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Narrare i gruppi
Etnografia dell’interazione quotidiana
Prospettive cliniche e sociali
ISSN: 2281-8960
Vol. 9, n°1-2, Aprile 2014
LA PSICOLOGIA DEL FENOMENO MAFIOSO.
Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Ndrangheta e sulla Camorra
(a cura di) Girolamo Lo Verso, Giuseppe Licari, Antonino Giorgi
NiG - edizioni
Rivista semestrale pubblicata on-line dal 2006
website: www.narrareigruppi.it
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
SOMMARIO
1. Focus sul pensiero mafioso
Roberto Scarpinato
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STUDI E RICERCHE SU COSA NOSTRA
2. Il boss ieri e oggi. Caratteristiche psicologiche e dati di ricerca
Cecilia Giordano, Girolamo Lo Verso
17
3. Le strategie comunicative di Cosa Nostra: una ricerca empirica
31
Giuseppe Mannino, Serena Giunta, Serena Buccafusca,
Giusy Cannizzaro, Girolamo Lo Verso
4. Crescere in terre di mafia
51
Marie Di Blasi, Paola Cavani, Sabina La Grutta, Rosa Lo Baido, Laura Pavia
5. Psicodinamica del fenomeno mafioso. La ricerca psicologica-clinica
sulle intercettazioni ambientali e il crimine dei colletti bianchi
Giuseppe Mannino, Serena Giunta
63
STUDI E RICERCHE SULLA ‘NDRANGHETA
6. Segni della ‘Ndrangheta in Lombardia: studio di un artefatto culturale
79
Caterina Gozzoli, Antonino Giorgi, Roberta Lampasona
7. La 'Ndrangheta e la strada. Gruppo esperienziale con gli agenti
dell'unità mobile di Reggio Calabria
Emanuela Coppola, Ivan Formica
89
8. Le vittime del racket. Imprenditori e commercianti alle prese con
Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra
Francesca Giannone, Anna Maria Ferraro
101
9. Lo sviluppo economico e della persona in contesti mafiosi:
il ruolo dei beni relazionali
Antonino Giorgi, Chiara D’Angelo, Francesca Calandra
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Gli autori
Roberto Scarpinato, Procuratore Generale di Palermo
Girolamo Lo Verso, Università di Palermo
Giuseppe Licari, Università di Roma “La Sapienza”
Antonino Giorgi, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia
Cecilia Giordano, Università di Palermo
Giuseppe Mannino, Università LUMSA di Roma
Serena Giunta, Università di Palermo
Serena Buccafusca, Università di Palermo
Giusy Cannizzaro, Università di Palermo
Maria Di Blasi, Università di Palermo
Paola Cavani, Università di Palermo
Sabina La Grutta, Università di Palermo
Rosa Lo Baido, Università di Palermo
Laura Pavia, Università di Palermo
Caterina Gozzoli, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Roberta Lampasona, Università di Palermo
Francesca Giannone, Università di Palermo
Anna Maria Ferraro, Università di Palermo
Ivan Formica, Università di Messina
Emanuela Coppola, Università di Messina
Chiara D’Angelo, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Focus sul pensiero mafioso
Roberto Scarpinato
Riassunto
Il lavoro si assume il compito di presentare un numero monografico sulle mafie (Cosa
Nostra e ‘Ndrangheta) prodotto da studiosi dell’Università italiana che si occupano di questi temi
da oltre vent’anni.
Nella prima parte l’autore espone il suo punto di vista su Cosa Nostra a partire dalle sue
conoscenze fatte in prima persona come Procuratore Generale della Repubblica italiana. Mentre
nella seconda accompagna il lettore presentando brevemente il contenuto dei vari articoli.
Parole chiave: mafia, ‘ndrangheta, legalità, cultura, intervento dello Stato.
Focus on the Thinking Mindset of Mafia
Abstract
This work aims at introducing a monographic issue about two regional branches of Mafia
(Cosa Nostra and ‘Ndrangheta) developed by Italian University scholars who have been dealing
with this topic for over twenty years.
In the first part the author explains his viewpoint about Cosa Nostra starting from his experience
in first person as General Attorney of the Italian Republic, while in the second he accompanies the
reader with a short introduction of the content of the various articles.
Keywords: Mafia, ‘Ndrangheta, legality, culture, State intervention.
Presentazione
Volendo introdurre il lettore al tema della psicologia del fenomeno mafioso partirei
sottolineando che gli autori di questo numero sulle mafie affrontano il tema da un vertice
di osservazione psicologico clinico, sociale e organizzativo, ma non mancano le
collaborazioni strette con antropologi, sociologi e con magistrati che nella lotta alla
criminalità organizzata si sono mossi sempre in prima linea. Tra questi ultimi il mio
pensiero va senz’altro a Giovanni Falcone, assassinato nel 1992, il quale fu tra i primi a
sollecitare il mondo accademico a interessarsi del fenomeno mafioso anche sul versante
della psicologia. Dopo di lui altri magistrati, tra i quali vorrei ricordare Teresa Principato e
Gioacchino Natoli, hanno collaborato con gli studiosi di questo numero pubblicando
numerosi articoli e libri.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Gli autori dei vari contributi che presento si occupano di mafia da diverse angolature,
indagando ora il mondo interno dell’uomo d’onore, gli assetti relazionali e psicopatologici
delle sue matrici familiari, le connessioni tra mondo interno e mondo sociale, regole
interiorizzate e regole sociali, le credenze, i valori, le strumentalizzazioni (Licari, 2009) e le
crudeltà di un sistema totalitario che può trovare simili solo in frange di fondamentalismo
religioso agguerrito (Lo Verso, 2005).
Come se non bastasse, negli ultimi tempi, le ricerche ci mostrano ancora un altro aspetto
inquietante, forse già intuito, ma sicuramente non pensato in tutto il suo “splendore” e la
sua complessità, un aspetto che attiene al rapporto tra mafia e cosiddetti colletti bianchi.
Amministratori del bene pubblico senza scrupoli, presenti in tutti i settori meglio
rappresentati da elevate quotazioni economiche (edilizia, sanità e finanza). E quest’ultimo
aspetto di collusione fra mafia e crimine economico, ben rappresentato in questo lavoro,
vuole contribuire ad evidenziare i lati ancora oscuri fra mafia e strumentalizzazioni
economica, a danno della società civile.
Detto questo, prima di continuare devo informare il lettore che in questa presentazione
voglio riproporre gran parte della mia prefazione scritta per il testo di Girolamo Lo Verso
“La mafia in psicoterapia, pubblicato da FrancoAngeli nel 2013, perché quando mi è stato
chiesto di scrivere questa presentazione, più volte mi sono ritrovato a pensare alle mie
riflessioni presenti in questa prefazione, e più volte mi sono convinto che dovevo trovare
un modo per riproporre le stesse anche ad un lettore internazionale. E così mentre andavo
pensando a cosa scrivere ha preso corpo la decisione di riproporre buona parte del testo
accennato, ampliandolo laddove l’ho ritenuto necessario per renderlo coerente con quanto
gli articoli di questo numero propongono.
Di seguito riprenderò, dunque, buona parte della mia riflessione apparsa nel testo di Lo
Verso e concluderò questa mia presentazione entrando brevemente nel merito di ogni
contributo che compone questo numero.
Come accennai allora, anche gli scritti raccolti in questo numero possono essere letti come
una tappa di un cammino che dura da più di vent’anni e che si annuncia, ancora una volta,
come un nuovo inizio. Come dirò meglio in seguito, se Giovanni Falcone fosse ancora tra
noi, ora potrebbe dire di essere stato ascoltato dai suoi amici e colleghi dell’Università
palermitana quando disse, in più occasioni, “come mai questa Università non studia il
fenomeno mafioso”. Oggi, infatti, possiamo affermare con certezza che gli studiosi della
scuola palermitana di psicologia, anche spinti dagli eventi che ’92, hanno sentito e agito il
desiderio di Falcone e si sono messi a studiare quello che io uso chiamare “gli inferi dello
psichismo mafioso”.
<<Tenuto conto che la questione mafiosa è stata onnipresente e pervasiva sin dalla
fondazione dello Stato unitario, vi è da chiedersi come mai il viaggio negli inferi sia stato
rinviato per così lungo tempo.
Una possibile spiegazione è che il sapere non è mai “innocente”.
Molti secoli prima che Althusser, Foucault e Chomsky ponessero in luce come la
costruzione del sapere sociale sia sempre stata manipolata dagli apparati culturali che
rispecchiano i rapporti di forza esistenti, il cardinale Mazzarino, consigliere del re di
Francia Luigi XIV non si stancava di ricordare al sovrano: “Maestà, il trono si conquista con le
spade ed i cannoni, ma si conserva con i dogmi e le superstizioni”.
Poiché la mafia è sempre stata una declinazione della criminalità del potere, un
instrumentum regni di cui si sono serviti significativi settori delle classi dirigenti per alterare a
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
proprio vantaggio quello che Giovanni Falcone chiamava il “gioco grande”, anche la
costruzione del sapere sociale sulla mafia è stata contaminata dai dogmi e dalle superstizioni
veicolati dal potere (Falcone, Padovani, 1991).
Così dopo una lunga fase storica nella quale si negava pervicacemente l’esistenza della
mafia, accreditandola come innocua e folcloristica manifestazione di costume locale, si è
passati negli anni Settanta ed Ottanta del ventesimo secolo alla sua riduzione a semplice
accozzaglia di comuni bande criminali in eterna lotta tra loro.
Ancora nel 1982 il sindaco di Palermo Nello Martellucci, esponente di punta della
corrente andreottiana, si opponeva pubblicamente alla concessione di poteri speciali al
prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa per coordinare la lotta alla mafia, dichiarando che la
mafia lui non l’aveva mai vista e che quella di Palermo era solo criminalità comune, come
ve ne era in tutto il paese. E ciò, si badi bene, avveniva dopo l’impressionante catena di
omicidi mafiosi che aveva lasciato sul terreno Michele Reina, segretario provinciale della
Democrazia cristiana (9.3.1979), Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo
(21.7.1979), Cesare Terranova già capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo (25.9.1979),
Piersanti Mattarella, Presidente della regione siciliana (6.1.1980), Emanuele Basile,
capitano dei Carabinieri (4.5.1980), Gaetano Costa, Procuratore della Repubblica di
Palermo (6.8.1980), Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano
(30.4.1982).
Dopo le stragi del 1992 e del 1993, la nuova sofisticata impostura culturale è che la mafia
esiste e, tuttavia, è solo una storia di bassa macelleria criminale – intessuta di estorsioni,
omicidi truculenti, traffici di stupefacenti - di cui sono protagonisti personaggi come
Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, ex villici che si esprimono in un italiano
approssimativo ed i cui tratti fisiognomici, duri e sprezzanti, appaiono quasi
lombrosianamente rivelatori della loro intima natura crudele.
La contaminazione del sapere da parte del potere non ha lasciato indenne neppure il
sapere psichiatrico.
Girolamo Lo Verso racconta come abbia iniziato a studiare sistematicamente la psicologia
mafiosa nel 1994 prendendo spunto dallo studio delle perizie del “caso Vitale”, uno dei
primi pentiti di mafia dei tempi moderni.
Leonardo Vitale, detto il Joe Valachi di Altarello di Baida, era divenuto uomo d'onore nel
1960. Nel marzo 1973 denunciò molti boss, tra cui Salvatore Riina, Pippo Calò, Rosario
Riccobono e Vito Ciancimino, chiedendo esplicitamente di parlare soltanto con Bruno
Contrada, all'epoca dirigente della sezione investigativa della Squadra Mobile di Palermo.
Nonostante le sue dichiarazioni avessero anticipato molte delle rivelazioni che saranno poi
rese da Tommaso Buscetta nel 1984, il Vitale non fu creduto e le persone da lui accusate
furono tutte assolte.
Dopo esser stato sottoposto a numerose perizie psichiatriche, fu rinchiuso per 10 anni nel
manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. Trascorsi due mesi dal giorno del
ritorno in libertà, venne ucciso all'uscita da una chiesa, davanti alla famiglia.
Lo Verso spiega che la conclusione cui approdò studiando le perizie psichiatriche, fu che
Vitale diceva la verità, ma poiché quella verità era destabilizzante per l’“Ordine costituito”
fu dichiarato pazzo dai periti sensibili alle esigenze del potere: “Le numerose perizie
psichiatriche si potevano dividere in due gruppi: alcune dicevano che era incapace di intendere e di volere ed
era inattendibile, altre che aveva seri problemi psichiatrici, ma era attendibile. Studiando le carte e
conoscendo i colleghi mi resi conto di una cosa ovvia, col senno di poi, che sarebbe stata una costante negli
studi successivi. I due gruppi di periti erano differenti, in primo luogo, da un punto di vista antropologico7
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
professionale. Il primo era fatto da psichiatri “appassionati” al potere e cioè con carriere ed interessi legati
alla politica locale e che, probabilmente, condividevano l’incredibile e comoda idea molto diffusa e ripetuta
in quegli anni, almeno fino al maxi processo ed all’affermarsi del “metodo Falcone”, e cioè, che la mafia
non esisteva [...]. Il secondo gruppo era fatto da persone note per la loro correttezza e professionalità ed
alcuni avevano anche una formazione analitica. Prevalsero, in quella cultura, i primi. Vitale venne
dichiarato inattendibile e Cosa Nostra guadagnò molti anni di invisibilità” (Lo Verso 2013: 23-24).
Prendendo a prestito il concetto freudiano del Das Unheimliche, potremmo dire che il
“perturbante” che Vitale rivelò e che in un gioco di specchi chiamava in causa il
“perturbante” del sistema sociale di cui quei tecnici erano espressione organica, venne
esorcizzato e disinnescato come frutto di follia (Scarpinato, 1998).
A proposito della contaminazione del potere legale da parte di quello illegale - che si
risolveva anche in una contaminazione dei saperi – è il caso di ricordare che circa un
quarto di secolo dopo che Vitale aveva iniziato a rendere le sue dichiarazioni, si accerterà,
con sentenza definitiva, che Bruno Contrada, il dirigente della Squadra Mobile che egli
aveva ritenuto di identificare come simbolo di uno Stato credibile – potremmo dire di un
padre affidabile – era in realtà una longa manus del potere mafioso negli apparati di Polizia.
A parte tali sporadiche e necessitate incursioni, il sapere medico-psichiatrico sino alle
stragi del 1992 si era disinteressato dello psichismo di un universo mafioso interclassista di
cui si negava persino l’esistenza e di cui da parte di molti, immersi in quello stesso habitat
antropologico, non si riusciva neppure a cogliere l’alterità patologica.
In quel deserto culturale, specchio di una colossale rimozione collettiva, i pochi magistrati
che nella prima metà degli anni Ottanta si avventurarono all’interno dell’universo mafioso,
dando inizio alla straordinaria stagione giudiziaria culminata nel maxiprocesso, dovettero
talora trasformarsi, per necessità di servizio, in involontari psicologi, antropologi, etnologi
e sociologi.
Tra questi Giovanni Falcone a proposito del quale Lo Verso ricorda: “Giovanni Falcone era
persona informata di psicologia. Era psicologa la sua prima moglie con cui visse tanti anni. Erano
psicoterapeuti, psicoanalisti e psichiatri alcuni suoi intimi amici. Del suo metodo, infatti, faceva parte
anche la capacità analitica di gestire un adeguato set(ting) (Di Maria, Lo Verso 2005). Buscetta non
parlò mai nemmeno sotto le torture della polizia militare brasiliana. Parlò con Falcone perché si “fidava”
di lui e lo stimava. Uno “sbirro” verace che, pur restando rigorosamente nel suo ruolo “di nemico”, capiva
che aveva a che fare con un orgoglioso generale che si riteneva un “uomo d’onore” e non con un delinquente
qualsiasi da minacciare e maltrattare. […]. Entrambi erano cresciuti nel centro storico di Palermo (come
Borsellino), e Falcone capiva bene, quindi, con chi aveva a che fare. In sostanza, Falcone capiva, come si fa
in psicoterapia analitica, che il punto di vista dell’altro per te può essere folle e sintomatico (criminale, in
questo caso), ma per lui è la “verità”, è la sua identità senza la quale impazzisce. La professionalità sta
nel gestire questo equilibrio tra le differenze (un magistrato ed un mafioso) e la comprensione di ciò che
l’altro vive. Per questo Buscetta parlava con lui” (Lo Verso, 2013: 24).
In quegli anni, come ancora Lo Verso rievoca, Falcone, rivolgendosi ai suoi amici
psicoanalisti e psichiatri esclamava “Ma in questa Università non fate niente?”
Ci volle il trauma collettivo delle stragi del 1992 e, soprattutto ci volle il crollo del sistema
di potere della prima Repubblica, scambiato all’inizio come il possibile riavvio su nuove
basi della storia italiana, tornata invece ben presto ad essere l’eterna storia circolare di
sempre, perché le scienze sociali raccogliessero finalmente l’invito di Falcone uscendo
dall’autoipnosi culturale nella quale erano state immerse per tanti decenni.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Quel susseguirsi di eventi aprì alcune linee di frattura all’interno del mondo della mafia
popolare, sino ad allora impermeabile a qualsiasi sonda esterna.
Inizia così la stagione dei collaboratori di giustizia i quali, illudendosi che il mondo di
potenti in cui avevano vissuto fosse crollato per sempre sotto i colpi di Tangentopoli e
della reazione dello Stato alla sfida stragista (uno Stato finalmente “masculittru”
commenteranno alcuni di loro), si sentono liberi di rivelare finalmente non solo le vicende
criminali di cui erano stati artefici gli uomini d’onore provenienti dai ceti popolari, ma
anche quelle di cui erano stati coprotagonisti – talora come mafiosi organici, talora come
mandanti esterni, talora come collusi - una miriade di colletti bianchi appartenenti ai piani
medio – alti della piramide sociale.
Il “perturbante” a lungo rimosso, esce così fuori dal vaso di Pandora nel quale per più di
un secolo e mezzo era stato rimosso.
La linea di confine tra la città dell’ombra abitata dai portatori del male di mafia e la città
della luce popolata dagli innocenti, diventa sempre più evanescente.
I processi mettono in scena il fuori scena (ob-scenum), rivelando che il male che
combattiamo fuori di noi è anche tra noi, è dentro di noi.
Gli assassini, i carnefici non hanno solo i volti truci e noti di coloro che sulla scena dei
delitti si sono sporcate le mani di sangue e che nell’immaginario collettivo vengono elevati
a mostri (da monstrum: colui che viene messo in mostra) sui quali proiettare catarticamente
il male di mafia, esorcizzandolo. Hanno anche i volti di tanti sepolcri imbiancati e di
intoccabili che per la prima volta nella storia nazionale vengono processati: persone come
noi, che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che incontriamo nei migliori salotti, e
pregano lo stesso Dio, sentendosi, per di più bravi cristiani ed in pace con se stessi.
Ed è a questo punto che, ancora una volta, il “perturbante” viene rimosso e fatto sparire
dalla scena. I collaboratori di giustizia, demonizzati da martellanti campagne di stampa
ogni volta che chiamano in causa i potenti, tornano prudentemente nel tempo ad
autocensurarsi, raccontando solo il “raccontabile”, cioè la parte della storia che appare
socialmente accettabile.
L’opera di rimozione viene poi completata mediante un sapiente uso del faro mediatico
che proietta costantemente la sua luce vivida ed accecante solo sulla faccia del pianeta
mafioso abitato dai soliti “brutti, sporchi e cattivi” della mafia popolare, lasciando
nell’oscurità quella abitata dai colletti bianchi.
Si crea così l’effetto luna, grazie al quale solo la faccia illuminata del pianeta mafioso viene
resa leggibile ed elevata a simbolo dell’intero pianeta.
E’ tutto un fluire di fiction televisive, di film, di libri che narrano le gesta truculente dei
padrini con la coppola storta. Scompaiono invece dalla scena e dalla memoria collettiva
tutte le altre storie, accertate nei processi, che riguardano le gesta, le complicità nei crimini
di mafia di un Presidente del Consiglio dei Ministri che frequentava summit nei quali si
discuteva di omicidi eccellenti, di parlamentari, di capi dei Servizi Segreti, di capi della
polizia, di alti magistrati, di avvocati dalle parcelle d’oro, di medici, architetti, professori,
ingegneri, banchieri, imprenditori ai vertici di Confindustria e di multinazionali e, persino,
di ecclesiastici: un popolo di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione e
complicità personaggi come Riina, eredi dei bravi di manzoniana memoria, sarebbero
scomparsi da tempo dalla scena o si sarebbero acconciati a farsi la galera per i loro crimini,
senza mai osare sfidare lo Stato.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Si tratta di un fenomeno a mio parere straordinario perché replica a livello sistemico di un
intero corpo sociale, quasi le stesse dinamiche di rimozione messe in opera dai singoli
individui quando il loro io non riesce a governare il perturbante che li abita. E così come il
“rimosso” individuale continua ad “agire” l’esistenza dei singoli, il “rimosso collettivo”
continua ad agire segretamente la vita sociale.
E’ mia opinione che sia bene tenere presente questa chiave di lettura globale nel leggere gli
esiti della ricerca condotta dalla scuola palermitana di psicologia, i cui esponenti si
collocano in questo campo all’avanguardia in campo internazionale.
A parte il caso di Guttadauro, credo, infatti, che proprio a causa del fenomeno di
rimozione collettiva accennato, le voci dall’interno del pianeta mafioso raccolte dagli
autori della ricerca trasfusa in questo volume, siano essenzialmente quelle degli
appartenenti alla mafia popolare e delle loro vittime.
Manca la voce dei potenti e degli appartenenti al vastissimo popolo della borghesia
mafiosa, la cui omertà – sia in senso giudiziario che psicoanalitico – è ben superiore a
quella dei mafiosi provenienti dai ceti popolari.
Non si sa quanto il silenzio impenetrabile che blinda i piani superiori del sistema mafioso
sia ascrivibile ad una maggiore capacità di autogestire i conflitti interiori, oppure ad una
irredimibile incapacità di essere veri anche dinanzi a se stessi.
La falsa e flessibile coscienza del borghese che sa stare al mondo, è in grado di
metabolizzare e biodegradare la sofferenza inflitta agli altri e a se stessi molto meglio di
quanto consentano le rigidità psichiche degli uomini del popolo; rigidità che talora li
imprigionano in una camicia di nesso, rendendoli quasi automi inconsapevoli, ma, talora,
possono anche incrinarsi dinanzi a quel che viene vissuto come il crollo del proprio
mondo. Emblematico è, in proposito, il vissuto di spaesamento e di dis-identità di taluni
collaboratori di giustizia e dei loro familiari.
Il silenzio impenetrabile della borghesia è rotto solo dalle macchine: le microspie delle
intercettazioni ambientali rimettono in scena il fuori scena censurato dall’omertà culturale
collettiva.
Per quanto mi riguarda il vero perturbante è stato rendermi conto che lo psichismo
mafioso degli uomini della mafia popolare, di cui negli scritti raccolti nel volume vengono
tracciate le coordinate essenziali, era solo la versione popolare ed estremizzata dello stesso
psichismo dei loro omologhi borghesi.
Nel “fuori scena” gli esponenti della borghesia mafiosa, toltasi la maschera costantemente
indossata sulla scena della vita sociale e pubblica, si rivelavano omologhi ai mafiosi
popolari, tanto che ascoltando le conversazioni intercettate non si era in grado talora di
rendesi conto della differenza tra gli uni e gli altri, e per seguire bene il dialogo occorreva
leggere la trascrizione nella quale le frasi venivano ordinatamente attribuite ai singoli
interlocutori.
Le intercettazioni ambientali ci hanno consentito anche di assistere ad un corso di cultura
mafiosa. Un medico chirurgo, capo di un importante mandamento mafioso, dopo essersi
intrattenuto durante le ore antimeridiane con i potenti della città per discutere di piani
regolatori, di candidature alle elezioni politiche, di manipolazioni di gare di appalto e di
concorsi pubblici, nei pomeriggi riceveva gli uomini della mafia popolare: killer, estorsori,
trafficanti di droga e vari specialisti della violenza materiale. Ad uno di costoro, che
appariva dotato dei giusti requisiti per accedere ai gradini superiori della piramide mafiosa,
il medico chirurgo, Guttadauro, spiegava pazientemente l’arte e la scienza borghese
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
dell’agire mafioso, che deve essere sempre rispettoso delle gerarchie sociali e funzionale
alla perpetuazione dei rapporti di forza esistenti, fondati sui privilegi di pochi ai danni di
tutti.
Proprio perché lo psichismo mafioso è lo specchio di un universo sociale interclassista e
delle sue interazioni con altri universi sociali, in corso d’opera gli psicologi si sono resi
conto che lo strumentario concettuale classico di tipo fortemente individualistico era
inadeguato a studiare lo psichismo mafioso.
Spiega in proposito Lo Verso: “Credo che fenomeni che sovrappongono cultura, famiglia e individuo
quali quelli della psicologia mafiosa siano difficili da cogliere per la loro peculiarità ed ampiezza,
soprattutto mantenendo un vertice psicoanalitico. […]. Ritengo che oggetti di studio di questo tipo non si
possono adeguatamente studiare con modelli riduttivistici, di qualsiasi tipo, siano ad esempio, fortemente
individualistici concentrati soltanto sull’intrapsichico o sulla relazione madre-bambino o sui processi meta
cognitivi e nemmeno solo sulle interazioni familiari. […]. Una realtà complessa richiede per definizione
strumenti di studio complessi (e non ragionamenti pre-confezionati) che guardino ampiamente ma non
genericamente, che siano consapevoli della necessità dell’esistenza di altri sguardi (ad esempio, politici,
economici, giuridici, storici, sociologici, ecc.). Con l’uso di modelli esclusivamente intrapsichici ed
individualistici o socio-interattivi, si possono cogliere solo pezzetti di queste realtà e non spiegare, ad
esempio, la sostanziale omologazione identitaria dei membri di Cosa Nostra tra di loro. Oppure, come la
cultura mafiosa e Cosa Nostra riuscissero a costruire dei robot che, ben più dei kamikaze, fossero
impastati di un fondamentalismo (in senso psichico) che ne fa dei terminator capaci di uccidere senza
provare alcuna fantasia, emozione, e fare un pensiero, né prima, né durante, né dopo. Sino al punto,
incredibile dopo un secolo di ricerca psicoanalitica e neuropsicologica, dell’assenza di tracce emotive
dell’uccidere, nemmeno a livello inconscio ed onirico” (Lo Verso, 2013: 26-27).
Pertanto è stata ampiamente messa in campo la modellistica della Gruppoanalisi
soggettuale che nello studiare la psiche mafiosa approfondisce il rapporto tra mondo
interno, analiticamente inteso, anche se con forti accenti relazionali, ed il conconcepimento da cui esso nasce, e cioè, il campo psichico familiare con la sua storia ed il
suo sfondo antropologico transgenerazionale.
Uno degli aspetti più rilevanti degli esiti della ricerca è, a mio parere, che la mafia non
genera solo una grande sofferenza psichica nel mondo delle vittime ad essa esterno, ma
anche al proprio interno tra i propri membri; una sofferenza che può sfociare in una vera
e propria psicopatologia:
“[…]. L’ipotesi di ricerca era che l’appartenenza ad una famiglia mafiosa genera una “matrice di
pensiero” che ostacola il processo di soggettivazione; non promuove lo sviluppo di un percorso esistenziale
individuale; impedisce di costruire un senso di identità e un percorso di crescita personale ed autonoma.
L’individuo è all’interno di un pensiero già pensato dal mondo familiare rispetto al quale è difficile e
colpevolizzante e spesso terrificante trasgredire” (Lo Verso, 1998: 53).
La ricerca empirica sul campo ha poi confermato tale ipotesi. La mafia, prima ancora che
una organizzazione criminale, si è rivelata un vero e proprio “organizzatore psichico”che
opera secondo le seguenti modalità:
- “Il mafioso costruisce la propria identità in una famiglia satura, nel senso che non è pensabile
un’autonomia di pensiero per i figli. (Quindi, in sostanza, viene costruito in maniera quasi scientifica
rispetto agli scopi del potere criminale mafioso).
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
- Le famiglie mafiose si caratterizzano per una grande presenza di segreti familiari; in esse è vietata
qualunque autentica forma di comunicazione reciproca e non è tollerabile l’incontro con la diversità,
psichica e culturale.
- Nei membri di famiglie mafiose prevale un pensiero dicotomico (bianco-nero) che sostiene, ad un livello
psicologico profondo, la separazione tra Noi sociale (nemico) e Noi familiare (amico).
- I modelli relazionali prevalenti nelle famiglie mafiose hanno una forte caratterizzazione
“psicopatologica” nel senso che la mafia impone un’obbedienza ‘a priori’ e un assoggettamento psichico
dei suoi membri, che non hanno possibilità di pensieri divergenti, ambivalenti, critici, riflessivi, ecc.
Come abbiamo visto, questo fenomeno, presente anche in realtà totalitarie o “militanti” di tipo
religioso o politico, è così forte che persino collaboranti di giustizia o pazienti in psicoterapia non
riescono a separarsene interamente.
La famiglia mafiosa, come organizzazione criminale, “satura” profondamente il processo evolutivo della
famiglia biologica e condiziona profondamente il processo di soggettivazione dei suoi membri” (Lo Verso,
1998: 56).
In sostanza è come se la psiche individuale fosse colonizzata sin dall’origine dalla psiche
collettiva del proprio familiare, che è trans-generazionale ed allargato sino a ricomprendere
la famiglia mafiosa nella quale l’individuo si identifica totalmente, annullando la propria
soggettività.
Nel corso della sua ricerca Lo Verso si chiede, inoltre, se la mafia sia in crisi e se gli inferi
dello psichismo mafioso siano destinati, nel tempo, a lasciarsi biodegradare
dall’omologazione livellante delle culture della post-modernità.
Non è facile rispondere a questo interrogativo che chiama in causa l’interazione futura tra
una molteplicità di fattori complessi di ordine macropolitico e macroeconomico.
A mio parere è tuttavia certo che sino a quando gli emuli di “Don Rodrigo”1
continueranno ad occupare ruoli di vertice nella politica e nell’economia, dovremo
purtroppo rassegnarci a convivere con i loro “bravi”, che costituiscono a valle il sotto
prodotto sociale del loro nefasto operare a monte.
Il vero pericolo è che lo psichismo mafioso, derivante dalla risalente e pre-moderna
“cultura della roba”, si saldi e si ibridi senza soluzione di continuità con il nuovo
psichismo della cultura post-moderna del profitto senza regole e senza responsabilità.
Alcuni segnali vanno in questa direzione.
Le recenti cronache giudiziarie attestano, per esempio, il successo dell’economia mafiosa
nelle regioni del triangolo industriale del nostro Paese: Piemonte, Veneto e Lombardia.
Nelle motivazioni delle ordinanze di custodia cautelare, i magistrati registrano con
preoccupazione la crescente accettazione sociale del modello mafioso in quelle zone, dove
le nuove aristocrazie criminali non si impongono con l’uso della forza, ma si
“propongono” sul mercato offrendo straordinarie opportunità di ridurre i costi di
produzione e di incrementare i profitti, mettendo a disposizione il know-how mafioso.
Ed ancora le cronache giudiziarie attestano il crescente protagonismo criminale dal Nord
sino al Sud di una nuova entità collettiva che i criminologi denominano “sistema
criminale” e che la stampa definisce di volta in volta come “cricche”, “comitati di affari”,
P3, P4 e via elencando.
1
Si veda il testo di Alessandro Manzoni (1841), I promessi sposi, 1969.
12
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Si tratta di network reticolari di potere di cui fanno parte soggetti appartenenti a mondi
diversi – il politico, l’amministratore locale, l’imprenditore, il faccendiere, il colletto bianco
delle mafie - che mettono in comune le diverse risorse di cui dispongono (relazioni
politiche, potere di influenza, potere corruttivo, potere di intimidazione) per la conquista
progressiva di posizioni di dominanza in vari settori del mercato e in interi comparti
territoriali.
A questo punto vi è da chiedersi se un mutante evoluto del gene dello psichismo mafioso,
liberatosi di alcune zavorre del passato, non sia già felicemente attecchito nel nord del
Paese ridiscendendo la penisola.
Se così fosse non sarebbe una novità, ma solo un ritorno dell’eterna e circolare storia
italiana: Don Rodrigo ed i suoi bravi – progenitori del metodo mafioso - non erano forse
di quelle zone?>>2
E veniamo ora ai singoli contributi che compongono il numero.
Il volume si apre con il lavoro di Cecilia Giordano e Girolamo Lo Verso dal titolo, Il boss
ieri e oggi, che descrive le caratteristiche psicologiche dei boss di Cosa Nostra utilizzando
citazioni di interviste a collaboranti di giustizia, mogli, figli e parenti stretti, al fine di far
emergere i rapporti primari fra la figura del boss e il suo contesto relazionale primario e
secondario. Il lavoro riporta, in particolare, i risultati di un’ indagine che ha visto come
protagonista un noto boss mafioso siciliano: Giuseppe Guttadauro, il quale, fino al giorno
del suo arresto, ricopriva, serenamente, anche il ruolo di primario in un noto Ospedale di
Palermo distribuendo cariche prestigiose a suo piacimento.
Il lettore, seguendo il testo, trova un articolo sulle strategie comunicative di Cosa Nostra
proposto da Giuseppe Mannino, Serena Giunta, Serena Buccafusca, Giusy Cannizzaro e
Girolamo Lo Verso, che propone uno studio esplorativo sulle strategie di comunicazione
di Cosa Nostra e sulle caratteristiche che il linguaggio assume all’interno di questa
organizzazione criminale. I risultati di questa indagine offrono una cornice di significati
dove le scelte linguistiche si caratterizzano come un’attività scientifica, nel vero senso del
termine, e maggiormente quando la parola lascia il posto al silenzio o alla gestualità.
Il contributo successivo si interroga su cosa significa “Crescere in terre di mafia” ed è
proposto da Marie Di Blasi, Paola Cavani, Sabina La Grutta, Rosa Lo Baido, Laura Pavia.
Il lavoro si pone in continuità teorica con gli altri che lo precedono, mentre la ricerca
esplora l’universo adolescenziale all’interno di specifici contesti sociali in cui la presenza di
organizzazioni criminali è pregnante e focalizza l’attenzione sullo spazio sociale e di
convivenza che rende problematico lo sviluppo personale degli adolescenti ivi residenti.
Nell’ordine, il quarto contributo propone un ulteriore approfondimento sulle
intercettazioni ambientali operate a carico dei colletti bianchi, al fine di far emergere la
loro attività criminale. Gli autori sono Giuseppe Mannino e Serena Giunta. L’articolo
presenta una ricerca empirica il cui obiettivo è quello di descrivere dall’interno, le
narrazioni di quanti si trovino in affari criminali con la mafia pur non essendo affiliati
all’organizzazione com’è il caso dei colletti bianchi.
La parte tra virgolette è ripresa dalla mia Prefazione al testo di Lo Verso G, La mafia in psicoterapia, Franco
Angeli, Milano, 2013, pp. 11-20.
2
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Il numero che proponiamo è composto da due parti, nella seconda, che verrà di seguito
presentata, si affronta lo studio di un’altra organizzazione, al quanto, se non più virulenta,
della mafia siciliana: la ‘Ndrangheta calabrese.
Apre questa seconda parte l’articolo di Caterina Gozzoli, Antonino Giorgi, Roberta
Lampasona dal titolo, Segni della ‘Ndrangheta in Lombardia: studio di un artefatto culturale.
L’indagine si pone l’obiettivo di approfondire il sistema antropo-psichico e socio-culturale
che la ‘Ndrangheta da anni ha messo in opera in Lombardia, e lo fa attraverso un’analisi di
un video-documentario raccolto dagli autori, contenente testimonianze, intercettazioni e
interviste a persone residenti in alcune città lombarde che direttamente hanno avuto a che
fare con la ‘Ndrangheta. Dal video emergono chiaramente le caratteristiche della struttura
organizzativa e i sentimenti di sofferenza, dolore e paura, ma anche una forte negazione
sociale che il territorio lombardo sta attivando attraverso gruppi spontanei e associazioni
per contrastare il virulento processo di colonizzazione che la ‘Ndrangheta sembra voler a
tutti i costi portare a compimento in questa regione dell’Italia.
Il secondo articolo di questa seconda parte, dal titolo: “La 'Ndrangheta e la strada. Gruppo
esperienziale con gli agenti dell'unità mobile di Reggio Calabria”, è proposto da Emanuela Coppola
e Ivan Formica e indaga le rappresentazioni e i vissuti degli agenti dell’Unità mobile di
Reggio Calabria e gli effetti dell’arroganza mafiosa che si annidata nei rituali delle
collettività locali e che opprime e ferisce tutti noi e, in particolare, che si trova in prima
linea nel combatterla, in primo luogo, gli agenti di polizia deputati a far rispettare le leggi e
a garantire l’ordine pubblico.
Segue un contributo che si occupa del vissuto delle “Le vittime del racket. Imprenditori e
commercianti alle prese con Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra”, proposto da
Francesca Giannone e Anna Maria Ferraro. Il lavoro mostra i risultati di una ricerca sulle
rappresentazioni e i vissuti delle vittime della criminalità organizzata nel Meridione. Nelle
analisi emerge come la conoscenza dell’universo mentale delle vittime possa contribuire
non solo alla comprensione del fenomeno mafioso, ma anche dare indicazioni su come
contrastarlo; infatti, se è vero che l’estorsione chiama in causa correlati psico-antropologi
proprio in virtù dell’alone di “consuetudine” che l’accompagna, conoscerla nel profondo
aiuterà senz’altro a capire come combatterla, elaborando piani di intervento a sostegno di
quella parte della società civile come gli imprenditori ed i commercianti maggiormente
esposti.
Chiude il numero il contributo proposto da Antonino Giorgi, Chiara D’Angelo e
Francesca Calandra dal titolo “Sviluppo economico e della persona in contesti mafiosi: il
ruolo dei beni relazionali”. Il lavoro propone una lettura delle attuali tendenze relazionali
in economia, come il bene relazionale, mettendoli a confronto con alcuni assunti teorici
della gruppoanalisi soggettuale. Il bene relazionale diventa così crocevia interdisciplinare,
ma anche strumento che può contribuire alla realizzazione di adeguati programmi di
sviluppo locale in grado di delineare linee di pensiero-azione che portino al superamento
del pensiero mafioso in Sicilia. Allo stesso tempo, il lavoro può essere letto come un
contributo che vuole rafforzare il paradigma teorico-metodologico della gruppoanalisi, del
quale l’esponente di spicco, in Italia, è senz’altro Girolamo Lo Verso.
Voglio concludere con alcune considerazione personali inerenti alla mia esperienza in
alcuni momenti pubblici nei quali sono stato invitato a parlare di mafia. In queste
occasioni mi è capitato spesso di sentire, durante seminari e convegni sulle mafie, in
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
maniera più o meno esplicita, frasi del tipo: “da qui si deve levare un grido che chieda
partecipazione e collaborazione a tutti noi, speriamo così forte da oltrepassare queste
mura”, e mi pare che in questa sede, utilizzando la frase nel suo significato metaforico, si
possa dire: “speriamo che questo contributo indirizzato ad un lettore internazionale aiuti a
superare le barriere e agli stereotipi locali che vedono, ancora adesso, malgrado le
evidenze, il fenomeno mafia relegato solo nel mezzogiorno d’Italia. Dobbiamo constatare,
invece, tristemente, che Cosa Nostra e ‘Ndrangheta in particolare, sono usciti ormai da
anni dai loro confini geografici tradizionali, che volevano Cosa Nostra in Sicilia, con la
colonia americana e la ‘Ndrangheta in Calabria. La ‘Ndrangheta è ormai stabilmente
presente nel nord Italia e considera la Lombardia, una delle regioni più ricche d’Italia, una
sua colonia.
Mi resta ora da ringraziare questo gruppo di studiosi che ha seriamente assunto l’invito di
Giovanni Falcone di studiare, in maniera scientifica, la psicologia del fenomeno mafioso.
E questo lavoro ne è un’ulteriore prova che si assume, allo stesso tempo, il compito di
comunicare gli studi sulla mafia a un lettore internazionale con l’intenzione di realizzare
nuovi approfondimenti che coinvolgano anche studiosi di altri Paesi.
Grazie ai curatori del numero, per aver posto in me la fiducia e il merito di scrivere questa
presentazione, con la quale spero di avere comunicato, a tutti voi lettori, il mio interesse
personale e professionale nella lotta alla criminalità organizzata.
Bibliografia
Falcone G., Padovani M., (1991), Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano.
Licari G., (2009), L’onore e il rispetto. Uno studio antropologico della mafia in Sicilia, Cleup, Padova.
Lo Verso G., (2013), La mafia in psicoterapia, FrancoAngeli, Milano.
Lo Verso G., (2005), L’io fondamentalista e la psiche mafiosa, in Narrare il Gruppo, marzo 2005,
Armando, Roma, pp. 87-93.
Lo Verso G., (a cura di) (1998), La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo,
FrancoAngeli, Milano.
Manzoni A., (1841), I promessi sposi, Zanichelli, Bologna, 1969.
Scarpinato R., (1998), Cosa Nostra e il male oscuro della dispersione del Sé, in Lo Verso G., (a cura
di), La mafia dentro, FrancoAngeli, Milano.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
gruppi nel sociale
Il boss mafioso ieri e oggi. Caratteristiche psicologiche e dati di ricerca
Cecilia Giordano, Girolamo lo Verso
Riassunto
L’articolo descrive le caratteristiche psicologiche dei boss di Cosa Nostra a partire dai dati
di ricerca raccolti in quasi un ventennio (1994-2013). Attraverso l’utilizzo di frammenti di interviste
a collaboranti di giustizia, mogli, figli, cognate, si analizza la figura del boss e il suo contesto
relazionale. L’articolo riporta, inoltre, i risultati di una recente ricerca sulla relazione tra boss e
colletti bianchi, realizzata attraverso l’analisi delle intercettazioni ambientali registrate a casa di un
noto boss mafioso siciliano: Giuseppe Guttadauro. Da questa ricerca emerge la diversità
psicologica su cui si fonda la relazione tra boss e colletto bianco. L’analisi dei trascritti delle
intercettazioni ambientali ha consentito di individuare anche le modalità relazionali prevalenti
utilizzate dal boss e dal colletto bianco nelle loro conversazioni.
Parole chiave: boss, mafia, psicologia, famiglia mafiosa, colletti bianchi
The Mafia Boss Yesterday and Today. Psychological Characteristics and Research Data
Abstract
This article describes Cosa Nostra bosses’ psychological characteristics starting from research
data collected in almost twenty years (1994-2013). Through the use of fragments of interviews to
justice collaborators and their wives, children, sisters-in-law, we analyze the boss’s role and
relational context. This article also reports the results of a recent research on the relationship
between boss and white-collar workers, carried out through the analysis of environmental tapping
recorded at a famous Sicilian Mafia boss’s house: Giuseppe Guttadauro. This research highlights
the psychological diversity the relationship between boss and white-collar worker is based on. The
analysis of environmental tapping transcriptions has also allowed finding out the main relational
modalities used by boss and white-collar worker in their conversations.
Keywords: boss, Mafia, psychology, Mafia family, white-collar workers
1. Introduzione
Chi è il mafioso? Come nasce psichicamente? Come costruisce la sua identità?
Dentro quali contesti familiari e sociali si forma? Come sviluppa il suo self in relazione alla
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
famiglia e alla polis? Esiste un modo peculiare di pensare, di relazionarsi, di esperire
emozioni e sentimenti dentro i contesti mafiosi? Come vive il mafioso il rapporto con il
femminile? Come declina il suo essere padre, marito, figlio, e contemporaneamente
affiliato all’organizzazione criminale Cosa Nostra?
