Camminando... - Comune di Trasaghis
Transcript
Camminando... - Comune di Trasaghis
Camminando... verso Sant’Agnese e Ospedaletto Il percorso La strada sterrata che raggiunge la sella Sant’Agnese ripete in buona parte il tracciato, che correva a mezza costa sulla direttrice Artegna-Gemona-Venzone, battuto fin dall’epoca preistorica da popolazioni paleovenete e, successivamente, da Celti, Carni e Romani. Lasciato l’abitato di Gleseute all’e stremità nord orientale di Gemona, e attraversato l’ampio alveo del torrente Vegliato, la strada si snoda per un breve tratto nella pineta, frutto di un ripopolamento artificiale di pino nero (Pinus nigra), pino silvestre (Pinus sylvestris) e altre conifere, eseguito negli anni 1933-1955, allo scopo di consolidare i versanti sog getti ad erosioni, e sale quindi, per un buon tratto con pendenza leggera, a sella Sant’Agnese. Sulla sinistra, in Le pendici del Cjampon prima della piantumazione degli anni Trenta 5 basso, è visibile il tratto artificiale del torrente Vegliato, ottenuto per deviazione del suo corso naturale, che aggira a nord il colle Dorondon. Un tempo il rio sfiorava invece il versante ovest del colle, scendeva verso località Tiro a Segno, per disperdersi poi nel vasto territorio a valle, non di rado devastandone i poderi. Epi pactis atroru ben s L’ambiente circostante si è formato, in gran parte, coi detriti depositati dai torrenti che discendono i ripidi versanti meridionali del complesso montuoso Cjampon–Deneâl. I pendii sono soggetti a frequenti movimenti franosi, causati dall’azione meteorica sommata ai dissesti dovuti ai terremoti. Anche la presenza di affioramenti rocciosi e la limitata disponibilità 6 idrica rendono la copertura vegetale piuttosto rada e discontinua, costituita principalmente da specie pioniere, tipiche di ambienti scarsamente fertili, aridi ed in continua evoluzione. La vegetazione arborea spontanea è rappresentata da carpino nero (Ostrya carpinifolia), orniello (Fraxinus ornus), salici (Salix ss. pp.), e pero corvino (Amelanchier ovalis). Nel sottobosco, accanto a tappeti rosati di erica (Erica herbacea), alternati a folti ciuffi di sesleria (Sesleria varia), calamagrostide (Calamagrostis varia) e a piccoli cespi sempreverdi di poligala finto bosso (Polygala chamaebuxus), si possono osservare alcune eleganti specie di orchidee, tra cui la Platanthera bifolia dai fiori bianchi e la Epipactis atrorubens, dai fiori porpora. Alcuni endemismi (cioè piante esclusive di un determinato territorio) come la Knautia ressmannii e l’Euphorbia kerneri completano il già nutrito elenco di specie vegetali interessanti. I vecchi prati, oggi abbandonati, sono interessati da un naturale processo di colonizzazione da parte di specie arbustive ed arboree, provenienti dai boschi circostanti, precedute da colonie di ginepri (Juniperus communis) e noccioli (Corylus avellana). Poco prima di raggiungere la sella, a monte della strada si incontra uno sperone roccioso dall’aspetto singolare, noto come Clap da l’Agnel ma da denominarsi più propriamente – come ricordava spesso l’indi menticabile Pietro Pl atan th era bi fo Co petti Gii – Clap di Pieri li a Lungje. Questa rupe non è un elemento di frana proveniente dai rilievi sovrastanti ma il prativa della sella Sant’Agnese, risultato dell’erosione che attraveravvolta dal bosco di carpino nero so i secoli l’ha modellata in modo e orniello e da un ricco strato arcosì caratteristico. L’ampia conca bustivo di nocciolo, ginepro, pru- Strada per Sant’Agnese e Clap di Pieri Lungje 7 nello (Rhamnus saxatilis) e ciliegio canino (Prunus mahaleb), offre uno splendido panorama a 360°: a sud lo sguardo si apre su Gemona e sul vasto conoide del torrente Vegliato, a nord su quello più arido e spoglio dei Rivoli Bianchi di Venzone. Ad ovest si innalza il rilievo arrotondato del monte Cumieli mentre ad est incombono gli imponenti, ripidi, dirupi delle falde del monte Cjampon-Deneâl, i cui strati rocciosi ci mostrano una vera e