I Le ragazze stavano sedute sul pontile e guardava

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I Le ragazze stavano sedute sul pontile e guardava
I
Le ragazze stavano sedute sul pontile e guardavano il mare. Altalenavano leggermente le gambe ciondoloni. Calma piatta. Nessuna onda, niente vento, come se la mareggiata, che per quattro giorni aveva battuto con violenza la spiaggia e aveva avvolto in una
spessa coltre di nuvole l’orizzonte e gli isolotti della
laguna, fosse stata soltanto un tormentato sogno.
D’altra parte, quella era una terra di temporali: il
cielo si scuriva in fretta, le nuvole si addensavano
cupe e il mare diventava subito color del ferro. Poi arrivava il vento dell’Est, prima in brevi folate e, dopo,
in raffiche che increspavano la laguna, mentre grandi
onde si gonfiavano, sollevandosi in creste che si frangevano sulla spiaggia con scrosci di schiuma.
Anche quella notte l’oscurità era esplosa in un’immensa bufera, la pioggia era continuata fino all’alba,
solo a momenti era calata per poi scatenarsi, di nuovo, in minacciosi soprassalti.
L’uragano si era intensificato in forza e violenza,
era cresciuto a dismisura e aveva invaso lo spazio intero: si erano spalancate finestre, porte erano state
sbattute, guizzi di lampi avevano all’improvviso attraversato il cielo, Agnese era rimasta raggomitolata
nel letto, in preda alla paura.
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Poi, la bufera si era allontanata, la tempesta di libeccio si era calmata con la pioggia, e il ricordo della
burrasca era restato soltanto nello scrosciare delle grondaie. Ma il giorno dopo, sulla spiaggia, era rimasta in
piedi una sola cabina e tutti erano corsi verso la Terrazza a Mare a guardare il pontile di legno portato via
dalle onde come un castello di sabbia.
“Guarda quella barca laggiù” disse a un tratto Miriam.
“Dove?” disse Agnese.
“Ma proprio là, all’imboccatura del canale, sta entrando nel porto. È un bel dieci metri, cavolo, non lo
vedi?”
Sul canale, dalla parte del faro, era apparsa una
barca, correva giù rapida, inseguiva l’onda, poi si era
sentito il motore del diesel che a un tratto era diventato più basso.
Le due ragazze la accompagnavano in silenzio, con
lo sguardo. Ma la barca non entrava nel porticciolo,
con una manovra perfetta, dopo aver lasciato il canale, aveva preso a destra.
“Vuoi vedere che sono quelli della casa rosa che
arrivano?” disse Agnese “La zia Lena ha saputo che
hanno telefonato di preparare la casa per i giorni dopo Ferragosto.”
“E chi gliel’ha detto a tua zia?”
“Il custode gliel’ha detto, chi vuoi che sia stato.”
“Eh, allora devono essere proprio loro.”
Le ragazze girarono la testa verso la casa rosa. Era
stata progettata dal nonno di Agnese in fondo alla
baia, nel centro di quella curva che faceva la strada
scendendo un poco verso la laguna: una bella casa al
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riparo dagli sguardi, dietro le sue inferriate dipinte in
verde foresta, le sue siepi, gli arbusti e i gruppi di malvoni e lupini.
Aveva una meridiana e gli stucchi attorno ai terrazzini.
Era l’ultima casa di quella lingua di terra. Più in là
soltanto il fiume, con l’estuario frusciante di canneti,
le garzette e l’odore di fiume. Costruita quando non
c’era neppure l’ombra dei baretti con il juke-box sulla spiaggia e del vecchio capannone, quel luogo del
piacere proibito dove ad Agnese non era permesso
andare a ballare finché non avesse avuto diciott’anni.
“Come si è deteriorato l’ambiente in questi ultimi
tempi” diceva ogni tanto la zia Lena. “Altro che all’epoca dei Bersi, quando papà gli ha costruito la
villa. Su un terreno che era nostro anche quello.” E
diceva ancora: “Peccato che da tanti anni non venga
più nessuno di loro, in quella casa. Anche se non so
proprio dove trovino da un’altra parte una spiaggia
meglio della nostra. Ma cosa vuoi che ti dica, sarà
per via della gente, peggiora sempre, di anno in
anno, persino cinque anni fa che ci sono capitati tra
capo e collo gli alluvionati del Polesine era meglio di
adesso.”