Sono queste alcune delle domande di ricerca che hanno accompagnato da quasi un
ventennio (1994-2013) gli studi sulla psicologia del fenomeno mafioso. Abbiamo provato
a comprendere in questi anni sia le caratteristiche psicologiche e psicopatologiche di chi fa
parte di una famiglia mafiosa (rapporto tra mondo interno e mondo esterno, identità,
sintomi, sofferenza psichica…), sia le ricadute psichiche che la mafia produce nei cittadini
e nelle comunità. Abbiamo lavorato utilizzando come partecipanti delle ricerche, soggetti
che in prima persona sono entrate in contatto con l’organizzazione criminale Cosa Nostra,
chi direttamente (collaboranti di giustizia, mogli, figli, nipoti…), chi indirettamente
(vittime, cittadini, agenti di pubblica sicurezza, avvocati, magistrati…). I molti dati raccolti
ci hanno consentito di iniziare a comprendere cos’è la mafia da un punto di vista psichico.
Essa non è solo “un’organizzazione criminale centralizzata ed unitaria, capace di controllo del
territorio, di rapporti con la politica e le istituzioni […]. Cosa Nostra è anche ‘altro’. E’ un’antropologia,
un fondamentalismo, un’identità familiare ed individuale ed è anche grazie a questo che è riuscita a
resistere e prosperare” (Lo Verso, 2002: 20).
Interesse del nostro lavoro di ricerca è oggi comprendere i possibili mutamenti avvenuti
nella psiche mafiosa, alla luce delle trasformazioni in corso delle mafie in Italia. Le indagini
giudiziarie ci mostrano una mafia sempre più globalizzata ed in grado di sfruttare le
opportunità offerte dai mercati globali e nel contempo sempre meno centralizzata e
sempre più aggregata per network criminali (sistemi reticolari) (Dino, Pepino, 2008). I
ricambi generazionali (oggi molti figli dei boss sono laureati e a volte specializzati), così
come la stretta collaborazione con soggetti non affiliati all’organizzazione criminale
(colletti bianchi), hanno mutato, a nostro parere, anche il modo in cui un mafioso si
relaziona alla famiglia e al sociale.
In questo articolo proveremo a descrivere alcune caratteristiche psicologiche del boss
mafioso, utilizzando i diversi dati di ricerca raccolti in questi anni. Guarderemo al boss
attraverso lo sguardo dei figli, dei collaboranti di giustizia, delle mogli e delle cognate.
Proveremo, inoltre, a delineare alcune dimensioni relazionali che i boss mettono in atto
con i diversi interlocutori dell’entourage quotidiano dell’attività criminale.
Esporremo, infine, un avanzamento delle ricerche sulla psicologia del fenomeno mafioso
focalizzandoci, in particolare, sulla relazione tra boss e colletti bianchi. L’aggiornamento
dei paradigmi interpretativi attraverso nuovi dati di ricerca e la possibilità di comprendere i
mutamenti avvenuti nell’organizzazione criminale Cosa Nostra, ci sembra utile per
contribuire alla comprensione della complessa fenomenologia mafiosa.
2. La famiglia del boss
La famiglia è un contesto relazionale fondamentale per la nascita psichica dell’essere
umano. E’ l’organizzazione umana capace di creare, nella stabilità della relazione di
accudimento, le strutture mentali che permettono all’individuo di categorizzare gli eventi,
di dare loro un significato, di costruire relazioni e associazioni tra le cose della vita e del
mondo (Napolitani, 1987; Nucara, Menarini, Pontalti, 1995; Lo Verso, 1994; Lo Verso, Di
Blasi, 2011). Tuttavia, ciò è possibile solo nella misura in cui la famiglia si fa garante di
spazi di pensiero nuovi per il piccolo dell’uomo, spazi liberi in cui l’individuo può
18
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
misurarsi con la possibilità di creare e pensare autonomamente gli eventi della sua storia e
del suo quotidiano. Se la famiglia, ‘satura’, con codici di comportamento rigidi e inviolabili,
gli spazi di autonomia del figlio, l’individuo può incorrere in rischi psicopatologici o in
automatismi relazionali inconsapevoli e dannosi per la salute psichica. Ciò almeno nella
moderna cultura occidentale.
Le ricerche sulla psicologia del fenomeno mafioso ci hanno mostrato che la famiglia
mafiosa trasmette ai suoi giovani membri modelli e codici culturali idonei a divenire
mafiosi (omertà, virilità, forza, opposizione al potere legale, sottomissione totale alla
famiglia mafiosa…). Sin da piccoli i futuri boss vengono addestrati a comportamenti
ritenuti idonei dall’organizzazione criminale Cosa Nostra. I collaboranti di giustizia (Lo
Verso, Lo Coco, 2002) ci parlano di famiglie che favoriscono il percorso di iniziazione dei
suoi membri; di famiglie che guardano ai figli con gli occhi di Cosa Nostra, con gli occhi di
chi osserva se un soggetto può essere ritenuto in grado di assolvere ai compiti che si
prefigge l’organizzazione criminale per il raggiungimento dei suoi obiettivi prioritari:
accrescimento di potere e denaro. La famiglia mafiosa ha una concezione violenta e totale
di se stessa e dei propri figli. I figli dei mafiosi, che in questi anni siamo riusciti a
intervistare, ci parlano di infanzie dilaniate dal desiderio di affetto e di legame con le figure
genitoriali. In queste famiglie, viene data attenzione e accudimento, solo nella misura in cui
il bambino/ragazzo/adolescente, dimostra di conformarsi totalmente con il pensiero
familiare. I figli vivono tutto ciò con una forte sofferenza psichica mettendo in atto
meccanismi di difesa quali l’idealizzazione delle figure genitoriali (in particolare, rispetto al
padre, ancor più se esso è stato a sua volta ucciso da altri membri dell’organizzazione
mafiosa), l’onnipotenza, l’affiliazione (Lingiardi, Madeddu, 2002). Attraverso l’affiliazione
il soggetto appartenente ad una famiglia mafiosa può conciliare il suo bisogno di
attaccamento emotivo con la famiglia, con il vissuto inconscio di dover essere conforme ai
codici familiari per sentirsi amati. I figli delle famiglie mafiose vivono quotidianamente lo
stress emotivo di ‘dover essere sempre all’altezza’ delle aspettative per cui sono stati
concepiti. L’obbedienza cieca e senza pensiero ai dettami familiari viene ricambiata delle
famiglie mafiose con un forte identità. L’identità degli uomini d’onore sembra costruirsi
proprio attraverso l’identificazione totalizzante con la famiglia mafiosa. E in cambio di
protezione e accudimento, i membri delle famiglie mafiose giurano fedeltà e obbedienza a
Cosa Nostra. In realtà i mafiosi sono immersi in una totalizzazione sovra personale: un
‘noi’ che si sovrappone totalmente ad un ‘io’.
L’educazione familiare è centrale in questo processo psicologico. Una figlia di un boss
ucciso da Cosa Nostra in una faida tra le cosche, ci parla dell’educazione impartita dalla
sua famiglia come un insieme di regole e norme che era impossibile discutere e trasgredire:
“Nella mia famiglia, non si insegnava l’educazione, si eseguiva! Una volta ci erano gli sconti sulle scarpe
maschili e mio padre le ha comprate per me e dovevo metterle per forza”. La ragazza è l’unica figlia di
un boss; ci sembra significativo questo episodio relazionale per il tipo di investimento
simbolico che è in grado di veicolare. I figli maschi, a differenza delle femmine, hanno il
compito di mantenere e migliorare la posizione raggiunta dai padri dentro la cosca
mafiosa. Le femmine, di custodire le regole e i codici familiari e di trasmetterle ai figli. La
cognata (75 anni) di un noto boss del trapanese, così ci parla del ruolo della donna nella
famiglia di mafia:
“La donna mafiosa di quei tempi era la serva del marito. Come madre insegna il rispetto da portare al
proprio padre, poi c’è molta differenza se ha figli maschi o femmine. Queste donne devono affrontare la
crescita dei figli da sole. […]. Essendo cognata di un importante uomo mafioso dovevo sottostare anch’io alle
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
regole imposte da lui quindi una vita piena di restrizioni, violenza e solitudine. […]. Non ci sono eventi
significativi, era la vita quotidiana”.
Si rimanda ad altri testi per un approfondimento sul ruolo della donna dentro i contesti
mafiosi (Principato, Dino, 1997; Siebert, 1994; 1996; Fiore, 1997; Di Maria, Lo Verso,
2003), qui si vogliono evidenziare le profonde differenze che esistono tra le donne/mogli
provenienti, a loro volta, da famiglie mafiose e le donne che sposano un uomo d’onore,
ma che non provengono da una famiglia mafiosa. Il modo in cui incarnano il ruolo della
donna del boss è profondamente diverso e diverso sarà anche il modo in cui incidono
sull’educazione dei figli.
Le donne provenienti da famiglie mafiose, così come i loro uomini, vengono educate sin
da bambine a rivestire il ruolo di moglie di un boss; Cosa Nostra le controlla sin da piccole
così come controlla i loro uomini. Come sottolineato dal boss Leonardo Messina: “Il
patrimonio di un uomo d’onore è principalmente avere una donna consapevole del suo ruolo” (Principato,
Dino, 1997: 14). Ciò implica l’importanza del ruolo che i boss riconoscono alle donne;
avere una donna accanto consapevole del ruolo che riveste come moglie di un boss è
garanzia di continuità dei codici mafiosi, attraverso l’educazione dei figli, e nel contempo è
garanzia dell’onore familiare. “La donna è interprete dell’onore familiare e la custode di un enorme
potere, perché ella con il suo comportamento può onorare o disonorare il nome familiare” (Fiore, 1997:
178). In questo senso, diversi studiosi parlano di ‘centralità sommersa’ della donna dentro
i contesti mafiosi. Tale centralità sommersa, riemerge con tutta la sua forza nel momento
in cui i propri uomini (figli, mariti, fratelli) vengono uccisi, arrestati, o decidono di
collaborare.
In assenza del proprio uomo, queste donne prendono le redini degli affari di famiglia,
vincolando i figli all’obbedienza e al rispetto cieco verso Cosa Nostra. Spesso le donne
fingevano di non sapere, di non conoscere le vicende criminali, e nel contempo si
facevano garanti dell’affiliazione dei propri figli. Le parole di un collaborante di giustizia
rendono meglio di ogni elaborazione:
“Comandava mia madre sopra di me una volta che mancava mio padre [...]. Mia madre è furba! Mia
madre è furba anche perché, io mi ricordo da bambino, per dire, a casa, a casa di mio padre, di mia madre,
per dire, c’erano le armi dei suoi fratelli, che gli teneva mio padre. Poi i fratelli di mio padre avevano a che
fare con la giustizia e quindi lei lo sa a Palermo come è la cosa… E’ giusto? E quindi diciamo siccome mia
madre è palermitana, non è che ci voleva tanto a fare due più due e capire, anche se magari non sapeva i ruoli
dei suoi cognati”.
Quando questo soggetto decide di collaborare, la madre decide di non sentirlo più,
negandogli il suo sostegno.
“Mia madre ha reagito più (!) di una donna di mafia! Io non ho dati di fatto, non ne ho perché non ho
contatti con nessuno, ma io sono sicuro che tutti gli altri collaboratori che c’hanno la mamma, figlia di un
uomo d’onore, mariti uomini d’onore, non hanno abbandonato i propri figli”.
Attraverso le nostre ricerche abbiamo avuto modo di intervistare diverse donne, mogli di
noti boss siciliani; tutte comunque provenienti da famiglie d’origine non mafiose. In esse
abbiamo osservato una forte sofferenza psichica, dovuta prevalentemente al dovere
assecondare un ruolo per cui non sono state formate.
La sofferenza delle mogli di mafiosi che non provengono da famiglia mafiosa a volte è
paralizzante. Queste donne spesso sono schiave del marito, non devono chiedere nulla,
non devono parlare con nessuno e spesso non devono neppure cercare il marito quando
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
questo si allontana per diversi giorni da casa senza dare alcuna comunicazione alla
famiglia.
“Non c’era dialogo con mio marito, non c’era serenità, non c’era reciprocità… Andava via per giorni e notti
e non potevo nemmeno cercarlo. Una volta mi sono permessa di cercarlo dopo due giorni che non rientrava a
casa e si è infuriato terribilmente. Mi diceva che dovevo cercarlo almeno dopo tre giorni che mancava; non
prima”.
In alcuni casi, alcune mogli di boss sono riuscite a garantire ai figli uno spazio di pensiero
diverso da quello regolato dall’organizzazione criminale. Le mogli dei boss che non
provengono da famiglie mafiose, vivono in modo molto conflittuale il rapporto con il
marito:
“Io non sopportavo il fatto che mio marito, dopo che entrò a far parte della mafia, a casa ci stava poco, e si
dedicava poco ai miei figli. Io, inizialmente non capivo la situazione, perché mio marito mi teneva lontana da
questa gente. Poi ho capito… e questo ci faceva molto litigare”.
Le liti vengono vissute dai figli con forte angoscia. La figlia di un boss ci racconta che il
suo più forte desiderio nell’infanzia era di far parte di un’altra famiglia:
“A casa i miei genitori parlavano di certe cose e mia madre litigava sempre con mio padre perché non era
d’accordo su molte cose… non appoggiava mio padre nelle sue attività… poi crescendo ho capito. Mia madre
diceva a mio padre che desiderava una vita più tranquilla. Mentre litigavano io stavo zitta e speravo che
smettessero presto. La mia stanza era al piano di sopra e andavo lì per non sentire… Non so descrivere
quello che succedeva dentro di me… un casino. Quando andavo a mangiare a casa della mia amica,
immaginavo che la mia famiglia fosse come la sua; immaginavo la famiglia della mia amica e volevo
appartenerci… ma faceva male comunque”.
Rimandiamo ad altri lavori per un approfondimento sulla famiglia mafiosa (Lo Verso,
1998; Lo Verso et al., 1999; Fiore, 1997; Giordano, 2010; Giordano et al., 2005) e sulla
sofferenza psicologica dei suoi membri (Lo Verso, 2013). Crediamo sia molto importante
comprendere il contesto familiare di un uomo d’onore per poter comprendere la mafia, il
suo radicamento in specifici contesti culturali, la sua capacità di sopravvivere ai cambianti
imposti dall’esterno e di prosperare.
2.1. Il boss visto dai figli
La figlia di Totò Riina, uno dei boss più feroci della storia della mafia, intervistata da una
televisione svizzera, dice di essere onorata di portare il cognome del padre e di provare
sentimenti di affetto verso suo padre come qualunque figlio nei confronti di un genitore.
Non abbiamo avuto modo di intervistare personalmente i figli di Riina, ma dalle molte
interviste raccolte sin ora ci sembra di poter affermare che i figli dei boss oscillano su un
piano psichico tra l’idealizzazione del padre e vissuti di rabbia e impotenza. Molti di questi
figli, ancor di più se rimasti orfani in giovane età per mano mafiosa, hanno costruito
un’immagine del padre idealizzata e rassicurante.
“Mio padre era un papà premuroso, un marito premuroso. Giocava con me, mi comprava i pupazzi, mi
portava con lui in chiesa o quando andava a giocare con gli amici. Anche con uno sguardo capivo che lo
dovevo rispettare. Adesso è morto da diversi anni. Quando il padrone se ne va le pecorelle ne risentono”.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Nonostante il ricordo positivo del padre, questa persona lo assimila metaforicamente al
padrone di un gregge di pecore, a conferma di quanto sin ora esplicitato sulla famiglia
mafiosa. Questo figlio di una nota famiglia mafiosa siciliana rimane orfano di padre all’età
di cinque anni, tuttavia parla di lui come di una figura genitoriale molto presente,
protettiva e attenta. Quando gli si chiede di esplicitare attraverso la narrazione di un
episodio le volte in cui si è sentito protetto dal padre, non riesce a rintracciare alcun
ricordo. Il ricordo del padre per alcuni figli di boss mafiosi è solo nell’idealizzazione di una
relazione fondante:
“Mio papà mi portava a giocare con lui. Ero felice. Un momento che ricordo con piacere era quando mi
faceva il bagno. Mi spruzzava la faccia con l’acqua e mi faceva fare la fontanella. Mi divertivo con lui”.
L’idealizzazione della figura paterna sembra caratterizzare più i figli maschi che le femmine
del nostro campione. Nelle figlie sembra esserci maggiore consapevolezza del conflitto
con il padre, della rabbia provata per l’appartenenza mafiosa.
“Essere figlia di un uomo che ha avuto a che fare con la mafia, mi pone davanti a due strade: o seguire le
orme dei genitori, oppure rinnegare ciò che hanno fatto. […]. Avrei voluto essere stata figlia di un’altra
famiglia… ho rabbia nei confronti di mio padre. Ancora più rabbia perché non gli ho mai detto in faccia ciò
che provavo… Che bisogno c’era di togliere di mezzo persone innocenti…”.
Queste figlie in qualche caso rifiutano di incarnare il ruolo per cui sono state generate. Nel
rapporto con il padre si sentono spente, quasi robotizzate. Una ragazza, figlia di un boss
dell’agrigentino si definisce: “Una marionetta nelle mani di mio padre”. Ciò comporta un
travaglio e una sofferenza psichica lacerante.
Il conflitto con il padre per alcuni figli di mafiosi si manifesta attraverso il rapporto con il
proprio cognome. Portare un cognome noto alle cronache giudiziarie significa molto per
ciascuno di loro, anche se per ciascuno assume dei significati specifici sulla base della
propria storia. Come la figlia di Riina, alcuni si sentono ‘onorati’ di portare il proprio
cognome. Ciò gli garantisce una via di accesso sicura al potere e al denaro. Sentono di
dover assolvere alla continuità familiare essendo oggetto del rispetto e del timore per gli
altri:
“Forse siamo tutti orgogliosi del proprio cognome, del proprio casato ma non per se stesso…come dire…il
cognome è di papà mio e giustamente è una cosa che mi fa onore, che mi piace!”.
Altri farebbero di tutto per nascondere al mondo il proprio cognome:
“Uso molto poco il mio cognome perché non sono orgogliosa di esso… lo uso quando lo devo usare , insomma
! Però tendo sempre un poco a descrivermi quando posso con altri appellativi! A seconda delle occasioni cerco
di identificarmi… .di darmi una identità altra, usando il meno possibile il mio cognome, del quale non sono
particolarmente felice! Nel senso che non ho, non ho avuto un rapporto di stima con mio padre… non ho mai
condiviso apertamente il suo operato, e quindi non mi sento particolarmente fiera diciamo, di portare questo
cognome…”.
Altri soggetti provano sentimenti di forte ambivalenza quando affrontano questo
argomento:
“Porto il mio cognome come uno stampino, non me ne vergogno, però alcune volte mi pesa. Soprattutto
quando sei in un luogo pubblico e dici il tuo cognome vedi gli sguardi di chi lo conosce posati su di te. Nel
quartiere dove vivo da un lato mi sento più a mio agio ma dall’altro devo sempre essere all’altezza del
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
cognome che porto, non devo dimenticare di chi sono figlia. Ma poiché non mi sento di fare qualcosa di
sbagliato ignoro tutto quello che mi dicono e proseguo per la mia strada”.
Il cognome del padre è un’eredità pesante per questi figli. Essi devono conciliare nella
propria mente la figura di un padre efferato omicida e quella dell’uomo che li ha generati;
l’immagine della propria famiglia e l’immagine che il sociale ha di loro:
“Sono sincera, un po’ mi pesa il mio cognome. Alcune persone si fanno un giudizio di me, ancor prima di
conoscermi, immaginando la persona che non sono”.
2.2. Il boss visto dai collaboranti di giustizia
Le interviste svolte con alcuni collaboranti di giustizia hanno dato la possibilità di
comprendere più da vicino le caratteristiche psicologiche di un boss e di rispondere alle
molte domande che hanno accompagnato la nostra ricerca. In questo paragrafo
utilizzeremo le interviste per descrivere l’uomo d’onore attraverso lo sguardo dei
collaboranti. Utilizzeremo, in particolare, i trascritti delle interviste di due collaboranti di
giustizia non affiliati a Cosa Nostra, ma persone che affiancavano la mafia per un
reciproco guadagno (gestione appalti/impresa mafiosa).
A differenza dei luoghi comuni che descrivono la mafia immersa in una cappa di
segretezza, i collaboranti ci dicono che l’uomo d’onore è ‘uno che si atteggia’, che mostra
palesemente al sociale il ruolo che riveste dentro l’organizzazione criminale.
“Perché il mafioso, nel momento in cui è inserito in una famiglia mafiosa o è vicino a dei mafiosi, si atteggia.
[…]. Non va a dire ‘Io sono l’uomo d’onore della famiglia di Brancaccio!’. No! Si comporta in un modo tale
e si fa vedere con gli altri suoi colleghi nella zona, in maniera tale che è chiaro ed evidente a tutti, anche ad un
bambino di sette anni, che quello è un mafioso. Io ho vissuto vicino a Bagarella, ma non è che Bagarella si
presentava ‘Buongiorno! Io sono Bagarella! Piacere’. No! Bagarella basta che era visto, non sapevano magari
che era Bagarella, ma sapevano (!) che era un uomo di rispetto. Già vedevano me che sapevano che io
costruttore vicino ad ambienti mafiosi, mi vedevano con questo personaggio, che già il suo atteggiamento, il suo
sguardo, il suo modo di fare (!), già gli faceva capire chiaramente. Infatti, quando lui faceva shopping,
spendeva quindici, venti milioni in un sabato… quando usciva il sabato. E gli facevano sconti paurosi. Cioè,
che Bagarella era un uomo di rispetto lo si vedeva solamente incontrandolo, solamente parlandoci, solamente
avendoci a che fare per mezz’ora, per un quarto d’ora”.
Questa modalità comunicativa, propria dei boss, viene pienamente riconosciuta dal
sociale, dalle persone che abitano un territorio, ed è anche attraverso questo
riconoscimento che si alimenta la paura. La mafia spesso non ha bisogno di minacciare, di
usare le armi per soggiogare gli abitanti di ampie aree territoriali. E’ attraverso alcuni codici
comportamentali che comunica, ad esempio la richiesta di pizzo; attraverso questo
atteggiarsi incute paura. Anche Buscetta ci parla di questo chiaramente:
“Quando mi presento a lei, lei deve sentire il mio peso e deve sentirlo velatamente. Io non verrò mai a
minacciarla, verrò sempre sorridente e lei sa che dietro quel sorriso c’è una minaccia che incombe sulla sua
testa. Io non verrò a dirle: le farò questo. Se lei mi capirà bene; se no ne soffrirà le conseguenze” (in Grasso
T., Varano A., 2002: 72).
Fondamentale, per gli abitanti di questi territori, è mettere in opera questo
riconoscimento, interpretare il sorriso di un boss piuttosto che il suo modo di gesticolare e
comunicare. E’ noto che la comunicazione non verbale è la modalità comunicativa più
utilizzata nei contesti mafiosi. La parola viene censurata e relegata nel regno del proibito.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Probabilmente anche la religione per un mafioso fa parte di questa dimensione del
manifestare in modo vistoso un’appartenenza culturale e sociale ad un contesto e nel
contempo agire dinamiche di potere.
“Il mondo mafioso spesso si avvale del potere della religione e cioè praticamente è un fatto reciproco, cioè
praticamente anche i religiosi spesso si avvalgono del potere dei mafiosi”.
Rispetto alla dimensione religiosa, tuttavia, è importante evidenziare la profonda scissione
che i mafiosi vivono tra le attività criminali e le altre attività della vita. Essi sono
programmati per essere ‘macchine per uccidere’. Non devono porre domande né a se
stessi, né ai propri interlocutori dinanzi agli ordini di Cosa Nostra.
“Io in 20 anni di Cosa Nostra, io non ho mai ammazzato a una persona per me! E guardi che io ne avrei
potute ammazzare 100.000 persone per i fatti miei […]. Eppure io non ho ammazzato le persone, diciamo,
per un oltraggio che hanno fatto a me. Che ne ho avuti sgarbi, non è che non ne ho avuti, si immagini, sgarbi
da persone normali, quindi che non dovevo chiedere nessun permesso a nessuno, perché io ce l’avevo questo
potere di vita e di morte, per persone che non erano niente. Eppure io ho ammazzato tante persone che io non
conoscevo, che a me non mi avevano fatto niente.”
Da un versante psicologico, è come se un mafioso delegasse all’organizzazione il suo
pensiero e il suo corpo al momento di commettere un omicidio. Non vi è colpa perché
non vi è coinvolgimento personale. Tuttavia, paradossalmente è proprio dalla religione che
alcuni mafiosi dichiarano di trovare la forza per commettere atti efferati. Ci sembra che in
questo caso, continuino a perpetrare un processo di delega dei propri pensieri e delle
proprie azioni a entità altre a cui riconoscono un potere assoluto di vita e di morte
(Dio/Cosa Nostra),
“La religione che cosa è? Per me, mi dava.. era un conforto che ci trovavo, perché in virtù di quello, ripeto che
io ero religioso anche da bambino perché andavo, però poi questa religiosità si è rafforzata su di me proprio
perché era un conforto, perché io, magari le sembrerà assurdo ma io dopo un omicidio, per dire, me ne eva in
chiesa e ci ieva a dumannari pirduno ‘u Signuri 3. Cioè per sentirmi magari, non lo so, più sollevato,
più…però c’ava addumannari pidunu u’ Signuri. Quindi era una cosa che a me mi dava la forza di
continuare”.
Da ciò che narrano i collaboranti emerge anche che i boss, sono poco interessati alla
sessualità. La sessualità è più qualcosa di ostentabile tra amici che non una dimensione in
cui poter sperimentare un reale investimento affettivo. Soprattutto il potere e il denaro
determinano le relazioni entro i contesti mafiosi (Lo Verso, Lo Coco, 2002).
“Sessualità? Al di là della scopata… Del farsi vedere uomini. Io ad esempio invitai alcuni boss, per cercare
di calmarli, a delle serate che organizzavo io in un locale che avevo io, dove avevo là una serie di ragazze da
favola (!). Questi, invece, preferivano che si stavano tra di loro maschi, seduti, non so se mi sono spiegato.
Anche se c’era la ragazza a cui dicevo ’Fai amicizia con quei due miei amici’ […] … e loro preferivano,
invece, anche che venivano là, rimanere appresso a un bicchiere, una cosa, e parlare sempre: di come dovevano
distruggere la vita alla gente! […]. Che le voglio dire? Hanno una sessualità repressa. Loro non ne parlano
mai di sesso, a parte il rapporto sessuale… che poi è pure sporadico !”.
La ricerca ci ha consentito anche di evidenziare la natura profondamente omofobica dei
mafiosi (Giordano, Di Blasi, 2012). L’omofobia nel mondo mafioso è legata da un lato
all’impossibilità di rispecchiamento con ciò che è diverso da sé, dall’altro ai significati
simbolici profondi che la cultura mafiosa attribuisce all’omosessualità. Per Cosa Nostra
3Trad
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it.: “Perché io dopo un omicidio me ne andavo in Chiesa e andavo a chiedere perdono al Signore”
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
l’omosessuale rappresenta non solo il fallimento dell’identità virile cosi caricaturalmente
coltivata all’interno della cultura mafiosa, ma soprattutto la reificazione della fragilità
identitaria4. Dietro l’immagine di individui duri e spietati i boss mafiosi celano, infatti, una
profonda fragilità che resta invisibile sino a quando l’appartenenza al gruppo mafioso fa da
‘collante identitario’.
2.3. Boss e colletti bianchi
Le recenti indagini giudiziarie ci mostrano una mafia sempre più in grado di interloquire
con ampi settori della politica e dell’economia. L’espansione della mafia in luoghi e mercati
diversi dal territorio di radicamento, la capacità di intrattenere relazioni mirate
all’accrescimento di potere e denaro, così come la capacità di inserirsi nelle dinamiche
economiche piegandole e controllandole a proprio vantaggio (Pepino, 2008; Dino, Pepino,
2008), ci mostrano una organizzazione criminale perfettamente in grado di coniugare i
valori arcaici con le esigenze del presente, tradizione e modernità, codici rigidamente
tramandati e sofisticatezza tecnologica.
Queste trasformazioni in corso in Cosa Nostra, ma anche nelle altre mafie italiane,
pensiamo abbiano mutato anche l’identikit del boss mafioso. Da questo punto di vista un
aspetto da non sottovalutare sono anche i ricambi generazionali (Ingroia, 2008) che Cosa
Nostra ha dovuto operare per esigenze organizzative (molti capi-mafia sono stati arrestati
negli ultimi vent’anni) e per la necessità di inserire nuove competenze nell’organigramma
criminale (molti figli di boss oggi sono laureati o hanno competenze imprenditoriali e
tecnologiche specifiche).
In questa direzione, ci sembra particolarmente importante studiare i modelli relazionali
che oggi sostengono i nuovi network criminali. Per fare questo abbiamo utilizzato come
fonte di ricerca i trascritti delle intercettazioni ambientali registrate a casa di un noto boss
mafioso: Giuseppe Guttadauro. Si tratta di trascrizioni integrali (Operazione “Ghiaccio e
Gota”) delle conversazioni avvenute nell’anno 2000 presso l’abitazione di un boss, Capo
mandamento di Brancaccio (uno dei quartieri di Palermo sotto il controllo della mafia).
Guttadauro è un boss particolarmente interessante perché oltre a svolgere il ruolo di capomandamento di una importante famiglia mafiosa “al comando” dell’organizzazione
criminale, è anche un medico chirurgo, primario di un ospedale di Palermo. La sua
abitazione “la mattina è affollata di medici, professionisti, amministratori, il fior fiore dei colletti bianchi
della città, i quali fanno anche da tramite con altri alti papaveri cittadini e insieme pianificano l’intera
vita pubblica; il pomeriggio è affollata di affiliati all’organizzazione criminale” (Scarpinato, 2008:
158).
Le intercettazioni ambientali, come scrive Scarpinato (2008), ci hanno garantito “un posto
in prima fila” dinanzi allo svolgersi dei dialoghi tra mafiosi, tra mafiosi e colletti bianchi,
ma anche tra i componenti della famiglia Guttadauro.
Qui focalizzeremo l’attenzione sulla relazione tra boss e colletti bianchi. Evidenzieremo
alcune caratteristiche del modo di relazionarsi di questi soggetti e proveremo a
comprendere quali dimensioni emozionali caratterizzano questa particolare relazione
sociale.
Ci sembra che le differenze tra il modo di relazionarsi di un boss con un affiliato e del
boss con un colletto bianco siano molte e significative.
Si veda anche Giordano C., Di Blasi M., (2014), “Identità e omofobia in Cosa Nostra. Un approfondimento
gruppoanalitico soggettuale”, in Narrare i Gruppi, vol. 7, n°. 1, Maggio 2012, website: www.narrareigruppi.it
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Una prima differenza riguarda la selezione che il boss compie dei suoi interlocutori.
L’affiliato di Cosa Nostra viene scelto spesso perché appartiene ad una famiglia mafiosa e
ha dato prova di grande affidabilità. Il colletto bianco, invece, viene scelto perché inserito
in reti politico-sociali funzionali al raggiungimento degli obiettivi criminali.
Una differenza significativa ci sembra risieda anche nel tipo di richiesta che il boss fa ai
due diversi interlocutori. L’affiliato deve obbedire ai comandi del boss, deve sottomettersi
totalmente al boss ed eseguire i suoi ordini senza porre domande e senza attivare pensieri.
Il colletto bianco, invece, deve avere competenze relazionali differenti (capacità di fare
public relation ad esempio), deve interloquire con il boss con rispetto, ma nel contempo
deve fornirgli letture degli eventi a partire dalle proprie competenze politiche e/o
imprenditoriali.
L’affiliato deve essere, nei confronti del sociale, attivatore di paura, mentre il colletto
bianco attivatore di complicità. E infine: all’affiliato l’organizzazione criminale chiede di
negare totalmente la dimensione affettivo-relazionale; mentre al colletto bianco chiede di
manipolare le relazioni affettive che egli intrattiene con alcuni politici o con la borghesia
mafiosa delle città.
Riportiamo di seguito uno stralcio di una conversazione tra un boss e un colletto bianco.
Il boss in questa conversazione spinge il colletto bianco ad utilizzare il rapporto
“amichevole” che egli ha con il candidato alla Presidenza della Regione Sicilia. Il boss
vuole che il colletto bianco si candidi in una lista per le elezioni regionali in modo da
gestire dall’interno le cose politiche e soprattutto i fondi pubblici (infiltrazione mafiosa).
BOSS: Io non so lui (il politico: prossimo candidato presidente alle elezioni regionali siciliane)
in che..., in che..., in che considerazione ti tiene..., però, se può essere utile parlarici..., ci parliamo per dire:
“Oh! Non è ca tu sei più il picciottello..., sei più il ragazzino che...”.
COLLETTO BIANCO: Lui mi ha sempre tenuto..., lui mi ha sempre tenuto in considerazione affettiva
notevole, però ha sempre evitato che ricoprissi i ruoli… Io con T. ho un rapporto sicuramente affettivo, T.
non sa come dimostrarmi affetto. Domenica ero a casa sua, lui evitava di parlare con me di politica, non
sapia chiù chi fari5, invitarimi a cena, prendermi vini particolari... “Prova chistu, prova chiddu..., portatilli,
ti mettu ‘na machina...”6, insomma..., dico, ogni cosa per dimostrarmi affetto dal punto di vista personale,
però il gioco della politica è n’atra cosa, cioè nel gioco della politica lui andrà a gestire più situazioni: amici,
meno amici e gente che amica completamente non è..., e però le deve..., le deve gestire tutte se vuole fare ‘u
presidente da Regione, picchì se no unn’u fa ‘u Presidente da Regione 7.
BOSS: Ma perché..., in tutto questo, dato che con te ha un rapporto amichevole...
COLLETTO BIANCO: Ma infatti è preoccupato, lui mi dice..., lui stasera che cosa mi dice? Gira su
Agrigento perché pensa che possa essere l’unico candidato vicino a lui rispetto ad altri che hanno diversa
collocazione, quando io..., gli dico..., io vivo a Palermo, i contatti li ho a Palermo, non ha senso, cioè, fuori
da..., lui mi dice: “Stà cosa l’amu a fari se tu mi porti, mi certifichi che hai qua..., almeno quattromila voti
tuoi, perché io poi su quello posso lavorare, ma non pensare che possa lavorare..., perché, se devi fare questa
cosa, la devi fare perché funzioni!” Cioè, su questo devo dire che lui è..., tant’è che mi dice: “Non dire..., non
dire nulla”, non è che mi dice: “Vai in giro...”, dice: “Continua a non dire nulla..., valuta, registra e ne
riparliamo tra qualche giorno”...
L’interlocuzione tra boss e colletto bianco ci appare fredda ed evocativa di una
dimensione di potere molto forte. Il boss ha bisogno del colletto bianco perché, per sua
stessa ammissione (“Io non so pensare e agire come un politico”, ammette il boss Guttadauro ad
Trad. it: “Non sapeva più cosa fare (cosa offrirmi)”
Trad. it.: “Prova questo, prova quello, portateli, te li metto in macchina…”
7 Trad. it.: “Le deve gestire tutte se vuole fare il Presidente della Regione, perché altrimenti non lo fa il
presidente della regione…”
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
uno dei suoi colletti bianchi), riconosce che gli mancano alcune competenze e strumenti
per infiltrarsi efficacemente nelle istituzioni.
La flessibilità mostrata da Cosa nostra nell’insinuarsi in molti settori politiciimprenditoriali, si realizza anche attraverso queste specifiche relazioni che il boss
intrattiene con i colletti bianchi. Nel prossimo paragrafo descriveremo alcuni dati della
ricerca svolta a partire dalle intercettazioni ambientali a casa del boss Guttadauro, al fine di
offrire una prima sistematizzazione di ciò che abbiamo compreso di queste particolari
relazioni sociali.
3. Dimensioni emozionali e relazioni sociali
Per comprendere in che modo si caratterizza la relazione tra boss e colletto bianco
abbiamo utilizzato il modello delle Neo-emozioni di Renzo Carli (Carli, Paniccia, 2002;
Carli, Giovagnoli, 2011). Le Neo-emozioni sono dimensioni emozionali frequenti e spesso
verificabili nella vita quotidiana poco considerate dalla letteratura psicanalitica e
psicologica perché si tratta di emozioni che non appartengono all’individuo e al suo
mondo intrapsichico (come ad esempio le emozioni di amore, rabbia, gioia…), ma fanno
riferimento sempre alla relazione sociale.
Rimandiamo ai lavori degli autori (Carli, Paniccia, 2002, 2004; Carli, Giovagnoli, 2011) per
un approfondimento teorico-applicativo sulle neo-emozioni, in questo lavoro ci sembra
importante esplicitare cosa ci ha spinto a utilizzare questo modello per comprendere la
relazione tra boss e colletto bianco.
Riteniamo siano almeno due i punti di forte contatto tra il modello delle neo-emozioni e
l’elaborazione teorica sulla mafia.
1. Le neo-emozioni sono volte a costruire relazioni collusive “efficaci”; efficaci in
quanto resistenze e barriere alla relazione con l’estraneo (Carli, Paniccia, 2002).
Impediscono essenzialmente di conoscere l’altro come diverso da sé e di confrontarsi
con esso in una relazione caratterizzata dalla reciprocità e dallo scambio.
La ricerca sulla psicologia del fenomeno mafioso ha dimostrato quanto sia
impossibile nei contesti mafiosi incontrare e riconoscere la diversità dell’altro. In
particolare nelle famiglie mafiose gli eventi vengono categorizzati a partire da modelli
culturali rigidi (si uccide per questo!), in un continuo processo di trasmissione e
reiterazione dei codici mafiosi.
2. Le neo-emozioni esprimono modalità di rapporto volto a perseguire il possesso
dell’altro ed essere oggetto del possesso dell’altro.
La ricerca sulla psicologia del fenomeno mafioso ha dimostrato che le relazioni nei
contesti mafiosi si organizzano emotivamente intorno alla fantasia di possesso
dell’altro. E’ il potere e la ricerca di potere che regola i rapporti dentro i contesti
mafiosi.
Inoltre, essendo emozioni specifiche delle relazioni sociali ci sembrano particolarmente
utili per leggere la relazione sociale che il boss istaura con il colletto bianco e per
comprendere quali dimensioni neo-emozionali caratterizzano questo tipo di rapporti.
Le neoemozioni sono state classificate sulla base della differenziazione e specializzazione
entro i contesti di convivenza. Pretendere è la neo-emozione che si colloca al polo meno
differenziato e specializzato; Controllare e Diffidare si collocano su un gradino intermedio e
Provocare-Obbligare e Lamentarsi-Preoccuparsi sono le neo-emozioni che si collocano su un
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
polo più differenziato e specializzato. Provocare e obbligare hanno una funzione attiva
nella dinamica di possesso dell’altro e sono declinazioni del Controllo. Lamentarsi e
Preoccuparsi svolgono una funzione passiva e sono declinazioni del Diffidare.
PRETENDERE
CONTROLLARE
PROVOCARE
OBBLIGARE
DIFFIDARE
LAMENTARSI
PREOCCUPARSI
Abbiamo lavorato segmentando il testo dei trascritti delle intercettazioni ambientali
raccolte a casa del boss Guttadauro, e individuando per ciascun segmento la presenza di
neo-emozioni. Abbiamo inoltre definito attraverso categorie tematiche l’argomento
trattato dai due interlocutori.
I temi affrontati nei dialoghi tra boss e colletti bianchi sono: strategie per incidere
nell’organigramma della Sanità pubblica siciliana, stabilire le persone che devono rivestire
ruoli dirigenziali (categoria: infiltrazioni nella sanità); individuare le strategie più idonee al
fine di ottenere riferimenti politici “affidabili” nel governo della regione e nel governo
nazionale (categorie: infiltrazioni istituzionali – elezioni politiche/candidature); individuare
le strategie più efficaci per ottenere una riduzione delle restrizioni del carcere duro
(categorie: quotidianità carceraria; alleanze politiche/candidature). Vi sono poi altri temi
che il boss affronta con il colletto bianco che riguardano: la radiazione del boss
dall’Ordine dei medici, le precauzioni da prendere per non farsi scoprire, la quotidianità
della vita di ospedale (aneddoti, questioni mediche ecc.).
I risultati della ricerca ci mostrano che il boss utilizza prevalentemente il controllo come
neo-emozione prevalente e lo fa in particolare attraverso l’obbligare l’altro a fare delle
cose. Anche la provocazione è una modalità relazionale molto utilizzata dal boss. Il boss
dunque fa il boss, così come ipotizzavamo. Utilizza cioè modalità relazionali tipiche del
fare mafioso, obbligando l’altro a fare delle cose che possono servigli (chiedere,
informarsi, parlare con i politici, con altri colletti bianchi). Utilizza anche la provocazione
per aggredire o sedurre il suo interlocutore.
Il colletto bianco invece si relaziona al boss utilizzando neo-emozioni di tipo passivo: a
volte si lamenta, ma soprattutto si preoccupa.
Un dato interessante di questa ricerca (Giordano, Di Blasi, Di Falco, 2013) è che anche il
boss utilizza neo-emozioni di tipo passivo. Anch’egli si preoccupa e si lamenta soprattutto
quando narra della vita del carcere o della radiazione dall’Ordine dei Medici. Dinanzi a
istituzioni “forti” quali l’istituzione carceraria e in questo caso l’Ordine, il boss perde la sua
modalità controllante per lasciare posto alla diffidenza attraverso la lamentela e la
preoccupazione.
Dalla ricerca emerge che il boss utilizza codici specializzati e dicotomici: obbliga e provoca
in relazione al tema delle infiltrazioni nella Sanità e nelle istituzioni e si lamenta e si
preoccupa quando capisce che non può controllare (istituzione carceraria e ordine dei
medici). Tuttavia, il dato forse più interessante della ricerca è che il boss quando affronta i
temi delle alleanze politiche o delle strategie per candidare i propri uomini al governo della
regione o della nazione, mette in atto tutte le modalità neo-emozionali previste dal
modello di Carli.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Prevalentemente obbliga e provoca, ma diffida anche; infatti, si lamenta e si preoccupa.
Questo dato ci sembra significativo perché ci segnala che il boss rispetto a questo tema va
in tilt dal punto di vista neo-emozionale. Non sa bene come relazionarsi ai suoi
interlocutori. Prova fortemente a controllare, ma si rende conto che gli mancano delle
competenze specifiche per raggiungere i suoi obiettivi; non può decidere autonomamente,
ma deve aspettare le decisioni di un altro (il politico di turno); sa di poter contare su un
facile consenso elettorale (voti), ma non conosce le strategie che gli consentono di
utilizzarlo al meglio (ad esempio non conosce i sistemi elettoralistici). Ha bisogno del
colletto bianco per colmare queste lacune. Ha bisogno di qualcuno che faccia da ponte tra
lui e il politico di riferimento, tra lui e altri colletti bianchi. Vorrebbe non riconoscere la
diversità del colletto bianco; prova a dare ordini come ha sempre fatto, ma comprende che
questa modalità risulta poco efficace. Il tema delle alleanze politiche/candidature mette in
crisi il boss. Le modalità relazionali da sempre utilizzate con gli affiliati all’organizzazione
non funzionano; il boss perde, in parte, la sua onnipotenza nel riconoscimento di un suo
limite alla sua brama di potere assoluto.
Abbiamo individuato, inoltre, poche neo-emozioni nel colletto bianco, abbiamo visto che
quando sono presenti sono di tipo passivo (diffidenza e non controllo). Questo ci fa
pensare che probabilmente il colletto bianco sa utilizzare codici emozionali differenti, non
esclusivamente fondati sul possesso dell’altro.
La ricerca conferma, ad un livello psicologico, ciò che si era già intuito su un piano
giudiziario e sociologico: il colletto bianco svolge una “funzione ponte” tra
l’organizzazione criminale e il mondo politico-imprenditoriale, e tale funzione si fonda
proprio a partire da una diversità psicologica tra i due.