propria sezione geologica della catena montuosa Cjampon-Cuel di Lanis. Sella Sant’Agnese e i Cres di Cengle 8 La stratigrafia delle rocce riesce comprensibile anche ad osservatori inesperti che possono far correre lo sguardo dagli strati più antichi, alla base del versante meridionale (alla destra estrema di chi guarda) a quelli più recenti, sul lato opposto. Poco oltre la cresta, a nord, è visibile una grande faglia, evidenziata dal canalone da cui scende un rio dalla notevole portata solida. Lungo tale faglia sono scivolati gli strati posti sul lato sinistro, producendo una serie di pieghe semicircolari, la maggiore delle quali, molto caratteristica, è denominata “Ventaglio” (Cres di Cengle). I delicati pendii prativi, ancora oggi in parte coltivati, contrasta- Pr i m u l a a Da ph n e c n u r i c ol a e or u m no con gli aspri e scoscesi ghiaioni che raggiungono la base dei versanti rocciosi e solo nelle aree in cui i detriti di falda sono più consolidati la vegetazione erbacea ed arbustiva G en ti an a cl usii è riuscita nella sua opera colonizzatrice. In questi ambienti così severi le variopinte fioriture primaverili ragthyllis jacquinii) o, ancora, al gialgiungono tonalità particolarmente lo della ginestra (Genista sericea). vivaci ed intense: le macchie blu Sugli speroni rocciosi non è difvioletto delle genziane (Gentiana ficile osservare la dafne alpina clusii) si fondono o si alternano al (Daphne alpina), la primula orecrosso porpora della dafne odorosa chia d’orso (Primula auricola) op(Daphne cneorum) o al rosa pallipure la spirea ricadente (Spiraea do della vulneraria montana (Andecumbens). 9 Sciurus vulgaris Capreolus capreolus 10 La fauna è assai varia e interessante: nelle zone boschive è facile incontrare lo scoiattolo (Sciurus vulgaris), impegnato in balzi acrobatici da un ramo all’altro degli alberi o trovare i segni del passaggio di piccoli mammiferi come la faina (Martes foina) e la volpe (Vulpes vulpes). Tra gli uccelli, numerosi sono gli insettivori, come i picchi, le capinere (Sylvia atricapilla), le cince e frequenti i rapaci diurni come la poiana (Buteo buteo), il gheppio (Falco tinnunculus), lo sparviero (Accipiter nisus). Nelle radure e nei prati, specialmente di primo mattino o all’imbrunire, con pazienza e un pizzico di fortuna, si può osservare il capriolo (Capreolus capreolus) al pascolo mentre sulle creste dominanti il ventaglio (Cres da Crôs, Ors di Scriç) un occhio particolarmente attento ed allenato può scoprire la presenza del camoscio (Rupicapra rupicapra) intento a Vipera ammodytes Vulpes vulpes Sylvia atricapilla brucare tra le cenge e gli anfratti rocciosi. Sui ghiaioni si possono fare degli incontri, meno piacevoli ma ugualmente interessanti, con abitatori temibili, come la vipera dal corno (Vipera ammodytes) o innocui, come il biacco nero (Coluber viridiflavus carbonarius), il ramarro (Lacerta viridis) o la lucertola muraiola (Podarcis muralis). 11 La chiesetta di Sant’Agnese 1 è l’antica custode della sella. Distrutta dal terremoto del 1976, è stata interamente ricostruita rispettando la fisionomia originale. Lasciata la sella, il percorso prosegue, in costante salita, lungo il versante occidentale del monte Cumieli, attraverso la strada militare che raggiunge l’abitato di Ospedaletto. Osservando l’altura dalla pianura, questo rilievo appare come la prosecuzione verso occidente della catena Cjampon-Cuel di Lanis, a cui è collegato proprio dall’insellatura di Sant’Agnese. La sua forma inconfondibile, a “dorso di cetaceo”, è il risultato dell’azione del ghiacciaio che, come una lima, ne ha arrotondato le asperità e scavato avvallamenti chiusi, poi sede di bacini lacustri. La sua configurazione ed il suo orientamento, così come i rilievi minori dei monti Ercole, Cjamparis e Palombâr, con l’ampia conca centrale riparata dai venti del nord, hanno favorito lo sviluppo di una vegetazione ricca di molti elementi tipici della flora mediterranea. Al culmine della salita (quota 