Agatha Raisin osservava la luce del sole sulla parete del suo ufficio

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Agatha Raisin osservava la luce del sole sulla parete del suo ufficio
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Estratto da
M.C. Beaton, Agatha Raisin e i Camminatori di Dembley
Titolo originale dell’opera
Agatha Raisin and the Walkers of Dembley
Traduzione dall’inglese
di Marina Morpurgo
© 1994, 2010 M.C. Beaton
© 2012 astoria srl
via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: maggio 2012
ISBN 978-88-96919-34-7
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Agatha Raisin osservava la luce del sole sulla parete del
suo ufficio nella City londinese.
I raggi filtravano attraverso la veneziana come lunghe
frecce luminose che piano piano, al calare del sole, si muovevano lungo il muro diventando la meridiana della sua
giornata lavorativa.
L’indomani il suo periodo di lavoro come PR sarebbe
terminato, e lei sarebbe potuta finalmente rientrare a casa,
a Carsely, un villaggio dei Cotswolds. Tornare al lavoro non
le era piaciuto. La sua breve assenza da Londra, il poco
tempo passato da pensionata sembravano averla privata
dell’energia necessaria per estorcere ai giornalisti e alle reti
televisive un po’ di pubblicità a favore dei clienti.
Anche se dell’antica ferocia ed energia le era rimasto quel
tanto che bastava ad assicurarle comunque il successo, Agatha rimpiangeva il villaggio e gli amici. All’inizio era rientrata qualche volta nel fine settimana, quando il lavoro glielo
consentiva, ma la sofferenza di dover tornare ogni volta a
Londra era stata così grande che negli ultimi due mesi non
si era più mossa, e aveva lavorato anche di domenica.
Aveva creduto che la capacità di farsi degli amici – un
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talento appena scoperto – avrebbe funzionato anche nella
City, ma la maggior parte dello staff era giovane a paragone
dei suoi cinquant’anni e passa, e nell’intervallo di pranzo e
dopo il lavoro preferiva fare comunella senza di lei. Anche
Roy Silver, il giovane amico che l’aveva indotta a venire a
lavorare da Pedmans per sei mesi, negli ultimi tempi l’aveva
evitata, continuando a sostenere di essere “troppo impegnato” per andare a bere qualcosa con lei o perfino per parlarle.
Agatha guardò l’orologio e sospirò. Doveva portare fuori
per un aperitivo, e poi a cena, un giornalista del “Daily Bugle”, e non ne aveva nessuna voglia. Lo scopo era promuovere una nuova popstar, Jeff Loon, il cui vero nome era Trevor
Biles, ed era difficile promuovere un tipo come lui, un giovanotto mingherlino e devastato dall’acne, con una bocca tipo
fogna. Ma aveva una voce che veniva descritta come tenore
melodico irlandese e di recente aveva re-inciso alcuni vecchi
successi romantici, che avevano venduto alla grande. Era
dunque necessario confezionargli una nuova immagine da
beniamino del ceto medio, da ragazzo adorato da mamme
e papà. La cosa migliore era tenerlo il più possibile lontano
dalla stampa e far entrare in azione Agatha Raisin.
Andò nel bagno delle signore e si cambiò, indossando
un vestito nero e un filo di perle, molto indicato a rafforzare l’immagine compassata del cliente che lei rappresentava. Il giornalista che avrebbe incontrato per Agatha era
uno sconosciuto. Aveva fatto una ricerca sul suo conto. Si
chiamava Ross Andrews. Una volta era stato un cronista
sportivo della Serie A, ma giunto alla mezza età l’avevano
retrocesso nelle pagine degli spettacoli. I giornalisti in età
avanzata spesso finivano relegati a scrivere articoli di colore
o sul tempo libero, o, ancora peggio, a rispondere alle lettere dei lettori.
Avevano appuntamento nella City, Fleet Street non era
più il regno della stampa, e le testate giornalistiche si erano
trasferite nell’East End.
Era d’accordo con Ross che si sarebbero incontrati al
bar dell’hotel City, e che avrebbero cenato lì, perché il ristorante era passabile e dalle finestre si godeva una bella
vista sul Tamigi.
Si girò qui e là davanti allo specchio. Il vestito, un acquisto recente, appariva stretto in maniera sospetta. Troppi
pranzi e cene in conto spese. Sarebbe calata di peso non
appena tornata a Carsely.
