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Neoclassicismo
Neoclassicismo
Caratteri fondamentali
Le scoperte archeologiche
La razionalità illuministica e il rifiuto
del barocco
Le teorie e lo stile
Il Neoclassicismo in Italia
Jacques-Louis David
Il giuramento degli Orazi
La morte di Marat
I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi
figli
Belisario che riceve l'elemosina
Le Sabine
Leonida alle Termopili
Bonaparte valica il Gran San Bernardo
Incoronazione di Napoleone
Antonio Canova
Monumento a Maria Cristina d'Austria
Amore e Psiche
Teseo sul Minotauro
Ercole e Lica
Le tre Grazie
Monumento funerario di Clemente XIII
Monumento funerario di Clemente XIV
Paolina Borghese
Indice
Neoclassicismo
Caratteri fondamentali
Le scoperte archeologiche
La razionalità illuministica e il rifiuto del barocco
Le teorie e lo stile
Il Neoclassicismo in Italia
Jacques-Louis David
Il giuramento degli Orazi
La morte di Marat
I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli
Belisario che riceve l'elemosina
Le Sabine
Leonida alle Termopili
Bonaparte valica il Gran San Bernardo
Incoronazione di Napoleone
Antonio Canova
Monumento a Maria Cristina d'Austria
Amore e Psiche
Teseo sul Minotauro
Ercole e Lica
Le tre Grazie
Monumento funerario di Clemente XIII
Monumento funerario di Clemente XIV
Paolina Borghese
NEOCLASSICISMO
Caratteri fondamentali
La vicenda del neoclassicismo inizia alla metà del XVIII secolo (1750), per
concludersi con la fine dell’’impero napoleonico nel 1815. Ciò che contraddistingue lo
stile artistico di quegli anni fu l’’adesione ai principi dell’’arte classica. Quei principi di
armonia, equilibrio, compostezza, proporzione, serenità, che erano presenti nell’’arte
degli antichi greci e degli antichi romani che, proprio in questo periodo, fu riscoperta
e ristudiata con maggior attenzione ed interesse grazie alle numerose scoperte
archeologiche.
I caratteri principali del neoclassicismo sono diversi:
1. esprime il rifiuto dell’’arte barocca e della sua eccessiva irregolarità;
2. fu un movimento teorico, grazie soprattutto al Winckelmann che teorizzò il
ritorno al principio classico del «bello ideale»;
3. fu una riscoperta dei valori etici della romanità, e ciò soprattutto in David e
negli intellettuali della Rivoluzione Francese;
4. fu l’’immagine del potere imperiale di Napoleone che ai segni della romanità
affidava la consacrazione dei suoi successi politico-militari;
5. fu un vasto movimento di gusto che finì per riempire con i suoi segni anche
gli oggetti d’’uso e d’’arredamento.
I principali protagonisti del neoclassicismo furono il pittore Anton Raphael Mengs
(1728-1779), lo storico dell’’arte Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), che
furono anche i teorici del neoclassicismo, gli scultori Antonio Canova (1757-1822) e
Bertel Thorvaldsen (1770-1844), il pittore francese Jacques-Louis David (17481825), i pittori italiani Andrea Appiani (1754-1817) e Vincenzo Camuccini (17711844).
Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen, operarono tutti a Roma, che divenne,
nella seconda metà del Settecento, la capitale incontrastata del neoclassicismo, il
baricentro dal quale questo nuovo gusto si irradiò per tutta Europa. A Roma, nello
stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi
che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane.
L’’Italia nel Settecento fu la destinazione obbligata di quel «Grand Tour» che
rappresentava, per la nobiltà e gli intellettuali europei, una fondamentale esperienza
di formazione del gusto e dell’’estetica artistica. Roma, in particolare, ove si
stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva
l’’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori. Tra questi vi fu anche
il David che rappresentò il pittore più ortodosso del nuovo gusto neoclassico.
Con l’’opera del David il neoclassicismo divenne lo stile della Rivoluzione Francese
ed ancor più divenne, in seguito, lo stile ufficiale dell’’impero di Napoleone. E dalla
fine del Settecento la nuova capitale del neoclassicismo non fu più Roma, ma Parigi.
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Il neoclassicismo tende a scomparire subito dopo il 1815 con la sconfitta di
Napoleone. Nei decenni successivi venne progressivamente sostituito dal
Romanticismo che, al 1830, ha definitivamente soppiantato il neoclassicismo.
Tuttavia, pur se non rappresenta più l’’immagine di un’’epoca, il neoclassicismo di
fatto sopravvisse, come fatto stilistico, per quasi tutto l’’Ottocento, soprattutto nella
produzione aulica dell’’arte ufficiale e di stato e nelle Accademie di Belle Arti. E
questa sopravvivenza stilistica, oltre ai consueti limiti cronologici, è riscontrabile
soprattutto nella produzione di un artista come Ingres, la cui opera si è sempre
attenuta ai canoni estetici della grazia e della perfezione, capisaldi di qualsiasi
classicismo.
Le scoperte archeologiche
Uno dei motivi di questo rinato interesse per il mondo antico furono le scoperte
archeologiche che segnarono tutto il XVIII secolo. In questo secolo furono scoperte
prima Ercolano, poi Pompei, quindi Villa Adriana a Tivoli e i templi greci di
Paestum; ed infine giunsero dalla Grecia numerosi reperti archeologici che finirono
nei principali musei europei: a Londra, Parigi, Monaco. Negli stessi anni si diffusero
numerose pubblicazioni tra cui Le rovine dei più bei monumenti della Grecia, 1758,
del francese Le Roy, Le antichità di Atene, 1762, degli inglesi Stuart e Revett, e le
incisioni di antichità italiane del romano Piranesi che contribuirono notevolmente a
diffondere la conoscenza dell’’arte classica. Questa opera di divulgazione fu
importante non solo per la conoscenza della storia dell’’arte ma anche per il
diffondersi dell’’estetica del neoclassicismo.
In particolare, con queste campagne di scavo, non solo si ampliò la conoscenza del
passato, ma fu chiaro il rapporto, nel mondo classico, tra arte greca e arte romana.
Quest’’ultima rispetto alla greca apparve solo un pallido riflesso ed un epigono, se non
addirittura una semplice copia. La vera fonte della grandezza dell’’arte classica venne
riconosciuta nella produzione greca degli artisti del V-IV secolo a.C. Quel periodo
eroico che vide sorgere la plastica statuaria di Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele, fino
a Lisippo. E la perfezione senza tempo di questa scultura influenzò profondamente
l’’estetica del Settecento, divenendo modello per gli artisti del tempo.