471 m. slm) la strada cambia versante, e l’escursionista può volgere un ultimo sguardo alla sella sottostante, alle imponenti pareti rocciose del 12 complesso montuoso Cjampon-Deneâl che la sovrastano e all’abitato di Gemona che si perde in lontananza. Il percorso, ora, si sviluppa in discesa, in un bosco misto, dove alle essenze forestali precedentemente descritte si associano Li liu m bu lbi fer um roverelle (Quercus pubescens), tigli (Tilia cordata), aceri campestri (Acer campestre) e castagni (Castanea sativa), talvolta di dimensioni considerevoli. Lasciato il percorso principale, circa 250 m. dopo il cambio di versante, si imbocca, a destra, una mulattiera che va restringendosi e, dopo alcuni tornanti, in breve tempo, raggiunge la cima del Cumieli. Sul pianoro sommitale (quota 571 m. slm) i prati, ormai abbando nati e fortemente colonizzati da arbusti di nocciolo, ginepro, corniolo (Cornus mas) e rovo (Rubus ulmifolius), si alternano a boschi termofili a prevalenza di orniello e carpino nero. Nelle radure la vegetazione prativa è molto ricca di graminacee, dalle caratteristiche infiorescenze a spighette, accompagnate da macchie colorate di polmonaria sudalpina (Pulmonaria australis) e gigli di diverse specie (Lilium bulbiferum, L. carniolicum, L. martagon). Proseguendo a nord per alcune Rientrati sull’itinerario principale, si scende per circa 350 m. e, in corrispondenza di una leggera curva a sinistra, un secondo sito interessante induce ad un’altra deviazione. Abbandonata la strada sterrata si imbocca a sinistra un sentiero in Li liu m ca rn iol ic um Pu lm on ar ia aust ra lis decine di metri, e scendendo poi per un breve tratto sul versante oc cidentale, al margine del bosco si può osservare, seminascosta dalla vegetazione, una lunga linea continua di grossi massi sbozzati di pietra calcarea, sovrapposti a secco, che cingono il bordo dell’altura sui lati ovest, nord e est. Si tratta forse di un castelliere preistorico 2 . prossimità di un accesso privato. Dopo un breve percorso, con qualche tratto di ripida ma non difficile salita, si raggiunge il monte Palombâr, ove si possono osservare i resti del castello di Grossenberg 3 . Ritornati alla strada militare, superato un tornante, si comincia a scendere verso Ospedaletto. Il sottostante paesaggio è ondulato, con boschi che si alternano a piatte depressioni coltivate a prato. A destra, sul modesto rilievo del monte Ercole, sorgono i resti di una fortificazione militare, sulla sinistra la piccola conca ospita un 13 Nei pressi del lago: la cjase dal Giâgo laghetto. Si percorre ora un tratto interamente scavato nella roccia, lungo il quale si possono riconoscere i diversi strati che compongono la parete: calcari grigi che si alternano a calcari più scuri, piccole faglie e fessurazioni lungo le quali scivolano i due lati delle lastre rocciose. Si prosegue in costante e ripida discesa finché, superato un breve tratto in galleria, dopo circa 600 m., in corrispondenza di un’ampia piazzola, appare sulla destra l’imponente ingresso del forte di monte Ercole 4 . Lasciato il forte, dopo un ultimo tratto in discesa, il percorso si snoda in una zona amena, con bas14 si colli arrotondati intervallati da ampie depressioni, in cui boschetti di carpino nero ed orniello si alternano a radure coltivate a prato. Questa morfologia è la traccia evidente dell’azione erosiva del ghiacciaio che, a più riprese, ha ridisceso la valle del Tagliamento fino all’attuale anfiteatro morenico. Superato l’incrocio con via del Lago, all’altezza dell’in sieme di edifici denominati cjase dal Giâgo e proseguendo sempre su via monte Ercole, dopo circa 200 m. si raggiunge la conca occupata dallo stagno denominato lago Minisini 5 , dal nome del l’antico proprietario del fondo. Franco Di Bernardo 1 La chiesa e il convento di Sant’Agnese Nella sella tra il monte Cjampon e il Cumieli, a 427 metri sul livello del mare, si trova la ricostruita chiesa di Sant’Agnese, inaugurata dal vescovo di Udine