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A lezione dal corpo
Per una didattica interculturale
attraverso l’espressione corporea
Da un percorso di ricerca
spunti di lavoro nella scuola media e superiore
a cura
di Federica Fortunato
con la collaborazione
di Maria Luisa Pollam
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© Editore Provincia Autonoma di Trento - IPRASE del Trentino
Tutti i diritti riservati
Prima pubblicazione febbraio 2005
Stampa: Centro Duplicazioni Provincia Autonoma di Trento
A lezione dal corpo
Per una didattica interculturale
attraverso l’espressione corporea
Da un percorso di ricerca
spunti di lavoro nella scuola media e superiore
a cura
di Federica Fortunato
con la collaborazione
di Maria Luisa Pollam
p. 202; cm 24
ISBN 88-7702-107-1
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INDICE
Presentazione
Ernesto Passante
Introduzione
Definiamo il tema: gesto e intercultura
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Federica Fortunato
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Alla ricerca di cornici concettuali e spunti operativi
Corpi comunicanti
Duccio Canestrini
25
I gesti. Appunti per una semiologia in costruzione
Giovanni Manetti
41
Claudio Tugnoli
67
Etologia e antropologia:
elementi per uno studio del comportamento umano
In viaggio con i ragazzi: palestra, palcoscenico e altri luoghi
Note sui criteri di presentazione dei progetti
85
Il linguaggio del corpo nelle diverse tradizioni culturali
Paola Perale
89
Lo sport e la guerra
Paola Morini
99
Il corpo come memoria
Paola Morini
113
Il mito nelle società tradizionali dell’Africa Occidentale
Monica Ducati
125
Al di là del bene e del male: corporeità e interculturalità
Daniela Franceschini
143
Gestualità e comunicazione
Chiara Vettorazzo
153
Dieci punti per rilanciare
Federica Fortunato
157
Mappe e strumenti
Il territorio
173
Schede di lavoro
175
Bibliografia ragionata
Federica Fortunato
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Siti Web
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Compagni di viaggio
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Presentazione
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Presentazione
Il lavoro di ricerca che documentiamo con questo volume conferma l’impegno
dell’IPRASE nella riflessione sui temi interculturali, che oggi appare quanto mai
necessario sostenere se si considera che la scuola, quale fedele specchio della società,
accentua il suo carattere plurale e diventa sempre più spesso il primo presidio nel
quale gli studenti hanno l’opportunità di incontrare altre espressioni culturali, linguistiche e religiose.
Alla scuola, in questo tempo, è infatti affidato il compito di tutelare il luogo del dialogo, nel quale il processo di formazione ingloba – ma non è una novità - la dimensione educativa della convivenza, della costruzione di legami, nel delicato equilibrio
tra il diritto-dovere di prendere coscienza dei valori identitari e il rispetto delle culture altre.
Ci sono peraltro condizioni perché ciò possa compiersi, affinché si promuova
quella che Morin chiama l’educazione all’identità terrestre e, tra esse, appare imprescindibile che il dialogo sia costruito sul terreno della conoscenza e che la relazione
possa essere praticata utilizzando una pluralità di linguaggi.
Ma nella scuola le aree disciplinari generalmente coinvolte in percorsi di educazione interculturale sono quelle umanistico-letterarie; la condizione privilegiata per
comunicare e conoscere, alle volte anche l’unica sollecitata, è la lingua; che è anche
quella mediata da codici espressivi più formali e complessi da apprendere. Le pratiche
pedagogiche e formative, soprattutto nella scuola superiore, sembrano trascurare l’area dell’esperienza concreta vissuta attraverso la fisicità e questo deprezzamento della
componente corporea nel processo educativo rischia di far passare sotto silenzio
aspetti significativi dei processi comunicativi e delle espressioni culturali.
La nostra prospettiva educativa è comprensibilmente orientata dalla centralità che
i linguaggi verbali hanno nella nostra cultura, ma, alle volte, trascuriamo che altre culture, in altri continenti, hanno mediazioni diverse nella comunicazione, ed in particolare molte non danno la stessa rilevanza alla lingua scritta.
Sono queste considerazioni che hanno costituito l’idea di un percorso di sperimentazione sia conoscitivo che esperienziale, rispetto ad alcuni elementi della cura e
della considerazione del corpo in diverse culture, a partire da quelle presenti sul territorio trentino. Così, nella riflessione dei ricercatori ha preso consistenza una pista per
valorizzare e studiare l’incontro interculturale attraverso la gestualità, di cui sono ric-
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che le culture native e quelle altre, che gli studenti possono avvicinare e riconoscere
nella relazione con i compagni.
E su questa idea, il percorso di ricerca ha raccolto alcuni insegnanti che, grazie alle
loro sensibilità, avevano già avuto modo di sondare la necessità di aprire uno spazio
all’esercizio della comunicazione attraverso il corpo, ad integrare una didattica interculturale troppo spesso ancorata ai linguaggi della parola, quasi che la comunicazione mediata dalla lingua possa esprimere da sola le profonde differenze delle culture.
Sappiamo invece che l’apprendimento linguistico costituisce solo una parte degli
strumenti cognitivi e delle competenze relazionali di cui gli esseri umani devono
entrare in possesso per interagire con i loro simili a ogni latitudine. La familiarità con
queste dimensioni non linguistiche e non verbali della comunicazione permette un’interazione più profonda e la creazione di legami empatici che favoriscono il riconoscimento dell’altro come fratello e amico.
Voglio anche mettere in evidenza che, con la pubblicazione di questo volume, si
conclude uno dei percorsi di ricerca avviati in questi anni con la collaborazione del
Centro Millevoci, tramite il quale questa ed altre iniziative di ricerca e sperimentazione promosse dall’IPRASE hanno potuto avvalersi di competenze specifiche e di relazioni privilegiate con i contesti delle scuola trentine in cui le motivazioni degli insegnanti consentono di realizzare pregevoli esperienze di didattica interculturale.
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Introduzione
Ripercorriamo qui un lavoro di ricerca e sperimentazione che l’IPRASE del
Trentino e il Centro Interculturale Millevoci hanno attuato tra il 2002 e il 2004 coinvolgendo alcuni insegnanti di scuola media e superiore1. Sotto il titolo Gesto –
Espressione – Cultura, si sono promossi progetti a sfondo interculturale attraverso il
linguaggio corporeo, con il duplice obiettivo di sviluppare nuove simbiosi tra le discipline e di documentare i percorsi in modo da favorirne la circolazione e la trasferibilità.
La cornice di tutto il lavoro è stata tracciata dall’attività collettiva del gruppo: il
contratto iniziale, la parte formativa, gli incontri periodici, la condivisione di strumenti e informazioni, la ricerca di modalità operative per la documentazione. Ogni
insegnante (con la rispettiva scuola) si è mosso poi in autonomia totale nell’elaborare
e realizzare i singoli progetti.
Ogni esperienza chiede e merita di essere narrata; soprattutto quelle con tratti
innovativi e che hanno dato soddisfazione. Ma senza una situazione dialogica in cui si
possa rispondere agli interessi specifici di uno specifico interlocutore, il rischio è di
fare pagina morta di una creatura viva. Nel tentativo di suscitare comunque curiosità
e dare spunti per percorsi negli ambiti tematici trattati, destiniamo questo libro a chi,
nel fare scuola, è alla ricerca di contaminazioni e cortocircuiti nuovi, disposto a
rispondere alla complessità e alle nuove richieste con un continuo mettersi in gioco.
Abbiamo raccolto quindi: la traccia dell’operazione complessiva, i contributi teorici, i progetti realizzati, i materiali nei quali si è depositato il vissuto delle classi, alcuni strumenti di lavoro.
Definiamo il tema: gesto e intercultura parte dalla molla che ha dato vita a questo
viaggio e racconta due anni e mezzo di attività, le fasi, i risultati, le problematiche che
li hanno caratterizzati; è una sorta di diario di bordo per macrotappe.
La sezione Alla ricerca di cornici concettuali e spunti operativi comprende i contributi degli esperti a cui erano stati chiesti input iniziali nel corso di due seminari destinati, oltre ai componenti del gruppo di lavoro, anche ad ogni insegnante interessato.
1L’uso dei termini “media” e “superiore” viene mantenuto in quanto il progetto si riferisce ad anni scolastici in cui non
era ancora in vigore la nuova terminologia introdotta dalla Riforma dei cicli (L. 53/2003).
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INTRODUZIONE
Duccio Canestrini aveva introdotto il tema del viaggio e una riflessione su senso e percezione del corpo attraverso un caleidoscopio di immagini e possibili piste di attività.
Per gli spunti offerti e per la maggiore affinità rispetto agli interessi degli insegnanti, è
rimasto poi consulente per il gruppo di lavoro, con incontri, ricerca di materiali, lettura e commento delle esperienze documentate. Nel saggio Corpi comunicanti riprende gli argomenti della relazione iniziale, ma recupera anche il significato dell’intero
percorso di sperimentazione, entrando nel merito dei progetti e fornendo spunti per
ulteriori ipotesi di lavoro.
L’aspetto semiologico è stato curato da Giovanni Manetti: il saggio I gesti. Appunti
per una semiologia in costruzione presenta un efficace inquadramento di tipo storico,
funzionale e tipologico dei linguaggi non verbali.
Claudio Tugnoli, componente del gruppo di ricerca, aveva proposto fin dall’inizio
una serie di categorie utili a inquadrare il tema nelle sue dimensioni storico-filosofiche attraverso gli occhiali dell’etologia (Etologia e antropologia: elementi per uno studio del comportamento umano).
I progetti e la loro rivisitazione da parte dei protagonisti (gli insegnanti, ma anche
esperti, colleghi, studenti) sono presentati, sia in forma narrativa che per schemi riassuntivi, nella sezione In viaggio con i ragazzi: palestra, palcoscenico e altri luoghi.
Abbiamo intitolato Dieci punti per rilanciare alcune osservazioni derivate da una
rilettura dell’intero progetto. Questo è nato come invito a tessere percorsi originali:
quanto era importante, e non scontato, realizzare il lavoro senza perdere le caratteristiche concordate, altrettanto vitale è che non si consideri conclusa l’esperienza. Se
Gesto, Espressione, Cultura ha esaurito la sua parabola d’azione, si congeda con qualche pagina che, riprendendo il vissuto collettivo, guarda in avanti.
Anche per questo, con l’intenzione di non disperdere il lavoro organizzativo e gli
strumenti cercati e messi a punto, raccogliamo nell’ultimo capitolo, Mappe e strumenti, i materiali utilizzati e alcune indicazioni bibliografiche di cui abbiamo contenuto il
numero a vantaggio di una breve presentazione dei testi segnalati.
I motori primi dell’intero progetto, grazie ai quali si è arrivati a questa documentazione, sono presentati attraverso alcune note personali nella scheda Compagni di
viaggio. Degli esperti esterni sono da ricordare la curiosità e la disponibilità ad entrare in un ambito non completamente di loro pertinenza, piegando gli strumenti delle
rispettive discipline e cercando idee e materiali per lo specifico del compito a loro
richiesto. Le insegnanti Monica Ducati, Daniela Franceschini, Paola Morini, Paola
Perale hanno tenuto vivo il senso del lavorare insieme sia nell’anno scolastico dedicato alla realizzazione dei progetti, sia dopo con il lavoro documentario, per il quale
hanno trovato nuove collaborazioni, alcune a carattere professionale, altre guidate dal
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piacere dell’attività.
Speriamo si possano riconoscere in queste pagine anche gli insegnanti che, coinvolti all’inizio, del gruppo di lavoro hanno potuto condividere solo alcune fasi: Teresa
Campana, Donatella Cont, Mariangela Frasnelli, Gabriella Serpico, Chiara Vettorazzo
(di cui teniamo qui la traccia del progetto previsto), Walter Zeni lavorano da anni, in
diverse forme, con proposte innovative e coinvolgenti; al gruppo di lavoro hanno dato
riflessioni ed esempi attraverso l’esperienza dei percorsi realizzati, a volte con estensione pluriennale, sui temi dati.
La documentazione non finisce con le pagine scritte. Al Centro di
Documentazione Scolastica dell’IPRASE sono conservati i prodotti in uscita da tre dei
progetti qui presentati: due filmati e un ipertesto (descritti a p. 20) permettono di
comunicare in forma più diretta e suggestiva i contenuti e le dinamiche di attività fondate sul movimento e sulla relazione. Parlare di corpo, fisicità, espressione non verbale e non far vedere sembrava un’incoerenza inaccettabile; per questo, nell’impossibilità di allegare al libro un adeguato corredo di tipo visivo, rinviamo alla documentazione attiva che offre, oltre alla traccia dell’esperienza, anche materiali riutilizzabili ed
esempi diversi di rielaborazione delle esperienze.
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Federica Fortunato
O meu corpo traduz
muitas lìnguas,
o entendimento
fica para atràs.
Comunicaçao entre marcianos
Il mio corpo traduce
molte lingue,
la comprensione
rimane indietro.
Comunicazione tra marziani
(Rosana Crispim da Costa, Il mio corpo traduce molte lingue)
L’IDEA
Gli interrogativi e i desideri iniziali erano molteplici, ma così riassumibili: Come
dare un corpo all’educazione interculturale? Come portare i ragazzi a confrontarsi direttamente e materialmente con la diversità? E, da questo, come farli riflettere sulla dimensione fisica, propria e altrui, (dimensione tanto fortemente interpellata quanto generalmente dimenticata) nell’incontro tra culture?
Più strumentale, benché urgente, un altro quesito serpeggiava: Come promuovere
l’engagement di insegnanti di discipline non solo umanistiche in percorsi comuni per lo
sviluppo di un atteggiamento interculturale?
L’idea di questo progetto, chiamato poi Gesto-Espressione-Cultura, è nata tra il 2001
e il 2002 come ricerca di nuovi paradigmi e nuovi intrecci per l’educazione interculturale1; non si trattava di inventare, ma di allargare le esperienze ad aree disciplinari
(in particolare l’educazione fisica e quella religiosa) finora poco sollecitate, includendo e valorizzando la dimensione corporea, la fisicità dell’incontro con l’altro che presuppone anche un nuovo incontro con noi stessi. Nelle scuole erano già molti i percorsi pensati per avvicinare luoghi, persone, costumi che, provenendo da diversi paesi
e diverse tradizioni, sono ormai parte viva e in espansione del nostro panorama civile e scolastico. Interventi didattici curricolari, proposte tematiche di associazioni, uso
della danza e della musica africana e sudamericana, incontri con testimoni: benché
non come realtà costante e capillare, erano e sono esempi relativamente diffusi di
nuove modalità per far toccare agli studenti frammenti di mondo e, nei casi più significativi, per promuovere una più attenta consapevolezza di sé nel mondo. In una realtà prismatica, in rapido cambiamento e drammaticamente conflittuale, proprio questa consapevolezza diventa una condizione primaria per qualsiasi discorso sull’alteri-
1 È a Paola Morini, qui presente con due progetti, che si devono lo spunto iniziale e una buona parte delle idee che
hanno dato vita a questo percorso di ricerca.
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tà e quindi per la formazione di cittadini in grado di muoversi in un mondo culturalmente sempre più complesso, riconoscendo ed educando a gestire gli elementi di tensione e distruttività.
Se concordiamo che l’educazione interculturale non è un “comparto pedagogico”,
ma educazione tout court (con attenzione particolare alle emozioni, al decentramento
e quindi alla relativizzazione dei punti di vista, al pluralismo, alla competenza nella prevenzione e gestione dei conflitti), è necessario sviluppare un universo di condizioni
preliminari, a partire da una messa in gioco completa di sé, con lo sviluppo di ascolto,
osservazione, dialogo, partecipazione. E quindi con la mobilitazione dei diversi tipi di
intelligenza, superando gli steccati potenti che persistono tra area del movimento e
aree dello studio. Consapevolezza e riconoscimento dell’altro non si acquistano per
studio, ma richiedono esperienza; e si danno quindi in un rimando continuo con la percezione e la ridefinizione delle nostre identità complesse. L’esposizione diretta a comportamenti ed espressioni altrui richiede un salto nel non noto, affrontando imbarazzi
e resistenze, ma diventa anche funzionale al riconoscimento e alla definizione dei propri codici; e a questo strategico pendolarismo contribuiscono sia il fare che il riflettere
su come quello che è diverso dal familiare ci colpisce, ci provoca, ci imbarazza, ci chiama comunque ad una risposta e ad un cambiamento.
Per questo l’area dell’educazione fisica sembrava un terreno privilegiato, ma ancora da mobilitare in questa direzione giocando proprio sulla multipla valenza (cognitiva, comunicativa, operativa, affettiva, simbolico-rappresentativa, …) del lavoro corporeo. Nella scuola dell’obbligo, ma anche in quella superiore, le pratiche non sono
solo sportivo-agonistiche; gli insegnanti di educazione fisica intendono la propria
disciplina come un mezzo per portare a vivere la dimensione corporea in modo consapevole, critico, espressivo e creativo, per sviluppare forme di relazione e di comunicazione rispettose e piene; per interagire meglio con gli altri e con l’ambiente per
acquisire altri saperi. Conoscendo l’esistenza di diversi percorsi innovativi, l’intenzione era di recuperarli virandoli verso una prospettiva esplicitamente interculturale e
collegando, inoltre, la palestra all’aula.
A sfida maggiore, ci si è rivolti privilegiatamene alla scuola superiore. Se negli anni
“dell’obbligo” (nella scuola elementare soprattutto) si svolgono esperienze dirette
attraverso il movimento, il gioco, l’interazione con soggetti portatori di altre identità
culturali, la scuola superiore sembra ignorare quasi programmaticamente l’area dell’esperienza concreta, vissuta attraverso la fisicità. Il deprezzamento della componente corporea nella pratica educativa fa quindi passare sotto silenzio aspetti significativi
dei processi e delle espressioni culturali proprio nell’età in cui più è critica la dinamica con il nostro corpo e l’elaborazione dei rapporti, anche fisici, con gli altri:“Toccare,
esplorare, indagare il proprio corpo e quello dell’altro significa porre le basi per una
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ritematizzazione del rapporto tra corporeità e conoscenza.”2
Agganciare e far interagire saperi diversi, mettendo in pratica il necessario superamento non solo della dicotomia tra saperi della mente e saperi del corpo, ma anche di
quella tra corpo e comportamento sociale; promuovere una concertazione delle diverse intelligenze; ricomporre la secolare divisione degli ambiti disciplinari provando
intrecci poco o nulla frequentati (educazione fisica con filosofia, per esempio): sono
una serie di indirizzi forse non rivoluzionari, ma sicuramente ancora non entrati nella
quotidianità della didattica. E sicuramente strategici per andare alla sostanza dell’incontro e per costruire un sapere sociale di segno interculturale.
IL PROGETTO
Nell’autunno del 2001 un corso di aggiornamento organizzato da IPRASE e
Centro Millevoci (Oralità e corporeità. L’attenzione comunicativa nella didattica interculturale)3 aveva avviato una trentina di insegnanti elementari e medi alla sperimentazione di una serie di attività e di situazioni in cui la relazione, il proprio e l’altrui
corpo, l’osservazione e l’empatia giocavano un ruolo primario. Come in altre occasioni, il raccontare e l’esplorare non solo nella dimensione cognitiva erano emersi sia
come bisogni espliciti che come strategie didattiche per chi si interroga sulle richieste
della scuola nella società multiculturale.
Nello stesso periodo, tra il 2001 e il 2002, altri due percorsi organizzati dal Centro
Millevoci, uno sulla narrazione e uno su metodologie per l’educazione alla pace e
all’interculturalità4, avevano fatto circolare esperienze e idee analoghe. Tutto ha concorso a ipotizzare un percorso di ricerca-sperimentazione da condurre tenendo in
equilibrio l’aspetto conoscitivo e quello esperienziale; l’ambito è stato definito in
“cura, uso e considerazione del corpo in diverse culture”, a partire da quelle rappresentate sul territorio trentino (in particolare attraverso le ritualità civili e religiose),
intervenendo sia sulla dimensione individuale che su quella interpersonale e sociale.
Una prima ipotesi di lavoro metteva l’accento sulla dimensione religiosa, dal momento che questa, con le ritualità e le pratiche prescritte dalle diverse tradizioni, rappre2
R. Mantegazza, Corpo a corpo: educazione e corporeità, in Cem Mondialità, maggio 1999, p. 28.
Introdotto da una giornata con il pedagogista Vincenzo Lombardi, il corso (6-8 settembre 2001) è proseguito con il
laboratorio di espressione corporea dell’attrice Maria Consagra e quello sull’oralità e uso della voce di Giovanna
Palmieri, formatrice teatrale.
4 I due percorsi appartenevano alla preparazione collettiva della Fiera dell'educazione interculturale, alla pace, alla
mondialità Le Radici e le Ali (maggio 2002), raccolta, esposizione, riflessione sui progetti e le pratiche scolastiche in
questi ambiti.
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senta un’area critica della diversità, ma anche il terreno di un possibile incontro e di
un lavoro con le diverse comunità presenti sul territorio.
Impostata una prima bozza progettuale all’interno del Centro Millevoci e ottenuta la disponibilità dell’IPRASE, si è proceduto alla costituzione del gruppo di lavoro.
Volendo indirizzare la sperimentazione agli adolescenti, sono stati contattati solo
docenti di scuola media e superiore di cui si conoscevano gli interessi e i lavori nell’area dell’interculturalità e dell’espressione corporea. Condizioni per la partecipazione
al gruppo di lavoro erano la disponibilità ad una progettazione e conduzione interdisciplinare nella scuola di servizio e ad una attività di documentazione funzionale alla
trasferibilità delle esperienze. Insegnanti di educazione fisica, lettere, scienze sociali,
religione sono partiti dalla ricognizione delle personali esperienze didattiche, arrivando poi ad una definizione condivisa del progetto articolato secondo i seguenti:
Obiettivi formativi
•
•
•
•
•
•
•
Sviluppare la sensibilità all’osservazione e all’interpretazione di diverse manifestazioni culturali, dal punto di vista dei linguaggi corporei.
Sviluppare una percezione più consapevole delle proprie, individuali, modalità di
espressione corporea.
Riconoscere il corpo come depositario di memoria, sia individuale che collettiva.
Riconoscere in abitudini e codici diversi principi e moventi comuni.
Sviluppare l’attitudine all’incontro, alla conoscenza, al riconoscimento del “diverso da me”.
Rafforzare la curiosità e la disponibilità nei confronti di esperienze, atteggiamenti,
codici culturalmente divergenti.
Sviluppare il decentramento dei punti di vista.
Obiettivi didattici
•
•
•
•
•
Riconoscere elementi e caratteristiche di alcune ritualità interne alla propria cultura.
Acquisire strumenti di lettura di alcune manifestazioni culturalmente connotate (artistiche, sportive, di costume, …).
Esplorare, in particolare attraverso diversi approcci alla ritualità religiosa e civile,
alcuni fondamenti culturali e antropologici di culture diverse.
Conoscere le comunità nazionali e religiose presenti sul territorio trentino.
Sperimentare attraverso il coinvolgimento diretto (in particolare con attività legate
all’educazione fisica) e analizzare alcune forme di espressione sociale, artistica, rituale appartenenti a diverse culture.
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L’operazione si sarebbe retta su tre dimensioni operative: il gruppo di ricerca (i
referenti per IPRASE e Centro Millevoci) che si sarebbe occupato di formulare linee e
procedure comuni per il gruppo di lavoro; il gruppo di lavoro (gli insegnanti aderenti al progetto) con il compito di impostare e documentare i singoli percorsi didattici; i
gruppi di sperimentazione (i docenti del gruppo di lavoro con i colleghi dei rispettivi
consigli di classe) che avrebbero realizzato le esperienze a scuola.
IL PERCORSO
Il gruppo di lavoro
Partito con una decina di insegnanti interessati, il gruppo si è confrontato subito
con la fatica di realizzare le condizioni richieste; la difficoltà maggiore si è confermata
quella di coinvolgere i colleghi in un percorso realmente interdisciplinare, partecipato, non banale. Dopo una verifica delle condizioni di fattibilità nelle rispettive scuole
il gruppo si è ridotto stabilizzandosi intorno a 5-6 partecipanti; gli altri hanno proseguito in autonomia piste di lavoro già sperimentate nella propria scuola (soprattutto
in periferia, Val di Non e Val di Fassa).
Ma anche chi non ha potuto seguire è stato portatore di esperienze innovative e di
progettualità; la partenza e la costruzione del gruppo sono avvenute infatti in forma
narrativa, con la descrizione di personali itinerari di formazione, di aree di lavoro privilegiate, di percorsi che in alcune scuole sono diventati negli anni un segno identitario.
Educazione all’affettività e al rapporto interpersonale, riflessione su linguaggio
non verbale, esperienza diretta e analisi di atteggiamenti, posture e relazioni interpersonali, ricerca delle motivazioni dei propri comportamenti: questi alcuni dei tratti
caratterizzanti il lavoro curricolare nell’educazione fisica. A cui, sempre all’interno di
questa materia, si sono aggiunte esperienze di mimo, di teatro, di danza, di massaggio,
di yoga e altre tecniche di rilassamento; e poi l’uso dell’autobiografia, approfondimenti su vissuti ed emozioni, il lavoro sui riti di passaggio (nelle tradizioni africane,
riflettendo sulla mancanza od opacità dei nostri), l’uso dell’attività corporea come
confronto con la diversità (l’handicap piuttosto che altre culture). Si è dilatato in molte
direzioni il panorama dei percorsi già svolti, a volte con i colleghi, più spesso all’interno della programmazione individuale. Gli insegnanti di lettere, scienze sociali e religione hanno arricchito il quadro del pregresso con lavori sulla ritualità e la liturgia
nelle diverse tradizioni; esercizi di decentramento su “come mi vedono gli altri”; una
ricerca sulla presenza di migranti sfociata in un fotoromanzo; l’avvicinamento di
codici corporei (danza, canto) e linguistici (motti, proverbi) di culture africane, un’incursione nel mondo dei segni sul corpo (piercing e tatuaggi). Non abbiamo l’intenzio-
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ne di ricomporre qui l’elenco completo di quanto raccolto, ma di dare un’idea dello
stato di esperienza da cui il gruppo è partito: la pluralità di temi e di modalità di lavoro permetteva di lavorare soprattutto sullo scambio e sull’integrazione tra area della
motricità consapevole e area dell’interculturalità.
A partire da idee già prefigurate e dai nuovi stimoli, ogni partecipante ha organizzato nella propria scuola un gruppo di sperimentazione variamente composto, da un
team minimo di due colleghi a un intero consiglio di classe. I progetti sono stati elaborati e attuati in modo autonomo, a carico delle rispettive scuole e in orario scolastico. Il gruppo di lavoro, con incontri a cadenza mensile presso il Centro Millevoci, ha
funzionato da luogo di confronto e guida per linee di condotta uniformi: gli insegnanti hanno illustrato le fasi di progettazione e di realizzazione dei percorsi nelle singole scuole, hanno riconosciuto e discusso problematiche comuni, hanno concordato
gli strumenti di lavoro proposti dal gruppo di ricerca. Sempre nel gruppo di lavoro
sono state raccolte le richieste di consulenza, si sono avuti gli incontri con gli esperti,
si sono discusse le modalità di elaborazione del materiale documentario.
Le idee circolate sono state di una grande varietà e i progetti concretamente sviluppati sono derivati da una selezione di possibilità; visti a posteriori, gli incontri iniziali
(per qualcuno anche fonte di ansia per l’indefinitezza del proprio percorso o per le difficoltà da superare a scuola) sono stati i più ricchi: idee personali, esperienze e proposte
di colleghi, spunti da libri, spettacoli, incontri. Il gruppo è stato luogo e occasione anche
per riflettere e confrontarsi sugli impliciti di un obiettivo interculturale, sull’idea di cultura e di differenza, sulle strategie più opportune rispetto alle specifiche tematiche.
L’accompagnamento formativo
A supporto del gruppo di lavoro sono stati interpellati esperti di due delle aree
disciplinari più naturalmente investite dalla sperimentazione sul linguaggio non verbale: antropologia e semiologia. Per tracciare un contesto teorico comune (linguaggio,
categorie, piste di lavoro) si è partiti con due incontri formativi; nella prima parte
aperti ad un pubblico allargato, in un secondo momento sono stati mirati alle esigenze del progetto con una forte interlocuzione tra insegnanti e studiosi. Molteplici piste
possibili in ambito antropologico sono state offerte dalla relazione di Duccio
Canestrini5 sul tema “L’antropologia del corpo: uso comunicativo del corpo attraverso
diverse prospettive di analisi”; cinesica, prossemica, vestemica, interventi modellatori
(deformazione, tatuaggio, scarificazione, piercing…) hanno costituito altrettanti sentieri possibili di ricerca ad alto tasso autobiografico per i ragazzi. Atteggiamenti e linguaggi gestuali dei diversi gruppi giovanili metropolitani sono stati evidenziati e riva5
Una rielaborazione dell'intervento è contenuta nel saggio Corpi comunicanti in questo volume.
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lutati come spunti per lavorare sul vissuto e sull’identità con gli adolescenti (proposte
di indagine, ermeneutica, riflessione su modelli, reazioni individuali,...).
Giovanni Manetti6 ha tracciato un impianto teorico sintetico ma ricco di spunti:
dagli studi classici alle moderne teorie del linguaggio, le tipologie di codici verbali e
segnici, le categorie dei sistemi gestuali. Scendendo nella concretezza del lavoro scolastico, ha poi indicato sia campi di applicazione (televisione, pubblicità), sia strumenti
per l’osservazione e la descrizione dei segni comunicativi e informativi non verbali.
Nella successiva definizione dei singoli progetti l’area antropologica è risultata più
vicina agli interessi e ai bisogni degli insegnanti; così è stato a Canestrini che si sono
chiesti consulenza in itinere, supporto nella fase di documentazione, rilettura dei processi e dei prodotti.
LA DOCUMENTAZIONE
Conosciamo la difficoltà della scuola nel tenere memoria del lavoro che svolge, nel
comunicarlo e nel renderlo quindi trasferibile. Per questo l’attività di documentazione dei percorsi è stata uno degli obiettivi del progetto complessivo e cura permanente del gruppo di ricerca e del gruppo di lavoro. Alla progettazione si è quindi accompagnato fin dalle prime fasi un pensiero rispetto alle modalità e agli strumenti per
rilevare e lasciare traccia di quello che si andava programmando e realizzando. Si sono
predisposti quindi strumenti a supporto delle diverse fasi di lavoro a cui il gruppo era
chiamato (traccia per la stesura del progetto, suggerimenti per una griglia di osservazione, scheda per la raccolta della documentazione7). Il materiale, preparato ex novo
o come elaborazione di schemi già esistenti, è stato presentato in forma interlocutoria;
non si volevano infatti imporre degli strumenti vincolanti, ma l’interesse era quello di
condividere modalità e di armonizzare stili, oltre che di affinare le abilità di osservazione e registrazione. In alcuni casi il gruppo ha suggerito variazioni rispetto all’impianto suggerito o ha sollevato obiezioni sulla sostenibilità delle azioni richieste e della
relativa tempistica. All’interno del gruppo non solo ognuno degli insegnanti aveva,
come è naturale, un proprio stile e familiarità con determinati strumenti di progettazione, di redazione e di registrazione, ma, soprattutto, sulla parte formale prevaleva
l’attenzione alla proposta in atto, agli aspetti organizzativi, alla motivazione di colleghi e ragazzi, ai dati di novità rispetto a proposte analoghe attuate in precedenza. Non
è stato quindi facile creare una omogeneità di condotta; coerentemente con il caratte6 Vedi
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il saggio I gesti. Appunti per una semiologia in costruzione qui pubblicato.
Tutti gli strumenti utilizzati sono riportati nella sezione Mappe e Strumenti.
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re e il tema centrale del progetto, si è preferito comunque garantire il rispetto delle
individualità e degli stili personali di lavoro.
Gli spazi di confronto all’interno del gruppo erano occasioni di narrazione, sia nel
momento dell’ideazione che nelle fasi di realizzazione; questo rendeva ancora meno
urgente la cura documentaristica proprio perché, nell’accumularsi del racconto, nelle
domande, nei suggerimenti che ne nascevano, i singoli progetti vivevano di una vita
riflessa anche al di fuori della scuola in cui si svolgevano.
Si è lavorato affinché ognuno definisse il proprio quadro di riferimento teorico,
esplicitando le motivazioni pedagogico-didattiche per la scelta dell’ambito di lavoro e
delle metodologie, descrivendo il contesto, portando riferimenti ad una letteratura
specifica e ad esperienze pregresse.
Nel momento in cui ogni docente aveva formalizzato il progetto, il gruppo ne permetteva una lettura dall’esterno che aiutava a definire, interrogarsi, approfondire,
esplicitare molto di quanto era dato per evidente. Ugualmente nella documentazione
in itinere si sono condotte e confrontate le osservazioni dirette “lezione per lezione”
(clima, reazioni dei ragazzi, cambiamenti in estemporanea,…). Si sono previste le
registrazioni in video, raccogliendo i problemi teorici e pratici a queste legati; infatti
nel farsi delle diverse esperienze si è documentato il lavoro utilizzando supporti diversi, con l’attrezzatura a disposizione della scuola (fotografie, riprese video, elaborati dei
ragazzi) o coinvolgendo il servizio provinciale (Centro Audiovisivi).
Ancora in fase di svolgimento, una prima forma di presentazione esterna dei lavori è avvenuta attraverso Internet: schede descrittive sintetiche sono state inserite nel
sito web dell’IPRASE8, corredate di immagini e sfondo musicale.
A evento concluso gli insegnanti hanno presentato una relazione seguendo in
modo personale la griglia predisposta.Alla fine, in qualche caso su sollecitazione degli
studenti stessi, in altri casi come riorganizzazione di un esteso materiale grigio di tipo
visivo, sono stati realizzati prodotti dotati di loro autonomia che contribuiscono in
forma più eloquente alla descrizione dei percorsi.
I RISULTATI
I progetti
Una previsione iniziale aveva indicato come un successo la nascita di due lavori
nella scuola media e due in quella superiore; alla fine sono stati sei i percorsi proget8
www.iprase.tn.it/prodotti/materiali_di_lavoro/intercultura/indice_schede.asp.
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tati e cinque quelli effettivamente realizzati.
Tutti hanno rispettato le condizioni di interdisciplinarietà e collocazione curricolare; tutti hanno avuto consenso formale da parte del Collegio Docenti e hanno goduto di visibilità all’interno dell’istituto; tutti si sono serviti di esperti esterni, quasi sempre mediatori o artisti di diversa espressione culturale.
La danza, il teatro, lo sport sono state le dimensioni dell’espressione corporea; la
comunicazione, la relazione con gli altri, il mito, le connessioni tra pratiche corporee,
la storia, le espressioni della vita civile sono stati gli ambiti della riflessione e degli
approfondimenti tematici.
Per la descrizione dei vari percorsi rimandiamo alla sezione In viaggio con i ragazzi: palestra, palcoscenico e altri luoghi.
I materiali prodotti
Ogni percorso si è depositato in prodotti originali. Le diverse esperienze sono
sempre state raccolte in testi individuali e dossier collettivi; hanno potuto circolare sia
all’interno dell’istituto che in manifestazioni esterne attraverso mostre, presentazioni
ad altre classi da parte dei ragazzi, rappresentazioni di danza e musica.
La documentazione diretta delle attività è sempre stata garantita da videoriprese,
gestite dalla scuola o concordate con professionisti esterni. In quattro dei cinque progetti attuati la rielaborazione del percorso ha portato ad un ulteriore lavoro di produzione: una mostra, due video e un CDRom. Il grado di protagonismo degli studenti in
questa fase è stato molto differenziato: l’elaborazione di disegni e testi originali, lo studio e l’allestimento della mostra (Sport e guerra e Il corpo come memoria); una forte
propositività con produzione di materiali (disegni, colonna sonora, testi), sceneggiatura e intervento nelle scelte di contenuti, modalità, montaggio (A scuola con Gabriel);
l’elaborazione di testi con il racconto in prima persona all’interno di uno strumento,
l’ipertesto, la cui realizzazione tecnica è stata curata dagli insegnanti (Danzando nel
mondo); per Lo sport e la guerra la selezione, la sceneggiatura, il testo di raccordo sono
stati lavoro estivo dell’insegnante.
Diamo qui una breve presentazione di questi materiali conservati e visionabili
presso il Centro di Documentazione Scolastica dell’IPRASE.
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Video
A SCUOLA CON GABRIEL - Liceo delle Scienze Sociali “Rosmini”, Trento
A cura di Monica Ducati e Stefano Sartori
Il lavoro, cominciato alla fine del percorso sul mito africano, è cresciuto in complessità ed è stato portato a termine nel corso dell’anno successivo (2003/2004)
come autonomo progetto didattico. È diventato quindi qualcosa di diverso da una
semplice rivisitazione dell’esperienza: un documento al quadrato in cui si intrecciano continuamente piani e momenti apparentemente lontani. I ragazzi ricordano i temi affrontati l’anno precedente e le loro emozioni, ma si trasformano anche
in attori di se stessi, mettendo in scena la loro vita quotidiana nella scuola: l’uso
degli spazi, le relazioni con insegnanti e personale di segreteria, i tempi giocati tra
autonomia e lezione. Le riprese di alcuni momenti con il mediatore ivoriano
(Gabriel Mokoi Mokoi) si alternano con dirette di apparente casualità, mentre alcuni inserti da uno dei film utilizzati (Basquiat) introducono una terza dimensione
artistico-esistenziale.
LO SPORT E LA GUERRA - ITC “Tambosi”, Trento
A cura di Paola Morini e Federica Fortunato
Riprese e montaggio: Centro Audiovisivi della Provincia Autonoma di Trento
L’esperienza diretta delle discipline sportive (lancio del giavellotto, kung-fu, qwanki-do, capoeira) viene inserita in un discorso storico-culturale che riprende alcuni
dei temi e dei documenti usati in classe per l’approfondimento dei contenuti; il
percorso scolastico è animato con l’inserzione di sequenze cinematografiche
d’autore che presentano diversi contesti e modalità di uso delle tecniche in oggetto, ampliano la parte informativa, suggeriscono possibili espansioni di lavoro.
CDRom
DANZANDO NEL MONDO - Istituto Comprensivo “Trento 4”, Scuola media d’Arte
A cura di Paola Perale e Claudio Bassetti
Attraverso il racconto dei ragazzi l’ipertesto presenta il lavoro realizzato nelle sue
diverse fasi (dall’ideazione allo spettacolo pubblico) insieme al coinvolgimento
emotivo e relazionale dei diversi protagonisti. Interessante e riutilizzabile per altri
percorsi didattici, si trova un’ampia selezione di materiale iconografico e di notizie
sulle diverse culture indagate: Dogon, Ecuador, nativi d’America, Maori, Papua,
Valfloriana.
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NOTE DI BILANCIO
All’interno della descrizione di ogni progetto gli insegnanti hanno esplicitato i
risultati ottenuti in termini educativi e di prodotto. Sono sottolineate le difficoltà di
tipo sia strutturale-organizzativo, sia didattico-relazionale: le rigidità dei tempi e dell’organizzazione scolastica, la difficoltà ad una collaborazione creativa con i colleghi,
il debole o nullo riconoscimento dei risultati personali degli studenti in sede di valutazione finale. Tutte le scuole hanno investito comunque nei progetti: dall’attenzione
formale (i percorsi sono stati presentati e approvati in sede di Collegio Docenti),
all’impegno finanziario (la presenza di esperti), alla mobilitazione del personale (i
bidelli alle prese con le registrazioni). Il fatto che nell’anno successivo a quello della
sperimentazione le scuole abbiano proseguito riproponendo o rielaborando i tracciati è di per sé indice di fecondità e di cambiamento. Colleghi di educazione fisica hanno
mutuato piste nuove su cui continuare anche all’interno della propria programmazione, sia come lavoro di consapevolezza per tutti che come recupero di radici da parte
di ragazzi di varia provenienza nazionale. Nella difficile originalità delle proposte i
rampini che hanno collegato, per esempio, la filosofia all’espressione gestuale hanno
lasciato dei segni destinati a fiorire, si spera, in nuove collaborazioni.
