Agatha Raisin era una donna confusa e infelice. Il suo matrimonio

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Agatha Raisin era una donna confusa e infelice. Il suo matrimonio
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Estratto da
Agatha Raisin e la turista terribile
Titolo originale dell’opera
Agatha Raisin and the Terrible Tourist
Traduzione dall’inglese
di Marina Morpurgo
© 1997 by M.C. Beaton
© 2013 astoria srl
via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: marzo 2013
ISBN 978-88-96919-54-5
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Agatha Raisin era una donna confusa e infelice. Il suo
matrimonio con il vicino di casa, James Lacey, era andato a
monte sul più bello a causa della ricomparsa di un marito
che lei aveva – troppo speranzosamente – creduto morto. E
invece lui era molto vivo, o almeno lo era stato finché qualcuno non lo aveva assassinato. Agatha pensava che l’aver risolto quel caso di omicidio avrebbe riavvicinato lei e James,
ma lui era partito per Cipro Nord, lasciandola sola.
Per quanto la vita di Carsely, un villaggio nei Cotswolds,
avesse smussato gli spigoli di Agatha, lei restava ancora,
almeno in parte, la donna d’affari cocciuta che era stata
un tempo, quando possedeva una sua società di pubbliche
relazioni a Mayfair, che poi aveva venduto, andando prematuramente in pensione e ritirandosi in campagna. E così
aveva deciso di inseguire James.
Cipro, Agatha lo sapeva, era divisa in due parti, con i
turcociprioti a nord e i grecociprioti a sud. James era partito
per il nord e da qualche parte, in qualche modo lei sarebbe
riuscita a rintracciarlo e a far sì che lui tornasse ad amarla.
Cipro Nord era il posto dove sarebbero dovuti andare in
luna di miele, e nei suoi momenti meno teneri pensava che
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James Lacey si fosse dimostrato rozzo e insensibile andandoci per i fatti suoi.
Quando la signora Bloxby, la moglie del pastore, passò a
farle visita, la trovò in mezzo a pile di abiti estivi dai colori
vivaci.
“Ti porti dietro tutta questa roba?” chiese la signora Bloxby, scostandosi dagli occhi una ciocca di capelli
grigi.
“Non so quanto tempo resterò laggiù,” disse Agatha.
“Meglio abbondare.”
La signora Bloxby la guardò dubbiosa. Poi disse: “Sei
sicura che la cosa che stai facendo sia quella giusta? Insomma, gli uomini non amano essere inseguiti”.
“E come fai allora a prenderli?” ribatté irosamente Agatha. Tirò su un costume da bagno intero, nero e oro, e lo
valutò con occhio critico.
“Ho dei dubbi su James Lacey,” disse la signora Bloxby
con quella sua voce gentile. “Mi ha sempre colpita come un
uomo freddo, piuttosto trattenuto.”
“Tu non lo conosci,” disse Agatha sulla difensiva, pensando alle notti passate a letto con James, notti tumultuose
ma silenziose, durante le quali lui non aveva pronunciato
una sola parola d’amore. “In ogni caso ho bisogno di una
vacanza.”
“Non stare via troppo. Ci rimpiangerai, tutti quanti.”
“Non c’è molto da rimpiangere, di Carsely. La Società
delle Dame, le feste della chiesa, sai che barba.”
“Sei un po’ crudele, Agatha, pensavo che ti divertissero.”
Ma senza James, Carsely pareva all’improvviso ad Agatha
un luogo squallido e vuoto, pieno solo di noia e nervosismo.
“Da dove parti?”
“Dall’aeroporto di Stansted, nell’Essex.”
“Come pensi di arrivarci?”
“Con la mia macchina, che poi lascerò al parcheggio per
le lunghe permanenze.”
“Ma se starai via molto a lungo ti costerà una fortuna.
Lascia che ti accompagni io.”
Ma Agatha scosse il capo. Voleva lasciarsi alle spalle
Carsely, la sonnacchiosa Carsely con i suoi abitanti gentili e
i cottage con il tetto di paglia – e tutti gli annessi e connessi.
Trillò il campanello. Agatha aprì la porta e il sergente
Bill Wong entrò guardandosi attorno.
“E così parti sul serio?” osservò.
“Sì, e non tentare di fermarmi, Bill.”
“Non credo che Lacey meriti tutti questi sforzi, Agatha.”
“La vita è la mia.”
Bill sorrise. Era mezzo cinese e mezzo inglese, sui venticinque anni ed era il primo amico che Agatha avesse mai
avuto, perché prima di trasferirsi nei Cotswolds aveva vissuto in un mondo duro e solitario.
“Vai, se proprio devi. Mi puoi portare una scatola di
dolcetti turchi, da dare alla mamma?”
“Certo,” disse Agatha.
“Mamma dice che al tuo rientro vuole averti a cena.”
Agatha riuscì a reprimere un brivido. La signora Wong
era una donna antipaticissima e una cuoca disastrosa.
Andò in cucina a fare il caffè e a tagliare una fetta di
torta e di lì a poco si trovarono seduti a chiacchierare di
faccende locali. Agatha sentì venire meno la sua determinazione. Ebbe una visione nitida dell’espressione dura e
fredda che James avrebbe esibito nel rivederla, ma poi la
scacciò dalla mente.