4. Conclusioni
Dopo molti anni di lavoro abbiamo voluto arricchire e integrare la nostra ricerca
sulla psiche mafiosa decentrando l’attenzione a persone legate a uomini di mafia (mogli,
figli, collaboranti, complici esterni/colletti bianchi) e al modo con cui loro guardano al
boss mafioso. Ciò ha permesso anche di approfondire le modalità relazionali utilizzate dal
boss con alcune persone significative del suo quotidiano.
I risultati sembrano confermare quanto studiato in passato e contemporaneamente ci
aiutano a stare nel tempo che scorre e si evolve. Molte cose sono accadute dentro e fuori
Cosa Nostra in questi venti anni di ricerca sulla psicologia del fenomeno mafioso,
compresa la maggiore consapevolezza del mondo dell’impossibilità di convivere con la
mafia. Apriamo qui l’interrogativo su “se e in che misura” l’uomo di mafia stia cambiando
nel gestire il suo universo relazionale. I dati di ricerca sulla relazione tra boss e colletto
bianco ci fanno pensare che un mutamento è in atto anche se molto ancora va
approfondito. Da questo punto di vista, i diversi studi in corso portati avanti dal nostro
gruppo di ricerca, pensiamo possano consentirci di rispondere ad alcuni degli interrogativi
che oggi la ricerca sulla mafia si pone.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
gruppi nel sociale
Le strategie comunicative di Cosa nostra: una ricerca empirica
Giuseppe Mannino, Serena Giunta, Giusy Cannizzaro, Serena Buccafusca,
Girolamo Lo Verso
Riassunto
Il seguente articolo propone uno studio empirico, di tipo esplorativo, sulle strategie di
comunicazione di Cosa Nostra. Gli studi psicologi sulle caratteristiche che il linguaggio assume
all’interno di questa organizzazione criminale sono relativamente recenti, ma fondamentali per
approfondire le caratteristiche della comunicazione implicita ed esplicita che essa adotta nei vari
contesti entro cui opera e per comprendere il potere e il valore che esse assumono. I dati rilevati,
provenienti da alcuni video relativi a interviste e interrogatori a uomini d’onore, sono stati
analizzati, in questo lavoro, attraverso un metodo che si rifà ai fondamenti della ricerca qualitativa
in psicologia clinica, la Grounded Theory. L’analisi effettuata e i relativi risultati ci pongono di fronte
ad un mondo, quello mafioso, dove la cura per le scelte linguistiche, tanto di forma quanto di
contenuto, si caratterizza come un’attività cruciale, anche quando la parola lascia il posto al silenzio
o alla gestualità.
Parole chiave: mafia, linguaggio, ricerca clinica nel sociale
Communication strategies in Cosa Nostra: an empirical research
Abstract
The following article proposes an empirical study to explore communication strategies in
Cosa Nostra. Psychological studies on the characteristics of the language used within the criminal
organization are undoubtedly recent, but crucial to thoroughly understand the characteristics of the
implicit and explicit communication it adopts in the various contexts it works, as well as the power
and value they assume. The data we have obtained from some videos concerning interviews and
police interrogations to men of honor have been analyzed through a method which refers to the
grounds of qualitative research in clinical psychology, the Grounded Theory (Glaser, Strauss; 1967).
The analysis we have carried out and its relevant data show us a world of Mafia where the care for
linguistic choices, for both form and contents, is characterized as a crucial activity, even when
words are replaced by silence or gestures.
Keywords: Mafia, language, clinical research in the social field
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
1. Introduzione
Il presente lavoro muove dagli studi condotti negli ultimi vent’anni sulla psicologia
del fenomeno mafioso (Lo Verso, 1998; 2008; 2013; Giunta, Licari, Lo Verso, 2004;
Giunta, Giordano, Giunta, Lo Verso, 2011; Lo Verso, 2012; Lo Verso, La Barbera,
Cannizzaro, 2013) e si focalizza, nello specifico, sulle strategie di comunicazione implicite
ed esplicite adottate dall’organizzazione criminale Cosa Nostra.
La letteratura sull’argomento ci consente di comprendere il forte potere della
comunicazione all’interno di Cosa Nostra e gli effetti destabilizzanti che la nascita del
fenomeno dei collaboratori di giustizia (Lo Verso, Lo Coco, 2003; Lo Verso, Lo Coco,
Mistretta, Zizzo, 2005) ha avuto su di essa, attraverso il disvelamento di una ‘parola’ che è
stata proferita all’esterno dell’associazione mafiosa e non al suo interno. La nostra ricerca è
stata possibile, difatti, anche grazie alle acquisizioni avute a seguito dei continui
cambiamenti a cui è andata in contro la mafia e soprattutto al fenomeno dei collaboratori
che ci ha dato modo di ascoltare queste voci, provenienti ‘dall’interno dell’organizzazione’.
Il punto di partenza di questo lavoro è costituito dall’idea che il ruolo del linguaggio e
degli aspetti comunicativi in Cosa Nostra è ben più centrale di quanto solitamente non si
creda. L’attività di Cosa Nostra, difatti, si intreccia in modo costante con le pratiche e le
questioni linguistiche, molto di più di quanto i luoghi comuni vorrebbero farci credere; è a
partire dalla convinzione errata che per i mafiosi la ‘parola migliore e quella che non si
dice’ che si vuole sottolineare, invece, che anche il silenzio è interno alla lingua, che esso è
comunicazione, che l’omertà è sempre una scelta linguistica e che, ‘anche il non detto
dice’.
Il vertice teorico d’osservazione che incornicia e sostiene concettualmente il lavoro è
quello gruppoanalitico soggettuale (Lo Verso, 1994; Lo Verso, Di Blasi, 2011),
indispensabile per lo studio del pensiero mafioso poiché consente di integrare e saldare
insieme dimensione antropologica e intrapsichica in un dispositivo complesso, necessario
per lo studio della matrice di pensiero inconscia che sostiene psichicamente una realtà
criminale come Cosa Nostra, in modo invasivo e parassitario, storicizzata e radicata nel
territorio siciliano, e non solo. La psicologia del fenomeno mafioso ci presenta Cosa
Nostra come molto più di una semplice forma organizzativa o di una rete di
organizzazioni sociali che si fonda su un apparato di regole e consuetudini, essa è anche
messa in atto di un multi sfaccettato sistema di comunicazione che si compone di segni, di
scambi linguistici, di messaggi in codice, di sistemi simbolici e reti informative che ne
costituiscono la propria linfa vitale.
All’interno di Cosa Nostra il linguaggio come strumento di comunicazione segreta si
realizza spesso in maniera dinamica, nel senso che le espressioni utilizzate non vengono
quasi mai codificate rigidamente a priori attribuendo esplicitamente a dei termini o a delle
espressioni dei significati; piuttosto è come se gli uomini di Cosa Nostra fossero a
conoscenza di regole generali per la produzione di alcune espressioni verbali che ne
consentono la comprensione senza essere scoperti dalle forze dell’ordine o da altri membri
esterni.
La scelta di attenzionare quanto e come viene riferito dai soggetti della ricerca, uomini di
spicco di Cosa Nostra, nasce dalla volontà di ascoltare delle voci che provengano ‘dal di
dentro’ di questa organizzazione, per meglio cogliere gli elementi verbali e non, di cui
queste persone sono spesso in possesso ‘naturalmente’; ovviamente le storie che hanno
spinto questi soggetti a far parte della mafia sono diverse, tuttavia ciò che li lega è la
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
condivisione di una matrice di pensiero rigida come quella mafiosa (Giunta, Lo Verso,
Mannino, 2013). La dimensione comunicativa in Cosa nostra.
Studiare il linguaggio della mafia significa intraprendere un viaggio all’interno degli schemi
mentali e delle cornici culturali che sorreggono una specifica strategia comunicativa come
‘strumento di governo’ che ha avuto e ha tuttora nel funzionamento pratico
dell’organizzazione mafiosa un’importanza centrale. Significa studiare l’organizzazione
mentale, la saturazione del mentale, la cultura e dunque l’anima del collettivo che genera lo
psichismo mafioso, (Mannino 2013), e la trasmissione valoriale che perpetua nelle
generazioni lo stile mentale (Mannino 2012).
Le espressioni utilizzate all’interno di Cosa Nostra non vengono quasi mai codificate
rigidamente a priori, il linguaggio come strumento di comunicazione segreta si realizza
spesso in maniera dinamica, la sensazione è quella che questi uomini non si rifacciano ad
un codice ben preciso ma piuttosto a regole espressive che incorniciano e fanno da veicolo
di espressione/comprensione delle loro comunicazioni.
Lo scenario è quello di un linguaggio implicito, ricco di simbolismi e caratterizzato da una
forte obliquità semantica (Di Piazza, 2010): i termini non diretti e non trasparenti,
lasciano intravedere significati, senza mai mostrarli chiaramente, quindi semanticamente
obliqui, il linguaggio diviene metaforico, fortemente allusivo e mai esplicito.
Dentro questa dimensione il linguaggio non è un semplice mezzo per trasferire
informazioni, ma qualcosa che và oltre sino a influenzare fortemente la costituzione
dell’identità poiché utilizzato quale strumento di identificazione di gruppo: è anche
attraverso le scelte linguistiche che l’’io’ del mafioso diventa un ‘noi’ con cui il singolo si
identifica e viene riconosciuto all’interno dell’organizzazione come membro.
Questo tipo di comunicazione nasce anche in virtù della necessità di mettere a punto
forme di comunicazione e modalità di interazione diverse da quelle ordinarie, che
consentissero di coniugare le esigenze della segretezza con il necessario controllo e
scambio comunicativo, in cui la comunicazione scritta e verbale fosse ridotta al minimo e
quella simbolico - significativa dei gesti, degli sguardi, del non detto, esaltata.
Il messaggio è caratterizzato da un elevato grado ‘di esoterismo’ comunicativo che
consente di esprimere valenze diverse a seconda del target da raggiungere e del contesto nel
quale viene proferito.
In linea generale gli studi sul fenomeno ci consentono di affermare che all’interno
dell’organizzazione esistono due regole fondamentali e prettamente linguistiche: la regola
dell’omertà e quella della verità; queste si intrecciano tra loro e costituiscono le due facce
della stessa medaglia relative agli aspetti comunicativi di Cosa Nostra, all’interno della
quale o si tace o si dice la verità.
Il silenzio, infatti, per Cosa Nostra costituisce un valore vitale; un atteggiamento omertoso
è sinonimo di serietà consona all’uomo d’onore, di contro trasgredire la regola dell’omertà
implica la negazione stessa dell’essere mafioso, difatti “la dissociazione […] si consuma proprio
attraverso la parola” (Dino, 2006).
La scelta del silenzio non nasce dalla scarsa rilevanza della parola per questa
organizzazione, bensì da una scelta tutta linguistica che le da molta importanza; ciò si
intreccia con la seconda regola menzionata quella definita della ‘verità’, poiché per i
mafiosi l’alternativa della parola non detta è la parola vera.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
2. Obiettivi
Il principale obiettivo di questo contributo di ricerca è quello di indagare la
profonda valenza comunicativa che accompagna quasi la totalità delle manifestazioni
dell’organizzazione criminale, inserite all’interno di una specifica tradizione culturale,
quella siciliana, in dialogo costante con il mondo circostante dal quale recepisce influenze
e sollecitazioni.
Gli obiettivi specifici della ricerca sono:
analizzare il contenuto dei discorsi, estrapolati da alcuni video relativi ad interviste
e interrogatori di noti uomini di Cosa Nostra;
analizzare le diverse forme di comunicazione di cui Cosa Nostra si serve;
esaminare le peculiarità linguistiche di queste forme di comunicazione;
analizzare le differenze di comportamento (sempre dal punto di vista
comunicativo) di chi collabora e chi no.
3. Metodologia
Il presente lavoro si ispira ai fondamenti della ricerca qualitativa in Psicologia
clinica. Nello specifico, per effettuare uno studio sulle strategie di comunicazione e sulle
caratteristiche del linguaggio verbale e non verbale di Cosa Nostra si è scelto di analizzare
alcuni video relativi a uomini di spicco dell’organizzazione (alcuni dei quali collaboratori di
giustizia) e riguardanti interviste rilasciate a giornalisti e/o interrogatori di indagini
giudiziarie che coinvolgevano questi soggetti. Il contenuto di ciascun video è stato
sottoposto a procedura di sbobinatura eseguita secondo le regole standardizzate di
trascrizione delle sedute di psicoterapia di Mergenthaler (1992); tali regole sono complete e
semplici e permettono così una comprensione universale del testo trascritto favorendo la
ricerca e la fruibilità dei dati da parte della comunità scientifica (la scelta di tali regole,
specie relativamente al lavoro di analisi del contenuto dei video esaminati, ci ha facilitato
in un ulteriore step della ricerca, attualmente in corso, che attiene all’analisi testuale
attraverso l’utilizzo di un software informatico). I trascritti sono stati sottoposti ad analisi
utilizzando il metodo della Grounded Theory (Glaser, Strauss, 1967). Nello specifico questi
sono stati siglati da tre giudici indipendenti. Il riferimento epistemico-metodologico di
questo lavoro è legato al principio di intersoggettività, garantito dal confrontocomparazione del lavoro fra i giudici indipendenti. Vista la complessità delle narrazioni e
dei temi estrapolati dalla siglatura dei trascritti si è fatto ricorso alla visualizzazione delle
aree tematiche che emergevano dalle diverse interviste/interrogatori, attraverso le mappe
tematico-concettuali. Queste mappe sono state costruite seguendo un modello ad
organigramma ipertestuale che permette di declinare i vari argomenti secondo un percorso
coerente di significazione. Inoltre, mette il lettore nella condizione di visualizzare oltre al
contenuto, anche le caratteristiche dello stile comunicativo di questi soggetti (linguaggio
non verbale, caratteristiche dell’eloquio, atteggiamento nei confronti dell’interlocutore, etc)
e sono state create delle griglie di valutazione dei video (Giunta, Buccafusca, 2011).
La scelta di adottare come metodo di riferimento la Grounded Theory è profondamente
legata all’obiettivo di questa ricerca, la cui finalità prevalente è quella esplorativa e non di
conferma o disconferma dei dati; difatti secondo la Grounded Theory, osservazione ed
elaborazione teorica procedono di pari passo, in una interazione continua, in cui il
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
ricercatore scopre la teoria nel corso della ricerca empirica, ignorando preferibilmente la
pre-esistente letteratura sull’argomento, in modo tale da non esserne condizionato;
l’accento in questa tecnica viene posto, quindi, sui dati, piuttosto che sulle teorie, le quali
derivano direttamente dall’analisi dei dati, che sono locali e contestuali.
4. I soggetti della ricerca
I protagonisti di questa ricerca sono mafiosi di spicco, alcuni dei quali collaboratori
di giustizia. Nello specifico sono stati presi in esame i video riguardanti interrogatori
relativi alle varie inchieste giudiziarie ed interviste dei seguenti uomini di cosa nostra:
Leonardo Vitale, Tommaso Buscetta, Salvatore Riina, Giovanni Brusca, Bernardo
Provenzano.
Leonardo Vitale (Palermo, 1941- Palermo 1984) può essere considerato, a tutti gli effetti,
uno dei primi collaboratori di giustizia che non essendo creduto dalle istituzioni fu
dichiarato ‘pazzo’ e rinchiuso in un manicomio criminale. Seppur la sua testimonianza non
arrecò alcun danno a Cosa Nostra l’organizzazione lo uccise dopo molti anni quando
uscito dal manicomio pagò per avere infranto la regola del silenzio.
Tommaso Buscetta detto anche ‘il boss dei due mondi’ (Palermo, 1928 - New York ,
2000). È stato un esponente di massimo rilievo all’interno di Cosa Nostra.
Successivamente arrestato, collaboratore di giustizia durante le inchieste coordinate dal
magistrato Giovanni Falcone le sue rivelazioni furono storiche perché permisero una
ricostruzione giudiziaria dell’organizzazione e della struttura di Cosa Nostra.
Salvatore Riina, meglio conosciuto come Totò (Corleone, 1930, provincia di Palermo), è
stato considerato il capo di Cosa Nostra dal 1982 fino al suo arresto, avvenuto il 15
Gennaio 1993. Viene indicato anche con il soprannome ‘La Belva’, adottato per indicare la
sua ferocia sanguinaria è attualmente sottoposto al regime di carcere duro. È stato
condannato a 12 ergastoli e si è sempre rifiutato di collaborare.
Giovanni Brusca, noto per la ferocia del suo agire criminale (San Giuseppe, 1957,
provincia di Palermo) è stato membro di Cosa Nostra e attuale collaboratore di giustizia,
condannato per oltre un centinaio di omicidi, tra cui quello tristemente celebre del piccolo
Giuseppe Di Matteo, figlio di un collaboratore, strangolato e sciolto nell’acido.
Bernardo Provenzano, conosciuto per la violenza con cui falciava le vite dei suoi nemici
(Corleone, 1933, provincia di Palermo ), è un membro di Cosa Nostra e considerato il
capo dell’organizzazione a partire dal 1995 fino al suo arresto avvenuto nel 2006 a
Corleone in una masseria dopo una latitanza record di 43 anni.
5. Griglie di valutazione video
All’interno di questo lavoro le griglie di valutazione sono state create (Buccafusca,
Giunta; 2011) per meglio indagare il nostro oggetto di studio e per rendere più chiara la
lettura dei dati e del materiale da analizzare.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
In queste griglie sono presenti specifici elementi di osservazione che mettono in evidenza
alcune caratteristiche dello stile comunicativo dei mafiosi presi in esame.
Nello specifico le griglie si riferiscono a:
 provenienza del video e sue caratteristiche;
 descrizione del soggetto. Le sue generalità, quali nome, cognome, sesso, luogo e data
di nascita, istruzione. Queste informazioni favoriscono una migliore collocazione del
soggetto sia rispetto al contesto storico mafioso e di provenienza personale, sia di
venire a conoscenza dell’età anagrafica che molto dice sul modo di sentire, vivere e
collocarsi all’interno dell’organizzazione. L’istruzione nello specifico permette di
comprendere se il linguaggio utilizzato è frutto solamente dell’adesione ad una
specifico sistema criminale o sia anche il frutto di carenze legate a livello scolastico
posseduto;
 situazione penale del protagonista. La lettura di questa griglia permette di
comprendere se il soggetto del filmato analizzato è un collaboratore, se è una persona
sottoposta al regime carcerario e se è attualmente in vita. Attraverso queste
informazioni si ha la possibilità di osservare come appare il linguaggio in chi decide di
collaborare e chi invece si astiene dal fare questa scelta;
 tipologia del linguaggio utilizzato;
 atteggiamento del soggetto.
Di seguito si riportano soltanto le griglie A e B per necessità esplicativa, poiché queste ci
aiutano a comprendere quanto verrà affermato relativamente ai risultati del lavoro. Le
griglie prese in considerazione tengono conto della presenza/assenza delle categorie prese
in esame e delle caratteristiche più salienti.
A) Tipologia di linguaggio utilizzato
Categoria
Linguaggio verbale
Presenza o assenza di fluidità di linguaggio
Presenza o assenza di espressioni dialettali
Presenza di errori nell’esposizione
Frasi allusive
Gestualità
Atteggiamento corporeo
Elementi di osservazione
La griglia A indaga la tipologia di linguaggio che il soggetto in esame utilizza (linguaggio
verbale, non verbale, ecc) e le modalità comunicative prevalenti.
L’osservazione di questo aspetto presuppone, quindi, uno sguardo a trecentosessanta gradi
rispetto alla comunicazione utilizzata nei video.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
B) Atteggiamento del soggetto
Categoria
Sicurezza nell’esposizione
Cambiamento di atteggiamento durante l’esposizione
Presenza di pause durante l’esposizione
Atteggiamento disteso o irritato durante l’eloquio
Elementi di osservazione
L’utilizzo della griglia sopra riportata permette di evidenziare l’atteggiamento del soggetto
durante l’esposizione. L’osservazione di questo aspetto permette di rilevare alcuni fattori
salienti come: la sicurezza che il mafioso (collaboratore e non) mostra durante
l’esposizione dei fatti, l’emotività che traspare dalle sue parole (il soggetto appare disteso o
irritato durante l’eloquio), le mutazioni di atteggiamento che si verificano in seguito a
precise tematiche o domande, la presenza di pause durante l’eloquio, che può essere
connessa a molteplici fattori.
6. Casy Study: video di Leonardo Vitale, Tommaso Buscetta, Salvatore Riina, Giovanni Brusca,
Bernardo Provenzano
Di seguito vengono riportate le griglie relative alla tipologia del linguaggio e
all’atteggiamento compilate per ciascun soggetto
1˚ Casy Study: Leonardo Vitale
Nello studio di questo caso sono stati presi in considerazione due video. Nel primo (1980)
Vitale è all’aperto e rilascia un intervista alla presenza di due carabinieri mentre nel
secondo (1983) si trova in una stanza con l’intervistatore.
A) Tipologia di linguaggio utilizzato
Categoria
Linguaggio verbale
Presenza o assenza di fluidità di linguaggio
Presenza o assenza di espressioni dialettali
Presenza di errori nell’esposizione
Frasi allusive
Gestualità
Atteggiamento corporeo
Elementi di osservazione
Presente
Linguaggio poco fluido, con pause e
tartagliamenti
Assente
Presente
Presente
Presente
Varia a seconda della tematica trattata
I video presi in esame in questo caso sono due a distanza di 3 anni l’uno dall’altro.
L’atteggiamento del soggetto tra un video e l’altro è profondamente diverso; nella prima
intervista Vitale appare molto turbato, mostra nel corpo e nelle parole un atteggiamento
quasi di chiusura, di diffidenza rispetto all’intervistatore e alle domande che gli vengono
poste, fa molte pause durante l’esposizione verbale, fuma in maniera nervosa e non
rispondendo ad alcune domande resta con la testa china.
Nella seconda intervista appare, invece, più disteso e più disposto al dialogo, in alcuni casi
accenna un sorriso (cosa che non avviene nel video precedente), ma cambia sensibilmente
tono e postura fisica a seconda di ciò che descrive e di cosa gli viene chiesto.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
L’eloquio presenta le caratteristiche descritte per il video precedente, non si rilevano
tuttavia gli stessi toni di rabbia.
B) Atteggiamento del soggetto
Categoria
Sicurezza nell’esposizione
Cambiamento di atteggiamento durante
l’esposizione
Presenza di pause durante l’esposizione
Atteggiamento disteso o irritato durante
l’eloquio
Elementi di osservazione
Assente nel primo video, Presente nel
secondo
Presente
Presente
Sono presenti entrambi gli atteggiamenti e
collegati al tema che viene affrontato
durante l’intervista
L’atteggiamento di Vitale cambia sensibilmente da un’intervista all’altra e ciò accade anche
rispetto alla tematica a cui la domanda dell’intervistatore fa riferimento.
Nella prima intervista appare profondamente insicuro, se risponde si guarda intorno, da
sempre le spalle alla videocamera e, a seconda della domanda che gli viene posta gira lo
guardo, quasi come a voler controllare l’eventuale presenza di terze persone.
Nella seconda intervista appare meno turbato, un po’ più sicuro nell’eloquio, tuttavia resta
la variazione dell’umore e dell’atteggiamento corporeo conseguente alla domanda che
l’intervistatore gli pone.
2˚ Casy Study: Tommaso Buscetta
Anche per Tommaso Buscetta sono stati presi in esame due video uno relativo a un
intervista in carcere, l’altro inerente un interrogatorio in tribunale
A) Tipologia di linguaggio utilizzato
Categoria
Linguaggio verbale
Presenza o assenza di fluidità di linguaggio
Presenza o assenza di espressioni dialettali
Presenza di errori nell’esposizione
Frasi allusive
Gestualità
Atteggiamento corporeo
Elementi di osservazione
Presente
Presente
Presente
Presente
Presente
Presente
Varia a seconda della tematica trattata.
In entrambi i video studiati la tipologia di linguaggio utilizzata da Tommaso Buscetta non
subisce sensibili variazioni, quindi è possibile fare un’unica analisi.
L’eloquio di questo soggetto appare abbastanza fluido, a questo si intercalano errori
grammaticali nell’esposizione, parole allusive (che su richiesta dell’intervistatore, il
collaboratore spiega) e una forte gestualità.
B) Atteggiamento del soggetto
Categoria
Sicurezza nell’esposizione
Cambiamento
di
atteggiamento
38
durante
Elementi di osservazione
Presente
Presente
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
l’esposizione
Presenza di pause durante l’esposizione
Atteggiamento disteso o irritato durante l’eloquio
Assente
Presente ‘atteggiamento disteso’
Il collaboratore nei filmati mostra una certa sicurezza durante l’eloquio, di conseguenza
anche la sua esposizione assume queste caratteristiche; si nota un cambiamento di
atteggiamento quando parla di Cosa Nostra o di alcuni termini usati da questa: la sua
schiena diventa più dritta e il suo tono di voce diviene più incisivo.
In entrambi i video l’atteggiamento sembra disteso, ma ciò che in effetti a mio avviso
rimanda è una “calma apparente, controllata”.
3˚ Casy Study Salvatore Riina
A) Tipologia di linguaggio utilizzato
Categoria
Linguaggio verbale
Presenza o assenza di fluidità di linguaggio
Presenza o assenza di espressioni dialettali
Presenza di errori nell’esposizione
Frasi allusive
Gestualità
Atteggiamento corporeo
Elementi di osservazione
Presente
Assente
Presente
Presente
Presente
Presente
Varia a seconda della tematica trattata
Il linguaggio verbale di questo imputato è poco fluido, si rilevano gravi difficoltà
espressive legate alla scarsa conoscenza del linguaggio italiano, che risulta molto carente,
colmo di errori grammaticali e di parole tipiche del dialetto siciliano, convertite in parole in
italiano.
La gestualità accompagna tutto il suo eloquio, l’atteggiamento corporeo muta
considerevolmente: è sommesso se risponde a domande sulla proprie generalità e sulla sua
vita quotidiana, la testa si incassa tra le spalle e lo sguardo si abbassa verso terra; si fa più
imponente se parla dei signor pentiti, la schiena si raddrizza i toni si fanno più alti.
B) Atteggiamento del soggetto
Categoria
Sicurezza nell’esposizione
Cambiamento di atteggiamento durante
l’esposizione
Presenza di pause durante l’esposizione
Atteggiamento disteso o irritato durante
l’eloquio
Elementi di osservazione
Assente
Presente
Presente
Varia a seconda della tematica trattata
Come già esposto sopra, nonostante l’atteggiamento di S. Riina cambi durante
l’esposizione, non appare mai sicuro nelle sue affermazioni; il suo eloquio a tratti si
interrompe, tartaglia e l’atteggiamento presenta sensibili variazioni a seconda delle
domande che il giudice gli pone.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
4˚ Casy Study: Giovanni Brusca
I video oggetto di analisi sono due e presentano caratteristiche differenti. Il primo video è
tratto dal processo sulle stragi di mafia del 1993. Il secondo video riguarda un’ intervista.
A) Tipologia di linguaggio utilizzato
Categoria
Linguaggio verbale
Presenza o assenza di fluidità
di linguaggio
Presenza o assenza di
espressioni dialettali
Presenza di errori
nell’esposizione
Frasi allusive
Gestualità
Atteggiamento corporeo
Elementi di osservazione
1) Presente
2) Assente
1) Presente
2) Assente
1) Presente
2) Assente
1) Presente
2) Assente
1) Presente
2) Assente
1) Elemento non rilevabile per caratteristiche video
2) presente
1) Elemento non rilevabile per caratteristiche video
2) Presente
La tabella A) può apparire contraddittoria, questa apparente contraddittorietà trova
chiarimento attraverso l’osservazione delle caratteristiche del video n. 1. In questo video
Brusca non è mai ripreso poiché posizionato dietro un separé, quindi si può udire solo la
voce; di conseguenza mancano gli elementi che ci permettono di descrivere il suo
linguaggio non verbale.
Nel secondo video il collaboratore viene ripreso frontalmente, ma non proferisce parola, il
suo linguaggio è solo non verbale. L’autore del video sostiene che Brusca sta parlando a
distanza con la moglie; in questo caso quindi abbiamo la possibilità di osservare solo il
linguaggio non verbale.
B) Atteggiamento del soggetto
Categoria
Sicurezza nell’esposizione
Cambiamento di atteggiamento durante
l’esposizione
Presenza di pause durante l’esposizione
Atteggiamento disteso o irritato durante
l’eloquio
Elementi di osservazione
1) Presente
2) Non rilavabile per caratteristiche video
1) Assente
2) Presente
1) Presente
2) Non rilavabile per caratteristiche video
1) Assente
2) Non rilavabile per caratteristiche video
Anche questa tabella risente dei limiti sopra esposti.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
5˚ Casy Study: Bernardo Provenzano
La scelta di non collaborare con la giustizia perseguita da Bernardo Provenzano ha reso
difficile la reperibilità di materiale consono a questo lavoro; poiché esigue sono le fonti da
cui poter trarre informazioni che ci permettano un’analisi del suo linguaggio. Per tale
ragione è stato analizzato un solo video caratterizzato da molti silenzi e da molti più gesti
che parole, comunque preziose fonti di informazioni per gli obiettivi della ricerca.
A) Tipologia di linguaggio utilizzato
Categoria
Linguaggio verbale
Presenza o assenza di fluidità di linguaggio
Presenza o assenza di espressioni dialettali
Presenza di errori nell’esposizione
Frasi allusive
Gestualità
Atteggiamento corporeo
Elementi di osservazione
Presente
Assente
Presente
Presente
Presente
Presente
Presente
Il linguaggio che osserviamo in questo video è molto limitato, poiché poche e molto brevi
sono le risposte che Bernardo Provenzano fornisce.
Come osservato per altri soggetti legati alla mafia, non è presente una buona fluidità di
linguaggio, che viene ulteriormente ostacolata dalla presenza di errori grammaticali
nell’esposizione e dall’intercalare di frasi e parole dialettali miste ad un linguaggio a tratti
allusivo e poco chiaro.
Anche in questo caso la gestualità accompagna le parole proferite, ma si caratterizza nello
specifico per una lentezza e tranquillità quasi religiosa.
B) Atteggiamento del soggetto
Categoria
Sicurezza nell’esposizione
Cambiamento di atteggiamento durante
l’esposizione
Presenza di pause durante l’esposizione
Atteggiamento disteso o irritato durante
l’eloquio
Elementi di osservazione
Assente
Presente
Presente
Atteggiamento in apparenza disteso
L’atteggiamento del soggetto preso in esame, non è facilmente decifrabile; il suo
comportamento è contraddistinto da una pacatezza che a tratti sembra voler quasi
veicolare ‘una sorta di serenità interiore conferitagli dall’alto’; sul suo volto durante quasi
tutta la durata del video rimane quasi come stampato un sorriso plastico.
Ciò che sembra tradire a tratti questa serenità sono le frequenti pause e ‘non risposte’ che
caratterizzano il suo eloquio.
6. Analisi e valutazione: Mappe tematico – concettuali
Come sottolineato in precedenza l’utilizzo della Grounded Theory quale metodologia
di analisi qualitativa ha consentito di creare delle mappe tematico-concettuali (Giorgi,
Giunta, Coppola, Lo Verso, 2009), che ci aiutano a visualizzare il complesso lavoro di
41
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
astrazione effettuato dai giudici sui trascritti analizzati; l’astrazione in categorie consente la
costruzione di aree tematiche che possono essere rappresentate visivamente secondo
un’organizzazione gerarchica attraverso degli organigrammi che supportano la
comprensione delle dinamiche e dei processi di significazione dell’oggetto di studio.
Attraverso questo procedimento metodologico è stato quindi possibile rappresentare i
temi emergenti e gli argomenti dei video sottoposti ad analisi, secondo un percorso
strutturato su elementi di significazione.
Di seguito si riportano le mappe di analisi tematica e la rispettiva descrizione emerse
dall’osservazione dei video.
Mappa 1 - Mafia, potere e strategie
Famiglia
Mafia
Potere in antitesi
con lo Stato
Agisce attraverso
procedure
specifiche
Come potere
inimitabile, “unico”
Agisce con
modalità subdole o
plateali
Potere che vacilla a
causa delle
collaborazioni
Presenza della
mafia in Sicilia
La vendetta arriva
sempre anche
dopo tempo
La mappa 1, indaga e rileva il significato che alcune parole assumono all’interno del
contesto mafioso.
Il mutare specifico di parole all’interno di tale organizzazione si intreccia fortemente con
un potere e delle strategie che sono reputate uniche ‘al mondo’ dai collaboratori.
Nello specifico rispetto al termine Famiglia il collaboratore Tommaso Buscetta lo definisce
così:
“Famiglia come gruppo che può variare, dai trecento ai cinquanta, non c’è una stabilità”
A questa affermazione è collegata la definizione della mafia da parte dei suoi uomini come
potere in antitesi allo Stato, inimitabile che non somiglia a nessun’altro, perché nessuno
riesce ad imitarla e perché rappresenta qualcosa di più della semplice criminalità:
“la mafia è la criminalità più l’omertà, più l’intelligenza, che è appunto una cosa ben diversa”8
Questo potere legato sia all’unicità dell’organizzazione che alle sue strategie, negli anni ha
vacillato a causa del fenomeno delle collaborazioni; la ‘parola’ che dagli ex affiliati viene
proferita all’esterno di Cosa Nostra stessa, rappresenta un potente fattore destabilizzante
per quest’ultima, ma anche una potente offesa, lavabile solo con il sangue attraverso
efferate vendette.
È in questi casi che la mafia abbandona le consuete modalità d’azione silenti, “la mafia tira
la pietra e poi nasconde la mano”9, per dare una punizione esemplare anche a distanza10 di
anni, a dimostrazione che questa organizzazione non dimentica, ma possiede una
memoria.
Ancora Tommaso Buscetta
Ancora Tommaso Buscetta
10 Come nel caso di Leonardo Vitale
8
9
42
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Attraverso le interviste si rileva, inoltre, un forte riferimento alla presenza in termini
quantitativi della mafia in Sicilia, in riferimento a questo fattore il collaboratore Tommaso
Buscetta, alla domanda dell’intervistatore relativa a quanti fossero i mafiosi in Sicilia
risponde:
“quanta gente non sarà mafiosa in Sicilia lei mi deve domandare, no quanto mafiosi ci saranno in Sicilia”
Il sottile filo di congiunzione che emerge in modo preponderante in tutti i filmati
analizzati è quello della presenza nella società di due poteri in antitesi, ‘mafia-Stato’; il
primo spesso ha messo in crisi il potere del secondo, tuttavia come gli stessi collaboratori
riferiscono, se lo Stato utilizza modalità di azione più forti e compatte contro questa
organizzazione, servendosi delle collaborazioni come strumento di conoscenza che svela i
punti deboli della mafia, potrebbe un giorno avvicinarsi alla possibilità di sconfiggerla.
Mappa 2 – Collaboratori di giustizia e responsabilità
Collaboratori di
giustizia
Responsabilità a
Atteggiamento nei
scarica barile
confronti dei giudici
Vittimismo, richiesta
di
Atteggiamento nei
confronti dei
giornalisti
prove tangibili
Fanno leva sulla
dimensione del “non
sapere, del non
ricordare”
Atteggiamento nei
confronti di altri
collaboratori
Accusati dai mafiosi
“doc” di avere
“secondi fini”
Processo di
screditamento tra
mafiosi “doc” e
collaboratori
Appello al
concetto di verità
La mappa 2 sopra riportata rappresenta il filo conduttore di tutti i video presi in analisi; la
categoria del rimando ‘della responsabilità ad altri’ o la negazione di questa emerge in
maniera massiccia in tutte le interviste.
Nello specifico sono tre gli elementi connessi alla dimensione Collaboratori di giustizia che
emergono in modo preponderante nei video:
1. si rileva una tendenza diffusa tra i soggetti presi in esame a rimandare la responsabilità
degli eventi legati all’organizzazione e al loro ruolo al suo interno, ad esempio riferendo
di non sapere o non essere a conoscenza dei fatti per i quali sono stati citati in giudizio,
oppure, in alcuni casi, facendo appello all’incapacità di ricordare un evento accaduto
molti anni prima. Ciò fa si che i racconti, in modo evidentemente strumentale, appaiano
poco chiari e confusi.
2. Dalle osservazioni emerge anche che l’atteggiamento che i collaboratori adottano
cambia in funzione dell’interlocutore di riferimento: con i giudici spesso si scusano della
terminologia utilizzata, l’atteggiamento è quasi di riverenza, forse finalizzato a dare a
questi un’impressione diversa da ciò che i fatti narrano rispetto al loro operato.
Nel caso in cui il contesto è più informale e la situazione è quella di un intervista a due
(condotta da un giornalista), i toni diventano più confidenziali, più rilassati.
In tribunale e nel dibattere contro un altro pentito i toni si fanno più aspri, tendono a
screditarsi attraverso uno svilimento che implica un parallelismo tra i fattori personali e
familiari e la deposizione, ad esempio, sostenendo la tesi che se un soggetto non è
affidabile nel quotidiano, con la famiglia, nel lavoro, allora anche la sua deposizione non
sarà attendibile.
43
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
3. Ad un’analisi più attenta si rileva che, rispetto ai soggetti presi in esame, l’atteggiamento
dei collaboratori di giustizia risulta differente da quello dei non collaboratori; i primi, ad
esempio, in alcuni casi riportano i fatti e si assumono le responsabilità di alcuni atti
mentre chi non collabora nega le proprie responsabilità rimandandole ad altri.
Le differenze tra queste due ‘categorie’ di soggetti non vengono rilevate solo nella
dimensione dell’assumersi o rimandare la responsabilità ad altri, ma più in generale in
tutto l’atteggiamento che questi adottano durante il dibattito.
Coloro i quali sono divenuti collaboratori appaiono più pacati anche quando devono
rispondere alle accuse che gli vengono rivolte, tutto il loro comportamento sembra
puntellato da umiltà.
Chi non collabora mostra più aggressività e a tratti le espressioni del viso tradiscono
quanto le parole da essi proferite vorrebbero far credere.
Mappa 3 – La scelta di collaborare e il coraggio
Dimensione del
coraggio
Negazione del coraggio
legato alla scelta di
collaborare
Dimensione del
pentimento
Modo di essere di un
vero uomo d’onore
Sentimenti
Rifiuto di riferire
vicende personali legate
alla propria famiglia
Condivisione di alcuni
valori
Nella mappa 3 viene presa in analisi un’altra dimensione emersa dalla valutazione dei video
oggetto di questo lavoro: il coraggio.
Dalle parole dei collaboratori questa dimensione viene percepita in contrapposizione alla
scelta di ‘parlare’, di collaborare; ciò si ricollega alla condivisione e all’attaccamento che
spesso in questi soggetti resta anche a livello inconsapevole nei confronti di alcuni valori
mafiosi.
Difatti, come già riportato nella parte teorica di questo lavoro, l’azione peggiore che un
uomo d’onore possa compiere è non obbedire alla legge dell’omertà, uscire dal silenzio,
parlare.
Un collaboratore, per esempio, alla domanda del giornalista: “lei ha dimostrato coraggio
nel parlare?” risponde “io coraggio in vita mia veramente ne ho avuto sempre poco”11, risulta
abbastanza evidente che questi soggetti non reputano la collaborazione un atto che prende
le mosse dal coraggio, ma piuttosto una scelta che si compie sulla base di altre
motivazioni: quali per esempio la redenzione interiore (è il caso di Leonardo Vitale), la
mancata condivisione dei valori e dei modi di agire attuali della mafia, che sarebbero
diversi da quelli della mafia nel ‘suo nascere’ (è il caso di Tommaso Buscetta).
11
Leonardo Vitale.
44
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Come già detto, il tema del coraggio emerge più volte nei diversi video, nello specifico i
collaboratori narrano sia le vicende in cui a loro avviso è presente la dimostrazione di un
atto di coraggio, sia quelle in cui questo non è presente.
Azioni che secondo questi soggetti sono dettate dal coraggio, sono la capacità dell’uomo
d’onore di: mantenere il silenzio sulle proprie vicende familiari e personali, su questioni
relative la ‘famiglia mafiosa’ e di saper a sua volta portare a termine gli ordini impartiti da
questa, sia all’inizio attraverso il rito di iniziazione, sia dopo, quando il soggetto diviene
uomo d’onore.
Altro esempio lo ritroviamo nell’intervista di Tommaso Buscetta che riferisce di aver
atteso per lunghi anni di uccidere un soggetto condannato a morte da Cosa Nostra poiché
quest’ultimo usciva sempre in compagnia dei bambini “non potevo fare spaventare i bambini,
non sarebbe stato giusto per me e nemmeno da gli altri sarebbe stata vista come una cosa giusta, come un
azione di coraggio”.
Risulta chiaro, da quanto sin qui esposto, che le azioni reputate coraggiose sono spesso
quelle che non minano i principi di questa organizzazione criminale; tuttavia anche l’atto
reputato coraggioso non è esente dal creare sentimenti di natura contrastante in chi deve
compierlo.
Mappa 4 - Mafia e comunicazione
Stile di linguaggio
Linguaggio comune
Forte presenza di
linguaggio non
verbale
Italiano misto a
Gesticolano molto
espressioni dialettali
mentre parlano
Ridondanza
nell’utilizzo di alcuni
termini
Significato di alcune
parole di uso comune
che mutano nel
contesto mafioso
Richiamo alla
dimensione del “Noi”
Diverso
atteggiamento
corporeo a seconda
di cosa parlano
La mappa 4, incentrata sul tema del linguaggio, si ricollega al cuore di questo lavoro,
subito risaltano a gli occhi molte delle dimensioni che sono state trattate nella parte teorica
di questo elaborato.
Il linguaggio dei collaboratori non appare contraddistinto da un particolare codice,
piuttosto è un linguaggio di uso comune che attraverso un italiano spesso forzato e
colorito da espressione dialettali può assumere, in alcuni casi, particolari significati. Inoltre,
la non padronanza di un ricco vocabolario li porta alla ripetizione frequente di alcuni
termini, che divengono accessori e mutevoli (e intercambiabili) rispetto all’oggetto e alla
circostanza del discorso (obliquità semantica). Questo linguaggio si accompagna quasi
sempre ad una forte gestualità, questi soggetti muovono molto braccia e mani quando
parlano, quasi come a volere dare più credibilità alle loro parole attraverso i gesti. Anche
l’atteggiamento corporeo cambia secondo l’oggetto del discorso, stanno dritti quando
parlano della mafia, delle sue caratteristiche, abbassano lo sguardo quando descrivono
alcuni atti efferati da loro commessi, inveiscono di più, cambiano il tono di voce quando si
confrontano con altri pentiti.
45
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Alla luce di quanto osservato attraverso i video, la compilazione delle tabelle e la creazione
delle mappe tematico - concettuali, emergono delle differenze tra i soggetti che
intraprendono la scelta di collaborare e chi invece decide di non ‘pentirsi’.
Le differenze rilevate in questi soggetti a livello identitario sono state individuate nel
presente lavoro attraverso la lente di osservazione guida di questo contributo: la
comunicazione.
Si evidenzia in chi collabora una “identità contrastante” tra il sentirsi ancora parte e il
condividere alcuni principi tipici dell’organizzazione e il subirne la fascinazione, e la
volontà di distaccarsene.
Quanto riportato si coglie dal continuo rimando ad una dimensione che non fa
riferimento al proprio ‘Io’ ma ad un’altra legata al ‘Noi’; questi soggetti non parlano e non
raccontano quasi mai gli eventi come mossi da una volontà personale, ma piuttosto questa
appartiene sempre all’organizzazione, al Noi.
Si avverte, inoltre, nei collaboratori di giustizia una crisi identitaria che nelle loro parole fa
emergere un sostare in uno ‘spazio senza’ (Lo Verso, Ferraro, 2007) in cui a livello
cosciente credono di essersi staccati dal sistema mafia, ma ad un livello più inconscio ne
rimangono fortemente invischiati.