La razionalità illuministica e il rifiuto del barocco
Il neoclassicismo nacque come desiderio di una arte più semplice e pura rispetto a
quella barocca, vista come eccessivamente fantasiosa e complicata. Questo desiderio
di semplicità si coniugò alla constatazione, fornita dalle scoperte archeologiche, che
già in età classica si era ottenuta un’’arte semplice ma di nobile grandiosità. Il barocco
apparve allora come il frutto malato di una degenerazione stilistica che, pur partita dai
principi della classicità rinascimentale, era andata deformandosi per la ricerca
dell’’effetto spettacolare ed illusionistico.
Il barocco è complesso, virtuosistico, sensuale; il neoclassicismo vuole essere
semplice, genuino, razionale. Il barocco propone l’’immagine delle cose che può
anche nascondere, nella sua bellezza esterna, le brutture interiori; il neoclassicismo
non si accontenta della sola bellezza esteriore, vuole che questa corrisponda ad una
razionalità interiore. Il barocco perseguiva effetti fantasiosi e bizzarri, il
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neoclassicismo cerca l’’equilibrio e la simmetria; se il barocco si affidava alla
immaginazione e all’’estro, il neoclassicismo si affida alle norme e alle regole.
Il principio del razionalismo è una componente fondamentale del neoclassicismo. È
da ricordare che il Settecento è stato il secolo dell’’Illuminismo. Di una corrente
filosofica che cerca di «illuminare» la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre
dell’’ignoranza, della superstizione, dell’’oscurantismo, attraverso la conoscenza e la
scienza. E per far ciò bisogna innanzitutto liberarsi da tutto ciò che è illusorio. E l’’arte
barocca ha sempre perseguito l’’illusionismo come pratica artistica.
Il neoclassicismo ha diversi punti di similitudine con il Rinascimento: come questo fu
un ritorno all’’arte antica e alla razionalità. Ma le differenze sono sostanziali: la
razionalità rinascimentale era di matrice umanistica e tendeva a liberare l’’uomo dalla
trascendenza medievale, la razionalità neoclassica è invece di matrice illuministica e
tendeva a liberare l’’uomo dalla retorica, dalla ignoranza e dalla falsità barocca. Il
ritorno all’’antico, per l’’artista rinascimentale era il ritorno ad un atteggiamento
naturalistico, nei confronti della rappresentazione, che lo liberasse dal simbolismo
astratto del medioevo; per l’’artista neoclassico fu invece la codificazione di una serie
di norme e di regole che servissero ad imbrigliare quella fantasia che, nell’’età
barocca, aveva agito con eccessiva licenza e sregolatezza.
Le teorie e lo stile
Massimo teorico del neoclassicismo fu il Winckelmann. Nel 1755 pubblicava le
Considerazioni sull’’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, nel
1763 pubblicava la Storia dell’’arte nell’’antichità. In questi scritti egli affermava il
primato dello stile classico (soprattutto greco che lui idealizzava al di là della realtà
storica), quale mezzo per ottenere la bellezza «ideale» contraddistinta da «nobile
semplicità e calma grandezza». Winckelmann considerava l’’arte come espressione di
«un’’idea concepita senza il soccorso dei sensi». Un’’arte, quindi, tutta cerebrale e
razionale, purificata dalle passioni e fondata su canoni di bellezza astratta. Le sue
teorie artistiche trovarono un riscontro immediato nell’’attività scultorea di Antonio
Canova e di Thorvaldsen.
La scultura, più di ogni altra arte, sembrò adatta a far rivivere la classicità. Le
maggiori testimonianze artistiche dell’’antichità sono infatti sculture. E nella scultura
neoclassica si avverte il legame più diretto ed immediato con l’’idea di bellezza
classica. Una pittura classica, di fatto, non esiste, anche perché le testimonianze di
quel periodo sono quasi tutte scomparse. Le uniche pitture ad affresco, a noi note,
comparvero proprio in quegli anni negli scavi di Ercolano e Pompei. Esse, tuttavia,
per quanto suggestive nella loro iconografia così esotica, si presentavano di una
semplificazione stilistica (definita compendiaria) inutilizzabile per la moderna
sensibilità pittorica. Così che i pittori neoclassici dovettero ispirarsi stilisticamente
più alla pittura rinascimentale italiana, in particolare Raffaello, che non all’’arte
classica vera e propria.
I caratteri della scultura neoclassica sono la perfezione di esecuzione, la estrema
levigatezza del modellato, la composizione molto equilibrata e simmetrica, senza
scatti dinamici. La pittura neoclassica si riaffidò agli strumenti del naturalismo
rinascimentale: la costruzione prospettica, il volume risaltato con il chiaroscuro, la
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precisione del disegno, immagini nitide senza giochi di luce ad effetto, la mancanza
di tonalismi sensuali.
I soggetti delle opere d’’arte neoclassiche divennero personaggi e situazioni tratte
dall’’antichità classica e dalla mitologia. Le storie di questo passato, oltre a far rivivere
lo spirito di quell’’epoca, che tanto suggestionava l’’immaginario collettivo di quegli
anni, serviva alla riscoperta di valori etici e morali, di alto contenuto civile, che la
storia antica proponeva come modelli al presente. La storia antica, quindi, divenne un
serbatoio di immagine allegoriche da utilizzare come metafora sulle situazioni del
presente. Ciò è maggiormente avvertibile per un pittore come il David nei cui quadri
la storia del passato è solo un pretesto, o una metafora, per proporre valori ed idee per
il proprio tempo.
Il neoclassicismo, nella sua poetica, invertì il precedente atteggiamento dell’’arte
rococò. Questa, nella sua ricerca della sensazione emotiva o sensuale, sceglieva
immagini che materializzavano l’’«attimo fuggente». Il neoclassicismo non propone
mai attimi fuggenti, ma, coerentemente con la sua impostazione classica, rappresenta
solo «momenti pregnanti». I momenti pregnanti sono quelli in cui vi è la maggiore
carica simbolica di una storia. In cui si raggiunge l’’apice di intensità psicologica, di
concentrazione, di significanza: il momento in cui, un certo fatto od evento entra nella
storia o nel mito.
Il neoclassicismo in Italia
Il ruolo svolto dall’’Italia nella nascita del Neoclassicismo fu determinante. In Italia
vennero effettuate le maggiori scoperte archeologiche del secolo: Ercolano, Pompei,
Paestum, Tivoli, che si aggiunsero alle già imponenti collezioni di arte romana che,
dal Cinquecento in poi, si erano costituite un po’’ ovunque.