Ormai non c’era più speranza che le cose potessero andare bene in questo mondo se le due goriziane
che avevano la cabina vicino a quella della zia Lena,
lei le aveva viste una sera tutte quinci e quindi, sedute al bar della “Capannina d’oro”, alzare le braccia e
lasciar vedere sotto le ascelle, come si poteva dire,
una peluria, no, una selva di peli neri e folti che alludeva ad altri vergognosi recessi femminili. E al tavo9
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lo con loro c’erano anche due giovanotti! No, ormai
le donne sembravano tutte poco di buono, con quei
vestiti che segnavano la loro figura. E gli uomini,
cosa ci si poteva aspettare dagli uomini se le donne si
comportavano così? Non c’era più speranza per le ragazze per bene se quelle altre non facevano che saltargli nei bregoni, agli uomini...
La zia Lena si lagnava sempre che quelli che ora
venivano in vacanza nel suo mare erano gente degna
soltanto di abitare pensioni da cui usciva odore di
pesce fritto. Pensioni da poveracci, o da tedeschi, simili a quelle che spuntavano come funghi velenosi
dietro il lungomare e che venivano tirate su in pochi
mesi durante l’inverno.
In quei posti facevano la villeggiatura persone che
Agnese non doveva frequentare.
Diceva la zia Lena: “Oltre ai Bersi, che d’altronde
non vengono qui da secoli, si possono contare sulle
dita le famiglie con cui ci si può vedere.”
Erano quelle che, anno dopo anno, rinnovavano
l’abbonamento alla stessa cabina e allo stesso ombrellone davanti all’albergo “Spiaggia”, erano quelle
che non soltanto potevano sperare di avere un tavolo
da Toni, prenotandolo, ma a cui Toni in persona si avvicinava per decantare i manicaretti del giorno e per
dar loro il permesso di ordinare la granseola con la
salsa al refosco.
Le abitudini estive della zia Lena erano immutabili: esercitava il suo potere su un piccolo gruppo di fedeli che ogni mattina prendevano il cammino che portava alla spiaggia e alla sera lo risalivano con lo stesso passo.
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La loro roccaforte era la terza cabina blu a destra
della Terrazza a Mare. Lei la presidiava con cura, perché non venisse presa d’assalto ed espugnata da qualche nuovo arrivato.
Ogni tanto, però, qualcuno di loro veniva ammesso nel clan, dopo che il suo nome era stato ripetuto
per alcuni giorni con curiosità e lui stesso esaminato
da lontano, attentamente. Finché, un giorno, quando
ormai anche i nuovi si erano accorti dell’interesse che
avevano risvegliato, la zia Lena finalmente avanzava
verso di loro e, con i modi di una regina rassegnata a
farsi avvicinare dal popolino, li invitava a unirsi al
suo piccolo drappello.
Anche Umberto era uno dei nuovi, eppure Agnese
era riuscita a conoscerlo, per quanto la zia Lena svolgesse la più stretta sorveglianza perché non avvenissero contaminazioni tra lei e i selvaggi.
Umberto aveva due anni più di Agnese e, quell’estate, passava venti giorni in tenda al campeggio di
Pinomare, con un amico.
Agnese lo aveva incontrato davanti al juke-box
del bar Ausonia, uno dei posti che certo la zia Lena
non avrebbe definito chic, pure, Agnese era molto
fiera di avergliela fatta quasi sotto il naso a sua zia.
Aveva ascoltato con Umberto “My prayer”, si era
lasciata accompagnare fin nei dintorni di casa, gli
aveva concesso un appuntamento per il giorno dopo,
vicino all’edicola di giornali della spiaggia, e aveva
anche fatto il bagno con lui.
Agnese era disperatamente partigiana di un’affezione immediata e di un impegno rapido: era impaziente di trovare un amico ma aveva anche paura che
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questo sparisse, come era sempre successo con l’arrivo della bassa stagione, quando la folla rumorosa dei
giovani si dissolveva a poco a poco.
Ignorava completamente che l’essenza del romanticismo è di prendere tempo e odiava le sere d’autunno in cui, già alle sei, si accendevano le prime luci,
laggiù, verso il paese, mentre i radi, brevi suoni di qualche clacson arrivavano attraverso il buio: per quell’anno era tutto finito, anche quell’anno non era successo niente.
Pochi giorni dopo aver conosciuto Umberto, Agnese aveva dato fondo a tutti i suoi risparmi e si era
comperata due completi formati da slip e reggiseno,
tutti e due bordati da un pizzetto rosa. Non li aveva
mai messi e non sapeva neppure bene quando se ne
sarebbe servita, anche se aveva pensato che ormai era
signorina e che poteva smettere la biancheria di cotone.