Dal confronto e dall’analisi dei video presi in esame emerge, quindi, che il linguaggio di cui
questa organizzazione si serve non è diverso da altri linguaggi, non esiste un linguaggio
mafioso, piuttosto la mafia sfrutta ed esalta alcune caratteristiche e potenzialità del
linguaggio comune al fine di piegarlo alle proprie esigenze, difatti: il significato dei termini
diviene accessorio e muta a seconda delle situazione, i collaboratori stessi confermano e
spiegano il significato di alcune parole, espressioni e modi di dire durante le udienze o le
interviste; ed è sempre per mezzo del linguaggio che lasciano trasparire giudizi di valore e
di distanza-vicinanza rispetto all’interlocutore.
In alcuni video è emersa, in maniera preponderante, la presenza del linguaggio non
verbale, a conferma dell’ipotesi presente in questo lavoro che gran parte del linguaggio di
questi soggetti si dispiega attraverso la gestualità, il non detto.
Queste scelte linguistiche, a nostro avviso ed in linea con la letteratura sull’argomento (sia
che esse siano legate alla forma o al contenuto) costituisco un mezzo (per questi soggetti)
attraverso il quale costruirsi un’immagine sociale per sentirsi parte di un ‘noi’ che li
ingloba.
Lo studio effettuato ha consentito, inoltre, di evidenziare, sempre attraverso la lente
osservativa della comunicazione, differenze a livello identitario tra i soggetti che
divengono collaboratori di giustizia e quelli, invece, che non intraprendono questa scelta;
nei primi si rileva un’identità che vacilla tra il sentirsi ancora legata al sistema mafia e il
percepirsi come distaccata da questo.
L’impressione che questi soggetti rimandano è quella di avere un’identità sospesa in una
specie di ‘limbo’ che non gli permette ormai di sentirsi appartenenti al sistema mafia, ma
nemmeno totalmente separati.
A nostro avviso, quindi, la cura per le scelte linguistiche che nei video abbiamo riscontrato
lascia trasparire come la comunicazione, per Cosa Nostra, sia un’attività cruciale, anche
quando la parola lascia il posto al silenzio o alla gestualità.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
7. Conclusioni
Attraverso questo contributo abbiamo cercato, utilizzando la comunicazione quale
chiave di accesso al ‘blindato’ universo Cosa nostra, di mettere in luce alcune peculiarità e
caratteristiche costitutive dell’organizzazione, così da contribuire ad aggiungere un
ulteriore tassello al travagliato processo di comprensione della psiche mafiosa.
Il fenomeno mafioso è infatti stato studiato con diverse modalità di indagine e attraverso
ottiche differenti; quel che risulta certo, nonostante le molteplici chiavi di lettura, che
portano ogni professionista a cogliere alcune sfumature piuttosto che altre, è che la mafia
si è rivelata come un fenomeno dinamico contemporaneamente influenzato da radici
antropo - culturali.
Nello specifico, Cosa Nostra oggi appare come una sorta di ibrido in cui il vecchio e il
nuovo si incontrano e si scontrano, uno spazio in cui persone fra loro in apparenza molto
distanti collaborano (si pensi, ad esempio, al fenomeno dei colletti bianchi).
La documentazione fin qui esaminata mostra come la mafia, sia quella agreste di fine
ottocento, sia quella attuale, per esistere abbia bisogno di una comunicazione interna
impeccabile, poiché gli errori si pagano con la vita.
Come è possibile evincere da quanto esposto nel lavoro, Cosa Nostra utilizza il linguaggio,
nelle sue dimensioni verbale e non, quale mezzo per imporre il proprio potere tanto al suo
interno, tra i suoi membri, quanto al suo esterno, poiché ogni messaggio, trasmesso
attraverso la parola o il linguaggio non verbale, risulta essere tanto chiaro tra gli ‘addetti ai
lavori’ quanto criptico per tutti gli altri. Cosa nostra impone ai suoi membri di aderire
‘pedissequamente’ alle sue regole e tra queste la regola della ‘parola’, capire se, quando e
come questa deve essere proferita risulta essere uno di quei ‘comandamenti’ che un
appartenente all’organizzazione fa suo sin dalla nascita insieme, ovviamente, alla capacità
di decifrare i messaggi nascosti dietro ogni parola/gesto.
La cura per le scelte linguistiche, tanto di forma, quanto di contenuto, si è configurata
come il segno evidente dell’attenzione nei confronti del linguaggio da parte di questa
organizzazione.
Soffermarsi sulle caratteristiche, sulle similitudini e sulle differenze che costituiscono la
comunicazione degli uomini di Cosa Nostra presi in esame in questo lavoro (mafiosi ‘doc’
come Riina e Provenzano e collaboratori di giustizia), ha permesso di confermare quanto
già evidenziato in precedenti lavori (Lo Verso, 1998) rispetto le caratteristiche identitarie
degli appartenenti all’organizzazione. Il mafioso risulta essere l’alienazione dell’essere
umano. Una ‘non persona’ che si identifica nella grande famiglia di Cosa Nostra e che
esiste solo in quanto suo membro; una mente fondamentalista che si rispecchia
fortemente nella comunicazione rigida, criptica, rivolta solo a chi la senta come ‘cosa sua’ e
che inevitabilmente taglia fuori chiunque ‘altro’ (si pensi ad esempio all’uso dei proverbi o
del dialetto).
Queste caratteristiche dell’identità mafiosa si riscontrano particolarmente nella descrizione
delle modalità comunicative dei collaboratori di giustizia presi in esame in questo lavoro.
Rompere con la mafia e collaborare con la giustizia genera negli appartenenti a Cosa
Nostra innumerevoli conflitti, talora devastanti (Lo Verso, 2013); tali conflitti si
riscontano, nei casi illustrati, a partire dalle caratteristiche dell’eloquio verbale e della
comunicazione non verbale oltre che nelle difficoltà manifestate ad affrontare alcuni
argomenti, che rispecchiano appieno il conflitto vissuto da chi, nonostante abbia tradito
l’organizzazione, non riesce a pensarsi se non come suo membro rimanendo ingabbiato in
una dimensione in cui l’Io soccombe ad un Noi che ‘parla’ e pensa al proprio posto.
47
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Cosa Nostra ha così dovuto creare e cercare nuovi equilibri; difatti, oggi, l’organizzazione
vive una nuova fase in cui è necessario molto più di prima muoversi e differenziare le
proprie attività.
Gli uomini d’onore, per portare a termine le proprie logiche criminali nei vari ambiti,
dovranno necessariamente comunicare le disposizioni, predisporre e adeguarsi a nuove
linee programmatiche, acquisire nuovi contatti senza trascurare le vecchie metodologie
ancora in auge.
Tuttavia, analizzando i risultati della ricerca, è emerso che indagare la comunicazione che
all’interno di Cosa Nostra si dispiega, permette di acquisire informazioni molto
significative relative a questa organizzazione e al suo funzionamento.
Importante sottolineare, quindi, come in questo studio Cosa Nostra si sia rivelata come un
fenomeno dinamico contemporaneamente influenzato da radici antropo-culturali che
danno luogo però ad un ibrido in cui il vecchio e il nuovo si incontrano e si scontrano,
uno spazio in cui persone fra loro in apparenza molto distanti collaborano attraverso la
comunicazione che in questo caso diviene filo di raccordo che unisce molteplici ed
eterogenee realtà.
In quanto fenomeno dinamico risulta interessante, e di questo stiamo cercando di
occuparci in un recente lavoro in progress che vede coinvolti i figli dei boss provenienti da
varie parti della Sicilia, cercare di comprendere come lo stile comunicativo stia mutando
nelle nuove generazioni di Cosa Nostra, quali caratteristiche, messe in luce in questo
lavoro, ancora permangono e quali invece sono state perdute o strategicamente sostituite
da altre, al fine di individuare le trasformazioni che oggi attraversano l’organizzazione e le
nuove ‘forme’ che essa assume.
Si riporta in conclusione una frase di Victor Klemperer (1947), filologo e scrittore tedesco,
che a nostro avviso riassume efficacemente, l’oggetto, gli obiettivi e i risultati di questo
lavoro di ricerca: “Ciò che chiunque voglia deliberatamente nascondere, sia solamente nei confronti degli
altri, sia nei confronti di sé stesso, anche ciò che inconsciamente egli porta dentro di sé, viene svelato dal suo
linguaggio”.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
50
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
gruppi nel sociale
Crescere in terre di mafia
Maria Di Blasi, Paola Cavani, Sabina La Grutta, Rosa Lo Baido, Laura Pavia
Riassunto
Questo studio, in continuità teorica con altri che lo precedono, rappresenta un ampliamento
delle conoscenze sulla relazione tra adolescenza e mafia. La ricerca si è proposta come obiettivo
l’esplorazione dell’universo adolescenziale all’interno di specifici contesti sociali in cui la presenza di
organizzazioni criminali è pregnante, focalizzando l’attenzione sulle modalità attraverso cui
vengono affrontati i compiti evolutivi all’interno di contesti caratterizzati da alta densità mafiosa e
spesso contraddistinti da una percezione dello spazio sociale che rende problematico lo sviluppo
personale, economico e politico. La ricerca ha coinvolto 93 adolescenti che vivono in regioni
meridionali in cui la presenza delle mafie (Camorra, ‘Ndrangheta e Cosa Nostra) è capillare. Sono
stati realizzati sei focus-group, audioregistrati e in seguito trascritti; le verbalizzazioni sono state
analizzate attraverso apposite griglie qualitative che hanno consentito di individuare tre macro-aree
tematiche: rappresentazioni del fenomeno mafioso, emozioni ad esso connessi e progettualità.
L’analisi qualitativa dei trascritti evidenzia che la presenza delle Mafie, la contiguità fra codici
simbolico-culturali legali ed illegali, la comunanza delle matrici di appartenenza, la condivisione del
medesimo spazio simbolico e sociale, sono tutti elementi che entrano violentemente dentro i
percorsi di individuazione e svincolo di questi adolescenti, influenzandoli profondamente.
Parole chiave: adolescenza, terre di mafia, crescita
Growing in mafia territories
Abstract
As a theoretical extension of other previous studies, this work represents an improvement
of the notions about the relationship between adolescence and Mafia. The research has been
aiming at exploring teenagers’ universe within specific social contexts where the presence of
criminal organizations is significant, focusing the attention on the modalities through which
evolutionary tasks are coped with in contexts with high Mafia density and often characterized by a
perception of social space which makes personal, financial and political development problematic.
The research has involved 93 teenagers who live in southern regions where the presence of Mafia
organizations (Camorra, ‘Ndrangheta and Cosa Nostra) is widespread. Six focus groups have been
carried out, audio recorded and then transcribed. Verbalizations have been analyzed through
appropriate qualitative grids which allowed detecting three thematic macro-areas: representations of
the phenomenon of Mafia, emotions connected to it and planning skills. The qualitative analysis of
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
transcriptions points out that the presence of Mafia organizations, the contiguity between legal and
illegal symbolic-cultural codes, the commonality of belonging matrices, sharing the same symbolic
and social spaces are all elements which violently enter these teenagers’ identification and release
paths, deeply influencing them.
Keywords: Adolescence, Mafia territories, growth
1. Introduzione
Nell’ambito delle numerose ricerche psicologiche condotte in Sicilia sulla mafia e
sulle ricadute che questa ha sul territorio, sulla comunità (Giorgi et al., 2009; Coppola et
al., 2011) e sull’individuo (Lo Verso, Lo Coco, 2002; Lo Verso, 2013), è stata posta
attenzione anche sulle difficoltà di rielaborazione dei legami intergenerazionali e culturali
cui vanno incontro gli adolescenti appartenenti a famiglie mafiose. L’analisi dei dati di
queste ricerche qualitative, condotte attraverso interviste cliniche, ha evidenziato le
difficoltà incontrate durante il percorso evolutivo da questi soggetti costretti a mediare, e
più spesso a deviare, rispetto al loro bisogno di autonomia all’interno di sistemi familiari
che non tollerano nessun tipo di soggettività e di discontinuità tra individuo e famiglia.
Infatti, l’appartenenza ad una famiglia mafiosa genera e mantiene una matrice identitaria
che ostacola il processo di soggettivazione e che non promuove lo sviluppo di un percorso
esistenziale individuale e autonomo. L’individuo è perciò costretto ad aderire ad una
modalità di pensiero familiare rispetto alla quale, come spesso accade anche in molti
quadri psicopatologici, è difficile, colpevolizzante e addirittura terrificante trasgredire. Le
matrici psichiche, relazionali, emotive e cognitive entro le quali i soggetti appartenenti a
famiglie mafiose sono stati concepiti e crescono non consentono il confronto e l’apertura
con ciò che è diverso (Lo Verso, 2013; Giordano, Di Blasi, 2012).
Altre ricerche condotte intervistando psicoterapeuti (Lo Verso, 1998; Lo Verso et al,1999;
Lo Verso, Lo Coco, 2004) che avevano in carico giovani figli di famiglie mafiose, ci hanno
consentito di verificare come spesso il dissenso, la difficoltà o l’impossibilità di
adeguamento passivo alla rigidità e alla chiusura del mondo familiare, si manifestino
attraverso sintomi (ritiro sociale, dipendenze, disturbi da comportamento alimentare
(DCA), insuccesso scolastico) mediante i quali questi ragazzi esprimono il dolore per la
più grande e forse più problematica rinuncia adolescenziale, quella della ricerca di un senso
di sé autentico e originale.
Il vertice teorico di riferimento della nostra analisi si rifà sia alla teoria gruppoanalitica
soggettuale (Lo Verso, Di Blasi 2011), che legge lo sviluppo adolescenziale nei termini di
un costante processo dialettico di risignificazione e trasformazione della propria cultura
familiare verso la conquista dell’individualità, sia alle più recenti teorizzazioni
psicodinamiche in ambito evolutivo (Pietropolli Charmet et al, 2010), che pongono in luce
l’assoluta centralità del rapporto con i coetanei e con il più vasto universo sociale ai fini
dell’acquisizione di una propria identità. La risignificazione delle proprie matrici originarie
consente all’individuo di transitare dall'universo mentale della continuità a quello della
discontinuità, dal nucleo familiare al più vasto spazio sociale, facilitando la strutturazione
di una originale visione del mondo e il rilancio di una progettualità futura.
Questo processo e il contatto con il mondo sociale rendono inevitabile una rielaborazione
critica e originale delle proprie matrici di appartenenza, nonché una rinegoziazione dei
confini familiari (Di Blasi, Di Falco, 2011). Quando i percorsi evolutivi si intersecano e si
scontrano con appartenenze a sistemi simbolico-culturali in cui non è concepita alcuna
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
forma di autonomia e diversità (Lo Verso, 1998, 2013), può divenire difficile per un
adolescente mettere in atto un processo di risignificazione dei propri legami
intergenerazionali. Alla luce di quanto detto, l’ipotesi generale della presente ricerca
riguarda il fatto che, durante il periodo adolescenziale, l’appartenenza a sistemi familiari o
sociali mafiosi fortemente caratterizzati da elementi di rigidità e chiusura, può influenzare
le modalità di gestione dei compiti evolutivi nel corso della delicata fase di svincolo che
caratterizza l’adolescenza.
2. La ricerca
La ricerca, in continuità teorica con gli studi precedentemente citati, ha consentito
un ampliamento delle conoscenze sulla relazione tra adolescenza e mafia. Lo studio ha
previsto, infatti, un campo d’indagine più ampio e articolato, oltrepassando i confini della
Sicilia ed estendendo il focus alle altre mafie meridionali, Camorra e ’Ndrangheta,
rispettivamente radicate in Campania e in Calabria.
L’obiettivo della ricerca è stato quello di indagare e porre a confronto le rappresentazioni
mentali, le emozioni ed i vissuti di adolescenti non direttamente appartenenti alle tre
grandi organizzazioni criminali italiane (Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta) ma che con
esse condividono il medesimo spazio sociale e culturale.
Gli obiettivi, nello specifico, sono stati i seguenti:
- comprendere in che modo il fatto di vivere all’interno di un territorio in cui è
pregnante la presenza delle organizzazioni mafiose, abbia delle influenze anche sugli
adolescenti che non provengono direttamente da famiglie appartenenti al sistema
criminale;
- indagare i significati che assume, in una fase di sviluppo e di transizione quale è
l’adolescenza, il vivere, relazionarsi, progettarsi in qualità di futuri cittadini all’interno di
uno spazio sociale e comunitario in cui la presenza di organizzazioni criminali è
pregnante dal punto di vista sociale, economico, storico, culturale, simbolico.
L’impianto di ricerca ha previsto la realizzazione di focus-group all’interno di 6 classi di
Scuole Medie Superiori nelle località di Palma di Montechiaro (Agrigento - Sicilia),
Scampia (Napoli - Campania) e Reggio Calabria (Calabria). Le tre città scelte
rappresentano luoghi in cui la presenza e l’attività delle organizzazioni criminali,
rispettivamente Mafia, Camorra e ‘Ndrangheta, è capillarmente diffusa. Per
l’individuazione delle scuole si è proceduto attraverso una mappatura dei territori e a
interviste a testimoni privilegiati (insegnati e presidi) che ci hanno fornito dati utili alla
contestualizzazione del lavoro di ricerca in ciascun territorio. La conduzione dei focusgroup ha seguito il modello dei ‘gruppi di elaborazione clinico-sociale’ utilizzato nelle
ricerche intervento sul fenomeno mafioso (Giorgi et al., 2009; Coppola et al., 2011). Il
conduttore stimola l’attività associativa dei partecipanti intorno ad alcune aree tematiche
prestabilite e attraverso interventi di tipo connettivo ed esplorativo favorisce la
verbalizzazione di contenuti emozionali e cognitivi connessi alla presenza della mafia nel
territorio di appartenenza. L’obiettivo dei gruppi di elaborazione clinico-sociale è duplice:
da un lato sono uno strumento di rilevazione di dati di ricerca psicologica, dall’altro sono
dei dispositivi che tendono a promuovere nei partecipanti l’avvio di processi elaborativi su
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
tematiche difficili quali le ricadute della presenza della mafia sugli individui e sulle
comunità (Coppola et al., 2011).
Abbiamo incontrato 2 classi per ogni città per un totale di 93 adolescenti (52 femmine),
per ogni classe è stato effettuato 1 incontro della durata di due ore; la partecipazione è
stata su base volontaria; gli incontri si sono svolti all’interno delle classi, in assetto circolare
e senza presenza del docenti. Durante gli incontri è stato chiesto agli adolescenti di
raccontare cosa pensassero della mafia, cosa significa per loro vivere in una terra di mafia,
se e come la mafia entra a fare parte della loro vita.
I gruppi, condotti da giovani terapeuti gruppoanalisti, sono stati interamente
audioregistrati e trascritti; le trascrizioni sono state analizzate attraverso la creazione di
mappe tematico-concettuali secondo il metodo della Grounded Theory (Glaser, Strauss,
1967; Dourdouma, Mörtl, 2012). Le mappe sono state ricavate secondo un metodo
induttivo (D’Odorico, 1990) riportando testualmente a margine di ogni capoverso le
categorie tematiche che lo sintetizzano.
Due siglatori indipendenti si sono
successivamente confrontati insieme ad un giudice esterno sulle rispettive categorie
tematiche individuate. Per ogni categoria sono state selezionate le narrazioni
rappresentative dei diversi punti di vista espressi dai partecipanti. Seguendo la stessa
procedura utilizzata per l’individuazione delle categorie tematiche (confronto
intersoggettivo nel team a partire dall’analisi del testo), si è proceduto all’individuazione di
tre mappe tematico-concettuali: rappresentazione del fenomeno mafioso, emozioni ad
esso connessi e progettualità. All’interno di ciascuna mappa tematico-concettuale si è
avuto modo di notare la prevalenza e la rappresentatività di alcune categorie tematiche. Il
silenzio e la paura, la rabbia e la delusione, cosi come l’appartenenza e l’etichettamento
antropologico, risultano essere traversali alle tre mappe individuate. Tuttavia, vi sono
differenze nel modo in cui gli adolescenti dei diversi territori declinano le suddette
tematiche. Ipotizziamo che tali differenze siano legate a specificità territoriali e al modo in
cui le diverse organizzazioni criminali si radicano nei territori.
Nel presente contributo intendiamo proporre alcune riflessioni su alcuni aspetti trasversali
e su altri invece specifici che sono emersi dal lavoro di ricerca.
3. Il silenzio e la paura
Un primo tema rappresentativo e trasversale è quello relativo alla possibilità di
parlare (parlabilità) del tema “mafia”. La narrazione degli eventi, la possibilità di parlarne,
contrapposta al silenzio su di essi, ha a che fare con la trasmissione intergenerazionale
della storia passata e presente, dei codici di lettura e di significazione della realtà e degli
accadimenti. Questa dimensione assume sfumature e significati differenti nei tre territori
presi in esame.
A Palma di Montechiaro, paese segnato da una sanguinosissima guerra di mafia negli anni
’80 e ‘90, i ragazzi affermano che è difficile parlare di mafia in famiglia e che la risposta più
frequente che ricevono quando si solleva la questione è ‘meno sai, meglio è’. Confrontandosi
con adulti che spesso non si sentono capaci di dar voce ad un passato muto, ma
ingombrante, questi ragazzi si trovano in difficoltà: il silenzio per difendere la propria
famiglia, il silenzio con cui la famiglia difende i propri figli, forcludendo la memoria
storica, censurando eventi passati, rendendo muti fatti e vissuti, non riesce a bloccare la
trasmissione di quell'inquietudine che si lega inesorabilmente ad ogni non detto e trasmette
un vissuto demoralizzante di impotenza.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
La mancanza di parlabilità comporta in questi ragazzi difficoltà di elaborazione degli eventi
e dei loro significati che danno luogo a collusioni o significazioni ambivalenti. Ad esempio,
nel corso dell’incontro di gruppo, alcuni ragazzi di Palma di Montechiaro commentando la
denuncia di un'ingiustizia relativa alla detenzione di privilegi immeritati e immotivati
ottenuti da alcuni compagni appartenenti a famiglie mafiose influenti, oscillano tra due
interpretazioni contrapposte: un atto deplorevole di delazione oppure una richiesta
coraggiosa di giustizia e di equità. In un altro episodio riferito dai ragazzi, l’incendio di
un’automobile, atto mafioso chiaramente intimidatorio, viene alternativamente
interpretato come un atto vandalico dettato dalla disperazione di un singolo individuo.
Nel corso dell’incontro accade in classe quello che succede anche fuori: si fa strada l’idea,
adesso verbalmente esplicitata, che esistono anche per loro, e non solo per gli adulti, due
categorie di eventi: quelli dicibili e quelli che non si possono dire o che devi fare finta di
non sapere. Emerge la consapevolezza di una verità tanto semplice quanto difficile da
elaborare: il silenzio è, al contempo, lascia-passare per la propria incolumità e condanna
alla collusione con l'intero sistema. Nel corso dell’incontro i ragazzi di Palma di
Montechiaro hanno potuto vedere con maggiore chiarezza di essere alle prese con un
conflitto che riguarda l’elaborazione della propria appartenenza, delle proprie matrici
culturali: la mafia non è solo un’organizzazione criminale che non li riguarda ma una realtà
concreta, una eredità pesante che li incastra, lasciandoli sospesi, tra fedeltà e desiderio di
cambiamento.
In Campania, e precisamente a Scampia, dove la Camorra detta legge, la situazione è assai
diversa: Scampia somiglia ad un territorio di guerra da cui è molto difficile evadere, il
pericolo di morte è presente ogni giorno e, per un adolescente, praticamente sempre.
I ragazzi di Scampia parlano della morte come di qualcosa che fa parte della loro
quotidianità, parlano della morte come possibilità reale e non drammatico evento
eccezionale.
“Se c’è una sparatoria e sei nel mezzo, muori”
“Solo noi sappiamo cosa significa uscire la mattina per venire a scuola e non sapere se torni a casa”
Gli adolescenti di Scampia raccontano di episodi terrificanti che li hanno coinvolti da
vicino: parlano di un'amica uccisa durante una sparatoria per caso, perché si trovava “al
momento sbagliato nel posto sbagliato”, di un'altra adolescente bruciata viva dentro la macchina
per convincere l’ex fidanzato latitante a non parlare. Ai loro occhi, la Camorra ha contorni
assolutamente chiari, tangibili, storicizzati, talmente evidenti e quotidiani che ogni
tentativo di occultamento risulterebbe fallimentare essendo, per di più, un fenomeno
molto plateale ed esplicitamente violento: panifici che saltano in aria in pieno giorno,
sparatorie in mezzo alla gente che passeggia nei viali la sera.
“Si ammazza la gente come se si schiacciasse una formica”
A Scampia, nessuno può negare o ignorare la plateale e minacciosa visibilità della
Camorra. L’unico modo per proteggersi forse è proprio guardarla bene in tutta la sua
efferatezza e pervasività.
A Scampia, a differenza di Palma di Montechiaro dove ‘meno sai, meglio è’, “sapere” è una
strategia di sopravvivenza e di protezione: “devi sapere” per difenderti da una mafia che
fonda il suo enorme potere sul controllo delle persone che abitano in quel territorio. Gli
adulti a Scampia parlano di camorra e i ragazzi che abbiamo incontrato conoscono, sanno,
chiedono e ottengono risposte.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Dai gruppi con i ragazzi di Scampia è emerso spesso un urgente bisogno di sapere legato
alla difficoltà di riconoscere chi è veramente camorrista e chi non lo è, dal momento che
tutti e a tutte le età mimano atteggiamenti da boss.
Questa confusione destabilizzante diviene ancora più pericolosa laddove ci si trova
davanti ad una organizzazione criminale che ammazza per molto poco: se si risponde
male, se si rifiutano corteggiamenti e proposte o se ti trovi nel posto sbagliato al momento
sbagliato. Gli adolescenti di Scampia conoscono e padroneggiano codici di comportamento
complessi e articolati (quali entrare di notte a fari spenti in certi quartieri per non destare
sospetti, non indossare il casco in motorino per non essere scambiati per uno ‘sbirro’,
riconoscere i ‘pali’ all’ingresso del quartiere o il suono delle campanelle suonate da sopra i
tetti per avvertire l’arrivo della polizia) e vivono in una sorta di indifferenziato, ma
costante stato di allerta, funzionale a far fronte ad una organizzazione criminale che si
muove dentro logiche e comportamenti antropologicamente primitivi. Alla percezione del
pericolo si lega il tema della paura che però, a differenza che in Sicilia, non diventa paralisi
e annichilimento. A Scampia la paura assume un valore adattivo e sopravvivenziale, che
spinge all'azione, al sapere, al sentire, al vedere tutto perché solo se sai puoi sperare di
salvarti, riuscendo a prevedere per tempo cosa dire, a chi e in quale momento, anche
laddove si tratta del semplice saluto fra ragazzi o di decidere se giocare o no una partita a
pallone.
La paura legata all’efferatezza della Camorra e alla precarietà esistenziale che ne consegue,
alimenta però l’assunzione di comportamenti omertosi, pur nella consapevolezza che
parlare potrebbe essere d’aiuto per la condanna di determinati crimini. Il bisogno di
urgente “sapere” stride infatti terribilmente con l’intransigente divieto di dar voce al “già
detto”, a ciò che è noto e tramandato all’interno delle proprie famiglie; parlare non è
funzionale alla sopravvivenza. Anche un semplice scambio di battute in certe zone di
Scampia può essere pericoloso perché ti fa abbassare la guardia, ti fa condividere
confidenze e ansie, segreti e colpe, laddove l'unica modalità sicura di entrare in “relazione
con l’altro” è un silenzio diffidente e omertoso.
“La persona che ti sembra pulita è più sporca di chi è sporco”
In Calabria, invece, il silenzio e la non parlabilità di ciò che accade sembrano legati ad una
sorta di tacita accettazione della ’Ndrangheta, fenomeno criminale così “normalmente”
diffuso e presente all’interno della vita quotidiana da non essere quasi problematizzato.
Dagli incontri con gli adolescenti di Reggio Calabria emerge l’idea che, in questa terra,
nessuno denuncia, non perché non si sappiano le cose o perché il silenzio sia una strategia
di sopravvivenza, ma perché vige una sorta di equilibrio tacitamente condiviso, fatto di
indifferenza e omertà. A differenza degli altri territori, questo atteggiamento
profondamente omertoso non appare sostenuto dalla paura, quanto piuttosto da una
accettazione rassegnata e passiva legata probabilmente ad una percezione di immobilità e
di immutabilità del contesto criminale. La ’Ndrangheta sembra essere un dato di fatto, un
“fenomeno sociale” ubiquitario, trasversale, così “normalmente” influente da essere in
grado di modificare persino le planimetrie della rete viaria spostando e ricostruendo più
avanti, senza creare scalpore o scandalo, uno svincolo autostradale che originariamente
sarebbe dovuto passare sul terreno di un boss locale. La Mafia di cui parlano i ragazzi
calabresi, a differenza di quelli campani e siciliani, sembra caratterizzata da dinamiche
pesantemente normalizzate e da coesistenze quasi istituzionalizzate. Assume le fattezze di
un sistema di potere istituzionalizzato, un potere che i ragazzi leggono come un fenomeno
che trova linfa e legittimazione proprio nella stessa indole dell’essere umano, e per questi
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
motivi viene da loro vissuto come un fenomeno che non si potrà mai sradicare. Poche
sono le voci a sostegno dell’idea che denunciare i crimini della mafia sia uno dei possibili
strumenti di protesta e di cambiamento. La lettura che più diffusamente il gruppo di
adolescenti calabresi sembra portare avanti parte dal presupposto che, se in queste terre
tutti sanno e fanno solo finta di non sapere, non serve la denuncia per fare scandalo e cambiare le
cose. Nelle narrazioni degli adolescenti calabresi prende corpo l’idea che parlare,
denunciare sia una forma di protagonismo, un modo per far parlare di sé, per ottenere
successo e visibilità. L’eroe, quello vero, è quello che muore perché se muori significa che
hai agito veramente e ti sei messo in gioco, come i giudici Falcone e Borsellino; se, invece,
parli soltanto sei solo un arrivista in cerca di gloria, perché le cose che dici tacitamente già
le sanno tutti. In un ragionamento che denota un relativismo cinico Roberto Saviano, con
le sue azioni di denuncia, viene paragonato a un pentito che decide di collaborare:
entrambi parlano e raccontano soltanto, perché uno deve essere considerato eroe e l’altro
semplice collaboratore?
“Cioè lui (Saviano) ha solo dichiarato quelle cose, mentre Falcone e Borsellino hanno agito… allora
anche un pentito possiamo pensare che è un eroe”
Ritorna la confusione, la difficoltà di significazione degli eventi che sembra condurre ad
un cinismo provocatorio e disorientante.
3.1. La rabbia e la delusione
Dall’analisi dei trascritti emerge un elemento trasversale e caratterizzante tutti gli
adolescenti coinvolti nella nostra ricerca: la dicotomizzazione e l’ambivalenza con cui
manifestano pensieri ed emozioni legati alla mafia. Questo atteggiamento polarizzato e
oscillante, se da un lato appare collegato alla fase di sviluppo adolescenziale,
rispecchiandone modalità di agire, pensare ed organizzare la realtà, dall’altro sembra
strettamente connesso al tema trattato. Tale ambivalenza riflette, infatti, le difficoltà di
svincolo da un legame culturale vissuto come ingombrante e inestricabile: immaginare un
cambiamento è difficile, esserne protagonisti è assai gravoso e impegnativo cosicché,
oscillando tra il possibile e l’impossibile, la maggior parte dei ragazzi per fronteggiare la
frustrazione e l’ansia cerca di attestarsi in una posizione intermedia di distanziamento e
indifferenza.
Quasi tutti gli incontri con gli adolescenti della nostra ricerca sono iniziati con grandi
manovre di distanziamento:
“La mafia c’è, ma non ci riguarda”
“La mafia è presente in tutto il mondo, c’è pure al nord, in Cina e in Russia… una presenza invisibile
di cui ti accorgi dai fatti che succedono”
Solo dopo averne preso le distanze, spaziali e temporali, la mafia può essere
progressivamente riconosciuta come un elemento che caratterizza la propria appartenenza
antropologica e culturale in modo ingombrante e problematico.
Una delle prime emozioni chiare e nette, che si lega al riconoscimento di questa
appartenenza è certamente la rabbia, seppur con intensità e aspetti differenti: la rabbia
lucida, razionalizzata, a volte cinica della Sicilia e della Calabria, è diversa da quella urlata,
viva e pulsante della Campania.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
La rabbia di questi adolescenti è spesso rivolta verso lo Stato e le istituzioni percepiti come
collusi, incuranti e assenti, e verso un sistema di potere vissuto come ubiquitario e
immodificabile.
"Si, ma la mafia deve avere il potere, deve avere rapporti con lo Stato perché la mafia, è mafia e Stato".
“Anche in politica ... la prima mafia non viene dalla politica? [...] no no, nel nostro paese è ovunque, non
è che sono mafiosi soltanto le persone che magari uccidono …”
In Sicilia, la rabbia emerge sin da subito all’interno dei gruppi classe: rabbia per eventi
vissuti e riconosciuti; rabbia per una comunicazione mediatica che alimenta una immagine
negativa della Sicilia; rabbia per una classe politica vista come il burattinaio che tira i fili
delle dinamiche mafiose; rabbia che emerge contro le istituzioni percepite assenti e
disinteressate, legata anche ad un vissuto abbandonico da parte di uno Stato percepito
come sempre più lontano ed incurante. All’interno di questo intreccio di rabbia e
delusione, che nasce da speranze disattese e bisogni mai soddisfatti, la Mafia può emergere
quasi come un amalgama in grado di invadere ogni fessura, ogni spazio, per quanto
piccolo, lasciato vuoto dall'istituzione, ponendosi come una macchina perversa e infallibile
in grado di intercettare i bisogni insoddisfatti delle persone e trasformarli in strumenti di
costruzione del consenso e controllo sociale. Una rabbia che diventa disillusione e
sfiducia, da cui ci si difende imparando a smettere anche di desiderare e chiedere:
“Vabbè non è che noi diciamo a me non interessa ... ormai sembra che ci siamo abituati alle delusioni ...
perché ci deludono sempre. Se vengono e dicono ‘cosa volete?’ ormai neanche chiediamo”.
Anche a Scampia, l’emozione più netta e forte, mobilitata dal tema mafia nei gruppi
sembra essere la rabbia e, come in Sicilia, i ragazzi campani manifestano disappunto
rispetto alla pericolosa confusione tra il ruolo della Camorra e quello dello Stato e dei suoi
rappresentanti, che li porta a farsi la domanda “chi è lo Stato? E chi l'Anti-Stato?”. Alcuni
definiscono lo Stato e la Camorra come i due grandi, veri poteri dell'orizzonte nazionale,
alleati per il raggiungimento di un comune tornaconto di natura prevalentemente
economica: come se lo Stato fosse la mente strategica, mentre l'organizzazione criminale
rappresenterebbe il reparto operativo in grado di controllare e radicarsi in modo
tentacolare nel territorio. Anche i ragazzi campani provano rabbia e delusione verso le
istituzioni percepite come poco presenti ed efficaci: lo Stato è capace di mobilitarsi solo
sull'onda dell'emergenza per sparire pochi giorni dopo; la Polizia è percepita come
corrotta, facendo le perquisizioni nei palazzi sbagliati per consentire la fuga ai latitanti
nascosti nei condomini vicini; l’informazione mass-mediatica è accusata di usare
strumentalmente i drammi di questi luoghi e, dopo averli posti al centro delle attenzioni
nazionali e internazionali, dimenticarsene, o peggio, fare solo una pubblicità negativa,
danneggiandoli ulteriormente. Anche in Campania, come in Sicilia, davanti al vuoto
istituzionale, l'unico potere forte, da temere e a cui chiedere protezione al contempo,
rimane quindi la Camorra:
“Uno si abitua e dice ‘mi proteggono loro’, che non dovrebbe esistere perché c'è lo Stato … che qui non
funziona e quindi ci dobbiamo adeguare”
In Calabria, diversamente che nei gruppi di adolescenti incontrati in Sicilia e in Campania,
i ragazzi sembrano riuscire a toccare il tema ‘Ndrangheta in modo assolutamente diretto,
senza la rabbia viva dei loro coetanei campani e siciliani. I ragazzi calabresi parlano della
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
‘Ndrangheta come di un sistema di potere che non si potrà mai sradicare. Al tema del
potere si lega la prima emozione chiara di questo gruppo di adolescenti: l’impotenza. La
sensazione di schiacciante immutabilità delle cose, che sembra far desistere anche dalla
fatica di arrabbiarsi, deriva dalla percezione di avere a che fare con un fenomeno che trova
la sua linfa vitale e la sua legittimazione proprio nella sua ‘normalizzazione’. Le parole di
questi ragazzi sembrano descrivere dinamiche assolutamente normalizzate, coesistenze
quasi istituzionalizzate che quindi non possono suscitare né rabbia né tanto meno paura,
ma solo un senso di familiarità incurante, a tratti perturbato da una sottile sensazione di
fastidio.
3.2. Etichettamento antropologico e appartenenza
La rabbia emerge ancora davanti alla dolorosa percezione dell’etichettamento antropologico che
li travolge: i ragazzi che abbiamo incontrato, come tutti gli adolescenti alle prese tra
bisogni di individuazione e di riconoscimento della propria identità, manifestano difficoltà
e insofferenza nel gestire la dolorosa e fuorviante sovrapposizione fra l’essere meridionale
e l’essere mafioso imposta dalla loro appartenenza culturale.
“La Sicilia è l’icona della mafia”
“All’occhio del mondo siamo la categoria più bassa che possa esistere”
“Prima quando partivo, se mi chiedevano da dove venivo rispondevo da Palma di Montechiaro. Poi ho
capito che era meglio dire che ero di Palermo”
Affermazioni forti e condivise che fanno emergere chiaramente quanto, nell’affrontare il
processo di individuazione, i ragazzi, in modo più o meno consapevole, si trovino a
confrontarsi con una eredità pesante che rappresenta un vincolo ingombrante nella
costruzione della propria identità personale e sociale. Il rischio e il disagio che questi
ragazzi denunciano è quello di uno schiacciamento dell’identità, individuale e sociale, su
stereotipi pregiudiziali che ostacolano la possibilità di progettarsi in modo originale nel
mondo sociale; ecco allora che andare in vacanza o affittare una stanza in un'altra città
come studente fuori sede rischiano di diventare, invece che occasioni di crescita e
costruzione identitaria, momenti di frustrazione e coartazione progettuale.
“Che poi vai in un'altra città e non so … ti guardano con occhi diversi, mammaaa. Non so... non
affittano le case fuori ai napoletani.”
“Sono stata a Londra quest'estate, eravamo un gruppo di siciliani, siamo arrivati al college e allora tutti
“da dove arrivate?” e noi “Sicilia” e loro “Sicilia sinonimo di mafia”. C'erano anche giapponesi là e
hanno raccontato tutti la loro esperienza, però mi ricordo che quando ce ne siamo andati dal college tutti
parlavano di mafia, mitra, uccisioni, queste cose”
Il fatto di condividere lo spazio sociale con la Mafia rimanda immediatamente alla
percezione rabbiosa di una appartenenza “pesante” che diviene quasi un’onta soverchiante
che investe non solo i giovani, ma anche le bellezze del territorio e l’intera collettività.
“Quelli del sud sono la mafia, infatti la maggior parte delle persone quando parlano del sud, invece di
descrivere le bellezze che in questo caso abbiamo noi, dicono la malavita, la malasanità.”
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
“Il fatto di parlare di Camorra, emm.. di immondizia dando queste notizie dappertutto, non fa che
aumentare ... comunque, questo parere negativo che la gente di Milano, la gente del nord ha su di noi. È
questa la cosa brutta che comunque poche persone vanno a vedere gli altri aspetti positivi, che appunto è la
parte positiva di Napoli, e fanno vedere appunto quelli negativi ... è questa secondo me la cosa sbagliata.”
Se da un lato lo sguardo diffidente dello “straniero” genera rabbiosi vissuti di esclusione
sociale, dall’altro infonde anche un senso di impotenza legato, ancora una volta, alla
percezione di trovarsi davanti ad appartenenze ataviche e collettive, quindi difficilmente
sradicabili e modificabili.
“Queste sono cose che noi non è che ci possiamo risolvere da noi. Cioè, noi siamo una goccia che compone
l'oceano, nel senso che noi non possiamo fare proprio niente. Queste sono cose di origine profonda che noi in
quanto popolazione, parte della popolazione positiva non possiamo fare niente. [...]. Non possiamo fare
niente, cioè ... mmm ... noi che siamo? Siamo una piccola parte, siamo un puntino che non facciamo niente.”
Al rabbioso riconoscimento dell’etichettamento sociale si affianca, talvolta, il travagliato
riconoscimento dell’appartenenza. La percezione di un senso di familiarità e di vicinanza si
accompagna a sentimenti contrastanti, poiché ciò di cui si discute non è solo una
questione relativa alla fenomenologia criminale, ma qualcosa che attiene a legami profondi,
dolorosi e conflittuali, costitutivi della propria identità.
“Secondo me, mafiosi un poco tutti lo siamo”
“La mafia ci circonda e ci appartiene nei piccoli gesti”
“La cosa tragica è che noi, per migliorare, dobbiamo lasciare Napoli”
4. Conclusioni
L’analisi delle trascrizioni dei gruppi con gli adolescenti, effettuata sulla base delle
mappe tematico-concettuali, mostra come la forte presenza di organizzazioni criminali
all’interno di determinati contesti abbia delle influenze anche sugli adolescenti che non
appartengono direttamente alle organizzazioni mafiose, ma che con esse condividono lo
spazio sociale. I temi emersi, sia quelli comuni alle tre Regioni che quelli caratterizzati da
maggiore specificità territoriale, delineano i contorni di un sistema criminale che, lungi
dall’essere un semplice fenomeno sociale, si inscrive e permea dall’interno l’intero sistema
antropo-psichico e socio-culturale che caratterizza i territori coinvolti e che accoglie ed
orienta lo sviluppo di chi vi abita.
La presenza delle Mafie, sia essa visibile e cruenta che strisciante e impalpabile, la
contiguità fra codici simbolico-culturali legali e illegali, la comunanza delle matrici di
appartenenza, la condivisione del medesimo spazio simbolico e sociale: sono tutti elementi
che sembrano entrare violentemente dentro i percorsi di individuazione e svincolo degli
adolescenti, influenzandoli profondamente. Questi ragazzi sembrano attraversare un
conflitto identitario molto forte che impone loro di scegliere fra una autenticità, a tratti
vissuta come minacciosa, e un adeguamento conformistico dai contorni inquietanti.
L’impossibilità di dare un nome alle cose che accadono attorno a loro, il divieto di
chiedere e l’impossibilità di sapere con certezza la storia da cui provengono, sembrano
influenzare anche la capacità di abitare il presente e progettarsi nel futuro: la significazione
degli eventi attuali sembra a tratti sfumare in una zona grigia dove i confini fra il lecito e
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
l’illecito divengono arbitrariamente individuabili, mentre il futuro diviene incerto e fonte di
ambivalenza, dovendosi fare strada fra conflitti di lealtà e rigide appartenenze.
Anche la rabbia, emersa apparentemente come unico atto di ribellione ad una eredità
pesante, sembra perdere il suo potenziale innovativo. La rabbia manifestata da questi
adolescenti è infatti un impulso che fa fatica a diventare motore di cambiamento e che
spesso si ripiega su se stessa diventando difensivamente disillusione, indifferenza, perfino
adattamento cinico. Essere adolescenti e percepire così fortemente la propria impotenza,
sentire di essere incastrati in una dimensione di mortificante immutabilità esistenziale e
culturale, mobilita emozioni dolorose che trovano modalità di gestione necessariamente
difensive: se l’obiettivo da raggiungere è così difficile, se la delusione ed il dolore
dell’impotenza sono troppo forti, il rischio è che si può smettere di investire, di sperare,
persino di desiderare un cambiamento.