Sarebbe partita, punto e basta.
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L’aeroporto di Stansted ad Agatha parve paradisiaco
dopo la sua precedente esperienza con le folle spaventose di
Heathrow. Scoprì di poter fumare non solo nella sala delle
partenze, ma anche al cancello d’imbarco. C’erano alcuni
turisti ed espatriati britannici. Gli espatriati si distinguevano dai turisti grazie al loro abbigliamento caratteristico e
immancabile – le donne in abitini stampati, gli uomini in
completi o blazer leggeri, con il fazzoletto d’ordinanza al
collo – e tutti avevano quelle voci strangolate da figli e figlie
dell’impero britannico in India. A bordo delle Cyprus Turkish Airlines la Gran Bretagna coloniale sembrava essere
viva e vegeta.
Seduta nei pressi del cancello, si ritrovò circondata essenzialmente da voci turche. I suoi compagni di viaggio
sembravano tutti forniti di grandi quantità di bagaglio a
mano.
Fu annunciata la partenza del volo. Furono chiamati per
primi quelli della zona fumatori. Agatha salì sull’aereo con
un sospiro di felicità. Si era tagliata i ponti alle spalle. Non
c’era più modo di tornare indietro.
L’aeroplano si alzò in volo sopra i campi piatti e i cieli
grigi e piovosi dell’Essex, e tutti i passeggeri applaudirono
selvaggiamente. Ma cos’hanno da applaudire? si stupì Agatha. Sanno qualcosa che io non so? È insolito che uno dei
loro velivoli riesca a decollare?
Nell’istante in cui il carrello rientrò, il segnale no smoking si spense e Agatha fu subito avvolta da una nube di
fumo di sigaretta. Aveva un posto accanto al finestrino e di
fianco a lei c’era un donnone turcocipriota che di tanto in
tanto le sorrideva. Agatha tirò fuori un libro e cominciò a
leggere.
Poi, proprio quando stavano perdendo quota per at-
terrare a Smirne, nella Turchia occidentale, dove Agatha
sapeva che avrebbero fatto una sosta di un’ora prima di
ripartire, l’aeroplano fu investito dalla più spaventosa delle turbolenze. Le hostess si aggrapparono ai carrelli che
sbandavano pericolosamente da una parte all’altra. Agatha cominciò a pregare silenziosamente. Nessuno degli altri
passeggeri pareva turbato. Tutti si allacciarono le cinture di
sicurezza, chiacchierando amabilmente in turco. Gli espatriati sembravano abituati, e i pochi turisti come Agatha
avevano il terrore di infangare l’onore britannico mostrandosi spaventati.
Nel momento in cui Agatha pensò che l’aereo sarebbe
andato in pezzi, le luci di Smirne comparvero sotto di loro e
in breve furono sulla pista. Ci fu un altro applauso, e questa
volta si unì anche Agatha.
“Che spavento,” disse Agatha alla donna seduta accanto.
“È stato divertente, bella mia,” disse la donna turcocipriota nel suo accento da East End londinese. “Insomma,
per cose così a Disney World si paga.”
Dopo un’ora l’aeroplano ripartì. Tra la Turchia e Cipro
ai passeggeri fu servito un quadrato di pane stantio con del
formaggio di capra che pareva fatto a macchina, il tutto
annaffiato da succo di amarene.
Agatha sentì che l’aereo stava di nuovo scendendo. Altre
turbolenze, questa volta era un temporale. Il velivolo sbandò
e s’impennò come una bestia selvaggia, e guardando fuori
dall’oblò, Agatha vide con sgomento che l’aereo sembrava
avvolto da teli azzurri di fulmini. E ancora una volta i passeggeri continuarono a sorridere, chiacchierare e fumare.
Agatha non riuscì più a trattenersi. “Non dovrebbe tentare l’atterraggio con un tempaccio simile,” disse alla sua
vicina di posto.
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“Oh, ma loro atterrano in qualunque cosa, bella mia. Il
pilota è turco. Sono bravi.”
“Signore e signori,” disse una voce suadente. “Tra poco
atterreremo nell’aeroporto di Erçan.”
L’atterraggio fu nuovamente accolto da un applauso
scrosciante. Agatha sbirciò fuori. Era piovuto. Scese dal
fondo dell’aereo, lungo la scala che non era stata fissata
bene alla fusoliera e sussultava e sprofondava e ondeggiava
pericolosamente.
A casa ci torno a nuoto, pensò Agatha.
Raggiunto con successo l’asfalto della pista, si rese conto
che la calura era soffocante. Era come muoversi nel brodo.
Entrò stancamente nell’edificio aeroportuale. Sembrava più
una struttura militare, che una struttura civile. E in effetti
era stato un campo della RAF fino al 1975, e da allora non
erano stati fatti molti lavori.
Affrontò una lunga coda per il controllo dei passaporti,
perché parecchi turcociprioti possedevano passaporti britannici. La sua compagna di aereo disse, alle sue spalle: “Si
faccia dare un modulo. Non si faccia mettere il timbro sul
passaporto”.
“E perché mai?” chiese Agatha, girandosi di colpo.