Dal punto di vista dell’impresa generale (il percorso del gruppo di lavoro) selezioniamo alcuni elementi su cui riflettere: la progressiva riduzione del gruppo, l’adeguatezza del supporto alla sperimentazione, il peso dei risultati.
La prima è un fatto fisiologico: non è un caso che abbiano proseguito solo insegnanti delle scuole di Trento (e a Trento residenti); la condizione di interdisciplinarietà (richiesta come vincolo contrattuale) era un obiettivo difficile da realizzare proprio
perché inedita, o quasi, per le aree definite; la tentazione a proseguire in proprio, prescindendo dalla nave comune, è stata forte anche considerando le coincidenze con
obblighi di servizio e soprattutto i già impegnativi carichi del lavoro organizzativo e
didattico richiesto da ogni progetto.Va anche evidenziata la casuale, anche se non sorprendente, uniformità di genere.
Per quanto riguarda il supporto dato dal gruppo ai singoli componenti, questo è
stato percepito da ognuno, ovviamente, attraverso il filtro delle proprie aspettative;
una sola insegnante, lavorando da anni con creatività e autonomia sul doppio versante della motricità e della riflessione su identità/alterità, avrebbe preferito un’offerta di
tipo più formativo che operativo. Per tutti i partecipanti è stato più stimolante l’aspetto di sponda nel momento della tematizzazione dei progetti; ugualmente la visione dei
prodotti e la valutazione hanno stimolato una partecipazione molto ricca; le richieste
di documentazione (sia nella fase progettuale che in quella di bilancio), pur coerenti
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con l’impegno iniziale, sono state percepite come un vincolo molto pressante e non
sempre compatibile con i tempi e i carichi dell’attività a scuola. Anche per questo l’elaborazione delle esperienze ha richiesto tempi più dilatati rispetto alle ipotesi iniziali.
Ma per una rilettura dall’interno preferiamo lasciare la parola ad una delle protagoniste (vedi Il gruppo di lavoro, secondo me nella relazione di Monica Ducati, a p.
126).
Una volta stabilizzato il numero dei componenti cosa ha tenuto insieme il gruppo?
In parte, certo, il riferimento ad un’équipe istituzionale e agli interventi dell’esperto;
poi la possibilità di discutere idee e difficoltà, di far circolare informazioni e risorse.
Ma soprattutto, crediamo, il conforto o il piacere di un piccolo gruppo al quale offrire (e attraverso il quale ricostruire) il significato di quanto si andava creando, tra svariate resistenze, a scuola. Si ricorda spesso quanto sia necessario fornire agli alunni il
senso di quanto si fa, proprio per contrastare la deriva della perdita di significato; e per
gli insegnanti? Avere una camera di progettualità esterna permette di confrontare
metodologie, stili individuali, contesti scolastici diversi, dà rinforzo anche di tipo pratico all’operatività individuale; e fornisce lo spazio per la messa in comune di perplessità, sconforti, difficoltà, ma anche di scoperte e sorprese positive.
Rispetto ai risultati, per coerenza con i nostri temi coltiviamo il dubbio: quanto dei
progetti di cui qui si parla avrebbe comunque visto la luce anche senza una sollecitazione esterna? Sicuramente in alcuni contesti la forzatura felice c’è stata; in altri casi la
differenza si è data nella sottolineatura di uno dei due caratteri di fondo (corporeità e
aspetto interculturale); la funzione creativa e interlocutoria del gruppo ha sviluppato
sguardi multipli e nuovi sui temi e sulle attività scelte; per tutti i progetti c’è stato uno
sforzo di formalizzazione e documentazione che altrimenti non si sarebbe dato.
La risposta, tuttavia, va cercata meno nel cosa si è realizzato concretamente (per
quanto questo sia l’obiettivo perseguito e raggiunto) che nel cosa si è attivato e come:
la relazione tra corpo e intercultura è stata tematizzata, si è tradotta in azioni, è passata dalla cura di un piccolo nucleo di insegnanti all’attenzione di altri operatori della
scuola. Per chi ha seguito il progetto in prima persona il lascito più fecondo sono forse
le domande importanti che si sono accumulate a partire dai primi incontri fino alla
valutazione finale; domande spesso senza risposta, elaborate come segnali di attenzione. Come sassolini luminosi che hanno segnato la riflessione del gruppo, si trovano nelle prossime pagine all’interno dell’intervento di Duccio Canestrini, nell’esposizione dei singoli progetti, nei Dieci punti per rilanciare che abbiamo lasciato a conclusione.
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Duccio Canestrini
GESTI INCONSULTI
Quand’ero bambino mi dicevano spesso di non fare gesti inconsulti. Era una strana espressione. Me lo diceva soprattutto mia zia Graziella, la cui tipica esclamazione,
quando si innervosiva, era “corpo di Bacco!”. Devo dire che anche tale evocazione del
corpo di una divinità pagana (per quanto la categoria di paganità possa avere senso)
mi risultava piuttosto misteriosa. Non fare gesti inconsulti - così come non commettere atti impuri - era una cosa che io non capivo. Sapevo che non si dovevano prendere a fiondate i lampioni, ma l’inconsultaggine del gesto, come categoria astratta, mi
sfuggiva. Immagino che si trattasse di astenersi dal compiere movimenti che mancassero di prudenza e riflessione, e che perciò avrebbero messo nei guai mia zia. Se oggi
prendo in mano un dizionario ne trovo l’origine latina. Inconsultus = sconsiderato, da
consulere, deliberare, esaminare. Gesti non esaminati con attenzione, dunque. Ma da
chi? Da me stesso, oppure da un’autorità gerarchica preposta alla valutazione? Come
si è capito, questo punto non mi è ancora del tutto chiaro.
In ogni caso, suppongo che la raccomandazione tendesse a pilotarmi verso una
forma di autocontrollo all’inglese, stile Phileas Fogg nel giro del mondo in ottanta
giorni: algido, laconico, sempre calibrato. Un bel modello, non c’è che dire. Salvo che,
essendo italiano, se l’avessi seguito fino in fondo, probabilmente mi sarei coperto di
ridicolo.
A proposito di italiani e di giri del mondo, calza bene un altro aneddoto. Un giorno mi trovavo al volante, in Messico. Guidavo lungo una strada sconnessa e stretta in
molti punti. Quando i rari automobilisti che incrociavo mi davano la precedenza e mi
lasciavano passare, li ringraziavo sorridendo e mostrando loro il palmo della mano,
un po’ come facevano gli antichi romani. Dopo alcuni di questi saluti secondo me
molto cordiali, mi accorsi che qualcosa non andava. Gli automobilisti manifestavano
all’improvviso una rabbia intensissima nei miei confronti, abbassavano il finestrino e
mi gridavano oscenità. Un comportamento inspiegabile. Quella sera ipotizzai che la
1 Ringrazio mia moglie Luciana Moggio, che per anni ha studiato danza africana. Alcune riflessioni esposte in questo
lavoro le devo a belle chiacchierate con lei.
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mano aperta con il palmo rivolto in avanti in Messico fosse recepito come un gesto di
arroganza, e che potesse significare qualcosa come: stai fermo che passo io. Era peggio, in realtà. Quando chiesi lumi a un amico messicano mi spiegò che si trattava di un
gesto molto offensivo, equivalente più o meno al seguente concetto: la mia sporcizia la
rimando verso di te. Mi pare un episodio esemplificativo di una serie di malintesi che
si possono creare a partire proprio dalla gestualità, che noi spesso crediamo comune,
addirittura universale, e che invece tale non lo è. Così come non lo è il corpo, per
quanto strano possa sembrare.
IL CORPO AVVILITO E SCONTATO
Ho l’impressione che anche il corpo, in genere, lo si banalizzi e lo sia dia un po’
troppo per scontato. E se, tanto per cominciare, fosse la corpa, al femminile? Per quale
motivo il corpo dev’essere maschile, visto che nasce da corpa di madre femmina? E
ancora, per dire come il corpo si esprime usiamo la locuzione metaforica “linguaggio
del corpo”, tirando in ballo la lingua, cioè l’organo muscolare coperto di mucosa che
abbiamo nella cavità orale e che partecipa alla fonazione. Ma perché non corpaggio o
qualcosa di simile?
Studi di filosofia, da ragazzo, mi hanno introdotto al curioso dualismo
corpo/anima, teorizzato da Platone e travasatosi nella tradizione ebraica e cristiana:
soma e psiche. Dove il corpo è assimilato a una prigione che racchiude l’aspetto psichico, cioè l’anima. Trasformando l’Iperuranio dei greci nel Regno dei Cieli (secondo
un’analoga logica dell’ulteriorità), il cristianesimo ha svalutato il corpo riducendolo a
una sorta di scatola. Cagionevole, ma sempre pronta a godere l’esperienza del peccato. S. Agostino e gli altri padri della Chiesa per secoli predicheranno la mortificazione
del corpo e della carne, perché è attraverso la sofferenza, anche letale nel caso dei martiri, che si guadagna il Paradiso. Questa dimensione di mortificazione al limite dell’autolesionismo, di cui sono un esempio le pratiche penitenziali come il cilicio, ha
sicuramente influenzato, per non dire inficiato, la nostra cultura del corpo.
Quanto all’anima (che Cartesio situò al centro del cervello, nella ghiandola pineale) successivi studi di antropologia culturale mi hanno fatto scoprire che diverse culture, ciascuna con pari dignità, ne hanno forgiate in quantità. In quasi tutta l’America
settentrionale, per esempio, la tradizione precoloniale assegna agli esseri umani due
anime: una, assimilata al respiro, darebbe autocoscienza al corpo; l’altra, staccata dal
soma, ha caratteristiche oniriche e può compiere viaggi e recare messaggi. Se questa
anima resta prigioniera nel regno dei defunti, la persona muore. Tra i Taulipang della
Guiana, per fare un altro esempio, e sempre in estrema sintesi, le anime sono addirit-
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tura cinque e rimangono tutte esterne al corpo. Siamo nell’ambito della relatività culturale insomma, di cui gli antropologi sono da considerare apostoli. Relatività che
ovviamente tocca anche gli usi e i costumi. Come scrive il glottodidatta Paolo Balboni,
attualmente Preside della Facoltà di Lingue dell’ Università Ca’ Foscari di Venezia:“Un
gesto, un oggetto o un vestito eleganti a Firenze sono insignificanti o ineleganti a
Mosca: i primi missionari in Congo pretendevano che le donne si coprissero il seno,
cosa che in quella cultura soltanto le prostitute facevano”. Il mondo è bello perché è
vario, recita l’adagio. E tutto sommato è meglio che lo resti.
Non soltanto il corpo non va dato per scontato, quindi, ma a ben vedere non è neppure dato. Nel senso che in molte civiltà il corpo naturale, così com’è, ha bisogno di
essere denaturalizzato e culturalizzato. Nella nostra, si comincia con il battesimo, che
umanizza appieno il corpo del neonato, e si prosegue con quel rito di passaggio che
risponde al nome di cresima, nel corso del quale l’unzione con l’olio d’oliva simboleggia la preparazione alla lotta, così come facevano gli atleti dell’antichità.
L’uomo e la donna non si sono mai accontentati del proprio corpo brado. Tanto da
figurarselo, al naturale, difettoso o rotto: come osserva acutamente Marco Menicocci,
non a caso le donne quando si assentano per truccarsi dicono “vado ad aggiustarmi
un pochino”. Il corpo non è intero se non viene costruito, vale a dire culturalmente
ridefinito e socialmente mosso. Va da sé, modificare il corpo, in termini di comunicazione, equivale a fare delle affermazioni.
IL CORPO NON (È) MENTE
Come ti muovi, sei nel vero. L’etologo inglese Desmond Morris, a questo proposito,
parla di una fuga di informazioni non verbali, nel senso che noi, per quanto cerchiamo
di controllare le parole, i gesti e le espressioni facciali, siamo comunque “traditi” dal
corpo. Molte cose si possono capire dalla fuga di queste informazioni, per esempio da
come atteggiamo le braccia o accavalliamo le gambe al cospetto di un interlocutore: la
disposizione d’animo, la cultura, la sicurezza di sé, l’educazione, la fiducia.
Ancorché inconsultamente, il corpo dice la personalità. In mancanza di altri mezzi
di espressione il corpo rimane una certezza, un luogo autentico che racconta il quotidiano. Nella galassia comunicativa entro cui viviamo c’è un’evidente saturazione di
messaggi. In generale, senza alcuna necessità di evocare diagnosi di malattia mentale,
ne possono derivare disagi e difficoltà di orientamento. Proprio tale overdose di significati spinge a ricercare strumenti espressivi oltre le parole da dire o da ascoltare.
Di certo noi non abbiamo un corpo, né lo adoperiamo, ma inevitabilmente lo
siamo. La verità del corpo non di rado genera anche solidarietà, in base al principio del
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comune vissuto. Mettete due persone che non si conoscono e che parlano lingue
diverse nella stessa stanza: volenti o nolenti saranno costretti a ricorrere a quella
grammatica elementare dell’interazione umana, fatta di gesti limitati (lo sguardo, il
saluto, il sorriso...). Se non condividono la lingua, hanno più probabilità di andare
d’accordo. Se invece possono parlarsi, comunicheranno concetti astratti più facilmente, ma il legame emotivo che riusciranno a stabilire fra di loro sarà inferiore.
Giustamente Desmond Morris ne approfitta per scoccare una frecciata polemica:
quanti fondi vengono erogati in tutto il mondo per ricerche universitarie sulle lingue,
mentre al linguaggio non verbale sono riservate soltanto le briciole!
GOETHE E I TRUZZI
Altro viaggio, altro aneddoto. In corriera ad Haiti, questa volta. Per tutto il tragitto
tra Port-au-Prince e Cap Haitien, una signora mi ha letteralmente mangiato addosso
un pollo arrosto, gesticolando e ungendo con le mani me, il sedile e il finestrino, senza
smettere di chiacchierare con le amiche. Una questione di prossemica: la scienza che
studia l’uso (in questo caso, l’abuso!) dello spazio interpersonale; in altre parole, la
distanza/distacco che le persone o che diverse culture ritengono appropriato mantenere dagli altri. Anche questa è comunicazione, per quanto involontaria, così come
quella trasmessa da gesti e movimenti: gestemica e cinesica. Se non altro, quella signora haitiana mi comunicava un assoluto disinteresse per la mia camicia (oltre che per le
mie soglie di tolleranza).
Il semiologo francese Roland Barthes chiamò vestemica l’uso degli abiti a fini
comunicativi, una scienza che analizza per così dire la sintassi dell’accostamento dei
capi d’abbigliamento e dei colori. C’è poi chi, su questa scia, ha proposto un’oggettemica: oggetti e ammennicoli vari indossati sul corpo. Gioielli (si pensi per esempio
alla varietà storico-geografica dei codici culturali relativi all’orecchino maschile), spille e badge che indicano l’appartenenza a club, la catena-cintura giropancia nota come
bellychain o gli anelli che in Svezia indicano la professione. Per non dire degli oggetti
simbolici di appartenenze religiose come crocifissi, medagliette, portaversi coranici,
mani di Fatima, stelle ebraiche, ecc., il cui uso comunicativo in situazioni di “promiscuità culturale” è di estrema attualità e complessità.
Certo, se volessimo studiare le cosiddette tribù metropolitane non potremmo ignorare la vestemica. Se i vari truzzi, gabber, punkettoni, rasta, fighetti, dark e via dicendo si
vestono in maniera differente è perché il loro abbigliamento corrisponde - o vorrebbe
corrispondere - a diversi stili di vita. Se non altro, esprime quelle che Wolfgang Goethe
chiamò con eleganza affinità elettive (ma Goethe intendeva tra coppie, non tra truzzi).
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Un elemento a mio avviso interessante è l’importanza assegnata alle scarpe, e non
soltanto nella cultura occidentale urbana. Le scarpe servono per andare, per mettersi
in piazza, per entrare cioè nella dimensione sociale. Ed ecco di conseguenza le Prada
(dei fighetti), le Buffalo con zeppa (dei truzzi), le Osiris (dei B-boys), le All Stars dei
tipi e delle tipe cool che girano con i jeans sfregiati e ascoltano musica Ska. A proposito di jeans e della moda di portare la vita bassa, c’è da chiedersi come mai i giovani
hanno (etologicamente, s’intende) calato le braghe. Pare che lo stile slip o string a vista
sia nato all’uscita dalle discoteche. Il messaggio significherebbe “ho ballato fino allo
sfinimento, tanto che i pantaloni mi sono scesi”. Vero o falso che sia, anche portare la
vita e/o il cavallo bassi è accampare un modo d’essere.
Nell’era del villaggio glocale, di mode cittadine che si combinano ad anonimati
urbani, la ricerca ostinata di segni particolari, innesca una complessa dialettica tra
distinzione e uniformità. L’omologazione non impedisce affatto la trasgressione o l’adozione di stili e moduli espressivi del tutto personali. Secondo Marco Menicocci la
trasgressione diventa, anzi, la regola: “Oggi la trasgressione non è negata, al contrario,
è deliberatamente cercata e affermata. La trasgressione diviene un valore, e l’espressione, perfino strillata, della propria personalità è quasi un dovere”.
OMBELICOCENTRISMI, PIERCING E ROSSETTI
Che dire, allora, del nuovo ombelicocentrismo? L’interpretazione che ne dà l’antropologo americano Stephen Beckerman è soltanto una delle possibili. Beckerman,
che è uno studioso di riti di fertilità, sostiene che la pancia scoperta delle ragazze
comunica il loro status: la esibisce chi non ha mai avuto figli e che perciò si segnala,
inconsciamente, come disponibile a mettere su famiglia.
Strumento di seduzione e al contempo simbolo di verginità, l’ombelico scoperto è
diventato (per noi) una nuova moda, capitanata da fenotipi mediatici che hanno lanciato il look etno-zoccoletta-pop. Schiere di pancianudiste nostrane, brave ragazze imitatrici di Shakira, Jennifer Lopez e Christina Aguilera, ora mostrano quasi obbligatoriamente l’ombelico. Anche a costo di emettere messaggi indesiderati. Perché, come ha
osservato il giornalista Dante Matelli, una ragazzina di dodici anni “scaraventata nel
mondo degli adulti per via di quel pancino esposto, può essere scambiata per una persona più grande e quindi divenire oggetto di attenzioni né lecite né gradite”.
Certe decontestualizzazioni possono risultare un po’ spericolate. Un conto, infatti,
è il brillante incastonato nell’ombelico della ragazza indiana che indossa un’elegante
gonna tradizionale, lunga fino alle caviglie. Altro è il piercing o la gemma ombelicale
abbinati alla minigonna, che a detta dei look manager più avveduti risulta spesso vol-
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gare (con tutte le virgolette che meriterebbe questo aggettivo).
E veniamo così alle ispirazioni etniche ed esotiche delle tribù metropolitane, tra
cui quella dei cosiddetti modern primitives: boccone ghiotto, per l’antropologo.
Cominciamo col dire che orientalismi, africanismi e in generale le influenze esotiche
nel costume europeo non sono un’invenzione degli stilisti del XXI e neppure del XX
secolo. Saartjie Baartman, la ragazza sudafricana (soprannominata “Venere ottentotta”) che venne esibita al principio dell’Ottocento nelle fiere di Londra e di Parigi, aveva
una particolarità anatomica caratteristica della sua etnia – natiche enormi – che
influenzò il gusto dell’epoca. Dato l’apprezzamento che suscitava negli uomini un
simile accumulo adiposo, si suppone che ne sia derivata la curiosa foggia delle gonne
vittoriane, con il rigonfiamento sul posteriore che andava sotto il nome di bustle (in
italiano,“sellino”). Anche certe forme che oggi appaiono autolesionistiche hanno una
storia: gli antichi egizi si bucavano l’ombelico come rito di passaggio, e i legionari
romani si inanellavano i capezzoli come prova di virilità. Colin McDowell in un articolo intitolato Torture di Moda, ricorda che nel XVIII secolo il trucco a base di zinco
impiegato per schiarire il volto di uomini e donne lasciava la pelle dei modaioli irrimediabilmente butterata.
Nell’epoca della globalizzazione, non stupisce che siano aumentate le suggestioni
esotiche, arcaiche o primitiviste. Il piercing al labbro era diffuso tra gli eschimesi
dell’Alaska fino al XIX secolo, e da millenni in Africa e in Brasile è invalso l’uso di piattelli labiali: orpelli che anche i punk nostrani, per quanto animati da forti sentimenti
antagonisti, ritengono estremi. La United Colors of Benetton ha pubblicato un librorivista intitolato Bambole kokeshi con la foto di un punk giapponese la cui cresta è foggiata esattamente come quella dell’ultimo dei Mohicani. Forse il Mohicano del romanzo di James Fenimore Cooper (1826) non era l’ultimo.
Dipingersi il corpo come fanno gli indios brasiliani, cospargersi il volto di fondotinta come fanno le nostre signore, abbronzarsi, farsi il lifting o rimodellarsi il seno,
truccarsi, imbottire le spalle delle giacche, decolorare i capelli, esaltare le labbra con un
tocco di rossetto sono altrettanti appelli che l’individuo lancia alla comunità. Così
come scoprire o coprire parti del corpo.
Uomini e donne della più diversa estrazione si coprono il capo in mille forme:
totalmente, parzialmente, normalmente, episodicamente, cerimonialmente, normativamente, ecc. Fungono allo scopo un foulard, un berretto, una veletta, un cappuccio,
un cilindro, un hijab, un kepì, una cuffia, un turbante e così via. Possiamo ragionare se
sia un gesto prevalentemente funzionale o simbolico, se sia una scelta o un’imposizione, se sia una tradizione o una innovazione, fatto sta che si tratta di un gesto comunicativo. Né giusto né sbagliato.
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STROFINAMENTI E CORPI ALIENI
Un tempo a vedere corpi alieni erano soltanto i viaggiatori: missionari, militari,
commercianti. Oggi l’esotico è tra noi. Viviamo un’epoca di grande mobilità, di corpi
andanti, di flussi incrociati, di reciproche influenze. Emigrazione, immigrazione,
interculturalità: è un gioco di rimandi, o per dirla con il titolo di una interessante iniziativa culturale trentina, un Gioco degli Specchi. Regole e rischi, come in ogni gioco,
non mancano. Se è vero che il corpo non mente, è anche vero che, in un contesto multiculturale, come ti muovi sbagli. Il che non dovrebbe portare al pessimismo, ma a
un’intelligente curiosità. Meglio ancora, all’umorismo e all’autoironia. Chi non è mai
restato impacciato al terzo bacio sulla guancia (si dà? non si dà?) o raggelato da un
passo indietro, o imbarazzato da un abbraccio troppo stretto?
Esiste una retorica dell’interculturalità che non fa bene all’interculturalità.
Osservatori privilegiati, come il regista Spike Lee, ci hanno squadernato senza ipocrisia la simil-apartheid, del tutto spontanea, che vivono molte minoranze etnico-linguistiche. O perlomeno quel normale desiderio – che a volte trascuriamo, animati dall’ideale interculturalitario – dei simili di stare con i simili. Tutti sappiamo che rimanere
vicini a corpi altri è difficile, etologicamente e culturalmente. Un conto è “strofinare il
proprio cervello con quello degli altri”, come amava e raccomandava di fare Michel de
Montaigne, altro è il contatto epidermico fuor di metafora, che può anche scatenare
aggressività. Non per nulla aggredi, il vocabolo latino che significa avvicinarsi, contempla diverse accezioni: essere vicino, ma anche sfidare e aggredire.
La società multiculturale si trova invariabilmente a dover sfuggire due polarizzazioni: la ghettizzazione e, viceversa, lo stemperamento multifolk, com’è il caso di certa
world music, voglio dire la peggiore, naturalmente ce n’è anche di ottima. A proposito
di diluizioni e minestroni, forse non è un caso che oggi si stia seguendo la via delle
mescolanze di cibi e di usi alimentari, con il buon successo d’ogni iniziativa gastronomica. È pur vero che la tendenza a promuovere aggregazioni all’insegna delle cucine
etniche risulta forse più utile al commercio e al turismo, che non all’incontro con
l’Altro. Ciò non toglie che, volendolo, qualche passo concreto verso una nuova attenzione ai gesti dell’Altro possa essere fatto anche attraverso queste iniziative.
Considerato che i contatti tra diverse culture e religioni non sono mai stati facili, lo
psichiatra dell’Università di Roma “La Sapienza” Giorgio Maria Bressa ha sollevato un
problema reale, che merita una riflessione libera da pregiudizi e posizioni “politiche”.
Se esiste una prossemica delle relazioni tra i corpi delle persone, forse esiste anche una
prossemica dei rapporti tra civiltà. È possibile che l’accettazione della cultura altrui sia
inversamente proporzionale alla distanza fisica che divide comunità e soggetti interessati? Una provocazione stimolante.
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Per i giovani, questo inizio di secolo è il momento della fusion a tutti i livelli, di un
meticciato che si svincola volentieri da determinazioni storiche, religiose, antropologiche. Lo dimostra il successo dei dermoglifi pseudopolinesiani, i cui archetipi mitici
e rituali, con tutto il loro portato culturale, di norma sono tranquillamente ignorati.
L’hanno chiamata generazione remix o E.A., che sta per etnicamente ambigua. Ed è
forse un segno dei tempi che, dopo i sostantivi contaminazione e mescolanza, anche
un aggettivo quale ambiguo stia mutando connotazione, da negativa a positiva. Nel
film intitolato Multi Facial l’attore Vin Diesel (di madre irlandese e padre africano)
racconta della sua difficile collocazione nel mondo dello spettacolo in quanto “né
bianco né nero”, cioè mulatto. Fino a qualche anno fa. Dopodiché (grazie al fisico da
modello e a Steven Spielberg che lo volle in Salvate il soldato Ryan) Van Diesel ha sfondato. La nuova estetica del melting pot scrive Giovanna Zucconi, oggi “premia le facceindovinello”. A fronte di questo calderone psicosomatico, è normale e persino auspicabile abbandonare per un po’ le parole e osservare anche i gesti.
GESTO ESPRESSIONE CULTURA
Dove ci portino tutte queste culture non lo so, ma è un percorso imprescindibile:
aperto, dialettico, autocritico. Non è ancora terminata, infatti, la strada della critica
all’etnocentrismo, in tutte le sue manifestazioni ed evoluzioni, anche paternalistiche e
retoriche. Attraverso l’approccio a culture (del corpo) altrui - com’è accaduto spesso
nella storia dell’osservazione etnografica - è possibile revisionare la nostra. Pietra di
paragone o pesante macigno? La nostra cultura del corpo, intendo tra gli italiani d’oggi, è povera. Tra le cause di questo impoverimento c’è senz’altro una pregressa svalutazione della fisicità e dell’affettività, rispetto al primato cognitivo esercitato dalla
ragione.
Il corpo è soggetto a forme di controllo e di coercizione, a un codice di gesti consulti di cui non è immediato rendersi conto. I sistemi simbolici, come avverte l’antropologo Ivo Quaranta, non sono semplici strumenti di conoscenza, ma anche “strumenti di dominio ed espressioni di particolari assetti sociali”. Valori che si vorrebbero (imporre quali) naturali. Ecco allora che il corpo diventa luogo di elaborazione dei
nostri stessi criteri percettivi e valutativi, con una revisione del sapere che porta ad
“abbattere le opposizioni epistemologiche più classiche del pensiero occidentale:
mente/corpo, individuo/società, natura/cultura, teoria/prassi”. In quest’ottica, sempre
secondo Quaranta, “un’antropologia del corpo assume una funzione tanto di critica
culturale come di critica politica. Nel senso che ci aiuta a sviluppare una consapevolezza delle dimensioni egemoniche iscritte nel nostro sapere implicito”.
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Ma anche gli stereotipi relativi all’Altro sono elementi funzionali: se nascono, vuol
dire che a qualche cosa servono. Ciò premesso, è importante saperli riconoscere, analizzare, decostruire. Su queste basi abbiamo avviato il lavoro con gli insegnanti, coordinato dal Centro Millevoci di Trento e dall’IPRASE del Trentino. Un lavoro articolato in seminari, applicazioni pratiche, produzione di materiali, restituzioni e colloqui.
Con un dichiarato orientamento, almeno da parte di chi scrive, all’interpretazione del
quotidiano. Questo check up delle qualità di ascolto e di comprensione che sembriamo avere delle sembianze e delle attitudini degli Altri, si è realizzato essenzialmente
attraverso un percorso iconografico. Le sezioni tematiche, i cui contenuti elenco qui di
seguito senza alcuna pretesa di esaustività, hanno illustrato gesti ed espressioni più o
meno comuni.
Sembianze umane
Raccolte di mirabilia, mostri umani, esseri fantastici. Aldilà delle ricostruzioni di senso, analisi di quanto lo
statuto antropologico dell’Altro abbia stentato a entrare a pieno titolo nella categoria europea di “umanità”. Dalla mostruosità del corpo alla mostruosità morale il tragitto è breve. Per il positivismo ottocentesco, gli altri erano “brutti, cattivi e immorali” solo per il fatto di apparire somaticamente diversi. Si tratta di
un punto cruciale: noi vediamo gli altri molto prima e molto più di quanto li ascoltiamo. Addirittura decidiamo di ascoltare una persona a seconda del suo aspetto (come si presenta). (fig. 1)
Corpo e metafisica
In molte culture troviamo una raffinata concettualizzazione del corpo, costruito o interpretato rispetto a
un ordine cosmico. Il corpo diventa un microcosmo nella filosofia e nella medicina orientali, ma anche
nell’uomo zodiacale dell’Occidente. Esempi: il corpo nell’induismo, il corpo nello zen giapponese, il
corpo nella mistica cristiana medievale.
Il corpo punito e contenuto
Il controllo del corpo e dei suoi comportamenti (disciplina era anche il nome della frusta usata nelle
autoflagellazioni dei penitenti cristiani). Il corpo soggetto a coercizione nell’ambito della malattia mentale. Eccessivo, trasgressivo, fuori controllo, il folle doveva essere contenuto a forza.
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fig. 1 Sembianze umane
Uno scimpanzè - troppo somigliante a un pigmeo - importato dall’Africa in Olanda nel 1738 (da Bernard Heuvelmans,
Les bêtes humaines d’Afrique, Plon, Paris 1980) e un essere mostruoso “avvistato”in Libia nel XVI secolo (Incisione a bulino, Civica Raccolta Achille Bertarelli di Milano).
fig. 2 Il corpo come diario
Tatuaggi tradizionali delle Isole Marchesi (Polinesia) (tratta da Maarten Hesselt van Dinter, Tribal Tattoo Design, the
Pepin Press, Amsterdam & Singapore, 1999) e tatuaggi praticati oggi in Europa (a destra immagine tratta dal libro dell’antropologo inglese Ted Polhemus, The Customized Body).
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fig. 3 Etologia: gesti universali
Il dolore (scultura di Emilio Gallori, 1846-1924, Siena, Palazzo Pubblico) e la dominanza (L’avvocato Luigi Mercatelli in
Africa, tratta da “L’illustrazione italiana”, 1889, n. 26, p. 404 – ripresa in Immagini dell’Africa e degli africani nei resoconti di
viaggio, Museo della Guerra di Rovereto).
fig. 4 Che cosa è bello e che cosa è brutto
“Estetica” degli accumuli adiposi: addome e natiche (donna boscimane, figura tratta dal manuale di Antropologia,
Hoepli, Milano 1878).
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Corpo hardware, cultura software
Il corpo materia prima che va lavorata. In tutte le culture il corpo viene denaturalizzato perché sia in
grado di relazionarsi agli altri e alla cultura del gruppo. Il corpo è fatto anche di convenzioni e protocolli. Se il corpo è come un hardware, le culture sono software. Accenni alle tecniche del corpo nelle diverse culture.
Il corpo come diario
Il corpo è il luogo dove si scrive la (propria) storia. Il corpo come diario del tempo che passa. Tatuaggi,
decorazioni, deformazioni, mutilazioni, protesi antiche e moderne, acconciature, ecc. (fig.2)
Cenni di etologia
Gesti universali e comportamenti comuni dell’homo sapiens. Espressioni di dolore, gioia, ira, umiliazione,
ecc. Territorialità. (fig. 3)
Gesti culturali
Saluti, ossequi, mimiche convenzionali. Per esempio i significati in diverse culture dell’unire ad anello le
punte del pollice e dell’indice (gesto osceno in Sardegna e in Medioriente, valore equivalente a “zero” in
Francia, segno per “denaro” in Giappone).
Che cosa è bello e che cosa è brutto
Pigmentazione della pelle. Lunghezza della barba e dei capelli. Relatività del senso estetico, nel tempo e
nello spazio. Una grossa pancia come spunto di riflessione sul variare dei significati: da simbolo di opulenza, di saggezza o di potere, a indice di trascuratezza o di ingordigia. (fig. 4)
Forniti questi e altri input agli insegnanti e raccolte le loro impressioni, mi sembra
di poter azzardare qualche schematica considerazione circa la parte difficile del lavoro, cioè quello svolto in classe o in palestra con gli studenti. Nei prossimi paragrafi
proverò, invece, a lanciare alcune idee per ulteriori sviluppi o approfondimenti della
ricerca.
Aldilà del valore di arricchimento culturale dato dall’apertura a universi espressivi inconsueti, uno dei punti didatticamente forti del progetto Gesto, espressione, cultura è la collaborazione tra insegnanti di materie umanistiche e di educazione fisica. Una
sinergia che, auspicabilmente, non dovrebbe rimanere episodica. Il lavoro di attori
teatrali, l’utilizzo di fonti musicali, la produzione di documentazione multimediale,
hanno senz’altro contribuito a motivare i ragazzi. Mettendo in discussione una cultura agonistica del corpo, come è stato fatto all’Istituto Tecnico Commerciale “A.
Tambosi” di Trento, ritengo si sia positivamente evidenziato non soltanto il nesso tra
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il corpo e la guerra, ma anche tra il corpo come strumento di prestazioni sportive e
come soggetto di consumi ostentativi.
Quanto ai limiti del progetto, credo siano intrinsechi.Avendo la nostra cultura scolastica sottovalutato la fisicità, sarebbe opportuna una propedeutica alla consapevolezza del proprio corpo nel proprio ambiente (lavoro peraltro bene impostato da due
attori al liceo scientifico “Galilei” di Trento). In un contesto di semi-analfabetismo corporeo, l’approccio a gesti esotici risulta a maggior ragione problematico. Un secondo
rilievo riguarda i tempi della pratica. I ragazzi non dovrebbero avere l’impressione di
avere praticato il Kung-fu, solo perché hanno frequentato una o due lezioni. Onde evitare consumismi culturali o collezionismi comportamentali - del tipo “ho fatto arti
marziali”, “ho fatto danza africana”, “ho fatto meditazione”, teatro, ecc. - sarebbe il
caso di integrare queste lezioni nell’arco dell’intero percorso formativo dell’istituto
scolastico, con la partecipazione degli insegnanti e una rielaborazione da parte degli
studenti per la maturità. Si tratta infatti di esperienze mantra: più le fai e più ti apri. E,
ancora, forse andrebbe rovesciato il paradigma teoria e pratica, nel senso che l’esperienza dovrebbe essere un mezzo per affrontare lo studio, non un fine o un approdo
all’arena del contatto.
Infine, incuriosisce chiedersi cosa lascerà ai ragazzi, a distanza di anni, tutto ciò:
voglia di sapere o di viaggiare? Maggiore facilità di relazione o una sensazione di
imbarazzo?
OCCHIO ALLA PUBBLICITÀ
Dal punto di vista del lavoro in classe, all’inizio è forse più facile focalizzare l’attenzione sulle differenze di gestualità che ci sono più familiari. Può essere una buona
idea partire dai comportamenti e dalle appartenenze più prossimi: il genere, l’appartenenza sociale, l’area geografica di provenienza, i simboli di rango, le cosiddette
buone maniere: una semplice rilettura – ma anche un’interpretazione teatrale - del
Galateo o del Codice cavalleresco può introdurre a un ordine di riflessioni che in un
secondo momento toccherà etichette esotiche.
Anche la compartimentazione interna al mondo giovanile, con il suo campionario
di stili, sempre legata a giudizi di valore e a forme di accettazione o di rifiuto, si può
prestare a uno sguardo etnografico. Per la tribù dei cyberpunk, in particolare, il farsi
carne della tecnologia digitale interseca orbite che parevano remote, come il corpo e
l’elettronica. Ne è un esempio spettacolare il film Minority Report, dove i gesti di Tom
Cruise servono da input per un computer interattivo.
Dal cinema alla moda, al mondo della canzone, si diffonde un marketing del corpo
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giusto, che l’antropologa Alessandra Guigoni ha chiamato “il burka della taglia 42”.
Una pista di lavoro particolarmente fertile trovo sia l’analisi della pubblicità delle riviste illustrate: un selezionato campionario di gesti e di messaggi in codice lanciati da
(bei) corpi. Partendo dalle espressioni, dalle posture e dall’abbigliamento dei testimonial è possibile avviare un’indagine istruttiva e divertente al tempo stesso. Un lavoro di
antropologia urgente, tra l’altro, se è vero quanto afferma Marco Menicocci: “Le principali agenzie educative (...) non sono affatto, oggi, la scuola o la chiesa, con i loro
modelli arcaici e limitati: troppo rigide e chiuse nella loro uniformità per essere adatte ad esprimere l’accelerazione dei vissuti nella modernità. I modelli espressivi più diffusi ed usati sono piuttosto derivati da quelli della pubblicità, della promozione delle
merci, della comunicazione di massa”.
Ma i transiti sono biunivoci, l’etnografia è reciproca. Non dimentichiamo che
zelanti e ben pagati cacciatori di tendenze, detti trendspotter o cool hunter, pattugliano
i ritrovi giovanili, sempre in caccia di nuove idee. Lo scrittore di fantascienza sociale
William Gibson ha dedicato loro il suo ultimo libro, intitolato L’accademia dei sogni
(titolo originale Pattern recognition). In questo romanzo si capisce come le agenzie di
comunicazione draghino i bassifondi, restituendo alla superficie del glamour gli stili,
le idiosincrasie e i nuovi linguaggi della strada. Ovviamente i guru del marketing trasformano in consumi, e in estetica del consumo, ciò che era gratuità, fantasia, disagio,
provocazione, o semplice adattamento personale. Nel caso del rap da marciapiede,
questa fagocitazione di trend da parte del mondo della pubblicità è probabilmente
anche una maniera di disinnescarne le strofette/spolette... ma questo è un altro
discorso.
SII TUTTO PUNTO PER LA MOLTITUDINE STOLTA
Nel caso dei piercing, è controverso chi sia stato il modello influente, se la strada o
il palcoscenico. Probabilmente si tratta proprio di sguardi reciproci. Cui vanno
aggiunte, come abbiamo visto, diverse suggestioni etniche. È difficile, e forse anche
inutile, definire in modo univoco il significato del piercing, che tra i giovani europei
presenta confini sfumati tra i campi del ludico, del simbolico e del politico. Comunque
sia, trattandosi di un’operazione di trafittura spesso eseguita senza anestesia, il
comandamento del portatore o della portatrice di piercing si può sintetizzare con un
“apparirai con dolore”. E a proposito di motti: nell’iconografia emblematica rinascimentale, il simbolo naturale del cardo è talvolta accompagnato alla seguente impresa:
“Sii tutto punto per la moltitudine stolta”. Nel 1687 Giacomo II Stuart, re d’Inghilterra
e di Scozia, istituì l’Ordine cavalleresco del Cardo, con chiaro riferimento alle spine
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della pianta; per inciso, il suo motto è Nemo me impune lacessit, nessuno mi può ferire impunemente. Aldilà della sempre benvenuta opportunità di mescolare la cultura
cosiddetta alta con la (nuova) cultura popolare, mi domando se questa specifica connessione possa servire a interpretare un messaggio tanto pungente. Chi si attrezza l’epidermide con spille e borchie, chi si appunta guance o labbra con chiodi o coni
metallici, chi si inanella i padiglioni auricolari (non solo i lobi, anche l’elice, leggi sbardella) lo fa contro? Contro la famiglia, contro la società o contro la maggioranza stolta e intonsa? In altri termini, l’essere puntuti equivale a un minaccioso messaggio di
scontrosità? Non è detto. Certo è che siamo di fronte a una evocazione del dolore
come (unica?) dimensione dell’autentico. Che poi si considerino accettabili o inaccettabili le pratiche di decorazione o di deturpamento delle sembianze, dipende dal
luogo, dal momento e dalla consuetudine. Alcuni interventi di chirurgia estetica o
certe abitudini come per esempio quella di costringere le dita dei piedi dentro scarpe
a punta, essendo socialmente accettati, non scandalizzano, né destano censure. Sono,
sì, prove dolorose, ma culturalmente ammesse. Non facevano male, alle nostre
mamme, le cerette bollenti sulle gambe, in èra pre-Epilady? E non fa male alle vamp
d’oggidì farsi siliconare le labbra?