Per molti di questi adolescenti, l’organizzazione criminale rappresenta, paradossalmente, un
riferimento concreto (Schimmenti et al, 2014). È come se la Mafia colmasse un vuoto
normativo, e ciò su più livelli: legislativo, incarnando una “legge” primitiva ma concreta e
percepibile all’interno di determinati spazi sociali ed in grado di garantire ordine e fornire
protezione; simbolico alludendo, in modo sadico e autoritario, alla Legge intesa - in senso
psicoanalitico - come garante del limite che disciplina il desiderio (Recalcati, 2013).
In una società come quella attuale caratterizzata da una mancanza di riferimenti valoriali ed
etici collettivamente condivisi, la fascinazione implicita che la Mafia può avere sugli
adolescenti consiste nell’offrirsi come una forma identificazione solida (Recalcati, 2010)
una sorta di iperidentificazione che compensa in modo patologico lo smarrimento
derivante dal vivere senza riferimenti ideali e simbolici in grado di orientare la
strutturazione identitaria e l’esistenza stessa.
Crescere e relazionarsi in uno spazio sociale e comunitario in cui è pregnante la presenza
delle organizzazioni criminali è pertanto un’impresa che questi giovani si ritrovano ad
affrontare con difficoltà. Frequentemente questo malessere, a cui gli adolescenti sembrano
adattarsi mediante complesse strategie adattative, sfocia in un enorme bacino sommerso in
cui convogliano percorsi evolutivi segnati da rabbia, confusione e silenzio (Lo Baido, La
Grutta, Di Blasi, 2013). Ai loro occhi, il mondo degli adulti e le istituzioni sembrano
limitarsi ad essere distratti osservatori, a promuovere iniziative che sempre più
assomigliano a blandi palliativi.
Le nostre ricerche indicano che gli interventi di educazione alla legalità puntualmente
inseriti all’interno dei percorsi curricolari della scuola dell’obbligo, seppure utili e necessari
sul piano educativo ed informativo, si rivelano da soli insufficienti di fronte ad un
malessere così profondo e radicale. I conflitti, le contraddizioni, i sentimenti violenti
vissuti dai giovani adolescenti che vivono in terre di mafia, necessitano di spazi di
accoglimento e di elaborazione psicologica in grado di supportare percorsi evolutivi
decisamente a rischio.
In attesa di cambiamenti politici e culturali più profondi e incisivi, dal punto di vista
psicologico prevenire significa anche prendere atto e prendersi cura della sofferenza che
crescere in terre di mafia comporta.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
gruppi nella clinica
Psicodinamica del fenomeno mafioso. Ricerca psicologica-clinica sulle
intercettazioni ambientali e crimine dei colletti bianchi
Giuseppe Mannino, Serena Giunta
Riassunto
Da anni, la ricerca psicologico clinica si propone di studiare la mafia da diverse angolature: il
mondo interno dell’uomo d’onore, gli assetti relazionali e psicopatologici delle sue matrici familiari,
le connessioni tra mondo interno e mondo sociale, regole interiorizzate e regole sociali. Tuttavia,
oggi è emerso un fenomeno complesso riguardante il fitto intreccio tra mafia e crimine economico
che per noi ricercatori è davvero interessante e complesso analizzare, poiché presuppone l’indagine
delle peculiarità psicologiche presenti, in modo specifico, nelle molteplici illegalità.
A complicare questo quadro, si aggiunge l’ibridazione delle diverse criminalità che, oggi più di ieri,
non si presentano isolate ma sempre più interagenti e compenetrate. È, infatti, profondamente
cambiato il contesto operativo in cui la mafia esercita il suo potere economico e criminoso, che per
buona parte fa leva sulla costruzione di network imprenditoriali in ambito locale, nazionale ed
internazionale. È necessario, quindi, un’ulteriore estensione del campo d’indagine, volto a
comprendere i possibili processi osmotici, d’interdipendenza o di semplice fiancheggiamento che
intercorrono tra la criminalità organizzata ed il crimine dei colletti bianchi. I reati dei colletti bianchi
sono spesso complessi, difficili da definire, borderline, a volte non sono neppure esplicitamente dei
reati ma manipolazioni della legge e del vivere sociale. Si tratta di operazioni mentali e reali
particolarmente gravi perché, lentamente e inesorabilmente, distruggono il tessuto dei rapporti
sociali, dell’economia, della finanza, del risparmio, del lavoro e modificano la coscienza sociale,
creano una distorsione culturale, una cultura malata. L’articolo presenta quindi una ricerca empirica
di tipo esplorativo il cui obiettivo è quello di descrivere dall’interno, attraverso l’analisi della
narrazione, quanto il lavoro in questo campo si presenta oggi complesso ed oltremodo denso di
criticità; attraverso uno sguardo sempre più clinico del fenomeno.
Parole chiave: psicologia clinica, colletti bianchi, crimine
Psychodynamics of the Mafia Phenomenon.
Psychological-Clinical Research on Environmental Tapping and White-Collar Crime.
Abstract
For many years, psychological-clinical research has been aiming at studying Mafia from
different viewpoints: the man of honor’s inner world, relational and psychopathological structures
of his family matrices, connections between inner and social worlds, interiorized and social rules.
Today, however, a complex phenomenon has come to light which concerns the thick connection
between Mafia and financial crime and for us as researchers it is very interesting and complicated to
analyze, because it involves the study of psychological peculiarities that can be specifically found in
63
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
the numerous illegalities. The crossbreeding of the various criminalities which are always more
interacting and merging and less isolated makes this picture even more complex.
The operational context where Mafia carries out its financial and criminal power has in fact deeply
changed, and it is mostly based on the construction of entrepreneurial networks in a local, national
and international sphere. A further extension of our investigation field is therefore necessary, which
aims at understanding possible osmotic interdependence or simply supporting processes which
occur between organized and white-collar crime. White-collar crimes are often complex, difficult to
define, border line, sometimes they are not even explicitly crimes but manipulations of law and
social living. They are particularly serious mental and real operations because they slowly and
inexorably destroy the tissue of social relationships, economy, finance, savings, employment, and
modify the social conscience, creating a cultural distortion, a sick culture. This article thus presents
an explorative kind of empirical research which aims at describing from within how complex and
full with critical situations is working in this field, through the analysis of narration and an always
more clinical look at the phenomenon.
Keywords: clinical psychology, white-collar workers, crime
1. Sanità, crimine dei colletti bianchi e psicopatologia culturale
L’organizzazione mafiosa tende ad insinuarsi ove vi è maggiore circolazione di
denaro e, se si considera che la spesa sanitaria pubblica costituisce la voce di maggiore
incidenza nel bilancio della regione siciliana , nel settore sanitario vi è il concreto pericolo
che, dietro presta nomi dal volto apparentemente pulito, siano coinvolte imprese gestite da
soggetti appartenenti o vicini all’organizzazione mafiosa, i quali utilizzano, nell’attività
imprenditoriale, capitali di provenienza illecita. Perché avviene questo intreccio? Come
mai la mafia si interessa anche della sanità? E come avvengono queste silenti, ma fitte
relazioni tra il mondo mafioso e quello sanitario?
I motivi per i quali la mafia si interessa e cerca sempre più di infiltrarsi silenziosamente
nella sanità pubblica sono molteplici: dall’intervento sul sistema degli appalti, ai fornitori di
beni e sevizi del sistema sanitario regionale, dalla spartizione dei centri di governo della
sanità che diventano veri centri di potere, alla spartizione politica dei posti di lavoro nella
sanità che troppo spesso, purtroppo, seguono logiche di clientelismo piuttosto che di
competenza e professionalità.
Dal punto di vista psicologico, se per il mafioso l’arricchimento e il potere personale
permetterebbero di uscire dalla massa di indifferenziati dei “nuddu ammiscati cù niente”
(nessuno mischiato con niente), per il politico, che ha già acquisito prestigio sociale oltre
che ottimi introiti, si può ipotizzare che la motivazione risieda nella volontà di mantenere
lo status sociale raggiunto, ad ogni costo, anche mediante mezzi illeciti; nell’incapacità di
accettare la possibilità di una regressione economico-sociale; il voler a tutti i costi ‘salvare
la faccia’, raggiungere obiettivi troppo elevati, in un determinato orizzonte valoriale - in
tempi brevissimi fa cercare ai politici vie alternative che, però, non sempre collimano con
la trasparenza e la legalità.
Discorrendo di sanità, “ci permettiamo di utilizzare un certo grado d’astrazione, per affermare, che la
mafia e la cultura mafiosa producono “in-sanità” in termini di disagio, di carenza, di organizzazione, che
si allargano a raggiera all’individuo, alle economie locali, alle istituzioni ed alla polis, comunità civile
organizzata. Questo accade non solo perché i concorsi pubblici e le gare d’appalto sono spesso co-gestite o
quantomeno orientate da Cosa Nostra anche e soprattutto attraverso funzioni lecite e borderline di
visualizzazione comunicativa dei ‘colletti bianchi’, ma anche perché la funzione psichica del progetto,
dell’investimento emotivo e materiale nel sociale sono sbarrati dall’influenza simbolica e reale della mafia”
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
(Lo Verso, Coppola, 2009: 59). Per visualizzazione comunicativa intendiamo tutta quella
serie di parole dette/non dette, visibili solo ad utenti pre-informati, quasi totalmente
inudibili e invisibili a tutti gli altri, la voluta iper-burocratizzazione delle procedure rispetto
ai tempi di espletamento/semplificazione su pre-allertamento informale, tutte le prassi che
riescono di fatto ad orientare una gara concorsuale, a volte senza commettere
esplicitamente un reato perseguibile.
È d’uopo qui ricordare l’impossibilità di arresto in lunghissimi anni di un boss mafioso
come Alphonse Gabriel Capone (Al), finito in detenzione, per un ‘semplice’ reato di tipo
fiscale, dopo esser stato dichiarato nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti d’America, per
una disattenzione del suo staff ‘dai colletti bianchi’, molto concentrato sulla legalizzazione
di ben altri tipi e gravità di reati penali (omicidi, gestione illegale di uffici e aziende,
commercio illegale, sfruttamento della prostituzione, terrorismo...).
Intendiamo dunque riferirci esplicitamente ai nessi psico-socio-giuridici, che portano la
società civile a trasformarsi, in alcune sue parti, in borderline, attigue quando non conniventi
con processi saturi di pensiero dominante di tipo criminale.
Da un punto di vista squisitamente psicologico, il crimine dei colletti bianchi, è
perfettamente equivalente a quello del criminale violento o esplicitamente reo: il crimine
mentale, infatti, è categorizzabile come un irrigidimento della matrice mentale verso una
saturazione del pensiero, a partire dal livello trans-generazionale fino ad espandersi alla
totalità dei livelli mentali (Giunta, Lo Verso, Mannino; 2013). Costitutivo della specie
umana è il livello di flessibilità mentale, adattamento concreto e neotenia genetica e
culturale: tutte queste caratteristiche generano una tensione positiva sociale e socializzante
che spinge l’uomo ad incontrare l’altro considerandolo una risorsa alla propria
sopravvivenza ed al proprio sviluppo.
La cultura in sé è la matrice neotenica, insatura, adattiva, sociale, per eccellenza. Ma anche
la cultura può ammalarsi, saturarsi, irrigidirsi (Menarini, et al., 2010).
“In ogni momento della nostra vita, le parole sono filtro per i nostri pensieri. Ogni volta che pensiamo,
identifichiamo e intuiamo, cerchiamo, anche, una forma razionale da dare alle nostre idee, e lo facciamo
attraverso le parole. Tutte le azioni umane, dall’articolazione del pensiero (in una mente), fino alla
creazione di una cultura (in una comunità), sono legate a segni cui corrispondono suoni, capaci di
rappresentare il mondo. La prima cosa che facciamo di fronte ad una realtà sconosciuta è quella di
nominarla, e quando questa ha un nome la sentiamo più vicina, e ne abbiamo meno paura” (Mannino,
2013: 86 ) e possiamo iniziare a gestirla e narrarla.
La parola libera, rende l’uomo consapevole. La narrazione rende l’uomo padrone della
cultura, rende insatura la matrice mentale. “La parola ha il potere di sciogliere timori e illuminare
oscurità, non ha solo il potere di costruire, risuona nei nostri cervelli e, a volte, vi si instaura come bene,
altre come male. Riceviamo e pronunciamo continuamente parole che ci motivano o ci fanno male, ci
dequalificano o ci rinnovano. Esse sono il mezzo con il quale ci relazioniamo con il mondo ed attraverso il
quale generiamo la rappresentazione del nostro sé” (Mannino, 2013: 86).
Conseguentemente a quanto affermato, obiettivo del presente contributo è presentare una
ricerca che mostri uno spaccato, una fotografia di un pezzetto di realtà grigia (Sutherland,
1987), satura, rigida, ma anche il provare a ricostruire, rimodellare, rinarrare una realtà se
non bianca almeno meno grigia. In tal senso il “Ricostruire una storia diviene dunque un costruire
insieme un tratto di vita, rimodellare parti di sé, delle rappresentazioni della propria identità e del proprio
contesto sociale” (Venturini, 1995: 56). Significa dare origine ad un racconto nuovo che, in
quanto condiviso, crea un confronto all’interno del quale il terapeuta attraverso la clinica,
il giornalista con la comunicazione, il magistrato in tribunale, il burocrate attraverso i suoi
atti amministrativi, la società civile nelle sue più svariate dimensioni, si muovono verso un
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
obiettivo: facilitare la persona e dunque la società nell’assunzione di responsabilità, aiutare
a rendere meno saturo il mentale, a rischiare possibilità diverse, riorganizzare il campo
narrativo, fermare copioni di vita saturi e ripetitivi, mentalizzare alternative, rimettere in
figura qualcosa che è mantenuto fisso sullo sfondo, riaprire la mitopoiesi soggettiva, inserire
dei testi ermeneutici, ulteriori storie interpretative e dunque i possibili sviluppi delle storie
individuali e della storia sociale, ipotizzando anche un ‘lieto fine’ o, almeno, un work in
progress (Mannino, 2013).
Gli stessi sistemi di credenze, parte sostanziale della cultura dalla quale emerge il soggetto,
non vengono intesi semplicemente come sistemi di eventi reali, ma sono considerati,
piuttosto, come storie che gli esseri umani si narrano per organizzare e interpretare la loro
esperienza (Ricoeur, 1994). Vista in quest’ottica, anche la ‘patologia’ (Hare, 2009), la mafia,
il crimine, i colletti bianchi vengono considerati come strutture narrative, passibili di
interpretazione e rigenerazione narrativa.
2. Premesse per uno studio clinico: descrizione dei fatti
I rapporti esistenti tra la mafia e i settori del sistema sanitario determinano la
formazione di un legame attraverso il quale si rafforza il potere della mafia. All’interno di
tale relazione, ciascuno dei ‘protagonisti’ utilizza le risorse di cui dispone. È capitato che la
forza del potere militare di Cosa Nostra e la professione medica si siano saldate nella
stessa persona, generando una concentrazione di potere.
Gli esempi non mancano: è stato il caso di Michele Navarra il quale, negli anni ‘40/‘50,
deteneva sia il ruolo di capo della famiglia di Corleone che quello di stimato e conosciuto
medico chirurgo. Il dottor Navarra ‘sommava in sé tutti i poteri che un professionista,
capo mafia di vecchio stampo, ha il diritto e il dovere di ricoprire’; uno tra gli esponenti
politici più in vista del partito della DC (Democrazia Cristiana), ispettore della Cassa
Mutua Malattie e mediatore di interessi politico-clientelari; uomo che non esitava a porre a
servizio della mafia la sua professionalità medica in caso di necessità.
Altro esempio significativo è il caso di Gioacchino Pennino, esponente di spicco della
borghesia delle professioni insediata a Palermo, nonché figlio e nipote di uomini d’onore
inseriti nella mafia, divenendo uomo d’onore della famiglia di Brancaccio fin dagli anni
‘70.
Il dottor Pennino, titolare di uno dei laboratori di analisi cliniche più importanti della città,
come afferma il Pubblico Ministero Paci: “può essere considerato un’icona della categoria sociocriminologica del medico-mafioso”: egli non solo ha ricoperto la carica sindacale di segretario
provinciale e regionale dei medici tra l’ ‘87 ed il ‘97, ma ha esercitato anche il ruolo di vice
responsabile provinciale della sanità di Palermo per la DC per tutto il corso degli anni ‘80.
Solo nel momento in cui diviene collaboratore di giustizia, nel 1994, Pennino svela le
modalità mediante le quali il suo ruolo professionale, politico e mafioso lo ha trasformato
in una ‘tremenda macchina’ di produzione di consenso sociale ed elettorale, di cui Cosa
Nostra si era servita per occupare i posti chiave delle Amministrazioni pubbliche.
Un medico che ha svolto, allo stesso tempo, la professione medica e quella di boss è
Antonino Cinà, specializzato in neurologia e uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo.
Il dottor Cinà si prese cura di Riina, di Brusca, di Provenzano, consegnando medicine,
praticando terapie e mostrandosi sempre disponibile a soddisfare le ‘esigenze sanitarie’ del
sodalizio criminoso.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
La scelta di inserire all’interno dell’organismo di vertice di Cosa Nostra, un medico e
uomo d’onore, titolare di un laboratorio di analisi cliniche e di due importanti studi è la
più chiara dimostrazione della necessità di acquisire il maggior livello di consenso sociale
possibile, alla nuova strategia della sommersione. Strategia utilizzata da Provenzano dopo
la cattura di Salvatore Riina, consiste nell’ ‘inabissamento’, nell'infiltrazione costante nelle
istituzioni, negli appalti pubblici e nell’instaurazione di legami con professioni ed
esponenti politici, evitando stragi ed eccessivo ‘rumore’ .
Oggi il rapporto medici corrotti-mafia sembra mutato, innanzitutto non ritroviamo più
una compresenza di potere nella medesima persona, ovvero il medico è più difficile che
svolga contemporaneamente anche la funzione di capomafia di una particolare famiglia;
inoltre, le mansioni dei medici sembrano variate: essi non compiono più reati tangibili a
favore dell’organizzazione criminale, ma attraverso un’azione di silenziosa connivenza, di
favoritismi, di falsi bilanci, prestazioni mediche ai boss ecc., permettono sì il
consolidamento del potere mafioso, ma in forma più mitigata, senza fare troppo rumore e,
anche quando qualche caso emerge, risulta comunque sempre in una forma più
mascherata tanto da risultarne difficile persino la punibilità dei fatti. La nascita dei ‘camici
grigi’!
In Sicilia, negli ultimi dieci anni, sono stati almeno 400 i professionisti coinvolti e di certo
tra questi professionisti è notevole il numero di medici coinvolti. Il caso più eclatante è
senza dubbio quello di Guttadauro, Miceli e Aragona.
Giuseppe Guttadauro è medico, capo del mandamento di Brancaccio, condannato per
associazione mafiosa. Domenico Miceli è medico, sotto processo per concorso esterno in
associazione mafiosa. Salvatore Aragona è medico, condannato per concorso esterno in
associazione mafiosa.
3. La ricerca
La criminalità economica, il crimine occupazionale, l’intermediazione pubblica
sembrano oggi fiancheggiare il crimine organizzato di stampo mafioso, penetrandolo in
alcuni punti e/o facendosi fecondare da esso.
L’indagine che presentiamo, adottando una prospettiva psico-socio-culturale, si propone
di individuare le trasformazioni intervenute e i meccanismi attraverso i quali si instaurano
rapporti di complementarietà tra la criminalità dei colletti bianchi e
un’organizzazione/struttura psichica ‘fondamentalista’ propria della mafia. Ci si interroga
su quali possano essere gli elementi che muovono il mafioso ad ampliare gli ormai stretti e
coercitivi spazi della struttura familiare e familistica e, al tempo stesso, quali motivazioni
spingono l’elite dei colletti bianchi a dialogare, in maniera privilegiata, con la struttura
mafiosa ricoprendone, a volte, ruoli di primo piano.
3.1. La ricerca si pone i seguenti obiettivi:
a. - approfondire la conoscenza dei rapporti che legano mafia e sanità, facendo ricorso ad
una lettura psico-antropologica del fenomeno che possa cogliere il background culturale di
riferimento dei professionisti del settore medico collusi con la mafia;
b. - esplorare e indagare i meccanismi attraverso cui si possono instaurare rapporti di
complementarietà fra chi è appartenente al sistema criminale e il professionista esterno ad
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
esso, nonché l’eventuale esistenza di specifiche caratteristiche identitarie del ‘colletto
bianco’ colluso.
c. - analizzare le ricadute psichiche, che il sistema clientelare-mafioso ha sull’identità dei
professionisti che operano nelle istituzioni pubbliche oggetto d’indagini giudiziarie.
Nello specifico, ci proponiamo di indagare le rappresentazioni sociali, le modalità
relazionali e le dimensioni linguistiche utilizzate da un boss, Giuseppe Guttadauro,
attraverso l’analisi delle intercettazioni ambientali registrate a casa del medico stesso, al
fine di comprendere quali siano le caratteristiche psichiche di chi appartiene o collude con
Cosa Nostra.
Questi obiettivi, assieme alla finalità della ricerca, ci hanno spinto verso l’individuazione di
indicatori allo scopo di approfondire la conoscenza di tali dinamiche, al fine di evidenziare
il complesso rapporto tra crimine, mafia, cultura, sanità e costrutti psichici: costruire
nuove narrazioni rigenerative.
3.2. Metodi e strumenti d’analisi
Lo strumento scelto per l’analisi delle intercettazioni è il T-LAB (Lancia, 2004).
Il T-LAB appartiene alla famiglia dei software orientati a produrre mappe, che
rappresentano i contenuti dei testi, sia presi singolarmente che confrontati tra loro. Il TLAB permette di effettuare l’analisi del contenuto, realizzare la scomposizione dell’unità
comunicativa che si vuole analizzare (testo scritto, trascrizione di intervista o colloquio) in
elementi più semplici: il lemma. Le analisi effettuate sono state: 1) Associazione di parole;
2) Confronto tra coppie di parole chiave; 3) Mappe dei nuclei tematici. Il software è
costituito, quindi, da un insieme di strumenti linguistici e statistici adottati per l’analisi dei
testi e consente, in definitiva, di analizzare, esplorare e sintetizzare i contenuti delle
narrazioni.
4. I protagonisti
I casi di Giuseppe Guttadauro, Salvatore Aragona e Mimmo Miceli rappresentano,
perfettamente, il connubio tra mafia e colletti bianchi. È un vero e proprio esempio della
connivenza di chi si presta, e allo stesso tempo pone la propria professionalità al servizio
della criminalità organizzata al punto di farne parte.
Giuseppe Guttadauro è un chirurgo e capomafia dell’importante mandamento di
Brancaccio. Guttadauro, dopo dieci anni di carcere per associazione mafiosa, una volta
tornato in libertà, riceve nel salotto di casa sua, con una certa assiduità, professionisti,
politici e faccendieri ignari che in quella casa fossero state piazzate numerose microspie dai
ROS dei carabinieri, così il suo salotto diventa un crocevia di incontri e una sorta di
finestra sulla scienza ‘politico-mafiosa’.
Uno dei più assidui frequentatori del salotto è Domenico Miceli esponente del partito
politico Unione di centro (Udc), anche lui medico, che siederà nella poltrona di assessore
comunale alla Sanità nella prima giunta Cammarata (2001). Domenico Miceli, detto
Mimmo, è abbastanza giovane per i canoni della politica siciliana, ma era già stato eletto
una volta consigliere comunale di Palermo nel 1993 e lavorava al Policlinico di Palermo.
Nel salotto del boss sono tante le conversazioni intercettate che hanno destato l'attenzione
dei PM. In una di queste, Guttadauro, parlando con Salvatore Aragona, già condannato
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
per concorso esterno in associazione mafiosa (ha falsificato le cartelle cliniche di Enzo
Brusca per aiutarlo a sfuggire alla giustizia), tira fuori una delle pagine più nere della
recente storia italiana: l'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
‘Ma chi se ne fotteva di ammazzare Dalla Chiesa […] andiamo, parliamo chiaro’, dice
Guttadauro al suo amico Salvatore Aragona che, annuendo rispondeva: ‘Ma perché noi
dobbiamo sempre pagare le cose’. Serafico appare Guttadauro: ‘E perché glielo dovevamo
fare questo favore’.
Per il boss Guttadauro, detto Ù Dottore, per via della sua laurea e della sua passione per la
medicina, politica e sanità sono due facce della stessa medaglia. Anzi, a più riprese, nelle
sue conversazioni ribadisce che la politica non lo ha mai interessato più di tanto. La sua
passione sono gli ospedali; ma per arrivare a decidere direttori generali e primari, l'unico
strumento è la politica.
Nel dicembre 2002, Giuseppe Guttadauro viene arrestato. Resi pubblici i dialoghi a casa
sua, Miceli è costretto a dimettersi e, nel Giugno 2003, sarà anche lui arrestato con
Salvatore Aragona, Vincenzo Greco (cognato di Guttadauro, anche lui medico, già
condannato per aver curato il killer di Don Pino Puglisi, Salvatore Grigoli) e Francesco
Buscemi, imprenditore già segretario di Vito Ciancimino.
L’analisi, che presentiamo di seguito, prende in esame le trascrizioni integrali delle
intercettazioni ambientali presso l’abitazione di Guttadauro Giuseppe, nel periodo
compreso tra Marzo 2001 e il Gennaio 2002.
5. Analisi e valutazione dei dati
5.1. Associazione di parole
Le co-occorrenze sono quantità risultanti dal conteggio del numero di volte in cui due o
più lemmi linguistici ‘co-abitano’, quindi sono contemporaneamente presenti all’interno
degli stessi contesti elementari.
Dalle intercettazioni ambientali, registrate nei salotti di casa Guttadauro, emerge più volte
il lemma (la parola che per convenzione è scelta per rappresentare tutte le forme di una
flessione) campagna_elettorale, Guttadauro si dichiara, infatti, feroce sostenitore e
promotore della candidatura di Mimmo Miceli per le elezioni regionali del 2001.
A sostegno di quanto affermato è possibile consultare la tabella 1 - campagna_elettorale,
qui si può notare come questo lemma co-occorre con i lemmi: voti, impegnare, Orlando,
Totò Cuffaro, noi, votare, vincere, mettere.
Orlando e Totò Cuffaro sono i nomi di due noti politici locali, giunti alle cariche di
sindaco di Palermo il primo e Presidente della regione Sicilia il secondo. Il primo è, ad
oggi, Sindaco di Palermo, non coinvolto in vicende di mafia, il secondo è in stato di
detenzione per condanna definitiva, per favoreggiamento (concorso esterno in
associazione mafiosa – in altro procedimento penale, successivo, concluso per ‘ne bis in
idem’).
Nelle motivazioni della sentenza i Giudici della Cassazione dichiarano provato l'accordo
politico-mafioso tra il capo-mandamento Giuseppe Guttadauro e l'uomo politico
Salvatore Cuffaro, e la consapevolezza di quest'ultimo di agevolare l'associazione mafiosa,
inserendo nella lista elettorale per le elezioni siciliane del 2001 persone gradite ai boss e
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
rivelando, in più occasioni, a personaggi mafiosi, l'esistenza di indagini in corso nei loro
confronti.
Tabella 1 - Campagna_elettorale
LEMMA
Voti sostenuti
Impegnare
Orlando
Toto Cuffaro
Noi
Votare
Vincere
Mettere
COEFFICENTE OCCORRENZA
0,2434
18
0,1721
9
0,1490
27
0,1333
60
0,1317
96
0,1290
16
0,1290
16
0,131
97
ASSOCIAZIONE
4
2
3
4
5
2
2
5
Lemmi quali voti, votare, impegno e vincere co-occorenti con il lemma
campagna_elettorale, dimostrano quanto sia importante per il boss di Brancaccio, poter
godere di un appoggio quale quello di Mimmo Miceli, come interfaccia legale nel mondo
sociale.
G: “Giovanni, per le regionali, che impegni hai per le politiche regionali. Per le regionali poi ne parliamo
che mi serve un aiuto, per un ragazzo che è medico. Perché noi dobbiamo essere i padroni altrimenti non
facciamo niente”.
Emerge, inoltre, un forte lavoro di equilibrismo tra forze politiche, tipico dei giochi di
Cosa Nostra, si tratta di un vero e proprio copione in cui tutto è già scritto, e in cui è
possibile rintracciare il concetto di mafia in termini di totalitarismo; in questo contesto la
matrice satura prende il sopravvento trasformandosi in inerzia, dando vita, così, ad un
immobilismo che non lascia spazio alla vitalità del sociale. L’assolutismo e il già scritto
sembrano non lasciare spazio al pensabile, al nuovo, sembrano non poter creare buchi di
significazione che lascino spazio alla capacità decisionale degli elettori.
5.2. Confronto tra coppie di parole chiave
Questo tipo di analisi consente al ricercatore ci confrontare i contesti elementari di
occorrenza di una coppia di parole-chiave precedentemente selezionate. Una delle coppie
più significative risulta essere Cuffaro-Miceli. I lemmi che co-occorrono maggiormente
risultano essere: diventare, lavorare, bisogno, campagna elettorale, portare. Emerge un
chiaro intento in termini di progettualità e costruzione dell’affare illecito. Si evidenzia una
reciprocità dei lemmi campagna_elettorale e lavoro, l’uno infatti diviene strumento per il
raggiungimento dell’altro, in un gioco di reciproco scambio. Una reciprocità che converge
in un territorio comune, ovvero la politica, all’interno di un territorio affamato di lavoro, la
Sicilia.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
G: “Uno che è impiegato non le può capire, il 31 Dicembre in ospedale, quanti voti mi sono portato”.
Tabella 2 - (Totò Cuffaro/Miceli)
CHI2 (A) ASS (B)
3.2667
3.0193
3.0193
2.0193
1.6049
ASS (A) CHI2 (B)
3.266
3.0193
3.0193
2.0193
1.6049
LEMMA
diventare
lavorare
bisogno
Campagna_elettorale
portare
Rispetto al lemma lavorare bisogna sottolineare come questo diventi strumento
privilegiato per accaparrarsi voti ed essere vincenti in campagna elettorale, in Sicilia. Non è
una novità difatti che in periodi precedenti le elezioni, le promesse di lavoro siano la più
verace merce di scambio, si sfrutta il bisogno vero e sano delle persone, per soddisfare gli
interessi criminali della famiglia mafiosa.
Guttadauro dice di voler lavorare a capodanno perché quello spazio di tempo è una
riserva di voti. È chiara in questa affermazione una perversione psicologica del lavoro:
laddove l’attività lavorativa, specialmente quella sanitaria, dovrebbe essere animata da una
forte tensione etica verso il sociale, dove l’obiettivo dovrebbe essere quello della cura e del
benessere dell’altro, diviene terra di acquisizione aggressiva, violenta, disvaloriale di voti di
scambio. Nelle parole di Guttadauro c’è una strumentalizzazione del contesto lavorativo e
della sua funzione di ruolo per ottenere consensi elettorali che confluiranno nelle casse
dell’organizzazione.
5.3. Mappe dei nuclei tematici
Questo tipo di analisi ci consente di visualizzare una mappa contenente i nuclei tematici
del corpus o sottoinsieme identificato all’interno del corpus stesso. Verrà mostrata di seguito
la tabella 3 all’interno della quale saranno inseriti i valori del test nelle due polarità (+) e (-).
Tabella 3
LEMMA
SIGNIFICATIVO
Vedere
Chiamare
Giorno
Persona
Volta
Cuffaro
Problema
Conoscere
Discorso
Fregare
Piacere
Buttiglione
Moglie
FATTORE 1
Pol. -
Pol.
+
FATTORE 2
Pol. -
Pol.
+
FATTORE
3
Pol. Pol.
+
-21.98
-2.053
6.9317
5.0856
3.6338
3.4702
3.3562
3.3428
2.4197
-5.438
-5.276
-5.229
-4.983
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Salvo
Mese
Aspettare
Persone
Discorso
Palermo
Porta
Maniera
Ragazzo
Discorso
Giorno
Volta
Posto
Portare
Dire
Nome
Uscire
Impegni
-3.578
-3.244
-3.074
-2.791
4.4299
2.9730
2.3291
2.0882
2.0441
-10.87
-3. 353
-2. 421
-2. 049
4.3872
4.1246
3.6312
2.7327
2.2442
Il primo fattore individuato è stato denominato fattore dell’intenzionalità (polarità
negativa), e strumentalità (polarità positiva).
L’utilizzo di verbi transitivi denota il bisogno di visibilità, la necessità psicologica di
interagire e interloquire. Frequente risulta infatti l’occorrenza di verbi quale dire, vedere,
parlare.
La volontà e l’intenzionalità è quella di tessere legami con il mondo legale al fine di
assecondare quelle che sono le necessità dell’organizzazione stessa.
G: “Che te ne frega, il clima è sempre lo stesso Mimmo. Il potere, a te piace il potere. E non c'è niente da
fare, tu devi fare l'esame per i fatti tuoi, se ti piace e sei disposto a fare dei sacrifici per questo. Devi fare il
consigliere regionale con qualche cosa che puoi avere, vedi che nei prossimi cinque dalla Regione
passeranno”.
La polarità positiva di questo primo fattore è stata denominata strumentalità proprio
perché l’analisi dei cluster (giorno, persona, Cuffaro, problema, conoscere) ha permesso di
evidenziare la presenza di un mondo sociale ricco di deprivazione, piegato
all’assoggettamento e incapace di divenire fautore del proprio destino. È cruciale l’aspetto
impersonale che definisce il popolo siciliano in termini di bersaglio anonimo, piegato
all’organizzazione e ai suoi metodi. In tale ragionamento è possibile cogliere la pienezza
della saturazione e della rigidità mentale del pensiero criminale verso il sociale.
È forte il potere di vita e di morte attraverso il quale Cosa Nostra imprigiona il territorio,
condannandolo ad uno stato di perenne dipendenza e assistenza. Cosa Nostra diviene
necessaria per non sentirsi più soli, trovare lavoro e tessere i giusti legami. La classica
‘raccomandazione’ diviene l’unica possibilità per trovare lavoro in Sicilia, per lo più se con
lavoro si intende il posto fisso, il contratto a tempo indeterminato, magari in qualche ente
pubblico, che permette al soggetto di realizzare la propria autonomia economica e
all’associazione mafiosa di avere un uomo grato, o quantomeno ricattabile, all’interno di
strutture di potere pubblico.
Cosa Nostra è talmente ben inserita nelle maglie sociali che finisce per imprigionarne i
protagonisti e renderli spettatori, depersonalizzandoli.
All’interno della mappa dei nuclei tematici il secondo fattore individuato è macrostrategianazionale – microstrategia-regionale.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
La polarità negativa (macrostrategia-nazionale) è, infatti, caratterizzata dai cluster fregare,
piacere, Buttiglione, moglie, Salvo, mese, aspettare, persone, mettere. Dall’analisi dei
lemmi costitutivi dei vari cluster emerge una chiara volontà di agire e muoversi a livello
nazionale, da qui l’interesse, più volte verbalizzato, di parlare con Rocco Buttiglione (noto
esponente politico nazionale), il quale, a detta di Guttadauro, dovrebbe interessarsi
rispetto alle condizioni dei detenuti nel carcere Ucciardone di Palermo. Più volte
Guttadauro manifesta l’interesse di prendere contatti con Rocco Buttiglione e Giuliano
Ferrara (noto giornalista e politico a livello nazionale) per attenzionare l’interesse
nazionale sul tema delle condizioni detentive dei carcerati di Cosa Nostra.
Guttadauro sa di dovere arrivare agli affiliati, sa di non poterli lasciare soli, il rischio della
collaborazione per sottrarsi alla rigide misure detentive, è troppo alto. La cura solerte per i
detenuti, si muove in questa direzione, essa annulla l’istituzione carceraria e le sue misure
di sicurezza, contrapponendosi alle legittimità dello Stato.
Cosa Nostra si pone come istituzione totale, superiore allo Stato che, addirittura, diviene
un’organizzazione, un gruppo di lavoro all’interno di un istituzione più ampia.
La polarità positiva (microstrategia-regionale) sembra racchiudere al suo interno tutto ciò
che concerne il territorio. Il ragazzo dal volto pulito e incensurato, Mimmo Miceli, diviene
l’unico modo per penetrare le porte di Palermo, l’unico modo per arrivare nel tessuto
sociale e tesserne le file dal di dentro. La microstrategia pervade sia il sociale che il legale.
Le manovre di Cosa Nostra gestiscono la campagna elettorale, manovrano lo scambio dei
voti, e organizzano la sicurezza degli affiliati.
G: “Quindi quando tu mi citofoni non mi devi dire Mimmo_Miceli, ma Mimmo e basta, l’hai capito.
Non è un problema perché tu sei medico però io ormai sono diventato prudente. Io mi trovo bene e non ho
fatto trovare male mai a nessuno dei miei amici, mi spiego. Sai com’è uno con i politici deve sempre stare
un passo indietro, perché poi Toto Cuffaro dice che non gli è stato detto niente, perché pure lui magari vuole
fare il politico”.
Il terzo fattore individuato è conservazione del familiare – contaminazione del sociale;
questi due fattori non risultano in antitesi, sono piuttosto reciproci e di sostegno.
Nella polarità negativa predominano i lemmi discorso, giorno, volta, posto, al cui interno
risulta essere costituito da lemmi che rimandano al Familiare quali: moglie, scuola,
impegnare, vita, prendere, regionale. Abbiamo scelto di definire per questo la polarità
negativa del terzo fattore conservazione del sociale, sottolineando il forte interessa che
Cosa Nostra palesa nei confronti dei tipici valori siciliani.
La famiglia risulta infatti essere fonte di preoccupazione ed interesse per il boss di
Brancaccio, il quale più volte parla di episodi che lo riguardano rispetto ai ruoli di padre e
marito.
G: “Che stai dicendo Salvatore. Mia moglie sta vedendo di battezzare il bambino, te l'ha detto. E c'erano
che erano cento persone, tu che dici, tutte cento persone che erano là, perché io non è che ci sono andato, ero
dentro. Tutto il giorno dentro sono stato, di queste cento persone, cinquanta il voto me lo danno”.
G: “Ho speso dieci anni della mia vita senza poter accudire i miei figli piccoli, che ora per poter discutere
con quello grande è un'impresa, giustamente, al grande gli pare che il mondo è piatto, perché tanto chi se ne
fregava, a tredici anni, il problema era se lo interrogavano il giorno dopo a scuola”.
La scelta di ‘portare’ e sostenere Mimmo Miceli per le elezioni regionali del 2001 diviene il
tentativo di trovare un volto pulito ed incensurato per portare avanti il progetto di Cosa
Nostra. Il volto pulito diviene strumento di conservazione per l’organizzazione, mediante
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
l’interfaccia pulita, l’illegale tesse legami con il sociale in un gioco di contaminazioni
reciproche.
Nel terzo fattore le due polarità risultano fortemente intrecciate, in un gioco in cui i
confini sono labili e poco definiti. I codici familiari, tanto cari alla cosca, sono
strumentalizzati e assoggettati all’interesse dell’organizzazione criminale: mediante i codici
mafiosi-familiari si costruisce quella apologetica, tanto cara all’organizzazione, quella
saturazione, atta a contaminare il sociale.
6. Risultati
Dall’analisi svolta emerge:
- l’elevata occorrenza della parola ‘io’ associata a un numero notevole di verbi di
movimento, lasciano trasparire un’affermazione continua della propria identità e della
presenza dentro una rete di relazioni che producono cambiamenti per mezzo dell’uso del
potere esercitato con attività politico-affaristiche;
- una peculiare sovrapposizione di livelli nei quali il privato e il familiare sembrano
mischiarsi senza soluzione di continuità con le dimensioni sociali e pubbliche. La famiglia
allargata, la professione medica, la politica, gli affari e i rapporti personali sembrano essere
parte di un unico meccanismo. Emerge anche una struttura territoriale ampia: i medici
agiscono su larga scala da Sud a Nord, tengono contatti ‘amicali’ con politici e
coinvolgono molti altri professionisti;
- una certa autonomia decisionale e una libertà di movimento. I soggetti non sembrano
eseguire ordini, non sembrano oppressi da un rapporto di sottomissione: sono parte attiva
nelle decisioni ed esprimono il loro pensiero e la loro volontà. Si desume, infatti,
un’implicazione, in prima persona, ed il mantenimento di una rete fittissima di rapporti
con personaggi di ogni tipo. Si parla, si discute, si contratta, ci si scambia favori e ci si
intende sulla base di una condivisione comune del potere e del denaro.
L’adesione alle condotte illecite sembra automatica: è naturale che si possano effettuare
speculazioni senza permesso, che ci sia uno scambio di voti e che si stabiliscano, a
tavolino, le persone a cui affidare gli incarichi politici.
A questo punto proviamo a rispondere alla domanda: come mai professionisti che
possono beneficiare di redditi più che dignitosi, ammantati di elevato prestigio sociale,
decidano d’interfacciare la loro attività lavorativa con il crimine organizzato che è con esso
‘con-fuso’, rischiando, nella migliore delle ipotesi, di restare intrappolati nelle maglie della
giustizia?
La risposta non è univoca, il gioco di scambio e di favori è reciproco. Non si parla di
potere facendo riferimento all’accrescimento di denaro e proprietà, o almeno non si parla
di potere soltanto in questo senso, il potere serve si per ‘levarsi gli sfizi’ sostiene
Guttadauro, ma il potere è qui inteso in termini di potere di vita e di morte: Cosa Nostra
si muove dando vita ad una interpretazione delle regole sociali in cui tutto è già scritto, in
cui non c’è spazio per l’altro, per il diverso, per la novità, per la libertà, per l’umano.
Cosa Nostra si muove con perizia psicologica e fine strategia, conosce il principale
movente psichico dell’essere umano, l’affermazione del proprio io, il narcisismo primario,
e lo sfrutta abilmente, ignorando però la vera natura sociale dell’essere umano, la natura
gruppale. Cosa Nostra regge il suo dominio sulla collusione psichica relativa al potere e
alla costruzione dell’io individuale, ma ignora la rigenerazione narrativa della mente
collettiva.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
In tale direzione, appare fondamentale continuare ad approfondire ogni argomentazione
rigenerativa, a partire da tutti quei processi di ibridazione che, a livello psico-sociale,
contribuiscano a creare quella zona grigia che sembra rappresentare la prima ed ultima
remunerativa frontiera della criminalità organizzata.
7. Interpretazioni e riflessioni finali:
Giunti a questo punto non ci resta che provare a narrare delle storie diverse,
edificanti, rigeneranti: ci viene voglia di raccontare due storie, o meglio, semplicemente di
richiamarle alla memoria. Storie antiche, che per centinaia di anni sono state tramandate,
attraversando numerose culture, giungendo sino a noi: due antichi miti greci: quello che
narra delle Ore, le sorelle delle Parche, le guardiane dell’Olimpo, le figlie di Zeus e Temi, la
dea dell’ordine universale; e quella che narra del mito di Antigone, la figlia di Edipo e di
Giocasta, la donna che seguì Temi, e sua figlia Diche (giustizia), contro la morale, il
costume imperante dell’epoca.
Proponendo questo breve viaggio narrativo nel mondo antico, tenteremo di vedere se è
possibile cogliere qualche suggerimento dalla nostra stessa passata esperienza per il nostro
agire odierno, costruendo e rigenerando narrazioni alternative.
Le Ore, sorelle delle Parche (le dee che filavano la vita di ogni uomo, decidendone inizio,
sviluppo e fine) erano figlie di Temi, la dea dell’ordine universale, e di Zeus, il padre di
tutti gli dei. Si chiamavano Eunomia (legalità), Diche/Astrea (giustizia) e Eirenè (pace).
Regolavano l’ingresso nell’Olimpo, erano guardiane e giudici.
Diche, la giustizia, viveva con gli uomini nella età dell’oro, ma si ritirò presto nelle
campagne nell’età del ferro, ed infine si rifugiò nel cielo stellato nell’età moderna, insieme
alla sorella Eirenè, divenendo Astrea, una costellazione. La giustizia è fuggita dalla terra
per rifugiarsi in cielo.
