Il Capolinea di Daniela Tani
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Il Capolinea di Daniela Tani
Il capolinea Il sedile su cui mi ero seduta si appiccicava alle mie gambe sudate sotto il vestitino corto di cotone. Sollevai un po’ il sedere e tirai su la stoffa. Sentii allora la plastica rugosa attaccarsi agli slip del costume e pensai alla candida. Che non è qualcosa di bianco e pulito, ma sono perdite bianchicce che danno prurito. Si può prendere anche così - diceva mia zia - nei bagni pubblici e sugli autobus, nelle toilette dei treni, e dagli asciugamani umidi. Ometteva sempre di inserire in elenco il modo più comune di prendersi la candida: da contatto diretto con persona affetta da …. A questo pensavo, guardando fuori dal finestrino e rammaricandomi di non aver messo i pantaloni. Era una domenica mattina d’agosto e stavo andando a trovare un’ amica in un paese a trenta minuti dal centro. Faceva caldo, i finestrini erano aperti, ma il vento che entrava non sarebbe bastato nemmeno a spegnere un fiammifero. Il mio scooter si era fermato il giorno prima vicino alla stazione e non c’era stato modo di farlo ripartire. Non prendevo l’autobus dall’ultimo anno delle scuole medie. Una signora seduta davanti a me sventolava un ventaglio su cui era dipinta la coda blu e verde di un pavone, un leggero movimento d’aria mi passava appena sul labbro superiore. In mezzo al traffico scorrevole, l’autista volava. Pochi passeggeri, nessuno scendeva e nessuno saliva. Quando l’autobus si fermò, salì una donna con le cosce abbondanti sotto un abitino aderente a fiori, aveva in mano una borsa bianca di plastica e stava parlando al cellulare. Si sedette dietro di me. Immaginai che parlasse rumeno, mi sembrava di riconoscere le stesse tonalità dei muratori ai quali servivo il caffè nel bar di mia madre. Sentii più volte la parola “capolinea” e “ciao, ciao” poi una mano mi sfiorò la spalla. Mi voltai. - Tu sai cosa capolinea? - Il capolinea è quando l’autobus si ferma, aspetta un po’ e poi torna indietro - Si, ma dove? - Anch’io scendo al capolinea - Tu conosci paese si chiama Capolinea? - Capolinea non è un paese, è la fine del percorso - Bene, tu dici me quando è Capolinea? Le chiesi da dove venisse. - Sono di Romania, vado Capolinea perché amica viene a prendere me per presentare lavoro con signora vecchia, ma lei non dice Capolinea tanto lontano. Io no piace campagna. - Quando scendo io scende anche lei, va bene? - Si, bene, io ora abito strada bella con tanti negozi, qui non c’è niente. - Però qui è tranquillo e ci abitano tante persone ricche. - Mia amica dice così, ma io non piace. La signora aveva un paio di orecchini rossi a forma di gufo con gli occhietti di brillantini. Più o meno poteva avere l’età di mia madre. L’autobus arrivò al capolinea, intravidi dal finestrino una donna bionda in pantaloni verdi. Scendemmo. Salutai la signora e le feci gli auguri per il lavoro. L’aria calda sembrava sparata da un phon silenzioso. Misi lo zainetto in spalla e camminai per un sentiero stretto fra muri storti e polverosi, raccolsi un cappero, arrivai al cancello della villa e scorsi l’acqua azzurra della piscina. Silvia mi aveva promesso di invitare Jacopo. Lei con Leo. Io con Jacopo. I suoi genitori in montagna, la villa tutta per noi. Io e Silvia eravamo state compagne di banco in prima liceo, poi lei a febbraio aveva preso una brutta epatite “da cozze” – come diceva sempre – cozze mangiate crude con limone a Sanremo – ed era rimasta più di un mese in ospedale. Alla fine di marzo era ancora debole e suo padre aveva deciso di farle ripetere l’anno. Non ci eravamo mai perse di vista però, andavamo in discoteca una volta alla settimana e quando era possibile usavamo la sua casa per invitare i ragazzi che ci piacevano. Suonai il campanello due volte, poi sentii il rumore delle ciabatte di plastica che si avvicinavano al cancello. - Entra, vai pure in piscina, noi veniamo dopo - mi disse frettolosa - Non c’è Jacopo? – chiesi guardandomi intorno - No, sembra sia andato al mare con altri amici. Mi sentivo accaldata e intristita, sarei voluta entrare nella casa in penombra, avevo bisogno di bere un bicchiere d’acqua. Lei però, avviandosi svelta nel suo bikini striminzito, mi dette un’occhiata in tralice, mi fece un segno con l’indice ruotante: ci vediamo dopo. Entrò in casa e chiuse la porta. Ciondolai indecisa sul da farsi, andai sul bordo della piscina, mi sfilai il vestito spiegazzato, tirai fuori dallo zaino l’asciugamano, lo appoggiai sull’erba, poi scivolai nell’acqua fresca. Cominciai a nuotare stesa sul dorso, mi ricordai della crema solare dimenticata sul tavolo in cucina e mi sembrò terribile essere il terzo incomodo o come diceva mia zia “quella che regge il moccolo”. Jacopo era troppo “figo” per me. Rimasi ad ascoltare le cicale impazzite e il silenzio di cui sembrava fatta la casa. Quando uscii dall’acqua mi accorsi di aver lasciato le ciabatte sul lato opposto. Girai intorno alla piscina camminando sull’erba, attenta a non sfiorare il bordo. Secondo mia zia non c’è cosa peggiore che camminare a piedi nudi sui pavimenti bagnati. Niente di peggiore per prendersi i funghi e le verruche. Mi asciugai al sole, mi vestii, andai verso la fontanella, sfilai dal rubinetto il tubo di gomma per annaffiare, bevvi una sorsata d’acqua e uscii chiudendo piano il cancello. Al capolinea, ad aspettare l’autobus c’ero solo io. Daniela Tani