Mentre attraversava l’ingresso, il portiere, Jock, scattò ad
aprire la porta. “Buona serata, signora Raisin,” disse con un
sorriso untuoso, per poi borbottare tra i denti, con Agatha
fuori portata d’orecchi: “Schifosa megera!”. Tutto questo
perché Agatha un giorno lo aveva strapazzato – “Se sei un
portiere, vedi di aprirmi quella maledetta porta, quando mi
vedi. Marsh!” – e il pigro Jock non l’aveva mai perdonata.
Agatha camminava in mezzo alla folla ormai calante di
gente che tornava a casa, una donna robusta e combattiva,
con i capelli corti, gli occhi da orsacchiotto e belle gambe.
L’albergo era a poche strade di distanza. Lasciò il chiarore
serale per tuffarsi nell’oscurità del bar dell’hotel City. Anche
se non aveva mai visto Ross Andrews, il suo occhio esperto lo
individuò all’istante. Era in abito scuro e cravatta, ma aveva
quella tipica trasandatezza dissoluta del giornalista della carta stampata. I capelli erano radi e di un nero sospetto, il viso
era grasso con un naso sfuggente e occhi azzurri acquosi.
Forse un tempo era un bell’uomo, pensò Agatha andandogli
incontro, ma anni di sbronze hanno lasciato il segno.
“Signor Andrews?”
“Signora Raisin. Mi chiami pure Ross. Ho ordinato un
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drink e l’ho fatto mettere sul suo conto,” disse allegramente.
“Tanto va tutto in nota spese.”
Agatha rifletté che un bel po’ di giornalisti erano esperti
nel produrre falsi conti di ristorante per ospiti che avrebbero dovuto intrattenere e non avevano intrattenuto, intascandosi i soldi. Ma quando si trattava delle spese altrui
sembrava che non ci fossero limiti.
Agatha annuì sedendosi di fronte a lui, fece un cenno al
cameriere e ordinò per sé un gin tonic. “Chiamami pure
Agatha,” disse.
“Come vanno le cose con il ‘Daily Bugle’?” proseguì, sapendo che era inutile venire al sodo finché il giornalista non
avesse stabilito di aver trangugiato una quantità di alcolici
tale da valere qualche riga.
“Siamo in caduta libera, dai retta a me,” disse, tetro. “Il
guaio è che questi nuovi giornalisti non sanno distinguere il
culo dai gomiti. Vengono fuori da queste maledette scuole
di giornalismo e non hanno niente a che vedere con noi che
dovevamo imparare a nuotare saltando in acqua. Vanno a
fare un servizio, tornano e ti dicono ‘Oh, non ho potuto
fare quella domanda. Il marito era appena morto,’ o stronzate come quella. E io a questi dico: ‘Ragazzo mio, ai miei
tempi la roba si sbatteva in prima pagina e ce ne fottevamo
dei sentimenti di chiunque’. Loro vogliono piacere. Un buon
cronista non piace mai.”
“Vero,” consentì Agatha con un certo trasporto.
Ross fece un segnale al cameriere e ordinò per sé un
altro whisky con soda senza chiedere ad Agatha se fosse
pronta per un altro drink.
“È successo tutto quando hanno affidato la gestione dei
giornali ai contabili, tizi loschi e invidiosi che ti tagliano le
spese e stanno a discutere su ogni centesimo. Ricordo…”
Agatha sorrise e smise di ascoltarlo. Quante volte si era
trovata in circostanze analoghe, a dover prestare ascolto a
lamentele di questo genere? L’indomani avrebbe riavuto la
sua libertà e non sarebbe mai più tornata a lavorare, mai
più come PR, almeno. Aveva venduto la sua agenzia per
andare anticipatamente in pensione e ritirarsi nei Cotswolds, a Carsely che l’aveva pian piano avviluppata nel suo
dolce calore. Lo rimpiangeva. Rimpiangeva la Società delle
Dame di Carsely, le chiacchiere davanti a una tazza di tè in
canonica, la vita placida del villaggio. Agatha mantenne in
viso una sapiente espressione di ammirazione mentre Ross
non la smetteva di blaterare, ma i suoi pensieri andavano al
suo vicino, James Lacey. In occasione della sua ultima visita
al villaggio era uscita a bere con lui ma la loro amicizia rilassata sembrava essere svanita. Si diceva che la sua sciocca
ossessione per James si era dileguata, e che non sarebbe
mai più tornata. Eppure si erano divertiti a risolvere quegli
omicidi.
