1. Che cos`è un ragionamento?
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1. Che cos`è un ragionamento?
IMPARIAMO A RICONOSCERE UN RAGIONAMENTO Di Logon Didonai 1. Che cos’è un ragionamento? Come abbiamo visto, non tutti gli usi del linguaggio sono ragionamenti. Un “ragionamento” (o inferenza) è un insieme strutturato di enunciati (come, per esempio: «Il tavolo è rosso», ma per una definizione rigorosa di “enunciato” vedi il Glossario) finalizzato alla giustificazione, tramite ragioni, di una tesi (ciò che noi sosteniamo). Esso è composto da: a. le premesse, ovvero gli enunciati da cui si sviluppa il ragionamento (le ragioni addotte); b. la conclusione, ovvero l’enunciato che conclude il ragionamento (la tesi da dimostrare). Un’inferenza è dunque un procedimento per cui si passa da premesse date a una certa conclusione (eventualmente attraverso enunciati intermedi, che sono ulteriori ragioni o conclusioni parziali). Ha come fine la giustificazione di una tesi (espressa nella conclusione). Se sono date le premesse, allora è data la conclusione. Se indichiamo con “p” la premessa e con “q” la conclusione possiamo esprimere la forma generale dell’inferenza con “se p, allora q” oppure “p implica q”. P Q Quando ragioniamo, lo facciamo in base a questo nocciolo dalla forza persuasiva intrinseca. Se si introduce una monetina da un euro nel distributore di caffè, e se si schiaccia il pulsante con scritto “caffè”, allora si ottiene un caffè. Io ho introdotto la moneta e ho selezionato la bevanda, dunque otterrò una tazzina di caffè (a meno che, come al solito, la macchinetta non sia guasta). Un ragionamento di questo tipo si capisce intuitivamente, e l’inferenza è implicita, quasi automatica. Talvolta non sono presenti nemmeno i due termini indicati, eppure, istintivamente, siamo in grado di concludere. Così un bambino accaldato potrebbe dire: “Mamma, ho sete”; “C’è dell’acqua fresca in frigorifero”, potrebbe essere la risposta della madre. Cosa sarebbe della nostra vita quotidiana se non sapessimo compiere un inferenza di questo tipo? Per valutare un’inferenza occorre però prendere in considerazione due aspetti: in primo luogo la “verità” delle premesse, se cioè le premesse siano vere, false o solo probabili; in secondo luogo la “correttezza” dell’inferenza, ovverosia il modo in cui gli enunciati sono connessi tra loro (che sarà valida o corretta qualora rispetti alcune regole formali, invalida o scorretta in caso contrario). Si danno perciò tre casi: • • • Se l’inferenza è valida e le premesse del ragionamento sono sicuramente vere, avremo una dimostrazione, nella quale la conclusione è necessariamente vera: «A implica B; ma si dà il caso che A; quindi B». Se le premesse sono dubbie, probabili o discutibili e l’inferenza valida, la conclusione sarà solo più o meno probabile. In tal caso avremo un’argomentazione: «Sul diritto di vendetta non si può fondare una convivenza civile, perciò dobbiamo accettare delle leggi uguali per tutti e delle autorità che le facciano rispettare punendo chi non le rispetta». Infine, se la conclusione non è né necessariamente vera né probabile, bensì semplicemente errata (per una violazione, volontaria o involontaria, delle regole condivise, siano esse dell’argomentazione o della dimostrazione e siano le premesse vere, probabili o false), avremo una fallacia: «Se sono a Milano, allora sono in Lombardia. Quindi se sono in Lombardia allora sono a Milano». Tradizionalmente il termine “fallacia” indica un ragionamento che sembra corretto ma non lo è. Noi lo interpreteremo in un’accezione più generale, intendendo con “fallacia” una mossa, all’interno dello scambio argomentativo, compiuta in violazione di norme condivise, tra cui, ma non esclusivamente, anche le regole del ragionamento, secondo il modello della pragma-dialettica (Eemeren e Grootendorst 2008 e vedi Glossario). 