Preleva il racconto Ricorda le farfalle

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Preleva il racconto Ricorda le farfalle
Ricorda le farfalle
Un racconto di Giulio Mozzi
per un’esposizione di Beatrice Pasquali,
Girondini Arte, Verona, 2001
Giovanni sentiva la mancanza dei sogni. Lui era uno di quelli che
si svegliano di bel mattino, dopo aver dormito proprio bene, con la
testa piena di cose sognate; ma nel giro di pochi secondi, diciamo
nei dodici passi che separano il letto dal bagno, dimenticano tutto.
Lui era così. Sapeva di sognare – sapeva di fare sogni belli,
confortanti, avventurosi – ma non era capace di ricordare nulla.
Aveva messi in atto degli stratagemmi: tenere un quadernetto sul
comodino; raccontare immediatamente il sogno alla persona che
dormiva accanto a lui (ogni tanto, una persona dormiva accanto a
lui); tenere un miniregistratore sul comodino; raccontare il sogno a
sé stesso, ad alta voce, prima di sollevare la testa dal cuscino.
Niente aveva funzionato. Squadernato il quadernetto, la pagina
bianca gli sbiancava la mente; la persona accanto a lui dormiva, o
era così poco sveglia da non ricordare nulla, dopo pochi minuti,
del suo racconto; premere play+rec sul miniregistratore era come
premere uno stop/eject nella sua testa; e i racconti a sé stesso,
benché fatti ad alta voce, si disperdevano nell’aria viziata e tiepida
della camera da letto: per non tornare più.
Giovanni, però, aveva fiducia. Sapeva che nelle favole, quando il
protagonista vive un’avventura meravigliosa e poi si risveglia nel
proprio letto, rendendosi conto di aver sognato, spesso c’è un
oggetto che per così dire si travasa dal sogno al mondo da sveglio: il
più delle volte un monile, un anello, una collanina d’oro; ma a
volte un acciarino o un bastone da viaggio. E lui, a volte, aveva
l’impressione che dai suoi sogni al suo mondo da sveglio, il travaso
potesse compirsi. Ad esempio, si svegliava con la mano destra
contratta e arrossata: come se nel sogno fosse stato un paladino, e
avesse dato di spada a destra e a manca. Oppure, si svegliava con
gli occhi pieni di crosticine: come se nel sogno avesse tanto pianto.
A volte si era accorto, facendo la doccia, di avere misteriose
ecchimosi sul corpo, o numerosi piccoli graffi sui polpacci, come
se avesse dovuto combattere o se avesse camminato a lungo nella
savana disseccata. Giovanni considerava questi segni sul suo corpo
– del suo corpo – come le collanine e gli acciarini delle favole:
Ricorda le farfalle, di Giulio Mozzi
oggetti travasati dal sogno al mondo da sveglio. Perciò li aveva
molto cari, li amava intensamente, ne era molto contento.
Un giorno – era un giovedì – Giovanni si svegliò con in bocca la
coda di un’upupa. Aprì gli occhi – dormiva sempre sul dorso,
secondo il consiglio della rivista Salve, alla quale era abbonato; e
molto sodo: la persona che ogni tanto dormiva accanto a lui gli
diceva che dormiva come un tronco – ma prima ancora di averli aperti
già aveva sentito di avere qualcosa in bocca; aprì gli occhi e vide,
con la miopia del primissimo risveglio, qualcosa sul suo petto; mise
a fuoco, riconobbe di avere un uccello sul petto, si rese conto che
in bocca aveva le penne della coda. Aprì la bocca, si scostò.
L’uccello zampettò sul suo petto, sbatté le ali e s’involò. Sparito.
Come tutti i sogni. In bocca a Giovanni restò uno strano sapore,
non sgradevole; il sapore delle penne, pensò; era un sapore
leggermente dolciastro, come di medicina.