Quando Ross alzò il braccio per ordinare un altro drink,
Agatha lo anticipò suggerendo con fermezza che era giunta
l’ora di mangiare.
Entrarono in sala da pranzo. “Il suo solito tavolo, signora Raisin,” disse il maître, mostrando loro un tavolo accanto alla finestra.
C’era stato un tempo, rifletté Agatha, in cui l’essere conosciuta e riconosciuta dai maître la gratificava, perché
metteva in evidenza quanta strada avesse fatto rispetto al
sobborgo malfamato di Birmingham in cui era cresciuta.
Al giorno d’oggi nessuno chiamava più “slum” quel posto,
naturalmente. Si chiamava Inner City, come se l’eufemismo
potesse portarsi via la sporcizia, la violenza e la disperazione. Quelli che volevano risolvere i problemi del mondo
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continuavano a parlare di povertà, ma nessuno faceva la
fame, a parte i vecchietti con le pensioni d’anzianità che
non avevano la forza di reclamare ciò che era loro dovuto.
Era una povertà dell’anima, in cui l’immaginazione si nutriva di video violenti, di alcol e droghe.
“E quando tornai da Beirut il vecchio Chalmers mi disse:
‘Sei troppo astuto e tosto, Ross, perché ti potessero rapire’.”
“Assolutamente,” disse Agatha. “Cosa vuoi bere?”
“Ti spiace se scelgo io? Penso che le donne non capiscano niente di vini,” frase che Agatha tradusse nel suo vero
significato, ossia che una donna rischiava di ordinare un
vino poco costoso, o mezza bottiglia, o altre cose inaccettabili. Immaginò che avrebbe scelto il vino che era secondo
nella classifica dei più cari, essendo avido ma non volendo
apparirlo, e infatti Ross fece proprio così. Come altri della
sua risma ordinò alcuni piatti non tanto perché gli piacessero, ma perché gli parevano adeguati alla sua posizione.
Non mangiò molto, e palesemente spasimava per il brandy
a fine pasto, non vedendo l’ora che qualcuno sgomberasse
il tavolo da quelle dispendiose schifezze. E così assaggiò a
malapena le lumache, seguite da un carré d’agnello e dai
profiterol.
Davanti ai brandy Agatha tornò stancamente a parlare di affari. Descrisse Jeff Loon come un ragazzo delizioso
“troppo garbato per il mondo del pop”, tanto affezionato
alla mamma e ai due fratelli. Descrisse i lavori in uscita.
Consegnò a Ross le fotografie e i comunicati stampa.
“Queste sono stronzate, e tu lo sai,” ribatté Ross, sorridendole con sguardo offuscato. “Insomma, ho fatto delle
ricerche su questo Jeff Loon, e il ragazzo ha un certo curriculum, intendo dire un curriculum criminale. Lo hanno condannato due volte per lesioni personali e anche per consu-
mo di droga, quindi perché stai cercando di infinocchiarmi
con queste minchiate sul tesoro di mamma?”
La gradevole donna di mezza età, così gli era parsa Agatha Raisin, sparì per lasciare posto a una tizia dall’espressione dura e occhi penetranti.
“E tu piantala di fare il bastardo, tesoro,” ruggì Agatha. “Sai perfettamente perché sei stato invitato qui. Se non
avevi intenzione di scrivere qualcosa di almeno vagamente
decente non dovevi venire, brutto porco avido. E ti dico
ancora una cosa: non me ne frega un cazzo di quello che
scrivi. Mi basta non vedere più la tua faccia. Tu ti ingozzi
da quel giornalista fallito che sei, annoiandomi a morte con
storie apocrife sulla tua bravura, e poi hai la faccia tosta di
venirmi a dire che Jeff è un falso. E tu, allora?
“Oh, le PR non dovrebbero lamentarsi, ma stammi a
sentire! Ho intenzione di infrangere il tabù. Domani il tuo
direttore verrà a sapere, parola per parola, tutto quello che
hai detto, e insieme gli farò avere il conto di questa serata.”
“Non ti crederà mai!” disse Ross.
Agatha frugò sotto il tovagliolo che aveva in grembo e
tirò fuori un minuscolo ma efficiente registratore. “Sorridi,”
disse. “Sei su Candid Camera.”