Roma divenne la capitale del neoclassicismo e fu un ruolo centrale che conservò fino
allo scoppio della Rivoluzione Francese. A Roma operarono i maggiori protagonisti
di questa fase storica: Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen. A Roma, nello
stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi
che, con le sue stampe, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. Un gusto,
che presto suggestionò soprattutto gli spiriti romantici che nella «rovina»
rintracciavano un sentimento che andava al di là della testimonianza archeologica.
Ed a Roma giungevano gli altri artisti ed intellettuali di Europa. I primi grazie alle
borse di studio messe a loro disposizione dalle scuole ed accademie d’’arte, i secondi
per quella moda del Grand Tour che imponeva alle persone di un certo rango di
effettuare almeno un viaggio in Italia per conoscerne le bellezze e i tesori d’’arte.
L’’Accademia francese assegnava una borsa di studio per un soggiorno di alcuni anni
a Roma, chiamata «Prix de Rome». E, grazie a questa borsa di studio, anche David
giunse a Roma soggiornandovi in più occasioni. E, proprio a Roma, compose il suo
quadro più famoso di questo periodo: «Il giuramento degli Orazi». A Roma un altro
personaggio svolse un ruolo fondamentale per il neoclassicismo: il cardinale Albani.
Cultore di antichità classiche e mecenate, iniziò la costruzione di una villa-museo che
divenne uno dei luoghi più simbolici del nuovo stile. Il suo salotto divenne luogo di
incontro per gli artisti e gli studiosi che, a Roma, furono i protagonisti della vicenda
neoclassica. Ed infine Roma fu anche la città ove lavorò il maggior artista italiano
neoclassico: Antonio Canova.
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Ma intanto, alla fine del secolo, Roma cedeva la sua centralità a Parigi e, nel
contempo, un’’altra città italiana divenne importante nella vicenda del neoclassicismo:
Milano. Nel capoluogo lombardo il centro della vita artistica divenne l’’Accademia di
Brera, fondata nel 1776. Da Milano proviene il principale pittore neoclassico italiano:
Andrea Appiani (1754-1817), che fu anche ritrattista ufficiale di Napoleone. La sua
opera, in parte distrutta dai bombardamenti del 1943, si affida a temi mitologici quali
«La toeletta di Giunone», il «Parnaso» o la «Storia di Amore e Psiche».
Un altro pittore romano, Vincenzo Camuccini (1771-1844), visse in gioventù la fase
del neoclassicismo proponendo quadri di derivazione davidiana quali la «Morte di
Giulio Cesare».
Il neoclassicismo, come fatto stilistico, è sopravvissuto nell’’arte italiana per buona
parte dell’’Ottocento. Anche pittori, che per i soggetti vengono considerati romantici,
quali Hayez o Bezzuoli, continuano a praticare una pittura con quei connotati stilistici
neoclassici che tenderanno a scomparire solo dopo la metà del secolo.
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Jacques-Louis David
Jacques-Louis David (1748-1825), dopo un apprendistato presso il pittore tardorococò Vien, si recò a Roma nel 1775 avendo vinto il Prix de Rome. Il Prix de Rome
era una borsa di studio che l’’Accademia di Francia assegnava ai giovani artisti più
promettenti per consentire loro un periodo di soggiorno e di studio nella città eterna.
Il David si trattenne a Roma fino al 1780. Qui ebbe modo sia di conoscere le teorie
artistiche del Winckelmann, sia di studiare l’’arte antica e rinascimentale. Predilesse le
pitture di storia, utilizzando episodi classici da proporre come «esempi di virtù» al
mondo contemporaneo. Infatti il suo fu un neoclassicismo di grossi contenuti etici e
virili che egli opponeva alle mollezze ed effeminatezze del mondo rococò.
In un suo secondo soggiorno romano, nel 1784, dipinse «Il giuramento degli Orazi»
che gli diede notevoli successi. Per le sue idee e temperamento partecipò attivamente
alla Rivoluzione Francese e al periodo napoleonico, producendo sempre quadri storici
(anche quando raffiguravano eventi a lui coevi) ma dai contenuti di stringente appello
civile. Quadri come «Il giuramento della pallacorda» (1790-91), rimasto incompiuto,
la «Morte di Marat» (1793), «Le Sabine» (1799), «Bonaparte valica il Gran San
Bernardo» (1800), «Incoronazione di Napoleone» (1805-07). Dopo la Restaurazione,
David concluse la sua vita a Bruxelles dedicandosi alla pittura di soggetti mitologici,
allineandosi a quel gusto di accademismo neoclassico che proseguì per tutto
l’’Ottocento, ma che nella storia classica e nella mitologia non cercava più alcuna
finalità etica.
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Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi, 1784
Il giuramento degli Orazi è di certo il quadro neoclassico più famoso e quello che
meglio sintetizza le nuove concezioni artistiche di David. L’’immagine è costruita con
perfetto equilibrio, con linee nette e colori freddi. La scena è collocata in un ambiente
di severa e spartana solidità. L’’ambiente è raffigurato secondo i principi della
prospettiva centrale. Ciò dà un senso di equilibrio orizzontale che accentua la
solennità del momento rappresentato. Il quadro si divide idealmente in tre riquadri
distinti, segnati dai tre archi a tutto sesto dello sfondo. Nel primo riquadro ci sono i
tre fratelli Orazi. Sono visti di scorcio così che sembrano quasi formare un corpo solo.
Hanno le gambe leggermente divaricate in avanti, il braccio proteso. I loro lineamenti
sono tesi, le espressioni sono concentrate: esprimono tutta la determinazione che li
porta a sacrificare la loro vita per la patria. Al centro, nel secondo riquadro, c’’è il
padre. Ha un aspetto solenne. Ha in mano le tre spade che sta per consegnare ai figli
dopo aver raccolto il loro giuramento. L’’altra mano è sollevata in alto, a
simboleggiare la superiorità del principio per il quale vanno a combattere: la difesa
della patria e delle loro famiglie. Nel terzo riquadro ci sono le moglie degli Orazi con
due figli. Sono accasciate ed addolorate anche se non compiono gesti di teatrale
disperazione. Non piangono neppure. La loro sofferenza è intensa ma composta.
Sopportata con grande dignità, perché comprendono la necessità del sacrificio dei
loro uomini.
Il soggetto storico è qui utilizzato con un unico contenuto: l’’esaltazione dell’’eroismo.