Quel giorno Giovanni – che era contabile presso un grossista di
pezzi di ricambio per macchine per il confezionamento di prodotti
alimentari – lavorò fino alle cinque trasognatissimo; sbagliò un
paio di fatture, niente di grave; era luglio inoltrato, il lavoro era
estivamente poco, c’era tempo per rimediare a tutto; dopo il lavoro
corse in libreria, consultò qualche manuale di ornitologia,
riconobbe finalmente il suo uccello per quel che era: un’upupa. Lo
riconobbe dalla crestina, soprattutto. A casa, guardò
nell’enciclopedia Vallardi: trovò UPUPA tra UPTON, CHARLES
BARNES, filosofo inglese, e UR, antichissima città mesopotamica; gli
piacque la descrizione, insieme letteraria e meticolosamente
precisa: «Le u. hanno becco sottile, lungo e incurvato a sciabola,
piumaggio elegante color cannella, con vistoso ciuffo erettile sul
capo. Il loro volo è leggero, a scatti, e ricorda quello delle farfalle».
Nel Dizionario nomenclatore di Palmiro Premoli – ne possedeva una
copia che doveva essere stata di suo nonno, tutta ingiallita ma
solida – trovò invece UPUPA tra UOVO e URAGANO; lesse: «Uccello
tenuirostre, grosso come una tortora, con penne sul capo erigibili
come una cresta»; scoprì che il suo verso si dice urlare o chiurlare –
sempre con la u, comunque –; e tra i vari nomi popolari
dell’upupa, «augello dei sepolcri» fu quello che gli piacque di meno;
quello che gli piacque di più, «galletto di maggio».
Quella notte, Giovanni sognò molto. Sognò sé stesso. Si vide
come dall’esterno – guardava sé stesso come se sé stesso fosse
stato un altro, come succede appunto nei sogni. Vide sé stesso tre
volte: in una stanza bianca, senza finestre e senza porte, c’era sé
stesso tre volte. In piedi, immobile, gli occhi chiusi – non come
uno che li tiene chiusi apposta, ma come uno che dorme; sia pure
in piedi –; nudo, tutta la pelle scoperta, senza peli né capelli; la
testa leggermente all’indietro, la bocca chiusa senza sforzo.
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Ricorda le farfalle, di Giulio Mozzi
Giovanni vedeva sé stesso di fronte, di fronte a sé; dal lato sinistro,
alla sua sinistra; dalla parte della nuca, alle sue spalle. «Bene», pensò
nel sogno: «Ora mi vedo tutto». Desiderò in quel momento, nel
sogno, di sbucciare il suo corpo: guardarci dentro, conoscerne le
parti, distinguere tessuti e vasi. Si svegliò. Brancolò fino al bagno.
Orinò. Dimenticò. Era ancora notte fonda. Non gli succedeva mai,
di svegliarsi a notte fonda per orinare. Tornò al letto, si
riaddormentò. Sognò ancora sé stesso, ancora triplicato. Stava in
fila indiana, questa volta: sé stesso, sé stesso, sé stesso. Vide, allora,
che c’erano piccole differenze tra un sé stesso e l’altro. «Ma allora
non mi so», pensò nel sogno. Allora vide che i sé stesso erano
quattro: il primo della fila, però, era una specie di telaio; una cosa
fatta di filo di ferro; come certi porta-abiti che aveva visti nelle
sartorie, pensò nel sogno; sembrava una bolla, una rete che aveva
la sua forma e sulla quale poteva essere tesa, eventualmente, la
pelle. Giovanni vide che ciascuno dei sé stesso che aveva visti per
primi corrispondeva esattamente al sé stesso di filo di ferro che
aveva visto dopo; eppure c’era qualche piccola differenza. Toccò
sé stesso, uno dei tre; gli sembrò morbido, come fatto di una
materia plasmabile. Ebbe un’emozione fortissima – non proprio
paura, ma anche un po’ di paura – e si svegliò. In bocca aveva un
tubicino di gomma che finiva in una fiala di vetro. Nella fiala c’era
un vapore bianco. Giovanni respirò: il tubicino, la fiala e il vapore
rientrarono in lui. Dimenticò. Andò al bagno, orinò, fece la doccia,
si guardò allo specchio, sentì che era sano e lieto. Trovò che la sua
pelle era molto liscia e gradevole. Si sbarbò con cura.