Chissà se Kant (Kant 1788, tr.it. 1966: pag.201,202) pensava a tutto ciò quando, parlando
di morale diceva “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, proponendo di fatto la
via della coscienza morale come gestione della libertà individuale? La morale è la
costruzione razionale del comportamento operata a partire dai costumi sociali, i ‘mores’;
leggermente differente è l’etica che è la modalità di gestione della libertà individuale,
secondo lo spirito profondo del popolo, secondo i desideri universali dell’essere umano.
Aumentiamo ancora la complessità, aggiungendo la storia di Antigone, l’eroina che vive
della supremazia della legge naturale, dell’etica (e non della morale), della ricerca di senso
profondo e universale dell’agire umano, la donna che dimostra con la sua vita che solo
regole profondamente condivise, etiche ed estetiche all’unisono, sono in grado di
modellare la storia.
Antigone è la figlia dell’illegalità, dell’incesto, del peccato, è la figlia di un uomo e della di
lui madre, è figlia di Edipo e Giocasta.
Ha numerosi fratelli, anche essi figli dell’incesto, questi ultimi per vie alterne muoiono, a
volte uccidendosi a vicenda. Il loro padre Edipo, consapevole delle sciagure che lui stesso,
seppur inconsapevolmente ha provocato, si acceca, e fugge dalla città in cui abitano,
affidando le figlie sopravvissute allo zio Creonte, nella speranza di allontanare da loro la
sciagura che incombe su tutti.
Nel frattempo, altri due suoi figli, duellando tra loro, danno origine alla apoteosi del
dramma: Etoche uccide il fratello Polinice; lo zio Creonte, stufo di queste morti ordina
che, a scopo esemplare, e per monito sociale a tutte le genti, il corpo senza vita di Polinice
venga lasciato nei campi e non gli venga data sepoltura. Questo nel mondo greco
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
costituiva un atto gravissimo, contro natura, paragonabile e forse anche peggiore
all’uccidere un uomo, rappresentava il negare la possibilità al defunto di trasmigrare nel
regno dei morti.
Antigone consapevole di trasgredire alla legge, dà simbolica sepoltura al fratello.
Lo zio Creonte, ergendosi a custode dell’ordine sociale e non potendo tollerare una
trasgressione alla legge da lui stesso emanata, immediatamente ordina di murare viva
Antigone.
Creonte si fa paladino di Eunomia contro Diche, del legalismo contro la giustizia, della
legge degli uomini contro la legge universale immutabile, della morale contro l’etica,
dell’ordine sociale contro l’ordine universale.
E ciò porterà il dramma ai suoi livelli più alti.
Creonte viene avvisato della tragedia che sta per compiersi, da Tiresia, l’indovino, un
personaggio autorevole, uno scienziato diremmo oggi. Tiresia avverte che nessuna legge
contro Diche porterà Eirenè, la pace, anzi, porterà sciagure terribili e drammi irreparabili.
Creonte capisce, si fida, ma è troppo tardi, quando va a liberare Antigone, questa è morta, si
è uccisa.
Alla vista di Antigone morta, il figlio di Creonte, Emone, fidanzato segretamente con
Antigone, estrae la spada e si uccide. Pochi minuti dopo, Euridice, moglie di Creonte e
madre di Emone, apprende le tristi e sciagurate notizie di morte del figlio e della futura
nuora e si toglie la vita, incapace di sopravvivere a tanto dolore.
Ed infine Creonte, compresi i suoi sbagli, le sue responsabilità in tutto ciò, chiude la
tragedia uccidendosi e ponendo così fine al peccato contro l’ordine universale iniziato
dall’inconsapevole Edipo e continuato dalla sua legge morale.
Il mito greco e la realtà moderna coincidono, mostrano che Eunomia e Diche insieme
portano Eirenè, che etica ed estetica insieme creano ordine sociale. Regole e rispetto libero.
Le tre ore si muovono insieme, non è possibile separarle.
Dal mito torniamo, dunque, alla realtà riflettendo sui dati della ricerca appena esposta
unitamente ad alcuni ulteriori stimoli di seguito riportati.
In una ricerca esplorativa, di natura qualitativa (Kazdin, 1996), svolta in un liceo della città
di Partinico (Sicilia), dal titolo “i giovani e la legalità” (
in fase di conclusione e
pubblicazione) è emerso che quasi il 90% dei giovani conosce molto bene cosa è la mafia,
cosa è l’illegalità, quali sono i principi giusti e quali quelli sbagliati. Conoscono bene la
morale e le definizioni di legalità. Ma quando poi si chiede loro: “cosa fai se ti rubano il
motorino o il cellulare?” Il 50% tra loro dichiara di non denunciarne il furto, ed il 56% dei
maschi (dato disaggregato sulla variabile sesso) si rivolge ad un “amico”… oggi il
motorino, domani il pizzo!
E ancor peggio il 78% del campione dichiara di usare il casco in motorino, ma di questi
solo il 12% adduce come motivazione il fatto che sia un atteggiamento corretto e
prescritto dalla legge, mentre un cospicuo 73% dichiara di utilizzarlo per evitare danni
fisici! Ancora, i ragazzi sanno che una legge si segue e basta (55% del campione) ma una
legge di Diche, giusta, o di Temi, dell’ordine naturale, sarà seguita per estetica, per volontà
precisa, per eros, direbbe Freud, per quel sacro inviolabile istinto di massimizzazione della
vita ed evitamento del danno! Una legge giusta e condivisa sarà seguita non per legalismo,
non per imposizione, non per paura della repressione, ma per libera, appassionata,
amorevole e piacevole scelta razionale-emotiva di ogni singolo e della collettività al
contempo!
Ma cosa accade dopo? Accade che i giovani crescono e diventano professionisti: psicologi,
medici, avvocati, commercialisti, docenti, manager, imprenditori, e continuano a pensare
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
(59%) che molte leggi non sono di Diche (giustizia) e neanche di Temi (ordine universale),
ma sono di parte, fatte per difendere interessi privati, e allora forse, non sono più molto
convinti della credibilità di un legalismo che è quantomeno parziale. A volte essi sono nel
giusto, altre volte si sbagliano, ma non lo sanno. Anche Edipo peccò gravemente senza
saperlo. I risultati negativi e sciagurati di tale convinzione giungono in ogni caso. L’ordine
naturale non ammette l’ignoranza. Ogni disequilibrio del sistema sarà compensato e
l’ordine naturale garantito.
Probabilmente allora occorre una riflessione proprio da parte della società civile tutta, che
propone modelli educativi, ma che forse non li sostanzia fino in fondo di credibilità
politica, sociale, professionale, economica e giuridica.
La crescita valoriale di un collettivo è certamente un percorso difficile e lungo, sostanziato
esclusivamente da modelli proposti e incarnati da uomini e donne credibili, modelli viventi
di fatti in primis e di parole forse, ma sicuramente in secundis.
Ciò che i costumi sociali offrono e propongono ai giovani divenuti adulti è probabilmente
una visione distorta della legalità che occorre riconsiderare, transitando da un poco
credibile legalismo ad un’unione di legalità giustizia e pace.
Eirenè (la pace), infatti è la terza ora, giunge quando le altre due ore sorelle, legalità e
giustizia (Eunomia e Diche) sono rispettate. Le ore, come abbiamo avuto modo di
ricordare prima, sono sorelle molto unite che si vogliono bene al punto che, se una solo di
loro non è rispettata e diventa Astrea, fugge in cielo, anche le altre due la seguono,
portando con sé passioni e sentimenti e lasciando la terra fredda e moralista.
I giovani adulti, affermati professionisti, si trovano quindi davanti al dilemma di Creonte:
operare sul legalismo svincolato dalla giustizia universale o seguire Temi, applicare
Eunomia, avere come obiettivo Diche e sperimentare Eirenè?
I professionisti al servizio della mafia, probabilmente non conoscono etica ed estetica, si
rifugiano, quando possono, in un freddo eunomismo, dimenticando Diche ed Eirenè, che
conseguentemente sempre più si allontanano nello spazio astrale.
Sorgono allora, per reazione, non una, ma mille, infinite, Antigone: persone, gruppi e reti
sociali che tentano, con il loro pensiero a Temi e a Diche, di riallineare il sistema, di
bilanciare l’equazione.
Purtroppo Antigone, oggi come allora, bilancerà l’equazione, distruggendola, attraverso un
processo purificatorio, la catarsi, l’eliminazione totale di ogni ricordo fisico e psichico del
fatto. La morte di tutta la discendenza di Edipo.
Esiste un altro mezzo di bilanciamento, tuttavia. Non è solo la distruzione l’unica via
possibile per bilanciare la giustizia e l’ordine universale.
Il mezzo è dato dalla capacità umana di insaturare un pensiero rigido, rendere flessibile,
aperto al cambiamento un sistema freddo, automatico, senza uscita. E’ la possibilità del
non suicidio di Antigone: la zona grigia della mafia esiste perché fondata da un pensiero
monistico, individualistico, familistico, un pensiero mafioso, autoreferenziale, tipico di una
società chiusa dove il pensiero non è confutabile, è dogmatico, saturo, un pensiero forte,
unico, che non ammette diversità, che non si arricchisce nello scambio, ma che solo ripete
se stesso senza progredire (è l’incesto).
È noto che la specie umana è così progredita grazie all’universale tabù dell’incesto che
sancisce, al positivo, per sempre, il valore universale, insostituibile della diversità, la
necessità di incrociare le razze per renderle insature, valorizzare le differenze per
progredire, per migliorare la specie per liberare il pensiero e la società.
Un pensiero plurale è dunque la cura all’incesto, al pensiero rigido e dogmatico, un
pensiero che utilizza se stesso per creare scambio, confronto, cultura, per ascoltare ed
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
accogliere le diversità intesa come ricchezze da coltivare e non come ostacolo da
eliminare.
Il lettore interessato, seguendo un modello di intervento medico scientifico, potrebbe
chiedersi: “bene, la diagnosi è fatta, ma quale terapia è possibile oggi per questi
professionisti che non riescono più a guardare all’ordine universale, e soprattutto, quale
prevenzione per le future generazioni?”
Coerentemente a quanto fin qui discusso, affermiamo che la terapia e la prevenzione
risiedono nella costante fondazione di un pensiero plurale, nel rifiuto di ogni e qualsiasi
riduzionismo, dogmatismo, fondamentalismo e di ogni annullamento o riduzione della
soggettività individuale a massa, nella ripresa e costante attivazione dei valori del dialogo,
del confronto e dello scambio. Ogni discorso che crea riflessione che apre spazi di
riflessione che propone problematiche senza offrire direttamente soluzioni precostituite è
terapia sociale, è il presupposto per la diffusione di una cultura di Temi. Il discutere,
confrontare opinioni, gestire il consenso favorendo al contempo il dissenso, mirare
all’approvazione sociale ascoltando costantemente ogni minoranza ogni pensiero debole,
ogni forma di controcultura, il fondere in un unico stampo tutto ciò creando cultura libera
e circolante: questa è la prevenzione. Prevenzione è tutto ciò che riattiva la speranza, che
semina fiducia attiva anche e soprattutto di tipo attento, critico, se necessario, nelle
istituzioni, dall’interno di esse. Prevenzione è credere che le leggi possono essere cambiate
se ingiuste attraverso una riflessione appassionata civile ed istituzionale. Prevenzione è un
percorso etico appassionato, emozionato dall’estetica. Il piacere della giustizia! Un
percorso di libertà, di comprensione e di emozione e non di repressione o di
inculturamento coatto.
Vogliamo concludere parafrasando Kant: pensando che affinché il cielo stellato sia sopra
di noi, ma non offuscato da nubi che ne impediscono lo sguardo e rendono grigio
l’orizzonte oltre che le persone e la società intera, la via da seguire è certamente quella
dello sviluppo costante e fiducioso del pensiero etico unito saldamente in un fertile
connubio con il sentimento estetico, vero motore delle nostre azioni, colore delle nostre
giornate.
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78
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
gruppi nel sociale
Segni della ‘Ndrangheta in Lombardia: studio di un artefatto culturale
Caterina Gozzoli, Antonino Giorgi, Roberta Lampasona
Riassunto
Il presente lavoro vuole essere un contributo ad una conoscenza più approfondita della
fenomenologia mafiosa in Lombardia. Lo studio, condotto entro un approccio etnografico,
propone l’analisi di un artefatto culturale (Cole, 1996, 1996a, Schein, 1985) al fine di esplorare le
logiche e la struttura dell’organizzazione mafiosa attraverso le rappresentazioni e i vissuti di diversi
interlocutori sociali.
Nello specifico, la ricerca, in continuità con gli studi precedentemente condotti (Gozzoli, Giorgi,
D’Angelo, in press ), si pone come obiettivo l’approfondimento di quel sistema antropo-psichico e
socio-culturale che è la ‘Ndrangheta e di come questo caratterizzi i territori coinvolti e le persone
che li abitano (Di Blasi, Lo Verso, 2011). Attraverso un’analisi di tipo qualitativo di un videodocumentario, contenente testimonianze, intercettazioni e interviste a persone che direttamente
hanno avuto a che fare con la ‘Ndrangheta, si è potuto evidenziare quanto questo fenomeno sia
fortemente presente nel territorio considerato (una città del Nord Italia), controllandone
trasformazioni politiche ed economico-sociali; si sono potute inoltre cogliere alcune caratteristiche
della sua struttura organizzativa e la presenza in questi territori di sentimenti di sofferenza, dolore,
paura ma anche di una forte negazione sociale.
La possibilità di connettere informazioni provenienti da diversi sguardi e di cogliere alcune
ricorrenze, consente di evidenziare alcuni elementi utili alla progettazione di interventi di contrasto.
Parole chiave: cultura e organizzazione mafiosa; convivenza; artefatto sociale
Signs of ‘Ndrangheta in Lombardy: study of a cultural artifact
Abstract
This work would like to be a contribution for a more thorough knowledge of the
phenomenology of Mafia in Lombardy. It is a study carried out according to an ethnographic
approach, proposes the analysis of a cultural artifact (Schein, 1985) aiming at understanding the
logics and structure of Mafia organization from different social interlocutors’ representations and
lived experiences.
The research, consistent with previously conducted studies (Gozzoli, Giorgi, D’Angelo, in press),
has the purpose to explore this anthropo-psychical and socio-cultural system which is ‘Ndrangheta
and the way it has characterized involved territories as well as their inhabitants (Di Blasi, Lo Verso,
2011). Through an in-depth qualitative analysis of a video-documentary containing testimonies,
wiretapping and interviews to people who have in/directly been having to do with ‘Ndrangheta, we
could understand how strongly this phenomenon is present in the considered territory (a city in the
79
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
North of Italy), controlling its political, social and financial transformations, and at the same time
there would seem to be phenomena of social denial, feelings of sufferance, pain, fear in victims and
a crucial impossibility of cohabitation.
The possibility to connect information coming from different looks and grasp some recurrences
allows highlighting effective tools for counter-action and intervention modalities.
Key words: Mafia culture and organization, cohabitation, social artifact
1. La presenza della ‘Ndrangheta: alla ricerca di segni nel territorio
Il presente contributo intende esplorare quel sistema antropo-psichico e socioculturale che è la ’Ndrangheta nel Nord Italia e di comprendere come questo caratterizzi i
territori coinvolti e le persone che li abitano (Di Blasi, Lo Verso, 2011).
Entro una metodologia di tipo etnografico (Geertz, 1973; Pulman-Jones, 2008) viene
preso in analisi un video-documentario volto a raccontare le esperienze di incontro con la
Ndrangheta da parte di diversi attori sociali e sensibilizzare il territorio alla necessità di
contrastare tale fenomeno.
Ricordiamo che l’approccio etnografico pone attenzione allo studio dell’insieme degli
oggetti materiali e immateriali, costruiti dall’uomo (artefatti), che vengono conservati,
tramandati e modificati per mezzo della loro stessa azione, come via per cogliere la cultura
di specifici gruppi, luoghi, territori (Shein, 1985).
Gli artefatti, i simboli e le costruzioni esteriori della cultura vengono incorporati, condivisi
dalle persone attraverso le loro esperienze quotidiane e, successivamente, utilizzati per
leggere la realtà e interagire con essa. Essi sono pertanto considerati espressioni visibili,
tangibili e udibili di comportamenti fondati su norme, valori e assunti culturali (Gagliardi,
1990).
L’artefatto qui considerato è un video-documentario dal titolo: “Sei sicuro? La Piovra a
Brescia”. prodotto dall’Associazione studentesca “Studenti Per-Udu” in collaborazione
con la Rete Antimafia di Brescia. Quest’ultima nata dall'esigenza di sensibilizzare la
popolazione della provincia lombarda nei confronti del fenomeno mafia, si costituì a
seguito del processo Fortugno12.
Ci sembra importante sottolineare questo dato, proprio perché a seguito di tale processo
furono molteplici le emozioni e le reazioni che ne derivarono; da un lato, vi era
l'incredulità nell'apprendere che una cultura che si riteneva distante anni luce si era invece
già da anni stanziata e radicata sul territorio. Dall'altro, la rabbia di non essersi mai accorti
di quello che stava accadendo proprio sotto gli occhi di tutti. Ecco allora la ragione che
spinse la Rete Antimafia a dare palese testimonianza di ciò che stava accadendo ed
evolvendo sul territorio lombardo.
Francesco Fortugno è stato un medico e politico italiano, assassinato mentre svolgeva l'incarico di
vicepresidente del Consiglio Regionale della Calabria. Il 16 ottobre 2005 a Locri, nel giorno delle primarie
dell'Unione, è stato ucciso all'interno del seggio da un killer a volto coperto, con 5 colpi di pistola. Il 21 marzo
2006, dopo 5 mesi di indagini, sono stati arrestati i nove presunti colpevoli dell'omicidio. Per loro le accuse
variavano dall'associazione di tipo mafioso all'omicidio e alla rapina a mano armata. Il 24 marzo 2011 le prime
condanne. La Corte d'assise d'appello di Reggio Calabria conferma la sentenza di primo grado, condanna
all'ergastolo per Alessandro e Giuseppe Marcianò, padre e figlio, ritenuti i mandanti del delitto, Salvatore
Ritorto, indicato come il killer, e Domenico Audino. Tra il 2012 e il 2013 la Corte di Cassazione conferma
definitivamente tali condanne all’ergastolo. (Speciale Processo Fortugno: "Il Giorno Dopo La Sentenza Tra
Rabbia E Lacrime" Calabriareport.It).
12
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Alla realizzazione del video documentario hanno partecipato molteplici figure, tra le quali
rappresentanti e funzionari d’istituzioni, organizzazioni e associazioni impegnate nella
lotta alla mafia, organizzazioni sindacali, rappresentanti comunali e funzionari di pubbliche
amministrazioni, ambientalisti, imprenditori, cronisti locali, sino a testimonianze di ex
affiliati con la ‘ndrangheta e vittime della stessa. I protagonisti hanno documentato la loro
significativa esperienza e conoscenza riguardo il tema ‘Ndrangheta, fornendo un quadro
veramente complesso del fenomeno mafioso in Lombardia.
2. Voci in dialogo: l’analisi dell’artefatto sociale entro l’approccio Grounded Theory
I contenuti del video documentario sono stati analizzati grazie all’ausilio del software
Atlas.ti, entro l’approccio della Grounded Theory (Glasser, Strauss, 1967).
Nello specifico il lavoro di analisi è finalizzato alla ricostruzione delle teorie soggiacenti
alle informazioni analizzate (Chiarolanza, De Gregorio, 2007) e procede attraverso un
percorso di categorizzazione via via più raffinato.
Tale processo non avviene tramite un percorso induttivo lineare, ma attraverso un
percorso circolare.
I risultati cui si è pervenuti grazie all’analisi dei dati, consentono un importante
approfondimento della conoscenza del fenomeno ‘Ndrangheta e nella comprensione dei
molteplici settori in cui questo sistema criminale affonda le sue radici.
Da sottolineare come i dati estrapolati dal video documentario e le successive conclusioni
in merito agli stessi, confermano e ampliano per certi aspetti le teorie soggiacenti
l’operazione Crimine-Infinito13, operazione che ha permesso di delineare alcuni primi
aspetti, per così dire, identificatori e distintivi del fenomeno ‘ndrangheta in Lombardia.
(Cfr. Gozzoli et al in press) e i pochi studi esistenti (cfr. Calderoni, 2012).
Questa maxi-operazione contro la 'Ndrangheta calabrese e le collegate cosche milanesi,
portata a termine dalle Direzioni Distrettuali Antimafia (DDA) dei tribunali di Reggio
Calabria e Milano, ha condotto all’arresto e successiva condanna, di più di duecento
persone, colpevoli di reati quali omicidio, traffico di sostanze stupefacenti, ostacolo del
libero esercizio del voto, riciclaggio di denaro proveniente dalle attività illecite quali
corruzione, estorsione ed usura (Chiavari, 2011).
3. Alcuni esiti
3.1. Come si muove la ‘Ndrangheta in Lombardia
Una volta stabiliti territori, gradi, gerarchie e competenze, i clan hanno continuato ciò che
hanno fatto per decenni: il controllo criminale del territorio inquinando l’economia e
introducendo una distorsione della concorrenza. Gli affari si muovono intorno allo
spaccio di sostanze stupefacenti, l’acquisto di immobili, le estorsioni, l’usura e, soprattutto,
appalti pubblici ed edilizia. Un’infiltrazione silenziosa, dovuta all’inserimento di capitali
illeciti nella Regione Lombardia tra le più ricche d’Italia. Lo spaccio di droga, le attività
economiche e gli appalti, rappresentano il pane quotidiano per gli ‘ndranghetisti, molto
Essendo il coordinamento tra le due DDA il punto di forza principale per il successo dell’operazione, è
opportuno parlare di operazione Crimine–Infinito come unione dei due filoni d’indagine “Crimine” a Reggio
Calabria e “Infinito” a Milano.
13
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
attenti nel mantenere gli equilibri non solo tra loro, ma anche con le altre forme di
criminalità presenti in Lombardia.
Il grafico 1 raffigura la famiglia, estrapolata dal software Atlas.ti, del Capo squadra mobile
dell’antimafia di Brescia, che ben sintetizza quanto detto sino ora.
Grafico 1
Come rintracciabile, nello stesso grafico, i settori in cui la ‘ndrangheta investe sono,
principalmente, quelli delle costruzioni e del movimento terra: l’edilizia continua a essere il
settore primario, anche grazie all’acquisizione di forza lavoro e di manodopera
proveniente dagli immigrati clandestini e dalla povertà endemica che risiede nelle periferie
di Milano (EURISPES, 2008).
Il mercato del movimento terra si presenta, quindi, monopolizzato dalla ‘Ndrangheta, con
gli imprenditori locali vessati da intimidazioni ed estorsioni, oppure conniventi e
consapevoli del fatto che associarsi con certa gente può essere pericoloso, ma anche molto
sicuro e redditizio.
Inoltre, tale movimento, unitamente all’utilizzo massiccio di camion risultano essere gli
strumenti migliori per smaltire i rifiuti tossici all’interno di cave e discariche abusive, anche
come riempimento nelle stesse opere di costruzione o di demolizione per trarre, in questo
modo, ulteriori cospicui profitti accanto a quelli generati dagli stessi appalti. Il cantiere
diventa, quindi, il teatro più congeniale per questo tipo di attività illegale, spesso isolato
con recinzioni che lo rendono difficilmente controllabile, con camion che entrano ed
escono senza troppi controlli da superare.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Riportiamo di seguito un output (Grafico 2) raffigurante la famiglia “Movimento Terra”
ottenuto dall’analisi testuale dei dati rispetto al fenomeno dell’edilizia appena discusso e di
come si muove la ‘ndrangheta nella realizzazione dei suoi affari.
Grafico 2
3.1.2. Quali caratteristiche possiede la ‘Ndrangheta in Lombardia?
Uno dei dati più importanti emersi dall’analisi del fenomeno riguarda la struttura
dell’organizzazione della ‘Ndrangheta: non più, come si pensava precedentemente, a
estensione orizzontale e priva di un vertice unitario, ma, al contrario, dotata di un
coordinamento verticistico e piramidale, denominata Provincia o Crimine. La struttura
orizzontale è formata dalle ‘ndrine locali, gestite dalle famiglie attraverso il principio di
omogeneizzazione geografica, secondo cui una certa zona della Lombardia appartiene a
una famiglia, e una certa zona della Calabria appartiene alla stessa famiglia; c’è una
suddivisione del territorio come fosse una fotocopia della Calabria in Lombardia. A questo
si aggiunge una struttura piramidale, che ne fa un’organizzazione perfettamente
“funzionante”, in cui una struttura centrale chiamata “la Lombardia” fa da raccordo con la
“casa madre”. Da questa, la locale non può staccarsi né psicologicamente né sul piano
reale. Essa è la struttura di governo e decisionale di tutti i locali presenti in tutta Italia e nel
mondo, da cui dipendono tutte le strategie e qualunque decisione importante anche per le
colonie.
Dalle intercettazioni ambientali, si evince come Milano, ad oggi, sia da considerarsi una
Provincia, quasi del tutto autonoma da Reggio Calabria, dotata di almeno 15/16 locali con
altrettanti Capi-Locale; solo nel territorio bresciano si è parlato dell’esistenza di 6 Locali
dislocati in varie zone del territorio.
Come risulta chiaro dalle parole degli intervistati, tutti i locali presenti in Lombardia:
83
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
- sono e si sentono ‘Ndrangheta: sono composti, quasi esclusivamente, da soggetti di
origine calabrese e spesso appartengono a famiglie di ‘ndranghetisti;
- operano sempre in autonomia sul territorio lombardo con il ricorso al metodo mafioso;
- sono sovrani sulla loro porzione di territorio ma dialogano tra loro proprio attraverso le
strutture della Lombardia, anche se in occasione di alcuni contrasti si è ricorso
all’intervento delle ‘ndrine calabresi di riferimento.
Nonostante la discendenza calabrese, è importante ricordare che i componenti delle
‘ndrine lombarde sono da lungo tempo radicati al nord e vi risiedono stabilmente: ciò ha
consentito una perfetta conoscenza sia del territorio che delle persone con cui essi stessi
vengono a contatto.
Di conseguenza, è possibile affermare che l’associazione ‘ndranghetista analizzata non è
semplicemente l’articolazione periferica della struttura criminale calabrese, ma al contrario,
è un’autonoma associazione che compie delitti e atti intimidatori sul territorio del distretto,
generando assoggettamento e omertà.
A partire dalle intercettazioni effettuate e dalle testimonianze rese all’interno del videodocumentario è chiaro come i valori tradizionali e fondanti la mafia calabrese si siano
saputi perfettamente adattare alla nuova realtà lombarda in cui sono andati a inserirsi.
La capacità che la ‘ndrangheta ha avuto di costruire un sistema di valori, di mentalità, di
modi di pensare, di codici di comportamento, di cultura, all’interno del tessuto lombardo,
che hanno interagito con il complesso delle attività economiche, sociali, politiche, culturali
di un’intera regione. I codici rappresentano uno strumento fondamentale per il
comportamento e la formazione della mentalità degli affiliati; importanti per assicurare il
senso di appartenenza all’organizzazione e quindi di protezione (Giorgi, Giunta, Coppola,
Lo Verso, 2009).
Intimidazioni e ricatti, violenza fisica e psicologica, o più in generale la vendetta
rappresentano strumenti di difesa per l’Organizzazione; omertà e vendetta come aspetti
essenziali, ineliminabili, dell’etica, della psicologia e della mentalità ‘ndranghetista.
Il radicamento e l’infiltrazione così massiccia e presente in Lombardia, ci dà testimonianza
dell’acquisizione di una nuova mentalità, che interessa tutti gli aspetti etici, morali, sociali
ed economici del territorio, tale da creare, appunto, quella che è stata definita “cultura
mafiosa14”.
La “Cultura mafiosa”, presente all’interno della famiglia: «Rappresentazione della ‘ndrangheta in Lombardia»
(grafico3) rappresenta un super codice, come intuibile dal diverso colore del simbolo che lo rappresenta.
L’identificazione di un super codice in Atlas.ti corrisponde alla combinazione di due codici insieme
all’operatore scelto per marcare la qualità della relazione. Ad orientare il ricercatore nella scelta dei codici da
cui creare successivamente un super codice è l’indice grounded, vale a dire quante volte quei costrutti o etichette
semantiche sono presenti nel testo e quindi quante volte sono rintracciabili e l’indice density, cioè il numero di
collegamenti che quel determinato codice ha con altri codici. Tenendo in considerazione rispettivamente
questi indici dalla finestra di lavoro che Atlas.ti ci mette a disposizione il “Code Manager” è possibile intuire
quali codici possano fornire la base per la spiegazione del fenomeno posto in esame. Così facendo si giunge
all’ultima fase di analisi, ossia la codifica teorica, che esiterà nell’individuazione della “Core Category” (De
Gregorio, Lattanzi, 2011) Nel caso qui proposto il super codice “Cultura Mafiosa”, è il prodotto dei codici: cos’è
la ‘ndrangheta e come agisce la ‘ndrangheta.
14
84
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Grafico 3
3.1.3. Sistemi di convivenza
Il controllo e la sottomissione sono modalità che comportano fantasie di possesso
e non di scambio nell’incontro con l’altro. Quando ciò si verifica, la relazione che si viene
a creare risulta fondata sulla negazione dell’estraneità e la convivenza viene minacciata
(Carli, 2003).
Dalle voci dei partecipanti a questo studio (grafico 4), emerge che il controllo è una
caratteristica che viene utilizzata consciamente dagli ‘ndranghetisti per il raggiungimento
calcolato dei propri scopi criminali. Esempi sono: il controllo dell’entrata di ogni soggetto
nell’organizzazione; delle azioni criminali mediante riunioni periodiche; dell’altro (sia esso
un affiliato, un collaboratore o una persona esterna) e ogni sua azione ed emozione, per
garantire il livello di omertà; il controllo prepotente del territorio.
85
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Grafico 4
Gli intervistati sostengono che, oltre a non lasciare libertà di azione e pensiero alle persone
con cui si trova coinvolta, la ’Ndrangheta educa fin da subito alla propria disciplina, in
modo tale che l’entrata nell’organizzazione diventi, alla fine, l’unico orizzonte possibile di
autorealizzazione per l’individuo. E’ per tale ragione che personaggi di spicco operanti in
vari settori quali: imprenditoria, costruzioni, aziende edili, appalti di opere pubbliche e di
pubbliche amministrazioni, si trovano a colludere con la ‘Ndrangheta. Oggi, questa
situazione sembra essere aggravata con l’avvento della crisi, che rende il capitale del
‘ndranghetista accessibile immediatamente.
Alcuni degli intervistati, negano l’esistenza del fenomeno manifestando diffidenza e al
tempo stesso preoccupazione. Non si tratta di un’inconsapevolezza/invisibilità circa la
diffusione della ‘Ndrangheta in Lombardia, piuttosto di una forma difensiva e passiva di
controllo che molti cittadini e consiglieri comunali mettono in atto perpetuando quel
sistema omertoso proprio della cultura mafiosa. Ciò può essere collegato alle reazioni di
panico, sofferenza e dolore che i sistemi intimidatori e di vendetta di cui si serve la
‘ndrangheta, sollecitano in chi ne è vittima. Un’ulteriore tendenza di negazione del
fenomeno sembra essere quella della sottovalutazione del problema, per cui ad oggi ci si
rifugia dietro la falsa speranza che questa realtà sia un problema confinato al sud Italia.
Alla luce dei risultati emersi dall’analisi del video documentario è evidente come ci sia un
attacco alla convivenza. Si coglie la diffusione e la presenza radicata di una cultura mafiosa
sul territorio che non riguarda solamente la mentalità della criminalità organizzata, ma ha
un’accezione più ampia poiché con essa s’intende la negazione delle regole sociali a favore
delle regole private e familistiche. In generale si evidenzia una negazione non solo
dell’alterità a favore del proprio sistema di appartenenza, ma anche un rifiuto di
condivisione di quelle che sono le regole, le norme che veicolano le relazioni. È un
“pensare mafioso” che si esprime attraverso comportamenti che distorcono il rapporto
pubblico-privato: le istituzioni pubbliche vengono pensate e vissute come se ci si
rapportasse a una grande famiglia che và controllata; i rapporti sociali vengono
principalmente instaurati e perpetuati per creare una dipendenza psicologica tra sé e l’altro.
86
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Ovviamente la cultura mafiosa favorisce lo sviluppo della criminalità organizzata poiché
dà priorità all’instaurazione dei rapporti personali relegando a un ruolo secondario il
rispetto delle regole sociali.
A titolo esemplificativo, vogliamo concludere con un grafico di particolare rilevanza.
All’interno della famiglia (grafico 5) è stata riportata una quotation, vale a dire una citazione
estrapolata direttamente dal testo esaminato, in riferimento a quanto dice e come si
esprime il boss Piromalli nel momento in cui si trova a reclutare un giovane trafficante.
Grafico 5
4. Futuri passi e prospettive d’intervento
Il presente contributo propone l’analisi di un artefatto sociale come via per
avvicinarsi al fenomeno tanto grave quanto sfuggente che è la Ndrangheta. Le culture, i
vissuti, che si generano nei territori in cui la ‘Ndrangheta abita e soggiorna sono ancora
poco esplorati soprattutto nel Nord Italia. Per questo la psicologia è chiamata ad apportare
il suo contributo affinché si possa contrastare il radicamento del fenomeno, attraverso
strumenti culturali e modalità d’intervento clinico-sociale, nella sempre più chiara
consapevolezza di come questa realtà sia fonte di grandi disagi sociali e di profonde
sofferenze psichiche.
Di fondamentale importanza appare pertanto proseguire, da un lato, la ricerca per
intercettare altri segni nel territorio, per cogliere eventuali ricorrenze o specificità;
dall’altro, farsi promotori di una nuova cultura che sensibilizzi i cittadini, e che riesca al
contempo a diffondere una nuova cultura alla legalità.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
gruppi nel sociale
La 'Ndrangheta e la strada. Gruppo esperienziale con gli agenti dell'unità
mobile di Reggio Calabria
Emanuela Coppola, Ivan Formica
Riassunto
La mafia calabrese sembra animata da una bramosia di potere senza precedenti nelle altre
organizzazioni criminali e una capacità di offuscare la propria presenza tale da renderla un'ovvia e
inevitabile componente del sistema sociale statuito, saldamente insinuata nelle norme di convivenza
comunitarie.
Nello studio qui esposto, si è voluto esplorare le rappresentazioni e i vissuti degli agenti dell'unità
mobile di Reggio Calabria. L'analisi qualitativa del testo, effettuata tramite un apposito software, ha
fatto emergere due supercodici (Aggressione ai legami sociali within solitudine; No libertà encloses
paranoia). In altre parole, il vissuto di “solitudine” è spazialmente interno al vissuto di “aggressione
ai legami” e “l'assenza di libertà” include il vissuto di pericolo costante e sistematico (“paranoia”);
ciò significa che l'elaborazione emotiva sulla mafia, nel corso del processo di gruppo, ha portato alla
luce categorie di pensiero connesse alla coartazione dello spazio relazionale che si articolano lungo
le dimensioni emotive della solitudine e dell'angoscia paranoidea. Nell'ultima sessione di lavoro, è
emersa, nei partecipanti, tutta la contraddizione interna e la confusività che la 'Ndrangheta provoca
loro, i quali si trovano, da un lato, a combatterla e, dall'altro, ad evitare di esserne in qualche modo
lambiti, rischiando così di fugare, oltre la mafia, il rapporto stesso con il mondo.
Parole chiave: 'Ndrangheta, forze dell'ordine, gruppo, solitudine
'Nndrangheta and the street.
Experiential group with Reggio Calabria flying squad policemen
Abstract
Calabrian Mafia seems to be animated by a hunger for power with no precedent in other
crime organizations, and an ability to hide its presence so much to make it an obvious and
inevitable component of the decreed social system, deeply crept into the community cohabitation
norms.
In the study we will present below, we have aimed at investigating on Reggio Calabria flying squad
policemen’s representations and lived experiences. The qualitative analysis of the text, carried out
through dedicated software, has pointed out two super codes (aggression to social connections
within solitude; no freedom encloses paranoia). In other words, “solitude” as lived experience is
spatially contained in “aggression to connections” and “the absence of freedom” encloses the lived
89
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
experience of constant and systematic danger (“paranoia”). This means that the emotional
elaboration on Mafia, carried out during the group process, has highlighted thinking categories
connected to the coercion of relational space which articulate themselves along the emotional
dimensions of solitude and paranoid anguish. In our last working session, the participants revealed
all their internal contradictions and the confusion ‘Ndrangheta causes in them, since on one hand
they have to fight against it, and on the other they try to prevent it from affecting them, thus
risking to escape not only Mafia, but the relation they have with the world.
Keywords: ‘Ndrangheta, law enforcement agency, group, solitude
1. Introduzione
Se gli studi su Cosa Nostra, da un vertice psico-antropologico-clinico, hanno visto
maturare negli ultimi 30 anni numerosi studi, riflessioni e ricerche (Di Maria et al., 1989,
Fiore 1997, Lo Verso 1998, Lo Verso 1999, Di Maria, Formica, 2005, Di Maria, Formica,
Lo Coco, 2007, Lo Verso, 2013), solo recentemente, l’organizzazione mafiosa calabrese,
denominata ’Ndrangheta, ha iniziato a destare l'interesse dell’opinione pubblica a fronte di
una storica coltre di omissioni e cecità che le hanno permesso di crescere, in larga parte,
indisturbata, operando nell’ombra e tessendo una ragnatela internazionale di accordi e
interessi criminali. La ’Ndrangheta, attualmente, è la mafia più potente del mondo. Capace
di camaleontiche trasformazioni, giganteggia ovunque, riuscendo ad adeguarsi bene alle
nuove esigenze di mercato, senza mai venire meno alle proprie caratteristiche, regole e
valori come il silenzio e il vincolo di sangue (Gratteri et al., 2008). Essa è l'unica
organizzazione criminale italiana ad essere inserita nella blacklist del Dipartimento del
Tesoro americano che annovera, fra i nemici mondiali da combattere, Al Qaeda, lo
Jihadismo islamico e appunto la ’Ndrangheta, tale è la sua capacità di infiltrazione e di
inquinamento del mercato a livello mondiale. Secondo l'Eurispes (2008) le famiglie della
’Ndrangheta, le famose ‘ndrine, godono di un fatturato di oltre 44 miliardi di euro ogni
anno, il 2,9 % del nostro Pil, costituendo un cartello nel regime quasi monopolistico
dell’importazione della cocaina in Europa (dal cui traffico ricava 27 miliardi di euro l’anno,
pari a due terzi dei suoi profitti. L’altra fetta è ottenuta tramite il controllo degli appalti e
dei lavori pubblici, dalla prostituzione, dal traffico d'armi, dal racket e dall’usura) (Nuzzi,
2010). Si annovera, così, tra le aziende più ricche, aggressive e invasive del mondo.
Possiede un’elevata capacità d’infiltrazione nel sociale, nell’economia e nelle istituzioni,
anche in zone non tradizionalmente interessate dal fenomeno mafioso. Vantando filiali in
quasi tutta Italia, la ’Ndrangheta è riuscita a portare a termine il suo decennale disegno di
colonizzazione del Nord e del Centro con ramificazioni in Europa, Africa, Asia, America e
Oceania. Non a caso, è la preferita dai produttori di droga (Arlacchi, 2007), perché
considerata la più affidabile e la più impermeabile tra le mafie: non parla, né si pente. La
segretezza prima di tutto.
La ’Ndrangheta ha una fenomenologia subdola, è una mafia fumosa che gioca con le
presenze e le trasparenze. Dal punto di vista psicologico, sembra in grado di suscitare nelle
comunità locali meccanismi di difesa, spesso arcaici (dissociazione, controllo onnipotente,
capovolgimento e annullamento retroattivo) impattando fragorosamente la psiche di
coloro ne sono vittime o che, per diverse ragioni, sono costrette a entrare in contatto con
questa organizzazione.
Precedenti lavori (Coppola et al., 2010; Coppola, 2011a; Formica, Coppola 2012) hanno
messo in evidenza la specificità psicologica della mafia calabrese, sia nella sua struttura
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
organizzativa, sia nell’impatto sul territorio e sulle comunità locali. Mostrando molteplici
punti di contatto con Cosa Nostra siciliana come la struttura verticistica e il dogmatismo
familiare, la mafia calabrese sembra animata da una bramosia di potere senza precedenti
nelle altre organizzazioni criminali e una capacità di offuscare la propria presenza tale da
renderla un’ovvia e inevitabile componente del sistema sociale statuito, saldamente
insinuata nelle norme di convivenza comunitarie.
Nello studio qui di seguito esposto abbiamo voluto indagare le rappresentazioni e i vissuti
degli agenti dell’Unità mobile di Reggio Calabria. Organo di polizia che, inevitabilmente,
s’imbatte nel controllo (fisico e psicologico) del territorio da parte dell'organizzazione
criminale calabrese. L’unità mobile di Reggio Calabria si occupa della gestione delle masse
e dei grandi eventi e la mafia ha sempre irretito il potere della folla strumentalizzandolo a
proprio piacimento attraverso manipolazioni, più o meno esplicite, di ideali e valori
culturali a fondamento di specifiche realtà territoriali. Pertanto, gli agenti che esercitano la
propria funzione in questi contesti si trovano spesso a fronteggiare l’arroganza mafiosa,
annidata nei rituali delle collettività locali (feste di paese, processioni religiose,
manifestazioni sportive, ecc.). La 'Ndrangheta di strada, quella che non si vede, ma che
opprime, vieta, ferisce è il nemico principale di quest’organo di polizia.
2. La ricerca-intervento: metodologia, setting e strumenti
Nel corso dell’ultimo ventennio, coerentemente al modello teorico gruppoanalitico
soggettuale (Lo Verso 1994, Di Maria, Formica, 2009, Lo Verso, Di Blasi, 2012) che
supporta gli studi sulla psicologia del fenomeno mafioso, è stato messo a punto un
dispositivo di ricerca-intervento denominato gruppo di elaborazione-clinico sociale. Si
tratta di uno spazio dialogico che, oltre a rivelarsi un ottimo set(ting) per la rilevazione di
dati di ricerca psico-antropologici, consente l’avvio di processi trasformativi e, in primo
luogo, elaborativi rispetto a tematiche difficili quali le ricadute della presenza mafiosa sulla
vita delle persone e sulle comunità. Il gruppo di elaborazione dischiude una
moltiplicazione fluttuante e discontinua di espressioni verbali e non verbali, di immagini e
narrazioni che comunque sottendono un continuum di coerenza tematica. Questa plurideterminazione del processo comunicativo rappresenta la regola stessa di un metodo
psicologico-clinico di cui si avvale la gruppoanalisi. Infatti, un’attenzione non rigidamente
focalizzata permette la ‘mobilità’ su possibili differenti livelli di esperienza compresenti
nello stesso momento, facilitando l’associazione tra contenuti mentali diversi, di persone
diverse (Giorgi et al., 2009, Coppola, 2011b).
Gli interventi del conduttore sono per lo più di tipo connettivo ed esplorativo che
veicolano, rispettivamente, una funzione di raccordo atta a favorire la connessione fra i
partecipanti (Di Nuovo, Lo Verso, 2005;) e una funzione del chiedere, sia per aumentare
le informazioni, sia per aumentare la comprensione di ciò che è stato detto, di ciò che
viene provato, come sentimento, stato d’animo (Pontalti, 1998; Giannone et al., 2006).
Il conduttore fa da collante, stimolando l’attività associativa del gruppo perché egli
custodisce quella coerenza tematica funzionale a contenere e a dare senso alle dislocazioni
narrative e semantiche.
I gruppi di elaborazione clinico-sociale consentono di rilevare i vissuti (aspetti emozionali
e cognitivi) dei partecipanti connessi alla presenza mafiosa nel territorio siciliano,
diventando incontro tra diverse soggettività in ordini spazio/temporali differenti. A partire
dai processi psicodinamici, il gruppo di elaborazione clinico-sociale veicola nei suoi
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
membri funzioni integrativo-elaborative con l’obiettivo di sensibilizzare i partecipanti circa
le ricadute del fenomeno mafioso.