Ross rise debolmente. “Aggie, Aggie.” Posò una mano su
quella di lei. “Possibile che tu non colga lo scherzo? Naturalmente scriverò un bell’articolo su Jeff.”
Agatha chiese il conto. “Non me ne potrebbe fregare di
meno, di quello che scrivi,” dichiarò.
Ross Andrews era tornato rapidamente sobrio. “Ascolta,
Aggie…”
“Per te ero Agatha, ma signora Raisin andrà benissimo,
ora che ci conosciamo meglio.”
“Ascolta, ti prometto un bel pezzo.”
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Agatha firmò la ricevuta della carta di credito. “Le manderò il nastro dopo che avrò letto l’articolo,” annunciò. Si
alzò da tavola. “Buonanotte, signor Andrews.”
Ross Andrews imprecò tra i denti. Pubbliche relazioni!
Si augurava di non incontrare mai più una come Agatha
Raisin. Era quasi in lacrime. Oh, quei giorni beati in cui le
donne erano donne!
Lontano lontano, nel cuore del Gloucestershire, nella
città mercato di Dembley, Jeffrey Benson, seduto in fondo all’aula scolastica che veniva utilizzata per la riunione
settimanale dell’associazione di trekking, i Camminatori
di Dembley, stava pensando praticamente la stessa cosa,
mentre la sua amante, Jessica Tartinck, parlava alla platea.
Tutta quella faccenda del femminismo gli stava bene, e Dio
sapeva quanto Jeffrey fosse a favore della parità tra i sessi,
ma perché dovevano vestirsi e comportarsi come uomini?
Jessica indossava un paio di jeans e una camicia da operaio che le ballonzolava addosso. Il viso era pallido, da studiosa – era uscita da Oxford con una laurea in Inglese, e il
massimo dei voti – i capelli erano neri e folti, e li portava
lunghi e diritti. Aveva un seno stupendo, grande e sodo. Le
cosce erano un po’ grosse e le gambe non erano un granché, ma tanto erano sempre coperte dai pantaloni. Al pari
di Jeff insegnava presso la scuola secondaria locale. Prima
che lei si autoeleggesse capo dei Camminatori di Dembley,
questi erano stati un gruppo di persone affabili e innocue,
che amavano le loro passeggiate festive.
Jessica però sembrava adorare lo scontro con i proprietari terrieri, che lei detestava come la peste. Era una frequentatrice abituale del catasto di Gloucester, dove studiava accanitamente mappe e scopriva diritti di passo, ormai
sepolti dall’oblio del tempo, e che adesso erano coperti da
coltivazioni.
Jessica, non appena arrivata a insegnare in quella scuola,
pochi mesi prima, si era subito guardata attorno alla ricerca di una Causa. Spesso le capitava di pensare in caratteri
maiuscoli. Aveva saputo dei Camminatori di Dembley da
una collega, Deborah Camden, una ragazza timida e bionda, insegnante di fisica. E di colpo Jessica la sua causa l’aveva trovata, e in brevissimo tempo se ne era messa alla testa,
senza che gli altri camminatori si rendessero conto di come
era potuto accadere. Non era neppure passato per l’anticamera dei loro cervelli che il suo zelo nella caccia ai diritti di
passo attraverso i terreni privati fosse alimentato da rancore
e invidia, e, come nel caso di alcune sue proteste precedenti – era stata un’attivista antinucleare sul campo militare di
Greenham Common –, da una brama di potere sulle persone. Jessica riteneva che Jessica fosse perfetta, e questa era la
sua grande forza. Trasudava assertività. Era politicamente
scorretto non essere d’accordo con lei. Dato che la maggior
parte dei camminatori originari, quelli che volevano solo fare
delle gite in santa pace, era stata rimpiazzata da altri che
erano a immagine e somiglianza di Jessica, non le era stato
difficile diventare l’autorità indiscussa. Tra i suoi ammiratori
più devoti, a parte Deborah, c’era Mary Trapp, una ragazza
esile e scontrosa, con la pelle brutta e piedi enormi. E poi
c’era Kevin Hamilton, uno scozzese professionista che indossava sempre il kilt e faceva battute sui soldi; sosteneva di
essere originario di un villaggio delle Highlands, ma in realtà
veniva da Glasgow. Poi c’era Alice Dewhurst, un donnone
poderoso con un sederone poderoso, che conosceva Jessica
dai tempi di Greenham Common. L’amica di Alice, Gemma Queen, una commessa magra e anemica, non diceva un
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Dato che i suoi accoliti erano in superiorità numerica, il
voto fu largamente favorevole. Perfino Deborah non ebbe
più il coraggio di protestare e al termine dell’incontro,
quando Jessica le posò un braccio sulle spalle e la strinse
con affetto, sentì i dubbi svanire e ritornare la sua solita
devozione servile.
