4 - Cassandra

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1
Ti spiattello in faccia
come vanno le cose:
vanno male.
Benchè abbia perso lo spirito e la lettera
della fede in quella
sfera che tu conosci,
sono ancora inquieto.
Non mi tornano i conti, le misure, il modo
che ha il mondo di girare.(…)
Bartolo Cattafi
Guerra
alla guerra
el corso delle ultime settimane la
situazione internazionale si è
ulteriormente aggravata e sembra ora
precipitare verso un punto di non
ritorno. Incombe la minaccia, sempre
più concreta, dell’attacco USA all’Iraq (e
poi, magari, anche all’Iran). Israele vuole
chiudere la questione palestinese,
liquidando Arafat. L’economia
americana (e non solo) è sull’orlo della
recessione.
N
’ superfluo sottolineare quali rischi
tutto ciò comporti. Piuttosto,
chiediamoci se sia ancora possibile
ritenere funzionale alla conservazione e
al consolidamento del sistema un
capitalismo “civile”, di cui il centrosinistra e/o le socialdemocrazie
sarebbero la naturale espressione a
livello politico-istitu-zionale. In altri
termini: perché il vento di destra, dopo
la vittoria di Bush nelle elezioni
presidenziali, ha investito quasi tutta
l’Europa? Si è trattato di un riflesso,
destinato a spegnersi in un arco di
tempo relativamente breve, o ci sono
delle ragioni di fondo, profonde, che
E
Sommario:
Cassandra
alcuni recenti segnali in controtendenza,
come le vittorie socialdemocratica in
Svezia e della SPD e dei Verdi in
Germania, le crisi governative in Austria
e in Olanda - e per quanto riguarda
l’Italia il parziale successo dell’Ulivo
nella tornata amministrativa del 22
maggio, ma soprattutto la ripresa del
conflitto sociale e dei movimenti per la
pace - non bastano a contraddire
sostanzialmente? Insomma, ci sono oggi,
nel contesto “globale” attuale, dei
margini per una stabile (e non residuale)
affermazione di un capitalismo
“illuminato”? O i margini sono ormai
divenuti del tutto ipotetici, illusori, e
quindi anche l’esperienza “ri-formista” è
da considerare definitivamente
consumata?
che siano le risposte a questi
Q uali
interrogativi, bisogna non
rassegnarsi e reagire, contrastare la
deriva cui stiamo assistendo. Su un
punto cruciale, il no alla guerra, si profila
una prospettiva nuova. Una parte
importante dell’Europa, che pure aveva
appoggiato pressochè
incondizionatamente le aggressioni degli
USA e della NATO nel Golfo Persico,
nei Balcani e in Afghanistan, pare
risvegliarsi e avvertire con
preoccupazione che la pressione
americana non è rivolta soltanto contro
l’Iraq, il mondo arabo e gli “Stati
canaglia”, ma tende anche (come in
occasione della crisi del Kosovo e
dell’attacco alla Jugoslavia) a soffocare
la sua autonomia. Una contraddizione si
è aperta fra la Germania e la Francia e
l’Impero. Negli stessi USA e in Gran
Bretagna (dove le Trade Unions e la
Stop to War Coalition hanno promosso,
alla vigilia del congresso del Labour
Party, la forte manifestazione pacifista
del 28 settembre) il partito della guerra
preventiva incontra resistenze anche
all’interno dei gruppi dirigenti. Questo è
un dato di fatto positivo, che non va
sottovalutato. Tuttavìa, la possibilità di
inceppare il disegno “imperiale” di
George Bush jr non è affidata alle
borghesie francese e tedesca (e russa).
ecisiva potrà essere l’opposizione
di larghe masse popolari, dei
movimenti contro la globalizzazione
neoliberista imposta dal complesso
militare-industriale dell’imperialismo. Il
rifiuto attivo dell’aggressione potrà
diventare la leva di una lotta
anticapitalistica
estesa su scala
D
Un messaggero riportò gli eventi:
«Rottura al centro, ripiegano le ali».
Non chiedemmo che centro, quali ali,
gli eventi giungevano in ritardo.
Da gran tempo fioriscono i commerci
siamo in buoni rapporti col nemico.
Talvolta ritorna il messaggero
a ricordarci monotoni eventi.
Daremo aiuto alle milizie in rotta?
Forse muovere un dito, un solo filo
per salvare l’impero.
Noi pacificati,
così lontani dal luogo della lotta …
Bossi & Fini - I rifugiati palestinesi Perejil - Operai o classe operaia? - Dibattito (Andrea
Catone e Maria Turchetto) - Libri - Film - Internet
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2
Le legge razzista
di Bossi & Fini
La nuova legge Bossi-Fini sull’immigrazione,
che non a caso ha come padrini i leaders della
Lega Nord e di Alleanza Nazionale, colpisce
non in base ai reati effettivamente commessi,
ma in base a “chi si è”. Ogni immigrato, in
quanto tale, viene cioè considerato un
delinquente potenziale. L’introduzione
dell’obbligo di rilevare le impronte digitali a
tutti gli extracomunitari che richiedano o
intendano rinnovare il permesso di soggiorno è
in questo senso “simbolica” e rivela la
demagogia populistica dei leghisti e la vocazione
poliziesca del “postfascismo”.
Con la Bossi-Fini la normativa della legge
Turco-Napolitano, varata nel 1998 durante il
governo dell’Ulivo, viene inasprita, ma non si
può dire che i suoi criteri ispiratori siano
“rovesciati”. La Turco-Napolitano non era
infatti una legge “morbida”, come fra l’altro
dimostrano questi dati, forniti dal ministero
dell’Interno: nel triennio 1998-2000 sono stati
respinti dalle questure o alle frontiere 45.187
(nel ’98), 48.437 (nel ’99) e 42.221 (nel
2000) migranti irregolari; 8.978, 23.955 e
23.836 sono stati i provvedimenti di
espulsione; le espulsioni intimate sono state
44.121, 40.489 e 64.734; il totale delle
persone coinvolte è stato di 98.256, 112.881 e
130.791 (il numero di quelle effettivamente
allontanate dall’Italia è stato, sempre nel
triennio 1998-2000, di 54.135, 72.329 e
66.057). Sono numeri che non giustificano
affatto le accuse di “permissivismo” e
“lassismo”.
Altrettanto infondata è la “psicosi da
accerchiamento” che le destre xenofobe vogliono
alimentare in ogni modo. L’Italia non è una
fortezza assediata minacciata dai nuovi
invasori. Alla fine del 2000 (31 dicembre) gli
stranieri regolari (titolari cioè di permesso di
soggiorno) erano 1.388.153, alla stessa data
del 2001 erano scesi a 1.362.630 e si può
calcolare in 1.600mila-1.900mila la loro
presenza effettiva, considerando che oltre
200mila minori non sono in possesso del
permesso di soggiorno a titolo personale e di
circa 100mila permessi registrati in ritardo.
L’incidenza sul complesso della popolazione,
calcolando in via approssimativa anche
300mila irregolari privi del permesso di
soggiorno, è tuttora del 2,8-3,5%, mentre negli
altri paesi europei è in media del 5%.
L’agitazione xenofoba ha coniato
l’equazione immigrato=delinquente,
naturalmente senza curarsi affatto di
distinguere fra immigrati che, spesso gravati da
un forte disagio sociale, talvolta delinquono e
criminali abituali inseriti in organizzazioni
dedite ad attività illegali. L’equazione non ha
r i s c o n t r o n e l l a r e a l t à. I dati
dell’Amministrazione penitenziaria aggiornati
al 31 luglio 2002 registrano un aumento della
popolazione carceraria: i detenuti sono 56.002
(la capienza complessiva nei 205 istituti di
pena sarebbe di 41.730). I detenuti stranieri
sono 16.901, il 30%: il 60% di essi sono
ancora in attesa di giudizio definitivo. Ai
detenuti possiamo aggiungere fra le 95 e le
100mila persone nei confronti delle quali sono
state sporte denunce e arriviamo a circa
110mila, poco più del 5% del numero
complessivo degli immigrati. Il problema,
dunque, c’è; ma le sue dimensioni non sono tali
da suscitare isterìe da “allarme rosso”. Del
resto gli stessi dati del ministero indicano che
l’incidenza dei detenuti extracomunitari
regolari
sulla popolazione degli
extracomunitari soggiornanti in Italia e
l’incidenza dei detenuti italiani sul totale dei
residenti sono quasi uguali - pari allo 0,7% - e
che in alcune regioni (soprattutto del
Mezzogiorno) l’incidenza dei detenuti stranieri
è anzi minore di quella degli italiani. La legge
della Casa delle Libertà, la Bossi-Fini,
considera però l’immigrazione un fenomeno
completamente negativo da blindare entro regole
ferree, reprimendo ogni deviazione con estrema
durezza.
Tuttavia - come è noto - l’immigrazione è
indispensabile a molte aziende che nelle regioni
del nord e/o in certi perodi dell’anno, non
potrebbero ormai farne a meno. Ebbene, la
nuova normativa introduce di fatto una forma
che non è azzardato definire di moderna semischiavitù: per ottenere o rinnovare il permesso
di soggiorno (di durata variabile fino a due
anni) occorre adesso essere in possesso di un
contratto di lavoro. Il permesso di
soggiorno è così diventato di fatto un
contratto di soggiorno, legato al lavoro
degli immigrati, la cui dipendenza da chi dà
loro un’occupazione diviene pressoché assoluta,
condizionando in modo sostanziale le già
minime possibilità di contrattazione e di
resistenza.
L’impianto repressivo è perfezionato da altre
norme, che prevedono il conferimento alla
marina militare di maggiori poteri di intervento
per fermare in mare le imbarcazioni che
trasportano i clandestini sulle nostre coste (e già
si sono viste le possibili tragiche conseguenze),
l’accelerazione delle procedure per le espulsioni,
la riduzione delle possibilità dei
ricongiungimenti familiari, rigidi limiti per il
riconoscimento del diritto di asilo, il
“potenziamento” dei famigerati Cpt (centri di
permanenza temporanea), etc.
La legge Bossi-Fini s’inserisce in un preciso
contesto internazionale che il vertice europeo del
giugno scorso a Siviglia ha evidenziato e dove
soltanto l’opposizione di Francia, Svezia e
Lussemburgo è riuscita (parzialmente) ad
evitare che venissero adottate le sanzioni
economiche e politiche proposte dalla Spagna di
Aznar e dall’Italia di Berlusconi (e
inizialmente anche dalla Gran Bretagna di
Blair) contro i paesi extracomunitari che non
“collaborano” in modo adeguato nella lotta
all’immigrazione clandestina. Quasi ovunque
in Europa, infatti, è stata aggravata la
legislazione precedente (valga per tutti l’esempio
della Spagna, dove una nuova legge ha
cancellato quella in vigore durante il governo
del Psoe).
Come fronteggiare, allora, questa situazione?
Un movimento davvero globale non può
A briglia sciolta
«Sono così favorevole al sistema
maggioritario che, fosse in me,
la legge finanziaria non
andrebbe emendata»
Massimo D’Alema,
Corriere della Sera, 4 settembre
2002
«È che rischiamo, in questa
dialettica tra partiti e
movimenti, di riprodurre una
visione pre-maggioritaria»
Massimo D’Alema,
l’Unità, 6 settembre 2002
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Palestina
Non so proprio fino a quando lo slogan
sionista “Una terra senza popolo per un
popolo senza terra”, accettato supinamente
dal mondo occidentale, soprattutto
dopo la seconda guerra mondiale e la
nascita dello Stato d’Israele, continuerà
a tormentare il popolo palestinese.
L'esistenza di questo popolo, per i
sionisti, è sempre stata, oggi come ieri,
in discussione. Basta ricordare le
affermazioni, nel 1972, di Golda Meir,
allora primo ministro d’Israele, secondo
la quale non esiste e non è mai esistito
un popolo palestinese.
Oggi il discorso è un po’ diverso, ma il
messaggio resta. Prima e dopo la
creazione dello Stato d’Israele nel 1948,
prima e dopo l’occupazione dei territori
palestinesi conquistati da Israele nel
1967, prima e dopo la guerra del
Libano, prima e dopo la guerra del
Golfo, c’è la negazione dell’esistenza
fisica del popolo palestinese in quanto
tale. Ci sono voluti gli accordi di Oslo,
perché ci fosse un riconoscimento
formale. Ma ora che quegli accordi sono
saltati ...
La ragione di tutto ciò è semplice.
Nella genesi del diritto basata sulla
realtà degli Stati, il popolo deriva dal
territorio. Se il popolo non esiste,
l’occupante vede il suo dominio del
territorio automaticamente legittimato.
Dunque popolo e territorio sono legati
da un doppio filo, pratico e teorico, e
ciascuno dipende dall'affermazione
dell’altro. Una rottura radicale, totale tra
questi due termini - popolo e territorio annuncia la fine dell’uno come
dell’altro.
Sta tutta qui l’importanza simbolica
attribuita al territorio perduto presso i
popoli de-territorializzati. Un popolo
che cessasse di definirsi in rapporto a
una forma di territorialità, vedrebbe la
sua unità e la sua unicità, la sua essenza,
sconfitta in partenza dalle molteplici
identità che derivano dai territori
“accidentali” dove la storia l’avrà
confinato. Sta tutta qui anche la
passione per la terra dei coloni, quando
puntano al radicamento: pieds-noirs
d’Algeria, farmers dell’Ovest americano,
afrikaners e, ovviamente, israeliani.
Paradossalmente, la lunga storia della
rivendicazione sionista sulla Palestina
passa attraverso la negazione del
territorio palestinese: gli storici
simpatizzanti del progetto sionista
sostengono che la Palestina, in quanto
territorio, non esisteva prima del
Mandato britannico, e che di
conseguenza non esiste un popolo
palestinese, ma soltanto delle
popolazioni arabe. Ovviamente
aggiungono che il territorio della
Palestina, sotto il nome di Eretz Israel,
cioè la “Terra d’Israele”, con confini
che variano secondo le scuole,
costituisce, da millenni, un’entità unica,
completa e indivisibile, legata da un
“cordone ombelicale” al popolo
ebraico.