A ben vedere, non tutte le spine sono rivolte verso l’esterno come quelle del cardo.
Vi sono pratiche di incisione del corpo che non vengono mostrate alla moltitudine
stolta, ma che contrassegnano iniziazioni rituali e appartenenze paratribali. Secondo
alcuni studiosi come lo psicologo Federico Bianchi di Castelbianco, dalla famiglia
normativa basata su regole e divieti si è passati a un modello di famiglia felice e superprotettiva, che fa di tutto per evitare ai figli sofferenze e frustrazioni.“Privati di riti di
passaggio e di iniziazione, con le chiavi di casa in tasca a dieci anni, molti adolescenti
si procurano esperienze dolorose per sottolineare il ricordo di momenti di crescita e
di passaggio”.
Soffro, dunque sono. Con buona pace della vecchia, innocua body art. Ecco allora
i piercing agli organi genitali, i tagli autoinferti (cutting), le scarificazioni, le ustioni
procurate (branding) e tutti quei gesti di autolesionismo che consistono nel forare il
privato. Si possono fare soltanto ipotesi, che lasciano aperte molte domande. Per
esempio: le modificazioni estreme del corpo sono ancora espressione di una cultura
antagonista? O davvero i look manager hanno incatenato i selvaggi? Claudio, del centro sociale Prenestino, ha dichiarato in un’intervista: “Dato che i nostri linguaggi del
corpo sono stati scippati dalla pubblicità, ora puntiamo più in alto. Li sfidiamo, vedremo chi avrà il coraggio di esibire le cicatrici”. Motivazioni e gesti meno inconsulti di
quanto possa sembrare.
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I gesti.
Appunti per una semiologia in costruzione1
Giovanni Manetti
1. ORIGINI MODERNE E SPUNTI ANTICHI SULLO STUDIO DEL GESTO
Considerato in prospettiva sincronica, lo studio del gesto si trova all’incrocio di
diverse discipline: l’antropologia, l’etologia, la psicologia e la semiologia – quest’ultimo essendo il punto di vista da cui prevalentemente lo osserveremo in questa sede.
Vale tuttavia la pena di ricordare che tale studio si inquadra in quello più generale del
comportamento comunicativo non verbale2, dove trova posto accanto ad altri fenomeni, come ad esempio quelli pertinenti alla prossemica (i comportamenti, cioè che
riguardano le distanze spaziali alle quali si collocano i partecipanti all’interazione
comunicativa), quelli della cosiddetta paralinguistica (cioè i tratti intonazionali e ritmici), quelli pertinenti alla fisiognomica (cioè la presunta e normalmente stereotipa
attribuzione di tratti caratteriali di un individuo a partire dalla configurazione fisica e
specialmente del volto), ecc.
Se ci spostiamo sulla prospettiva diacronica, possiamo osservare che gli studi sul
comportamento non verbale, in epoca moderna, iniziano nella seconda metà
dell’Ottocento in area antropologica, con il celebre testo di Charles Darwin,
L’espressione delle emozioni nell’uomo e nell’animale (1872), nel quale il comportamento non verbale viene elevato a dignità scientifica e vengono forniti al suo studio
dei presupposti che ancora oggi trovano un riscontro di validità. Darwin in quel saggio mette a confronto l’uomo e l’animale in relazione all’espressione corporea ed elabora l’importante principio secondo cui i gesti non sono innati, ma sono prodotti
dalle circostanze; osserva contemporaneamente che i gesti, con il permanere della loro
utilità, in seguito divengono specifici di una determinata specie animale, ma non dei
singoli appartenenti ad essa, che li devono acquisire autonomamente. Inoltre, per
primo Darwin traccia una lista di emozioni fondamentali che possono, per l’appunto,
1 Questo titolo riecheggia quello dato da Daniele Gambarara alla sua premessa al volume su Gesto e comunicazione di
N. Lamedica (1987), che suonava appunto “Una semiologia in costruzione”.
2 Viene definito “comunicazione non verbale” ogni tipo di sistema comunicativo che non poggia sul canale vocale linguistico per la produzione e interpretazione del senso.
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I gesti. Appunti per una semiologia in costruzione
essere manifestate in forma corporea, attraverso modifiche, cioè, di quella superficie
malleabilissima che è il corpo. Alcune di esse sono comuni ad uomini ed animali
(gioia, affetto, dolore, collera, stupore, spavento). Altre sono tipiche soltanto dell’uomo (pianto, riso, rossore). Nel caso dell’uomo, naturalmente, si deve aggiungere che le
emozioni possono essere espresse anche attraverso una forma linguistica, mentre nel
caso degli animali questa possibilità, ovviamente, non c’è3.
Naturalmente che i gesti fossero dei segni - e che in questa prospettiva comunicativa potessero essere considerati – era cosa ben nota anche agli antichi. Forse il primo
accenno preciso alla dimensione significativa della gestualità lo troviamo in un famoso e oggi molto celebrato dialogo platonico, il Cratilo, dedicato appunto al linguaggio4.
In quel testo due personaggi, Ermogene e Cratilo, si confrontano sotto la guida di
Socrate sulla natura del linguaggio, chiedendosi se esso si organizzi su base naturale o
su base convenzionale, chiedendosi, cioè, se la relazione che c’è tra le espressioni linguistiche e gli oggetti a cui esse rimandano, sia una relazione necessaria, naturale,
motivata (questa è la posizione di Cratilo), oppure se questa relazione sia di tipo convenzionale, cioè priva di una sua necessità intrinseca, non motivata da nessuna caratteristica dell’oggetto (posizione di Ermogene). Nel corso del dialogo ci si chiede anche
che cosa vuol dire che tra cose e nomi ci potrebbe essere una relazione necessaria e
motivata; e una risposta è che le parole potrebbero essere come i gesti. Socrate fa presente ai suoi interlocutori (Cratilo ed Ermogene) che le parole potrebbero configurarsi proprio come i gesti nei confronti degli oggetti a cui si riferiscono.Viene dunque
istituita una fortissima analogia tra i gesti e le espressioni linguistiche dal punto di
vista della loro natura semiotica:
“Socrate: Rispondi a questa domanda: se non avessimo né voce né lingua e volessimo a vicenda manifestarci le cose, non cercheremmo, come ora i muti, di significarle con le mani, con la
testa e con le altre membra del corpo?
Ermogene: E come si potrebbe diversamente, Socrate?
Socrate: Se, poniamo, volessimo indicare l’in su e il leggero, leveremmo, credo, le mani verso il
cielo, cercando di imitare la natura medesima dell’oggetto; e se, al contrario, l’in giù e il grave, le
abbasseremmo verso la terra. E se volessimo indicare o un cavallo nell’atto di correre o un altro
animale qualsiasi, sai bene che cercheremmo di raffigurarli il meglio possibile con il nostro corpo
e con i nostri gesti” (422e - 423a).
3
4
Cfr. Lamedica, 1987: 17 sgg.
Cfr. Manetti, 2003.
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Vedremo che non tutti i gesti hanno questo tipo di relazione (naturale e mimetica)
con gli oggetti a cui si riferiscono; ma è interessante questo spunto che ci viene da
Platone per vedere come una riflessione sui gesti nasca proprio all’interno di una riflessione sul linguaggio in generale e ne costituisca una sorta di paragone per analogia.
Tuttavia la più ampia trattazione dei gesti effettuata nell’antichità è quella fatta da
Quintiliano nel libro XI delle Institutiones Oratoriae, a partire da III, 66 fino a III, 149,
dove vengono descritti i gesti ed i movimenti mimici che devono accompagnare un
efficace discorso oratorio, e in cui si passano minuziosamente in rassegna i vari movimenti significativi in un ordine sistematico che parte dalla testa per arrivare alle estremità: posizione della testa, sguardo e movimento degli occhi, movimento delle palpebre e delle sopracciglia, movimenti della fronte, delle narici e delle labbra, espressione
del volto, movimenti del collo, della gola, delle spalle, delle braccia, delle mani, dei
fianchi e delle gambe.
2. DAI GESTI DISCOPRITORI DI MENZOGNA DI BONIFACIO ALLA FELICE DISTORSIONE
DELLA PROSPETTIVA TEORICA DI DE JORIO
Dopo Quintiliano è necessario aspettare il secolo diciassettesimo prima di incontrare un testo che fornisca un vero e proprio dizionario ragionato della gestualità. È
possibile trovarlo nell’opera di Giovanni Bonifacio, il quale nel 1616 pubblica un volume dal titolo L’arte de’ cenni, che può essere considerato il primo studio moderno dei
movimenti corporei. Bonifacio si riaggancia allo studio di Quintiliano, ma persegue
uno scopo completamente diverso. Mentre Quintiliano si proponeva come fine quello di mettere in sintonia gesti e linguaggio verbale dell’oratore per aumentare la credibilità del suo discorso, lo studio di Bonifacio appare orientato verso uno scopo esattamente contrario: quello di mostrare la discrepanza che può verificarsi appunto tra
registro verbale e registro gestuale: la gestualità è – per così dire – il canale attraverso
il quale, a differenza del linguaggio verbale – la menzogna (ma, di conseguenza, anche
la verità) si vede5. Un aspetto interessante del testo è anche la polemica che Bonifacio
intrattiene con la Fisiognomica di Giovan Battista Della Porta del 1583. Mentre lo
scopo dell’indagine dellaportiana consiste nella ricerca di un significato fisso da attribuire ad una determinata configurazione della fisionomia umana, per Bonifacio i gesti
sono indicatori di una più ampia mobilità dell’animo: fatto che induce Bonifacio ad
una ricerca più ampiamente descrittiva, lasciando da parte la dimensione che parta
5
Una interessante e penetrante presentazione del testo di Bonifacio si può trovare nel recente saggio di Martone
(2004).
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dai gesti per interpretare la presunta indole del soggetto che li produce.
Un’altra tappa importante nello studio del gesto è poi costituita dal volume di
Andrea de Jorio, La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano (1832)6 un
testo mai dimenticato, ma che sicuramente aveva avuto nel secolo appena trascorso
vita abbastanza difficile. De Jorio, procidano di origine, napoletano di adozione, ma
con una propensione già allora decisamente internazionale. Appassionato studioso
d’arte antica, de Jorio era in contatto con le più importanti personalità del mondo
della ricerca archeologica a lui coevo. E proprio confrontandosi con l’ambito della difficile ricostruzione e interpretazione delle opere d’arte dell’antichità classica, de Jorio
matura l’esigenza di individuare un metodo per poter restituire pienezza di leggibilità semantica agli antichi testi pittorici e figurativi in genere, il cui senso in molti casi
era reso enigmatico dalla frattura di tanti secoli.
L’idea che de Jorio persegue con convinzione e meticolosità è che l’osservazione
dei gesti a cui il popolo napoletano ricorre in un’infinità di situazioni comunicative sia
da prendere come base per costruire un’analogia di significato rispetto ai gesti rappresentati nella pittura vascolare o tombale del mondo antico. Il progetto in sé presta
il fianco a molte critiche. La principale è quella secondo cui anche i codici gestuali
sono sottoposti a variazione diacronica, se partiamo dal presupposto che anche quella dei gesti sia una lingua e che le lingue variano. Ma de Jorio, proprio attraverso il suo
dubbio presupposto, se non proprio grazie al suo errore, scopre un modernissimo
campo di indagine - diremmo, per serendipità, cioè per una di quelle fortunate e luminose situazioni casuali (proprio come avvenne a Fleming con la scoperta della penicellina dalla circostanza per cui certe colture batteriche “avevano preso la muffa”): de
Jorio scopre l’etnografia del gesto. La sua è la prima moderna, minuziosa descrizione
del linguaggio dei gesti indagata in un alveo geografico-culturale ben delineato, con
specifica e dichiarata esclusione della validità universale del gesto.
I gesti infatti si organizzano in codici che hanno un ambito di uso limitato, per
quanto ampio; e molti se ne potrebbero ricordare, a partire dal linguaggio ASL
(American Sign Language, cioè il linguaggio dei sordomuti), fino a quello che prende
il nome di CISL (Cistercian Sign Language, cioè il linguaggio gestuale dei monaci
Cistercensi, che insieme ai Cluniacensi e Trappisti osservano dei periodi quotidiani di
silenzio a fini spirituali, ma non si astengono per questo dalla comunicazione). Quello
che ne risulta è ciò che in altro ambito (quello del mimo) Cassiodoro descriveva, nel
6
Recentemente Adam Kendon ha effettuato la traduzione in inglese del volume di Andrea de Jorio, corredata da un
ampio saggio introduttivo. Come primo e fondamentale merito, la sua traduzione rende il testo di de Jorio disponibile anche ad un pubblico internazionale; inoltre, corredata com’è da un’introduzione di oltre cento pagine, facilita molto
la comprensione della vera portata culturale del progetto di de Jorio.
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VI secolo, con una serie mirabolante di ossimori e di metafore: silentium clamosum,
expositio tacita, linguosi digiti, loquacissimae manus.
I codici gestuali hanno un’altra caratteristica che non sfugge a de Jorio, rendendo il
suo testo modernissimo: quello di organizzarsi per opposizioni significative. E così egli
descrive la variazione del senso dei gesti attraverso l’opposizione di certi tratti pertinenti del livello espressivo. E va infine ricordato un ultimo tratto di modernità: l’affermazione ripetuta - che dal testo risulta con chiarezza e sistematicità – in base alla quale il senso
del linguaggio gestuale emerge solo dalla sua esecuzione in un contesto dato e definito.
3. MIMICA E FISIOGNOMICA
Ritornando all’epoca contemporanea, occorre ora procedere a stabilire alcune precisazioni circa le relazioni tra due tipi di segni, entrambi leggibili sul volto umano, ai
quali abbiamo fatto cenno nei paragrafi precedenti: la mimica e la fisiognomica. Gli studiosi contemporanei tendono ad includere all’interno della cinesica (nome della disciplina che studia i movimenti espressivi del corpo) anche la mimica, che riguarda specificamente quei movimenti che vengono compiuti articolando i muscoli facciali, mentre
ne escludono un’altra fonte dell’espressività corporea, cioè l’espressività fisiognomica.
Vale la pena di soffermarci un attimo sulle differenze. La mimica si occupa di ricostruire il sistema attraverso cui si organizza la rete di significati connessi con i muscoli facciali quando attraverso un determinato movimento producono una precisa configurazione, tale che da essa i partecipanti all’interazione comunicativa possano trarre delle informazioni sull’emozione del soggetto che quei movimenti mimici produce.
Al contrario, la fisiognomica è un ambito di indagine parascientifico, che si propone di inferire i caratteri psicologici e morali degli individui a partire dalla interpretazione delle linee del volto quando i muscoli sono in stato di riposo. Insomma, la
fisiognomica si oppone alla mimica facciale come i tratti del volto in riposo si oppongono ai tratti mobili. La mimica facciale è un codice che funziona perché i muscoli del
volto si mettono in movimento. La fisiognomica invece si occupa di ricostruire un
codice che riguarda la configurazione fissa e complessiva del volto. Secondo i trattatisti che si sono occupati di fisiognomica (molti nella storia del pensiero dopo
Aristotele, tra cui, solo per fare alcuni nomi, Giovanbattista Della Porta e Johann C.
Lavater; ma la tradizione può essere seguita fino ai trattati di antropologia criminale
di Cesare Lombroso), si possono dunque inferire caratteri morali interni dell’uomo a
partire da segni che si leggono sul fisico ed in particolare sul volto, e spesso è proprio
nella tradizione fisiognomica che possono essere rintracciati certi aspetti del pregiudizio contemporaneo e, allo stesso tempo, di certe idealizzazioni dei divi mediatici.
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Ogni giorno ciascuno di noi produce una grande quantità di “giudizi fisiognomici”, per usare una espressione manzoniana7, attribuendo caratteri “morali”, cioè concernenti la natura interiore sia delle persone con cui ci capita di avere relazione di
interscambio comunicativo reale, sia dei personaggi fittizi che ci vengono proposti dai
diversi media. Contrariamente a quello che si potrebbe immaginare per una materia
così fluida, i giudizi emessi dai soggetti sociali sono in genere fortemente omogenei:
tutti riconoscono – o credono di riconoscere – a colpo sicuro “il cattivo”, l’“infido”,
l’”astuto”, il “mite”, il “timido”, lo “stolido”, semplicemente basandosi su segni della
configurazione statica del volto di una persona (fisiognomica) e in generale della sua
figura corporea.
Per spiegare questo fenomeno di uniformità nella competenza inconscia dal punto
di vista interpretativo si deve ricorrere ad un sapere fisiognomico, mai appreso esplicitamente, ma sedimentato in forma stabile in una tradizione antichissima che trova
una sua prima espressione pratica nei testi della medicina ippocratica e viene successivamente sistematizzato in forma teoricamente compiuta in alcune delle opere del
corpus aristotelico.
In Aristotele (Analitici Primi, II, 70b e Fisiognomica, attribuita al maestro, ma sicuramente della sua scuola) viene tra l’altro fondato il paradigma per cui i segni fisici
dell’espressione umana non sono in sé sufficienti a rendere conto dei contenuti interiori di un individuo, data l’estrema differenziazione che si riscontra, sia dal punto di
vista fisico, sia da quello psichico, nei membri della specie umana. È necessario quindi ricorrere ad un termine di mediazione, rappresentato dalla morfologia animale: gli
animali della stessa specie sono (agli occhi di Aristotele) tutti simili tra loro e tutti
caratterizzati da una medesima indole caratteriale: pertanto la presenza in un uomo
di tratti fisici analoghi a quelli presentati da un animale di una determinata specie,
implicherà (trattandosi, appunto, di un “segno fisiognomico”) una comunanza anche
sul piano della disposizione dell’animo, nella misura in cui questi aspetti fisici sono
riconducibili a caratteristiche proprie degli animali.
4. ALCUNE CLASSIFICAZIONI DEI CODICI GESTUALI
4.1 Perché usiamo i gesti?
Se ci chiedessimo ora la ragione per cui la specie umana ha elaborato dei codici
gestuali (cioè dei sistemi di gesti organizzati secondo regole oppositive e distintive)
7 Si veda il capitolo XVI, 6 dei Promessi sposi,“Renzo dovette fare forse dieci giudizi fisiognomici, prima di trovare la figura che gli paresse a proposito”. Manzoni, come noto, era stato lettore della Fisiognomica di Lavater; cfr. Magli, 1989: 117.
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potremmo in prima approssimazione rispondere che molti gesti (e sistemi interi di
gesti) sono dei sostituti del linguaggio parlato, che vengono impiegati quando in particolari condizioni è impedita oppure interdetta la comunicazione verbale. Questi
impedimenti possono essere di natura interna e naturale, dipendenti cioè da una inabilità del soggetto, come nel caso dei sistemi gestuali dei sordo-muti. Possono altresì
essere dipendenti da condizioni esterne, come nel caso dei sistemi gestuali impiegati
quando la distanza o altre situazioni rendono impossibile o inefficace l’uso del linguaggio verbale, come nel caso delle segnalazioni marittime, dei gesti dei lavoratori
nelle segherie dell’Oregon, dei gesti del vigile che regola il traffico, ecc. In questo caso
l’impedimento è esterno, ma continua ad essere di ordine naturale. C’è infine un terzo
tipo di impedimento, che può essere considerato esterno, ma di natura culturale. È il
caso di quei sistemi gestuali che sono usati da soggetti perfettamente abili ad usare il
linguaggio verbale in modo efficace, ma che se ne inibiscono l’uso per vari motivi:
rientrano in questo caso i sistemi gestuali monastici, quelli delle vedove che in alcune
culture devono osservare un periodo di interdizione dell’uso del linguaggio verbale, i
sistemi gestuali a finalità estetica.
Va però segnalato che non sempre i gesti sono sostitutivi dell’uso del linguaggio
verbale, ma esistono casi in cui i gesti sono usati in accompagnamento del linguaggio
verbale e gli fanno da supporto, come avviene nella comunicazione quotidiana o nelle
forme di discorso impostato, quale quello dell’oratoria.
4.2 Alcune classificazioni “universali” dei gesti
Una classificazione dei gesti può essere effettuata seguendo vari parametri. Il
primo tipo di classificazione può essere definito come “universale”, nel senso che cerca
di mettere ordine all’interno delle forme di gestualità che si manifestano nelle più svariate situazioni e nei più diversificati contesti culturali. Appartengono a questo tipo le
due classificazioni – rispettivamente di Robert A. Barakat, di La Mont West, di Adam
Kendon – presentate in questo paragrafo. Il secondo tipo di classificazione può essere
definito come “particolare”, in quanto si occupa di distinguere i vari tipi di gesti che
vengono usati all’interno di una situazione comunicativa data e che sono relativi ad
una forma culturale abbastanza precisa. Appartiene a questo secondo tipo la classificazione presentata più avanti proposta da Paul Ekman e Wallace Friesen, che è relativa ai gesti che si possono incontrare nell’interazione quotidiana e che, sebbene non del
tutto limitata alla civiltà occidentale, tuttavia è valida primariamente per questa.
La prima classificazione del tipo “universale” che proponiamo è quella elaborata da
8
Nella doppia data, il primo numero si riferisce all’anno della prima apparizione del saggio e il secondo a quello della
sua ripresa nel volume a cura di J. Umiker-Sebeok e Th. A. Sebeok (1987).
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Robert A. Barakat (1975/1987)8, che distingue qu attro categorie di gesti.
La prima categoria è quella dei gesti autistici, cioè quei gesti personali che sono
direttamente legati al parlato, all’intonazione melodica e alle altezze di tono e servono
per marcare i tratti grammaticali e ad esprimere una parte di significato (spesso emozionale) che non viene codificato verbalmente.
La seconda categoria comprende i gesti indotti culturalmente, cioè quei movimenti del corpo che sono il prodotto dell’inserimento del soggetto entro una certa cultura. Questi gesti sono appresi inconsciamente e, altrettanto inconsciamente, riprodotti.
Ne fanno parte certi modi di camminare e di sedere, di inchinarsi e di muovere la testa
per fare i cenni del “sì” e del “no”. Questi ultimi in particolare sono spesso diversi da
cultura a cultura, anche se, come ha messo in evidenza Jakobson (1971), seguono in
ogni cultura un identico principio strutturale.
La terza categoria è quella dei gesti semiotici (che talvolta sono indicati come gesti
popolari)9, costituita da segni che sono i sostituti di espressioni verbali. Si tratta di
gesti che hanno significato solo all’interno di una determinata cultura, mentre il loro
apparire in un ambito culturale diverso può essere completamente sprovvisto di significato, o, accidentalmente, avere un significato diverso. Non sono, cioè, universali.
La quarta categoria, infine, è quella dei gesti tecnici, che formano dei sistemi specifici di gruppi particolari, i quali li utilizzano professionalente quando la comunicazione verbale è impossibile, interdetta o inadatta. Tra questi vengono classificati i codici
gestuali dei monaci di clausura, quelli dei sordomuti, degli indiani d’America e degli
Aborigeni australiani. Inoltre, appartengono a questo gruppo tutti i sistemi professionali: quelli dei venditori d’asta, degli arbitri, dei camionisti, dei lavoratori delle segherie dell’Oregon, dei mercanti, ecc.
La seconda classificazione “universale” è quella elaborata da La Mont West (1960,
citato da Sebeok e Sebeok, 1987: IX sgg.), che individua innanzitutto sette sistemi
gestuali costituenti, secondo La Mont West, dei “veri e propri linguaggi di segni”, suddivisi ulteriormente in relazione a tre tipi di intento funzionale (comunicativo, drammatico, formulaico ovvero rituale): ad essi l’autore attribuisce, non sempre giustificatamente, anche la caratteristica della doppia articolazione quale si ritrova nel linguaggio verbale10.
9
La definizione di questo tipo di gesti come “semiotici” appare inadeguata ed imprecisa, in quanto tutti i movimenti
significativi potrebbero essere definiti come “semiotici”, cioè portatori di un significato. In effetti la specificità dei gesti
di questo gruppo sembra consistere nella triplice caratteristica di essere codificati, artificiali e, contemporaneamente,
non limitati nell’uso a situazioni particolari, come è il caso della categoria successiva dei gesti tecnici. In un certo senso
la loro definizione come gesti popolari appare presentare meno inconvenienti.
10 Riprendiamo, con qualche lieve adattamento, la tabella proposta dall’autore.
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Narrazione/
Comunicazione
Rappresentazione
Rito
Tra tribù di diversa lingua; Esibizioni di narrazioni
Indiani d’America
durante l’esplorazione
di storie
Tra tribù; durante
Aborigeni australiani
le interdizioni di silenzio;
Narrazioni di storie
Narrazione rituale
caccia; guerra
con disegni sulla sabbia
di storie
tra individui con danni
Rappresentazioni
Riti della cultura in cui
di favella e/o di udito
teatrali
i sordo-muti vivono
Comunicazione
Sordo-muti
Interdizione del silenzio
tra donne sposate
Caucasici (Armeni)
e parenti affini
Interdizione del silenzio
Monaci
religioso
Tra studenti e insegnanti
provenienti da diverse
Danza Indù
parti dell’India
Set drammatico per musi-
e di diversa lingua
ca; Danza con gesti
Teatro di pantomima
Dramma +/- musica
e Balletto russo classico
con gesti
A commento dello schema precedente può essere aggiunto qualche cenno su alcune delle categorie elencate. I linguaggi di segni degli Indiani d’America nacquero
come lingua franca, cioè come mezzo attraverso il quale comunicavano popoli che
parlavano lingue mutualmente incomprensibili. Si sono dimostrati utili anche per la
comunicazione intratribale durante la caccia, l’esplorazione, la guerra e il racconto di
storie. Comprendono centinaia di segni, usati da soli o in combinazione ed hanno una
sintassi semiindipendente da quella del linguaggio verbale.
I linguaggi di segni degli Aborigeni australiani sono impiegati quando è imposto il
silenzio nel caso di lutto o durante la caccia, situazione altrettanto gravata di significato rituale. Si tratta di linguaggi che superano anche quello degli Indiani d’America
in termini di dimensioni del lessico (gli Warlpiri usano oltre 1500 segni) e di complessità delle stringhe di segni. Questi linguaggi si sono sviluppati in connessione con
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l’usanza delle donne in lutto di rimanere in silenzio e di utilizzare il linguaggio dei
segni per oltre due anni continuativamente, come unica forma di comunicazione con
le altre parenti del deceduto e con le sorelle. Tendono tuttavia a seguire la sintassi del
linguaggio parlato.
Il linguaggio dei sordo-muti secondo una tradizione mitografica nascerebbe da
quello dei codici monastici, basandosi sul fatto che nel 16° secolo in Spagna si registrano casi di bambini sordi, appartenenti all’aristocrazia, educati nei monasteri.
Questo mito, come mostra William Stokoe (1978/1987: 326) non ha basi razionali, e
nasce dalla presunta somiglianza tra i due sistemi - quello dei gesti monastici e quello
dei sordo-muti - poggiando inoltre sul presunto carattere di universalità del linguaggio gestuale. In effetti un sistema metodico di segni gestuali che poteva costituire un
linguaggio sufficiente per esprimere il pensiero da parte dei sordo-muti fu inventato
nel 1750 da Charles Michel, Abbé de l’Epée. Si deve tuttavia osservare che il linguaggio dei segni monastico ha poche possibilità di essere considerato la sorgente del
moderno sistema di segni dei sordo-muti per vari motivi. (i) I mondi di riferimento
dei due sistemi sono profondamente diversi: gli oggetti della vita monastica, basata
sulla regola di San Benedetto, in un caso, e l’ampia gamma dei fenomeni del mondo,
nell’altro. (ii) I sistemi di segni monastici dipendono in gran parte per la sintassi dal
linguaggio nativo della comunità di monaci: per esempio, francese per Cluny e angloamericano per la comunità di St. Joseph a Spencer, nel Massachussets. (iii)
Statisticamente si rileva solo una rassomiglianza di 1 a 7 tra gesti del CSL (Linguaggio
di segni dei Cistercensi) e l’ASL (Linguaggio dei segni americano, usato dai sordomuti). In definitiva il linguaggio dei segni dei sordo-muti, quando sia usato costantemente da una comunità per comunicare in una serie molto ampia di situazioni, può
essere considerato altrettanto ricco di quello parlato sia nella possibilità di esprimere
concetti, sia nella presenza di sfumature morfologiche e sintattiche.
Per quello che riguarda il linguaggio dei segni Armeno, in questi ultimi decenni
dobbiamo registrare la sua scomparsa senza che gli studiosi abbiano avuto la possibilità di analizzarlo approfonditamente.
Infine i sistemi di segni a funzione estetica, come la pantomima, il balletto e la
danza Indù sono organizzati in maniera tale da combinare insieme un livello narrativo con la musica, nel primo caso, la danza nel secondo ed entrambi nel terzo.
Accanto ai sette sistemi di segni, che considerava “vere lingue”, West individuava
due ulteriori categorie di gesti, i cui sistemi componenti non avrebbero la caratteristica di essere delle vere e proprie lingue. La prima è la categoria dei linguaggi di segni
marginali, che comprendono numerosi sistemi di gesti associati con rappresentazioni
teatrali, con l’oratoria (per esempio l’oratoria greca e romana), con le tradizioni religiose, con le sette segrete (Massoni), con la gestualità dei gruppi etnici di tutto il
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mondo (gesti napoletani e siciliani; gesti usati dagli zingari). La seconda è la categoria
dei sistemi limitati di gesti professionali, comprendente vari codici escogitati per superare diversi ostacoli. Per esempio problemi di distanza (acrobati, atleti, agenti di borsa,
arbitri sportivi, marinai, agrimensori, camionisti, ecc.); livello di rumore (operatori
delle segherie, pompieri, piloti di aerei, ecc.); quando è richiesto il segreto (esercitazioni ed esplorazioni militari, ecc.); quando è richiesto il silenzio (direttori d’orchestra, conduttori di programmi radiofonici, addetti a dirigere la claque, ecc.). La classificazione di West presenta alcuni inconvenienti, soprattutto di carattere glottocentrico, che sono stati rilevati da una serie di studi negli ultimi decenni.
Recentemente è stata proposta una diversa classificazione da parte di Adam
Kendon (1987), che divide i gesti complessivamente in due categorie. La prima categoria è quella dei linguaggi di segni alternanti (alternate sign languages), che comprende quei sistemi di segni che sono stati sviluppati dagli utenti per scopi particolari in occasioni speciali o in particolari periodi quando il parlare è interdetto per ragioni rituali oppure reso difficile dalle circostanze. Rientrano in questa categoria i linguaggi di segni degli Indiani del Nord America, quelli degli Aborigeni australiani, i
linguaggi di segni monastici, i linguaggi di segni occupazionali, quelli della rappresentazione scenica (pantomima del balletto classico europeo, danza Indù).
La seconda categoria è quella dei linguaggi di segni primari (primary sign languages). Essa include i linguaggi che servono come mezzo principale di comunicazione
piuttosto che come un’alternativa al linguaggio parlato, come è il caso del sistema
gestuale dei sordo-muti.
5. UN ESEMPIO DI CODICE GESTUALE E DELLE SUE ARTICOLAZIONI
5.1 I gesti e i lori referenti
Per capire come è fatto un codice gestuale specifico e per cogliere le differenze tra
i vari tipi di gesti di cui si compone è necessario affrontare una questione preliminare: quella di stabilire quale tipo di relazione i segni gestuali intrattengano con ciò che
indicano, cioè con i loro significati e/o referenti. Abbiamo visto infatti che alcuni gesti
imitano ff l’oggetto che intendono indicare (come quando facciamo il gesto della
silhouette di una donna formosa per indicare appunto “bella ragazza”, mentre altri
non hanno alcuna relazione di somiglianza con ciò a cui rimandano, come quando
eseguiamo il gesto del saluto agitando la mano; in questo secondo caso non c’è alcuna relazione diretta tra gesto e significato; questo fatto è ulteriormente confermato dal
dato per cui, in culture diverse, lo stesso significato è indicato da gesti differenti (ad
esempio: le dita che si chiudono sulla palma rivolta verso l’interlocutore, contro la
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palma rivolta verso il soggetto che esegue il gesto.
Una classificazione delle possibili relazioni tra un segno e il suo referente è quella
normalmente accettata in ambito semiotico, che risale a Charles Sanders Peirce (18391914, filosofo americano, considerato uno dei padri fondatori della disciplina semiotica). Peirce suddivide i segni in 3 categorie, che risultano particolarmente utili per la
classificazione dei gesti:
1. Simboli o segni simbolici (hanno una relazione arbitraria con il referente, come la
stragrande maggioranza delle espressioni linguistiche).
2. Indici o segni indicali (hanno una relazione di contiguità con l’oggetto al quale si riferiscono: si tratta di una relazione che consiste in un contatto o in una vicinanza fisica,
come è il caso per es. del dito puntato, oppure di causa-effetto, come è il caso della
banderuola la cui direzione viene causata da quella del vento).
3. Icone o segni iconici (hanno relazione di somiglianza con l’oggetto, per esempio tutte
le immagini, fino ai ritratti e alle caricature che mantengono una somiglianza molto
vaga, sotto un qualche rispetto o parametro).
5.2 I segni monastici
Per dare un’idea di come i tipi di relazione tra segno e referente (e/o significato)
appena illustrati possono essere articolati nel caso di un codice gestuale prenderemo
come esempio i segni gestuali monastici. Una interessante classificazione dei gesti in
base alle loro relazioni rispetto al referente è quella di Robert A. Barakat (1975/1978),
che analizza il linguaggio gestuale dei Cistercensi usato nell’abbazia di St. Joseph,
Spencer, Massachusetts. L’autore individua cinque tipi di segni diversificati appunto su
questa base e organizzabili secondo la seguente tabella:
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Tipi di segni
Definizione
Sottocategorie
(a) riproducono i reali movimenti
1. Segni pantomimici
Segni
fisici di una azione presa come
che “imitano” il referente
referente
(b) descrivono l’oggetto con i
gesti
Segni arbitrari e/o convenzionali,
2. Segni puri
non dipendenti dal linguaggio
verbale e non imitativi
del referente
(a) assegnano tratti unici
ai referenti
Assegnano qualità
3. Segni qualitativi
o caratteristiche
ai loro referenti
(b) assegnano caratteristiche
concrete agli oggetti
che rappresentano
(c) combinano le precedenti
caratteristiche per
simbolizzare i referenti
(a) segni con approssimazioni
fonetiche nel linguaggio
4. Segni parzialmente
dipendenti dal linguaggio
Usano alcuni tratti
del linguaggio
(b) segni che combinano un
segno individuale con una terminazione che ha un equivalente fonetico
5. Segni interamente
dipendenti dal linguaggio
Segni con esatti equivalenti
fonetici
Il primo gruppo, formato dai segni pantomimici, comprende gesti che richiedono
un movimento simile al movimento imitato o una descrizione manuale di un referente. Si tratta di segni di tipo iconico. Essi costituiscono la base di molti repertori di
segni, compresi quelli dei sordo-muti e degli Indiani d’America. Questi segni pantomimici sono stati anche talvolta designati come “universali”, in quanto possono essere compresi da soggetti appartenenti a culture differenti. Designano azioni molto
generali. Per esempio camminare, che si esegue stendendo l’indice e il medio dal
pugno chiuso e muovendoli l’uno di fronte all’altro in avanti; oppure mangiare, eseguito mettendo l’indice e il medio sul pollice e muovendo la configurazione avanti e
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I gesti. Appunti per una semiologia in costruzione
indietro verso la bocca; oppure ancora dormire, che si esegue piazzando la palma di
una o delle due mani su un lato della testa e poi reclinando la testa su un lato come su
un guanciale.
Tuttavia, come fa notare Barakat (1975/1987:100) la natura imitativa di certi gesti
non è necessariamente legata ad un presunto carattere di “universalità”. Ad esempio,
il gesto di indicare qualcosa a distanza si trova eseguito in certe culture con il dito
puntato, in altre con la punta delle labbra. Ugualmente il gesto di salutare è eseguito in
Grecia e nel medio Oriente, inclusi molti paesi arabi, ponendo la palma della mano di
fronte a se stessi e muovendo avanti e indietro le dita unite; in Inghilterra e negli Stati
Uniti la palma guarda in avanti e le dita sono mosse in avanti, o unite o rapidamente
una dopo l’altra. Anche i gesti per il “sì” e il “no” variano considerevolmente: in India
il gesto per l’affermazione è simile a quello occidentale per la negazione.
I segni come camminare, mangiare, dormire, come pure spalare (stendere la mano
destra di fronte al corpo e poi abbassarla), pregare (mani giunte intrecciate), ecc. fanno
parte della prima sottoclasse di questo gruppo, composto di segni che imitano una
specifica azione. Questi segni possono essere usati sia con la funzione di nomi che di
verbi.
La seconda sottoclasse è composta da gesti che descrivono manualmente un oggetto. Ne fanno parte segni come libro (tenere le palme chiuse insieme, poi aprirle, tenendo unite le estremità basse delle palme), come paniere (descrivere con l’indice della
mano destra un cerchio davanti al corpo e poi sollevare i pugni chiusi delle due mani),
come gancio (curvare l’indice destro e portare la mano sopra la spalla destra).
Il secondo gruppo, quello dei segni puri, è composto da gesti che non hanno alcuna relazione di motivazione rispetto ai referenti. Si tratta, cioè, di segni di tipo arbitrario o simbolico (secondo la terminologia di Peirce). Sono spesso impiegati per designare oggetti peculiari della vita monastica. Nella maggior parte dei casi segni di questo tipo sono stati inventati per designare cose per le quali non esiste alcun segno
naturale. Per esempio si trova in questo gruppo il segno per abate (porre le punte dell’indice e del medio sulla fronte, in maniera che puntino verso l’alto). Priore (tenere il
pollice destro in alto sul pugno chiuso). Sottopriore (stesso gesto che per priore, ma
con la differenza di estendere anche il mignolo, per indicare un diminutivo).
Presidente (estendere il medio dal pugno della mano destra, con la parte posteriore
della mano che guarda il corpo). Invitatore (porre la punta del pollice destro tra l’indice e il medio e tenerlo per un po’). In maniera curiosa questi due ultimi gesti sono
simili a gesti conosciuti in ambito laico e molto diffusi nel mondo; rispettivamente
quello definito solitamente come social finger e come mano fica, anche se sono stati
assunti all’interno del sistema gestuale cistercense con un significato completamente
diverso.
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Il terzo gruppo è quello dei segni qualitativi, così chiamati perché assegnano qualità del referente al gesto. In altre parole i referenti vengono designati con un gesto che
esprime una sua qualità o, in altre parole, una sola marca semantica rispetto alla globalità del semema. Si tratta di designazioni attraverso trasformazioni retorico-tropiche. Ogni referente è espresso attraverso un gesto che esprime le caratteristiche associate dai monaci con questo referente. Si suddividono in vari sottogruppi.
