HARRY WU di Rodolfo Casadei «Nessuno nella stanza mostrò

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HARRY WU di Rodolfo Casadei «Nessuno nella stanza mostrò
HARRY WU
di Rodolfo Casadei
«Nessuno nella stanza mostrò interesse alla morte di Chen. Per la
prima volta da settimane, cominciai a pensare. Prima pensai a
Chen Ming. Mi aveva raccontato i suoi sogni, ma erano passati, la
sua vita era finita, lui se n'era andato. Era morto per qualcosa che
aveva senso? A quanto pareva, era possibile distruggere un essere
umano così facilmente, come un sottile foglio di carta, come una
candela spenta. Le autorità potevano dire quello che volevano su
Chen Ming, che era un criminale, un pensatore reazionario, un
indesiderabile. Il mondo intero poteva accusarlo, ma al mio amico
ormai non sarebbe successo più nulla. Non avrebbe subìto più
insulti nè dolore. Niente poteva sfiorarlo. Era in pace. Cominciai a
pensare a me. Che valore aveva la mia vita? Che cosa significava?
Perché continuava? Perché, pensavo, volevo sopravvivere? Perché
resistevo? Continuavo a vivere per la mia ragazza o per la mia
famiglia, per diventare un professore o per giocare a baseball?
Fare del mio meglio o del mio peggio non significava comunque
nulla. Prima di domani poteva essere tutto finito. Tornai a
sdraiarmi e mi avvolsi nella coperta. Non avevo risposte. Se il
giorno dopo morivo come Chen Ming, pensavo, la mia vita non
sarebbe valsa a nulla. Ma in qualche modo non volevo cedere, non
volevo arrendermi. Qualcosa dentro di me gridava, dov'è il mio
Dio, mio Padre? Aiutami. Guidami. Benedicimi. Poi la mia mente
si svuotò. E il resto della notta dormii in pace». L'uomo che ha
scritto queste parole ha trascorso 19 anni nei laogai, i lager
comunisti cinesi istituiti da Mao Zedong per "riformare attraverso
il lavoro" i nemici della Rivoluzione. Ed è proprio grazie a lui che
dei laogai si è cominciato a parlare nel mondo e che la parola ha
ha fatto il suo ingresso nei dizionari delle principali lingue del
mondo, così come grazie ad Aleksandr Solzenicyn la parola
"gulag" è diventata di uso comune a livello internazionale. Al
grande russo e al suo Arcipelago Gulag lo accostò il Los Angeles
Times quando Bitter Winds, il libro dalla cui edizione italiana è
tratto il passo sopra citato, apparve nel 1994. La New York Times
Book Review lo proclamò "libro dell'anno". Harry Wu è uno dei
protagonisti della storia contemporanea. In tutto il mondo, tranne
che in Italia. Da noi Bitter Winds, il suo libro più importante, è
stato tradotto e pubblicato (da San Paolo) solo tre settimane fa col
titolo Controrivoluzionario. L'autore è venuto dagli Stati Uniti a
presentarlo (a Milano), ma nessun grande giornale lo ha
intervistato o ha partecipato alla presentazione: né il Corriere
della Sera, nè Repubblica, nè l'Espresso, nè Panorama. Anche
l'altra opera miliare di Harry Wu, Laogai. The Chinese Gulag, è
uscita in Italia con quattordici anni di ritardo, pubblicato nel 2006
sotto il titolo Laogai. I gulag di Mao Zedong. Quando Wu venne a
presentarlo a Roma nel marzo di quello stesso anno, accadde
quello che non era mai successo in nessun paese del mondo: gli
organizzatori vennero aggrediti, Harry Wu dovette darsi alla fuga
e la presentazione non si potè tenere. Autori della prodezza, i
militanti del Centro sociale di via dei Volsci.