Del resto, per il testo della
Dichiarazione Balfour, del 1917, con la
quale il governo di Sua Maestà
britannica chiedeva a lord Rothschild di
portare a conoscenza dei dirigenti del
movimento sionista che “considerava
favorevolmente l'insediamento di un Focolare
nazionale ebraico in Palestina”, non esiste
un popolo in Palestina. Soltanto
“comunità non ebraiche”, i diritti “civili e
religiosi” delle quali sarà però
opportuno rispettare. Il particolare che
le comunità non ebraiche rappresentino
più del 90% della popolazione è, per
Lord Balfour, del tutto trascurabile!
I trattati seguiti alla fine della Prima
Guerra mondiale, mediante i quali il
defunto Impero ottomano, divenuto la
Turchia kemalista, affidava alla Società
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delle Nazioni il mandato sulla Palestina
in quanto entità indipendente, fanno
però riferimento alla Palestina e al suo
popolo, ma non si tratta ancora del
popolo palestinese. Quando l’ONU,
dopo la fine della Seconda Guerra
mondiale, riconosce il carattere
nazionale della popolazione palestinese,
detto carattere è ancora arabo.
Ancora oggi, il popolo palestinese,
pur essendo detentore, agli occhi
dell'Assemblea generale delle Nazioni
unite, di diritti nazionali inalienabili,
gode, nel linguaggio delle risoluzioni del
Consiglio di sicurezza, soltanto di
“diritti umani” (quando sono violati) e
a s s a i p o c o d i “ diritti politici
legittimi” (risoluzione 672 del 12 ottobre
1990).
L’amministrazione americana, non
parla mai di un popolo palestinese, ma
soltanto di palestinesi, categoria
indefinita nell’attesa di un
riconoscimento più esplicito. La
risoluzione 242, con la quale il
Consiglio di Sicurezza dell’ONU
dichiara all’unanimità l’illegittimità della
conquista di territori con le armi, parla
soltanto di rifugiati, non fa alcun
riferimento al popolo palestinese. Un
esempio clamoroso: nel 1979, nel
quadro della firma degli accordi di
Camp David (relativi ad un trattato di
pace tra Egitto e Israele), il governo
israeliano si fece avallare
dall’amministrazione americana, in un
documento a parte, la traduzione in
ebraico dei passaggi più delicati del
trattato di pace: così, in ebraico, “diritti
legittimi dei palestinesi” è tradotto come
“diritti legittimi degli arabi della Terra
d’Israele”.
La frantumazione di un popolo
Questo popolo, cui è negata la sua
identità, si è trovato, nel corso degli
anni, frantumato. A partire dal 1948 più
della sua metà è finita in esilio in campi
profughi nei paesi vicini, mentre una
minoranza ancorata al suo spazio,
aggrappata alla sua terra “con le
unghie”, per riprendere un’espressione
dei suoi poeti, ha subito la dura legge
dei vincitori: governo militare (fino al
1966), con cittadinanza “non ebraica”
nello Stato ebraico. Dopo la guerra del
1948, la Cisgiordania, con il suo 38% di
profughi palestinesi, sarà annessa al
regno hachemita di Giordania, mentre
la Striscia di Gaza, con il suo 26% di
profughi, verrà posta sotto
amministrazione militare egiziana.
Questi due territori, che ospitano un
terzo del popolo palestinese, saranno
assoggettati all'occupazione militare
quando, nel 1967, lo Stato d’Israele
estenderà il suo dominio sulla parte
restante della Palestina del Mandato
(quel 22% sul quale avrebbe dovuto
nascere, secondo gli accordi di Oslo, lo
Stato di Palestina).
Tre insiemi di persone costituiscono
perciò questo popolo: più di un milione
di “arabi d’Israele”, essenzialmente
concentrati in Galilea, nella regione
detta “del Triangolo” e nel Negev,
cittadini di serie B dello Stato ebraico;
più di tre milioni di palestinesi che
risiedono nei territori di Cisgiordania, di
Gaza e di Gerusalemme-Est, occupati
dopo il 1967, dove sono di nuovo
soggetti senza diritti alla mercé del
governo militare, dopo l’offensiva
d’aprile dell’esercito israeliano che ha
rioccupato tutti i territori dell’Autorità
palestinese; infine quasi tre milioni di
palestinesi dell’esilio, dispersi
principalmente nei paesi arabi vicini
(dove la maggioranza vive in campi
profughi), negli Stati del Golfo, in
America del Nord e del Sud.
A lungo, per i mezzi d’informazione
occidentali, i palestinesi si riducevano
alla componente del popolo che viveva
in esilio, principalmente in Libano, con
le keffiah e i kalashnikov. Nei territori
occupati non c’erano che arabi, soltanto
abitanti arabi! Poi venne l’Intifada. Dopo
la conquista di Beirut, nel 1982, da
parte dell’esercito israeliano, culminata
nella strage di Sabra e Chatila, nacque
questo sollevamento popolare, di cui la
"guerra delle pietre" costituisce la forma
espressiva degli adolescenti, riavvicina
progressivamente l’immagine e il nome
dei palestinesi verso il territorio
originale della Palestina, e più
specificamente verso i territori occupati
dal 1967, organizzando la resistenza
creativa e multiforme della società
occupata.
Ora, per i dirigenti israeliani gli
“unici” palestinesi sono quelli “dell'interno”. Non vogliono sentir parlare che
di palestinesi cisgiordani o di Gaza,
oppure di Gerusalemme, proiettando,
in queste territorialità distinte, una
popolazione e dei territori, negando
così, ancora una volta l’esistenza di un
popolo e di un paese. E così, di questo
riavvicinamento dell'identità palestinese
alla propria terra, sono i palestinesi
dell’esilio che rischiano di pagare il
prezzo.
L’ostinazione dei dirigenti israeliani a
indicare loro i nuovi dirigenti palestinesi,
il veto sistematico opposto alla
partecipazione dei palestinesi “dell'esterno” a qualsiasi negoziato, sono il
riflesso speculare dell’insistenza dei
palestinesi ad un’unica rappresentanza
scelta autonomamente. Infatti è proprio
la conferma e il riconoscimento di
quest’unicità del popolo palestinese,
istituzionalizzata nell’OLP, che
contraddistingue un popolo da una
popolazione, un paese da un territorio.
Gli accordi di Oslo segneranno una
svolta positiva con il riconoscimento
dell’OLP e del popolo palestinese, ma
resteranno in sostanza un guscio vuoto,
soprattutto perché eludevano proprio il
problema dei rifugiati e del loro diritto
al ritorno.
Ma perché i rifugiati costituiscono un
nervo scoperto dello Stato d’Israele?
Perché, di fronte a questo problema,
intellettuali progressisti, come
Grossmann ad esempio, perdono le
staffe e non si distinguono in nulla dalle
posizioni più estreme del
fondamentalismo ebraico? Se la
motivazione più ripetuta è quella che il
ritorno dei rifugiati metterebbe in
pericolo l’esistenza dello Stato d’Israele
tout court, e il suo carattere ebraico, cosa
che fa parte della persistente
determinazione negli ebrei di
presentarsi come vittime, in realtà
riconoscere il diritto al ritorno
significherebbe ammettere, per lo Stato
d’Israele, che nel 1948 espulse con la
violenza più di 700.000 palestinesi.
Eppure, quando lo Stato d’Israele
aspirava ad essere ammesso all’ONU,
questo suo desiderio fu condizionato
all’accettazione della risoluzione 194 del
dicembre 1948, relativa al diritto dei
rifugiati al ritorno o al loro indennizzo
nel caso non volessero tornare. Israele
accettò di buon grado, fu ammesso
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Perejil
Uno scoglio come pretesto
Un reparto dell' esercito marocchino
ha occupato l'11 luglio scorso l'isolotto
(poco più di uno scoglio) di Perejil,
territorio spagnolo a sei miglia marine
dalla città costiera Ceuta, enclave
spagnola, come la sua “gemella”
Melilla, nell’Africa del nord. La
bandiera della dinastia alawita ha
sventolato per una settimana su una
terra che Rabat considera ormai parte
integrante del suo Stato, come già era
accaduto per l' ex-Sahara spagnolo,
mentre per Madrid la presenza
spagnola nelle cittadine di Ceuta e
Melilla e nelle piccole isole al largo di
esse è giustificata e pienamente
legittima. Poi, alle prime ore del 17
luglio, reparti scelti spagnoli hanno
ripreso l' isolotto. L' operazione si è
conclusa senza vittime, ma la tensione
permane, se è vero che ancora alla fine
di agosto Rabat ha inviato una fregata e
La ribollita
toscana
«La Rabbia e l’Orgoglio di Oriana
Fallaci è stato il più grande
successo editoriale mai
registrato da un saggio in Italia
(…) Oggi il Corriere della Sera
ripropone ai suoi lettori tre
brani de La Rabbia e l’Orgoglio.
Due, già presenti nel famoso
articolo pubblicato su queste
pagine il 29 settembre 2001.
Uno appartenente alla
prefazione del libro (…)»
diverse pattuglie della marina militare al
largo di Melilla. Preoccupano anche il
rafforzarsi delle posizioni militari
marocchine nelle vicinanze delle acque
territoriali spagnole e la notizia dell'
ingente acquisto di forniture militari da
parte del paese nordafricano: 30
elicotteri, 2 navi e più di 500 mezzi
terrestri che, ufficialmente, servono per
difendere i confini da eventuali
rivendicazioni dell' Algeria. La Spagna
continua a mantnere un presidio navale
straordinario nella zona.
Un interessante articolo di Daniele
Zaccaria (vedi Liberazione, 19 luglio,
"La rinascita del nazionalismo
spagnolo") ha sostanzialmente
riproposto una chiave di lettura di
questi avvenimenti - in apparenza
grotteschi - basata su alcuni elementi
per così dire "classici" di
interpretazione marxista:
- il nazionalismo come valvola di
sfogo al malcontento interno delle
masse popolari (valvola di sfogo tanto
più necessaria nell' era della
globalizzazione, degli organismi
sovranazionali e delle privatizzazioni
selvagge, quando le forze armate
rimangono una delle pochissime
i s t i t u z i o n i d i r i c o n o s c i mento
comunitario);
- le nostalgie coloniali degli Stati
europei (in questo caso la Spagna);
- la volontà di riscatto dei Paesi del
Terzo Mondo.
Questa analisi, però, non tiene
sufficientemente conto delle scelte
geopolitiche degli USA. In realtà, la
"con-quista" e la successiva
"reconquista" dell' isolotto desertico di
Perejil rappresentano un preoccupante
salto qualitativo nell' escalation di
tensione che il regime del Marocco sta
portando avanti da due anni contro la
Spagna e - indirettamente - contro l'
Unione Europea. La strategia della
dinastia alawita cerca senza dubbio di
trovare una valvola di sfogo per il
malcontento sociale in Marocco, ma
contemporaneamente va incontro agli
interessi che stanno dietro la politica
bellicista degli Stati Uniti, per i quali il
Marocco è l'alleato privilegiato nell'
area del Maghreb, dove svolge il
medesimo ruolo che l'Arabia Saudita
svolge nell'area del Golfo. Poco note
sono infatti le implicazioni del
contenzioso ispano-maroc-chino, ma
bisogna conoscerle per evitare
un’interpretazione riduttiva del
conflitto, che utilizza categorie in
questo caso solo parzialmente
esaurienti.
La dinastia alawita adesso appoggiando la visione
ultranazionalistica del "Grande
Marocco"- rivendica anche la sovranità
delle Isole Canarie, il maggior
avamposto dell'Unione Europea
nell'Atlantico, e riceve, con il pieno
avallo degli Usa, finanziamenti
dall'Arabia Saudita e dagli Emirati per il
potenziamento della sua aviazione
militare (un potenziamento diretto
chiaramente contro le Canarie e la
Spagna in generale). Altri lauti
finanziamenti fluiscono verso "centri
culturali" di musulmani in Spagna, che
sostengono l' immigrazione in massa di
marocchini. Già alla fine del 1995, in
un incontro tra due delegazioni
governative, un importante dirigente
della polizia marocchina aveva lasciato
intendere che la soluzione dl problema
aveva… un prezzo, ma Madrid non
aveva ceduto alla richiesta di "foraggiare" i funzionari della dinastia
alawita per frenare l' entrata in massa
dei migranti. Oggi più di mezzo
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milione di marocchini risiedono in
Spagna, la metà in forma illegale. Si
calcola che tre milioni, quasi il 10%
della popolazione totale,
abbiano
abbandonato il loro paese per le più
diverse destinazioni.
La ridicola invasione di Perejil è stata
preceduta, dunque, da altri momenti di
tensione. Agli inizi del 2001 è saltato
l'accordo sulla pesca al largo delle coste
marocchine perché il governo di Rabat
aveva chiesto alla Spagna di ridurre i
suoi pescherecci ad un terzo di quelli
allora operanti, di ricevere dall'UE il
doppio degli aiuti e di limitare a due
anni la durata dell'accordo stesso.
Nell'ottobre sempre del 2001, il re
Maometto VI ha deciso personalmente
di ritirare l'ambasciatore in Spagna. La
vera ragione di questo atto è stata la
posizione assunta dalla Spagna in seno
all’UE in merito alla questione del
S a h a r a o c c i d e n t a l e ( e x - Sahara
spagnolo). La Spagna infatti rifiuta di
riconoscere l'annessione di questo
territorio avvenuta nel 1976 (province
di Boujdour, La-ayoune e Es-Semara) e
nel 1979 (pro-vincia di Oued-Eddahah,
in precedenza amministrata dalla
Mauritania) da parte del Marocco e
considerata illegale dalle Nazioni Unite.
