Scheda n. 10 Consolare gli afflitti Consolate, consolate il mio popolo

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Scheda n. 10 Consolare gli afflitti Consolate, consolate il mio popolo
Scheda n. 10 Consolare gli afflitti1
Consolate, consolate il mio popolo - dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la
sua tribolazione è compiuta (Is 40,1-2a)
1. La consolazione di Cristo va ricevuta e donata
La consolazione, annunziata dai profeti come caratteristica dell’era messianica (Is 40,1), doveva essere
portata dal Messia. Consiste, essenzialmente, nella fine della prova e nell’inizio di un’era di pace e di gioia.
Il cristiano unito al Cristo è consolato proprio in mezzo alla sua sofferenza, eco profetica della seconda parte
del libro di Isaia "Libro della Consolazione di Israele" (Is 40-55), che inizia con queste parole: «Consolate,
consolate il mio popolo, dice il vostro Dio».
Inoltre, è la seconda delle beatitudini proclamate da Gesù. La Chiesa risponde con una delle sette opere di
misericordia spirituale, proposte ai fedeli: "Consolare gli afflitti". Opera ispirata dallo Spirito Santo con i
suoi sette doni: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio. La pietà, appunto, è il
dono dello Spirito Consolatore che più ci predispone a "consolare gli afflitti" con la forza illuminante degli
altri sei doni.
La consolazione messianica non deve essere ricevuta passivamente, perché, nello stesso tempo, essa è
conforto, incoraggiamento, esortazione, proposta di dono offerto anche agli altri. Per questo la Bibbia,
innanzitutto, ci informa sulla necessità di consolare gli afflitti: «Ho atteso consolatori ma non ne ho
trovati» (Si 69, 21). Consolatori veri, portatori di speranza, non di fastidio o d’irritazione: «siete tutti
consolatori molesti» (Gb 16, 2), consolatori superficiali lontani dalla verità, distaccati, perché non partecipi
empaticamente del dolore altrui, incapaci di capirne le reali motivazioni, a differenza di Giobbe che, nel suo
dolore, ha coscienza di essere stato, in passato, un consolatore: «Vi rimanevo come consolatore degli
afflitti» (Gb 29, 25).
2. L’afflizione come fragilità umana
Ma che cosa significa, esattamente, consolare gli afflitti? Chi appartiene a questa categoria? E come si fa
a consolarlo; quando è possibile; quando è opportuno? «Afflictus», in latino, vale «abbattuto, rovinato,
afflitto» e deriva da «adfligěre, affligěre», che significa «battere, sbattere, gettare giù, abbattere», tanto nel
significato materiale dell’espressione, quando in quello psicologico e morale. Nell’italiano moderno è
andato perso il significato materiale del verbo ed è rimasto solo quello spirituale: l’afflizione è uno stato
dell’animo e l’essere afflitto è la condizione di chi sia profondamente triste, deluso, amareggiato,
sconfortato, privo di fiducia e di speranza che le cose possano rimettersi al meglio. Ciò detto, bisogna
tuttavia osservare che gli afflitti non appartengono tutti ad un’unica, indistinta categoria, ma che in essi si
possono riconoscere almeno due categorie fondamentali: quelli che soffrono per delle circostanze obiettive e
quelli che soffrono essenzialmente per mancanza di fiducia in se stessi e perché ingigantiscono i problemi.
Quasi tutti, quando soffriamo, desideriamo in fondo di sentire una parola buona o ricevere un gesto,
anche soltanto uno sguardo di simpatia e di comprensione, da un amico, da un parente, da un conoscente,
fosse pure da un estraneo. D’altra parte, non tutti riescono ad aprirsi o, peggio, vogliono realmente essere
consolate per ricostituire le proprie forze e rimettersi in piedi; ve ne sono di quelle che vorrebbero seguitare
a lamentare all’infinito per poter essere consolate all’infinito e via così, in una spirale senza fine.
3. La consolazione come vicinanza
Appunto, in che cosa consiste la consolazione? La consolazione è una pratica di umanità che l'uomo in
quanto tale conosce, auspica, chiede, mette in atto, di fronte alle situazioni di morte, di sofferenza fisica e
morale, di vecchiaia, di solitudine e abbandono. Meglio, di fronte a persone nel lutto, nella sofferenza,
nella vecchiaia, nell'isolamento, nell'abbandono. L'antichità sviluppò una vera e propria arte della
consolazione: l'arte di consolare consisteva in una presenza compassionevole, nella capacità di parole sentite
di incoraggiamento e vicinanza, in visite di condoglianze e in biglietti o lettere di tono consolatorio. Il verbo
greco che indica l’atto di consolare (parakalein) significa ad un primo livello, «chiamare accanto», «far
venire a sé», quindi significa «esortare, supplicare», e quindi anche «consolare».
Nella consolazione si tratta di creare una prossimità, di farsi "presenza accanto" a chi è nella
desolazione e nella solitudine. Certamente a volte essa può essere realizzata con parole. Paolo, nella prima
lettera ai cristiani di Tessalonica, annuncia la speranza cristiana di fronte alla morte per consolare una
comunità afflitta per la morte di alcuni membri (1Ts 4,13-17) e conclude: «Consolatevi dunque a vicenda
con queste parole» ( 1Ts 4,18). Una consolazione reale è spesso costituita da una presenza capace di ascolto.
Una presenza che non svilisce la disgrazia dell'afflitto con parole banalizzanti o falsamente rassicuranti, con
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Di don Roberto Tessitore, Cammino di catechesi per gli adulti 2015/16 sulle Opere di misericordia
parole illusoriamente spirituali, con discorsi teologici, che inevitabilmente non raggiungono il tragico che la
persona sta vivendo, anzi se ne distanziano.