Eroi sono coloro che volontariamente scelgono di mettere a rischio la propria vita per
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il bene comune dei propri familiari e della propria terra. L’’eroe, in questo quadro, ha
caratteri di intensa virilità che contrastano con i molli caratteri dei tanti damerini che
affollavano la società aristocratica del Settecento. Ma non è un attributo solo degli
uomini. Eroiche sono anche le donne che devono pagare il prezzo del dolore. La
differenza psicologica dei personaggi viene resa in forme visibile dalle loro pose:
diritte e tese le linee che formano gli uomini, curve e sinuose le linee che disegnano le
donne.
Rispetto alla pittura rococò, che cercava la sensualità della visione con colori tonali,
luci calde e ombre accoglienti, la pittura di David si mostra al contrario fortemente
idealizzata. La luce che illumina la scena è netta e tagliente, le forme sono disegnate
con grossa precisione, il rilievo dei corpi è affidato al più classico del trattamento
chiaroscurale. Nulla deve essere seducente per l’’occhio o i sensi. L’’immagine deve
invece colpire la coscienza dell’’osservatore. Non deve offrirgli consolanti sensazioni
estetiche ma deve smuovergli il cuore. Deve richiamarlo a valori forti. Valori come
l’’eroismo. Valori tanto necessari in una fase storica come questa in cui la società
francese si prepara a quella rivoluzione destinata a cambiare il corso della storia
europea.
Il richiamo all’’eroismo è il grande contenuto di questo quadro. Un contenuto etico.
Un contenuto forte. E, per far ciò, il David abbandona del tutto quella sensazione di
attimo fuggente che caratterizza tutta la pittura del Settecento rococò. Egli sceglie di
rappresentare la vicenda secondo la tecnica del momento pregnante. Il momento
eterno. Quel momento in cui la coscienza cambia per sempre per una scelta che non
può più farci tornare indietro. Quel momento da consegnare per sempre alla storia.
Il quadro di David fu realizzato a Roma e poi trasportato a Parigi. Il successo che
ebbe fu immenso e decretò la fama di David. La data della sua esecuzione, a soli
quattro anni dallo scoppio della Rivoluzione Francese, fanno sì che questo quadro ben
rappresenti il clima prerivoluzionario della Francia. Un clima in cui, anche grazie ai
quadri di David, si avvertiva la necessità di un ritorno ai valori etici forti che
avrebbero consentito ai francesi il sacrificio di tante vite umane pur di affermare i
nuovi valori di libertà, uguaglianza e fraternità.
Il David ha utilizzato la storia classica per altri quadri simili a questo. Ricordiamo
«Belisario riconosciuto» (1781), «Il dolore di Andromaca», «Le Termopili», «I
Littori portano a Bruto i corpi dei suoi figli» (1789), e «Il Ratto delle Sabine» (1799).
Ma in nessuno di questi quadri David riesce a raggiungere un uguale livello di
comunicatività e di sintesi tra contenuto e forma. Nelle sue altre opere di soggetto
storico si avverte un’’ispirazione più di maniera ed una eccessiva teatralità scenica che
stemperano l’’emozione che l’’immagine vuole trasmettere.
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Jacques-Louis David, La morte di Marat, 1793
Se il giuramento degli Orazi è di certo il quadro neoclassico per eccellenza, la morte
di Marat è il quadro che più di ogni altro dà immagine al dramma della Rivoluzione
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Francese. Anche qui il contenuto del quadro è l’’eroismo, ma nel doloroso prezzo che
tale scelta impone: il sacrificio della propria vita.
La Rivoluzione Francese era scoppiata nel 1789. Dopo la deposizione della
monarchia si ebbe in Francia un periodo di grossa instabilità politica, caratterizzata da
un periodo violento e sanguinoso. Tra i protagonisti di questa cruenta fase della
Rivoluzione, che culminò con la condanna e l’’esecuzione del re Luigi XVI, ci fu
anche Jean-Paul Marat. L’’uomo politico fu assassinato nel 1793 da Carlotta Corday.
Marat, che soffriva di dolori reumatici, trascorreva la maggior parte del suo tempo
immerso in una vasca con l’’acqua calda. Carlotta Corday lo sorprese mentre era nella
vasca, e lo pugnalò con un coltello.
David, che era amico di Marat, ricordò la sua morte con un quadro che divenne
immediatamente famoso. L’’artista voleva esaltare le virtù eroiche di Marat e, nel
contempo, rendere emozionante e densa di significato la sua morte. Scelse così, come
«momento pregnante», non il momento in cui venne assassinato, ma il momento
successivo in cui il corpo inanimato ci mostra tutta la cruda realtà della morte. Marat
è solo. Il quadro nella parte superiore è completamente vuoto e scuro. Nella parte
inferiore ci mostra il corpo in tutta la solitudine e il silenzio della morte. Tutta la
composizione è giocata su pochissimi elementi rappresentati con linee orizzontali e
verticali. Marat, nel momento in cui fu assassinato, stava rispondendo ad una donna
che gli aveva scritto perché era in difficoltà finanziarie. Marat, pur non essendo ricco,
le stava inviando un assegno che si intravede sul piccolo tavolino affianco al
calamaio. Il particolare è da David volutamente inserito nel tessuto narrativo della
scena per sottolineare come Marat fosse una persona di animo generoso. Il coltello,
usato dalla donna, è a terra sporco di sangue. Marat ha ancora in una mano la lettera e
nell’’altra la penna per scrivere. Questo braccio, che ricorda il braccio del Cristo nel
quadro della Deposizione di Caravaggio, è abbandonato a terra, creando l’’unica linea
diagonale della scena. La testa, appoggiata sul bordo della vasca, è reclinata così da
mostrarci il viso di Marat.
Tutto il quadro ispira un silenzio che non può essere rotto in alcun modo. Esso rimane
come la testimonianza più lucida e commovente di quel periodo del Terrore che
avrebbe portato al sacrificio di tante vite umane.
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Jacques-Louis David, I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli, 1789
Il quadro rappresenta un episodio della storia romana. Bruto, ritratto in primo piano
sulla sinistra, condannò i propri figli a morte perché colpevoli di tradimento contro la
patria. Dietro la sua figura, che ricorda il ritratto etrusco chiamato «Bruto capitolino»
conservato a Roma, si vedono i littori che riportano i corpi dei figli di Bruto. Sulla
sinistra il gruppo delle donne, madre e sorelle delle vittime, si disperano per
l'accaduto. Anche questo quadro, come il «Giuramento degli Orazi» sfrutta un
episodio della storia romana per proporre un concetto etico: il valore della patria è un
valore supremo, superiore anche all'affetto che un padre prova per i propri figli. In
realtà, per la crudezza quasi spietata dell'episodio, ed anche per una composizione
formale meno controllata e compatta, il quadro risulta meno emozionante e
coinvolgente rispetto al «Giuramento».