Nonostante l'apparente ritorno alla
calma, la crisi di Perejil ha confermato
quanto da tempo appare evidente: gli
USA stanno tessendo una quadruplice
alleanza per rinserrare il mondo arabo
entro un quadro di fedeltà americana.
Oggi manipolano quattro potenze
musulmane, ben situate a tutte le
estremità geografiche dell'area islamica:
il Marocco all'estremo occidente,
contro la Spagna e per assicurarsi il
controllo della costa atlantica africana
fino al Senegal e un ancor più facile
transito attraverso lo Stretto di
Gibilterra; l'Arabia Saudita per
mantenere l'egemonia sulla zona del
Golfo e del Corno d'Africa e per
minacciare l' Iran; la Turchia a nord,
per costituire una minaccia nel Mar
Nero, nei Balcani, nell'Egeo, a Cipro e
nel Cauca-so contro l'Europa e la
Russia, contro la Siria e l'Iraq nelle valli
del Tigri e dell' Eufrate ed
eventualmente contro l'Iran; il Pakistan
è infine usato a est contro l'India e la
Russia. La validità di tale analisi trova
conferma, del resto, nello svolgimento
della vicenda i esame:
1. il ministero degli Esteri spagnolo
aveva fatto sapere che non occorreva
nessuna mediazione internazionale per
risolvere la controversia. Il segretario di
Stato americano Colin Powell si è
invece intromesso pesantemente nella
trattativa, operando in prima persona e
dichiarando: "Gli Stati Uniti danno il
benvenuto al compromesso raggiunto
tra Marocco e Spagna sull' isola di
Perejil in seguito alle consultazioni
tenute a Washington con ambo le
parti".
2. A fine luglio si è riaperta la partita
sull' ex-colonia spagnola del Sahara
Occidentale (che fra l’altro dispone di
importanti risorse minerarie). Il
Consiglio di Sicurezza dell' ONU si è
riunito per definire il futuro della
missione per il referendum nel Sahara
occidentale iniziata nel 1991 ed il cui
mandato scadeva il 31 luglio. La
battaglia diplomatica verteva sulla
votazione dell' "Accordo Quadro"
proposto dagli USA, che sostengono
una soluzione a senso unico: in
sostanza, fare del Sahara Occidentale
una provincia, "auto-noma" per modo
di dire, del Marocco, scartando l'ipotesi
del referendum e della separazione
territoriale, rifiutata dal Marocco.
Washington fa il gioco della dinastia
alawita e viceversa. La Spagna è stata
ascoltata in sede ONU come parte in
causa, pur non stando nel Consiglio di
Sicurezza, e ha difeso ancora una volta
il diritto al referendum rivendicato dal
Fronte Polisario. L'Unione Europea
(dove Londra - come al solito - ha
appoggiato a spada tratta la politica
americana), si è dimostrata incapace di
sostenere una posizione comune. Così
il Consiglio di Sicurezza ha dovuto
prorogare fino al gennaio 2003 il
mandato della missione per il
referendum di autodeterminazione del
popolo sahrawi (Minurso). La
risoluzione approvata ha rimandato
qualunque decisione e ha dimostrato l'
Parole magiche
«La parola magica è “pragmatismo”. E poi “realismo”,
“responsabilità”. In quindici
minuti, spesi ad illustrare cifre
e a tormentare un nuovo paio
di lenti da presbite, l’ex
ministro diessino Pierluigi
Bersani cattura la platea degli
industriali. Sale al palco in un
silenzio poco promettente.
Scende tra gli applausi»
Corriere della Sera, 10 settembre
2002
Riassumendo …
«Riassumendo. Cofferati resta
convinto che l’unica carta
vincente resta l’Ulivo (…)
Bertinotti propone la rottura
della prigione ulivista, per
costruire una “sinistra plurale”,
dove sinistra “riformista” e
sinistra d’alternativa
definiscono un’alleanza (…) E
chi ha detto che il campo
dell’alternativa non possa
aspirare alla direzione politica?
Questa sin istra plurale
discuterà su quali contenuti ci
si allea, o non ci si allea, con il
Centro. Curiosamente,
Bertinotti e Cofferati hanno
discusso molto di “politica
pura”, non avendo né l’uno né
l’altro nessuna particolare
propensione alla medesima»
Liberazione, 18 settembre 2002
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7
Operai
o classe operaia?
Nel 1980 André Gorz
pubblicava il noto
libro
Addio al
proletariato, in cui
profetizzava
esplicitamente la fine
del lavoro e del
proletariato, avviando
così un acuto dibattito
sulla realtà e sulla
attualità di questa
“ f in e” . E ra un
dibattito che non
poteva avere una
conclusione precisa e
certa, ma in cui hanno
acquistato cittadinanza
alcune
nozioni
a m b i g u e
o
francamente
pericolose come quelle
che postulano la
perdita di senso della
teoria del valore, la
sostituzione del lavoro da parte
della scienza nel processo creatore
di ricchezza, la nascita di nuovi
“para-digmi sociali” che avrebbero
al loro centro «la vigenza di una
logica sociale intersoggettiva e
interattiva, informatica, che si
collocherebbe in posizione analitica
di superiorità di fronte alla
formulazione marxiana della
centralità del lavoro e della teoria
del valore». Va da sé che da questo
quadro teorico “ast ratto”
discendono conseguenze molto
concrete e “forti” nell’universo dei
rapporti politici tra le classi sociali e
delle azioni politiche dei partiti che
in qualche modo si rifanno al
mondo del lavoro.
Sulla stessa “onda”, nel numero 0
di Cassandra (settembre 2001)
Enrico Melchionda si domanda
«per-ché gli operai non ce l'hanno
fatta a creare un sistema socio-economico alternativo al capitalismo».
Egli è convinto che sia «più
appropriato parlare di fallimento che
di sconfitta» e non crede che l'esito
sia stato determinato da cause
esogene. E tanto meno dal “tradimento” di qualcuno. Afferma che,
per capirci qualcosa, dobbiamo
guardare piuttosto «a fattori e limiti
soggettivi e oggettivi della classe
operaia. Non solo di quella
sovietica, ma della classe operaia in
quanto tale».
«L'origine e la radicalità del suo
revisionismo ideologico-culturale
(“di una parte, di gran lunga
maggioritaria, della sinistra e del
movimento operaio”), non a caso senza
precedenti, sta (...) proprio nella
coscienza disincantata del fatto che
ci troviamo di fronte a un
fallimento, prima che a una
sconfitta». Fallimento che
consisterebbe «nell'incapacità/
impossibilità di creare o perfino
immaginare un sistema economicosociale migliore del capitalismo, per
capacità di produrre ricchezza e di
soddisfare bisogni. (...) E' un rilievo
forte (...). Se vogliamo conservare
quel che di buono c'è nel marxismo,
l'opzione anticapitalista dev'essere
qualcosa di più di una scelta di
principio: una possibilità reale,
basata su una teoria scientifica. E
soprattutto basata su un vero
soggetto antagonista, com'è stato o
abbiamo immaginato che fosse la
classe operaia».
Quel che è certo per Melchionda è
che, appunto, «la classe operaia non
ce l'ha fatta (…) e oggi paga lo
scotto del fallimento con la
marginalizzazione e forse addirittura
con il rischio dell'evaporazione».
Purtroppo essa «ha dimostrato di
non essere in alcun modo la “classe
generale” profetizzata dal
marxismo, nonostante vi disponesse
di tutte le condizioni favorevoli.
Ecco perché gli interrogativi sulla
soggettività comunista di questa
classe non lasciano in fin dei conti
molto spazio all'ottimismo»1.
Come se non bastasse «le identità
etnico-nazionali che fino a pochi
anni prima sembravano superate,
meri residui atavici» hanno avuto
un’impennata, dimostrando di
essere solo sopite. «Probabilmente
qui c'è la sfida più seria e insidiosa al
progetto comunista basato sulla
lotta di classe. Se è vero, infatti, che
per gli stessi operai il richiamo della
nazione è più forte di quello di
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8
sorta di eclissi
della
classe
o p e r a i a .
Natur almente,
nessuno con un
minimo di buon
senso dubita oggi
del fatto che gli
operai esistano
ancora, ma è
sempre più arduo
affermare
che
esista una classe
operaia.
Il
problema (...) è
che non può
esistere una tale
entità senza la
coscienza
di
classe e senza un
movimento
o p e r a i o
organizzato,
insom-ma senza
una soggettività
classe, allora vuol dire che il
fondamento materiale da cui per
Marx dovrebbe nascere il soggetto
rivoluzionario è meno solido di
quanto supponessimo. (...) Rispetto
a quella di classe, l'identità etniconazionale non sembra certo
un'alternativa progressiva, consona
ai valori universalistici e illuministici
della sinistra. Eppure, è proprio
questo incubo che sembra emergere
dal collasso dell'esperienza sovietica,
dilagando - a ulteriore conferma
della sua serietà - in tutte le società
ex socialiste, quasi a mò di reazione
e supplenza all'ideologia comunista.
In realtà, la supremazia del conflitto
etnico su quello classista si era già
manifestata in altre occasioni. Il
primo shock in questo senso si era
già avuto all'epoca della prima
guerra mondiale, quando il
movimento operaio fu dilaniato dai
nazionalismi contrapposti (...) Ci
sono molti argomenti che possono
aiutarci a capire e relativizzare il
fenomeno. (...) Rimane il fatto che
oggi ci troviamo di fronte a una
politica».
Cercherò di rispondere a questi
argomenti prendendo spunto da
alcuni libri pubblicati di recente.
Il primo libro che consente di
rispondere a questa vera e propria
costellazione di problemi è Addio
al lavoro? Metamorfosi del
mondo del lavoro nell’età della
globalizzazione,
di Ricardo
Antunes, pubblicato nel 2002 dalla
Biblioteca Franco Serantini di Pisa
(pp 128, Euro 10,33). Il libro è
stato recensito con grande risalto e
interesse da Luigi Cavallaro su il
manifesto del 1° marzo 2002 e da
Aldo Meccariello su liberazione del 3
marzo 2002.
Il sociologo brasiliano rifiuta
esplicitamente la tesi della fine del
lavoro (e del proletariato), della
perdita di senso e significato del
lavoro, facendo appello a due
argomentazioni “forti”.
Innanzitutto ricordando la natura
duplice del lavoro nella presente
società e, cioè, la differenza che
passa tra il “lavoro
concreto” (quello che permettendo
la mediazione con la natura e
producendo valori d’uso consente
all’uomo di appropriarsi della
ricchezza della natura stessa,
definita da Marx l’unica fonte della
ricchezza in Critica del programma di
Gotha) e “lavoro astratto”, cioè quel
lavoro che, all’interno del ciclo
capitalistico - producendo merci produce valore, quindi denaro, quindi
capitale. Nell’ambito della
produzione capitalistica «il capitale
può dimi-nuire il lavoro vivo, non
può eliminarlo; può intensificare la
sua utilizzazione, può renderlo
precario e anche lasciarne
disoccupate parcelle immense, ma
non può estinguerlo». D’altra parte,
osserva argutamente l’A., «non
essendo consumatori, né salariati, i
robot [dell’industria] non potrebbero
partecipare al mercato. La semplice
sopravvivenza dell’economia
capitalistica sarebbe, in questo
modo, compromessa». Proprio
perché «il capitale non può
eliminare completamente il lavoro
vivo dal processo di creazione di
valori, deve aumentarne
l’utilizzazione e la produttività in modo
da intensificare le forme di estrazione di
plusvalore in tempo sempre più ridotto.
Pertanto, una cosa è avere la necessità
imperiosa di ridurre la dimensione
variabile del capitale e la conseguente
necessità di espandere la sua parte
costante. Un’altra, molto diversa, è
immaginare che eliminando il lavoro vivo,
il capitale possa continuare a riprodursi.
La riduzione della classe operaia
stabile (…), l’ampliamento del
lavoro “più intellettualizzato”
all’interno degli impianti produttivi
moderni e di punta e l’ampliamento
generalizzato delle forme del lavoro
precarizzato (…) nell’”era
dell’impresa flessibile” e della
deverticalizzazione produttiva, sono
esempi significativi della vigenza della
legge del valore».
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9
Il secondo argomento “forte” è
l’equazione posta tra lavoro
manuale e lavoro intellettuale nella
sfera della produzione. Infatti dal
momento in cui «con la
conversione del lavoro vivo in lavoro
morto (…) per lo sviluppo dei
software, la macchina informatica
passa a disimpegnare attività
proprie dell’intelligenza umana, ciò
a cui si può assistere è un processo
denominato “oggettivazione delle
attività cerebrali nella macchina”, di
trasferimento del sapere intellettuale
e cognitivo della classe lavoratrice
nella macchina informatizzata»;
questo processo «ac-centua la
trasformazione del lavoro vivo in
lavoro morto»2. Insomma c’è la
tendenza a una «crescente
articolazione tra lavoro materiale e
immateriale, nella misura in cui si
assiste, nei settori più avanzati del
mondo contemporaneo,
all’espansione del lavoro dotato di
maggiore dimensione
“intellettuale” (…) sia nelle attività
industriali più informatizzate, sia
nelle sfere comprese dal settore di
servizi o nelle comunicazioni (…).
Inoltre l’espansione del lavoro nei
servizi, nelle sfere non direttamente
produttive, ma che molte volte
disimpegnano attività articolate con il
lavoro produttivo, si mostra come
un’altra caratteristica importante
della nozione ampliata del lavoro. (…)
L’ampliamento delle forme di
lavoro immateriale diventa,
pertanto, un’altra caratteristica del
sistema di produzione». Conclude
Antunes che ciò che accade oggi «è
una maggiore interpenetrazione, tra
attività produttive e improduttive,
tra attività di fabbrica e di servizio,
tra attività lavorative e di concetto,
che si espandono nel contesto della
ristrutturazione produttiva del
capitale. Una concezione ampliata del
lavoro rende possibile intendere il
ruolo che esso esercita nella società
contemporanea (…) il che è molto
differente dal propugnare la fine del
lavoro».
