avrebbe portati a
Shanghai insieme a un carico di dinamite.
Allan sapeva che gli sarebbe stato impossibile evitare Song Meiling durante la traversata
dell’Oceano Pacifico. La nave non era abbastanza grande. Così, decise di fare buon viso a
cattivo gioco e accettò di essere ospite fisso al tavolo del capitano. Il vantaggio era che si
mangiava bene, lo svantaggio che Allan e il capitano dovevano sciropparsi la compagnia di
Song Meiling, purtroppo incapace di parlare d’altro che di politica.
A essere sinceri c’era anche un altro aspetto negativo: invece dell’acquavite veniva servito
un liquore verdastro alla banana. Allan, che accettava sempre tutto ciò che gli veniva
offerto, realizzò che quella era la prima volta che gli capitava di bere qualcosa di imbevibile.
Le bevande alcoliche dovevano scendere nella gola e nello stomaco il più velocemente
possibile senza rimanere appiccicate al palato.
Song Meiling invece sembrava gradire, e più bicchieri mandava giù più le sue interminabili
conferenze politiche si facevano personali.
Ciò che Allan imparò controvoglia durante quelle cene nell’Oceano Pacifico fu, tra l’altro,
che quel bellimbusto di Mao Tse-tung e i suoi comunisti avrebbero potuto vincere la guerra
civile, e in quel caso la responsabilità sarebbe totalmente ricaduta su Chiang Kai-shek, il
marito di Song Meiling, che come comandante supremo era perfettamente incapace.
Oltretutto ora era impegnato in trattative di pace con Mao Tse-tung a Chongqing, nel sud
della Cina. Si era mai sentito niente di più stupido? Trattare con un comunista! Tempo
sprecato!
Song Meiling era certa che le trattative non sarebbero andate a buon fine. I rapporti dei
servizi segreti in suo possesso dicevano che una parte consistente dell’armata comunista era
in attesa del suo capo nelle zone montuose della provincia di Sichuan, non lontano da
Chongqing. Gli agenti superselezionati di Song Mei-ling ritenevano, proprio come lei, che il
bellimbusto e le sue truppe si sarebbero diretti a nordest, verso Shaanxi e Henan, nel corso
della loro nefasta marcia di propaganda attraverso la nazione.
Allan stava sempre molto attento a non aprire bocca per evitare il protrarsi dei sermoni,
mentre il capitano, inguaribilmente gentile, versando nei bicchieri l’intruglio verde e
stucchevole continuava a porre domande.
Il capitano si chiedeva come Mao Tse-tung potesse costituire una vera minaccia. Il
Kuomintang aveva alle spalle gli Stati Uniti e, da quanto aveva capito, era militarmente
superiore.
Quella sera la domanda prolungò il tormento di quasi un’ora. Song Meiling spiegò che
quella mezzacalzetta di suo marito aveva l’intelligenza, il carisma e le qualità di una vacca
da latte. Chiang Kai-shek, infatti, si era erroneamente convinto che la partita si dovesse
giocare tutta sul controllo delle città.
Grazie al suo piccolo piano alternativo, in cui erano coinvolti Allan e alcuni uomini scelti tra
le sue guardie del corpo, Song Meiling non escludeva l’ipotesi di sconfiggere Mao, ma con
quante probabilità? Venti uomini scarsamente armati, ventuno con il signor Karlsson, contro
un’orda di nemici altamente preparati nella zona montuosa di Sichuan… No, la situazione
non poteva essere peggiore.
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Il suo piano si articolava in due mosse: impedire al bellimbusto di muoversi liberamente,
intralciando gli spostamenti dell’armata comunista, e far capire a quel brocco del marito che
era giunto il momento di condurre le proprie truppe nei villaggi, per convincere il popolo
cinese che il Kuomintang gli era necessario per proteggersi dal comunismo, e non il
contrario. Come il bellimbusto, Song Meiling aveva capito quello che Chiang Kaishek
stentava a farsi entrare in zucca, e cioè che era decisamente più semplice diventare il capo di
un popolo se si aveva il popolo dalla propria parte.
Poteva anche essere che, andando allo sbaraglio, si riuscisse comunque a ottenere qualcosa:
in fondo era un bene che Chiang Kai-shek avesse convocato il nemico proprio a Chongqing,
nella parte sudoccidentale del paese. In questo modo, dopo l’inevitabile rottura dei
negoziati, il bellimbusto e i suoi compagni si sarebbero trovati a sud del fiume Yangzijiang.
Il che avrebbe permesso alle guardie di Song Meiling di raggiungerli, e a Karlsson di far
saltare in aria tutti i ponti della zona intrappolando il bellimbusto tra le montagne del Tibet.
“Se invece dovesse trovarsi sul lato sbagliato del fiume, a noi basterà cambiare tattica.
In Cina ci sono cinquantamila corsi d’acqua, quindi ovunque andrà quel parassita si troverà
con i piedi a mollo.” Un bellimbusto e parassita, pensò Allan, in lotta contro un brocco,
mezzacalzetta, incapace e con il quoziente d’intelligenza di una vacca da latte. E tra i due
una vipera ubriaca di liquore verde alla banana.
“Sarà interessante vedere come andrà a finire,” fu il commento spassionato di Allan. “A
proposito, e giusto così per dire, non è che il signor capitano ha da qualche parte un goccetto
di acquavite? Sa, per mandar giù il liquore.” No, il capitano non ne aveva. Però c’erano
tante altre cose da bere se il signor Karlsson desiderava variare: liquore al limone, liquore
alla panna, liquore alla menta… “Sempre così per dire,” disse allora Allan, “quand’è che
arriviamo a Shanghai?” Lo Yangzijiang non era un fiume qualunque: si estendeva per
centinaia di miglia ed era largo un chilometro. Inoltre, era abbastanza profondo da
permettere il passaggio di imbarcazioni della stazza di migliaia di tonnellate.
Era anche molto bello, laddove scorreva in mezzo ai paesaggi cinesi, alle città, ai villaggi, ai
campi arati e alle ripide scogliere.
A bordo di un battello fluviale, Allan Karlsson e la guarnigione composta da venti delle
guardie del corpo di Song Meiling si stavano dirigendo verso la provincia di Sichuan, allo
scopo di dare del filo da torcere a quel miserabile di Mao Tse-tung. Il viaggio aveva avuto
inizio il 12 ottobre 1945, due giorni dopo che, come previsto, i negoziati di pace si erano
arenati.
Il viaggio procedeva a rilento, visto che le venti guardie solevano spassarsela per un giorno,
o anche tre, non appena il battello attraccava in porto (i topi ballavano da quando la gatta si
era messa al sicuro nella sua residenza estiva vicino a Taipei). Le fermate furono numerose.
Prima Nanjing, poi Wuhu, Anqing, Jiujiang, Huangshi, Wuhan, Yueyang, Yidu, Fengjie,
Wanxian, Chongqing e Luzhou. E in ogni posto vai con alcol, prostitute e ogni sorta di
ordinaria libido.
Dal momento che quel tenore di vita costava un capitale, le venti guardie si inventarono una
tassa. I contadini che intendevano scaricare le merci in porto dovevano pagare un balzello di
cinque yuan, altrimenti erano costretti ad andarsene senza aver concluso niente. E chi aveva
da ridire si beccava una pallottola in pancia.
I proventi della tassa venivano subito ridistribuiti nelle zone più squallide e malfamate delle
varie città che, come si conviene, si trovavano sempre nelle vicinanze del porto.
Allan pensava che, se per Song Meiling era importante avere il popolo dalla propria parte,
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forse avrebbe dovuto farlo presente anche ai suoi diretti sottoposti. Ma questo era un
problema suo.
Ci vollero due mesi prima che il battello con a bordo Allan e i venti uomini raggiungesse la
provincia di Sichuan, che le truppe di Mao Tse-tung avevano lasciato ormai da tempo per
dirigersi verso nord. Prima di inerpicarsi per le stradine di montagna si erano scontrati a
valle con le truppe del Kuomintang poste a difesa della città di Yibin, che per un pelo non
era caduta nelle mani dei comunisti. Durante i combattimenti erano morti tremila soldati del
Kuomintang, di cui almeno duemilacinquecento troppo ubriachi per difendersi, contro i
trecento caduti, presumibilmente sobri, dell’armata comunista.
La battaglia per il controllo di Yibin era però finita con il successo del Kuomintang, dal
momento che tra i cinquanta comunisti imprigionati c’era una punta di diamante. Per gli
altri quarantanove prigionieri era bastato un colpo d’arma da fuoco e via dentro la fossa, ma
il cinquantesimo! Mmm! Il cinquantesimo era nientedimeno che la bellissima Jiang Qing,
l’attrice conquistata dal marxismo-leninismo nonché – udite udite! – terza moglie di Mao
Tse-tung.
Tra gli alti ufficiali del Kuomintang di Yibin e le guardie di Song Meiling si scatenarono una
serie di battibecchi. La disputa verteva su chi fosse responsabile della superprigioniera Jiang
Qing. I capi del Kuomintang si erano limitati a tenerla sottochiave in attesa che giungesse
l’imbarcazione con a bordo gli uomini di Song Meiling. Non avevano osato fare altro, dato
che sul battello poteva esserci Song Meiling in persona.
E con lei non si scherzava.
Quando si seppe che Madame si trovava a Taipei, per gli ufficiali la situazione divenne
immediatamente più semplice: Jiang Qing sarebbe stata violentata a oltranza dopodiché, se
fosse sopravvissuta, le avrebbero sparato.
Le guardie di Song Meiling non avevano nulla da dire contro lo stupro, anzi erano disposte a
dare una mano, ma Jiang Qing non sarebbe assolutamente dovuta morire in quel modo.
Andava condotta da Song Meiling, o perlomeno da Chiang Kai-shek, che ne avrebbero
deciso la sorte. Si trattava di politica ad alto livello, spiegarono con superiorità al
comandante di quei provinciali di Yibin.
Quest’ultimo non fece altro che accettare, promettendo che quello stesso pomeriggio
avrebbe consegnato loro il suo gioiello. Dopo l’incontro, le guardie decisero di festeggiare il
successo con una scorribanda coi fiocchi in città. E pensare che, una volta ripresa la
traversata, avrebbero avuto a loro disposizione quello splendore di prigioniera!
Gli accordi finali si tennero sul ponte del battello su cui Allan e le guardie si trovavano da
quando si erano lasciati il mare alle spalle. Allan sperava di aver capito la maggior parte dei
loro discorsi: mentre le guardie se la spassavano, infatti, se n’era sempre stato sul ponte di
coperta insieme al simpatico sguattero Ah Ming, che si era dimostrato un ottimo maestro.
Nel giro di due mesi Ah Ming aveva insegnato ad Allan abbastanza cinese da renderlo quasi
autosufficiente (soprattutto se si trattava di imprecazioni o epiteti a sfondo sessuale).
Fin da bambino Allan aveva imparato a sospettare di coloro che non si concedevano un
goccetto quando si presentava l’occasione. Non aveva più di sei anni allorché suo padre,
mettendogli una mano sulla spalla, gli aveva detto: “Guardati dai preti, figlio mio. E da
quelli che non bevono acquavite. La categoria peggiore, poi, sono i preti che non bevono
acquavite.” Tuttavia Allan era venuto a sapere che il padre non era affatto sobrio quando, un
giorno, aveva dato uno sganassone a un povero viaggiatore, gesto per cui era stato
immediatamente licenziato dalle Ferrovie svedesi. L’episodio aveva a sua volta spinto la
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madre di Allan a elargire al figlio alcune parole imbevute di saggezza: “Guardati dagli
ubriaconi. Avrei dovuto farlo anch’io.” Crescendo, il ragazzo aveva elaborato una sua idea
al riguardo. Secondo lui preti e politici erano della stessa pasta, indipendentemente dal fatto
che fossero comunisti, fascisti, capitalisti o chissà cosa. Condivideva pienamente l’opinione
paterna per cui la gente come si deve non beveva succo di frutta, e quella materna per cui
non bisognava perdere la testa anche se si era alzato un po’ il gomito.
In pratica, questo significò che durante la traversata Allan perse la voglia di aiutare Song
Meiling e le sue venti guardie (per la precisione diciannove, visto che una era caduta al di là
del parapetto ed era annegata). Inoltre, si rifiutava di condividere anche solo il pensiero che
potessero usare violenza alla prigioniera rinchiusa sottocoperta, non importava se comunista
o moglie di chissà chi.
Così, Allan decise di andarsene portando con sé la prigioniera. Informò lo sguattero nonché
amico Ah Ming del suo proposito, chiedendogli umilmente di preparare qualche provvista
per il viaggio dei fuggiaschi. Ah Ming promise di farlo, ma a una condizione: potersi
aggregare a loro.
Diciotto delle diciannove guardie di Song Meiling, insieme al cuoco di bordo e al capitano
del battello, erano andate a divertirsi nel quartiere a luci rosse di Yibin. La diciannovesima
sedeva imbronciata davanti alla scala che conduceva alla cella di Jiang Qing sottocoperta.
Allan si accomodò vicino alla sentinella per chiacchierare un po’, proponendole infine di
farsi un bicchierino insieme. Questi rispose che era responsabile del prigioniero forse più
importante della nazione, pertanto non poteva starsene lì a sbevazzare sakè.
“Sono perfettamente d’accordo,” assentì Allan. “Ma un bicchierino non fa male a nessuno.”
“No,” ribatté pensierosa la sentinella. “Un bicchierino non fa male a nessuno.” Due ore
dopo Allan e la sentinella avevano appena finito di scolarsi la seconda bottiglia, mentre lo
sguattero Ah Ming correva avanti e indietro servendo loro leccornie sgraffignate dalla
dispensa. Dopo tutto quel viavai Allan era alticcio, e la sentinella, che secondo le previsioni
sarebbe dovuta finire stesa sotto il tavolo, in mancanza di un tavolo disponibile si era
addormentata sul ponte.
“Così, bravo,” commentò Allan sbirciando il soldato cinese steso ai suoi piedi privo di
coscienza. “Bada di non metterti mai con uno svedese quando si tratta di bere, a meno che tu
non sia finlandese o perlomeno russo.” Lasciato il battello e protetti dalle tenebre, l’esperto
di esplosivi Allan Karlsson, lo sguattero Ah Ming e Jiang Qing, l’infinitamente grata moglie
del leader comunista, raggiunsero le montagne dove la donna aveva trascorso parecchio
tempo insieme alle truppe del marito. Era conosciuta tra i nomadi tibetani della zona, per cui
non ebbero nessun problema a sfamarsi dopo che le scorte di cibo preparate da Ah Ming
finirono.
Che i tibetani fossero tanto ospitali nei confronti di un’alta rappresentante dell’armata di
liberazione popolare era comprensibile. Era universalmente noto che quando i comunisti
avessero vinto la loro lotta in Cina, il Tibet avrebbe ottenuto formalmente l’indipendenza.
L’idea di Jiang Qing era che loro tre si dirigessero velocemente verso nord, evitando la zona
controllata dal Kuomintang. Dopo mesi di cammino tra le montagne si sarebbero infine
avvicinati a Xi’an, nella provincia di Shaanxi, dove Jiang Qing sapeva di trovare suo marito,
sempre che fossero arrivati in tempo.
Lo sguattero Ah Ming era estasiato dalla promessa fatta dalla donna che d’ora in avanti
avrebbe servito Mao in persona. In cuor suo il giovane era diventato comunista proprio
osservando il pessimo comportamento delle guardie di Song Meiling, pertanto l’idea di
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cambiare partito e padrone gli andava a genio.
A questo punto, invece, Allan si era convinto che la lotta comunista ce l’avrebbe fatta
benissimo anche senza di lui, così decise che era arrivato il momento di rientrare in patria.
Non era d’accordo anche Jiang Qing?
Sì, lo era, ma la patria non era la Svezia? E non era terribilmente lontana? Come pensava di
risolvere il problema, il signor Karlsson?
La soluzione più pratica sarebbe stata prendere una nave o un aereo. Purtroppo però il mare
si trovava da tutt’altra parte e tra quelle montagne non c’era l’ombra di un aeroporto.
Oltretutto Allan non aveva il becco di un quattrino.
“Quindi mi toccherà camminare,” concluse.
Il capo del villaggio che aveva accolto con tanta generosità i tre fuggitivi aveva per fratello
un grandissimo viaggiatore. Era arrivato fino a Ulan Bator a nord e a Kabul a ovest. Oltre a
essersi bagnato i piedi nel golfo del Bengala durante un viaggio verso le Indie Orientali.
Adesso però era a casa, e il capo del villaggio lo mandò a chiamare chiedendogli di
disegnare una cartina geografica per il signor Karlsson, affinché questi potesse tornare in
Svezia. Il fratello promise di farlo e il giorno seguente aveva già svolto il suo compito.
Pur essendo vestiti di tutto punto, si poteva definire perlomeno ardito il progetto di valicare
l’Himalaya armati di una cartina fatta in casa e di una bussola. Allan si sarebbe dovuto
spostare a nord della catena montuosa per poi costeggiare sul lato settentrionale sia il lago
d’Aral che il mar Caspio, ma la realtà e la cartina non procedevano di pari passo. Allan si
congedò da Jiang Qing e Ah Ming per lanciarsi nella piacevole passeggiata che lo avrebbe
portato ad attraversare il Tibet, superare l’Himalaya, passare per le Indie Britanniche,
l’Afghanistan, l’Iran, proseguire verso la Turchia per poi, da lì, risalire l’Europa.
Dopo due mesi a piedi, Allan capì tuttavia di aver scelto la cresta montuosa sbagliata e che
la cosa migliore sarebbe stata fare dietrofront e riprendere da dove era partito.
Quattro mesi dopo (sul versante giusto) gli parve che le cose andassero a rilento. Per questo,
al mercato di un villaggio trattò alla bell’e meglio il prezzo di un cammello servendosi dei
gesti e dei suoi rudimenti di cinese. Alla fine Allan e il venditore arrivarono a un accordo,
ma soltanto dopo che Allan lo ebbe costretto ad accettare la clausola per cui sua figlia non
rientrava nell’acquisto.
In effetti Allan aveva valutato l’offerta di portarsi via la figlia, e non per motivi di carattere
sessuale, dal momento che in lui gran parte di quelle pulsioni erano ormai sopite. Ci aveva
pensato il professor Lundborg in sala operatoria. Era il pensiero di avere qualcuno che gli
tenesse compagnia ad allettarlo. Talvolta la vita sugli altopiani tibetani poteva essere molto
solitaria.
Ma visto che la figlia del venditore non parlava altro che un monocorde dia-let-to
tibetobirmano di cui lui non capiva un’acca, Allan concluse che, considerando lo stimolo
intellettuale che ne sarebbe derivato, tanto valeva conversare con il cammello. Inoltre, non
era da escludere che la ragazza nutrisse nei suoi confronti qualche aspettativa di natura
sessuale: Allan lo intuiva dal suo sguardo.
Fu così che Allan trascorse altri due mesi in solitudine sul dorso del cammello, finché non si
imbatté in tre sconosciuti anche loro dotati di cammello. Li salutò in tutte le lingue che
conosceva: cinese, spagnolo, inglese e svedese. Per fortuna una di queste, e cioè l’inglese,
funzionò.
Uno degli sconosciuti gli chiese chi fosse e dove stesse andando. Allan rispose di chiamarsi
Allan e che stava ritornando a casa, in Svezia. L’uomo lo guardò con espressione stupita.
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Pensava di raggiungere l’Europa settentrionale a cavallo di un cammello?
“Con una piccola interruzione in nave per arrivare a Öresund,” spiegò Allan.
Dove fosse Öresund i tre uomini non lo sapevano. Dopo essersi assicurati che non fosse
fedele a quel lacchè angloamericano dello scià dell’Iran, invitarono Allan a unirsi a loro.
I tre si erano conosciuti quando studiavano inglese all’Università di Teheran. Ma a
differenza degli altri non avevano scelto la lingua inglese per poi mettersi al servizio delle
autorità britanniche. Finiti gli studi avevano trascorso due anni a contatto con Mao Tse-tung,
ispiratore del comunismo, e adesso stavano tornando in Iran.
“Siamo marxisti,” disse uno di loro. “Combatteremo per il proletariato internazionale e in
suo nome attueremo una rivoluzione popolare in Iran e in tutto il mondo, abrogheremo il
sistema capitalista, costruiremo una società basata sull’eguaglianza economica e sociale e
sulla realizzazione delle capacità dei singoli: da ognuno secondo le propriecapacità, a
ognuno secondo i propribisogni.” “Ma guarda,” commentò Allan. “Non è che avete un
goccetto d’acquavite in più?” Sì, ce l’avevano. La bottiglia passò per un po’ da un dorso di
cammello all’altro e ad Allan parve subito che il viaggio cominciasse a farsi divertente.
Undici mesi dopo i quattro erano riusciti a salvarsi reciprocamente la vita almeno tre volte.
Insieme erano sopravvissuti alle valanghe, ai briganti, al gelo e a ripetuti periodi senza cibo.
Due dei cammelli avevano tirato le cuoia, il terzo lo avevano macellato e mangiato, mentre
il quarto lo avevano consegnato a un doganiere afgano per poter entrare nel paese senza
passare per le prigioni.
Allan non aveva mai pensato che attraversare l’Himalaya fosse facile. Era stata una bella
fortuna potersi unire a quei simpatici comunisti iraniani, dato che non sarebbe stato
semplice lottare da solo contro le tempeste di sabbia, i fiumi che straripavano e i quaranta
gradi sottozero in montagna. Quarantadue, per la precisione. Nell’anno 194647 il gruppo si
era accampato a duemila metri di altezza per svernare.
I tre comunisti avevano cercato di convertire Allan, soprattutto quando avevano appreso che
se la cavava bene con la dinamite, ma lui aveva augurato loro buona fortuna dicendo che
doveva tornare alla sua fattoria a Yxhult. Nella confusione del momento si era dimenticato
di averla fatta saltare in aria diciotto anni prima.
Alla fine i tre rinunciarono a convincerlo accontentandosi del fatto che sarebbe rimasto loro
amico, capace oltretutto di non lamentarsi per quattro fiocchi di neve. La considerazione che
provavano per lui crebbe ulteriormente quando Allan, in attesa di tempi migliori e di cose
più importanti di cui occuparsi, riuscì a distillare acquavite dal latte di capra. I comunisti
non avevano idea di come avesse fatto, ma adesso il latte aveva una marcia in più e grazie a
quell’acquavite la loro temperatura corporea aumentò e il futuro si prospettò a tutti più
roseo.
Nella primavera del 1947 raggiunsero finalmente la parete meridionale della catena
montuosa più alta del mondo. Più si avvicinavano al confine iraniano, più concitate si
facevano le conversazioni dei tre comunisti sul futuro dell’Iran. Era giunta l’ora di cacciare
dal paese tutti gli stranieri. Gli inglesi avevano sostenuto per tutti quegli anni quel corrotto
dello scià e questo era già un fatto grave in sé. Ma quando alla fine lo scià si era stancato di
starsene tranquillo e aveva cominciato a ribellarsi, gli inglesi lo avevano deposto mettendo
sul trono suo figlio. Allan fece una rapida associazione con la parentela tra Song Meiling e
Chiang Kai-shek e concluse che al mondo esistevano rapporti familiari davvero singolari.
A quanto pareva il figlio era più malleabile del padre, tanto che adesso gli inglesi e gli
americani controllavano interamente il petrolio iraniano. I tre comunisti d’ispirazione
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maoista avrebbero posto fine a tutto questo. Il problema era che gli altri comunisti si erano
ispirati al Soviet di Stalin, per non parlare poi di un mucchio di altri elementi rivoluzionari
di contorno che mettevano in mezzo pure la religione.
“Interessante,” commentò Allan poco convinto.
In risposta, si sorbì una lunga disquisizione marxista in cui si sosteneva che l’argomento era
molto più che interessante. In breve, i tre si dichiararono pronti alla vittoria o alla morte.
L’indomani apparve chiaro che proprio quest’ultima avrebbe avuto la meglio, poiché non
appena i quattro amici misero piede in territorio iraniano vennero arrestati da una pattuglia
di passaggio. Sfortunatamente i tre avevano in tasca ognuno il proprio esemplare del
Manifesto del Partito comunista (per di più in persiano) e furono fucilati all’istante. Allan
scampò alla morte perché era un illetterato; oltretutto sembrava straniero, per cui l’ordine
della sua esecuzione doveva arrivare dall’alto.
Con una canna di fucile puntata nella schiena, Allan si tolse il copricapo in segno di rispetto
per i tre comunisti appena fucilati che gli avevano tenuto compagnia durante la traversata
dell’Himalaya. Pensò poi che non si sarebbe mai abituato a vedere i propri amici andare e
venire tanto rapidamente davanti ai suoi occhi.
Non gli fu concesso altro tempo per il lutto. Allan fu scaraventato nel cassone di un
autocarro. Con il naso premuto contro una coperta, domandò in inglese di essere portato
all’ambasciata svedese di Teheran, o a quella americana nel caso la Svezia non avesse
nessuna rappresentanza diplomatica in città.
“Khafesho!” gli fu risposto in tono minaccioso.
Non capì, tuttavia realizzò che forse era meglio tenere la bocca chiusa.
A mezzo globo di distanza, intanto, a Washington, il presidente Harry Truman aveva le sue
belle gatte da pelare. Si avvicinavano le elezioni, pertanto era necessario agire in modo
accorto. La questione strategicamente più importante era fino a che punto fosse pronto a
soddisfare i desideri dei neri americani degli Stati del Sud. Da un lato bisognava adeguarsi
ai tempi, dall’altro non allentare troppo la corda. Solo così il presidente si sarebbe garantito
l’appoggio dell’opinione pubblica.
Sulla scena mondiale il problema aveva a che fare con Stalin. In quel caso il presidente non
era disposto a scendere a nessun compromesso. Stalin era riuscito ad affascinare molti, ma
non Harry S. Truman.
Alla luce di tutto questo la Cina era l’ago della bilancia. Stalin garantiva ogni aiuto possibile
a favore di quel Mao Tse-tung, mentre Truman non poteva fare lo stesso con quel dilettante
di Chiang Kai-shek. Finora Song Meiling aveva ottenuto tutto ciò che voleva, ma adesso era
venuto il momento di darci un taglio. Chissà che fine aveva fatto Allan Karlsson? Un tipo
davvero simpatico.
Gli oppositori militari di Chiang Kai-shek si fecero sempre più numerosi. Il piano di Song
Meiling era fallito, dal momento che l’esperto di esplosivi era sparito portandosi via la
moglie del bellimbusto.
Song Meiling aveva chiesto più volte di incontrare il presidente Truman; avrebbe voluto
strangolarlo con le sue mani per averle appioppato quel traditore di Allan Karlsson, ma
Truman non aveva mai avuto il tempo di riceverla. A quel punto gli Stati Uniti girarono le
spalle al Kuomintang: corruzione, inflazione da record e fame – tutto questo giocava a
favore di Mao Tse-tung. Chiang Kai-shek, Song Meiling e i loro adepti furono spediti in
aereo a Taiwan. La terraferma cinese divenne comunista.
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CAPITOLO 12
Lunedì 9 maggio 2005
A Sjötorp i nostri eroi capirono che era giunta l’ora di prendere posto sul pullman e sparire
alla svelta e per sempre. Prima c’erano però una serie di cosette urgenti da sbrigare.
Armata di impermeabile, cappello e guanti di gomma, Bella afferrò la pompa dell’acqua per
lavare i resti del farabutto che Sonya aveva schiacciato. Tanto per cominciare sfilò la pistola
dalla mano destra del morto e l’appoggiò sulla veranda (dove poi l’avrebbe dimenticata),
con la canna puntata verso un solido abete che si ergeva a quattro metri di distanza: capitava
che quegli arnesi facessero fuoco a casaccio.
Dopo esser stato ripulito dagli escrementi di Sonya, Secchio fu spinto con forza da Julius e
Benny sotto i sedili posteriori della sua Ford Mustang. In altri tempi non sarebbe entrato in
uno spazio così angusto, ma adesso era ridotto a una grande frittella.
Julius si mise al volante dell’auto e partì insieme a Benny con la Passat di Bella al traino.
L’idea era di trovare un posto isolato a distanza di sicurezza da Sjötorp, inzuppare l’auto di
benzina e darle fuoco, proprio come avrebbero fatto dei veri gangster in quella situazione.
Ci volevano però una tanica e la benzina per riempirla. Ecco perché Julius e Benny si
fermarono alla stazione di servizio lungo la Sjösåsvägen, a Braås. Benny entrò per sbrigare
la faccenda e Julius lo seguì per procurarsi qualcosa di buono da mettere sotto i denti.
Una Ford Mustang nuova con un motore V8 di oltre trecento cavalli di potenza davanti alla
stazione di servizio di Braås era un evento senza precedenti: era come se un Boeing 747
fosse atterrato nella centralissima Sveavägen a Stoccolma. Non ci volle nemmeno un
secondo prima che il fratellino di Secchio e uno dei suoi colleghi di The Violence
decidessero di dare una svolta alla giornata: il fratellino montò sulla Mustang mentre il
collega teneva sotto controllo il presunto proprietario che stava facendo incetta di dolciumi
dentro la stazione di servizio. Che colpo! E che idiota! Le chiavi erano nel cruscotto!
Quando Benny e Julius uscirono, uno con una tanica nuova fiammante da riempire, l’altro
con un giornale sottobraccio e la bocca piena di caramelle, la Mustang non c’era più.
“Non l’avevo parcheggiata qui?” chiese Julius.
“Sì, l’hai parcheggiata qui,” rispose Benny.
“Quindi abbiamo un problema?” chiese Julius.
“Abbiamo un problema,” confermò Benny.
E così riportarono a Sjötorp la Passat rimasta lì. La tanica vuota restò vuota, ma ormai
faceva lo stesso.
La Mustang era nera con due strisce gialle sulla capote. Un esemplare davvero superbo, da
cui il fratellino di Secchio e il suo amico avrebbero ricavato una bella sommetta. Il furto era
stato tanto casuale quanto privo di intoppi. Meno di cinque minuti dopo quel colpaccio
imprevisto, l’auto era al sicuro nel garage di The Violence.
Il giorno seguente i due cambiarono le targhe, prima che il fratellino di Secchio pianificasse
la consegna al loro partner di Riga, uno dei suoi scagnozzi, che poi sarebbe rientrato in
Svezia in nave. Ciò che accadeva solitamente era che il lettone, con l’aiuto di targhe e
documenti falsi, faceva passare le macchine rubate per auto d’importazione che finivano in
mano a qualcuno di The Violence, e voilà un’automobile rubata diventava pulita.
Questa volta però le cose andarono diversamente allorché l’auto rubata, parcheggiata in un
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garage nel quartiere di Ziepniekkalns alla periferia meridionale di Riga, cominciò a emanare
un fetore nauseabondo. Analizzando il fenomeno più da vicino, il proprietario del garage
scoprì la presenza di un cadavere sotto i sedili posteriori del veicolo.
Bestemmiando come un ossesso, strappò via le targhe e tutti i pezzi che avrebbe potuto
riciclare. Poi l’ammaccò da ogni parte, trasformando quel bellissimo esemplare di Mustang
in una carcassa. Per finire contattò un alcolizzato che in cambio di quattro bottiglie di vino
avrebbe portato il rottame dallo sfasciacarrozze per la demolizione, cadavere incluso.
A Sjötorp i nostri amici erano pronti a partire. Che la Mustang con il furfante morto fosse
stata rubata fu ovviamente motivo di preoccupazione, ma soltanto fino a quando Allan non
sentenziò che, stando così le cose, non c’era niente da fare. Inoltre, sempre secondo lui, le
chance che i ladri contattassero la polizia erano praticamente nulle: mantenere una certa
distanza dai piedipiatti era insito nella loro natura.
Erano le cinque e mezzo di sera. Per fortuna si erano messi in moto prima che facesse buio,
essendo il pullman ingombrante e le strade da percorrere strette e tortuose.
Sonya era stata sistemata nella sua nuova stalla a quattro ruote e tutte le tracce in grado di
rivelare l’esistenza dell’elefante erano state cancellate con cura dal cortile e dal fienile. La
Passat e la Mercedes erano rimaste là: non erano state coinvolte in niente d’illegale e poi
cos’altro potevano farsene delle macchine?
Il pullman partì. Bella avrebbe voluto mettersi al volante, ma non sapeva come. Saltò fuori
che Benny era quasi istruttore di scuola guida e nella sua patente c’erano tutte le lettere
dell’alfabeto possibili e immaginabili, quindi era meglio che al volante ci stesse lui. Non era
il caso che il gruppetto commettesse azioni fuorilegge più di quanto non avesse già fatto
fino a quel momento.
Raggiunta la cassetta delle lettere Benny svoltò a sinistra, alla larga da Rottne e Braås.
Secondo Bella, approfittando di alcune stradine sterrate, sarebbero sbucati prima ad Åby e
poi sulla statale 30 a sud di Lammhult. Dato che per arrivarci ci voleva una mezz’ora scarsa,
perché non ingannare il tempo discutendo la questione non priva d’importanza di dove
erano diretti?
Quattro ore prima il Capo aveva iniziato ad aspettare con impazienza il rientro del suo
scagnozzo, che per il momento non era ancora ricomparso. Non appena fosse tornato
Caracas, che doveva sbrigare chissà quale commissione, lui e il Capo si sarebbero diretti a
sud. Ma non in moto e non con i giubbotti della banda: era necessario comportarsi con
prudenza.
Il Capo aveva infatti cominciato a mettere in discussione la sua precedente strategia circa
l’uso dei giubbotti con la scritta “Never Again” sulla schiena. Inizialmente lo scopo era stato
di sottolineare un’identità e l’appartenenza alla banda per ottenere l’ossequio altrui, ma visto
che la banda si era ridotta rispetto al previsto, per tenere insieme un quartetto formato da
Bullone, Secchio, Caracas e se stesso a suo avviso non era più necessario il ricorso a
quell’indumento. Considerando anche l’attività principale della banda, giubbotti così
riconoscibili erano controproducenti. L’incarico affidato a Bullone riguardo alla transazione
a Malmköping aveva una duplice connotazione: da un lato era meglio recarsi sul luogo
servendosi di un mezzo di trasporto pubblico per non dare nell’occhio, dall’altro indossare il
giubbotto della banda con la scritta “Never Again” sulla schiena sarebbe servito a mostrare
ai russi con chi avevano a che fare e che, se stavano cercando rogne, le avevano trovate.
E adesso Bullone era in fuga… o cosa diavolo era successo. E sulla schiena aveva una
scritta che più o meno diceva: “Se hai qualche domanda, telefona al Capo.” Merda! pensò il
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Capo. Quando tutto quel casino si fosse concluso avrebbe bruciato i giubbotti. Ma dove
cazzo era finito Ca-ra-cas? Dovevano mettersi in viaggio subito!
Caracas fece la sua apparizione otto minuti dopo, scusandosi per essersi fermato al SevenEleven a comprare un’anguria.
“Rinfrescante e buona,” spiegò.
“Rinfrescante e buona? Metà dell’organizzazione è scomparsa con cinquanta milioni di
corone e tu te ne vai in giro a comprare frutta?” “Niente frutta, verdura. Famiglia delle
cucurbitacee, per la precisione,” puntualizzò Caracas.
A quel punto il Capo esplose, e afferrata l’anguria la sbatté sulla testa del povero Caracas
fino a spaccarla. Caracas scoppiò a piangere, dicendo che si sarebbe ritirato dalla banda.
Non aveva ricevuto altro che insulti e maltrattamenti da parte del Capo da quando Bullone e
Secchio erano scomparsi, neanche fosse stata colpa sua. No, d’ora in poi il Capo poteva fare
quello che voleva: Caracas avrebbe chiamato un taxi, si sarebbe fatto portare all’aeroporto
di Arlanda e avrebbe preso un volo per tornare a casa a… Caracas. Almeno laggiù
l’avrebbero chiamato col suo vero nome.
“¡Vete a la mierda!” esclamò Caracas in lacrime precipitandosi fuori dalla porta.
Il Capo sospirò. Le cose si stavano incasinando sempre di più. Prima era scomparso
Bullone, e doveva riconoscere di aver sfogato la sua frustrazione su Secchio e Caracas. Poi
era scomparso Secchio, e doveva riconoscere di aver sfogato la sua frustrazione su Caracas.
Poi era sparito Caracas – per comprarsi un’anguria. E il Capo doveva riconoscere che… non
avrebbe dovuto spaccargliela sulla testa.
Ora era rimasto solo a dare la caccia a… A chi stava dando la caccia, in effetti?
Bisognava scovare Bullone? Era stato così pazzo da filarsela con la valigia? E cos’era
successo a Secchio?
Il Capo si mise in viaggio in pompa magna a bordo della sua BMW X5 ultimo modello,
infischiandosene alla grande dei limiti di velocità. I poliziotti in borghese che lo tallonavano
su un’auto di servizio si dedicarono alla compilazione dell’elenco di infrazioni stradali
commesse dal Capo lungo il tragitto per lo Småland, e dopo trecento chilometri furono
d’accordo nel ritenere che all’uomo al volante della BMW andava tolta la patente per i
quattrocento anni successivi, stando ai dati raccolti finora – nel caso in cui fosse stato
denunciato, cosa che non sarebbe comunque avvenuta.
Il viaggio procedette fino alle vicinanze di Åseda, dove il com-mis-sario Aronsson diede il
cambio ai colleghi di Stoccolma, ringraziandoli per l’aiuto e dichiarando che da quel
momento in poi se la sarebbe cavata da solo.
Con l’aiuto del navigatore installato sulla BMW il Capo non ebbe alcun problema a
individuare la strada fino a Sjötorp, ma più si avvicinava alla meta più il suo nervosismo
aumentava. La velocità già di per sé eccessiva stava diventando così sostenuta che il
commissario Aronsson iniziava ad avere difficoltà a stargli dietro. Doveva necessariamente
mantenere una certa distanza da Per-Gunnar “Capo” Gerdin, in modo che questi non si
accorgesse di essere seguito, ma la verità era che stava per perderlo di vista. Soltanto sui
rettilinei riusciva ancora a scorgere la sua BMW, fino a quando non… scomparve!
Che strada aveva preso Gerdin? Aveva girato da qualche parte? Aronsson rallentò con la
fronte imperlata di sudore. Non voleva neanche pensare a quello che sarebbe potuto
succedere.
A sinistra c’era una stradina sterrata; aveva imboccato quella? O aveva proseguito sulla
strada principale fino a… Rottne, ecco come si chiamava quel posto. Dal momento che lì
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era pieno di dissuasori di velocità, Aronsson non avrebbe dovuto riagganciare Gerdin
proprio in quel punto? A meno che non avesse girato prima.
Doveva essere così. Invertito il senso di marcia, Aronsson infilò la stradina che a suo avviso
aveva imboccato anche Gerdin. Bisognava tenere gli occhi aperti, perché se Gerdin si era
rimesso in quella stradina la destinazione finale non doveva essere lontana.
Il Capo quasi inchiodò quando passò dai centottanta ai venti per imboccare la stradina
sterrata indicata dal navigatore. Mancavano solo 3,7 chilometri alla meta.
A duecento metri dalla cassetta delle lettere di Sjötorp la stradina formava un’ultima curva.
Fu lì che scorse il retro di un pullman allontanarsi, proprio nel punto in cui avrebbe dovuto
svoltare. Che fare? Chi c’era sul pullman? E chi si trovava a Sjötorp?
Il Capo decise di non curarsi del veicolo, proseguendo lungo una stradina molto stretta e
tortuosa che sbucava in una specie di cortile dove vide un’abitazione, un fienile e una
rimessa per gli attrezzi che doveva aver visto tempi migliori.
Ma niente Secchio. Niente Bullone. Niente vecchio. Niente rossa. E, definitivamente, niente
valigia grigia con le rotelle.
Il Capo dedicò ancora qualche minuto allo studio del luogo. Era evidente che non c’era
nessuno, ma dietro il fienile erano nascoste due auto: una VW Passat rossa e una Mercedes
color argento.
“Il posto è quello giusto,” rifletté il Capo. Era forse arrivato tardi?
Così, decise di rincorrere il pullman. Non era impossibile: si trattava di tre, quattro minuti di
vantaggio su una strada tutta curve e non asfaltata.
La BMW tornò rapidamente indietro. In prossimità della cassetta delle lettere il Capo girò a
sinistra come aveva fatto il pullman, poi pigiò l’acceleratore e scomparve in una nuvola di
polvere. Il fatto che una Volvo blu si avvicinasse dalla direzione opposta non lo interessò
minimamente.
Il commissario Aronsson fu felice di rivedere Gerdin, ma al pensiero di doverlo inseguire
ancora si perse d’animo. Non aveva alcuna chance di riuscire a stargli alle calcagna. A quel
punto era meglio fermarsi a fare un sopralluogo… al luogo… Sjötorp, ecco come si
chiamava… dove si era recato Gerdin e… guarda guarda… sulla cassetta delle lettere c’era
il nome di Gunilla Björklund.
“Non mi stupirei se fossi tu la donna dai capelli rossi, Gunilla,” disse il commissario
Aronsson.
La Volvo sbucò nello stesso cortile dove nove ore prima era sbucata la Ford Mustang di
Henrik Secchio Hultén, e qualche minuto prima la BMW di Per-Gunnar Capo Gerdin.
Aronsson constatò subito, come già aveva fatto il Capo, che Sjötorp era deserta, ma si
concesse un po’ di tempo per cercare di mettere insieme i tasselli del mosaico. Uno lo trovò
in cucina, sotto forma dell’edizione serale di un quotidiano che riportava la data di quel
giorno, e nel frigorifero, dove c’era della verdura freschissima. Dunque la partenza era
avvenuta da poco. Un secondo tassello era rappresentato dalla Mercedes e dalla Passat
abbandonate dietro il fienile. Una delle auto diceva molte cose al commissario, l’altra
apparteneva probabilmente a Gunilla Björklund.
Gli restavano però da fare altre due scoperte estremamente importanti. La prima fu che
s’imbatté in una pistola sulla veranda della casa. Cosa ci faceva lì? E a chi appartenevano le
impronte di cui era sicuramente coperta? Mentre infilava con delicatezza l’arma in un
sacchetto di plastica, Aronsson immaginò che fossero quelle di Secchio Hultén.
La seconda sorpresa si trovava nella cassetta delle lettere. Insieme alla posta del giorno,
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c’era un documento della motorizzazione che confermava il passaggio di proprietà di uno
Scania K113 giallo immatricolato nel 1992.
“Stanno viaggiando su un pullman?” si domandò il commissario.
Il pullman giallo avanzava lentamente. Non ci volle molto prima che la BMW lo
raggiungesse. Tuttavia, su quella strada angusta il Capo non aveva altra possibilità se non
rimanere dov’era, cercando di intuire chi viaggiasse sul pullman e se per caso ci fosse anche
la valigia rubata.
Ignari del pericolo che incombeva a soli cinque metri di distanza da loro, i nostri amici
stavano discutendo sul da farsi: erano concordi nel ritenere che la cosa migliore fosse
trovare un posto dove nascondersi qualche settimana. Era lo stesso motivo per cui si erano
trattenuti a Sjötorp, ma all’improvviso la loro bella idea si era dimostrata pessima, dopo la
comparsa inaspettata del visitatore e dopo che Sonya ci si era seduta sopra.
Adesso il problema era un altro: a quanto pareva Allan, Julius, Benny e Bella condividevano
la sfortuna di disporre di una cerchia di parenti e amici molto esigua – nessuno in grado di
dare accoglienza a un pullman giallo e a un certo animale.
Allan si scusò dicendo che, visto che aveva cent’anni, i suoi amici erano tutti morti da
tempo. Era concesso a pochi sopravvivere così a lungo.
Julius disse che la sua specialità erano i nemici, non gli amici. Ora intendeva approfondire
l’amicizia con Allan, Benny e Bella, ma la questione poteva essere rimandata.
Bella confessò di essere stata molto poco socievole dopo il divorzio e dopo aver sistemato
un elefante nel fienile, pertanto le era stato impossibile mantenere rapporti normali con le
persone. Neanche lei aveva nessuno a cui chiedere aiuto.
Rimaneva Benny. Lui aveva un fratello. Il fratello più furioso del mondo.
Julius chiese se non fosse possibile corromperlo con dei soldi e Benny si illuminò. In effetti
avevano un mucchio di quattrini nella valigia! Corrompere no, Bosse era più orgoglioso che
avido. Serviva diplomazia e Benny aveva la soluzione: dopo tutti quegli anni gli avrebbe
chiesto il permesso di porre riparo a quanto aveva dovuto subire per mano sua.
Così Benny chiamò il fratello, ma gli bastò pronunciare il proprio nome per sentirsi
rispondere che c’era un fucile carico e il fratellino poteva considerarsi il benvenuto se
desiderava una pallottola nel culo.
Benny ribatté che ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma insieme ad alcuni amici sarebbe
passato volentieri a trovarlo perché desiderava risolvere le sue pendenze economiche. In
effetti esisteva, come dire, una certa discrepanza nella ricaduta finanziaria creatasi al
momento dell’eredità lasciata loro dal defunto zio Frasse.
Bosse chiese perché il fratellino dovesse esprimersi in modo così dannatamente
arzigogolato. Poi andò al punto: “Quanto hai?” “Che ne dici di tre milioni?” rispose Benny.
Bosse rimase in silenzio per un po’. Conosceva suo fratello, tanto da sapere che non gli
avrebbe mai telefonato per prenderlo in giro su un argomento simile. Il fratellino aveva un
mucchio di grana! Tre milioni! Fantastico! Ma… chi si aspetta molto vorrebbe di più.
“Che ne dici di quattro?” azzardò Bosse.
Benny aveva deciso da tempo che il fratellone non lo avrebbe mai più comandato a
bacchetta, quindi rispose: “Comunque, se siamo d’intralcio possiamo sempre cercare un
albergo.” Bosse parò il colpo dicendo che il fratellino d’intralcio non lo era mai stato. Benny
e i suoi amici erano i benvenuti, e se nel frattempo intendeva appianare i loro vecchi rancori
con tre milioni – o anche tre e mezzo – sarebbe stato soltanto un di più.
Benny ricevette istruzioni per arrivare alla casa del fratello, che pensava di raggiungere nel
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giro di poche ore.
Tutto sembrava essersi aggiustato nel migliore dei modi. Tanto più che adesso la strada era
larga e scorrevole.
Era proprio quello di cui il Capo aveva bisogno: una strada un po’ più larga e scorrevole. Per
quasi dieci minuti era rimasto incollato al sedere del pullman mentre la BMW gli segnalava
che stava per finire la benzina. Il Capo non aveva più fatto il pieno da quando era partito da
Stoccolma, e quando ne avrebbe avuto il tempo?
Il suo incubo era rimanere a piedi lì in mezzo ai boschi e veder scomparire il pullman,
magari con a bordo Bullone, Secchio, la valigia e quello che conteneva senza poter fare
nulla.
Per questo il Capo reagì con la fermezza e la presenza di spirito che a suo parere si
addicevano a un boss di Stoccolma. Pigiato a tavoletta il pedale dell’acceleratore, in un
secondo superò il pullman, per poi compiere un testacoda e mettersi di traverso
bloccandogli la strada. A quel punto prese la pistola dal vano portaoggetti e si preparò ad
accogliere il veicolo che si era appena lasciato alle spalle.
Il Capo era dotato di una mente più analitica di quella dei suoi assistenti morti o emigrati.
L’idea di piazzarsi di traverso su una strada sterrata per costringere il pullman a fermarsi era
nata principalmente dal fatto che la benzina era agli sgoccioli, ma oltre a questo aveva
calcolato che l’autista avrebbe deciso di fermarsi. La gente di buonsenso non va a sbattere di
proposito contro un altro veicolo mettendo a repentaglio la propria vita e il proprio
benessere.
E così fu: Benny frenò. Il Capo ci aveva visto giusto.
Tuttavia non aveva esaminato abbastanza a lungo e a fondo la questione. Nei suoi calcoli,
avrebbe dovuto tenere conto del rischio che il carico del pullman consistesse in un elefante
di qualche tonnellata, e chiedersi, di conseguenza, quali sarebbero stati gli effetti in caso di
frenata e quale distanza avrebbe percorso il veicolo, considerando che il fondo stradale era
ricoperto di ghiaia.
Benny fece davvero del suo meglio per evitare l’impatto, ma la velocità era di quasi
cinquanta chilometri orari quando il pullman del peso di quindici tonnellate con tanto di
elefante e tutto il resto si abbatté sull’auto che si trovava sulla sua traiettoria e che, come
una muffola, si librò in aria a tre metri d’altezza e ne percorse altri venti andando a
schiantarsi contro un abete vecchio di ottant’anni.
“È così se n’è andato anche il numero tre,” concluse Julius.
Tutti i passeggeri bipedi del pullman balzarono giù (qualcuno più velocemente di altri) per
correre verso la BMW distrutta.
Accasciato sul volante, presumibilmente morto, uno sconosciuto stringeva ancora una
pistola simile a quella con cui, alcune ore prima, li aveva minacciati il farabutto numero
due.
“Non c’è due senza tre,” commentò Julius. “Mi chiedo quando si decideranno a farla finita.”
Benny protestò debolmente per il tono scanzonato di Julius. Era più che sufficiente avere a
che fare con un mascalzone al giorno, ma oggi erano già saliti a due e non erano neanche le
sei di sera. C’era tempo anche per qualcun altro se le cose fossero ulteriormente peggiorate.
Allan suggerì di nascondere il numero tre da qualche parte, dal momento che rimanere
troppo a lungo in compagnia di una persona appena morta non era conveniente, a meno che
non si volesse ammettere la propria colpevolezza, e ad Allan non sembrava ci fosse motivo
per farlo.
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Bella cominciò a insultare il presunto morto accasciato sul volante, urlandogli contro come
aveva potuto comportarsi così da stronzo e mettersi di traverso sulla strada.
Il presunto morto rispose con un leggero rantolo e sollevando una gamba.
Al commissario Aronsson non rimaneva altro che proseguire nella direzione che aveva
preso il Capo Gerdin mezz’oretta prima. Non nutriva alcuna speranza di ritrovare il leader
della Never Again, ma forse lungo la strada sarebbe successo qualcosa d’interessante.
Oltretutto Växjö non doveva distare molto, e il commissario aveva bisogno di una stanza
dove riflettere sulla situazione e concedersi qualche ora di sonno.
Dopo alcuni chilometri Aronsson s’imbatté nei rottami di una BMW nuova spiaccicata
contro un abete. All’inizio pensò che non c’era niente di strano nel fatto che a Gerdin fosse
accaduto di uscire di strada, vista la velocità con cui era partito da Sjötorp, ma un esame più
accurato dei rottami gli fece cambiare idea.
Per prima cosa l’auto era vuota. Il sedile anteriore, coperto di sangue, era privo di
conducente.
Secondo, la fiancata destra dell’auto era visibilmente ammaccata, con delle strisciate gialle
bene in evidenza. Qualcosa di grosso e di quel colore sembrava aver cozzato contro la
BMW a gran velocità.
“Per esempio uno Scania K113 immatricolato nel 1992,” borbottò.
Non si trattava certo di un’intuizione geniale, ma la congettura si fece ancora più concreta
quando il commissario notò che la targa anteriore del pullman era rimasta impressa in una
delle portiere posteriori della BMW. Ad Aronsson bastò paragonare le cifre e i numeri con il
documento della motorizzazione che comprovava il passaggio di proprietà del pullman per
essere certo del fatto suo.
Eppure continuava a non capire cosa diavolo stesse succedendo. Una cosa però gli appariva
sempre più chiara, se non addirittura lampante: Allan Karlsson e il suo seguito parevano
assai abili nell’ammazzare la gente e nel farne sparire come per magia i cadaveri.
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CAPITOLO 13
1947-1948
Allan aveva senz’altro trascorso notti migliori di quella passata steso dentro il cassone di un
autocarro diretto a Teheran. Faceva freddo e per scaldarsi non c’era certo latte di capra
trattato in modo speciale. Oltretutto aveva le mani legate dietro la schiena.
Nessuna meraviglia, dunque, se si ritrovò a tirare un sospiro di sollievo quando il viaggio
ebbe fine. Era mattino inoltrato quando il veicolo si fermò davanti all’entrata di un grande
edificio marrone nel centro della capitale.
Dopo averlo aiutato a rimettersi in piedi, due soldati gli spolverarono alla meglio i vestiti.
Poi lo liberarono dalla corda che gli stringeva i polsi e gli puntarono il fucile contro.
Se avesse conosciuto il persiano, Allan avrebbe potuto leggere quanto era scritto su una
piccola targa in ottone posta all’ingresso del luogo dov’era finito. Purtroppo però non lo
conosceva e la cosa non lo turbava affatto. Era più interessato alla possibilità che gli
servissero la colazione. O il pranzo. O, meglio ancora, tutti e due.
I soldati, invece, erano perfettamente consapevoli di cosa fosse il luogo dove avevano
condotto il sospetto comunista, e quando spinsero Allan attraverso la porta d’ingresso uno di
loro lo salutò con un sorriso e un augurio in inglese: “Good luck.” Allan lo ringraziò molto
per quella frase amichevole, pur sospettando la sottintesa ironia, dopodiché si disse che
forse era venuto il momento di concentrarsi su quanto sarebbe accaduto di lì a poco.
L’ufficiale a capo della squadra che lo aveva arrestato eseguì un accurato passaggio di
consegne a un suo pari. Dopo essere stato registrato, Allan fu trasferito in una cella che si
trovava lungo un corridoio vicino.
La cella era un vero e proprio Shangri-La se paragonata alle scomodità a cui Allan aveva
fatto il callo negli ultimi tempi: una fila di quattro letti, due coperte per ogni letto, un
lampadario, un lavandino con acqua corrente in un angolo e nell’altro una tazza con la
seduta di dimensioni adatte a una persona adulta. Inoltre, Allan era stato omaggiato di un bel
piatto di porridge e di un intero litro d’acqua che placarono la sua fame e la sua sete.
Tre dei letti erano liberi; sul quarto era sdraiato un uomo con le mani intrecciate e gli occhi
chiusi. Quando Allan entrò nella cella questi, svegliatosi, si alzò dal letto. Era alto e magro e
portava un collare bianco da prete che spiccava sull’abito scuro. Per presentarsi Allan gli
porse la mano, scusandosi di non conoscere l’idioma locale. Forse il sacerdote capiva
qualche parola d’inglese?
L’uomo vestito di nero rispose affermativamente dal momento che era nato, cresciuto e
aveva studiato a Oxford. Si presentò come Kevin Ferguson, pastore anglicano, in Iran da
dodici anni a caccia di anime perse da convertire alla vera fede. A proposito, che rapporto
aveva il signor Karlsson con la religione, qual era la sua posizione?
Allan rispose che, pur non sapendo dove si trovasse attualmente, non si sentiva un’anima
persa, né credeva di averla perduta da qualche parte. In fatto di fede aveva sempre pensato
che, non avendo certezze, tanto valeva tirare a indovinare.
Quando si accorse che il pastore Ferguson stava per partire in quinta con l’intenzione di
convertirlo, si permise di far presente che il suo desiderio di non volersi convertire alla
religione anglicana né a qualsiasi altra andava rispettato.
Il pastore Ferguson non era davvero tipo da accettare a priori un no secco. Eppure questa
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volta esitò: meglio non trarre conclusioni affrettate e rivolgere il pensiero a Dio, che forse
avrebbe potuto salvarlo dalla situazione in cui si era cacciato… Il tutto si concluse con un
compromesso. Il pastore Ferguson fece un debole tentativo di convincere il signor Karlsson
che non poteva certo nuocergli l’essere edotto sul dogma della Santissima Trinità.
L’eguaglianza e la consustanzialità delle tre entità rappresentava appunto il primo dei
trentanove articoli su cui si basava la confessione di fede della Chiesa anglicana.
Allan informò il pastore di quanto poco gli interessasse questa Trinità egualitaria.
“Di tutte le eguaglianze presenti sulla terra, questa è quella che mi interessa meno,” disse
Allan.
Al pastore Ferguson parvero parole così stupide da persuaderlo che sarebbe stato meglio
lasciar perdere il signor Karlsson e le tematiche di natura religiosa, “anche se con tutta
probabilità Dio aveva in mente un suo disegno, essendo loro due finiti nella stessa cella,”
disse.
A quel punto passò a chiarire ad Allan la situazione in cui si trovavano.
“Non è molto buona,” esordì. “Forse tra non molto lei e io compariremo alla presenza del
Creatore. Se non avessi già rinunciato all’idea, aggiungerei che per il signor Karlsson questo
sarebbe il momento giusto per convertirsi.” In silenzio, Allan lanciò al pastore un’occhiata
severa. Questi proseguì, spiegando che si trovavano nelle prigioni amministrate dalle
autorità responsabili della sicurezza interna, in altre parole la polizia segreta. Forse al signor
Karlsson la cosa poteva sembrare rassicurante, ma la verità era che queste cosiddette
autorità responsabili della sicurezza interna si occupavano unicamente di quella dello scià, e
di nessun altro, e il loro scopo consisteva nel mantenere la popolazione iraniana sotto una
cappa di terrore e di rispetto, oltre che, per quanto possibile, nell’annientare i socialisti, i
comunisti, gli islamici e in generale gli elementi non graditi.
“Anche i pastori anglicani?” chiese Allan.
Il pastore Ferguson rispose che i pastori anglicani non avevano niente da temere, dal
momento che in Iran vigeva ancora la libertà di religione, ma personalmente si era spinto
forse troppo oltre.
“La prognosi non è buona per chi finisce nelle grinfie della polizia segreta, e per quanto mi
riguarda temo di essere arrivato al capolinea,” disse il pastore Ferguson, apparendo di colpo
molto triste e preoccupato.
Anche se era un prete, Allan provò un moto di compassione per il suo compagno di cella.
Per consolarlo gli disse che in qualche modo sarebbero usciti di lì, ma a tempo debito. Prima
Allan voleva sapere cosa avesse combinato per finire in quel pasticcio.
Tirando su con il naso, il pastore Ferguson si alzò in piedi dichiarando che non aveva paura
di morire, ma gli restavano ancora molte cose da fare su questa terra. Come sempre la sua
vita era nelle mani di Dio, ma se il signor Karlsson, in attesa che Dio prendesse una
decisione, fosse riuscito a inventarsi qualcosa di buono, Dio non se la sarebbe certo avuta a
male.
Detto questo, iniziò il suo racconto. Il Signore gli aveva parlato in sogno non appena
terminati gli studi di teologia. “Vai nel mondo a predicare,” gli aveva detto. Visto che dopo
quella volta Dio non si era più fatto sentire, era toccato a lui decidere il da farsi.
Un amico inglese, nonché vescovo, gli aveva accennato all’Iran, un paese dove la libertà di
culto veniva mortificata nel peggiore dei modi. Per esempio, di anglicani in Iran ce n’erano
pochissimi, mentre pullulavano sciiti, sunniti, ebrei e gente che professava religioni del tutto
esoteriche. Sì, c’erano dei cristiani, ma armeni o assiri. Che, come tutti sanno, ne capiscono
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poco o nulla!
Allan, che non era a conoscenza di questi fatti, lo ringraziò per esserne stato informato.
Il pastore continuò il suo racconto. L’Iran e la Gran Bretagna andavano d’accordo, e grazie
all’aiuto di uno dei contatti politici più altolocati della Chiesa anglicana era riuscito a farsi
dare un passaggio fino a Teheran su un aereo diplomatico britan-nico.
Questo era successo più di dieci anni prima, intorno al 1935. Da quel momento in poi il
pastore aveva passato in rassegna tutte le religioni, studiando in particolare la situazione
nella capitale e nelle aree limitrofe. All’inizio, intrufolandosi in qualsiasi cerimonia
religiosa, entrava furtivamente nelle moschee, nelle sinagoghe e in ogni genere di templi,
dove aspettava il momento giusto per interrompere la liturgia in atto e, con l’aiuto di un
interprete, mettersi a predicare la vera fede.
Allan lodò il suo compagno di cella, affermando che era un uomo decisamente coraggioso,
ma visto l’epilogo tutt’altro che positivo com’erano andate a finire le cose?