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Jacques-Louis David, Belisario che riceve l'elemosina, 1781
Il quadro è stato dipinto da David, tra il 1778 e il 1781, al suo rientro a Parigi dopo il
soggiorno a Roma. È dunque il primo di una lunga serie di quadri in cui il pittore
francese utilizzerà la storia come ispirazione ed esempio morale. In questo caso
l'episodio rievocato è quello del generale bizantino Belisario, vissuto nella prima
metà del VI secolo, che, dopo una gloriosa vita di guerre condotte per difendere
l'impero contro Goti, Unni, Persiani e Vandali, in vecchiaia, oramai cieco, fu
dimenticato da tutti e, ridotto in miseria, fu costretto a chiedere l'elemosina per
vivere. L'episodio, già utilizzato da altri pittori, viene ripreso dal David per ricordarci
come sia caduca e provvisoria la gloria conquistata e triste la condizione della
vecchiaia.
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Jacques-Louis David, Le Sabine, 1794-99
«Le Sabine» è un quadro che viene concepito e realizzato subito dopo il «Giuramento
degli Orazi» e ne prosegue il fortunato filone. L'episodio leggendario di storia romana
rievocato è in questo caso il ratto delle Sabine. Il popolo romano, nei primi tempi
della loro storia, era formato soprattutto da uomini, e ciò pregiudicava ovviamente la
possibilità di riprodursi. Cercarono quindi di procurarsi delle donne rapendole al
vicino popolo dei Sabini. Quando questi si resero conto dell'accaduto, mossero guerra
ai romani. La guerra fu tuttavia scongiurata dall'intervento pacificatrice proprio delle
donne rapite, che riuscirono a riportare la pace acconsentendo ad un unione
matrimoniale con i romani. L'episodio, in questo caso, tende a dare alla donne il
ruolo anch'esse di protagoniste della storia, soprattutto quali elementi che tendono
alla pace, donne che invece nei quadri precedenti, quali «Il Giuramento» o «Il Bruto»,
subivano i dolorosi lutti provocati dalle necessità di stato.
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Jacques-Louis David, Leonida alle Termopili, 1814
Il quadro è un altro esempio di eroismo tratto dalla storia classica. L’’episodio
raffigurato in questo quadro rievoca la vittoria ottenuta dai greci contro i persiani alle
Termopili nel 480 a.C. I greci, comandati dal re di Sparta Leonida I, che proprio in
questa battaglia perse la vita, pur essendo solo 300 uomini, grazie al loro eroismo di
combattenti riuscirono a sconfiggere un esercito di gran lunga più numeroso,
riuscendo in questo modo ad evitare che la Grecia venisse invasa dai persiani del re
Serse.
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Jacques-Louis David, Bonaparte valica il Gran San Bernardo, 1800
Uno dei primi quadri che David dedica a Napoleone è questo ritratto a cavallo in cui
il generale còrso viene esaltato nelle sue qualità di stratega militare, al pari di grandi
condottieri del passato quali Annibale, che anch'egli valicò le Alpi per portarsi in
Italia alla conquista di Roma.
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Jacques-Louis David, Incoronazione di Napoleone, 1805-07
Quadro di notevoli dimensioni, il cui significato è di immediata comprensione:
tramandare a posteri il momento storico della proclamazione nel 1804 di Napoleone
quale imperatore della Francia. La scena ha la staticità che ci si attende da un
momento così solenne, dove tutto è concepito per dare risalto alla potenza di
Napoleone.
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Antonio Canova
Antonio Canova (1757-1822), è il maggior artista italiano ad aver partecipato alla
vicenda del neoclassicismo ed è anche l’’ultimo grande artista italiano di livello
europeo. Dopo di lui, per tutto il corso del XIX secolo, l’’Italia ha svolto un ruolo
molto marginale e periferico nell’’ambito della formulazione delle nuove teorie e
pratiche artistiche.
Formatosi in ambiente veneziano, le sue prime opere rivelano la influenza dello
scultore barocco del Seicento Gian Lorenzo Bernini. Trasferitosi a Roma, partecipò al
clima cosmopolita della capitale in cui si incontravano i maggiori protagonisti
dell’’arte neoclassica. A Roma svolse la maggior parte della sua attività, raggiungendo
una fama immensa. Fu anche pittore, ma produsse opere di livello decisamente
inferiore rispetto alle sue opere scultoree. Nelle sue sculture Canova, più di ogni altro,
fece rivivere la bellezza delle antiche statue greche secondo i canoni che insegnava
Winckelmann: «la nobile semplicità e la quieta grandezza».
Le sculture di Canova sono realizzate in marmo bianco e con un modellato armonioso
ed estremamente levigato. Si presentano come oggetti puri ed incontaminati secondo i
princìpi del classicismo più puro: oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna.
I soggetti delle sue sculture si dividono in due tipologie principali: le allegorie
mitologiche e i monumenti funebri. Al primo gruppo appartengono: «Teseo sul
Minotauro», «Amore e Psiche», «Ercole e Lica», «Le tre Grazie»; al secondo gruppo
appartengono i monumenti funebri a Clemente XIV, a Clemente XIII, a Maria
Cristina d’’Austria.
Nei monumenti di soggetto mitologico i riferimenti alle sculture greche classiche è
scoperto ed immediato: le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono
assenti o silenziose, le composizioni molto equilibrate e statiche. Il momento scelto
per la rappresentazione è quello classico del «momento pregnante», evidente ad
esempio nel gruppo di «Teseo sul Minotauro». Canova, invece di rappresentare la
lotta tra Teseo e l’’essere metà uomo e metà toro, sceglie di rappresentare il momento
in cui Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro, ha scaricato tutte le sue energie
offensive per lasciar posto ad un vago senso di pietà per l’’avversario ucciso. È un
momento di quiete assoluta in cui il tempo si congela per sempre. È quello il
momento in cui la storia diventa mito universale ed eterno.
Nei monumenti funebri Canova parte dallo schema classico a tre piani sovrapposti.
Nei monumenti dei due papa Clemente XIII e XIV al primo livello ci sono le
immagini allegoriche che rappresentano il senso della morte; al secondo livello vi è il
sarcofago; al terzo livello vi è la figura del papa. Questo schema, che dal Trecento
aveva caratterizzato tutta la produzione di monumenti funebri, venne dal Canova
variata con il monumento a Maria Cristina d’’Austria –– in esso un corteo funebre si
accinge a varcare la soglia dell’’oltretomba raffigurata come una piramide –– e nei
monumenti a stele in cui è evidente il ricordo delle tante stele funerarie provenienti
dall’’antica Roma.