2. Premesse e conclusioni di un ragionamento A questo punto dobbiamo imparare a riconoscere le premesse e le conclusioni di un ragionamento, e attraverso di esse il fatto che abbiamo effettivamente di fronte a noi un ragionamento. Se non acquisiremo (attraverso l’esercizio) questa elementare capacità non potremo procedere oltre. Per riconoscere un ragionamento e raggiungere l’obiettivo di distinguere gli argomenti buoni da quelli cattivi, le conclusioni valide da quelle non valide (fallacie e sofismi), occorre saper identificare alcune particelle del discorso che indicano le premesse e le conclusioni. Non è infatti possibile basarsi sulla mera posizione delle frasi di un discorso, in quanto la conclusione non segue necessariamente le premesse dal punto di vista spaziale o temporale. Occupiamoci dunque innanzitutto degli indicatori di conclusione. Una lista parziale non può non includere i seguenti: pertanto, per queste ragioni, quindi, ergo, segue che, dunque, si può inferire, così, si conclude che, concordemente, mostra che, comporta che, di conseguenza, vuol dire che, conseguentemente, prova che, implica che, come risultato, ci consente di inferire che, per questo motivo, perciò, allora, porta alla conclusione che. Oltre agli indicatori di conclusione dobbiamo tenere in considerazione anche gli indicatori di premessa. La loro presenza, infatti, anche se non sempre, segnala che ciò che segue è la premessa di un argomento. Eccone una lista: poiché, come indicato da, in quanto che, in vista del fatto che, come mostrato da, può essere dedotto da, segue da, può essere derivato da, può essere inferito da, visto che, dato che, per la ragione che, la ragione è che, perché, infatti. Perciò se diciamo: «Ha mangiato, quindi probabilmente è sazio», “quindi” indica una conclusione (probabile). Consideriamo però il fatto che, se invece diciamo: «Ha mangiato. Quindi è partito», il “quindi” potrebbe ancora indicare una conclusione (una supposizione, come nel caso precedente), ma anche una semplice successione temporale: «e poi è partito». In questo caso i due enunciati svolgerebbero una funzione assertiva, non argomentativa. Occorrerà togliere l’ambiguità (che talvolta è ricercata). Per imparare a distinguere premesse e conclusioni dobbiamo prestare attenzione anche ad altri indicatori: quelli negativi, i quali segnalano che la conclusione (poiché una delle premesse è negativa) sarà da intendersi come negativa, per esempio: «Sarebbe stata una bella festa, se fosse venuto anche Antonio, tuttavia così non è stato». In tal caso la conclusione è, come si è detto negativa: la festa non è stata bella, proprio perché “Antonio” non è venuto alla festa. Tali indicatori sono: ma, però, tuttavia, d’altro lato, d’altro canto, eppure, invece ecc. Può bastare? Evidentemente no, spesso infatti, e questo è il primo problema, un volta individuato un argomento, le parole e le espressioni sopra elencate possono aiutare a identificare le premesse e la conclusione, ma non è detto che ogni passo che contiene un argomento debba contenere proprio questi termini. Quando tali indicatori non ci sono ci possiamo trovare in difficoltà, spesso, però, il significato e il contesto delle proposizioni agevolano l’identificazione dell’argomento. C’è inoltre una seconda difficoltà. Se analizziamo l’argomento seguente «Non dovresti essere così sedentario: non fare moto danneggia la salute», riconosciamo una premessa (la ragione, che non presenta alcun indicatore di premessa) e la conclusione, riconosciuta grazie al condizionale “non dovresti”. Solo che una ulteriore premessa è evidentemente sottintesa, probabilmente qualcosa come: «Non dobbiamo danneggiare la nostra salute». In quanto premessa sottintesa ha senza dubbio un effetto che non avrebbe avuto se fosse stata espressa (ci si sarebbe infatti potuti opporre a essa, fosse anche solo per “spirito di contraddizione”). In termini tecnici un ragionamento in cui una premessa non è formulata (o in ragione della sua natura incerta potrebbe non esserlo) si dice entimema. Esso (come sostiene Aristotele nella sua Retorica) è più persuasivo se una sua parte, cioè una premessa o al limite persino la conclusione, resta inespressa, specialmente se c’è qualche buona ragione per metterla in dubbio. Possiamo allora riformulare così il nostro ragionamento: visto che non dobbiamo danneggiare la nostra salute, e dato che non fare moto danneggia la nostra salute, allora dobbiamo fare moto, per evitare di danneggiare la nostra salute (lo devi fare anche tu, che sei sedentario). Indicatori di conclusione come si deve, si dovrebbe, non si deve (dovrebbe), è (sarebbe) meglio, è giusto, ingiusto (o il “non dovresti” che abbiamo trovato nell’esempio precedente), oltre a evidenziare il fatto che ci troviamo di fronte a una conclusione, ci dicono anche qualcosa di più, e cioè