Il pastore Ferguson riconobbe che in effetti aveva sempre fatto fiasco: non era mai riuscito
ad arrivare al punto, dal momento che lui e l’interprete venivano sistematicamente buttati
fuori, nonché picchiati e minacciati di morte. Niente aveva comunque impedito al pastore di
continuare la sua battaglia. Non aveva mai smesso di piantare piccoli semi anglicani
nell’anima di tutti coloro che incontrava.
Ma alla fine le voci che lo riguardavano si erano diffuse a tal punto che gli era diventato
difficile trovare un interprete. Nessuno si era presentato una seconda volta e dopo un po’
tutti avevano preso a evitarlo.
Allora il pastore aveva deciso di fare una pausa e immergersi nello studio del persiano.
Aveva anche meditato su come raffinare la propria tattica e un giorno, forte della
conoscenza della lingua, aveva messo in atto un nuovo piano.
Invece di recarsi nei templi e alle cerimonie, aveva cominciato a frequentare i luoghi dove si
tenevano i mercati e dove sapeva che le varie eresie erano ampiamente rappresentate. A quel
punto si piazzava su una cassa di legno che portava con sé e cercava di richiamare
l’attenzione dei passanti.
Con quel sistema la quantità di botte che riceveva era minore che in passato, ma il numero
delle anime redente non aveva mai raggiunto il livello che il pastore Ferguson si era
immaginato.
Alla domanda su quanto ammontasse de facto il numero delle persone convertite,
l’interpellato rispose che dipendeva dal modo in cui si poneva la questione. Da un lato era
riuscito a convertire esattamente un membro per ogni comunità di cui si era occupato, cioè
otto in tutto. Dall’altro, alcuni mesi prima era stato colto dal sospetto che i convertiti
potessero essere spie al soldo della polizia segreta, con il preciso compito di controllare il
missionario.
“Tra zero e otto, allora,” constatò Allan.
“Probabilmente più zero che otto,” puntualizzò il pastore Ferguson.
“In dodici anni,” aggiunse Allan.
Il pastore ammise la sua delusione per il fatto che il già magro risultato dei suoi sforzi si
fosse rivelato ancora più magro, e per la consapevolezza che il suo impegno non avrebbe
mai dato risultati positivi giacché, per quanto gli iraniani desiderassero convertirsi, non ne
avevano il coraggio. La polizia segreta era presente ovunque e convertirsi significava finire
schedati in un dossier custodito nei suoi archivi. Dal dossier alla sparizione improvvisa il
passo era breve.
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Allan commentò che, a parte questo, forse qualche iraniano era contento di appartenere alla
propria religione, indipendentemente dal pastore Ferguson o dalla polizia segreta. Il pastore
non era dello stesso avviso?
Il pastore Ferguson rispose che quelle parole denotavano una profonda ignoranza, ma non
poteva ribattere visto che il signor Karlsson gli aveva vietato di parlare di religione.
Ora il signor Karlsson avrebbe avuto la compiacenza di ascoltarlo senza interrompere?
Forte di questa nuova consapevolezza, e cioè che la polizia segreta si era infiltrata nella sua
missione di fede, il pastore aveva cominciato a pensare in modo nuovo, a pensare in grande.
Per prima cosa si era liberato dei suoi presunti discepoli – spie –, quindi aveva preso contatti
con il movimento comunista per ottenere un incontro. Si era spacciato per un rappresentante
britannico della Vera Dottrina, che desiderava discutere del loro futuro.
Prima di riuscire nel suo intento era trascorso parecchio tempo, ma alla fine aveva
incontrato cinque membri della fazione comunista della provincia di Razavi Khorasan.
Avrebbe preferito incontrarsi con quelli di Teheran, a suo avviso più importanti, ma in fondo
anche quella riunione avrebbe potuto dare un esito positivo.
Oppure no.
Il pastore Ferguson aveva esposto la sua idea, che per sommi capi poteva essere questa:
l’anglicanesimo sarebbe diventato la religione di Stato in Iran il giorno in cui i comunisti
fossero saliti al potere. Se i comunisti avessero accettato, il pastore Ferguson avrebbe
assunto l’incarico di ministro degli Affari ecclesiastici. Alle Bibbie avrebbe pensato lui, dato
che ne possedeva già un certo numero. La costruzione delle chiese sarebbe avvenuta
gradualmente, nel frattempo si potevano utilizzare le sinagoghe e le moschee riadattate. A
proposito, secondo i signori comunisti quanto tempo sarebbe durata la rivoluzione?
Gli interessati non avevano reagito con l’entusiasmo, o perlomeno con la curiosità, che il
pastore Ferguson si era prefigurato. Gli era stato seccamente risposto che, quando fosse
giunto il momento, non ci sarebbe stato nessun anglicanesimo o, per essere più precisi,
nessun “ismo” oltre al comunismo. Dopodiché il pastore era stato investito da una sequela di
invettive per aver soltanto osato chiedere quell’incontro ed essersi presentato sotto mentite
spoglie. Nessuno si era mai permesso di far perdere loro tanto tempo.
Con tre voti contro due, era quindi stato deciso che il pastore si meritava una manica di
botte prima di risalire sul treno che lo avrebbe riportato a Teheran, e con cinque voti
favorevoli e zero contrari era stato stabilito che, per la sua integrità fisica, la cosa migliore
sarebbe stata non presentarsi mai più.
Ridendo, Allan affermò che non escludeva la possibilità che al pastore mancasse qualche
rotella, se il pastore Ferguson gli concedeva la battuta. Cercare di arrivare a un accordo di
carattere religioso con i comunisti equivaleva a fare un buco nell’acqua, o no?
Il pastore rispose che i senzadio come il signor Karlsson avrebbero fatto meglio a non
tranciare giudizi gratuiti su ciò che era o non era intelligente. Comunque, l’aveva capito
anche lui che le possibilità di riuscita sarebbero state minime.
“Ma pensi, signor Karlsson, pensi se la cosa fosse andata in porto. Pensi all’idea di
telegrafare all’arcivescovo di Canterbury per comunicargli che in un colpo solo c’erano
cinquanta milioni di nuovi anglicani.” Allan riconobbe che il confine tra pazzia e genialità
era davvero sottile, e in quel caso non era in grado di dire con esattezza di quale delle due si
trattasse, benché nutrisse qualche sospetto.
Fatto sta che la maledetta polizia segreta dello scià spiava da tempo i comunisti di Razavi
Khorasan, e il pastore Ferguson non aveva avuto neanche il tempo di scendere dal treno che
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era stato arrestato.
“In quel momento ho confessato tutto e anche di più,” disse. “Il mio corpo esile non è fatto
per resistere alla tortura. Una cosa è una razione di botte, un’altra è la tortura.” Per avere
confessato subito e con grande generosità, il pastore Ferguson era stato condotto nella cella
in cui si trovava ora, dove nessuno lo disturbava più da quasi due settimane dal momento
che il capo, il vice primo ministro, era a Londra in viaggio di lavoro.
“Il vice primo ministro?” si meravigliò Allan.
“Sì, o l’assassino capo,” replicò Kevin Ferguson.
Si diceva che le autorità responsabili della sicurezza interna non potessero avere una
struttura più gerarchica: per terrorizzare la popolazione o per uccidere comunisti, socialisti o
islamici non era necessario avere il benestare del capo supremo, ma se le questioni erano
altre era lui e solo lui a decidere. Lo scià gli aveva concesso il titolo di vice primo ministro,
ma in realtà era un assassino, a detta del pastore Ferguson.
“E bisogna stare attenti a non usare la parola vice quando ci si rivolge a lui, qualora sia
necessario incontrarlo. Cosa che, nella peggiore delle ipotesi, toccherà anche a noi.” Forse il
pastore aveva frequentato i comunisti molto più di quanto volesse ammettere, pensò Allan
prima che questi continuasse: “Dopo la fine della guerra, quelli della CIA sono stati qui per
organizzare i servizi segreti dello scià.” “La CIA?” domandò Allan.
“Sì, ora si chiama così. Prima era l’OSS, ma si tratta sempre delle stesse sporche attività.
Sono loro che hanno insegnato alla polizia iraniana tutti i trucchi e i sistemi di tortura. Che
razza di uomo è uno che permette alla CIA di rovinare il mondo in questo modo?” “Si
riferisce al presidente americano?” “Harry S. Truman brucerà all’inferno, glielo dico io,”
sentenziò il pastore Ferguson.
“Ah sì? È questo il suo pensiero?” chiese Allan.
Nelle prigioni della polizia segreta al centro di Teheran i giorni passavano. Allan aveva
raccontato la sua storia al pastore Ferguson senza omettere nulla. Quest’ultimo era rimasto
in silenzio e alla fine, quando aveva capito in che relazioni era il suo compagno di cella con
il presidente americano e – peggio ancora – con le bombe sganciate sul Giappone, aveva
smesso di parlargli.
A quel punto il pastore si rivolse a Dio chiedendogli consiglio. Era il Signore ad avergli
mandato in aiuto il signor Karlsson o, al contrario, c’era lo zampino del diavolo?
Dio rispose restando in silenzio. Talvolta lo faceva, e il pastore Ferguson lo interpretava
sempre come un’esortazione a pensare con la propria testa. Quando l’aveva fatto in effetti
non era andata molto bene, ma mica si poteva rinunciare solo per questo.
Dopo due giorni e due notti trascorsi a meditare sui pro e i contro, Ferguson arrivò alla
conclusione che avrebbe fatto pace con il pagano che dormiva nel letto accanto al suo.
Informò Allan di voler riprendere il discorso.
L’interessato replicò che quel periodo di silenzio non era stato affatto male, ma alla lunga
era preferibile rispondere se interpellati.
“E poi in qualche modo dobbiamo cercare di uscire di qui, magari prima che l’assassino
capo rientri da Londra. Quindi non serve a niente starcene ognuno nel proprio angolino con
il muso lungo. Lei che ne dice?” Sì, il pastore era d’accordo. Quando l’assassino capo fosse
tornato, ci sarebbe stato appena il tempo per un breve interrogatorio prima di sparire nel
nulla. Perlomeno era quello che aveva sentito dire.
A quanto pareva, quelle non erano prigioni vere e proprie: talvolta capitava che le guardie
non si prendessero neanche la briga di chiudere a chiave la porta. Però non c’erano mai
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meno di quattro guardie all’ingresso dell’edificio, e nessuna di loro se ne sarebbe stata
semplicemente a guardare Allan e il pastore che cercavano di svignarsela.
Era possibile dar vita a qualche tumulto? si chiedeva Allan. E sparire alla chetichella nella
confusione generale? Era un’ipotesi da prendere in considerazione.
Allan aveva bisogno di concentrarsi, così affidò al pastore il compito di capire tramite le
guardie quanto tempo avrebbero avuto a disposizione: in poche parole, doveva scoprire
quando sarebbe tornato l’assassino capo. O meglio, quando sarebbe potuto essere troppo
tardi.
Il pastore promise che si sarebbe informato appena ne avesse avuto l’occasione. Forse
addirittura subito, visto che si sentì qualcuno sferragliare alla porta. Era la più giovane e la
più gentile delle guardie, che infilata la testa dentro disse con compassione: “Il primo
ministro è tornato dall’Inghilterra ed è arrivato il momento degli interrogatori.
Chi di voi vuole cominciare?” Seduto nel suo ufficio a Teheran, il capo delle autorità
responsabili della sicurezza interna era di pessimo umore.
Era appena rientrato dal suo viaggio a Londra, dove era stato ripassato dagli inglesi.
Lui, il primo ministro (praticamente), il responsabile di una delle istituzioni più importanti
della società iraniana, aveva dovuto subire una reprimenda da parte degli inglesi!
Lo scià era buono soltanto a compiacere gli inglesi e soddisfare ogni loro desiderio. Il
petrolio era nelle loro mani, mentre a lui spettava il compito di togliere di mezzo i
dissidenti. E non si trattava certo di una bazzecola, perché chi era contento dello scià?
Gli islamici no, i comunisti no, e meno di tutti i lavoratori iraniani che in nome del petrolio
si ammazzavano di fatica per ricevere in cambio una sterlina alla settimana.
E come ricompensa per tutto quel lavoro era stato accolto con delle invettive anziché con
parole di lode!
Il capo della polizia sapeva di avere commesso un grave errore quando qualche tempo prima
si era comportato un po’ troppo brutalmente con un provocatore di cui non si conosceva la
provenienza. Costui si era rifiutato di dire altro, se non che esigeva di essere rilasciato
all’istante dato che l’unica colpa di cui si era macchiato era avere insistito sul fatto che nelle
salumerie dovevano tutti fare la fila prima di essere serviti, inclusi i dipendenti della polizia
segreta.
Dopo avere esposto le sue ragioni, il provocatore aveva incrociato le braccia e si era chiuso
in un rigoroso silenzio, rifiutandosi di rispondere a qualsiasi domanda gli venisse rivolta. Il
capo della polizia non aveva gradito quel comportamento (alquanto oltraggioso), quindi era
ricorso a un paio dei più recenti metodi di tortura della CIA (il capo della polizia ammirava
l’inventiva americana). Solo allora era saltato fuori che il provocatore era un attaché
dell’ambasciata britannica, particolare decisamente infelice.
La soluzione adottata consisté nel riaggiustare alla meglio l’attaché e nel lasciarlo andare,
ma soltanto perché venisse investito da un camion scomparso subito dopo. È così che si
evitano le crisi diplomatiche, aveva concluso il capo della polizia molto soddisfatto di sé.
Invece, gli inglesi avevano raccolto i resti dell’attaché e spedito tutto a Londra perché
passassero il cadavere al setaccio. In seguito avevano chiesto al capo della polizia di
presentarsi presso di loro per fornire spiegazioni sulla scomparsa dell’attaché
dell’ambasciata britannica, che prima era sparito per tre giorni e poi era ricomparso nella via
antistante la sede della polizia segreta. Il corpo era così malridotto che era stato quasi
impossibile individuare i segni delle torture subite.
Il capo della polizia aveva negato di essere al corrente della faccenda, era così che
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funzionava la diplomazia, ma a quanto pareva l’attaché era figlio di qualche lord che a sua
volta era un buon amico dell’appena dimessosi primo ministro Winston Churchill, e ora gli
inglesi intendevano chiarire quale fosse il loro potere.
Per questo le autorità responsabili della sicurezza interna erano state sollevate dall’incarico
di occuparsi del già citato Churchill, che un paio di settimane dopo sarebbe giunto in visita a
Teheran. Al posto loro, ci avrebbero pensato quei dilettanti delle guardie personali dello scià
che, figuriamoci, non possedevano certo le competenze indispensabili! Per il capo della
polizia si trattava di un grave smacco, una perdita di prestigio che avrebbe ridefinito i
rapporti con lo scià in modo niente affatto positivo.
Per liberarsi di quei pensieri cupi, aveva fatto chiamare il primo dei due nemici della
nazione che aspettavano in cella. Aveva previsto un interrogatorio di breve durata,
un’esecuzione discreta e veloce e la consueta cremazione. A seguire pranzo, e nel
pomeriggio avrebbe liquidato anche il secondo dissidente.
Allan Karlsson si era offerto di andare per primo. Il capo della polizia lo accolse sulla porta
del suo ufficio, e dopo avergli stretto la mano lo invitò ad accomodarsi, quindi gli chiese se
desiderasse un caffè o magari una sigaretta.
Allan non aveva mai incontrato un assassino capo, ma pensava che dovessero essere
persone più sgradevoli di quella che gli stava davanti. Dopo avere accettato il caffè rifiutò
invece la sigaretta, sempre che il signor primo ministro non avesse nulla in contrario.
Il capo della polizia cercava sempre di cominciare i suoi interrogatori in modo cordiale.
Anche se il malcapitato avrebbe comunque fatto una brutta fine, non era necessario
comportarsi da villani. E poi lo divertiva vedere il bagliore di speranza che si accendeva
negli occhi delle sue vittime. La gente era così ingenua.
Colui che aveva di fronte non sembrava spaventato, non ancora. Inoltre lo aveva chiamato
esattamente come piaceva a lui. Un buon inizio, interessante.
Quando gli fu chiesto chi fosse, Allan, forte delle strategie di sopravvivenza elaborate negli
anni, scelse di raccontare le sue vicissitudini più recenti, e cioè che era un esperto di
esplosivi mandato in Cina dal presidente Harry S. Truman con una missione impossibile allo
scopo di combattere il comunismo, che era partito da lì a piedi per tornare in Svezia, che si
scusava del fatto che l’Iran si fosse trovato sul suo cammino, che era consapevole di essersi
introdotto nel paese senza un visto, ma che prometteva di andarsene immediatamente nel
caso il signor primo ministro glielo avesse permesso.
Il capo della polizia lo controinterrogò, ponendogli tra l’altro delle domande circa il fatto
che al momento dell’arresto Allan Karlsson fosse in compagnia di comunisti iraniani.
Allan rispose con sincerità, spiegando che si erano incontrati per caso e avevano deciso di
aiutarsi vicendevolmente a superare l’Himalaya. Si permetteva inoltre di consigliare al
signor primo ministro, qualora avesse avuto intenzione di pianificare una passeggiata
analoga, di scegliere con cura gli assistenti, visto che quando erano in vena quelle montagne
erano terribilmente alte.
Il capo della polizia non aveva alcuna intenzione di valicare l’Himalaya a piedi, né di
liberare l’uomo che gli sedeva davanti. Però era stato folgorato da un’idea: forse avrebbe
potuto sfruttare quell’esperto internazionale di esplosivi prima di farlo sparire per sempre?
Con una voce che probabilmente lasciava trapelare il suo fervore, chiese al signor Karlsson
che esperienza avesse nella liquidazione di personaggi famosi e superprotetti.
Allan non si era mai occupato di quel genere di cose, e cioè di far saltare in aria un essere
umano come fosse stato un ponte. E non ne aveva neanche il desiderio. Ora però bisognava
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riflettere: quell’assassino capo che fumava come un turco aveva in mente qualcosa?
Dopo avere riflettuto qualche secondo e frugando nella memoria, Allan non riuscì a dire
altro che: “Glenn Miller.” “Glenn Miller?” ripeté il capo della polizia.
Ad Allan era venuto in mente che, mentre si trovava alla base di Los Alamos in New
Mexico, erano rimasti tutti sgomenti quando avevano appreso che la leggenda del jazz
Glenn Miller risultava disperso, dopo che il velivolo militare su cui viaggiava era scomparso
al largo della costa inglese.
“Esatto,” confermò Allan con un tono di voce carico di mistero. “L’ordine era che sarebbe
dovuto sembrare un incidente aereo e così fu. Ho fatto in modo che i motori bruciassero e
lui precipitasse nel canale della Manica. Nessuno lo ha più visto da allora.
Un destino degno di un rinnegato nazista, se al signor primo ministro interessa conoscere la
mia opinione.” “Glenn Miller era un nazista?” chiese stordito il capo della polizia.
Allan annuì (mentre in silenzio chiedeva perdono agli eredi di Glenn Miller). Il capo della
polizia, dal canto suo, cercava di riprendersi dalla notizia che il grande idolo del jazz era un
seguace di Hitler.
Allan pensò che sarebbe stato meglio riprendere le redini della conversazione prima che il
capo della polizia cominciasse a bombardarlo di domande su Glenn Miller.
“Se il signor primo ministro lo desidera sono pronto a togliere di mezzo qualsiasi persona,
purché ci separiamo da amici.” Il capo della polizia era ancora fuori fase in seguito alla
tragica rivelazione sull’autore di Moonlight Serenade, ma non per questo lo si poteva
manipolare a piacimento. Non aveva intenzione di lasciarsi coinvolgere in trattative
riguardanti il futuro di Allan Karlsson.
“Se te lo ordino, tu toglierai di mezzo chi dico io in cambio di una eventuale valutazione da
parte mia di lasciarti in vita,” sentenziò il capo della polizia prima di spegnere la sigaretta
nella tazza di Allan ancora mezzo piena di caffè.
“Sì, era quello che intendevo,” replicò Allan. “Non devo essermi spiegato.” L’interrogatorio
del mattino aveva preso una direzione diversa da quella che il capo della polizia si era
aspettato. Invece di eliminare subito il presunto nemico dello Stato, aveva aggiornato
l’incontro per permettere alle nuove prospettive di evolversi. Dopo pranzo il capo della
polizia e Allan Karlsson si rividero per concretizzare i piani.
Si trattava di uccidere Winston Churchill, sotto la protezione delle guardie personali dello
scià. Doveva avvenire in modo che nessuno sospettasse il benché minimo collegamento con
le autorità responsabili della sicurezza interna, e tantomeno con il loro capo. Dal momento
che gli inglesi avrebbero indagato minuziosamente sull’accaduto, non si potevano
commettere errori. Se il progetto fosse riuscito, le conseguenze sarebbero andate a
vantaggio del capo della polizia.
Innanzitutto avrebbe tappato la bocca a quei presuntuosi degli inglesi, che gli avevano
revocato l’incarico di provvedere alla sicurezza dell’ospite in visita. In secondo luogo lo
scià avrebbe senz’altro chiesto di dare una ripassata alle sue guardie dopo il fallimento della
missione affidatagli. Infine, quando il polverone fosse finito, la sua posizione si sarebbe
rafforzata invece che, come adesso… indebolita.
Il capo della polizia e Allan si disposero a incastrare le tessere del mosaico come se fossero
amici per la pelle. Tuttavia, ogni volta che l’atmosfera si faceva esageratamente
confidenziale, il capo della polizia spegneva il mozzicone nel caffè di Allan.
Il capo della polizia finì a poco a poco per spifferare che l’auto blindata più sicura di tutto
l’Iran, una DeSoto Suburban costruita ad hoc, si trovava nel garage sottostante. Era color
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vinaccia e molto bella, aggiunse. Probabilmente le guardie dello scià si sarebbero fatte
sentire presto, altrimenti con quale altro mezzo avrebbero potuto accompagnare Churchill
dall’aeroporto al palazzo dello scià?
Allan dichiarò che una carica esplosiva adeguata posta nel telaio dell’auto poteva essere la
soluzione, ma tenendo conto dell’esigenza del capo della polizia di non lasciare tracce che
potessero ricondurre a lui suggerì due diverse alternative.
La prima consisteva nel ricorrere a una carica esplosiva con esattamente gli stessi
componenti usati in Cina dai comunisti di Mao Tse-tung. Allan possedeva tutte le
conoscenze necessarie in materia ed era sicuro che in questo modo sarebbe sembrato un
attentato comunista.
La seconda era che l’esplosivo venisse nascosto nella parte anteriore del telaio della DeSoto,
e che grazie a un controllo a distanza – che Allan era in grado di costruire senza problemi –
non detonasse subito, ma si staccasse qualche decimo di secondo dopo per esplodere nel
momento in cui avrebbe toccato terra.
In quel lasso di tempo la carica esplosiva avrebbe fatto in tempo a finire sotto la parte
posteriore dell’auto in movimento, nel punto in cui sarebbe certamente stato seduto Winston
Churchill con il suo immancabile sigaro. La carica avrebbe fatto saltare il pavimento
dell’auto spedendo Churchill al Creatore, ma avrebbe anche causato una grossa buca nel
terreno.
“Faremo credere alla gente che l’esplosivo era nascosto sotto il fondo stradale, e non che era
stato precedentemente piazzato a bordo dell’auto. Questa specie di fumo negli occhi
dovrebbe essere un’ottima soluzione per il signor primo ministro.” Con una risatina di gioia
e di eccitazione il capo della polizia spense una sigaretta appena accesa nel caffè di Allan
versato di fresco. Questi commentò che il signor primo ministro poteva fare quello che
voleva con le sigarette e il suo caffè, ma se non era del tutto soddisfatto del posacenere che
aveva accanto, e se avesse concesso ad Allan un breve permesso, sarebbe andato volentieri
in città lui stesso a procurarne uno nuovo e più bello per il signor primo ministro.
Al suddetto non interessava minimamente quel cianciare di Allan sui posaceneri; gli chiese
invece di fornirgli l’elenco completo di ciò che serviva per risolvere la questione.
Allan sapeva esattamente ciò che serviva e snocciolò i nomi dei nove ingredienti necessari.
Ne aggiunse un decimo – la nitroglicerina – che a suo avviso sarebbe potuto servire. E un
undicesimo: una bottiglietta di inchiostro nero.
Poi comunicò al signor primo ministro che avrebbe dovuto mettergli a disposizione uno dei
suoi collaboratori più fidati che gli facesse da assistente e fungesse da responsabile degli
acquisti, oltre a consentire al suo compagno di cella, il pastore Ferguson, di fare da
interprete.
Il capo della polizia borbottò che avrebbe preferito liquidare quel pastore una volta per tutte,
dato che i preti non gli andavano a genio, ma che, per carità, adesso non c’era bisogno di
perdere tempo. Poi spense un’altra sigaretta nel caffè di Allan per annunciare che la riunione
era finita e per ricordargli ancora una volta chi era a prendere le decisioni.
Passavano i giorni e tutto procedeva secondo i piani. Il responsabile delle guardie dello scià
si era fatto sentire per riferire che sarebbe venuto a ritirare la DeSoto il mercoledì
successivo. Il capo della polizia schiumava di rabbia. Il responsabile delle guardie glielo
aveva riferito, non glielo aveva chiesto. Il capo della polizia era così alterato che per un
attimo si dimenticò che la cosa in realtà capitava a fagiolo: cosa sarebbe successo, infatti, se
il responsabile delle guardie non si fosse fatto sentire? Presto avrebbe avuto la punizione
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che si meritava.
Ora Allan sapeva quanto tempo aveva a disposizione per piazzare la carica esplosiva.
Purtroppo anche il pastore Ferguson aveva capito cosa sarebbe successo. Non solo sarebbe
stato complice dell’assassinio dell’ex primo ministro Churchill, ma la sua stessa vita
avrebbe avuto fine subito dopo. Incontrare il Signore appena dopo avere ucciso qualcuno
non era una prospettiva che lo allettava.
Allan lo rassicurò spiegandogli di aver elaborato un piano a doppio taglio: da un lato aveva
previsto che sia lui sia il pastore riuscissero a scappare, dall’altro che la cosa non andasse
necessariamente a scapito del signor Churchill.
Questo, però, solo se il pastore avesse fatto tutto ciò che gli avrebbe chiesto Allan al
momento opportuno. Il pastore promise. Il signor Karlsson rappresentava la sua ultima
speranza, visto che Dio continuava a non rispondere ai suoi appelli. Ormai da quasi un
mese. Era forse arrabbiato con lui per via della sua idea di fare combriccola con i comunisti?
Arrivò il mercoledì. La DeSoto era pronta. La carica esplosiva era stata montata sul telaio
dell’auto; era di dimensioni esagerate rispetto all’obiettivo, ma ben nascosta in caso di un
eventuale controllo.
Allan mostrò al capo della polizia come funzionava il detonatore con comando a distanza,
spiegandogli nel modo più dettagliato possibile quale sarebbe stato il risultato finale una
volta esplosa la carica. Il capo della polizia rideva e sembrava molto felice.
Poi spense la diciottesima sigaretta nel caffè del prigioniero.
A quel punto Allan prese una tazza nuova, l’aveva nascosta dietro la cassetta degli attrezzi, e
la piazzò in un punto strategico del garage: sul tavolo accanto alla scala che conduceva al
corridoio, alla cella e all’ingresso delle prigioni. Con fare indifferente, mentre il capo della
polizia continuava a girare intorno alla DeSoto fumando come un mantice la sua
diciannovesima sigaretta e godendo al pensiero di quello che sarebbe successo, lasciò il
garage e prese il pastore sottobraccio.
Dalla presa decisa di Allan il pastore intuì che ora si faceva sul serio ed era venuto il
momento di obbedirgli ciecamente.
Superata la loro cella, proseguirono verso l’ingresso, dove Allan non fece alcun cenno di
fermarsi davanti alle guardie armate ma procedette con fare sicuro, continuando a stringere
il braccio del pastore.
Le guardie si erano abituate alla presenza di Karlsson e del pastore, e non avendo mai
previsto nessun tentativo di fuga da parte dei due fu più che altro con sorpresa che il loro
capo esclamò: “Fermatevi! Dove credete di andare?” Allan, che si era bloccato insieme al
pastore a un passo dalla libertà, assunse un’espressione stupita.
“Siamo liberi di andare. Il signor primo ministro non ve lo ha comunicato?” Il pastore
Ferguson, paralizzato dal terrore, si costrinse a inspirare un po’ d’ossigeno per non svenire.
“Fermi lì,” sbottò il capo delle guardie. “Voi non andate da nessuna parte prima che il signor
primo ministro mi abbia confermato quanto avete appena detto.” Le altre tre guardie si
disposero in modo da avere il controllo sui due, mentre il loro superiore percorreva il
corridoio che conduceva al garage per informarsi. Allan rise a mo’ di incoraggiamento
guardando il pastore accanto a lui, prima di aggiungere che tra poco si sarebbe risolto tutto.
Se niente fosse andato storto, ovvio.
Dal momento che il capo della polizia non aveva dato alcun permesso di andarsene ad Allan
e al pastore e visto che non aveva nessuna intenzione di farlo, reagì con rabbia: “Cosa stai
dicendo? Sono all’ingresso e mentono in modo così spudorato? Brutti bastardi…” Accadeva
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raramente che il capo della polizia imprecasse. Era sempre attento a conservare un certo
stile, ma adesso era inferocito, e come d’abitudine spense la sigaretta nel caffè di quel
maledetto Karlsson prima di decidersi a salire i pochi gradini che portavano al corridoio.
O meglio, non arrivò più lontano della tazza, che questa volta non conteneva caffè ma
nitroglicerina mescolata a inchiostro nero. L’esplosione fu tale che il vice primo ministro e il
capo delle guardie furono dilaniati dallo scoppio. Una nuvola bianca salì dal garage per poi
espandersi fino all’estremità del corridoio dove si trovavano Allan, il pastore e le tre
guardie.
“Adesso andiamo,” disse Allan al pastore, e così fu.
Le tre guardie erano ancora in grado di pensare che qualcuno avrebbe pur dovuto impedire
la fuga dei due, ma qualche decimo di secondo dopo ci fu un’altra deflagrazione – come
c’era da aspettarsi visto che il garage era in preda alle fiamme – ed esplose anche la carica
nascosta sotto la DeSoto destinata a Winston Churchill.
Allan ebbe dunque la prova che l’esplosivo sarebbe effettivamente servito allo scopo.
L’intero edificio aveva risentito dello scoppio e si era inclinato. Il pianterreno era già
avvolto dalle fiamme quando Allan riformulò il suo ordine al pastore: “Vediamo di metterci
a correre.” Due delle tre guardie erano state scagliate via dall’onda d’urto e avevano preso
fuoco.
La terza non era in condizioni di ragionare, dando la priorità ai prigionieri: dopo aver
meditato qualche secondo su quanto era appena successo, scappò a gambe levate onde
evitare di fare la fine dei suoi compagni. Allan e il pastore in una direzione, lui nell’altra.
Dal momento che era stato Allan a mettere in atto la fuga sua e del pastore, ora toccava al
pastore rendersi utile. Sapeva dove si trovavano le varie sedi diplomatiche, pertanto
condusse Allan all’ambasciata svedese, dove lo abbracciò con fervore ringraziandolo di
tutto.
Allan si chiedeva quali fossero adesso le sue intenzioni. Dove si trovava l’ambasciata
britannica? Non lontano da dove erano adesso, disse il pastore, ma perché andarci?
Tanto lì erano già tutti anglicani. No, il pastore aveva elaborato una nuova strategia. Gli
ultimi avvenimenti gli avevano insegnato che tutto iniziava e finiva con le autorità
responsabili della sicurezza interna. Si trattava quindi di partire da lì: quando coloro che ci
lavoravano e i loro complici fossero diventati anglicani, allora tutto sarebbe stato facile
come bere un bicchier d’acqua.
Allan disse che conosceva un buon manicomio in Svezia, se al pastore fosse venuta in
mente qualche altra idea del genere. Questi rispose che non voleva sembrare ingrato, niente
affatto, ma aveva una missione a cui pensare ed era venuto il momento di congedarsi. Per
prima cosa avrebbe rintracciato la guardia sopravvissuta, quella che era scappata nella
direzione opposta alla loro. In fondo si trattava di un giovane gentile e di cuore e non
sarebbe stato difficile convertirlo alla vera fede.
“Addio!” disse il pastore allontanandosi.
“Ciao,” ribatté Allan.
Rimase a lungo a guardare il pastore che camminava, pensando che il mondo fosse
abbastanza strano da permettere al pastore di sopravvivere nonostante ciò che stava per fare.
Purtroppo però aveva torto. Il pastore trovò la guardia che vagava per Park-e Shahr, al
centro di Teheran, con le braccia ustionate e in mano un fucile automatico senza la sicura.
“Ma sei tu, figlio mio,” disse il pastore avanzando per abbracciarlo.
“Tu!” urlò la guardia. “Sei proprio tu!” E gli scaricò in petto ventidue colpi. Ne avrebbe
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sparati di più se il caricatore non si fosse esaurito.
Ad Allan fu permesso di entrare all’ambasciata svedese grazie al suo accento del Sörmland.
Tuttavia la situazione si fece subito complicata, non avendo con sé nessun documento che
comprovasse la sua identità. L’ambasciata non poteva emettere alcun passaporto, né
tantomeno aiutarlo a rientrare in Svezia. Inoltre, disse il terzo segretario di legazione
Bergqvist, la Svezia aveva appena introdotto un sistema d’identificazione numerico, e se
anche fosse stato vero che il signor Karlsson si trovava all’estero da molti anni, la cosa non
risultava da nessuna parte.
Allan replicò che, nonostante tutti i nomi degli svedesi fossero stati convertiti in cifre, lui
era e rimaneva Allan Karlsson di Yxhult vicino a Flen, e chiedeva che il signor terzo
segretario di legazione fosse così gentile da fornirgli un passaporto.
Il terzo segretario di legazione Bergqvist era in quel momento responsabile dell’ambasciata,
essendo l’unico a cui non era stato permesso di seguire la conferenza per i diplomatici che si
stava tenendo a Stoccolma. Ovviamente succedeva tutto insieme. Non bastava che un certo
edificio al centro di Teheran fosse andato in fumo un’oretta prima, adesso ci mancava pure
uno sconosciuto che sosteneva di essere svedese. In effetti c’erano alcuni elementi che
comprovavano la veridicità delle sue affermazioni, ma qui bisognava attenersi alle regole o
ci si giocava la carriera in un colpo solo. Così il terzo segretario di legazione Bergqvist
decise che, se il signor Karlsson non era in grado di documentare la propria identità, allora
non ci sarebbe stato nessun passaporto.
Allan replicò che il terzo segretario di legazione si stava mostrando particolarmente
ostinato, ma forse era possibile chiarire la situazione se il signor Bergqvist aveva a
disposizione un telefono.
Sì, ce l’aveva, ma telefonare costava parecchio. Chi aveva intenzione di chiamare il signor
Karlsson?
Allan cominciava a essere stanco di quel cocciuto terzo segretario di legazione, così anziché
rispondere gli pose a sua volta una domanda: “Il primo ministro svedese è ancora Per
Albin?” “Cosa? No,” rispose stupito l’interpellato. “Si chiama Erlander. Tage Erlander. Il
primo ministro Hansson è morto l’anno scorso. Ma perché…” “Se sta zitto un momento le
cose si chiariranno.” Sollevata la cornetta Allan chiamò la Casa Bianca, e dopo essersi
presentato parlò con la segretaria del presidente, che si ricordava benissimo di lui e aveva
sentito dal presidente parecchie cose simpatiche sul suo conto. Se il signor Karlsson riteneva
che fosse davvero importante avrebbe fatto in modo di svegliarlo; a Washington erano da
poco passate le otto e il presidente Truman non era molto veloce a saltare giù dal letto la
mattina.
Poco dopo il presidente Truman rispose, appena sveglio. Eb-bero una conversazione assai
cordiale della durata di qualche minuto, e si aggiornarono a vicenda sulle rispettive
vicissitudini finché Allan non esordì con le sue richieste: se Harry poteva essere così gentile
da contattare il nuovo primo ministro svedese Erlander e garantire l’identità di Allan, e se a
sua volta Erlander poteva chiamare il terzo segretario di legazione Bergqvist all’ambasciata
svedese di Teheran per chiedergli di emettere il suo passaporto senza indugi.
Ovviamente lo avrebbe fatto, ma aveva bisogno di sapere come si scriveva il nome del terzo
segretario di legazione in modo che fosse tutto corretto.
“Il presidente Truman desidera sapere come si scrive il suo nome,” disse Allan al terzo
segretario di legazione Bergqvist. “Per sveltire le cose, può comunicarglielo direttamente
lei?” Dopo aver sillabato il proprio nome in stato di trance e aver riagganciato la cornetta,
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l’interessato rimase in silenzio otto minuti. Giusto il tempo perché arrivasse la telefonata del
primo ministro Tage Erlander, che ordinava al terzo segretario di legazione Bergqvist di: 1)
emettere immediatamente un passaporto diplomatico per Allan Karlsson; 2) procurare un
mezzo di trasporto che riportasse il signor Karlsson in Svezia.
“Ma non ha nessun codice d’identificazione numerico,” provò a obiettare Bergqvist.
“Consiglio al terzo segretario di legazione di svolgere subito questo compito,” replicò il
primo ministro Erlander. Desiderava forse diventare quarto o quinto segretario di legazione?
“Non esistono…” cercò di replicare Bergqvist.
“Quindi?
Inaspettatamente, pur godendo dell’enorme gratitudine del popolo britannico, l’eroe di
guerra Winston Churchill aveva perso le elezioni del 1945 per la carica di primo ministro.
Churchill stava però progettando la sua rivincita, e in attesa del momento propizio aveva
preso a viaggiare in tutto il mondo. L’ex primo ministro non sarebbe rimasto affatto sorpreso
se quel pasticcione di laburista che adesso governava la Gran Bretagna avesse introdotto il
suo nuovo piano economico mentre distribuiva l’impero a gente che non era in grado di
gestire la situazione.
Bastava prendere a esempio le Indie Occidentali Britanniche, che al momento stavano per
cadere a pezzi. Gli induisti e i musulmani non riuscivano ad andare d’accordo e in mezzo a
tutto questo sedeva a gambe incrociate quel maledetto Mahatma Gandhi, che smetteva di
mangiare non appena qualcosa gli dava sui nervi. Che diavolo di strategia bellica era? A
cosa era servita contro il bombardamento nazista dell’Inghilterra?
Lo stesso valeva anche per l’Africa Orientale Britannica: era soltanto questione di tempo,
ma prima o poi i negri avrebbero preteso di diventare padroni del loro destino.
Churchill capiva che non tutto poteva rimanere inalterato: gli inglesi avevano bisogno di un
leader che con voce ferma parlasse loro di ciò che contava, non di un socialista travestito da
Clement Attlee (Winston Churchill apparteneva alla categoria di coloro per cui gli orinatoi
pubblici erano simboli del socialismo).
Per quanto riguardava le Indie la battaglia era persa, questo Churchill l’aveva compreso. Il
cambiamento andava in quella direzione da molti anni, e durante la guerra era stato
necessario mandare dei segnali d’indipendenza agli indiani per evitare di affrontare una
guerra civile nel bel mezzo della lotta per la sopravvivenza.
In altri contesti, invece, era ancora possibile porre dei freni. I piani di Churchill per
l’autunno prevedevano un viaggio in Kenia. Prima, però, sarebbe passato da Teheran per
bere un tè con lo scià.
Giunto in Iran, si era trovato nel caos più totale. Il giorno prima qualcuno aveva fatto
esplodere l’edificio che ospitava la polizia segreta. L’intera costruzione era crollata ed era
andata distrutta dalle fiamme. A quanto pareva ci aveva lasciato le penne anche quel
deficiente del capo della polizia, lo stesso che in un’occasione precedente aveva calato i suoi
pesanti artigli su un funzionario dell’ambasciata britannica.
Per il momento il danno era circoscritto, ma visto che l’auto blindata dello scià era bruciata
nell’incendio l’incontro tra lui e Churchill era stato decisamente più breve del previsto, e per
motivi di sicurezza si era tenuto all’aeroporto.
Era comunque un bene che si fossero incontrati. Secondo lo scià la situazione era sotto
controllo. L’esplosione alla sede della polizia segreta era una faccenda fastidiosa, ma non
era ancora possibile dire nulla sulle cause. Che il capo della polizia fosse rimasto ucciso
nello scoppio era un fatto che non lo preoccupava più di tanto; gli pareva che la vittima
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stesse perdendo le redini della situazione.
Un contesto politicamente stabile, dunque. Un nuovo capo della polizia e risultati record per
l’Anglo-Iranian Oil Company. Il petrolio arricchiva senza ritegno l’Inghilterra e l’Iran.
Soprattutto l’Inghilterra, a dire il vero, ma in fondo era giusto così, dal momento che l’Iran
contribuiva al progetto unicamente con forza lavoro a buon mercato. Sì, e ovviamente col
petrolio.
“In Iran fila quasi tutto liscio,” riassunse Winston Churchill mentre salutava l’attaché
militare svedese con cui avrebbe viaggiato durante il volo di rientro per Londra.
“È bello sapere che il signor Churchill è soddisfatto,” replicò Allan. “E che è sano come un
pesce.” Dopo una sosta a Londra Allan atterrò finalmente all’aeroporto di Bromma, dove
toccò il suolo svedese dopo undici anni. Era l’autunno inoltrato del 1947 e il tempo era
tipico della stagione.
Nella sala degli arrivi lo stava aspettando un giovane che disse di essere l’assistente del
primo ministro Erlander, il quale desiderava incontrare il signor Karlsson senza ulteriori
indugi, se possibile.
Per Allan era possibile. Seguì volentieri l’assistente, che lo fece accomodare con orgoglio
nell’auto governativa, una Volvo PV444 nera fiammante.
“Il signor Karlsson ha mai visto nulla di più bello?” domandò l’assistente, che era un
appassionato d’auto. “Quarantaquattro cavalli di potenza!” “La settimana scorsa ho visto
una bellissima DeSoto color vinaccia,” rispose Allan. “Ma questa è in condizioni
sicuramente migliori.” Il viaggio si svolse da Bromma in direzione di Stoccolma, con Allan
che si guardava intorno pieno d’interesse. Si vergognava ad ammetterlo, ma non era mai
stato nella capitale. Davvero una bella città, con corsi d’acqua e ponti integri dappertutto.
Giunti al palazzo del governo, Allan fu condotto lungo numerosi corridoi fino a raggiungere
l’ufficio del primo ministro, che gli diede il benvenuto con un: “Signor Karlsson! Ho sentito
tanto parlare di lei!” Poi spinse fuori l’assistente e chiuse la porta.
Allan non disse niente, perché invece lui non sapeva nulla di Tage Erlander. Neanche se
fosse di sinistra o di destra. Di sicuro era l’uno o l’altro, perché se la vita gli aveva insegnato
qualcosa era che la gente pensava questo o quello.
Il primo ministro poteva pensare quello che voleva. Adesso ad Allan premeva sentire ciò che
aveva da dirgli.
Venne a sapere che il primo ministro aveva richiamato il presidente Truman lo stesso giorno
in cui Truman gli aveva telefonato, per parlare in maniera più esaustiva di Allan.
Per questo il primo ministro adesso sapeva tutto di… Poi Erlander tacque. Svolgeva il suo
incarico di primo ministro da meno di un anno e aveva ancora molto da imparare. Tuttavia
aveva capito una cosa, e cioè che in certe circostanze era meglio non sapere, o non mostrare
di sapere quello che si sapeva.
Per questo motivo non si sbottonava mai completamente. Le informazioni che gli erano
state date dal presidente Truman su Allan Karlsson sarebbero rimaste per sempre tra loro
due. Andò direttamente al punto: “So che qui in Svezia lei non ha nessun appoggio, per
questo ho fatto in modo di garantirle un risarcimento in contanti per la sua opera svolta al
servizio della naz… in un certo senso… comunque eccole diecimila corone.” Porse una
busta fitta di banconote ad Allan, che dovette controfirmare una specie di ricevuta. Tutto
secondo le regole.
“Grazie tantissime, signor primo ministro. Ora mi viene in mente che con questo bel
contributo sarò in grado di comprare dei vestiti nuovi, e stasera di dormire in albergo dentro
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lenzuola pulite. Magari potrò persino lavarmi i denti, l’ultima volta risale all’agosto del
1945.” Il primo ministro interruppe Allan, che stava per descrivergli lo stato delle sue
mutande, comunicandogli che la somma di denaro era a fondo perduto e senza condizioni,
tuttavia desiderava rivelargli che in Svezia stava avvenendo una certa attività connessa alla
fissione nucleare, e gli avrebbe fatto piacere se il signor Karlsson le avesse potuto dare
un’occhiata.
La verità era che il primo ministro Erlander non sapeva un bel niente di una serie di
importanti questioni che gli erano toccate in eredità nel momento in cui, quello stesso
autunno, il cuore di Per Albin aveva cessato di battere. Una di queste era la posizione che
avrebbe dovuto assumere la Svezia adesso che esisteva quella cosa chiamata bomba
atomica. Il comandante supremo delle forze armate Jung gli stava addosso: a suo avviso il
paese doveva proteggersi dal comunismo e c’era soltanto la piccola Finlandia a fare da
cuscinetto tra la Svezia e Stalin.
La faccenda aveva due risvolti. Da un lato il comandante supremo Jung era riuscito a
sposarsi bene, con una ricca fanciulla, ed era risaputo che il venerdì sera beveva grog con il
vecchio re. E il socialdemocratico Erlander non sopportava il pensiero che Gustavo V si
illudesse di poter influenzare la politica svedese in materia di sicurezza.
Dall’altro Erlander non poteva escludere l’ipotesi che Jung e il re avessero in effetti ragione.
Non era pensabile fidarsi di Stalin e dei comunisti; se davvero avevano intenzione di
ampliare la propria sfera d’interessi a occidente, la Svezia si trovava disgraziatamente
vicina.
L’Istituto di ricerca della Difesa aveva appena convogliato tutte le sue (limitate) conoscenze
sul nucleare all’appena costituitasi AB Atomenergi, dove esperti e ricercatori si
interrogavano su cosa fosse successo esattamente a Hiroshima e Nagasaki. Mentre a lui era
stato affidato un compito più generale: analizzare il futuro nucleare da una prospettiva
svedese. Non era mai stato detto in maniera esplicita, per fortuna, ma il primo ministro
Erlander capiva che quell’incarico espresso in modo così fumoso in realtà suonava più o
meno così: Come diavolo ci costruiremo da soli una bomba atomica qualora ce ne fosse
bisogno?
E ora la risposta alla domanda sedeva di fronte al primo ministro. Tage Erlander lo sapeva,
ma innanzitutto sapeva che non voleva che altri sapessero che lui sapeva. In politica
bisognava muoversi con i piedi di piombo.
Per questo il giorno prima Erlander aveva contattato il ricercatore capo della AB
Atomenergi, dottor Sigvard Eklund, chiedendogli di incontrare Allan Karlsson per un
colloquio e di verificare scrupolosamente se il signor Karlsson potesse essere utile alle
attività dell’AB Atomenergi. Questo presupponeva il fatto che il signor Karlsson fosse
anche lui interessato, cosa che il primo ministro avrebbe appurato il giorno dopo.
Il dottor Eklund non era del tutto soddisfatto dell’intromissione del primo ministro riguardo
a chi coinvolgere nel progetto. Sospettava infatti che Allan Karlsson venisse usato allo
scopo di permettere al governo di avere una spia socialdemocratica sul posto. Promise
comunque di incontrare Karlsson per un colloquio, anche se il primo ministro non aveva
voluto esprimersi sulle qualifiche del soggetto coinvolto. Erlander aveva soltanto ripetuto la
parola scrupolosamente. Il dottor Eklund avrebbe dovuto informarsi scrupolosamente sul
background del signor Karlsson.
Da parte sua Allan disse che non aveva nulla in contrario a incontrare il dottor Eklund o
qualsiasi altro dottore, se ciò rendeva felice il primo ministro.
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Diecimila corone erano quasi una cifra scandalosa, o perlomeno così sembrò ad Allan, che
prese una camera nell’albergo più caro che riuscì a trovare.
Il receptionist del Grand Hôtel nutriva qualche dubbio nei confronti di quell’uomo sporco e
mal vestito, benché Allan gli avesse mostrato il passaporto diplomatico svedese.
“Certo che abbiamo una camera per il signor attaché militare,” gli comunicò il receptionist.
“Intende pagare in contanti o mandiamo la fattura al ministero degli Affari esteri?” “In
contanti va benissimo,” rispose Allan. “Li vuole in anticipo?” “No, signor attaché. Ci
mancherebbe altro!” s’inchinò il receptionist, che se fosse stato in grado di prevedere il
futuro avrebbe risposto in modo diverso.
Il giorno seguente il dottor Eklund accolse un Allan Karlsson lavato di fresco e
decentemente vestito nel suo ufficio di Stoccolma. Invitò Allan ad accomodarsi prima di
offrirgli un caffè e una sigaretta, proprio come aveva fatto l’assassino capo a Teheran
(Eklund però preferiva servirsi del posacenere).
Il dottor Eklund non gradiva affatto che il primo ministro s’intromettesse nel suo lavoro di
reclutamento: il suo compito era gestire una missione scientifica, non politica – e tantomeno
socialdemocratica!
Il fatto è che il dottor Eklund aveva avuto modo di discutere del problema per telefono con
il comandante supremo delle forze armate e sapeva di poter contare sul suo appoggio
morale. Cioè: se il tizio mandato dal primo ministro non fosse stato all’altezza non avrebbe
dovuto essere assunto. Punto!
Da parte sua Allan percepiva le onde negative che circolavano nella stanza, e per un attimo
gli tornò in mente il primo incontro con Song Meiling avvenuto qualche anno prima. La
gente poteva comportarsi come meglio credeva, ma secondo lui era inutile fare il muso duro
quando non era necessario.
L’incontro con il signor Karlsson fu breve.
“Il primo ministro mi ha chiesto di valutare scrupolosamente l’eventualità che il signor
Karlsson possa ricoprire un incarico nella nostra organizzazione. Ed è quello che ora intendo
fare, con la sua approvazione.” Ma certo, ad Allan sembrava giusto che il dottor Eklund
volesse saperne di più sul suo conto: l’essere scrupolosi era una virtù, pertanto il dottore
doveva sentirsi libero di porre tutte le domande del caso.
“Bene,” esordì il dottor Eklund. “Allora cominciamo con i suoi studi…” “Non c’è molto da
dire. Soltanto tre anni.” “Tre anni?” esclamò il dottor Eklund. “Con soli tre anni di studi
universitari il signor Karlsson non può certo essere un fisico, un matematico o un chimico.”
“No, tre anni in tutto. Ho smesso di andare a scuola quando ho compiuto nove anni.” Il
dottor Eklund aveva bisogno di riprendersi. Quel tizio non aveva alcun tipo d’istruzione!
Sapeva almeno leggere o scrivere? Ma il primo ministro gli aveva chiesto di… “Il signor
Karlsson vanta esperienze di lavoro a suo avviso rilevanti per l’attività che intenderebbe
svolgere alla AB Atomenergi?” Sì, secondo Allan lo si poteva ben dire. Aveva lavorato
molto negli Stati Uniti, alla base di Los Alamos in New Mexico.
Il volto del dottor Eklund s’illuminò. Dunque Erlander aveva forse le sue buone ragioni.
Quello che avveniva a Los Alamos era cosa risaputa. E che lavoro aveva svolto il signor
Karlsson a Los Alamos?
“Servivo il caffè,” rispose Allan.
“Il caffè?” Il volto del dottor Eklund si rabbuiò nuovamente.
“Sì, e in alcuni casi anche il tè. Ero assistente e cameriere.” “Il signor Karlsson era
assistente a Los Alamos… Ha mai preso parte a qualche decisione riguardante la fissione
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nucleare?” “No,” rispose Allan. “L’unica volta fu quando mi permisi di esprimere la mia
opinione nel corso di un’assemblea dove in realtà avrei dovuto servire il caffè.” “Il signor
Karlsson si è permesso di esprimere la propria opinione quando in realtà faceva il
cameriere… E poi cosa è successo?” “Mah, fummo interrotti, e poi mi fu chiesto di lasciare
la stanza.” Il dottor Eklund sedeva muto davanti ad Allan. Chi diavolo gli aveva mandato il
primo ministro? Quell’Erlander pensava che un cameriere che aveva abbandonato la scuola
al compimento dei nove anni d’età sarebbe stato in grado di costruire bombe atomiche per la
Svezia? Anche per un socialdemocratico doveva esistere un limite oltre il quale era
impossibile sostenere la stupida tesi per cui tutti avevano lo stesso valore.
Il dottor Eklund pensò che sarebbe stato un miracolo se quel pivellino di primo ministro
fosse riuscito a mantenere il suo mandato oltre la fine dell’anno. Poi, rivolto ad Allan,
sentenziò che il signor Karlsson non aveva le qualifiche necessarie, che quindi il loro
incontro finiva lì e che attualmente non c’era nessun posto disponibile. L’assistente che
preparava il caffè per gli scienziati della AB Atomenergi non era mai stata a Los Alamos,
ma secondo il dottor Eklund svolgeva le sue mansioni in modo eccellente.
Greta si occupava inoltre della pulizia dei locali, il che andava considerato un elemento a
suo favore.
Rimasto in silenzio per un po’, Allan valutò se non fosse il caso di rivelare che lui, a
differenza di tutti gli scienziati del dottor Eklund e probabilmente anche di Greta, sapeva
come costruire una bomba atomica.
Decise invece che il dottor Eklund non meritava il suo aiuto, visto che non era capace di
fargli le domande giuste. Per giunta il caffè di Greta era acquoso.
Allan non venne assunto alla AB Atomenergi, dal momento che i suoi meriti erano stati
considerati insufficienti. Eppure sedeva felice su una panchina del parco davanti al Grand
Hôtel, godendosi il bel panorama del Palazzo Reale che si ergeva sull’altro lato della baia. E
come avrebbe potuto sentirsi altrimenti? Aveva ancora la maggior parte dei soldi ricevuti dal
primo ministro, viveva da principe, tutte le sere mangiava al ristorante, e quella mattina di
inizio gennaio il sole prometteva di scaldargli sia il corpo sia l’anima.
Aveva il sedere gelato a furia di starsene lì seduto, per questo rimase abbastanza sorpreso
quando un’altra persona si sedette sulla sua stessa panchina.
“Buongiorno,” disse Allan educatamente.
“Good afternoon,Mr Karlsson,” rispose l’uomo al suo fianco.
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CAPITOLO 14
Lunedì 9 maggio 2005
Quando il commissario Aronsson riferì le ultime novità al GIP Conny Ranelid a Eskilstuna,
questi decise di spiccare immediatamente un mandato d’arresto a piede libero per Allan
Karlsson, Julius Jonsson, Benny Ljungberg e Gunilla Björklund.
Da quando il vecchio era scappato dalla finestra Aronsson e il GIP si erano tenuti
costantemente in contatto, e con l’andare del tempo l’interesse del giudice per il caso era
andato sempre più aumentando. Ora stava meditando sulla possibilità di far condannare
Allan Karlsson per omicidio premeditato o perlomeno per omicidio colposo, benché ancora
non fosse stato trovato alcun cadavere. Nella storia del diritto svedese esistevano dei
precedenti che consentivano di muovere una simile accusa, tuttavia essa richiedeva prove
inconfutabili e che il giudice fosse veramente in gamba. Su quest’ultimo punto Conny
Ranelid era tranquillo; per quanto riguardava la prima vittima, invece, intendeva costruire
una catena di indizi in cui l’anello iniziale doveva essere il più forte e nessuno degli altri
troppo debole.
Dal canto suo il commissario Aronsson provava un certo sconforto davanti all’evolversi
della situazione: sarebbe stato più divertente riuscire a salvare il vecchio dalle grinfie di una
banda di criminali che non riuscire a salvare i criminali dalle grinfie del vecchio, come
invece stava accadendo.
“Siamo in grado di collegare Allan Karlsson e gli altri alla morte di Bylund, Hultén e
Gerdin, tenuto conto dell’assenza dei cadaveri?” chiese Aronsson, sperando che la risposta
fosse negativa.
“Non disperare, Göran,” disse il GIP Conny Ranelid. “Non appena riuscirai ad arrestarlo il
vecchio spiattellerà tutto, vedrai. E se fosse troppo rimbambito per farlo canteranno gli altri,
contraddicendosi a vicenda.” Ripercorsero insieme il caso, in base alla strategia che il GIP
aveva in mente. Secondo Conny Ranelid sarebbe stato difficile mandarli tutti quanti in
galera con l’accusa di omicidio premeditato, ma si poteva farlo per omicidio colposo,
favoreggiamento, decesso provocato da lesioni e concorso in reato. Forse si poteva
aggiungere anche il vilipendio di cadavere, ma doveva ragionarci meglio.
Quanto più tardi fossero stati coinvolti nella faccenda, tanto più difficile sarebbe stato
accusarli di reati gravi (a meno di una confessione dell’interessato): ecco perché secondo il
GIP bisognava concentrarsi sulla persona implicata fin dall’inizio, e cioè sul centenario
Allan Karlsson.
“Per quanto lo riguarda, faremo in modo di chiedere l’ergastolo nel vero senso del termine,”
affermò il GIP Ranelid.
Il vecchio doveva pur avere un movente per uccidere prima Bylund, poi Hultén e infine
Gerdin. Il più ovvio era che, se non si fosse mosso per primo, avrebbe fatto la loro fine, e
cioè sarebbero stati Bylund, Hultén e Gerdin ad ammazzarlo. A dimostrazione del fatto che i
tre rappresentanti della Never Again erano dei violenti il GIP Ranelid possedeva una serie di
prove, dalle più datate alle più recenti, se mai ce ne fosse stato bisogno.
Invece, non era chiaro il motivo per cui il vecchio avrebbe dovuto ricorrere a un’eventuale
legittima difesa. Tra Karlsson e le vittime c’era di mezzo una valigia il cui contenuto era
sconosciuto al GIP. Fin dal principio sembrava che tutto vertesse su di essa; il vecchio
102
poteva quindi aver liquidato gli altri per sottrarre loro la valigia o per volerla recuperare se
gli era stata sottratta.
Il GIP era inoltre in grado di citare numerosi collegamenti logistici tra il signor Karlsson – il
vecchio – e le vittime. Proprio come il signor Karlsson, la vittima numero uno era scesa alla
stazione di Byringe, seppure non nello stesso momento. Proprio come il signor Karlsson, la
vittima era stata alla guida di un carrello ferroviario, questa volta contemporaneamente al
vecchio, mentre a differenza del signor Karlsson e del suo compagno, alla fine del viaggio
era scomparsa. Qualcuno era diventato cadavere, e chi fosse questo qualcuno era evidente.
Sia il vecchio sia il ladro professionista Julius Jonsson qualche ora dopo erano vivi e vegeti.
Il collegamento logistico tra Karlsson e la vittima numero due non era egualmente chiaro.
Per esempio, non erano mai stati visti insieme. Tuttavia una Mercedes color argento da una
parte e una pistola abbandonata dall’altra dicevano al GIP Ranelid – e avrebbero fatto
altrettanto in tribunale – che il signor Karlsson e la vittima che rispondeva al nome di
Hultén, soprannominata “Secchio”, erano stati entrambi a Sjötorp, nello Småland. Le
impronte di Hultén sull’arma non erano ancora state confermate, ma secondo il GIP era solo
questione di tempo.
Il ritrovamento della pistola era stato un dono del cielo: oltre a collegare Secchio Hultén a
Sjötorp, rafforzava il movente che aveva portato all’uccisione della vittima numero due.
Per quanto riguardava Karlsson si sarebbe ricorso all’esame del DNA, a partire dalle tracce
reperibili sia all’interno della Mercedes che il vecchio aveva usato per andare a destra e a
manca, sia in quel posto nello Småland. Era quindi possibile enunciare la formula: Secchio
+ Karlsson = Sjötorp!
L’esame del DNA sarebbe servito anche a confermare che il sangue trovato nella BMW
distrutta apparteneva alla terza vittima, Per-Gunnar Gerdin, conosciuto come “il Capo”.
Non appena fosse stata eseguita una perizia più precisa sull’auto, si sarebbe potuto
dimostrare con sicurezza che sul luogo erano presenti anche Karlsson e compagni. Chi altri,
se no, poteva aver estratto il cadavere dalla macchina?