granché, limitandosi a dare ragione ad Alice su qualunque
cosa. E infine c’erano due uomini, Peter Hatfield e Terry Brice, che lavoravano come camerieri presso il ristorante Teiera
di Rame. Erano entrambi magri e silenziosi ed effemminati,
e avevano l’abitudine di sussurrarsi barzellette e sogghignare.
Jessica quella sera appariva particolarmente attraente,
perché aveva trovato una nuova preda. Esisteva un vecchio diritto di passo attraverso i terreni di un baronetto,
Sir Charles Fraith. Era andata a controllare di persona.
Sul passaggio c’erano campi coltivati. Aveva scritto a Sir
Charles, di suo pugno, annunciando che tra due sabati
avrebbero marciato attraverso le sue terre, e che lui non
avrebbe potuto opporsi in alcun modo.
Deborah all’improvviso si ritrovò con la mano alzata. “Sì,
Deborah?” chiese Jessica, inarcando le sopracciglia sottili.
“N-non potremmo p-per una volta,” balbettò Deborah,
“f-fare solo una p-passeggiata come facevamo un t-tempo?
Era divertente quando ci portava il vecchio signor Jones.
Facevamo dei picnic e robe simili…”
La voce tremolò alla vista dell’espressione indignata sul
viso di Jessica.
“Ma andiamo, Deborah, non è da te. Se non fosse per i
gruppi di camminatori come noi i diritti di passo non esisterebbero.”
Uno dei camminatori pre-Jessica, Harry Southern,
esclamò all’improvviso: “Non ha tutti i torti. Questo sabato
si torna sul terreno del signor Stone, e quello un mese fa ci
ha scacciato a fucilate e alcune delle signore presenti si sono
terrorizzate”.
“Tu ti sei spaventato, vorrai dire,” lo rintuzzò Jessica, con
arroganza. “Molto bene. Metteremo la cosa ai voti. Vogliamo andare alla fattoria Stone, questo fine settimana, o no?”
Finalmente era arrivato quello che nella City chiamano
il POETS Day, che non è il giorno dei poeti, ma sta per Piss
Off Early Tomorrow’s Saturday – tagliamo la corda presto,
che domani è sabato. Agatha Raisin sgomberò la scrivania.
Avvertiva un desiderio quasi infantile di cancellare tutti i
numeri di telefono della sua Filofax per rendere la vita più
difficile al suo successore, chiunque fosse, ma riuscì a reprimersi. Fuori dalla porta sentiva il canto allegro della sua
segretaria. Durante la sua breve permanenza Agatha aveva
cambiato tre segretarie. Quella attuale, Bunty Dunton, era
una ragazzona campagnola e gioviale, con una pellaccia da
rinoceronte, per cui le collere di Agatha, spesso virulente,
sembravano non lasciare traccia su di lei. Però la sua voce
non era mai risuonata così allegra.
Quando tornerò a Carsely andrà tutto a posto, pensò
Agatha. Lì sì che sono popolare.
La porta del suo ufficio si aprì ed entrò Roy Silver. Portava i capelli tirati indietro a colpi di gel, e raccolti in una
coda di cavallo. Aveva un brufolo sul mento e indossava un
vestito di quelli che paiono penzolare dalle spalle, con le
maniche rimboccate sui polsi. Il cravattone di seta era un
miscuglio violento di colori fluorescenti, che sembravano
accentuare il suo pallore malsano.
“In partenza?” chiese Roy, con l’aria di essere pronto
alla fuga.
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“Oh, mettiti seduto, Roy,” rispose Agatha. “Sono stata
qui sei mesi e io e te praticamente non ci siamo visti.”
“Aggie, lo sai che ero impegnato. E anche tu lo eri. Come
è finita con Jeff Loon?”