I monumenti funerari rappresentano un tema molto sentito dagli artisti neoclassici. Da
ricordare che, negli stessi anni, l’’importanza dei «sepocri» veniva affermata anche dal
poeta Ugo Foscolo. Per il Foscolo il sepolcro doveva conservarci la memoria dei
grandi personaggi della storia esaltandone il valore quali esempi di virtù. La morte,
che nella precedente stagione barocca veniva visto come qualcosa di orrido e di
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macabro, dall’’arte neoclassica era vista come il «momento pregnate» per eccellenza.
Il momento in cui si scaricano tutte le contingenze terrene per entrare nel silenzio
assoluto ed eterno.
Il Canova nel periodo napoleonico divenne il ritrattista ufficiale di Napoleone
producendo per l’’imperatore diversi ritratti, tra cui quello in bronzo, ora collocato a
Brera, che fu rifiutato dall’’imperatore perché Canova lo aveva ritratto nudo. Tra i
ritratti eseguiti per la famiglia imperiale famoso rimane quello di Paolina Borghese
semidistesa su un triclino, seminuda e con una mela in mano, secondo una
iconografia di chiara derivazione tizianesca, pur se caricata di significati mitologici.
Oltre all’’attività di scultore, Canova fu anche impegnato nella tutela e valorizzazione
del patrimonio artistico. Nel 1802 ebbe l’’incarico di Ispettore Generale delle
Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa. Nel 1815, dopo la caduta di
Napoleone, ottenne di riportare in Italia le tante opere d’’arte che l’’imperatore aveva
trasportato illegalmente in Francia. Morto nel 1822, il suo sepolcro è a Possagno, il
paesino in provincia di Treviso dove era nato, e dove egli, a sue spese, fece erigere un
tempio dove nel 1830 furono traslate le sue spoglie.
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Antonio Canova, Monumento a Maria Cristina d'Austria, 1798-1805
Il monumento funerario a Maria Cristina d’’Austria rappresenta una grossa novità
nella tipologia dei monumenti funerari. Il monumento funebre ha sempre avuto come
centro compositivo il sarcofago o l’’urna in cui materialmente venivano conservare le
spoglie del defunto. Al di sopra dell’’urna veniva collocata l’’effige statuaria del
defunto; di sotto o di fianco venivano poste immagini allegoriche sul significato della
morte. Nel monumento a Maria Cristina d’’Austria l’’urna scompare per essere
sostituita dalla immagine triangolare di una piramide. L’’effigie statuaria viene
sostituita da un ritratto di profilo a bassorilievo, inserito in un medaglione di chiara
derivazione classica.
Notevole importanza assumono le figure allegoriche che, nella intenzione dell’’artista,
non sono puri e semplici simboli ma devono commuovere per l’’azione in divenire che
stanno rappresentando. In questo caso, infatti, le figure compongono un singolare
corteo funebre che si accinge a salire i gradini che portano alla porta della piramide.
Da questa porta fuoriesce un tappeto che scorre sui gradini come un velo leggero e
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impalpabile. Il corteo è aperto da una giovane ragazza che ha già un piede oltre la
soglia della tomba. È seguita da una donna che rappresenta la Pietà con in mano
l’’urna delle ceneri della defunta. Un’’altra ragazzina la sta seguendo. Più indietro
un’’altra giovane donna avanza, aiutando un vecchio uomo a salire le scale. Sono
rappresentate tutte le tre età della vita, dalla gioventù alla vecchiaia, a simboleggiare
che la Morte non risparmia nessuno. Le figure procedono con incedere lento e mesto.
Hanno tutti la testa chinata in avanti, a simboleggiare che nei confronti della Morte la
superbia umana non può nulla. Di fianco la porta della piramide, che quindi
simboleggia la porta di passaggio dal mondo terreno al mondo dei morti, c’’è
l’’allegoria del Genio della Morte poggiato sul Leone della Fortezza. In alto, il
medaglione con il ritratto di Maria Cristina d’’Austria è circondato da un serpente che
si morde la coda, simbolo quest’’ultimo dell’’Eterno Ritorno. Il medaglione è sostenuto
dalla allegoria della Felicità, mentre un’’altra figura angelica porge alla defunta una
palma, simbolo della gloria.
La piramide, come simbolo dell’’Oltretomba, è decisamente una immagine
neoclassica. Contiene la reminescenza delle antiche piramidi egiziane, i più grandi
monumenti funebri mai realizzati dall’’uomo, e si presenta con una forma geometrica
semplice, il triangolo, ma carico di notevoli significati allegorici. La porta che si apre
nella piramide assomiglia invece, per fattura, alle porte delle tombe etrusche delle
necropoli di Tarquinia o Cerveteri. Ed anche questo riferimento etrusco,
nell’’immaginario collettivo, finisce per collegarsi al mondo dell’’Oltretomba. Il senso
della morte, qui rappresentato, ha la dignità profonda e nobile della concezione
neoclassica. Tuttavia, la commozione che suscita il corteo funebre finisce per
prendere un significato quasi tutto romantico. La scelta di anticipare il momento
pregnante, non a quello eterno della Morte oramai sopraggiunta, ma al momento
precedente in cui la Morte richiama a sé le persone che, a capo chino, non possono
sottrarsi al suo invito, carica di profondo dolore la percezione della morte come
azione in divenire. È il profondo strazio di chi, pur restando vivo, non può che
guardare con senso di sgomento e di ineluttabilità l’’avviarsi alla morte delle persone
care. Questa inaspettata rappresentazione di un dolore, che deve suscitare
compassione in chi guarda, è la prova della grandezza del genio di Canova che, al di
là della facile etichetta di scultore neoclassico, per la inconfondibile fattura stilistica
delle sue statue, si presenta come un artista capace di cogliere i fermenti più vivi e
nuovi del suo tempo, ed anche anticiparli nelle sue opere d’’arte.
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Antonio Canova, Amore e Psiche, 1787-93
Il gruppo, oggi conservato al Louvre, appartiene alle allegorie mitologiche della
produzione canoviana. Esso rappresenta Amore e Psiche nell’’atto di baciarsi.