“Perché se uno dopo vuole andare in Grecia, non lo lasciano entrare se ha un timbro turco sul passaporto, ma loro
le daranno un modulo e timbreranno quello, così lo tirerà
fuori dal passaporto, dopo, e lo butterà nella spazzatura.”
Agatha la ringraziò, prese il foglio, lo riempì e andò ad
aspettare i bagagli.
E aspettò.
“Ma cosa diavolo succede, qui?” chiese, rabbiosa.
Non ebbe risposta, anche se alcuni le sorrisero allegramente. Tutti chiacchieravano, fumavano, si abbracciavano.
Agatha Raisin, prepotente e dispotica, era atterrata in
mezzo al popolo più rilassato della terra.
Quando finalmente il bagaglio arrivò e i suoi due valigioni furono sistemati su un carrello per passare attraverso
la dogana, Agatha era in un bagno di sudore e tremava per
la fatica.
Aveva prenotato all’hotel Dome di Kyrenia, chiedendo loro, per telefono e prima di partire dall’Inghilterra, di
mandarle un taxi all’aeroporto.
Inizialmente Agatha pensò, esaminando la folla di facce
in attesa, che non fosse venuto a prenderla nessuno. Poi vide
un uomo che reggeva un cartello con su scritto: signora
rashin.
“L’hotel Dome?” chiese Agatha, con poche speranze.
“Certo,” disse il taxista. “No problema.”
Chissà se magari c’è una certa signora Rashin che sta
cercando il suo taxi, pensò Agatha, ma era troppo stanca
per darsene pena.
Sprofondò con gratitudine nel sedile posteriore. La notte nera le passava accanto veloce al di là dei finestrini appannati. Il taxi lasciò una strada a due corsie, passò alcune
barriere poste dai militari e poi cominciò a inerpicarsi su
per una vertiginosa strada di montagna. Contro il cielo notturno si stagliavano montagne frastagliate.
Poi il conducente disse “Kyrenia” e laggiù in basso, a
destra, Agatha vide le luci tremule di una città – e laggiù,
chissà dove esattamente, c’era James Lacey.
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L’hotel Dome era un grosso edificio sul lungomare di
Kyrenia, il cui nome turco è Girne, e l’albergo aveva visto
giorni migliori e possedeva una certa malconcia grandeur
coloniale. C’era qualcosa di toccante, nel Dome. Agatha si
presentò e i suoi bagagli furono portati in camera. Accese
l’aria condizionata, si fece un bagno e si preparò ad andare
a dormire, troppo stanca per disfare la valigie.
Si distese sul letto. Ma esausta com’era il sonno tardava
a venire. Si rivoltò nel letto infinite volte e poi decise di
alzarsi.
Armeggiò con le tende, le tirò indietro, aprì la finestra e
poi le persiane.
Uscì su un terrazzino, sentendo sfumare la rabbia. Davanti a lei si stendeva il Mediterraneo, argentato dalla luna,
calmo e placido. L’aria tiepida profumava di gelsomino e
aveva un che di salmastro. Posò le mani sulla ringhiera di
ferro del balcone e fece dei respiri profondi. Le onde si frangevano sugli scogli, proprio là sotto e sulla sinistra c’era una
piscina di acqua salata scavata nella roccia.
Quando rientrò in camera, scoprì che stava cominciando a grattarsi per via di punture dolorose sul collo e sulle
braccia. Zanzare! Trovò in valigia un tubetto di pomata
dopo-puntura e se l’applicò generosamente. Poi si sdraiò di
nuovo sul letto dopo aver chiuso imposte e finestre.
Chiamò la reception.
“Effendim?” rispose una voce stanca.
“C’è una zanzara, in camera,” disse Agatha, con malgarbo.
“Effendim?”
“Oh, lasci stare,” ruggì Agatha.
Nonostante il ronzio delle zanzare e il timore di essere
punta di nuovo – perché se avesse incontrato Jimmy e fossero andati a nuotare Agatha non voleva essere ricoperta di
antiestetici ponfi – cominciarono a calarle le palpebre.
Bussarono alla porta. “Avanti,” gridò Agatha.
Entrò un inserviente dell’albergo con una paletta per
mosche. I suoi occhi neri esplorarono vivacemente la stanza. Poi arrivò un colpo secco di paletta.
“Andata,” disse l’uomo allegramente.
Agatha lo ringraziò e gli diede la mancia.
Gli occhi le si richiusero e precipitò in un incubo in cui
stava disperatamente cercando di arrivare a Cipro Nord ma
l’aereo era stato dirottato a Hong Kong.
Al mattino, svegliandosi, fu travolta dalla contentezza.
Era a Cipro e lì fuori, in quel mondo profumato di gelsomino, c’era James.
Indossò un bel vestito di cotone a fiori e dei sandali e
scese al piano di sotto a fare colazione. La sala da pranzo
era affacciata sul mare.
C’era un discreto numero di turisti israeliani, e il fatto
stupì Agatha, che sapeva che quello era un paese musulmano ma ignorava che i turchi musulmani nutrono grande
ammirazione per l’ebraismo. C’erano anche turisti venuti
dalla Turchia continentale – e anche quello lo scoprì dopo,
quando cominciò a distinguere tra turchi e turcociprioti.
Ma i turisti inglesi erano immediatamente riconoscibili dagli abiti, dalle facce bianchicce e ovine, dallo strano sguardo
indeciso che hanno i britannici all’estero.