Tuttavia si sentiva rassicurata nel dirsi che c’erano, nascosti in fondo a un cassetto, ma a portata di
mano.
Aveva anche avuto il coraggio di chiedere a Umberto, quando lui le aveva detto: “Ti devo prestare un
libro prima o poi” “Prima o poi? Cosa vuoi dire con
‘prima o poi?’ ”
Così aveva avuto subito il libro, un piccolo “Linea
d’ombra” nell’edizione grigina della Bur. E non lo aveva più restituito, perché sperava che avrebbe aperto la
via a nuovi incontri.
“Me lo ridarai a ottobre, quando verrai a scuola a
Udine” aveva detto lui, il giorno della partenza.
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Il loro commiato davanti alla corriera e all’amico
di Umberto era stato rapido e formale, ma lui aveva
promesso di scrivere.
Da allora, ogni giorno incominciava per Agnese
con l’identico rito. Scendeva a controllare se nella cassetta era arrivata la posta e se, tra le fatture, i giornali e le reclame, spuntava anche una lettera per lei,
mentre ogni volta che rientrava dalla spiaggia, nel pomeriggio, procedeva a un’ulteriore apertura e chiusura della cassetta vuota. Poi, se la zia Lena qualche sera la portava al cinema, quando tornava dall’Arena Italia dava ancora una sbirciatina supplementare.
Sapeva che non ci poteva essere alcuna possibilità
di trovare qualcosa di nuovo, dato che il postino passava soltanto alla mattina, ma non riusciva proprio a
resistere a quella tentazione. Non si poteva mai sapere, poteva arrivare anche un espresso.
Mentre si avvicinava alla cassetta delle lettere, e
anche prima, quando era ancora in casa, Agnese giurava a Dio che non avrebbe più tentato di carpire segreti se Lui le avesse fatto trovare una lettera, o anche
una semplice cartolina, purché tutta scritta... Ma naturalmente non c’era stata risposta da parte del Cielo,
neanche un segno.
Miriam le diceva ogni tanto: “Tu a me non dici
niente. Una volta ero amica tua, avevamo fatto il patto di sangue, e adesso, invece...”
Agnese diceva: “Di cosa devo dirti?”
“È il tuo moroso, quello che ti ha vista la Norina a
prendere la nafta da Pancera, sul lungomare? Sai benissimo chi voglio dire. E se ti vedessi come sei diventata rossa non mi racconteresti bugie. Adesso anche io non ti dirò più tutto, così impari.”
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Agnese non ammetteva né negava. Sorrideva vagamente. Pensasse pure che si erano addirittura baciati all’ombra di una cabina!
In quanto a Miriam, che sapeva sempre tutto di
tutti, e che non desiderava avere segreti suoi né tanto
meno conservare quelli degli altri, la indignava la vile segretezza di quella storia, nata davanti ai suoi occhi, ma poi svanita nella clandestinità proprio quando
lei era tutta tesa ad acchiapparla.
Miriam sarebbe rimasta ore e ore a parlarne, mentre quella “bronza coverta” di Agnese, per la prima
volta che le capitava qualcosa di interessante, se la
voleva tenere per sé.
Miriam, però, non si scoraggiava e riprendeva spesso il discorso che le interessava: “Non lo sai che tra
amiche ci sono delle regole?”
“Che regole?”
“Le regole dell’amicizia: prima di tutto dirselo se
si ha un moroso. Io, per esempio, te lo direi. E poi,
non uscirei mai con uno che è uscito con te. Anche tu,
no?”
Miriam era una spilungona con i capelli lisci, corti, e con una frangetta sulla fronte.
Ad Agnese non pareva molto bella, ma aveva notato che, quando erano insieme, gli uomini guardavano prima Miriam e poi lei.
Era stata per otto anni nella stessa classe di Agnese, prima alle elementari e poi alle medie, ma a ottobre non sarebbe andata a studiare in città, non avrebbe preso tutti i giorni la corriera delle due per ritornare a casa: avrebbe fatto un corso di contabilità e poi
si sarebbe messa a lavorare nel negozio dei suoi che
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avevano la più grande pasticceria del paese, all’angolo, vicino alla chiesa.
Era una ragazza intelligente, pensava Agnese, ma
farciva troppo i suoi discorsi con: “Io non so fingere... io non mento mai... io ho i miei principi”. Sempre io, io, io, troppi io perché ci si potesse veramente
fidare di lei.
Comunque, Agnese le voleva bene: aveva deciso,
da tempo, di amare certe persone, anche se non le piaceva tutto di loro.
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