Al lavoro, quel giorno, fece tutto giusto. Alle cinque e mezza era
in piazza grande, seduto a un tavolino. Aspettò le sette facendo
niente, leggendo il giornale, guardando la gente passare. Consumò
un caffè, un bicchier d’acqua. Gli piaceva guardare la gente passare.
Andò al bagno, tornò al tavolino. Della gente che passava,
guardava il modo di camminare più che la persona. Riconobbe
qualcuno, salutò; scambiò qualche parola. Gli piacevano le persone
elastiche. Alle sette arrivò la donna che avrebbe dormito accanto a
lui quella notte. Presero un aperitivo leggero. Andarono a cena in
un ristorante cinese con giardino. Verso le nove si alzò un
venticello fresco. I camerieri srotolarono il tendone – ci misero
cinque minuti buoni; la manovella cigolava; il tendone era a righe
bianche e rosse – appena in tempo, prima che piovesse. Giovanni
e la donna andarono a casa di Giovanni dopo la pioggia, verso le
dieci e un quarto. Il fresco era diventato quasi freddo. Giovanni
aveva convinta la donna a prendere un alcolico, la grappa di riso,
per rassicurare la digestione. A casa di Giovanni la donna andò in
bagno per prima; ci restò a lungo, come suo solito. Giovanni fece
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Ricorda le farfalle, di Giulio Mozzi
una doccia veloce; quando entrò in camera, lui era nudo sotto
l’asciugamano avvolto, e la donna era nuda sotto il lenzuolo.
Quando aprì gli occhi – era sabato, non lavoravano, era un po’
più tardi del solito – Giovanni aveva la testa piegata di lato; vide
per prima cosa la donna che non era addormentata ma sveglia, non
era stesa ma mezza seduta. Giovanni guardò la donna, vide lo
sguardo della donna rivolto non al suo viso ma al suo petto, sentì
come un taptap sul petto, girò la testa, guardò. Sul suo petto
trottava un cavalluccio di legno, agile, leggero, non più grande di
una mano aperta: correva di qua e di là, faceva dei piccoli salti. La
donna cercò di afferrarlo – con delicatezza, come si farebbe per un
gattino neonato – ma il cavalluccio le sfuggì, balzò sul viso di
Giovanni, sparì. Giovanni aprì gli occhi. La donna dormiva
accanto a lui, appoggiata sul fianco destro, un po’ rannicchiata,
dandogli le spalle. Il lenzuolo era arrotolato, copriva loro a
malapena le ginocchia. Dalla finestra – chiusi gli scuri ma non il
vetro – filtrava una luce molto gialla. Giovanni amò la curva
dell’anca della donna.. La osservò. La donna era sottile ed elastica,
non magra né abbondante. Giovanni guardò le regioni del suo
corpo. La nuca, indifesa dai capelli corti nerissimi. Le scapole. La
colonna vertebrale, come un ascensore orizzontale. La spartizione
delle natiche. L’articolazione del ginocchio.
Giovanni ricordò i Viaggi di Gulliver. Per confezionare un vestito
a Gulliver, i lillipuziani gli presero solo la misura della
circonferenza – alla radice – del pollice. Perché tre volte quella
misura è la misura del polso, tre volte quella del polso è la misura
del collo, tre volte la misura del collo è quella del petto. Forse non
era sempre tre volte. La donna si mosse, si appoggiò sulla schiena.
Giovanni la osservò. La bocca socchiusa – dalla quale, pensò
Giovanni, sarebbe potuta uscire da un momento all’altro una
farfalla. La gola palpitante. Le spalle. I monticelli. La pancia, come
un gorgo d’acqua – ma lento, lento – sprofondante nell’ombelico.