Nel ristorante l’aria condizionata era accesa. Agatha si
servì a un buffet che offriva scelte un po’ particolari come
olive nere e formaggio di capra, e poi lasciò l’albergo, ansiosa di dare inizio alla caccia.
Quando la calura la investì con tutta la sua forza, Agatha
si lasciò sfuggire un gemito. Inglese fino al midollo, doveva
per forza lamentarsi con qualcuno. Rientrò a passo di marcia, presentandosi al banco della reception.
“Ma c’è sempre questo caldo bestiale?” ringhiò. “Insomma, siamo a settembre, l’estate è finita.”
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“È il settembre più caldo degli ultimi cinquant’anni,”
disse l’impiegato.
“Con questo caldo non riesco a muovermi.”
Lui scrollò le spalle con indifferenza. Agatha era destinata a scoprire che l’addetto alla reception era turco e che
i dipendenti turchi degli alberghi evitavano il servilismo.
“Perché non se ne va a fare un giro in barca?” disse l’uomo. “Può prendere una delle barche che ci sono al porto.
Fa più fresco sull’acqua.”
“Non voglio perdere tempo,” disse Agatha. “Sto cercando una persona. Un certo James Lacey. Sta qui?”
L’impiegato controllò il registro.
“No.”
“Allora mi può dare un elenco degli alberghi di Cipro
Nord?”
“No!”
“E perché no?”
“Perché non lo abbiamo.”
“Oh, ma per l’amor del cielo! Posso noleggiare un’auto?”
“Esca dall’albergo, è qui accanto. Atlantic Cars.”
Borbottando tra sé e sé, Agatha uscì ed entrò in una
piccola agenzia di noleggio auto, di fianco all’albergo. Sì, le
dissero, poteva prendere un’auto e pagare con l’assegno di
una banca inglese, volendo. “Noi guidiamo sul vostro stesso
lato,” la informò il tizio del noleggio, in perfetto inglese.
Agatha firmò i moduli, pagò, e ben presto si ritrovò ad
attraversare faticosamente le strade trafficate di Kyrenia al
volante di una Renault. Gli altri guidatori erano lenti ma
imprevedibili. Nessuno pareva prendersi la briga di segnalare le svolte a destra o a sinistra. Si fermò in un parcheggio
lungo la strada principale, essendosi ricordata di avere nella
borsa una guida di Cipro, comprata prima di partire presso
la libreria Dillon a Oxford. Certamente la guida avrebbe
elencato gli alberghi dell’isola. Si accorse che l’editore del
volume Cipro Nord, di John e Margaret Goulding, era The
Windrush Press di Moreton-in-Marsh, Cotswolds. Le parve
di buon auspicio. E come era ovvio gli alberghi di Kyrenia
erano tutti elencati. Agatha tornò in camera, al Dome, e
li chiamò uno dopo l’altro, ma nessuno aveva mai sentito
nominare il signor James Lacey.
Si accomodò a leggere di Kyrenia, invece, al fresco
dell’aria condizionata. Anche se i turchi la chiamavano
Girne, i più usavano ancora l’antico nome. Analogamente,
Nicosia era diventata Lefkoşa, ma spesso la chiamavano ancora Nicosia. Kyrenia, lesse, era una piccola città portuale e
turistica del nord, con un porto rinomato per la sua bellezza, ai piedi di un castello; come Kyrenia era stata fondata
nel decimo secolo a.C. dagli achei, e poi era stata ribattezzata Corineum dai romani. In seguito era stata circondata
da mura fortificate, a protezione dai pirati, ed era diventata
un centro di commercio delle carrube, ma nel 1631 era
caduta in rovina e nel 1814 era ormai abitata solo da una
dozzina di famiglie. Prima della spartizione dell’isola, avvenuta nel 1974, quando i turchi erano venuti a salvare la
loro gente dalle mani dei greci, Kyrenia era una città molto
amata dagli espatriati britannici, come buen retiro. Dopo il
1974 si erano trasferiti qui i profughi di Limassol, città del
sud, e ancora una volta Kyrenia aveva ripreso il suo ruolo di
gradevole località turistica, con un nuovo porto a est della
città.
Agatha rimise giù la guida. L’aver letto del nuovo porto
le aveva fatto venire in mente il suggerimento di un giro in
barca, datole dall’impiegato della reception.
Uscì di nuovo, camminando stordita nel sole accecante,
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e arrivò al porto, dove gironzolò tra le sedie di vimini dei
ristoranti di pesce finché non trovò un cartellone che pubblicizzava una crociera. La barca si chiamava Mary Jane. Lo
skipper la vide studiare il cartello e venne a chiamarla, lungo la passerella. Disse che la crociera costava venti sterline
e comprendeva un pranzo a buffet. Sarebbero salpati di lì a
mezz’ora e lei avrebbe avuto il tempo di tornare in albergo
a prendere il costume da bagno.
Agatha comprò un biglietto e disse che sarebbe tornata
di lì a poco. Adesso aveva troppo caldo per riuscire a pensare a James. L’idea di navigare nella brezza marina era
troppo allettante. James poteva aspettare.