Cosa c'è di tanto osceno e reazionario nei libri di Harry Wu
da meritargli l'ostracismo dell'intelligentsia italiana e l'intolleranza
muscolare delle Guardie Rosse all'amatriciana? Puramente e
semplicemente la denuncia degli orrori del maoismo dalla bocca
di uno dei 50 milioni di cinesi che dall'avvento del regime
comunista (1949) ad oggi sono passati attraverso il tritacarne del
suo sistema concentrazionario. «Non sono un eroe, sono un
sopravvissuto e un testimone», dice di sè Wu. «Sono un uomo che
ha sfidato il sistema comunista ed è rimasto in piedi. Invece il
comunismo cinese cadrà, com'è caduto in Russia».
Figlio di una famiglia agiata di Shanghai, Harry Wu si
trasferisce a Pechino per studiare geologia all'università. Cerca di
sottrarsi alle riunioni di formazione politica, temendo che gli
venga rinfacciata la sua origine borghese. Viene convinto a
esporsi nell'ambito della Campagna dei Cento Fiori, allorchè Mao
invita i cinesi a formulare liberamente le loro critiche. Due anni
dopo, quando il Partito comunista promuove la Campagna contro
gli elementi di destra controrivoluzionari, le sue parole vengono
usate contro di lui. Cerca di organizzare la fuga dalla Cina con
alcuni compagni di studio, ma viene arrestato e inviato senza
processo in un campo di lavoro. La prigionia durerà ben 19
durissimi anni, durante i quali viene trasferito più volte: dalle
montagne alla pianura, da una fattoria a una miniera. Sfiorerà la
morte almeno in tre occasioni: nel 1961, quando la carestia
provocata dal fallimento del Grande balzo in avanti falcia le file
dei prigionieri; nel 1965, quando cerca di rivolgersi alle autorità
centrali per aver la revisione della pena e viene gettato in cella
d'isolamento senza cibo nè acqua per giorni; nel 1975, quando
viene travolto da un carrello dentro alla miniera dove stava
lavorando. Ma le pagine più sconvolgenti del libro sono quelle in
cui sono raccontate le "sessioni di lotta" all'interno dei lager:
quando un prigioniero veniva accusato di una mancanza, spesso in
forza di una spiata di un compagno di pena, gli altri sventurati
partecipavano con entusiasmo alla sua umiliazione e al suo
pestaggio per acquistare meriti agli occhi dei carcerieri. Allo
stesso Wu un detenuto spezza un braccio con un colpo di badile
quando viene sottoposto a una seduta di punizione per aver tenuto
nascosta per anni una copia del romanzo I miserabili. Ugualmente
agghiaccianti le risse, gli agguati e le violenze con cui i detenuti si
contendono lo scarso cibo disponibile. La narrazione di questi
eventi è assolutamente anti-eroica. Quando si chiede a Wu che
cosa lo ha aiutato a resistere, se la fede in Dio oppure l'amore per
la libertà o quello per la vita, risponde con brutale sincerità:
«Nessuna di queste cose. Ho passato i primi tre anni a piangere,
mentre le guardie mi umiliavano e i compagni mi derubavano. Poi
ho cominciato a rubare anch'io, a pensare soltanto a sopravvivere.
Sono sopravvissuto perché mi sono trasformato in una bestia».
In realtà i comportamenti bestiali di Wu e di altri prigionieri
si intrecciano con gesti di umana solidarietà e con atti di sacrificio
che commuovono e bilanciano il ribrezzo per i tradimenti,
l'indifferenza all'umana sofferenza, l'egoismo che dominano in
tante pagine. E la mansuetudine che egli mostra di fronte ai singoli
responsabili delle sue sciagure meraviglia. Quando gli si chiede se
ha mai provato odio per delatori e carcerieri, se ha mai pensato a
vendicarsi, risponde: «No, mai. Dopo il mio rilascio sono tornato a
visitare gli ex studenti universitari che mi avevano denunciato. Li
ho trovati invecchiati, deboli, senza potere. Mi hanno fatto
compassione. Sono stati usati dal Partito comunista. L'unica
vendetta che desidero è la fine del sistema comunista in Cina».