(1) Il primo sottogruppo comprende gesti che assegnano al referente delle marche astratte, come avviene con designazioni di nazionalità, città, personaggi, eventi e luoghi
biblici. Esempi di nazionalità: gli Italiani sono identificati con il gesto per spaghetti; gli
Irlandesi con i gesti per mangiatori e patate; gli Inglesi con i gesti per mangiatori e
biscotti. Ci sono poi esempi di paesi come Africa designata con i gesti nero + paese, o
Russia, indicato come rosso + paese. Esempi di città: Roma è designata come Papa +
paese.
(2) Il secondo sottogruppo è composto di segni che assegnano tratti concreti ai loro referenti. Per esempio Cistercensi è indicato con i gesti bianchi + monaci; Benedettini con
i gesti neri + monaci. Ugualmente sidro, con i gesti mele + acqua.
(3) Il terzo sottogruppo è composto da segni che combinano le caratteristiche dei precedenti due sottogruppi. Talvolta includono segni con la descrizione di una azione o di
un elemento, come i segni pantomimici. Tra questi, ad esempio, Processione, che si esegue con i segni croce + andare; per designare penna si eseguono i gesti ala + scrivere.
Il quarto gruppo raccoglie i segni parzialmente dipendenti dal linguaggio. Questi
segni sono spesso collegati al linguaggio verbale per il fatto che ne utilizzano alcuni
tratti specificamente fonetici. Essi dipendono specificamente dalla lingua parlata dalla
comunità di frati che li usano. Così perdono di significato se trasportati da una comunità di frati americani ad una comunità francese. Questo fatto è legato con la caratteristica di non essere di lunga vita. Si suddividono in due sottogruppi.
(1) Il primo sottogruppo comprende segni che hanno equivalenti fonetici approssimativi nella lingua inglese: Ceylon è segnato come c + long; ugulmente Dakota è eseguito
come d + coat + a.
(2) Il secondo sottogruppo è composto da segni che si riferiscono a suffissi con un equivalente fonetico, come ad esempio -ing o -er : per esempio going è eseguito come go +
n; allo stesso titolo singer è eseguito come sing + r. Un altro caso è dato dall’utilizzo del
segno per ginocchio (in inglese knee) (toccare il lato del ginocchio destro con la mano
destra) per formare gli aggettivi, come con funny eseguito come fun + knee.
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Il quinto gruppo contiene i segni interamente dipendenti dal linguaggio, aventi, cioè
esatti equivalenti fonetici nei suoni del linguaggio. Questi gesti sono usati per indicare referenti diversi a seconda dei contesti in cui compaiono. Così, ad esempio, il gesto
per cervo, in inglese deer, (eseguito mettendo i pollici ai lati della testa e poi aprendo
le dita) è usato anche per caro, in inglese dear. Il gesto per two è usato anche per to e
per too. Curioso è il caso del gesto per la città di Cincinnati, eseguita come sin (= “peccato”, battendosi il petto con la mano destra) + sin + a + t.
6. UNA CLASSIFICAZIONE “PARTICOLARE”: I GESTI DELL’INTERAZIONE QUOTIDIANA
Tra le classificazioni “particolari” dei gesti una delle più diffuse e più ampiamente
accettate è quella proposta da Paul Ekman e Wallace Friesen11, che, rielaborando l’importante materiale di Efron (1972), si occupa di ordinare le diverse categorie dei gesti
che possono occorrere nell’ambito dell’interazione comunicativa quotidiana, così
come si manifesta soprattutto all’interno della cultura occidentale.
I due autori premettono alla classificazione vera e propria dei gesti tre serie di
distinzioni che risultano di grande importanza per cogliere come il senso viene abbinato alle espressioni materiali e concrete dei gesti.
6.1 Tipo di informazione trasmessa
La prima distinzione riguarda innanzitutto il tipo di informazione trasmessa e si
articola in un’opposizione tra un’informazione idiosincratica e un’informazione condivisa che può essere associata ai gesti dai partecipanti all’interazione.
(i) Gesti che forniscono un’informazione idiosincratica
Una informazione è idiosincratica quando, pur esistendo un’associazione costante
e regolare tra un gesto e una determinata interpretazione, tuttavia questa associazione è percepibile solo ad una persona, che ne è il ricevente. Questa situazione si verifica in tutti quei casi che possono essere definiti di relazione intima, come quella che si
stabilisce tra moglie e marito, tra padre e figlio, tra psicanalista e suo paziente, ecc.
Solo quel determinato ricevente che fa coppia con l’emittente riesce a percepire la
significatività di un gesto dell’altro membro della coppia (ad esempio il piegarsi in un
certo modo di una certa linea del volto, il picchiettare con le dita su un tavolo, ecc.),
mentre gli altri astanti all’interazione possono non attribuire nessun significato a quel
determinato atto motorio.
11
Cfr. Ekman e Friesen (1987), ora in Lamedica (1987), originariamente pubblicato in Semiotica, I, 1969.
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(ii) Gesti che forniscono un’informazione condivisa
Un’informazione è condivisa quando l’associazione tra l’atto motorio e la sua interpretazione è comune ad un intero gruppo di individui, che normalmente costituiscono una cultura (o comunque ad una sottocomponente di essa, come ad esempio una
cultura gergale, come quella della devianza malavitosa o la cultura giovanile).
6.2 Tipi di comportamento non verbale
La seconda distinzione riguarda i tipi di comportamento non verbale rispetto ai
due parametri della intenzionalità e/o della produzione di conseguenze interattive che
si verificano in seguito un atto gestuale. Vengono così distinti tra di loro i comportamenti non verbali informativi, quelli comunicativi e quelli interattivi.
(i) Gesti informativi
Sono considerati informativi tutti quegli atti gestuali che permettono ad un gruppo di osservatori di inferire un determinato significato codificato relativo a quell’atto.
L’atto, tuttavia, non è necessariamente compiuto per trasmettere un’informazione. Il
termine “informativo” si riferisce solo al significato decodificato: si verifica quando il
ricevente fa un’inferenza sul significato di un certo atto. In altre parole si verifica quando l’emittente non ha prodotto quel gesto con la precisa intenzione di significare una
determinata informazione, ma può averlo prodotto inavvertitamente.
L’inferenza non trasmette necessariamente informazioni corrette e accurate su
colui che produce il gesto. Infatti l’osservatore può essere vittima di un fraintendimento, se l’atto viene interpretato in base a criteri non adatti, come ad esempio in base
ad un codice diverso da quello che è in possesso di colui che produce l’atto. Così, una
contrazione dei muscoli del viso potrebbe essere decodificata come segno di “ostilità”,
mentre chi lo ha prodotto non aveva in mente niente del genere.
Per Ekman e Friesen i gesti informativi escludono quelli idiosincratici, perché il
tipo d’informazione inferita da un ricevente rispetto all’emittente deve essere tale che
chiunque appartenga a quella determinata cultura (e condivida quindi lo stesso codice), deve essere in grado di fare la stessa inferenza.
(ii) Gesti comunicativi
Comprendono tutti quegli atti che sono compiuti con l’intenzione cosciente di trasmettere un certo significato specifico ad uno o più riceventi. Il comportamento non
verbale comunicativo, di conseguenza, esclude i gesti informativi, in quanto, secondo
la definizione data precedentemente, questi ultimi sono prodotti senza l’intenzione
dell’emittente di trasmettere un determinato messaggio.
Una precisazione che occorre fare è che gli atti gestuali comunicativi non sono
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necessariamente dei buoni trasmettitori d’informazione. Infatti, l’emittente potrebbe
aver avuto l’intenzione di trasmettere un’informazione, ma il destinatario potrebbe
aver frainteso il senso che l’emittente voleva attribuire al gesto.
Quindi la categoria degli atti comunicativi gestuali, nei quali l’informazione che
l’emittente vuole trasmettere è la stessa che il destinatario effettivamente riceve, è più
ristretta: per questa sottocategoria Ekman e Friesen riservano la denominazione di
gesti che forniscono una “comunicazione accurata”.
(iii) Gesti interattivi
Comprendono quegli atti con i quali, durante un’interazione, una persona modifica o influenza chiaramente il comportamento di una o più altre persone. Questo accade ad esempio nel caso di espressioni mimiche come quelle di tristezza che si manifestano con il pianto: chi si trova in interazione con una persona che si mette a piangere non può rimanere indifferente, pena lo stigma sociale di chi osserva la scena.
Ugualmente se parlando vediamo che una persona scuote la testa in segno di dissenso, questo provocherà una modifica del programma comunicativo.
6.3 Tipi di codifica
La terza serie di distinzioni ha a che vedere con il tipo di codifica a cui sono sottoposti i gesti e riguarda la relazione che si stabilisce tra il gesto e ciò a cui rinvia (ovvero il suo significato e/o il suo referente). Ritroviamo qui in parte la distinzione proposta da Peirce, in quanto i gesti vengono suddivisi in atti codificati arbitrariamente, atti
codificati iconicamente e atti codificati intrinsecamente.
(i) Gesti codificati arbitrariamente
I gesti codificati arbitrariamente hanno la caratteristica di non presentare alcuna
rassomiglianza rispetto a ciò a cui rinviano. In questo senso sono simili alla stragrande maggioranza delle parole. Un esempio di gesto molto comune che rientra in questa
categoria è quello del saluto effettuato con l’apertura/chiusura della mano (a cui
abbiamo già fatto cenno in precedenza).
(ii) Gesti codificati iconicamente
I gesti codificati iconicamente presentano una qualche somiglianza rispetto a ciò a
cui rimandano. Naturalmente la somiglianza è solo parziale ed è stabilita secondo un
particolare parametro. Quest’ultimo fatto permette di parlare ancora di codifica e non
di semplice riproduzione. Appartiene, per esempio, a questa categoria il gesto indicante il “mangiare” effettuato raggruppando a mazzo le dita della mano destra e muovendo il pugno ripetutamente verso la bocca.
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(iii) Gesti codificati intrinsecamente
I gesti codificati intrinsecamente sono degli atti la cui esecuzione costituisce una
parte del referente a cui rimandano. Essi non tanto presentano una somiglianza con il
referente, quanto sono una parte del referente stesso. Ad esempio, se qualcuno agita il
pugno davanti ad un altro per indicare che ha intenzione di, o che potrebbe, sferrargli
effettivamente un pugno, questo è un gesto-significante che è identico ad una parte
dell’atto completo di sferrare il pugno. Un altro esempio è quello che si ha muovendo
l’indice per simulare la pressione fatta sul grilletto di una pistola al fine di significare
lo sparare: questo movimento dell’indice non solo significa lo sparare, ma è parte del
movimento reale che si compirebbe sparando; è una parte dell’atto di sparare.
6.4 Le cinque categorie di comportamento non verbale
Una volta stabiliti i precedenti parametri, Ekman e Friesen passano ad elencare le
categorie – in tutto cinque – nelle quali può iscriversi qualunque comportamento non
verbale significativo (sia facciale, sia gestuale-coporeo).
6.4.1 Emblemi (gesti simbolici)
Gli emblemi, chiamati anche gesti simbolici, sono atti non verbali che hanno una
traduzione verbale immediata e potrebbero essere sostituiti da una o due parole o da
una frase, senza alterare l’informazione trasmessa. Questa è la loro caratteristica peculiare, per la quale vengono riconosciuti e inseriti in questa categoria. Sono prodotti da
uno sforzo intenzionato di comunicare e chi li esegue è in genere cosciente di farlo;
fatto che impegna chi ha eseguito quell’atto ad assumersene la responsabilità.
Essi possono sostituire, ripetere o anche contraddire (nei casi di comunicazione
ironica) una parte del comportamento verbale concomitante. Sono i gesti tipici che
vengono eseguiti anche quando vi è un impedimento nella comunicazione orale,
dovuto ad esempio a condizioni organiche (mutismo), rumore (cacciatori, lavoratori
con macchine che producono frastuono, ecc.), distanza (segnalazioni navali), ecc. o
anche in seguito a condizioni culturali di autoimposizione (gesti dei monaci, ecc.).
Gli emblemi sono i comportamenti non verbali più comprensibili, in quanto sono
fortemente codificati all’interno di una cultura. Possono essere arbitrari, come è il
caso dell’agitare la mano per significare la partenza, ma anche essere iconici, come il
passarsi la mano sotto la gola, per indicare di avere la gola tagliata, metafora per dire
che qualcosa è andata male, oppure descrivere la silhouette di una donna per indicare
una bella ragazza; infine possono essere intrinsecamente codificati, come l’atto di agitare il pugno per minacciare di compiere la stessa azione.
Sono normalmente eseguiti in modo meno personale e più standard rispetto ad
altri tipi di gesti.
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Sono spesso interattivi, in quanto la loro esecuzione tende ad attirare l’attenzione
dei partecipanti all’interazione ed aumenta la probabilità che ci sia una risposta nel
comportamento di questi ultimi.
La loro origine è da ricercarsi nell’apprendimento (proprio come nel caso del compostamento verbale) e molto di questo apprendimento è specifico delle diverse culture.
6.4.2 Illustratori
I gesti illustratori sono atti comportamentali direttamente collegati al discorso;
accompagnano il parlato e servono ad illustrare, o a sottolineare, ciò che viene detto
verbalmente. Sono meno coscienti degli emblemi e meno intenzionali. Sono appresi
culturalmente soprattutto attraverso l’imitazione.
Essi possono essere suddivisi in sei categorie:
(i) Bacchette, cioè movimenti, soprattutto del braccio o del dito indice, che si ripetono ritmicamente in corrispondenza di concetti analoghi presentati nella forma di elenco. Di
essi Ekman e Friesen dicono, riprendendo Efron, che “battono il ritmo del pensiero”.
(ii) Ideografi, cioè movimenti che delineano un ideale direzione del ragionamento. Sono
rappresentati da tutti quei gesti che noi impieghiamo inconsapevolmente mentre parliamo, e che costituiscono una sorta di direzione d’orchestra del nostro flusso discorsivo.
(iii) Deittici, cioè quei gesti che vengono impiegati per indicare un deteminato oggetto o
persona che si trova nell’ambiente comunicativo o in quello circostante. Vengono
impiegati in concomitanza (e talvolta in sostituzione) dei pronomi personali e dei
dimostrativi.
(iv) Movimenti spaziali, cioè gesti che descrivono una relazione spaziale, ovvero una relazione nella quale il movimento indica la distanza tra le persone, o gli oggetti. Un esempio può essere rappresentato dal mettere le mani vicine per esprimere l’intimità, o
anche dal muovere avanti e indietro la palma posta verticalmente rispetto alla terra
per indicare il significato “tra me e te”.
(v) Cinetografi, cioè movimenti che delineano un’azione del corpo. Ne è un esempio il
movimento del “tagliare la gola” eseguito muovendo avanti e indietro la mano distesa
all’altezza della gola, che è un movimento somigliante a quello che si eseguirebbe
compiendo l’atto effettivo. Anche il pugno agitato in direzione dell’interlocutore può
appartenere a questa categoria.
(vi) Movimenti pittografici, cioè gesti che tracciano una immagine dei loro referenti.
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Ekman e Friesen sottolineano un fatto molto importante rispetto a questi tipi di
gesti, e cioè che, ad eccezione delle prime due categorie (bacchette e ideografi), essi
non escludono l’appartenenza anche ad altre categorie. Infatti le bacchette e gli ideografi non hanno un significato indipendente rispetto al supporto verbale, mentre tutti
gli altri illustratori possono avere un significato indipendente rispetto alle parole.
Questi ultimi quattro tipi, dunque, quando sono eseguiti in sostituzione del linguaggio verbale vengono classificati come emblemi, mentre quando vengono eseguiti in
concomitanza con il linguaggio vengono classificati come illustratori.
In generale poi gli illustratori varieranno in dipendenza dell’ambiente etnico a cui
appartiene chi li esegue. Una ricerca effettuata da Efron ha dimostrato che nel caso di
emigrati italiani ed ebrei negli Stati Uniti, gli italiani usavano più cinetografi e gesti
pittografici, mentre gli ebrei usavano più bacchette e gesti ideografici; tuttavia la generazione successiva, che si era assimilata alla nuova cultura, non mostrava più quelle
differenze; tali differenze invece persistevano in coloro che erano rimasti in più stretto contatto con i costumi tradizionali.
6.4.3 I dimostratori di emozioni
Incontriamo in questa categoria un fenomeno piuttosto raro nei fatti di ordine culturale e cioè un certo carattere di universalità che mostrerebbe la presenza di una certa
omogeneità attraverso le culture relativa sia alle emozioni fondamentali che vengono
espresse attraverso movimenti fisici, sia al particolare modo di eseguire tali movimenti. Nonostante ci sia stato un notevole disaccordo circa la enumerazione e la definizione delle emozioni primarie, tuttavia si sono riscontrate, nelle ricerche degli ultimi decenni, alcune coincidenze che, secondo Ekman e Friesen, incoraggiano a tracciare una lista di quelle che possono essere considerate emozioni primarie:
(i) felicità,
(ii) sorpresa,
(iii) timore,
(iv) tristezza,
(v) rabbia,
(vi) disgusto,
(vii) interesse.
È, in effetti, un dato di fatto che ognuno di questi stati affettivi può essere facilmente riconosciuto dagli osservatori dei movimenti facciali di una persona da un
qualunque membro della nostra cultura e, quel che è più importante, che questi stati
affettivi possono essere riconosciuti da osservatori della nostra cultura in membri
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appartenenti ad altre culture.
Va tuttavia sottolineato che, mentre i muscoli messi in movimento dalla dimostrazione di una certa emozione sono gli stessi per ogni cultura, ciò che varia sono sia gli stimoli che possono produrre tale emozione, sia le regole socio-culturali di dimostrazione
di quella emozione. Ad esempio se una persona arrabbiata mostrerà una certa configurazione dei muscoli facciali dovunque, ciò che può provocare uno stato d’ira sarà sottoposto ad una variazione culturale piuttosto ampia e deriverà dall’apprendimento.
Per quello che riguarda le regole socio-culturali della dimostrazione dell’emozione esse possono essere apprese socialmente fin dall’infanzia e possono seguire quattro parametri diversi:
(i) Deintensificare la dimostrazione visibile di una determinata emozione. Ciò avviene
ad esempio qundo, temendo qualcosa, si tenta di reprimere ogni manifestazione di
timore.
(ii) Intensificare al massimo la dimostrazione di emozione. Questo si verifica quando le
regole culturali impongono una partecipazione molto esibita ad un evento, per esempio luttuoso: a questo si può ricollegare il fenomeno delle “prefiche” nella cultura
popolare meridionale italiana, che devono dimostrare a programma una afflizione
pubblica.
(iii) Non dimostrare l’emozione.
(iv) Dissimulare l’emozione, mostrando l’emozione possibilmente opposta (come quando
si ostenta sicurezza avendo, in realtà, timore).
6.4.4 Regolatori
I gesti regolatori servono, appunto, a regolare lo scambio di ruolo fra parlante e
ascoltatore nell’interazione comunicativa. La loro funzione è di segnalare a chi parla di
andare avanti, di affrettarsi, oppure di arrestarsi perché l’interlocutore desidera a sua
volta prendere la parola. Altri gesti appartenenti a questa categoria possono segnalare
a chi parla il calo o l’aumento d’interesse da parte di chi ascolta. Tra i gesti regolatori
più comuni c’è il cenno della testa con cui chi ascolta annuisce; ma anche il protendersi avanti con il corpo da parte di chi ascolta e alcuni movimenti delle sopracciglia.
I gesti regolatori vengono prodotti al limite inferiore della coscienza. Un aspetto
curioso relativo a questo tipo di gesti è che chi parla ne percepisce l’assenza nell’ascoltatore, mentre di solito non avverte la loro presenza. In altre parole, siccome chi
parla li ritiene scontati, il fatto di accorgersi che non vengano prodotti può essere
motivo di inferenze.
Spesso questi gesti sono soltanto informativi, come è naturale per il fatto di non
essere emessi in piena coscienza.
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6.4.5 Adattatori
Il termine “adattatori” viene impiegato per designare i gesti appartenenti a questa
categoria perché probabilmente trovano la loro origine nell’individuo in uno sforzo di
controllare forme di sforzo o di tensione. Frammenti di questi atti vengono conservati poi in età adulta e nell’uso conversazionale. Si distinguono in tre sottocategorie.
(i) Autoadattatori. Fanno parte di questa sottocategoria tutti quei gesti con i quali noi
entriamo in contatto con il nostro corpo, come ad esempio il gesto di toccarsi o leccarsi le labbra, grattarsi gli orecchi, stropicciarsi il naso, lisciarsi i capelli, fino ai gesti
considerati maleducati, quali, ad esempio, il mettersi le dita nelle narici. Una speciale
regola sociale, non esplicita, ci porta a ignorare l’adattatore altrui (specialmente se del
tipo maleducato) e distogliere lo sguardo; si segue in questo modo una regola sociale
implicita secondo cui è considerato più maleducato chi guarda di chi esegue il gesto.
(ii) Eteroadattatori. Sono quei gesti con i quali entriamo in contatto con il corpo degli
altri, come battere una mano sul ginocchio o sulla spalla di un’altra persona.
Appartengono a questa sottocategoria anche i movimenti posturali di avvicinamento.
(iii) Oggetto-adattatori. Fanno parte di questa sottocategoria i gesti con cui utilizziamo la
manipolazione degli oggetti per alleviare la tensione che si produce in una certa situazione (ad esempio, giocare con la penna, con gli occhiali, ecc., mentre si parla).
7. CONCLUSIONI
Il presente lavoro si è posto l’obiettivo di fornire alcuni elementi minimi e basilari
relativi allo studio della gestualità, che possano essere utili (se non addirittura imprescindibili) sia nell’ambito della prima informazione didattica, sia nella impostazione
di una ricerca concreta sul gesto nella vita quotidiana.
Si è innanzitutto cercato di mostrare come lo studio della gestualità si inquadri
all’interno di quello più vasto del comportamento non verbale e della espressività corporea in generale. Poiché a quest’ambito appartiene anche l’espressività facciale, si è
distinta la sfera di interesse del comportamento mimico (relativo alle espressioni derivanti dal movimento dei muscoli facciali, oggetto di studio di una disciplina pienamente scientifica, che cerca di mettere in corrispondenza questi movimenti con le
emozioni provate dal soggetto che tali espressioni produce) da quello della fisiognomica, ambito di ricerca pseudoscientifico che pretende di mettere in corrispondenza i
tratti fissi del volto di un individuo con un presunto carattere fondamentale dell’animo (o psicologico, come si direbbe oggi). Per quanto non scientifico nei suoi presupposti, il sistema di abbinamento prodotto storicamente dalla fisiognomica deve esse-
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re oggetto di una consapevolezza da portare pienamente alla luce, perché è alla base di
giudizi irriflessi che diamo nel leggere il volto di una persona (simpatia, affidabilità,
doppiezza, mansuetudine, irosità, ecc.), derivanti da una lunga tradizione culturale ed
è spesso alla base del nostro pregiudizio nei confronti delle persone che non conosciamo.
Si è poi ritenuto utile di mostrare che, per quanto lo studio dell’espressività corporea abbia il suo battesimo moderno in Darwin, tuttavia un interesse per i gesti risalga
all’antichità classica, a partire dalle intuizioni di Platone fino ad una analisi sistematica dei gesti dell’oratore fornita da Quintiliano. Abbiamo illustrato anche alcune tappe
successive (gli studi di Bonifacio e di de Jorio) per mostrare come l’interesse per i
gesti, pur perseguendo scopi spuri (come quello di de Jorio, che era finalizzato alla
ricostruzione del significato dei gesti nelle pitture vascolari e tombali dell’antichità)
possa approdare ad una descrizione etnograficamente ineccepibile dei gesti di una
certa comunità (in quel caso, la popolazione di Napoli nell’Ottocento).
A queste considerazioni preliminari abbiamo fatto seguire alcune riflessioni relative alla possibile classificazione moderna del gesto, distinguendo tra “classificazioni
universali” e “classificazioni particolari”. Le prime hanno come scopo di mostrare e
relazionare tra loro i vari ambiti di emergenza della gestualità dovunque essa si manifesti, sia dal punto di vista geografico, sia da quello etnologico, sia da quello della finalità pratica.
Una classificazione “particolare” ha invece lo scopo di mostrare, in modo analitico,
le distinzioni tra i vari tipi di gesti che si trovano caratteristicamente in un ambito specifico. A questo proposito abbiamo illustrato la classificazione proposta da Ekman e
Friesen che si concentra sui gesti della vita quotidiana soprattutto nella civiltà occidentale; essa è stata scelta anche per i suoi caratteri di completezza, chiarezza e generale consenso.
Molte sono le esclusioni degli argomenti relativi alla gestualità che abbiamo di
necessità operato. Innanzi tutto non abbiamo trattato un sistema gestuale molto
importante: quello dei sordo-muti. Rimandiamo per esso ad uno studio recente di
Tommaso Russo (2004), nel quale viene presentata un’ampia e lucida sintesi delle
caratteristiche della LIS (Lingua Italiana dei Segni).
Negli ultimi decenni poi sono state proposte molte ricerche che approfondiscono
aspetti particolari nello studio della gestualità e dell’espressività corporea: tra queste
ricerche segnaliamo in particolare il volume curato da Adam Kendon (1981), che raccoglie i saggi usciti sulla rivista Semiotica (organo ufficiale dell’Associazione
Internazionale di Studi Semiotici) fino a quella data. A questo volume devono essere
aggiunti i vari articoli che si occupano di gestualità usciti sulla medesima rivista da
quella data ad oggi. In secondo luogo segnaliamo il recente volume di David McNeill
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(2000), dove sono raccolti saggi sia sulla configurazione fisica dei gesti, sia sugli aspetti cognitivi che il gesto coinvolge (essendo quello cognitivo uno dei più recenti indirizzi di ricerca sulla gestualità).
Bibliografia
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I gesti. Appunti per una semiologia in costruzione
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A LEZIONE DAL CORPO
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Etologia e antropologia.
Elementi per uno studio del comportamento umano
Claudio Tugnoli
1. LA SCIMMIA NUDA
Per Desmond Morris l’uomo rimane essenzialmente un primate, una “scimmia in
crisi”; di questa ha condiviso nel tempo alcuni modelli di comportamento, distanziandosene progressivamente attraverso i seguenti attributi: «In primo luogo, per
sopravvivere l’uomo era obbligato a cacciare. Secondariamente, doveva avere un cervello migliore in modo da compensare il suo corpo non adatto alla caccia. Terzo, doveva avere un’infanzia più lunga per far sviluppare questo voluminoso cervello e per
educarlo. Quarto, le femmine dovevano rimanere a casa a badare ai piccoli mentre i
maschi andavano a caccia. Quinto, i maschi dovevano collaborare tra loro durante la
caccia. Sesto, perché la caccia avesse buon esito, dovevano mantenersi in posizione
verticale e usare le armi»1.
2. INTERAZIONE, ASSOCIAZIONE, DISTINZIONE DI GENERE
Gli elementi fondamentali di ogni cultura sono radicati in esigenze biologiche,
sono persistenti nel tempo, sono orientati al mantenimento dell’integrità degli individui associati e garantiscono la sopravvivenza dell’aggregazione di organismi viventi.
La nozione di cultura collega strettamente la biologia all’etologia e all’antropologia
culturale. Hall distingue alcuni presupposti comuni a tutte le culture del pianeta2.
L’interazione si svolge nel tempo e nello spazio; gli schemi di interazione diventano più
complessi man mano che si evolvono sulla scala filogenetica. L’associazione comincia
quando due cellule si uniscono. Tutti i viventi si organizzano in qualche tipo di associazione, come i termitai, i greggi di pecore, le mandrie di buoi o le società umane. Tutti i
viventi devono risolvere il problema della loro sussistenza: essi hanno diverse esigenze di
1
D. Morris, The naked ape. A zoologist’s study of the human animal, Dell Publishing Co., New York 1967, trad. it., La
scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo, di M. Bergami, Bompiani, Milano 2003, p. 67.
2 E.T.Hall, The silent language, Doubleday, New York 1959, trad. it., Il linguaggio silenzioso, Garzanti, Milano 1972.
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Etologia e antropologia. Elementi per uno studio del comportamento umano
nutrizione e diverse modalità di procurarsi il cibo e di conseguenza diversi codici di comportamento e sistemi di valore in rapporto al reperimento dei mezzi di sostentamento. In
tutte le culture è presente la distinzione tra maschio e femmina, con la relativa attribuzione di comportamenti e atteggiamenti esclusivi per ciascuno dei due sessi; ciascun individuo è riconosciuto come appartenente a un sesso o all’altro in base a un codice stabile.
3. TERRITORIALITÀ
Tutti gli organismi viventi devono appropriarsi di un territorio, usarlo per le necessità vitali e difenderlo da intrusi o nemici esterni. Tale esigenza si chiama territorialità. Le
diverse comunità animali possono appropriarsi di spazi contigui o complementari, a
seconda che esistano confini comuni, come tra i territori controllati da diversi branchi di
lupi, oppure che non esistano confini comuni, come nel caso delle aree controllate rispettivamente dagli animali carnivori e dalle api. Oggi l’umanità deve fare i conti con la difesa dell’intero pianeta, il solo territorio la cui integrità sia veramente decisiva per la sua
sopravvivenza. I nemici di questo territorio globale, che è di tutti e di nessuno, sono proprio gli stati nazionali, che considerano ancora di primaria importanza la difesa esclusiva, costi quel che costi, dei propri interessi materiali immediati. Il disastro del pianeta
non sarà fermato dalle buone intenzioni e dai proclami, ma solo da un intervento coercitivo e da governi responsabili, capaci di promuovere l’impiego su vasta scala di fonti di
energia rinnovabili e di sostenere la diffusione di mezzi di trasporto non inquinanti.
4. TEMPO
Il modo di trattare il tempo è profondamente diverso da una cultura all’altra. Esiste
un vero e proprio linguaggio del tempo. Non si può interagire con un’altra cultura se
non si impara il significato che il tempo assume in questa cultura, a quali condizioni è
sottoposto, come viene concepito. Esiste un generale accordo tra gli antropologi sull’importanza fondamentale del codice temporale per definire, comprendere e vivere in
una cultura. Il tempo è fondamentale per tutte le forme di vita, a partire da quelle inferiori. La vita si fonda su di un sostrato che è governato da ritmi e cicli oggettivi: respirazione, ciclo mestruale, veglia/sonno, ecc.A questo sostrato si sovrappongono le convenzioni relative alla misurazione del tempo (unità di misura, periodizzazioni di
lungo termine, sistemi ciclici, ecc.)3.Anche la percezione della durata temporale è pro3
C. Tugnoli (a cura di), Diacronia e sincronia. Saggi sulla misura del tempo, FrancoAngeli, Milano 2000.
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fondamente diversa da una cultura all’altra: si pensi ad esempio a partire da quale
tempo di attesa una persona è considerata in ritardo a un appuntamento. Questo
tempo di attesa è sottoposto a un codice non scritto4.
5. APPRENDIMENTO
L’apprendimento non riguarda solo l’uomo, ma anche gli animali.
L’apprendimento diventa un meccanismo di adattamento in seguito all’apparizione
degli animali a sangue caldo, dotati di un meccanismo di omeotermia, cioè di controllo del grado di temperatura interno del corpo; l’emancipazione della dipendenza
dell’organismo dalla temperatura esterna impone tuttavia lo sviluppo di determinate
facoltà di adattamento all’ambiente, tra cui anche l’apprendimento. La formazione del
linguaggio ha consentito la conservazione del contenuto dell’esperienza di apprendimento nella memoria storica e nella tradizione. Il linguaggio dunque ha potenziato
infinitamente gli effetti e la portata dell’apprendimento e quindi ha moltiplicato le
modalità di adattamento consentite dall’apprendimento cumulativo. L’importanza
dell’apprendimento è primaria in relazione alla cultura, che è un insieme di comportamenti appresi e condivisi da tutti coloro che si riconoscono come appartenenti a una
certa comunità. È un’acquisizione che risale al positivismo evoluzionistico (Darwin,
Spencer). Gli individui appartenenti a una certa comunità apprendono ogni tipo di
regola e di divieto come principi di comportamento inderogabili, la cui violazione
metterebbe in pericolo l’esistenza della comunità o la loro stessa vita. Il significato
antropologico del sistema di credenze morali che governa una certa società consiste
nel fatto che di solito alcuni comportamenti sono vietati in assoluto, alcuni sono prescritti in assoluto, altri sono permessi e lasciati all’arbitrio individuale. René Girard,
nel contesto della sua antropologia mimetica, ha mostrato che i divieti, accanto ai
rituali, hanno l’importante funzione di tenere sotto controllo la violenza che il desiderio mimetico incontrollato può innescare in qualsiasi momento5.
4
E. T. Hall, The dance of life: the other dimension of time, Garden city, New York (NY) 1984.
R. Girard, La violence et le sacré, trad. it, La violenza e il sacro, a cura di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1972;
Id., Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978, trad. it., Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983.
5
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6. DIVERTIMENTO
Ogni cultura concede uno spazio al divertimento, che ha un’importanza vitale. Il
tipo di umorismo di un popolo riflette aspetti sostanziali della cultura di appartenenza. La relazione tra divertimento e apprendimento è molto stretta. Esistono attività che
appartengono all’una e all’altra categoria, come il gioco degli scacchi. Ma ogni gioco
di competizione presenta un aspetto per il quale i giocatori sono indotti a perfezionare qualche particolare abilità, il cui apprendimento e affinamento è necessario per
vivere in quella cultura. I giochi di guerra sono un’ulteriore dimostrazione del legame
stretto tra l’attività ludica e le funzioni fondamentali legate alla sopravvivenza della
specie, come la sussistenza, la territorialità e la difesa. I giochi si possono interpretare
sul piano antropologico come il risultato dell’astrazione dei singoli momenti di un
unico processo mimetico (imitazione reciproca, rivalità conflittuale, parossismo
mimetico, selezione della vittima da espellere) che nella realtà dei rapporti umani è
destinato a sfociare nella violenza. L’attività ludica non è in ogni caso puramente
secondaria e contingente6. Secondo una certa teoria le espressioni ludiche dei bambini riprendono in modo spontaneo attività che nell’evoluzione filogenetica sono state
superate o comunque ridimensionate, come la caccia o la guerra. In realtà i bambini,
giocando, imitano gli adulti o, per meglio dire, quello che sanno di loro. L’attività ludica svolge un ruolo cognitivo importante come fase di preparazione delle attività
cosiddette serie, nella formazione del pensiero astratto7. Il significato formativo del
gioco consiste essenzialmente nel fatto che lo svolgimento di una certa attività ludica
e l’eventuale risultato non sono irreversibili, il giocatore può sempre ricominciare da
capo e nessuna partita è mai l’ultima. Nel gioco, come in generale nelle attività di
simulazione, è assicurato al giocatore il pieno controllo della situazione complessiva.
A differenza di ciò che accade nella vita, il giocatore entra nel gioco spontaneamente,
è messo al corrente delle regole e dichiara di condividerle, conosce perfettamente le
conseguenze di un suo ritiro prematuro o gli effetti di una sconfitta (dipende dal tipo
6
R. Caillois, Les jeux et les hommes. Le masque et le vertige, Gallimard, Paris 1967, trad. it., I giochi e gli uomini. La
maschera e la vertigine, di L. Guarino, con note di G. Dossena, Bompiani, Milano 2000; Id., L’homme et le sacré,
Gallimard, Paris 1939, trad. it., L’uomo e il sacro, a cura di Ugo M. Olivieri, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
7 L.S. Vygotskij, Myslenie i rec’: psihologiceskie issledovanija, Gosudarstvennoe Social’no-Ekonomiceskoe Izdatel’stvo,
Moskva-Leningrad, 1934, trad. it., Pensiero e linguaggio: ricerche psicologiche, Laterza, Roma-Bari 1990; Id., Mind in
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di gioco); e, infine, potrà essere riammesso a giocare un’altra partita senza che l’esito
delle giocate precedenti pregiudichi la sua accettazione da parte degli altri giocatori.
7. DIFESA
Uomini e animali condividono la necessità di difendersi da pericoli e attacchi
imprevisti.Alla funzione di difesa corrisponde un’attività molto specializzata, con tecniche riconoscibili, tipiche di ogni specie. Gli etologi identificano tra i comportamenti di difesa anche il mimetismo di certe specie, che simulano forme e colori dell’ambiente circostante per evitare di essere riconosciuti e attaccati. L’uomo ha dovuto
difendersi non solo da nemici esterni, ma anche da insidie interne, in particolare dalla
violenza ricorrente che distrugge le stesse condizioni di esistenza della comunità. Il
meccanismo del capro espiatorio è un sistema di difesa dalla violenza generalizzata;
esso si fonda sull’individuazione di una vittima che, a certe condizioni, è sacrificata al
posto della comunità. Il sistema di espulsione vittimaria è un meccanismo quasi fisiologico di eliminazione della violenza che è possibile adottare anche nei rapporti con le
comunità umane esterne con le quali si entra in competizione.
8. COMUNICAZIONE
La comunicazione è un processo di interazione che riguarda tutti gli esseri viventi,
siano essi dotati di coscienza oppure no. Il sistema immunitario di un organismo si
può considerare un caso particolare di struttura comunicativa, in cui intervengono
fenomeni di segnalazione e riconoscimento. Il rapporto fondamentale stimolo/risposta è la base su cui si evolvono tutti i sistemi più complessi di comunicazione tra esseri viventi: lo stimolo diventa un segnale, il segnale un messaggio intenzionale. La
risposta automatica diventa una reazione specifica e questa a sua volta esprime una
valutazione del messaggio ricevuto. L’evoluzione del linguaggio verbale non ha sostituito totalmente la comunicazione corporea; ma le forme più evolute di comunicazione permettono anche di mentire, simulare e dissimulare. L’intenzionalità comunicativa quindi introduce un elemento di incertezza per il ricevente (ma anche per l’emittente), dal momento che il messaggio ricevuto potrebbe essere distorto o menzognero. Chi riceve il messaggio dunque deve utilizzare altri elementi a disposizione per
valutare il senso e l’attendibilità di ciò che gli viene comunicato oralmente o per iscritto: il contesto del rapporto di comunicazione, la conoscenza che possiede riguardo
all’emittente, i segnali involontari del medesimo soggetto.
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Segnali involontari
Tra i segnali involontari quelli del corpo occupano una posizione di primo piano.
Il vantaggio di questi segnali, che discende direttamente dal loro carattere involontario, consiste nel fatto che essi non mentono in generale e possono quindi rappresentare dei test di attendibilità per ciò che viene asserito e comunicato attraverso il linguaggio o le espressioni facciali - le più controllabili e perciò più manipolabili, del
nostro corpo. Può accadere che, senza mentire in senso proprio, diciamo qualcosa che
non pensiamo veramente, solo per fare piacere al nostro interlocutore, ma in molti
casi basterebbe osservare certi tratti del volto, la postura del corpo, la gestualità, per
cogliere una discrepanza tra il contenuto del nostro discorso e ciò che abbiamo in
mente. Esistono dei segnali fisici che parlano nostro malgrado, perché nessuno possiede una completa padronanza del proprio corpo. In generale il corpo delle persone
con cui entriamo in rapporto ci trasmette direttamente informazioni irriflesse riguardo alla sua forza/debolezza, alla sua età, alla sua motivazione e determinazione; il
dinamismo corporeo, il modo di camminare, la scelta dell’abbigliamento, il tono di
voce, il modo di stringere la mano, la distanza alla quale si colloca, ci permettono di
valutare chi abbiamo di fronte in relazione sia ai tratti di fondo della sua personalità,
sia agli stati e agli atteggiamenti passeggeri. Ogni buon detective sa che in molti casi le
persone si tradiscono con un gesto. Morris osserva che il volto è la parte del corpo più
facile da disciplinare. Ciò dipende dalla maggiore conoscenza che abbiamo del nostro
volto (attraverso lo specchio, le riproduzioni fotografiche, il ritratto e, eventualmente,
la caricatura), rispetto alle posture del corpo o ai movimenti degli arti inferiori. I
movimenti delle gambe e dei piedi sono quindi quelli di cui siamo meno consapevoli; essi sono perciò degni del massimo interesse dal punto di vista della comunicazione espressiva, perché lasciano trapelare molta informazione sullo stato interiore del
nostro interlocutore. Possiamo dunque ricevere segnali contraddittori dalla stessa
persona riguardo lo stesso oggetto. Partendo dal presupposto che i segnali automatici
sono i più attendibili perché è impossibile controllarli, Morris ha stabilito una graduatoria di attendibilità dei diversi comportamenti che schematicamente si può riprodurre qui in ordine decrescente:
a) segnali automatici: arrossire, impallidire, sudare;
b) segnali corrispondenti a movimenti delle gambe e dei piedi;
c) segnali corrispondenti ai movimenti del tronco;
d) gesticolazione spontanea delle mani;
e) gesti della mani identificabili e deliberate;
f) espressioni facciali.