monsignor Pizzoni il 7 ottobre del 1984. Le origini del luogo di culto, che fu un monastero femminile, sono ancor oggi in gran parte oscure. Nel corso dei secoli gli studiosi hanno avanzato proposte e congetture sulla sua fondazione e sull’ordine al quale avrebbero aderito le suo- re, ma senza raggiungere risultati certi. Le donne, che avevano scelto di dedicarsi a Dio, sono indifferentemente definite nelle fonti come converse, romite o eremite e non vi sono prove certe di un’iniziale adesione ad un preciso ordine religioso. Il primo documento su Sant’Agnese risale al 21 novembre del 1249, quando le suore furono investite del possesso di un terreno adiacen- Chiesa e convento di Sant’Agnese prima del 1976 15 Sant’Agnese Sant’Agnese nell'iconografia sacra è rappresentata come una giovane donna con un agnello in braccio. La sua vita è accennata in vari testi, non sempre concordanti, del IV e il V secolo e narrata per esteso nella Passio latina (V secolo). Fanciulla romana del III secolo, diventò martire per non aver voluto abiurare la propria fede. Il magistrato per forzarla all’apostasia e umiliarla l’obbligò ad esporsi nuda alla folla. Uno dei presenti, avvicinatosi con l’intenzione di toccarla, morì all'istante (o, secondo altre fonti, restò cieco) prima ancora di poterla sfiorare. Agnese lo resuscitò con le sue preghiere, ma ciò nonostante venne sgozzata come gli agnelli. Secondo la tradizione apparì otto giorni dopo, con un agnello in braccio, a lato dei parenti che vegliavano sulla sua tomba. L’agnello, che allude all'Agnus Dei, era simbolo del martirio e della resurrezione delle vergini. 25 «Faceva molto freddo e i lupi ululavano...» La leggenda del convento di Sant’Agnese Valentino Ostermann, folklorista nativo di Gemona, nelle «Pagine Friulane» del 1888 pubblicò in lingua friulana questa leggenda, legata al convento di Sant’Agnese, da sempre nel cuore dei gemonesi. «Sulla sella di Sant’Agnese nel 1249 esisteva un convento di suore e su quella cima del Cumieli a forma di pan di zucchero, che si vede verso ovest, il conte Mainardo del Tirolo aveva fatto costruire un castello dal quale si scorgono ancora alcuni resti di fondamenta e una prigione scavata nella roccia. Questo luogo era chiamato il castello di Palombâr. In quel brutto castello abitava una volta un conte cattivissimo che tormentava la gente e rapiva le ragazze più belle che, dopo averne abusato, faceva murare vive. Il conte aveva una figlia bellissima. Dove oggi si trova il fortino di Venzone esisteva allora un al29 tro castello abitato da un conte sempre in guerra con quello del Palombâr. Una domenica la famiglia dei conti del maniero sul Cumieli si recò a messa a Venzone dove la figlia fu vista dal figlio del conte rivale. Costui si innamorò e, attraverso suo padre, la fece chiedere in sposa sostenendo che in tal modo le contese tra le due casate sarebbero cessate. Il padre della ragazza si oppose e accortosi che i due giovani se la intendevano, costrinse la figlia a prendere il velo diventando una monaca del convento di Sant’Agnese. Un proverbio friulano sostiene che la tosse e l’amore non si possono nascondere (ne la tos ne l’amôr no stan mai scuindûs) e così con facilità il giovane innamorato riuscì a scoprire dov’era l’amata che convinse ben presto dell’opportunità di fuggire insieme in Germania. Ordito segretamente l’inganno, una notte d’inverno in cui nevicava molto e il vento sibilava nel bosco, il conte arrivò a Sant’Agnese con due servitori fedeli per aspettare che l’amata, divenuta suora, fuggisse poco dopo la compieta di mezzanotte. Faceva molto freddo e i lupi ulula30 vano per la fame arrivando a scendere dall’Ambrusêt fino a giungere nei pressi del convento. Verso l’una venne dato il segnale e la monaca si stese a terra per scappare attraverso un cunicolo mentre il giovane innamorato le porgeva una mano per aiutarla. In quel momento si sentì un grande rumore. Credendosi scoperto dalle suore il conte cercò di sollevare di