“Tutto bene,” rispose Agatha a disagio. Stava cominciando a chiedersi come mai era andata fuori dai gangheri
in quel modo. Non che lei avesse davvero registrato quell’essere disgustoso. Le era semplicemente capitato di avere in
borsetta il registratore e di averlo tirato fuori mentre lui
era tutto preso a parlarsi addosso, per poi nasconderselo in
grembo sotto il tovagliolo, per turlupinare Ross.
Roy si sedette. “E così te ne torni a Carsely. Senti, Aggie,
io penso che tu abbia trovato il tuo posticino.”
“Intendi dire le pubbliche relazioni? Scordatelo.”
“No, intendevo dire Carsely. Quando sei laggiù sei una
persona un po’ più facile.”
“E questo che significa?” chiese Agatha con espressione truculenta. Impugnò un tagliacarte d’argento che stava
per gettare, insieme ad altri oggetti, in uno scatolone sulla
scrivania.
Roy rabbrividì ma disse con fermezza: “Ebbene, Aggie,
devo dire che hai avuto successo, sei tornata ai tuoi vecchi
modi, al regno del terrore e cose simili. Io mi ero abituato
alla Aggie del Villaggio, tutta tè e focaccine e affari dei vicini. È buffo, neppure un omicidio nella vostra parrocchia è
riuscito a tirare fuori la bestia che c’è in te come ci riescono
le pubbliche relazioni”.
“Io non indulgo in conflitti personali,” ribatté Agatha,
sentendo un’ondata di rossore risalire dal collo al viso.
“No?” Roy adesso aveva preso coraggio. Lei non gli aveva
tirato addosso niente. “Allora che mi dici delle tue segretarie,
tesoro? Le abbiamo viste correre verso l’ufficio del personale
versando fiumi di lacrime, per andare a consumarsi di pianto
gli occhietti contro il petto rachitico del signor Burnham. Che
mi dici di quella regina dell’abbigliamento, Emma Roth?”
“Che ti dovrei dire? Le ho fatto avere un articolo sul
‘Telegraph’.”
“Ma hai detto a quella vecchia befana che aveva i modi
di un maiale e che i suoi vestiti facevano schifo.”
“Era vero. Lei ha forse disdetto il contratto con noi? No.”
Roy era a disagio. “Non mi piace vederti così. Torna a
Carsely, là c’è un amore, e lasciati alle spalle l’odiosa Londra. Lo dico solo per il tuo bene.”
“Chissà come mai,” disse Agatha, piatta piatta, “le persone che sostengono di parlare per il tuo bene se ne vengono fuori con qualche stronzata?”
“Beh, una volta eravamo amici…” Roys schizzò in direzione della porta, e fuggì.
Agatha rimase a fissare la porta attraverso la quale era
sparito, con la bocca semiaperta. L’ultima frase di Roy
l’aveva colpita. La nuova Agatha si faceva degli amici, non li
perdeva. Aveva addebitato la sua solitudine a Londra e alla
vita londinese, senza fermarsi a pensare che aveva ricominciato ad alienarsi le persone perché era ricascata nelle sue
vecchie abitudini.
Sulla scrivania c’era uno scatolone, pieno di cosmetici e
profumi, prodotti dei vari clienti. Aveva avuto l’intenzione
di portarseli a casa. Gridò: “Bunty, vieni qui un momento”.
La segretaria arrivò saltellando, con il viso acqua e sapone, niente trucco, gonna di cotone bianco lunga fino alla
caviglia e piedi nudi. “Ecco,” disse Agatha, spingendo lo
scatolone verso di lei, “questa roba la puoi prendere tu.”
“Uau, grazie mille,” disse Bunty. “Troppo gentile. Ha
impacchettato tutto, signora Raisin?”
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Di nuovo a Carsely. Dopo un inverno lungo e uggioso e
una primavera fredda e umida, il sole era tornato a splen-
dere, e Lilac Lane, dove Agatha aveva il suo cottage, stava
tenendo fede al suo nome, con un profluvio di fiori bianchi,
malva e porpora. Vide l’auto di James Lacey parcheggiata
davanti a casa e il suo cuore fece un salto. Dovette ammettere con se stessa che le era mancato – come tutti gli altri
abitanti di Carsely, aggiunse severamente. La donna delle
pulizie, Doris Simpson, che nelle ultime settimane si era
presa cura dei gatti, l’aveva vista arrivare e le venne incontro sulla soglia, con un sorriso di benvenuto.