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Gli atteggiamenti e i tratti del corpo non permettono solo di risalire a emozioni,
intenzioni e ideazioni contingenti del soggetto che li esprime, ma possono anche essere oggetto di uno studio sistematico da parte della fisiognomonica (o fisiognomica,
che vanta un’illustre tradizione) e della psicologia. Lo scopo è quello di delineare un
quadro generale delle strutture caratteriali degli individui come disposizioni permanenti, i tipi caratteriali (tipo schizoide, orale, psicopatico, masochista, ecc.). Il modo in
cui scegliamo l’abbigliamento, la cura delle mani, la scelta di portare la barba oppure no
sono tutti elementi con i quali comunichiamo agli altri qualcosa di preciso, spesso tanto
più importante o insidioso quanto meno ne siamo consapevoli. Ad esempio, il segnale
involontario che potrebbe mandare chi porta la barba è (o almeno questa l’interpretazione più comune):“ho qualcosa da nascondere”, oppure “desidero rimanere nascosto”8.
Segnali volontari
I segnali involontari si possono ricondurre alla dimensione espressiva e quindi
hanno un solo codice determinato dalla natura stessa del corpo. Anche i segnali
volontari, nella misura in cui si limitano alla simulazione o alla dissimulazione, obbediscono al medesimo codice del corpo. Ma i nostri comportamenti possono essere
codificati in base a una convenzione definita. Il loro significato dipenderà allora da
convenzioni prestabilite, che variano da una cultura all’altra o da un gruppo di appartenenza all’altro. Questo linguaggio di segnali dipendente da un codice condiviso funziona quando il codice è noto sia all’emittente sia al ricevente. In caso contrario si possono verificare equivoci o incomprensioni nella comunicazione.Ad esempio, nel comportamento a tavola, per comunicare che si è terminato di pranzare in Italia si incrociano le posate sul piatto, mentre in Inghilterra si allineano le posate di lato. Possiamo
anche non essere compresi affatto e il nostro gesto può addirittura passare inosservato: questo vale per quasi tutto il repertorio dei gesti italiani intenzionali e codificati
(es.: passare due volte il dorso della mano destra sotto il mento in sequenza rapida per
segnalare enfaticamente il disinteresse per qualcosa). Ci sono tuttavia gesti che, per
quanto codificati, hanno un significato relativamente indipendente dalla cultura di
appartenenza (ad esempio: picchiettarsi la tempia con l’indice significa quasi ovunque
“è matto”, tranne che in Olanda, dove significa:“è un tipo scaltro”. Secondo Hall le differenze dei codici di comportamento (in rapporto agli atteggiamenti, all’etichetta,
all’uso del tempo, ecc.) sono la cause di molti conflitti interculturali9. Dal momento
8
D. Morris, Body talk: a world guide to gesture, Crown Trade Paperbacks, New York (NY) 1994, trad. it., I gesti del
mondo: guida al linguaggio universale, di A. Baldassarini, disegni di A. Austin, Mondadori, Milano 1995; Id.,
Manwatching: a field guide to human behavior, University of Chicago Press, Chicago 1977, trad. it., L’uomo e i suoi gesti:
la comunicazione non verbale nella specie umana, Mondadori, Milano 1978.
9 E. T. Hall, The hidden dimension, Doubleday, New York (NY) 1966, trad. it., La dimensione nascosta, introduzione di
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Etologia e antropologia. Elementi per uno studio del comportamento umano
che nella comunicazione attiva il contenuto trasmesso dal discorso rappresenta solo
una parte molto limitata di ciò che normalmente si comunica in modo complessivo
(abbigliamento, tono di voce, gestualità, espressione del viso, ecc.), l’apprendimento
linguistico puro e semplice si può considerare solo una parte degli strumenti cognitivi e delle competenze relazionali di cui gli esseri umani devono entrare in possesso per
interagire con i loro simili a ogni latitudine.
Per un’intesa interculturale
L’uomo planetario, a partire dall’identità specifica che esprime la sua biografia,
non può limitarsi a conoscere solo la lingua del suo interlocutore o la lingua in cui può
intendersi con lui, ma deve anche predisporsi all’apprendimento di codici di comportamento, di modalità e di stili relazionali adatti alle circostanze e alle attese, allo scopo
di prevenire le dissonanze e i conflitti. Ci sono comportamenti e gesti il cui significato è immediatamente evidente per la loro universalità (ad esempio prostrarsi in ginocchio davanti a qualcuno), ma altri sono governati da codici del tutto convenzionali. La
familiarizzazione con queste dimensioni non linguistiche e non verbali della comunicazione permette un’interazione più profonda e la creazione di legami empatici che
favoriscono il riconoscimento dell’altro come fratello e amico. La comprensione dell’altro può così avvalersi di uno sforzo ermeneutico che non si limita solo ad afferrare
il contenuto astratto del pensiero, ma si arricchisce della trasmissione reciproca di un
vissuto che, per essere compreso nella sua umanità, presuppone uno sforzo di identificazione nell’altro, un ri-vivere la sua condizione sul piano emotivo e materiale. Il
valore del linguaggio del corpo nella comunicazione è drammaticamente dimostrato
da un episodio riferito da Morris. Due giovani svedesi, in vacanza in un paese del
Mediterraneo, superano a nuoto un promontorio e approdano a una postazione militare costiera. Una sentinella armata fa loro segno di andare a riva perché ha intenzione di
interrogarli. Ma i due svedesi interpretano in senso opposto il gesto della sentinella, pensando che questo significhi l’ingiunzione loro rivolta di tornare indietro. La sentinella
pensa così di avere la prova che si tratta di spie che si danno alla fuga, spara e li uccide. Il
motivo dell’equivoco, spiega Morris, sta nel gesto di richiamo che in Europa settentrionale si fa con il palmo all’insù, mentre nell’Europa meridionale si fa con il palmo all’ingiù. Per un abitante dell’Europa del Nord il palmo all’ingiù significa “vattene”10.
U. Eco, Bompiani, Milano 1996; E. T. Hall e M. R. Hall, Understanding cultural differences, Intercultural Press,Yarmouth
1990.
10 D. Morris, The Naked Eye, Trade Paperback 2001, trad. it., L’occhio nudo. Giro del mondo alla scoperta dell’uomo, di
S. Coyaud, Mondadori, Milano 2002, p.94.
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Note storiche
L’importanza del linguaggio dei gesti è attestata da un’illustre tradizione di ricerca.
Jean-Jacques Rousseau è autore di un Essai sur l’origine des langues, in cui la gestualità è considerata il linguaggio di cui si avvaleva l’uomo per esprimere i propri bisogni
fisici, nella fase anteriore la formazione della vita associata. La riflessione di Rousseau
sull’origine del linguaggio e sul linguaggio dei gesti come lingua naturale si inserisce
in una corrente di studi di cui abbiamo diffuse testimonianze a partire dal XVII secolo, nel quale si assiste a un proliferare senza precedenti di ricerche e riflessioni sui gesti
come “segni” e sul “linguaggio dei gesti” come lingua naturale, universale e primitiva
dell’umanità. Tale riflessione partiva dalla necessità di risolvere un problema pratico la comunicazione dei sordomuti - di cui il Medioevo non si era preoccupato. Fino al
XIX secolo lo studio del linguaggio dei gesti in rapporto all’origine del linguaggio e
l’approfondimento delle tecniche di comunicazione dei sordomuti andranno di pari
passo. Diderot avrebbe affrontato la questione nella Lettre sur les sourds-muets e nel
1791 l’Assemblea costituente fondò il primo Istituto nazionale dei sordomuti. Nel
XVII secolo le speculazioni sul carattere originario della comunicazione gestuale mettono a confronto i gesti, la lingua primitiva e universale dell’umanità, con la scrittura.
Si elabora così un’analogia illuminante, in cui la presupposta universalità dei gesti si
troverebbe nello stesso rapporto, rispetto alle lingue nazionali, in cui si collocano i
geroglifici egiziani o gli ideogrammi cinesi rispetto alle scritture più recenti, basate
sull’alfabeto. I gesti potevano allora definirsi i geroglifici del corpo, instabili e transitori, secondo la definizione di Francesco Bacone11. La questione del gesto diventa così
centrale nel dibattito moderno sul rapporto tra natura e cultura, tra umanità e animalità, tra ragione e passione. Il gesto compare nell’Essai d’une distribution généalogique des sciences et des arts principaux dell’Encyclopédie. Si tratta di un’incisione che
rappresenta un albero genealogico, le cui radici sono l’Intelletto e la Ragione, il tronco si suddivide in Logica, Grammatica e Segni. I Segni si suddividono nei Caratteri
(Geroglifici e Blasoni) e nel Gesto (Pantomima e Declamazione)12. Nel riconoscimento del gesto come espressione del sentimento e quindi come linguaggio di tutti i popoli, comprensibile a tutte le latitudini, si deposita un’antica e illustre tradizione, che si
collega alla fisiognomica e alla retorica classica. Il legame tra linguaggio e gesto è riconosciuto da Aristotele, Lucrezio, Cicerone, Quintiliano13. Il gesto è un movimento
11
J.-C. Schmitt, La Raison des gestes dans l’Occident médiéval, Gallimard, Paris 1990, trad. it., Il gesto nel medioevo, di
C. Milanesi, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp.333-334.
12 J.-C. Schmitt, op. cit., pp. 334-335.
13 In questa sede non è possibile approfondire la vasta tematica qui accennata. Per una trattazione generale, cfr.: G.
Manetti, Le teorie del segno nell’antichità classica, Bompiani, Milano 1987.
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Etologia e antropologia. Elementi per uno studio del comportamento umano
espressivo del corpo, attraverso il quale è possibile risalire alle passioni dell’anima e ai
tratti permanenti del carattere. Rousseau, sensibile all’influenza di Condillac, rompe
con questa tradizione: il gesto si configura come mero strumento di comunicazione di
bisogni, non più, come secondo la tradizione, espressione dei movimenti dell’anima,
delle passioni. Dopo Rousseau, la tradizione riprende il sopravvento e i gesti riacquistano la loro funzione espressiva.
Il principio dell’handicap
Studiando la comunicazione nelle società animali è possibile imparare qualcosa
anche sulla comunicazione tra gli esseri umani, senza cadere, s’intende, in alcuna
forma di riduzionismo. Ma se si rinunciasse all’analogia, al parallelismo e all’analisi
genetica molti aspetti della realtà rimarrebbero incompresi o, peggio ancora, non
sarebbero percepiti. Amotz e Avishag Zahavi illustrano un modello di spiegazione del
comportamento animale che può essere applicato anche agli esseri umani. L’idea di
fondo è che i segnali funzionano solo se sono attendibili e per essere attendibili devono essere costosi. Il costo è l’handicap che l’emittente del segnale procura a se stesso.
Segnale e messaggio trasmesso sono correlati: «La gazzella mostra la sua sicurezza
grazie all’abilità di sfuggire al predatore richiamando l’attenzione su di sé e spendendo tempo ed energia preziosi, dei quali avrebbe bisogno per la fuga se il segnale non
fosse inteso. Il pavone dimostra la sua forza e agilità portandosi appresso un pesante
fardello, esattamente come fa un cervo con il suo pesante palco. Ogni segnale è strettamente correlato al messaggio. Un uomo può per esempio mostrare coraggio sprezzando il pericolo; ma questo non servirebbe a nulla per dimostrare la sua ricchezza,
che semmai potrebbe essere comprovata con lo spreco di denaro»14.
Per stabilire l’attendibilità del segnale gli autori propongono un criterio logico che
riguarda l’investimento di risorse nel segnale da parte dell’emittente: le risorse investite nel segnale devono essere solo una parte di quelle effettivamente possedute dall’emittente, in caso contrario si può parlare di finzione dato che il segnale non risulta
attendibile.
Segnali di potenza
Tra gli esseri umani molti comportamenti possono assumere la funzione di segnali,
volontari o involontari, spesso recepiti in modo inadeguato o fuorviante. Tra i segnali il
principio dell’imitazione è fondamentale, sta all’origine dell’attitudine a parlare e alla
base dell’apprendimento. L’imitazione che ha come obbiettivo la riproduzione del
14 Amotz
e Avishag Zahavi, The Handicap Principle. A Missing Piece of Darwin’s Puzzle, Oxford University Press 1997,
trad. it., Il principio dell’handicap. La logica della comunicazione animale, Einaudi, Torino 1997, pp. 4-5.
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richiamo di un’altra specie tende a prevenire un possibile conflitto, a bloccare sul nascere la violenza possibile. L’imitazione reciproca, al contrario, è il motore della violenza.
Portiamo un esempio: le ombre notturne possono incutere un terrore indefinito,
come se ci fossero aggressori nascosti nel buio pronti a colpire, ai quali si risponde talvolta con energici fischi, segnalando a tali esseri mostruosi che sono stati individuati
e che si è pronti a combattere. Portiamo questo esempio dall’esperienza individuale ad
una dimensione nazionale: la produzione di armi ad enorme potenziale distruttivo, le
parate militari e tutto ciò che può funzionare come apparato segnalatore di potenza e
forza invincibile sono i segnali che le nazioni mandano a tutti, amici e nemici, per prevenire, se possibile, attacchi che, così suona il messaggio, avrebbero ben scarsa possibilità di successo. L’obiettivo può non essere immediatamente quello di attaccare, ma
piuttosto di scoraggiare un attacco del nemico, di deviare la sua attenzione su altri
obbiettivi. Ma affinché il segnale sia attendibile lo spreco di risorse (il costo, l’handicap) deve essere elevato. Anche qui però non deve essere talmente elevato da porre
l’intera nazione in uno stato di tale debolezza e sfinimento che le impedisca di gestire
un eventuale impiego della forza nel caso in cui il segnale non fosse recepito come
attendibile. Il comportamento individuale degli esseri umani presenta numerosi casi
in cui è facile trovare applicato questo principio dell’handicap. L’ostentazione di sicurezza, il coraggio, lo sprezzo del pericolo, la generosità sconfinata, sono comportamenti che funzionano come segnali nel senso qui descritto, segnali che comunicano
un messaggio che informa sulla condizione dell’emittente: per essere attendibili, questi segnali devono impiegare una grande quantità di risorse. Essi risultano tanto più
veridici e affidabili, quanto maggiore è il loro costo. Anche qui vale però la stessa
restrizione: l’impiego di risorse non deve essere tale da mettere in difficoltà l’emittente qualora il segnale non sia recepito. I segnali di minaccia devono dunque avere un
costo ragionevole che non hanno nel caso dell’imbroglio. Chi manda un segnale di
minaccia deve essere in grado di affrontare un costo che l’imbroglione non può permettersi, cioè il rischio che comporta lo stesso segnale.
Segnali di prestigio
Tra maschi e femmine delle diverse specie sussiste un conflitto (essi si comportano nel corteggiamento come se fossero dei rivali, in cui il maschio cerca di persuadere una femmina ad accoppiarsi con lui), un conflitto risolto attraverso la comunicazione, che funziona sulla base dell’evoluzione di segnali attendibili. Uno di questi
segnali è il canto, che può dimostrare alla femmina l’abilità del maschio nel procurarsi il cibo, dato che il tempo usato per cantare non può essere impiegato per nutrirsi:
«Un maschio che corteggia accollandosi l’handicap di cantare continuamente, prova
di avere bisogno di meno tempo per nutrirsi, o perché è molto efficiente o perché il
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Etologia e antropologia. Elementi per uno studio del comportamento umano
suo territorio è molto ricco»15. Altri indicatori della capacità di procurarsi il cibo possono essere le esibizioni di danza o la guardia, in cui lo spreco di tempo segnala il possesso di grandi abilità nella ricerca del cibo (che richiede tempo) e funziona in base al
principio dell’handicap. Qualcosa di simile accade anche negli esseri umani che possono trasformare l’uso del tempo libero (fine settimana, ferie, vacanze, ecc.) in occasione per segnalare che la loro capacità di provvedere alle esigenze materiali è così
evoluta da potersi permettere di trascorrere nell’ozio un tempo maggiore di quello che
possono concedersi altri membri della loro specie.
Le decorazioni del corpo di numerose specie si sono evolute come simboli di status e svolgono il ruolo decisivo nella comunicazione intra- e interspecifica di segnalare le qualità dell’individuo che le esibisce. Le decorazioni sono segnali destinati a individui che portano le stesse decorazioni. Tali decorazioni sono degli handicap (anche
se non comportano handicap fisici), «dal momento che danneggiano la capacità degli
individui di bassa qualità di presentarsi agli altri in un modo che sia loro utile nei conflitti sociali»16. Tutti i segnali richiedono un dispendio energetico che sarà tanto più
grave e creerà maggiore svantaggio negli individui di scarsa qualità. Questo comporta che, per difendere la tradizione del proprio casato e ottenere rispettabilità, molti
individui si sobbarcano onerose esibizioni di potenza finanziaria con l’intenzione di
inviare messaggi che siano percepiti come prove inconfutabili del loro prestigio (quasi
che fosse possibile costruire e alimentare il proprio carisma mediante il possesso di
un’auto di lusso o di qualche altro status symbol): ecco un esempio eloquente della
varietà dei modi in cui può funzionare il principio dell’handicap.
Evoluzione dei segnali
Se si considerano i segnali convenzionali con cui gli esseri umani interagiscono
(avvisi di qualsiasi genere secondo codici diversi, ecc.) si vede che essi funzionano
senza alcun costo o dispendio. Ma in natura, secondo i coniugi Zahavi, non esistono
segnali di questo tipo. Tutti i loro esempi «mostrano una chiara connessione tra
segnali anche piccoli, non appariscenti, e le caratteristiche che questi segnali mettono
in risalto; tutti i segnali aumentano la capacità dell’osservatore di individuare la superiorità o le imperfezioni degli animali che li esibiscono. Più l’individuo presenta difetti, più la decorazione è costosa»17. Infatti per risultare attendibili i segnali devono essere costosi e la capacità di osservare e capire i segnali si evolve per selezione utilitaristica come qualsiasi forma di adattamento. L’evoluzione non seleziona solo gli indivi-
15 Amotz
e Avishag Zahavi, op. cit., p. 43.
e Avishag Zahavi, op. cit., p. 82.
17 Amotz e Avishag Zahavi, op. cit., pp. 83-84.
16 Amotz
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dui capaci di inviare segnali attendibili, ma anche quelli capaci di osservare e capire i
segnali. Gli autori ammettono che spesso è difficile valutare se un certo carattere sia
solo un segnale o abbia invece un’altra funzione, ma la distinzione è comunque
importante. Il tratto che contraddistingue il segnale è la relazione con un costo, un
investimento. L’evoluzione di segnale è diversa da quella di tutti gli altri caratteri. Se il
costo del segnale diminuisce fino al punto che ogni individuo è in grado di usarlo,
allora il segnale perde il suo valore e diventa inutile, dato che non serve più per
mostrare e apprezzare le differenze di qualità tra gli individui. Il segnale è così destinato a scomparire perché la sua attendibilità dipende da un costo che non c’è più. Le
cose vanno diversamente per gli altri caratteri, che invece non vengono deposti se il
loro costo diminuisce. A differenza degli altri caratteri, in cui i costi sono un effetto
collaterale, i segnali sono intrinsecamente connessi ai costi necessari per emetterli. I
costi sono la condizione necessaria del segnale: «Se non c’è alcun costo che prevenga
gli imbroglioni dall’usare un segnale a proprio beneficio e a detrimento di chi lo riceve, quel segnale perde il proprio valore in quanto segnale»18.
La stereotipia dei segnali è necessaria per la loro individuazione da parte dei destinatari, mentre la variabilità è la conseguenza necessaria del costo che comporta l’invio
del segnale per l’emittente – costo che varia in rapporto al grado di risorse e al livello
di motivazione. Perciò stereotipia e variabilità sono tratti complementari del segnale,
che risultano dalla selezione di segnale.
Riservatezza e disinformazione
Il principio dell’handicap spiega la prudenza che gli individui devono adottare nel
loro comportamento. Chi si dichiara debole è debole agli occhi del prossimo e può essere trattato di conseguenza, aggravando la sua condizione di subalternità. Nel caso in cui
la debolezza sia nota per altre vie, il segnale di status dovrebbe essere di riserbo, proprio
per trasmettere un’immagine di forza e di carattere. Il principio dell’handicap aiuta a
comprendere l’efficacia e il valore della riservatezza, nonché di tutti i segnali corrispondenti; esso integra la teoria mimetica, giacché il segnale che ha successo impedisce la
degenerazione cruenta del conflitto, mentre l’individuo indifeso, incapace del benché
minimo spreco necessario per l’invio del segnale, si consegna immediatamente al suo
predatore. Nella storia occidentale i cristiani, finché non hanno reagito con le armi alle
persecuzioni, hanno attirato i loro persecutori e si sono sostanzialmente consegnati ai
loro carnefici semplicemente con la rinuncia all’invio di segnali che richiedessero un
certo spreco. Il motivo della segretezza o della disinformazione è tutto qui: si tratta di
impedire che qualcuno ci consideri una facile preda, ci sfrutti e ci sottometta o ci ricatti
18 Amotz
e Avishag Zahavi, op. cit., p. 85.
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Etologia e antropologia. Elementi per uno studio del comportamento umano
in molti modi possibili o semplicemente ci indebolisca pubblicamente diffondendo
un’immagine negativa della nostra persona. La parentela tra animali non umani e umani
è così profonda che il comportamento degli uni aiuta a far luce quello degli altri.
Segnali anatomici
I coniugi Zahavi portano esempi di parti del corpo usate come segnali. La cresta
del gallo si presta egregiamente a questo uso, dal momento che non ha manifestamente alcun altro scopo pratico. La cresta, organo delicato, ricco di vasi sanguigni e
poco protetto, è un handicap in caso di combattimento con un rivale. Una cresta grande e intatta testimonia che, nonostante l’handicap, nessun rivale è riuscito a ferirla,
perché il proprietario della cresta è riuscito a battere i rivali senza essere a sua volta
ferito. «Di conseguenza un gallo con una cresta più grande può spesso vincere senza
combattere, dal momento che la sua cresta, grande e intatta, prova i suoi successi nei
combattimenti precedenti»19. I galli senza cresta possono combattere meglio ma non
sono in grado di minacciare in maniera attendibile e quindi non possono vincere i
loro avversari senza combattere. Un altro segnale è il comportamento di rizzare il pelo
o di arruffare le penne che di solito è spiegato, ma erroneamente, come incremento
apparente della taglia dell’animale. Gli autori sostengono che il corpo di un animale
contornato da peli appare più piccolo di quanto non sia in realtà (ad esempio la testa
di una persona calva o rasata sembra più grande di quanto in realtà non sia): «Gli animali mostrano il pelo ritto e le penne arruffate non per fingere di essere più grossi,
bensì per mostrare in maniera attendibile la loro taglia reale; solo un individuo sufficientemente grosso può permettersi di diminuire l’entità della sua taglia agli occhi dei
suoi rivali o dei suoi collaboratori»20. Chissà se lo stesso principio dell’handicap funziona anche nel caso della crescita di barba e capelli negli esseri umani. Se così fosse,
i barbuti e capelluti non farebbero altro che segnalare la propria superiorità mediante
un handicap che li svantaggia perché li fa apparire più piccoli e vulnerabili. Barba e
capelli infatti, in caso di lotta, sarebbero degli appigli che favoriscono la presa dell’avversario, che potrebbe trarne un vantaggio decisivo. Indubbiamente la barba rende un
uomo più vulnerabile in caso di combattimento; la barba dunque è un handicap e
funziona come segnale della fiducia nella propria forza. Sansone trae la propria forza
dai capelli nel senso che i suoi capelli sono un segnale altamente attendibile della sua
forza. Le parti del corpo che conferiscono uno svantaggio in caso di combattimento
(ad esempio i palchi dei cervi, o la barba sotto il mento) sono degli handicap e quindi svolgono naturalmente la loro funzione di segnali nel senso dei coniugi Zahavi. Le
19 Amotz
20 Amotz
e Avishag Zahavi, op. cit., p. 115.
e Avishag Zahavi, op. cit., p. 118.
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parti del corpo sono tanto più adatte a funzionare come segnali quanto maggiore è la
loro disfunzionalità.
Tra gli esseri umani l’esibizione del consumo di sostanze dannose come alcol,
tabacco, oppio ecc. può spiegarsi nello stesso modo: come esibizione di forza o superiorità mediante spreco di salute, autolesionismo: il costo in termini personali serve
per rendere attendibile il segnale. È come se l’individuo dicesse: sono così forte che
posso permettermi di procurarmi questo danno, perché saprò reagire come nessuno
è in grado di fare grazie al mio vigore speciale. I forti bevitori mostrano di poter bere
grandi quantità di alcol senza ammalarsi, segnalando in modo attendibile il buono
stato di salute di cui godono.
Segnali di extraordinarietà
Nel processo di elaborazione e invio del segnale interpretato alla luce del principio
dell’handicap è presente un aspetto che non è improprio chiamare “magico”. Nelle
gare sportive e nelle prove di competizione atleti e sfidanti esprimono la volontà di
battere ogni record e di superare i loro avversari in virtù del possesso di poteri e forze
straordinari. La loro superiorità è segnalata da un grande, eccezionale dispendio energetico in cui si consuma l’esibizione di un’abilità che aspira ad essere riconosciuta
come eccezionale. Sul podio, l’atleta ottiene finalmente una prova dell’attendibilità del
suo segnale, perché il risultato ufficiale è oggettivo e incontrovertibile. Il risultato conseguito dall’atleta nel corso di una competizione è la prova della sua effettiva superiorità, ma funziona anche come segnale. Coloro che aspirano ad esercitare una funzione di comando indiscussa sugli altri devono dimostrare il possesso di un particolare
carisma, devono dar prova di essere depositari di poteri eccezionali. Il gioco di prestigio, l’incantamento, l’atto magico, il miracolo, sono termini che indicano sostanzialmente lo stesso evento, in cui un individuo, suscitando effetti straordinari con mezzi
ordinari (es.: resuscitando un morto spruzzando acqua sul cadavere) oppure effetti
ordinari con mezzi straordinari (es.: far muovere un oggetto a distanza con la sola
forza del pensiero), invia un segnale ai suoi interlocutori allo scopo di impressionarli
e di sottometterli alla sua autorità.
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In viaggio con i ragazzi:
palestra, palcoscenico e altri luoghi
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Note sui criteri di presentazione dei progetti
Nel riordinare i progetti per questa pubblicazione si è cercato di armonizzare
materiali documentari che all’origine avevano caratteristiche parzialmente diverse.
L’ordine con cui si susseguono i progetti segue l’età dei destinatari, dai ragazzi della
scuola media agli studenti dell’ultimo anno di liceo, lasciando per ultima la pagina
dedicata ad un percorso non realizzato.
Con l’obiettivo di favorire la lettura, si è adottata una forma tripartita che presenta:
a) il “racconto in soggettiva” degli insegnanti;
b) i contenuti e i campi di esperienza;
c) la scheda di progetto.
Come sottolinea una delle insegnanti, un progetto è una creatura vivente che
approfitta anche di occasioni esterne, non previste, per arricchirsi in coerenza con il
percorso tracciato; e in più, nelle esperienze più felici, si sviluppa da dentro, con espansioni suggerite dagli studenti (vedi il lavoro sul video nel progetto del “Rosmini”) o
derivate proprio dal successo ottenuto (il lavoro della scuola media d’arte che si porta
in una dimensione progressivamente più pubblica).
Si è deciso quindi di cominciare dalla fine, procedendo a ritroso: dalla rivisitazione
a posteriori in cui sono incorporate anche le voci dei ragazzi, alla sintesi del progetto
che, rispetto all’ipotesi iniziale, raccoglie anche gli elementi nati in corso d’opera.
a) Le relazioni in forma narrativa forniscono dati di contesto, entrano nel merito dei
contenuti e delle dinamiche, problematizzano, evidenziano risultati, ricadute,
espansioni del progetto nell’anno successivo. Costituiscono la parte più legata
all’individualità degli autori; fanno riferimento ad una traccia condivisa, ma
rispecchiano soprattutto le peculiarità del percorso, la passione pedagogica, il protagonismo degli studenti.
b) La sezione “Contenuti e campi di esperienza” è una sintesi del percorso operativo;
la scansione in fasi di lavoro non sempre corrisponde ad una reale successione cronologica: in molti casi le aree di esercitazione si sono sovrapposte promovendo
un’analisi dei contenuti e delle attività da più prospettive. Un dato ricorrente è stato
infatti l’intreccio tra momenti operativi, di ricerca, di rielaborazione, che qui
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Note sui criteri di presentazione dei progetti
appaiono separati (ad esempio, l’attività in palestra e la riflessione nello spazio
classe all’interno delle varie discipline coinvolte). Per non appesantire questa parte
alcune attività sono state descritte più analiticamente all’interno della relazione
complessiva.
c) Qualche appunto rispetto all’organizzazione della Scheda di progetto. Gli obiettivi
sono distinti in formativi e cognitivi: una prima proposta portata al gruppo di
lavoro prevedeva una suddivisione simile: obiettivi cognitivi e socio-affettivi, con
una scansione dei primi in concetti, abilità, conoscenze. Interessante e pertinente,
è venuta subito la contrarietà a separare l’area cosiddetta razionale da quella affettiva: “Tanti anni spesi ad affermare l’unitarietà del sapere, cercare di superare la dicotomia corpo/mente e adesso la ritroviamo proprio all’interno di questo progetto!”, è
stata l’insurrezione delle insegnanti. Obiezione accolta: i singoli docenti hanno
esplicitato in modo personale gli obiettivi fissati. In questa sede, consapevoli della
questione, ma anche interessati a facilitare l’identificazione delle aree, separiamo i
formativi (a cui diamo una posizione di precedenza) da quelli cognitivi.Va aggiunto che non compaiono qui alcuni obiettivi, pur indicati nei progetti, relativi allo
sviluppo di abilità trasversali o generali di singole discipline (ad esempio, la capacità di lettura delle immagini, oppure quella di organizzazione di un testo espositivo, ecc.); ugualmente non sono stati inseriti obiettivi di abilità sociale, di metodo
di studio, di comportamento, considerati soggiacenti a tutte le esperienze e esplicitati solo da alcuni degli insegnanti (per altri erano dati come pregressi, o impliciti
rispetto a quelli declinati).
Sembrerà un’omissione poco giustificabile non avere evidenziato la voce
Metodologia; se una parte così determinante può apparire banalizzata nell’elenco
asciutto delle Modalità di lavoro, invitiamo a guardare nelle parti più descrittive:
caratteristica comune a tutti questi progetti, e idea-guida del progetto complessivo, è
stata infatti la doppia dimensione dell’esperienza e della ricerca, con l’uso costante di
proposte dinamiche, dell’interazione tra tutte le parti coinvolte (all’interno del gruppo, tra ragazzi e docenti, con gli esperti e i testimoni). Le Risorse esterne sono state
reperite in quasi tutti i casi tra professionisti (formatori teatrali e sportivi, mediatori
culturali, artisti) che operano sul territorio, individualmente o all’interno di associazioni; si tratta di prestazioni di cui le singole scuole, avendo accettato il progetto, si
sono fatte carico.
Alcuni dei progetti riportano interventi di altri insegnanti e di esperti; questo comporta una disparità di cui siamo consapevoli, ma all’uniformità abbiamo preferito
l’inclusione di materiale descrittivo e di approfondimento dove questo era stato conservato; le tracce dei questionari utilizzati a fine percorso sono state inserite nella
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sezione Mappe e Strumenti.
Anche nello stile della parte narrativa non si è rincorsa un’omogeneità forzata: da
una parte l’aspetto progettuale-metodologico, pur presente, non era un obiettivo
prioritario; dall’altra, le caratteristiche (complessità, tipologia di lavoro, pluralità di
figure professionali, ecc.) dei singoli progetti e lo stile dei diversi insegnanti meritavano di riflettersi nell’azione documentativa. Rispetto quindi agli scrupoli di formalizzazione e di precisa descrizione, abbiamo privilegiato l’emergere dei contenuti e le
voci individuali che li hanno commentati.
In questo siamo anche stati confortati da alcuni orientamenti nella documentazione di progetti educativi che ad una organizzazione descrittivo-lineare preferiscono
una rielaborazione a partire dai nuclei contenutistici e operativi, oltre che dalle
domande e dalle provocazioni di chi sia interessato a ricostruire il percorso. Feconda
soprattutto in una situazione “in presenza”, dialogica, sulla pagina questa modalità
presenta qualche limite; ma gli insegnanti e gli altri operatori di questo percorso restano disponibili a contatti e collaborazioni.
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Il linguaggio del corpo nelle diverse tradizioni culturali
Istituto comprensivo “Trento 4”, Scuola media d’Arte, Trento
Paola Perale
“Ma per l’iniziato che frequenta i boschetti sacri
nella foresta dove si trovano le dimore delle maschere,
ciò che rappresenta la maschera, è soprattutto il viso scolpito.
Ecco perché il viso è conservato con cura.
È a questo simulacro che si indirizzano le preghiere e i sacrifici.
È ancora lui che si porta via quando si abbandonano i luoghi
per installarsi altrove.
È questo viso scolpito, sovente miniaturizzato,
che il primo personaggio mascherato ha trovato in foresta,
o in fondo ad un ruscello o in cima ad una montagna.
Per quale motivo il viso rappresenta tutta la maschera?
Perché la maschera è l’immagine dell’uomo e questo si distingue dagli altri per il suo viso.
Il viso concentra tutta la potenza della maschera perché all’inizio è nel viso
che si è stabilito lo spirito della maschera, prima di rivelarsi al primo portatore.
Quando il primo viso si deteriora e bisogna scolpirne un altro, il portatore deve invocare la maschera
affinché il suo spirito passi dal vecchio al nuovo viso.
La maschera è dunque uno spirito, un genio immortale creato da Dio
e donato agli uomini per organizzarsi, proteggersi e divertirsi”.
(Alla scoperta delle maschere Wè della Costa d’Avorio, dal sito Web della Società delle Missioni Africane)
IL CONTESTO
Da anni la Scuola media d’Arte lavora sull’area corporea, con un’attenzione diretta in particolare all’integrazione di alunni portatori di handicap. I percorsi sui linguaggi non verbali hanno avuto come punto di forza l’operatività e l’interesse per un
prodotto originale (laboratori tematici, analisi di feste civili e religiose, e altro); il tutto
garantito dalla disponibilità particolare dei docenti di educazione artistica e fisica.
Il progetto che qui descriviamo si è inserito in una programmazione pienamente
interdisciplinare, a cui hanno contribuito tutti i docenti dei due consigli di Classe
coinvolti, ognuno per la rispettiva area.
Una prima proposta generale era stata presentata all’inizio dell’anno scolastico
lasciando così il tempo per una ricerca personale. Raccolte poi le varie proposte più
specifiche si è definito il progetto, una sintesi del quale è stata consegnata ai genitori.
Il percorso è stato la prosecuzione del laboratorio e successivo approfondimento
fatto l’anno precedente sulle tradizioni del Natale in una realtà locale (Val di Fassa); di
tale tradizione si è ritrovata traccia studiando l’Ecuador. Questo è diventato il punto
di partenza per un immaginario giro del mondo: un percorso che ha portato la “stel-
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Il linguaggio del corpo nelle diverse tradizioni culturali
la” tra le diverse culture fino a terminare il lungo viaggio nel nostro presepe.
I PROTAGONISTI
La concertazione tra colleghi, il coinvolgimento dei genitori, la consultazione dei
ragazzi hanno fatto di questa esperienza un percorso pienamente partecipativo.
Inoltre, il lavoro con gli esperti e il dialogo già collaudato con il Centro “Martini”
hanno garantito esperienze di particolare intensità; i mediatori culturali Rosa Tapia
Peña e Ousmane Diop hanno permesso una conoscenza diretta di mondi lontani, la
prima curando le danze e illustrando alcune ritualità delle Americhe, il secondo con
la descrizione di aspetti rituali propri di alcune culture dell’Africa centrale.Altrettanto
significativa è stata la collaborazione con l’operatrice e i pazienti del centro “F.
Martini” di Trento per favorire l’accettazione dell’ altro (in questo caso il disabile)
valorizzandone le possibilità.
Non ultima, l’esperienza dello spettacolo con un pubblico differenziato (limitato ai
genitori dapprima e poi via via allargato) ha stimolato al controllo e alla precisione
esecutiva e ha conferito una dimensione sociale al percorso dei ragazzi.
Tutto questo ha favorito un gioco di relazione collettivo, un dialogo con chi entrava con
propri, personali, bagagli culturali e punti di vista, con stili e competenze differenziate.
IL LAVORO
L’itinerario didattico ha utilizzato alternativamente momenti di ricerca e di operatività, di lettura delle immagini e di esposizione dei concetti teorici. Ricerca e sperimentazione, condotte con appropriata metodologia, hanno permesso così ai ragazzi
un apprendimento basato sull’elaborazione personale. Gran parte del lavoro si è svolto a piccoli gruppi; con momenti periodici di verifica collettiva, di programmazione
ed organizzazione della fase successiva.
Una prima fase del lavoro si è basata sulla presa di coscienza della corporeità come
mezzo espressivo, attraverso giochi legati a dati di realtà. Un passo successivo è consistito nel cercare di esprimere il proprio mondo interiore e di entrare in rapporto con
gli altri mediante giochi di ruolo e simbolici; questi forniscono un’ottima possibilità
di lavoro che coinvolge e non annoia, ma anzi permette di avvicinarsi con gradualità
al campo delle emozioni.
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Intrecciamo questo resoconto con le voci dei ragazzi: “Tutto è iniziato a novembre,
quando abbiamo letto e analizzato testi e leggende sulle usanze delle varie culture, documenti storici e geografici e abbiamo cercato di ricavare più informazioni possibili sui
Maori e sui Dogon, su popolazioni del Trentino e sugli Indiani d’America, passando agli
Ecuadoregni fino ai personaggi dei fumetti e quant’altro…”
Mediante il linguaggio gestuale, le danze, le musiche e le maschere, i ragazzi hanno
avuto modo di capire come la cultura altrui possa essere strumento di aggregazione e
l’arte un mezzo di comunicazione tra i popoli.
“Il nostro viaggio attraverso culture e gestualità dei popoli della Terra inizia dalle
danze e dalle maschere della Val di Fiemme; con un grande balzo si passa alle maschere
ed alle ritualità di alcune popolazioni dell’America del Nord, dell’America Latina,
dell’Africa, e dell’Oceania, le quali attraverso la difesa delle culture tradizionali hanno
cercato di resistere alla oppressiva colonizzazione dei paesi occidentali.”
LE MASCHERE
“La parte però più impegnativa è stata la costruzione delle maschere: a gruppi di
circa tre persone bisognava avere un’idea precisa sul tipo di maschere e iniziare a progettarla; ognuno portava il materiale necessario da casa e iniziava a costruire; una volta
finita la maschera veniva appoggiata su un palo e fissata. Dopo esserci documentati sulle
maschere-simbolo dei vari popoli ne abbiamo riprodotte alcune con cartone, bigiotteria,
giornali, stoffe di sgargianti colori. Ci siamo ispirati a foto, immagini e racconti riguardanti le maschere, i trucchi, i decori e i costumi di questi popoli e abbiamo creato o riprodotto i copricapo e gli “accessori” tipici. Li abbiamo realizzati con i materiali più vari:
gommapiuma, cartone, specchi, perline, carta colorata, giornali vecchi, tempera, colla e
…naturalmente con tanta fantasia!!! Ma il nostro itinerario alla scoperta delle altre
civiltà non era ancora concluso…”
LA DANZA E LO SPETTACOLO
“Insieme a Rosa abbiamo danzato i passi tipici dei luoghi che abbiamo visitato virtualmente. Rosa è la nostra esperta di danze. Viene dall’Ecuador, è bravissima, dolce e
comprensiva.”