Eseguita in marmo bianco, la scultura ha superfici levigate ed un modellato molto
tornito. La composizione ha una straordinaria articolazione: la donna, Psiche, è
semidistesa, rivolge il viso e le braccia verso l’’alto e, per far ciò, imprime al corpo
una torsione ad avvitamento; l’’uomo, Amore, si appoggia su un ginocchio mentre con
l’’altra gamba si spinge in avanti inarcandosi e contemporaneamente piegando la testa
di lato per avvicinarsi alle labbra della donna. Il soggetto è probabilmente tratto dalla
leggenda di Apuleio, secondo la quale Psiche era una ragazza talmente bella da
suscitare l’’invidia di Venere, così che la dea le mandò Amore per farla innamorare di
un uomo brutto. Ma Amore, dopo averla vista, se ne innamorò e, dopo una serie di
vicissitudini, ottenne che Psiche entrasse nell’’Olimpo degli dei, per restare con lui. Il
soggetto è qui utilizzato come allegoria del potere dell’’amore, visto soprattutto
nell’’intensità del desiderio che riesce a sprigionare: da qui la scelta di fermare la
rappresentazione all’’istante prima che il bacio avvenga ed il desiderio si consumi.
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Per comprendere lo spirito della cultura neoclassica è utile confrontare il gruppo
scultoreo di Amore e Psiche con un’’altra famosa allegoria mitologia: l’’«Apollo e
Dafne» di Gian Lorenzo Bernini. Quest’’ultimo gruppo scultoreo fu realizzato tra il
1622 e il 1625, agli inizi della diffusione del barocco, e rappresenta indubbiamente
uno dei maggiori esiti di questo stile di cui Bernini fu uno dei maggiori
rappresentanti. Dafne, secondo la mitologia, era una bellissima fanciulla di cui si era
innamorato Apollo. Dafne, per sfuggirgli, scappò ai piedi del Parnaso e qui, nel
momento in cui stava per essere raggiunta da Apollo, chiese aiuto alla madre che la
trasformò in una pianta di alloro.
Il gruppo del Bernini rappresenta indubbiamente un attimo fuggente: Dafne viene
appena sfiorata da Apollo ed ha già i capelli che stanno divenendo dei rami di alloro.
È giusto un attimo: l’’istante successivo Dafne non ci sarà più. Per enfatizzare ciò
Bernini dà al gruppo un’’apparenza di equilibrio instabile, evidente soprattutto nella
curva ad arco che forma il corpo di Dafne. Il gruppo del Canova ha invece una
fermezza ed una staticità molto più evidenti. Lo si osservi soprattutto nella visione
frontale. Il corpo di Psiche insieme alla gamba e alle ali di Amore formano uno
schema ad X simmetrico. Al centro di questa X le braccia di Psiche definiscono un
cerchio perfetto che inquadra al centro il punto focale della composizione: quei pochi
centimetri che dividono le labbra dei due. In quei pochi centimetri si gioca il
momento pregnante, ed eterno, del desiderio senza fine che l’’Eros sprigiona.
La differenza tra le due sculture non è da ricercarsi sulla differenza stilistica o
formale, risultando entrambe di notevolissima fattura per tecnica esecutiva, ma sulla
diversa cultura che le ispira. Lo sforzo del Bernini è di cogliere la vitalità della vita in
continuo movimento, e per far ciò cerca di annullare la materia per lasciare solo la
sensazione del divenire. Canova mostra invece tutta a tensione neoclassica di
giungere a quella perfezione senza tempo in cui nulla più può divenire, e per far ciò
pietrifica la vita dando alla materia una forma definitiva ed eterna.
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Antonio Canova, Teseo sul Minotauro, 1781-83
Il gruppo scultoreo è una rappresentazione del mito di Teseo e si pone come una delle
opere più esemplari del concetto di arte neoclassica. L'eroe ateniese, aiutato da
Arianna, penetrò nel labirinto di Creta, ove era rinchiuso il Minotauro, mostro metà
uomo e metà toro, e riuscì ad ucciderlo. L'episodio si prestava a molteplici possibilità:
uno scultore barocco come il Bernini ne avrebbe probabilmente approfittato per
cogliere il momento di massimo sforzo nello scontro tra Teseo e il Minotauro e
scolpire un gruppo di grande dinamicità e tensione. Invece Canova, da artista
neoclassico, cerca il momento della quiete e non dell'agitazione. E così preferisce
sintetizzare la storia al momento della vittoria di Teseo, quando la tensione si è
oramai sciolta e un profondo senso di pace pervade l'eroe. In questo istante si coglie
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anche un senso di umana pietà che Teseo prova verso il mostro sconfitto, in quanto la
sua nobiltà d'animo gli impone di non odiare il nemico. Tutto il gruppo scultoreo
tramette quindi un senso di profonda calma: è il momento in cui l'agitazione delle
passioni e delle azioni si spegne e si trasferisce all'eternità del mito. Da un punto di
vista stilistico il gruppo ha equilibri molto classici e le forme anatomiche di Teseo
richiamano direttamente le inespressive ma perfette fattezze di tante statue dell'antica
Grecia. Il gruppo è quindi una espressione paradigmatica delle nuove esigenze
estetiche dell'arte neoclassica.
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Antonio Canova, Ercole e Lica, 1795-1815
Il gruppo monumentale raffigura un episodio mitico legato a Ercole. L'eroe delle
dodice fatiche era sposato a Deianira ed insieme a lei si recò dall'amico Ceice in
Trachine ai piedi del monte Oeta. Dovendo lungo il tragitto traversare il fiume Eveno,
incontrarono il centauro Nesso che si offerse di traghettare la moglie di Ercole. Ma il
centauro, innamoratosi della donna, cercò di rapirla, ma fu ucciso da una freccia
scagliata da Ercole. Il centauro, per vendicarsi, prima di morire diede alla donna un
po' del suo sangue dicendole che con esso avrebbe potuto preparare un unguento che
le avrebbe permesso di conservare l'amore di suo marito. In un successivo episodio
Ercole, dopo una spedizione vittoriosa contro Eurito di Ecalia, conquista Iole, la figlia
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di Eurito. La moglie Deianira saputo di Iole, cercò di riconquistare il marito con un
unguento preparato con il sangue del centauro Nesso. Intrise una bianca veste con
questo unguento, e diede l'indumento a Lica per consegnarlo ad Ercole. In realtà il
sangue che Nesso aveva dato alla donna era velenoso e quando Ercole indossò la
veste il veleno cominciò a penetrargli nella pelle infiammandola e quasi rendendolo
pazzo dal dolore. Cercò di strapparsi la camicia di dosso, ma senza riuscirci. Preso da
violenta ira Ercole afferrò l'innocente Lica e lo scagliò così lontano che cadde in mare
e si trasformò in scoglio. La storia giunge all'epilogo con Deianira che, saputo cosa
aveva prodotto il suo unguento, si suicida mentre Ercole, dopo aver dato in sposa Iole
a suo figlio, si porta sul monte Oeta per finire le sue sofferenze tra le fiamme di un
rogo. E qui, mentre le fiamme cominciano a lambirlo, giunge Atena con un cocchio a
prendere l'eroe e portarlo con se sul monte Olimpo, dove Zeus gli fa dono dell'eterna
giovinezza.