che siamo in presenza di una conclusione che pretende di avere un valore etico o morale. Ecco forse per quale motivo la conclusione è in tal caso spesso argomentata a partire da premesse implicite o sottintese: sia perché sono ovvie e condivise sia perché pretendono di essere tali (e quindi, al fine di evitare troppo facili obiezioni, non vengono esplicitate). Se la ragione addotta, esplicita o implicita che sia, non è necessariamente vera, neanche la conclusione sarà necessariamente vera, ecco perché si tende a usare formule imperative o condizionali, come negli esempi seguenti: «Non si devono torturare i prigionieri di guerra, nemmeno se sono terroristi», «Non andare: fuori abbiamo 20 gradi sotto lo zero e tu non sei abituato a queste temperature nordiche». Chi usa il condizionale o l’imperativo cerca di spingere (persuadere) qualcuno a fare (non fare) qualcosa adducendo ragioni o sfruttando una posizione di superiorità: il destinatario dovrebbe comportarsi di conseguenza. Ma ovviamente non è detto che lo faccia davvero... LA PALESTRA DELLA MENTE – RICONOSCERE I RAGIONAMENTI Analizza i seguenti argomenti, controllando se sono presenti gli indicatori di premessa e di conclusione. Disponili poi in modo tale che le premesse precedano la conclusione. Se la conclusione (o una delle premesse) è implicita, rendila esplicita. Se ti sembra che ci sia un errore nell’argomento, indica quale potrebbe essere. 1.* Il latte in polvere può contenere prodotti chimici che possono causare sterilità. Perciò le giovani mamme dovrebbero allattare i propri figli in modo naturale. 2.* I fondamentalisti cristiani che hanno dato il loro voto al presidente Bush sostengono che il preservativo non è in grado di proteggere al 100% dalle malattie come l’AIDS, perciò, affermano, sarebbe meglio vietarne la vendita e organizzare corsi per educare all’astinenza, esaltando i pregi della verginità prima del matrimonio. 3. Deve aver commesso lei l’omicidio. Nessun altro avrebbe avuto l’opportunità di farlo e le sue impronte digitali sono state trovate sull’arma del delitto. 4. Chi crede che possa esservi qualcosa di giusto nel prendere parte a una guerra non può credere davvero che l’omicidio sia sbagliato: la guerra provoca sempre migliaia se non centinaia di migliaia di omicidi. 5.* Mancano soltanto due mesi [...] all’11 settembre quando, sei anni dopo le stragi di New York e Washington, siti internet e libri, trasmissioni televisive e dvd, convegni e raduni internazionali rianimeranno la festa complottista, porteranno nuova legna al fuoco della cospirazione universale, alla congiura sionistico-imperialistica che si celerebbe dietro la colossale mistificazione costruita ad arte dai media internazionali per ordine della cricca di Bush. Si muove la già variopinta schiera dei negazionisti dove destra e sinistra non esistono più, ma resta solo un inestinguibile odio per l’Occidente e per gli ebrei cui, ultimo velo di pudore non ancora stracciato dall’oltranzismo ideologico, si dà il nome di «sionisti». A fine agosto sarà in uscita il manuale del perfetto complottista, intitolato Zero (allusione a Ground Zero), sottotitolo «Perché la versione ufficiale sull’11/9 è un falso». Bizzarrie di frange lunatiche, fantasie di minoranze fanatizzate? Forse. Ma qualche giorno fa un ministro di Sarkozy, la signora Cristine Boutin, ha detto che non è da escludere che ci sia Bush dietro gli attentati dell’11 settembre. Prove, nemmeno l’ombra. Solo una sensazione corroborata dal postulato secondo cui essendo «i siti che lo affermano i più cliccati, vuol dire che qualcosa di vero c’è». 6. Se nella grammatica di Serianni sta scritto che è più corretto scrivere “sé stesso”, non capisco perché tu debba insistere a dire che si scrive “se stesso”. 7. Sono stato assunto in prova, ma il direttore mi ha detto che non l’ho superata. Puoi concludere da te. 8. Nel passaggio dal latino all’italiano è cambiato il modo in cui si coniuga l’indicativo futuro. Non si dice più amabo, bensì amerò, che viene da amare habeo, già in uso anticamente nel latino parlato (detto anche volgare). È provato dai graffiti presenti sui muri di Pompei. 9*. Non sono abbastanza preparato per superare l’esame ECDL. Se lo fossi non avrei avuto problemi con la simulazione dell’esame. Ma in quella che ho appena provato ho risposto correttamente a solo 3 domande su 50.