L’attività più coinvolgente sul piano della fisicità, ma naturalmente anche su quelli
della relazione e delle emozioni, è stata la coreografia ispirata ai diversi popoli in
oggetto. I ragazzi sono stati divisi in gruppi, ognuno dei quali ha lavorato su uno spe-
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IN VIAGGIO CON I RAGAZZI: PALESTRA, PALCOSCENICO E ALTRI LUOGHI
Il linguaggio del corpo nelle diverse tradizioni culturali
cifico ballo tradizionale, più l’invenzione legata allo studio del fumetto come elemento simbolico della cultura occidentale. Oltre a facilitare il lavoro nell’aspetto didattico
e organizzativo, la divisione in gruppi ha permesso di analizzare i tratti distintivi dei
diversi balli: dalle danze ecuadoriane che “servono a scacciare il male” (alcune ragazze, ballando attorno alla maschera e reggendo delle lanterne colorate, simboleggiavano le varie province ecuadoregne, mentre il personaggio di Dablo Huma aveva la funzione di disturbare e prendersi burla della maschera adornata di bigiotteria varia), ai
Papua (“uomo dai capelli ricci”) della Nuova Guinea che non sempre usano nelle
danze maschere e trucco e, popolo di camminatori, danzano al ritmo dei loro bastoni; ai nativi dell’America del Nord che, vivendo nel passato di caccia, adorano la natura e danzando si immedesimano nello spirito degli animali e della natura stessa, con
le donne che possono partecipare solo ad alcune manifestazioni; ai Maori che, nelle
loro danze sono caratterizzati non dalla presenza di maschere ma da trucchi variopinti del viso e di tutto il corpo.
Per quanto riguarda le tradizioni a noi più vicine (almeno da un punto di vista territoriale) si è lavorato sul folklore della Valfloriana attingendo ad un elemento classico della tradizione carnevalesca delle vallate a nord est del Trentino: il “corteo delle
maschere” aperto dai “laché”, vestiti di colori sgargianti per richiamare l’attenzione
dei passanti. Questi sono seguiti dai “marascons” (personaggi caratterizzati dai campanelli che, portati alla vita, suonano seguendo un incedere saltellante). Viene poi il
“bufon”, una delle maschere più tipiche della tradizione, che indossa un lungo copricapo conico, addobbato da una moltitudine di nastri e una maschera lignea dal naso
pronunciato; suo compito è quello di dileggiare le ragazze nubili del paese e di mettere in piazza vizi e peccati degli abitanti.
“Facendo il balletto io, e penso anche altri, ho imparato a collaborare con i miei compagni, e ho imparato che si può sbagliare ma anche a vedere e correggere i propri errori
e quelli degli altri.” (Veronica)
“Questo ballo e anche Rosa ci hanno fatto capire che al mondo non ci sono solo
l’Europa e gli U.S.A. ma anche piccoli popoli che hanno sofferto nel tempo ma hanno
mantenuto le loro tradizioni e che dovremmo sensibilizzarci nei loro confronti.” (Diego)
“Essendo in compagnia con altri alunni ho dovuto essere in sintonia con loro, ma questo non mi è pesato. Mi ha fatto capire, invece, com’è importante per l’uomo stare con i
suoi simili e che dal gruppo trae la forza per fare delle cose che magari sarebbe difficile
fare da solo.” (Martino)
“Quando abbiamo conosciuto Rosa, l’esperta che ci ha proposto di fare un balletto
multietnico, non ero molto entusiasta perché non mi piace ballare, ma poi ho capito lo
spirito con il quale è stato organizzato.” (Giorgio)
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NOTE DI VALUTAZIONE
Come testimonia questo commento, da parte di alcuni, soprattutto maschi, all’inizio c’è stato un po’ di imbarazzo e difficoltà ad immedesimarsi ed interpretare un tipo
di gestualità non usuale. All’inizio alcuni alunni, tra i maschi, hanno avuto la tendenza a banalizzare e minimizzare il lavoro proposto. L’aver superato rapidamente questa
prima impasse è stato stimolo e grande soddisfazione per tutti; anche da parte dei più
riservati si è registrato infatti un forte entusiasmo.
Molta curiosità hanno suscitato le caratteristiche e le destinazioni d’uso della
maschera. Si è sviluppato un lavoro molto intenso che ha determinato anche non previsti rientri pomeridiani. I ragazzi sono rimasti molto soddisfatti e hanno espresso il
desiderio di continuare il lavoro nell’anno successivo, elaborando proprie proposte
operative.
Va detto che la scelta di una delle classi era stata determinata dalla presenza di conflitti e da forti problemi relazionali; il lavoro insieme ha portato ad un cambiamento
delle relazioni interpersonali e del clima di classe. Alcune delle ragazze si sono prese
cura regolarmente di compagni con forti problematiche e in generale c’è stato un
notevole innalzamento della disponibilità cooperativa.
Importante è stato il rapporto con i genitori che, coinvolti nel processo, sono stati
consapevoli degli obiettivi, delle fasi del lavoro e del percorso complessivo. Hanno
garantito una presenza attenta nei momenti di preparazione e di rappresentazione,
permettendo una consapevolezza ancora più forte da parte dei ragazzi.
“È stata una grande soddisfazione e ci siamo accorti che questo non solo è stata un
esperienza per conoscere gli altri ma anche per formare un gruppo unito e compatto.”
(Ilaria)
E la conferma di questo l’abbiamo avuta, ragazzi, insegnanti, famiglie, dal progetto attuato nell’anno successivo: un’espansione di questo lavoro, ancora con la collaborazione di Rosa Tapia, con un percorso coreografico più complesso (sempre un “Giro
del mondo attraverso la danza”) nel quale è stata coinvolta anche una classe della
Scuola elementare di Madonna Bianca.
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IN VIAGGIO CON I RAGAZZI: PALESTRA, PALCOSCENICO E ALTRI LUOGHI
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CONTENUTI E CAMPI DI ESPERIENZA
1. Espressione corporea
La ricerca nell’area corporea si è sviluppata in:
•
•
•
attività in palestra per “liberare” e rendere più consapevole la gestualità personale;
giochi di ruolo e simbolici;
lavoro coreografico su musiche etniche.
2. Approfondimenti teorici
Parallelamente al lavoro espressivo-gestuale, si è dedicata attenzione allo studio di culture e tradizioni di diversi paesi, principalmente del Sud del mondo. Gli argomenti
sono stati:
a) Area umanistica
• analisi e approfondimento dei paesi di cui si sono costruite le maschere: Mali
(Dogon), Ecuador, nativi d’America, Maori, Papua, Valfloriana (natura, storia, società, economia);
• studio delle tradizioni e delle ritualità di questi popoli;
• caratteristiche dei linguaggi non verbali in culture diverse (sia nel tempo che nello
spazio);
• riflessione sulle condizioni di vita del sud del mondo con analisi delle cause di impoverimento;
• confronto tra le tradizioni di popoli lontane e alcune vicine a noi (Valfloriana, miti
contemporanei osservati attraverso i fumetti);
• analisi della gestualità nei riti sacri (lezioni di religione).
b) Area scientifica
•
•
il cibo degli altri;
miti-riti-popoli-culture.
3. Ricerca ed espressione tecnico-artistica
Un breve percorso preliminare ha portato ad esplorare e riflettere su alcune manifestazioni connesse con i linguaggi del nostro tempo:
•
•
le nuove decorazioni del corpo: tatuaggi, piercing;
le decorazioni etniche: abbigliamento e acconciature.
Riprendendo i contenuti relativi ai vari paesi si sono costruiti cartelloni con foto di
ragazzi che comunicano attraverso gesti caratteristici del proprio paese.
Per la preparazione dello spettacolo, il lavoro si è svolto nei laboratori di educazione
tecnica e artistica e in palestra attraverso:
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•
•
•
•
costruzione di maschere dei paesi scelti e del nostro mondo (cartoni, fumetti, caricatura politica);
allestimento di sfondo e paesaggio del presepe;
realizzazione di brevi coreografie con musica etnica e con la gestualità specifica del
paese rappresentato dalla maschera;
decorazioni etniche.
4. Lo spettacolo
Pensato per il Natale, lo spettacolo è consistito in una sfilata che ha accompagnato la
stella natalizia nel suo cammino attraverso il mondo: dalla vicina Valfloriana con le
sue danze, ai nativi dell’America del Nord, per poi andare in Ecuador, quindi in Nuova
Zelanda (danza dei Maori) e Nuova Guinea. Un breve salto nei mondo fantastico dei
fumetti e poi ritorno alla realtà con il viaggio che termina nell’Africa nera.
Le maschere dei vari popoli sono state i personaggi di questo presepe globale.
Le rappresentazioni sono avvenute:
•
•
•
•
a scuola (palestra);
al Teatro Sperimentale S. Chiara;
al Parco di Maso Ginocchio;
alla Scuola elementare Degaspari.
Materiali prodotti
Video dello spettacolo: le riprese sono state effettuate a livello amatoriale e il documento è conservato e visibile presso la scuola.
Il CDRom Danzando nel mondo contiene tutto il percorso (fasi, personaggi, azioni,
commenti individuali dei ragazzi) e una serie di schede informative sui popoli a cui ci
si è avvicinati.
Le maschere (le cui foto e spiegazioni sono inserite nel CDRom) restano come oggetti (totem?) negli spazi della scuola.
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IN VIAGGIO CON I RAGAZZI: PALESTRA, PALCOSCENICO E ALTRI LUOGHI
Il linguaggio del corpo nelle diverse tradizioni culturali
Scheda di progetto
Il linguaggio del corpo nelle diverse tradizioni culturali
TEMA
Viaggio tra le culture e le tradizioni di vari popoli attraverso la sperimentazione di forme di gestualità, danza e ritualità.
DESTINATARI
2 classi seconde (A e B), totale: 51 alunni.
• Educazione artistica (Renata Mariotti).
• Italiano (Maria Teresa De Clauser).
DISCIPLINE
• Scienze (Lorenza Agostini).
• Religione (Laura Leonardelli).
• Educazione fisica (Paola Perale).
• Valorizzare le potenzialità di un linguaggio corporeo gestuale che ha
OBIETTIVI FORMATIVI
origini più antiche di quello verbale.
• Far conoscere altre culture e attivare un interesse responsabile.
• Favorire l’auto stima e le relazioni inter-personali.
• Conoscenza della storia di alcuni popoli dell’America meridionale, degli
Indiani d’America, dell’Oceania e dell’Africa centrale.
OBIETTIVI COGNITIVI
• Conoscenza delle condizioni di vita in paesi del sud del mondo.
• Approfondimento delle culture e delle gestualità di popoli che hanno
salvaguardato le loro tradizioni dalla colonizzazione.
• Lezione frontale.
• Ricerca.
• Elaborazione personale.
MODALITÀ DI LAVORO
• Sperimentazione diretta.
• Lettura immagini.
• Laboratorio.
• Lavoro a piccoli gruppi.
• Testi.
• Musiche.
• Testimonianze dirette.
STRUMENTI e MATERIALI
• Internet.
• Video.
• Videocamera.
• Materiali per costruzione maschere.
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• Rosa Tapia Peña, mediatrice interculturale (Ecuador).
RISORSE ESTERNE
• Ousmane Diop, mediatore interculturale (Mali).
• Claudio Bassetti, collaboratore tecnico.
• Aula.
• Palestra.
• Laboratorio di educazione artistica.
SPAZI
• Laboratorio di educazione tecnica.
• Teatro parrocchia S.Marco.
• Teatro S. Chiara
• Parco Maso Ginocchio
• Scuola elementare “Degaspari”
TEMPI
• 1° trimestre.
• Ripresa prove spettacolo in marzo e maggio.
• Osservazione diretta.
STRUMENTI di VALUTAZIONE
• Commenti esterni.
• Genitori.
Bibliografia
AAVV (1996), Tawantinsujo, gli Incas civiltà scomparsa o etnia sottomessa?, Saturnia, Trento
AAVV (1998), Guida al museo degli usi e costumi della gente trentina, Alcione, Trento
AAVV (s.i.d.), Ecuador, Istituto statale d’Arte, Arezzo
Corradini M. e Monaci G. (1995), Nuovo Ecogeo, Archimede, Bologna
Fasoliti E. (1988), Favole azteche-Maya-Inca, EMI, Perugia
Folgheraiter A. (2002), Le Terre dei padri, Curcu e Genovese, Trento
Lain L. e Calloni V. (1990), Tam tam, Velar, Bergamo
Meyer L. (1991), Afrique noire, Terrail, Paris
Morelli R. e Poppi C. (2000), Santi spiriti e re. Maschere invernali nel Trentino fra tradizione,
declino e riscoperta, Curcu e Genovese, Trento
Owusu H. (1999), I simboli degli indiani d’America, Il punto d’incontro, Vicenza
Reschia C., Nuova Guinea sulla pelle,“Specchio” 16 gennaio 1999
Scotto Steedeman (1996), Sapresti vivere con un pellerossa?, De Agostini ragazzi, Novara
Scudelotti C. (1992), Leggende degli indiani d’America, Demetra, Sommacampagna (Verona)
Vasconi M. (1996), Miti Maya ed Inca: i popoli del sole, Demetra, Bussolengo (Verona)
Microsoft, Encarta Enciclopedia Plus 1993-2002
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Lo sport e la guerra
Istituto Tecnico Commerciale “Tambosi”, Trento
Paola Morini
“Una forma corrotta di sport
che richiede una citazione speciale è la guerra.
Nei tempi primitivi, quando le armi erano ai primordi,
uno sport cruento ne valeva un altro.
Se la caccia ad una preda-cibo
non era più una preoccupazione importante,
la scelta di una preda sostitutiva era molto ampia.
Qualunque vittima che assicurasse la necessaria sfida andava bene,
e non c’era nessuna ragione perché si dovesse escludere una preda umana.
Le prime guerre non furono guerre totali,
ma affari strettamente limitati,
condotti con regole inflessibili
proprio come gli avvenimenti sportivi.”
(Desmond Morris, L’uomo e i suoi gesti. L’osservazione del comportamento umano )
IL CONTESTO
L’idea di sperimentare un percorso di educazione all’interculturalità a partire dall’esperienza corporea mi attirava da anni. Perché? I motivi sono vari, ma il più importante tra tutti è forse connesso con l’esigenza di trovare una via di approccio alla tematica, tale da farla apparire il meno possibile “scolastica” e il più possibile legata al vissuto, all’esperienza diretta. Naturalmente per tutto ciò era necessaria la collaborazione
degli insegnanti di educazione fisica; anche questo mi sembrava stimolante: come si
sarebbe potuto realizzare un percorso che avesse caratteristiche d’interdisciplinarietà?
La via di definizione del progetto è stata lunga e tortuosa, in particolare si è rivelato necessario saper rinunciare in parte ai propri sogni per entrare in rapporto con le
aspirazioni, le esperienze, i saperi e le pratiche didattiche degli altri. Certamente mi è
stata utile, per poter giungere alla definizione di un percorso comune, la sensibilità al
tema dell’educazione interculturale che s’è andata costruendo negli anni all’interno
della mia scuola, sia attraverso la presenza di alunni stranieri, sia tramite le attività
poste in essere dalla “Commissione per l’educazione interculturale” (compreso un
corso d’aggiornamento su questo tema promosso nel settembre 2002 dal nostro
Istituto). Importanti sono stati anche i contatti con le organizzazioni operanti sul territorio e la partecipazione ad alcuni momenti di riflessione collettiva sull’operato delle
scuole in relazione ai percorsi educativi (come la Fiera dell’educazione Le Radici e le
Ali” organizzata dal Centro Millevoci nel maggio 2002).
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Lo sport e la guerra
In sostanza dunque il clima di sempre maggior attenzione a questo tipo di tematiche ha giocato un ruolo decisamente favorevole al coinvolgimento dei colleghi nel
progetto.
UN’ELABORAZIONE COLLETTIVA
Sapendo di affrontare una sfida (o quanto meno una novità) nel connettere “la
palestra con la storia”, gli insegnanti si sono concentrati sulla definizione dei percorsi
nelle rispettive aree, cercando le modalità e i tempi per “saldare” l’esperienza diretta (le
riflessioni e le emozioni da questa derivanti) con i momenti di approfondimento delle
conoscenze storiche e artistiche.
Con gli insegnanti di educazione fisica si sono discusse diverse ipotesi, cercando
un equilibrio tra interessi, disponibilità locali e coerenza rispetto agli obiettivi.
Per l’Europa e l’America Latina le idee erano già abbastanza chiare: qualche sport
olimpico, che consentisse nelle prime classi l’approfondimento storico, e la capoeira
(di tradizione afro-brasiliana), carica di significati culturali e storici strettamente connessi con la vicenda della colonizzazione. Più incerti apparivano i contorni della scelta rispetto all’Oriente. Si è tentato in un primo tempo di prendere in considerazione il
Tai-chi-chuan per la Cina e l’Aikido per il Giappone, ma motivi di carattere organizzativo hanno reso il percorso impraticabile. Notevole invece è stata la disponibilità dei
maestri di Kung-Fu e di Qwan-Ki-Do (due arti marziali rispettivamente cinese e cinovietnamita) della cui capacità d’interazione con gli studenti si erano avute rassicurazioni da parte di colleghi di educazione fisica, che avevano avuto contatto con loro per
i gruppi sportivi. In questo modo quindi, anche un po’ casuale, si è giunti alla definizione del percorso che ha raccolto l’adesione di 5 classi all’interno dell’Istituto (3
prime, 1 terza e 1 quinta). Un ulteriore impulso alla sperimentazione del percorso è
venuta dall’iscrizione nelle classi prime di alcuni ragazzi di colore provenienti
dall’America Latina particolarmente interessati alla conoscenza e alla pratica della
capoeira, via privilegiata d’approccio alla valorizzazione della loro cultura di provenienza.
Le insegnanti di lettere hanno lavorato sui contenuti delle proprie discipline e sulle
modalità di ricerca e produzione da parte dei ragazzi (vedi la fase “laboratorio storico-letterario”) curando un percorso di lettura di documenti (d’autore, ma anche di
attualità), di analisi, di rielaborazione.
L’ipotesi di ampliare l’area del lavoro, facendovi entrare la riflessione sulle proprie
emozioni o sul confronto tra quanto appreso a proposito della Grecia e le notizie rela-
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tive alle altre culture, è stata giudicata unanimemente troppo impegnativa e perciò si
è deciso di utilizzare, per lo sviluppo di questa parte del percorso, il tradizionale metodo frontale affidando l’introduzione dei temi all’insegnante, prevedendo spazi di
dibattito e momenti di riflessione scritta, soprattutto in relazione all’analisi delle proprie emozioni.
IL PERCORSO
Gli studenti si sono mostrati immediatamente molto disponibili ad intraprendere
un percorso di riflessione sulle radici della propria cultura a partire dal proprio corpo
in movimento e decisamente attratti dalla possibilità di cogliere il nesso tra gesto atletico e contesto culturale all’interno del quale esso si sviluppa.
Il retroterra culturale del nostro gesto atletico (dall’Olimpia classica a oggi)
Nella mia classe il primo incontro, con un campione olimpico di lancio del giavellotto, è stato giudicato, dalle/gli alunne/i, interessante soprattutto per la conoscenza
delle caratteristiche dello strumento, la diversità tra quello usato nell’antichità e quello utilizzato attualmente, e la sua capacità offensiva: “Alla velocità a cui raggiunge il
bersaglio può trapassarti da parte a parte” spiegava il campione. In classe poi, leggendo le antiche testimonianze, s’è scoperta l’orazione III, 2, 1-12 di Antifonte Un padre
difende il figlio che, senza volerlo, ha ucciso con un colpo di giavellotto un suo compagno
e s’è così capito che oggi come ieri il giavellotto è realmente un’arma pericolosa a tutti
gli effetti. Questo piccolo spunto di partenza ha consentito di cominciare a porre subito sul tappeto la questione della contiguità tra sport e guerra che costituiva uno dei
nuclei tematici del nostro percorso di riflessione.
I risultati dello studio, articolato attraverso la lettura di documenti d’epoca e testi
storici, accompagnata dall’osservazione di immagini dei reperti archeologici, si sono
peraltro rivelati, a mio avviso, particolarmente interessanti.
Gli studenti hanno infatti messo a fuoco i seguenti elementi:
•
•
•
sul piano mitico la nascita dei giochi è direttamente connessa con la gara tra maschi (il
padre Henomao e il futuro sposo Pelope) per il possesso di una donna (Hippodamia);
sul piano artistico non pare di secondaria importanza che il tempio di Zeus ad
Olimpia (santuario dei più famosi giochi panellenici) proponga sui due frontoni queste scene: da una parte Zeus assiste alla gara tra Henomao e Pelope, dall’altra Febo
assiste all’aggressione dei centauri nei confronti delle donne dei Lapiti;
sul piano storico si nota il progressivo passaggio dal culto della coppia divina, a quel-
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Lo sport e la guerra
lo successivo delle due divinità separate ed infine l’imporsi, quasi esclusivo, del culto
di Zeus. Nel contempo si realizza l’espulsione delle donne dal terreno di gara (pena la
morte), il passaggio dalle gare di velocità a quelle di forza con l’introduzione dell’uso
delle armi, il prevalere del rito sacrificale (altare delle ceneri presso il tempio di Zeus)
rispetto al rito di cura (dono annuale delle tuniche e vestizione quadriennale della statua della dea presso il tempio di Hera).
I ragazzi sono giunti quindi alla conclusione che qui propongo nella sintesi fatta da
Veronica:
“L’uccisione rituale, la competitività e il raggiungimento di una buona forma fisica,
cominciarono ad essere considerati fondamenti sociali (...) La netta divisione tra i sessi
s’impose anche nella vita quotidiana, dove le donne furono escluse da ogni diritto (...) Lo
spirito competitivo dei giochi, legato al culto di Zeus, finì col caratterizzare l’intera società greca, ponendo come principi fondamentali una forte identità nazionale e la ricerca
della vittoria.”
Hanno scoperto inoltre la stretta contiguità tra agonismo, guerra e cittadinanza.
Una contiguità ben formalizzata, nel II secolo d.C., da Luciano di Samosata che in un
dialogo sugli esercizi fisici fa dire a Solone:
“…saresti seduto in mezzo agli spettatori e osserveresti il coraggio e la bellezza fisica
degli uomini, la loro forma meravigliosa, l’abilità impressionante, la forza invincibile e la
loro volontà di vittoria (...) cittadini dotati di animo nobile e di buona attitudine alle
armi, guardiani capaci del nostro paese e baluardi della nostra libertà”.
Quanto poi la volontà di vittoria sia inarrestabile e conduca all’uso di qualunque
mezzo pur di ottenerla è stato documentato da uno stralcio del testo di K.W. Weeber
Olimpia e i suoi sponsor. Sport, denaro e politica nell’antichità riportato dal manuale di
storia in cui si parla di corruzione degli avversari da parte degli atleti (difesi peraltro
dalla città di provenienza che non è disposta a rinunciare al primato conquistato).
Fin qui il percorso d’indagine sulle radici della nostra cultura agonistica ed il suo
rapporto con la guerra, che ci ha impegnati per circa un mese consentendoci di accostarci a materiale iconografico, letterario e storico, di dare luogo al confronto tra le
conclusioni a cui era arrivato ogni gruppo di lavoro, partendo dalla propria prospettiva, e di sintetizzare infine il lavoro in cinque cartelloni e due relazioni esposti prima
in classe e poi nell’atrio dell’istituto.
Il gesto atletico in altre culture
Ma il percorso era solo al suo inizio, soprattutto per quanto riguardava l’esperienza fisica diretta. Sono state le attività successive a scatenare prima la diffidenza e poi
l’entusiasmo della classe.
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I maestri delle varie discipline hanno spaziato dal contesto culturale all’interno del
quale si era sviluppata la forma di lotta proposta, all’allenamento, alla rappresentazione. Tutti infatti hanno collaborato pienamente non accontentandosi di proporre la
loro lezione, secondo quanto concordato, ma presentando agli studenti anche la visione dell’attività in forma di spettacolo; ciò è stato possibile anche grazie alla collaborazione dei praticanti le varie discipline. Si è così scoperto (con grande soddisfazione dei
più minuti della classe) che la prestanza fisica non sempre è collegata all’altezza e alla
potenza muscolare: a volte essere agili e minuti è molto più funzionale.
Kung-fu e kwan-ki-do
I maestri di discipline orientali hanno posto l’accento sul legame tra pratica sportiva e meditazione evidenziando così un carattere peculiare del mondo della lotta
orientale che poi è stato possibile approfondire in classe, anche grazie al materiale fornito dagli stessi maestri.
Il percorso di letture e analisi ci ha portati a cogliere il legame stretto tra disciplina
sportiva, filosofia e atteggiamento religioso secondo un criterio, anche educativo,
molto diverso da quello cui siamo abituati. Si può forse sintetizzare il concetto con le
parole di Shin Dae Woung: “Il Wu-Shu (arte marziale cinese generalmente conosciuta
come Kung-fu) è energia, ma non si può assolutamente separare il Wu-Shu dall’amore”
e ancora: “Se io pensassi, come fecero tutti gli anziani maestri cinesi, che uno debba
cominciare l’allenamento come servitore del suo maestro, lavando il pavimento, pulendo
il suo giardino, allo scopo di imparare a conoscere il suo stile e la sua natura umana e spirituale, oggi non avrei allievi.” Nel 123 a. C. Hun Shu definiva il Wu-Shu così: “Prevenire
la spada, dominare l’ira e il caos.”
Chiara è apparsa l’interazione tra vita monastica e arti marziali per quanto attiene
il loro carattere di allenamento psicofisico e disciplina interiore (esemplare in tal senso
il monastero buddista di Shaolin fondato nel 495 dall’imperatore Xiaowen Dii).
Questa stretta contiguità tra sport, guerra e religione (che del resto forse potremmo
incontrare anche presso i nostri ordini religioso-cavallereschi) ha incuriosito non
poco gli studenti i quali si sono trovati a rilevare come, almeno in teoria, in oriente la
disciplina sportiva di combattimento spinga l’atleta a considerare l’avversario anche
come un alleato che consente di mettere a punto le proprie mosse e di valutare i progressi man mano compiuti. Particolare attenzione ha poi suscitato il principio, enunciato nella presentazione del Qwan-Ki-Do, secondo cui: “I praticanti debbono essere in
grado di guarire le ferite interne ed esterne da loro provocate.”
L’idea di dover connettere il concetto di lotta e competizione con quello di cura ha
colpito molto l’immaginario degli studenti che non avevano mai incontrato, in riferimento alle pratiche sportive occidentali, un tale tipo di visione.
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Lo sport e la guerra
Anche l’emergere di una costante attenzione al mondo della natura, con l’imitazione dei movimenti degli animali, l’individuazione delle loro caratteristiche nell’attesa, nell’emissione sonora, nello scatto, per farne tesoro e strategia comunicativa, ha
suscitato non poca sorpresa. L’affermazione relativa al fatto che il praticante, oltre alla
somiglianza nei movimenti, deve ottenere anche una “somiglianza spirituale” con l’animale, che possa trasparire dalle espressioni del viso e dello sguardo, ha suscitato una
certa ilarità, tanto più che uno degli animali in questione era la scimmia. È stato così
che ha cominciato a trovare spazio la riflessione sul rapporto tra cultura e ambiente
naturale, tra forme di lotta e luoghi della battaglia. La vicenda USA – Vietnam ha fornito alcuni spunti di riflessione in merito.
Capoeira
Aver toccato il tema della relazione tra un popolo che lotta per la propria sopravvivenza e un altro che gli contende il diritto alla libertà ci ha introdotti, quasi come un
tocco di bacchetta magica, nel mondo della Capoeira che ha esercitato un enorme
fascino su tutti/e.
L’allenamento alla lotta, che si manifesta in quest’arte marziale come danza, canto,
ritmo di tamburi e cembali, amicizia e solidarietà di gruppo, ha immediatamente affascinato e suscitato curiosità. I ragazzi e le ragazze provenienti dal Sud America hanno
colto con prontezza l’opportunità di ricostruire un pezzo della loro storia personale
parlando delle loro memorie e delle loro esperienze. Anche la possibilità di accostarsi,
attraverso le parole delle canzoni che accompagnano gli esercizi, ad una lingua, straniera sì ma non troppo, ha aperto nuovi orizzonti e stimolato una serie di domande.
I maestri brasiliani hanno affascinato gli studenti con la loro agilità e con la dolcezza dei movimenti; hanno pian piano fatto capire che alcuni gesti rituali che s’accompagnano alla capoeira hanno un profondo significato religioso. Non è un caso,
infatti, che i combattenti si stringano la mano davanti al maestro che suona il berimbao (l’arco musicale) chiedendo la sua benedizione, che tocchino la madre terra con
un saluto deferente, che rendano omaggio all’atabaqui, il tamburo sacro delle cerimonie del candomblé, capace di evocare le divinità e renderle presenti nei corpi dei suoi
figli. Con i loro gesti e le loro parole i maestri hanno reso evidente come nel mondo
della capoeira nulla tenda a separare e dividere, ma il movimento sia teso alla costruzione di un flusso che unisce la musica al gesto, le persone alla terra (luogo di vita e di
energia), chi suona a chi danza, chi combatte a chi, unito nel cerchio cosmico, guarda
e partecipa con il canto e con il battere delle mani, in attesa del suo momento perché
nessuno è mai escluso e c’è sempre lo spazio per un nuovo ingresso.
L’approccio al gesto atletico è diventato a questo punto per i ragazzi e le ragazze la
possibilità di partecipare ad un gioco collettivo, l’opportunità di entrare in un mondo
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accogliente in cui la gioia dello stare insieme si esprime con leggerezza e spontaneità
nel movimento del corpo e nel canto.
Nel testo che accompagnava i cartelloni preparati per la mostra di fine anno sul
percorso svolto, Marino (uno studente della 1°C) sintetizzava così l’idea che si era fatta
della capoeira:
“La Capoeira nasce in Brasile fra gli schiavi africani deportati che, raccogliendo i
pochi anelli culturali che ancora li legano (le famiglie e le tribù venivano infatti separate
per evitare ogni forma di comunicazione), riescono ad associarsi e a dar vita ad una speciale forma di arte marziale volta ad allenarsi alla fuga. Dovevano operare in assoluta
segretezza onde evitare di insospettire i loro sfruttatori, perciò l’allenamento veniva svolto accompagnato dalla musica mentre a due a due entravano nel cerchio formato dagli
spettatori e, fingendo di ballare, cercavano di colpire l’avversario e schivare i suoi colpi;
l’avversario era quindi inteso come un amico e ciò è sottolineato dal fatto che nella
capoeira è vietato il contatto fisico, cosa che fa di quest’arte marziale una danza e un
gioco di amicizia. Gli schiavi che riuscivano a fuggire davano vita a comunità libere
all’interno delle quali venivano accolti con pari dignità anche gli indigeni brasiliani e i
bianchi che per qualche motivo fossero perseguitati. Queste comunità avevano il nome di
“Quilombo”; il più famoso di questi fu quello di Zumbì. La capoeira, vietata e repressa
per secoli in Brasile, oggi è stata legalizzata ed è divenuta una forma di socializzazione e
istruzione per i bambini di strada.”
NOTE DI VALUTAZIONE
Riassumendo l’esperienza complessiva, lo stesso Marino formulava questo bilancio con un’acuta intuizione:
“Con l’esperienza fatta ho potuto capire meglio il rapporto tra gesto e cultura e sono
giunto alla conclusione che nella nostra pratica di quest’arte è sempre in agguato la tendenza alla banalizzazione dei gesti, limitandoli a pratiche esteriori da palestra perché
non abbiamo alle spalle una cultura e delle tradizioni su cui basare questa attività (…)
Potrei aggiungere che i movimenti del lancio del giavellotto mi erano sicuramente più
familiari, mentre quelli degli altri sport erano per me del tutto inusuali.”
Il giudizio più diffuso nella classe, però, rilevato attraverso il questionario finale,
non ha posto in evidenza né questa distanza né questo spirito critico, ma ha semplicemente espresso l’entusiasmo per una forma di movimento spettacolare e coinvolgente.
L’intero percorso è stato giudicato molto positivamente dagli studenti i quali però
quasi all’unanimità si sono lamentati dell’esiguo numero di ore dedicato in palestra a
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queste attività (10 ore che agli occhi degli insegnanti erano sin troppe) e dello sbilanciamento, ancora una volta, sul piano della riflessione intellettuale rispetto alla pratica fisica.
Limiti naturalmente ce ne sono stati: da quelli organizzativi dei tempi scolastici (la
scarsa flessibilità degli orari che ha impedito ad alcuni insegnanti coinvolti di poter
seguire tutte le fasi operative che dovevano essere poi riprese in classe) alla difficoltà di
reperire luoghi adeguati alle attività programmate (lancio del giavellotto in palestra?!).
Nonostante la buona risposta di molti colleghi, resta poi aperta la questione di sviluppare una più estesa e profonda pratica interdisciplinare. E, più dolorosa, la constatazione che le abilità (sociali e operative) evidenziate nelle situazioni fuori aula poco
hanno contato per alcuni ragazzi in sede di valutazione finale.
CONTENUTI E CAMPI DI ESPERIENZA
1. La progettazione di interclasse
Con alcune/i insegnanti di educazione fisica s’è proceduto a delineare il percorso: una
riflessione su alcune forme di sport rappresentative in qualche modo di universi culturali differenti. Le insegnanti di lettere delle classi prime hanno dato vita ad un piccolo gruppo di lavoro per definire le modalità dell’attività di studio connessa al percorso e per mettere in comune le risorse didattiche. Si è in tal modo giunti alla definizione della collocazione temporale degli interventi, valutandone la congruenza con il
programma di storia (gennaio e febbraio) e alla formulazione dell’ipotesi di lavoro.
Il materiale comune
Le insegnanti di lettere hanno proceduto al reperimento di alcuni testi utili per svolgere il
lavoro d’analisi in classe. Assieme si è selezionato il materiale raccolto in riferimento alla
competizione sportiva nella Grecia antica, con particolare attenzione a ciò che riguarda le
Olimpiadi, individuando i testi base per la costruzione di un percorso storico – artistico –
letterario.
È stato raccolto anche materiale riguardante la ripresa delle Olimpiadi in tempi moderni e
la documentazione sulle arti marziali orientali.
Il materiale è stato utilizzato in comune, con copia per ognuna delle classi.
Il laboratorio didattico
Insieme all’articolazione del percorso nelle diverse specialità atletiche, si sono stabiliti i criteri guida per la realizzazione del laboratorio didattico da svolgersi come lavoro di 5 gruppi (le 5 classi), ognuno su un diverso aspetto del problema.
Si sono individuati alcuni nodi tematici su cui lavorare e su cui cercare la collaborazione da
parte di un esperto.
Si sono decise le forme di documentazione delle nozioni apprese e delle riflessioni elabo-
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rate: saranno predisposti dei cartelloni che costituiranno una mostra collettiva delle classi
coinvolte.
È stato definito il calendario di massima degli interventi programmati e si è accertata la disponibilità a collaborare, per la documentazione del percorso esperienziale, da parte del
Centro Audiovisivi della Provincia Autonoma di Trento.
2. Il laboratorio storico-letterario
Oggetto dell’indagine è stata la storia delle Olimpiadi e dei Giochi Panellenici in generale, naturalmente inquadrata nell’ambito dello studio della civiltà greca sviluppato
dall’insegnante. Gli studenti sono stati invitati a costituire cinque gruppi di lavoro che
si sono occupati ciascuno di un tema differente ma inerente il percorso:
•
•
•
•
•
Il luogo della gara: i santuari panellenici e la loro funzione culturale/cultuale.
La gara tra tempo sacro (della pace) e tempo profano (della guerra): Olimpiadi come
misura del tempo.
Varietà di agoni, varietà di premi: tra riconoscimento del merito e rito sacrificale.
La rappresentazione artistica del gesto atletico e del gesto di guerra.
La rappresentazione letteraria della gara e della guerra.
Ad ogni gruppo sono stati forniti, oltre al materiale relativo al tema da trattare, dei
testi d’interesse comune; la consegna è stata quella di operare una selezione delle notizie rilevanti ai fini della propria ricerca, ciò ovviamente allo scopo di sviluppare un’azione metodologica utile sul piano dell’approccio allo studio.
Nodi tematici
Oltre al dato tecnico-sportivo, si è estesa la ricerca ad una dimensione sociale e culturale intorno ai seguenti temi:
•
•
•
•
•
Olimpia e il culto della coppia Hera – Zeus, la progressiva svalutazione del culto della
dea e l’affermarsi della competizione.
La sfida e la conquista del diritto sulla donna come mito fondante dell’origine delle
olimpiadi.
Modalità del passaggio dal culto della coppia divina al culto che, estromessa la dea,
associa culto eroico (l’eroe è tale perché se ne può narrare la morte) e culto divino.
Dal premio che dà la vita (cibo) al premio che dà la morte (armi).
Quale percorso si compie a livello simbolico nel momento in cui si passa dalla corona
d’alloro alla medaglia? (corona-poeta, medaglia-valor militare).
Letture antologiche
•
•
•
•
Antifonte, Orazione III 2,1-12
Luciano di Samosata, Anacarsi o degli esercizi fisici
Platone, Protagora e La Repubblica
Testi poetici di Pindaro, Simonide e Bacchilide
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3. Il laboratorio sportivo
La sperimentazione pratica di specialità sportive profondamente diverse non solo per la
tecnica, ma per approccio culturale profondo, è avvenuta in tre momenti laboratoriali:
a) Lancio del giavellotto
Le caratteristiche della disciplina e dello strumento.
La dimostrazione da parte dell’esperto.
La divisione in microfasi (maneggio del giavellotto, posizione di partenza, rincorsa, tiro).
L’esercitazione individuale con il maestro.
La simulazione del lancio (per la pericolosità, il giavellotto è stato sostituito da una
pallina).
(Il lancio reale del giavellotto, previsto allo stadio, è saltato per problemi organizzativi.)
b) Kung–Fu e Kwan-Ki-Do
Presentazione dei fondamenti della disciplina (tecnica e principi pedagogici e filosofici).
Il valore della meditazione.
I rituali (riscaldamento fisico, concentrazione, saluto, grido).
Dimostrazione da parte degli esperti.
Esercitazione individuale su singoli movimenti (rotolamento, avanzamento, caduta, …).
Esercitazione a coppie su singoli gesti di contatto (il colpo, la presa, la difesa, …).
c) Capoeira
Presentazione della capoeira dal punto di vista storico, sociologico, tecnico.
L’uso degli strumenti musicali e della voce.
Dimostrazione degli esperti.
Esercitazione su alcuni movimenti di base.
Spettacolo del Gruppo Saõ Salomaõ con Valter da Silva.
4. La mostra
Come atto finale del progetto, nell’atrio dell’istituto è stata allestita una mostra con
cartelloni relativi alle esperienze e agli approfondimenti svolti dai gruppi: sintesi,
materiale iconografico (disegni, riproduzioni da opere antiche, fotografie del lavoro in
palestra), relazioni.
5. La valutazione
Alla fine del percorso di ricerca ogni gruppo è stato chiamato a proporre agli altri il
risultato del proprio lavoro. Un’esposizione orale e l’allestimento di cartelloni, poi utilizzati per la realizzazione di una mostra dei percorsi di educazione interculturale realizzati all’interno della scuola, sono stati gli strumenti per la formalizzazione dell’apprendimento.
Si è poi elaborato un sistema di griglie di osservazione che consentisse a ogni inse-
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gnante di focalizzare l’attenzione sugli stessi aspetti dell’attività, in modo da poter poi
giungere ad una valutazione complessiva che si fondasse su criteri omogenei e condivisi. Nello stesso modo s’è operato nell’approntare un questionario di valutazione del
percorso svolto da sottoporre agli studenti alla fine dell’esperienza.