Ecco dunque che il GIP possedeva il movente, nonché i riferimenti spazio-temporali
necessari a collegare Allan Karlsson ai tre morti.
Il commissario si azzardò a chiedere al GIP su quale base avesse concluso che tutte e tre le
vittime lo fossero davvero, e cioè che fossero state uccise. Sorridendo, il GIP
Ranelid rispose che riguardo alla prima e alla terza vittima non c’erano dubbi. Per quanto
invece riguardava la seconda Ranelid faceva affidamento sulla corte – perché se i giudici
concordavano sul fatto che la prima e la terza vittima erano state effettivamente uccise,
avrebbero desunto che la stessa sorte fosse toccata anche alla seconda: era uno degli anelli
della famosa catena di indizi.
“O pensi che la seconda vittima abbia lasciato di propria iniziativa la pistola presso coloro
che avevano appena ucciso il suo amico, prima di congedarsi educatamente in attesa
dell’arrivo del Capo qualche ora dopo?” commentò il GIP Ranelid con tono acido.
“No, non lo penso,” replicò il commissario sulla difensiva.
Il GIP ammise che la ricostruzione risultava abbastanza debole, ma era la catena di indizi a
darle forza. Mancavano le vittime e le armi usate (a eccezione del pullman giallo), ma il suo
piano puntava a far condannare Karlsson per l’omicidio della prima vittima. Le prove
relative alla terza e soprattutto alla seconda non erano sufficienti, ma di certo bastavano a
supportare l’accusa nei confronti di Karlsson circa la prima vittima.
Come già aveva detto, forse non per omicidio premeditato… “Quantomeno manderò il
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vecchio in galera per omicidio colposo e complicità aggravata.
E una volta incriminato il vecchio finiranno nelle rete anche gli altri. Con grado diverso, ma
ci finiranno!” Il GIP non poteva arrestare tutta quella gente partendo dall’ipotesi che durante
il processo avrebbero cominciato a contraddirsi a vicenda, tanto da suffragare le
ricostruzioni dell’accusa. Ciononostante sapeva di averli in pugno, perché erano dei
dilettanti: un centenario, un ladro professionista, il proprietario di un chiosco e una donna.
Che possibilità avevano di non crollare davanti a un interrogatorio coi fiocchi?
“Adesso, Aronsson, va’ a Växjö e trovati un albergo decente. Stasera farò in modo di far
trapelare la notizia che il vecchio è un presunto pluriomicida, e domattina riceverai tante di
quelle soffiate su dove si trova da riuscire ad arrestarlo prima di pranzo. Promesso.”
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CAPITOLO 15
Lunedì 9 maggio 2005
“Ecco i tre milioni di corone, fratello. Voglio anche scusarmi per come mi sono comportato
a proposito dell’eredità lasciata dallo zio Frasse.” Quando incontrò Bosse per la prima volta
dopo trent’anni, Benny andò subito al punto.
Gli porse un pacchetto con i soldi ancora prima che si stringessero la mano. Poi proseguì
con tono serio, mentre il fratello maggiore faticava a respirare: “Devi sapere due cose. La
prima è che abbiamo veramente bisogno del tuo aiuto perché ci siamo cacciati in un bel
pasticcio. La seconda è che i soldi che ti ho appena consegnato sono tuoi perché te li sei
guadagnati. Se volessi mandarci via fallo pure, il denaro rimarrà comunque a te.” I due
fratelli erano illuminati dai fari ancora accesi del pullman giallo, davanti all’ingresso della
bella dimora di Bosse nel podere di Klockaregård, nella pianura del Västgötaslätten, circa
dieci chilometri a sudovest di Falköping. Bosse stava cercando di raccogliere i pensieri;
infine disse che aveva qualche domanda da fare e chiedeva se poteva farla subito. In base
alle risposte, avrebbe deciso come comportarsi in merito all’ospitalità. Benny garantì che
avrebbe risposto con sincerità a tutte le domande del fratello maggiore.
“Allora cominciamo,” esordì Bosse. “I soldi sono puliti?” “Assolutamente no,” rispose
Benny.
“Avete la polizia alle calcagna?” “Probabilmente sia dei malviventi sia la polizia,” spiegò
Benny. “Ma perlopiù dei malviventi.” “Cosa è successo al pullman? Il muso è tutto
ammaccato.” “Abbiamo investito un malvivente a tutta velocità.” “È morto?” “No, anzi! È
sul pullman con una commozione cerebrale, qualche costola rotta, il braccio destro
fratturato e una ferita profonda alla coscia destra. Le sue condizioni sono gravi ma stabili,
come si suol dire.” “L’avete portato qui?” “Purtroppo sì.” “C’è qualcos’altro che devo
sapere?” “Mah… Forse che strada facendo abbiamo accoppato un altro paio di malviventi,
compari di quello mezzo morto sul pullman. Volevano tutti recuperare i cinquanta milioni
finiti accidentalmente in mano nostra.” “Cinquanta milioni?” “Cinquanta milioni. A cui
vanno detratte alcune spese. Per questo pullman, tra l’altro.” “Perché ve ne andate in giro su
un pullman?” “Abbiamo a bordo un elefante.” “Un elefante?” “Si chiama Sonya.” “Un
elefante?” “Asiatico.” “Un elefante?” “Un elefante.” Bosse rimase un attimo in silenzio. Poi
chiese: “È stato rubato anche l’elefante?” “Be’, in realtà no.” Bosse tacque ancora. Poi
domandò: “Pollo arrosto e patate al forno per cena. Va bene?” “Credo proprio di sì,” disse
Benny.
“Incluso anche qualcosa da bere?” chiese dall’interno del pull-man una voce tremula.
Dal momento che il morto che si trovava nella carcassa dell’auto era ancora vivo, Benny
aveva subito ordinato a Julius di risalire sul pullman per prendere la cassetta del pronto
soccorso posta dietro il sedile del conducente. Benny aveva affermato di essere
perfettamente conscio del fatto che il suo intervento avrebbe creato loro ancora più
problemi, ma in qualità di quasi medico doveva pensare alla sua quasi etica professionale,
quindi era assolutamente impensabile lasciar morire dissanguato il tizio.
Dieci minuti dopo avevano ripreso a viaggiare verso la pianura del Västgötaslätten. Una
volta estratto il moribondo da quel che rimaneva dell’auto, Benny lo aveva visitato, aveva
emesso una diagnosi, e servendosi della cassetta del pronto soccorso gli aveva
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somministrato le prime cure. Innanzitutto aveva fatto in modo di fermare il sangue che
fuoriusciva copioso dalla coscia, quindi aveva steccato la frattura all’avambraccio destro.
Allan e Julius si erano spostati sul retro, insieme a Sonya, per far spazio al moribondo
messo di traverso sui sedili anteriori, con Bella che fungeva da infermiera. Benny aveva
constatato che sia il polso sia la pressione sanguigna erano sotto controllo. Grazie a una
massiccia dose di morfina aveva fatto sì che il tizio si addormentasse.
Non appena fu chiaro che gli amici erano davvero i benvenuti nella casa di Bosse, Benny
tornò a visitare il paziente. Il moribondo dormiva ancora profondamente per via della
morfina, e Benny decise che avrebbe aspettato a spostarlo.
Quindi si unì al gruppo nella spaziosa cucina di Bosse. Mentre il padrone di casa era intento
a preparare la cena, a turno gli amici lo informarono delle drammatiche vicende degli ultimi
giorni. Cominciò Allan, poi fu la volta di Julius, poi ancora di Benny con qualche intervento
da parte di Bella, e infine, quando arrivarono alla collisione con la BMW, di nuovo di
Benny.
Bosse aveva udito come avessero perso la vita due persone e come la situazione fosse
tutt’altro che conforme alla legge svedese; c’era soltanto un punto che voleva gli fosse
spiegato: “Vediamo se ho capito bene… Nel pullman c’è un elefante, giusto?” “Sì, ma
domattina lo faremo scendere,” spiegò Bella.
A Bosse non sembrò che ci fosse granché da ridire: spesso la legge diceva una cosa e la
morale un’altra. Bastava considerare la sua ditta: un chiaro esempio di come fosse possibile
accantonare la giustizia finché non si fosse stati in grado di procedere a testa alta.
“Più o meno come hai fatto tu con la nostra eredità,” disse Bosse sarcastico, rivolto a Benny.
“Ah sì? E chi è che ha distrutto completamente la mia moto nuova?” replicò Benny.
“È successo perché tu hai piantato a metà il corso di saldatore,” disse Bosse.
“Io l’ho fatto perché tu mi maltrattavi tutto il tempo.” Sembrava che Bosse avesse già pronta
la replica, ma Allan interruppe i fratelli affermando che aveva girato il mondo e di cose ne
aveva viste tante, ma una in particolare l’aveva colpito, e cioè che i conflitti più grandi e
apparentemente irrisolvibili si basavano sempre sullo stesso presupposto: “Tu sei stupido,
no sei tu lo stupido, no sei tu lo stupido.” La soluzione, proseguì Allan, il più delle volte
consisteva nello scolarsi insieme una bella bottiglia di acquavite intorno ai settantacinque
gradi e guardare al futuro. L’unico triste dettaglio era che Benny era astemio. Allan avrebbe
assunto volentieri la sua quota alcolica, ma l’effetto sarebbe stato diverso.
“E così un’acquavite intorno ai settantacinque gradi risolverebbe il conflitto tra Israele e
Palestina?” chiese stupito Bosse. “Che è ancora più vecchio della Bibbia.” “Probabilmente
in questo caso ci vorrebbe più di una bottiglia,” rispose Allan. “Ma il principio è lo stesso.”
“Può funzionare anche se bevo qualcos’altro, che dite?” s’informò Benny, sentendosi in
colpa per via di quel suo assolutismo nei confronti dell’alcol.
Allan era soddisfatto dell’evolversi della situazione: i litigi tra i fratelli erano cessati. Se ne
compiacque, aggiungendo che l’acquavite veniva usata anche per altri scopi oltre che per
risolvere i conflitti.
L’acquavite doveva aspettare, comunicò Bosse, perché era pronto da mangiare. Pollo arrosto
e patate al forno, con tanto di birra per tutti e succo di frutta per il fratellino.
Mentre la cena stava per iniziare, Per-Gunnar “Capo” Gerdin cominciò a riprendere i sensi.
La testa gli martellava, quando respirava gli faceva male tutto, un braccio doveva essersi
rotto dato che era avvolto in un fazzoletto, e la ferita che aveva alla coscia destra prese a
sanguinargli non appena scese a fatica dall’abitacolo del pullman.
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Precedentemente aveva nascosto la pistola nel vano portaoggetti dell’auto: a quanto pareva
il mondo era popolato di idioti – tranne lui.
La morfina continuava a fare effetto: per questo era in grado di sopportare il dolore ma
aveva qualche problema a mettere in ordine i pensieri. Zoppicando in giro, sbirciò attraverso
le finestre finché non fu sicuro che tutti gli abitanti della casa erano riuniti in cucina, incluso
un pastore tedesco. Oltretutto la porta che dava sul giardino era aperta.
Il Capo entrò saltellando su una gamba, con la pistola nella mano sinistra, ed esordì con
queste parole: “Chiudete immediatamente il cane nella dispensa, altrimenti gli sparo subito.
Mi rimangono altre cinque pallottole nel caricatore, una per ognuno di voi.” Il Capo rimase
stupito della propria calma e compostezza. Bella sembrava più triste che impaurita quando
spinse Buster nella dispensa. La mossa sorprese l’animale, che sembrava sì un po’
preoccupato ma soprattutto felice di trovarsi rinchiuso in una dispensa: impossibile
immaginarsi una vita da cani migliore di quella.
I cinque amici vennero fatti mettere in fila. Il Capo comunicò che la valigia appoggiata
nell’angolo gli apparteneva e intendeva riprendersela. L’eventualità che uno o più dei
presenti fosse ancora in vita dopo che lui si fosse allontanato, dipendeva dalle risposte che
avrebbero avuto le sue domande e da quanto mancava al contenuto della valigia.
Allan ruppe il silenzio dicendo che qualche milione era stato prelevato, ma forse il signor
pistolero poteva comunque rallegrarsi, dal momento che per una serie di circostanze poco
fortunate due dei colleghi del signor pistolero erano morti, pertanto si era ridotto il numero
delle persone con cui il signor pistolero avrebbe dovuto dividere il bottino.
“Bullone e Secchio sono morti?” chiese il Capo.
“Gambero?” esclamò all’improvviso Bosse. “Sei proprio tu! Da quanto tempo!” “Bosse
Bus?” esclamò a sua volta Per-Gunnar “Gambero” Gerdin.
E fu così che Bosse Bus e Gambero Gerdin si abbracciarono al centro della cucina.
“Credo che sopravviverò anche a quest’avventura,” commentò Allan.
Buster fu liberato dalla dispensa, e Benny curò la ferita sanguinante di Gambero Gerdin
mentre Bosse Bus aggiungeva un posto a tavola.
“Mi basta la forchetta,” disse Gambero. “Non posso usare il braccio destro.” “Un tempo eri
davvero bravo col coltello,” ricordò Bosse Bus.
Gambero e Bosse erano stati amici per la pelle, nonché soci in affari. Gambero era il più
impaziente dei due, quello che in ogni situazione voleva sempre spingere le cose oltre i
limiti. Le loro strade si erano divise quando Gambero aveva insistito con quella storia di
importare polpettine di carne svedesi dalle Filippine, da trattare con la formalina per
aumentarne la durata dai tre giorni ai tre mesi (o tre anni: a seconda che si volesse
abbondare o no con la formalina). A quel punto Bosse aveva detto basta. Non intendeva
essere coinvolto nel commercio di cibo potenzialmente mortale. Secondo Gambero, Bosse
esagerava. A suo avviso la gente non tirava le cuoia per un pizzico di sostanze chimiche in
più, e la formalina serviva esattamente al contrario.
Gli amici si erano lasciati da amici. Bosse aveva abbandonato la sua zona d’origine e si era
trasferito nel Västergötland, mentre Gambero aveva derubato, a titolo di prova, una ditta di
merce d’importazione: il successo era stato tale da fargli dimenticare le polpettine,
trasformandolo in un rapinatore a tempo pieno.
All’inizio i due si erano sentiti un paio di volte l’anno, ma con il tempo i contatti si erano
fatti sempre più radi, fino a interrompersi – fino a quando, cioè, Gambero era
inaspettatamente apparso nella cucina di Bosse, barcollando ed esibendo quell’aria bellicosa
107
che l’amico ricordava bene.
Ma la rabbia di Gambero si spense nel momento stesso in cui ritrovò il suo amico e socio di
gioventù, tanto che si accomodò a tavola insieme a Bosse e ai suoi amici. Non poteva farci
niente se avevano liquidato Bullone e Secchio, e per quanto riguardava la valigia e il suo
contenuto ne avrebbero discusso il giorno dopo. Adesso era venuto il momento di godersi la
cena e la birra.
“Alla salute!” disse Per-Gunnar Gambero Gerdin prima di cadere con la faccia dentro il
piatto.
Dopo che lo ebbero ripulito, lo trasportarono e lo stesero sul letto destinato agli ospiti.
Una volta controllato il suo stato di salute, Benny gli iniettò una nuova dose di morfina per
farlo dormire fino al giorno dopo.
Finalmente lui e il resto del gruppo poterono gustarsi il pollo e le patate al forno. Una vera
bontà!
“Questo pollo è una favola!” esclamò Julius, e tutti furono d’accordo con lui nell’affermare
che non avevano mai mangiato niente di più saporito. Qual era il segreto?
Bosse spiegò che importava polli freschi dalla Polonia (“niente schifezze, roba genuina”),
dopodiché iniettava in ogni pennuto un litro della sua speciale combinazione di acqua e
spezie. A quel punto li impacchettava, e dal momento che molto del lavoro di preparazione
veniva eseguito nella pianura del Västgötaslätten gli sembrava giusto definire i suoi polli
“svedesi”.
“Sono due volte più buoni per via del miscuglio di spezie, due volte più pesanti per via
dell’acqua e due volte più richiesti per via della provenienza,” confermò Bosse.
Di colpo gli affari erano esplosi, nonostante lui fosse un piccolo commerciante: tutti
adoravano i suoi polli. Stava molto attento a non vendere a nessun grossista della zona,
perché qualcuno sarebbe potuto passare nei paraggi e scoprire che in tutto il podere di Bosse
non becchettava neanche un pollo.
Era questo che intendeva dire prima, quando aveva parlato della differenza tra legge e
morale, proseguì Bosse. I polacchi non erano mica peggiori degli svedesi nel dar da
mangiare alle galline e poi ucciderle. La qualità non aveva nulla a che vedere con i confini
nazionali.
“La gente è stupida,” sentenziò Bosse. “In Francia la carne francese è la migliore, in
Germania quella tedesca. Lo stesso vale in Svezia. Quindi per il bene di tutti tralascio
qualche particolare.” “Gentile da parte tua,” disse Allan convinto.
Bosse aggiunse che faceva più o meno la stessa cosa con le angurie che importava non dalla
Polonia, ma dalla Spagna e dal Marocco. Le chiamava volentieri spagnole, tanto nessuno
avrebbe creduto che arrivassero da Skövde. Si vendevano bene, dopo che aveva spruzzato
un litro di sciroppo in ognuna.
“Così raddoppiano di peso – ottimo per me – e sono tre volte più buone – ottimo per il
consumatore!” “Anche questo è gentile da parte tua,” disse Allan, sempre convinto.
Bella pensò che per qualcuno forse sarebbe stato meglio evitare di assumere un litro di
sciroppo, ma non disse niente. Meditò anche sul fatto che né lei né nessun altro seduto
intorno a quel tavolo avevano molto da dire in materia di morale. Inoltre l’anguria aveva un
sapore celestiale, come il pollo del resto.
Il commissario Göran Aronsson si trovava al ristorante dell’Albergo Royal Corner di Växjö
e stava mangiando chicken cordon bleu. Il pollo, che non veniva dal Västergötland, era
asciutto e insapore, ma lo buttò giù con l’aiuto di una bella bottiglia di vino.
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A quell’ora il GIP doveva senz’altro aver depositato alcune informazioni nell’orecchio di
qualche giornalista, e il giorno dopo sarebbe ricomparsa l’orda dei reporter. Il GIP
Ranelid aveva ragione: in quel modo sarebbero arrivate nuove soffiate sul luogo in cui si
trovava il pullman giallo dal muso sfondato. Nell’attesa Aronsson poteva restare dov’era.
Tanto non aveva altro da fare: nessuna famiglia, nessun amico, neanche un hobby. Finita
quella strana caccia, avrebbe valutato l’ipotesi di lasciare il servizio.
Il commissario Aronsson terminò la serata con un gin tonic, commiserandosi per la sua triste
storia e immaginando di estrarre l’arma d’ordinanza e far fuoco sul pianista del bar. Se si
fosse mantenuto sobrio e avesse passato in rassegna le informazioni in suo possesso, la
storia avrebbe assunto un’altra piega.
Quella sera stessa, all’“Expressen” si scatenò una breve diatriba di natura linguistica circa il
titolo dell’articolo da piazzare in prima pagina. Alla fine il caporedattore della cronaca
decise che una morte poteva essere un omicidio, due morti potevano essere un duplice
omicidio, ma tre morti non erano comunque un omicidio di massa, come invece avrebbe
desiderato qualcun altro.
Se fosse o meno una buona mossa lo si sarebbe visto in seguito, fatto sta che il risultato fu:
CENTENARIO scomparso sospettato di TRIPLICE OMICIDIO
Ormai al podere di Klockaregård era sera inoltrata e il buonumore regnava sovrano.
Storielle divertenti si susseguivano senza tregua. Bosse riscosse un gran successo quando
andò a prendere la Bibbia, dicendo che avrebbe raccontato la storia che lo aveva costretto in
modo del tutto involontario a leggere quel libro dall’inizio alla fine.
Allan chiese a quale metodo di tortura infernale fossero ricorsi per costringere Bosse a un
tale supplizio, ma le cose stavano diversamente. Nessuno lo aveva obbligato a fare nulla, era
stata la sua curiosità a prendere il sopravvento.
“Io non sono mai stato tanto curioso,” confessò Allan.
Julius gli chiese di smettere di interrompere Bosse, lasciandoche tutti ascoltassero la storia.
Allan rispose che non c’era problema. Bosse riprese a raccontare.
Un giorno di qualche mese prima aveva ricevuto la telefonata di un amico che lavorava alla
discarica alla periferia di Skövde. Si conoscevano dai tempi dell’ippodromo di Axevalla,
dove si incontravano per vedere i loro sogni infrangersi a ogni puntata.
L’amico aveva capito che la coscienza di Bosse ospitava qualche spazio di manovra e che
quest’ultimo era sempre interessato a nuove possibilità di guadagno.
Fatto sta che era arrivato un pancale con cinquecento chili di libri da bruciare, essendo stati
classificati come materiale combustibile e non come letteratura. L’amico di Bosse si era
incuriosito e aveva disfatto l’imballaggio: si era così ritrovato tra le mani una Bibbia (anche
se le sue speranze avevano puntato in tutt’altra direzione).
“Ma non era una Bibbia qualunque,” spiegò Bosse facendone girare un esemplare tra i
presenti. “Parliamo di una Bibbia rilegata in vera pelle, slimline, con fregi in oro, oltre ai
ritratti dei personaggi, cartine a colori, indice…” “Una bella diavoleria,” commentò Bella
impressionata.
“Forse non è la definizione esatta,” la corresse Bosse, “ma capisco cosa intendi.” Anche
l’amico aveva avuto la stessa impressione, e anziché bruciare quella roba aveva telefonato a
Bosse offrendosi di cedergli tutto quanto in cambio di… mille corone per il disturbo.
Bosse aveva accettato subito e il pomeriggio stesso si era trovato cinquecento chili di Bibbie
parcheggiati nel fienile. Per quanto le girasse e rigirasse, non riusciva a trovare nessun
difetto. Alla fine la faccenda lo aveva fatto impazzire, tanto che una sera si era seduto vicino
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al camino del soggiorno e si era messo a leggere da “In principio Dio creò…” in avanti. Per
sicurezza usava la Bibbia della cresima come riferimento. Da qualche parte doveva esserci
un errore di stampa, altrimenti perché distruggere un oggetto così bello e… sacro?
Bosse aveva continuato a leggere, sera dopo sera: il Vecchio Testamento aveva lasciato il
posto al Nuovo, mentre lui procedeva nella lettura confrontando il testo con quello della sua
Bibbia da cresimando – senza trovare nessun errore.
Poi, una sera, era giunto all’ultimo capitolo, alla fine all’ultima pagina e poi all’ultimo
versetto.
Eccolo! Si trattava di un errore di stampa così imperdonabile e inconcepibile da spingere il
proprietario delle Bibbie a bruciarle senza indugio.
A quel punto Bosse distribuì un esemplare a ciascuno dei presenti. Tutti poterono sfogliare
liberamente le pagine fino ad arrivare all’ultimo versetto e, a turno, scoppiare a ridere.
Bosse si accontentava di aver trovato l’errore, non gli interessava sapere perché fosse stato
commesso. La sua curiosità era stata soddisfatta, e aveva letto il suo primo libro dopo la fine
della scuola diventando pure un pochino religioso. Niente lasciava pensare che Bosse
permettesse a Dio di avere un punto di vista sul giro di affari che conduceva a Klockaregård,
né tantomeno che Nostro Signore gli fosse accanto quando presentava la dichiarazione dei
redditi al fisco svedese, ma quanto al resto ora Bosse metteva la sua vita nelle mani del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. In fondo chi poteva obiettare al fatto che nei fine
settimana Bosse si presentasse nei mercatini della Svezia meridionale vendendo Bibbie con
un piccolo errore di stampa? (“99 corone l’una! Santo cielo! Un affare!”)
Se Bosse si fosse interessato alla storia e fosse riuscito a far luce sulla faccenda, avrebbe
potuto raccontare ai suoi amici quanto segue.
Un tipografo che viveva alla periferia di Rotterdam stava attraversando un periodo di grande
crisi esistenziale. Molti anni prima era stato reclutato dai Testimoni di Geova, ma era stato
espulso quando, forse con un po’ troppa insistenza, aveva sollevato la questione del ritorno
di Gesù sulla terra, che l’assemblea aveva previsto non meno di quattordici volte tra il 1799
e il 1980 – sbagliando incredibilmente tutte e quattordici le volte.
A quel punto il tipografo si era avvicinato al pentecostalismo: gli era piaciuta la dottrina
sull’effusione dello Spirito, aveva abbracciato il concetto della vittoria finale di Dio sul
Male, del secondo avvento di Cristo (senza che i pentecostali avessero definito una data), e
l’idea che la maggior parte delle persone che avevano popolato la sua infanzia, suo padre
incluso, sarebbero bruciate all’inferno.
Ma anche in quel caso il tipografo era stato escluso dalla nuova comunità. Questa volta a
causa del fatto che un mese intero di collette sotto la sua custodia era sparito. Il tipografo
aveva negato ogni forma di complicità nella sparizione del denaro. E poi il cristianesimo
non si basava sul perdono? E che colpa aveva se la sua macchina si era rotta e lui aveva
bisogno di un’auto nuova per conservare il proprio posto di lavoro?
Con in corpo una rabbia amara come il fiele, il tipografo si stava preparando a svolgere il
lavoro della giornata che, ironia della sorte, consisteva proprio nello stampare duemila
Bibbie! Si trattava di una commissione arrivata dalla Svezia dove, per quanto ne sapeva,
viveva suo padre, che aveva abbandonato la famiglia quando lui aveva sei anni.
Con le lacrime agli occhi aveva suddiviso e preparato capitolo dopo capitolo, servendosi
dello speciale software usato dalla tipografia. Quando era giunto all’ultimissimo capitolo, il
Libro dell’Apocalisse, era scoppiato. Perché mai Gesù sarebbe dovuto tornare sulla terra?
Tanto il Male aveva il controllo di ogni cosa! Il Male aveva sconfitto il Bene una volta per
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tutte, quindi che senso aveva tutto quanto? E la Bibbia… quella sì che era una vergogna!
Così, con i nervi a pezzi, il tipografo aveva apposto un’aggiunta all’ultimissimo versetto
dell’ultimissimo capitolo della Bibbia svedese prima che questa passasse alle stampe. Il
tipografo non ricordava granché della lingua del padre, tuttavia era riuscito a formulare una
rima che a suo avviso era adattissima al contesto. Gli ultimi versetti della Bibbia, incluso
quello extra aggiunto dal tipografo, erano: 20. Colui che attesta queste cose dice: “Sì, verrò
presto.” Amen, vieni, Signore Gesù.
21. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi.
22. Qui finisce l’avventura del signor Bonaventura.
A Klockaregård intanto era calata la notte. Sia l’acquavite sia l’amore fraterno sgorgavano a
fiumi, e avrebbero continuato a sgorgare se l’astemio Benny non avesse ricordato ai suoi
amici che si era fatto molto tardi. Pose quindi fine a tutta quell’allegria: era venuto il
momento di andare a letto. Le faccende che li attendevano erano tante ed era meglio che il
giorno dopo fossero ben riposati.
“Se fossi curioso di natura, mi chiederei di che umore sarà il tizio al suo risveglio,” disse
Allan.
111
CAPITOLO 16
1948-1953
L’uomo seduto sulla stessa panchina di Allan aveva appena detto: “Good afternoon, Mr
Karlsson.” Dalle sue parole Allan dedusse per prima cosa che non era svedese, altrimenti
avrebbe parlato in svedese. In secondo luogo che sapeva chi era lui, visto che lo aveva
chiamato per nome.
Era vestito in modo impeccabile: cappello grigio con tesa nera, soprabito grigio e scarpe
nere. Avrebbe potuto essere un uomo d’affari. Aveva un aspetto gentile e senz’altro una
missione da compiere. Così Allan chiese in inglese: “Forse la mia vita sta per prendere una
nuova piega?” Il signore rispose che non era possibile stabilirlo a priori, ma aggiunse
gentilmente che dipendeva dal signor Karlsson. La persona che lo aveva mandato fin lì era
pronta a incontrare il signor Karlsson in qualsiasi momento per offrirgli un lavoro.
Allan rispose che, a dire il vero, in quei giorni stava proprio bene, ma certo non avrebbe
potuto restare seduto sulla panchina di un parco in eterno. Così domandò se non fosse
troppo indiscreto chiedere il nome della persona in questione. Per lui sarebbe stato più facile
decidere se accettare o rifiutare sapendo di cosa si trattava. Non era di quell’avviso anche il
signore?
Il signore gentile era perfettamente d’accordo, ma disse che il suo datore di lavoro era un
po’ speciale e avrebbe senza dubbio preferito presentarsi da sé.
“Sarei pronto a condurre il signor Karlsson da questa persona immediatamente, se per lei va
bene.” Sì, certo, per Allan non c’erano problemi. Venne così a sapere che il viaggio sarebbe
stato piuttosto lungo. Se il signor Karlsson desiderava ritirare i suoi effetti personali dalla
camera dell’albergo, il signore gentile lo avrebbe aspettato nella hall. Avrebbe potuto anche
dargli un passaggio, dal momento che la macchina con l’autista li aspettava lì vicino.
Era proprio una bella automobile, una Ford coupé rossa ultimo modello. Con tanto di autista
privato! Un tipo taciturno. Non sembrava gentile come il signore gentile.
“Possiamo saltare l’albergo,” disse Allan. “Sono abituato a viaggiare leggero.” “D’accordo,”
ribatté il signore gentile toccando la spalla all’autista per indurlo a partire.
Il viaggio aveva come meta Dalarö – un’oretta di macchina in direzione sud su strade
tortuose. Allan e il signore gentile conversarono tutto il tempo di questo e quello. Il signore
gentile gli parlò della grandezza infinita dell’opera lirica, mentre Allan gli illustrò come
attraversare l’Himalaya senza morire congelati.
Il sole era ormai tramontato quando la coupé rossa giunse nella piccola località di Dalarö,
durante l’estate assai frequentata da turisti amanti degli arcipelaghi, ma d’inverno
inesorabilmente buia e silenziosa.
“Guarda un po’, allora è qui che abita il mio datore di lavoro,” commentò Allan.
“Non esattamente,” replicò il signore gentile.
L’autista niente affatto gentile del signore gentile non disse una parola, limitandosi a far
scendere Allan e il signore gentile al porto di Dalarö prima di ripartire. Nel frattempo il
signore gentile aveva estratto dal bagagliaio della Ford una pelliccia con cui gentilmente
avvolse le spalle di Allan, scusandosi per quella breve passeggiata nel freddo invernale.
Allan non era tipo da crearsi aspettative inutili (e neanche utili) su quanto sarebbe successo
di lì a poco. Ciò che doveva accadere sarebbe accaduto, e non aveva senso fasciarsi la testa
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in anticipo.
Eppure rimase stupito quando il signore gentile lo condusse dal centro di Dalarö verso il
mare ghiacciato con le sue isolette – nella sera nera come la pece.
Il signore gentile e Allan continuarono a camminare. Di tanto in tanto il primo accendeva
una torcia elettrica che puntava a scatti nell’oscurità, verificando nel frattempo sulla bussola
che la direzione fosse quella giusta. Durante la passeggiata non parlò ad Allan; si limitò a
contare ad alta voce i propri passi – in una lingua che Allan non aveva mai sentito.
Dopo quindici minuti a passo sostenuto nel buio più totale, il signore gentile disse che erano
arrivati. Erano avvolti dalle tenebre, a eccezione di una luce tremolante che si scorgeva su
un’isola in lontananza. Il signore gentile si premurò di informare Allan che quella luce in
direzione sudest veniva da Kymmendö. Un luogo che, per quanto poco se ne sapesse, dal
punto di vista storico-letterario aveva in Svezia la sua importanza. Allan non ne sapeva
niente, ma non ebbe il tempo di approfondire l’argomento perché di colpo la terra cedette
sotto i piedi suoi e del signore gentile.
Il signore gentile aveva sbagliato leggermente i calcoli. O il comandante del sottomarino
non era stato preciso come avrebbe dovuto. Fatto sta che quell’affare lungo novantasette
metri emerse dal ghiaccio in un punto troppo vicino ad Allan e al signore gentile. Entrambi
caddero all’indietro rischiando di finire nelle acque gelate, ma per fortuna la situazione
volse al meglio e Allan fu rimesso in piedi e aiutato a scendere al caldo.
“Questa circostanza conferma come non serva iniziare la giornata cercando di indovinare
cosa accadrà,” constatò Allan. “Voglio dire, quanto tempo ci avrei messo a indovinare tutto
questo?” Dopo aver dichiarato che adesso non era più necessario essere così misteriosi, il
signore gentile si presentò come Julij Borisovič Popov: disse di lavorare per l’Unione delle
Repubbliche Socialiste Sovietiche, di essere non un politico o un militare ma un fisico, e di
essere stato inviato a Stoccolma per convincere il signor Karlsson a seguirlo a Mosca.
L’incarico era stato affidato a Julij Borisovič in vista di una possibile riluttanza da parte del
signor Karlsson, oltre al fatto che il background come fisico di Julij Borisovič sarebbe
probabilmente risultato un elemento favorevole, dato che lui e il signor Karlsson parlavano
in un certo senso la stessa lingua.
“Ma io non sono un fisico,” disse Allan.
“Può darsi, ma il mio informatore afferma che lei è a conoscenza di qualcosa che vorrei
sapere anch’io.” “Ma guarda. E di cosa si tratta?” “La Bomba, signor Karlsson. La Bomba.”
Julij Borisovič e Allan Emmanuel si erano presi reciprocamente in simpatia. Il fatto che
Allan avesse accettato di seguirlo senza neanche sapere per dove, per chi e perché aveva
impressionato positivamente Julij Borisovič, dato che tale atteggiamento denotava una
leggerezza che lui non possedeva. Dal canto suo Allan apprezzò immensamente di poter
parlare per una volta con qualcuno che non cercasse di sbandierargli nessun tipo d’ideologia
politica o religiosa.
Inoltre fu subito chiaro che entrambi erano inguaribilmente affezionati all’acquavite, anche
se uno dei due la chiamava vodka. La sera prima, mentre a essere sinceri teneva d’occhio
Allan Emmanuel nella sala da pranzo del Grand Hôtel, Julij Borisovič aveva provato per
caso la variante svedese. All’inizio gli era sembrata troppo secca, non aveva la morbidezza
di quella russa, ma dopo un paio di bicchierini ci aveva fatto l’abitudine. Dopo altri due
dalle sue labbra era uscito un “Non male” in segno di apprezzamento.
“Anche se questa è meglio,” sentenziò Julij Borisovič mostrando ad Allan un litro intero di
Stolichnaya mentre sedevano tutti soli alla mensa ufficiali. “Adesso è arrivato il momento di
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farci un bicchierino!” “Bene,” fu il commento di Allan. “Finché la barca va…” Già dopo il
primo quantitativo d’alcol Allan aveva messo in atto una riforma dei nomi.
Dire ogni volta Julij Borisovič a Julij Borisovič quando aveva bisogno di richiamare la sua
attenzione alla lunga non poteva funzionare. E personalmente non voleva essere chiamato
Allan Emmanuel, dato che la prima e ultima volta che quel nome era stato utilizzato risaliva
ai tempi di Yxhult, quando era stato battezzato.
“D’ora in poi tu sei Julij e io Allan,” sentenziò Allan. “Altri-menti lascio l’imbarcazione in
quest’istante.” “Non farlo, caro Allan, ci troviamo a duecento metri di profondità,” spiegò
Julij. “Piuttosto beviti un goccetto.” Julij Borisovič Popov era un socialista convinto, il cui
unico desiderio era poter lavorare in nome del comunismo sovietico. Il compagno Stalin
agiva con il pugno di ferro, ma chi gli era fedele e serviva il sistema con convinzione non
aveva nulla da temere. Allan ribatté che lui non aveva alcuna intenzione di servire nessun
sistema, ma poteva dare qualche consiglio a Julij se, come diceva, si trovava a un punto
morto in merito alla questione della bomba atomica. Prima, però, Allan intendeva assaggiare
un altro bicchierino di quella vodka dal nome impronunciabile persino dagli astemi. Inoltre
Julij doveva promettergli che avrebbero continuato così, e cioè senza mai discutere di
politica.
Dopo averlo ringraziato di cuore per la sua offerta di aiuto, Julij ammise senza giri di parole
che il maresciallo Berija, suo diretto superiore, pensava di offrire all’esperto svedese una
somma di centomila dollari americani, a condizione che il suo aiuto si concretizzasse nella
costruzione di una bomba.
“Nessun problema,” sentenziò Allan.
Il contenuto della bottiglia diminuiva a vista d’occhio mentre Allan e Julij parlavano di tutti
gli argomenti esistenti tra il cielo e la terra (a eccezione della politica e della religione).
Affrontarono anche alcune problematiche legate alla bomba atomica, e benché questo fosse
un tema che avrebbero trattato nei giorni successivi Allan diede a Julij un paio di dritte. E un
paio ancora.
“Hmmm,” commentò il capo dei fisici Julij Borisovič Popov. “Credo di capire…” “Io
invece no,” replicò Allan. “Spiegami ancora questa cosa dell’opera lirica. Non si tratta
soltanto di bocche spalancate?” Ridendo, e dopo aver dato una bella sorsata di vodka, Julij
si alzò e cominciò a cantare.
In preda ai fumi dell’alcol non si accontentò di una canzonetta popolare, ma eseguì Nessun
dorma dalla Turandot di Puccini.
“Cazzo,” fu il commento di Allan quando Julij ebbe finito.
“Nessun dorma!” disse Julij con entusiasmo.
I due si addormentarono immediatamente nelle rispettive cuccette all’interno della mensa.
Quando si svegliarono il sottomarino era già alla fonda nel porto di Leningrado, dove li
attendeva una limousine che li avrebbe condotti al Cremlino dal maresciallo Berija.
“San Pietroburgo, Pietrogrado, Leningrado… Quando vi deciderete?” domandò Allan.
“Benvenuto tra noi,” rispose Julij.
Pronti a sobbarcarsi il viaggio della durata di un giorno che li avrebbe portati da Leningrado
a Mosca, Julij e Allan presero posto sui sedili posteriori di una limousine Humber Pullman.
Un vetro scorrevole divideva l’abitacolo dell’autista dal… salotto… dove si trovavano Allan
e il suo nuovo amico. C’era persino un frigobar con tanto di acqua, bibite e tutto l’alcol
senza il quale i passeggeri in questione non sarebbero sopravvissuti. C’erano persino due
ciotole, una piena di gelatine al lampone e l’altra di praline al cioccolato fondente. La
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vettura e i suoi interni avrebbero potuto essere uno splendido esempio di arte sovietica, se la
vettura non fosse stata importata dall’Inghilterra.
Julij raccontò ad Allan del suo passato: tra le altre cose, aveva studiato insieme al premio
Nobel Ernest Rutherford, il leggendario fisico nucleare neozelandese. Ecco perché parlava
così bene l’inglese. Dal canto suo Allan riferì a un sempre più stupito Julij Borisovič le sue
avventure in Spagna, America, Cina, sull’Himalaya e in Iran.
“Che fine ha fatto il pastore anglicano?” chiese Julij.
“Non lo so,” rispose Allan. “O è riuscito ad anglicizzare l’Iran o è morto. L’ipotesi meno
credibile è una via di mezzo tra le due.” “Un po’ come sfidare Stalin in Unione Sovietica,”
commentò Julij con onestà. “A parte il fatto che si tratterebbe di un atto criminale contro la
rivoluzione, la prognosi di sopravvivenza sarebbe pessima.” Quel giorno, in compagnia di
Allan, la sincerità di Julij sem--brava infinita: senza peli sulla lingua confessò ciò che
pensava del maresciallo Berija, il capo della polizia segreta che in tutta fretta e senza troppo
entusiasmo era diventato il principale responsabile della missione nucleare sovietica. In
breve, Berija era un individuo privo di scrupoli: abusava sessualmente di donne e bambini e
spediva nei gulag gli elementi sgraditi quando non li uccideva di persona.
“Cerca di capirmi,” precisò Julij. “Gli elementi sgraditi vanno eliminati il più velocemente
possibile, ma si deve trattare soltanto di coloro che offendono i fondamenti della
rivoluzione. Chi non è al servizio del comunismo deve sparire! Ma chi non è al servizio del
maresciallo Berija… No, lasciamo perdere, Allan. Non è un rappresentante genuino della
rivoluzione. Tuttavia di questo non si può incolpare il compagno Stalin. Non ho mai avuto
l’onore di incontrarlo, ma è a capo di una nazione intera, quasi di un intero continente. Se ha
affidato in fretta e furia al maresciallo Berija più responsabilità di quante lui non sia in grado
di sopportare… è nei suoi diritti! E adesso, caro Allan, ti sto per dire qualcosa di grandioso:
questo pomeriggio tu e io saremo ricevuti non soltanto dal maresciallo Berija, ma anche dal
compagno Stalin in persona! Pensava di invitarci a cena.” “Non vedo l’ora,” commentò
Allan. “Ma prima di cena? È previsto che viviamo di gelatine al lampone?” Julij ordinò che
la limousine si fermasse in una cittadina lungo la strada per comprare un paio di tramezzini.
Poi il viaggio riprese, con le sue interessanti conversazioni.
Masticando, Allan meditava su quel maresciallo Berija che, in base alla descrizione di Julij,
presentava alcune somiglianze con l’allora prematuramente scomparso capo della polizia di
Teheran.
Julij, dal canto suo, si sforzava di analizzare il collega svedese che tra non molto avrebbe
cenato con Stalin e aveva detto di non vederne l’ora. Fu tuttavia costretto a chiedergli se
l’affermazione riguardava la cena o l’incontro con il capo supremo.
“Per sopravvivere si deve mangiare,” rispose Allan diplomaticamente, prima di elogiare la
qualità dei tramezzini russi. “Ma, caro Julij, ti spiace se ti faccio una domanda o due?”
“Assolutamente no, caro Allan. Chiedi pure, farò del mio meglio per risponderti.” Allan
disse che non aveva prestato molta attenzione alle parole di Julij quando si era messo a
parlare di politica, perché non era un argomento che lo appassionava. Inoltre ricordava bene
la sua promessa della sera prima, e cioè che non ne avrebbe parlato.
Ciò che aveva colpito Allan era stata la descrizione delle carenze umane del maresciallo
Berija, dal momento che era convinto di aver già incontrato persone del genere. Ed era qui
che Allan era andato in confusione. Da un lato questo maresciallo Berija, se aveva inteso
bene, era un essere privo di scrupoli, dall’altro aveva riempito Allan di gentilezze e riguardi,
con limousine e quant’altro.
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“Quello che mi domando è perché non mi abbia semplicemente fatto rapire e costretto a
confessare tutto con la violenza. Avrebbe risparmiato le gelatine al lampone, le praline al
cioccolato fondente, centomila dollari e un mucchio di altre cose.” Julij affermò che le
considerazioni di Allan toccavano un tasto dolente: il maresciallo Berija aveva più di una
volta – in nome della rivoluzione – torturato persone innocenti.
Julij sapeva come stavano le cose. Adesso però la situazione era tale che, disse Julij
trascinando le parole, era tale che, ripeté aprendo il frigobar alla ricerca del conforto di una
birra, pur essendo solo mezzogiorno, era tale che… confessò Julij, che il maresciallo Berija
era appena incorso in un fallimento ricorrendo proprio alla strategia a cui Allan aveva
accennato. Un esperto occidentale era stato rapito in Svezia e condotto dal maresciallo
Berija, ma il tutto era finito malamente. Julij si scusava ma non intendeva aggiungere
ulteriori dettagli, e Allan doveva credere alle sue parole: l’insegnamento tratto da
quell’azione sventurata era stato che, da quel momento in poi, i servizi necessari alla
missione nucleare sovietica sarebbero stati acquistati secondo le leggi vigenti nel mercato
occidentale basato su domanda e offerta, per quanto tutto ciò potesse risultare poco elegante.
La missione nucleare sovietica aveva avuto inizio nell’aprile del 1942 con una lettera inviata
dal fisico Georgij Nikolaevič Fljorov al compagno Stalin, in cui si segnalava che nei media
occidentali alleati non si sentiva parlare né si scriveva alcunché sulla fissione nucleare da
quando era stata scoperta, nel 1939.
Il compagno Stalin, che non era certo nato ieri (benché suo padre, convinto del contrario, gli
avesse fatto passare l’infanzia a suon di botte), la pensava proprio come Fljorov: un silenzio
totale di tre anni sull’argomento non poteva significare altro se non che c’era molto da dire.
Per esempio, che qualcuno stava costruendo una bomba che in un sol colpo avrebbe dato
all’Unione Sovietica – per usare un’immagine tipicamente russa – scacco matto.
Non c’era tempo da perdere, se non fosse stato per un piccolo dettaglio, e cioè che Hitler e
la Germania nazista erano impegnati a occupare zone dell’Unione Sovietica che
comprendevano i territori a ovest del Volga, inclusa Mosca e, ancora peggio, Stalingrado!
La battaglia di Stalingrado divenne una questione, come dire, personale per Stalin.
Morirono un milione e mezzo di uomini ma l’Armata rossa ebbe la meglio, costringendo
Hitler alla ritirata che l’avrebbe portato fino al bunker della Cancelleria di Berlino.
Fu soltanto quando i tedeschi diedero segno di cedimento che Stalin ebbe la certezza che lui
e la sua nazione avevano un futuro, pertanto bisognava accelerare la ricerca sulla fissione
nucleare, da considerare come una variante più moderna della polizza sulla vita da tempo
nota con il nome di Ribbentrop-Molotov.
Del resto le bombe atomiche non si potevano certo costruire in un giorno, soprattutto se non
erano ancora state inventate. La missione nucleare sovietica proseguiva da un paio d’anni
senza alcun risultato quando un giorno ci fu un’esplosione in New Mexico. Gli americani
avevano vinto la corsa atomica e l’idea che ci fossero riusciti con grande anticipo era un
pensiero niente affatto divertente. All’esplosione di prova nel deserto del New Mexico ne
seguirono altre due più serie: la prima a Hiroshima e la seconda a Nagasaki. Truman aveva
preso per il naso Stalin dimostrando la propria superiorità.
Non era necessario conoscere bene Stalin per capire quanto la situazione gli fosse sgradita.
“Datti da fare,” disse il compagno Stalin al maresciallo Berija. “O, per essere più chiari:
Datti da fare!” Il maresciallo Berija si rese conto che i suoi fisici, chimici e matematici
erano giunti a un punto morto, ma non aveva senso spedirne la metà nei gulag. Né
possedeva informazioni tali da indicare che i suoi infiltrati stessero per accedere ai luoghi
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più reconditi della base di Los Alamos negli Stati Uniti. Per il momento sembrava poco
fattibile mettere le mani sui dati elaborati dagli americani.
La soluzione fu la seguente: avrebbero cercato di importare notizie da integrare alle
conoscenze già in possesso del centro di ricerche nascosto nella città segreta di Sarov, a
qualche ora d’auto a sudest di Mosca. Visto che il maresciallo Berija pretendeva il meglio,
disse al capo dell’attività di spionaggio internazionale: “Vedi di portarmi Albert Einstein.”
“Ma… Albert Einstein…” replicò scioccato il capo degli agenti segreti.
“Albert Einstein è il più gran cervellone al mondo. Hai intenzione di obbedire o preferisci
morire?” domandò il maresciallo Berija.
Il capo degli agenti segreti aveva appena conosciuto una donna e non c’era nessun’altra al
mondo con il suo profumo, quindi non aveva alcuna voglia di morire.
Tuttavia, prima che avesse il tempo di comunicarlo al suo superiore, il maresciallo Berija lo
anticipò: “Datti da fare. O, per essere più chiari: Datti da fare!” Non si trattava soltanto di
rapire Albert Einstein per recapitarlo a Mosca, bisognava prima scoprire dove fosse. Era
nato in Germania, ma poi si era trasferito in Italia e in Svizzera e in America, e da allora
aveva viaggiato qua e là in tutti i luoghi possibili e immaginabili per tutti gli scopi possibili
e immaginabili.
Attualmente viveva nel New Jersey, ma secondo gli agenti sguinzagliati sul posto la casa era
vuota. Inoltre il maresciallo Berija preferiva che il rapimento avvenisse in Europa. Trafugare
una celebrità dagli Stati Uniti al di là dell’Atlantico poteva avere le sue conseguenze.
Ma dove si trovava il tipo? Avvertiva raramente, se non mai, prima di mettersi in viaggio, ed
era famoso per arrivare con parecchi giorni di ritardo anche agli incontri più importanti.
Il capo degli agenti segreti elaborò un breve elenco dei probabili luoghi di transito di
Einstein, e in ciascuno di essi mise di guardia uno dei suoi uomini. Si trattava della sua
abitazione nel New Jersey e della villa del suo migliore amico a Ginevra. Inoltre, il capo
degli agenti segreti prese in considerazione il suo editore a Washington e altri due amici,
uno a Basilea e l’altro a Cleveland, Ohio.
Ci vollero giorni di paziente attesa, ma alla fine la ricompensa arrivò sotto forma di un
uomo in cappotto grigio dal bavero alzato, guanti e cappello. Stava camminando lungo la
strada che costeggiava la residenza ginevrina del miglior amico di Albert Einstein, Michele
Besso. Dopo aver suonato il campanello, l’uomo fu accolto con affetto dallo stesso Besso e
da una coppia di anziani su cui era il caso di indagare. L’agente di guardia chiamò a
supporto un collega che stava svolgendo lo stesso incarico a Basilea, a duecentocinquanta
chilometri di distanza, e dopo ore e ore trascorse a sbirciare dalle finestre e a comparare le
fotografie che si erano portati con sé, i due agenti giunsero alla conclusione che l’uomo che
si era appena recato in visita al suo miglior amico era proprio Albert Einstein. I due anziani
sembravano essere il cognato di Michele Besso, Paul, e sua moglie Maja, sorella di Albert
Einstein. Era in corso una festa di famiglia!
Albert rimase due giorni a casa dell’amico, tenuto costantemente sotto controllo insieme alla
sorella e al marito di lei, finché, infilatosi il cappotto, i guanti e il cappello, se ne andò con la
stessa discrezione con cui era arrivato.
Appena girato l’angolo fu assalito alle spalle e trascinato di peso sul sedile posteriore di
un’auto dove venne addormentato con del cloroformio. Quindi, attraverso l’Austria, fu
trasportato in Ungheria, abbastanza in sintonia con l’Unione Sovietica da non porre troppe
domande quando i russi espressero il desiderio di atterrare all’aeroporto militare di Pécs per
fare rifornimento, caricare due cittadini sovietici e un uomo molto addormentato, per poi
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ripartire immediatamente verso una destinazione sconosciuta.
Il giorno dopo alla sede della polizia segreta di Mosca ebbe inizio l’interrogatorio di Albert
Einstein, presieduto dal maresciallo Berija. La questione era se Einstein fosse disposto o
meno a collaborare, se tenesse alla propria incolumità, o se invece volesse fare un
ostruzionismo che di certo non sarebbe servito a niente.
Purtroppo fu la seconda ipotesi a prevalere. Albert Einstein disse di non aver degnato di un
solo pensiero la fissione nucleare (pur essendo di dominio pubblico che già nel 1939 aveva
parlato della faccenda al presidente Roosevelt. Dalla chiacchierata era nato il cosiddetto
Progetto Manhattan.) E, cosa ancor più grave, Albert Einstein non ammise neanche di essere
Albert Einstein, sostenendo con vana testardaggine di essere il fratello più giovane di Albert
Einstein, Herbert. Il punto era che Albert Einstein non aveva nessun fratello, ma solo una
sorella, e né il maresciallo Berija né il responsabile dell’interrogatorio intendevano cadere
nel suo tranello. Stavano quasi pensando di ricorrere alla violenza quando a New York, a
molte migliaia di chilometri di distanza, avvenne qualcosa di molto strano.
Lì, alla Carnegie Hall, Albert Einstein stava tenendo una conferenza di carattere divulgativo
sulla teoria della relatività davanti a duemilaottocento invitati speciali, di cui almeno tre in
contatto con l’Unione Sovietica.
Due Albert Einstein erano un po’ troppi per il maresciallo Berija, anche se uno dei due si
trovava sul lato opposto dell’A-tlan-ti-co. Fu abbastanza semplice concludere che quello
vero era alla Carnegie Hall, quindi chi cazzo era l’altro?
Sotto la minaccia di subire cose che nessun essere umano avrebbe voluto subire, il falso
Albert Einstein giurò che avrebbe chiarito tutto al maresciallo Berija.
“Il signor maresciallo avrà il quadro completo della situazione a patto che non mi
interrompa, perché in tal caso mi innervosirei.” Il suddetto promise che lo avrebbe interrotto
unicamente con un proiettile alla tempia, se quanto stava per dire si fossero rivelate soltanto
bugie.
“Prego, cominci pure. Non mi costringa a interrompere,” sentenziò il maresciallo Berija
togliendo la sicura alla pistola.
Herbert, dopo un lungo respiro… e trattenendolo a lungo (il colpo non partì per un pelo),
iniziò a parlare.
Seguì un racconto che, se era vero, era talmente triste che il maresciallo Berija non se la
sentì di liquidare subito il narratore.
Herbert Einstein raccontò che in effetti Hermann e Pauline Einstein avevano avuto due figli:
prima il maschio Albert e poi la femmina Maja. Fino a quel punto il maresciallo aveva
perfettamente ragione, tuttavia non era a conoscenza del fatto che papà Einstein non aveva
saputo tenere le mani lontane dalla bella ma intellettualmente assai limitata segretaria della
ditta di Monaco da lui diretta. Il risultato fu la nascita di Herbert, fratello illegittimo di
Albert e Maja.
Come gli agenti segreti avevano potuto vedere, Herbert era quasi la copia di Albert, anche se
aveva tredici anni di meno. Quello che invece non si poteva vedere era che,
disgraziatamente, Herbert aveva ereditato il cervello della madre. O meglio la sua assenza di
cervello.
Quando Herbert compì due anni, nel 1895, la famiglia Einstein si trasferì da Monaco a
Milano. Herbert faceva parte del bagaglio, ma non sua madre. Papà Einstein le aveva offerto
una soluzione adeguata, ma la madre di Herbert aveva rifiutato. Non aveva intenzione di
sostituire i bratwurst con gli spaghetti, e il tedesco con… quella lingua, come diavolo si
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chiamava, che usavano in Italia. Inoltre il bebè le aveva creato un mucchio di fastidi:
piangeva quando voleva mangiare e se la faceva addirittura addosso! Se qualcuno voleva
portarselo via non c’erano problemi, lei sarebbe rimasta dov’era.
Per vivere, la madre di Herbert ricevette una bella sommetta da papà Einstein. Quello che
successe in seguito fu che incontrò un vero conte, che la convinse a investire tutti i suoi
soldi in un marchingegno quasi completato, in grado di produrre un elisir di lunga vita
capace di curare qualsiasi malattia. Dopodiché il conte all’improvviso scomparve,
evidentemente portando con sé anche l’elisir, giacché l’indigente mamma di Herbert morì
qualche anno dopo di tubercolosi.
In un certo senso Herbert crebbe insieme ai fratelli maggiori Albert e Maja, ma per evitare
lo scandalo papà Einstein aveva stabilito che Herbert venisse chiamato figlioccio, non figlio.
Herbert non aveva mai avuto un rapporto stretto con il fratello, ma amava sinceramente la
sorella anche se era costretto a chiamarla cugina.
“In sintesi,” disse Herbert Einstein, “sono stato abbandonato da mia madre, ripudiato da mio
padre – e sono intelligente come un sacco di patate. Non ho mai fatto niente di utile in vita
mia, ho vissuto esclusivamente dell’eredità di mio padre e non ho mai elaborato un pensiero
degno di tale nome.” Durante il racconto il maresciallo Berija aveva abbassato la pistola e
rimesso la sicura.
La storia poteva anche essere vera, e Berija provò persino una certa ammirazione per la
conoscenza di sé che quello svitato di Herbert Einstein mostrava di possedere.
E adesso cosa doveva fare? Si alzò pensoso dalla sedia e prese a passeggiare nella sala degli
interrogatori. Per sua tranquillità, e in nome della rivoluzione, mise da parte ogni giudizio.
Aveva già un problema da risolvere, non gliene serviva un altro. Il maresciallo si girò verso
le due guardie davanti alla porta: “Sbarazzatevi di lui.” Quindi lasciò la stanza.
La figuraccia fatta con Herbert Einstein non sarebbe stata un valido argomento di
discussione con il compagno Stalin, ma il maresciallo Berija doveva avere qualche santo in
paradiso perché, prima che lui facesse in tempo a cadere in disgrazia, alla base di Los
Alamos in New Mexico accadde qualcosa.
Nel corso degli anni più di centotrentamila individui erano stati coinvolti nel cosiddetto
Progetto Manhattan, e naturalmente più di uno fra loro era fedele alla rivoluzione
comunista.
Eppure nessuno era riuscito a infiltrarsi ai piani alti, in modo da consentire all’Unione
Sovietica di impadronirsi dei segreti più segreti riguardanti la bomba atomica.
Ora, però, era emersa una notizia che valeva oro: era stato uno svedese a trovare la
soluzione all’enigma e se ne conosceva il nome!
Dopo aver messo in moto l’intero sistema di spionaggio sovietico, non ci volle più di mezza
giornata per scoprire che Allan Karlsson alloggiava al Grand Hôtel di Stoccolma e passava
il suo tempo senza fare alcunché, dal momento che il responsabile della missione nucleare
svedese, ufficialmente segreta ma in cui i russi si erano già infiltrati, aveva comunicato a
Karlsson che le sue competenze non erano richieste.
“C’è da chiedersi chi possegga il primato della stupidità,” commentò il maresciallo Berija
tra sé. “Il responsabile della missione nucleare svedese o la madre di Herbert Einstein…”
Questa volta il maresciallo Berija scelse una tattica diversa. Allan Karlsson sarebbe stato
convinto a contribuire in cambio di una sostanziosa ricompensa in dollari americani. Lo
avrebbe persuaso Julij Borisovič Popov, fisico anche lui, e non un goffo agente segreto, che
invece (per sicurezza) avrebbe svolto il ruolo di autista privato del suddetto fisico, molto
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simpatico e quasi altrettanto competente, a capo del gruppo di ricerca sulle armi atomiche
voluto da Berija.
Gli venne riferito che tutto procedeva secondo i piani: Julij Borisovič era di ritorno a Mosca
insieme ad Allan Karlsson – e quest’ultimo si era detto disposto a collaborare.
L’ufficio moscovita del maresciallo Berija si trovava all’interno delle mura del Cremlino:
era stato il compagno Stalin a volerlo. Il maresciallo accolse personalmente Allan Karlsson
e Julij Borisovič quando i due apparvero all’ingresso.
“Benvenuto, signor Karlsson,” disse stringendogli la mano.
“Grazie, signor maresciallo,” rispose Allan.
Il maresciallo Berija non era tipo da chiacchierare solo per il gusto di farlo: a suo avviso la
vita era troppo corta (inoltre, socialmente parlando, era un imbranato). Si espresse dunque
così: “Se ho ben interpretato le relazioni che mi sono pervenute, signor Karlsson, lei è
disposto a fornire assistenza all’Unione Sovietica per quanto concerne la questione nucleare
in cambio di una ricompensa di centomila dollari.” Allan ribatté che non aveva pensato
molto ai soldi, ma avrebbe dato volentieri una mano a Julij Borisovič se questi aveva
bisogno di aiuto, e a quanto pareva ne aveva.
Inoltre sarebbe stato grato al signor maresciallo se avesse potuto aspettare l’indomani per la
bomba atomica, perché ultimamente aveva viaggiato molto ed era stanco.
Il maresciallo Berija replicò che era comprensibilissimo che il lungo tragitto avesse minato
le forze del signor Karlsson, ma di lì a poco avrebbero dovuto cenare con il compagno
Stalin; dopodiché il signor Karlsson sarebbe stato libero di riposarsi nella più bella suite che
il Cremlino potesse offrire.
Il compagno Stalin non aveva badato a spese per la cena. C’erano salmone e aringhe e
cetriolini e insalata di carne e verdure alla griglia e borsch e pelmeni e blini al caviale e trota
di fiume e involtini e cotolette d’agnello e pierogi e gelato. Il tutto accompagnato da vini di
colore diverso e ovviamente da vodka. E ancora vodka.