“Bentornata a casa, Agatha,” disse. “Il caffè è pronto, e
per cena ti ho preso una bella fetta di carne.”
“Grazie Doris,” disse Agatha. Si fermò un attimo a
guardare con affetto il suo cottage, accovacciato come una
bestia amichevole sotto il pesante tetto di paglia. Poi entrò per ricevere la gelida accoglienza dei gatti, felinamente
poco inclini a svenevolezze per il ritorno di una padrona
che avrebbe dovuto mostrare maggior riguardo, invece che
andarsene.
Doris portò in casa gli scatoloni di Agatha, li depositò
nell’atrio minuscolo e poi andò in cucina a versare il caffè
per Agatha.
“Mi ero dimenticata del giardino,” disse lei. “Deve essere una giungla.”
“Oh, no, la Società delle Dame ha fatto i turni per strappare le erbacce, e anche il signor Lacey si è dato da fare. Ma
che c’è, Agatha?”
Agatha era scoppiata a piangere.
Agatha tirò fuori un fazzoletto, e si soffiò rumorosamente il naso. “Sono contenta di essere a casa,” borbottò.
“È Londra,” sentenziò Doris, scuotendo saggiamente
la testa. “Londra ha sempre fatto un gran male alla gente. Ogni tanto io e Bert ci andiamo, per negozi. C’è folla
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“Mi manca pochissimo.”
Negli occhi da orsacchiotto di Agatha c’era un che di
smarrito e vulnerabile. Stava ancora pensando a quello che
le aveva detto Roy.
“Ho avuto un’idea,” disse Bunty, “oggi sono venuta qui
con la mia utilitaria. Quando lei è pronta le do uno strappo
fino a Paddington.”
“Grazie,” rispose Agatha, umilmente.
E così un’Agatha insolitamente silenziosa e non incline a
impartire lezioni al conducente fu portata a Paddington da
Bunty.
“Io vivo nei Cotswolds,” si azzardò a dire Bunty. “Naturalmente torno a casa solo nel fine settimana. Un posto
carino. Stiamo a Bilbury. Lei invece è vicina a Moreton-inMarsh. Quando sto a casa durante la settimana, al martedì
vado al mercato con mamma.”
E continuò a chiacchierare imperterrita mentre Agatha
continuava a pensare a quanto fosse stato solitario il suo
soggiorno londinese e quanto sarebbe stato facile fare amicizia con questa segretaria.
Scendendo dall’auto a Paddington, Agatha disse: “Bunty, il mio indirizzo ce l’hai. Se ti va di venire qualche volta
a pranzo, o passi anche solo per un caffè mi fai piacere”.
“Grazie,” disse Bunty. “A presto.”
Agatha si trascinò al treno, occupando con gli scatoloni
il posto accanto al suo. Quando il treno uscì dalla stazione e
prese velocità, e Londra si allontanò alle sue spalle, Agatha
fece un respiro lungo e profondo. Stava lasciando lì quell’altra
Agatha.
e tutti che spingono. Sono felice quando torno qui, alla
calma.”
La donna delle pulizie con molto tatto si girò per permettere ad Agatha di ricomporsi.
“Allora, cosa è successo nel villaggio in mia assenza?”
s’informò Agatha.
“Non molto, per fortuna. Abbiamo goduto di un po’ di
tranquillità. C’è una novità, però. Abbiamo un gruppo di
camminatori.”
“E chi lo guida?”
“Il signor Lacey.”
Agatha ebbe improvvisamente coscienza dei rotoli di
ciccia da nota spese che le si erano depositati in vita. “Mi
piacerebbe partecipare. Come devo fare per iscrivermi?”
“Oh, non credo che nessuno si iscriva, esattamente. Ci troviamo davanti a Harvey la domenica dopo pranzo, all’una
e mezza circa. Il signor Lacey ci conduce a passeggiare in
campagna e ci racconta delle piante e di altre cose e un po’
di storia. Vivo qui da tutta la vita e le cose che non sapevo!”
“Non avete problemi con i proprietari?”
“Da queste parti no. I dipendenti di Lord Pendlebury
tengono in ordine i sentieri, e ci mettono i cartelli indicatori, addirittura. Abbiamo avuto un po’ di problemi con
il signor Jackson.” Il signor Jackson possedeva una catena
di negozi di computer e si era comprato un gran pezzo di
terra. “Stavamo seguendo il sentiero segnato e ci siamo trovati davanti un cancello lucchettato, proprio di traverso, e
lì c’era Harry Cater, il guardiano di Jackson, con un fucile,
per mandarci via.”