colpo il corpo della fidanzata che improvvisamente urlò; il giovane nell’estrarre velocemente la donna le aveva, infatti, spezzato la spina dorsale. Il fragore era stato prodotto da una grande frana che cadeva rombando dai Cres di Crôs. Il giovane conte, disperato per l’accaduto, depose l’amata sotto il portico della chiesa e fuggì come pellegrino alla volta di Gerusalemme; nessuno da quel momento ebbe più sue notizie. Il conte del Palombâr, venuto a conoscenza dell’accaduto, mosse guerra con i suoi fedeli al conte del fortino di Venzone ma la famiglia di quest’ultimo, con l’aiuto degli abitanti di Venzone, lo vinse e inseguitolo, entrò nel castello e lo bruciò, gettando nel torrente Drendesima donne, bambini e soldati». 2 Il castelliere del monte Cumieli Imboccata la strada militare che da Sant’Agnese conduce a monte Ercole, giunti al culmine della salita e percorsi altri 250 metri circa, si diparte dalla carrareccia un ampio sentiero che conduce alla sommità del monte Cumieli, in larga parte prativa, sicché nessun ostacolo si frappone all’amplissima vista del Tagliamento e della pianura friulana. Il paesaggio da solo vale lo sforzo della salita ma, poche decine di metri più a nord, è anche possibile vedere i resti, tanto estesi e massicci da stupire, di un complesso di muri a secco diroccati, nei quali la voce popolare ha creduto di riconoscere una fortificazione napoleonica. Attribuzione che lascia alquanto perplessi e che qualche decennio fa Tito Miotti ha messo radicalmente in discussione, sostenendo trattarsi di un castelliere risalente all’età dei metalli, cioè a più di un millennio avanti Cristo. Egli per primo, a dire il vero, ha ammesso di non poter sostenere Sulla cima del Cumieli 31 tale attribuzione con reperti archeologici. La forma e la tipologia di questa recinzione muraria sembrano, d’altra parte, alquanto diverse dai castellieri tipici dell’area istriana e carsica. L’attribuzione è, comunque, sug- Resti del castelliere gestiva e ci sembra giusto perciò lasciare la parola allo studioso: «La muraglia, simile a quella dei castellieri carsici, alta ancora in certi punti oltre m. 1,50 e con spessore che varia da m. 1,50 a m. 2, segue quasi ininterrotta mente il bordo del monte poco sotto la cima (quota 571) sui versanti ovest, nord, ed est. Manca il fianco verso mezzogiorno, dove la pendenza ha favorito il franare della maceria, che poi si è in parte sgranata o è caduta in basso. Il muro a secco è formato da grosse pietre sommariamente 32 squadrate, ricavate evidentemen te sul posto; il percorso della re cinzione superstite misura circa 550 m.; con la parte mancante doveva superare i 700 m. Il rilievo eseguito ha permesso di individuare la forma poligonale mistilinea della difesa, con lunghi tratti diritti intervallati da curve, rientranze ed emergenze che non sempre seguono il substrato orografico. Sul lato nord-ovest è evidente una porta, larga 2 m. Enorme la maceria franata lungo il pendio su tutto il perimetro della muraglia, che doveva elevarsi più metri. Non abbiamo notato traccia di abitazioni né, tra l’erba alta, reperti atti a qualificare l’epoca dell’insediamento. Anche la circostanza che molte pietre siano squadrate induce a pensare che l’insediamento vada ascritto latamente all’età dei metalli. Ma non è affatto escluso che nel luogo si possano trovare elementi per una retrodatazione dello stanziamento, in analogia a quanto si è visto durante le campagne di scavo nel Carso triestino […]. Il castelliere del Cumieli si rivela, oltretutto, una novità assoluta per la topografia e la morfologia dei più antichi insediamenti montani del Friuli». 