Pur essendo pienamente
d’accordo sul ragionamento dell’A.,
riteniamo superflua e innecessaria la
sua “con-cezione ampliata del
lavoro”. Infatti il ragionamento
resta valido, anzi acquista vigore, se
usciamo dalle sabbie mobili della
vecchia polemica tra lavoro
produttivo e improduttivo:
dovrebbe esser chiaro a tutti che - ai
fini del Capitale - qualsiasi lavoro si
esplichi nella sfera della produzione,
dell’estrazione e/o della
realizzazione (di plus valore) è un
lavoro produttivo e i lavoratori
inseriti in questi settori sono
lavoratori produttivi a tutti gli
effetti3.
Il ragionamento prosegue, più
estesamente nel Capitolo 2, Le
metamorfosi del mondo del lavoro, in cui
Antunes osserva i processi
contraddittori che si manifestano
nel mondo del lavoro oggi: « (…) da
un lato nei paesi a capitalismo
avanzato si è verificata una
deproletarizzazione del lavoro industriale,
di fabbrica (…). In parole povere, è
calato il numero degli appartenenti
alla classe operaia industriale
tradizionale. Ma, parallelamente, si è
realizzata una palese espansione del
lavoro salariato a partire
dall’enorme ampliamento del
processo di salarizzazione nel
settore dei servizi; si è verificata una
significativa eterogeneizzazione del
lavoro, espressa anche mediante la
crescente incorporazione di un
contingente femminile nel mondo
operaio; si è vissut a una
sottoproletarizzazione intensificata,
grazie all’estensione del lavoro parttime, temporaneo, precario,
subappaltato, interinale, che
caratterizza la società duale del
capitalismo avanzato». Il risultato
brutale di queste trasformazioni è
stato «l’espansione senza precedenti
nell’era moderna della disoccupazione
strutturale, che colpisce il mondo su
scala globale. (…) c’è una
processualità contraddittoria che, da
un lato riduce la classe operaia
industriale e di fabbrica; e dall’altro,
aumenta il sottoproletariato, il
lavoro precario e la salarizzazione nel
settore dei servizi. Incorpora il
lavoro femminile ed esclude i più
giovani e i più vecchi. C’è, pertanto,
un processo di maggiore
eterogeneizzazione, complessificazione e
frammentazione
della c lasse
lavoratrice».
All’interno della tendenza alla
riduzione del numero degli operai
dell’industria vi sono poi tendenze
contrastanti. Antunes cita quelle a
una progressiva, maggiore
qualificazione di alcuni settori della
forza lavoro e - allo stesso tempo alla dequalificazione di altri gruppi
operai. Si produce così una nuova
segmentazione della classe
lavoratrice per cui possiamo
individuare «al centro del processo
produttivo (…) il gruppo di
lavoratori, in processo di
arretramento su scala mondiale, ma
che permane a tempo pieno dentro
le fabbriche, con maggior sicurezza
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10
nel lavoro e più inserito
nell’impresa». La periferia della forza
lavoro comprende, secondo l’A.,
sottogruppi differenziati in base al
livello di precarietà, flessibilità,
sostituibilità. Tutto ciò gli permette
di concludere che «la classe operaia
non sparirà tanto rapidamente e,
cosa fondamentale, che non è
possibile prospettare, neanche in un
lontano futuro, alcuna possibilità di
eliminare la classe-che-vive-di-lavoro».
Nel Capitolo 3, Dimensioni della crisi
contemporanea del sindacalismo: ostacoli e
sfide, Antunes mostra le
ripercussioni che questa
metamorfosi ha avuto sul
movimento dei lavoratori. Il primo
sintomo è la tendenza alla caduta
dei tassi di sindacalizzazione4. La
crisi dei sindacati è spiegata con
l’allargamento del fossato che divide
i lavoratori stabili da quelli precari.
Storicamente la forza dei sindacati
si è basata sui lavoratori stabili,
mentre non sono stati capaci di
coinvolgere i precari. Oggi è debole
proprio il sindacalismo verticale, erede
del fordismo, incapace di
trasformarsi in sindacalismo
orizzontalizzato e quindi di
coinvolgere l’insieme dei lavoratori,
in senso intercategoriale e
intersettoriale, dagli stabili ai precari.
Infatti «la frammentazione, la
eterogeneizzazione e la complessità
della classe-che-vive-di-lavoro pone in
questione alla radice il sindacalismo
tradizionale e rende difficile anche
l’organizzazione sindacale degli altri
segmenti che compongono la classe
lavoratrice». È vero che
parallelamente a questo processo il
sindacalismo ha riportato
importanti successi nei settori dei
salariati medi (con questo termine
l’A. fa riferimento agli impiegati sia
pubblici, che privati), «ma tale
espansione nella maggior parte dei
paesi non è stata sufficiente a
compensare, in termini di tasso di
sindacalizzazione, il declino del
sindacalismo dei lavoratori
manuali».
Un’altra conseguenza di queste
trasformazioni è stata «l’intensificazione della tendenza neocorporativa
che cerca di preservare gli interessi
della classe operaia stabile, vincolata
ai sindacati, contro i segmenti
che comprendono il lavoro
precario, interinale, part-time,
ciò che abbiamo denominato
sottoproletariato».
Si tratta di un “corporativismo
societario” sempre più
escludente e parzializzato che
si intensifica di fronte al
processo di frammentazione
dei lavoratori, anziché cercare
nuove forme per riunificarli,
che riduce l’efficacia delle
azioni di lotta o gli scioperi e
«rende ancor più difficile lo
sviluppo e il consolidamento
di una coscienza di classe dei
lavoratori, fondata su un
sentimento di appartenenza di
classe», mentre fa aumentare «il
rischio di espansione di
movimenti xenofobi,
c orpor ativi, r azzis ti e
paternalistici all’interno dello stesso
mondo del lavoro». Tutto ciò
comporta la crisi dei modelli
sindacali vigenti e almeno
tendenzialmente - il rischio di una
loro implosione (Antunes sceglie di
non occuparsi della rappresentanza
politica dei lavoratori e della sua
crisi speculare).
Assieme all’Autore possiamo,
quindi, rispondere a Melchionda
che non il “richiamo della nazione è
più forte di quello della classe”,
bensì che quel richiamo (sempre
latente anhe per l’azione cosciente
degli apparati ideologici dello Stato
e delle sue istituzioni) riemerge e
prevale dopo la crisi e la
frantumazione del movimento
operaio e delle sue istituzioni, dopo
la disarticolazione e la cooptazione
delle sue avanguardie politiche,
dopo il tracollo della sua cultura.
In conclusione Antunes fornisce
le basi teoriche elementari per
affrontare la problematica molto
ambigua della “fine del lavoro”.
Una critica va rivolta, però, all’uso
non sempre preciso di termini quali
classe operaia, proletariato e
sottoproletariato. Nonostante Antunes
coni l’espressione classe-che-vive-dilavoro 5e la usi spesso come
sinonimo di proletariato, in vari
momenti torna a fare confusione tra
i tre termini. Questa critica non è
frutto di ortodossia nominalistica,
ma nasce dall’esigenza di avviare un
lavoro di ricerca scientifica e
sperimentazione politica e sindacale
adeguata alle nuove forme di
esistenza del proletariato (che
include, ma non si identifica
esclusivamente con la classe
operaia). In questo ambito, la
confusione tra concetti quali classe
operaia e proletariato (ed altre
confusioni terminologiche)
può
essere fonte di errori e sbandamenti
a non finire, come dimostra proprio su questo argomento - la
tenace, allucinata traiettoria della
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11
cultura operaista6.
Classe operaia. Le identità:
storia e prospettiva, a cura di
Paolo Favilli e Mario Tronti
(FrancoAngeli editore, 2001, pp
391, Euro 30,99), è “una ricerca a
più voci oggi sull’identità operaia,
sulla sua storia, sulle sue
prospettive” come recita sulla quarta
di copertina la veloce presentazione
di questo libro che riunisce gli atti
dell’omonimo convegno tenuto a
Piombino nel 2000. Si tratta di
contributi molto differenti per
argomento, ispirazione e valore, che
spaziano dal passato al futuro e il
cui filo conduttore è quello della
“identità”.
Qui il lettore potrà leggere il saggio
originale che ha mosso le
osservazioni di Melchionda
sull’URSS e sulle “possibilità” della
classe operaia. Si tratta di “Perché
non ce l’hanno fatta? Riflettendo
sugli operai come classe” di Aris
Accornero,
il quale scrive:
«l’esperienza storica ci dice che in
Occidente gli operai non ce l’hanno
fatta a diventare ruling class, a
essere classe di governo, e che là
dov’erano riusciti a esprimere una
classe dirigente, come nell’ex
Unio-ne Sovietica, tutto è poi
crollato miseramente». Si tratta di
un lungo excursus storico sugli
esiti politici delle battaglie della
classe operaia, animato da uno
sprezzante pregiudizio
antioperaio e da un freddo astio
per tutto ciò che il movimento
operaio e sindacale hanno fatto in
quasi un secolo di lotte, tanto in
Occidente quanto in URSS.
Partendo dalla constatazione
(inconte-stabile) delle sconfitte
subite dalla classe operaia,
Accornero indaga con toni
classisti (ma alla rovescia!) le
cause della sconfitta e giunge alla
condanna inappellabile di
qualsiasi ipotesi di protesta
operaia: «in Occidente il Movimento
operaio si è trovato insomma, per
sua propria scelta, a oscillare fra una
contro-cultura tagliata fuori dal
circuito e una subcultura racchiusa
in sé stessa». Anche se sgradevole, la
lettura di questo saggio è
consigliabile perché rappresenta una
raccolta di motivi e idee antioperaie
che oggi circolano molto in
ambienti socialmente borghesi e
politicamente “di sinistra”.
Molto più utili per la riflessione
che qui proponiamo sono i due
saggi di uno dei curatori del volume,
Paolo Favilli. Nel primo, Gli storici
italiani e le identità di classe: appunti sulle
fasi ideologiche e sulle fasi
scientifiche, si può cogliere il
processo di disarticolazione e
tracollo delle sue avanguardie
politiche e culturali del movimento
operaio.
Il saggio si apre con la
constatazione che «Non esiste più la
classe operaia (…). Ci sono soltanto
gli operai. Un’affermazione di senso
comune che può essere considera-ta
come il corollario di un’altra più
generale e radicale, frutto della
“rivoluzione liberale” che ha
caratterizzato l’ultimo ventennio:
non esiste la società, ci sono soltanto
gli individui».
L’A. sostiene che nell’ambito degli
studi storici è passata
definitivamente la tesi secondo cui
tutta la vecchia storiografia del
movimento operaio era totalmente
ancillare alla politica, al punto che si
starebbe consolidando una
periodizzazione della storia del
movimento operaio articolata
sostanzialmente in due fasi: «la
prima, considerata a netta
prevalenza ideologica produttrice
di storia “etico-politica”, la
seconda considerata a netta
prevalenza scientifica, produttrice
di storia sociale. Il punto di svolta
sarebbe da collocarsi agli inizi
degli anni ottanta, quando (…)
gran parte dei giovani storici
italiani si sono addormentati
storici politici e si sono svegliati
storici sociali».
Favillli ripercorre tutte le tappe
della storiografia del movimento
operaio (che, lo ricordiamo, in
Italia a causa della dittatura
fascista nacque solo nel secondo
dopoguerra e dovette «ricostruire
dal nulla» una tradizione di studi,
gli strumenti e le fonti) e le
problematiche che sin dall’inizio
essa affrontò: il rapporto con le
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12
scienze sociali, «il primato
della politica, e in particolare
dell’ideologia, sulle logiche
interne delle discipline
storico-sociali», il primato
tributato alla tematica
dell’”organizzazione” e della
“coscienza di classe”. L’A.
riporta i termini delle
discussioni avvenute negli
anni ’50 e ’60 fra gli storici
del movimento operaio,
contestualizza quel dibattito
e ripercorre l’esperienza di
alcune riviste famose quali
Rivista Storica del Socialismo,
Movimento Operaio, Quaderni
Rossi, Classe, Studi Storici. Nel
suo excursus Favilli tratta
anche gli storici di matrice
operaista i quali, con la loro
determinazione a fare «una
storiografia che realizzasse
compiutamente l’unione tra
pensiero storico e pensare
politico, tra ricerca e operare
militante» portarono la
storiografia e la riflessione
sul movimento operaio sul
pericoloso piano inclinato
della mitologia8.
Il secondo saggio, L’«invenzione»
della classe operaia: Marx e il «partito
come classe», è altrettanto interessante
perché, ricostruendo il percorso
seguito dalla riflessione di Marx ed
Engels sulla classe operaia, ci da
qualche indicazione (sia pure di
larga massima) sulla strada che
potrebbe seguire un partito oggi, se
volesse compiere una conversione
dall’idea religiosa e dogmatica di
“classe operaia” a una idea empirica
e concreta.
All’interno di una riflessione sulla
«difficile combinazione tra
“volontarismo” e “determinismo”
che caratterizza tanta parte
dell’opera marxiana, l’A. descrive
l’evoluzione del pensiero di Marx ed
Engels sulla classe operaia e i loro
rapporti politici con quella classe
operaia che, sebbene già
compiutamente costituita in
Inghilterra, era ancora in piena
evoluzione nel resto del continente
europeo e che essi conobbero in
differenti momenti storici, nel corso
del loro esilio.
«La “classe operaia” appare per la
prima volta, nel 1844, nell’opera di
Marx come categoria filosofica e
come momen to desunto
dall’esperienza della rivoluzione
francese. Categoria filosofica (…).