Nello specifico, il lavoro qui proposto ha previsto l’articolarsi di tre sessioni gruppali di
due ore e trenta ciascuna a cui hanno preso parte 30 agenti dell’unità mobile di Reggio
Calabria.
Le adesioni sono stare raccolte al temine di un incontro seminariale sulla psicologia del
fenomeno mafioso, nel corso del quale sono stati ricapitolati i nuclei tematici principali del
lavoro di ricerca condotto negli anni. Dal raccordo complesso tra teoria di riferimento e
ricerche sul campo sono emersi importanti stimoli e spunti di riflessione che sono stati,
successivamente, ripresi nei gruppi.
I gruppi, psicodinamicamente orientati, sono stati audioregistrati e analizzati attraverso
una metodologia di analisi testuale ispirata alla Gruonded Theory ed integrata da un
approccio ermeneutico-costruttivista. Il trattamento dei dati grezzi è stato supportato da
un software di analisi testuale, Atlas.ti, da cui sono emersi grafici che descrivono il processo
di costruzione della teoria sottostante la narrazione dei partecipanti.
3. Risultati
Come si evince dal primo albero semantico, la prima fase del gruppo mostra gli
agenti protesi nello sforzo di narrare episodi avvincenti di arresti eclatanti, battesimi di
‘Ndrangheta e sparatorie attraverso i quali viene messo in evidenza il potere comunicativo
della ‘Ndrangheta e l’efferatezza delle esecuzioni.
La mafia calabrese viene descritta come ‘schifosa’, come la ‘più sanguinaria’ capace di
‘mistificare la realtà’. Simultaneamente, come messaggio tra le righe di questi racconti,
sembra emergere la necessità, da parte degli agenti, di catturare l’attenzione del
comandante, inaspettatamente presente durante lo svolgimento dei lavori. La scelta di non
escludere dal gruppo l’autorità, interpretata dal dirigente del servizio di polizia, ha un
preciso fondamento epistemologico ispirato alla teoria della complessità (Morin, 1986) e
coerente con la metodologia impiegata. La complessità dei fenomeni umani prescrive la
necessità di coglierli nel loro autentico dispiegarsi nel mondo-ambiente, senza tagli o
riduzionismi che ne snaturerebbero il senso profondo. Non a caso, la presenza del
comandante s’intreccia con i contenuti, espliciti ed impliciti, che lo spazio gruppale inizia a
comporre al tal punto da far emergere una qualche associazione tra il potere seduttivo
della mafia e il bisogno dei partecipanti di sedurre il proprio superiore.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Nel corso di questo primo incontro, il tema della seduzione emerge sempre più
chiaramente e, gradualmente, il gruppo perviene alla consapevolezza di subire il potere
seduttivo della mafia e di esserne talmente stregati da drammatizzare, nel capo psichico, il
fascino per il potere nell'atteggiamento di esaltazione del proprio operato dinanzi al
comandante. Si giunge così a riconoscere che la mafia seduce inconsciamente anche la
polizia.
Nonostante ciò, non è chiaro se la trappola psicologica della seduzione nasconda anche
una concrezione di paura negata che si trasla in comportamenti automatizzati. Prende
avvio un processo di riconoscimento del potere mafioso e delle sue innumerevoli
declinazioni (‘potere comunicativo’, ‘potere assoluto’ ecc..) e di come tale potere impedisca
la crescita e l'emancipazione della popolazione calabrese che subisce supinamente la
prevaricazione dell'organizzazione.
Si tratta di temi che appesantiscono il gruppo che chiude la prima sessione con un clima
fortemente depressivo in cui al potere della ’ndrangheta fa da contraltare l’impotenza della
polizia.
All'inizio della seconda sessione il clima del gruppo è cambiato radicalmente rispetto
all'apertura della prima sessione: dalla tensione narrativa che sosteneva racconti seducenti
ed efferati sulla 'Ndrangheta si passa ad un tono emotivo grave che riconduce gli operatori
della squadra mobile nella realtà del proprio ruolo e, nello specifico, di lavoratori che
inciampano nell'impotenza e nella difficoltà di svolgere il proprio dovere.
La sosta nella curva deflessiva dell’umore risulta un transito breve, i partecipanti cercano
di risalire la china dell’impotenza e ancora una volta il dibattito si accende. Con un costo
però.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Quello di dover volgere lo sguardo fuori dal gruppo, al di là dei propri vissuti, aggirando la
riflessione su di sé con la ricerca di una ragione scientifica per la propria disfatta che forse
è rintracciabile in una superiorità biologico-gentica dei mafiosi.
Si prova così, attraverso un esercizio intellettualizzante, a comprendere le origini
darwiniane della mente mafiosa. Si disquisisce della capacità dell'organizzazione di
eliminare ‘l'erba marcia’ e far germogliare solo gli esponenti migliori. Ci si chiede se la
freddezza con cui vengono gestiti gli affari criminali avvicinino lo ’ndranghetista alla
categoria dei serial killer o al regno animale.
Si tratta di uno scivolamento difensivo che, anche in questo caso, dura poco perché,
ancora una volta, il gruppo mostra un viraggio emotivo e ritorna ad occuparsi dei propri
vissuti ritrovando in quella posizione depressiva la possibilità di produrre nuovi significati.
L’oscillazione del clima da acceso/passionale ad impotente/depressivo evidenzia il
tentativo di mettere insieme emozioni e ideazioni antinomiche rispetto al proprio ruolo e
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
alla propria appartenenza istituzionale che, in vero, appare attraversata da una forte
sfiducia nei confronti dello Stato. Sembra che attraverso l'organo di polizia della squadra
mobile si possa penetrare nel tessuto connettivo delle forze dell'ordine. Qui il conflitto tra
la fedeltà allo Stato e lavoro sul territorio si fa più stridente perché costantemente dilaniato
dal confronto con la strada, con la sofferenza e l'impotenza. «É più facile decidere dove sta il
bene e dove sta il male da dietro una scrivania ...quando si sta per strada nulla è così scontato».
Avviene un’importante messa in gioco del gruppo che si sveste della corazza protettiva
dell’uniforme per guardarla criticamente. Si apre una fase dialogica che occuperà tutta la
terza sessione in cui le narrazioni eclatanti lasceranno il posto ai racconti più intimi e
personali. Il poliziotto torna uomo e si interroga su cosa significa lavorare sotto
l’oppressione della ’Ndrangheta, che non lascia spazio perché è ovunque e sempre altrove,
al tempo stesso, che non si può combattere perché è invisibile appiattita nel sottosuolo di
città addormentate, o forse miopi, dinanzi alle ferite che ogni giorno vengono inferte alle
loro terre.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Sembra forte la necessità di ribadire che dietro la divisa c’è la persona (come si evince
anche dalla ripetizione nella categoria ‘mia’ ‘personale’) quasi a rivendicare un diritto di
soggettività che oltrepassa e trascende il ruolo di funzionari dello Stato, uno Stato che
risulta ambiguo nel contrasto alle mafie. Su questa scia narrativa che assume le pose del
racconto autobiografico, il nastro dei ricordi si riavvolge proiettando scene antiche,
infantili, teatro dei primi incontri con la ’Ndrangheta.
Si evocano incontri precoci nelle piazzette vicino casa in cui ci si trova a giocare con il
figlio di un 'ndranghetista, si riesumano le parole dei genitori sulle famiglie di mafia, si
condivide una prossimità con il fenomeno fino a quel momento sconosciuta o,
inconsciamente, taciuta. Improvvisamente la mafia non è più un oggetto, semplicemente
da studiare o da combattere, ma diventa parte integrante del racconto delle proprie origini
e dei propri luoghi. L’oggettivazione del fenomeno svanisce e lascia il posto al personale
rapporto rappresentazionale con la 'Ndrangheta. Una prossimità che, come allora, c'è
ancora e che si ritorce contro gli operatori di polizia. Gli stessi strumenti di contrasto e di
salvezza (le intercettazioni) possono tramutarsi, rapidamente, in spietati meccanismi di
controllo e di condanna. Il perimetro del proprio spazio vitale si restringe fino a diventare
claustrofobico perché ogni incontro può essere fonte di pericolo, ma questa volta il
persecutore non è la mafia, è lo Stato, perché, in Calabria, dietro ad un volto
insospettabile, un amico d'infanzia, un conoscente di vecchia data può nascondersi un
criminale. Gli operatori di polizia denunciano una violenta aggressione ai legami sociali e
uno strozzamento della libertà personale che la mafia compie sui cittadini e di cui lo Stato,
più o meno intenzionalmente, può diventare strumento esecutivo.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Il vissuto paronoideo dilaga perché non solo la ‘’Ndrangheta è una mafia diluita’ che
penetra ovunque, in modo impalpabile, ma le stesse tecniche e strategie per contrastarla
(gli informatori, le intercettazioni ecc...) devono essere usate con cura perché rischiano di
colpire indirettamente chi le utilizza per combattere la criminalità organizzata.
L’analisi del testo ha fatto emergere due supercodici (Aggressione ai legami sociali within
solitudine; No libertà encloses paranoia), tra di loro associati, che rappresentano il cuore
tematico della teoria nascente. Il vissuto di ‘solitudine’ è spazialmente interno al vissuto di
‘aggressione ai legami’ e ‘l’assenza di libertà’ include il vissuto di pericolo costante e
sistematico (‘paranoia’); ciò significa che l’elaborazione emotiva sulla mafia, nel corso del
processo di gruppo, ha portato alla luce categorie di pensiero connesse alla coartazione
dello spazio relazionale che si articolano lungo le dimensioni emotive della solitudine e
dell’angoscia paranoidea. Il gruppo ha provato a combattere questi sentimenti riposti nelle
pieghe delle narrazioni sin dalla prima sessione, attuando quei meccanismi difensivi in
grado di compartimentalizzare le emozioni e isolare l’affetto. Quando in gruppo,
attraverso il confronto con laltro, le tutele psicologiche hanno cominciato a scricchiolare è
emersa, nei partecipanti, tutta la contraddizione interna e la confusività che la 'Ndrangheta
provoca loro, i quali si trovano, da un lato, a combatterla e, dall’altro, ad evitare di esserne
in qualche modo lambiti, rischiando così di fugare, oltre la mafia, il rapporto stesso con il
mondo.
4. Riflessioni conclusive
Il contributo di ricerca esposto rappresenta un frammento di conoscenza da
aggiungere al quadro di riflessioni e acquisizioni sulla psicologia delle organizzazioni
mafiose. All’insegna di un sapere che non procede per grandi ritrovamenti, ma per piccole
costruzioni di senso sugli avvenimenti umani e mondani, riteniamo che lo svelamento dei
significati emozionali che le mafie veicolano nei contesti può rappresentare un contributo
alla comprensione del fenomeno e una possibilità per accogliere la sofferenza e lo
smarrimento di coloro che si trovano a contatto con queste realtà spietate e mortifere.
Le mafie suscitano una diabolica sindrome da accerchiamento in cui tutto il mondo
diventa pericoloso ed è difficile fidarsi dell’altro. In Calabria, si viene psicologicamente
schiacciati da un potere, simultaneamente, invisibile e onnipresente. Tale contraddizione
ravvisata dai partecipanti del gruppo sembra dipendere anche dall’appartenenza ad un
contesto storico, geografico e antropologico (inteso come serbatoio di significati) che
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
incardina le sue prassi su logiche di potere (sull’altro) di cui le comunità locali hanno una
conoscenza atavica, poggiata su una memoria storica ampiamente condivisa. Questo
‘sapere locale’ non equivale, in alcun modo, ad una collusione criminosa con le famiglie
mafiose, ma corrisponde, nella maggior parte dei casi, ad un irretimento dentro equilibri
delicatissimi in cui il silenzio e il ritiro dalla scena sociale diventano l’unica strategia per
proteggere se stessi, i propri affetti, la propria integrità fisica e psicologica. Come afferma
Rosy Canale autrice del libro “La mia 'Ndrangheta”:
“Per ogni calabrese, la 'Ndrangheta è qualcosa che sta conficcata dentro, insinuata tra le viscere. Anche
quando sei estraneo alle 'ndrine e sei onesto [...] Ma ognuno di noi conserva in sé il veleno e l'antidoto.
Conosce la verità e non sa nulla. Saluta tutti e non riconosce nessuno”.
Su tale doppiezza coattiva, la mafia calabrese ha costruito il suo potere e la sua forza
psicologica capace d’insinuare un’inflessione paranoidea nell’organizzazione semantica e
affettiva delle relazioni sociali poiché tale ambiguità è dentro e fuori le 'ndrine, in periferia
come in città, nelle banche come nei mercati rionali. La 'Ndrangheta è ovunque e in
nessun luogo.
L'esperienza di gruppo con gli agenti dell’unità mobile ha permesso l'emersione di
contenuti e significati emozionali antinomici che la 'Ndrangheta utilizza per proiettare
un’immagine sfocata e incomprensibile di sé ‘infettando’ i legami sociali e minando la
libertà esistenziale dei cittadini.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Gruppi nel sociale
Le vittime del racket. Imprenditori e commercianti alle prese con Cosa
Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra
Francesca Giannone, Anna Maria Ferraro
Abstract
Il lavoro propone una ricerca su un mondo psichico fin qui ancora inesplorato: i pensieri, le
emozioni, l’esperienza delle vittime del racket delle tre grandi organizzazioni criminali del meridione
d’Italia: la Mafia, la Camorra e la ‘Ndrangheta.
L’obiettivo è comprendere le multi-sfaccettate questioni psico-antropologiche e sociali sulle quali le
organizzazioni criminali si sono radicate, ed in particolare quali dinamiche psico-relazionali e quali
codici transculturali entrino in gioco nel complesso e controverso rapporto tra vittima e sistema
criminale, tra vittima e sistemi di supporto. Con imprenditori e commercianti vittime della
criminalità organizzata, sono stati analizzati i vissuti - in particolare la paura - e le problematiche
psicologiche cui essi sono andati incontro; gli eventi e le motivazioni che hanno permesso di
“rompere” il silenzio e di formulare una richiesta d’aiuto; la rappresentazione della rete di supporto
prima e dopo l’eventuale denuncia; il tipo di aiuto offerto dai sistemi di supporto.
La dignità e il rispetto per sé stessi, la difesa della propria libertà e del proprio onore, valori profondi delle
culture meridionali, quegli stessi valori che le mafie usano e radicalizzano, capovolgendoli e
facendoli diventare strumenti di sopraffazione e di dominio, sembrano essere i temi portanti che
guidano la ribellione alla vittimizzazione. Insieme a questo, il sostegno forte delle reti
associazionistiche antiracket.
Parole chiave: Mafia; Criminalità organizzata; Vittime del racket; Associazioni Antiracket; Psicologia e
antropologia delle mafie.
Victims of racket.
Entrepreneurs and traders dealing with Cosa Nostra, ‘Ndrangheta and Camorra
Abstract
This work proposes a research on a still unexplored psychical world: thoughts, emotions
and real events experienced by racket victims of the three largest criminal organizations of the South
of Italy: Mafia, Camorra and ‘Ndrangheta.
The purpose is to understand the multi-faceted psycho-anthropological and social issues criminal
organizations have settled on, and particularly which psycho-relational dynamics and socio-cultural
codes come into play in the complex and controversial relationship between victim and criminal
system, between victim and support systems. With entrepreneurs and tradesmen victims of
organized crime, we have analyzed lived experiences – in particular fear – and psychological
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
problems they had to cope with; events and motivations which allowed them “breaking” the silence
and asking for help; the representation of a support network before and after their possible
pressing charges; the kind of help offered by support systems.
Dignity and self respect, the defense of one’s own freedom and honor, deep values typical of southern
cultures, those same values Mafia uses and radicalizes, turning them upside down and transforming
them into tools to overpower and dominate, seem to be the main themes which lead the rebellion
against victimization. Along with this, the strong support of anti-racket associations.
Keywords: Psycho-anthropology of Mafia, organized crime, racket victims, Mafia, Camorra and
‘Ndrangheta, Anti-racket associations, Mafia psychology and anthropology.
1. Premessa
La forza della mafia non è soltanto il risultato del suo potere intimidatorio e del
sistematico esercizio della violenza, essa trae il suo vigore dalla strumentalizzazione di
importanti aspetti valoriali, culturali e psichici della comunità siciliana.
Nel perseguire i propri intenti criminosi Cosa Nostra utilizza, mistificandoli molti aspetti di
quella che può essere definita la “cultura mafiosa siciliana” (Falcone, 1991; Di Maria et al.,
1989; Fiore, 1997; Lo Verso, 1998, 2003): una cultura nella quale valori come famiglia,
onore, dignità, riserbo, allusione, linguaggio metaforico… organizzano profondamente gli
scambi relazionali. La “mafia in quanto organizzazione criminale”, usa e radicalizza questi
valori, capovolgendoli però, e facendoli diventare efficaci strumenti di sopraffazione e di
dominio.
Il radicamento nei temi culturali tradizionali e profondi rende difficile l’identificazione
della strumentalizzazione e della presenza del fenomeno criminoso, che si confonde e si
intreccia con la trama di modi diffusi all’interno della società civile, emergendo soltanto
nei casi di gravi insulti alle attività e all’esistenza stessa (come le estorsioni), e talvolta
neanche in questi casi, poiché, appunto, la mistificazione rende “normali”, declassa a
piccoli compromessi per la “protezione delle proprie attività”, comportamenti che
sconfinano in veri e propri atti criminosi.
La mafia si è configurata, così, come una realtà difficile da identificare, che non poteva
essere “parlata” e, più radicalmente, nemmeno essere “pensata”.
Questo aspetto culturale e psichico del fenomeno è centrale per comprenderlo e
combatterlo, così come comprese e sollecitò il giudice Falcone negli anni novanta.
Per sconfiggere la mafia, per disambiguare la “cultura mafiosa” e quella criminale di Cosa
Nostra, occorre pertanto, oltre a un’elevata specializzazione in materia di criminalità
organizzata, uno sforzo interdisciplinare, che riunisca magistrati, avvocati, forze
dell’ordine, sociologi, antropologi, economisti, psicologi, clinici, ecc., al fine di
comprendere e mettere insieme le multi-sfaccettate questioni psico-antropologiche e
sociali sulle quali le organizzazioni criminali si sono radicate.
E’ questo uno dei compiti che ci siamo dati nel lavoro di elaborazione sulle mafie che da
diversi anni impegna il nostro gruppo di ricerca e a cui proviamo ad aggiungere, qui, un
ulteriore contributo di riflessione.
In particolare, in questo studio, proponiamo i risultati di una ricerca su rappresentazioni,
vissuti ed emozioni delle vittime della criminalità organizzata nel Meridione15.
L’indagine è stata svolta dall’Unità di Ricerca “La condizione delle vittime della criminalità organizzata nel
Meridione: approfondimenti e confronti tra Mafia, Camorra e ‘Ndrangheta” (Responsabile Prof.ssa Francesca
Giannone), nell’ambito di un Progetto di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN-2006), cofinanziato
15
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
L’universo mentale delle vittime è stato un aspetto poco affrontato finora negli studi sullo
psichismo mafioso, eppure esso rappresenta un’importante possibilità di ampliamento
della comprensione del fenomeno e di possibilità di contrastarlo.
Le vittime del racket sono, nello specifico l’oggetto di attenzione. Tra le attività criminali,
infatti, l’estorsione sembra essere quella più pregna di correlati psico-antropologi proprio in
virtù dell’alone di “consuetudine” che l’accompagna. E se si orientano verso nuove e
indubbiamente più redditizie attività illecite, ancora oggi le organizzazioni criminali
sembrano non voler rinunciare al racket.
Questa è certamente un’attività di larghissima estensione, con ricadute drammatiche sullo
sviluppo economico, ma che, riteniamo, assume anche una forte valenza psichica: essa
sembra indispensabile per mantenere salde le fondamenta dell’edificio criminale,
affondandole nella dimensione quotidiana del controllo-sociale, ribadendo chi detiene il
potere sul territorio.
La ricerca sociologica ci indica che il racket delle estorsioni è una piaga dilagante che si
stima coinvolga l’80-90% degli imprenditori siciliani e un numero considerevole di
commercianti e professionisti dei diversi territori (La Spina, 2008). Stime prudenziali
hanno valutato l’ammontare del fenomeno estorsivo in Sicilia in una cifra pari a un
miliardo di euro annui, corrispondenti ad oltre 1,3 punti percentuali del prodotto lordo
regionale del 2006 (Asmundo, Lisciandra, 2008). E tuttavia, la cifra è insufficiente a
misurare l’impatto negativo delle cosche sull’economia e sulla società dell’Isola. Essa si
riferisce, infatti, alla sola quantità di denaro direttamente sottratta alle imprese, ma
l’imposizione generalizzata del racket ha anche l’essenziale funzione di ribadire chi
“comanda” sul territorio: assorbendo liquidità dalle imprese, le organizzazioni criminali
hanno la possibilità di garantire gli stipendi degli affiliati, di mantenere le famiglie degli
associati finiti in galera e coprire le spese processuali… In questo modo esse si assicurano
un controllo sui territori, senza dover ricorrere a dimostrazioni eclatanti quali gli omicidi,
che inevitabilmente portano ad una maggiore attenzione da parte dello Stato (un omicidio
fa notizia, dieci danneggiamenti alle vetrine di dieci negozi vicini no, e questo, anche le
organizzazioni mafiose, lo hanno ben compreso); in questo modo, all’atto particolarmente
violento, esse possono ricorrere solo se questo costituisce l’extrema ratio” (Coppola et al.,
2010)
Nel “Protocollo di indagine in tema di estorsione” (2000), il sostituto procuratore
Maurizio De Lucia afferma che la criminalità organizzata, attraverso le estorsioni, realizza
due obiettivi fondamentali per esistere e progredire: da un lato, considerevoli profitti, con
diverse modalità di realizzazione sul piano operativo; dall’altro lato, un sistematico
controllo del territorio sul quale l’organizzazione agisce, sostanzialmente sostituendosi
allo Stato nella riscossione delle “tasse” e nell’assicurare i corrispettivi servizi di
protezione. Così facendo essa riesce anche ad ottenere “consenso” dai cittadini, vittime in
realtà di un’imposizione.
In questo studio abbiamo provato a mettere a fuoco in che modo le Mafie meridionali
gestiscono, in quest’ambito, il loro potere, e quale mondo psichico si intrecci intorno
all’estorsione.
In particolare, sul versante di quella parte della “società civile”, gli imprenditori ed i
commercianti, che diventano vittime del racket.
dall’Università di Palermo e dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica (MIUR) e coordinato dal
Prof. Girolamo Lo Verso, dal titolo: “La Mafia dentro: la mente, le autonomie e le dipendenze degli uomini di
Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra e nel mondo relazionale di soggetti e gruppi che vivono esperienze
emotive contigue alla malavita organizzata (Approfondimenti clinico-sociali e modelli per il cambiamento)”.
103
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
2. Obiettivo generale:
Obiettivo generale della nostra ricerca è indagare il vissuto delle vittime delle
organizzazioni criminali Mafia, ‘Ndrangheta e Camorra, al fine di comprendere quali
dinamiche psico-relazionali e quali codici trans/culturali entrano in gioco nel complesso e
controverso rapporto tra vittima e sistema criminale, tra vittima e sistemi di supporto.
2.1. Obiettivi specifici:
1. Analizzare i vissuti - in particolare la paura - e le problematiche psicologiche cui le
vittime del racket vanno incontro;
2. Individuare gli eventi e le motivazioni che permettono alla vittima di “rompere” il
silenzio e di formulare una richiesta d’aiuto;
3. Indagare la rappresentazione della rete di supporto delle vittime prima e dopo
l’eventuale denuncia;
4. Analizzare il tipo di aiuto offerto dai sistemi di supporto.
3. Strumenti
1. Un’Intervista semi-strutturata, costruita appositamente per le vittime, che
prevede la raccolta di informazioni relative alle seguenti aree:
- Dati personali (anagrafici, occupazione, ecc.)
- Contatto con la criminalità organizzata e denuncia
- Percezione della presenza della mafia e rappresentazione della rete di supporto
prima della richiesta d’aiuto
- Vissuti e rappresentazione della rete di supporto dopo la richiesta di aiuto
- Rappresentazioni circa l’organizzazione criminale
- Esperienza di essere vittima della criminalità organizzata
- Associazioni libere sui temi della ricerca.
2. La Carta di rete (Fasolo, 1999; Fasolo et al, 2005) che esplora, attraverso una
rappresentazione grafica, le relazioni sociali della persona, in un dato momento
della sua storia, intese come specchio del suo funzionamento mentale.
Lo strumento permette d’indagare diversi tipi di rete:
-
-
104
la rete primaria, che consente di visualizzare gli scambi di reciprocità in ambito
familiare, amicale, del vicinato, ecc.;
la rete secondaria, che ha a che fare con gli scambi di diritto (con istituzioni, servizi
sociali e sanitari, scuola, università...);
la rete secondaria del terzo settore, che esplora gli scambi di solidarietà e di diritto
(volontariato organizzato, cooperative sociali, associazioni, fondazioni,
parrocchie...);
la rete secondaria di mercato, che visualizza gli scambi di denaro con fabbriche, aziende,
negozi, ecc.;
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
-
la rete secondaria mista, che rappresenta gli scambi di diritto e di denaro (con case di
cura, cassa integrazione...).
4. Partecipanti
Hanno partecipato alla ricerca un gruppo di 29 soggetti, di cui 12 commercianti e
17 imprenditori, così distribuiti nelle tre regioni oggetto d’indagine: 11 in Sicilia, 6 in
Calabria e 12 in Campania.
Essi sono stati contattati grazie alla collaborazione delle Associazioni antiracket presenti
nelle tre regioni (rispettivamente, Addio Pizzo, Libera e le Associazioni Antiracket
Imprenditori e Commercianti di Napoli e provincia).
Tranne una piccola percentuale (10%), infatti, quasi tutti i soggetti intervistati sono
membri delle Associazioni antiracket. Queste hanno consentito d’incontrare soggetti
“disposti a parlare”, intorno a temi che certamente sollecitano una condizione emotiva
impegnativa e delicata. E’ proprio grazie alla dimensione tutelante veicolata dalle
Associazioni (e, spesso, anche dalla discreta presenza dei loro presidenti) che tutte le
persone che abbiamo incontrato sono state disponibili a raccontarsi, nonostante alcune di
loro fossero impegnate in situazioni oggettivamente, oltre che emotivamente,
particolarmente difficili (in fase di denuncia). In particolare in Calabria, un mondo che
ancora di mafia non parla volentieri.
Quasi tutti (86%) sono stati contattati dalla criminalità organizzata.
Soltanto il 14% non ha ricevuto una richiesta estorsiva. A questi ultimi abbiamo rivolto
domande relative solo ad alcune aree del format dell’intervista.
5. Risultati
Le interviste
Presenteremo, qui, alcuni dei risultati emergenti dall’analisi delle interviste16.
Un primo dato su cui vogliamo richiamare l’attenzione è che più della metà dei
partecipanti alla ricerca (55%) non aveva mai pensato alla possibilità d’imbattersi in storie
di pizzo e/o racket prima di intraprendere la propria attività (tab. 1).
tab. 1
Quando progettava la sua attività aveva mai pensato alla possibilità
d’imbattersi in storie di pizzo o racket?/ Si era mai prefigurato una
richiesta estorsiva?
%
Non si aspettava la richiesta estorsiva
55
Si aspettava la richiesta estorsiva
41
Non viene effettuata la domanda (n.d.)
3
totale
100
Per ragioni di spazio inseriremo soltanto alcune tabelle, quelle che ci sembrano mostrare i risultati
qualitativamente più significativi.
16
105
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Se mettiamo questo dato in rapporto con le risposte ad un’altra domanda, relativa alla
consapevolezza dell’attività di controllo esercitata dai clan criminali nella zona in cui i
soggetti esercitano, risulta che la maggior parte di loro (62%) risponde affermando la
presenza di un forte controllo da parte dei clan criminali nelle zone in cui esercitano le
proprie attività (tab. 2).
tab. 2
Nella zona dove lei esercita, l’attività di controllo dei clan
mafiosi/criminali è forte?
%
Si, l'attività di controllo dei clan criminali è molto forte
62
Era molto forte, prima delle denunce e delle Associazioni antiracket
No, l'attività di controllo dei clan criminali non è molto forte nella zona dove
esercita
10
Non sa
7
n.d.
14
totale
100
7
Emerge dunque un’incongruenza tra queste risposte, che sembra essere il risultato di una
scissione, ma viene in parte spiegata da quanto la gran parte dei soggetti (76%) risponde ad
un’altra domanda sulla percezione del fenomeno criminale: “La situazione è pesante, ma la
percezione è sfumata…poiché si è abituati a questi fatti; l'estorsione diventa un fenomeno normale…”
(tab. 3). Come se la consuetudine, la presenza “culturale” costante, rendesse “normale”
l’esistenza della mafia: qualcosa di cui diventa possibile “dimenticarsi”, fino a quando non
entra prepotentemente nella propria vita.
tab. 3
Com’è la percezione di questo fenomeno?/E' una situazione pesante
oppure c'è una sorta di abitudine, di "normalità" di questi fatti?
%
La situazione è pesante, ma la percezione sembra sfumata, si è abituati a questi
fatti; l'estorsione diventa un fenomeno normale; la maggior parte dei
commercianti paga, pensando di poter ricevere favori, protezione ed assistenza
76
La situazione sembra essersi alleggerita con le Associazioni antiracket; è
pesante, ma si può reagire con messaggi chiari
7
n.d.
17
totale
100
Un altro tema che ci sembra interessante proporre all’attenzione è la fenomenologia del
primo contatto con gli estorsori: dalle interviste emerge, infatti, “un’arte della strategia
della richiesta”, così come “un’arte del sottrarsi”, e peculiarità che differenziano l’operato
delle organizzazioni criminali delle tre regioni. Nella maggior parte dei casi (62%), il
contatto è personale, diretto: l'estorsore va in azienda e cerca il titolare (a lui chiede la
somma o propone un incontro con il mafioso/camorrista/'ndranghetista) (tab. 4).
106
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
tab. 4
Le va di raccontarmi come sono avvenuti i primi contatti con la
criminalità organizzata?
%
Direttamente: l'estorsore va in azienda e cerca il titolare (a lui chiede la somma
o propone un incontro con il mafioso/camorrista/'ndranghetista)
62
Indirettamente: tramite lettere e/o telefonate
24
Non ha ricevuto richieste estorsive
14
totale
100
L’analisi qualitativa delle risposte ci mostra però alcune differenze tra le modalità adottate
in Sicilia e Campania, più simili tra loro, e quelle utilizzate in Calabria, in cui le richieste
avvengono in maniera indiretta.
- In Sicilia la violenza mafiosa, non si manifesta solamente attraverso atti violenti quali
l’omicidio; essa raggiunge le sue vittime attraverso un linguaggio codificato a livello
psico-antropologico che tende ad annientare la vittima, la quale riconosce il messaggio
e il mittente. L’estorsione è un reato che può essere praticato solo se chi lo compie
riesce a incutere paura alla sua vittima in modo efficace e con effetti duraturi nel
tempo (Coppola et al., 2010). Significative in questo senso sono le parole di Tommaso
Buscetta:“Quando mi presento a lei, lei deve sentire il mio peso e deve sentirlo velatamente. Io non
verrò mai a minacciarla, verrò sempre sorridente e lei sa che dietro quel sorriso c’è una minaccia che
incombe sulla sua testa. Io non verrò a dirle: le farò questo. Se lei mi capirà bene; se no ne soffrirà le
conseguenze” (Grasso T., Varano A., 2002). Le interviste che abbiamo raccolto in Sicilia
illustrano bene queste modalità di relazione. In Sicilia risulta un minor numero di atti
intimidatori, e quando essi si verificano vanno dall’attack nelle serrature, alle minacce
ai familiari e ai dipendenti, alle rapine e agli incendi.
- Una situazione simile è stata rilevata anche in Campania con atti intimidatori più
violenti che includono sequestri e percosse. In questa regione accade, generalmente,
che “i galoppini” (ragazzi molto giovani manovrati dai capi) si presentino in azienda e
chiedano di parlare con il titolare. Pretendono contributi in denaro sotto forma di
“assistenza sociale” (es. per i carcerati o le famiglie dei carcerati). Normalmente, per
cominciare, le somme richieste non sono grosse (al massimo equivalgono ad uno
stipendio). Ed è questa la ragione per cui diversi commercianti ed imprenditori,
all’inizio, non denunciano. Poi però le richieste aumentano, si passa a somme più
cospicue, i “regalini” non bastano più e, se ci si oppone, l’organizzazione criminale
cerca di ostacolare l’attività, di diffondere la paura tra i dipendenti: paura che contagia
e si moltiplica cosicché il titolare si sente addosso la responsabilità di tutti quelli che
lavorano per lui.
- La Calabria, infine, è la regione in cui abbiamo rilevato con maggiore frequenza
modalità estorsive violente, implicanti oltre al danneggiamento alle attività, anche
minacce di morte ai responsabili stessi delle attività e ai loro familiari. La modalità
iniziale della richiesta della ‘Ndrangheta, descritta dai nostri intervistati, è un
susseguirsi serrato di lettere e telefonate fino all’incendio dell’attività. Successivamente
gli incendi si verificano più e più volte. Oltre che infliggere danni all’attività, gli
estorsori effettuano minacce a casa degli imprenditori/commercianti: sparano alle
107
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
finestre, alle macchine, minacciano l’incolumità dei familiari (minacce di morte e
sequestri).
Abbiamo chiesto ai nostri soggetti come si sono sentiti dinanzi alle richieste.
A questa domanda la maggior parte (38%) ha risposto d’aver provato rabbia, indignazione,
umiliazione, mortificazione, offesa morale, accompagnate al desiderio di reagire. Altri
(31%) hanno indicato paura, tensione; insicurezza, ansia, preoccupazione... e il bisogno di
tenere i nervi saldi e ancora (10%) demoralizzazione, impotenza, profanazione della
propria dignità, stato iniziale di shock. Solo una piccola percentuale (3%) ha risposto di
non aver provato nulla di particolare … poiché considerava la richiesta una cosa normale,
come una sorta di tassa.
Complessivamente, emerge una drammatica sudditanza psicologica e una grande
sofferenza relativa soprattutto alla perdita della libertà (d’azione e di pensiero). Le
continue pressioni psicologiche inferte dalla mafia hanno significative e inevitabili ricadute
sul piano familiare, sociale, sul benessere psico-fisico oltre che su un piano economico. Il
senso di fallimento che pervade la mente della vittima, soprattutto nelle fasi iniziali, è
molto profondo. La mafia produce uno schianto psichico enorme, confusione, paura, calo
dell’autostima, cambiamento dell’identità, rotture e frammentazioni nelle reti sociali. E
tutto questo non può che generare sofferenza (tab. 5).
tab. 5
Come si è sentito dinanzi a tali richieste? Quali pensieri, quali emozioni?
Paura, tensione; insicurezza, ansia, preoccupazione... Bisogno di tenere i nervi
saldi.
Rabbia, indignazione; umiliazione, mortificazione, offesa morale... Desiderio di
reagire.
Demoralizzazione, impotenza, profanazione della propria dignità; iniziale stato di
shock.
%
31
38
10
Niente di particolare: era una cosa normale (come una tassa)
3
Non ha ricevuto richieste estorsive
14
n.d.
3
totale
100
Ciononostante, alla domanda “Come ha reagito alle richieste?” la maggior parte dei
soggetti (38%) risponde di aver denunciato subito o comunque molto presto.
Come prima accennato, è interessante sottolineare la modalità inizialmente irrisoria della
richiesta estorsiva poiché essa ha potenziale dissuadente rispetto all’idea di denunciare,
trasformandosi pian piano in una trappola da cui diventa difficile uscire. Molti soggetti, a
questo proposito, sottolineavano l’importanza di non aderire fin dal principio alle
richieste.
Reagire, comunque, sembra diventato possibile anche se non può essere sottovalutato
l’impegno emotivo che comporta (tab. 6).
108
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
tab. 6
Come ha reagito alle richieste?
%
Denuncia subito
38
Denuncia alla richiesta di estorsione vera e propria (prima regalie)
Denuncia dopo aver pagato
Denuncia dopo aver contrattato e per l'intervento della polizia
10
14
7
Non denuncia, ma si rifiuta di pagare
Non ha denunciato. Ha pagato piccole somme (che non considera estorsione
vera propria.. ) e/o ha fatto piccoli favori
3
Non ha ricevuto richieste estorsive
14
n.d.
7
totale
7
100
Alla domanda: “Com'è arrivato all'idea di denunciare/Cosa la spingeva a farlo? C'è
stata una molla particolare che l'ha fatta decidere?” la maggior parte dei denuncianti
(soprattutto tra coloro che hanno denunciato subito) affermano di averlo fatto per:
mentalità legale, concezione della vita e rispetto di sé (38%); altri per reazione ad
un’intimidazione più violenta rispetto alle precedenti richieste o perché l’estorsione non
era più sostenibile (si stava trasformando in una vera e propria percentuale sui guadagni)
(17%); una percentuale inferiore ha denunciato per l’intervento della polizia (10%) e
l’essere venuti a conoscenza dell’esistenza di un servizio antiracket e della possibilità di
aderire ad un’associazione (3%). Va sottolineato tuttavia che la denuncia, la “rottura del
silenzio, solo per un piccolo gruppo (estratto tra coloro che hanno denunciato subito) non
ha comportato esitazioni, mentre un gruppo più folto, pur nutrendo l’idea ed il desiderio
di denunciare, si è imbattuto in “freni” che, se non hanno necessariamente posticipato la
denuncia l’hanno certamente resa molto travagliata(tab. 7).
tab. 7
Com'è arrivato all'idea di denunciare/Cosa la spingeva a farlo? C'è stata
una molla particolare che l'ha fatta decidere?
%
Per "mentalità legale", per concezione di vita e rispetto di sé.
Per reazione ad un'intimidazione più violenta rispetto alle precedenti richieste
(l'incendio del magazzino); perché la richiesta estorsiva non era più sostenibile
(richiesta di percentuale sui guadagni).
L'aver saputo dell'esistenza del servizio antiracket al comune e l'aver costituito
l'associazione.
Su sollecitazione della polizia.
38
Non ha denunciato…
7
Non ha ricevuto richieste estorsive.
14
n.d.
10
totale
100
17
3
10
Tuttavia, alla domanda “Ha mai avuto ripensamenti rispetto all'aver denunciato?”
nessuno, tra i denuncianti, dice di avere mai avuto “ripensamenti” (69%), ciò perché la
109
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
denuncia più che un valore legale sembra avere un valore morale, poiché permette di
sgravarsi da un pesante giogo economico ed emotivo. A questo proposito un imprenditore
racconta che l’aspetto più doloroso, nel momento in cui consegnava i soldi in mano
all’estorsore, era dover trovare quel filo di voce per poter dire: “Tieni e scusa se e poco”; e
un altro: “Ma diciamo … come mi sono sentito? Ehm, la cosa è … è molto umiliante,
cioè... farti calpestare la tua morale, la tua persona, farti mettere … farti mettere sotto i
piedi, in effetti chi paga il pizzo secondo me è uno schiavo, cioè parliamo di schiavitù”.
Alla domanda: “Come si è sentito nel prendere questa decisione?/Dopo aver
denunciato?” I denuncianti hanno risposto per la maggior parte di sentirsi liberi, sgravati
di tanta tensione, a posto con la propria coscienza, coraggiosi ed in pace con se stessi
(48%). Accanto a questi aspetti positivi, tuttavia, ne emergono altri, di carattere più
ambivalente, ovvero: una residua sensazione di paura rispetto alle ripercussioni sulla
propria famiglia (10%), e sentimenti di delusione rispetto alle aspettative di protezione da
parte della polizia (3%) (tab. 8).
tab. 8
Come si è sentito nel prendere questa decisione?/Dopo aver denunciato?
Libero, tranquillo, leggero, a posto con la propria coscienza, consapevole di star
facendo la cosa giusta, coraggioso ed in pace con sé stesso...
Preoccupato per le ripercussioni emotive sulla propria famiglia ma coraggioso,
tranquillo e consapevole di star facendo la cosa giusta; paura ma un forte
desiderio di superarla
Deluso, abbandonato dalla polizia
%
48
10
3
Non ha denunciato…
7
Non ha ricevuto richieste estorsive
14
n.d.
17
totale
100
Alla domanda “Cosa vuol dire essere vittima per lei?”
In accordo con quanto detto prima, il sentimento del sentirsi vittima si sostanzia
soprattutto nel sentire di “subire abusi, sopraffazioni e violenza. Non essere libero... Non
poter reagire” (52%); nel “non avere sostegno né aiuto da parte delle istituzioni, né di
nessun altro. Avere solo doveri e niente diritti” (17%), e anche, ma in percentuale minore,
nell’ “aver pagato sia a livello economico che familiare (7%). Una donna intervistata
esprime così il proprio essersi sentita vittima: “Mancanza di un sostegno, immediato. Non che
passano mesi, mesi e mesi e tu ti vedi con le spalle al muro. Ci vorrebbe l’appoggio. A dire: io per il
momento ti aiuto, che cosa ti serve? Ti blocco tutti i pagamenti, ti do una cifra per poter mangiare, ti parlo
di mangiare, non ti parlo di andarti a fare i bagni, o di andarti a vedere il cinema, di mangiare giorno per
giorno... e là io mi sono sentita vittima, perché per mesi, dico veramente con ... un dolore dentro … io per
mesi io e mio marito non abbiamo dormito la notte, ma veramente non abbiamo dormito, perché il giorno
dopo non sapevamo come andare avanti, non sapevamo come poter pagare una bolletta della luce …".
Ci siamo chiesti anche come e quanto la percezione dei sistemi di supporto possa incidere
nella scelta di ribellarsi alle organizzazioni criminali. A questo proposito emergono
percentuali che denunciano la carenza di supporto da parte di colleghi (24%), della società
civile (34%), del comune (il 41%) e dello Stato (41%).
110
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
Interessante è la percezione della rete di supporto rispetto alle Forze dell’Ordine, in
territori (dell’Italia meridionale), in cui storicamente Forze dell’Ordine e popolazione
difficilmente hanno un rapporto positivo: il 41% del gruppo sostiene di aver avvertito
protezione e vicinanza e soltanto il 10% dice di non essersi sentito tutelato.
Forte, infine, e decisivo per molti aspetti, appare il supporto da parte delle associazioni
antiracket. L’esperienza umana, il contatto diretto con i presidenti delle Associazioni,
hanno spinto ad aderire all’Associazione antiracket (45%); per altri è stato l’invito di
colleghi amici-commercianti (21%); per il 14% il desiderio, essendo a conoscenza delle
iniziative dell’Associazione, di consigli, conforto, maggiore sicurezza.
Degna di nota, in termini qualitativi, ci sembra anche la motivazione espressa da alcuni
degli intervistati (3%), che hanno indicato come la frase diffusa da Addiopizzo: "Un
popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità" li abbia indotti a riflettere e ad
avvicinarsi all'associazione (tab.9).
tab. 9
Come è entrato in contatto con l'Associazione?/Cosa l'ha spinta a fare
questa scelta?
L'esperienza umana (contatto diretto) con i presidenti delle Associazioni ha
spinto a creare e/o aderire all'associazione antiracket
%
45
Altri colleghi "amici-commercianti" dell'associazione antiracket lo hanno
invitato ad aderire all'iniziativa
21
Conoscendone le iniziative si è rivolto all'Associazione Addiopizzo per avere
consigli, conforto.. maggiore sicurezza
14
La frase diffusa da Addiopizzo: "Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza
dignità" lo ha indotto a riflettere e ad avvicinarsi all'associazione
3
Non è membro di associazioni antiracket
10
n.d.