3 Resti della torre di Grossenberg Scesi dalla vetta del Cumieli e imboccata di nuovo la carrareccia principale, si percorre per un certo tratto un leggero pendio. Poco prima di intraprendere la discesa per monte Ercole, si apre sulla sinistra un agevole sentiero che porta alla cima del monte Palombâr, a strapiombo sul sottostante letto del Vegliato. Il nome Palombâr o Colombâr deriva dal friulano colombâr, di cui palombâr è sinonimo (colomba = palomba). Il termine già di per sé attesterebbe l’esistenza di una costruzione. In effetti fin dal 1771 Gian Giuseppe Liruti riferiva che verso il 1180 il conte Alberto del Tirolo, al quale allora era assoggettata Venzone, nell’intento di Versante sud-est del Cumieli. Al centro il Palombâr 33 ampliarne i confini verso Sant’Agnese, aveva occupato il bosco del Cumieli e, per proteggere militarmente l’usurpazione, aveva eretto su quella cima un castello chiamato di Grozumberg, «di cui ancora le vestigia si veggono». Ben presto però i gemonesi, racconta sempre Liruti, lo assediarono e lo distrussero dalle fondamenta. Racconto suggestivo ma non del tutto veritiero. Fondatore del castello fu il conte Enrico (e non Alberto) del Tirolo, non in qualità di signore di Venzone ma di avvocato della Chiesa di Aquileia. Nel 1184, infatti, l’imperatore Federico I attestò che, per volontà del patriarca Gotofredo, Enrico aveva ricevuto in beneficio la metà del telonio, ossia delle gabelle, di Gemona, nel mentre a questa si concedeva l’esclusiva del mercato a partire da Pontafel e monte Croce fino al centro pedemontano. Al fine di controllare che non venisse eluso il buon diritto di Gemona, e con esso il proprio, Enrico aveva eretto su questo rilievo, che si adattava perfettamente alla bisogna, una specola o torre di osservazione, chiamata poi, con qualche esagerazione, castello. Perché mai questa torre, in un breve giro di anni, venne distrutta? Certo i gemonesi non gioivano 34 per il consistente salasso al quale erano assoggettati, ma forse erano ancor più insofferenti dell’arbitrario impossessamento, da parte di Enrico, dei boschi circostanti, denominati «la gran selva» e si presume quindi notevolmente fitti ed estesi. Perciò essi – in un tempo databile da ventiquattro a quaranta anni prima del 1252, secondo testimonianze non concordi rese in un documento coevo – distrussero la specola, o fortificazione che fosse, e rientrarono nel possesso dei loro fondi. È possibile dunque che lo smantellamento del castello, durato un quarto di secolo appena, sia avvenuto già sotto il patriarca Volchero (1204-1217). Lo sguardo di chi giunge in cima al Palombâr spazia facilmente dal conoide del Cjampon al centro di Gemona, allargandosi alla pianura e correndo dalle colline moreniche fino al Tagliamento e a Ospedaletto. Un po’ più laborioso è lo sforzo di riconoscere i resti del castello, che l’antica distruzione e le manomissioni ben più recenti di militari e di privati irrispettosi della storia, hanno ridotto a ben poco. Bisogna scrutare attentamente il terreno infatti per scorgervi segni di costruzioni. Il primo indizio è Dal monte Palombâr una cavità naturale, una sorta di dolina, di forma quadrangolare, di circa sette metri di lato e di profondità variabile tra i cinque e i sette metri. Se ci giriamo attorno e vi scendiamo, prudentemente beninteso, notiamo che si tratta di un anfratto naturale solo in apparenza. Infatti due pareti sono rocciose, ma le altre due recano tracce di una cortina muraria, sia pure limitate a ciottoli e pietrisco di riempimento. Una vecchia fotografia mostra però un tratto murario integro, poi demolito da incaute mani private. Nel fondo della fossa è stata sca- vata una caverna, destinata probabilmente a deposito di munizioni. L’intervento militare - plausibile dal momento che già durante la prima guerra mondiale sulla sommità del Palombâr stazionavano pezzi di artiglieria - non deve avere giovato all’integrità del rudere. Sorgeva qui la torre di vedetta? Taluni studiosi l’hanno creduto. Riesce però difficile pensare che questa buca informe potesse prestarsi alla fondazione di una torre, tenuto conto oltretutto che, non essendo questo il punto più elevato del Palombâr, per dominare la pianura sottostante l’edificio 35 Muratura scomparsa La fossa avrebbe dovuto ergersi per svariati metri. La ricerca perciò non è