Chissà perché, forse per via del caldo che le ottenebrava
la mente, Agatha aveva immaginato di essere l’unica passeggera. Invece c’erano altre otto persone, tutti inglesi.
Tre, due uomini e una donna, erano tipici esponenti
delle classi alte, con abiti costosi e voci raglianti. Uno degli
uomini era anziano, aveva gli occhiali, i baffi bianchi ingialliti e la pelata arrossata dal sole. L’altro era alto e magro
e giallognolo e a quanto pareva era il marito della donna,
anche lei alta e magra e giallognola ma con un petto generoso e l’aria dura e sexy. Appartenevano a quello strato sociale che ha adottato tutti i modi peggiori dell’aristocrazia,
e nessuno di quelli migliori. Invece di parlare sbraitavano
e guardavano gli altri passeggeri con un’espressione che
pareva dire “mioddio”. Il loro sguardo sprezzante si fissò in
particolar modo su Rose, una donna di mezza età, bionda
tinta con la ricrescita nera e anelli di diamante sulle dita
lunghe e affusolate, accompagnata anche lei da due uomini, uno piuttosto anziano e l’altro di mezza età. Questi
tre erano in un certo senso un’immagine speculare degli
altri tre, perché Rose aveva un certo sex appeal, l’uomo di
mezza età sembrava essere suo marito e quello anziano un
loro amico.
Agatha si pentì di non aver portato un libro o un giornale dietro il quale trincerarsi. Lo skipper fece le presentazioni. I tre rappresentanti delle classi alte erano Olivia
Debenham e suo marito George e il loro amico Harry Tembleton; quelli delle classi inferiori erano la suddetta Rose,
che di cognome faceva Wilcox, suo marito Trevor e il loro
amico Angus King. Trevor aveva una pancia da bevitore di
birra e un’aria bellicosa, capelli biondi cortissimi e labbra
carnose. Angus era un vecchio scozzese con pettorali cascanti, messi in mostra dalla camicia sbottonata. Al pari di
Rose e Trevor, aveva l’aria di essere decisamente benestante. Probabilmente appartengono, pensò Agatha, alla classe
dei nuovi ricchi dell’Essex, gente arrivata alla prosperità
negli anni della Thatcher, e volendo potrebbero comprarsi
e rivendersi quei tre snobboni che li guardano con tanto
disprezzo. Poi c’era una coppia squallida che con un sussurro si presentò come Alice e Bert Turpham-Jones, e Olivia
sogghignò commentando con voce udibile che l’avere un
doppio cognome oggigiorno non aveva più il significato di
un tempo.
Agatha sarebbe stata accettata da Olivia, George e Harry, che stavano monopolizzando il minuscolo bar, ma li aveva presi in antipatia e così aveva fatto comunella con quelli
meno distinti, seduti a prua.
Rose aveva una risata sciocca e quella parlata con il colpo di glottide che oggi è nota come Estuary English, ma
Agatha cominciò a provare un certo interesse nei suoi confronti. Nonostante dovesse aver passato i cinquanta, Rose
bamboleggiava. Faceva il broncio; le ciglia, per quanto finte,
erano belle; il seno, rivelato da un abito vezzoso e scollato,
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era in gran forma; e le gambe lunghe e sottili, infilate in un
paio di sandali con il tacco alto, erano lisce e abbronzate. Il
collo e il contorno degli occhi e delle labbra erano pieni di
rughe, ma ogni movimento e il linguaggio del corpo dalla A
alla Z sembravano gridare una promessa di Brava a Letto.
Trevor l’adorava, e così pure l’anziano scozzese, Angus.
Nel corso della conversazione saltò fuori che Trevor aveva
messo su una florida impresa come idraulico e che Angus,
diventato loro amico di recente, era un negoziante in pensione. La coppia silenziosa aveva tirato fuori dei libri e si
era messa a leggere e così la conversazione coinvolgeva solo
Agatha, Rose, Trevor e Angus.
Rose buttò lì, come per caso, di essere molto colta. Ad
Agatha pareva che dopo ogni commento quella donna si
ricordasse del suo ruolo di donna tenera e sciocca, e si affrettasse a riprenderlo. Si era accasata per soldi? I diamanti
degli anelli alle dita erano autentici.
La navigazione fu breve ma piacevole, la brezza marina rinfrescava. Ancorarono nella baia della Spiaggia delle
Tartarughe.
Si tuffarono dalla barca. Agatha era una buona nuotatrice, ma era fuori forma e scoprì che la riva era assai più lontana di quanto non sembrasse. Sollevata per essere sfuggita
agli altri, galleggiava sulla schiena nelle acque poco profonde, con gli occhi chiusi contro il sole accecante, sognando
di incontrare James. E poi andò a urtare uno scoglio. Lo
scoglio era piatto, e l’urto non fu forte, fu appena un tocco,
ma Agatha si tirò in piedi atterrita, guardandosi attorno
in preda al panico. Non aveva ancora superato il trauma
di essere stata colpita alle spalle, tramortita e quasi sepolta
viva durante quello che considerava “il mio ultimo caso di
omicidio”.
Sentì il cuore battere forte. Fece alcuni respiri profondi
e si sedette nell’acqua turchese, che era bassa a sufficienza.