Il gruppo scultoreo di Canova, conservato alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di
Roma, è di grande monumentalità ma tuttavia non trasmette un'impressione di grande
potenza, come la rappresentazione del gesto di Ercole richiederebbe. Il tutto rimane
troppo bloccato in una ricerca di equilibrio che finisce per stemperare la potenza
dell'azione. In questo caso appare evidente come la norma stilistica neoclassica mal si
adatta a rappresentare il movimento e l'azione.
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Antonio Canova, Le tre Grazie, 1812-16
Il gruppo delle tre Grazie era uno dei temi più in voga nel periodo neoclassico, ed
ovviamente non poteva mancare nel repertorio di Antonio Canova. Le tre figure di
Aglaia, Eufrosine e Talia erano le protettrici degli artisti, in quanto da loro proveniva
tutto ciò che vi è di bello nel mondo umano e naturale. Canova le raffigura nella
posizione più canonica, ovvero abbracciate e disposte a circolo. Sono nude, così come
le ritroviamo nella tradizione ellenistica, e vengono rappresentata dall'artista nella
classica posizione a chiasma. L'incrociarsi delle membra serve qui a dare un molle
abbandono alle figure che, nel sostenersi a vicenda, formano quasi un unico gruppo di
affetti e sensualità corrisposte. L'immagine è quindi concepita come esaltazione di
perfezione e bellezza, sommi canoni estetici per il gusto neoclassico.
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Antonio Canova, Monumento funerario di Clemente XIII, 1783-92
Il tema della sepoltura, abbiamo visto, è stato uno dei più praticati da Antonio
Canova, che nei suoi monumenti funebri tende alla consacrazione della memoria del
defunto, secondo le esigenze tipiche della cultura illuministica e neoclassica. Il
veneziano Carlo Rezzonico è stato papa con il nome di Clemente XIII dal 1758 al
1769. Di personalità molto amabile e caritatevole interpretò su queste basi la funzione
del suo apostolato mostrandosi quale «buon pastore» e non come statista interessato
agli affari politici e diplomatici internazionali. Il monumento eretto dal Canova si
trova in San Pietro in Vaticano. Questo sepolcro è stato concepito dallo scultore
secondo il classico schema a tre piani sovrapposti. Sul primo livello, quello
basamentale, poggiano le figure allegoriche: due leoni, simbolo della forza, che
proteggono la porta che da accesso al sepolcro, il genio della morte e la figura
femminile con la croce in mano simbolo della Religione. Al secondo livello è posto il
sarcofago, di forme ovviamente classicheggianti. Al terzo livello vi è la statua a tutto
tondo del papa, che il Canova, interpretandone il carattere, ci rappresenta in
atteggiamento umile, il triregno simbolo di potere è posto a terra, inginocchiato a
pregare.
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Antonio Canova, Monumento funerario di Clemente XIV, 1783-87
Il monumento è collocato nella Basilica dei Santi Apostoli a Roma, ed è stato
realizzato per ricordare la memoria del papa che nel 1769 successe a Clemente XIII.
Lorenzo Ganganelli, nativo di Sant'Arcangelo di Romagna, è stato papa con il nome
di Clemente XIV dal 1769 al 1774. La decisione più importante presa da Clemente
XIV è stata la soppressione dell'Ordine dei Gesuiti nel 1773. La questione dei gesuiti
era in quegli anni la più scottante nei rapporti tra gli stati europei e il papato. La
nuova cultura illuministica affermatasi nella seconda metà del Settecento aveva preso
di mira questo che tra gli ordini religiosi appariva il più potente ed influente. Da
ricordare che in quegli anni i gesuiti detenevano quasi il monopolio dell'educazione
dei giovani grazie ai numerosissimi collegi che essi avevano fondato a partire dalla
metà del Cinquecento in tutta Europa. L'ordine veniva anche stimato come dotato di
favolose ricchezze, e la prospettiva di incamerarne i beni era un obiettivo condiviso
da molti regnanti europei. Se Clemente XIII riuscì ad arginare i tentativi di
soppressione dell'ordine, Clemente XIV ne fece invece una sua questione
programmatica riuscendo a divenire papa proprio sulla base di questo suo
atteggiamento. Papa quindi dalla personalità volitiva e portata alla gestione del
potere, viene infatti rappresentato da Canova assiso in trono, con il triregno in testa, e
in atteggiamento severo. Il braccio destro proteso in avanti diviene quindi simbolo
della sua capacità di prendere ed imporre decisioni anche di grande portata storica. Il
monumento, come quello realizzato per Clemente XIII si svolge su tre livelli. Sulla
parte basamentale vengono collocate due figure femminili, allegorie dell'Umiltà e
della Temperanza, al secondo livello viene posto il sarcofago, infine a coronare il
monumento la statua del papa.
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Antonio Canova, Paolina Borghese, 1804-08
La grande fama acquisita da Antonio Canova, fece sì che tra i suoi committenti ci
fosse anche Napoleone Bonaparte. Per Napoleone Canova eseguì diversi lavori che
immortalarono non solo la figura dell'imperatore ma anche dei suoi familiari. Uno dei
ritratti più famosi è sicuramente questo dedicato a Paolina Bonaparte, sorella di
Napoleone, e moglie del nobile romano Camillo Borghese. La rappresentazione segue
ovviamente i precetti neoclassici. Innanzitutto Paolina è raffigurata idealisticamente
nuda, e con in mano un pomo. La sua immagine richiama quindi quella di Venere
vincitrice, con il pomo di Paride in mano, attestato di superiore bellezza. La figura è
adagiata mollemente su un triclino, richiamando un po' la tipologia dei ritratti
semidistesi presenti sui sarcofagi etruschi (ad esempio, il "sarcofago degli sposi"
conservato a Villa Giulia). Tuttavia, a dispetto di questo richiamo un po' funereo, la
notevole abilità tecnica di Canova riesce ad infondere quasi un palpito di vita
all'immagine di marmo, risultando così verosimile l'intera scultura da suscitare
apprezzamenti più che entusiastici nei numerosi estimatori di questa opera.
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