Al tavolo sedevano il compagno Stalin in persona, Allan Karlsson di Yxhult, il fisico
nucleare Julij Borisovič Popov e il capo della polizia segreta maresciallo Lavrentij Pavlovič
Berija, oltre a un giovane esile senza nome e senza davanti nulla da mangiare e da bere. Era
l’interprete, praticamente invisibile.
Stalin era di ottimo umore: Lavrentij Pavlovič non lo deludeva mai! Ovviamente gli era
giunta all’orecchio la voce sulla figuraccia con Einstein, ma ormai era acqua passata. In
fondo Einstein (quello vero!) poteva fare affidamento soltanto sul proprio cervello, mentre
era Karlsson a possedere la conoscenza di tutti i dettagli necessari!
Oltretutto, da come gli aveva raccontato i suoi trascorsi, questo Karlsson sembrava un tipo
simpatico. Suo padre aveva militato con i socialisti in Svezia, per poi trasferirsi in Russia
per la stessa causa. Davvero encomiabile! Il figlio aveva invece combattuto durante la
guerra civile spagnola, ma per non sembrare sgarbato Stalin non gli aveva chiesto in quale
fazione. In seguito si era recato in America (in fuga, supponeva Stalin), dove le circostanze
lo avevano costretto a lavorare al servizio degli alleati… E lo si poteva anche scusare: in un
certo senso verso la fine della guerra anche Stalin lo aveva fatto.
Già pochi minuti dopo l’arrivo della portata principale, Stalin aveva imparato a cantare in
svedese “Trinca, trinca, trinca e buttalo giù con una spinta” ogni volta che si alzava il
bicchiere. Allan rimase ammirato dalla sua voce, tanto che Stalin gli spiegò che in gioventù
aveva cantato in un coro, oltre che come solista ai matrimoni. Detto questo, si alzò e gli
mostrò la sua abilità, mettendosi a zampettare per la stanza, agitando gambe e braccia e
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cantando una melodia che ad Allan sembrò quasi… indiana… ma bella!
Allan non sapeva cantare, non sapeva nulla di cultura popolare, ma l’atmosfera sembrava
esigere da lui qualcosa di più che “Trinca, trinca”, e l’unica cosa che gli venne in mente fu
la poesia di Verner von Heidenstam che i bambini erano costretti a imparare a memoria in
seconda elementare.
Non appena Stalin si fu seduto, Allan si alzò in piedi e declamò: Svezia, Svezia, o nostra
patria, la dimora del nostro anelare, il nostro focolare sulla terra.
Adesso ascoltiamo le sue fonti, dove gli eserciti furono illuminati dai roghi e le loro gesta
divennero leggenda, ma mano nella mano il tuo popolo inneggia rispondendo come prima
alle antiche parole di fedeltà.
All’età di otto anni Allan non ci aveva capito granché, e anche adesso, recitando quelle
parole con partecipazione, si rese conto che, trentasette anni dopo, non era ancora riuscito ad
afferrarne il significato. Ma aveva recitato in svedese, per cui l’invisibile traduttore russoinglese era rimasto seduto in silenzio, invisibile più che mai.
Allan annunciò (quando finirono gli applausi) che aveva declamato Verner von Heidenstam.
Ma avrebbe fatto meglio a evitare, o forse, se avesse previsto la reazione di Stalin, avrebbe
potuto modificare leggermente la verità.
Il punto, infatti, era che il compagno Stalin si considerava un poeta, peraltro bravo. Era stato
lo spirito dei tempi a trasformarlo in un rivoluzionario. Il che poteva essere giudicato
alquanto poetico, visto che Stalin aveva comunque mantenuto intatto il suo interesse per la
lirica, oltre alle sue conoscenze sui poeti contemporanei più illustri.
Per Allan era una seccatura, ma Stalin conosceva bene Verner von Heidenstam e a
differenza di lui era perfettamente consapevole del suo amore per la… Germania. Un amore
corrisposto, tanto che il braccio destro di Hitler, Rudolf Hess, negli anni Trenta si era recato
a casa di Heidenstam per rendergli omaggio e subito dopo quest’ultimo era stato insignito
della laurea honoris causa dall’Università di Heidelberg.
Tutto questo mutò drasticamente l’umore di Stalin.
“Il signor Karlsson sta forse insultando l’ospite che generosamente lo ha accolto a braccia
aperte?” domandò Stalin.
Allan lo rassicurò che non era affatto sua intenzione. Se era stato Heidenstam a irritare tanto
il signor Stalin, allora Allan chiedeva profondamente scusa. Che Heidenstam fosse morto da
diversi anni poteva forse essere una consolazione?
“E questo trincatrincatrinca cosa significa in realtà? È un tributo ai nemici della rivoluzione
quello che è riuscito a far pronunciare a Stalin?” chiese Stalin, che quando era alterato
parlava di sé in terza persona.
Allan rispose che aveva bisogno di un momento per tradurre trincatrincatrinca in inglese,
ma il signor Stalin poteva mettersi tranquillo, non era altro che un’esortazione alla felicità.
“Un’esortazione alla felicità?” ripeté il compagno Stalin ad alta voce. “Al signor Karlsson
sembra che Stalin sia felice?” Allan stava cominciando a stancarsi di quel tono offensivo.
Stalin era diventato paonazzo per quanto si era scaldato, oltretutto senza alcun motivo. Poi
continuò: “E come sono andate veramente le cose durante la guerra civile spagnola? O forse
sarebbe meglio chiedere al signor amante di Heidenstam per chi combatteva?” Aveva anche
un sesto senso quel bastardo? si chiese Allan. Ormai era così arrabbiato che tanto valeva
dirgli come stavano le cose.
“A essere sinceri non ho combattuto per davvero, signor Stalin. Prima ho aiutato i
repubblicani e poi, per via di una serie di strane circostanze, ho cambiato fazione diventando
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buon amico del generale Franco.” “Il generale Franco?” prese a urlare Stalin alzandosi con
una foga tale da far cadere la sedia.
A quanto pareva era possibile che si arrabbiasse ancora di più. Nel corso della sua vita tanto
ricca di eventi ad Allan era già successo che qualcuno gli ruggisse contro, ma si era sempre
rifiutato di rispondere con lo stesso tono e non aveva alcuna intenzione di cominciare con
Stalin. Questo però non significava che non fosse turbato, anzi.
Cominciava a provare una forte antipatia per quel pallone gonfiato seduto al lato opposto
del tavolo, quindi decise di passare al contrattacco. A modo suo.
“Non solo, signor Stalin. Sono stato in Cina a lottare contro Mao Tse-tung, prima di passare
in Iran e sventare un attentato contro Churchill.” “Churchill? Quel porco!” urlò Stalin.
Stalin torno in sé per un attimo: il tempo di tracannare un bicchiere colmo di vodka.
Allan lo guardò invidioso, anche lui ne avrebbe voluto un altro, ma forse non era il
momento di esprimere desideri di quel tipo.
Il maresciallo Berija e Julij Borisovič non dissero niente, ma avevano espressioni diverse
dipinte sul volto: Berija guardava Allan furibondo, mentre Julij sembrava soltanto infelice.
Rinsaldato dalla vodka che si era appena scolato, Stalin riportò il tono di voce a un livello
normale. Era comunque sempre arrabbiato.
“Il compagno Stalin ha capito bene?” chiese. “Tu sei stato dalla parte di Franco, hai
combattuto contro il compagno Mao, hai… salvato la vita a quel maiale di Londra e hai
messo nelle mani degli ultracapitalisti americani l’arma più letale di tutti i tempi?” “Il
compagno Stalin ha forse esagerato un po’, ma nella sostanza ha detto bene. A proposito,
alla fine mio padre passò dalla parte dello zar, se il signor Stalin vuole segnare anche questo
a mio sfavore.” “Che io possa essere dannato,” mormorò Stalin, dimenticandosi per la
rabbia di parlare in terza persona. “E adesso sei qui per venderti al socialismo sovietico?
Centomila dollari, è questo il valore della tua anima? O il prezzo è salito nel corso della
cena?” A quel punto ad Allan era passata la voglia di collaborare. Julij rimaneva sempre una
cara persona ed era lui ad aver bisogno d’aiuto in quella faccenda, ma sarebbe stato meglio
evitare che il risultato del lavoro di Julij finisse nelle mani del compagno Stalin, che a
quanto pareva non era niente affatto un compagno, sembrava piuttosto uno psicolabile, e
tutto sarebbe filato più liscio se non si fosse messo a giocare con la bomba atomica.
“Be’, non è mai stata una questione di sold…” Allan non riuscì a completare la frase che
Stalin esplose di nuovo.
“Chi ti credi di essere, lurido topo di fogna?” sbraitò. “Pensi che tu, un esponente del
fascismo, del disgustoso capitalismo americano, di quanto di peggio esiste sulla terra e che
Stalin disprezza intensamente, che tu, tu, possa venire qui al Cremlino, al Cremlino, a
mercanteggiare con Stalin, a mercanteggiare con Stalin?” “Perché ripeti sempre le cose due
volte?” chiese Allan mentre Stalin continuava: “L’Unione Sovietica è pronta a riprendere la
guerra, sappilo! Ci sarà guerra, ci sarà guerra inevitabilmente finché l’imperialismo
americano non verrà distrutto.” “Ma dai…” commentò Allan.
“Per combattere e vincere non abbiamo bisogno della tua maledettissima bomba atomica!
Quello di cui c’è bisogno sono anime e cuori socialisti! Chi sa di non poter essere sconfitto,
non lo sarà mai!” “Se nessuno gli fa cadere sulla testa una bomba atomica,” precisò Allan.
“Distruggerò il capitalismo! Mi senti? Distruggerò ogni singolo capitalista! E comincerò da
te, cane, se non ci aiuterai con la bomba!” Allan constatò di essere stato chiamato “topo di
fogna” e “cane” nel giro di qualche secondo. E che Stalin non doveva stare poi così bene se
credeva ancora di poter ricorrere al suo aiuto.
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Ma Allan non aveva più intenzione di starsene lì seduto a subire insulti. Era venuto a Mosca
per dare una mano, non per essere trattato come un cane. Stalin se la sarebbe cavata da solo.
“Ho pensato a una cosa,” disse Allan.
“Cosa?” chiese Stalin furioso.
“Perché non ti rasi quei baffi?” A quel punto la cena finì perché l’interprete svenne.
I piani furono cambiati in tutta fretta. Allan non alloggiò mai nella più bella suite del
Cremlino, ma fu sbattuto in una cella priva di finestre nelle cantine della polizia segreta
russa. Alla fine il compagno Stalin aveva deciso che l’Unione Sovietica avrebbe avuto la sua
bomba atomica grazie ai calcoli dei propri scienziati o ricorrendo a del sano spionaggio.
Non avrebbero più rapito nessun occidentale, e soprattutto non avrebbero mai più
mercanteggiato con nessun capitalista o fascista o entrambe le cose.
Julij era molto triste, non soltanto perché era stato lui a convincere quel simpaticone di
Allan a venire fino in Unione Sovietica dove ora lo attendeva una morte certa, ma anche
perché il compagno Stalin aveva mostrato degli squilibri enormi! Era intelligente, istruito,
un bravo ballerino e aveva persino una bella voce. Ma era completamente privo di senno!
Era bastato che Allan citasse il poeta sbagliato e in pochi istanti una piacevole cenetta si era
trasformata in una… catastrofe.
A rischio della propria vita Julij cercò di parlare con cautela, con grande cautela al
maresciallo Berija della futura esecuzione di Allan, vedendo se non fosse possibile trovare
un’alternativa.
Ma su quel punto Julij aveva giudicato male il suo superiore. Anche se, a quanto pareva,
abusava di donne e bambini, lasciava torturare e uccidere colpevoli e innocenti, e per quanto
disgustosi fossero i suoi metodi, il maresciallo Berija lavorava in tutta coscienza per il bene
dell’Unione Sovietica.
“Non inquietarti, caro Julij Borisovič, il signor Karlsson non morirà. Almeno non ora.” Il
maresciallo Berija gli spiegò che avrebbe tenuto Allan Karlsson come riserva, qualora Julij
Borisovič e i suoi colleghi scienziati avessero continuato a fallire nelle loro ricerche per un
periodo di tempo più lungo di quello ritenuto accettabile. Nella spiegazione era insita una
velata minaccia, di cui il maresciallo Berija era assai soddisfatto.
In attesa del processo Allan rimase seduto dov’era, in una delle tante celle della polizia
segreta. L’unica cosa che accadeva a parte il niente assoluto era che ogni giorno gli
venivano serviti una pagnotta, trenta grammi di zucchero e tre pasti caldi (minestra di
verdura, minestra di verdura e minestra di verdura).
Il cibo del Cremlino era decisamente migliore di quello servito in carcere, ma Allan pensava
che, se anche la minestra aveva il sapore che aveva, perlomeno se la poteva godere in pace,
senza che nessuno gli urlasse contro minacce inconcepibili.
La nuova dieta durò sei giorni, prima che il collegio speciale della polizia segreta lo
convocasse in tribunale. L’aula si trovava, proprio come la cella di Allan, nell’enorme sede
della polizia segreta in piazza Lubjanka, ma alcuni piani più su. Allan venne messo a sedere
su una sedia davanti a un giudice barricato dietro un leggio. Alla sinistra del giudice c’era il
pubblico ministero, un uomo dall’aspetto burbero, e alla destra il difensore di Allan, un altro
uomo dall’aspetto burbero.
Prima il pubblico ministero disse qualcosa in russo che Allan non capì. Poi toccò
all’avvocato, che a sua volta disse qualcosa in russo che neanche questa volta Allan capì. A
quelle parole il giudice annuì apparentemente pensoso, prima di leggere per sicurezza un
promemoria e pronunciare la sentenza: “Il collegio speciale condanna Allan Emmanuel
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Karlsson, cittadino del Regno di Svezia, in quanto elemento pericoloso per la società
sovietica, a trent’anni di campo di lavoro correttivo a Vladivostok.” Il giudice informò il
condannato che la sentenza poteva essere impugnata, e in quel caso il ricorso andava
presentato al Soviet supremo entro tre mesi a partire da quel giorno. Il difensore di Allan
comunicò tuttavia che il signor Karlsson non intendeva procedere. Il signor Karlsson era
invece riconoscente per la mitezza della pena.
Ad Allan non fu mai chiesto se fosse o meno riconoscente, ma la sentenza aveva
innegabilmente i suoi lati positivi. Innanzitutto perché all’imputato venne risparmiata la
vita, cosa rara quando si era classificati come elementi pericolosi, e poi perché sarebbe
finito nel gulag di Vladivostok, dove il clima era decisamente più sopportabile che nel resto
della Siberia. Lì il tempo non era certo peggiore di quello a casa sua nel Sörmland, mentre
più a nord e all’interno del paese si arrivava a cinquanta, sessanta o settanta gradi sottozero.
In fondo Allan era stato fortunato. Fu spinto su un vagone ferroviario pieno di spifferi,
insieme a trenta altri fortunati dissidenti freschi di condanna. Ai prigionieri erano state
distribuite tre coperte ciascuno, dal momento che il fisico nucleare Julij Borisovič Popov
aveva corrotto la guardia e il suo superiore con un bel mucchio di rubli. Al superiore
sembrava strano che un cittadino così altolocato si interessasse di un trasporto così
miserabile, tanto che per un attimo valutò l’ipotesi di fare rapporto sull’accaduto, ma poi si
ricordò che aveva appena preso dei soldi ed era meglio non sollevare polveroni.
Non fu facile per Allan trovare qualcuno con cui conversare durante il viaggio. Quasi tutti
parlavano soltanto russo, ma un uomo sui cinquantacinque anni sapeva l’italiano, e dal
momento che Allan parlava bene lo spagnolo i due si intendevano abbastanza.
Allan fu perciò in grado di capire che l’uomo era profondamente infelice, e si sarebbe tolto
la vita se soltanto, per sua stessa ammissione, oltre a tutto il resto non fosse stato anche un
codardo. Allan cercò di consolarlo dicendogli che forse le cose si sarebbero risolte da sé
quando il treno fosse giunto in Siberia, dato che, secondo lui, se il tempo fosse peggiorato
difficilmente là le tre coperte sarebbero state sufficienti.
Tirando su col naso l’italiano si riprese, e ringraziando Allan per l’aiuto gli strinse la mano.
Comunque non era italiano d’origine, ma tedesco. Si chiamava Herbert.
Preferiva tralasciare il cognome.
Herbert Einstein non aveva mai avuto fortuna nella vita. Per via di un errore burocratico era
stato condannato, proprio come Allan, a trent’anni di campo di lavoro correttivo invece che
alla morte, alla quale anelava immensamente.
E a causa delle coperte supplementari non morì neppure di freddo nella tundra siberiana.
Oltretutto il mese di gennaio del 1948 fu il più mite che si ricordasse da anni.
Allan gli promise che avrebbe avuto altre occasioni. Erano diretti a un campo di lavoro:
forse avrebbe potuto morire proprio di quello, che ne pensava?
Sospirando, Herbert rispose che era troppo pigro per quel genere di cose, e non ne sapeva
molto dato che in vita sua non aveva mai lavorato.
A quel punto Allan vide uno spiraglio di luce: in un campo di lavoro non si poteva mica
bighellonare e basta, quindi le guardie gli avrebbero garantito una massiccia dose di
piombo.
A Herbert piacque il pensiero, ma al tempo stesso rabbrividì. Il piombo non faceva forse un
male cane?
Allan Karlsson non aveva grandi esigenze: gli bastavano un letto, cibo a sufficienza,
qualcosa da fare, e a intervalli regolari un goccetto d’acquavite. In tal caso era in grado di
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sopportare quasi ogni cosa. Il gulag di Vladivostok offriva tutto ciò, a eccezione
dell’acquavite.
A quel tempo la città portuale di Vladivostok consisteva in una zona franca e in una
recintata. Quella recintata era circondata da uno steccato alto due metri, al cui interno si
trovavano le quaranta baracche marroni del campo di lavoro, disposte su quattro file. Lo
steccato arrivava fino al molo. Le imbarcazioni che andavano caricate e scaricate dai
prigionieri attraccavano all’interno dello steccato, le altre all’esterno. Quasi ogni operazione
veniva svolta dai detenuti; erano soltanto i pescherecci più piccoli e dotati di equipaggio a
fare tutto da sé, oltre a qualche petroliera di stazza particolarmente massiccia.
Con poche eccezioni, i giorni nel campo di lavoro correttivo di Vladivostok erano tutti
uguali. La levata nelle baracche era alle sei, la colazione alle sei e un quarto. Il lavoro
durava dodici ore, dalle sei e mezzo di mattino alle sei e mezzo di sera, con una pausa
pranzo di trenta minuti a mezzogiorno. Subito dopo il lavoro si cenava, quindi si veniva
rinchiusi nuovamente nelle baracche fino al mattino successivo.
Il vitto era passabile: perlopiù pesce, raramente sotto forma di zuppa. Le guardie non erano
propriamente gentili, ma almeno non sparavano alla gente inutilmente. Perfino a Herbert
Einstein fu risparmiata la vita, benché in contrasto con le sue aspirazioni. Era vero che si
dava da fare meno degli altri deportati, ma visto che stava sempre appiccicato a quel gran
lavoratore di Allan nessuno notò mai niente.
Allan non aveva nulla in contrario a lavorare per due. Tuttavia introdusse subito la regola
per cui a Herbert non era permesso lamentarsi di continuo, dal momento che la sua memoria
funzionava benissimo. Quindi continuare a ripetere la stessa cosa non serviva a niente.
Herbert obbedì e le cose andarono per il meglio. Tutto bene, insomma.
A parte l’acquavite. Allan aveva scontato cinque anni e tre settimane quando disse: “Voglio
bermi un goccetto. E qui non posso. Perciò è venuto il momento di muoversi.”
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CAPITOLO 17
Martedì 10 maggio 2005
Per il nono giorno di fila il sole primaverile inondava ogni cosa, e anche se il mattino faceva
ancora fresco Bosse apparecchiò in veranda per la colazione.
Benny e Bella aiutarono Sonya a scendere dal pullman e la condussero sul prato verde dietro
casa. Allan e Gambero Gerdin, seduti insieme sul dondolo, oscillavano avanti e indietro
lentamente. Uno aveva cent’anni, all’altro sembrava di averne altrettanti: gli faceva male la
testa, le costole rotte gli rendevano difficoltosa la respirazione e il braccio destro era fuori
uso. Ma il dolore più forte veniva dalla ferita alla coscia destra.
Dopo averle dato un’occhiata Benny suggerì di fasciarla più tardi, ma di cominciare subito
con un paio di analgesici. La morfina l’avrebbero usata la sera, se necessario.
Benny ritornò da Sonya, lasciando Allan e Gambero soli. Allan pensò che per loro fosse
giunto il momento di parlare da uomo a uomo. Esordì dicendo che gli spiaceva che… si
chiamava Bullone?… che Bullone avesse finito i suoi giorni nei boschi del Sörmland e
che… Secchio?… fosse rimasto schiacciato dal peso di Sonya poco dopo. Comunque, sia
Bullone sia Secchio si erano comportati in modo particolarmente minaccioso, e forse quella
poteva essere un’attenuante, non la pensava così anche il signor Gambero?
Gambero Gerdin rispose che gli spiaceva sentire che i ragazzi erano morti, ma non era
particolarmente sorpreso che fossero stati sopraffatti da un centenario, benché quest’ultimo
si fosse valso di qualche aiuto esterno. Erano sempre stati due cretini patentati. L’unico che
riusciva a batterli in fatto di idiozia era il quarto membro del club, Caracas, che aveva
appena lasciato il paese ed era in viaggio verso qualche posto del Sudamerica, Gambero non
sapeva bene da dove venisse.
A Gambero Gerdin si formò un nodo in gola: era triste perché soltanto Caracas era in grado
di comunicare con i trafficanti di droga in Colombia, e adesso per i suoi affari gli era venuto
a mancare sia il traduttore sia lo scagnozzo. Si trovava lì seduto, senza sapere quante ossa
avesse rotte e senza la più pallida idea di cosa avrebbe fatto in futuro.
Allan lo consolò dicendo che esisteva sicuramente qualche altra droga che il signor
Gambero avrebbe potuto vendere. Allan non era particolarmente informato su come
funzionassero le cose, ma il signor Gambero e Bosse non potevano mettersi a coltivare
qualcosa nei campi lì intorno?
Gambero rispose che Bosse era il suo migliore amico, ma seguiva una dannatissima morale
tutta sua. Se non fosse stato così, sarebbero potuti diventare i re delle polpettine di carne di
tutta Europa.
Bosse interruppe il flusso di malinconia alimentato dal dondolo, annunciando che la
colazione era pronta. Finalmente Gambero poté assaggiare il pollo più gustoso del mondo e
un’anguria che sembrava importata direttamente dal regno dei cieli.
Finita la colazione Benny si occupò della ferita alla coscia di Gambero, quindi annunciò che
avrebbe schiacciato un pisolino, se gli amici lo scusavano. Nessun problema.
Nelle ore successive a Klockaregård avvenne quanto segue.
Benny e Bella allestirono il fienile in modo che diventasse la stalla di Sonya.
Julius e Bosse si recarono a fare la spesa a Falköping, dove videro le prime pagine dei
giornali e i bollettini di guerra riguardanti il centenario e il suo seguito che, a detta dei
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reporter, stavano imperversando in tutta la Svezia.
Dopo colazione Allan tornò a sedersi sul dondolo: si era imposto di fare con calma e di non
strapazzarsi. Possibilmente in compagnia di Buster.
Gambero dormiva.
Al loro rientro Julius e Bosse indissero una riunione in cucina. Persino Gambero Gerdin fu
costretto ad alzarsi dal letto, dato che non poteva mancare.
Julius esordì raccontando ciò che lui e Bosse avevano appena visto su tutte le prime pagine
dei giornali. Chi lo desiderava avrebbe potuto leggere ogni riga alla fine della riunione, ma
per farla breve ciascuno di loro era citato, a eccezione di Bosse e di Gambero che, secondo
alcuni articoli, era morto.
“Affermazione non del tutto esatta, ma davvero deprimente,” commentò l’interessato.
Julius proseguì dicendo che essere sospettati di omicidio, benché lo si potesse chiamare con
un altro nome, era una cosa seria. Poi cedette la parola agli altri: cosa ne pensavano di
telefonare alla polizia affinché la giustizia facesse il suo corso?
Prima che qualcuno avesse il tempo di esprimere la propria opinione, Gambero Gerdin
intervenne affermando che chi avesse avuto intenzione di costituirsi sarebbe dovuto passare
sul suo corpo mezzo morto.
“Se così stanno le cose, voglio subito la mia pistola. A proposito, dove l’avete cacciata?”
Allan rispose di averla nascosta in un posto sicuro, alla luce di tutte le strane medicine che
Benny iniettava al signor Gambero… Questi non era forse d’accordo che l’arma restasse
dov’era ancora un giorno?
Sì, perché no, ma a patto che lui e il signor Karlsson la smettessero di rivolgersi l’uno
all’altro in modo così formale.
“Io sono Gambero,” disse Gambero stringendo la mano al vegliardo.
“E io sono Allan,” disse Allan. “Piacere di conoscerti.” Con la minaccia di ricorrere alla
pistola (benché non l’avesse sottomano), Gambero stabilì che nessuno avrebbe rivelato
alcunché né alla polizia né al GIP. La sua esperienza diceva che raramente la giustizia era
giusta come avrebbe dovuto essere.
Erano d’accordo con lui anche gli altri, considerando la brutta fine che avrebbero potuto fare
qualora questa volta la giustizia si fosse dimostrata giusta.
Il risultato di quella rapida deliberazione fu che avrebbero immediatamente nascosto il
pullman giallo nel magazzino di Bosse insieme a un carico di angurie non ancora trattate. Fu
anche stabilito che l’unico a poter lasciare il podere senza il permesso del gruppo era Bosse,
visto che non era né ricercato né presunto morto.
La questione su come si sarebbero comportati in futuro, per esempio rispetto alla valigia con
i soldi e al denaro che era stato scialato a destra e a manca, fu rinviata a un altro momento.
O, come disse Gambero Gerdin: “Mi viene mal di testa al solo pensiero e poi male al torace
quando apro la bocca per dire che mi fa male la testa. Sarei disposto a pagare cinquanta
milioni per un analgesico.” “Eccotene due,” precisò Benny. “E pure gratis.” Per il
commissario Aronsson quella fu una giornata molto intensa. Grazie all’attenzione dei media,
continuavano a piovere soffiate sul possibile nascondiglio del presunto triplice omicida e dei
suoi compagni. Ma l’unica informazione su cui decise di fare affidamento fu quella giunta
dal vicecapo della polizia di Jönköping, Gunnar Löwenlind, che diceva di essersi imbattuto
sulla E4 a sud di Jönköping, all’altezza di Råslätt, in uno Scania giallo con la parte anteriore
piuttosto ammaccata e un faro fuori uso. Se non fosse stato che proprio in quel momento il
nipotino aveva cominciato a vomitare nel seggiolino dell’auto, Löwenlind avrebbe chiamato
127
subito i colleghi della polizia stradale per avvisarli, ma purtroppo era andata così.
Il commissario Aronsson, seduto per la seconda sera di fila al bar dell’Albergo Royal Corner
di Växjö, ebbe di nuovo la brutta idea di analizzare la situazione con la mente offuscata
dall’alcol.
“E4 in direzione nord,” meditò. “Stanno ritornando nel Sörm-land? O pensano di
nascondersi a Stoccolma?” Decise che avrebbe lasciato l’albergo il giorno dopo e sarebbe
rientrato a casa, nel suo deprimente alloggio nel centro di Eskilstuna. Il bigliettaio Ronny
Hulth di Malmköping aveva perlomeno un gatto da abbracciare. Göran Aronsson neanche
quello, pensò scolandosi l’ultimo grog della serata.
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CAPITOLO 18
1953
Nel corso di quei cinque anni e tre settimane Allan aveva imparato bene il russo e ripreso a
parlare il cinese. Il porto era un luogo assai animato, dove era facile entrare in contatto con i
marinai di passaggio informati su quanto accadeva nel mondo.
Tra le altre cose l’Unione Sovietica aveva fatto esplodere la sua prima bomba atomica,
esattamente un anno e mezzo dopo l’incontro di Allan con Stalin, Berija e quel simpaticone
di Julij Borisovič. In Occidente era sorto il sospetto che si fosse trattato di spionaggio, dato
che l’ordigno era stato costruito seguendo gli stessi principi usati nell’“esplosione americana
di Trinity”. Allan si era sforzato di ricordare quali suggerimenti poteva aver dato a Julij
durante il viaggio in sottomarino mentre tracannavano vodka dalla bottiglia.
“Sono fermamente convinto che tu possieda l’arte di bere e ascoltare contemporaneamente,
caro Julij Borisovič,” era stato il commento di Allan.
Era anche venuto a sapere che Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna avevano riunito le
rispettive zone d’occupazione per costituire una Repubblica Federale Tedesca. L’iroso Stalin
aveva perciò creato una Germania a parte, con il risultato che adesso ce n’erano due, una
occidentale e una orientale, soluzione che ad Allan era parsa assai pratica.
Il re di Svezia era morto: Allan aveva potuto leggere la notizia su un quotidiano britannico
finito in circostanze sconosciute nelle mani di un marinaio cinese, il quale si era ricordato
del prigioniero svedese di Vladivostok con cui parlava la sua lingua madre e glielo aveva
portato. Il re era morto da quasi un anno quando Allan lo era venuto a sapere, ma in fondo
non era poi così importante: era stato subito sostituito, quindi la nazione non ne aveva
sofferto.
L’argomento di cui i marinai parlavano di più era la guerra in Corea: cosa abbastanza
normale, visto che la Corea si trovava a soli duecento chilometri di distanza.
Allan aveva capito che era andata così: la penisola coreana non era più unita da quando si
era conclusa la Seconda guerra mondiale. Fraternamente, Stalin e Truman avevano occupato
ognuno la propria parte di territorio facendo in modo che il trentottesimo parallelo dividesse
il nord dal sud. A quel punto avevano avuto inizio delle diatribe su come la Corea potesse
autogovernarsi, ma dal momento che Stalin e Truman non si erano trovati molto d’accordo
sulla gestione futura (a dire il vero, per niente), il risultato era stato analogo a quello della
Germania: gli Stati Uniti avevano creato una Corea del Sud, a cui l’Unione Sovietica aveva
contrapposto una Corea del Nord. Dopodiché avevano abbandonato i corea-ni a loro stessi.
Purtroppo le cose non erano andate benissimo. Sia Kim Il-sung a nord sia Syngman Rhee a
sud ritenevano di essere rispettivamente pronti a governare l’intera penisola.
Così era scoppiata la guerra.
Ma dopo tre anni e qualcosa come quattro milioni di caduti non era successo nulla (a parte il
fatto che erano morti in tanti): il nord era ancora nord e il sud era ancora sud.
Divisi dal trentottesimo parallelo.
Per quanto riguardava il tanto agognato cicchetto, e cioè lo scopo principale per cui Allan
intendeva evadere dal gulag, la mossa più naturale sarebbe stata salire furtivamente a bordo
di una delle imbarcazioni che attraccavano e ripartivano dal porto di Vladivostok.
Purtroppo, però, nel corso degli anni lo stesso pensiero era venuto ad almeno altri sette
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amici di Allan, e tutti e sette erano stati acciuffati e fucilati. Ogni volta il dolore aveva
lasciato il segno negli abitanti delle baracche. Soprattutto Herbert Einstein sembrava averne
sofferto, ma soltanto Allan sapeva che pativa tanto perché non era toccato a lui.
Salire a bordo di una nave presentava un problema piuttosto elementare: tutti i prigionieri
indossavano una divisa a strisce bianche e nere che rendeva loro impossibile confondersi tra
i marinai. Inoltre lo stretto passaggio che conduceva al porto era sorvegliato a vista, e cani
da guardia ben addestrati annusavano ogni carico che veniva depositato a bordo delle
imbarcazioni con l’aiuto delle gru.
Oltretutto non era facile trovare una nave che accettasse di traghettare un passeggero
clandestino. Molte delle merci erano dirette in Cina, altre a Wŏnsan, sulla costa orientale
della Corea del Nord. Era logico supporre che un comandante cinese o nordcoreano che
avesse scoperto in mezzo al proprio carico un deportato, o lo avrebbe rispedito al mittente o
lo avrebbe buttato a mare (con lo stesso risultato, ma glissando la burocrazia).
No, fuggire via mare era complicato. Ma nemmeno via terra sembrava semplice.
Attraversare la Siberia settentrionale con il rischio di congelare non era un’alternativa
percorribile. Mentre a ovest c’era la Cina.
Rimaneva la Corea del Sud, dove di certo si sarebbero presi cura di un fuggiasco reduce dal
gulag, in quanto presunto nemico del comunismo. Peccato che in mezzo ci fosse la Corea
del Nord.
Da qualsiasi parte la si guardasse la faccenda era poco allegra. Allan lo aveva capito prima
ancora di imbastire un piano che gli permettesse di fuggire via terra in direzione sud.
Comunque non aveva senso ammazzarsi di pensieri, altrimenti addio acquavite!
Era meglio tentare la fuga da solo o insieme a qualcuno? Nel secondo caso si sarebbe
trattato di Herbert l’infelice. Avrebbe potuto tornargli utile nella fase dei preparativi. E poi
sarebbe stato più divertente scappare in due.
“Fuggire?” disse Herbert Einstein. “Via terra? Nella Corea del Sud? Attraverso la Corea del
Nord?” “Sì, più o meno. Per il momento si tratta di un’ipotesi.” “Le probabilità di successo
sono microscopiche,” commentò Herbert.
“Esatto.” “Allora ci sto!” concluse Herbert.
Dopo cinque anni, tutto il gulag sapeva che nella testa del prigioniero numero 133 non c’era
un gran movimento, e persino in quel contesto una così scarsa attività cerebrale sembrava
incredibile.
Con il passare del tempo le guardie avevano adottato un atteggiamento benevolo nei
confronti di Herbert Einstein: se, quando era ora, qualsiasi altro deportato non si fosse
messo in fila per ricevere la sua razione di cibo, la cosa migliore che gli poteva capitare era
un rimprovero, quella meno bella il calcio di un fucile nello stomaco, mentre la peggiore un
grazie tante e addio.
Dopo cinque anni, Herbert non era ancora in grado di trovare la baracca giusta. Erano tutte
marroni e delle stesse dimensioni, e questo lo mandava in confusione. Il cibo veniva servito
sempre tra la baracca 13 e la 14, ma il prigioniero numero 133 era capace di bloccarsi alla
numero 7. O alla 19. O alla 25.
“Dannazione, Einstein,” ripetevano le guardie. “La fila è laggiù. No, non lì, ma là! Là dove
è sempre stata!” Allan pensava di sfruttare la cosa a suo vantaggio. Fuggire con la divisa da
deportato era senz’altro possibile, ma essere vivi qualche minuto dopo con la stessa divisa lo
era molto meno. Allan e Herbert avevano bisogno di un’uniforme militare. L’unico in grado
di avvicinarsi al deposito delle uniformi senza rischiare di essere immediatamente fucilato
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era il prigioniero numero 133, Einstein.
Così Allan istruì l’amico su quanto avrebbe dovuto fare: si trattava di “andare nella
direzione sbagliata” all’ora di pranzo, visto che in quel momento anche il personale addetto
al deposito si prendeva una pausa. Durante quella mezz’ora il posto era sorvegliato
unicamente dal soldato dietro una mitragliatrice in cima alla torretta di guardia. Anche lui,
come tutti gli altri, era a conoscenza delle particolarità del prigioniero numero 133, e
qualora lo avesse visto si sarebbe messo presumibilmente a sbraitare contro Herbert
piuttosto che crivellarlo di proiettili. E se anche le previsioni di Allan si fossero rivelate
sbagliate non sarebbe stata la fine del mondo, dato che morire era il desiderio costante di
Herbert.
A quest’ultimo sembrava che il ragionamento di Allan filasse. Ma allora cosa doveva fare?
Ovviamente Herbert si perse, ma seguendo la strada giusta, e per la prima volta da chissà
quanto tempo finì dritto nella fila in attesa della distribuzione del pranzo. C’era anche Allan,
che con un sospiro lo spinse verso il deposito delle uniformi. Ma non servì a nulla: Herbert
sbagliò di nuovo, e prima di capire dove fosse si ritrovò in lavanderia, tra una montagna di
uniformi appena lavate e stirate!
Ne prese due, le nascose sotto il cappotto e si diresse alle baracche. Venne subito
individuato dal soldato sulla torretta, che non si prese neanche la briga di sbraitare; gli parve
infatti che l’idiota si stesse dirigendo verso la propria baracca.
“Fantastico,” borbottò prima di riprendere a fare quello che stava facendo, e cioè sognare a
occhi aperti.
Allan e Herbert avevano ciascuno la propria uniforme militare, che li avrebbe trasformati in
due orgogliose reclute dell’Armata rossa. Ora mancava tutto il resto.
Negli ultimi tempi Allan aveva notato un aumento significativo di navi dirette verso
Wŏnsan, nella Corea del Nord. Uffi-cialmente l’Unione Sovietica non era scesa in guerra a
fianco dei nordcoreani, ma a Vladivostok erano cominciate ad arrivare via treno grandi
quantità di attrezzature belliche che venivano poi caricate a bordo delle navi, tutte con la
stessa destinazione. Non che fosse scritto da qualche parte, ma alcuni marinai avevano la
lingua lunga e Allan aveva l’abitudine di fare domande. In alcuni casi era addirittura
possibile sbirciare il carico – mezzi militari o carri armati – mentre in altri si trattava di
container di legno.
Allan stava studiando una manovra simile a quella attuata a Teheran sei anni prima.
Pensava che, come dicevano i saggi, si dovessero sfruttare le proprie conoscenze, pertanto
qualche piccolo fuoco d’artificio poteva essere d’aiuto. Fu a quel punto che entrarono in
scena i container diretti a Wŏnsan. Allan non lo sapeva con certezza, ma riteneva che alcuni
di questi trasportassero materiale esplosivo, e forse uno dei container avrebbe potuto
incendiarsi nella zona portuale e saltare in aria… Sì. Allora, Allan e Herbert si sarebbero
nascosti per infilarsi le uniformi… sì… per poi riuscire a procurarsi un’automobile… che
però doveva avere le chiavi inserite nel cruscotto e il serbatoio pieno, oltre al fatto che il
proprietario non doveva segnalarne la scomparsa. I cancelli sotto sorveglianza dovevano
aprirsi su comando di Allan e Herbert, e fuori dal gulag e dal porto nessuno doveva
sospettare nulla di strano, nessuno doveva avere bisogno dell’auto rubata e nessuno doveva
seguirli. E tutto questo prima ancora che avessero pensato a come entrare nella Corea del
Nord e – soprattutto – a come spostarsi in un secondo tempo da nord a sud.
“Sono tardo di comprendonio,” disse Herbert, “ma mi sembra di capire che il tuo piano non
sia completo.” “Non sei tardo di comprendonio,” protestò Allan. “Sì, forse leggermente, ma
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in questo caso hai perfettamente ragione. E più ci penso più sono dell’idea che dobbiamo
lasciar fare al destino. Sarà quel che sarà, e solitamente finisce tutto bene. Solitamente.” La
prima e unica parte del piano di fuga consisteva dunque nel riuscire a incendiare il container
giusto. Per farlo erano necessari: 1) un container; 2) qualcosa con cui appiccare il fuoco. In
attesa che attraccasse la nave utile al primo scopo, Allan mandò nuovamente in missione
quel deficiente di Herbert Einstein. Questi riuscì a impadronirsi di un razzo di segnalazione,
che nascose nei pantaloni prima che una guardia scoprisse che Herbert si trovava in un
luogo dove non aveva nessun diritto di trovarsi. Invece di sparargli o perlomeno di
perquisirlo, la guardia urlò che dopo cinque anni il prigioniero numero 133 doveva smetterla
di andare in giro senza meta. Scusandosi, Herbert si allontanò con passo incerto. E sbagliò
volutamente direzione.
“La tua baracca è a sinistra, Einstein,” urlò la guardia. Fino a dove poteva arrivare la
stupidità delle persone?
Allan si complimentò con Herbert per l’ottimo lavoro e l’eccellente interpretazione.
Quest’ultimo arrossì, cercando di sviare il discorso e affermando che non è poi così difficile
interpretare la parte dello scemo se lo si è di natura. Allan rispose che non ne era poi così
sicuro, dato che i cretini che aveva incontrato finora avevano sempre cercato di apparire
intelligenti.
Finalmente giunse il giorno X. Era la mattina del 1° marzo 1953 e faceva freddo quando
arrivò un treno con un numero tale di vagoni che né Allan né tantomeno Herbert riuscirono
a tenerne il conto. Il trasporto era evidentemente di natura bellica e l’intero carico andava
trasferito su tre navi, tutte dirette in Corea del Nord. C’erano anche otto carri armati T-34
impossibili da nascondere, mentre il resto era imballato in robusti container di legno senza
alcuna indicazione circa il loro contenuto. Le assi dei container non erano abbastanza strette
da impedire il passaggio di un razzo di segnalazione, che Allan puntualmente piazzò appena
ne ebbe l’occasione, dopo mezza giornata di lavoro passata a scaricare e caricare.
Dal container cominciò a uscire del fumo, ma prima che il razzo esplodesse passò qualche
secondo che permise ad Allan di allontanarsi e non venire sospettato dell’accaduto. Nel giro
di poco tempo il container cominciò a bruciare, e neanche i quindici gradi sottozero
riuscirono a fermare l’incendio.
Secondo il piano di Allan le fiamme avrebbero fatto detonare una granata o qualcosa del
genere. Le guardie si sarebbero trasformate in galline impazzite, mentre Allan e Herbert si
sarebbero infilati nella loro baracca per travestirsi di tutto punto.
Il problema fu che lo scoppio previsto non avvenne e la nube di fumo si fece sempre più
fitta. La situazione peggiorò quando le guardie, che si tenevano a distanza di sicurezza,
ordinarono ai prigionieri di buttare acqua sul container in fiamme.
Uno alla volta, tre prigionieri nascosti dal fumo tentarono di scavalcare lo steccato alto due
metri per raggiungere la zona franca del porto. Il soldato di guardia sulla torretta li avvistò
immediatamente. Posizionatosi dietro la mitragliatrice, prese a vomitare proiettili nella loro
direzione, e dal momento che usava proiettili traccianti i fuggitivi vennero colpiti
ripetutamente e caddero a terra. Se non erano ancora morti lo furono sicuramente un
secondo dopo, dato che la guardia non solo aveva crivellato di colpi i tre malcapitati, ma
aveva anche centrato il container alla sinistra di quello a cui Allan aveva dato fuoco. Il
container di Allan trasportava millecinquecento coperte, quello accanto millecinquecento
granate. I proiettili traccianti contengono fosforo, e quando il primo finì sulla prima granata
questa esplose in un decimo di secondo, dando fuoco anche alle restanti
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millequattrocentonovantanove. L’esplosione fu così violenta che altri quattro container
furono sbalzati di diverse decine di metri.
Il quinto container della fila trasportava settecento mine antiuomo; ci fu perciò una
deflagrazione della stessa violenza della prima, con il conseguente balzo di altri quattro
container in tutte le direzioni.
Allan e Herbert avevano chiamato il caos e caos fu. Ed era soltanto l’inizio, perché le
fiamme lambivano container dopo container. Uno trasportava diesel e benzina, un altro
munizioni che presero a vivere di vita propria. Due delle torrette di guardia e otto delle
baracche furono divorate dalle fiamme prima ancora che entrassero in azione i bazooka.
Uno abbatté la torretta numero tre, mentre il secondo, che si trovava nell’edificio d’ingresso
del gulag, fece saltare il posto di blocco e tutto il resto.
Al molo erano ancorate quattro navi che vennero incendiate da altri bazooka. A quel punto
esplose un altro container pieno di granate, dando il via a una reazione a catena che
coinvolse anche l’ultimo container della fila con un ulteriore carico di bazooka.
Questi ultimi mutarono direzione puntando verso la zona franca del porto, dove una
petroliera con a bordo sessantacinquemila tonnellate di petrolio era in fase di attracco.
Un razzo colpì l’area di comando dell’imbarcazione e la nave cominciò ad andare alla
deriva. Altri tre razzi si abbatterono sulla fiancata, facendo propagare un incendio ancora più
vasto di quelli scoppiati finora.
La petroliera in fiamme scivolò lungo il molo verso il centro della città. Nel suo ultimo
viaggio mandò in fumo qualsiasi cosa per un tratto di 2,2 chilometri. Oltretutto quel giorno
si alzò il vento da sudest. Non ci vollero più di venti minuti prima che – letteralmente
parlando – l’intera Vladivostok fosse avvolta dalle fiamme.
Il compagno Stalin stava per concludere una piacevole cenetta con i sottoposti Berija,
Malenkov, Bulganin e Chruščёv nella residenza di Krylatskoe, quando venne raggiunto dal
messaggio che Vladivostok di fatto non esisteva più per via di un incendio divampato in un
container pieno di coperte.
Quel messaggio ebbe uno strano effetto su Stalin… Il suo nuovo delfino, l’energico Nikita
Sergeevič Chruščёv, chiese se poteva pronunciarsi sulla gestione della faccenda. Stalin lo
esortò a farlo.
“Caro compagno Stalin, il mio consiglio è di far finta che non sia successo niente.
Suggerisco che Vladivostok venga immediatamente chiusa al traffico, e che noi ci
dedichiamo pazientemente alla sua ricostruzione trasformandola in una base per la nostra
flotta sull’Oceano Pacifico, proprio come il compagno Stalin aveva progettato.
Ma, innanzitutto, non è successo niente, perché il contrario rivelerebbe al mondo intero una
debolezza che non ci possiamo permettere. Il compagno Stalin capisce cosa intendo dire? Il
compagno Stalin è d’accordo?” Stalin si sentiva particolarmente strano. In più era ubriaco.
Comunque, annuì dicendo che Stalin desiderava che Nikita Sergeevič si assumesse il
compito di capire quello che era succes… che non era successo. Poi aggiunse che Stalin si
sarebbe ritirato perché non si sentiva molto bene.
Vladivostok, pensò il maresciallo Berija. Non era lì che aveva spedito quell’esperto di
bombe svedese e fascista, come riserva qualora non fossero riusciti a costruirsi la bomba da
soli? Chi se lo ricordava. Avrebbe dovuto liquidarlo subito, non appena Julij Borisovič
Popov avesse risolto la questione. Va be’, magari lo svedese era pure bruciato nel rogo, ma
non c’era bisogno di incendiare un’intera città… Sulla porta della sua camera da letto, Stalin
comunicò di non voler essere disturbato per nessuna ragione. Richiusa la porta alle proprie
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spalle, si sedette sul bordo del letto e sbottonandosi la camicia si mise a riflettere.
Vladivostok… La città che Stalin aveva deciso di trasformare nella base della flotta
sovietica sul Pacifico! Vladivostok… Che avrebbe dovuto giocare un ruolo fondamentale
nell’imminente offensiva nella guerra in Corea! Vladivostok… Non esisteva più!
Stalin si chiedeva come diavolo fosse riuscito a prendere fuoco un container carico di
coperte a quindici, venti gradi sottozero. Qualcuno doveva averci messo lo zampino… e
quel bastardo… sve… sve… Stalin cadde disteso a terra, dove rimase in balia di un colpo
apoplettico per una giornata intera, perché se il compagno Stalin diceva che non voleva
essere disturbato nessuno lo disturbava.
La baracca di Allan e Herbert fu una delle prime a prendere fuoco, costringendo i due amici
ad accantonare l’idea di travestirsi indossando le nuove uniformi.
Lo steccato però era già stato abbattuto, e nel tratto dove erano rimaste in piedi delle torrette
non c’era nessuno a fare la guardia. Quindi uscire dal gulag non fu affatto un problema, a
differenza di quello che li aspettava. Rubare un mezzo militare era impossibile, visto che
erano tutti in fiamme. L’ipotesi di raggiungere la città per recuperare un’auto con cui
scappare era impensabile. Tutta Vladivostok stava bruciando.
La maggior parte dei prigionieri sopravvissuti si erano raggruppati lungo la strada, a una
certa distanza dalle granate, dai bazooka e da tutto ciò che continuava a volare. Alcuni
temerari fuggirono in direzione nordovest. Per un russo era più semplice scappare da quella
parte: a est c’era il mare, a sud la guerra in Corea, a ovest la Cina e a nord una città
completamente devastata dalle fiamme. Non rimaneva altro che la strada diretta nella
profonda e giustamente nota Siberia. Le guardie ragionarono allo stesso modo, e prima della
fine della giornata avevano riacciuffato tutti i fuggitivi spedendoli definitivamente all’altro
mondo.
A eccezione di Allan e Herbert. I due riuscirono a raggiungere una collina, a sudovest di
Vladivostok, dove si fermarono per riposare un po’ e godersi lo spettacolo.
“Bella forza quel razzo di segnalazione,” disse Herbert.
“Una bomba atomica non avrebbe saputo fare di meglio,” commentò Allan.
“E adesso cosa facciamo?” chiese Herbert, quasi nostalgico del gulag che non esisteva più.
“Andiamo in Corea del Nord, amico mio,” rispose Allan. “E se non troviamo un’auto nelle
vicinanze ci toccherà camminare. Così non patiremo il freddo.” Kirill Afanas’evič
Meretskov era uno dei comandanti più decorati e celebri dell’Armata rossa. “Eroe
dell’Unione Sovietica”, tra le altre cose, era stato insignito per ben sette volte dell’Ordine di
Lenin.
Come comandante della quarta armata aveva combattuto vittoriosamente contro i tedeschi
che avevano circondato Leningrado. L’assedio si era concluso dopo novecento terribili
giorni. Nessuna meraviglia, dunque, che Meretskov fosse stato nominato “Maresciallo
dell’Unione Sovietica”, oltre a tutti gli altri riconoscimenti, titoli e medaglie.
Mentre Hitler si stava ritirando per sempre Meretskov era diretto a est – novemilaseicento
chilometri di treno –, dove era richiesta la sua presenza al comando del primo Fronte
dell’Estremo Oriente allo scopo di cacciare i giapponesi dalla Manciuria. Ci era riuscito
contro ogni aspettativa.
Quando la Seconda guerra mondiale era finita Meretskov si era sentito un po’ stanco.
Dal momento che a Mosca non c’era nessuno ad attenderlo era rimasto a est. Era finito
dietro una scrivania in quel di Vladivostok. Una bella scrivania. Di vero teak.
Nell’inverno inoltrato del 1953, all’età di cinquantasei anni, Meretskov sedeva ancora dietro
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la sua scrivania, da dove amministrava la non partecipazione sovietica alla guerra in Corea.
Sia Meretskov sia il compagno Stalin ritenevano fosse strategicamente importante che
proprio in quel momento l’Unione Sovietica non combattesse apertamente gli americani.
Entrambi avevano la Bomba, ma gli americani erano più avanti. Ogni cosa a suo tempo, e
quello era un periodo in cui non bisognava provocare conflitti – il che non significava che la
guerra in Corea non si potesse addirittura vincere.
Tuttavia, in qualità di maresciallo, ogni tanto Meretskov si concedeva qualche pausa.
Possedeva un casino di caccia alla periferia di Kraskino, un paio d’ore a sud di Vladivostok.
Ci si recava il più spesso possibile, soprattutto d’inverno. E preferibilmente da solo. A parte
il suo attendente: i marescialli non guidano la propria auto, che figura ci farebbero?
Il maresciallo Meretskov e il suo attendente avevano ancora quasi un’ora di viaggio davanti
prima di arrivare a Vladivostok, quando dalla tortuosa strada costiera scorsero un’enorme
colonna di fumo a nord. Cosa poteva essere successo? Qualcosa stava bruciando?
La distanza era troppa perché avesse senso prendere il cannocchiale dal bagagliaio di quella
gran bella macchina. Il maresciallo Meretskov ordinò all’attendente di procedere a tutta
velocità, aggiungendo che si sarebbero fermati appena avessero trovato un punto con una
buona visuale sulla baia. Cosa poteva essere successo? Qualcosa stava bruciando.
Decisamente.
Allan e Herbert erano in cammino da un po’ quando una bella Pobeda verde militare
sopraggiunse da sud. I fuggitivi si nascosero dietro un cumulo di neve e l’auto li superò.
Subito dopo rallentò, per fermarsi a meno di cinquanta metri di distanza da loro. Dal veicolo
uscirono un ufficiale carico di medaglie e il suo attendente, che andò a prendere un
cannocchiale dal bagagliaio. Entrambi si allontanarono dall’auto per cercare il punto
migliore da cui osservare la baia su cui poco prima si estendeva Vladivostok.
Così per Allan e Herbert fu un gioco da ragazzi sgattaiolare fino all’auto e appropriarsi della
pistola dell’ufficiale carico di medaglie e del fucile automatico del suo attendente.
Di colpo i due interessati capirono di trovarsi in una situazione assai spiacevole.
Soprattutto quando Allan disse: “Signori, siete pregati di spogliarvi.” Il maresciallo
Meretskov era furibondo. Nessuno poteva trattare in quel modo un maresciallo dell’Unione
Sovietica, fosse pure il prigioniero di un gulag. I signori credevano davvero che lui, il
maresciallo Kirill Afanas’evič Meretskov, sarebbe andato a piedi fino a Vladivostok in
mutande? Allan rispose che l’impresa poteva risultare difficile, visto che l’intera
Vladivostok stava bruciando, ma in linea di massima era proprio quello che avevano
pensato lui e il suo amico Herbert. I signori potevano avere in cambio un paio di divise a
strisce bianche e nere, e comunque più si fossero avvicinati a Vladivostok – o come si
poteva chiamare quell’ammasso di rovine e nubi di fumo – più avrebbe fatto caldo.
Detto questo, Allan e Herbert indossarono le uniformi appena rubate e abbandonarono le
loro divise appallottolate a terra. Allan pensò che forse era meglio che guidasse lui, così
Herbert divenne il maresciallo e Allan il suo attendente. Herbert si accomodò sul sedile del
passeggero mentre Allan si mise al volante. Al momento di congedarsi Allan consigliò al
maresciallo di sbollire la rabbia, perché tanto non sarebbe servito a niente.
Tra non molto sarebbe arrivata la primavera e la primavera a Vladivostok… be’, forse no…
Comunque Allan esortò il maresciallo a pensare positivo, anche se capiva che la decisione
spettava al diretto interessato. Se il maresciallo preferiva andare in mutande a muso lungo,
facesse pure.
“Addio, maresciallo. E addio attendente, ovvio,” disse Allan.
135
Il maresciallo non rispose, limitandosi a fissarlo con espressione furibonda mentre Allan
saliva sulla Pobeda. Poi lui e Herbert partirono verso sud.
Prossima fermata: Corea del Nord.
Passare il confine che divideva l’Unione Sovietica dalla Corea del Nord fu come bere un
bicchiere d’acqua fresca. I soldati sovietici si misero sull’attenti senza fiatare, poi fu la volta
dei nordcoreani. Senza che fosse pronunciata neanche una parola, vennero alzate le sbarre
per permettere al maresciallo sovietico (Herbert) e al suo attendente (Allan) di procedere.
Alla più devota delle due guardie di confine nordcoreane si inumidirono gli occhi al solo
pensiero di essere testimone di quell’avvenimento. Decisamente la Corea del Nord non
poteva desiderare un vicino migliore dell’Unione Sovietica. Sicuramente il maresciallo era
diretto a Wŏnsan per assicurarsi che fosse giunto il materiale inviato da Vladivostok e
prendersi cura del resto.
Invece no: il maresciallo in questione non pensava affatto al bene della Corea del Nord.
Non era neanche certo di sapere in quale paese si trovasse. Adesso era tutto intento a capire
come aprire il vano portaoggetti dell’auto.
Ciò che Allan era riuscito a cavar fuori dai marinai che giungevano al porto di Vladivostok
era che la guerra in Corea si trovava in una fase di stallo e i due contendenti erano rientrati
ciascuno sul proprio versante del trentottesimo parallelo.
Herbert si era fatto l’idea che per poter passare da nord a sud si dovesse saltare (a patto che
il parallelo in questione non fosse né troppo alto né troppo profondo). Il pericolo era di
essere colpiti al momento del salto, ma in fondo non sarebbe stato un problema neanche
quello.
La realtà che li aspettava fu però un’altra: i preparativi di guerra erano in pieno svolgimento.
Gli aerei americani sembravano intenzionati a bombardare tutto quello che gli capitava a
tiro. Allan capì che una vettura di lusso, russa e verde militare poteva essere considerata un
buon bersaglio, così preferì lasciare la strada principale in direzione sud (chiedendo prima il
permesso al suo maresciallo) per inoltrarsi nella campagna seguendo vie secondarie, che gli
avrebbero garantito maggiore protezione e rapidità qualora l’aviazione avesse cominciato a
tuonare sopra le loro teste.
Allan procedeva in direzione sudovest, mentre Herbert lo intratteneva passando in rassegna
il portafoglio del maresciallo trovato nella tasca interna dell’uniforme.
Conteneva una bella sommetta di rubli e informazioni riguardanti l’identità del maresciallo,
oltre a una serie di appunti relativi alle decisioni da prendere su Vladivostok, quando la città
era ancora in buone condizioni.
“Mi chiedo se non fosse lui il responsabile del trasporto ferroviario,” rifletté Herbert.
Allan lo elogiò per quella considerazione: gli era sembrata intelligente e Herbert arrossì.
In fondo non era così difficile dire qualcosa di sensato.
“A proposito! Credi di poter memorizzare il nome del maresciallo Kirill Afanas’evič
Meretskov?” chiese Allan. “In futuro potrebbe servirci.” “Sono abbastanza sicuro di non
riuscirci,” rispose Herbert.
Quando cominciò a fare buio, Allan e Herbert si fermarono davanti a una fattoria dall’aria
abbastanza prospera. Il contadino, sua moglie e i loro due figli si rizzarono immediatamente
in piedi davanti a quegli ospiti importanti e alla loro splendida automobile. L’attendente
Allan si scusò sia in russo sia in cinese a nome di entrambi per essersi presentati così
all’improvviso, e domandò se per caso non fosse possibile avere qualcosa da mettere sotto i
denti. Potevano pagare, ma soltanto in rubli, purtroppo non avevano altro.
136
Il contadino e sua moglie non avevano capito un’acca delle parole di Allan, ma il figlio
maggiore di dodici anni studiava russo a scuola e tradusse. A quel punto non passarono
molti secondi prima che l’attendente Allan e il maresciallo Herbert fossero invitati a entrare
in casa.
Quattordici ore dopo erano pronti a riprendere il viaggio. Avevano cenato con il contadino,
la moglie e i figli. A base di carne di maiale al peperoncino e all’aglio, riso e – alleluia! –
acquavite di riso coreana. Non aveva esattamente lo stesso sapore di quella svedese, ma
dopo cinque anni e tre settimane di forzata astinenza andava più che bene.
Dopo cena sia il maresciallo sia l’attendente si erano trattenuti presso la famiglia. Al
maresciallo Herbert era stata lasciata la camera da letto, e madre e padre avevano dormito
con i figli. All’attendente Allan era toccato il pavimento della cucina.
La mattina dopo era stata servita la colazione a base di verdure al vapore, frutta secca e tè,
mentre il padrone di casa riempiva il serbatoio dell’automobile del maresciallo con della
benzina che teneva in un fusto nel fienile.
Si era mostrato riluttante ad accettare il mazzo di rubli offerti dal maresciallo, finché
quest’ultimo non aveva sbraitato in tedesco: “Prendi questi soldi, contadino di merda!” La
cosa aveva spaventato l’interessato a tal punto che aveva finito per obbedire, anche se non
aveva capito una parola.
Dopo essersi congedati amichevolmente, Allan e Herbert ripresero il viaggio in direzione
sudovest. Lungo quella strada tortuosa non incontrarono anima viva, ma furono
accompagnati dal rombare minaccioso dei bombardieri in lontananza.
Visto che l’equipaggio si stava avvicinando a Pyongyang, ad Allan sembrò giunta l’ora di
elaborare un nuovo piano. Il precedente non aveva più molto senso. Secondo i suoi calcoli
non era possibile entrare in Corea del Sud dal luogo dove si trovavano.