Filosofico il linguaggio, filosofici i
presupposti. (…) Nello stesso
tempo (…) si tratta di una classe
empiricamente e storicamente
rilevabile. Il modello è quello che
Seyès aveva applicato alla funzione
del terzo stato (…) Negli anni
immediatamente seguenti la
riflessione di Marx va
nella direzione di
rendere sempre più
concreta,
più
empiricamente
verificabile, la sua
concezione della classe
operaia, del suo ruolo
nello sviluppo storico.
(…). Il processo di
concretizzazione risulta
(…) da uno slittamento
progressivo delle
categorie filosofiche in
categorie economiche e
poi, soprattutto, nella
lettura di quest’ultime
come espressione di
rapporti sociali. La
tendenza è quella ad
una attenzione sempre
più feconda per il
lavoro degli uomini
associati come fatto
empirico, con tutte le
sue determinazioni.
Tendenza ad una
analisi del lavoro
associato non regolata
da categorie filosofiche,
neppure quelle più
“concretamente”
antropologiche, ma che abbisogna
invece di indagini empiriche e di
costruzioni teoriche che su tale
empirica dimensione poggino le
basi. In verità durante quegli anni
Marx non si dedicò principalmente a
quell’indagine empirica (…) che
aveva giudicato essenziale.
Attraverso il confronto con la
tradizione filosofica tedesca (Ideologia
tedesca), attraverso il confronto con
Proudhon (Miseria della filosofia),
prese piuttosto forma, si consolidò
(…) la cornice teorica generale in
cui avrebbe potuto essere inserita
un’analisi sociologica».
Come si vede non c’è molto da
aggiungere a questo itinerario di
individuazione della classe operaia
in Marx ed Engels. Purtroppo i due
non arrivarono ad una teoria
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organica delle classi (e di quella
operaia in particolare) e la riflessione
posteriore di altri marxisti (anche di
valore), pur abbondante e ricca, non
ha dato luogo a una sintesi di grande
valore teorico e politico.
Nel prosieguo del saggio l’A. tratta
molti altri temi importanti ai fini di
una discussione scientifica sulla
classe operaia. Cominciamo dal tema
dell’identità operaia: le Trade Unions
che nella seconda metà del XIX
Secolo crescevano e si
rimodellavano nel lungo periodo di
crescita economica apertosi con
l’inizio degli anni ‘50 «si trovarono di
fatto ad essere fortemente
influenzate dal sistema di idee e
valori prevalenti nella classe media.
Nello stesso tempo, però, erano
portatrici di una identità lavoratrice,
di una identità operaia che le
rendeva irriducibili a quella stessa
classe media».
La classe operaia inglese, pur non
essendo affatto politicamente
radicale (anzi era accusata – e
giustamente - di essere una
“aristocrazia operaia”) praticava uno
scontro duro con il padronato e in
funzione di questo scontro «era
necessario creare e consolidare
strumenti organizzativi adeguati e
a n c h e a d e g u a t o s p i r i t o di
antagonismo. Coltivare insomma
quel particolare “senso di classe”
senza il quale non sarebbe stato
possibile successivamente nessuna
“coscienza di classe”».
Se accettiamo questo punto di
vista, certe filippiche contro la classe
operaia che non sarebbe più “quella
di una volta” si rivelano per delle
critiche surreali provenienti da
persone che non riescono a valutare
in tutta la sua importanza la
distruzione della cultura e
dell’identità operaia verificatasi negli
ultimi decenni. Lo stesso possiamo
dire con riferimento a un altro tema
del saggio di Favilli: il ruolo che il
rapporto “resistenza/azione
politica” aveva nell’elaborazione di
Marx e nel suo lavoro politico
dentro la Prima Internazionale.
«Resistenza e azione politica erano
i momenti centrali dell’elaborazione
marxiana concernente
l’organizzazione operaia e il filo
rosso che percorse tutta l’esperienza
dell’Internazionale. Naturalmente la
prospettiva generale in cui Marx
inseriva momenti di elaborazione ed
indicazioni operative sul movimento
operaio organizzato non
coincidevano quasi per niente con
quelle largamente prevalenti
nell’Unionismo inglese.
Ma le logiche di una resistenza e di
una iniziativa politica tese a allargare
gli spazi di operatività per le Trade
Unions finivano inevitabilmente per
allargare lo stesso orizzonte di
riferimento dell’organizzazione
sindacale. Il conflitto sociale
nell’Inghilterra vittoriana connetteva
stabilmente sia la resistenza che
l’iniziativa politica». Come afferma
Marx nella lettera a Lafargue del 19
aprile 1870 «ogni movimento di
classe in quanto movimento di classe
è ed è sempre stato necessariamente
un movimento politico».
Il terzo tema è quello del rapporto
sette/partito/classe operaia. Qui
l’A., con un eccesso di sinteticità che
non giova alla comprensione del suo
pensiero, spezza una lancia a favore
della teoria del “partito come
classe”, cioè di un «modello di
intervento intellettuale
completamente interno al soggetto
sociale». Subito dopo sostiene che
«la crisi del soggetto sociale, della
classe generale marxiana, non ci
libera dall’esigenza, ancora tutta
marxiana, di ancorare qualsiasi
progetto politico “alto” all’interno
dei processi reali di trasformazione
in atto. (…) Non ci libera altresì da
un’altra consapevolezza marxiana,
quella per cui, comunque, la
creazione di un soggetto sociale, o di
un tessuto unificante tra diversi
soggetti sociali, è anche
un’operazione culturale di lungo
periodo».
Questa citazione, però, è in
contrasto con quanto lo stesso
Favilli sostiene a pag. 181, laddove
afferma «Una concezione del partito
nel quale risulti fondamentale la
funzione di un’elite non coincidente
necessariamente con la classe, ma
che abbia maturato la “coscienza”
degli interessi generali della classe e
la “scienza” del “movimento reale” è
(…) tipica di un periodo
contrassegnato o da rivoluzioni in
atto o dalla speranza di una rapida
ripresa del ciclo rivoluzionario e
insieme dalla presenza di una “massa
di lavoratori” non ancora nelle
condizioni di trasformarsi in
“classe”». E infatti, che cos’è una
“operazione culturale di lungo
periodo”, se non un partito che, per
forza di cose, non può coincidere
con tutta la classe, né essere
composto soltanto da elementi della
classe?
Favilli conclude invitandoci a
pensare radicalmente, ma con
realismo, perché un mutamento di
ciclo non è cosa marginale che
consenta solo deboli aggiustamenti
analitici. Esso «può comportare,
come in questo caso, una
ridislocazione complessiva della
maggior parte dei fattori sociali. Noi
non sappiamo che cosa verrà dopo,
se un altro ciclo del tutto interno alle
dinamiche dell’accumulazione
capitalistica, o un’economia-società
postcapitalistica dalle caratteristiche
ancora del tutto non configurabili.
Non necessariamente un’economia e
una società migliori».
E qu i, purtroppo, Favilli
materializza un incubo ricorrente.
Nonostante le speranze, che ormai
vanno al di là di qualsiasi ragionevole
previsione, sempre più spesso viene
in mente quell’assioma della
dialettica per cui «oltre un certo
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Dibattito
Potere politico
e pianificazione
nell’URSS
L’URSS e – in minor misura – i
paesi del “socialismo reale” sono
stati oggetto di numerosissimi studi
e analisi che ne hanno
accompagnato l’esistenza già
all’indomani della rivoluzione
d’Ottobre, sino al crollo. In
proporzione, le pubblicazioni
militanti sull’argomento nell’ultimo
decennio sono state di gran lunga
minori, nonostante l’apertura degli
archivi e la desecretazione di decine
e decine di migliaia di documenti.
L’URSS ha continuato ad essere
oggetto del lavoro di studiosi
professionisti, in particolare storici;
ma, salvo un qualche interesse nei
primissimi anni ’90, scompare
d all’ o ri z z o n t e d e l l a r icerca
militante – con alcune pregevoli,
rare eccezioni - quella che era stata
un tempo materia di appassionate
contese ideologico-po-litiche, che
avevano declinato tutta la gamma di
possibili interpretazioni sulla “natura
sociale”, o, tout court, sulla natura
della società – delle società – di tipo
sovietico: era il socialismo realizzato
nelle forme e modi che la storia
aveva dato? era capitalismo di Stato,
o di partito? era la rivoluzione
tradita da una casta – o classe? – di
burocrati dagli interessi separati e/o
contrapposti a quelli del proletariato
che dichiaravano di rappresentare?
era un ibrido destinato a non
sopravvivere e impossibilitato a
riprodursi? era un mammut
sopravvissuto e spaesato nei tempi
della rivoluzione hi-tech? era l’inferno
del totalitarismo? una versione
moderna del dispotismo orientale?
era una parassitaria e stagnante
forma di compromesso regressivo
tra dominanti e dominati, tra manager
aziendali e maestranze operaie? Era,
ad onta dell’apparente immobilismo
e staticità degli anni della “stagnazione” brezneviana, una società
instabile, intimamente
contraddittoria, in cui confliggevano
elementi di capitalismo ed elementi
di socialismo?
La questione di cosa fosse stato
effettivamente partorito dalla
rivoluzione d’Ottobre e di come la
società postrivoluzionaria si fosse
evoluta – o involuta? – rispetto agli
assunti originari della rivoluzione, al
progetto, tratteggiato, certo, a grandi
linee, ma linee sufficientemente
chiare, della società dei produttori
associati, la società comunista, è
stata parte integrante del
movimento comunista del ‘900,
tanto nella sua componente
“ortodossa”, che ha assunto l’URSS
come modello da imitare o,
comunque, quale punto di
riferimento essenziale per qualsiasi
progetto di trasformazione sociale
in senso socialista, quanto nella sua
componente “eretica”, che l’ha
assunta come modello negativo da
rigettare, come esempio classico di
tradimento e involuzione della
rivoluzione (trockismo), di
“ r e s t a u r a - z i o n e
capitalistica” (maoismo), o della più
elevata e al contempo più stagnante
forma di capitalismo monopolistico
di Stato che sia apparsa nella storia
(bordighismo). La demolizione
dell’URSS era la ragion d’essere
degli eretici, quanto la sua difesa lo
era degli ortodossi. Ma corposi
lavori sull’URSS e i paesi socialisti
sono stati prodotti anche
dall’avversario di classe: si trattava di
mostrare al mondo quanto violento,
criminale, dispotico e inefficiente
fosse il comunismo.
Ciò che fa problema non è tanto la
cristallizzazione per diversi decenni
della polemica ideologico-politica condotta in alcuni casi ad alto
livello, in altri con rozzezza e uso
improprio e meccanico delle
categorie marxiane - degli
“ortodossi” e degli “eretici” su cosa
fosse veramente e dove andasse
l’URSS; è comprensibile (anche se
non giustificabile), sulla base della
ragione stessa di esistenza di
“ortodossi” ed “eretici”, il fatto che
l’analisi della società sovietica si
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piegasse ad un fine
immediatamente
e
strumentalmente politico.
Ciò che fa problema è che
dopo il crollo dell’URSS la
questione sia stata
semplicemente
accantonata, rimossa,
proprio da quanti
dichiaravano di voler
risollevare le bandiere
ammainate
del
comunismo,
e
“rifondarlo”. Non affronto in questa sede questo
problema – il perché di
questa rimozione (che
Costanzo Preve in
interventi e saggi
precedenti ha posto con
una radicalità che avrebbe
meritato maggiore
a t t e n z i o n e ,
indipendentemente dal
fatto che si accolgano o
meno le sue conclusioni).
Ma qualsiasi discorso
che guardi alla prospettiva
di una società comunista –
o, anche solo a quella di
una
società
non
capitalistica, e superiore a
quella capitalistica (l’indefinito
“altro mondo possibile” dei noglobal) - non può prescindere dal
fare seriamente i conti con
l’esperienza sovietica,
indipendentemen-te dal giudizio –
anche il più totalitariamente
negativo – che su di essa si sia
giunti a formulare. Qualsivoglia
progetto politico di trasformazione
sociale – che non limiti, quindi, la
prospettiva politica alla battaglia
quotidiana, giusta e necessaria, ma
non sufficiente, della opposizione e
della resistenza – non può illudersi
di ripartire da un incontaminato
grado zero, in cui tutta l’esperienza
del comunismo del ‘900 sia
annullata e vanificata. Si può
discutere sugli errori, le involuzioni,
o anche le aberrazioni di
quell’esperienza, non la si può
rimuovere.
Perché essa è stata il primo
tentativo significativo per durata ed
estensione – diversamente dalla
Comune di Parigi o di altre meno
rilevanti esperienze di piccole
comunità autogestite – di
trasformazione rivoluzionaria
consapevole dei rapporti sociali
esistenti; il primo tentativo di lunga
durata di applicare le indicazioni
che i giovani rivoluzionari Marx ed
Engels davano nel II capitolo del
Manifesto del partito comunista: per la
posizione subalterna che il
proletariato occupa nella società, la
trasformazione dei rapporti sociali
non può intervenire in misura
significativa prima della conquista
del potere politico, come avvenne
con la borghesia nella
F r a n c i a
prerivoluzionaria, ma
solo
d o p o , con
l’adozione, da parte del
proletariato al potere
che esercita la sua
dittatura di classe, di
misure che, in un
processo di transizione,
portino
alla
trasformazione della
società in senso
comunista.
La
rivoluzione sociale del
proletariato, a differenza
di quella borghese –
assunta, e a volte
assolutizzata,
a
paradigma nell’analisi,
nella propaganda e nella
polemica comunista del
‘900 (si pensi alle
categorie
di
bonapartismo
e
Termidoro; agli studi
degli storici marxisti
sulla transizione dal
feudalesimo
al
capitalismo; e alle
analogie suggerite dallo
stesso Marx) – non può
non essere prima di tutto (proprio
nel senso letteralmente temporale
di questo “prima”) politica: non può
realizzarsi che attraverso un uso
sapiente delle leve del potere
statale. Il successo di questa
rivoluzione dipende dal-la sfera
politica non solo prima della
conquista del potere politico, ma,
soprattutto, dopo.