Liberato nel 1979 grazie all'esaurimento del maoismo, Wu si
è legalmente trasferito negli Usa nel 1985. Ha pensato di mettere
una pietra sul passato, di approfittare della libertà per rifarsi una
vita, ma dopo la repressione di piazza Tian An Men nel 1989
qualcosa è scattato dentro di lui. Dall'ignavia è passato all'audacia.
Non solo ha cominciato a scrivere libri sui laogai e sulla sua
personale odissea, ma è tornato segretamente in Cina nel 1991 per
filmare i campi di lavoro e raccogliere informazioni su di essi.
Subito dopo ha testimoniato davanti al Congresso. Sfortunata la
spedizione del 1995, allorchè fu immediatamente arrestato e
condannato a 15 anni di prigione per spionaggio. «Mi ha salvato il
passaporto americano», racconta, «dopo 66 giorni sono stato
rilasciato ed espulso».
«I campi di oggi sono meno inospitali di quelli in cui ho
lavorato io», spiega. «Ma svolgono la stessa funzione di allora:
intimidire la popolazione per evitare che sorga il dissenso,
produrre beni materiali. Sono al servizio di un sistema totalitario».
L'efficacia repressiva del sistema risalta in maniera sconvolgente
nelle pagine di Controrivoluzionario: le Campagne di lotta
ideologica decise da Mao non hanno per obiettivo di individuare
nemici reali della Rivoluzione, ma di intimidire il popolo e
produrre un conformismo assoluto. Gli "elementi di destra", i
"reazionari", i "controrivoluzionari" che in tutti gli ambiti della
società vengono individuati, denunciati e puniti ogni volta che il
regime decide una campagna ideologica non sono veri avversari,
ma vittime sacrificali. Per non essere sospettati di deviazionismo, i
dirigenti di Partito responsabili delle università, delle fabbriche,
delle campagne, ecc. sacrificano alcuni disgraziati per dimostrare
la propria efficienza e fedeltà. Le vittime sono rigettate dagli amici
e dai familiari (ancora oggi gli stessi fratelli e sorelle di Harry Wu
lo rinnegano), timorosi di avere la vita rovinata dalla parentela col
reprobo. E gli arrestati, per poter sperare di essere un giorno
liberati, si autoaccusano all'infinito di interrogatorio in seduta
politica. «Non dovete meravigliarvi, questa è la Cina anche oggi.
Nessuno dice quello che pensa veramente, tutti dicono quello che
il Partito pretende che dicano, per evitare di essere accusati di
tradimento. Oggi c'è libertà di arricchirsi, ma solo se si accetta di
approvare a parole tutto quello che fa il Partito».
Gli dispiace che i Giochi olimpici siano stati assegnati a
Pechino. «I Giochi rafforzeranno il regime. Mi dicono: ci saranno
5 mila giornalisti che potranno scrivere di tutto. Ma non potranno
parlare coi cinesi, perché ogni contatto non autorizzato con uno
straniero può essere punito con l'accusa di spionaggio, tradimento,
rivelazione di segreti di Stato». Gli chiediamo se prova ancora
quel senso di vuoto circa il senso della sua vita che lo assaliva nei
momenti più difficili della prigionia. «No. Ho vissuto una vita
piena di senso e, come diciamo noi cinesi, posso morire con gli
occhi chiusi. Il senso della mia vita è stato far conoscere in tutto il
mondo cosa sono i laogai e far entrare la parola nei dizionari di
tutte le lingue del mondo. Ci sono riuscito: la parola laogai è
entrata nei dizionari della lingua inglese, e da lì passerà in tutti gli
altri. Ho 70 anni, la mia vita volge al termine, ma muoio felice».
Dice così, ma un velo di tristezza attraversa il suo sguardo: pensa
al padre morto in povertà, anche lui perseguitato fino alla fine;
pensa alla matrigna che lo amò come una madre, e che dopo il suo
arrestò si suicidò per non doverlo rinnegare come invece fecero i
fratelli; pensa al fratello minore Maodao, ucciso dalla polizia.
Autografa il libro, stringe la mano e si alza.