Il nuovo piano prevedeva invece di escogitare il modo di farsi ricevere dal primo ministro
nordcoreano Kim Il-sung. Herbert era pur sempre un maresciallo sovietico, no?
Herbert, scusandosi dell’ingerenza nell’elaborazione del piano, dichiarò che non capiva il
motivo per cui dovevano incontrare Kim Il-sung.
Allan rispose che ancora non lo sapeva, ma promise che ci avrebbe riflettuto. Ciò che poteva
anticipare a Herbert era che più vicini ci si teneva alle alte sfere, migliore era il cibo. E
anche l’acquavite.
Allan capiva che ormai era solo questione di tempo prima che lui e Herbert fossero fermati e
controllati sul serio. Neanche un maresciallo poteva permettersi di entrare nella capitale di
una nazione in guerra senza che nessuno facesse perlomeno qualche domanda. Ecco perché
per un paio d’ore aveva istruito Herbert su quello che doveva dire – una frase sola, ma
importante: “Sono il maresciallo Meretskov dell’Unione Sovietica, portatemi dal vostro
leader!” Pyongyang era protetta da uno sbarramento interno e da uno esterno piantonati da
militari. Quello esterno, a venti chilometri dalla città, era composto di cannoni antiaerei e
doppie postazioni di guardia, mentre quello interno era una barricata vera e propria, una
prima linea di protezione in caso di attacco. Allan e Herbert si fermarono davanti a una delle
postazioni di guardia più esterne, dove vennero accolti da un soldato nordcoreano alquanto
ubriaco che stringeva al petto una mitraglietta senza la sicura. Il maresciallo Herbert,
nonostante avesse ripetuto allo sfinimento la famosa frase, esclamò: “Io sono il leader,
portami in… Unione Sovietica.” Per fortuna il soldato non capiva il russo, ma il cinese sì.
L’atten-dente Allan ebbe perciò modo di fare da interprete, ripetendo la frase al completo e
con la giusta sequenza di parole.
137
Il soldato aveva in circolo una tale quantità di alcol da non sapere quale azione
intraprendere. Invitò Allan e Herbert a entrare nei locali della postazione di guardia, dove
telefonò a un suo compagno che si trovava in una postazione a duecento metri di distanza.
Poi si sedette su una poltrona consunta ed estrasse dalla giacca una bottiglia di sakè (la terza
della giornata). Dopo aver dato un bel sorso prese a canticchiare una melodia; di tanto in
tanto lanciava un’occhiata agli ospiti sovietici con lo sguardo vitreo, per poi riprendere a
fissare un punto imprecisato in lontananza.
Allan, poco soddisfatto della prestazione di Herbert, si rese conto che con l’amico nel ruolo
di maresciallo sarebbero bastati un paio di minuti alla presenza di Kim Il-sung per essere
arrestati. Dalla finestra vide che il soldato numero due si stava avvicinando. Non c’era un
attimo da perdere.
“Scambiamoci i vestiti, Herbert,” disse Allan.
“Perché?” si meravigliò l’altro.
“Subito.” In un baleno il maresciallo divenne attendente e l’attendente maresciallo. Il
soldato ubriaco gorgogliava qualcosa in coreano con lo sguardo tremulo.
Alcuni secondi dopo fece la sua apparizione nella stanza il soldato numero due, il quale
accorgendosi dell’importanza degli ospiti scattò sull’attenti. Parlando in cinese, il
maresciallo Allan espresse nuovamente il desiderio di incontrare il primo ministro Kim
Ilsung.
Prima che il soldato numero due avesse il tempo di rispondere, il numero uno lo interruppe
biascicando qualcosa.
“Cosa dice?” chiese il maresciallo Allan.
“Dice che vi siete appena spogliati e rivestiti,” rispose l’interpellato.
“L’alcol, l’alcol,” commentò Allan scuotendo la testa.
Il soldato numero due si scusò per il comportamento del compagno, e quando il numero uno
insistette nel dire che Allan e Herbert si erano svestiti e rivestiti ricevette una lavata di capo
dal numero due, oltre all’ordine di chiudere il becco se non voleva essere denunciato per
ubriachezza molesta.
Il soldato numero uno decise allora di tacere (e bevve un altro goccetto), mentre il numero
due fece un paio di telefonate e compilò una specie di lasciapassare in coreano, che firmò e
timbrò due volte prima di porgerlo al maresciallo Allan. Poi disse: “Il signor maresciallo
dovrà mostrarlo al prossimo posto di blocco. Sarete condotti dall’uomo di fiducia dell’uomo
di fiducia del primo ministro.” Dopo averlo ringraziato, Allan gli fece il saluto militare e
tornò all’auto spingendo Herbert davanti a sé.
“Dal momento che sei appena diventato attendente, d’ora in poi devi guidare tu.”
“Interessante,” disse Herbert. “Non guido da quando la polizia svizzera mi proibì di
mettermi al volante.” “Credo che la cosa migliore sia che tu non aggiunga altro,” precisò
Allan.
“Ho grandi difficoltà a distinguere la destra dalla sinistra,” spiegò Herbert.
“Come dicevo, credo che la cosa migliore sia che tu non aggiunga altro,” ripeté Allan.
Il viaggio riprese con Herbert al volante e tutto procedeva benissimo, meglio di quanto
Allan si fosse aspettato. Grazie al lasciapassare non ebbero alcun problema ad arrivare in
città e a raggiungere il palazzo del primo ministro.
Vennero accolti dall’uomo di fiducia dell’uomo di fiducia del primo ministro, che disse loro
che l’uomo di fiducia del primo ministro non aveva la possibilità di riceverli prima di tre
giorni. Durante l’attesa i signori sarebbero stati alloggiati nell’appartamento degli ospiti che
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si trovava nel palazzo. A proposito, la cena sarebbe stata servita alle otto, se la cosa era di
loro gradimento.
“Ma guarda guarda,” disse Allan a Herbert.
Kim Il-sung era nato nell’aprile del 1912 da una famiglia cristiana alla periferia di
Pyongyang, che come molte altre famiglie coreane soffriva l’occupazione giapponese.
Per molti anni i giapponesi avevano fatto il bello e il cattivo tempo nella colonia: centinaia
di migliaia di ragazze e donne coreane erano state catturate e usate come schiave per
soddisfare le voglie sessuali dei soldati dell’impero del Sol levante. Gli uomini venivano
reclutati con la forza nell’armata dell’imperatore, che tra le altre cose li costringeva a
prendere nomi giapponesi e faceva di tutto affinché la lingua e la cultura coreane sparissero
per sempre.
Il papà di Kim Il-sung era un tranquillo farmacista ma anche un rumoroso critico dei soprusi
giapponesi, tanto che, attirata su di sé l’attenzione degli interessati, un giorno, per il proprio
bene, fu costretto a trasferire la famiglia a nord, verso la Manciuria cinese.
La pace e la serenità tuttavia non durarono a lungo, dato che nel 1931 arrivarono le truppe
giapponesi. Il papà di Kim Il-sung era morto da un pezzo, ma la mamma esortò il figlio a
partecipare alla guerriglia antigiapponese, con l’ambizione di cacciare i giapponesi dalla
Manciuria – e anche dalla Corea.
Kim Il-sung fece carriera al servizio della guerriglia. Si conquistò la fama di essere forte e
coraggioso. Venne nominato comandante capo di un’intera divisione e combatté così
duramente contro i giapponesi che alla fine soltanto lui e pochi altri soldati della divisione
sopravvissero. Ciò avvenne nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale, e Kim Il-sung fu
costretto a fuggire in Unione Sovietica.
Fece carriera anche lì. Nel giro di poco tempo divenne capitano dell’Armata rossa, nelle cui
file lottò fino al 1945.
Alla conclusione della guerra il Giappone fu costretto a ritirarsi dalla Corea. Kim Il-sung
rientrò dall’esilio da eroe nazionale. Ora bisognava ricostruire la nazione, in tutti i sensi.
Sul fatto che il popolo lo volesse come grande leader non c’erano dubbi.
Ma i vincitori della guerra, l’Unione Sovietica e gli Stai Uniti, avevano diviso la Corea in
base alla propria sfera d’interessi. Gli Stati Uniti non intendevano accettare che un
comunista patentato fosse a capo di un’intera penisola. Così elessero un proprio leader, un
coreano in esilio, che piazzarono a sud. Kim Il-sung avrebbe dovuto accontentarsi della
parte settentrionale, e fu esattamente ciò che non volle fare. Diede invece avvio alla guerra
di Corea. Se era riuscito a cacciare i giapponesi, avrebbe fatto lo stesso con gli americani e il
loro corteo ONU.
Kim Il-sung aveva dunque imbracciato le armi al servizio sia della Cina sia dell’Unione
Sovietica. Ora lottava per la propria causa. Ciò che aveva imparato in quel periodo
drammatico era, tra l’altro: dare ascolto solo a se stesso.
Era disposto a fare un’unica eccezione a quella regola e quell’eccezione l’aveva appena
nominata suo uomo di fiducia: chi voleva comunicare con il primo ministro doveva prima
incontrare suo figlio.
Kim Jong-il.
Di undici anni.
“Devi far aspettare i tuoi visitatori almeno settantadue ore prima di riceverli. In questo modo
rafforzi la tua autorità, figlio mio,” gli aveva insegnato Kim Il-sung.
“Credo di capire, papà,” mentì Kim Jong-il, che subito dopo aveva cercato nel vocabolario
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le parole che non aveva capito.
I tre giorni d’attesa non furono certo un problema per Allan e Herbert: nel palazzo del primo
ministro il cibo era buono e i letti comodi. Inoltre era raro che i bombardieri americani si
avvicinassero a Pyongyang, dal momento che esistevano obiettivi più facili.
Finalmente arrivò il giorno fatidico. L’uomo di fiducia dell’uomo di fiducia del primo
ministro venne a prendere Allan e lo accompagnò nei meandri del palazzo fino all’ufficio
dell’uomo di fiducia del primo ministro. Allan era preparato al fatto che questi fosse un
ragazzino.
“Io sono il figlio del primo ministro, Kim Jong-il,” disse. “E sono l’uomo di fiducia di
papà.” Kim Jong-il porse la mano al maresciallo. La sua stretta era decisa, anche se la
manina scomparve nella mano grande e grossa di Allan.
“E io sono il maresciallo Kirill Afanas’evič Meretskov,” ribatté Allan. “Ringrazio il
signorino Kim per avermi concesso la possibilità di incontrarlo. Mi concede anche di
esporre la mia richiesta?” Kim Jong-il annuì, così Allan poté continuare con le sue bugie: “Il
maresciallo, signorino Kim, avrebbe un messaggio per il primo ministro da parte del
compagno Stalin a Mosca. Poiché si sospetta che gli Stati Uniti, le iene capitaliste, siano
riusciti a infiltrarsi nel sistema di comunicazione sovietico (il maresciallo preferiva non
entrare nei dettagli, se il signorino Kim permetteva), il compagno Stalin ha deciso di
inoltrare questa comunicazione senza intermediari. Quest’alto incarico è stato affidato al
maresciallo e al suo attendente (che per sicurezza il maresciallo aveva lasciato nella sua
stanza).” Kim Jong-il guardò di traverso il maresciallo Allan, dando quasi l’idea di leggergli
nel pensiero, e disse che il suo compito era di proteggere papà a ogni costo. Per farlo non
avrebbe mai dovuto credere a nessuno, glielo aveva insegnato papà. Per questo non poteva
permettere che il maresciallo incontrasse suo padre, il primo ministro, prima che la versione
del maresciallo venisse appurata con l’Unione Sovietica. Kim Jong-il disse che avrebbe
telefonato a Mosca per chiedere se veramente il maresciallo era stato mandato da zio Stalin
oppure no.
Non era quella la conclusione che Allan si era augurato, ma rimase seduto dov’era senza
poter fare altro che cercare di depistare l’uomo di fiducia del primo ministro.
“Naturalmente non tocca a un semplice maresciallo contraddire l’uomo di fiducia del primo
ministro, ma mi permetto ancora una volta di consigliarle di riflettere sul fatto che forse non
si do--vreb-be usare il telefono per controllare se è vero che non si do--vreb-be usare il
telefono.” Il signorino Kim rifletté sulle parole del maresciallo Allan, ma gli imperativi del
padre rimbombavano nella sua testa come un’eco. “Non dare mai ascolto a nessuno, figlio
mio.” Alla fine il ragazzo giunse a una conclusione: avrebbe telefonato allo zio Stalin
parlandogli in codice. Il signorino Kim lo aveva incontrato diverse volte e lo zio Stalin lo
chiamava sempre “il mio piccolo rivoluzionario”.
“Chiamerò lo zio Stalin presentandomi come il piccolo rivoluzionario e gli domanderò se ha
davvero mandato qualcuno a incontrare mio padre. Credo che in questo modo non
riveleremo niente, anche se gli americani fossero all’ascolto. Cosa ne pensa il maresciallo?”
Il maresciallo pensava che quel ragazzino fosse davvero astuto. Quanti anni poteva avere?
Dieci? Anche Allan era dovuto crescere presto. All’età di Kim Jong-il trasportava già
dinamite per conto della Nitroglycerin AB di Flen. Riteneva che le cose si stessero mettendo
male, ma non si poteva mai dire. Come sempre.
“Credo con fermezza che il signorino Kim sia un ragazzino davvero intelligente che farà
molta strada,” affermò Allan, lasciando il resto nelle mani del destino.
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“Sì, quando sarà il momento credo che farò il lavoro di papà, quindi il maresciallo potrebbe
avere ragione. Si beva una tazza di tè mentre telefono allo zio Stalin.” Il signorino Kim si
diresse verso la scrivania marrone posta in un angolo della stanza, mentre Allan teneva in
mano la sua tazza di tè chiedendosi se non fosse il caso di saltare dalla finestra. Ma
abbandonò quasi subito l’idea. In parte perché si trovava al quarto piano del palazzo del
primo ministro e in parte perché non poteva lasciare solo il suo amico. Herbert sarebbe
saltato giù più che volentieri (se avesse trovato il coraggio), ma in quel momento non era lì.
Di colpo il filo dei pensieri di Allan venne interrotto dal pianto del signorino Kim, che dopo
avere riagganciato era tornato da lui con le lacrime agli occhi.
“Lo zio Stalin è morto! Lo zio Stalin è morto!” Allan pensò che non era possibile avere una
fortuna così sfacciata, e disse: “Su, su, signorino Kim. Venga qui, in modo che lo zio
maresciallo la possa abbracciare.
Su, su…” Dopo essere stato consolato a sufficienza, il signorino Kim non sembrava più così
astuto. Pareva che non volesse più fingere di essere un adulto. Tirando su col naso, riuscì a
dire che Stalin aveva avuto un colpo apoplettico molti giorni prima ed era scomparso prima
che il signorino Kim telefonasse.
Mentre se ne stava rannicchiato sulle ginocchia di Allan, il signorino Kim gli raccontò dei
bei ricordi del suo ultimo incontro con il compagno Stalin. Avevano cenato insieme e
l’atmosfera era allegra come poteva essere soltanto tra veri amici. Il compagno Stalin aveva
ballato e cantato fino al termine della serata. Allan canticchiò la canzone popolare georgiana
che Stalin aveva intonato prima di essere colpito da un cortocircuito alla testa. Il signorino
Kim riconobbe la melodia! Lo zio Stalin l’aveva cantata anche a lui. Con questo tutti i dubbi
erano scomparsi: lo zio maresciallo era evidentemente la persona che diceva di essere. Il
signorino Kim avrebbe chiesto se papà, il primo ministro, poteva riceverlo già il giorno
dopo. Ma adesso voleva un altro abbraccio… Nessun segnale lasciava presagire che il primo
ministro governasse la sua mezza penisola da un ufficio contiguo. Sarebbe equivalso a
esporlo a rischi troppo elevati. No, per incontrare Kim Il-sung era necessario un viaggio più
lungo, che per motivi di sicurezza avvenne su un veicolo militare.
Il viaggio non fu per niente comodo, ma del resto non era quello lo scopo per cui venivano
costruiti quei veicoli. Tuttavia Allan ebbe il tempo di riflettere su come risolvere alcuni
particolari tutt’altro che insignificanti. Il primo era cosa avrebbe detto a Kim Ilsung, il
secondo a quale scopo.
All’uomo di fiducia nonché figlio del primo ministro aveva detto di essere giunto con una
comunicazione urgente da parte del compagno Stalin, e si era trattato di una cosa
relativamente facile da gestire. Adesso il falso maresciallo poteva inventarsi ciò che voleva,
tanto Stalin era morto. Alla fine Allan decise che avrebbe comunicato a Kim Ilsung che
Stalin aveva deciso di regalargli duecento carri armati per la lotta comunista in Corea. O
trecento. Più erano e più felice sarebbe stato il primo ministro.
Il secondo particolare era più complicato. Allan non era molto interessato a rientrare in
Unione Sovietica dopo aver svolto il suo incarico presso Kim Il-sung, ma convincere il
leader nordcoreano ad aiutare Allan e Herbert a raggiungere la Corea del Sud non sarebbe
stato facile. D’altro canto rimanere nelle vicinanze di Kim Il-sung era pericoloso, e senza
l’ombra di un carro armato lo sarebbe diventato ogni giorno di più.
La Cina poteva essere un’alternativa? Se Allan e Herbert avessero indossato ancora le divise
da prigioniero bianche e nere la risposta era negativa, ma le cose non stavano più così. Il
loro gigantesco vicino poteva trasformarsi da minaccia in opportunità, ora che Allan era
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diventato un maresciallo sovietico. Soprattutto se fosse riuscito a convincere Kim Il-sung a
scrivergli una bella lettera di presentazione.
Prossima fermata Cina, dunque. Dopodiché le cose sarebbero andate come dovevano.
Se lungo la strada non gli fosse venuta in mente un’idea migliore, Allan poteva sempre
scalare l’Himalaya per la seconda volta.
A quel punto Allan concluse che aveva ragionato abbastanza. Kim Il-sung avrebbe ricevuto
trecento carri armati, o quattrocento, non c’era motivo di essere avari. Poi il finto
maresciallo avrebbe sfacciatamente chiesto al primo ministro di procurargli un mezzo di
trasporto e i visti necessari per recarsi in Cina, poiché aveva un incarico da svolgere anche
presso Mao Tse-tung. Ecco, adesso Allan era soddisfatto del piano messo a punto.
Il veicolo con a bordo Allan, Herbert e il giovane Kim Jong-il fece il suo ingresso in quella
che ad Allan parve una base militare.
“Siamo finiti nella Corea del Sud?” domandò speranzoso Herbert.
“Se c’è un posto sulla terra dove Kim Il-sung non starebbe mai è proprio la Corea del Sud,”
rispose Allan.
“No, è chiaro… ho pensato… No, scusa, in effetti non l’ho fatto,” farfugliò Herbert.
Il veicolo militare si fermò e i tre passeggeri scesero. Erano finiti in un campo d’aviazione
militare e si trovavano davanti a qualcosa che sembrava un edificio pubblico.
Il signorino Kim tenne la porta aperta ad Allan e Herbert, poi li superò per ripetere il gesto
con quella successiva. Finalmente si trovavano nel cuore dell’edificio. Nella stanza c’era
una scrivania molto grande coperta da svariati incartamenti, su una parete era appesa una
mappa della Corea e a destra si accedeva a un salotto. Su un divano sedeva il primo ministro
Kim Il-sung e sull’altro il suo ospite. Di fronte a loro si trovavano due soldati sull’attenti
armati di mitraglietta.
“Buonasera, signor primo ministro,” disse Allan. “Sono il maresciallo Kirill Afanas’evič
Meretskov dell’Unione Sovietica.” “Niente affatto,” ribatté Kim Il-sung pacatamente.
“Conosco molto bene il maresciallo Meretskov.” “Ahi.” I soldati puntarono le armi contro il
falso maresciallo e il suo altrettanto falso attendente.
Kim Il-sung mantenne la calma, mentre suo figlio scoppiò in lacrime. Forse fu proprio in
quel momento che gli ultimi frammenti della sua infanzia si disintegrarono per sempre.
Non dare mai ascolto a nessuno! Eppure era finito in braccio a quel falso maresciallo.
Non dare mai ascolto a nessuno! Non avrebbe mai, mai più dato ascolto a nessun essere
umano.
“Morirai!” gridò piangendo ad Allan. “E anche tu!” disse rivolto a Herbert.
“Sì, morirete,” intervenne Kim Il-sung, sempre con voce pacata. “Ma prima vogliamo
scoprire chi vi ha mandati qui.” Che brutta situazione, pensò Allan.
Che bella situazione, pensò Herbert.
Al vero maresciallo Kirill Afanas’evič Meretskov e al suo attendente non rimase altro da
fare che mettersi in cammino verso quanto restava di Vladivostok.
Dopo diverse ore arrivarono a uno degli accampamenti organizzati dall’Armata rossa alla
periferia della città distrutta. Lì l’umiliazione aumentò ulteriormente, quando il maresciallo
fu sospettato di essere uno dei prigionieri fuggiti. Fu però riconosciuto quasi subito e trattato
in modo consono alla sua posizione.
Già una volta il maresciallo Meretskov aveva ignorato un torto subito: era stato quando
Berija lo aveva arrestato e torturato senza alcun motivo. L’avrebbe sicuramente lasciato
morire se Stalin non fosse intervenuto di persona. Forse Meretskov avrebbe dovuto
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affrontare Berija dopo quell’episodio, ma c’era una guerra mondiale da vincere e all’epoca
Berija era troppo potente. Per questo aveva soprasseduto. Tuttavia aveva giurato che non
avrebbe mai più permesso a nessuno di umiliarlo in quella maniera; non gli restava quindi
che stanare e punire i due che avevano osato spogliare il maresciallo e il suo attendente
dell’auto e delle loro uniformi.
La caccia non poteva iniziare subito, dal momento che il maresciallo era privo di uniforme.
Non sarebbe stato facile trovare un sarto all’accampamento, e qualora lo avesse scovato
bisognava prima procurarsi ago e filo. Tutte le sartorie di Vladivostok erano bruciate, come
il resto della città.
A ogni modo dopo tre giorni gli indumenti del maresciallo erano pronti, seppur senza le
medaglie, ormai sul petto del falso maresciallo. Un particolare di cui Meretskov non si
poteva occupare: avrebbe rischiato di perdere la battaglia.
Con una certa difficoltà ottenne una nuova Pobeda per sé e il suo attendente (la maggior
parte dei veicoli militari erano bruciati) e all’alba, cinque giorni dopo il disdicevole
episodio, si diresse verso sud.
Al confine con la Corea del Nord ebbe conferma dei suoi sospetti: un maresciallo, proprio
come lui, aveva attraversato il confine procedendo verso sud a bordo di una Pobeda identica
a quella su cui lui viaggiava adesso. Le guardie di frontiera non sapevano altro.
Il maresciallo Meretskov giunse alle stesse conclusioni che aveva tirato Allan cinque giorni
prima, e cioè che sarebbe stato un suicidio proseguire in direzione del fronte. Per questo si
diresse verso Pyongyang e dopo qualche ora seppe di avere fatto la cosa giusta. A un altro
posto di blocco venne a sapere che un maresciallo Meretskov, con tanto di attendente al
seguito, aveva espresso il desiderio di incontrare il primo ministro Kim Il-sung, ottenendo
udienza presso l’uomo di fiducia dell’uomo di fiducia del primo ministro. Poi due dei
soldati cominciarono a litigare tra loro. Se soltanto il maresciallo Meretskov avesse capito il
coreano, avrebbe sentito che uno dei due sosteneva di aver capito subito che c’era qualcosa
che non andava in quei due bellimbusti che di fatto si erano scambiati i vestiti, mentre il
compagno rispondeva che, se solo fosse rimasto sobrio dopo le dieci del mattino, allora
sarebbe stato possibile fidarsi di lui. Poi il soldato numero uno e il numero due presero a
darsi rispettivamente del cretino mentre il maresciallo Meretskov proseguiva verso
Pyongyang.
Il vero maresciallo Meretskov ebbe modo di incontrare l’uomo di fiducia dell’uomo di
fiducia del primo ministro quello stesso giorno dopo pranzo. Con tutta l’autorità che solo un
vero maresciallo poteva avere, convinse l’uomo di fiducia dell’uomo di fiducia che sia il
primo ministro sia suo figlio erano in pericolo di vita. Senza indugio l’uomo di fiducia
dell’uomo di fiducia del primo ministro gli indicò la strada per raggiungere il quartier
generale del primo ministro. Dal momento che non bisognava perdere tempo il
trasferimento sarebbe avvenuto a bordo della Pobeda del maresciallo, che viaggiava a una
velocità quattro volte superiore a quella del veicolo militare su cui si erano mossi Kim Jongil e i due criminali.
“Allora,” esordì Kim Il-sung con tono austero, ma al contempo interessato, “chi siete, chi vi
ha mandato e qual è lo scopo di questa messinscena?” Allan non aveva ancora risposto
quando nella stanza irruppe il vero maresciallo Meretskov, che si mise a urlare che era in
atto un attentato e i due al centro della sala erano criminali scappati da un campo di lavoro.
Per un attimo ci furono troppi marescialli e attendenti per le due soldati armati di
mitraglietta, ma non appena il primo ministro confermò indirettamente che il nuovo
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maresciallo era quello autentico i soldati riportarono la loro attenzione sugli impostori.
“Tranquillo, caro Kirill Afanas’evič,” disse Kim Il-sung. “La situazione è sotto controllo.”
“Morirai,” esclamò furioso il maresciallo Meretskov, quando vide Allan con indosso la sua
uniforme coperta di medaglie e onorificenze.
“Sì, dicono tutti così,” replicò Allan. “Prima il giovane Kim, poi il primo ministro e adesso
il signor maresciallo. L’unico che non ha mai chiesto la mia morte è lei,” continuò Allan
rivolgendosi all’ospite del primo ministro. “Non so chi lei sia, ma sarebbe troppo sperare
che abbia un’opinione diversa in materia?” “Non ho ancora deciso,” rispose ridendo
l’ospite. “Sono Mao Tse-tung, leader della Repubblica Popolare Cinese, e posso dire di non
portare molta pazienza con coloro che vogliono fare del male al mio amico Kim Il-sung.”
“Mao Tse-tung!” esclamò Allan. “Che onore! Anche se tra poco morirò, non si dimentichi di
portare i miei saluti alla sua bella moglie.” “Conosce la mia signora?” domandò stupito Mao
Tse-tung.
“Sì, se il signor Mao non l’ha cambiata nel frattempo. So che prima aveva quest’abitudine.
Jiang Qing e io ci siamo incontrati nella provincia di Sichuan alcuni anni fa. Abbiamo
camminato a lungo per le montagne insieme a un ragazzo, Ah Ming.” “È lei Allan
Karlsson?” chiese Mao Tse-tung stordito. “L’uomo che ha salvato la vita a mia moglie?”
Herbert Einstein non ci capiva granché, ma in quel momento comprese che il suo amico
Allan doveva avere nove vite, e che ancora una volta la loro morte sicura stava per
commutarsi in qualcosa d’altro! Non era possibile! Herbert agì in preda allo shock.
“Io scappo, io scappo, sparatemi, sparatemi!” urlò mettendosi a correre per la stanza,
facendo confusione con le porte e finendo dentro un armadio dove si trovò davanti uno
straccio e un secchio.
“Il tuo compagno…” commentò Mao Tse-tung. “Non sembra proprio un Einstein.” “Non
dirlo,” ribatté Allan. “Non dirlo.” Che Mao Tse-tung fosse in quella stanza non era poi così
strano, dato che Kim Il-sung aveva allestito il proprio quartier generale nella Manciuria
cinese, alla periferia di Shenyang, nella provincia di Liaoning, cinquecento chilometri a
nordovest di Pyongyang. Mao amava quelle zone, dove storicamente godeva di un forte
consenso. E poi gli faceva piacere incontrare il suo amico nordcoreano.
Ci volle del tempo prima che ogni cosa venisse chiarita, e soprattutto per convincere coloro
che desideravano la testa di Allan a cambiare idea.
Il maresciallo Meretskov fu il primo a porgergli la mano in segno di perdono. Allan
Karlsson aveva sofferto a causa della pazzia del maresciallo Berija, proprio come era
capitato a lui (per motivi di sicurezza Allan omise il dettaglio insignificante di essere stato
lui a incendiare Vladivostok). Quando Allan gli suggerì di scambiarsi le giacche in modo
che il maresciallo riavesse le sue medaglie, quest’ultimo si riconciliò con il mondo.
Neanche Kim Il-sung aveva alcun motivo per tenergli il broncio: in fondo Allan non aveva
mai avuto intenzione di fargli del male. L’unica sua preoccupazione era che il figlio si
sentisse profondamente tradito.
Il ragazzino continuava a piangere e singhiozzare, e a esigere la morte immediata e
possibilmente violenta di Allan. Alla fine il padre non trovò altra soluzione che dargli uno
scappellotto appena sopra l’orecchio e imporgli di stare zitto, con l’alternativa di prendersi
un altro ceffone.
Allan e il maresciallo Meretskov furono invitati ad accomodarsi sul divano, dove si sedette
anche uno sconfortato Herbert Einstein, uscito dall’armadio.
L’identità di Allan venne definitivamente confermata quando giunse nella stanza il
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capocuoco ventenne di Mao Tse-tung. Allan e Ah Ming si abbracciarono a lungo, finché
Mao non ordinò al cuoco di preparare spaghetti cinesi per uno spuntino notturno.
La gratitudine di Mao Tse-tung nei confronti di Allan non aveva confini. Gli disse che era
pronto ad aiutare lui e il suo amico in tutto e per tutto, senza limitazioni. Il che includeva
anche un’eventuale permanenza in Cina, dove Allan, ma anche il suo amico, avrebbero
potuto godere di una vita sontuosa grazie a Mao Tse-tung.
Scusandosi con il signor Mao, Allan rispose di averne fin sopra i capelli del comunismo per
il momento; il suo desiderio era rilassarsi in un posto dove fosse possibile bere un grog
senza doversi sorbire una disquisizione politica.
Mao disse che avrebbe scusato volentieri il signor Karlsson, ma non doveva nutrire troppe
speranze di restare estraneo al comunismo anche in futuro, poiché il comunismo stava
prendendo piede ovunque e non ci sarebbe voluto molto prima che conquistasse il mondo
intero.
Allan chiese allora se qualcuno dei signori presenti fosse in grado di fornirgli un
suggerimento su dove, secondo loro, il comunismo sarebbe arrivato più tardi, possibilmente
un posto dove ci fosse il sole, le spiagge fossero bianche e dove fosse possibile bere
qualcosa che non fosse liquore indonesiano verde alla banana.
“Credo di avere bisogno di un po’ di ferie,” aggiunse Allan. “Non ne ho mai avute.” Mao
Tse-tung, Kim Il-sung e il maresciallo Meretskov si misero a discutere tra loro.
Fecero il nome di Cuba: difficile immaginarsi un luogo più capitalista di quello. Allan li
ringraziò per il suggerimento, ma disse che i Caraibi erano troppo lontani e poi si era
ricordato di non avere con sé né passaporto né denaro, indi per cui doveva abbassare il tiro.
Per quanto riguardava il passaporto e il denaro, il signor Karlsson non doveva preoccuparsi.
Mao Tse-tung promise che avrebbe procurato a lui e al suo amico documenti falsi
confezionati a regola d’arte. Avrebbe fornito loro anche un bel mucchio di dollari, di quelli
ne possedeva in abbondanza, denaro che il presidente Truman aveva inviato al Kuomintang
e che il Kuomintang aveva abbandonato quando erano scappati in fretta e furia a Taiwan.
Ma in effetti i Caraibi si trovavano dall’altra parte del pianeta, per cui era meglio pensare a
qualcos’altro.
Mentre i tre comunisti sfegatati continuavano la loro animata discussione su quali fossero i
luoghi non ancora toccati dalla loro ideologia e dove fosse possibile trascorrere delle
vacanze, in cuor suo Allan ringraziò Harry Truman per l’aiuto economico fornitogli
indirettamente.
Vennero proposte le Filippine, ma da un punto di vista politico erano troppo instabili.
Alla fine fu Mao a suggerire Bali. Allan aveva già avuto esperienza del liquore alla banana
indonesiano, per questo Mao aveva pensato proprio all’Indonesia. E poi a Bali non c’era
neppure il comunismo, benché fosse latente, come del resto ovunque a eccezione forse di
Cuba. Che a Bali avessero molto altro da offrire al di là del liquore alla banana, di questo il
presidente Mao era sicuro.
“E allora andiamo a Bali,” concluse Allan. “Vieni anche tu, Herbert?” Lentamente Herbert
Einstein, che ormai si era rassegnato al pensiero di dover vivere ancora un po’, annuì
sconfortato. Sì, sarebbe andato con lui, che altro poteva fare?
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CAPITOLO 19
Mercoledì 11 maggio-Mercoledì 25 maggio 2005
A Klockaregård i ricercati e il presunto morto riuscirono a non farsi scoprire da nessuno.
Il podere si trovava a duecento metri dalla strada, e la casa e il fienile, collocati una accanto
all’altro, schermavano una zona franca a uso e consumo di Sonya. Tra il fienile e il
boschetto, il pachiderma aveva a disposizione un’area per passeggiare senza essere visto
dalle auto di passaggio.
La vita al podere era piacevole sotto tutti i punti di vista. Benny si prendeva cura della ferita
di Gambero e gli somministrava le medicine necessarie con perizia. Buster adorava gli spazi
aperti della pianura del Västgötaslätten, e Sonya stava bene ovunque purché non patisse la
fame e la sua padrona fosse presente e le sussurrasse qualche parola carina. Recentemente si
era aggiunto anche il vecchio, grazie al quale l’elefante si sentiva ancora meglio.
Per Benny e Bella c’era sempre il sole indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, e
se non fosse stato che erano così ricercati si sarebbero sposati immediatamente. Quando si
arriva a una certa età è più facile fare la cosa giusta!
Benny e Bosse stavano imparando a comportarsi da veri fratelli. Quando Benny riuscì a far
capire a Bosse di essere un adulto anche se beveva succo di frutta invece dell’acquavite, le
cose migliorarono molto. Bosse era positivamente impressionato da tutte le competenze del
fratello: forse, in fin dei conti, non era stata un’idiozia né una perdita di tempo frequentare
l’università. Pareva quasi che il fratellino fosse diventato il fratellone e per Bosse era
proprio una bella sensazione.
Allan se ne stava per conto suo. Durante il giorno sedeva rilassato sul dondolo, nonostante
fosse maggio, e di tanto in tanto Gambero lo raggiungeva per fare quattro chiacchiere.
Durante una di queste conversazioni fu chiaro che i due con--dividevano la stessa visione
del nirvana. Secondo entrambi l’armonia suprema si raggiungeva comodamente
spaparanzati su una sdraio, sotto un ombrellone, con un clima caldo e soleggiato e un
cameriere che serviva bevande fresche di vario genere. Allan raccontò a Gambero della
volta in cui aveva trascorso splendide vacanze a Bali sponsorizzate da Mao Tse-tung.
Tuttavia, quando arrivarono a discutere delle bevande, i due mostrarono pareri assai
differenti. Allan preferiva il mix vodka e coca, o in alternativa vodka e pompelmo. E nelle
occasioni speciali le sue preferenze andavano alla combinazione vodka e vodka.
Gambero prediligeva invece colori un po’ più vivaci, in particolare l’arancione che virava
sul giallo ricordandogli il tramonto. E poi ci voleva l’ombrellino. Allan gli chiese a cosa
diavolo servisse l’ombrellino: mica si poteva bere! Gambero rispose che Allan aveva girato
il mondo e senza dubbio aveva visto molte più cose di un povero habitué del penitenziario
di Mall, ma non gli sembrava che capisse granché dell’argomento.
Allan e Gambero andarono avanti per un po’ a litigare sul tema del nirvana. Il primo aveva
pressappoco il doppio degli anni del secondo, il secondo fisicamente era due volte il primo,
eppure andavano d’accordo.
Con il passare dei giorni e delle settimane, i media ebbero sempre più difficoltà a mantenere
vivo l’interesse per il sospetto triplice omicida e il suo seguito. Già dopo qualche giorno la
televisione e i giornali del mattino smisero di parlarne, partendo dal presupposto un po’
limitativo che se non si aveva niente da dire era meglio non dire niente.
146
I giornali della sera resistettero più a lungo: se non c’era nulla da dire si poteva sempre
intervistare e citare qualcuno che non sapeva di non avere nulla da dire. L’“Expressen” ebbe
l’idea di scoprire dove si trovava Allan con l’aiuto dei tarocchi. Comunque, tutto quello che
si poteva scrivere su Allan Karlsson al momento era già stato scritto. In attesa della
prossima bufala. Il che significava che si era alla ricerca di un nuovo argomento in grado di
interessare e coinvolgere tutta la nazione. Nella peggiore delle ipotesi sarebbe andato bene
anche un po’ di digiuno.
I media stavano lasciando cadere nell’oblio il mistero del vegliardo – con un’unica
eccezione.
Sull’“Eskilstuna-Kuriren” si continuava a parlare di alcuni dettagli legati alla scomparsa di
Allan Karlsson. Per esempio, che era stata fatta montare una porta di sicurezza allo sportello
della stazione dei pullman in previsione di assalti futuri. Che l’infermiera Alice della casa di
riposo aveva deciso che Allan Karlsson aveva perso il diritto di permanenza e la sua camera
sarebbe stata assegnata a un altro anziano, qualcuno “capace di apprezzare l’umanità e la
premura del personale”.
Ogni articolo era accompagnato da una sintesi degli avvenimenti che, a detta della polizia,
traevano origine dalla fuga di Allan Karlsson attraverso la finestra della casa di riposo di
Malmköping.
L’editore dell’“Eskilstuna-Kuriren” era un vecchio originale, uno di quelli che,
incredibilmente, sostenevano ancora che si era innocenti finché non veniva dimostrato il
contrario. Per questo il giornale era stato assai cauto nel pubblicare i nomi delle persone
coinvolte nella vicenda. Allan Karlsson veniva citato come Allan Karlsson, ma Julius
Jonsson era “il sessantasettenne” e Benny Ljungberg “il proprietario di un chiosco”.
La cosa provocò l’irata reazione di un signore che un giorno telefonò all’ufficio del
commissario Aronsson. L’uomo disse che intendeva rimanere anonimo, ma era sicuro di
possedere un’informazione decisiva riguardante lo scomparso nonché presunto omicida
Allan Karlsson.
Il commissario Aronsson rispose dicendo che un’informazione decisiva era proprio quello di
cui aveva bisogno e l’informatore poteva senz’altro restare anonimo.
Ebbene, l’uomo aveva letto ogni articolo pubblicato dall’“Eskilstuna-Kuriren” nel corso del
mese precedente e aveva riflettuto molto sull’accaduto. Aggiunse di non avere a
disposizione tutte le informazioni in possesso del commissario, ma da quanto aveva potuto
leggere gli sembrava che la polizia non si fosse occupata abbastanza scrupolosamente dello
straniero.
“Sono certo che il vero criminale sia lui,” sentenziò l’informatore anonimo.
“Lo straniero?” “Sì, non so se il suo nome sia Ibrahim o Muhammed, visto che il giornale lo
chiama con molto tatto il proprietario di un chiosco, come se noi lettori non fossimo in
grado di capire che è turco o arabo o musulmano o qualcosa del genere. Nessuno svedese
apre un chiosco. Soprattutto non ad Åkers Styckebruk. Può funzionare soltanto se sei
straniero e non paghi le tasse.” “Accidenti,” commentò Aronsson. “Quanta roba in una
volta. Tenendo conto che si può essere allo stesso tempo sia turchi che musulmani, o anche
arabi e musulmani, tutto è possibile. Vorrei precisare…” “È sia turco sia musulmano?
Ancora peggio! Ma allora occupatevene sul serio! Lui e la sua maledettissima famiglia. Avrà
cento parenti che vivono di sussidi.” “Non cento,” replicò il commissario. “L’unico parente
che ha è un fratello…” In quel momento un pensiero si fece largo nella mente del
commissario Aronsson.
147
Qualche settimana prima aveva chiesto ai suoi di controllare le parentele di Allan Karlsson,
Julius Jonsson e Benny Ljungberg. Con un po’ di fortuna l’indagine avrebbe chiarito se
nello Småland abitava o meno una sorella o cugina o figlia o nipote possibilmente dai
capelli rossi. Questo prima che venisse identificata Gunilla Björklund.
I risultati erano stati scarsi. Era però emerso un altro nome, allora privo d’importanza.
Ma adesso? Benny Ljungberg aveva un fratello che viveva poco lontano da Falköping.
Erano tutti lì? I pensieri del commissario vennero interrotti dall’anonimo al telefono: “E
dove ce l’ha il chiosco il fratello? Quante tasse paga? Arrivano qui e traviano la nostra bella
gioventù svedese, questa immigrazione di massa dovrà pur finire! Mi sente?” Aronsson
rispose affermativamente, aggiungendo che gli era molto riconoscente per aver chiamato,
anche se il proprietario del chiosco si chiamava Ljungberg ed era assolutamente svedese,
quindi né turco né arabo. Se Ljungberg fosse musulmano o meno, questo Aronsson non lo
sapeva. Del resto quel particolare non lo interessava affatto.
L’uomo disse di avvertire un tono pungente e ironico nella risposta del commissario e di
conoscere benissimo quell’atteggiamento socialdemocratico.
“Siamo in tanti e aumentiamo sempre di più, vedrà alle prossime elezioni,” predicò
l’anonimo.
Il commissario Aronsson temeva che il tipo avesse ragione. Quello che persone più
moderate e parzialmente illuminate quali lo stesso commissario potevano fare era mandarlo
a quel paese e riattaccare. Invece era necessario affrontare la discussione.
Ecco cosa pensò il commissario, mandando l’anonimo a quel paese e riattaccando.
Aronsson telefonò al GIP Ranelid per comunicargli che il giorno dopo, con il suo permesso,
si sarebbe recato nel Västergötland per controllare una soffiata riguardante il vecchio e il
suo seguito (non gli sembrò il caso di aggiungere che conosceva l’esistenza del fratello di
Benny Ljungberg da parecchie settimane). Augurata buona fortuna ad Aronsson, Ranelid si
sentì nuovamente esaltato all’idea che tra breve sarebbe rientrato nella schiera d’elezione
dei GIP riusciti a spiccare un’accusa di omicidio premeditato o colposo (o almeno di
complicità aggravata), benché i corpi delle vittime non fossero mai stati trovati. Oltretutto,
sarebbe stata la prima volta nella storia del crimine in cui erano coinvolte più vittime. Prima
però Karlsson e il suo seguito dovevano ricomparire, ma era soltanto questione di tempo.
Forse Aronsson sarebbe riuscito a stanarli il giorno dopo?
Erano quasi le cinque del pomeriggio e il GIP si stava preparando a lasciare l’ufficio,
fischiettando tra sé e lasciando correre il filo dei pensieri. Avrebbe potuto scrivere un libro
su quel caso. La più grande vittoria della giustizia. Poteva essere un buon titolo?
Troppo pretenzioso? Una grande vittoria della giustizia. Meglio. Più umile. Conforme alla
personalità dello scrivente.
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CAPITOLO 20
1953-1968
Mao Tse-tung fornì ad Allan e a Herbert passaporti britannici falsi (chissà come aveva
fatto). Il viaggio in aereo iniziò a Shenyang e proseguì via Shanghai, Hong Kong e Malesia.
In poco tempo gli ex evasi si ritrovarono a Bali sotto un ombrellone, su una spiaggia
bianchissima a qualche metro dall’Oceano Indiano.
Tutto sarebbe stato perfetto se soltanto la cameriera dell’albergo, peraltro gentile e ben
disposta, non avesse sbagliato un’ordinazione dietro l’altra. Allan e Herbert chiedevano da
bere, e lei puntualmente portava loro qualcosa che non aveva niente a che fare con le loro
richieste. Questo quando avevano la fortuna di essere serviti, visto che ogni tanto la tizia si
perdeva in giro per la spiaggia. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando Allan ordinò
un vodka coca (“Più vodka che coca, grazie”) e lei gli portò del Pisang Ambon, un liquore
alla banana molto molto verde.
“Adesso basta,” esclamò Allan, pronto ad andare dal direttore dell’albergo per chiedere il
licenziamento immediato della cameriera.
“Niente affatto!” replicò Herbert. “È deliziosa!” La cameriera si chiamava Ni Wayan
Laksmi, aveva trentadue anni e avrebbe già dovuto essere sposata da un pezzo. Tuttavia, pur
essendo di bell’aspetto proveniva da una famiglia umile, era nullatenente ed era conosciuta
per possedere il quoziente intellettivo di una kodok, la rana balinese. Ecco perché Ni Wayan
Laksmi era rimasta al palo quando ancora era una fanciulla in età da marito.
Comunque, la cosa non l’aveva turbata più di tanto: si era sempre sentita a disagio in
compagnia di un uomo. E anche di una donna. Insomma, in compagnia di chiunque.
Fino a quel momento! In uno dei due bianchi ospiti dell’albergo c’era qualcosa di speciale.
Si chiamava Herbert e sembrava che loro due… avessero parecchie cose in comune. Lui era
trent’anni più vecchio, ma a lei non importava perché era… innamorata! E il suo amore era
corrisposto. Herbert non aveva mai conosciuto una donna tarda come lui.
Per il suo quindicesimo compleanno, Ni Wayan Laksmi aveva ricevuto in regalo dal padre
un manuale di olandese. L’idea era che la figlia imparasse quella lingua, dato che all’epoca
l’Indonesia era ancora una colonia olandese. Dopo quattro anni di sudore versato sulle
pagine del manuale, un olandese aveva bussato alla loro porta. Per la prima volta Ni Wayan
Laksmi aveva osato pronunciare qualche parola in olandese, ma era stata informata che
quello che stava parlando era tedesco. Il padre, neanche lui un’aquila, le aveva regalato il
manuale sbagliato.
Adesso, diciassette anni dopo, quella sfortunata circostanza si era trasformata in
un’opportunità: Ni Wayan Laksmi e Herbert potevano comunicare e dichiararsi il loro
amore.
Dopo avere chiesto, e ottenuto, metà della somma che Mao Tse-tung aveva consegnato ad
Allan, Herbert si recò dal padre di Ni Wayan Laksmi per chiedergli la mano della figlia
maggiore. Il padre pensava di essere vittima di uno scherzo: ecco che arrivava uno straniero,
un bianco, un bule come si diceva in indonesiano, con le tasche piene di soldi, a chiedere in
sposa la sua figlia più stupida. La famiglia di Ni Wayan Laksmi apparteneva alla casta dei
sundra, i contadini, la più bassa delle quattro caste balinesi.
“È questa la casa che stava cercando?” domandò il padre. “Ed è sicuro che si tratti della mia
149
figlia maggiore?” Herbert Einstein rispose che, nonostante fosse un gran confusionario,
questa volta era certo del fatto suo.
Due settimane più tardi furono celebrate le nozze, dopo che Herbert si convertì al… a
qualche religione di cui non ricordava il nome, ma era una religione divertente, con la testa
di un elefante e cose del genere come simboli.
Per un paio di settimane Herbert si sforzò di imparare il nome della moglie, ma alla fine
gettò la spugna.
“Amore, non ricordo mai come ti chiami. Ti spiace se ti chiamo Amanda?” “Niente affatto,
amore mio. Amanda suona bene. Ma perché proprio Amanda?” “Non lo so. Hai una
proposta migliore?” Ni Wayan Laksmi non ne aveva, così da quel momento in poi divenne
Amanda Einstein.
Herbert e Amanda si comprarono una casa nella città di Sanur, non lontano dall’albergo e
dalla spiaggia dove Allan passava le sue giornate. Amanda smise di fare la cameriera.
Secondo lei tanto valeva che si licenziasse da sola, o prima o poi l’avrebbero fatto i suoi
datori di lavoro, visto che non ne combinava una giusta. Ora si trattava solo di pensare al
loro futuro.
Proprio come Herbert, Amanda sapeva confondere tutto quello che c’era da confondere. La
sinistra diventava destra, sopra diventava sotto, qui diventava là… La ragione per cui non
aveva concluso gli studi, ad esempio, era che qualche volta trovava la scuola e qualche altra
no.
Adesso Amanda e Herbert avevano un mucchio di dollari e tutto sarebbe senz’altro andato
per il meglio. Amanda non era una cima, come precisò lei stessa al consorte, ma non era
nemmeno così stupida!
Spiegò a suo marito che in Indonesia era possibile comprare qualsiasi cosa, pertanto chi
possedeva un po’ di denaro si trovava in una situazione estremamente vantaggiosa.
A Herbert non era chiaro cosa Amanda intendesse dire, e lei si riconobbe a tal punto nel suo
stato d’animo che, anziché fornirgli ulteriori spiegazioni, disse semplicemente: “Dimmi cosa
desideri, caro Herbert.” “In che senso? Tipo guidare una macchina?” “Esatto!” Detto questo,
con la scusa che aveva alcune faccende da sbrigare Amanda lo salutò, assicurandogli che
sarebbe rincasata prima di cena.
Tre ore dopo era di ritorno. Aveva con sé una patente nuova di zecca intestata a Herbert, e
non solo. Aveva anche un diploma nel quale Herbert figurava come istruttore di guida
autorizzato, e un contratto che attestava l’acquisto della scuola guida locale da lei
ribattezzata: Istruzione alla guida, Autoscuola Einstein.
A Herbert tutto questo sembrava fantastico, ma… le sue conoscenze in materia di guida
restavano invariate. E invece no, in un certo senso no, gli spiegò Amanda, perché ora aveva
una posizione, e da oggi in poi sarebbe stato lui a decidere chi sapeva guidare e chi no. In
Indonesia la vita funzionava così: il giusto non era giusto di per sé, ma perché colui che
poteva farlo lo dichiarava tale.
Herbert si illuminò: aveva capito!
L’Istruzione alla guida, Autoscuola Einstein fu un successo assoluto. Quasi tutti gli abitanti
dell’isola bisognosi di patente andavano a prenderla da quel bianco tanto simpatico. Herbert
non tardò a calarsi nel ruolo. Teneva personalmente le lezioni di teoria, nelle quali chiariva
gentilmente, ma con autorevolezza, che era importante non andare troppo veloce in quanto
si rischiava un incidente. Però non si doveva neanche andare troppo piano, perché in quel
caso si rischiava di paralizzare il traffico. Gli studenti pendevano dalle sue labbra: il maestro
150
sembrava avere grande cognizione di causa.
Dopo sei mesi Herbert aveva provocato il fallimento di due altre scuole guida e ora deteneva
il monopolio sull’isola. Lo raccontò ad Allan nel corso di una delle sue visite settimanali
alla spiaggia.
“Sono orgoglioso di te, Herbert,” disse Allan. “Per il fatto che proprio tu, fra tutti gli esseri
umani, ti sia messo a dirigere una scuola guida! In un paese con la guida a sinistra e
quant’altro…” “Guida a sinistra? In Indonesia si tiene la sinistra?” Nel frattempo Amanda
non era rimasta con le mani in mano. Si era occupata della propria istruzione fino a ottenere
una laurea in economia. Le ci erano volute parecchie settimane e le era costato un occhio
della testa, ma alla fine aveva in mano un attestato di laurea con il massimo dei voti
rilasciato da una delle migliori università di Giava.
Con il suo titolo di studio in tasca aveva passeggiato lungo la spiaggia di Kuta cercando di
riflettere. Quale nuova eventuale occupazione avrebbe potuto portare gioia e felicità alla sua
famiglia? Per quanto fosse laureata in economia non sapeva fare di conto più dello stretto
necessario, ma forse… in effetti, ma sì… accidenti a me, pensò Amanda Einstein.
“Entrerò in politica!” Amanda Einstein fondò il Partito liberale democratico della libertà
(liberale, democratico e libertà erano parole che secondo lei stavano bene insieme). Trovò
subito seimila sostenitori convinti, che in autunno si sarebbero presentati alle urne. L’attuale
governatore avrebbe rassegnato le dimissioni per motivi d’età, e prima che spuntasse
Amanda c’era un solo candidato alla successione. Ora invece erano due. Uno era un uomo, e
pedana, l’altro una donna, e sundra. Quindi la vittoria di Amanda era decisamente
improbabile… se lei non avesse avuto quel mucchio di dollari.
Herbert non aveva nulla in contrario sul fatto che sua moglie si buttasse in politica, pur
sapendo che Allan, sotto il suo ombrellone, la politica non l’aveva mai sopportata, tanto più
dopo gli anni trascorsi nel gulag.
“Dovremo diventare comunisti?” chiese Herbert nervoso.
Secondo Amanda no: nel nome del partito non c’era nessun accenno al comunismo, ma se
Herbert ci teneva potevano sempre aggiungerlo.
“Partito liberale democratico comunista della libertà,” commentò Amanda assaporando il
suono di quelle parole. “Un po’ lungo, ma potrebbe funzionare.” Herbert non intendeva dire
quello. Anzi. Meno politico era il loro partito, tanto meglio sarebbe stato.
A quel punto discussero del finanziamento della campagna elettorale. Alla fine non
avrebbero più avuto quel mucchio di dollari: per vincere li avrebbero dovuti spendere quasi
tutti. Cosa ne pensava Herbert?
L’interessato rispose che in famiglia Amanda era di sicuro quella che aveva più conoscenza
in materia. In senso lato, ovvio.
“Bene,” disse Amanda. “Allora investiremo un terzo del capitale nella campagna elettorale,
un terzo in bustarelle per i dirigenti di ogni distretto e un terzo per diffamare l’avversario più
temibile. L’ultimo terzo lo terremo per vivere se le cose dovessero andarci male. Cosa ne
pensi?” Herbert si grattò il naso: non aveva nessuna idea al riguardo. Raccontò i piani di
Amanda ad Allan e quest’ultimo sospirò al pensiero di come un essere umano che non
sapeva distinguere tra un liquore alla banana e un grog potesse pensare di darsi alla politica.
Va be’, perlomeno avevano ancora un mucchio di dollari e la sua metà era cospicua. Così
promise che avrebbe dato loro altri soldi a elezioni concluse. A patto che la smettessero di
fare progetti così poco ragionevoli.
Herbert ringraziò. Allan era davvero gentile, sì.
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L’aiuto di Allan non fu necessario. Le elezioni per il ruolo di governatore furono un
successo per Amanda. Vinse con quasi l’ottanta per cento dei voti, contro il ventidue
dell’avversario. Che la somma totale dei voti superasse il cento per cento secondo
l’avversario indicava che c’erano stati dei brogli, ma un tribunale eliminò subito ogni
dubbio, minacciando il perdente di sanzioni penali se avesse continuato a diffamare il nuovo
governatore, la signora Einstein. Va aggiunto che poco prima della sentenza Amanda e il
giudice si erano incontrati per una tazza di tè.
Mentre Amanda Einstein conquistava l’isola in modo lento ma inesorabile, e mentre il
coniuge Herbert insegnava alla gente a guidare (senza doversi mettere personalmente al
volante più del necessario), Allan trascorreva il suo tempo in spiaggia, sulla sdraio e con
qualcosa di adeguato in mano. Dal momento che Amanda aveva smesso di fare la cameriera
otteneva quasi sempre ciò che aveva ordinato.
Oltre a starsene seduto dov’era a bere quello che beveva, Allan sfogliava i giornali stranieri
che arrivavano apposta per lui, mangiava quando aveva fame e faceva un riposino dopo
pranzo se la giornata era stata pesante.
I giorni divennero settimane, le settimane mesi e i mesi anni senza che Allan si stancasse di
essere in vacanza. Dopo un decennio aveva ancora un mucchio di dollari, in parte perché il
gruzzolo ricevuto in dono era parecchio consistente, in parte perché Amanda e Herbert
Einstein nel frattempo erano diventati proprietari dell’albergo dove risiedeva, per cui stare lì
non gli costava nulla.
Allan aveva raggiunto i cinquantotto anni e continuava a muoversi il meno possibile, mentre
Amanda procedeva con la sua scalata al mondo della politica. Godeva di un forte consenso
in molti strati della popolazione, come dicevano tutti i sondaggi e i rilevamenti eseguiti
dall’istituto di statistica locale di proprietà di una delle sue sorelle, dalla quale veniva anche
gestito. Eppure Bali era stata individuata da un’organizzazione umanitaria come la regione
meno corrotta del paese. Dopo che Amanda aveva comprato l’organizzazione.
Nonostante questo, la lotta alla corruzione era uno dei tre principali obiettivi del programma
di Amanda come governatore, soprattutto per poter giustificare i corsi contro la corruzione
che aveva introdotto in tutte le scuole. Inizialmente un preside di Denpasar aveva contestato
la decisione, poiché a suo avviso così facendo si sarebbe potuto ottenere l’effetto contrario,
ma solo fino a quando Amanda non lo nominò presidente del comitato anticorruzione
proponendogli uno stipendio doppio rispetto a quello attuale. Fu così che cambiò idea.
L’obiettivo numero due era la lotta al comunismo, che Amanda, appena eletta, espresse
mettendo fuorilegge il partito comunista locale, diventato a suo avviso troppo popolare.
In questo caso se la cavò spendendo molto meno del previsto.
Per raggiungere il terzo obiettivo fu aiutata da Allan e Herbert, che la informarono che nella
maggior parte del globo terrestre non c’erano trentadue gradi tutto l’anno. In quella parte del
pianeta che chiamavano Europa, ad esempio, faceva molto freddo; in particolare a nord, da
dove veniva Allan. Amanda pensò che in giro per il mondo ci dovevano essere un bel po’ di
ricconi infreddoliti che avrebbero dovuto approdare a Bali per scaldarsi le ossa. Così favorì
lo sviluppo del turismo, grazie a una serie di norme che consentivano la costruzione di
alberghi di lusso sui terreni che aveva appena acquistato.
Amanda si prese cura dei suoi cari nel migliore dei modi. Padre, madre, sorelle, zii, zie e
cugine guadagnarono tutti delle posizioni centrali nella società balinese. Il risultato fu che
Amanda venne eletta altre due volte. La seconda con una quantità di voti anche maggiore
della precedente.
152
In quegli anni riuscì anche a mettere al mondo due maschi: Allan Einstein (Herbert
intendeva così ringraziare l’omonimo di suo figlio per essere arrivato fin lì), e Mao Einstein
(per quel mucchio di dollari che si erano rivelati tanto utili).
Un giorno però le cose presero una brutta piega. Tutto ebbe inizio con l’eruzione del
Gunung Agung, un vulcano alto tremila metri. Per Allan, che si trovava a settanta chilometri
dal luogo del disastro, l’unica conseguenza fu che il fumo oscurò il sole. Agli altri andò
decisamente peggio. Morirono migliaia di persone, ma molte di più furono costrette a
lasciare l’isola. Il governatore di Bali, così popolare fino a quel momento, non prese
decisioni degne di nota, non sapendo se toccasse o meno a lei prenderne.
Lentamente il vulcano si placò, ma ormai l’isola era distrutta, sia dal punto di vista politico
sia da quello economico – esattamente come il resto del paese. Qualche anno dopo, a
Giacarta, Suharto subentrò con la forza a Sukarno. A differenza del suo predecessore, il
nuovo presidente non aveva alcuna intenzione di perdersi in ciance con avanzi politici di
varia natura; ordinò quindi di liquidare fisicamente comunisti, presunti comunisti, sospetti
comunisti, possibili comunisti, comunisti potenzialmente comunisti e qualche innocente. In
pochissimo tempo morirono tra le duecentomila e i due milioni di persone: ma le cifre non
potevano essere esatte, dal momento che molti cinesi indonesiani furono cacciati dal paese
in quanto comunisti, salvo poi, giunti in Cina, essere trattati come capitalisti.
Quando il fumo si disperse, su duecento milioni di abitanti non si trovava più un
indonesiano che sbandierasse idee comuniste (a scanso di equivoci, la cosa fu dichiarata
reato). Completata la missione, Suharto invitò gli Stati Uniti e altri paesi occidentali a
spartirsi le ricchezze della nazione. Ciò mise in moto l’economia del paese e le condizioni
degli abitanti migliorarono, ma migliorarono soprattutto quelle di Suharto, che di colpo
diventò ricchissimo. Un contributo fu dato anche dai militari, che introdussero nel proprio
curriculum il contrabbando dello zucchero.
A quel punto Amanda Einstein non si divertiva più. Quasi ottantamila balinesi erano morti a
causa dell’ambizioso progetto in base al quale i cittadini non dovevano mettersi in testa idee
sbagliate, portato avanti dal governo di Giacarta.