“Ma non può fare una cosa del genere!”
“No, ma il signor Lacey ha detto che con tanti bei posti
lì nei dintorni non valeva la pena di mettersi a discutere. La
signorina Simms ha detto a Cater cosa doveva farci con il
suo fucile e dove se lo doveva mettere, con il pastore e sua
moglie che hanno sentito tutto quanto. Io non sapevo dove
guardare.”
“Camminare,” disse Agatha, pensierosa. “Che bella
idea.” Era venerdì. La domenica avrebbe rivisto James, se
non fosse riuscita a intercettarlo prima.
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Roy Silver la mattina dopo entrò nell’ufficio del signor
Wilson, chiedendosi come mai lo avessero convocato al lavoro di sabato.
Il signor Wilson, il capo di Pedmans, sedeva con una
copia del “Daily Bugle” aperta sulla scrivania di fronte a sé.
“Hai visto il giornale, stamattina?” domandò.
“Il ‘Daily Bugle’? No, non ancora.”
“La nostra signora Raisin si è rivelata ancora una volta
la carta vincente. Abbiamo un pezzo delizioso su Jeff Loon,
pubblicità gratuita del valore di migliaia sterline. Mio Dio,
se è in grado di promuovere un idiota come Jeff Loon può
promuovere qualunque cosa. Era un tuo cliente e l’abbiamo
passato alla signora Raisin quando ci siamo accorti che tu
non saresti arrivato da nessuna parte.”
“Insomma, nessuno ne voleva sapere,” disse Roy sulla
difensiva.
Il signor Wilson guardò Roy al di sopra degli occhiali
cerchiati d’oro.
“Non ti sto accusando. Non credo che nessun altro, nel
mondo delle PR, sarebbe riuscito a mettere a segno un
colpo come questo.” Si lasciò ricadere contro lo schienale.
“Pensavo che tu e la signora Raisin foste grandi amici.”
“Lo siamo.”
“Ho notato che cercavi di tenerla alla larga, quando era
qui. Mi è capitato di sentire che lei ti invitava a bere qualcosa dopo il lavoro, un giorno o l’altro, e tu che te ne venivi
fuori con una scusa penosa.”
“Credo che lei abbia sentito male. Io adoro Aggie.”
“Vedi, io desidero che tu instauri un rapporto stretto con
quella donna. Voglio che tu le parli di soldi, di un mucchio di
soldi. Posso anche farla diventare socia. Può scegliersi i clienti. A lei io non piaccio. Se tra voi è rimasto dell’affetto…”
“Un sacco,” disse Roy con fervore.
“Okay, vai subito da lei. Prenditi il tempo che ci vuole.
Non metterle fretta. Trova il modo per farla tornare.”
“Magari il prossimo fine settimana?”
“Chi ha tempo non aspetti tempo.”
“Ma certo, certo. Parto immediatamente.”
Roy si precipitò a casa a preparare una sacca per quei due
giorni e poi andò in taxi a Paddington. Non aveva telefonato
ad Agatha, per timore che lei gli proponesse un altro fine
settimana o gli si negasse del tutto. Se si fosse presentato sulla
porta di casa, rifletté, lei non avrebbe potuto cacciarlo via.
Se quel sabato sera James Lacey fosse stato al Leone
Rosso, dove finalmente Roy s’imbatté in Agatha, magari
lei avrebbe mandato Roy a quel paese. Ma il pensiero che
l’indomani avrebbe rivisto James la rendeva tesa e nervosa.
Perfino la presenza del gracile Roy avrebbe potuto evitarle la
tentazione di monopolizzare James. Così gli disse sgarbatamente: “Sono stupita di vedere che un ex amico è così ansioso
di rivedermi ma immagino che mi toccherà sopportare che
tu mi sopporti. Preparati a una giornata molto attiva, domani. In realtà penso che ti annoierai a morte, e ben ti sta.
Domattina si va in chiesa, e dopo ci uniamo ai Camminatori
di Carsely per una lunga e salutare passeggiata”.
“Proprio quello che mi ci vuole,” disse Roy, con un sorriso accattivante. “Sei pronta per un altro drink, Aggie?”
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