Lo skipper, Ibrahim, nuotava lì attorno per essere certo
che nessuno dei suoi passeggeri stesse annegando o avesse
un infarto in corso. La moglie di Ibrahim, Ferda, una donna bassa con i capelli neri, stava preparando il pranzo sulla
barca e il rumore di piatti e bicchieri giungeva alle orecchie
di Agatha attraverso l’acqua.
Il marito di Rose, Trevor, stava issando il suo corpaccione, ora cotto dal sole e diventato di un orribile rosa salmone, sulla scaletta laterale del panfilo. Si fermò a metà,
girandosi a lanciare un’occhiataccia attraverso la baia.
Agatha guardò cercando di capire che cosa avesse visto
Trevor. Seduti l’uno accanto all’altra nell’acqua, poco distanti da Agatha, c’erano Rose e George, il marito di Olivia, che ridacchiavano parlando di chissà cosa.
Olivia stava nuotando avanti e indietro a dorso, con bracciate poderose. Trevor era ancora appeso a metà della scaletta. Gli amici anziani delle due donne, Harry e Angus, stavano cercando di tornare sulla barca. Harry allungò la mano
e diede un colpetto a Trevor sulla schiena. Trevor si girò e
cadde in acqua, rischiando di travolgere i due vecchi. Cominciò a nuotare in direzione della moglie. Rose lo vide arrivare
e mollò immediatamente George per andargli incontro.
Agatha rimase dov’era, godendosi la solitudine. All’improvviso si augurò con tutto il cuore di riuscire a dimenticare James e tornare a essere libera, libera di godersi una
vacanza in santa pace senza essere ossessionata da quell’uomo. Poi sentì che dalla barca la stavano chiamando. Di lì
a poco sarebbe stato servito il pranzo. Agatha non aveva
molta voglia di risalire a bordo. Il suo interesse nei confronti di Rose aveva avuto vita breve, lasciandole un senso
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Non aveva molta voglia di cenare in albergo, quella sera,
così consultò la sua guida e scelse un ristorante che si chiamava La Vigna e prometteva bene, e il breve tragitto lo fece
in taxi perché non le andava di guidare. Era stata una scelta
felice, perché il ristorante era ricavato nel giardino di una
vecchia casa ottomana. Agatha ordinò vino e spiedini di
pesce spada e cercò di non sentirsi sola.
Il giardino olezzava di gelsomino e risuonava di voci britanniche. Era un locale molto amato dagli inglesi del luogo,
come le spiegò una bionda di nome Carol, che la servì a tavola. A Cipro Nord gli inglesi residenti evidentemente erano parecchi: avevano perfino un loro villaggio, Karaman,
con tanto di case con nomi tipo Cobbler e un pub chiamato
Crow’s Nest.
Agatha si era portata un libro in edizione economica e
stava cercando di leggere a lume di candela quando Carol le
portò un biglietto. Diceva semplicemente: “Si unisca a noi”.
Si guardò in giro. In procinto di sedersi a un tavolo centrale c’erano Rose, il marito e l’amico, con Olivia, marito e
amico. Sorridevano facendo segni nella sua direzione.
Intrigata dal verificarsi di una coincidenza così improbabile, Agatha prese il suo piatto e il vino e andò a raggiungerli.
“Ma che sorpresa,” disse Rose. “Eravamo lì che camminavamo per strada quando il mio Trevor ha detto ‘Ma
quella non è Olivia?’.” Agatha notò il sussulto di Olivia. “E
poi Georgie dice ‘Venite con noi’ e così eccoci tutti qui! Ma
non è divertente?”
Con grande stupore di Agatha, Olivia sembrava fare degli sforzi per essere gentile con Rose, Trevor e Angus. Saltò
fuori che suo marito George era appena andato in pensione
lasciando il ministero degli Esteri, che Harry Tembleton era
un agricoltore e che Olivia aveva sentito parlare di Agatha
perché i Debenham possedevano una casa patrizia a Lower
Cramber nei Cotswolds.
Il vino girava e Rose si fece sempre più vispa. Sembrava
essere una specialista dei doppi sensi. Aveva una risata ve-
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di repulsione nei confronti di tutti i suoi compagni di gita.
Tornò alla barca e si inerpicò sulla scala, conscia della sua
pancia sporgente. Avrebbe dovuto rimettersi in forma, per
sedurre James.
Il pranzo fu gradevole: bicchieri di vino offerti dalla casa,
del buon pollo, insalata croccante. Compiaciuta come accade ai turisti quando si accorgono di non essere stati spennati, Agatha si addolcì al punto da riuscire a unirsi a Rose, al
marito e all’amico. E tuttavia notò che George, il marito di
Olivia, continuava a guardare Rose dal suo angolo del bar.
Disse qualcosa a bassa voce a sua moglie e quella gli rispose
a voce alta: “Non ho voglia di visitare i bassifondi, oggi”.
Quando i giovani si incontrano, durante una gita all’estero, alla fine si scambiano gli indirizzi o si danno appuntamento per la serata. Le persone di mezza età e gli anziani si
congedano, per tacito accordo, con un sorriso e un cenno
del capo. Agatha nel tragitto di ritorno si era divertita, perché aveva raccontato del suo lavoro di investigatrice, ricamando parecchio sulle storie per dimostrare quanto fosse
stata in gamba.