Herbert era andato in pensione e lei stava meditando di fare lo stesso, benché non avesse
neanche quarantasette anni. La famiglia possedeva terreni e alberghi, e il mucchio di dollari
che aveva reso possibile accumulare quella ricchezza era stato convertito in un mucchio di
dollari ancora più grande. Forse era arrivato il momento di ritirarsi, ma per fare cosa?
“Che ne direbbe di diventare l’ambasciatore indonesiano a Parigi?” chiese ad Amanda senza
mezzi termini Suharto, dopo essersi presentato al telefono.
Suharto aveva notato e apprezzato l’operato di Amanda Einstein a Bali, e la sua tenacia
nell’epurare ogni traccia di comunismo a livello locale. Inoltre, desiderava che ci fosse una
maggiore rappresentanza femminile fra i diplomatici indonesiani all’estero, per un migliore
equilibrio fra i sessi, e se Amanda Einstein avesse accettato il rapporto sarebbe stato di
ventiquattro a uno.
“Parigi?” rispose lei. “E dov’è?” Inizialmente Allan pensò che l’eruzione del 1963 fosse un
segno della provvidenza che gli intimava di rimettersi in moto. Ma quando dietro tutto quel
fumo il sole fece di nuovo capolino, ogni cosa tornò alla normalità (a parte gli scontri in
strada per via della guerra civile). Se la provvidenza non gli avesse inviato segni più chiari,
tanto valeva che restasse dov’era. Decise perciò di rimanere seduto sulla sua sdraio ancora
per qualche anno.
Tuttavia, quando Herbert gli disse che lui e Amanda si sarebbero trasferiti a Parigi, si risolse
153
a fare le valigie e andarsene. Se Allan avesse voluto seguirli, l’amico gli avrebbe procurato
un falso passaporto indonesiano al posto del falso passaporto britannico, ormai scaduto, in
suo possesso. Il futuro ambasciatore avrebbe assunto Allan all’ambasciata, non perché
questi avesse bisogno di lavorare, ma perché i francesi potevano fare gli schizzinosi e
tergiversare prima di concedere a chicchessia il permesso di entrare a casa loro.
Allan accettò. Si sentiva abbastanza riposato. Inoltre Parigi si trovava in un angolo
tranquillo e stabile del mondo, senza tutte le sommosse che avevano scosso Bali negli ultimi
anni e infuriavano persino intorno al suo albergo.
La partenza avvenne due settimane dopo. Amanda prese servizio all’ambasciata il 1°
maggio.
L’anno era il 1968.
154
CAPITOLO 21
Giovedì 26 maggio 2005
Quella mattina Per-Gunnar Gerdin stava ancora dormendo quando, giunto a Klockaregård, il
commissario Göran Aronsson scoprì con stupore che Allan Emmanuel Karlsson era
placidamente seduto su un dondolo nella spaziosa veranda della casa.
Benny, Bella e Buster erano impegnati nell’approvvigionamento idrico della nuova stalla di
Sonya, dentro il fienile. Julius si era fatto crescere la barba, ragion per cui aveva ottenuto il
permesso di accompagnare Bosse a Falköping per fare spese. Allan, che si era appisolato,
non si svegliò finché il commissario non segnalò la sua presenza.
“Allan Karlsson, presumo?” esordì il commissario Aronsson.
Aperti gli occhi, l’interessato disse che presumeva lo stesso, mentre non aveva idea di chi
fosse la persona che gli stava rivolgendo quella domanda. Poteva lo sconosciuto
identificarsi?
Il commissario lo fece volentieri. Disse di chiamarsi Aronsson, di essere un commissario di
polizia e di essere da parecchio tempo sulle tracce del signor Karlsson, in quanto sospettato
di diversi omicidi. Anche gli amici del signor Karlsson, i signori Jonsson, Ljungberg e la
signora Björklund, erano sospettati degli stessi crimini. Sapeva per caso dove si trovassero?
Allan esitò a rispondere: per prima cosa doveva raccogliere le idee, in fondo si era appena
svegliato. Il commissario capiva, vero? Non si andava in giro a sparlare dei propri amici
senza averci riflettuto bene; il commissario era d’accordo, no?
Quest’ultimo rispose che l’unico consiglio che poteva dare al signor Karlsson era di dirgli
tutto quello che sapeva, ma, per carità, non c’era fretta.
La risposta piacque ad Allan che, invitato il commissario ad accomodarsi sul dondolo,
dichiarò che per prima cosa sarebbe andato in cucina a preparargli un buon caffè.
“Gradisce dello zucchero? Latte?” Il commissario Aronsson non era solito permettere ai
delinquenti appena scovati di andarsene in giro a piacimento, seppure in una cucina non
lontana, ma il soggetto che gli stava davanti aveva un’aria nient’affatto pericolosa. E poi dal
dondolo avrebbe potuto controllare sia la cucina sia i movimenti di Allan. Quindi annuì.
“Latte, grazie. Niente zucchero,” disse sedendosi.
Il sospettato si diresse a fatica in cucina (“Magari anche un dolcino?”), mentre il
commissario Aronsson se ne stava seduto in veranda, pensando che gli era incomprensibile
come fosse finito in quella situazione. Quando, in lontananza, aveva visto un vecchio seduto
sulla veranda, sulle prime aveva pensato: che si trattasse del padre di Bo Ljungberg, il quale
l’avrebbe sicuramente aiutato a trovare suo figlio; che avrebbe avuto conferma che i
sospettati non si trovavano nei paraggi; e che il viaggio per arrivare fino al Västergötland si
sarebbe quindi rivelato inutile.
Invece, giunto in prossimità della veranda, aveva scoperto che il vecchio sul dondolo era
proprio Allan Karlsson. Bingo!
Aronsson aveva cercato di stare calmo e di comportarsi in modo professionale, anche se non
era ben chiaro quanto fosse professionale permettere a un sospetto triplice omicida di andare
in cucina a preparare il caffè mentre lui se ne stava lì, comodamente seduto come un
dilettante. Allan Karlsson, cent’anni, non sembrava pericoloso, ma cosa avrebbe potuto fare
Aronsson se fossero spuntati fuori anche gli altri sospettati, magari in compagnia di Bo
155
Ljungberg, forse a sua volta coinvolto nei reati?
“Mi ha detto latte e niente zucchero?” urlò Allan dalla cucina. “Alla mia età la memoria è
corta.” Dopo avere confermato che, sì, voleva il latte, il commissario estrasse il cellulare
con l’intenzione di chiamare i colleghi di Falköping e chiedere rinforzi. Per sicurezza, erano
necessarie due volanti.
Ma uno squillo lo anticipò. Rispose: era il GIP Ranelid, che aveva delle informazioni
sensazionali da comunicargli.
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CAPITOLO 22
Mercoledì 25 maggio-Giovedì 26 maggio 2005
Il marinaio egiziano che aveva buttato i resti di Bengt “Bullone” Bylund ai pesci del mar
Rosso era sceso a Gibuti grazie a una licenza di tre giorni.
Nella tasca posteriore dei pantaloni aveva il portafoglio di Bullone, nel quale c’erano tra
l’altro ottocento corone svedesi. Il marinaio non aveva idea di quanto valessero, ma quei
soldi avevano alimentato in lui una certa speranza, indi per cui si era messo a cercare un
ufficio cambi.
Senza molta fantasia la capitale dello Gibuti si chiamava Gibuti, ed era un luogo vivace e
giovane. Vivace perché lo Gibuti si trovava in un punto strategico del Corno d’Africa,
proprio sullo sbocco del mar Rosso. Giovane perché chi viveva lì difficilmente raggiungeva
un’età degna di nota: compiere cinquant’anni era un’eccezione.
Il marinaio si fermò al mercato del pesce, forse per mangiarsi una frittura prima di
riprendere la ricerca dell’ufficio cambi. Notò un uomo del luogo tutto sudato, che si
dimenava con in volto un’espressione smarrita. Il marinaio pensò che non c’era niente di
strano nel fatto che quell’uomo sudato fosse così sudato, sia perché c’erano sicuramente
trentacinque gradi all’ombra, sia perché indossava un doppio sarong e una doppia camicia
sotto il fez calcato per bene sulla testa.
L’uomo sudato aveva circa venticinque anni e non sembrava avere alcuna ambizione di
invecchiare. Era molto agitato. Non per il fatto che metà della popolazione dello Gibuti
fosse disoccupata o perché un abitante su cinque era sieropositivo o malato di AIDS, né per
la mancanza d’acqua potabile o perché il deserto continuava ad avanzare occupando i miseri
campi rimasti. No, l’uomo era agitato per il fatto che gli Stati Uniti avevano costruito una
base militare nel suo paese.
Ma a quanto pareva gli Stati Uniti non erano i soli. Da tempo era presente anche la Legione
straniera francese. I legami tra lo Gibuti e la Francia un tempo erano stati forti.
Il paese si era chiamato Somalia francese prima di diventare uno Stato indipendente, negli
anni Settanta.
Nei pressi della base della Legione straniera, gli Stati Uniti avevano mediato per godere
delle stesse prerogative, a giusta distanza dal Golfo e dall’Afghanistan, e non lontano dalla
serie di turbolenze che investivano i paesi centroafricani.
Bella idea, pensavano gli americani, mentre a quasi tutti i gibutiani non importava niente di
niente: erano troppo impegnati nella lotta per la sopravvivenza quotidiana.
Evidentemente, però, qualcuno di loro aveva avuto il tempo di riflettere sulla faccenda.
O forse era troppo devoto per restare su questa terra.
Il qualcuno in questione vagava per il centro della capitale a caccia di un gruppo di soldati
americani in licenza. Giocherellava nervosamente con la linguetta che avrebbe sollevato di
lì a poco per spedire gli americani all’inferno e poi volare in direzione opposta.
Ma faceva caldo e il tizio sudava copiosamente (fatto di per sé normale a Gibuti). Non
soltanto per via della bomba che gli era stata piazzata addosso, ma anche perché l’ordigno
richiedeva un doppio strato d’indumenti per essere nascosto. All’uomo stavano quasi per
cuocere le cervella e finì per esagerare con la linguetta.
Fu così che ridusse in brandelli se stesso e i poveracci che gli stavano intorno. Altri tre
157
gibutiani morirono a causa dei traumi riportati e una decina rimasero gravemente feriti.
Nessuno di loro era americano, mentre risultò che l’uomo che si trovava più vicino
all’attentatore era europeo. La polizia aveva trovato il portafoglio, incredibilmente ben
conservato, accanto ai resti del proprietario. Dentro c’erano ottocento corone svedesi,
insieme al passaporto e alla patente.
Il giorno dopo, il console onorario svedese a Gibuti venne informato dal sindaco della città
che tutti gli indizi lasciavano intendere che il cittadino di nazionalità svedese Erik Bengt
Bylund era stato vittima di un folle attentato avvenuto al mercato del pesce.
Era impossibile ricomporre i resti di Bylund, dal momento che il corpo era stato dilaniato
dall’esplosione. Le spoglie andavano immediatamente cremate, con un rituale rispettoso del
defunto.
Il console onorario avrebbe ricevuto il portafoglio di Bylund, con il passaporto e la patente
(il denaro era scomparso durante gli accertamenti). Il sindaco si scusava di non essere
riuscito a proteggere in modo adeguato il cittadino svedese, tuttavia, con il permesso del
console, si sentiva in dovere di richiamare la sua attenzione su un punto.
La questione era che Bylund si trovava a Gibuti senza il visto. Il sindaco non si ricordava
neanche più quante volte aveva sollevato il problema con i francesi e il presidente Guelleh.
Se i francesi intendevano far giungere i loro legionari direttamente alla base per via aerea,
era un problema loro, ma nel momento in cui un legionario in abiti civili si trovava nella
città di Gibuti (“la mia città”, stando alle parole del sindaco), allora doveva avere i
documenti in regola. Il sindaco non dubitava minimamente che Bylund fosse un legionario,
conosceva troppo bene il genere. Gli americani stavano attenti a seguire le regole, mentre i
francesi si comportavano come se si trovassero ancora nella Somalia francese.
Il console onorario ringraziò formalmente il sindaco per le condoglianze e promise che, alla
prima occasione, avrebbe discusso la questione dei visti con le autorità francesi di
competenza.
Fu davvero un’esperienza terribile per Arnis Ikstens, il poveraccio addetto alla pressa del
cantiere di rottamazione alla periferia meridionale di Riga. Una volta che ebbe finito di
demolire l’ultima auto, dalla lamiera spuntò il braccio di un essere umano.
Arnis chiamò subito la polizia e decise che, benché fosse primo pomeriggio, sarebbe andato
a casa. L’immagine di quel braccio senza vita lo avrebbe perseguitato a lungo.
Era possibile che il proprietario del braccio fosse già morto prima che Arnis rottamasse
l’auto?
Fu il capo della polizia di Riga a comunicare all’ambasciata svedese che il loro
connazionale Henrik Mikael Hultén era stato trovato morto in una Ford Mustang, in un
cantiere di rottamazione nella parte meridionale della città.
O meglio, non era ancora stato accertato che fosse lui, ma il contenuto del portafoglio che il
morto aveva con sé stava a indicare proprio questo.
Alle 11,15 di giovedì 26 maggio, il ministero degli Affari esteri a Stoccolma ricevette dal
console onorario a Gibuti un fax, con informazioni e documenti relativi a un cittadino
svedese deceduto. Otto minuti dopo ne giunse un altro, sullo stesso tema, ma questa volta
inviato dall’ambasciata svedese di Riga.
Il funzionario del ministero riconobbe subito i nomi e le foto dei due morti: non era passato
molto tempo da quando aveva letto di loro sull’“Expressen”. Alquanto strano, pensò, che
quei due avessero finito i propri giorni così lontano dalla Svezia – dall’articolo sul giornale
non lo si sarebbe detto. Comunque, era un problema che riguardava la polizia e il GIP.
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Scannerizzati entrambi i fax, il funzionario scrisse un’email contenente tutte le informazioni
riguardanti le due vittime, dopodiché la inoltrò al commissariato di Eskilstuna. Lì, toccò a
un agente leggerla; dopo avere aggrottato la fronte la inviò a sua volta al GIP Ranelid.
La vita del GIP Conny Ranelid fu sul punto di andare in pezzi. Il caso del centenario nonché
sospetto triplice omicida avrebbe dovuto rappresentare la svolta tanto attesa che il GIP
sapeva di meritarsi.
Ora invece risultava che la vittima numero uno, creduta morta nel Sörmland, era deceduta
tre settimane dopo a Gibuti, e la vittima numero due, in teoria morta nello Småland, aveva
fatto lo stesso a Riga.
Dopo che ebbe inspirato ed espirato profondamente per almeno dieci volte davanti alla
finestra spalancata dell’ufficio, il cervello del GIP riprese a funzionare. Devo telefonare ad
Aronsson, pensò Ranelid. E Aronsson deve trovare la vittima numero tre. E ci deve essere
un legame tra il vecchio e il terzo morto. Deve essere così.
In caso contrario Ranelid si era coperto di ridicolo.
Riconosciuta la voce del GIP Ranelid al telefono, Aronsson riferì di avere appena
localizzato Allan Karlsson, attualmente in stato d’arresto (nonostante fosse in cucina a
preparare per lui caffè e dolcetti).
“Per quanto riguarda gli altri, sospetto che si trovino nei paraggi ma credo sia meglio
richiedere dei rinf…” Il GIP Ranelid, disperato, interruppe il commissario comunicandogli
che la vittima numero uno era stata trovata a Gibuti, la vittima numero due a Riga, e la
catena degli indizi stava per andare in frantumi.
“Gibuti?” chiese il commissario Aronsson. “E dov’è?” “Non lo so,” rispose il GIP.
“Comunque, se si trova a una distanza maggiore di venti chilometri rispetto alla fonderia di
Åkers Styckebruk, questa notizia indebolisce terribilmente la mia tesi. Adesso devi trovare
la vittima numero tre, hai sentito, Göran?
Devi trovarla!” In quel momento sulla veranda apparve un Per-Gunnar Gerdin appena
sveglio, che salutò gentilmente ma con circospezione Aronsson, che a sua volta lo fissava
con gli occhi spalancati.
“Ho la certezza che la terza vittima mi abbia appena trovato,” disse allora il commissario.
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CAPITOLO 23
1968
All’ambasciata indonesiana di Parigi Allan non aveva incarichi da svolgere. Il nuovo
ambasciatore, la signora Amanda Einstein, gli assegnò una bella stanza da letto dicendogli
che sarebbe stato libero di fare ciò che voleva.
“Sarebbe gentile da parte tua darmi una mano in qualità d’interprete, in caso mi capitasse la
sfortuna di essere costretta a incontrare persone provenienti da altri paesi.” Allan replicò che
non escludeva affatto tale sfortuna, vista la natura del suo incarico. Il primo straniero
l’aspettava già il giorno seguente, se aveva capito bene.
Amanda lanciò un paio di maledizioni all’idea di doversi recare all’Eliseo per accreditarsi.
La cerimonia non sarebbe durata più di due minuti, ma per chi aveva la tendenza a dire
stupidaggini era un lasso di tempo più che sufficiente, e secondo Amanda lei questa
tendenza ce l’aveva.
Allan conveniva sul fatto che talvolta Amanda dicesse stupidaggini, ma era certo che
davanti al presidente de Gaulle sarebbe andato tutto per il meglio: bastava che parlasse
unicamente la sua lingua, sorridesse e mantenesse un tono garbato.
“Come hai detto che devo parlare?” chiese Amanda.
“In indonesiano, o meglio in balinese.” Allan uscì a passeggiare per Parigi. Da un lato, dopo
quindici anni passati su una sdraio gli pareva giunto il momento di sgranchirsi le gambe,
dall’altro, vedendo il proprio riflesso in uno specchio dell’ambasciata si era ricordato che
non si tagliava i capelli, rasava o pettinava dall’eruzione del ’63.
Tuttavia sembrava impossibile trovare un barbiere aperto. O qualsiasi altro negozio. Di
aperto non c’era niente, pareva che fosse addirittura in corso uno sciopero generale e che
tutti stessero occupando il suolo pubblico marciando in corteo, rovesciando auto e urlando e
imprecando e lanciandosi addosso oggetti di ogni genere. Le barricate bloccavano la strada
che Allan stava percorrendo.
Tutto questo gli fece venire in mente Bali, che aveva appena lasciato. Solo che a Parigi il
clima era un po’ più fresco. Interrotto il suo girovagare, Allan tornò all’ambasciata, dove
venne accolto da un ambasciatore assai preoccupato. Avevano appena chiamato dall’Eliseo
per informare Amanda che la cerimonia della durata di due minuti per l’accreditamento
sarebbe stata rimpiazzata da una colazione, che il nuovo ambasciatore poteva portare con sé
il proprio coniuge, oltre naturalmente all’interprete, che il presidente de Gaulle intendeva
invitare anche il ministro degli Interni Fouchet, oltre al dettaglio – non da poco – che
sarebbe stato presente anche il presidente americano Lyndon B. Johnson.
Amanda era disperata. Poteva riuscire a gestire due minuti senza rischiare di essere espulsa,
ma alcune ore, e per giunta a tavola con un altro presidente!
“Cosa sta succedendo, Allan? Perché? Cosa facciamo?” chiese Amanda.
Anche per Allan il passaggio da una manciata di minuti a una colazione con due presidenti
era inspiegabile. E cercare di spiegare l’inspiegabile non era nella sua natura.
“Cosa facciamo? Andiamo a cercare Herbert e beviamoci sopra. È già pomeriggio.” Di
norma, la cerimonia di accreditamento con il presidente de Gaulle da una parte e un
ambasciatore proveniente da una nazione lontana e di nessun conto dall’altra sarebbe durata
al massimo sessanta secondi, ma poteva anche richiedere il doppio del tempo qualora il
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personaggio in questione risultasse particolarmente loquace.
Il motivo per cui, nel caso dell’ambasciatore indonesiano, il protocollo era stato modificato
così radicalmente e in tutta fretta era legato a questioni di tale importanza che ad Allan
Karlsson non sarebbero mai venute in mente, se anche avesse avuto voglia di ragionarci
sopra.
Il punto era che il presidente Johnson si trovava all’ambasciata americana di Parigi nella
speranza di conseguire un risultato politico. Le proteste contro la guerra in Vietnam
provenienti da ogni parte del mondo avevano raggiunto la forza di un uragano, e il simbolo
di questo conflitto, il presidente Johnson, aveva perso gran parte della sua popolarità.
Johnson aveva rinunciato da tempo all’idea di essere rieletto, ciononostante avrebbe
preferito non essere più chiamato “assassino” né con altri appellativi altrettanto antipatici.
Per questo aveva momentaneamente interrotto i bombardamenti su Hanoi dando avvio a dei
negoziati di pace. Che nelle strade di Parigi proprio allora fosse in atto una guerriglia, al
presidente Johnson pareva quasi comico. Che se la vedesse quel de Gaulle!
Secondo il presidente Johnson, de Gaulle era uno stronzo che aveva dimenticato chi si era
rimboccato le maniche salvando il suo paese dai nazisti. Tuttavia le regole della politica
imponevano che un presidente americano e uno francese che soggiornavano nella stessa
capitale dovessero perlomeno pranzare insieme.
Funzionava così, per cui bisognava risolvere al più presto quella scocciatura.
Fortunatamente i francesi avevano combinato un pasticcio (Johnson non ne era sorpreso),
riuscendo a fissare due appuntamenti alla stessa ora, pertanto alla colazione avrebbe
partecipato il nuovo ambasciatore indonesiano – una donna, oltretutto! Per il presidente
Johnson si trattava di una soluzione eccellente: avrebbe conversato con lei anziché con quel
de Gaulle.
In realtà i francesi non avevano affatto combinato un pasticcio. Era stato il presidente de
Gaulle in persona a concertare la cosa, fingendo che fosse frutto di un errore. In questo
modo la colazione sarebbe risultata più sopportabile, dato che lui avrebbe potuto conversare
con l’ambasciatore indonesiano invece che con quel Johnson.
Al presidente de Gaulle, Johnson non piaceva per motivi politici più che per ragioni
personali. Alla fine della guerra gli Stati Uniti avevano tentato di costringere la Francia a
diventare una specie di protettorato militare americano – pensavano di portargli via tutta la
nazione! Come poteva de Gaulle perdonare un’offesa simile, benché l’attuale presidente
americano non c’entrasse nulla? L’attuale presidente, a proposito… Johnson… si chiamava
Johnson. Gli americani non avevano proprio stile.
Ecco come la pensava Charles André Joseph Marie de Gaulle.
Amanda e Herbert deliberarono all’unanimità che lui restasse a casa durante l’incontro con
il presidente all’Eliseo. Così facendo, il rischio di combinare disastri si sarebbe dimezzato.
Non era d’accordo anche Allan?
Dopo essere rimasto in silenzio per un po’ valutando le diverse possibilità, quest’ultimo alla
fine disse: “Rimani a casa, Herbert.” Gli ospiti erano riuniti in attesa del padrone di casa,
che a sua volta si era barricato nel suo studio facendoli aspettare solo per il gusto di farlo.
Intendeva continuare qualche altro minuto, nella speranza di irritare quel Johnson.
De Gaulle sentiva in lontananza il frastuono delle dimostrazioni e dei cortei che infestavano
la sua amata Parigi. La Quinta repubblica francese aveva cominciato a vacillare,
all’improvviso e dal nulla. All’inizio c’erano stati alcuni studenti che, a quanto pareva,
avevano manifestato a favore del sesso libero e contro la guerra in Vietnam, ribellandosi
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quindi all’ordine costituito. Fino ad allora era tutto rientrato nella norma: gli studenti
trovavano motivi per lamentarsi a ogni piè sospinto.
Tuttavia le dimostrazioni erano andate sempre più aumentando di numero e di dimensioni, e
anche i sindacati avevano cominciato ad alzare la voce minacciando di far scendere in
piazza dieci milioni di lavoratori. Dieci milioni! Il paese si sarebbe fermato.
Gli operai chiedevano di lavorare di meno e guadagnare di più. E che de Gaulle rassegnasse
le dimissioni. Tre idiozie su tre, con un presidente che aveva combattuto e vinto battaglie
molto peggiori di quella. I consulenti del ministero degli Interni, che avevano le antenne
alzate e recepivano ogni segnale, avevano consigliato al presidente di usare il pugno di
ferro. Non si trattava di niente di allarmante, e certo non era un tentativo da parte
dell’Unione Sovietica di assumere il controllo della nazione. Ma durante il caffè quel
Johnson avrebbe senz’altro cominciato a ficcanasare, se soltanto ne avesse avuto la
possibilità: gli americani vedevano comunisti ovunque. Per sicurezza de Gaulle aveva
invitato anche il ministro degli Interni Fouchet e il suo espertissimo assistente. Avevano
entrambi la responsabilità di gestire quel caos; sarebbero pertanto stati in grado di
rispondere a tono a quel Johnson se questi avesse cominciato ad alzare la voce.
“E ora, merde,” esclamò il presidente de Gaulle alzandosi dalla sedia.
Non era possibile tardare ancora.
I responsabili del servizio di sicurezza di de Gaulle erano stati particolarmente scrupolosi
nel controllare l’interprete capellone e barbuto dell’ambasciatore indonesiano. Il tipo aveva i
documenti in regola e non era armato. E l’ambasciatore – una donna, oltretutto! – aveva
garantito per lui. Per questo anche il capellone barbuto si era potuto sedere a tavola, fra un
interprete americano decisamente più giovane e pulito da un lato e un suo omologo francese
dall’altro.
L’interprete che si ritrovò a lavorare di più fu proprio il capellone barbuto. Johnson e de
Gaulle rivolsero infatti la parola esclusivamente alla signora.
Il presidente de Gaulle esordì chiedendole quale fosse la sua esperienza pregressa.
Amanda Einstein rispose dichiarando allegramente di non essere molto intelligente, di aver
conquistato il posto di governatore a Bali con le mazzette, di aver usato la stessa prassi per i
due mandati successivi, e che nel frattempo lei e la sua famiglia si erano arricchite senza
ritegno per parecchi anni, finché il nuovo presidente Suharto non le aveva telefonato
offrendole inaspettatamente la carica di ambasciatore a Parigi.
“Non sapevo neanche dove si trovasse Parigi, credevo fosse un paese, non una città.
Avete mai sentito niente di così cretino?” concluse Amanda Einstein prima di scoppiare in
una risata.
Aveva parlato nella sua lingua madre e l’interprete capellone e barbuto aveva tradotto in
inglese. Allan era stato assai scrupoloso nell’alterare quasi tutto ciò che Amanda aveva
detto, sostituendolo con parole secondo lui più adatte al contesto.
Mentre la colazione stava per finire, senza saperlo entrambi i presidenti erano arrivati alla
medesima conclusione: a loro avviso la signora Einstein era divertente, illuminata e
intelligente. Avrebbe solo dovuto scegliere meglio l’interprete, che aveva un’aria piuttosto
selvatica.
L’espertissimo assistente del ministro degli Interni Fouchet, Claude Pennant, era nato a
Strasburgo nel 1928. I suoi genitori erano militanti comunisti, approdati in Spagna in nome
della causa per combattere contro i fascisti, quando nel 1936 era scoppiata la guerra civile.
Con loro c’era anche il figlio, Claude, che all’epoca aveva otto anni.
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Sopravvissuta alla guerra, seguendo un percorso complicato l’intera famiglia aveva
raggiunto l’Unione Sovietica. A Mosca, si erano detti disposti a servire il comunismo
internazionale. Per l’occasione avevano presentato anche Claude, allora undicenne,
annunciando che il ragazzino parlava già tre lingue: tedesco e francese, visto che venivano
da Strasburgo, e adesso anche spagnolo. Poteva essere utile alla rivoluzione?
Sì. Il talento di Claude per le lingue, nonché il suo quoziente intellettivo, erano stati testati
con cura mediante una serie di prove. A quel punto Claude aveva frequentato una scuola che
era un misto tra dottrina comunista e lingue straniere. Prima ancora di compiere quindici
anni parlava fluentemente francese, tedesco, russo, spagnolo, inglese e cinese.
All’età di diciotto anni, alla fine della Seconda guerra mondiale, durante l’ascesa di Stalin
Claude aveva sentito i genitori esprimere dei dubbi nei confronti della rivoluzione
comunista. Aveva riferito tutto ai suoi superiori, e nel giro di pochissimo tempo Michel e
Monique Pennant erano stati condannati e fucilati per la loro attività antirivoluzionaria.
Grazie a questo Claude aveva ricevuto il suo primo riconoscimento: una medaglia d’oro
come miglior studente per l’anno accademico 1945-46.
Dopo il 1946 erano iniziati i preparativi che avrebbero permesso a Claude di ottenere una
missione all’estero. L’obiettivo era di piazzarlo in Occidente perché s’infiltrasse nei corridoi
del potere in qualità di agente segreto, per decenni se necessario. Claude, che godeva della
protezione del maresciallo Berija, veniva tenuto lontano da tutti gli eventi pubblici durante i
quali avrebbe corso il rischio di finire immortalato in qualche fotografia. Infine aveva
ottenuto l’incarico di agire autonomamente in qualità di interprete, alla sola presenza del
maresciallo.
Nel 1949, all’età di ventun anni, Claude Pennant era stato spedito in pianta stabile in
Francia, questa volta a Parigi. Gli era stato persino consentito di mantenere il suo vero
nome, anche se la sua biografia era stata completamente riscritta. Frequentando la Sorbona,
Claude aveva dato il via alla sua scalata al successo.
Diciannove anni più tardi, nel maggio del 1968, operava a stretto contatto con il presidente
francese. Già da un paio d’anni era diventato l’espertissimo assistente del ministro degli
Interni Fouchet, e in quel ruolo lavorava più che mai al servizio della rivoluzione. Il suo
consiglio al ministro – e per via indiretta anche al presidente – era di continuare a usare il
pugno di ferro senza cedere alla rivolta degli studenti e dei lavoratori. Aveva anche fatto in
modo che i comunisti francesi lanciassero falsi segnali, dichiarando di non essere affatto
sensibili alle richieste dei dimostranti. Secondo lui la rivoluzione comunista in Francia
avrebbe trionfato nel giro di pochi mesi, mentre de Gaulle e Fouchet erano completamente
all’oscuro di tutto.
Dopo la colazione venne il momento di sgranchirsi le gambe, prima del caffè servito nel
salone. I presidenti Johnson e de Gaulle non ebbero altra scelta se non scambiarsi qualche
frase di circostanza. Erano immersi in questa ardua impresa quando si trovarono di fianco
l’interprete capellone e barbuto.
“Vogliate scusarmi, signori presidenti, ma ho una comunicazione da fare al signor presidente
de Gaulle, che a mio avviso non può essere rimandata.” Il presidente de Gaulle stava quasi
per chiamare gli addetti alla sicurezza – un presidente francese non dava udienza a
chiunque, e in quel modo poi! –, ma dal momento che l’interprete capellone e barbuto si era
espresso tanto educatamente rinunciò al suo proposito.
“Mi dica ciò che mi deve dire subito e qui, in fretta. Come vede sono impegnato in faccende
senz’altro più importanti.” Sì, certo, Allan avrebbe fatto in fretta. Molto brevemente,
163
secondo Allan il presidente avrebbe dovuto essere informato del fatto che l’espertissimo
assistente del ministro degli Interni Fouchet era in effetti una spia.
“Mi scusi, ma che cazzo sta dicendo?” esplose il presidente de Gaulle ad alta voce, tuttavia
non così alta da arrivare a Fouchet e al suo espertissimo assistente, che stavano entrambi
fumando sul balcone.
Allan continuò dicendo che una ventina d’anni prima aveva avuto il dubbio piacere di
cenare con i signori Stalin e Berija, e in quell’occasione e senza ombra di dubbio
l’espertissimo assistente del ministro degli Interni era l’interprete di Stalin.
“Si tratta, come dicevo, di vent’anni fa, ma la persona in questione è rimasta fisicamente
uguale. Io invece avevo un aspetto molto diverso. Non avevo tutti questi peli in faccia e i
miei capelli non andavano in ogni direzione. Ho riconosciuto lo spione, ma lui sicuramente
non ha riconosciuto me. Del resto anch’io ho avuto qualche difficoltà a riconoscere me
stesso guardandomi allo specchio.” Il presidente de Gaulle era già paonazzo in viso quando,
dopo essersi scusato, comunicò al proprio ministro degli Interni la sua intenzione di
parlargli a quattr’occhi (“No, a quattr’occhi, ho detto, senza il tuo espertissimo assistente!
Adesso!”).
Al centro della stanza rimasero il presidente Johnson e l’interprete. Johnson, che aveva
un’espressione assai felice dipinta in volto, decise di stringere la mano all’interprete, una
specie di ringraziamento per aver fatto perdere al presidente francese la sua aria di
superiorità.
“È un piacere conoscerla,” disse il presidente Johnson. “Come si chiama?” “Mi chiamo
Allan Karlsson. Un tempo conoscevo il predecessore del predecessore del suo predecessore,
il presidente Truman.” “Ma guarda!” commentò il presidente Johnson. “Tra poco Harry
compie novant’anni, ma sta bene. Siamo buoni amici.” “Me lo saluti,” disse Allan, prima di
congedarsi alla ricerca di Amanda (doveva riferirle quanto aveva tradotto ai due presidenti
durante la colazione).
La colazione con i due presidenti finì e tutti tornarono alle proprie impellenti occupazioni.
Allan e Amanda invece non avevano granché da fare, finché non giunse la telefonata del
presidente Johnson che invitava Allan all’ambasciata americana per cena, alle otto della sera
stessa.
“D’accordo,” disse Allan. “In effetti speravo di mangiare come si deve stasera. Si può dire
quel che si vuole del cibo francese, ma quello che c’è sul piatto finisce sempre prima che ci
si senta sazi.” La risposta piacque molto al presidente Johnson, ormai di buonumore in vista
della cena.
Il presidente aveva almeno tre ottimi motivi per invitare Allan Karlsson. Prima di tutto per
ricavarne altre informazioni sulla spia sovietica e sull’incontro di Allan con Stalin e Berija.
Poi perché Harry Truman gli aveva appena raccontato per telefono le imprese di Allan a Los
Alamos nel 1945. Soltanto questo valeva una cena.
E il terzo era che il presidente Johnson era assai soddisfatto dell’evolversi della situazione
all’Eliseo: aveva goduto immensamente nel vedere quel de Gaulle rimanere a bocca aperta,
e di questo poteva ringraziare solo Allan Karlsson.
“Benvenuto, signor Karlsson,” lo salutò il presidente Johnson stringendogli la mano.
“Permetta che le presenti il signor Ryan Hutton, lui è… be’, praticamente è qui
all’ambasciata in incognito, ecco. Consulente segreto, credo lo si possa definire così.” Allan
salutò il consulente segreto e i tre si accomodarono a tavola. Il presidente Johnson aveva
dato disposizione di servire acquavite e birra, dato che il vino francese gli ricordava i
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francesi mentre quella doveva essere una serata passata in allegria.
Tanto per cominciare, Allan si mise a raccontare della sua vita fino alla cena al Cremlino,
quella che poi era finita in un disastro, quando il futuro espertissimo assistente del ministro
degli Interni Fouchet era svenuto invece di tradurre l’ultimo insulto di Allan a uno Stalin già
furibondo.
Ma il presidente Johnson non era più così esaltato all’idea che Claude Pennant fosse una
spia sovietica a diretto contatto con il presidente francese, essendo appena stato informato
da Hutton che l’espertissimo monsieur Pennant era anche al soldo della CIA; finora era stato
lui la loro fonte principale circa l’infondatezza di una possibile rivoluzione in Francia.
Occorreva dunque procedere immediatamente a una nuova analisi della situazione.
“Si tratta di un’informazione non ufficiale e confidenziale,” precisò il presidente Johnson.
“Posso contare sulla discrezione del signor Karlsson?” “Non proprio,” rispose Allan,
mettendolo al corrente del viaggio a bordo di un sottomarino nel mar Baltico, durante il
quale aveva bevuto a dismisura insieme a un uomo di rara simpatia, Julij Borisovič Popov,
uno dei più eminenti fisici nucleari dell’Unione Sovietica: ecco, in quell’occasione aveva
fornito qualche dettaglio di troppo sulla fissione nucleare.
“Ha rivelato a Stalin come si costruisce la Bomba?” chiese il presidente Johnson.
“Credevo fosse finito in un gulag proprio perché si era rifiutato di farlo.” “Non a Stalin.
Tanto non avrebbe capito. Ma il giorno prima fui molto più esplicito di quanto avrei dovuto
con quel fisico. Capita quando si ha troppa acquavite in corpo, signor presidente. E non
potevo essere a conoscenza delle precarie condizioni in cui si trovava Stalin.” Dopo essersi
passato la mano sulla fronte, e poi tra i capelli, il presidente Johnson pensò che svelare come
si costruiva la bomba atomica era una cosa che non doveva succedere. Indipendentemente
dal quantitativo di alcol assunto. Allan Karlsson era… sì… era un traditore? Però… non era
cittadino americano, quindi cos’era? Il presidente Johnson aveva bisogno di tempo per
riflettere.
“E poi cosa è successo?” chiese senza riuscire a dire altro.
Allan riteneva che fosse meglio non risparmiare ulteriori dettagli, dal momento che era stato
un presidente a porre la domanda, così gli raccontò di Vladivostok, del maresciallo
Meretskov, di Kim Il-sung, di Kim Jong-il, della felice morte di Stalin, di Mao Tse-tung e
del mucchio di dollari che gli aveva gentilmente regalato, della vita tranquilla trascorsa a
Bali che infine non era più così tranquilla, e per concludere di Parigi.
“È tutto,” disse Allan. “Purtroppo a furia di raccontare ho la gola secca.” Il presidente
ordinò dell’altra birra, aggiungendo però irritato che, essendo uno che se ne andava in giro
in stato di ebbrezza a rivelare a destra e a manca i segreti nucleari, Allan avrebbe dovuto
prendere in considerazione l’ipotesi di smettere di bere. Dopo aver ripassato dentro di sé
l’irragionevole storia di Karlsson, il presidente domandò: “Lei ha trascorso quindici anni di
vacanze finanziate da Mao Tse-tung?” “Sì… più o meno. In realtà i soldi appartenevano a
Chiang Kai-shek, che a sua volta li aveva ricevuti dal nostro comune amico Harry Truman.
Adesso che ci penso, signor presidente, non sarebbe il caso di telefonargli per ringraziarlo?”
Il presidente Johnson non riusciva a digerire il fatto che quel capellone barbuto avesse
regalato a Stalin la Bomba. Non solo: aveva vissuto senza fare niente con il denaro degli
americani. E, come se non bastasse, si sentivano le voci dei dimostranti di fronte
all’ambasciata che scandivano: “U-S-A fuori dal Vietnam! U-S-A fuori dal Vietnam!”
Johnson rimase seduto in silenzio. Aveva un aspetto terribile.
Nel frattempo Allan si scolò un ultimo bicchiere mentre studiava il volto preoccupato del
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presidente americano.
“Posso aiutarla?” domandò.
“Cosa?” rispose l’interpellato, assorto nei suoi pensieri.
“Posso aiutarla?” ripeté Allan. “Il presidente sembra molto afflitto. Ha bisogno d’aiuto?” Il
presidente Johnson era sul punto di chiedere ad Allan Karlsson di vincere per lui la guerra in
Vietnam, ma si riprese e tornò a puntare gli occhi sull’uomo che aveva regalato la Bomba a
Stalin.
“Sì che mi può aiutare,” disse il presidente Johnson con un filo di voce. “Lasci
immediatamente questa stanza.” Dopo avere ringraziato per la cena, Allan se ne andò.
Rimasero il presidente Johnson e il referente europeo della CIA, il segretissimo Ryan
Hutton.
Lyndon B. Johnson era sconvolto dagli sviluppi dell’incontro con Allan Karlsson. Era
iniziato così bene… ma poi Karlsson aveva candidamente confessato di avere regalato la
Bomba non soltanto agli Stati Uniti, ma anche a Stalin. Stalin! Il più comunista dei
comunisti!
“Senti, Hutton, che ci resta da fare? Prelevare quel maledetto Karlsson e buttarlo nell’olio
bollente?” “Sì,” rispose il segretissimo Hutton. “Quello… o vedere come possiamo usarlo.”
Il segretissimo Hutton non solo era segreto, ma era anche un valente esperto di strategia
politica nell’ottica della CIA. Ad esempio, era perfettamente conscio dell’esistenza del
fisico con cui Allan Karlsson si era trovato tanto bene durante la traversata in sottomarino
dalla Svezia a Leningrado. Dal 1949 Julij BorisovičPopov aveva fatto carriera. Il primo
avanzamento lo aveva ottenuto senz’altro grazie alle informazioni ricevute da Allan
Karlsson. Adesso Popov aveva sessantatré anni ed era il responsabile tecnico dell’intero
arsenale di armi atomiche dell’Unione Sovietica.
Possedeva quindi conoscenze talmente preziose per gli Stati Uniti da considerarsi
inestimabili.
Qualora gli Stati Uniti fossero venuti a sapere quello che sapeva Popov e avessero concluso
di essere superiori ai russi in campo nucleare, allora il presidente Johnson avrebbe potuto
trattare un reciproco disarmo. E la via per arrivarci passava attraverso… Allan Karlsson.
“Vuoi farlo diventare un agente americano?” domandò il presidente Johnson, pensando che
le trattative per il disarmo avrebbero dato un po’ di lustro alla sua fama, con o senza quella
maledetta guerra in Vietnam.
“Esatto.” “E perché Karlsson dovrebbe accettare?” “Mah… perché sembra… il tipo. Le ha
appena offerto il suo aiuto.” “Sì, in effetti l’ha fatto.” Il presidente rimase in silenzio per un
po’, e poi ancora.
Alla fine disse: “Credo di aver bisogno di bere qualcosa di forte.” L’atteggiamento del
governo francese nei confronti del mal--contento popolare provocò la paralisi del paese.
Scioperarono milioni di cittadini francesi. Il porto di Marsiglia si bloccò e gli aeroporti
internazionali chiusero, come del resto le ferrovie e un numero incalcolabile di grandi
magazzini e negozi di diverso genere.
Cessò la distribuzione di carburante e fu sospesa la raccolta dei rifiuti. Giungevano richieste
da tutte le parti. Di stipendi più alti. Di occupazione. E di maggior potere sindacale.
Si pretendeva inoltre un nuovo sistema d’istruzione. E una nuova società! La Quinta
repubblica era in pericolo, sottoposta a minacce continue.
Centinaia di migliaia di francesi scesero in piazza e non sempre le dimostrazioni furono
pacifiche. Vennero incendiate macchine, abbattuti alberi, divelte strade, erette barricate…
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C’erano gendarmi, truppe a cavallo, lacrimogeni e scudi… Fu allora che il presidente
francese, il primo ministro e il suo governo cambiarono strategia. L’espertissimo assistente
del ministro degli Interni Fouchet non aveva più alcuna influenza (per la precisione, si
trovava rinchiuso nei locali della polizia segreta, dove stava incontrando enormi difficoltà
nello spiegare perché aveva una radiotrasmittente installata nella bilancia del bagno). Ai
lavoratori in sciopero vennero improvvisamente offerti: un considerevole aumento del
salario minimo, un incremento generale degli stipendi pari al dieci per cento, due ore di
lavoro in meno alla settimana, assegni familiari più alti, potere maggiore ai sindacati,
trattative per il conseguimento di accordi di lavoro collettivi e indicizzazione dei salari. Un
paio di ministri, tra cui quello degli Interni Fouchet, dovettero rassegnare le dimissioni.
Con questa serie di interventi, il governo e il presidente neutralizzarono i rivoluzionari più
facinorosi. Non c’era ragione di spingersi più in là. I lavoratori ritornarono ai loro posti, le
occupazioni cessarono, gli affari ripresero, i trasporti ricominciarono a funzionare. Il maggio
del 1968 era diventato giugno. E la Quinta repubblica non crollò.
Il presidente Charles de Gaulle telefonò personalmente all’ambasciata indonesiana a Parigi
chiedendo del signor Allan Karlsson, a cui intendeva conferire una medaglia al merito, ma
gli fu risposto che l’interessato non lavorava più lì e nessuno, ambasciatore incluso, sapeva
dire dove fosse finito.
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CAPITOLO 24
Giovedì 26 maggio 2005
Per il GIP Ranelid ora si trattava di salvare il salvabile, della sua carriera e del suo onore. Al
grido di “Meglio prevenire che curare” convocò una conferenza stampa per il pomeriggio
stesso, allo scopo di comunicare la revoca del mandato di cattura spiccato a suo tempo nei
confronti dei tre uomini e della donna coinvolti nel caso del vecchio scomparso.
Il GIP Ranelid era bravo in molte cose, ma non nel riconoscere le proprie mancanze e i
propri errori. Ecco perché il discorso introduttivo di quell’affrettata conferenza stampa non
fu granché brillante. Il GIP espose un ragionamento contorto, secondo il quale Allan
Karlsson e i suoi amici non rischiavano più l’arresto (a proposito, erano stati scovati proprio
quella mattina nel Västergötland) nonostante fossero considerati colpevoli, dal momento
che, ecco l’ultima novità, le prove erano mutate, pertanto, a detta del GIP, l’arresto non era
da considerarsi più valido.
I giornalisti – ovviamente – vollero sapere in che modo le prove fossero mutate, così il GIP
Ranelid riferì per filo e per segno le informazioni riguardanti i rispettivi destini di Bylund e
Hultén, deceduti a Gibuti e a Riga, appena giunte dal ministero degli Affari esteri. Ranelid
concluse affermando che in base alla legge talvolta i mandati d’arresto andavano revocati,
per quanto la cosa potesse apparire bizzarra.
Ranelid si rese conto di non essere stato del tutto convincente, impressione di cui ebbe
conferma quando, sbirciando da sopra gli occhiali, il giornalista del “Dagens Nyheter” si
lanciò in un fuoco di fila di domande poco simpatiche: “Nonostante le attuali circostanze lei
continua a ritenere Allan Karlsson colpevole di omicidio, ho capito bene? Dunque il vecchio
avrebbe costretto il trentaduenne Bengt Bylund a seguirlo a Gibuti, nel Corno d’Africa,
dove ne avrebbe fatto esplodere il corpo, per poi tornare in fretta e furia nel Västergötland,
dove – come lei ci ha appena raccontato – è stato trovato stamattina? Al di là di tutto il resto,
può descriverci con quale mezzo sarebbe rientrato Karlsson, visto che non mi risulta che
esistano voli diretti da Gibuti al Västergötland, oltre al fatto che Allan Karlsson non è
fornito di passaporto?” Il GIP Ranelid emise un profondo respiro e disse di essere stato
frainteso. Non esisteva nessun dubbio sul fatto che Allan Karlsson, Julius Jonsson, Benny
Ljungberg e Gunilla Björklund fossero innocenti.
“Nessun dubbio, come dicevo,” ripeté il GIP, al quale parve di essere riuscito a cadere in
piedi all’ultimo momento.
Ma quei maledetti giornalisti non si accontentarono.
“Lei ha descritto, più o meno dettagliatamente, la cronologia e la geografia dei tre presunti
omicidi. Se adesso considera innocenti i presunti colpevoli, come dovrebbero essersi svolti i
fatti?” domandò il giornalista dell’“Eskilstuna-Kuriren”.
Ranelid, che fino ad allora si era esposto in prima persona, pensò che fosse arrivato il
momento di smettere, e soprattutto che nessun giornaletto locale doveva credere di poter
fare la morale al GIP Conny Ranelid.
“Per il momento non posso aggiungere altro per via delle indagini in corso,” concluse
alzandosi.
La frase “per via delle indagini in corso” aveva salvato più di un GIP dal disastro, ma questa
volta non servì a nulla. Per alcune settimane Ranelid aveva ribadito con enfasi i motivi per
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cui i quattro risultavano colpevoli, e ora alla stampa sembrava legittimo che spendesse
almeno qualche minuto per illustrare la sopraggiunta innocenza. O, stando alle parole del
borioso giornalista del “Dagens Nyheter”: “Perché appellarsi al riserbo delle indagini in
corso invece di rivelare ciò che ha reso improvvisamente innocenti quattro persone?” Il GIP
Ranelid si sentiva sull’orlo del baratro. Tutto sembrava condannarlo a precipitare, subito o
nel giro di qualche giorno, ma rispetto ai giornalisti godeva di un vantaggio: sapeva dove si
trovavaAllan Karlsson. Il Västergötland era grande. Ora si trattava di tentare il tutto per
tutto, “o la va o la spacca”, così aggiunse: “Statemi a sentire una buona volta! Per via delle
indagini in corso per il momento non posso dire altro, ma alle tre in punto di domani
pomeriggio terrò un’altra conferenza stampa e risponderò a tutte le vostre domande.” “In
che zona del Västergötland si trova esattamente Allan Karlsson?” chiese il giornalista dello
“Svenska Dagbladet”.
“Non ve lo dico,” replicò il GIP Ranelid prima di lasciare la stanza.
Perché stava andando tutto così storto? Barricatosi nel suo ufficio, il GIP Ranelid fumava la
prima sigaretta dopo sette anni. Sarebbe dovuto passare alla storia del crimine svedese come
colui che era riuscito a far condannare dei pluriomicidi nonostante il mancato ritrovamento
dei cadaveri. E invece i cadaveri erano saltati fuori.
Nei posti sbagliati! La vittima numero tre poi, in teoria la più morta di tutte, era viva e
vegeta. Quanti danni gli avevano procurato quei tre?
“Per punizione bisognerebbe ammazzare il finto morto,” borbottò tra sé.
Si trattava di salvare il suo onore e la sua carriera, e un omicidio non era certo la soluzione.
Riesaminò la disastrosa conferenza stampa, dove era stato molto chiaro nell’insistere
sull’innocenza di Karlsson e dei suoi scagnozzi. Dovuta al fatto… che non sapeva. Alla fine
cosa diavolo era successo? Bullone Bylund doveva essere morto su quel carrello ferroviario.
E allora come cazzo era riuscito a morire una seconda volta qualche settimana dopo a un
continente di distanza?
Si maledisse per aver organizzato la conferenza stampa così presto. Prima avrebbe dovuto
recuperare Allan Karlsson e il suo seguito, chiarire la situazione, e solo dopo decidere quello
che i media avrebbero dovuto o non dovuto sapere.
Adesso – dopo la sua categorica affermazione circa la loro innocenza – il fatto che li
interrogasse “a titolo informativo” poteva essere interpretato come una forma di sopruso nei
loro confronti. D’altro canto Ranelid non aveva molta scelta. Doveva sapere… un bel po’ di
cose prima delle tre di pomeriggio del giorno dopo. O avrebbe fatto la figura del buffone.
Il commissario Aronsson era di splendido umore mentre, seduto sul dondolo, beveva il suo
caffè con tanto di dolcetto. La caccia al vegliardo scomparso era finita e quel simpatico
vecchio non correva più il rischio di essere arrestato. Perché fosse scappato dalla finestra un
mesetto prima e cosa fosse successo dopo non era ancora stato chiarito, e magari non ce ne
sarebbe stato più neanche bisogno. Ora potevano scambiare quattro chiacchiere.
Anche il morto e risorto Per-Gunnar Capo Gerdin si dimostrò una persona piacevole: aveva
subito suggerito di lasciar perdere i titoli, dicendo che preferiva essere chiamato Gambero.
“Per me va benissimo, Gambero,” disse il commissario Aronsson. “Io mi chiamo Göran.”
“Gambero e Göran,” commentò Allan. “Suona bene. Potreste mettervi in affari insieme, che
dite?” Gambero rispose che non era sicuro di tenere nella giusta considerazione il fisco, o
comunque non abbastanza da mettersi in affari col commissario, tuttavia ringraziò Allan per
il suggerimento.
L’atmosfera era assai amichevole e non cambiò quando si aggiunsero prima Benny e Bella,
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poi Julius e Bosse.
Si misero a parlare di tutto e di più, a eccezione di quanto era accaduto nell’ultimo mese e
delle connessioni tra i fatti occorsi. Allan riscosse un certo successo quando spuntò da dietro
l’angolo con un elefante e tenne un numero di danza insieme a Sonya. Julius era sempre più
felice di non rischiare l’arresto, tanto che decise di radersi immediatamente, dopo che era
stato costretto a farsi crescere la barba per poter andare in giro per Falköping indisturbato.
“Pensate un po’, tutta la vita sono stato colpevole e ora, come d’incanto, sono innocente!”
esclamò Julius. “Che sensazione magnifica!” A Bosse sembrò l’occasione giusta per andare
a prendere una bottiglia di vero champagne ungherese con cui brindare insieme agli amici e
al commissario. Questi protestò, dicendo che di lì a poco avrebbe dovuto guidare. Aveva
preso una camera all’albergo di Falköping, e in quanto pubblico ufficiale non poteva
apparire ubriaco al suo rientro.
Benny intervenne affermando che gli astemi, secondo Allan, costituivano una potenziale
minaccia per la pace mondiale, tuttavia tornavano utili nel caso qualcuno avesse bisogno di
un passaggio.
“Commissario, beva pure un bicchiere, l’accompagnerò io in albergo.” Aronsson non ebbe
bisogno di altri incitamenti: era da un sacco di tempo che non stava in compagnia di persone
così piacevoli, e visto che finalmente era capitato non voleva rovinare la festa a nessuno.
“Ma sì, un brindisi alla salute di tutti non può farmi male. Anche due se necessario, siete
così tanti…” Trascorsero due ore di sana allegria prima che il cellulare del commissario
Aronsson suonasse nuovamente. Era il GIP Ranelid, il quale lo informava che per via di una
serie di sfortunate circostanze aveva dichiarato l’innocenza dei tre uomini e della donna in
modo pressoché irreversibile. Inoltre, entro meno di ventiquattr’ore doveva sapere cos’era
accaduto dal giorno in cui Karlsson era scappato dalla casa di riposo, dato che la stampa era
stata convocata per le tre di pomeriggio del giorno dopo.
“In altre parole sei nella merda,” commentò il commissario un po’ alticcio.
“Mi devi aiutare, Göran!” replicò il GIP Ranelid.
“Come? Piazzando i cadaveri nel punto giusto? O ammazzando chi ha avuto il cattivo gusto
di non essere morto stecchito?” Il GIP Ranelid confessò che in effetti anche lui aveva
pensato a quell’ultima soluzione, ma si era subito reso conto che non era praticabile. No,
quello che sperava era che Göran parlasse ad Allan Karlsson e ai suoi… collaboratori…
chiedendo loro se il mattino successivo avrebbe potuto considerarsi il benvenuto, per una
breve e del tutto informale chiacchierata su questo e quello… per sapere com’era andata nei
boschi del Sörmland e dello Småland. In cambio avrebbe porto loro le scuse della polizia
del Sörmland.
“Le scuse della polizia del Sörmland?” chiese il commissario Aronsson.
“Sì… o meglio… le mie.” “Ecco, così, bene. Rilassati un attimo, Conny. Ti richiamo tra
qualche minuto.” Chiusa la telefonata, il commissario Aronsson annunciò la bella notizia: il
GIP Ranelid aveva appena tenuto una conferenza stampa nella quale aveva dichiarato che
Allan Karlsson e i suoi amici erano innocenti. Poi espose la richiesta del GIP di avere con
loro una conversazione chiarificatrice il mattino dopo.
Bella reagì con un discorso concitato, in cui dichiarava che ripercorrere gli avvenimenti
delle ultime settimane non avrebbe condotto a nulla di buono. Julius era d’accordo. Se erano
stati giudicati innocenti, lo erano e basta.
“Non mi ci sono ancora abituato. Sarebbe un peccato se la mia innocenza durasse meno di
ventiquattr’ore,” aggiunse Julius.
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Allan, invece, disse che era ora di finirla con le preoccupazioni. I media non li avrebbero
lasciati in pace prima di avere ottenuto tutte le informazioni. Meglio vuotare il sacco in una
volta davanti al GIP che essere assediati da giornalisti famelici per settimane.
“Comunque abbiamo davanti una serata intera per inventarci qualcosa da dire,” concluse
Allan.
Il commissario Aronsson avrebbe preferito non udire l’ultima frase. Si alzò per palesare la
propria presenza e impedire agli altri di dire cose che le sue orecchie avrebbero fatto
volentieri a meno di sentire. Disse quindi che era giunto il momento di congedarsi, se gli
altri non avevano niente in contrario. Se Benny l’avesse gentilmente accompagnato in
albergo a Falköping, gli sarebbe stato assai grato. Durante il tragitto avrebbe telefonato a
Ranelid per confermargli che era atteso verso le dieci del mattino dopo. Erano d’accordo?
Aronsson aggiunse che sarebbe tornato lì in taxi per riprendere la sua auto.
A proposito, era possibile avere un altro mezzo bicchiere di quel delizioso champagne
bulgaro prima di andarsene? Ah, era ungherese?
Gli fu versato un altro bicchiere pieno fino all’orlo, che si scolò d’un fiato prima di grattarsi
il naso e accomodarsi nell’auto di Benny. Poi si mise a declamare dal finestrino: Ah, se
avessimo dei buoni amici, un vino così ungherese per la nostra gola… “Carl Michael
Bellman,” annuì il quasi critico letterario Benny.
“Giovanni 8:7, non se lo dimentichi domattina, commissario,” gridò Bosse in un attimo
d’ispirazione. “Giovanni 8:7!”
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CAPITOLO 25
Venerdì 27 maggio 2005
Il tragitto Eskilstuna-Falköping non si percorreva esattamente in un quarto d’ora. Il GIP
Conny Ranelid si era dovuto alzare all’alba (dopo aver passato una nottataccia) per essere a
Klockaregård alle dieci. L’incontro non poteva durare più di un’ora, dal momento che la
conferenza stampa sarebbe iniziata alle tre.
Mentre procedeva lungo la E20 alla periferia di Örebro, Ranelid fu quasi sul punto di
scoppiare in lacrime. Una grande vittoria della giustizia, ecco come si sarebbe dovuto
intitolare il suo libro. Bah! Se ci fosse stata davvero una giustizia, un fulmine si sarebbe
abbattuto su quel maledetto podere riducendo in cenere tutti i suoi occupanti. A quel punto
lui avrebbe deciso cosa raccontare ai giornalisti.
All’albergo di Falköping, invece, il commissario Aronsson aveva dormito bene e a lungo.
Si svegliò verso le nove, provando un certo rimorso per gli avvenimenti della sera
precedente: aveva brindato e bevuto champagne con dei probabili delinquenti, dopodiché
aveva sentito Allan Karlsson dire agli altri che si sarebbero inventati qualcosa da dire al GIP
Ranelid. Non stava mica diventando loro complice? E di cosa?
La sera prima, rientrato in albergo, Aronsson aveva seguito le raccomandazioni di Bosse
Ljungberg, cercando nella Bibbia – riposta regolarmente dai Gedeoni in uno dei cassetti
della stanza – Giovanni 8:7. Si era accomodato in un angolo del bar e per un paio d’ore
aveva letto il testo sacro in compagnia di un gin tonic, seguito da un secondo gin tonic,
seguito da un terzo gin tonic.
I versetti parlavano di una donna che si era macchiata di adulterio e che i farisei avevano
portato davanti a Gesù chiedendogli di giudicarla. Se secondo Gesù la donna non doveva
essere lapidata per quanto aveva commesso, allora avrebbe trasgredito la legge dello stesso
Mosè (Libro di Mosè). Se invece avesse voluto seguire i precetti di Mosè si sarebbe messo
contro i romani, che si consideravano i soli a poter infliggere la pena di morte. Con chi si
sarebbe scontrato Gesù: con Mosè o con i romani? I farisei erano convinti di averlo messo
alle strette, ma Gesù era Gesù e dopo averci riflettuto sopra aveva detto: “Chi di voi è senza
peccato scagli la prima pietra.” In questo modo aveva evitato di entrare in polemica sia con
Mosè sia con i romani o con i farisei che aveva davanti. La controversia era stata risolta:
uno dopo l’altro i farisei si erano dileguati (nessuno è senza peccato). Alla fine erano rimasti
soltanto Gesù e la donna.
“Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?” aveva chiesto Gesù.