Quindi, la questione della
direzione politica, del modo in cui
funziona il meccanismo di
elaborazione, assunzione e messa in
atto delle decisioni politiche,
diviene essenziale. Come essenziale
è il modo in cui interviene la
formazione politica, o, più
ampiamente, la formazione
culturale e morale dei quadri
dirigenti e delle masse. Il passaggio
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al comunismo non potrà mai essere
meccanico o automatico, per il
concetto stesso di comunismo, che
implica proprietà collettiva dei
mezzi di produzione, e quindi,
capacità e volontà dei soggetti di
esserne effettivamente proprietari
c o l l e t t i v i , c o n m e c c a n ismi
decisionali e di controllo sul modo
in cui si dispone della proprietà
comune, tali da consentirne
effettivamente l’esercizio (meccanismo difficilissimo, se solo pensiamo
a come non funzionano oggi la gran
parte delle cooperative qui da noi, o
più banalmente un condominio...).
Il ruolo della politica è di gran lunga
più importante nel comunismo che
non nel capitalismo, che implica,
certo, l’esistenza di uno Stato e di
un diritto borghese di proprietà, ma
non dipende dalla politica dello
Stato, tanto che ha funzionato
altrettanto bene sotto regimi
parlamentari che in assenza di
questi. Per questo ruolo
determinante della politica, il
comunismo, oltre che un nuovo
modo di produzione, non può che
essere anche una nuova civiltà,
caratterizzata, come scriveva
Gramsci nei Quaderni, da un
progresso intellettuale di massa, da
una qualità umana elevata –
intellettuale e morale – non di
ristrette élites dirigenti, ma di tutti gli
individui che compongono la
società. Cosa molto più facile a dirsi
che a farsi. E tanto difficile a farsi
anche oggi, nella misura in cui il
capitalismo mondializzato tende a
conformare individui culturalmente
passivi e subalterni, nonostante il
maggior tempo libero dal lavoro
necessario (tempo che – nelle
condizioni del capitalismo attuale - è
di gran lunga minore delle
potenzialità che la rivoluzione
tecnologica consentirebbe).
Indagare materialisticamente sui
processi di formazione culturale e
politica dei comunisti russi, su come
abbia effettivamente funzionato (o
non abbia funzion ato) il
meccanismo di assunzione e messa
in atto delle decisioni politiche, su
quale fosse il retroterra culturale che
ha portato a delineare un
determinato modello di economia
pianificata (sce-gliendo il piano
“teleologico”, piuttosto che quello
“genetico”1) e una determinata
concezione dello sviluppo
economico (grande industria ed
economia di scala) mi sembra
prioritario se si vuole riprendere un
discorso militante sull’esperienza
sovietica e del “socia-lismo reale”.
Sui problemi della pianificazione
in particolare, bisognerebbe
ritornare con grande attenzione.
Nella sua fase iniziale, la
pianificazione sovietica –
nonostante tutti i limiti e le
contraddizioni che la
caratterizzarono – colse comunque
successi significativi e non credo
che possa ridursi nella gabbia
semplificatrice della
industrializzazione dall’alto. Fu ben
altro, nel suo tentativo embrionale
di realizzare una produzione
“cosciente e secondo un piano”,
sottratta all’anarchia della
concorrenza capitalistica.
Nell’attuazione della pianificazione
dell’intera economia del paese (e
non solo di una singola fabbrica o di
un singolo settore industriale) i
comunisti russi si muovevano su un
terreno affatto nuovo e inesplorato,
privi di ogni riferimento o modello
nei classici del ma rxismo.
Quell’esperienza andrebbe studiata e
ristudiata attentamente da parte di
chi si propone un superamento del
capitalismo. Altre esperienze
(piccole comunità autogestite,
“bilanci partecipativi”, e tutto
quanto è diventato di moda tra i no
global) appaiono ben poca cosa a
fronte della pianificazione sovietica
e degli altri paesi del “socialismo
reale”.
E’ su questi due grandissimi nodi
intimamente interconnessi nel
Giustizia
e girotondi
Lo storico Paul Ginsborg sostiene
che i girotondi esprimono il punto di
vista del "ceto medio riflessivo":
spero che sia così, e che quindi un
invito a un supplemento di
riflessione non sia accolto con
fastidio. La mia impressione, in
realtà, è che in questo "movimento",
certamente animato dalle migliori
intenzioni, ci siano poca chiarezza di
idee e poco spi rito critico. Salutato
come segno di risveglio della "società
civile", come protesta della parte più
colta e illuminata dell'elettorato
ulivista contro i politici di
professione, in realtà non fa che
ribadire le posizioni del ceto politico
all'opposizione, proprio quelle più
connotate come manovre di
corridoio o furberie elettoralistiche,
chiedendo in pratica che si faccia più
forte, con maggiore determinazione,
quello che si sta già facendo.
Il movimento dei girotondi
ribadisce infatti, in primo luogo,
un'interpretazione assai riduttiva del
centrodestra, liquidandolo come
un'anomala vicenda di interessi privati
che hanno preso in ostaggio la cosa
pubblica. Se questo è vero, allora
l'eliminazione del centro destra è
solo una faccenda giudiziaria, e da
questo consegue poi che la questione
della giustizia rappresenta l'oggetto
della battaglia politica fondamentale.
Questo piccolo teorema rappresenta,
mi pare, il vero cuore delle
argomentazioni girotondine, al quale
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naturalmente si aggiungono meglio, si giustappongono - altre
variegate tematiche in ordine sparso,
a seconda del momento e dei
partecipanti.
Personalmente ho molti dubbi
sulla premessa del teorema.
Berlusconi farabutto che va al
governo per sistemare i propri affari
privati è una caricatura buona per la
campagna elettorale, ma non spiega
certo un successo del centrodestra
così pieno e così condiviso nel resto
d'Europa, per cui sarebbe forse l'ora
di mettere da parte le barzellette e di
tentare un'analisi più seria delle
condizioni economiche e sociali che
stanno dietro questo fenomeno. Ma
non è tanto su questo punto che
voglio qui soffermarmi, quanto sulle
conseguenze che da questa
premessa vengono tratte.
L'idea che debba essere il potere
giudiziario a eliminare una classe
dirigente è chiaramente l'eredità
della mitica stagione di Mani Pulite:
un pugno di solerti magistrati regalò
allora alla sinistra quel sogno di
"non morire democristiani" che la
politica non riusciva a realizzare, e
molti certamente sperano che il
sogno possa continuare. Per la
verità, oggi il ceto politico ulivista ha
molto ridimensionato il sogno:
senza arrivare a sperare che
Berlusconi finisca in galera, si
accontenrebbe che la segnalazione
dell'ennesimo interesse privato, o
anche semplicemente dell'ennesima
gaffe o mancanza di bon ton, facesse
abbastanza scalpore da costringere
gli altri partiti al governo a chiederne
le dimissioni, aprendo così la
possibilità di "ribaltoni", assai più
auspicabili di una nuova prova
elettorale. Bassa cucina politica,
direi: stupisce che essa possa
giovarsi dell'appoggio di un "ceto
medio riflessivo", riesca a usare
come cassa di risonanza personaggi
prestigiosi, diventi il senso comune
di quella che si vuole la parte
migliore dell'elettorato di sinistra.
L'unica spiegazione è che su
questo elettorato faccia ancora presa
l'equazione Berlusconi-ugualefascismo, anch'essa a mio avviso
molto forzata ed elettoralistica
(perfetto pendent dell'altrettanto poco
credibile D'Alema-ugualecomunismo agitato dalle destre):
ma, se ci si crede, si può pensare che
il pericolo sia tanto grande da
giustificare qualsiasi mezzo per
sventarlo, anche un mezzo che
rischia di sacrificare gli equilibri tra
poteri previsti dalla nostra
Costituzione.
Delegare la politica alla
magistratura comporta infatti questo
rischio, non è in fondo molto
diverso dal delegare la politica ai
militari. L'azione penale non può e
non deve diventare la prosecuzione
della politica con altri mezzi.
Piuttosto - e in questo il disagio
espresso dai girotondi è
condivisibile, anche se rischia di
incanalarsi in direzioni sbagliate vediamo di tornare a una politica
degna di questo nome, capace di
coinvolgere il paese anziché esaurirsi
nei balletti istituzionali e nelle
manovre della nomenklatura.
Ma è soprattutto sulla centralità
data alla questione della giustizia,
conseguente ai due punti precedenti,
che vorrei portare la riflessione. E'
abbastanza paradossale sentire una
piazza che invoca il "giudice
naturale" e condanna la "legittima
suspicione", per citare solo i più noti
istituti processuali chiamati in causa
di questi tempi. Certo, è logico
aspettarsi che il "ceto medio
riflessivo" abbia le capacità di
trovare slogan più astrusi del "pane,
lavoro e pace" del vecchio
proletariato o del "panem et circenses"
dell'antica plebaglia. Tuttavia non
sono affatto sicura che le idee sui
principi invocati siano sempre
chiare: mi darete della spocchiosa,
girotondini, ma mettetevi una mano
sulla coscienza. La mia impressione
è che qualsiasi provvedimento
dell'attuale governo in materia di
giustizia venga automaticamente
interpretato come "salva
Berlusconi" e con ciò rifiutato a
priori, senza - appunto - un
supplemento di riflessione. Il che ha
almeno due controindicazioni. La
prima, è che la sinistra impedisce
qualsiasi riforma del sistema penale,
cosa di cui ci sarebbe invece un
bisogno estremo. La seconda, è che
in tal modo finisce spesso per
sposare cause antigarantiste, in
quanto tali antidemocratiche, per
schierarsi in generale contro
un'evoluzione del processo penale
in senso accusatorio anziché
inquisitorio e per sostenere, dunque,
una posizione conservatrice.
In Italia il processo penale è
passato attraverso terribili temperie,
negli ultimi vent'anni. Ha subito
prima le emergenze degli anni di
piombo, poi quelle della
recrudescenza mafiosa, che ne
hanno scardinato il sistema
probatorio a colpi di leggi speciali
sui pentiti. Ha conosciuto un
coraggioso tentativo di riforma in
senso accusatorio, credo in parte
motivato proprio dagli eccessi
inquisitori della legislazione
Un crumiro
«Sul prossimo sciopero
generale di ottobre non posso
non notare che la situazione
oggi è obiettivamente cambiata
rispetto al 12 giugno quando
fu indetto. A mio avviso è
possibile un’iniziativa molto
più larga e molto più mirata,
mentre i contenuti di questo
sciopero sono ancora piuttosto
legati all’articolo 18»
Francesco Rutelli,
Corriere della Sera, 22 settembre
2002
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d'emergenza, che tuttavia ha avuto
la mala ventura di cadere proprio a
ridosso di Mani Pulite, della guerra
tra potere giudiziario ed esecutivo
combattuta a colpi di avvisi di
garanzia esplosivi e di decreti
scellerati: il clima meno adatto per
far prendere piede a una riforma.
Sconta gravissime disfunzioni
dovute a carenze di organico, ma
anche a comportamenti corporativi
di avvocati e magistrati. E'
diventato un sistema che presenta
contraddizioni abnormi - ad
esempio, dà garanzie minime agli
imputati e massime ai condannati e soprattutto uno strumento che
non funziona per l'ordinaria
amministrazione - non foss'altro che
per i tempi lunghissimi - privando i
cittadini dei diritti elementari di
giustizia e di difesa. Avrebbe
bisogno di essere ripensato in modo
sostanziale e coraggioso, ma questo
si può fare soltanto assumendo il
punto di vista ampio delle funzioni
generali del processo e del sistema
penale rispetto ai bisogni del paese,
non quello ristretto delle vicende
giudiziarie di Berlusconi e Previti e
del loro impatto sugli equilibri
politici.
Facciamo un esempio. Qualunque
proposta di ritocco della figura e del
ruolo del pubblico ministero - ad
esempio, la separazione delle
carriere - viene interpretata dalla
sinistra come una misura punitiva
nei confronti dei procuratori
milanesi e bocciata con la
motivazione che "così si attenta
all'indipendenza della magistratura".
Ora, anche se può essere credibile
che il governo Berlusconi remi
contro il processo Berlusconi,
questo non significa che la
separazione delle carriere di chi
svolge la funzione di pubblica
accusa e chi svolge la funzione
giudicante non possa essere una
scelta in generale condivisibile. Va
infatti ricordato, in primo luogo,
che l'indipendenza che veramente
conta è quella del giudice, e che essa
verrebbe semmai rafforzata da tale
scelta: non essere più "colleghi" condividendo orari, uffici, carriera di chi rappresenta l'accusa - vale a
dire una parte del processo penale rafforzerebbe infatti la posizione
super partes della magistratura
giudicante. In secondo luogo, non è
affatto detto che una carriera
separata rispetto a quella dei giudici
sia lesiva dell'indipendenza dei
pubblici ministeri - a meno che non
si scelga di farli dipendere
dall'esecutivo, come avviene in
Francia: ma mi sembra che nessuna
proposta in questo senso sia mai
stata avanzata.
Naturalmente auspicare la
separazione delle carriere perché va
nella direzione di un maggiore
equilibrio tra accusa e difesa,
sottraendo alla pubblica accusa il
vantaggio di un rapporto giocoforza
privilegiato con i giudici, ha senso
nella misura in cui si ritiene un
processo di tipo accusatorio
preferibile a un processo di tipo
inquisitorio. Personalmente sono di
questo avviso, perché ritengo i
diritti della difesa un'irrinunciabile
garanzia di libertà e di democrazia.
Ci sono certamente molte ragioni,
ideologiche e pratiche, per pensarla
diversamente. Dal punto di vista
pratico si può sostenere, per
esempio, che solo un paese con una
criminalità "nor -male" può
permettersi un sistema accusatorio,
non l'Italia che deve affrontare il
problema eccezionale di una
vastissima e consolidata criminalità
organizzata. Dal punto di vista
ideologico, senza dubbio l'anima
autenticamente fascista della destra
e quella autenticamente stalinista
della sinistra simpatizzano per
metodi inquisitori.