Materiali prodotti
Quasi tutte le attività in palestra sono state videoregistrate, in parte da operatori del
Centro Audiovisivi della Provincia, in parte da personale della scuola.
Il video Lo sport e la guerra è tratto dalla selezione di sequenze e dal montaggio di queste registrazioni con altro materiale da film d’autore.
Per la mostra sono stati prodotti cartelloni, fotografie a documentazione del percorso,
dossier di approfondimento, conservati presso l’istituto “Tambosi”.
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Scheda di progetto
Lo sport e la guerra
• Riflessione sulle radici della propria cultura a partire dal corpo in moviTEMA
mento.
• Pratiche atletiche in diversi contesti (Europa classica e moderna, Oriente,
America Latina).
• Relazione tra educazione sportiva e formazione civica.
DESTINATARI
Studenti del primo anno
Realizzato con: 1iB, 1iC, 1eB, 3iB, 5mC/A. Totale: circa 110 studenti.
• Lettere e Storia (Lia Bonvecchio, M. Alberta de Zordo, Paola Morini, Maria
DISCIPLINE
Polesello).
• Educazione fisica (Paola Perini, Stefania Olfi, Francesco Spadaro).
• Prendere consapevolezza del proprio corpo: posture, movimenti, azioni.
• Riconoscere la connessione tra gesto atletico, conoscenza di sé, rapporto con l’altro.
OBIETTIVI FORMATIVI
• Sviluppare il controllo del gesto in sé e nel rapporto con gli altri.
• Sperimentare alcuni gesti tipici delle pratiche atletiche tradizionali nella
cultura europea e di altre provenienti da diversi ambiti storico-culturali.
• Riconoscere le emozioni legate a diversi usi codificati del corpo (pratiche
preparatorie, gesto atletico, gesti di trionfo, …).
• Riconoscere elementi caratterizzanti di alcune forme di sport rappresentative di diversi universi culturali.
• Analizzare i contesti storico-culturali avvicinati attraverso l’esempio spor-
OBIETTIVI COGNITIVI
tivo.
• Riconoscere la sedimentazione storico-culturale entro specifici approcci
allo sport.
• Riconoscere il nesso tra gesto atletico e contesto culturale di riferimento.
• Rielaborare autonomamente l’esperienza e i materiali.
• L’esperienza diretta, la riflessione, la ricerca.
• Esercitazioni sportive.
• Lezioni frontali.
MODALITÀ DI LAVORO
• Momenti di confronto e discussione.
• Riflessioni scritte.
• Ricerca autonoma di materiali.
• Elaborazione grafica e testuale (allestimento mostra per la scuola).
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• Telecamera.
STRUMENTI e MATERIALI
• Letture antologiche.
• Materiale iconografico.
• Film.
Esperti delle singole discipline sportive:
• Renzo Cramerotti (lancio del giavellotto),
RISORSE ESTERNE
• Diego Paoli (kung-fu),
• Piergiorgio Cailotto (qwan ki do),
• Gruppo Saõ Salomaõ e Valter da Silva (capoeira),
• Centro Audiovisivi della Provincia Autonoma di Trento.
• Aula.
SPAZI
• Palestra.
• Campo sportivo.
• Novembre 2002: progettazione tra insegnanti.
• Gennaio – maggio 2003: attuazione.
TEMPI
• Fine maggio: allestimento della mostra.
• 8 ore (2 per ogni specialità sportiva) di educazione fisica.
• 15 ore di italiano e storia.
• 2 ore per spettacolo finale di capoeira.
• Griglie di osservazione (per gli insegnanti).
STRUMENTI di VALUTAZIONE
• Discussione all’interno delle singole classi.
• Esposizione orale e preparazione di cartelloni (mostra).
• Questionario.
Bibliografia
Oltre alle letture antologiche già segnalate:
Argan G.C. (1961), Storia dell’arte italiana, Sansoni, Firenze
Brelich A. (1985), I Greci e gli dei, Liguori, Napoli
Burkert W. (1981), Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica,
Boringhieri, Bologna
Calasso A. (1988), Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano
Detienne M. e Vernant J.P. (1982), La cucina del sacrificio in terra greca, Boringhieri, Bologna
Shin Dae Woung, Scuola di Kung-Fu, vol.1, Mediterranee, Roma
Weeber K.W. (1992), Olimpia e i suoi sponsor. Sport, denaro e politica nell’antichità, Garzanti,
Milano
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Lo sport e la guerra
Siti web consultati:
www.pegacity.it/utopia/case/antico/sport
www.ica-net.it/pascal/Guerra
www.digilander.libero.it/funkungfu
www.spazioinwind.libero.it/materacapoeira
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Il corpo come memoria
Istituto Tecnico Commerciale “Tambosi”, Trento
Paola Morini
“Attraverso la danza si prepara la persona al contatto con le entità
che agiranno prima di tutto sul suo essere fisico e poi, da qui,
sul piano mentale e spirituale, essendo il corpo la loro porta di entrata (…).
Danzando, i suoni corrono in tutto il corpo:
un accento cattura la testa, il suono basso stabilizza il centro del movimento,
le campane alleggeriscono le gambe, i semi dei sonagli corrono nelle dita,
nelle spalle e il dialogo dei tamburi vibra nel tremolio accentuato dei fianchi.
Tutto il ciclo si ripete quasi all’infinito, per darci il tempo di sentire ogni passaggio,
dalla percezione globale ai dettagli sonori più sottili che entrano nell’intimità del corpo.”
(Katina Genero Madrigal, Tubab. Una danzatrice sulla via dei tamburi)
DANZANDO S’IMPARA
Premessa
Nella progettazione di questa esperienza didattica interdisciplinare sono partita
dall’idea, ampiamente condivisa dai miei alunni, che proporre l’educazione all’interculturalità attraverso un percorso teorico-letterario, affidato principalmente all’insegnante di lettere, fosse molto riduttivo e finisse per non fornire stimoli a quegli alunni che sono poco motivati ad un approccio intellettuale alle problematiche. Abbiamo
quindi tentato di muoverci coinvolgendo il più possibile l’insegnante di educazione
fisica e avvalendoci della collaborazione di esperti che fossero tali non solo per titoli
accademici acquisiti ma anche per esperienze di vita. Ci interessava insomma l’incontro con soggetti che avessero, e sapessero comunicare, un rapporto col corpo e col
movimento diverso da quello del nostro quotidiano. Soggetti che, appartenendo ad un
altro contesto culturale, avessero la capacità di aiutarci a riflettere sulla non neutralità
del nostro corpo e del nostro modo di muoverci, sulla difficoltà o sul fascino o sulla
valenza comunicativa di un “gesto” che mette in gioco parti del corpo su cui non
siamo soliti, nella nostra cultura, puntare l’attenzione.
Il contesto
La danza naturalmente si impose immediatamente come via privilegiata per indagare il rapporto tra corpo e cultura, sia perché ogni popolo ha sempre espresso nella
danza la propria concezione della relazione tra donna e uomo, con l’ambiente e la tradizione, sia perché sembrava interessante poter esplorare il rapporto che si struttura
tra danza e religiosità in contesti culturali diversi da quelli del mondo europeo (sareb-
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bero state possibili interessantissime collaborazioni con l’insegnante di religione).
Come sempre comunque, dopo aver elaborato il progetto sul piano astratto, mi
sono dovuta confrontare con la realtà, i suoi limiti e le sue potenzialità. Primo elemento di realtà era evidentemente il “programma” e poiché le classi coinvolte erano
due seconde è parso quasi ovvio prendere spunto dal programma di storia che prevede la trattazione del mondo arabo e la nascita dell’islam. Questo mi ha indotta a privilegiare l’analisi del gesto nel mondo arabo-islamico con riferimenti alla danza del
ventre e alla danza dei sufi, senza però sottovalutare il più semplice gesto rituale della
preghiera quotidiana.
Un altro dato di realtà di cui far tesoro è stata la concomitanza tra il nostro percorso di studi e l’organizzazione della mostra Afaq allestita dalla comunità islamica a
Bolzano. È stato così che il nostro percorso ha portato gli studenti in un primo tempo
a misurarsi con un gesto per loro molto consueto: quello della scrittura.Abbiamo partecipato ad una conferenza sul carattere e il significato artistico-religioso della calligrafia nel mondo islamico e ad un laboratorio di scrittura araba. Già il gesto dello scrivere cominciava a mostrarci un orizzonte culturale completamente diverso: la scrittura come arte e quindi non per il contenuto che esprime, o non solo per quello, ma per
la valenza estetica del segno. Il gesto dello scrivere come forma di connessione tra l’attività dell’uomo e l’infinita bellezza della parola di Dio. È stata un’esperienza abbastanza particolare, ricca di spunti di riflessione, ma che purtroppo non ha cambiato il
rapporto dei miei studenti con la grafia, muto testimone della loro scarsa voglia di
individuare la bellezza nel lavoro scolastico.
La disponibilità della comunità islamica di Trento ad accoglierci nella sala di preghiera intessendo con noi un dialogo e consentendoci di assistere ad una delle cinque
preghiere giornaliere è stata un’altra delle ricchezze a cui abbiamo potuto attingere,
sperimentando così lo stare a piedi nudi nel luogo sacro a cui si accede dopo aver purificato il corpo con l’acqua. (Vedendo la cura con cui i fedeli si lavavano le mani e il viso
sotto l’acqua corrente il pensiero è corso alle nostre acquasantiere, dall’acqua spesso
un po’ stagnante, e ai frettolosi segni di croce). È stato però il ruolo giocato dal corpo
nel suo rapporto con la terra (i fedeli toccavano più volte con la fronte il pavimento)
e con la direzione della Mecca a colpire di più gli studenti che a lungo si sono interrogati sulla valenza di questa gestualità e sulle somiglianze che si possono individuare
con certi aspetti del rito cattolico, soprattutto se colto nelle sue forme più cerimoniali
o più antiche.
Ma il coinvolgimento maggiore è avvenuto in palestra: del resto questo era quanto
previsto! Il caso però ha voluto che non potessimo percorrere l’ipotesi che era stata
prefigurata, consentendoci peraltro di fare tesoro delle variazioni imposteci dalla
sorte.
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Avevamo previsto di avvalerci della collaborazione di un esperto tunisino, attore,
danzatore e suonatore, ma all’ultimo momento impegni improcrastinabili ci hanno
sottratto la sua collaborazione costringendoci ad accettare la collaborazione di sua
moglie: un’attrice tedesca! Non nego che tutto ciò abbia all’inizio generato un certo
disappunto ma l’esperienza s’è rivelata invece ottima. In qualche modo attraversare il
percorso sul corpo e l’educazione interculturale sotto la guida di una donna che stava
vivendo il proprio corpo come luogo privilegiato della comunicazione e della relazione (era diventata da poco madre di una meravigliosa bambina che allattava nelle
pause del lavoro), ci ha comunicato una ricchezza che difficilmente avremmo potuto
attingere in condizioni diverse.
Julia Hillebrand, questo il suo nome, con le prime parole dette ci ha subito calati
nel cuore del percorso: “L’intento del corso è usare i movimenti del corpo, che altre culture hanno prodotto nella loro danza o quotidianità, per conoscere meglio il proprio
corpo come riflesso della propria cultura. Un modo, tra i tanti possibili, per imparare ad
arricchirsi e ad apprezzare il diverso, che non è un nemico, ma una porta da spalancare
su altri orizzonti.”
Propongo qui di seguito la relazione di Julia Hillebrand sul lavoro svolto, che mi
sembra chiarisca nel migliore dei modi l’esperienza fatta; c’è da aggiungere che il suo
lavoro in palestra è stato accompagnato in classe dalla lettura di alcuni testi relativi al
sufismo e da momenti di riflessione sulle percezioni di ciascuno.
L’esperienza in palestra tra Oriente e Occidente di Julia Hillebrand
I giorno: UN CORPO NEUTRO, lavoro di ognuno su se stesso
Per prendere atto delle nostre abitudini fisiche e caratteristiche somatiche lavoriamo sul tentativo di
neutralizzare il corpo. Cercando di eliminare ogni atteggiamento e scomponendo il corpo diventano
evidenti le abitudini di ciascun allievo/allieva.
Culturalmente parlando cominciamo dall’occidente, dal nostro mondo; il metodo è dovuto alla ricerca
della danza moderna, in particolare quella di Martha Graham.
Partiamo dallo scheletro, la spina dorsale, per lavorare poi su tutto il corpo, cercando di mettere un piccolo spazio immaginario tra le ossa, un “po’ di aria” nei gomiti, nel collo. Le sequenze da eseguire sono
semplici e proprio per questo difficili. Tra un esercizio e un altro torniamo sempre a un corpo neutro.
Il filo conduttore sono 4 criteri: lo spazio (alto, medio, basso), il tempo (variando ad esempio da 1 a 10),
il flusso (del movimento), il peso (reale delle parti del corpo).
Ognuno è invitato a fare un gesto pulito, che va dal suo inizio alla sua fine coinvolgendo una o più parti
del corpo. Quale parte del corpo guida, quale viene trascinata, dov’è il peso, dove appoggia…?
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Divido il gruppo in uomini e donne. Invito gli uomini a camminare prestando particolare attenzione ai
loro capezzoli, le donne invece al bacino: l’opposto di quello che culturalmente siamo abituati a fare. In
una semplice camminata nello spazio spostare l’attenzione da una parte del corpo a un’altra sembra già
un’esperienza nuova.
A metà della lezione ci mettiamo in cerchio per riflettere sul proprio corpo. Che cosa chiamiamo nudo?
Che cosa sarebbe nudo per una ragazza musulmana? In quali luoghi si può essere nudi? Che cosa facciamo per il nostro corpo? In che modo il nostro corpo sa parlare? Cerco di portare la loro attenzione su
due momenti storici:
1. il primo uomo nella caverna che racconta la sua caccia e per rendere soddisfacente il proprio racconto interpreta se stesso e l’animale che ha cacciato. Ecco il primo corpo che parla. (M. MerleauPonty, Recezione della fenomenologia);
2. nel primo secolo dopo Cristo i quattro evangelisti scrivono il Nuovo Testamento che ci giunge in
greco (Koinè), una lingua che s’accompagna ad un intero universo filosofico; è così che Aristotele
diventa un riferimento per la teologia cristiana e la sua definizione del corpo come prigione dell’anima segnerà la visione dell’occidente fondata sul dualismo corpo – mente con netta inferiorità del
primo (E. A. Johnson: Women, earth and creator spirit).
II giorno: IL CORPO DI UN’ALTRA CULTURA, lavoro in coppia
L’attenzione rimane sul proprio corpo, ma si aggiunge l’attenzione per il corpo del partner. Riprendiamo
la camminata nello spazio, ma questa volta ci sono incontri. Ogni incontro è un contatto con un altro
corpo (ad esempio prendersi per mano e scendere per terra). L’altro corpo ha un peso diverso, porta un
tempo, occupa uno spazio, ha un altro flusso.
Lavorando in due facciamo un massaggio e poi degli esercizi in cui un corpo porta l’altro. Cos’è più difficile, portare o lasciarsi portare? Non tutti riescono con facilità ad affidare il proprio peso all’altro.
Ogni coppia usa una corda, tesa tra i due, e crea una catena di movimenti precisi. Ora il contatto è solo
nella corda, l’attenzione per l’altro corpo è la stessa (metodo dal Messico, maestro Bruno Bert). Quando
ogni coppia ha creato una catena precisa di movimenti lasciamo la corda. Il filo tra i due adesso è soltanto l’attenzione.
Ci spostiamo in un’altra cultura. Il mondo arabo – musulmano con la danza del ventre e la danza sufi.
In cerchio focalizziamo l’attenzione su quello che andiamo a fare. Prendiamo in prestito dai monaci sufi
(da suf, parola araba per cotone: coloro che vestono solo di cotone) uno dei loro gesti per vedere cosa
succede al nostro corpo se lo ripetiamo oltre la soglia in cui ci sembra di non farcela più.
L’esperimento è ovviamente faticoso per tutti.Torniamo al lavoro di coppia con un massaggio al collo e
sulla fronte. (Il massaggio nella cultura indiana è un’abitudine costante, un gesto di ricreazione come
può essere il nostro offrirsi una cosa da bere. Per la nostra cultura il contatto fisico in questo senso non
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è affatto scontato e i ragazzi devono vincere la loro usuale discrezione.)
Per concludere impariamo quattro passi della cosiddetta “danza del ventre”, anche se il ventre non balla
che di riflesso: è il bacino che balla. Scegliamo una tradizione tunisina, i passi sono identici per uomini e
donne.
Dalla preghiera al ballo. Come sta il mio corpo nel movimento di un’altra cultura?
III giorno: LA MASCHERA NEUTRA, il mio corpo davanti agli altri
Nel riscaldamento ritorniamo ai temi del primo giorno: un corpo neutro nello spazio, con il suo peso, in
un tempo con un flusso.
Oggi andiamo a variare il peso reale del corpo cercando altre qualità corporee. I ragazzi sono invitati ad
immaginare il loro corpo di fango (peso, spazio, tempo), di acqua, di pietra, di aria. Con il fuoco sperimentiamo un parossismo, un crescendo e decrescendo del tempo del movimento. Partire dalle mani,
per poi trasmettere il movimento a tutto il corpo, li aiuta perché parlare con le mani è rimasto nella
nostra abitudine quotidiana.
In un certo senso torniamo così all’uomo nella caverna che esprime con il suo corpo gli elementi, gli animali, ciò che lo circonda (gli antropologi concordano nel dire che l’uomo/la donna hanno prima inventato la danza, poi le varie lingue).
I corpi adesso sono caldi e hanno cominciato a creare.
Introduco la maschera neutra. Ci sono poche regole per usare la maschera, per renderla efficace, per non
tradirla. Chiedo di rispettarne solo tre: la maschera si mette e si toglie con le spalle al pubblico; la maschera non si tocca con le mani; lo sguardo spazia in un immaginario triangolo davanti a chi lavora, non oltre.
La maschera funge da protezione, toglie il viso e obbliga il corpo a parlare. La maschera neutra non ha
sesso, né razza, né età ma vedremo nel corso del lavoro come sembra animarsi perché il corpo racconta.
I ragazzi sperimentano con la maschera le qualità corporee trovate prima. Proviamo ad accostare un
corpo che lavora sul fuoco a un corpo che lavora sul fango. La ragazza “fuoco” potrebbe essere una strega che incanta o muove il corpo “fango”.
Per sciogliere i corpi ancora di più ognuno scrive il proprio nome. Prima in italiano, poi in arabo. E quello che speravo da tre giorni succede: qualcuno comincia a danzare…
“Le ferite di un’anima bisogna conservarle
in quanto queste esperienze si trasformano in gioia o in dolore,
nella materia grezza di una poesia
che non si esprime con le parole ma con il corpo.
È così che immagino le origini della danza.”
(Kazuo Ohno, danzatore)
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UNO SGUARDO DALL’AFRICA
L’esperienza poi è proseguita con la collaborazione di Luciana Moggio, esperta di
danza africana, che ha introdotto gli studenti, attraverso un discorso storico-antropologico e con il racconto delle proprie esperienze in Africa, nel mondo del gesto e del
ritmo centrafricano. Sono state naturalmente necessarie delle semplificazioni ma si è
cercato di porre attenzione a non appiattire le diversità che caratterizzano quel crogiolo di culture che noi definiamo genericamente “africane”. L’accento è stato posto
sul ruolo della terra, fonte di ogni energia, e quindi sui movimenti di danza che tendono a rinsaldare e vivificare il rapporto dei danzatori con il suolo, cosa piuttosto contrastante con la nostra tradizione di danza in cui prevale la ricerca dell’alto, della leggerezza; si potrebbe quasi dire che tanto più i ballerini sono bravi tanto meno toccano il suolo. A dare corpo, voce ed energia a questo discorso teorico si è prestata
Isabelle Loukoum Matitibahomn che, carica di stoffe, cavigliere, sonagli e fazzoletti, ha
fatto entrare le ragazze e i ragazzi nel mondo colorato e ricco di energia comunicativa
del suo villaggio africano. Ha raccontato dei riti d’iniziazione, del ruolo del canto e
della musica, ha mostrato i passi di danza più tradizionali ed è riuscita, nonostante le
immancabili resistenze maschili, a coinvolgere tutti in una sarabanda di gesti e parole
ben esplicativa di cosa s’intende quando si dice che il corpo non perde energie nella
danza ma dalla danza le trae, poiché quella è la via privilegiata del rapporto con la
terra e con tutto ciò che v’è di sacro.
L’intervento di Isabelle non ha sottaciuto i problemi del rapporto tra tradizione e
modernità, né le inevitabili prese di distanza da un modello di vita fortemente caratterizzato da una disuguaglianza di genere, non ha insomma fatto dell’esotismo ma ci
ha permesso di calarci in una dimensione di danza che ci spinge a rimettere in discussione le nostre categorie estetiche e percettive.
Note di valutazione
A fine percorso, il bilancio fatto dagli studenti e più ancora dalle studentesse è stato
decisamente positivo. In particolare è stata apprezzata molto l’opportunità di entrare
in rapporto con persone provenienti da diversi paesi, con culture differenti ed è stata
colta fino in fondo l’occasione di riflettere sul ruolo del corpo nella comunicazione e
sulla forza della memoria storica che nel corpo s’iscrive.
Questa tipologia di lavoro ha promosso infatti la consapevolezza di sé, ha messo in
luce potenzialità e nuove forme di relazione, ha portato ad una comunicazione diversa tra studenti e insegnanti.
Vanno ricordati alcuni punti di difficoltà, propri non solo di questo percorso, ma
in generale del lavoro nella scuola. Sul piano educativo va messa in conto una ritrosia
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dei maschi a lasciarsi coinvolgere in esperienze che richiedono esibizione e contatto
fisico; particolari difficoltà si sono riscontrate in una delle due classi durante la seconda fase (danza africana).
Continuando sulla pista aperta, sarebbe da impostare un’attività di analisi più
strutturata delle emozioni personali e di confronto tra i movimenti della danza in
Europa e in altri contesti geografici.
Sul piano organizzativo: non è stato facile reperire esperti che fossero sempre in
grado di coniugare il sapere pratico e quello teorico; questo ha comportato un riadattamento del percorso ipotizzato rispetto alle risorse umane disponibili.
È stata poi un’impresa costruire un calendario che non intaccasse eccessivamente
gli spazi e le esigenze dei colleghi e che permettesse la presenza degli insegnanti coinvolti per un’osservazione sistematica del lavoro con i ragazzi; sarebbe da studiare una
flessibilizzazione dell’orario scolastico che non mortifichi la sostanza di quello che si
progetta.
Per concludere lascio la parola ai ragazzi, riportando qui di seguito alcuni dei giudizi da loro espressi nel questionario di valutazione.
Ho capito che nella nostra cultura il corpo viene considerato meno della mente, mentre in altre è un elemento sacro.
(Sara)
Mi ha stupito poter apprendere alcuni aspetti di altre culture che prima non sapevo
neanche che esistessero.
(Mirko)
Non pensavo che nei balli africani si giocasse con la forza di gravità, che tutti potessero
ballare da soli o in più d’uno alla volta in mezzo al cerchio formato dalle persone. (Moris)
Mi è piaciuto moltissimo perché ho potuto conoscere persone con una cultura totalmente differente dalla mia. Nel contesto in cui vivo di solito le altre culture vengono in un
certo senso sottovalutate.
(Stefania)
Non mi rendevo conto di quanto il mio corpo riflettesse la mia cultura, o meglio…
quanto l’atteggiamento di una persona riflette la sua cultura, le abitudini del luogo in cui
vive.
(Beatrice)
Mi ha fatto riflettere soprattutto Isabel; mi ha mostrato una situazione totalmente
diversa dalla nostra e, sinceramente, forse migliore… da noi c’è solo il progresso... non si
fa caso alle piccole cose che rendono davvero felice una persona.
(Laura)
Ho capito che nella mia cultura il corpo non ha significato, è un oggetto da guardare
e da mostrare solo per il suo aspetto esteriore.
(Elisa C.)
Fino a questo momento non avevo avuto mai la possibilità di confrontarmi con persone di altre culture e con altri modi di pensare. Gli incontri mi hanno consentito di
arricchirmi sul piano personale.
(Elisa F.)
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IN VIAGGIO CON I RAGAZZI: PALESTRA, PALCOSCENICO E ALTRI LUOGHI
Il corpo come memoria
Si nota, confrontando le varie culture, che gli europei usano più la mente che il corpo
e considerano quest’ultimo come una “macchina”, invece che una “cosa sacra” come in
Africa.
(Paola)
Mi è piaciuto molto perché dobbiamo uscire un po’ dalla nostra cultura, perché la
nostra non è l’unica e neppure la migliore (come molta gente pensa).
(Mario)
CONTENUTI E CAMPI DI ESPERIENZA
1. Il programma di storia e le esperienze fuori aula
• Il percorso si è radicato nel lavoro sulla storia arabo-islamica trattata nelle classi
seconde intorno alla metà dell’anno scolastico. Eventi, pensiero filosofico, religione,
forme artistiche sono stati studiati attraverso le lezioni tradizionali (strumenti: il
libro di testo e altre letture specifiche), in accordo tra insegnanti delle due classi
coinvolte. Si sono organizzate uscite che permettessero una conoscenza diretta di
luoghi, persone, aspetti artistici del mondo arabo musulmano presenti sul territorio.
• Visita della sala di preghiera islamica (Trento), conduzione a cura della Comunità
Islamica del Trentino – Alto Adige:
-
descrizione del luogo e delle sue funzioni;
ritualità;
preghiera;
dialogo con i ragazzi e approfondimenti.
• Visita della mostra Afaq (Bolzano):
- conferenza sulla scrittura araba artistica;
- laboratorio di calligrafia.
2. Il lavoro in palestra 1: La danza tra Oriente e Occidente
Il seminario con Julia Hillebrand si è svolto in 3 lezioni, con dimostrazioni e spiegazioni da parte dell’esperta, e con il lavoro dei ragazzi sullo spazio e sul tempo, sul proprio corpo, sul rapporto con altri, sull’espressione e la comunicazione.
1° giorno: Un corpo neutro (lavoro di ognuno su se stesso);
2° giorno: Il corpo di un’altra cultura (lavoro in coppia);
3° giorno: La maschera neutra (il mio corpo davanti agli altri: teatro).
Per la descrizione del lavoro rinviamo alla relazione dell’esperta (pp. 115-117)
3. Il lavoro in palestra 2: La danza in contesto centroafricano
Anche per questo argomento ci sono stati due incontri, condotti da esperte portatrici
di diverse esperienze personali e professionali, articolati in esibizione, narrazione,
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approfondimento teorico, esercitazione collettiva.
1° giorno: con Luciana Moggio
• Introduzione storico-antropologica.
• Il gesto e il ritmo di paesi dell’Africa centrale.
• Il ruolo della terra e il rapporto tra i danzatori e il suolo.
• Esempi di danza.
2° giorno: con Isabelle Loukoum Matitibahomn (Togo)
• Esempi di danza e loro significato.
• Riti di iniziazione.
• Ruolo del canto e della musica.
• Rapporto tra tradizione e modernità.
• Ruolo della donna.
4. Riflessione, mostra, valutazione
Le esperienze in palestra hanno trovato elaborazione e approfondimenti durante le
lezioni di Lettere: rilettura del vissuto personale e collettivo, ripresa dei temi trattati
sul versante storico e antropologico, ma anche come riflessione sul ruolo del corpo
nella comunicazione.
A fine anno, nell’atrio dell’istituto è stata allestita una mostra a documentazione dei
percorsi svolti (vedi il progetto Sport e Guerra).
Un questionario di valutazione del percorso è stato predisposto in forma diversificata
per tutti gli “attori” del percorso: ragazzi, insegnanti, esperti.
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IN VIAGGIO CON I RAGAZZI: PALESTRA, PALCOSCENICO E ALTRI LUOGHI
Il corpo come memoria
Scheda di progetto
Il corpo come memoria
TEMA
DESTINATARI
Rapporto tra corpo e cultura attraverso gestualità, ritualità, danza.
Studenti del secondo anno.
Realizzato con due classi: 2iB e 2iE. Totale: 43 studenti.
DISCIPLINE
• Lettere e Storia (Lia Bonvecchio, Paola Morini)
• Educazione fisica (Stefania Olfi, Marta Segato)
• Sviluppare la consapevolezza del proprio corpo attraverso la gestualità
espressiva.
OBIETTIVI FORMATIVI
• Sviluppare la conoscenza di sé in rapporto al proprio contesto culturale.
• Sperimentare direttamente gestualità e uso del corpo palesemente
diversi rispetto alla tradizione culturale europea: danza orientale sacra
(sufi) e profana (danza del ventre).
• Sviluppare la conoscenza di elementi culturali del mondo arabo-islamico (in connessione con il programma di storia sulla nascita dell’Islam).
• Conoscere “il gesto della scrittura” e il significato artistico-religioso della
calligrafia nel mondo islamico.
• Conoscere alcuni aspetti sociali e artistici dei paesi dell’Africa centrale.
• Riconoscere i nessi tra contesti culturali e religiosi e danze relative.
OBIETTIVI COGNITIVI
• Analizzare elementi culturali generali attraverso il linguaggio del corpo e
della danza.
• Conoscere forme e stili di danza del mondo arabo-islamico.
• Analizzare i significati simbolici della danza e le modalità con cui si esprime la relazione con il sacro.
• Riconoscere e analizzare il valore narrativo del gesto e della danza.
• Riconoscere e confrontare il concetto di nudo in diversi contesti culturali (a partire dal proprio).
L’esperienza diretta, la riflessione, la ricerca:
• Dimostrazione di danze.
MODALITÀ DI LAVORO
• Esercitazioni collettive.
• Lezioni frontali.
• Momenti di confronto e discussione.
• Riflessioni scritte.
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• Telecamera.
STRUMENTI e MATERIALI
• Letture: testi relativi al ruolo del corpo e della danza nel rapporto con Dio
(tradizioni mistiche orientali e culti africani e afro-brasiliani).
• Film.
• Rachid ben Ajmi Saafi (Comunità Islamica del Trentino- Alto Adige).
• Esperti delle danze selezionate:
RISORSE ESTERNE
- Luciana Moggio, Isabelle Loukoum Matitibahomn (danza africana);
- Julia Hillebrand (danza mediorientale).
• Centro Audiovisivi della Provincia Autonoma di Trento
SPAZI
• Aula.
• Palestra.
• Novembre 2002: progettazione tra insegnanti.
• Gennaio – marzo 2003: attuazione.
• 3 incontri di 2 ore (danza orientale, durante le lezioni di educazione fisica).
• 2 incontri di 2 ore (danza africana, durante le lezioni di educazione fisica).
TEMPI
• 2 ore (spettacolo finale di capoeira, in collegamento con il progetto “Lo
sport e la guerra”).
• 12 ore (lettura testi ed elaborazione delle esperienze, durante le lezioni di
italiano e storia).
• 1 giornata (visita della mostra Afaq a Bolzano).
• 3 ore (incontro presso la comunità islamica).
• Griglie di osservazione (per gli insegnanti).
STRUMENTI di VALUTAZIONE
• Discussione all’interno delle singole classi.
• Esposizione orale e preparazione di cartelloni (mostra).
• Questionario.
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Il mito nelle società tradizionali dell’Africa Occidentale
Liceo delle Scienze Sociali “A. Rosmini”, Trento
Monica Ducati
“All’improvviso, la gente si alza, agita mani e braccia, grida la propria gioia,
tutto si conclude: la rete del risultato pari è stata appena realizzata a bruciapelo
da un centravanti che viene portato in trionfo attorno al campo di gioco.
Ognuno grida: otto a otto, otto a otto! […]
Gli indigeni giocavano lo stesso gioco di prima, con squadre comprendenti
lo stesso numero di uomini e su campi da gioco di uguale formato,
ma avevano cambiato una regola, una sola piccola regola.
“Una partita si conclude quando una squadra vince
e l’altra perde, e solo in quel caso!” dicono i nostri marinai;
“Ci vuole un vincitore e un vinto.”“No, no” sostengono gli isolani. […]
“Quando tagliate una focaccia in base al numero
di coloro che sono seduti attorno al forno, non la spartite? […]
Vi è forse mai venuto in mente di fare lo spareggio di questa focaccia? […] come al calcio.
Se voi ne fate lo spareggio, uno la mangerà tutta intera
e gli altri non mangeranno nulla.”
(Michel Serres, Il mantello di Arlecchino.“Il terzo istruito”: l’educazione dell’era futura)
PICCOLA INTRODUZIONE
Perché parlare ancora una volta di un progetto interculturale?
Mi verrebbe da rispondere: perché credo che attraverso l’incontro/scontro (con
l’altro o gli altri, con se stessi, con i significati, con le parti del proprio corpo, etc.),
attraverso il decentramento spaziale, razionale, emotivo, immaginativo, attraverso
anche la messa in gioco diretta delle abilità e la costruzione comune dei percorsi sia
possibile comprendere e vivere i principi fondanti della democrazia. Penso che qualsiasi diversità vada avvicinata con curiosità, timidezza e prudenza.
In questo momento, però, mi sto proponendo un obiettivo molto più modesto.
Dentro alcune righe di Duccio Canestrini leggo che non è né ovvio né obbligatorio
pensare che le culture si debbano mescolare, e soprattutto, che è invece sempre facile
cadere nella retorica della mescolanza e dei contatti con l’altro, o altri che siano.
L’unica cosa che vorrei e posso fare qui, è solo raccontare una storia, senza pretese
di completezza, sapendo bene che il mio è uno sguardo sulle cose parziale e focalizzato, che darà loro un colore che avrebbe potuto benissimo essere diverso. Per questo,
visto che tante sono state le voci raccolte dentro questo lavoro, di cui mi sono fatta
semplice espositrice, mi scuso fin da subito se, ognuna di esse essendo filtrata dal mio
sguardo, potrò avere omesso o mal interpretato qualcosa.
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Il mito nelle società tradizionali dell’Africa Occidentale
È già il secondo anno scolastico che propongo al mio Consiglio di classe e alle mie
classi terze questo tipo di intervento, e non me ne sono mai pentita, visti i risultati
ottenuti.
Non è comunque immediata la possibilità di mettere assieme Platone e le scarificazioni africane, la palestra e l’arte contemporanea più irregolare. Ci siamo riusciti
connettendo il tutto all’idea di mito. O meglio, è partendo da quest’ultima idea che
sono sorte, poco a poco, tutte le altre aperture.
I PROTAGONISTI
Eccoci allora al momento delle presentazioni:
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•
•
Monica: insegnante di Scienze Sociali;
Loris: insegnante di Filosofia;
Lorenza: insegnante di Educazione Fisica;
Il Consiglio della classe 3SB del Liceo delle Scienze Sociali “A. Rosmini” di Trento;
Federica: coordinatrice del gruppo di lavoro;
I partecipanti e le partecipanti al gruppo di lavoro;
Le collaboratrici del centro Millevoci;
Il Direttore dell’IPRASE e gli interlocutori del gruppo di lavoro, Luisa e Claudio;
Gli esperti (Canestrini e Manetti);
Gabriel, mediatore interculturale;
Gli alunni e le alunne della classe 3SB;
I tecnici della scuola.
IL GRUPPO DI LAVORO, SECONDO ME
Nell’autunno del 2002, su sollecitazione di una collega, docente come me presso
l’Istituto “A. Rosmini” di Trento, sono stata invitata a partecipare ad un gruppo di lavoro che aveva come obiettivo la messa in comune di alcune idee riguardanti progetti
interculturali nelle scuole, largamente intesi. Tutto ciò si sarebbe effettuato con la collaborazione e la supervisione dell’IPRASE e del Centro Millevoci, entrambi di Trento.
Nonostante l’intero percorso non mi fosse ancora chiaro nel dettaglio – anche perché
non avevo potuto essere presente alla prima serie di interventi - ho accettato la sfida e
sono entrata a pieno titolo nell’attività, stimolata da un rapporto di proficua collaborazione che intrattengo da tempo con il Centro Millevoci. Sapendo quindi di essere in
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mani sicure e confortata dalla riuscita di un precedente progetto non ho esitato a
spendere le mie energie, prima di tutto nel pensare di dar vita ad un’idea che coinvolgesse la comunicazione corporea, tema che nelle nostre scuole, soprattutto gli Istituti
secondari, è sovente messo in secondo piano.
Per ritornare al gruppo, posso dire che la modalità di lavoro che è stata adottata,
basandosi su incontri periodici di comune confronto, mi è parsa veramente efficace,
almeno per una mia lettura personale. Credo vada sottolineata l’importanza che può
avere, ed in effetti ha avuto, la presenza costante di un coordinamento che aiuti a legare insieme voci diverse e necessità professionali e personali che hanno più volte riconfigurato le nostre riunioni. Tutto ciò è stato tenuto insieme con estremo rispetto e
competenza e, mi viene da dire, anche con creatività e dolcezza. Dico questo non per
affermare cose scontate o per banale piaggeria, ma a causa della conoscenza e delle
affinità che mi legano alle persone che lavorano al Centro. Posso persino dire che non
so se il nostro lavoro sarebbe potuto riuscire senza la presenza informata e sensibile,
rassicurante, generatrice di dubbi e stimoli di chi ha organizzato il gruppo di lavoro.
Non posso però neppure dimenticare le persone che ho potuto incontrare e con le
quali ho potuto confrontarmi. Teresa, Chiara e Donatella non hanno potuto seguire il
lavoro fino alla sua conclusione; alla fine siamo rimaste in poche, ma non credo che il
senso di questo percorso sia stato solo nell’elaborare un progetto e un prodotto finale. Del gruppo è importante ricordare l’intera storia, e di essa fa parte a tutti gli effetti
ogni persona che ci è entrata, anche se magari per poco. Ho ascoltato tutti con interesse ed attenzione, per sentire storie di scuola diverse, che hanno messo in gioco difficoltà, prospettive, soluzioni che non mi erano familiari. All’inizio ero un po’ perplessa ad entrare in relazione soprattutto con docenti di Educazione Fisica, per una sorta
di condizionamento mentale, che fa pensare che ci siano collegamenti prioritari ed
esclusivi tra alcune discipline piuttosto che tra altre. Pensavo che mi sarei trovata dentro un discorso tecnico al quale non avrei potuto contribuire e dentro il quale mi sarei
sentita estranea. Ma mi sono dovuta ricredere…
Figure importanti, anche se con ruoli e presenze diversi rispetto alla “quotidianità”
del gruppo, sono state Luisa e Claudio dell’IPRASE, che hanno tenuto le fila del percorso, sono stati presenti ad alcune riunioni e durante gli interventi degli esperti,
hanno fatto un po’ da registi dell’intero progetto. Anche loro hanno fornito utili sollecitazioni e stimoli al dibattito.
E, per finire, gli esperti. Ho potuto seguire solo uno degli interventi di Duccio
Canestrini previsti in calendario, ed ho assistito solo in parte alla relazione di
Giovanni Manetti. È vero inoltre che, per la ricaduta sul mio progetto, ho potuto utilizzare come maggiormente vantaggiose le prospettive di Canestrini; a causa, penso,
di un ostracismo personale, ho sempre ritenuto un po’ ostica la dimensione della
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Il mito nelle società tradizionali dell’Africa Occidentale
semiologia, che peraltro considero una zona del sapere molto interessante e densa di
spunti, e che Manetti ha davvero illustrato in maniera sapiente. Magari un’altra volta
mi impegnerò di più in questo senso…
Per ritornare a Canestrini, ricordo bene quel pomeriggio (chiamiamolo “seminario”, se vogliamo essere più seri) passato assieme a lui e al gruppo. Ci sono stata molto
bene. Mi è piaciuto il modo lieve ma attento di affrontare le questioni e le domande, e
seguivo il rincorrersi e l’apparire dei concetti e dei ricordi, dove nulla era forzato.
GLI ALUNNI E LE ALUNNE
Linda, Davide, Enrico, Mara, e Giulia, Lucia, Camilla, Eleonora...