Ed essa aveva risposto: “Nessuno, Signore.” E Gesù le aveva detto: “Neanche io ti
condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più.” Il commissario, che non aveva perso il suo
fiuto da poliziotto, sapeva che in un modo o nell’altro chiunque aveva uno scheletro
nell’armadio. Tuttavia Karlsson, Jonsson, Ljungberg, Ljungberg, Björklund e Gerdin erano
stati dichiarati innocenti da quel bellimbusto di Ranelid, e ora chi era lui per ritrattare?
Inoltre erano persone davvero simpatiche e – come aveva sottolineato Gesù – chi poteva
scagliare la prima pietra?
Ripensò ad alcuni momenti bui della sua vita, ma soprattutto provò un forte senso
d’irritazione nei confronti di Ranelid, che pur di raggiungere il suo scopo avrebbe
tranquillamente liquidato Gambero Gerdin.
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“Fatti tuoi, Ranelid,” disse fra sé Göran Aronsson, prendendo l’ascensore per scendere a
fare colazione.
Cereali, pane tostato e uova, insieme al “Dagens Nyheter” e allo “Svenska Dagbladet”.
Ilfiasco delGIP compariva su entrambi i quotidiani: il vecchio era scomparso, poi sospettato
di omicidio e ora scagionato. Ma i giornalisti ammettevano di essere a corto di informazioni.
Del resto il vecchio era impossibile da rintracciare, e il GIP non avrebbe fornito altri
elementi prima della conferenza stampa di quel pomeriggio.
“Come dicevo, fatti tuoi, Ranelid.” Il commissario prese un taxi per Klockaregård, dove
giunse tre minuti esatti prima del GIP, alle 9,51.
Non esisteva alcun rischio che il fulmine tanto agognato da Ranelid si abbattesse sul podere,
ma il cielo era nuvoloso e faceva freddo. Ecco perché gli abitanti del medesimo si erano
radunati in cucina.
La sera prima avevano concordato una fantasiosa ricostruzione dei fatti da propinare al GIP
Ranelid, e per non sbagliare si sarebbero ripetuti la storia facendo colazione. I ruoli erano
stabiliti e loro erano pronti per la recita, con un’unica certezza: la verità era molto più
semplice da sostenere del suo contrario. Se avessero mentito spudoratamente sarebbero
finiti male, pertanto ora si trattava di tenere la lingua a freno e sotto controllo.
I trucchi utili per disorientare il GIP Ranelid erano bene accetti.
“Sì, porca puttana di quella troia,” disse Bella interpretando la tensione comune prima che il
commissario Aronsson e il GIP Ranelid venissero fatti accomodare in cucina.
L’incontro con quest’ultimo risultò simpatico per alcuni, meno per altri. Andò così:
“Innanzitutto vorrei ringraziarvi per aver accettato d’incontrarmi, lo apprezzo molto,” esordì
il GIP Ranelid. “Vi devo delle scuse… a nome della polizia, visti i mandati di cattura emessi
senza motivo. Detto questo, mi interessa sapere cosa è accaduto dal momento in cui lei,
signor Karlsson, è scappato dalla finestra della casa di riposo. Vuole cominciare, signor
Karlsson?” Allan non aveva niente in contrario. La situazione si preannunciava divertente.
Iniziò a raccontare: “Certo, signor GIP, anche se sono vecchio e malandato e la memoria è
quella che è.
Comunque sì, sono scappato dalla finestra, gesto che ho compiuto per una serie di ragioni.
Intendevo fare visita al mio buon amico Julius Jonsson, non senza una bella bottiglia di
acquavite che ero riuscito a comprare di nascosto al Monopolio di Stato. Be’, adesso, invece
di andare lì a controllare, basterebbe che lei telefonasse a… no, non voglio dire il suo nome
perché il GIP non è qui per questo, comunque la persona in questione vive in centro e vende
acquavite importata a metà prezzo. Comunque questa volta Eklund non era in casa –
accidenti mi è scappato il nome –, così sono stato costretto a fare un giro al Monopolio.
Sono riuscito a introdurre la bottiglia nella mia stanza senza farmi beccare, ma poi dovevo
riportarla fuori, e in quel momento era di turno la direttrice, che ha occhi dappertutto, questo
il signor GIP lo deve sapere. Si chiama Alice e non è per niente facile fregarla. Così ho
pensato che per andare da Julius la finestra era la via di fuga più pratica. Tra l’altro quel
giorno compivo cent’anni, e chi accetterebbe di rinunciare al goccetto che gli spetta in
qualità di festeggiato?” Il GIP realizzò che la cosa avrebbe richiesto parecchio tempo. Il
vecchio Karlsson aveva già blaterato abbastanza senza aver detto niente, e lui nel giro di
un’ora doveva rientrare a Eskilstuna.
“Grazie, signor Karlsson, per questa interessante descrizione delle sue difficoltà a procurarsi
un goccetto il giorno del suo compleanno, ma spero che mi vorrà scusare se le chiedo di
essere un po’ più stringato. Abbiamo poco tempo, questo il signor Karlsson lo capisce, vero?
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Mi può raccontare della valigia e dell’incontro con Bullone Bylund alla stazione dei
pullman di Malmköping?” “Come no? È stato Per-Gunnar a telefonare a Julius, che a sua
volta ha telefonato a me… D’accordo con Julius, Per-Gunnar desiderava che io mi
occupassi delle Bibbie, cosa che potevo fare senza problemi, visto che…” “Bibbie?” lo
interruppe il GIP Ranelid.
“Se lei permette, interverrei per fornirle qualche informazione supplementare,” disse Benny.
“Molto volentieri.” “Sì, il fatto è che Allan è un buon amico di Julius di Byringe, che a sua
volta è un buon amico di Per-Gunnar, che a sua volta è un mio buon amico, mentre io sono
fratello di mio fratello Bosse, il padrone di questa splendida magione, inoltre sono il
compagno di Gunilla, che è la bella signora qui presente. Gunilla si occupa di esegesi e in
un certo senso ha qualcosa in comune con Bosse, che vende Bibbie – tra l’altro a PerGunnar.” Il GIP, seduto, aveva in mano carta e penna, ma dal momento che il tutto si stava
svolgendo così velocemente non era riuscito a prendere neanche un appunto. La prima
parola che gli uscì di bocca dopo essersi ripreso fu: “Esegesi?” “Sì, l’interpretazione dei
testi biblici,” spiegò Bella.
Interpretazione dei testi biblici? si domandò il commissario Aronsson, che sedeva in silenzio
accanto al GIP. Era possibile interpretare la Bibbia e al contempo bestemmiare e imprecare
come Aronsson l’aveva sentita fare la sera prima? Ma non disse niente.
Erano fatti di Ranelid.
“Esegesi?” ripeté il GIP, che decise di andare oltre senza approfondire l’argomento.
“Non importa, mi parli invece della valigia e di quel Bullone Bylund alla stazione dei
pullman di Malmköping.” Adesso toccava a Per-Gunnar.
“Posso dire una cosa?” “Certo,” rispose il GIP Ranelid. “Se servisse a fare luce sulla
vicenda, potrebbe parlare anche Satana in persona.” “Che modi,” commentò Bella alzando
gli occhi al cielo (fu a quel punto che il commissario Aronsson ebbe la certezza che si
stavano prendendo gioco di Ranelid).
“Satana non è forse il personaggio più conforme alla mia storia, avendo io conosciuto
Gesù,” precisò Per-Gunnar Gerdin. “Lei è senz’altro a conoscenza dell’organizzazione da
me fondata, la Never Again. Inizialmente il nome era dovuto al fatto che i suoi membri non
sarebbero mai più dovuti tornare dietro le sbarre, ma col tempo il significato è cambiato:
mai più dovremo trasgredire la legge, né quella scritta dagli uomini, né tantomeno quella
divina!” “È per questa ragione che Bullone Bylund ha distrutto una sala d’attesa, malmenato
un bigliettaio e rapito un conducente a bordo del suo pullman?” chiese il GIP Ranelid.
“Colgo un certo sarcasmo,” disse Per-Gunnar Gerdin. “Il fatto che io abbia visto la Luce
non significa che lo stesso sia accaduto ai miei collaboratori. Uno di loro si è trasferito in
Sudamerica per diffondere il Verbo, ma purtroppo con gli altri due mi è andata male.
Bullone aveva l’incarico di ritirare una valigia contenente duecento Bibbie, lungo la strada
che da Uppsala passa dalle parti di Bosse a Falköping. Il mio proposito era di distribuirle
alle peggiori canaglie della Svezia, se il giudice vuole scusare il mio linguaggio.” Fino a
quel momento il proprietario di Klockaregård, Bosse, era rimasto in disparte, ma adesso,
sollevata una pesante valigia grigia sul tavolo della cucina, l’aprì. Dentro c’era un gran
numero di Bibbie in vera pelle nera, con tanto di rifiniture in oro, riferimenti paralleli,
doppio segnalibro, indice dei nomi, percorso di lettura, illustrazioni e quant’altro.
“Non c’è esperienza più potente della lettura di questo libro,” commentò Bosse Ljungberg
con enfasi. “Mi permetta di regalargliene un esemplare. Anche in procura può forse tornare
utile cercare la Luce, non è vero, signor GIP?” Bosse fu l’unico a non recitare; al contrario,
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era più che convinto di ciò che stava dicendo. Anche il GIP doveva averlo percepito, poiché
fu colto dal dubbio che tutto quel parlare di Bibbia avesse qualche fondamento. Accettò la
copia offertagli da Bosse, pensando che forse una conversione su due piedi era quello che ci
voleva per salvarlo.
Ma non lo disse. Invece commentò: “Possiamo attenerci all’argomento del giorno una volta
per tutte? Che cosa ci stava a fare questa maledetta valigia a Malmköping?” “Non
rispondere!” lo esortò Bella.
“Tocca ancora a me?” intervenne Allan. “Ecco, mi sono diretto alla stazione dei pullman un
po’ prima del previsto, dal momento che Julius me lo aveva chiesto a nome di PerGunnar. È
già stato detto che il signor Bullone aveva chiamato Per-Gunnar a Stoccolma in un
momento di scarsa – perdoni l’espressione – illuminazione! Forse lei sa, signor GIP, o forse
no, visto che non so quali siano le sue abitudini alcoliche, e quindi non voglio insinuare
nulla, ma… Dov’ero rimasto? Ah sì, lei sa, signor GIP, che l’alcol, diciamo così, altera i
pensieri. Anch’io quella volta, in un sottomarino a duecento metri di profondità nel mar
Baltico, in stato di avanzata ebbrezza, mi ritrovai a parlare trop…” “Sant’Iddio, arrivi al
punto!” “Senza imprecare!” lo esortò Bella.
Il GIP Ranelid si mise una mano sulla fronte, sospirando. Allan Karlsson proseguì:
“Dunque, il signor Bullone aveva chiamato Per-Gunnar a Stoccolma, dicendo che non ne
voleva più sapere del suo club biblico, che aveva deciso di diventare un legionario, ma
prima – adesso si sieda, signor GIP, perché sto per confidarle un segreto – aveva pensato di
dar fuocoalle Bibbie sul piazzale di Malmköping!” “Per essere precisi, ha detto ‘quelle
fottute Bibbie di merda’,” precisò Bella.
“Nulla di strano, quindi, se mi sono affrettato a raggiungere il signor Bullone per
riprendermi la valigia, finché eravamo in tempo. Sa, talvolta si ha meno tempo di quanto si
creda. Per esempio, quella volta in Spagna, il generale Franco stava per saltare in aria
davanti ai miei occhi. Ma i suoi uomini furono tempestivi, lo afferrarono di peso e lo
portarono in un punto sicuro. Non se ne rimasero lì a pensare. Agirono e basta.” “E cosa
c’entra il generale Franco con questa storia?” chiese il GIP Ranelid.
“Niente, ma mi sembrava un ottimo esempio. Non si è mai abbastanza chiari.” “E in che
modo ha agito il signor Karlsson per essere tempestivo? Cosa è successo alla valigia?” “Be’,
il signor Bullone non voleva lasciarmela e il mio fisico non mi permetteva certo di
strappargliela con la forza. Non solo il fisico comunque, ho sempre paura di quelli che… per
principio…” “Vada al punto, Karlsson!” “Sì, mi scusi. Quando il signor Bullone è stato
costretto a servirsi del luogo di decenza presente all’interno della stazione dei pullman,
allora sono intervenuto. Io e la valigia ci siamo dileguati salendo sul pullman diretto a
Strängnäs, che si fermava a Byringe, dove mi aspettava il vecchio Julius, o Julle, come lo
chiamiamo ogni tanto.” “Julle?” chiese il GIP sorpreso.
“O Julius,” precisò Julius. “Carino, no?” Il GIP rimase zitto per un po’, continuando a
disegnare linee e frecce sul foglio che aveva davanti. Poi disse: “Ma lei, Karlsson, ha pagato
la corsa con una banconota da cinquanta corone domandando fino a dove poteva arrivare
con quella cifra. Come si spiega il fatto che invece si stesse dirigendo specificamente a
Byringe?” “So benissimo quanto costa il biglietto per Byringe. Solo che avevo cinquanta
corone nel portafoglio e ho scherzato un po’. Non sarà mica proibito, signor GIP?”
L’interpellato non si degnò neanche di rispondere, esortandolo ancora una volta ad andare
più spedito.
“In breve: cosa è successo dopo?” “In breve? In breve è successo che Julius e io abbiamo
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trascorso insieme una bella serata finché il signor Bullone non ha quasi sfondato la porta,
ma dal momento che sul tavolo avevamo dell’acquavite… Il signor GIP ricorderà che ho
appena detto che ne avevo una bottiglia, ma a essere sinceri erano due, non bisogna mentire
sui dettagli che a prima vista non hanno importanza, e a essere sinceri chi sono io per
giudicare cosa è più o meno importante in questa vicenda, è il signor GIP…” “Continui!”
“Sì, mi scusi. Trovandosi davanti un arrosto d’alce e dell’acquavite il signor Bullone si è
rasserenato. E grazie all’acquavite nel corso della serata ha deciso di non bruciare più le
Bibbie. L’alcol ha anche i suoi lati positivi, non le sembra signor…” “Continui!” “La
mattina dopo il signor Bullone aveva dei terribili postumi da sbornia. L’ultima volta che mi
ritrovai nelle sue condizioni fu nella primavera del 1945, quando feci del mio meglio per far
bere al vicepresidente Truman un bel po’ di tequila. Purtroppo proprio in quel momento il
presidente Roosevelt stava morendo, quindi fummo costretti a interrompere la festa, e forse
fu un bene perché il giorno dopo la mia testa girava come sulle montagne russe. A ogni
modo stavo molto meglio di Roosevelt.” Il GIP Ranelid strizzò gli occhi meditando su cosa
dire. Alla fine la curiosità prese il sopravvento, e benché non fosse in grado di sopportare
ulteriori digressioni chiese: “Di cosa sta parlando? Beveva tequila con il vicepresidente
Truman mentre il presidente Roosevelt passava a miglior vita?” “Be’, migliore non saprei.
Ma capisco cosa intende dire. Non fissiamoci sui dettagli, che ne dice, signor GIP?”
Nessuna risposta, quindi Allan proseguì: “Comunque il signor Bullone non era in grado di
aiutarci ad azionare il carrello ferroviario, quando la mattina dopo è venuta l’ora di dirigersi
verso la fonderia di Åkers Styckebruk.” “Da quanto ho capito il signor Bullone era privo di
scarpe. Come lo spiega?” “Se soltanto avesse visto quanto era malconcio. Sarebbe stato
capace di restare lì seduto con indosso soltanto le mutande.” “E le scarpe del signor
Karlsson? Le sue pantofole sono state ritrovate nella cucina del signor Jonsson.” “Sì, le
scarpe me le ha prestate Julius. Quando si hanno cent’anni capita di uscire per strada in
pantofole, lo scoprirà da sé, signor GIP, tra quaranta o cinquant’anni.” “Non credo vivrò
così a lungo. Il punto, invece, è se sopravviverò a questo colloquio.
Come si spiega che sul carrello c’erano tracce di un cadavere?” “Bella domanda, signor GIP.
Il signor Bullone è stato l’ultimo a lasciarlo, potrebbe quindi spiegarglielo lui se non fosse
deceduto così tragicamente a Gibuti. O magari lei pensa che quelle tracce riguardino me?
Non sono ancora morto, questo sì, ma sono talmente vecchio… Forse emano
prematuramente odore di cadavere?” Il GIP Ranelid cominciava a spazientirsi. Il tempo
passava e il racconto del primo dei venticinque giorni ancora non era concluso. Il novanta
per cento di quanto usciva dalla bocca di Karlsson era fantasia allo stato puro.
“Continui!” disse senza commentare la questione dell’odore di cadavere.
“Sì… Abbiamo lasciato il signor Bullone addormentato sul carrello e ci siamo incamminati
verso il chiosco gestito da Benny, l’amico di Per-Gunnar.” “Anche lei, signor Benny, è finito
dietro le sbarre?” “No, ma ho studiato criminologia,” rispose Benny che, mentendo, disse di
essere entrato in contatto con Per-Gunnar grazie a delle interviste fatte ai detenuti del
penitenziario di Hall.
Dopo aver preso nota, con tono esausto il GIP Ranelid intimò ad Allan Karlsson di
proseguire: “Continui!” “Volentieri. Benny avrebbe dovuto accompagnare me e Julius a
Stoccolma, in modo da restituire la valigia con le Bibbie a Per-Gunnar. Ci ha però subito
fatto sapere che preferiva passare per lo Småland, dove abitava la sua fidanzata, cioè
Gunilla, qui presente…” “Che la pace del Signore regni eterna!” disse lei rivolgendosi al
GIP.
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Il GIP Ranelid accolse lo sguardo di Bella e tornò a rivolgersi ad Allan, che continuò:
“Benny, che era quello che conosceva meglio Per-Gunnar, ci ha proposto di trattenerci
qualche giorno lì prima di consegnare le Bibbie, visto che non contenevano esattamente le
notizie del giorno. A patto che non restassimo in eterno, poiché quando Gesù tornerà su
questa terra i capitoli che riguardano la sua venuta risulteranno sorpassati…” “Non si perda
in chiacchiere, Karlsson. Torni al punto!” “Certamente, signor GIP! Mi atterrò ai fatti,
altrimenti potrebbe finire male. Ne so qualcosa, dato che se non lo avessi fatto quando mi
ritrovai davanti a Mao Tse-tung in Manciuria sarei stato fucilato sul posto.” “Sarebbe stata
la cosa più giusta,” commentò Ranelid, facendogli segno di procedere.
“Comunque, Benny non pensava che Gesù sarebbe tornato in scena proprio mentre ci
trovavamo nello Småland, e in effetti aveva ragione nel…” “Karlsson!” “Sì, sì. Ci siamo
recati tutti e tre nello Småland. Una bella avventura, abbiamo pensato Julius e io. Ci siamo
messi in viaggio senza farlo sapere a Per-Gunnar, il che è stato sicuramente un errore.” “Sì,”
confermò Per-Gunnar Gerdin. “Avrei potuto aspettare qualche giorno l’arrivo delle Bibbie,
non era questo il problema, ma, signor GIP, temevo che Bullone avesse aggredito Julius,
Allan e Benny, dal momento che non aveva mai metabolizzato che lo scopo della Never
Again adesso era la diffusione del Vangelo. Non si può certo stare tranquilli con tutto quello
che si legge sui giornali!” Il GIP annuì. Forse cominciava a emergere qualcosa di
interessante. Si rivolse a Benny: “Ma quando ha letto del sospetto rapimento di un
centenario, della Never Again e del ladro professionista Julius Jonsson, perché non ha
contattato la polizia?” “Be’, ci ho pensato, ma quando ne ho discusso con Allan e Julius la
risposta è stata un no categorico. Julius ha dichiarato che lui non parla con le forze
dell’ordine per principio e Allan, che di fatto era scappato dalla casa di riposo, temeva di
essere rispedito dall’infermiera Alice soltanto perché la televisione e i giornali erano sulla
pista sbagliata.” “Lei non parla con la polizia per principio?” chiese Ranelid a Julius.
“Preferibilmente no. Nel corso degli anni i miei rapporti con i tutori dell’ordine non sono
stati molto positivi. Tranne che in situazioni particolari e molto più piacevoli, come ieri con
il commissario Aronsson e oggi con lei, preferisco evitare. Gradisce altro caffè?” Sì, grazie,
il GIP aveva bisogno di tutte le sue forze per riportare quella conversazione sui binari e
trarne qualcosa da dire ai media per le tre, qualcosa che risultasse vero o perlomeno
credibile.
Ora era focalizzato su Benny Ljungberg.
“Perché non ha telefonato al suo amico Per-Gunnar Gerdin? Non ha pensato che avrebbe
letto i giornali?” “Ho pensato che forse la polizia non era al corrente del fatto che PerGunnar avesse scoperto Gesù, e che quindi la sua linea telefonica fosse ancora sotto
controllo. Non può che darmi ragione, non è così?” L’interpellato borbottò qualcosa,
pentendosi di essersi fatto sfuggire anche quel particolare coi giornalisti, ma ormai era
troppo tardi. Così proseguì, rivolgendosi a PerGunnar Gerdin: “Pare che lei sia stato
informato su dove si trovassero Allan Karlsson e i suoi amici. Da chi le è arrivata la
soffiata?” “Incredibile a dirsi, ma non lo scopriremo mai. È stato il mio collega Secchio
Hultén a ricevere la notizia, chiunque fosse il suo informatore è un segreto che si è portato
nella tomba. O meglio nella carcassa di un’auto.” “In cosa consisteva la notizia?” “Nel fatto
che Allan, Benny e la sua fidanzata si trovavano a Rottne, nello Småland.
Credo che Secchio sia stato chiamato da un suo conoscente. A me interessava
l’informazione in sé. Sapevo che la fidanzata di Benny abitava nello Småland e aveva i
capelli rossi. Così ho dato a Secchio l’ordine di recarsi là e appostarsi davanti al
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supermercato. Si deve pur mangiare…” “E Secchio ha eseguito l’ordine volentieri, in nome
di Gesù?” “Be’, qui lei mette il dito nella piaga. Si possono dire tante cose su Secchio, ma
non che fosse credente. Era quasi più indignato di Bullone per la nuova direzione assunta
dall’organizzazione. Parlava di trasferirsi in Russia o nei Paesi Baltici per avviare un traffico
di droga. Ha mai sentito qualcosa di più terribile? Non è da escludere che avesse già
cominciato, ma questo lo deve chiedere a lui… No, non è possibile…” Il GIP guardò PerGunnar Gerdin con sospetto.
“Siamo in possesso di una registrazione telefonica, come ha appena accennato Benny
Ljungberg, nella quale lei parla di Gunilla Björklund in modo non precisamente gentile, e
impreca. Cosa pensa il Signore al riguardo?” “Oh, il Signore perdona in fretta, lo può
constatare aprendo il libro che ha appena ricevuto in dono.” “Se voi perdonate agli uomini
le loro colpe, il Padre celeste perdonerà anche voi, dice Gesù,” intervenne Bosse.
“Dal Vangelo, non è così?” chiese il commissario Aronsson a cui, dopo le ore trascorse in un
angolo del bar dell’albergo la sera prima, pareva di riconoscere quel versetto.
“Tu leggi la Bibbia?” domandò stupito il GIP Ranelid.
Senza rispondere, il commissario Aronsson si limitò a sorridere con espressione soave.
Per-Gunnar Gerdin riprese: “Durante quella conversazione telefonica ho preferito mantenere
il tono al quale Secchio era abituato. Ho pensato che fosse l’unico modo per farlo obbedire,”
spiegò.
“E lo ha fatto?” “Sì e no. Non volevo che si facesse vedere da Allan, Julius, Benny e dalla
sua fidanzata, poiché pensavo che i suoi modi violenti non fossero per loro un bello
spettacolo.” “E in effetti non lo sono stati,” commentò Bella.
“Cosa intende dire?” “Be’, è piombato nella mia fattoria imprecando, bestemmiando e
dicendo che voleva dell’acquavite… Sono in grado di sopportare molte cose, ma non la
gente che ricorre al turpiloquio.” Il commissario Aronsson riuscì a malapena a non farsi
andare di traverso il pezzo di dolce che aveva in bocca. Fino alla sera prima Bella non aveva
fatto altro che imprecare e bestemmiare. Aronsson era sempre più convinto che non avrebbe
mai saputo la verità su tutta quella faccenda. Meglio così. Bella continuò: “Sono quasi certa
che al suo arrivo non fosse per niente sobrio e, si figuri, guidava pure!
Poi per darsi un tono si è messo ad agitare una pistola, dichiarando che gli serviva per il suo
traffico di droga a… credo fosse Riga. A quel punto mi sono messa a urlare che non volevo
armi in casa mia, così l’ha appoggiata sulla veranda. Mi chiedo se non se la sia
completamente dimenticata quando se n’è andato. Mai conosciuto una persona più
sgradevole…” “Forse sono state le Bibbie a provocare quello sbalzo d’umore. La religione
tocca strane corde. Quando ero a Teheran…” “Teheran?” sfuggì al GIP.
“Sì, alcuni anni fa. A quei tempi regnava l’ordine, come mi disse Churchill quando
abbandonammo il paese a bordo di un aereo.” “Churchill?” “Sì, il primo ministro. O meglio,
non lo era in quel momento, ma lo era stato prima. E anche dopo, in effetti.” “Cazzo, so
benissimo chi era Winston Churchill, ma davvero… lei e Churchill eravate insieme a
Teheran?” “Non dica parolacce, GIP!” lo ammonì Bella.
“Be’, non proprio insieme. Ho vissuto a Teheran per un po’ insieme a un missionario, un
esperto nel far perdere le staffe alle persone.” Perdere le staffe: era proprio quello che stava
per succedere al GIP Ranelid. Si trovava lì per raccogliere informazioni sul caso a cui stava
lavorando, e il vecchio continuava a millantare di avere incontrato Franco, Truman, Mao
Tse-tung e Churchill. Tuttavia, il fatto che il GIP Ranelid fosse sul punto di perdere le staffe
non impensieriva affatto Allan, che continuò: “Per tutto il tempo che è rimasto a Sjötorp, il
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signor Secchio si è comportato come una nube temporalesca. Si è illuminato soltanto una
volta, e cioè quando se n’è andato. Ha abbassato il finestrino dell’auto e ha urlato: ‘Lettonia,
arrivo!’ Così abbiamo pensato che fosse diretto lì, ma il signor GIP, che in qualità di
poliziotto ha molta più esperienza di noi, potrà forse dare a queste parole un significato
differente.” “Idiota,” replicò l’interessato.
“Idiota?” ripeté Allan. “Non me l’ha mai detto nessuno. Cane e topo di fogna sono scappati
dalla bocca di Stalin quando era furibondo, ma idiota mai.” “È arrivato il momento,” replicò
il GIP Ranelid.
A quel punto Per-Gunnar Gerdin reagì: “Su, su. Non deve mica arrabbiarsi solo perché non
riesce a sbattere in galera chi le pare e piace. Vuole sentire il seguito della storia o no?” Sì,
lo voleva, mormorò Ranelid chiedendo scusa. Voleva… be’… era costretto, così chiese a
Per-Gunnar di continuare.
“Per quanto riguarda la Never Again, Bullone è andato in Africa a fare il legionario, Secchio
in Lettonia per il suo traffico di droga, mentre Caracas è tornato a casa in… sì, a casa. E ora
io sono l’unico rimasto, solo soletto, ma con Gesù sempre al mio fianco.” “Sì, come no,”
borbottò il GIP Ranelid. “Vada avanti!” “Ho raggiunto Gunilla, la fidanzata di Benny, a
Sjötorp. Secchio mi aveva telefonato per farmi avere l’indirizzo prima di lasciare il paese.
Un briciolo di rispetto gli era rimasto.” “Hmmm, avrei alcune domande al riguardo. La
prima è per lei, Gunilla Björklund.
Perché ha acquistato un pullman pochi giorni prima di partire – e perché partire?” La sera
precedente gli amici avevano deciso di tenere Sonya fuori dalla faccenda.
Anche lei era scappata, come Allan, ma non godeva degli stessi diritti. Probabilmente non
era neanche svedese e in Svezia, proprio come nella maggior parte dei paesi, non si valeva
molto se si era stranieri. Quasi sicuramente Sonya sarebbe stata espulsa dalla Svezia o
condannata a vivere per il resto dei suoi giorni in uno zoo. O forse entrambe le cose.
Tuttavia, senza usare Sonya come scusa, bisognava inventarsi una nuova bugia che
giustificasse il fatto che gli amici avevano deciso di sparire all’improvviso a bordo di un
pullman.
“Be’, è intestato a me,” disse Bella, “ma in realtà Benny e io l’abbiamo acquistato insieme
per suo fratello Bosse.” “Per riempirlo di Bibbie?” commentò il GIP Ranelid, che ormai non
intendeva più nascondere il suo disappunto.
“No, di angurie,” rispose Bosse. “Vuole assaggiare l’anguria più dolce del mondo?” “No.
Voglio far chiarezza sui fatti, tornare a casa, sganciarmi da una conferenza stampa e
prendermi delle ferie. Questo è quello che voglio. E adesso andiamo avanti. Perché caz…
diavolo avete lasciato Sjötorp con il pullman prima che arrivasse Per-Gunnar Gerdin?”
“Loro non sapevano del mio arrivo,” precisò Per-Gunnar Gerdin. “Il signor GIP ha qualche
problema a seguire la vicenda?” “Sì, ma sarebbe stato difficile anche per Einstein stare
dietro a questo casino.” “Visto che nomina Einstein…” esordì Allan.
“No, signor Karlsson,” lo bloccò Ranelid con voce decisa. “Non voglio sentire nessuna
storiella su ciò che lei può aver fatto insieme a Einstein. Vorrei invece che il signor Gerdin
commentasse la risposta che ha dato, nella quale compare la parola russi.” “Cosa?” “I russi.
Il suo collega Secchio parla di russi nella conversazione telefonica intercettata.
Lei sgrida Secchio perché non le ha telefonato sull’altro cellulare. E lui le risponde che
pensava che andasse usato soltanto quando facevate affari con i russi.” “Non ne voglio
parlare,” si rifiutò Gerdin, soprattutto perché non sapeva cosa dire.
“Ma io sì,” ribatté il GIP Ranelid.
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Calò il silenzio. Il particolare in questione non era apparso su nessun giornale e Gerdin
stesso l’aveva dimenticato. All’improvvisò Benny se ne uscì con queste parole: “Jesli
tjelovek kurit, on plocho igrajet v futbol.” Tutti si girarono verso di lui con tanto d’occhi.
“I russi siamo mio fratello Bosse e io. Nostro padre, pace all’anima sua, e nostro zio Frasse,
pace anche all’anima sua, erano due sinistrorsi, se posso esprimermi così. Per questo ci
hanno tormentato l’infanzia con il russo, finché tra i nostri amici e conoscenti non siamo
diventati i russi. Ed è quello che ho appena spiegato in sintesi, in russo.” Nel corso della
mattinata Benny non aveva brillato in quanto a verità. Adesso aveva cercato di togliere
Gambero da quell’impiccio. Aveva studiato russo (naturalmente senza sostenere l’esame
finale), ma era passato del tempo e quello che aveva appena detto significava: “Se si fuma,
ci si ammala e non si può giocare a calcio.” Però aveva funzionato. Di tutti coloro che
sedevano intorno al tavolo soltanto Allan aveva capito le parole di Benny.
Il GIP Ranelid cominciava ad averne abbastanza. Prima tutti quegli sciocchi riferimenti ad
altre persone e a personaggi storici, poi gente che si metteva a parlare russo… senza contare
una serie di fatti inspiegabili, come il ritrovamento del corpo di Bullone a Gibuti e di quello
di Secchio a Riga. No, cominciava a diventare troppo, davvero troppo.
Rimaneva però un’altra circostanza oscura da chiarire.
“Per concludere, signor Gerdin, può spiegarmi come sono andate realmente le cose, dal
momento che prima è stato investito e ucciso dai suoi amici, poi è risorto dal regno dei
morti e ora è qui… a mangiare anguria? A proposito, posso assaggiarla?” “Ma certo,”
rispose Bosse. “La ricetta è segreta! Sa come si dice: se il cibo è davvero buono, i nuclei
antisofisticazioni non devono sapere come è stato preparato.” Era un modo di dire che né il
commissario Aronsson né il GIP Ranelid avevano mai sentito. A quel punto Aronsson aveva
deciso di stare zitto il più possibile, mentre Ranelid non vedeva l’ora di finire… quel
colloquio… e andarsene. Ecco perché non pretese alcuna spiegazione, limitandosi a
constatare che non aveva mai affondato i denti in un’anguria più buona di quella.
Al GIP Ranelid, intento a masticare, Per-Gunnar Gerdin spiegò di essere arrivato a Sjötorp
nel momento stesso in cui il pullman si stava allontanando. Dopo aver dato un’occhiata in
giro, aveva capito che a bordo c’erano gli amici che stava cercando. Così si era messo a
inseguirli, ma nel giro di poco aveva perso il controllo dell’auto – sì, le foto del veicolo
distrutto erano apparse un po’ ovunque, pertanto per il GIP non si trattava di una novità…
“Il fatto che ci abbia raggiunto non è poi così strano,” si permise di dire Allan, rimasto in
silenzio per un po’. “Era seduto su un motore da trecento cavalli. Tutt’altra cosa rispetto alla
volta in cui io ero seduto su una Volvo PV444 per andare da Bromma all’ufficio del primo
ministro Erlander. Quarantaquattro cavalli! All’epoca erano anche tanti. E quanti erano
quelli del grossista Gustavsson quando uscì di strada in curva finendo nella mia…” “Zitto,
caro signor Karlsson, prima che io muoia di crepacuore,” disse il GIP Ranelid.
Il capo della Never Again riprese a raccontare. Sì, tra i rottami dell’auto aveva perso un po’
di sangue, per non dire parecchio, ma era stato medicato subito e di ferite profonde ne aveva
soltanto una, più un braccio rotto, una commozione cerebrale e qualche costola incrinata,
non certo roba da ospedale.
“E poi Benny ha studiato letteratura,” disse Allan.
“Letteratura?” domandò Ranelid.
“Ho detto letteratura? Intendevo medicina.” “A dire il vero ho studiato anche letteratura,”
confermò Benny. “Il mio autore preferito era Camilo José Cela, soprattutto il suo primo
romanzo, del 1947, La familia de…” “Non cominci come Karlsson. Atteniamoci ai fatti.”
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Pronunciando il suo appello Ranelid aveva lanciato un’occhiata ad Allan, che disse: “Mi
scusi, ma quello che dovevamo raccontarle finisce qui. Se però desidera continuare ad
ascoltarci, potrei citarle qualcuna delle disavventure di cui fui vittima quando ero agente
della CIA. O quando attraversai l’Himalaya. A proposito, vuole la ricetta dell’acquavite
distillata con il latte di capra? Bastano qualche zolletta di zucchero e un po’ di sole. Oltre al
latte di capra, certo.” Talvolta capita che si dia fiato alla bocca mentre il cervello è ancora
spento, e probabilmente fu ciò che accadde al GIP Ranelid quando, contro il proprio volere,
commentò l’ultima follia di Allan: “Ha attraversato l’Himalaya? A cent’anni?” “Ma no. Non
ho sempre avuto quest’età. Anzi, tutti questi anni per me sono una bella novità.” “Possiamo
andare av…” “Tutti noi cresciamo e diventiamo vecchi,” continuò Allan. “Da bambini non
lo si direbbe… Prenda ad esempio il signor Kim Jong-il. Il poverino piangeva seduto sulle
mie ginocchia, e adesso è capo di Stato con tutto ciò che comporta…” “Possiamo lasciar
perdere l’argomento, Karlsson, e…” “Sì, mi perdoni. Lei voleva sentire la storia di quando
attraversai l’Himalaya. Per mesi la mia unica compagnia fu un cammello, e si può dire
quello che si vuole di quest’animale, ma tranquilli come lui…” “No!” esplose il GIP
Ranelid. “Non voglio, basta. Io… non so… non può soltanto…” Rimase in silenzio per un
po’ prima di dire, a voce bassa, che non aveva altre domande… a parte una, e cioè: ancora
non riusciva a capire perché gli amici si erano nascosti per settimane senza una ragione.
“Eravate innocenti, no?” “Ma cosa significa essere innocenti? Dipende dal modo in cui si
vedono le cose,” concluse Benny.
“Penso anch’io,” intervenne Allan. “Prendiamo per esempio i presidenti Johnson e de
Gaulle. Chi dei due era colpevole e chi innocente rispetto al loro rapporto burrascoso?
Non che ne abbia discusso direttamente con gli interessati, avevamo altro di cui parlare,
ma…” “Caro signor Karlsson, se glielo chiedessi in ginocchio mi farebbe la cortesia di stare
zitto?” “Non ha bisogno di mettersi in ginocchio. D’ora in avanti sarò muto come un pesce.
Nel corso dei miei cent’anni non ho saputo tacere soltanto in due occasioni: quando spifferai
all’Occidente come costruire la bomba atomica e quando feci lo stesso con i paesi dell’Est.”
Il GIP Ranelid pensò che un ordigno del genere avrebbe risolto un bel po’ di cose,
soprattutto se Karlsson ci fosse stato seduto sopra al momento dell’esplosione. Ma non disse
niente. Non aveva più voglia di parlare. La domanda sul perché non si erano fatti vivi
durante le settimane in cui era stato spiccato un mandato di cattura non ebbe mai risposta, a
parte qualche considerazione di natura filosofica sul fatto che la giustizia aveva colori
diversi in paesi diversi e in tempi diversi.
Dopo essersi alzato lentamente, il GIP Conny Ranelid li ringraziò per l’anguria, il caffè, i
dolcetti, per… la conversazione… e per essersi mostrati così disponibili.
Lasciata la cucina, salì in macchina e se ne andò.
“È andata benissimo,” commentò Julius.
“Assolutamente,” confermò Allan. “Credo di aver capito e detto quasi tutto.” Lungo la E20
in direzione nordest, il GIP Ranelid si riprese lentamente dalla paralisi che a un certo punto
lo aveva colto. Poco alla volta cominciò a passare in rassegna la storia che era riuscito a
racimolare: aggiunse e tolse (perlopiù tolse), ripulì e rifinì, finché non gli sembrò di avere
tra le mani una versione plausibile. La cosa che più lo preoccupava era la credibilità del
resoconto, essendo indubbio che nemmeno i giornalisti si sarebbero bevuti la storiella del
centenario Allan Karlsson che puzzava prematuramente di cadavere.
Di colpo un’idea si fece largo nella sua testa. Quel maledetto cane poliziotto… perché non
dare la colpa a quello schifoso animale?
181
Se fosse riuscito ad avvalorare la versione per cui il cane era impazzito, forse avrebbe
potuto salvare la faccia. La storia avrebbe preso un’altra piega: non c’era nessun cadavere
sul carrello ferroviario nei boschi del Sörmland, e non c’era mai stato. Ma il GIP era stato
indotto a credere il contrario con l’inganno, e ciò aveva portato a una serie di conclusioni e
decisioni evidentemente inappropriate e discutibili di cui tuttavia il GIP non aveva colpa,
perché la colpa era tutta del cane.
Una soluzione brillante, pensò. La storia del cane impazzito doveva però essere confermata
da un’altra fonte e… Kicki… si chiamava così?… Kicki doveva passare in breve tempo a
miglior vita. Non doveva accadere, insomma, che in seguito alle sue dichiarazioni il cane
mostrasse di essere affidabile.
Il GIP Ranelid aveva un conto da saldare con l’addestratore di Kicki, dal momento che
alcuni anni prima era scampato per un pelo a un sospetto caso di furto in un SevenEleven, il
cui presunto colpevole era un poliziotto. La sua carriera non sarebbe stata bloccata da uno
stupido muffin non pagato, aveva pensato Ranelid all’epoca. Ma adesso era giunto il
momento di rendere pan per focaccia all’addestratore.
“Ciao Kicki,” esclamò Conny Ranelid, e mentre procedeva lungo la E20 in direzione di
Eskilstuna scoppiò a ridere per la prima volta dopo molto tempo.
Di lì a breve suonò il cellulare. Era il capo della polizia della contea in persona, al quale era
appena stato recapitato da Riga il referto dell’autopsia con tanto di nota identificativa del
cadavere.
“Confermano che il corpo schiacciato nella carcassa dell’auto è quello di Henrik Hultén,”
disse il capo della polizia.
“Bene,” ribatté Ranelid. “Felice che tu mi abbia chiamato! Saresti così gentile da passarmi il
centralino? Dovrei parlare con Ronny Bäckman. L’addestratore di cani, sai…” A
Klockaregård, una volta salutato il GIP Ranelid, su iniziativa di Allan gli amici si riunirono
nuovamente attorno al tavolo.
Allan esordì domandando se il commissario Aronsson aveva qualche opinione in merito a
quanto emerso durante il colloquio con Ranelid. Forse preferiva fare quattro passi?
L’interpellato rispose che a suo avviso la ricostruzione dei fatti era stata chiara ed esaustiva
sotto tutti i punti di vista. Per ciò che lo riguardava il suo incarico era concluso, e se gli
avessero permesso di restare lì con loro ne sarebbe stato felice.
Inoltre, aggiunse, neanche lui era senza peccato, e non aveva nessuna intenzione di scagliare
alcuna pietra.
“Fatemi soltanto la cortesia di non raccontarmi cose che preferirei non sapere. Intendo dire,
se esistono risposte alternative a quelle che avete fornito a Ranelid…” Allan promise che lui
e gli altri avrebbero tenuto conto della sua richiesta, dopodiché dichiarò che l’amico
Aronsson era benvenuto tra loro.
L’amico Aronsson, pensò il commissario. Nel corso della sua carriera si era procurato
soltanto un mucchio di nemici sparsi per tutto il paese, ma amici mai. Finalmente sembrava
che fosse giunto il momento! Così disse che, se Allan e gli altri avessero accettato di
includerlo nella loro cerchia, ne sarebbe stato orgoglioso e felice.
Allan rispose che nel corso della sua vita era diventato amico di sacerdoti e presidenti, ma
mai, prima di allora, di un poliziotto, e dal momento che l’amico Aronsson non voleva
sapere troppo, promise di non dire nulla sulla provenienza di tutto il denaro di proprietà del
gruppetto. In nome della loro amicizia.
“Tutto il denaro?” chiese il commissario Aronsson.
182
“Sì,” confermò Allan. “Hai presente la valigia? Oltre alle Bibbie in vera pelle, era piena di
banconote da cinquecento corone. Più o meno cinquanta milioni.” “Alla faccia del caz…”
commentò Aronsson.
“Sì, impreca pure,” disse Bella.
“Se devi invocare qualcuno, ti raccomando sempre Gesù,” intervenne Bosse. “In presenza o
meno del GIP.” “Cinquanta milioni?” chiese Aronsson.
“Meno quelli usati per le spese di viaggio,” precisò Allan. “E adesso dobbiamo stabilire a
chi appartengono. Per questo lascio la parola a te, Gambero.” Per-Gunnar Gambero Gerdin
si grattò un orecchio mentre meditava. Alla fine disse che, personalmente, desiderava che gli
amici e i milioni restassero insieme, e magari avrebbero trascorso insieme anche le vacanze,
perché se c’era una cosa che desiderava davvero era farsi servire un drink con tanto di
ombrellino sotto un ombrellone in qualche posto esotico. Gambero sapeva che anche Allan
aveva un debole per le stesse cose.
“Ombrellino a parte,” commentò l’interessato.
Julius disse che condivideva il pensiero di Allan, dato che uno scroscio di pioggia sul drink
era improbabile, soprattutto se si stava sotto un ombrellone e il sole splendeva alto nel cielo
azzurro. Tuttavia non era il caso di mettersi a discutere. L’idea di trascorrere le vacanze
insieme era davvero splendida!
Il commissario rise timidamente: non era certo di appartenere davvero al gruppo.
Benny, che aveva notato il suo imbarazzo, lo scosse per una spalla chiedendogli in che
modo il rappresentante delle forze dell’ordine desiderasse che fosse presentato il suo drink.
Raggiante, Aronsson stava per rispondere quando Bella smorzò il buonumore generale: “Io
non mi muovo di qui senza Sonya e Buster!” Dopo una pausa aggiunse: “’Fanculo.” Dal
momento che Benny non poteva pensare di fare un passo senza Bella, anche lui perse
l’entusiasmo.
“Oltretutto la metà di noi non ha neanche un passaporto valido,” aggiunse con un sospiro.
Nel frattempo Allan ringraziò Gambero per la sua generosità in merito alla spartizione del
denaro. Anche secondo lui trascorrere le vacanze insieme sarebbe stato bello, possibilmente
a centinaia di chilometri di distanza dall’infermiera Alice. Se i componenti del gruppo erano
intenzionati a dar seguito alla proposta, in qualche modo avrebbero risolto i loro problemi,
scegliendo un posto dove non fossero troppo esigenti in materia di visti per le persone e gli
animali.
“E dove pensi di piazzare un elefante che pesa cinque tonnellate?” domandò Benny
rassegnato.
“Non lo so, ma se pensiamo in positivo risolveremo ogni cosa.” “E per il fatto che la
maggior parte di noi non possiede un passaporto valido?” “Stesso discorso: basta pensare in
positivo.” “Non credo che Sonya pesi più di quattro tonnellate, forse quattro e mezzo,” disse
Bella.
“Vedi, Benny?” sottolineò Allan. “Ecco cosa intendo quando dico che bisogna pensare in
positivo. Già questo problema pesa una tonnellata di meno.” “Forse ho un’idea,” continuò
Bella.
“Anch’io,” disse Allan. “Posso usare il telefono?”
183
CAPITOLO 26
1968-1982
Julij Borisovič Popov abitava e lavorava nella città di Sarov, nella regione di Nižnij
Novgorod, a circa trecentocinquanta chilometri da Mosca.
Sarov era una città segreta, quasi più segreta del segretissimo Hutton. Ma non si chiamava
più così: ora le avevano affibbiato l’alquanto romantico nome di Arzamas-16.
E non compariva in nessuna mappa. Quindi, allo stesso tempo, esisteva e non esisteva. Più o
meno come Vladivostok a partire dal 1953, ma al contrario.
Negli anni la città era stata recintata con il filo spinato e nessuno poteva entrare o uscire
senza passare attraverso il controllo di sicurezza. Per coloro che esibivano un passaporto
americano e avevano a che fare con l’ambasciata americana a Mosca era sconsigliabile
persino avvicinarsi.
Nel giro di qualche settimana l’agente della CIA Ryan Hutton aveva insegnato al suo
discepolo Allan Karlsson l’ABC degli agenti segreti, in modo che il signor Karlsson potesse
essere accolto all’ambasciata americana a Mosca sotto il nome di Allan Carson, con il vago
incarico di amministratore.
Purtroppo il segretissimo Hutton non aveva considerato che l’oggetto d’interesse di Allan
Karlsson si trovava all’interno di una città talmente segreta, sorvegliata e protetta da non
poter essere nemmeno nominata. Oltretutto, era circondata da un’alta rete di filo spinato.
Il segretissimo Hutton si scusò dell’errore di valutazione, aggiungendo che se Allan avesse
avanzato delle proposte alternative le avrebbe ascoltate volentieri. Il neoagente segreto
replicò che, dato che di tanto in tanto Popov si recava a Mosca, la prima cosa da fare era
scoprire in quali giorni quest’ultimo avesse previsto la sua prossima visita.
“Adesso però, signor Karlsson, mi deve scusare,” concluse il segretissimo Hutton. Era
necessario che spostasse la sua attenzione sul pasticcio creatosi in Grecia dopo il golpe
militare supportato l’anno prima dalla CIA. Come sarebbe successo negli anni a venire,
neanche questa volta si raggiunse il risultato sperato.
Allan decise che l’unica cosa da fare era una bella passeggiata fino alla Biblioteca di Mosca,
dove ogni giorno avrebbe trascorso le ore leggendo giornali e riviste. La sua speranza era di
scovare un articolo che rivelasse il giorno in cui Popov si sarebbe nuovamente mostrato in
pubblico, fuori dal filo spinato che circondava Arzamas-16.
Passarono i mesi e non giunse alcuna notizia. Ma un giorno Allan lesse che il candidato alla
presidenza degli Stati Uniti Robert Kennedy aveva subito la stessa sorte del fratello, e che la
Cecoslovacchia aveva chiesto aiuto all’Unione Sovietica, per riorganizzare il proprio
modello di socialismo.
In seguito apprese che il successore di Lyndon B. Johnson si chiamava Richard M.
Nixon. E dal momento che l’indennizzo dell’ambasciata arrivava puntualmente ogni mese,
gli parve doveroso continuare la sua ricerca di Popov. Se gli fosse venuto in mente di
cambiare tattica, il segretissimo Hutton si sarebbe certo fatto sentire.
Nel frattempo il 1968 aveva ceduto il passo al 1969, e si stava avvicinando la primavera
quando finalmente Allan lesse qualcosa d’interessante: l’Opera di Stato di Vienna si sarebbe
esibita al Bolshoi di Mosca, con il tenore Franco Corelli e la stella svedese Birgit Nilsson
nel ruolo di Turandot.
184
Grattandosi il mento senza traccia di barba, Allan si ricordò che la prima e ultima sera che
lui e Julij avevano trascorso insieme, il russo aveva cantato Nessun dorma, per poi
addormentarsi completamente ubriaco… Ma questa era un’altra storia.
Pensò quindi che una persona che aveva cantato le arie di Puccini e della Turandot in un
sottomarino a duecento metri di profondità difficilmente si sarebbe persa la versione
viennese della stessa opera al Bolshoi di Mosca. Soprattutto se la persona in questione
abitava a poche ore di distanza da Mosca ed era in possesso di una quantità tale di
decorazioni e medaglie da non avere alcun problema a trovare posto in platea.
O forse sì. Comunque, Allan continuò ad andare in biblioteca: avanti e indietro, tutti i giorni.
Niente di nuovo.
Se a teatro gli fosse comparso davanti Julij, gli sarebbe bastato avvicinarsi e dirgli: “Ne è
passato di tempo.” Semplice.
O no.
A dire il vero, niente affatto.
La sera del 22 marzo 1969 Allan si era strategicamente piazzato a sinistra dell’ingresso
principale del Bolshoi. Riteneva che da quella postazione avrebbe riconosciuto Julij nel
momento stesso in cui gli fosse passato accanto per entrare. Quello che non aveva calcolato,
però, era che gli spettatori sembravano tutti pressoché identici: gli uomini indossavano
l’abito nero sotto un cappotto dello stesso colore, mentre le donne portavano lunghi vestiti
che spuntavano appena da sotto la pelliccia nera o marrone.
Arrivavano in coppia e si precipitavano dentro, al caldo, per poi sfilare davanti ad Allan che
se ne stava seduto sul gradino più basso di quella scalinata maestosa. Oltretutto era buio.
Come diavolo avrebbe fatto a identificare un volto che aveva visto per due giorni ventun
anni prima? A meno che, se la fortuna l’avesse assistito, non fosse stato Julij a riconoscere
Allan.
Ma Allan non era così fortunato. E non era neanche certo che Julij Borisovič si trovasse a
teatro, magari in compagnia, e se anche fosse stato così, poteva già essere passato a pochi
centimetri da lui senza che lo avesse visto. Quindi, che fare? Allan rifletté ad alta voce: “Se
sei appena entrato, caro Julij Borisovič, sicuramente tra qualche ora uscirai dalla stessa
porta, ma anche allora potrei confonderti in mezzo alla folla proprio come al tuo ingresso.
Ergo, io non sono in grado di scovare te, ma tu sarai in grado di scovare me.” Aveva deciso.
Pertanto rientrò nel suo ufficetto in ambasciata, e dopo aver preparato l’occorrente tornò alla
sua postazione un bel po’ di tempo prima che il principe Calaf sciogliesse il cuore della
principessa Turandot.
Durante la fase di apprendimento, sotto le grinfie del segretissimo Hutton, Allan si era
sentito ripetere fino alla nausea l’importanza del concetto di discrezione. Un agente di
successo doveva agire in sordina, senza farsi notare, mimetizzandosi nell’ambiente in cui
stava operando al punto da risultare praticamente invisibile.
“Ha capito, signor Karlsson?” aveva chiesto il segretissimo Hutton.
“Perfettamente, signor Hutton,” aveva risposto Allan.
Birgit Nilsson e Franco Corelli furono richiamati sul palcoscenico venti volte. Un vero
tripudio. Così ci volle del tempo prima che il pubblico cominciasse a convergere verso
l’uscita e gli spettatori, sempre tutti uguali, si accalcassero di nuovo sulla scalinata.
Dove, in piedi sul gradino più basso, un uomo reggeva un cartellone artigianale su cui
campeggiava la scritta: SONO
ALLAN
185
EMMANUEL
Allan Karlsson aveva probabilmente inteso le raccomandazioni del segretissimo Hutton, ma
aveva deciso di ignorarle. Perché, se nella Parigi di Hutton era primavera, a Mosca faceva
un freddo cane ed era buio. Allan stava congelando e doveva concludere la sua missione.
Prima aveva pensato a un cartellone col nome di Julij, ma all’ultimo momento aveva deciso
che l’indiscrezione a cui era costretto avrebbe riguardato se stesso e nessun altro.
Larissa Aleksandrevna Popova, moglie di Julij Borisovič Popov, era amorevolmente stretta
al braccio del marito, e per la quinta volta lo stava ringraziando della bellissima esperienza
appena vissuta insieme. Birgit Nilsson era un’autentica Maria Callas! E i posti! Quarta fila,
al centro. Larissa era felice come non si sentiva da tempo. Inoltre quella sera lei e il marito
avrebbero pernottato in albergo, quindi non sarebbe stata costretta a rientrare in
quell’orribile città circondata dal filo spinato per quasi ventiquattr’ore. Avrebbero cenato a
lume di candela… solo lei e Julij… e poi forse… “Scusami, cara,” disse il marito
fermandosi in cima alla scalinata proprio davanti all’ingresso del teatro.
“Cosa c’è, caro?” domandò inquieta Larissa.
“No… niente… ma…Vedi quell’uomo là sotto con quel cartellone? Devo dare
un’occhiata… Non può essere… ma devo… Lo credevo morto!” “Chi è morto, caro?”
“Vieni!” rispose lui mentre scendeva la scalinata trascinandola con sé.
Si fermò a tre metri da Allan, cercando di realizzare con la mente ciò che gli occhi avevano
già compreso. Allan, che nel frattempo l’aveva individuato, abbassò il cartellone e disse: “È
stata brava, Birgit?” Julij rimase in silenzio, mentre sua moglie gli parlava all’orecchio
chiedendogli se fosse quello l’uomo che credeva morto. Fu Allan a rispondere, precisando di
essere ancora vivo benché quasi congelato, e che se i signori Popov non volevano che
morisse ora, di freddo, avrebbero fatto meglio a condurlo in un ristorante dove poter bere un
po’ di vodka e magari mangiare un boccone. Al più presto.
“Sei proprio tu…” riuscì a dire alla fine Julij. “Ma… parli russo?” “Sì, da quando ci siamo
visti l’ultima volta ho frequentato un corso di russo nel tuo paese,” spiegò Allan. “La scuola
si chiamava gulag. Non vedo vodka.” Julij Borisovič era un uomo dalla morale ferrea: per
ventun anni era stato tormentato dal rimorso di aver reclutato con l’inganno l’esperto
svedese di bombe atomiche, che da Mosca era stato spedito a Vladivostok dove, con tutta
probabilità, era deceduto nel famoso incendio di cui tutti i sovietici mediamente informati
erano a conoscenza. Ne aveva sofferto per ventun anni. Quello svedese e il suo inguaribile
ottimismo gli erano piaciuti immediatamente.
Ora Julij Borisovič si trovava davanti al Bolshoi di Mosca, a quindici gradi sottozero, dopo
uno spettacolo che gli aveva scaldato il cuore e… no, non poteva crederci. Allan Emmanuel
Karlsson era sopravvissuto. Era ancora vivo. E in quel momento era in piedi davanti a lui.
Nel cuore di Mosca. E parlava russo!
Julij Borisovič era sposato con Larissa Aleksandrevna da quattro decenni ed erano molto
felici insieme. Non avevano figli, ma la confidenza che li univa e la stima che nutrivano
l’uno nei confronti dell’altra non conoscevano limiti. Condividevano tutto, nella buona e
nella cattiva sorte, e più di una volta Julij aveva confidato alla moglie il proprio dolore per il
drammatico destino di Allan Emmanuel Karlsson. Adesso, mentre lui cercava di riprendersi,
Larissa Aleksandrevna assunse il comando della situazione: “Da quanto ho capito si tratta
del tuo vecchio amico, colui che hai indirettamente rischiato di mandare a morte. Che ne
dici, caro Julij, di esaudire i suoi desideri e portarlo subito in un ristorante dove possa bere
un po’ di vodka in modo da non morire per davvero?” Julij non rispose, ma annuendo si fece
186
condurre verso la limousine che li attendeva, dove si accomodò vicino all’amico che
credeva morto mentre la moglie impartiva istruzioni all’autista.
“Ristorante Puškin, per favore.” Ci vollero due robuste dosi di vodka perché Allan si
riscaldasse e altre due perché il cervello di Julij riprendesse a funzionare. Nel frattempo
Allan e Larissa fecero conoscenza.
Quando finalmente Julij riacquistò l’uso della ragione e lo choc si trasformò in gioia
(“Adesso festeggiamo!”), ad Allan sembrò arrivato il momento di passare al punto. Se si
aveva qualcosa da dire, tanto valeva dirlo subito.
“Che ne dici di diventare una spia?” domandò Allan. “Io lo sono già e in effetti è piuttosto
divertente.” A Julij andò di traverso il suo quinto bicchiere di vodka, che con un colpo di
tosse finì per essere spruzzato sul tavolo.
“Spia?” chiese Larissa mentre il marito continuava a tossire.
“Sì, o agente segreto. Non so esattamente quale sia la differenza.” “Interessante! Mi spieghi
meglio, caro Allan Emmanuel.” “No, basta, Allan,” tossì Julij. “Basta! Non vogliamo sapere
altro!” “Non dire sciocchezze, caro Julij,” intervenne Larissa. “Il tuo amico ti deve pur
parlare del suo lavoro, visto che non vi vedete da tanti anni. Prosegua, Allan Emmanuel.”
Allan continuò. Larissa lo ascoltava interessata, mentre Julij si nascondeva il volto tra le
mani. Allan raccontò della cena con il presidente Johnson e il segretissimo Hutton della
CIA, e dell’incontro avvenuto il giorno dopo con lo stesso Hutton, che gli aveva infine
proposto di recarsi a Mosca per scoprire come erano messi i sovietici in quanto a bombe.
Allan desiderava andarsene da Parigi, dove il suo compito sarebbe stato di evitare che
scoppiasse una crisi diplomatica ogniqualvolta Amanda e Herbert aprivano bocca.
Tanto più che Amanda e Herbert erano due e ad Allan sarebbe stato impossibile trovarsi in
due luoghi contemporaneamente. Ecco perché aveva accettato la proposta del segretissimo
Hutton: gli sembrava una prospettiva molto più tranquilla. Inoltre, sarebbe stato bello
rincontrare Julij dopo tutti quegli anni.
Quest’ultimo continuava a coprirsi il volto con le mani, guardando Allan attraverso le
fessure delle dita. Julij aveva mai sentito parlare di Herbert Einstein? Sì, se lo ricordava, ed
era felice di sapere che anche lui fosse sopravvissuto al rapimento e al campo di lavoro in
cui Berija li aveva spediti.
Sì, confermò Allan, cominciando a raccontare dei vent’anni trascorsi con Herbert.
Inizialmente, disse, l’amico non desiderava altro che la morte, ma quando il suo desiderio si
era finalmente avverato – all’età di settantasei anni, nel dicembre dell’anno prima – Herbert
aveva avuto modo di cambiare del tutto idea. Aveva lasciato una moglie di successo,
diplomatica a Parigi, e due figli adolescenti. Le ultime notizie pervenute dalla capitale
francese dicevano che la famiglia aveva preso bene la morte di Herbert e la signora Einstein
era sempre molto apprezzata dalla gente che contava. A quanto pareva il suo francese era
pessimo, ma la cosa le conferiva fascino e le permetteva di far passare inosservate tutte le
stupidaggini che riusciva a dire.