Ma anche lei, quando la barca si rinfilò nel porto di
Kyrenia all’ombra dell’antico castello, si limitò a dire arrivederci e se ne andò. Olivia, suo marito e l’amico alloggiavano tutti all’hotel Dome. Con un po’ di fortuna sarebbe riuscita a evitarli. Aveva un compito più importante da
portare a termine.
Doveva trovare James.
ramente sguaiata, una risata da bar, una risata da sessanta
sigarette al giorno e gin, e la si sentiva in tutto il ristorante.
George incrociò le gambe sotto il tavolo e il suo piede strusciò contro la gamba di Rose. Lui si scusò e Rose rise come
una pazza, dandogli un colpo con il gomito esile e puntuto.
“Lo so a cosa mira, lei!”
Agatha non pensava che qualcuno sarebbe mai riuscito
a mangiare il kebab sfilandolo dallo spiedino in modo ambiguo, ma Rose ci riusciva. E poi fraintendeva, apparentemente in modo deliberato, le osservazioni più semplici.
George disse che si augurava di non incappare in un altro
sciopero del metrò a Londra, al rientro, perché aveva degli
affari da sbrigare nella City. “Uno sciopero del popò?” gridò ilare Rose. “Olivia ha smesso di abbassarsi le mutande?”
Agatha le lanciò un’occhiata annoiata e Rose le disse, a
bassa voce: “Come Lisistrata”. E così la scurrile Rose conosce i classici greci, pensò Agatha, che li aveva studiati solo
di recente. E Rose capì che Agatha in qualche modo aveva
smascherato la sua recita.
Che cosa ci faceva una donna intelligente con quel bruto
di Trevor e lo squallido Angus, bottegaio in pensione?
Angus era un uomo di poche parole e quelle poche le scodellava in modo lento e pomposo. “L’istruzione scozzese è la
migliore del mondo,” disse, del tutto a sproposito. Cose così.
Olivia si era appiccicata in faccia un sorriso luminoso
mentre tentava di mettere tutti a proprio agio, riuscendoci
molto bene, pensò Agatha, pur avendo notato che Olivia
non era in grado di celare del tutto l’avversione che provava
nei confronti di Rose e il fatto di considerare Trevor un vero
cafone. Olivia intrattenne gli altri con una storiella divertente: il tizio che aveva la camera sopra la loro, al Dome, aveva
lasciato scorrere l’acqua del bagno finché questa non era
traboccata colando attraverso il soffitto di Olivia e George,
e poi si era rifiutato di riconoscere l’errore, sostenendo di
aver lasciato aperta la finestra, e che fosse piovuto dentro.
Con stupore di Agatha, il gruppo decise di organizzare per il giorno successivo una gita collettiva alla torre di
Otello, a Famagosta, e gli altri insistettero perché partecipasse anche lei. Avrebbero noleggiato delle auto. Agatha
rifiutò. L’indomani sarebbe stata una giornata di caccia a
James Lacey. Lei e James avevano pensato di passare la luna
di miele in una villa presa in affitto fuori Kyrenia. Agatha
avrebbe tentato di trovarla.
Trevor insisté per pagare il conto, scherzando sul fatto
che per la prima volta in vita sua era un milionario, e tirando fuori mucchi di lire turche. Agatha non accettò un
passaggio, avendo deciso di tornare in albergo a piedi. Era
abbastanza esperta di vita di strada da capire che lì a Kyrenia era al sicuro, e Rose, che era arrivata prima di lei, le
aveva detto con un certo rimpianto che non c’era alcun
rischio di sentirsi pizzicare il sedere. Rose le aveva detto
anche che non c’era pericolo di vedersi scippare la borsa, o
di essere imbrogliate dai negozianti. E quindi Agatha passò
tranquilla davanti al municipio e lungo la strada principale
di Kyrenia.
E poi vide James. Era davanti a lei e camminava con la
sua falcata lunga, agile e sciolta, dolorosamente familiare.
Agatha si lasciò sfuggire un grido strozzato e cominciò a
correre sui suoi tacchi alti. Lui girò l’angolo nei pressi di
un supermercato. Lei si precipitò in avanti, urlando il suo
nome, ma quando riuscì a svoltare, James era sparito. Agatha una volta aveva visto il film francese Les Enfants du Paradis, e questa le ricordava l’ultima scena, in cui l’eroe cerca
disperatamente di raggiungere la sua amata.
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Un soldato turco le sbarrò la strada chiedendole ansiosamente in un inglese incerto se avesse bisogno d’aiuto.
“Il mio amico. Ho visto il mio amico,” balbettò Agatha, scrutando la strada laterale. “C’è un albergo, qui in
fondo?”
“No, quella è la Piccola Turchia. Fabbri, caffè, no albergo. Spiace molto.”
Ma Agatha tirò dritta, sbirciando nelle botteghe deserte,
inciampando nelle buche. Poi vide una luce provenire da
una lavanderia, La Rosa Bianca, Beyaz Gül in turco. Un
uomo in maniche di camicia stava lavorando a una macchina lavasecco. Agatha spinse la porta ed entrò.
“Come posso aiutarla?” chiese l’uomo.
Era un piccoletto con una bella faccia sveglia.
“Lei parla inglese?”