finita. Se saliamo di qualche metro, in direzione nord, più promettenti appaiono le tracce dei muri perime- Resti di fondazione della torre 36 trali di una costruzione a pianta quadrata, di circa quattro metri di lato, che parrebbe coeva del semi-manufatto sopra descritto. Sembrerebbero proprio questi i resti della torre di vedetta, mentre la fossa potrebbe essere stata utilizzata come locale ausiliario: un deposito, un magazzino. Anche Valentino Baldissera del resto aveva scritto: «[...] la torre si sprofonda per un paio di metri sotterra; dell’altra fabbrichetta [succursale], egualmente sino a fior di terra, due lati sono in muratura, per gli altri si trasse partito della roccia, che è tagliata ad angolo». Giuseppe Marini 3 Il forte di monte Ercole Lasciati i rude ri del castello di Grossenberg e rientrati sulla strada militare, inizia la discesa a valle. Giunti circa a quota 300 m., prima di imboccare l’ultimo tornante che conduce al laghetto Minisini si scorge sulla destra un complesso di edifici in rovina, affacciati su una stradella che porta alla sommità di un colle, il monte Ercole, dove i recenti lavori hanno meglio evi- denziato, districandoli dalla fitta vegetazione che li aveva ricoperti, i resti di una fortificazione. Si tratta di un’opera realizzata tra il 1904 e il 1913, nel contesto di un complesso sistema difensivo denominato dell’Alto Tagliamento, le cui origini e significato storico valgono la pena di essere brevemente raccontate. Nel 1866, dopo l’unione all’Italia del Veneto e del Friuli, si poneva il Il forte di monte Ercole negli anni successivi al suo smantellamento 37 problema della difesa del confine nord-orientale, che fino ad allora, se si fa eccezione per il glorioso forte di Osoppo, era rimasto del tutto sguarnito. Per varie ragioni, non ultime le difficoltà finanziarie del nuovo Stato, soltanto nei primi anni Ottanta una commissione, presieduta del generale Pianell, propose di fortificare le valli del Fella e del Tagliamento, realizzandovi le fortezze di Chiusaforte e Ospedaletto e ammodernando il forte di Osoppo. Stipulata nel 1882, tra Italia, Germania ed Austria-Ungheria, la Triplice Alleanza, di quel progetto per il momento non se ne fece nulla. Bisognò aspettare il 1896 e la caduta di Crispi, perché si riprendesse in seria considerazione – pur restando in vigore quel trattato – la difesa del fronte orientale, resa più urgente dall’intensa attività fortificatoria condotta dagli austriaci nel goriziano e lungo la valle isontina. L’aprirsi del nuovo secolo vide l’Italia condurre una politica estera di precario equilibrio e mediazione tra Francia e Imperi centrali, che non sempre procedette di concerto con lo stato maggiore dell’esercito, al punto che, paradossalmente, la cosiddetta «svolta» nella politica estera italiana – nel senso di un 38 sempre più marcato allontanamento dall’Austria-Ungheria e di un deciso avvicinamento a Francia e Inghilterra – parve più riconoscibile nelle decisioni militari che in quelle governative. Il sistema dell’Alto Tagliamento Al 1904-05 risale il piano del ministro Paolo Spingardi e del Comandante di Stato Maggiore gen. Alberto Pollio, inteso a realizzare, nelle vallate del Fella e del Tagliamento, nelle teste di ponte di Ragogna e di Pinzano e lungo l’arco delle colline moreniche che da Tricesimo conducono a Rive d’Arcano, un sistema difensivo complesso che traesse profitto dal progresso delle tecnologie militari e dal nuovo pensiero fortificatorio che si era venuto affermando a partire dagli anni Ottanta. Punti avanzati di tale sistema sarebbero stati il forte di Chiusaforte nella valle del Fella e, lungo il Tagliamento, le opere di monte Festa, di monte Ercole e di Osoppo. A sud di questa una seconda linea era prevista tra Buja e i monti Bernadia, Campeon e Faeit. Per assicurare il passaggio del Tagliamento, si prevedeva una doppia testa di ponte: sulla riva sinistra a Susans e a monte di Ragogna, e sulla riva destra a Col Colat. L’area collinare