L’inguine, con il ciuffo nero. Le gambe, che da lì si allontanavano.
La donna si svegliò.
Ho sognato che eravamo due alberi, disse la donna mentre
facevano colazione (caffè, latte, fette di pane, burro, marmellata di
prugne, succo d’arancia). Io non mi ricordo i sogni, disse
Giovanni. Io sì, disse la donna. Mi piace ricordarli, fa bene. Dicono
che ricordare i sogni è segno di equilibrio, disse Giovanni. L’hai
letto su Salve?, scherzò la donna. Ma no, disse Giovanni: e com’era,
essere alberi? Non so, disse la donna masticando. Non eravamo
proprio alberi. Ah, disse Giovanni. Sì, diciamo che… Io mi sentivo
la testa, e le braccia, ma poi la testa e le braccia erano come piantati
su una radice. Eri piantata in terra? Ma dài… era una cosa
abbastanza bella, perché dentro questa specie di radice scorrevano
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Ricorda le farfalle, di Giulio Mozzi
i liquidi, i fluidi, fino alla testa, e dalla testa alla terra… In somma,
eri una specie di carota. Scemo! Eri così anche tu, sai. Me
l’immagino. No, non ti immagini: non era una radice come una
carota, era una cosa ramificata, tutte diramazioni che si
districavano, uscendo dalla testa, o dalla pancia, forse dalla pancia;
e colorate, rosse, verdi; lucide, come fatte di plastica animata – Di
plastica animata? Ma sì, i fili di plastica, quelli con il filo di ferro
dentro, l’anima di ferro… Ma si chiama così? Plastica animata? In
somma, non mi stai a sentire, non mi credi…
Quando, più tardi, fecero l’amore – la finestra aperta, la stanza
rinfrescata dal leggero vento –, Giovanni rilasciò il suo seme
dentro la donna; e immaginò, nella spossatezza che seguì all’amore,
che il suo seme risalisse il corpo della donna, attraverso vasi e
condotti, ramificati, di colori vivaci; immaginò il suo seme
viaggiante – liquido e colloso, traslucido – travasarsi dai condotti
agli organi – vide organi a forma di fagiolo, di sacco, di spugna, di
vescica; rossastri, biancastri – incanalarsi nella cavità interna della
spina dorsale, giungere fino al cervello e al cervelletto. Immaginò,
Giovanni, di essere il suo seme: e di attraversare nel viaggio regioni
notturne ed anguste, regioni rutilanti di colori e luce, condotti dalle
pareti lisce, corridoi dalle cui pareti sporgevano villi gommosi, o
dal cui soffitto pendevano veli o filamenti. Trapassò, Giovanni, nel
dormiveglia, al ricordo delle visite – emozionanti, terrorizzanti,
magnifiche – alla Casa delle Streghe: alle giostre. Lui camminava,
bambino, e piccole mani di neonati lo toccavano nei polpacci,
ragnatele gli bagnavano il viso, improvvisi movimenti del
pavimento o delle pareti lo squilibravano, rumori d’acqua venivano
dall’alto o dal basso. Giovanni si svegliò. La donna accanto a lui
non c’era più. Nel vuoto del letto c’era un batuffolo, due piume
color cannella, portato dal leggero vento. Il rumore della doccia dal
bagno.
Quando la donna, avvolta nell’asciugamano, entrò nella camera
da letto, Giovanni le si avvicinò. La abbracciò. Sentì l’odore di
sapone di Marsiglia, l’odore della pelle. Le sciolse l’asciugamano,
lasciando che cadesse. Appoggiò il suo corpo sul corpo della
donna, la fronte sulla fronte della donna. In quel momento ricordò
tutti i sogni della sua vita, e fu felice. La donna, ridiventata uccello,
rizzò il ciuffo e volò via per la finestra aperta.
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