“Sì, ho lavorato in Inghilterra per un po’ di tempo, come
infermiere. Mia moglie, Jackie, è inglese.”
“Oh, bene. Senta, un minuto fa ho visto passare un mio
amico, ma adesso è sparito.”
“Non so dove potrebbe essere andato. Ma si sieda. Io
sono Bilal.”
“E io sono Agatha.”
“Le andrebbe un caffè? Io lavoro la sera tardi perché fa
più fresco. Cerco di tirare più che posso quando posso.”
Agatha all’improvviso si sentì stanca, tristissima e delusa.
“No, grazie, penso che tornerò in albergo.”
“Cipro Nord è molto piccola,” disse lui, incoraggiante.
“Prima o poi lo incontrerà di nuovo. Lo conosce il ristorante La Vigna?”
“Sì, ho cenato lì, stasera.”
“Provi a domandare lì. Non c’è inglese che non ci capiti,
una sera o l’altra.”
Bilal, pur dimostrando quarantacinque anni circa, le ricordò chissà come Bill Wong.
“Grazie,” disse Agatha, alzandosi.
“Mi dica come si chiama il suo amico,” aggiunse Bilal,
“magari riuscirò ad avere notizie.”
“Si chiama James Lacey, è un colonnello in pensione,
sulla cinquantina, alto con occhi molto azzurri e capelli neri
brizzolati.”
“Lei alloggia al Dome?”
“Sì.”
“Mi scriva il suo nome. La mia memoria è scarsissima.”
Agatha glielo scrisse. “Una lavanderia è un impiego bizzarro, per un infermiere,” notò.
“Adesso ci ho fatto la mano,” rispose Bilal. “All’inizio
commettevo degli errori tremendi. Mi affidavano quegli
abiti nuziali turchi pieni di perline e io li infilavo nella macchina a secco, solo che le perline erano di plastica e si squagliavano. E poi la gente veniva giù dalle montagne con vestiti comprati quarant’anni addietro tutti unti d’olio d’oliva
e macchiati di vino e si aspettava che io glieli riconsegnassi
come nuovi.” Emise un sospiro comico.
“In ogni caso, posso tornare a trovarla?” chiese Agatha.
“Quando vuole. Ci berremo un caffè.”
Agatha se ne andò, in qualche modo rallegrata. Gironzolò ancora un po’. Fuori dai caffè gli uomini giocavano a
backgammon, e ululava la musica, la musica turca a mezzi
toni, triste e ossessiva.
Alla fine abbandonò le ricerche e tornò in albergo. Pensò
che forse avrebbe dovuto ripassare dal ristorante La Vigna.
L’indomani, magari.
La mattina dopo si svegliò con la testa pesante e sudando
profusamente. Fece la doccia e si mise addosso un vestito di
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cotone un po’ largo e sandali piatti. A colazione stette leggera, con una sfoglia ripiena di formaggio e poi d’impulso
andò al noleggio auto.
“Per caso avete noleggiato una macchina a un certo signor Lacey?” s’informò.
“Sì, l’ho servito io,” rispose l’uomo alla scrivania. Si alzò
e le strinse la mano. “Lei è la signora Raisin, vero? Io sono
Mehmet Chavush. In effetti, il signor Lacey questa mattina
ha prolungato il noleggio.”
“Quando?”
“Un’ora fa.”
“Ma lei sa… ha detto dove fosse diretto oggi?”
“Il signor Lacey ha accennato a Gazimağusa.”
Agatha lo guardò con occhio vacuo.
“Lei probabilmente la conosce come Famagosta,” disse
lui, per aiutarla.
“E come ci arrivo, io?”
“Deve passare dall’ufficio postale.” La fece avvicinare a
una carta stradale appesa al muro. “Qui. E poi prende la
strada che attraversa le montagne. Questa la porterà fino
alla superstrada che conduce a Famagosta. Credo che lei
l’abbia già percorsa, venendo dall’aeroporto.”
“Sì, mi pare di sì.”
Agatha si mise in viaggio. Girò attorno alla rotonda, passò l’ufficio postale, un memento architettonico dell’epoca
coloniale inglese, e poi via, su per le montagne. Il caldo
era spaventoso, ma per una volta quasi non lo notò. L’aria
condizionata della macchina funzionava – un po’.
Le montagne erano spoglie e brulle, scorticate dagli
incendi boschivi dell’anno prima. In discesa riconobbe le
barriere militari che costringevano a una chicane. Un soldato di guardia lungo la strada la salutò con la mano le-
vando il pollice e il cuore di Agatha cominciò a riempirsi
di speranza. Davanti a lei c’erano Famagosta e James. E
poi pensò che avrebbe dovuto chiedere il numero di targa
della macchina di James. Le auto a nolo si assomigliavano
tutte, e avevano la targa rossa, per distinguerle dalle altre. E
Mehmet probabilmente doveva aver preso nota dell’indirizzo di James.
Rispettò scrupolosamente i limiti di velocità nell’attraversamento di due villaggi, e poi davanti a lei, attraverso la
piana di Mesaoria, si distese lungo il tracciato della vecchia
ferrovia la strada per Famagosta, dritta come una freccia e
priva di limiti di velocità.
Agatha schiacciò l’acceleratore a tavoletta e volò come
un uccello verso l’orizzonte lontano.
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