Ma il "ceto medio riflessivo" come
la pensa? Forse dovrebbe riflettere
di più, perché bocciando ogni
misura che va nella direzione delle
garanzie della difesa, interpretate
Lo stupore
del
“correntone”
«Lunedì sera, subito dopo la
direzione diessina, si è riunito
l’esecutivo del correntone. (…)
Quelli che, alla vigilia, avevano
insistito per puntare su Piero
Fassino, per tentare di incunearsi tra
lui e D’Alema, hanno riconosciuto
per primi di aver completamente
sbagliato previsione. (…) Lo
stupore del correntone (…) è del
tutto giustificato da una virata tanto
rapida quanto radicale. (…) Resta da
chiarire come abbia potuto prodursi
una così repentina e completa
inversione di rotta. I motivi sono
fondamentalmente tre. Il primo,
probabilmente quello determinante,
è la rottura tra governo Berlusconi e
Confindustria, che ha riaperto di
fronte agli occhi dei leader diessini
uno scenario assai rimpianto, che
credevano precluso: l’alleanza cioè
univocamente come garanzie per
Berlusconi, rischia di sostenere una
posizione conservatrice.
I diritti della difesa non sono solo
diritti di Berlusconi: sono anche di
Sofri, dei no global accusati di
violenza, dei ragazzini che
spacciano, delle puttane e, sì, anche
dei ladri e degli assassini. Il
garantismo funziona così. Lo "Stato
di diritto" funziona così. E non si
dica che solo i "ricchi" possono
giovarsene. Le acrobazie
procedurali all'esclusiva portata
degli avvocati più costosi servono
quando le garanzie non ci sono,
non quando ci sono per tutti.
Certamente, fin che ci sono ricchi e
poveri rimane un problema irrisolto
di diseguaglianza sostanziale: ma non si
può usare questo argomento per
arretrare rispetto alle conquiste di
uguaglianza formale.
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libri
Diego Giachetti,
Anni
Sessanta
comincia la danza.
Giovani, capelloni,
studenti
ed
estremisti
negli
anni
della
c o n t e s t a z i o -n e ,
Biblioteca Fran co
Serantini,
Pisa,
2002, pp 240, Euro
18,00
La tesi di fondo di questo
libro è che sia esistita una
stretta correlazione fra la
musica beat, rock e i
fenomeni di rivolta giovanile
che si manifestarono nel
mondo anglosassone, in
Francia, in Italia negli anni
Sessanta e Settanta. In effetti,
oggi che la distanza temporale
è maggiore, ci è più facile
vedere la contiguità tra il
movimento del '68 italiano e
quello dei "figli dei fiori", i
loro legami si rivelano più
stretti e articolati di quanto
non apparissero al momento.
E' riscontrabile cioè una
stretta parentela tra la rivolta
di matrice politica e di classe e
quella di tipo esistenziale e
generazionale. Quest'ultima
preparò e precorse nella
prima metà degli anni
Sessanta l'esplosione delle
lotte studentesche e operaie
del biennio 1968-'69 (ad
esempio, "Il Cantagiro", che
scendeva nelle strade creando
scompiglio, ne fu un
preludio).
Seguendo una precisa linea
interpretativa, Giachetti
individua una continuità tra i
"ragazzi dalla magliette a
strisce" (Genova, 1960), i
"teddy boys" (Torino, 1962),
gli studenti di Valle Giulia
(Roma, 1968). L'incontro tra i
due principali processi della
radicalizzazione giovanile - il
travaglio dell'ideologia politica
e
l ' e s p e r i e n z a
dell'anticonformismo avvenne in particolare
durante le manifestazioni
contro la guerra in Vietnam,
all'insegna della lotta
internazionalista.
Interessante è, anche, l'analisi
della composizione della
classe protagonista dell'"autunno caldo" del 1969.
Determinante,
in
quell'occasione, fu il ruolo
svolto dai giovani operai
dequalificati meridionali. La
loro assunzione in massa era
stata sia la conseguenza del
p r o c e s s o
d i
ammodernamento
produttivo, sia il frutto di un
progetto
mirato
all'eliminazione del vecchio
ceto operaio - formato da
operai specializzati, quasi tutti
milanesi, genovesi, torinesi da
più generazioni- nel quale era
ancora forte la presenza dei
militanti comunisti e della
Cgil. Ma proprio i nuovi
operai diventarono i
protagonisti di una
nuova stagione di lotta.
Una lotta radicale,
estremista,
poco
timorosa
della
repressione e che
cominciava
a
contestare lo stesso
sindacato, fino a
contrapporvi una
nuova forma di
organizzazione in
fabbrica: i Cub
(Comitati unitari di
base). Il fenomeno,
nuovo e inatteso,
vedeva entrare in scena
strati marginali esclusi
dalla partecipazione a
quei beni materiali che la
prosperità induceva a
consumare, nseriti in ambienti
urbani degradati nei quali
avveniva la rottura degli
assetti familiari tradizionali.
L'inizio della "strategia della
tensione" (Piazza Fontana,
dicembre 1969) innestò nel
"mo-vimento" un altro tema
fondamentale, quello
dell'"antifascismo militante",
in cui venivano ripresi i toni
resistenziali classisti,
anticapitalistici, di lotta attiva
al fascismo e allo Stato
borghese, che erano stati
tipici delle formazioni
comuniste e socialiste. Ma il
termine "fascismo" si dilatò di
significato, finendo con
l'indicare non tanto il
movimento politico italiano
ed il regime sviluppatisi nel
periodo 1919-1943, quanto
una sorta di categoria
metastorica, in un processo di
dissoluzione nichilista:
"Ribellarsi ai genitori, alla
f a m i g l i a , alla scuola,
all'oppressione del lavoro in
fabbrica, voleva dire lottare
contro il fascismo inteso
come autoritarismo
opprimente che limitava il
pieno dispiegarsi della vita di
ogni individuo" (p.38). La
nuova lotta di liberazione
diventava per i giovani la lotta
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20
di liberazione contro la
famiglia, per romperne
l'involucro autoritario. I
padri
andavano
semplicemente dimenticati.
A partire dai primi anni
Settanta si affermò infine la
prospettiva dell'uso della
forza per "affossare il
sistema". Il rischio fisico
giornaliero, continuato per
mesi, anni nei cortei, negli
scontri di piazza con la
polizia e i "fascisti" sembrò
la forma giusta ed esaltante
della condizione esistenziale.
La necessità di superare la
nozione di legalità, legata al
rispetto per le regole
democratiche, sfociò nella
aspettativa della guerra
civile, intesa come scontro
frontale tra le classi opposte:
la borghesia e il proletariato.
Avere tutto e subito, alzare
sempre più il prezzo della
contrattazione, senza mai
trovare punti di convergenza
con l'azienda e i sindacati fu
la tattica seguita in questa
fase
dai
gruppi
extraparlamentari di sinistra.
Emersero così, in tali
frangenti, altre due
caratteristiche
del
movimento: la violenza
rabbiosa cantata da noti
autori come Paolo
Pietrangeli ("Mio caro
padrone domani ti sparo/
farò di tua pelle sapon di
somaro/ ti stacco la testa
che è lucida e tonda/ così
finalmente iparo il bowling")
o Pino Masi ("tanti e tanti
poliziotti con la testa
fracassata"); cui si univa il
vittimismo per la
"repressione", per i genitori
che non capivano, per l'
autorità che puniva, per l'
indifferenza della gente.
Questa, dunque, la
descrizione dei fatti. Molto
più complessa si presenta la
loro interpretazione. Come
per ogni fenomeno storico,
la nottola di Minerva si leva
solo al crepuscolo: così, noi
soltanto oggi – nel
momento di più profonda
crisi per le prospettive della
sinistra- siamo in grado di
valutare la valenza
distruttiva di quel periodo
per la sinistra stessa, non
solo italiana.
Se appare incontestabile
l'intreccio tra le forme di
espressività nuova giovanile,
le lotte studentesche di tipo
politico e quelle delle
fabbriche di tipo sociale,
altrettanto innegabile è il
fatto che la diffusione
mediante la televisione, il
cinema, la radio, di modelli
culturali e comportamentali
provenienti dal mondo
anglosassone (il movimento
dei "figli dei fiori") segnò la
fase
finale
della
colonizzazione
dell'immaginario collettivo
da parte del capitalismo,
dando
l'egemonia
direttamente agli Stati Uniti,
introducendo il consumo
degli allucinogeni, in
particolare dell'LSD, e la
mistica del "trip" (viaggio).
In Italia la musica beat era
letteralmente copiata dai
testi inglesi arrangiati in
proprio. La canzone di
"Lotta Continua" L'ora del
fucile usava come base
musicale un successo
americano degli anni
Sessanta. Le organizzazioni
giovanili dei partiti
conobbero non a caso
proprio in quell'epoca una
caduta di iscritti, di adesioni
e di partecipazione. Il
fenomeno era frutto della
"rivoluzione antropologica",
per la quale i giovani
sostenevano di preferire ai
partiti della tradizione
politica europea i "gruppi di
pressione" (le lobby)
statunitensi.
L'omologazione nel modo di
vestire (jeans stretti,
giubbotti), nel trascorrere il
tempo libero (bar, juke box,
flipper), nei gusti musicali
(rock, twist), nell'adorazione
dei divi rese i giovani della
"generazione yè-yè" fruitori
delle stesse merci e degli
stessi dischi, delle stesse
mode che duravano una
breve stagione. Il processo
di
mercificazione
progressiva di tutti gli aspetti
della vita, tipica della fase
neocapitalistica, contribuì a
diffondere anche l' idea
nuova del sesso e
dell'amore, facendone una
"merce da vendere" come
ogni altra produzione
materiale sul mercato
capitalistico.
Era evidente che questo
p r o c e s s o
d i
modernizzazione imposto
dalla nuova morale del
libero mercato capitalistico,
con i modelli propagandati
dai rotocalchi e dal cinema
entrava in contrasto con la
morale e le tradizioni vigenti
nel nostro paese. Le
canzonette dei giovani
rockers italiani colsero e
diffusero in migliaia di dischi
questo nuovo messaggio,
divennero un fenomeno
sociale, culturale e di
costume che investiva la
massa dei consumatori
facendo nascere un
linguaggio comune fra i
giovani. Bobby Solo, Gianni
Morandi,
Adriano
Celentano, Caterina Caselli,
Rita Pavone, più i vari
complessi (Rokes, Equipe
84, Nomadi, Dik Dik)
furono decisivi in questo
senso. Giachetti riesce a
farci cogliere l'assimilazione
operata dal sistema nei
confronti
della
contestazione e della
protesta, mediante la
sussunzione
dei
comportamenti ribellistici in
forma di merci, mode da
distribuire a basso prezzo
sul mercato. Resta così
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21
impressa nella memoria
quell' immagine della libreria
di sinistra per eccellenza, la
Feltrinelli di Roma in via del
Babuino, che negli anni
Sessanta apre al beat
introducendo nei locali una
macchina distributrice di
Coca-Cola, le foto di James
Dean, Bogart, Rolling,
Stones, Mao-Tze-Tung;
manifesti con Mandrake, Ho
Chi Minh, Flash Gordon,
Che Guevara e Tarzan,
mentre "capelloni"
trasgressivi dormivano sugli
scalini di piazza di Spagna,
suonavano la chitarra,
indossavano blue jeans,
magliette colorate, scarponi
con il tacco alto e giubbotti
fantasiosi.
E' in tale contesto che
nacque e si sviluppò
l'ideologia dei gruppi
extraparlamentari di sinistra,
nella quale l'assemblearismo
(visto come e-spressione di
democrazia diretta) sostituì il
principio di rappresentanza,
le strade e le piazze furono
mitizzate come il luogo della
politica. Il “maoismo”, il
neoanarchismo, lo
spontaneismo,
il
luxemburghismo, il
trotsckismo, il Marx dei
"Grun-drisse", il castrismo, il
guevarismo e lo stalinismo di
ritorno; ma anche linguistica,
psicoanalisi, sociologia
critica, strutturalismo,
esistenzialismo,
francofortismo
si
mescolarono in un pudding
ideologico che costituì la
vivanda delle poco più di
100mila persone coinvolte
nell'attività politica a tempo
pieno della "nuova sinistra.
Oggi la "rifondazione" di un
pensiero comunista passa
anche attraverso il
superamento (senza
r i m p i a n t i ) d i questo
guazzabuglio.
fi.r.
_____________________
Giuseppe Muraca,
Utopisti ed eretici
nella
letteratura
i t a l i a n a
contemporanea,
Rubettino Editore,
2000, pp 161, Euro
10,33.
Il libro riunisce otto saggi
che analizzano il rapporto
tra cultura, letteratura e
politica attraverso la vita e le
opere di alcuni intellettuali
italiani (Silone, Bilenchi,
Fortini, Pasolini, Bianciardi,
Roversi e Bellocchio) in un
arco di tempo che va dagli
anni ’30 agli anni ’80. I saggi
più interessanti sono quelli
dedicati a Fortini, Pasolini e
al loro reciproco rapporto,
che fu molto conflittuale.
Fortini rientra a pieno diritto
tra quelle esigue minoranze
di intellettuali che nell’Italia
divisa in blocchi
contrapposti dalla “guerra
fredda” e in cui «l’azione e la
vita interna dei partiti di
sinistra furono (...)
pesantemente condizionati
dallo stalinismo», continuarono a lavorare per
mantenere aperti, all’interno
delle organizzazioni del
movimen-to operaio, spazi
di libertà per la ricerca e la
discussione politica e
culturale. Il saggio “Cultura,
Letteratura e
impegno
politico nei Dieci inverni di
Franco Fortini” parte dalla
ricostruzione del “ca-so”
r a p p r e s e n t a t o ,
nell’immediato dopoguerra,
dalla rivista il Politecnico, per
passare poi all’impegno di
Fortini nel rinnovamento dei
metodi della critica letteraria,
per la fondazione di una
critica materialistica della
letteratura e dell’arte, in
contrapposizione al
“marxismo nazionalpopolare“, allo “storicismo
crocio-gram-sciano” ovvero
alla cultura “ristretta e
provinciale” che dominava
nel PCI.