La consolazione, come il dolore e il lutto, ha i suoi tempi. Affrettare discorsi e parole spesso è segno di
angoscia e di paura di fronte all'afflizione dell'afflitto. Più difficile, ma più efficacemente capace di
raggiungere l'altro nel suo dolore, è ascoltare la sua sofferenza, lasciare che sia il suo silenzio, il suo animo,
a suggerire gesti, tempi, movenze, silenzi, parole, sguardi, abbracci, carezze, distanze, per poter essergli
realmente di consolazione. Il rischio, infatti, è di credersi capaci di consolare e fallire l'incontro con l'afflitto.
Occorre spogliarsi dalle forme di "potere" che ci possono abitare, rinunciare alle risposte salvifiche,
all'illusione di possedere "tecniche" di consolazione. Né mai colui che si fa prossimo a chi è nel dolore potrà
sostituirsi a lui, altrimenti la sua azione sarà di violenza, non di incontro e di consolazione.
Tuttavia, non tutti desiderano davvero essere consolati nelle loro afflizioni: perché non tutti sono disposte
ad accettare la fatica di rialzarsi in piedi, dopo essere caduti; alcuni, infatti, preferiscono continuare a
lamentarsi senza fine, piangere e pestare i piedi in terra. Non è detto che una persona, per il fatto di piangere
e disperarsi, stia realmente chiedendo aiuto; così come non è detto che una persona che si lascia andare, che
si abbatte, che sprofonda in un cupo fatalismo, desideri realmente essere aiutata ad uscirne. La compassione
è il sentimento che una persona sana non può non provare davanti al dolore, all’infelicità, allo smarrimento
di un’altra anima. Il compatimento invece è una cosa diversa: pur venendo dalla stessa radice, «patire
insieme a qualcuno», nel compatimento vi è sempre una sfumatura di fastidio, se non di disprezzo, perché ci
si trova in presenza di qualcuno che il dolore se lo è andato a cercare, di qualcuno che ha fatto di tutto per
rendersi infelice; e dunque colui che cerca il compatimento degli altri è un individuo che ha smarrito il senso
della propria dignità e del rispetto dovuto a se stesso.
4. Essere prossimi nel lutto
Di fronte a un lutto, poi, è essenziale rispettare il dolore e accettare che la crisi innescata dalla perdita
faccia il suo corso. Certamente, la solitudine (a volte spaventosa) che nasce da un'esperienza di lutto, può
divenire il passaggio attraverso cui la persona accede a una presa di contatto più profonda con sé stessa.
Vitale, nell'azione di consolazione, è guardarsi dalla presunzione di saper e poter consolare, dal delirio
di onnipotenza di pensare che il benessere dell'altro dipenda da noi. La consolazione non è un intervento
anestetico! Si tratta di entrare in qualche modo nella situazione di sofferenza dell'altro, o meglio, di essere
accanto all'altro nella sua sofferenza. Consolare è una fatica che esige un lavoro su di sé. Le parole e gli
atteggiamenti di chi porge le condoglianze sono spesso espressione della superficialità, il trionfo
dell'imbarazzo, un doveroso rituale a cui non ci si può sottrarre ma di cui non si è all'altezza. Solo chi ha e
ha saputo abitare nel dolore, assumerne il vuoto, lasciarsi plasmare dalla mancanza, può nobilitare, con la
sua discrezione e la sua intelligenza di ciò che sta avvenendo nell'animo di chi è nel lutto, quell'incontro.
Di contro, a volte, colui che ha subito un lutto, non vuole essere consolato, non vuole facili e rapidi
conforti esprimendo così il tragico della perdita, il suo carattere irrimediabile e definitivo, e suggerendo che
la consolazione dovrà attenersi alla volontà, al quadro relazionale e ai tempi dell'uomo nell'afflizione..
5. È Dio che ci dona la sua consolazione
Nella Bibbia ritorna frequente questo lamento: «Ho atteso consolatori, ma non ne ho trovati» (Sal
69,21), «Ecco il pianto degli oppressi che non hanno chi li consoli: da parte dei loro oppressori sta la
violenza, mentre per essi non c'è chi li consoli» (Ql 4,1). La consolazione è una prossimità che giunge fino
all'intimità (in 2Sam 12,24 Davide consola Betsabea). Consolare è "parlare sul cuore" (Gen 50,21 e anche
Is 40,1-2) che designa il gesto amoroso e affettuoso di chi appoggia il proprio capo sul petto della persona
amata (vedi l’apostolo Giovanni e Gesù nell’ultima cena) e a cui rivolge parole che vogliono raggiungerla in
profondità, nel cuore. Si tratta di una comunicazione intima, personalissima. In questo modo la
consolazione appare un elemento essenziale della cura che Dio ha per il suo popolo e le sue creature.
È significativo che l'immagine forse più commovente che esprime la salvezza sia quella di Dio che
asciuga le lacrime dagli occhi delle creature umane sofferenti e afflitte (Ap 7,17; 21,4). Certo, la
consolazione definitiva, nel cristianesimo, è escatologica, è opera di Dio perché vuole essere consolazione
radicale di fronte al male, alla morte e al peccato. Questa consolazione può venire solo da Dio, «il Padre
misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2Cor 1,3). Gesù, che ha conosciuto l'afflizione del lutto
piangendo la morte dell'amico Lazzaro (Gv 11,35), ha a sua volta consolato chi si trovava nel lutto (Lc 7,13)
e insegnato ai discepoli a «piangere con chi piange» (Rm 12,15), promettendo la beatitudine a chi conosce
afflizioni a causa del Regno (Mt 5,4). Gesù, nel racconto dell’Ultima cena, promette ai suoi discepoli la
venuta del Paraclito, il Consolatore, che è poi un altro nome dello Spirito Santo.