“Ma ci stiamo allontanando dal punto,” disse Allan. “Non mi hai ancora risposto. Vuoi o no
diventare un agente segreto, così, tanto per cambiare?” “Ma, caro Allan Emmanuel, come
potrebbe mai accadere una cosa simile? Ho ottenuto dallo Stato più premi e riconoscimenti
di qualsiasi altro cittadino dell’Unione Sovietica. È assolutamente fuori discussione che io
possa diventare una spia!” rispose Julij portandosi alle labbra il sesto bicchiere.
“Non dire così, caro Julij,” intervenne Larissa, facendo fare alla vodka numero sei la fine
che aveva fatto la numero cinque.
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“Non sarebbe meglio che la bevessi invece di spruzzarcela addosso, Julij?” chiese Allan
gentilmente.
Larissa espresse la sua opinione mentre il marito continuava a coprirsi il volto con le mani.
A suo avviso sia lei sia Julij, che presto avrebbero compiuto sessantacinque anni, non
avevano nulla di che ringraziare l’Unione Sovietica. Certo, suo marito era stato decorato tre
volte, il che gli consentiva di ottenere ottimi posti all’opera, ma poi?
Senza attendere risposta Larissa continuò, spiegando che vivevano rinchiusi dentro
Arzamas-16, una città che avrebbe fatto venire la depressione a chiunque soltanto a
nominarla. Oltretutto, circondati dal filo spinato. Sì, Larissa sapeva che erano liberi di
andare e venire a loro piacimento, ma Julij non doveva interromperla prima che avesse
concluso il suo ragionamento.
Per chi diavolo doveva ancora sbattersi Julij? Prima l’aveva fatto per Stalin, che in fondo
non aveva tutte le rotelle a posto. Poi per Chruščёv, il cui gesto più recente, a dimostrazione
della sua umanità, era stato far giustiziare il maresciallo Berija. E adesso Brežnev – che
puzzava!
“Larissa!” esclamò Julij Borisovič inorridito.
“Non fare quella faccia, caro Julij. Sei stato tu a dirmelo!” Proseguì affermando che Allan
Emmanuel sembrava mandato dal cielo, dato che ultimamente si era sentita sempre peggio
al pensiero di dover finire i suoi giorni circondata dal filo spinato di quella città che
ufficialmente neanche esisteva. Le lapidi alla loro memoria avrebbero riportato i nomi veri o
si sarebbero usate parole in codice anche per loro – per questioni di sicurezza?
“Qui riposano il compagno X e la sua fedele moglie Y,” aggiunse Larissa.
Julij non fece commenti. Forse la sua signora aveva ragione. Larissa arrivò alla conclusione:
“Quindi perché non fare la spia insieme al tuo amico, prima di fuggire a New York dove
potremo andare tutte le sere al Metropolitan? Farci una vita nostra, caro Julij, prima di
morire.” Mentre Julij sembrava tentennare, Allan continuò a fornire particolari utili a
motivare la sua proposta. Come aveva già detto, per vie traverse a Parigi aveva conosciuto
un certo signor Hutton, che a quanto pareva era molto vicino all’ex presidente Johnson e
ricopriva un incarico di prestigio alla CIA.
Quando Hutton era venuto a sapere che Allan conosceva Julij Borisovič da tempo, e che
questi probabilmente gli doveva un favore, l’americano aveva elaborato un piano.
Allan non aveva mai prestato molta attenzione ai risvolti di politica internazionale, perché
quando la gente si metteva a parlare di quell’argomento lui smetteva di ascoltare. Era un
processo automatico.
Ripreso il controllo, il fisico nucleare annuì palesando il suo consenso: anche per lui la
politica non era l’argomento preferito, affatto. Certo, era socialista nell’anima e nel cuore,
ma se qualcuno gli chiedeva di approfondire cominciavano i problemi.
Allan tentò di sintetizzare le parole del segretissimo Hutton. Si trattava di scoprire se
l’Unione Sovietica avrebbe attaccato gli Stati Uniti con le armi nucleari oppure no.
Julij annuì, confermando che secondo lui le cose stavano proprio così. Perlomeno era
probabile.
L’uomo della CIA, Hutton, per quanto Allan riuscisse a ricordare aveva espresso la sua
preoccupazione per le conseguenze di un eventuale attacco sovietico agli Stati Uniti.
Infatti, benché a detta di Hutton l’arsenale atomico russo fosse sufficiente per colpire il
paese una volta sola, la questione era piuttosto grave.
Julij Borisovič annuì per la terza volta, dicendo che per il popolo americano il futuro
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sarebbe stato decisamente cupo se gli Stati Uniti fossero scomparsi dalla faccia della terra.
Tuttavia Allan non era in grado di dire in che modo Hutton avesse intenzione di risolvere il
problema. In ogni caso, voleva almeno sapere in cosa consisteva l’arsenale sovietico;
quando ne fosse venuto a conoscenza avrebbe potuto raccomandare al presidente Johnson di
cominciare le trattative con i russi per il disarmo nucleare. In effetti adesso Johnson non era
più presidente, per cui… no, Allan non sapeva. Nella maggior parte delle occasioni non solo
la politica si rivelava inutile, ma inutilmente contorta.
Julij era il responsabile tecnico dell’intero arsenale di armi atomiche dell’Unione Sovietica,
di cui conosceva ogni dettaglio: strategia, geografia, potenza. Nel corso dei suoi ventitré
anni di servizio non aveva però mai avuto voglia – né necessità – di fare delle riflessioni
politiche al riguardo. Atteggiamento perfettamente consono al suo carattere e al
mantenimento della sua incolumità. In tutti quegli anni era sopravvissuto a tre diversi leader,
oltre che al maresciallo Berija. Vivere tanto a lungo ricoprendo un ruolo come il suo non era
da tutti.
Julij era consapevole dei sacrifici fatti da Larissa. E adesso che era giunto il momento della
pensione, e magari anche di comprare una dacia sul mar Nero, la generosità di sua moglie si
era dimostrata più grande che mai. Eppure non si era mai lamentata. Mai.
Per questo Julij l’ascoltò con particolare attenzione quando disse: “Caro, amatissimo, Julij,
contribuiamo anche noi, insieme ad Allan, a portare un po’ di pace nel mondo, dopodiché
andiamocene a New York. Le tue medaglie Brežnev può infilarsele nel culo.” Alzata
bandiera bianca, il marito acconsentì a tutto (eccezion fatta per la questione delle medaglie),
e Julij e Allan concordarono subito nel ritenere che, per il momento, il presidente Nixon non
dovesse sapere tutta la verità, ma solo i particolari che lo avrebbero reso felice. Un Nixon
felice avrebbe rallegrato anche Brežnev, e se tutti e due fossero stati contenti forse la guerra
non sarebbe scoppiata.
Allan aveva reclutato una spia servendosi di un cartellone esposto in un luogo pubblico nel
paese dotato del sistema di controllo più efficiente del mondo. Quella sera, sia un capitano
del GRU sia un direttore del KGB sedevano al Bolshoi in compagnia delle rispettive mogli.
Entrambi avevano notato, come tutti gli altri del resto, l’uomo in piedi sul gradino più basso
della scalinata. Tuttavia avevano pensato che non fosse il caso di allertare i colleghi in
servizio: un vero controrivoluzionario non se ne sarebbe certo stato lì con un cartellone in
mano.
Sarebbe stato il massimo dell’idiozia.
Quella sera stessa, almeno una dozzina di informatori più o meno professionisti del KGB e
del GRU si trovavano al ristorante con il proposito, a loro volta, di reclutare adepti e tenere
d’occhio i sospetti. Al tavolo numero 9 un uomo aveva spruzzato la vodka nel piatto, si era
coperto il volto con le mani, aveva agitato le braccia, alzato gli occhi al cielo ed era stato
ripreso dalla moglie: una situazione perfettamente normale per un ristorante russo, nessun
particolare degno di nota.
E così, un agente americano politicamente scettico aveva potuto infervorarsi discutendo
delle strategie di pace globali con un esperto sovietico di armi nucleari politicamente
inattendibile – senza che né il KGB né il GRU intervenissero. Quando il referente europeo
della CIA a Parigi, Ryan Hutton, ricevette un messaggio in cui si diceva che il reclutamento
era riuscito e presto sarebbero giunte le prime informazioni, riconobbe che quel Karlsson
era più professionale di quanto non gli fosse sembrato di primo acchito.
Il Bolshoi cambiava repertorio tre, quattro volte all’anno. E spesso ospitava spettacoli
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provenienti da altri paesi, come era avvenuto con l’Opera di Vienna.
Erano queste le occasioni in cui Allan e Julij Borisovič si incontravano – con discrezione –
nella suite dell’albergo dove Larissa e suo marito pernottavano, per concordare le
informazioni da inoltrare alla CIA. Miscelavano con maestria invenzione e realtà, in modo
che i loro resoconti risultassero agli occhi degli americani sia credibili sia stimolanti.
Una delle conseguenze fu che all’inizio degli anni Settanta lo staff del presidente Nixon
cominciò a trattare con i sovietici affinché si fissasse presto un meeting tra le alte sfere per
affrontare la questione del disarmo bilaterale. Nixon si sentiva forte, convinto com’era che
in campo atomico gli Stati Uniti fossero più potenti dell’Unione Sovietica.
Neanche il presidente Brežnev, dal canto suo, era contrario a un accordo sul disarmo, dato
che stando ai rapporti segreti che gli giungevano l’Unione Sovietica era più potente degli
Stati Uniti. A creare una gran confusione fu una donna delle pulizie che lavorava negli uffici
della CIA, la quale vendette strane informazioni al GRU. Erano finiti tra le sue mani dei
documenti mandati alla sede della CIA a Parigi, in cui si alludeva al fatto che una spia al
servizio degli americani lavorasse al programma nucleare sovietico. Il problema era che le
informazioni che pervennero in seguito non corrispondevano a verità. Se Nixon intendeva
procedere al disarmo sulla base dei dati forniti da un mitomane sovietico e mandati alla sede
della CIA a Parigi, Brežnev non aveva nulla in contrario, ma l’intera faccenda era talmente
intricata che occorreva rifletterci sopra. E il mitomane andava localizzato.
La prima reazione di Brežnev fu di convocare il responsabile tecnico dell’intero arsenale di
armi atomiche dell’Unione Sovietica, il fidatissimo Julij Borisovič, a cui chiese di scoprire
dove si nascondesse la fonte delle informazioni false: anche se la CIA sottovalutava
fortemente la forza delle armi nucleari sovietiche, le informazioni riportate erano
sufficientemente dettagliate da destare qualche sospetto. In tal caso era necessario l’aiuto di
un esperto come Popov.
Quest’ultimo lesse le informazioni da lui stesso elaborate insieme all’amico Allan, e alzando
le spalle disse che qualsiasi studente sarebbe stato in grado di fornire quel genere di dati,
bastava sfogliare i testi sull’argomento presenti in biblioteca. Il compagno Brežnev non
aveva motivo di preoccuparsi, sempre che il compagno Brežnev fosse disposto ad accogliere
le conclusioni al riguardo di un modesto professionista.
Sì, era esattamente per questo che Brežnev aveva convocato Julij Borisovič. A quel punto
ringraziò di cuore per il suo aiuto il responsabile tecnico dell’intero arsenale di armi
atomiche dell’Unione Sovietica e mandò i suoi saluti a Larissa Aleksandrevna,
l’affascinante moglie di Julij Borisovič.
Mentre il KGB metteva inutilmente e discretamente sotto sorveglianza alcuni testi relativi
alle armi nucleari, reperibili in duecento biblioteche dell’Unione Sovietica, Brežnev si
concentrava sulla posizione da assumere nei confronti delle proposte di Nixon. Fino al
giorno in cui – orrore – Nixon non fu invitato dalla Cina e da quel grassone di Mao Tsetung! Brežnev e Mao Tse-tung si erano già mandati a quel paese una volta per tutte, e adesso
c’era il rischio che Nixon e Mao stringessero tra loro una rivoltante alleanza contro l’Unione
Sovietica. Questo non doveva accadere!
Il giorno dopo Richard Milhous Nixon, presidente degli Stati Uniti d’America, ricevette
l’invito ufficiale a recarsi in visita in Unione Sovietica. Dietro le quinte ci fu un periodo di
affannoso lavoro, e quando alla fine Nixon e Brežnev si strinsero la mano avevano
sottoscritto due trattati separati per il disarmo: il primo (il Trattato ABM) riguardava la
limitazione delle difese antimissile, il secondo (il Trattato SALT) quella degli armamenti
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strategici. Dal momento che la firma avvenne a Mosca, Nixon si premurò di stringere la
mano anche all’agente segreto dell’ambasciata americana che in modo tanto mirabile aveva
fornito informazioni sulla reale portata delle armi nucleari sovietiche.
“Si figuri, signor presidente,” disse Allan. “Vuole che ceniamo insieme? Di solito mi
invitavano.” “Chi?” “Be’, quelli che erano soddisfatti… Franco, Truman, Stalin… e Mao…
che comunque non fece servire altro che spaghetti cinesi… anche se, va detto, era sera
tardi… mentre il ministro Erlander mi offrì soltanto una tazza di caffè, adesso che ci penso.
In fondo niente di male, era un periodo di razionamenti…” Per fortuna il presidente Nixon
era già a conoscenza dei trascorsi dell’agente; poté quindi dirgli in tutta tranquillità che
purtroppo non aveva tempo di cenare con lui.
Aggiunse però che un presidente americano non poteva certo comportarsi peggio di un
primo ministro svedese, pertanto non gli sarebbe mancata una tazza di caffè, e neanche del
cognac.
Ringraziatolo, Allan gli domandò se un doppio cognac poteva considerarsi un’alternativa al
caffè. Nixon rispose che il bilancio degli Stati Uniti era in grado di sostenere entrambe le
richieste.
I signori trascorsero insieme un’ora assai piacevole. Nei limiti di quanto poteva esserlo per
Allan, tenuto conto del fatto che Nixon continuò imperterrito a parlare di politica. Il
presidente gli chiese come funzionasse la politica in Indonesia. Senza neppure nominare
Amanda, Allan descrisse nei particolari com’era possibile intraprendere una carriera politica
in quel paese. Il presidente Nixon lo ascoltò interessato, con aria assorta.
“Interessante,” disse. “Interessante.” Allan e Julij erano soddisfatti del loro operato e dei
risultati ottenuti. Sembrava anche che il GRU e il KGB avessero allentato la caccia alla spia
– decisamente un bene per i due amici. Allan si espresse così: “È meglio non avere alle
calcagna organismi investigativi piuttosto che averli.” Aggiunse che non avrebbero dovuto
dedicare troppo tempo al KGB, al GRU e a tutte le altre sigle attuali o future. Invece, era
giunto il momento di elaborare il prossimo rapporto segreto per il segretissimo Hutton e il
suo presidente. Consistente attacco di ruggine sui missili a media distanza a Kamčatka:
poteva essere qualcosa su cui lavorare?
Julij lodò Allan per la sua grande fantasia, che rendeva molto più semplice redigere i
rapporti. Così, rimaneva più tempo per mangiare, bere e vedere gli amici.
Anche Richard M. Nixon aveva i suoi buoni motivi per essere soddisfatto. Finché la
soddisfazione non svanì.
Gli americani amavano il loro presidente e nel 1972 lo rielessero a furor di popolo: Nixon
vinse in quarantanove Stati, George Mc-Govern a fatica in uno.
Poi tutto si complicò. Sempre di più. Alla fine Nixon fece qualcosa che nessun presidente
americano aveva mai fatto.
Rassegnò le dimissioni.
Allan lesse del cosiddetto Scandalo Watergate su tutte le testate disponibili presso la
Biblioteca di Mosca. A quanto pareva Nixon aveva evaso le tasse, ricevuto donazioni illegali
per la campagna elettorale, dato ordine di effettuare bombardamenti segreti, perseguitato
nemici politici e commissionato furti con scasso e intercettazioni. Allan pensò che forse il
presidente si era fatto influenzare troppo dalla loro ultima conversazione davanti a un
doppio cognac. Poi, rivolto alla foto di Nixon sul giornale, disse: “Avresti dovuto vivere in
Indonesia, caro Nixon. Là sì che ne avresti fatta di strada.” Passarono gli anni. Nixon fu
sostituito da Gerald Ford che fu sostituito da Jimmy Carter, mentre Brežnev continuava a
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rimanere al suo posto. Proprio come Allan, Julij e Larissa.
I tre si vedevano regolarmente cinque, sei volte all’anno e si divertivano un sacco. I loro
incontri si concludevano sempre con un rapporto circa lo stato progressivo della strategia
sovietica in campo nucleare. Nel corso degli anni Allan e Julij avevano scelto di
minimizzare sempre più la reale portata delle armi atomiche sovietiche, essendosi accorti
che la cosa rallegrava gli americani (indipendentemente da chi fosse il presidente) e
l’atmosfera tra i capi dei due paesi diventava di conseguenza molto più distesa.
Finché durò.
Un giorno, dopo aver sottoscritto il Trattato SALT II, Brežnev decise che l’Afghanistan
aveva bisogno d’aiuto. Inviò così nel paese le sue truppe scelte, che riuscirono
immediatamente a far fuori il presidente in carica lasciando libero campo a Brežnev, che ne
avrebbe insediato uno suo.
Il presidente Carter ovviamente si arrabbiò (per usare un eufemismo) con Brežnev.
L’inchiostro usato per firmare il SALT II aveva appena fatto in tempo ad asciugare.
Carter diede allora ordine di boicottare le Olimpiadi di Mosca, oltre a potenziare il supporto
della CIA alla guerriglia afgana intrapresa dai mujaheddin.
Carter non riuscì a fare altro, dal momento che a lui subentrò Ronald Reagan, assai più
intransigente nei confronti dei comunisti in generale e del vecchio Brežnev in particolare.
“Questo Reagan sembra davvero scontroso,” disse Allan a Julij quando l’agente segreto e la
spia si incontrarono per la prima volta dopo l’insediamento del nuovo presidente.
“Sì,” commentò Julij. “E tra poco non potremo nemmeno più smontare l’arsenale atomico
sovietico, ormai non è rimasto quasi nulla.” “Propongo allora di prendere la direzione
opposta,” commentò Allan. “Servirà ad ammorbidire Reagan, vedrai.” Il rapporto che di lì a
poco pervenne agli Stati Uniti, attraverso il segretissimo Hutton a Parigi, parlava di una
sensazionale ripresa sovietica. La fantasia di Allan aveva assunto dimensioni cosmiche:
stando alle sue parole, le bombe sovietiche avrebbero potuto colpire le postazioni americane
dallo spazio, mentre gli Stati Uniti erano in grado di attaccare soltanto da terra.
In questo modo l’agente americano politicamente scettico e il responsabile tecnico
dell’intero arsenale di armi atomiche dell’Unione Sovietica politicamente inattendibile
posero le basi per il collasso dei russi. Ronald Reagan andò infatti completamente fuori dai
gangheri leggendo il rapporto segreto di Allan, e mise subito in atto la cosiddetta Strategic
Defense Initiative, nota anche come “Guerre Stellari”. La descrizione dell’iniziativa, che
prevedeva armi capaci di sparare raggi laser contro missili balistici, era quasi una copia di
quella che Allan e Julij, ridendo sotto i baffi, avevano stilato qualche mese prima in una
camera d’albergo a Mosca, sotto l’effetto, come ammisero loro stessi, di potenti libagioni di
vodka. Il budget americano per attuare tali misure difensive toccò cifre astronomiche.
L’Unione Sovetica cercò di contrattaccare, senza però disporre di adeguate risorse
economiche. Il paese aveva cominciato a scricchiolare alle sue estremità.
Che fosse per lo choc causato dalla notizia della nuova offensiva militare americana, o per
colpa di qualche altro fattore rimasto segreto, nessuno poté dirlo, sta di fatto che il 10
novembre 1982 Brežnev ebbe un infarto. La sera successiva Allan, Julij e Larissa decisero
di incontrarsi.
“Non è ora di finirla con queste sciocchezze?” domandò Larissa.
“Sì, adesso basta,” concordò Julij.
Allan annuì: ogni cosa doveva avere una fine, in particolare le sciocchezze. Forse era un
segno del cielo che li esortava a ritirarsi prima che Brežnev cominciasse a puzzare troppo.
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Allan aggiunse che pensava di chiamare il segretissimo Hutton già il mattino dopo.
Tredici anni e mezzo al servizio della CIA potevano bastare, soprattutto se trascorsi perlopiù
a produrre falsi indizi. Su quest’ultima questione furono tutti e tre d’accordo: meglio che la
cosa rimanesse nascosta anche al segretissimo Hutton e al suo irascibile presidente.
Adesso la CIA doveva fare in modo di mandare Julij e Larissa a New York, come promesso,
mentre Allan meditava di tornare nella sua vecchia Svezia per vedere qual era la situazione.
La CIA e il segretissimo Hutton mantennero le promesse. Julij e Larissa approdarono negli
Stati Uniti, via Cecoslovacchia e Austria. Venne assegnato loro un appartamento nella West
64th Street a Man-hat-tan, più un appannaggio annuale che superava abbondantemente i
loro bisogni. Alla CIA tutto questo non costò un granché, dato che nel gennaio 1984 Julij
morì nel sonno e tre mesi più tardi fu la volta di Larissa, di crepacuore. Entrambi erano
ormai ultrasettantenni e il loro anno più felice era stato il 1983, quando il Met-ro-pol-i-tan
aveva festeggiato il centenario. Un’esperienza indimenticabile.
Allan, dal canto suo, fece le valigie, lasciò il suo appartamento a Mosca e comunicò alla
cancelleria dell’ambasciata americana che si ritirava per sempre. Fu in quel momento che la
cancelleria scoprì che, per motivi oscuri, nei tredici anni e cinque mesi di servizio ad Allan
Carson erano stati versati soltanto gli indennizzi.
“Non si è mai accorto che non riceveva lo stipendio?” gli chiese il funzionario della
cancelleria.
“No,” rispose Allan. “Per il cibo non ho grandi pretese e la vodka qui costa poco. I soldi che
percepivo mi sembravano sufficienti.” “Per tredici anni?” “Sì, pensi come passa il tempo…”
Il funzionario guardò Allan un po’ stranito, dopodiché promise al signor Carson, o come
diavolo si chiamava davvero, che gli avrebbe fatto pervenire al più presto il suo denaro
tramite assegno, informando della faccenda l’ambasciata americana a Stoccolma.
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CAPITOLO 27
Venerdì 27 maggio-Giovedì 16 giugno 2005
Amanda Einstein viveva felicemente. Aveva ottantaquattro anni e abitava a Bali in una suite
dell’albergo di lusso di proprietà di Allan, il suo primogenito.
Allan Einstein aveva cinquantun anni ed era particolarmente sveglio e metodico, come del
resto suo fratello, più giovane di un anno. Allan era diventato economista (per davvero) e in
seguito direttore dell’albergo (la madre glielo aveva regalato per il suo quarantesimo
compleanno), mentre il fratello Mao era ingegnere. All’inizio la carriera di Mao era stata in
forse per via della sua eccessiva scrupolosità. Aveva cominciato a lavorare in una delle più
importanti compagnie petrolifere indonesiane con l’incarico di garantirne la qualità
produttiva. L’errore di Mao era stato di prendere sul serio la propria funzione. Da un
momento all’altro i dirigenti si erano trovati a non poter più pretendere bustarelle in
occasione degli interventi di riparazione, perché d’un tratto non c’erano più state riparazioni
da effettuare. L’efficienza e i guadagni della compagnia erano aumentati del trentacinque
per cento e Mao Einstein era divenuto assai impopolare tra i suoi colleghi. Quando i vari
episodi di mobbing si erano tradotti in vere e proprie minacce, Mao Einstein aveva
realizzato di non poterne più e si era trasferito negli Emirati Arabi, dove ancora una volta
aveva portato l’efficienza degli impianti a un miglioramento immediato, mentre gli
indonesiani erano tornati ai loro vecchi standard per la felicità di tutti.
Amanda era orgogliosissima dei propri figli, benché non riuscisse a capire come avessero
fatto a nascere così intelligenti. Una volta Herbert aveva cercato di spiegarle che nella loro
stirpe c’erano dei buoni geni, ma Amanda non aveva afferrato il concetto.
Amanda fece salti di gioia quando Allan chiamò per annunciare l’arrivo suo e di alcuni
amici, e si dichiarò entusiasta di poterli ricevere a Bali di lì a poco. Ne avrebbe parlato
subito ad Allan junior, che avrebbe potuto cacciare qualche cliente nel caso l’albergo fosse
stato al completo. Poi avrebbe telefonato a Mao, ad Abu Dhabi, chiedendogli di tornare
immediatamente a casa. Sì, certo che servivano drink all’albergo, con o senza ombrellino. E,
no, Amanda non si sarebbe occupata del servizio.
Allan le disse che sarebbero arrivati nel giro di qualche giorno, e a mo’ di complimento
concluse affermando che non avrebbe mai creduto che un essere umano col suo cervello
potesse fare tanta strada. Ad Amanda scesero lacrime di commozione.
“Sbrigati ad arrivare, Allan caro. Forza!” Il GIP Ranelid introdusse la conferenza stampa del
pomeriggio con una triste rivelazione sul cane poliziotto Kicki. L’animale aveva segnalato
la presenza di un cadavere sul carrello ferroviario alla fonderia di Åkers Styckebruk,
inducendo il GIP a trarre una serie di conclusioni che stando alla pista canina erano corrette,
ma purtroppo avevano finito col dimostrarsi terribilmente sbagliate.
Di recente era invece emerso che il quadrupede era uscito di senno poco prima delle
indagini, pertanto non poteva considerarsi affidabile. In breve, non c’era mai stato un
cadavere nel luogo incriminato.
Il GIP era appena venuto a sapere che il cane era stato soppresso, e a suo avviso
l’addestratore dell’animale aveva preso una saggia decisione (in realtà l’addestratore aveva
spedito Kicki sotto falso nome dal fratello a Härjedalen, cosa che il GIP non avrebbe mai
scoperto).
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Ranelid continuò dicendo che purtroppo la polizia di Eskilstuna non lo aveva informato
della svolta religiosa, assolutamente nobile, presa dalla Never Again. Se ne fosse stato a
conoscenza, avrebbe certamente impartito disposizioni diverse per la conduzione delle
indagini. Le conclusioni a cui era giunto fino a quel momento erano dunque dipese in parte
da un cane fuori di testa, e in parte dalle mancate informazioni ricevute. Il GIP coglieva
l’occasione per porgere le sue scuse anche a nome della polizia.
Per quanto concerneva invece il cadavere di Henrik Secchio Hultén rinvenuto a Riga,
sarebbe stata istituita una nuova commissione d’inchiesta. Mentre il caso riguardante la
morte di Bengt Bullone Bylund era chiuso. Esistevano forti indizi in base ai quali Bylund
aveva aderito alla Legione straniera. Dal momento che con ogni probabilità lo aveva fatto
sotto falso nominativo, era impossibile proseguire nelle indagini. L’ipotesi più credibile era
che Bylund fosse rimasto vittima dell’attentato terroristico avvenuto al centro di Gibuti
alcuni giorni prima.
Il GIP descrisse nei particolari le relazioni esistenti tra i diversi protagonisti della vicenda,
mostrando l’esemplare della Bibbia ricevuto in dono quello stesso giorno da Bosse
Ljungberg. Quando ebbe finito la sua esposizione dei fatti, i giornalisti chiesero dove
potevano trovare Allan Karlsson e il suo seguito per appurare la loro versione.
Purtroppo il GIP Ranelid non era autorizzato a rivelarlo (non aveva alcun interesse che quel
vecchio affetto da chissà quale forma di pazzia senile si mettesse a blaterare con la stampa
di Churchill e Dio solo sa cosa). I giornalisti si concentrarono allora su Secchio Hultén. Si
supponeva che fosse stato assassinato, ma visto che i presunti colpevoli non erano più
sospettati del crimine, allora chi lo aveva ucciso?
Ranelid, che sperava di aver liquidato la faccenda, si affrettò a sottolineare che le indagini
sarebbero riprese subito dopo la conferenza stampa, quindi chiedeva loro di aspettare.
Con stupore si accorse che i giornalisti si erano accontentati di quanto aveva detto loro.
E con sollievo poté considerare salva la sua carriera.
Amanda Einstein aveva chiesto ad Allan e ai suoi amici di arrivare a Bali il più in fretta
possibile, in perfetta sintonia con i loro desideri: da un istante all’altro, infatti, qualche abile
giornalista sarebbe potuto capitare a Klockaregård, e la cosa migliore era che il podere in
quel momento fosse già stato abbandonato. Allan aveva fatto la sua parte contattando
Amanda, il resto toccava a Bella.
Non lontano da Klockaregård si trovava il campo d’aviazione militare di Såtenäs, dove
attualmente sostava un Hercules che sarebbe stato agevolmente in grado di ospitare un
elefante, se non addirittura due. Più di una volta il velivolo era passato sopra il podere
spaventando a morte il pachiderma, e a Bella era venuta in mente un’idea.
Aveva contattato uno degli ufficiali di stanza a Såtenäs, ma questi si era dimostrato
estremamente ostile. Aveva ribadito di dover visionare tutti i certificati e i documenti
possibili e immaginabili prima di prendere anche solo in considerazione l’ipotesi di ospitare
su un volo intercontinentale un gruppo di persone e un animale. Oltretutto l’esercito non
poteva fare concorrenza al libero mercato; era perciò indispensabile il permesso del
ministero dell’Agricoltura. Inoltre erano previsti almeno quattro scali, e in ogni aeroporto
andavano effettuate delle visite veterinarie allo scopo di assicurare il corretto stato di salute
dell’animale. E dato che si trattava di un elefante, si parlava di almeno dodici ore di fermo
per scalo.
“Cazzo, la burocrazia svedese,” aveva commentato Bella prima di chiamare la Lufthansa a
Monaco.
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Lì erano stati, anche se inutilmente, più disponibili. Certo che potevano trasportare un
elefante e un gruppo di persone, tuttavia l’imbarco doveva avvenire all’aeroporto di
Landvetter, dalle parti di Göteborg, e certo che li avrebbero condotti in Indonesia.
Serviva però il certificato di proprietà dell’elefante, oltre alla presenza di un veterinario
autorizzato a bordo. Occorrevano anche i visti validi per l’ingresso nella repubblica
indonesiana, sia per i passeggeri sia per l’animale. Detto questo, nel giro di tre mesi
l’amministrazione della compagnia aerea avrebbe potuto pianificare il viaggio.
“Cazzo, la burocrazia tedesca,” aveva commentato Bella prima di chiamare direttamente in
Indonesia.
Ci volle un po’, dato che in Indonesia esistevano quindici compagnie aeree e non tutte
disponevano di personale che parlasse inglese. Bella non aveva però alcuna intenzione di
mollare e alla fine ebbe la meglio. A Palembang, Sumatra, scovò una compagnia aerea che
in cambio di una certa cifra, peraltro modesta, sarebbe volata volentieri in Svezia. Allo
scopo, possedevano un Boeing 747 appena acquistato dall’aeronautica dell’Azerbaigian (per
fortuna la conversazione avvenne prima che tutte le compagnie aeree indonesiane finissero
sulla lista nera dell’Unione Europea e fosse loro proibito atterrare in Europa). La compagnia
promise di sbrigare tutte le pratiche legate alla burocrazia svedese, mentre lasciava al cliente
l’incombenza di ottenere il permesso di atterraggio a Bali. Veterinario? Perché?
Rimaneva da stabilire come sarebbe avvenuto il pagamento. La cifra richiesta crebbe subito
del venti per cento rispetto a quella iniziale, ma Bella, ricorrendo al suo ricco repertorio di
espressioni persuasive, riuscì a convincere la compagnia ad accettare che il saldo avvenisse
in contanti e in corone svedesi all’arrivo dell’aereo in Svezia.
Mentre il Boeing indonesiano era in volo per la Svezia, gli amici si riunirono di nuovo. A
Benny e Julius fu affidato l’incarico di falsificare qualche documento da sventolare sotto il
naso del presumibilmente zelante personale di Landvetter. Allan promise di occuparsi del
permesso di atterraggio a Bali.
All’aeroporto sorse qualche difficoltà, ma Benny, che aveva con sé il suo falso diploma di
veterinario, ebbe la brillante idea di uscirsene con qualche espressione in gergo.
Questo, insieme al certificato di proprietà, nonché a quello medico dell’elefante e a una pila
di documenti redatti da Allan in lingua indonesiana, fece sì che tutti potessero salire a bordo
come previsto. Dal momento poi che ciascuno di loro mentì, affermando che la destinazione
finale era Copenhagen, nessuno chiese loro il passaporto.
Sul velivolo erano presenti il vecchio Allan Karlsson, il ladro professionista recentemente
dichiarato innocente Julius Jonsson, l’eterno studente Benny Ljungberg e la sua fidanzata, la
bella Gunilla Björklund, i suoi animali domestici, l’elefante Sonya e il pastore tedesco
Buster, il fratello di Benny Ljungberg, grossista di alimentari appena convertito alla
religione, Bosse, il “fino a qualche giorno prima” commissario di polizia Aronsson di
Eskilstuna, e l’ex Capo Per-Gunnar Gerdin insieme a sua madre, l’ottantenne Rose-Marie,
colei che aveva scritto la famosa e infelice lettera per indurre il figlio, che ai tempi
soggiornava nel penitenziario di Hall, a partecipare a un programma di riabilitazione.
Il viaggio richiese dodici ore senza quel mucchio di fermate inutili; il gruppetto non era
perciò troppo stanco quando il capitano del velivolo annunciò che stavano per entrare nello
spazio aereo di Bali ed era ora che Allan Karlsson tirasse fuori il permesso di atterraggio.
Allan dichiarò che il capitano doveva semplicemente rispondere alla torre di controllo di
Bali quando fosse giunto il momento, dopodiché si sarebbe occupato lui del resto.
“È giunto il momento,” replicò il capitano inquieto. “Cosa devo dire? Ci possono abbattere
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da un momento all’altro!” “Ma no,” commentò Allan prima di infilarsi le cuffie del capitano
e assumere il controllo del microfono. “Pronto? Aeroporto di Bali?” chiamò in inglese. In
risposta, gli comunicarono che se il velivolo non si fosse identificato immediatamente
avrebbe avuto a che fare con la contraerea indonesiana.
“Il mio nome è Dollari,” disse Allan. “Centomila Dollari.” Dalla torre di controllo non si
sentì più volare una mosca. Il capitano del velivolo e il copilota guardarono Allan con
ammirazione.
“Ecco. Ora il controllore di volo sta valutando quanto spetta a ciascuno,” spiegò Allan.
“Lo so,” ribatté il capitano.
Ci volle ancora qualche secondo prima che il controllore tornasse a farsi sentire: “Pronto? È
ancora in linea, Mr Dollari?” “Sì.” “Mi scusi, ma qual è il suo nome di battesimo, Mr
Dollari?” “Centomila. Sono Mr Centomila Dollari e vorrei avere il permesso di atterrare al
vostro aeroporto.” “Mi scusi, Mr Dollari, la linea è disturbata. Vuole essere così gentile da
ripetere il suo nome di battesimo?” Allan spiegò al capitano che il controllore di volo
intendeva negoziare.
“Lo so,” disse il capitano.
“Il mio nome è Duecentomila. Abbiamo il permesso di atterrare?” “Un momento, Mr
Dollari,” rispose il controllore, in attesa di un cenno d’assenso da parte dei colleghi prima di
dichiarare: “Benvenuto a Bali, Mr Dollari. Sarà un piacere averla con noi.” Allan ringraziò il
controllore prima di restituire le cuffie e il microfono al capitano.
“Lei è di casa qui,” commentò quest’ultimo ridendo.
“L’Indonesia è un paese dalle infinite opportunità,” concluse Allan.
Quando le autorità dell’aeroporto internazionale di Bali si accorsero che la maggior parte
dei compagni di viaggio di Mr Dollari erano privi di passaporto e uno di loro pesava quasi
cinque tonnellate ed era un quadrupede invece che un bipede, allora sorse qualche problema.
Sbrigare le pratiche per la dogana e ottenere i permessi di soggiorno e un trasporto
appropriato per Sonya costò altri cinquantamila dollari.
Comunque, a poco più di un’ora dall’atterraggio il gruppetto si trovava nell’albergo della
famiglia Einstein. Inclusa Sonya, che fu trasportata insieme a Benny e Bella in uno dei
furgoni usati per il catering (i passeggeri del volo pomeridiano diretto a Singapore rimasero
purtroppo senza cibo).
Vennero meravigliosamente accolti da Amanda, Allan e Mao Einstein, e in seguito ai saluti
furono accompagnati nelle loro camere. Nel frattempo Sonya e Buster poterono sgranchirsi
le zampe nell’enorme giardino dell’albergo. Amanda si era già scusata per il fatto che a Bali
non ci fossero molti elefanti per tenere compagnia a Sonya, ma aggiunse subito che avrebbe
fatto di tutto affinché da Sumatra venisse consegnato nel più breve tempo possibile un
potenziale amichetto. Per quanto riguardava Buster, invece, le amichette se le sarebbe
trovate da solo: sull’isola ce n’erano parecchie e molto carine.
Poi Amanda annunciò che la sera stessa si sarebbe tenuta una bellissima festa balinese in
loro onore; raccomandava quindi a tutti di schiacciare un pisolino.
Naturalmente gli amici seguirono il suo consiglio. Tutti tranne tre. Gambero e sua madre
non ce la facevano più ad aspettare il famoso drink con tanto di ombrellino e lo stesso
valeva per Allan, ma senza ombrellino.
Si accomodarono sulle sdraio in riva al mare, in attesa che venisse servito loro quello che
avevano appena ordinato al bar.
La cameriera, di ottantaquattro anni, aveva rimpiazzato il barista.
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“Ecco un drink rosso con l’ombrellino, signor Gerdin. E uno verde con l’ombrellino per lei,
signora mamma Gerdin. E… un attimo… non avevi ordinato del latte, Allan?” “Mi avevi
promesso che non avresti più servito o ricordo male, Amanda cara?” “Ho mentito, Allan
caro. Ho mentito.” Il buio era calato su quel paradiso e sugli amici riuniti davanti alla cena
di ben tre portate offerta da Amanda, Allan e Mao Einstein. Come antipasto fu servito sate
lilit, come piatto principale bebek betutu e come dessert jaja batun bedil. Il tutto innaffiato
da tuak wayah, birra di palma, tranne che per Benny, che come al solito bevve acqua.
La prima sera sul suolo indonesiano fu tanto lunga quanto divertente. Il cibo non finiva mai
e la cena si concluse con Pisang Ambon per tutti tranne che per Allan, a cui fu servito un
grog, e per Benny, che stavolta bevve una tazza di tè.
Bosse sentiva che quella giornata di abbondanza e di lusso andava leggermente riequilibrata,
quindi si alzò citando Gesù secondo il Vangelo di Matteo (“Beati i poveri di spirito”). Bosse
riteneva che chiunque sarebbe diventato migliore ascoltando Dio e imparando da lui. Poi,
dopo aver giunto le mani, ringraziò il Signore per quella giornata tanto insolita quanto
meravigliosa.
“Andrà tutto bene,” commentò Allan rompendo il silenzio seguito alle parole di Bosse.
Bosse aveva ringraziato il Signore e il Signore gliene rese merito, dal momento che la
felicità sembrava non avere limiti per quell’eterogeneo gruppetto di svedesi riuniti in un
albergo a Bali. Benny chiese la mano di Bella (“Mi vuoi sposare?” “Sì, porca troia!
Subito!”). Le nozze si tennero la sera dopo e durarono tre giorni. Rose-Marie Gerdin,
ottant’anni, insegnò ai soci del club locale dei pensionati come si giocava a caccia al tesoro
(facendo in modo di vincere tutte le volte). Gambero trascorreva le giornate in spiaggia
sdraiato sotto l’ombrellone, bevendo drink dai colori dell’arcobaleno muniti di ombrellino.
Bosse e Julius si comprarono una barca da pesca che lasciavano raramente, mentre il
commissario Aronsson divenne un membro assai popolare dell’upper class balinese: era
bianco, bule, e per giunta commissario di polizia, e come se non bastasse veniva dal paese
meno corrotto al mondo. Non poteva esserci niente di più esotico.
Ogni giorno Allan e Amanda passeggiavano lungo la bianchissima spiaggia davanti
all’albergo. Avevano sempre diverse cose di cui parlare e stavano benissimo in compagnia
l’uno dell’altra. Tuttavia la situazione si evolveva molto lentamente, avendo lei
ottantaquattro anni ed essendo lui vicino ai centouno.
Dopo un certo periodo cominciarono a prendersi per mano, per tenersi in equilibrio. Poi
presero a cenare soltanto loro due sulla terrazza di Amanda – in presenza di tutti gli altri
c’era troppa confusione. Alla fine Allan si trasferì definitivamente a casa di lei. Fu dunque
possibile affittare la sua stanza a qualche turista, fatto positivo per il bilancio dell’albergo.
Durante una delle loro passeggiate Amanda gli chiese se non fosse il caso di seguire
l’esempio di Benny e Bella, cioè sposarsi, dato che la vita continuava per entrambi.
Allan rispose che in confronto a lui Amanda era ancora una ragazzina, ma era disposto a
sorvolare sulla cosa. Inoltre i drink se li preparava da solo, quindi neanche da quel punto di
vista aveva remore di alcun tipo. In breve, non vedeva nessun ostacolo alla realizzazione del
progetto.
“Allora confermi?” domandò lei.
“Sì, confermo,” rispose lui.
Si tennero per mano con maggiore forza del solito. Per non perdere l’equilibrio.
Le indagini relative alla morte di Henrik Secchio Hultén furono interrotte presto e non
portarono ad alcun risultato. La polizia effettuò delle ricerche sul suo passato e interrogò gli
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amici dello Småland (non lontano da Sjötorp, antica dimora di Gunilla Björklund), ma
nessuno aveva sentito né visto niente.
I colleghi di Riga trovarono l’ubriaco che aveva abbandonato la Mustang nel cantiere di
rottamazione, ma non fu possibile cavargli di bocca niente che avesse un senso finché a uno
di loro non venne in mente di offrirgli una bottiglia di vino rosso. Ed ecco che l’uomo si
mise a raccontare – disse che non aveva idea di chi gli avesse chiesto di eseguire quel
lavoro. Qualcuno che un giorno era spuntato davanti alla sua panchina al parco con
un’intera cassa di vino.
“Probabilmente non ero molto sobrio,” disse l’alcolizzato. “Ma tanto ubriaco da rifiutare
tutte quelle bottiglie di vino, questo assolutamente no.” Ci fu solo un giornalista che, dopo
qualche giorno, si prese la briga di chiedere come stessero procedendo le indagini, ma non
fu il GIP Ranelid a rispondergli: era in ferie e si era imbarcato in fretta e furia su un charter
last minute per Las Palmas. A dire il vero avrebbe preferito allontanarsi ancora di più. Aveva
sentito dire che Bali era molto bella, ma non aveva trovato posto su nessun volo.
Tuttavia le Canarie erano più che sufficienti. Ora se ne stava spaparanzato su una sdraio,
sotto l’ombrellone, con in mano un drink dotato di ombrellino, domandandosi che fine
avesse fatto Aronsson. A quanto pareva si era licenziato, aveva ritirato tutti i suoi risparmi
ed era scomparso.
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CAPITOLO 28
1982-2005
I soldi dell’ambasciata americana caddero come il cacio sui maccheroni. Allan trovò una
fattoria a pochi chilometri da dove era nato e cresciuto, e la comprò pagandola in contanti.
Per la prima volta si trovò ad avere a che fare con le autorità svedesi, che tanto per
cominciare misero in dubbio la sua stessa esistenza. Finché non cedettero all’inconfutabilità
dei fatti, prendendo addirittura a passargli la pensione.
“Perché?” chiese Allan stupito.
“Perché lei è un pensionato,” gli spiegarono le autorità.
“Ah sì?” In effetti lo era, e anche con un discreto margine. La primavera successiva avrebbe
compiuto settantotto anni, particolare che gli fece capire che, contro tutte le previsioni e
senza averci mai pensato prima, era inaspettatamente invecchiato. E lo attendevano ancora
molti, molti, molti anni di vita… Gli anni passarono in tutta tranquillità, senza che Allan
potesse in alcun modo influenzare il corso degli eventi. Neppure a Flen, dove si recava a
fare la spesa (dal nipote del grossista Gustavsson, che gestiva il supermercato Ica e per
fortuna non aveva la più pallida idea di chi fosse Allan). La biblioteca di Flen invece non
ricevette più sue visite, poiché Allan aveva pensato di abbonarsi ai giornali che gli
interessavano di più, puntualmente recapitati nella sua cassetta delle lettere. Che comodità!
Quando il solitario abitante della fattoria nei dintorni di Yxhult compì ottantatré anni, gli
parve che tutto quel pedalare avanti e indietro da Flen cominciasse a pesargli, così si comprò
una macchina. Per un attimo valutò la possibilità di conciliare l’acquisto con la decisione di
prendere la patente. E finché l’istruttore di guida si era limitato a parlare di visita oculistica
e modulo di richiesta per la patente, Allan era ancora deciso a prenderla, ma quando lo
stesso istruttore aveva continuato con testi da leggere, lezioni di teoria, lezioni di guida e
doppio esame finale, Allan aveva abbandonato l’idea.
Nel 1989 l’Unione Sovietica cominciò seriamente a perdere pezzi, cosa che non stupì più di
tanto il vecchio di Yxhult intento a distillare illegalmente acquavite in casa. Il nuovo tizio al
timone, Gorbačëv, aveva esordito con una campagna contro lo smodato consumo di vodka
della nazione. Non era così che si conquistava il favore delle masse, questo lo poteva
constatare chiunque.
Quello stesso anno, e precisamente il giorno del suo compleanno, Allan trovò sui gradini
d’ingresso della fattoria un micetto che evidentemente aveva parecchia fame.
Dopo averlo fatto entrare, gli offrì subito latte e salsiccia. Per il gatto fu un gesto tanto
nobile che decise di trasferirsi definitivamente da lui.
Si trattava di un maschio tigrato che fu battezzato Molotov, non in onore del ministro degli
Esteri ma della bomba. Molotov non parlava molto, ma era un grandissimo ascoltatore. Se
Allan aveva qualcosa da raccontare gli bastava chiamarlo e subito lui arrivava saltellando (a
meno che non fosse occupato a cacciare topi: Molotov sapeva dare alle cose la giusta
priorità). Gli saltava sulle ginocchia, e dopo essersi sistemato per bene muoveva le orecchie
come per dire che adesso il padrone poteva cominciare a parlare. Se poi Allan lo grattava
allo stesso tempo dietro la testa e sul collo, non c’erano limiti alla durata della
conversazione.
Quando in seguito si procurò delle galline, Allan riuscì persino a spiegare a Molotov che
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non doveva entrare nel pollaio: il gatto annuì comprensivo. Che poi se ne fregasse di quello
che gli aveva detto Allan e corresse dietro alle galline fino allo sfinimento era un’altra
storia. Cosa ci si poteva attendere? Era soltanto un gatto.
Secondo Allan non c’era nessuno più astuto di Molotov, neanche la volpe che girava
furtivamente intorno al pollaio alla ricerca di qualche buco nella rete. La volpe aveva
puntato anche il gatto, ma Molotov era troppo veloce.
Altri anni si aggiunsero a quelli che Allan aveva già. Ogni mese gli arrivavano dallo Stato i
soldi della pensione e lui non ne sprecava nemmeno un centesimo. Comprava formaggio,
salsiccia e patate e di tanto in tanto un sacchetto di zucchero. Inoltre pagava l’abbonamento
all’“Eskilstuna-Kuriren” e, quando arrivava, la bolletta della luce.
Ma una volta fatto questo, e forse anche qualcos’altro, ogni mese gli rimaneva comunque
del denaro in più, e a che pro? Un giorno decise di rimandare al mittente la somma in
eccesso chiusa in una busta. Poco tempo dopo ricevette la visita di un funzionario che gli
comunicò che doveva smetterla. Riprendendo i suoi soldi, Allan promise che non avrebbe
più creato problemi alle autorità.
Allan e Molotov vivevano benissimo insieme. Ogni giorno, condizioni atmosferiche
permettendo, facevano un giro in bicicletta lungo i sentieri sterrati dei dintorni. Allan
pedalava mentre Molotov, seduto nel cestino, si godeva il venticello e la velocità.
La coppia trascorse una vita felice e piacevole. Finché non apparve evidente che non
soltanto Allan, ma anche Molotov era invecchiato. All’improvviso la volpe riuscì a catturare
il gatto, e la cosa fu tanto sorprendente per i due animali quanto triste per Allan.
Era più addolorato di quanto non fosse mai stato in vita sua e la sofferenza si trasformò in
rabbia. Con le lacrime agli occhi, il vecchio esperto di esplosivi uscì sulla veranda e nella
notte invernale gridò: “Se è la guerra che vuoi, guerra avrai, volpe di merda!” Per la prima e
ultima volta in vita sua Allan si era arrabbiato. Non gli passò né bevendo acquavite, né
guidando senza patente, né facendo lunghe pedalate supplementari in bicicletta. Che la
vendetta non funzionasse come forza motrice nella vita, Allan già lo sapeva. Eppure proprio
una vendetta si era messa sul suo cammino.
Allan piazzò una carica esplosiva accanto al pollaio pensando di far saltare in aria la volpe
quando fosse tornata e, spinta dalla fame, avesse allungato il muso attraverso la rete che lo
delimitava. Ma, accecato dalla rabbia, dimenticò che il resto dell’esplosivo si trovava
proprio lì accanto.
Accadde così che, al crepuscolo del terzo giorno dalla scomparsa di Molotov, nei boschi del
Sörmland ebbe luogo una potentissima detonazione, come non succedeva dagli anni Venti.
La volpe fu catapultata in aria, proprio come le galline, il pollaio e la legnaia di Allan.
Purtroppo lo scoppio coinvolse anche la casa e il fienile. Allan era seduto in poltrona
quando ciò avvenne e d’un tratto si ritrovò scagliato in aria con tutta la poltrona. Atterrò su
un cumulo di neve davanti al magazzino delle patate. E lì rimase, seduto a guardarsi intorno
prima di esclamare: “Fine della volpe.” Aveva novantanove anni e si sentiva abbastanza
malmesso da rimanere dov’era. Non passò molto prima che sopraggiungessero ambulanza,
polizia e pompieri, dal momento che le fiamme non accennavano a estinguersi. Constatato
che il vecchio in poltrona piantato nel cumulo di neve accanto al suo magazzino di patate
era illeso, intervennero i servizi sociali.
In meno di un’ora il responsabile Henrik Söder era sul posto. Allan era sempre seduto nella
sua poltrona, ma gli infermieri lo avevano avvolto in più strati di coperte gialle, cosa di per
sé inutile dato che l’incendio che proveniva dalla casa, benché si stesse spegnendo,
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continuava a emanare calore.
“A quanto pare, signor Karlsson, lei ha fatto saltare la sua casa?” gli domandò il
responsabile dei servizi sociali Söder.
“Sì,” confermò Allan. “È una mia brutta abitudine.” “Immagino che adesso lei non abbia più
nessun posto dove andare,” continuò Söder.
“Il che implica parecchie cose,” commentò Allan. “Ha qualche proposta?” Lì su due piedi il
responsabile dei servizi sociali Söder non ne aveva neanche una, pertanto Allan fu
alloggiato a spese del comune all’albergo di Flen, dove la sera dopo festeggiò allegramente
Capodanno insieme a Söder e signora.
Allan non stava così bene da quando, dopo la guerra, aveva abitato per un po’ al lussuoso
Grand Hôtel di Stoccolma. A proposito, forse era giunto il momento di pagarlo quel conto,
visto che andando via tanto in fretta non l’aveva fatto.
Ma già nei primi giorni del 2005, il responsabile dei servizi sociali Söder trovò una possibile
sistemazione per quel simpatico vecchietto che una settimana prima era rimasto
all’improvviso senza dimora.
Fu così che Allan finì nella casa di riposo di Malmköping, dove si era liberata la camera
numero 1. Venne accolto dall’infermiera Alice, che sorrise in modo apparentemente gentile
ma gli smorzò immediatamente la voglia di vivere leggendogli le regole dell’istituto.
L’infermiera Alice lo mise al corrente del divieto di fumo, del divieto di bere alcolici e del
divieto di vedere la televisione dopo le undici di sera. Gli comunicò quindi che la colazione
era servita alle 06,45 nei giorni feriali e un’ora dopo nel fine settimana.
Il pranzo era alle 11,15, la merenda alle 15,15 e la cena alle 18,15. Chi non rispettava gli
orari e si presentava tardi rischiava di rimanere senza cibo.
L’infermiera Alice passò in rassegna anche le regole riguardanti l’uso della doccia e la
pulizia dei denti, le visite esterne e quelle tra gli ospiti della struttura, l’orario in cui
venivano distribuite le medicine e il lasso di tempo in cui era permesso infastidire
l’infermiera Alice o qualcuno dei suoi colleghi a meno che non si trattasse di una situazione
d’emergenza, fatto molto raro visto che, aggiunse, gli ospiti non facevano che piagnucolare
e lamentarsi tutto il giorno.
“È possibile cacare quanto si vuole?” domandò Allan.
Fu così che, dopo neanche un quarto d’ora da quando si erano conosciuti, Allan e
l’infermiera Alice erano già ai ferri corti.
Allan non era soddisfatto di come era andata la caccia alla volpe (anche se l’aveva vinta).
Uscire dai gangheri non era nella sua natura. Aveva usato un linguaggio che probabilmente
la direttrice della casa di riposo si meritava, ma che tuttavia non gli apparteneva. Se poi si
aggiungeva l’elenco delle regole a cui avrebbe dovuto attenersi… Sentiva la mancanza del
suo gatto. Aveva novantanove anni e otto mesi. Gli sembrava di aver perso il controllo dei
suoi nervi e si sentiva offeso dal comportamento dell’infermiera Alice.
Adesso basta.
Allan era arrivato al capolinea, e se la vita sembrava aver chiuso con lui, lui non era certo
tipo da insistere e fare pressioni.
Avrebbe preso ufficialmente possesso della camera numero 1, avrebbe cenato alle 18,15 e
poi, dopo una bella doccia, si sarebbe infilato in lenzuola e pigiama nuovi, sarebbe morto
nel sonno, dopodiché l’avrebbero messo in una cassa, sepolto e dimenticato.
Allan avvertì una contentezza quasi ellettrizzante diffondersi in tutto il corpo quando alle
otto di sera si sdraiò sul letto della casa di riposo per la prima e ultima volta. Tra meno di
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quattro mesi la sua età sarebbe diventata a tre cifre. Allan Emmanuel Karlsson chiuse gli
occhi con la certezza che quella sarebbe stata l’ultima volta. La sua esistenza era stata
eccitante ma niente durava in eterno, a parte l’idiozia umana.
Smise di pensare. Fu assalito dalla stanchezza. Tutto si fece buio.
Finché non ritornò la luce. Uno splendore bianco. Pensò che la morte fosse molto simile al
sonno. Si riusciva a pensare anche un attimo prima della fine? A pensare di essere in grado
di pensare? Ma un momento: per quanto tempo si riusciva a pensare prima di smettere di
farlo?
“Sono le 06,45, Allan, è ora di colazione. Se non mangi portiamo via il porridge e non c’è
nient’altro fino a pranzo,” disse l’infermiera Alice.
Allan realizzò di essere diventato più ingenuo col passare degli anni: non si poteva mica
morire su ordinazione. Il rischio era che anche il giorno dopo avrebbe potuto essere
svegliato da quella orribile Alice con un porridge quasi altrettanto orribile.
Va be’. Mancavano ancora parecchi mesi ai cent’anni, e avrebbe fatto in modo di tirare le
cuoia prima di allora. “L’alcol uccide!” aveva detto l’infermiera Alice per motivare il divieto
di tenerne in camera una bottiglia. Prometteva bene, pensò Allan. E se fosse riuscito a
sgattaiolare fuori per andare al Monopolio di Stato e fare un po’ di scorta?
Passarono i giorni e divennero settimane. L’inverno si trasformò in primavera e Allan
desiderava la morte come l’amico Herbert cinquant’anni prima. Lui però era riuscito a
realizzare il suo desiderio soltanto dopo che nel frattempo aveva cambiato idea. La cosa non
prometteva niente di buono.
Intanto il personale della casa di riposo aveva cominciato a occuparsi dei preparativi per il
suo compleanno. Come un animale in gabbia, Allan avrebbe dovuto sopportare di essere
guardato, vezzeggiato e ingozzato di torta. Tutte cose che non aveva chiesto.
Gli rimaneva soltanto una notte per morire.
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CAPITOLO 29
Lunedì 2 maggio 2005
Di certo Allan Karlsson avrebbe dovuto pensarci prima e, magari, comunicare agli
interessati la sua decisione. In effetti non aveva mai riflettuto troppo sulle cose. Ecco perché
quell’idea non ebbe neanche il tempo di fissarsi nella sua testa che già aveva aperto la
finestra della stanza al pianterreno della casa di riposo di Malmköping, nel Sörmland, per
poi sgusciare fuori e atterrare nell’aiuola sottostante.
La manovra richiedeva un certo fegato, dal momento che Allan compiva cent’anni proprio
quel giorno. Solo un’ora dopo, nella sala comune della casa di riposo avrebbero avuto inizio
i festeggiamenti. Sarebbe stato presente persino il segretario comunale. E l’inviata del
giornale locale. E tutti gli ospiti dell’ospizio. E tutto il personale, capitanato dalla ringhiosa
e arcigna infermiera Alice.
Soltanto il festeggiato non aveva la benché minima intenzione di partecipare.
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EPILOGO
Allan e Amanda furono molto felici insieme. Sembravano fatti l’uno per l’altra. Lui era
allergico a tutto ciò che riguardava l’ideologia e la religione, mentre lei non sapeva neppure
cosa significasse la parola “ideologia”, oltre a non essere assolutamente in grado di
ricordarsi il nome della divinità che avrebbe dovuto pregare. Una sera, durante un momento
di intimità particolarmente intenso, venne fuori che nonostante tutto quel giorno d’agosto
del 1925 il professor Lundborg non doveva essere stato molto preciso con il bisturi, visto
che, con suo stupore, Allan era in grado di compiere un atto che finora aveva visto soltanto
nei film.
Per il suo ottantacinquesimo compleanno Amanda ricevette in dono dal marito un computer
portatile con tanto di connessione internet. Allan aveva sentito dire che quella cosa chiamata
internet divertiva i giovani.
Ci volle del tempo prima che Amanda imparasse a navigare in rete, ma era testarda e dopo
qualche settimana si era creata un blog in cui scriveva tutto il giorno di qualsiasi argomento
e di avvenimenti vecchi e nuovi. Tra le altre cose si mise a raccontare dei viaggi e delle
avventure che l’avevano portata dappertutto con suo marito. Il pubblico virtuale di Amanda
erano le amiche dell’alta società balinese, perché chi altro sarebbe mai venuto a conoscenza
dell’esistenza di quel blog?
Come sempre, Allan era seduto sulla terrazza a godersi la colazione quando comparve un
distinto signore vestito di tutto punto. L’uomo si presentò dicendo di essere un
rappresentante del governo indonesiano e di aver preso atto di una serie di notizie
sorprendenti. A nome del presidente desiderava servirsi delle particolari conoscenze del
signor Karlsson, se quanto era apparso in rete era vero.
“In che cosa desidera il mio aiuto, se posso chiedere?” domandò Allan. “Sono solo due le
cose che conosco meglio di chiunque altro. La prima è distillare acquavite dal latte di capra,
la seconda costruire una bomba atomica.” “È proprio questo che ci interessa.” “Il latte di
capra?” “No, non il latte di capra.” Allan invitò il rappresentante del governo indonesiano ad
accomodarsi. Poi gli spiegò che una volta, molti ma molti anni prima, aveva favorito il
progetto di realizzazione della bomba atomica da parte di Stalin, ma era stato un errore
perché quello Stalin non aveva tutte le rotelle a posto. Allan intendeva quindi accertarsi che
il cervello del presidente funzionasse a dovere. Il rappresentante del governo indonesiano
rispose che secondo lui il presidente Yudhoyono era una persona molto intelligente e
responsabile.
“È un piacere sentirlo,” commentò Allan. “Allora fornirò volentieri il mio aiuto.” E così
fece.
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