Muraca ricorda «la polemica
aspra, tagliente, martellante»
di Fortini sull’URSS e il regi-
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22
me staliniano, sul servilismo
dei partiti del movimento
operaio (PSI e PCI) e della
stampa di sinistra nei
confronti del regime
sovietico. Polemica che era
accolta con scandalo e
disapprovazione dai vertici di
quei partiti per la forza
polemica
e
la
contrapposizione all’ipocrisia
ufficiale, al regime di “unanimismo autoritario” e di
“doppia verità”.
Nel saggio “Il giornalismo
corsaro e luterano di P. P.
Pasolini” Muraca si sofferma
sulla «funzione di stimolo, di
provocazione politica e
culturale che spesso lo ha
posto al centro di animate
discussioni e di (...) vivaci
polemiche, ad occupare una
posizione di netto contrasto
nei confronti dell’establishment
e del potere, tanto da
condannarlo a una condizione
di sempre più accentuato
(auto)isolamento». L’attività
giornalistica era diventata
nell’ultimo periodo quasi
dominante e, secondo l’A., è
quella che meglio di ogni altro
genere, nella multiforme
produzione intellettuale di
Pasolini, ha espresso il valore
e il senso della sua personalità
di scrittore e polemista. Negli
articoli pubblicati sul Corriere
della Sera, il Tempo e altri
periodici, «ha dato vita ad
un’analisi spregiudicata delle
trasformazioni
sociali e
culturali avvenute nel nostro
paese nel corso del
precedente ventennio. Da
questi scritti emerge un
universo unidimensionale,
infernale, apocalittico, dove
tutte le antinomie e
contraddizioni politiche e
sociali sono state assorbite,
integrate»
Le sue polemiche sul
consumismo, l’edonismo di
massa, l’omologazione e il
livellamento dell’inter a
società, l’affermarsi di un
film
nuovo modello di vita
conformistico e borghese, la
polemica contro la “piccola
borghesia universale”, “il
genocidio di massa” e la
distruzione delle culture
particolaristiche (quella
contadina e quella popolare),
sono i temi agitati in modo
intransigente e disincantato
dall’ultimo Pasolini.
Purtroppo «la sua crisi
interiore e le sue laceranti e
tormentate contraddizioni», esplose con maggiore evidenza
proprio in quel periodo,
hanno reso molto
contraddittoria e –
aggiungerei – poco feconda la
sua critica radicale della “società di massa”, facendo si
che essa possa essere oggi
facilmente usata e rivendicata
dalle parti politiche più varie e
opposte. Per cui, di fronte
all’innegabile interesse che gli
Scritti corsari hanno anche per
noi, oggi, sarebbe bene
utilizzare con prudenza gli
spunti critici di Pasolini,
evitando di “in-namorarsi” in
toto dell’Autore, pena
l’accettazione e la
riproposizione qui ed ora di
un fantasmagorico complesso
di principi, valori, idee,
preconcetti e contraddizioni,
tanto affascinanti, quanto
laceranti, tormentati e, in
fondo, incapaci di arrivare ad
esiti positivi e costruttivi,
come si può vedere dal
confronto accanito, a tratti
violento, che si svolse tra
Pasolini e Fortini, oggetto del
terzo saggio che segnaliamo:
“Fortini e Pasolini”.
li.te
11’ 09’’ 01
Undici registi di undici
paesi - i registi sono Chahine,
Gitai, Imamura, Inarritu,
Lelouch,
Loach,
Maakhamalbaf, Nair,
Ouedraogo, Penn, Tanovic hanno interpretato in undici
cortometraggi (cia-scuno della
durata “simbo-lica” di undici
minuti, nove secondi e un
istante: 11’ 09’’ 01, appunto)
l’attentato terroristico dell’11
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23
settembre 2001 contro le
Twin Towers di New York.
Presentato al Festival di
Venezia, il film ha suscitato
polemiche ed è stato giudicato
“antiamericano” da una parte
della critica “benpensante”.
Di qui lo scandalo.
In realtà, è un’opera che
nell’insieme costituisce un
affresco incisivo (e
perturbante) dell’attuale
“stato delle cose”, dello
straniamento in cui si trova
oggi il mondo: il suo significato va, dunque, oltre la
tragica contingenza dalla
quale ha avuto origine.
Evitando ogni retorica
celebrativa dell’evento, gli
Autori hanno scavato nella
condizione
umana
contemporanea. L’ “antiamericanismo” è, diremmo,
oggettivo e scaturisce dal rifiuto
della
rimozione,
dall’individuazione e dallo
svelamento
delle
r e s p o n s a b i l i t à
dell’imperialismo in genere (e
degli USA in particolare), che
ha determinato la situazione
nella quale siamo ora costretti
a vivere.
Tutti i cortometraggi sono
di buon livello, alcuni hanno
uno spessore ed una forza
emotiva notevoli. Faremo
alcuni esem-pi.
Nell’episodio diretto
dall’iraniano Chahine una
classe di bambini apprende
dalla maestra dell’attacco alle
torri newyorkesi. La notizia
viene recepita dai piccoli, che
non sanno neppure dove sia
New York, nè cosa sia una
torre, come l’annuncio di un
fatto
misterioso,
incomprensibile («chi sarà
stato?» - bisbigliano fra loro «Dio?»,
« ma perché?»,
«perché Dio fa quello che gli
pare»). Mentre nel villaggio si
apprestano rudimentali ripari
nell’eventualità di un attacco
americano («ma pensiamo
davvero di salvarci dalla
bomba atomica alzando dei
muretti?», dice qualcuno),
l’insegnante porta gli alunni ai
piedi di una ciminiera perché
possano farsi l’idea di cosa sia
una torre. Dalla ciminiera
esce, e incombe minacciosa,
una nuvola di fumo nero:
evidente è il richiamo ad
Auschwitz, a Hiroshima.
Il regista inglese Loach ci
richiama invece, attraverso il
racconto e le immagini
evocate da un esule, ad un
altro 11 settembre: l’11
settembre del 1973, il giorno
del golpe cileno benedetto
dalla
CIA,
del
bombardamento della
Moneda, della fine di Salvador
Allende.
Sulla crisi di un cineasta
arabo al ritorno da un viaggio
di lavoro in Palestina è
incentrato lo spezzone
dell’egiziano Maakhamalbaf.
Le domande e i dubbi che
tormentano l’uo-mo sono
rappresentati dai fan- tasmi di
un marine morto in Libano e
di un giovanissimo
“kamikaze” palestinese. Si
svolge, nella mente del
protagonista (che immagina di
incontrare anche i genitori di
entrambi i caduti), un dialogoscontro a distanza, che non
riesce a superare le rispettive
barriere. « Tu sei arabo, non
dimenticarti degli occhi di mia
madre» (cioè della mia terra
invasa e del mio popolo
oppresso): con queste parole
del fantasma del ragazzo
suicida l’episodio si chiude.
Un vecchio vive nel ricordo
ossessivo della moglie morta,
immerso nel buio perché le
Twin Towers, all’ombra delle
quali abita, impediscono alla
luce di penetrare nella casa.
Quando le Torri crollano, la
luce entra nel suo
appartamento e il vecchio
scoppia in un pianto
disperato. La luce gli ha fatto
infine scoprire la realtà: una
realtà che è soltanto di
desolazione e di morte.
Questa la sconsolata metafora
proposta
dall’americano
Penn.
Un pezzo agghiacciante, del
giapponese Imamura,
conclude il film. Un soldato
dell’Impero del Sol Levante è
rimasto traumatizzato per gli
orrori cui ha assistito e le
umiliazioni che ha subito
durante il secondo conflitto
mondiale (un ufficiale, in una
landa sovrastata dal “sole di
Hiroschima”, lo ha calpestato
come un verme, ritenendolo
tiepido nei confronti di “questa santa guerra”). Al villaggio
avevano atteso un glorioso
reduce, di cui essere
orgogliosi. Ma il soldato ha
rifiutato ogni contatto e si è
trasformato in una specie di
serpente (striscia, sibila,
mangia i topi, morde). Verrà
infine cacciato dai familiari e
dalla comunità. Si allontanerà
per sempre dagli uomini
immergendosi nelle acque del
fiume.
Una scritta compare alla
fine, a suggello di tutto 11’ 09’
01: «Non esistono guerre
sante». Come non esistono
guerre “umanitarie” (o “preventive”). Si tratta di ossimori
orribili.
Jacopo Chiron
_____________________
Laissez-passer
B. Tavernier, “mostro
sacro” del cinema francese, ha
attirato su di sè le critiche
della stampa di sinistra del
suo paese (in particolare
dell’Humanité, organo del
PCF, e di Liberation), che ha
giudicato
questo
lungometraggio (della durata
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24
WWW:
su internet
potete
La home page della Fondazione
Feltrinelli
offre un testo marxiano
raro, ma di cui si parla tanto: il
questionario per una inchiesta operaia
scritto personalmente da Marx. Forse
è il primo esempio di “inchiesta
operaia” a cui fare riferimento nella
storia del movimento operaio. Per
leggerlo andate all’indirizzo www.
feltrinelli.it/Fondazione/testo-ritrovatointerna.htm e da lì passate a www.
feltrinelli.it/Fondazio-ne/donwload/
Marx.pdf il testo non si può scaricare,
ma solo leggere sullo schermo.
Come dice la presentazione della
Fondazione Feltrinelli «Questo testo
di Marx, scritto nei primi mesi del
1880 e pubblicato sulla rivista "Revue
socialiste" (n. 4, 20 aprile 1880) nasce
con l’intento (...) di indagare la classe
operaia non tanto nelle sue
convinzioni ideologiche, quanto nelle
sue condizioni pratiche, ovvero nella
sua quotidianità. L’indagine costituiva
più che un termometro conoscitivo
sulla vita reale una procedura che
permetteva anche ai proponenti di
riappropriarsi di una realtà sociale e
culturale a distanza di un lungo e
"freddo" decennio inaugurato con la
sconfitta della Comune di Parigi
(maggio 1871) e da tutto il socialismo
europeo vissuto come un momento di
chiusura di una intera fase politica.
Sotto questa veste lo spirito
dell’indagine e spesso molte delle
questioni sollevate nelle domande
torneranno culturalmente nella pratica
conoscitiva sindacale e politica di tutto
il Novecento, pratica spesso intesa
come desiderio di tornare a conoscere
la realtà reale, in contrapposizione a
una dimensione ideologica o
"costruita" della quotidianità.
Nel corso degli anni ’60 in Italia, dietro
suggestione di Raniero Panzieri, sarà
il gruppo di "Quaderni rossi" a
riproporre il testo di Marx (in
"Quaderni rossi", n. 5, aprile 1965)»
§ § §
Tempo fa abbiamo segnalato la rivista
Cultural Logic, an electronic journal
of marxist theory and practic, sito
http://eserver.org/clogic/
che
classificavamo come ”una finestra sul
marxismo accademico anglosassone”.
Torniamo a segnalarla perché ha
pubblicato una lunghissima
recensione a un libro che sembra
molto interessante: The Wages of
Whiteness: Race and the Making of
the American Working Class. Second
Edition (New York, 1999), di David
Roediger.
Si tratta di una « psycho-cultural
investigation of the development of
"white" identity among EuropeanAmerican workers in the North during
the ante-bellum period», del 1991,
ripubblicato nel 1999.
L’Autore «divides his book into four
parts. In Part I, in Chapter 1, Roediger
sets forth the conceptual approach to
his subject, posing a set of questions
of key importance that he has found
Marxist labor historians to have
ignored, or neglected, or
misconceived: 1) "the role of race in
defining how white workers look not
only at Blacks but at themselves"; 2)
"the pervasiveness of race"; 3) "the
complex mixture of hate, sadness and
longing in the racist thought of white
workers"; 4) the relationship between
race and ethnicity."
"Marxism as presently theorized," he
says, does not help us focus on "why
so many workers define themselves
as white." He classifies Marxist and
presumably Marx-influenced writings
into two categories, the "traditional
Marxists," who are distinguished by
their emphasis on class, combined
with a subordination of "race;" and the
"neo-Marxists," who subscribe to the
perspectives of E. P. Thompson in
Britain and Herbert Gutman in the
United States, whom he credits with
opening the way for the emergence of
"a new labor history," particularly by
"call[ing] into question any theory that
holds that racism simply trickles down
the class structure from the
commanding heights at which it is
created." A set of "new labor
historians" has emerged who are
awake to the viciousness of
"whiteness" in the labor movement.
These new historians take the working
class as a self-motivated agency of
history, says Roediger, but their works
are flawed by a "tendency to
romanticize members of the white
working class, by not posing the
roblem of why they came to consider
themselves white. David takes on the
task of correcting this error by his
thesis that white supremacism was "in
part" a creation of the EuropeanAmerican workers, in the early
nineteenth century.
Come si vede Roediger “prende di
petto” una delle questioni sollevate da
Melchionda nel suo intervento
pubblicato su Cassandra di settembre
2001, perciò lo segnaliamo ai lettori.
Il sito web di Cassandra
Cassandra dispone di un sito web:
www.cassandra-rivista.it
I compagni ci troveranno gli articoli
pubblicati sui primi tre numeri della
Cassandra
Trimestrale
di politica e cultura
———————————————
Reg. Tribunale di Roma
N. 401/2001
del 19.9.2001
————————
Direttore responsabile:
Mario Ronchi
———————
Stampato in proprio
————————
distribuzione gratuita
————————
redazione.cassandra@flashnet.
it
——————
n. 4/2002