del medio Friuli sarebbe stata presidiata dalle opere corazzate di Tricesimo, Col Roncone, Santa Margherita di Gruagno, Fagagna e Modoletto. Si trattava in massima parte Il sistema dell’alto e medio Tagliamento. In neretto i forti di opere da realiztezione più sfuggente, anziché zare ex-novo e con nuovi materiali, rincorrere il progresso delle artidal momento che la rapida evoluglierie adottando co r azze semzione dell’artiglieria aveva invecpre più spesse. Sembrava infatti chiato le fortificazioni tradizionali. più conveniente che le batterie La maggior precisione del tiro cur corazzate esponessero al tiro la vo, l’allungamento dei proietti e minore superficie p o s s i b i l e , u t i l’aumento della loro capacità di lizzando cupole girevoli di spespenetrazione delle opere murarie, sore relativo, ma con un raggio di grazie anche all’impiego di esplocurvatura tale da deflettere verso sivi dirompenti, avevano reso del l’alto i proiettili. tutto inefficaci le ordinarie muraPerciò si progettarono sistemi di ture di sbarramento di pietra e di singole fortezze di dimensioni moterra. Erano ora necessari nuovi deste, adattate alle caratteristiche materiali come il calcestruzzo cedel terreno, che si appoggiassero mentizio, un conglomerato di piel’una all’altra per coprire l’intera trisco, sabbia e cemento impastato area da difendere. con acqua, capace di resistere meIl loro nucleo forte sarebbe consiglio all’impatto dei proietti. stito in un banco di calcestruzzo, Bisognava poi garantire alle boclargo più di 10 metri, incassato nel che da fuoco un profilo di pro39 terreno, con da quattro a sei pozzi di pianta circolare, protetti da cupole metalliche ciascuna con una feritoia dalla quale far uscire una bocca da fuoco di medio calibro. La difesa vicina sarebbe stata affidata alle fucilerie ed alle mitragliatrici, disposte dietro tratti di trincee dissimulate nel terreno. Batterie e cupole corazzate Sicché, a partire dal 1904, l’anno stesso in cui prese avvio la costruzione del forte di monte Ercole, sorsero lungo il confine orientale i primi cantieri delle batterie corazzate Rocchi, dal nome del generale del genio Enrico Rocchi. Si calcola che fino al 1913, su tutta l’estensione del confine con l’Austria, se ne siano realizzate ben 44, a fronte di sole quattro costruite nello stesso periodo sulle Alpi occidentali. Quanto alle cupole girevoli, nel corso di una decina d’anni ne vennero progettate e realizzate ben otto di tipo diverso, le prime delle quali, le Grillo, concepite nel 1903, vennero ben presto soppiantate dalle Armstrong, costruite a Pozzuoli a partire dal 1905 e, dal 1909 in avanti, dalle installazioni Schneider, complete di cupola, affusto e cannone. Le Armstrong erano cupole d’acciaio al nichel dello spessore di circa 14 cm. e del diametro di 4,75 m. I pozzi sottostanti erano di sezione circo- Cupola di tipo Armstrong e cannone di calibro 149A 40 Due delle quattro cupole corazzate di monte Ercole lare, dal diametro di 4,10 m. circa, e comunicavano con l’esterno soltanto tramite un cunicolo trasversale e una breve rampa di scale che portava al corridoio di servizio comune. Quest’ultimo era attrezzato con rotaie per montacarichi che permettevano di farvi giungere, dai locali sottostanti, i proietti carichi. I locali di alloggio, le cucine, le infermerie ed i servizi igienici potevano essere ubicati nella stessa area della batteria, in locali sotterranei, ma nelle opere più recenti si era preferito separare le caserme per il presidio e gli edifici di servizio dal blocco della batteria, situandoli in posizioni defilate rispetto al tiro nemico, e che non necessitavano perciò di coperture protette. La fortuna delle cupole corazzate terminò quando dalle officine tedesche Krupp uscirono proietti di 420 mm. di calibro e del peso intorno alla tonnellata, capaci di colpire con grande precisione bersagli fino a dieci km., di sbriciolare il calcestruzzo e di fare letteralmente a pezzi corazze, cupole e cannoni. 41