7
totale
100
Le associazioni antiracket, dunque, svolgono tre compiti fondamentali (La Spina, 2008):
vincere la solitudine di chi è oggetto di estorsione (condividere con altri i propri sospetti,
timori, preoccupazioni, permette alla vittima di sentirsi più sicura e più forte); operare un
raccordo fra le vittime del racket e le istituzioni (consentono la diffusione della cultura
della legalità); garantire una valida prospettiva di sicurezza (grazie alla natura collettiva
della denuncia, il singolo è salvaguardato dai rischi di rappresaglie). Esse rappresentano un
vero e proprio motore personale di ripresa e di contenimento per chi si imbatte in storie di
racket: i colleghi dell’associazione divengono cari amici che sanno non solo comprendere
ciò che ti è accaduto, ma che possono rimanere al tuo fianco mentre affronti il percorso di
“liberazione” e il travaglio delle scelte legate a tale atto.
La carta di rete
Quanto emerso dalle interviste, trova riscontro nei dati offerti dalla “Carta di Rete”
(Fasolo F., 1999).
111
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
In particolare riguardo alla percezione delle reti di supporto, emerge la quasi totale
assenza delle reti secondarie formali (istituzioni, forze dell’ordine, ecc.) e una notevole
povertà delle reti secondarie informali (volontariato organizzato, fondazioni, associazioni,
parrocchie, ecc.).
Questo dato, apparentemente discordante con i temi emersi nelle interviste, trova la sua
spiegazione nel fatto che i partecipanti alla ricerca, molto spesso, inseriscono i componenti
delle associazioni antiracket, ma qualcuno anche i poliziotti da cui ha ricevuto protezione,
nelle reti primarie (attinenti gli ambiti familiari, amicali, ecc.).
Queste ultime rappresentano la tipologia di rete maggiormente presente, nella stragrande
maggioranza dei disegni eseguiti dai partecipanti alla ricerca. In esse, troviamo i
componenti delle associazioni antiracket (presidenti ed altri associati) che sono percepiti
come persone vicine e non come organizzazioni formali. I commercianti e gli imprenditori
vivono momenti di grande solitudine e abbandono, sia prima che dopo la denuncia, tali
vissuti potrebbero indurre all’abbandono di tutto se non si trovasse una rete intima di
sostegno, rete in cui, a volte, più che la famiglia gioca un ruolo fondamentale, appunto,
l’Associazione di cui si fa parte.
6. Conclusioni
Il lavoro di ricerca condotto, ha aperto alcuni nuovi elementi di conoscenza su un
mondo psichico fin qui ancora inesplorato, e cioè i pensieri, le emozioni, l’esperienza delle
vittime del racket delle tre grandi organizzazioni criminali del meridione d’Italia: la Mafia, la
Camorra e la ‘Ndrangheta.
Abbiamo indagato su cosa significhi ricevere una richiesta estorsiva e decidere di
denunciare, su quali vissuti si correlino a tali esperienze, su cosa renda possibile l’avvio di
percorsi trasformativi, la rottura del silenzio, su quali siano le fonti di disagio e quelle di
sostegno.
Chi ha denunciato ci ha mostrato cosa significa vivere prima e dopo la denuncia: il
profondo senso di abbandono, la costante paura, dietro ad un vicolo buio, davanti al
proprio portone, a casa dei propri figli, o sul proprio posto di lavoro. Questo è, certo, il
“prezzo” più duro di tutta la vicenda.
Dinanzi alle richieste estorsive ci si sente impotenti, senza forze, soprattutto perché si ha
molta sfiducia nei confronti delle istituzioni e fa male il senso di mancato sostegno, a volte
di aperta condanna da parte degli altri cittadini, dei vicini, degli amici. Fa male
l’inopportunità della politica e la sua incapacità di fare scelte utili a proteggere i cittadini.
Ma il senso di libertà che la denuncia ha prodotto, la possibilità di sentire che rientri a casa
dopo avere lavorato per costruire e non più per saldare debiti insaldabili, consente a questi
uomini e a queste donne, di provare sollievo per aver fatto questa scelta.
Nessuno degli imprenditori e dei commercianti intervistati ha detto che tornerebbe
indietro al periodo prima della denuncia, nonostante la paura che le forze dell’ordine non
potranno essere sempre al loro fianco, nonostante l’idea che anzi, spesso “all’indomani”
della denuncia, queste non potranno più fornire adeguata protezione, e lo Stato
s’assenterà.
Emerge forte l’importanza di non reagire in modo individuale all’estorsione, magari sotto
la spinta della rabbia. Ciò che è sentito come un’arma importante, sempre più diffusa,
contro il potere delle organizzazioni criminali, un’efficace “antidoto” per contrastarne le
112
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
pressioni, è invece l’Associazionismo anti-racket: nelle Associazioni è possibile trovare
“consigli, conforto, maggiore sicurezza”.
Ancora un tema sensibile è se denunciare sia un atto “eroico”. Dalle risposte di chi ha
subito ricatti, minacce, intimidazioni, favori, violenza, “finti privilegi”, sembra emergere
piuttosto un’altra interpretazione: le persone che abbiamo intervistato non si sentono
“eroi”, si sono faticosamente assunte la responsabilità di lottare, ogni giorno, per ciò che
ritengono utile.
“L’intraprendenza, la voglia di realizzare qualcosa, di fare qualcosa in più, la fiducia in sé
stessi”, caratterizzano la quota più consistente del nostro campione, e “mentalità legale,
concezione della vita e rispetto di sé” sono le ragioni, che con la frequenza maggiore,
hanno portato a reagire all’imposizione mafiosa, a non accettare “di non essere liberi, di
subire abusi, sopraffazioni, violenze”.
Sono queste, allora, le caratteristiche che consentono di sconfiggere le mafie?
Il tema della dignità e del rispetto per sé stessi emerge con forza. E’ uno dei temi forti del
pensiero siciliano, uno di quelli che la mafia strumentalizza quando parla di “onore”.
L’onore, la dignità, interpretati, questa volta, in direzione della legalità, dell’affermazione
del diritto di essere liberi, e vivere, grazie al proprio lavoro, una vita “normale”.
Forse per questo ha avuto tanta fortuna la frase con cui Addiopizzo ha iniziato la sua
attività: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.
Allora proteggere se stessi, nel senso della propria libertà e dignità di esistenza è il compito
intrapreso, che va rilanciato ed esteso nel sociale.
E l’apertura di una possibilità praticabile di reagire alle richieste mafiose, la possibilità di
denunciare, immediatamente o anche in seguito a un percorso sofferto e travagliato, il
riconoscimento del grande valore delle reti di supporto: queste, ci sembra, sono le
comunicazioni che introducono un elemento di novità e di speranza nel pensiero
monolitico sulla mafia e sulla sua minacciosità.
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
gruppi nel sociale
Lo sviluppo economico e della persona in contesti mafiosi:
il ruolo dei beni relazionali17
Antonino Giorgi, Chiara D’Angelo, Francesca Calandra
Riassunto
Il lavoro che proponiamo si pone un duplice obiettivo: delineare alcune linee di riflessione
per il superamento del pensiero mafioso in Sicilia e, allo stesso tempo, contribuire a rafforzare il
paradigma teorico-metodologico gruppoanalitico attraverso il dialogo con il concetto di bene
relazionale. In questa cornice di dialogo e di confronto lo sviluppo psichico, sociale ed economico
influenzandosi reciprocamente possono determinare una forte ricaduta nel contesto sociale degli
individui. Il bene relazionale diventa così non solo crocevia interdisciplinare, ma anche strumento
che può contribuire a realizzare adeguati programmi di sviluppo locale in contesti intrisi di pensiero
mafioso.
Parole chiave: beni relazionali, sviluppo, pensiero mafioso
Economic and Personal Development in Mafia Contexts: The Role of Relational Goods
Abstract
The work we present has a double purpose: sketching some thinking guidelines to
overcome the typical Sicilian Mafia mindset and, at the same time, helping reinforcing the
theoretical-methodological paradigm of group analysis by means of a dialogue with the concept of
relational good. In this framework of dialogue and confrontation, since psychical, social and
economic developments influence each other, they can determine a strong repercussion in the
social context of individuals. Relational good thus becomes not only an interdisciplinary
intersection, but also a tool which can significantly help fulfilling suitable programs of local
development.
Keywords: relational goods, development, Mafia thinking mindset
Il lavoro che presentiamo, pur essendo un lavoro di nuova produzione, riprende, in alcune parti,
elaborazioni teoriche proposte da Giorgi A., già apparse in Narrare i Gruppi - Settembre 2008.
17
115
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
1. Premessa
Con questo lavoro, attraverso il concetto di bene relazionale, intendiamo proporre
alcune riflessioni sul pensare mafioso in Sicilia, ma anche contribuire a rafforzare il modello
teorico-metodologico della gruppoanalisi laddove essa si occupa delle trasformazioni
sociali. In questa direzione, il concetto di bene relazionale, ponendosi come crocevia
interdisciplinare tra gli attuali studi economi (Sacco e Zamagni, 2006; Bruni, 2006; Bruni e
Porta, 2006; Bruni e Zamagni, 2004) e le basi teoretiche della gruppoanalisi soggettuale
(Lo Verso, 1994; Pontalti, 1998; Fasolo, 2002; Lo Coco e Lo Verso, 2006; (Brunori, 2004;
Prestano e Lo Verso, 2006), può diventare uno strumento reale e concreto in grado di
spingere verso la realizzazione di adeguati modelli di sviluppo economico e della persona
in Sicilia e in realtà sature di cultura mafiosa.
2. I beni relazionali
Il bene relazionale, categoria (e fatto empirico) direttamente connessa alla
reciprocità, è stato introdotto nel dibattito scientifico quasi contemporaneamente da
quattro autori: il sociologo Donati (1986), gli economisti Gui (1987) e Uhlaner (1989) e la
filosofa Nussbaum (1986). Quest’ultima, differenziandosi degli altri, considera i beni
relazionali esperienze umane dove è la relazione in sé a costituire il bene. Amicizia, amore
reciproco e impegno civile sono tre tipici beni relazionali nei quali è la relazione stessa ad
essere il bene. In questo senso essi nascono e muoiono con la relazione. Ancora, i beni
relazionali sono molto fragili, vulnerabili, e sono destinate a non essere per nulla
autosufficienti (Nussbaum, 1986).
Bruni (2006), alla luce della letteratura scientifica sui beni relazionali e attraverso proprie
elaborazioni, classifica i beni relazionali come un terzo genus rispetto alle tipiche categorie
di bene pubblico e privato. In sostanza, i beni relazionali sono una specifica categoria di
beni e hanno, di conseguenza, peculiari caratteristiche di base:
“a) identità: l’identità delle persone coinvolte è un ingrediente fondamentale;
b) reciprocità: perché beni fatti di relazioni, essi possono essere goduti solo nella
reciprocità;
c) simultaneità: a differenza dei normali beni di mercato dove la produzione è
tecnicamente distinta dal consumo, i beni relazionali vengono co-prodotti e coconsumati contemporaneamente dalle persone coinvolte;
d) motivazioni: nelle relazioni di reciprocità genuine la motivazione che è dietro il
comportamento è una componente essenziale. Lo stesso incontro, per esempio una
cena, crea anche beni relazionali o soltanto beni standard in base alla motivazione dei
soggetti. Se il rapporto non è un fine, ma solo un mezzo per qualche altra cosa (fare
affari) non è possibile parlare di beni relazionali. Ciò non significa che in un rapporto di
affari non si possa creare un autentico bene relazionale;
e) fatto emergente: il bene relazionale emerge all’interno di una relazione. La categoria di
fatto emergente coglie più della categoria economica della produzione la natura di un
bene relazionale. Dire che si tratta di un fatto emergente mette l’accento sul fatto che il
bene relazionale è un terzo che eccede i contributi dei soggetti coinvolti, e che in molti
casi non era neanche tra le intenzioni iniziali;
f) gratuità: nel senso che il bene relazionale è tale se la relazione non è usata per altro. Se è
vissuta in quanto bene in sé, se nasce da motivazioni intrinseche. Il bene relazionale è un
116
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
bene dove la relazione è il bene, cioè una relazione che non è un incontro di interessi ma
di gratuità;
g) bene: nel senso che esso è un bene e non è una merce, ha cioè un valore (perché
soddisfa un bisogno) ma non ha un prezzo (appunto per la gratuità)” (Bruni, 2006: 1617-18).
Questo significa che il bene relazionale ha un importanza duplice: sociale ed economica.
In sostanza, suggeriscono Sacco e Zamagni (2005), assumono particolare importanza, nel
favorire l’attività economica, quelle relazioni interpersonali che formano dei veri e propri
beni relazionali, che danno luogo a diffusione di conoscenza, funzioni di regolazione e
protezione, nonché funzioni di coordinamento e sostegno sociale, permettendo così la
cooperazione e la reciprocità.
Dal nostro punto di vista, riteniamo necessario elaborare una teoria dei beni relazionali
all’interno di un quadro concettuale interdisciplinare ed epistemologicamente complesso e
proprio perché il bene relazionale verte soprattutto su concetti/aspetti squisitamente
psico-relazionali, riteniamo che qualunque riflessione scientifica su di esso non possa
assolutamente prescindere dalla più che ventennale produzione scientifica della psicologia
ad orientamento relazionale.
In realtà, già alcuni seminari di studio tenutisi a Venezia nell’anno 2000 e organizzati dalla
“Group Analytic Society ” sul tema “Il denaro e il suo significato a partire dal gruppo”, hanno avuto
un valore fondativo. Durante il loro svolgimento, infatti, a cui parteciparono noti psicologi
gruppoanalisi ed economisti, fu inaspettatamente chiaro quanto gli odierni studi economici
ad orientamento relazionale siano rivelatori della forte vicinanza tra la teoria economica
dello sviluppo sostenibile ed alcuni fondamentali assunti teorici della gruppoanalisi. In
particolare le categorie di bene relazionale e di relazionalità umana, si rivelarono il nesso
comunicativo e interdisciplinare fra le due analisi disciplinari. Questo nesso si è reso
visibile durante alcune giornate di studio in cui si discuteva di denaro e relazioni gruppali. I
contenuti relazionali del gruppo e il processo di acquisizione delle risorse che la persona
mette in atto mostravano degli elementi di contiguità veramente particolari. In sostanza,
ancora nell’approfondimento e nello scambio che ci fu sull’argomento, si fece sempre più
chiara una sovrapposizione quasi totale tra le regole del gruppo volte alla ricerca dello
sviluppo individuale e l’acquisizione di risorse/capacità economiche. Non stupisce, quindi,
che gli psicologi si siano appropriati del concetto di beni relazionali in una forma del tutto
specifica legata all’epistemologia psicologica.
3. Gruppoanalisi soggettuale e beni relazionali
Per la gruppoanalisi soggettuale la relazione è qualcosa in più di un bene. Essa è il
cuore della vita stessa. Dalla relazione l’uomo nasce, da essa viene concepito, senza un
mondo relazionale egli non diventerebbe umano. I concetti di gruppo interno (Napolitani,
1987), famiglia interna e campo psichico familiare (Pontalti, 1998), transpersonale (Lo
Verso, 1994), ci hanno aiutato a cogliere i nessi tra esperienza relazionale ed identità. La
nostra elaborazione sviluppa alcune intuizioni di Foulkes (il gruppo è la matrice della vita
mentale). In questa prospettiva l’Io è anche l’Altro. I concetti di identificazione e
concepimento familiare integrano questo quadro che punta a realizzare, a livello
terapeutico, lo sviluppo della soggettività e dell’individuazione personale come condizione
per convivere con le relazioni dentro e fuori di sé (Prestano e Lo Verso, 2006).
117
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
La gruppoanalisi soggettuale, inoltre, è un contributo modellistico che è stato ed è sempre
più arricchito dalle già citate elaborazioni etnopsicoanalitiche (Nathan, 1996), dagli
sviluppi degli studi sulla famiglia (Cigoli, 2006), dalle moderne ricerche delle neuroscienze
(Siegel, 2001), e da altri sviluppi della gruppoanalisi stessa, sia quella italiana più volte
citata, che quella inglese (Dalal, 2002; Pines, 2000; Brown e Zinkin, 1996). A tutto ciò
vanno ovviamente aggiunti gli sviluppi epistemologici, la pratica clinica e di supervisione,
la ricerca empirica sulla psicoterapia, le esperienze innovative fatte nella psichiatria
pubblica (Fasolo, 2002; Barone, 2006) e le ricerche sulla psicologia mafiosa che qui
interessano particolarmente (Lo Verso, 2005, 2013).
Il modello gruppoanalitico si pone anche come cornice teorico-esplicativa e pratica
clinico-sociale in grado di offrire, all’interno di un nuovo discorso multi-disciplinare sullo
sviluppo umano, importanti contributi conoscitivi e altrettanti modelli di cambiamento
psico-sociale. Infatti, la connessione alle teorie economiche non è affatto un compito
nuovo per la gruppoanalisi, anche se nuova è la possibilità di reciproco arricchimento,
essendo lo specifico della sua teorizzazione quello di collegare la persona al contesto, è
quindi impossibile evitare di confrontarsi con gli aspetti economici, sia di micro che di
macrosistema. In sostanza, in epoca di migrazioni, globalizzazione, sviluppi economici
straordinari ed insieme terrificanti per le ingiustizie, le violenze, le distruzioni umane e
ambientali, la gruppoanalisi può aiutare a far capire il valore positivo, per noi stessi,
dell’Altro e della differenza. Essa può anche fornire strumenti potenziali che aiutino il
processo di civilizzazione che la nostra specie deve fare nel terzo millennio pena il suo
imbarbarimento. L’apprendimento della tolleranza e della relatività delle verità individuali,
familiari e culturali richiede anche una maturazione emotiva e relazionale. Siamo d’accordo
con l’idea che non vi potrà essere un’ecologia reale se non vi sarà un’ecologia interna e
relazionale.
3.1. Gruppoanalisi soggettuale, beni relazionali e beni posizionali
Nel concetto di bene relazionale l’attributo di bene richiama i concetti di funzione di
produzione e di inputs. Infatti, è possibile immaginare la relazione interpersonale come una
particolare funzione di produzione che combina inputs materiali ed inputs intangibili di
natura psico-affettiva, al fine di ottenere sia beni di natura strettamente economica che
beni relazionali.
Per la gruppoanalisi soggettuale i beni relazionali sono quelle relazioni che, attraverso il
riconoscimento cognitivo-affettivo dell’Altro come soggettività autonoma, favoriscono sia
lo sviluppo e il benessere personale che la capacità di ottimizzare risorse economiche e/o
sviluppare/orientare intenzioni imprenditoriali verso modalità sostenibili e solidali, piuttosto
che predatorie e depauperanti. In determinate condizioni, infatti, possono emergere beni
relazionali tra due o più persone quando queste condividono, in un dato momento e in un
dato contesto, anche transitoriamente, sia obiettivi simili sia di diversa natura.
Gli stessi economisti sostengono che tra gli inputs che subentrano in tale processo
produttivo è possibile individuare i cosiddetti relational assets la cui esistenza e la cui entità
dipendono dal numero, dalla qualità, dall’intensità delle precedenti interazioni avvenute tra
le persone. Bruni (2006), infatti, concentra l’attenzione sulla natura dinamica dei beni
relazionali, cercando di fornire un modello capace di analizzare alcune dimensioni della
dinamica della relazionalità condivisa e costruita nel tempo. Sembra che la storia relazionale
che s’istituisce tra le persone sia un elemento molto importante, per certi versi fondante,
per poter far in modo che emergano beni relazionali. Il tipo e la qualità della relazione,
infatti, è influenzata non solo dallo sforzo corrente che le persone esercitano, ma anche e
118
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
soprattutto dagli sforzi passati che costituiscono lo stock di beni relazionali dei periodi
precedenti (Bruni e Naimzada, 2006). La qualità (o il tipo) della relazione, secondo Bruni e
Zarri (2007), determinerebbe anche il tipo di bene relazionale. I due autori distinguono
due grandi tipi di beni relazionali che chiamano rispettivamente beni relazionali primari e
beni relazionali non primari (o secondari): il bene relazionale che emerge in un incontro dal
barbiere è di natura ben diversa dal bene relazionale che emerge nella relazione tra madrefiglio: si tratta sempre di relazioni, ma di natura qualitativa diversa (Bruni e Zarri, 2007).
Da un vertice gruppoanalitico soggettuale, questo significa che la possibilità che emergano
beni relazionali (primari e secondari) tra le persone è intimamente legata alle identità, alle
motivazioni soggettive, alle dinamiche relazionali dei gruppi d’appartenenza (presenti e
passati, interni ed esterni) e alla loro qualità, alle variabili istituzionali e alle radici storicoantropologiche contestuali.
I beni, in realtà sono dei simboli (Bruni e Zarri, 2007). Infatti, appena soddisfatti i bisogni
primari, le persone non continuano a consumare beni perché interessati ai beni in sé, ma
piuttosto perché essi rimandano ad altro. In sostanza, i beni sono un contenitore di
relazioni, di rapporti umani e di soggettività.
Brunori ha iniziato, a partire da queste analisi, una stimolante elaborazione gruppoanalitica
dei beni relazionali. Ella, ponendo accanto ai beni relazionali i cosiddetti beni posizionali,
sostiene che il loro consumo, il consumarne un tipo piuttosto che l’altro, sottende due
diverse modalità relazionali o di funzionamento psico-relazionale delle persone, chiamati,
rispettivamente, atteggiamento “tipo beni relazionali” e “tipo beni posizionali”,
normalmente immersi in un continuum psico-relazionale umano.
Il concetto di bene posizionale è stato introdotto in economia intorno agli anni settanta da
Hirsch (1976). I beni posizionali, sono beni che “conferiscono utilità per lo status che creano,
per la posizione relativa nella scala sociale che il loro consumo consente di occupare (da
cui l’espressione, appunto, di ‘beni posizionali’). Un automobile di lusso è un bene
posizionale, ma anche lo zainetto firmato o il telefonino di nuova generazione lo sono.
Chi acquista beni posizionali non è affatto interessato al bene in sé, ma all’ordine con il
quale arriva a possederlo rispetto agli altri. I beni posizionali, infatti, sono beni che
perdono di valore in seguito alla loro diffusione e fruizione generalizzata (un bene
rappresenta uno status symbol solo nella misura in cui un numero limitato di persone può
accedervi). Implicano una ineguale distribuzione tra le persone, azzerandone la possibilità
di crescita reciproca e sono caratterizzati dalla verticalità, dalla competitività,
dall’antagonismo, dalla rivalità/nemico, cioè da una relazione individuo-gruppo, individuoindividuo e gruppo-individuo a ‘somma zero’.
In sostanza, il diverso tipo di funzionamento psico-relazionale che Brunori suggerisce è
anche intrinsecamente legata all’identità umana. Da questa identità individuale, in
particolare dalla sua capacità o meno e dalla modalità relazionale con la quale riconosce
l’esistenza dell’Altro, deriverebbe la possibilità di far proprio un atteggiamento relazionale
piuttosto che l’altro.
In questa direzione la possibilità che emergano beni relazionali in contesti mafiosi e che
questi contribuiscano alla sviluppo della persona è sostanzialmente inibita dal problema
della negazione dell’esistenza dell’Altro come soggettività.
4. Beni relazionale in contesti mafiosi
Restringendo l’arco delle nostre analisi alla Sicilia possiamo notare, in questa
regione dell’Italia, l’esistenza di tre figure relazionali o atteggiamenti umani verso l’Altro
119
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
che esprimono, in maniera similare, diversi processi che portano all’inibizione dello
sviluppo della persona in contesti mafiosi. Le tre figure, tratte da una riflessione di Lo
Verso (2004), sono Homo Mafioso, Homo Economicus e Homo Democristianus.
Naturalmente, fra di loro esistono delle notevoli differenze e, a volte, contrapposizioni.
Per Homo Democristianus l’Altro rientra in poche categorie: cliente, portatore di voti, alleato,
rivale. L’Altro, dunque, serve o meno, ed è esclusivamente uno strumento che serve a
soddisfare l’egoismo familistico. Per Homo Economicus (in Italia a volte solo Pubblicitario,
clientelare e poco seriamente capitalistico) e per Homo Fondamentalista (di cui fa parte Homo
Mafioso), invece, l’Altro non ha diritto di per sé ad essere pensato come persona: più che
esistere come portatore di un’esistenza e di sentimenti propri, è, nel primo caso, visto
come un fedele e non pensante esecutore di consumismo, mentre per il secondo l’Altro
serve soprattutto come nemico per affermare contro di lui un qualche supremo Noi in cui
l’Io si dissolve, si annulla totalmente.
Riprendendo un lavoro precedente di Coppola et al., (2008), l'attuale, e tipicamente
occidentale, modalità narcisistica di essere-con-l'altro sembra paradossalmente operare, sul
piano psico-relazionale, in maniera per certi aspetti simile al Noi totalizzante di Homo
Mafioso (cfr. più avanti). Si evidenzia, infatti, la presenza d'innumerevoli simmetrie ed
equivalenze simboliche: Homo Mafioso sta ad Homo Economicus come il Noi sta all'Io, e
l'appartenenza sta all'appagamento come il dogmatismo sta alla strumentalizzazione.
Tenendo presente le dovute differenze, d'ordine psicodinamico, rispetto alla qualità della
loro organizzazione mentale, in entrambi i casi si rintracciano comunque accoppiamenti
fissi, equivalenze simboliche appunto, dove a ciascun addendo corrisponde un'unica
modalità relazionale, ed in cui estremamente limitata appare la possibilità di divergere da
questi abbinamenti strutturali. Si tratta, perciò, di sistemi psichici che riducono la
complessità mentale e vincolano le possibilità dell'uomo a finalità psico-relazionali
predeterminate e pre-concepite: appartenenza per Homo Mafioso, appagamento per Homo
Economicus.
Esiste, però, una differenza sostanziale tra queste due categorie: nel caso di Homo
Economicus possiamo fare riferimento, in modo più evidente, ad un Io. Di conseguenza, il
fondamentalismo qui è solo una funzione e non un elemento di struttura come avviene,
invece, nel caso della psiche mafiosa. In termini evolutivi e meta-psicologici, questo Ioeconomico è più maturo del Noi-mafioso, potremmo dire più sano perché si serve di forme
d'incontro col mondo che sono comunque relazionali e che, pur a volte non
riconoscendola nella sua irriducibilità, considera sempre la presenza dell'Altro nel mondo.
Questo Io sembrerebbe muoversi luogo un continuum la cui estremità, increspandosi,
assume i volti e le figure del dolore mentale (se si pensa ad esempio allo shopping
compulsivo o al narcisismo esasperato), ma che, per larga parte della sua estensione,
interessa un atteggiamento generalmente diffuso nella cultura post-moderna:
un'organizzazione mediamente nevrotica che fa uso strumentale della relazione.
Entrando nel merito di questa forma normalizzata di Homo Economicus, esplorandone i
livelli interni, si rintracciano atteggiamenti relazionali di tipo bene posizionale. Nelle
società sviluppate sembra diffusa una profonda paura dell'Altro, ciò potrebbe essere
attribuito al fatto che la complessificazione del sistema economico ha coinciso con una
riduzione degli spazi di dispiegamento relazionale, rendendo impossibile l'incontro con la
differenza. Il contatto, quello autentico, è sbarrato dall'impossibilità a fidarsi e a scambiarsi
reciproco sostegno. Pertanto la diffidenza che impregna le maglie relazionali difficilmente
consente di vedere l'Altro come una risorsa, che sembra essere tenuto a bada dalle
distanze oggettivanti della corsa ai consumi (atteggiamento posizionale).
120
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
La rappresentazione antagonistica della gratificazione, in virtù della quale il mio benessere
finisce dove inizia quello di un altro, coincide con una modalità narcisistico-strumentale
d'incontro con il mondo. L'acquisto di beni posizionali, infatti, conduce ad ingaggiare una
continua sfida con l'Altro nel tentativo di superarlo, consumando prodotti esclusivi ed
innovativi che generano status-symbol, così da posizionarsi ad un gradino più alto della scala
sociale rispetto alla collocazione del consumatore rivale.
In questo senso, la competitività posizionale è comunque attraversata da un dinamismo
relazionale perché l'Io si posiziona sempre rispetto agli altri, tentando maldestramente di
soddisfare bisogni identitari profondi, scavati dal vuoto interno, dall'assenza intraextrapsichica di relazioni significative (Ferraro, Lo Verso, 2007).
Applicando una lettura psicodinamica all'atteggiamento posizionale, potremmo ipotizzare
che attraverso uno spostamento sui consumi e l'acting dell'acquisto, la competizione
posizionale permette di simulare un contatto-conflitto con l'Altro. Si tratta di una
simulazione nella misura in cui l'Altro non è percepito come una persona separata ma
come uno specchio narcisistico che, a seconda della sua maggiore o minore indigenza
economico-sociale riflette solo un valore numerico della propria identità. È sempre l'Io il
motore e protagonista assoluto del comportamento economico di tipo posizionale, perché
gli altri hanno la funzione di confermare o disconfermare l'immagine socialmente
desiderabile che io intendo mostrare al mondo.
Certamente è molto più semplice e meno dispendioso affettivamente riempire il vuoto
emotivo, creato dalla mancanza di legami, con il piacere effimero della corsa all'acquisto,
in cui chi mi sta a fianco segna semplicemente un livello di status economico da superare o
da mantenere. Ma come accade nei rituali propiziatori, attraverso un'azione che provoca,
apparentemente, piacere (nel nostro caso, l'acquisto) si tenta di eso-rcizzare la paura di ciò
che è sconosciuto, nello specifico la paura dell'intrinseca enigmaticità di cui l'Altro è
portatore. L'estraneità e non prevedibilità dell'Altro spaventano perché inevitabilmente
introducono elementi di diversità e di discontinuità che destituiscono la mera funzione
riflettente, assunta dall'Altro, su cui un Io con tratti narcisistici si regge: se compare
l'autenticità - l’Altro-relazionale -, e viene meno il parametro di riferimento - l’Altrospecchio -, che mi permette di giungere ad una definizione di me, il rischio è quello di non
sapere più chi sono.
4.1. Contesti mafiosi e mancato sviluppo
L’identità del mafioso è una sovrapposizione simbolica e psichica di tipo fondamentalista
con il “Noi-mafioso”, per cui o sei un mafioso o non sei nulla, non esisti. Nello studio
delle ragioni psicologiche che caratterizzano lo psichismo mafioso, il fondamentalismo
psicologico riveste un ruolo di primaria importanza. La sua caratteristica essenziale è la
quasi totale sovrapposizione dell’identità Io con l’identità Noi dell’ organizzazione Cosa
Nostra (o, in altri casi, dell’etnia, della religione, della patria, del partito, della famiglia, del
modello antropologico-culturale di riferimento). La psiche fondamentalista, infatti, non
può essere messa in discussione e, come tutti i pensieri saturi (Menarini e Pontalti,1985),
nemmeno essere pensata. Avere una psiche fondamentalista significa non essere una
persona, ma essere una sorta di replicante, di fotocopia del Noi (quello mafioso) che ti ha
concepito. Il fondamentalismo psicologico sta in una relazione quasi antinomica con la
discontinuità e la trasformazione. Quando la psiche fondamentalista può essere ri-pensata,
messa in discussione, è come se perdesse gli aspetti definitori di se stessa. Homo Mafioso,
come il nazionalismo, il razzismo, il fanatismo religioso, una particolare parte del sistema
economico-manipolativo e mass-mediale attuale (Homo Economicus, Pubblicitario),
121
La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
appartiene, in maniera differenziata, al mondo dei fondamentalismi. Tutti i
fondamentalismi, privilegiando il Noi d’appartenenza, hanno in comune un’indifferenza
rispetto all’Altro, cioè un rifiuto dell’Io soggettivo e dell’identificazione con il diverso da
sé. Da un vertice analitico, dunque, è il Noi ciò che parla nella psiche del mafioso. Ciò
spesso corrisponde ad una venerazione fanatica del capo, dei suoi desideri, e persino delle
sue fisime, delle sue fantasie e manierismi.
Il mafioso è fondamentalista, da un punto di vista antropo-psicologico, poiché pensa,
automaticamente, come Cosa Nostra gli dice di fare, prova persino emozioni ed affetti
come gli è stato in-segnato dalla famiglia, dalla cultura e dall’organizzazione mafiosa: egli è
incosciamente pre-pensato interamente da Cosa Nostra. In questa direzione, è importante
sottolineare l’idealizzazione che la psiche mafiosa fa di se stessa, nel processo
identificativo con il proprio transpersonale. Infatti, essa si propone come il bene e il
giusto, in contrapposizione dicotomica con ogni cosa diversa da sé che invece rappresenta
il male, l’errore, il nemico da combattere: cioè ogni sua affermazione psicologica non si
può sottoporre a verifica, a pensiero soggettivo e complesso. Tuttavia, per non creare
ingenue confusioni, occorre sottolineare che esistono anche differenze nel sistema di
valori che muove i vari fondamentalismi. Non si possono assimilare, ovviamente, gli
obiettivi di Cosa Nostra (e non solo), sostanzialmente potere e denaro, con obiettivi
religiosi, di salvaguardia dell’identità culturale, di dominio etnico, razziale, economico,
imperiale, di giustizia sociale, ecologica ecc. Tutte cose diverse in ogni senso, in primo
luogo etico, fra di loro.
Il modello di non-sviluppo (più precisamente di mancato sviluppo) che persegue Homo
Mafioso è esclusivamente indirizzato all’arricchimento a qualsiasi costo del proprio gruppo
e, soprattutto, al potere, psicologico e reale, su tutto e su tutti. Non a caso, infatti, esso
s’identifica con il detto siciliano: ‘Cumannari è mugghiu di futtiri’ (comandare è meglio che
fare l’amore). Tale modello trova applicazione pratica attraverso la sua imposizione sia con
la forza che con la camaleontica capacità d’intessere rapporti di collaborazione con tutto
quello che è considerato utile al raggiungimento del proprio scopo. Infatti, la sua forza
impositiva, ostacolante e predatoria, sta proprio nella sua capacità di controllo del
territorio, non solo col pizzo, ma anche creando collusioni con la paura e l’onnipotenza, la
corruzione, la risoluzione d’interessi privati; e nella sua organizzazione aziendale
militarmente supportata, come nella sua capacità di imporre la propria cultura del silenzio
e dell’omertà, negazione della propria esistenza, sostituzione dei valori mafiosi a quelli
sociali, deformazione dei tradizionali valori della cultura siciliana ai propri fini, rapporti
nazionali ed internazionali con altri poteri e con le delinquenze organizzate a più livelli.
Uno dei punti di forza di Cosa Nostra, dunque, è costituito dalla capacità di ottenere
cooperazione esterna, di creare particolari reti di relazioni con il mondo della politica,
dell’imprenditorialità, della sanità, con il sociale (siciliano e non), di instaurare scambi con
tutto quel mondo dell’economia parassitaria ed in qualche modo illegale, di incentivare
obblighi e favori. Queste reti di relazioni sono pervasive, depauperanti, falsamente
fiduciarie, non reciproche, ma univoche, totalmente strumentali. Nei territori in cui Cosa
Nostra, o realtà similare sono radicate, il capitale relazionale, personale e collettivo, è
inespresso, inibito, il legame fiduciario è inconsistente, e ciò toglie ogni possibilità di
attivare adeguati processi di sviluppo.
In sostanza, la relazione mafiosa non è un bene relazionale, e non è intenzionata ad esserlo,
proprio perché non riconosce l’Altro come soggettività, ma, piuttosto, lo vede in altri due
modi: come replicante del Noi-mafioso e/o come una cosa che, a seconda degli scopi
criminali, può essere utilizzata a proprio piacimento o eliminata. Non a caso una persona
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
estranea a Cosa Nostra, ma che crea una qualche collusione con essa, diventa sottomessa e
sostanzialmente asservita ad essa per sempre, sia che si tratti di gente comune, che di un
politico potente, un ricco imprenditore o un medico18. Incontrare Cosa Nostra, inoltre,
significa sentirsi in una rassicurante complicità, ma anche averne e provare paura. Che
cosa succede quando ad un politico locale, ad un dirigente, a gente comune e per bene,
bruciano la casa di campagna o la villetta al mare? Che cosa accade nel suo mondo interno?
Ha paura quando ci pensa? Per quanto ci pensa? Quanto la sua probabile sofferenza
psichica coinciderà anche con l’impossibilità di continuare o meno (allo stesso modo) la
sua attività politica, lavorativa, la vita di sempre?
“Un politico locale, con moglie e tre figli, esplica il suo mandato elettorale in un piccolo centro
della provincia di Palermo. E’ una persona per bene, come lo sono moltissimi siciliani. Durante il
suo mandato, svolto con coerenza ed impegno, è molto propositivo. Ha buone idee e progetti che
in parte riesce a realizzare, mentre altri sono già in cantiere. Una notte di inverno gli bruciano la
casa in campagna! Lui è distrutto, non sa cosa fare, cosa pensare, chi è stato e per quale motivo;
ma subito pensa alla mafia e non sa perché. Ha anche paura, soprattutto per la sua famiglia. Nel
tempo diminuisce le sue presenze pubbliche e si dimette dalla sua carica, si vede in giro molto
poco. Dopo qualche tempo incontra un caro amico al quale confida che pensa spesso a quello che
gli è accaduto, sogna l’episodio, ha ancora paura. Si sente bloccato, impedito a pensare il proprio
futuro, demotivato e senza voglia di fare”.
Questa esperienza di vita vissuta, come molte altre esperienze simili, dimostrano quanto
realtà quali Cosa Nostra impediscano non solo lo sviluppo economico, ma anche quello
psicologico. L’azione di Cosa Nostra è doppiamente criminale nella misura in cui non solo
reca ingenti danni economici, ma produce anche violenza psicologica che inibisce la
funzione dell’immaginazione, la progettazione del futuro, la meta da raggiungere: la sua
azione paralizza ogni forma di sviluppo. In sostanza, lo psichismo mafioso, caratterizzato da
un fondamentalismo psicologico che satura il campo mentale, concepisce solo relazioni
mortifere e distruttive. Dalla prospettiva gruppoanalitica, dunque, esso rappresenta una
granitica opposizione all’esistenza dei beni relazionali, e può essere considerato
psicopatologia perché impedisce lo sviluppo psicologico individuale, l’autonomia
soggettiva, la condivisione intima e relazionale di chi ad esso aderisce e, naturalmente,
anche di chi lo subisce (Lo Verso, 2005).
5. Riflessioni conclusive
Il lavoro che abbiamo presentato vuole avere un duplice significato, analizzare il
ruolo dei beni relazionali nelle riflessioni gruppoanalitiche, e promuovere i beni relazionali
come strumenti di sviluppo in contesti intrisi di cultura mafiosa.
I beni relazionali, categoria attorno alla quale si è recentemente sviluppato un utile
dibattito scientifico ed epistemologico anche tra economia e psicologia, per la
gruppoanalisi soggettuale assumono un significato del tutto particolare: sono relazioni in
In Sicilia, Calabria, ma non solo, la libertà delle persone di essere, di realizzarsi, è fortemente limitata. Si deve
pagare il pizzo per l’apertura di qualsiasi attività commerciale, si accontenta l’amico degli amici quando chiede
di far lavorare determinate persone non certamente scelte per la loro professionalità. Occorre, volontariamente
o meno, dell’appalto vinto per la costruzione di un depuratore, di una strada o altro, dare ad ognuno degli amici
la sua parte in termini di soldi, mezzi, operai. Tutto ciò crea sfiducia: chi, ad esempio, vuole farsi operare da un
chirurgo selezionato da un assessore, o aprire un azienda in cui un mafioso e/o un politico clientelare scelgono il
capo del personale?
18
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
grado di promuovere nelle persone sia benessere soggettivo che capacità di generare
decisioni e processi economici (soprattutto a livello micro) radicalmente legati anche al
benessere soggettivo dell’Altro.
Come abbiamo visto i beni relazionali attivano relazioni di fiducia, scambio e apertura
verso l’Altro, relazioni diametralmente opposte alle quelle predatorie della mafia. In questo
senso interventi che attivano processi di sviluppo basandosi sui beni relazionali posso
creare quelle incrinature necessarie su un territorio monolitico e saturo di cultura mafiosa
che possono generare processi di sviluppo del territorio e delle persone che vi risiedono.
In Sicilia, ma non solo, questo significa necessariamente sostituire il predominante
modello assistenzialista-clientelare con una politica fondata sul cosiddetto federalismo
antropologico, inteso come un atteggiamento mentale ritenuto indispensabile per il
raggiungimento di vari obiettivi tra cui il rendere le persone e le comunità autonome e
capaci di intraprendere il costruire di una democrazia delle reti, cioè quel tipo di rapporti
che si sviluppano attraverso interazioni orizzontali. Le reti sono qui intese come il risultato
non prevedibile di complesse relazioni tra le persone e tra gruppi di persone.
In definitiva, ogni territorio, e le persone che ci abitano, si sviluppa attraverso il costruire
reti sempre più ampie che producono capitale sociale e ci liberano anche, e maggiormente,
da legami familistici che lo psichismo mafioso, in contesti saturi di pensiero mafioso,
produce incessantemente.
In Sicilia lo sviluppo delle reti, lo sviluppo psichico, sociale ed economico appare come
bloccato proprio per la presenza di un diffusivo pensiero mafioso che permea quasi tutte
le realtà familiari e sociali.
Ed è accentuato dalla presenza della cosiddetta cultura mafiosa. Con essa s’intende la
negazione delle regole sociali e l’affermazione delle regole private e familistiche. Cosa
Nostra, in questo senso, trova le sue radici nella strumentalizzazione di alcune specifiche
dimensioni psico-antropologiche siciliane. Occorre chiarire, però, che sono i mafiosi che
assomigliano ai siciliani, è la cultura mafiosa che ha strumentalizzato quella siciliana e non
viceversa: Cosa Nostra ha estremizzato, distorto ed utilizzato per meri scopi criminali i
valori tradizionali della cultura siciliana, che di per sé, non sono certo negativi (Licari,
2009). Centrale per la comprensione di questa somiglianza è il pensare mafioso (Fiore, 1997),
cioè un peculiare modo di pensare che definisce i codici di comportamento sul modo di
essere e di rapportarsi con gli altri ed il mondo circostante.
In altre parole, la cultura mafiosa, o situazioni similari, non possono far emergere beni
relazionali perché sono ingabbiate dentro una modalità di pensiero dove il Noi-sociale, lo
sviluppo della soggettività e della comunità, è un’assenza, un vuoto di pensiero. In realtà, il
Noi-familiare, se non saturo e saturante, è in grado di far emergere beni relazionali. In Sicilia
(ma non solo), la famiglia è stata ed è ancora, per certi versi, un bene relazionale che ha
consentito la sopravvivenza psichica, ma anche economica in situazioni spesso difficili.
L’alternativa alla cultura mafiosa, infatti, non è la distruzione dei valori mediterranei e sociali.
Valori come amicizia (bene relazionale per eccellenza), famiglia, ospitalità, convivialità,
comunità, rispetto dei più deboli, accettazione della differenza, amore interpersonale,
onore, dono sono cose straordinarie e possibilità per uscire oggi da ogni barbarie e dalla
cultura dell’altro diverso da me come demonio da fare fuori con qualche pulizia etnica, o da
trattare come se non esistesse, coniugandole magari con il lavoro, la qualità e l’efficacia.
Il superamento della cultura mafiosa, inoltre, non è un processo individuale, ma gruppale in
senso allargato. In questo senso, diventa sempre più importante il contesto e le modalità
relazionali con le quali le persone dentro il contesto s’incontrano, scambiano, comunicano,
cioè la qualità del loro stare insieme e di costruire reti sociali. Analogamente, sono
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La psicologia del fenomeno mafioso. Ricerche e studi sulla Mafia, sulla ’Nndrangheta e sulle Camorra
altrettanto importanti le reti psicologiche, i processi transpersonali, che sono interni ed
esterni contemporaneamente e fondativi delle persone. Essi, infatti, sono il punto
aggregativo dei gruppi interni che sono nella mente ed a cui la mente si appoggia: è questa
una realtà molto profonda che struttura le identità (Napolitani, 1987).
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