Sono ragazzi e ragazze curiosi e vivaci, che hanno avuto voglia di mettersi in gioco
e impegnarsi in un’avventura didattica poco consueta.
Ognuno si è assunto, come da contratto formativo stipulato insieme, uno o più
compiti precisi per la realizzazione comune del progetto. Senza il concorso di più forze
sarebbe stato impossibile riuscire a fare qualcosa di buono, stretti tra i tempi scolastici e le esigenze contenutistiche di tutte le materie. Questa condivisione di responsabilità comuni e specifiche, inoltre, ha fortemente motivato la classe e, come suggeriscono i teorici del cooperative learning, rappresenta l’unico modo per evitare deleghe reciproche tra i membri e presenze solamente virtuali.
Giada è stata una segretaria inappuntabile, alla quale non sfuggiva nessun impegno.
Lucia, Giulia ed Eleonora, Valeria, Enrico e Desirée si sono occupati della correzione ed elaborazione dei testi da utilizzare nel video che è servito ad illustrare il lavoro.
Davide e Beniamino hanno messo assieme un bellissimo CD di canzoni e musiche
da utilizzarsi come colonna sonora per le riprese.
“Ci è nata l’idea di provare a miscelare la musica africana (del Senegal, della Sierra
Leone, dello Zimbabwe, del Congo...) alla contemporanea come l’hip hop di Eminem e i
ritmi accesi dei System of a down. Siamo convinti che il linguaggio musicale non abbia
confini e sia quindi possibile assemblare diverse espressioni. Abbiamo tenuto come motivo di fondo il ritmo delle percussioni, associando via via le altre canzoni a seconda delle
assonanze melodiche”1.
Mara ha messo a frutto le sue abilità nell’uso dell’acquerello e, insieme a Stefania,
Francesca, Beatrice, Linda e Giorgia, ha dipinto dei coloratissimi cartelloni illustranti
i miti e riassumenti il progetto.
“I cartelloni sono stati realizzati con le tecniche della tempera e dell’acquerello appre1
Tutti i testi sono stati elaborati dai ragazzi/e a documentazione del percorso effettuato.
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se durante i corsi di arte organizzati dal nostro Istituto. Acquerelli e tempere sono stati
maggiormente usati per creare gli sfondi. I colori che abbiamo utilizzato non erano stati
scelti casualmente ma allo scopo di creare un effetto armonioso e gradevole alla vista.
Abbiamo inoltre abbellito i nostri lavori con alcune figure umane che si davano la
mano; questo per simboleggiare il rapporto relazionale che si era creato durante le ore di
compresenza tra le nostre tradizioni e i miti della Costa d’Avorio. Per lo stesso motivo
abbiamo tratteggiato una linea che univa il nostro Paese, l’Italia, all’Africa.
Su di un altro cartellone abbiamo impresso lo stampo delle nostre mani con due colori: il marrone scuro e il rosa. Sono i colori che abbiamo scelto per rappresentare rispettivamente l’identità africana e occidentale.”
Majra si è occupata dei contatti con i tecnici.
Ezio, assieme a Giulia, Elisa e Laura, ha scoperto le sue abilità durante le riprese video.
“Verso la fine dell’anno scolastico la professoressa di Scienze Sociali ci ha proposto la
realizzazione di un video sul lavoro fatto durante l’anno con il mediatore culturale. La
proposta è stata accolta con molto entusiasmo da tutta la classe, e in particolare da me.
Mi sono subito offerto per le riprese del video, non perché mi sentissi un ottimo lettore o
avessi un buon feeling con la telecamera, ma per il semplice fatto che m’ispirava quel tipo
d’incarico.
Alla mia prima ripresa ero un po’ agitato ma comunque ho letto discretamente il mio
pezzo. Man mano che si andava avanti con le prove la tensione calava e mi sentivo più a
mio agio. Non era un lavoro pesante e personalmente ero contento quando arrivava il
mercoledì perché mi sentivo molto coinvolto.
Il primo approccio con la telecamera è stato comunque ottimo da parte di tutti, c’era
un grande entusiasmo e tutti abbiamo cercato di dare il massimo. La professoressa ci ha
molto aiutato incoraggiandoci ed elogiandoci anche quando magari non lo meritavamo.
Alla fine eravamo tutti soddisfatti del lavoro svolto.”
Camilla, Beniamino, Giulia e Federica hanno prodotto un dossier2 che è stato
esposto, assieme ai cartelloni, nella Sala Esposizioni della Provincia Autonoma di
Trento il 19 maggio 2003, in occasione della presentazione del fascicolo relativo alla
mostra Le Radici e le Ali, un’occasione ufficiale per esporre e parlare dei progetti in
corso nelle scuole.
Tommaso si è occupato della scannerizzazione delle immagini necessarie al dossier.
Infine Laura, Stefania, Elisa e Giada, Valeria, Federica e Beatrice hanno studiato la
presentazione del nostro progetto ad una classe prima dell’Istituto e lo hanno illustrato.
2
Conservato presso il Centro Millevoci e l’Istituto “A. Rosmini” di Trento.
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Il mito nelle società tradizionali dell’Africa Occidentale
I RAGAZZI E LE RAGAZZE HANNO SCRITTO…
Grazie a quest’attività di interazione culturale abbiamo potuto volgere lo sguardo verso
realtà diverse dalla nostra. In particolare abbiamo analizzato i miti del corpo e rilevato
numerose differenze rispetto alla nostra società; ad esempio i segni incisi sul corpo per noi
rivestono una funzione soprattutto estetica, mentre in Africa acquistano un significato sacro.
Abbiamo ritenuto particolarmente costruttivo questo incontro perché spesso tendiamo a sottovalutare queste società in quanto abituate a vivere più a contatto con la natura. Ma affermando ciò ci fermiamo alle apparenze.
Con questa compresenza abbiamo avuto la possibilità di approfondire il significato e
l’importanza del mito e di capire come esso cambi a seconda del contesto culturale.
(Linda e Giorgia)
L’intervento del mediatore interculturale è stato interessante perché ci ha fornito una
conoscenza più approfondita sulle culture e sulle tradizioni dei popoli africani, da noi
considerati in precedenza primitivi, irrazionali e privi di metodo. Invece, come abbiamo
potuto constatare, le società tradizionali attribuiscono un particolare significato alla loro
vita quotidiana e riescono a trovare una spiegazione ad ogni situazione accaduta.
Con gli incontri di Gabriel abbiamo inoltre potuto approfondire il programma di
Scienze Sociali e Filosofia riguardante il mito, il corpo, il linguaggio e i simboli.
(Elisa e Giulia)
Ci riteniamo fortunati di aver partecipato a questa interessante esperienza. Gabriel è
stato un buon professore; quando spiegava la classe partecipava vivacemente alle sue
lezioni. Queste, molto interessanti, ci hanno fatto conoscere aspetti affascinanti di alcune
culture africane, delle quali non sapevamo nemmeno l’esistenza.
In palestra Gabriel ci ha mostrato e insegnato come sia così importante per loro la
gestualità del corpo.
Sicuramente molto interessante è stato anche analizzare il mito, sia da un punto di
vista filosofico che antropologico, e questo ci ha dato la possibilità di conoscerlo più a
fondo cogliendo i suoi veri significati e funzioni.
(Camilla e Beniamino)
Il lavoro che abbiamo fatto con Gabriel è stato interessante e allo stesso tempo divertente e costruttivo. Ci ha messo in relazione con la cultura africana, permettendoci di
confrontarla con la nostra e di notare le differenze e le somiglianze.
Ci ha fatto piacere avere la possibilità di immergerci direttamente in questa cultura,
grazie alla danza, scoprendo i suoi significati e i suoi valori.
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I miti africani ci hanno aiutato a capire meglio le lezioni teoriche tenute da Gabriel.
È stato un approccio molto stimolante che ci sarebbe piaciuto continuare.
(Laura e Majra)
Quando ancora non era cominciata la nostra esperienza con Gabriel, pensavamo che
non fosse tanto utile, ma cambiammo presto idea…Il nostro primo incontro fu, infatti,
molto importante perché ci fece capire che la danza non era solo un atto senza significato, ma l’espressione di uno stato d’animo. Ci ha fatto scoprire quanto sia differente la cultura africana dalla nostra. Ci piacerebbe molto approfondire e ripetere gli incontri con il
mediatore culturale.
(Francesca e Federica)
…E VALUTATO IL PROGETTO
Per quanto riguarda un giudizio tecnico sul lavoro svolto durante l’anno, gli alunni
e le alunne hanno dimostrato di possedere una buona consapevolezza del percorso
compiuto nelle sue varie tappe, e di averlo molto apprezzato. Praticamente tutti avrebbero desiderato approfondire ed aumentare gli incontri con il mediatore; hanno rilevato che l’incontro con persone appartenenti a culture diverse dalla propria rende più
consapevoli degli usi e costumi del proprio ambiente, ed è utile a trovare diversità e
punti in comune. Sono stati colpiti dal fatto di aver dovuto fare i conti con i pregiudizi, le rigidità, gli schematismi soggettivi e di gruppo; sono rimasti affascinati dal racconto dei miti, dalla danza e dalla cultura del corpo in Africa, dall’uso dei colori; hanno
apprezzato la chiarezza del mediatore interculturale nella spiegazione e nella conduzione del lavoro; hanno considerato molto chiaro il rapporto tra i vari saperi coinvolti.
IL MEDIATORE INTERCULTURALE
“Mediatore”, o “mediatrice”, dovrebbe essere colui, o colei che fa da tramite tra due
realtà, cercando di metterle, più che in contatto, in una situazione di reciproco ascolto. In questo caso l’ambito che ci interessa è rappresentato dai sistemi culturali.
È sorta molto naturalmente l’esigenza di contattare un mediatore interculturale
per l’attuazione del nostro progetto di classe, essendo i saperi coinvolti – l’antropologia culturale, la filosofia, l’educazione fisica – e il tema prescelto – il corpo e l’espressività - suscettibili di una trattazione non standardizzata.
La mediazione interculturale è portata avanti da figure di funzione. Ma, come ho
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IN VIAGGIO CON I RAGAZZI: PALESTRA, PALCOSCENICO E ALTRI LUOGHI
Il mito nelle società tradizionali dell’Africa Occidentale
già richiamato nella piccola introduzione, questo per me non è il luogo per le puntualizzazioni teoriche. Per queste si può guardare ai progetti. Qui, come già detto, si racconta solo una storia.
Gabriel, il mediatore interculturale suggeritoci dal Centro Millevoci, proviene dalla
Costa d’Avorio. Egli è stato una presenza molto apprezzata all’interno dell’Istituto nel
quale insegno, poiché ha saputo letteralmente catturare e rapire l’attenzione di ragazzi e ragazze proponendo delle soluzioni veramente originali e attentamente studiate.
Quando lavoro con Gabriel so che nulla è lasciato al caso, ma che nello stesso tempo
ci sarà modo di percepire, sentire, avventurarsi e osare. Questa è una ricetta che con il
gruppo della 3SB ha ottenuto risultati fenomenali. Il suo primo incontro con la classe
è avvenuto in palestra, a freddo, senza conoscersi, e iniziando subito a lavorare sul
corpo. Non poteva essere altrimenti dentro un progetto che, ricordiamolo, porta il
titolo di Gesto, espressione, cultura. Nonostante l’apertura liberante, ho potuto apprezzare poi anche la capacità del mediatore di saper ricondurre dentro direzioni produttive e non dispersive le grosse energie messe in gioco da ciascuno. Questo ha fatto sì
che si creasse una situazione di “presa di distanza da”, ma nello stesso tempo di costruzione/ricostruzione di significati.
Vorrei dire che nella vita di scuola c’è bisogno di momenti come questi, se è vero
che essa può essere definita, prima che luogo di trasmissione di contenuti, spazio per
l’acquisizione di competenze. I contenuti ci sono stati, e sono stati assimilati come non
mi è mai capitato di vedere in altre occasioni scolastiche; ma, se non sono legati ad un
contesto, restano asfittici e, quindi, impediscono di respirare a chi sta dentro le aule.
I FILM
Non è mia intenzione proporre qui delle schede filmografiche, ma solo indicare
alcune caratteristiche e piste di lavoro che hanno fatto di questo materiale un prezioso strumento di avvicinamento e approfondimento (nel paragrafo successivo accenno
ad altri ambiti ed espansioni possibili):
Le bois sacré, regia di Mohamed Soudani (Costa d’Avorio 1989)
Un’affascinante visione della natura e della cultura in Africa Occidentale. Nonostante il video non sia
nuovissimo, riesce ugualmente bene a dare tutta una serie di informazioni e di immagini preziose sulle
religioni tradizionali delle popolazioni abitanti la foresta della Costa d’Avorio.
Contenuti: Cerimonie d’iniziazione, riti sacri e danze nel cuore della foresta della Costa D’Avorio; il ritratto
di una delle popolazioni africane animiste tra le meno conosciute e più temute; la foresta, madre nutrice,
rispettata e adorata, è un luogo nascosto, protetto dai geni, punto d’incontro del visibile e dell’invisibile.
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A nous la rue, regia di Moustapha Dao (Burkina Faso 1986)
Il film è interessante da visionare a livello didattico; è parlato in lingua originale senza sottotitoli.Tuttavia,
le scene di vita quotidiana in un villaggio africano vengono trasmesse con freschezza e sono facili da
interpretare.
Basquiat, regia di Julian Schnabel (Usa 1996)
Il film è una biografia romanzata del grande artista e creatore di immagini; lo abbiamo utilizzato per analizzare i miti della gioventù contemporanea.
Da autore di graffiti metropolitani, a 19 anni Jean-Michel Basquiat passa alla condizione di artista prestigioso e controverso. Le sue mostre sono tra gli avvenimenti più attesi a New York e ogni aspetto della
sua vita diventa oggetto di discussione sui media. Nel 1988 soccombe ad una dose di eroina all’età di
27 anni (il New York Times lo definisce “l’artista più vicino a James Dean al mondo”). Talento e disordine,
solitudine, autodistruzione, primo artista nero contemporaneo a ottenere un tale successo, con la sua
morte prematura Basquiat appare una vittima nonostante il successo.
LE RICADUTE SULLA SCUOLA
Sia l’anno scorso che quest’anno (2003/04) l’idea da me proposta al Consiglio ha
trovato sempre buona accoglienza e sostegno; in più, durante l’ultimo anno scolastico, si è allargata la collaborazione con i colleghi. Particolarmente proficuo e stimolante è stato l’innesto del tema interculturale sulla Filosofia.
Per conservare memoria dei percorsi e poterli riutilizzare, ho ritenuto importante fin
dall’inizio videoregistrare gli interventi più salienti, e li ho messi a disposizione dei colleghi interessati nel piccolo angolo di Antropologia Culturale ricavato nella biblioteca di
una delle sedi del nostro Istituto, della cura e organizzazione della quale mi occupo personalmente. È bello poter portare e far fruttare sul luogo di lavoro i nostri interessi.
Un’altra finestra che si è aperta in occasione di queste collaborazioni è stata l’incrementarsi dell’attenzione, da parte mia, per la filmografia africana. Per questo motivo, sempre nello stesso angolo di biblioteca ho messo una raccolta di film che, oltre
alle tematiche trattate (che permettono veramente una miriade di collegamenti trasversali e offrono infinite occasioni di stimolo al dialogo), è utilissima, secondo me,
anche per aprire un discorso più tecnico sulle diverse modalità di utilizzo della cinepresa da parte di artisti non occidentali.
Credo che potrebbe essere interessante per i ragazzi confrontare un certo tipo di
film europeo piuttosto che statunitense (con piani sequenza molto rapidi, colonna
sonora a volume elevato, e, soprattutto, forte drammaticità nella sceneggiatura) con i
diversi tempi di queste opere cinematografiche (ritmi lenti, scarsa o totale assenza di
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drammaticità pur nella narrazione di vicende pesanti, effetti speciali inesistenti, dialoghi in lingue originali completamente sconosciute).
E non ho parlato né della autentica bellezza di alcuni di questi cortometraggi, né
dei contenuti – che possono permettere approfondimenti sul rapporto uomo/natura,
sulla relazione con il magico, sui sistemi educativi e scolastici, sul problema dell’identità, dell’handicap, dell’autorità, sulle problematiche politiche legate al colonialismo e
alla decolonizzazione. Anche qui c’è da ringraziare qualcuno, per esempio, restando a
Trento, il Centro Bianconero, il Centro Audiovisivi della Provincia, ma soprattutto il
C.O.E. di Brescia, che permette a privati e non di acquistare direttamente le opere più
interessanti, corredandole di note esplicative e materiale documentario.
Avendo in maniera abbastanza soddisfacente risolto il problema della documentazione delle attività svolte, mi sono poi anche posta quello relativo alla pubblicizzazione del progetto. Spiegherò più avanti come ciò sia stato fatto. Posso comunque dire
intanto che si sono aperte le porte della classe 3SB e che il lavoro è stato presentato ad
altri alunni dell’Istituto (cfr., per questo, il paragrafo “Gli alunni e le alunne”).
Accanto a queste conseguenze più o meno immediate, penso però che le più rilevanti potranno essere quelle che, con toni e misure diverse, si stanno sedimentando
nei singoli. Ogni persona coinvolta nel progetto ne è uscita cambiata. E se questa può
sembrare un’osservazione banale, banali non sono le tracce che l’esperienza lascia
nelle nostre storie, sempre che essa venga ritenuta significativa. Esse potranno essere
più tenui o evidenti, ma vanno riconosciute ed identificate – sia a livello di osservazione esterna che intrapersonale. Quando si riesce a fare questo, probabilmente si può
dire che il lavoro ha raggiunto il massimo delle sue possibilità.
I MATERIALI PRODOTTI
Il nostro progetto veramente non si è ridotto a qualche ora di lezione, ma è diventato una vera e propria avventura didattica.
Prima di iniziare, però, devo subito premettere che è in questa fase che ci siamo
trovati ad affrontare le difficoltà più evidenti, dovute al fatto che la sottoscritta, se animata da risultati positivi ed entusiasmo, si getta a capofitto in attività mai provate
prima. Il problema è che in questo caso tutto il gruppo è stato coinvolto nelle mie
audaci sperimentazioni.
I risultati tangibili sono stati:
•
Innanzitutto, come accade a conclusione di ogni canonico lavoro scolastico, i ragazzi
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•
•
•
e le ragazze hanno prodotto dei cartelloni esplicativi e illustrativi dei miti sia africani
che greci, hanno presentato se stessi/e e le finalità del progetto. A chi pensasse – I soliti cartelloni! – consiglio di andare a risentire il parere di Mara (cfr. il paragrafo “Gli
alunni e le alunne”).
Abbiamo poi pensato, a partire dalle videocassette che presentavano gli interventi
effettuati dal mediatore interculturale, di produrre noi stessi un video, elaborando
delle immagini di collegamento (testimonianze, sintesi e testi di raccordo). Ed è qui
che, accanto all’entusiasmo e alla voglia di fare, e anche alle indubbie competenze dei
ragazzi/e, ci siamo imbattuti in una serie di difficoltà tecniche. Insomma, diciamo che
il video è stato per lungo tempo in sospeso fino a quando, sormontate le procedure
richieste dalla scuola per la collaborazione del regista e varie problematiche organizzative, il sogno è diventato realtà.
In relazione ad esso sono stati pazientemente scritti, correzione dopo correzione e
limatura dopo limatura, i testi introduttivi ai previsti vari momenti del video, ed è
stato confezionato un CD per la colonna sonora; sono stati pensati inoltre gli spazi e
le modalità di realizzazione delle testimonianze e delle sintesi orali. Per questa impresa ci siamo fatti aiutare da un giovane regista trentino, Stefano Sartori, che ci ha fornito utili suggerimenti ed indicazioni tecniche accurate.
È stato inoltre prodotto un fascicolo ben strutturato e visivamente gradevole, che illustra e riassume un po’ tutti i momenti del percorso. Esso, come ho già detto più sopra,
è stato presentato, assieme ai cartelloni, all’interno di uno spazio espositivo della
Provincia di Trento, durante un convegno.
NOTE DI VALUTAZIONE
Sicuramente il momento del lavoro che ci ha creato maggiori difficoltà è stato la
realizzazione del video. Penso che creare un video sia quasi più difficile che confezionare un ipertesto; bisognerebbe fin dalle prime riprese avere ben chiaro in testa il cosa
e il come si vuole riprendere in ogni momento, e soprattutto avere le competenze, gli
spazi, i tempi e i mezzi tecnici più adeguati. Non sempre è stato possibile realizzare
tutte queste condizioni. Ma non mi pento di avere fatto insieme alla classe quest’esperienza che, se vogliamo, è stata per tutti una progressiva avventura di scoperta.
Intanto i ragazzi e le ragazze sono cresciuti a livello di autostima, di abilità organizzative, di assunzione di responsabilità, di espressione di sé, etc., e questo non è sicuramente fattore di poco conto.
Le competenze in uscita previste nel progetto iniziale sono state raggiunte ad un
livello sicuramente accettabile da tutti i componenti del gruppo. Alcuni di loro, inol-
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tre, hanno saputo mettere in gioco abilità creative, organizzative e sistematiche che
durante la consueta attività didattica non si erano potute notare. In particolare un
paio di ragazzi segnati da alcune fragilità ha saputo, grazie anche all’attività di compresenza, ricuperare motivazione ed impegno.
Gli alunni hanno quindi potuto imparare da quest’esperienza, oltre ad una serie di
contenuti, uno stile di lavoro e, soprattutto, hanno avuto consapevolezza del percorso
compiuto, grazie anche al contratto formativo elaborato dal Consiglio di classe.
Lo scopo del lavoro realizzato ha voluto essere quello di motivare ed avviare gli
alunni all’interno di un percorso poco consueto. Ci si è concentrati sulla formazione
di un habitus, di un atteggiamento costante rispetto all’acquisizione episodica e frammentaria di contenuti, lavorando sulle motivazioni personali e di gruppo. Si è quindi
favorita nei ragazzi e nelle ragazze la formazione di uno stile di ricerca personalizzato, la capacità di mettere in campo le proprie risorse immaginative e creative, la maturazione di giudizi critici, pertinenti e costruttivi. Si è cercato di stimolare altresì un
continuo confronto dialogico e problematico con la classe.
Un altro aspetto su cui probabilmente si poteva lavorare di più è stata la presentazione del progetto ad una classe prima dell’Istituto. Probabilmente non è molto significativo concentrare l’intervento in una sola ora di lezione, soprattutto senza aver
prima preparato la classe ricevente, almeno con una scheda o un abstract. Ha pesato
forse anche certa stanchezza di fine anno, che ha reso quindi l’esposizione dei ragazzi
un po’ confusa e improvvisata.
Al di là di tutto, comunque, nonostante il grosso impegno e, diciamolo pure, anche
la fatica che attività del genere comportano, io non so fare scuola se non così. E quando sarò stufa, cambierò mestiere!
Incontri con Gabriel Mokoi Mokoi - Sintesi delle attività
Fase motivazionale: La danza
Ballo su musica tradizionale dell’Africa Occidentale intitolato “Lo scherzo”.
Obiettivo: superando fatica e imbarazzo, mettere in gioco il nostro stesso corpo, dando espressione al
piacere, alla gioia, fino ad una esplosione di entusiasmo.
Patto formativo
Formazione di 5 gruppi con il compito di documentare gli incontri e prepararne una sintesi da leggere
nelle lezioni successive (quindi: prendere appunti, assicurare un filo conduttore, criticare, far rivivere tutto
di volta in volta in 5 minuti), favorire sinergia e confronto tra opinioni, elemento fondamentale entro un
discorso interculturale.
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Riflessione guidata collettiva sull’esperienza del ballo in palestra (debriefing), attraverso le seguenti
domande:
•
“Come vi siete sentiti dentro questa esperienza, al di là del piacere o della noia?”.
•
“Come, individualmente, mi sono ritrovato dentro il percorso?”
•
“Come mi è apparso il mio stesso corpo in questa esperienza?”
•
“Ci sono stati elementi che hanno aiutato o ostacolato questa esperienza?”
Ermeneutica del ballo
In seguito alle risposte dei ragazzi si ricorda che “Il divertimento è un metodo per acquisire una certa saggezza” e si propone un’interpretazione del ballo, scomponendolo in sequenze:
1° passo: “fregarsi della vita” (emblematico come orientamento)
La vita sembra essere un mantello che diventa difficile da togliersi, qualche volta abbiamo difficoltà a
capirla, qualche volta ci pesa.
In alcuni contesti (Africa subsahariana) significa “mettere a tacere tutto”, far sì che in quel momento la vita
non sia la vita. Si può fare attraverso i gesti.
Nel Camerun quel gesto con le braccia significa mescolare i dati concreti, culturali della vita. Dall’esterno
quei gesti possono sembrare insignificanti; ma nel contesto dato hanno un significato preciso.
Quale interpretazione si può dare a questo gesto? (distrazione, noia, spensieratezza)
Un gesto acquisisce significati diversi a seconda del contesto culturale.
Per mettere a tacere la vita serve la volontà; il gesto esprime la nostra volontà, la nostra potenza.
Il 1° passo comunica quindi: “Io metto a tacere la vita attraverso la mia stessa volontà, vado al di là dell’ordine stabilito”.
2° passo: la mano sinistra appoggia sull’ombelico (gesto di raccoglimento: “Io sono il centro di tutto”).
La mano sinistra è simbolo della “mano femminile”; la donna è donatrice di vita, quindi questa mano è
dedicata non alla guerra, ma alla mediazione, alla generazione, alla cura.
L’ombelico è il centro di noi stessi; il centro non può essere accompagnato da elementi turbativi, deve
essere rassicurato.
La mano destra compie il movimento che indica l’azione di “squarciare il tempo”: c’è lo scambio di funzione delle mani: comunico che non rispetto l’ordine morale, religioso, cosmico.
3° passo: il passo più lungo indica un rimescolamento dei dati vicini, della quotidianità; è l’esaltazione
dell’io rispetto al noi.
4° passo: mani verso il cielo, a destra e sinistra. Richiamo elementi lontani, forze soprannaturali, antenati, ecc.; rimescolo e riordino.
5° passo: il saluto (girare la mano). In Camerun questo non è un saluto, ma significa: “Io rimescolo i dati
lontani, facendo acquisire loro l’ordine che io desidero”.
Conclusione: cerchio della collettività. Il cerchio dà sempre immagine del Centro. Siamo partiti con la
mano sinistra sull’ombelico (centro) e concludiamo riaffermando la centralità dell’io, in questo caso
anche opposto al noi.
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Con questa sequenza di movimenti abbiamo espresso un discorso, un desiderio, un indirizzo rispetto
all’ordine stabilito.
L’alfabeto del corpo nella danza ha una dimensione iniziatica (veniamo educati a capire il significato dei
movimento).
Il corpo comunica
In Costa d’Avorio un proverbio dice: “Il nostro corpo è un grande vestito in prestito”.
Tutti i segni, le scarificazioni, i marchi, ecc. non sono che ricami. Affrontando il discorso in questa prospettiva entriamo nell’area disciplinare della body art.
Se il nostro corpo è un vestito e tutto ciò che viene inciso è un ricamo, ogni segno ha quindi un significato e una sostanza. Quindi il corpo non può essere distaccato dalla cultura in cui viviamo. E anche in
una stessa cultura il corpo non viene rappresentato in modo omogeneo. Le membra diverse hanno, a
seconda delle culture, significati specifici.
Possiamo dire che la cura del corpo risponde ad una esigenza della persona come tale, ma è anche un
codice attraverso cui leggere tutto il corpus culturale.“I segni sui corpi sono come floppy disk: sono portatori di elementi culturali.”
Il mito: Sinda Makunda (una leggenda del gruppo etnico Anì, Costa d’Avorio)
Dopo il momento narrativo, anche accompagnato dalla musica come componente espressiva, si analizzano gli elementi attraverso le figure e le parole chiave: il nome della protagonista (la ragazza più bella,
simbolo della bellezza intramontabile), l’uomo, i genitori, gli animali (la tartaruga).
Si analizzano alcune parole chiave, come Babalawo (baba=padre/la wo=dio) e ci si concentra sui concetti di bellezza e di morte:
Sinda Makunda è l’espressione canonica della bellezza.
La Morte è allontanamento temporaneo del principio vitale (la morte come sonno), ma può essere
anche allontanamento definitivo.
Si mettono a confronto le impressioni dei ragazzi, attraverso le domande:
•
“Come avete vissuto il racconto?”
•
“Cosa c’è di velato?”
Il testo è il riflesso del mito della creazione. Il corpo diventa fonte originaria della vita, della creazione. La
mitologia africana dà centralità al corpo come elemento generatore. Per noi il corpo può essere un elemento pesante, opposto alla dimensione spirituale, ma in altri contesti assume significati diversi.
Altri miti della cultura africana sottolineano il corpo come anima dell’uomo. Altri insegnano a rispettare
il corpo come la casa in cui noi siamo concentrati.
In altre culture, quella europea per esempio, il corpo è sinonimo di caduta.
Ugualmente uno stesso simbolo può avere significati diversi. Il cerchio in alcuni contesti indica la perfezione, in altri è il punto di affermazione di noi stessi.
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Nelle culture dell’Africa occidentale il corpo femminile riveste la stessa importanza di quello maschile.
Un lavoro di approfondimento sarebbe quello di analizzare come nelle varie culture viene considerato
il corpo di un fanciullo, di un adolescente, di un maggiorenne, di una vedova, di un vecchio, ecc.
Un’altra dimensione illustrata nel racconto è il problema del ciclo della vita. Quale significato il corpo
assume durante il ciclo della vita? Ci sono riti raccomandati affinché la nascita sia considerata come un
elemento naturale della vita. Gli Yarubà festeggiano di più la nascita che la morte, in altri contesti avviene il contrario. Anche il ciclo della vita varia a seconda del contesto.
CONTENUTI E CAMPI DI ESPERIENZA
1. La parte filosofico-antropologica
Una prima ricognizione relativa alle forme di pensiero mitico proprie della tradizione
greca è stata effettuata attraverso un esame storico e concettuale, condotto dall’insegnante di Filosofia.
In parallelo con questo percorso, a cura dell’insegnante di Scienze Sociali, si è svolto
un lavoro di definizione riguardante alcuni paradigmi culturali propri dell’Africa
occidentale, poco conosciuti e sovente oggetto di precomprensioni.
2. Conoscere attraverso linguaggi di una quotidianità lontana
L’intervento di esemplificazione e sperimentazione relativo ad alcune modalità
espressive e ad alcuni miti è stato effettuato con la collaborazione di un esperto di culture dell’Africa subsahariana, Gabriel Mokoi Mokoi (Costa d’Avorio). Questo intervento ha avuto due momenti (4 lezioni per un totale di 8 ore):
a) la danza: in palestra i ragazzi sono stati guidati ad un ballo in cerchio (dimostrazione dell’esperto, prova collettiva a segmenti, senza e con la musica, poi con le sequenze complete);
successivamente, in aula, si è discusso sull’interpretazione della danza.
b) il mito e la narrazione orale. Dopo un’introduzione sul contesto storico-culturale della
Costa d’Avorio (lingue, etnie, costumi,…) è stata raccontata la leggenda di Sinda Makunda,
portando i ragazzi ad analizzare i personaggi, le loro relazioni, il significato rispetto a temi
del piano etico familiare e collettivo.
Si è anche lavorato sull’iconografia tradizionale, in particolare le acconciature femminili, i
segni sul corpo (tatuaggi, pitture, scarificazioni) e i loro significati.
3. Conoscere attraverso il cinema
La prima parte del progetto annuale (coincidente con il 1° quadrimestre) si è conclusa con un lavoro di visione e dibattito relativo ad alcuni film:
• Le bois sacré, di Mohamed Soudani (Costa d’Avorio),
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• A nous la rue, del regista Moustapha Dao (Burkina Faso),
• Basquiat, di Julian Schnabel (USA).
4. La documentazione creativa
Dopo un periodo di necessaria decantazione per lasciar sedimentare e rinforzare gli
apprendimenti, una seconda fase del progetto (2° quadrimestre) ha previsto un forte
coinvolgimento degli alunni chiamati a rielaborare e documentare la loro esperienza
attraverso:
a) realizzazione di una serie di interviste videoregistrate, nelle quali ognuno è stato chiamato
a ricostruire ed esprimere giudizi in merito all’esperienza;
b) visualizzazione del percorso con materiali di tipo grafico (disegni, cartelloni di sintesi) e
testuale.
5. La presentazione del progetto ad altre classi
Non previsto nella fase progettuale, il lavoro di documentazione si è ampliato con l’idea di realizzare un video a partire dai materiali prodotti (interviste, cartelloni). I
ragazzi hanno quindi lavorato al progetto del video, alla raccolta, sistemazione,
ampliamento del materiale, alla preparazione di una apposita colonna sonora.
6. Espansione del progetto
Alla fine dell’a.s. 2002/03 è nata l’idea di espandere il progetto di documentazione; i
ragazzi hanno proposto di produrre un filmato che non solo raccogliesse il materiale
già predisposto, ma che avesse caratteristiche di autonomia, dotato di una forma più
complessa e professionalmente curata.
Il lavoro è entrato nella programmazione dell’a.s. 2003/04 ed è stato attuato con l’aiuto di un esperto per la regia e il montaggio.
Materiali prodotti
Tutti gli interventi con la presenza del mediatore culturale, sia in palestra che in classe, sono stati videoregistrati con telecamera fissa e sono ora nell’archivio della scuola.
Ogni alunno/a ha raccolto appunti e schede in un fascicolo personale, curato all’interno delle ore di compresenza.
Alcuni ragazzi hanno curato un dossier del percorso esposto nella Sala Stampa del
palazzo della Provincia a Trento in occasione di una mostra su progetti delle scuole.
Dall’esperienza è stato tratto il video A scuola con Gabriel.
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Scheda di progetto
Il mito nelle società tradizionali dell’Africa Occidentale
Il corpo come costruzione sociale e i miti del corpo.
TEMA
DESTINATARI
Mito e comunicazione gestuale nelle società dell’Africa Occidentale.
3°SB. 24 studenti (19 ragazze, 5 ragazzi).
• Filosofia.
DISCIPLINE
• Scienze Sociali - Antropologia culturale (Monica Ducati).
• Educazione Fisica (Lorenza Toniolli).
• Eseguire consegne di gruppo.
• Relazionarsi con correttezza e rispetto dei tempi reciproci.
• Sapersi confrontare, rapportare ed identificare con il diverso da sé.
OBIETTIVI FORMATIVI
• Superare blocchi psicologici e rigidità.
• Acquisire padronanza ed equilibrio nei movimenti del corpo.
• Saper usare la propria gestualità per esprimersi.
• Sviluppare consapevolezza dei propri vincoli di appartenenza ad una
data tradizione.
• Ricostruire le caratteristiche distintive e le funzioni del mito nella società
greca antica, nelle civiltà moderne non letterate, nella società contem-
OBIETTIVI COGNITIVI
poranea.
• Effettuare un esame comparativo tra diversi modelli culturali, individuando costanti e differenze.
• Individuare il legame esistente tra miti culturali e formazione dell’identità.
• Lezione frontale.
MODALITÀ DI LAVORO
• Attività in palestra.
• Discussione in classe.
• Lavoro di gruppo.
• Riviste.
• Testi.
• Documentari.
STRUMENTI e MATERIALI
• Film.
• Videocamera.
• Videoregistratore.
• Impianto stereo.
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RISORSE ESTERNE
• Gabriel Mokoi Mokoi (Costa d’Avorio), esperto di culture dell’Africa
Occidentale.
• Aula.
SPAZI
• Palestra.
• Biblioteca.
TEMPI
• L’intero anno scolastico.
• Ricognizione continua degli apprendimenti durante le ore curricolari,
STRUMENTI di VALUTAZIONE
attraverso:
- lavori scritti di conoscenza dei contenuti, di riflessione ed interpretazione,
- costante confronto dialogico e problematizzante con la classe.
Bibliografia
“Africa”, rivista bimestrale, Epicentro ed., Ferrara 1997, nn.3-4
Avalle-Maranzana-Sacchi (2000), Antropologia culturale, Zanichelli, Bologna
Centro Missionario di Documentazione di Trento (a cura di), La letteratura orale africana: il
griot, marzo 2001
Jahn J. (1975), Muntu: la civiltà africana moderna, Einaudi, Torino
Serres M. (1992), Il mantello di Arlecchino. “Il terzo istruito”: l’educazione dell’era futura,
Marsilio, Venezia
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Al di là del bene e del male: corporeità e interculturalità
Liceo scientifico “G. Galilei”, Trento
Daniela Franceschini
“Si racconta che gli ebrei perseguitati
riuscissero difficilmente a farsi passare per non ebrei,
anche se nei tratti e nell’abbigliamento
non avevano niente che li tradisse.
Ma nel loro sguardo c’era una tale tristezza
che si riconoscevano da lontano.
L’auspicio è che, giunto il momento,
possiamo essere capaci di captare quello sguardo,
fosse pure di uno sconosciuto, e esserne toccati.
Altrimenti, guai allo straniero lontano dai suoi…”
(Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo)
IL CONTESTO
La scarsa presenza di studenti stranieri e un’impostazione centrata sulle discipline
non hanno incoraggiato l’introduzione nella nostra scuola di particolari esperienze di
tipo interculturale, anche se molto interesse ha riscosso tra i ragazzi un corso di lingua
e cultura araba organizzato nell’anno scolastico precedente a questa sperimentazione
(2001/2002).
Ci sono però alcuni progetti che, senza connotarsi in modo esplicito con i tratti
dell’interculturalità, favoriscono la riflessione su di sé e sul rapporto con gli altri, base
di una critica e profilassi esperienziale del pregiudizio. Da diverso tempo infatti nell’ambito dell’educazione fisica si è avviato un lavoro sulla dimensione del corporeo e
dell’espressione gestuale: da 7-8 anni nella programmazione per le classi quinte con i
colleghi c’è l’accordo di lavorare sul movimento non solo dal punto di vista del gesto
tecnico – sportivo, ma anche dei rapporti interpersonali, valorizzando il gesto come
un elemento forte della comunicazione. Accanto ai momenti di esercitazione fisica, si
dà spazio al confronto e alla riflessione sul vissuto e sulla valenza dei messaggi non
verbali che comunicano, vengono letti, interpretati, spesso fraintesi.
Altra iniziativa si è svolta per un paio di anni nell’ambito del “Progetto Salute”, in
cui è stato proposto un percorso di educazione affettiva e sessuale. Invece di far riferimento a “pacchetti” offerti da esperti, gli insegnanti di educazione fisica hanno strutturato, insieme a psicologi del CIC, percorsi di 6 ore che prevedevano: 1 ora di lavoro
in palestra (condotto dagli insegnanti su attività concordate con gli psicologi), poi
incontri con gli esperti in classe, seguiti da un’ultima ora in palestra.
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Al di là del bene e del male: corporeità e interculturalità
Ancora altre esperienze di espressione corporea sono state proposte nelle classi del
biennio, con lezioni in cui si davano istruzioni a interagire per contatto e ad inviare
messaggi attraverso posture e atteggiamenti, facendo sentire fisicamente la comunicazione. In questi casi si è trattato di tentativi stimolati da esperienze formative di singoli insegnanti; confortati anche dalle risposte dei ragazzi, si sentiva comunque la
necessità di rivisitare queste proposte, dando maggiore apertura alla riflessione anche
con l’innesto di altre discipline.
Purtroppo l’obiettivo di coinvolgere colleghi di altre materie non era mai stato raggiunto: un grande limite per lo sviluppo pieno di progetti di questo tipo.
A questo punto l’invito a partecipare al progetto Millevoci-IPRASE è apparso
un’occasione per ripensare e allargare l’esperienza di questi ultimi anni.
L’IDEA: ALLA RICERCA DELL’INTERDISCIPLINARIETÀ
Pur potendo lavorare con molte classi diverse, la 5° E è stata automaticamente selezionata dalla disponibilità del collega di storia e filosofia, Giorgio Waller che, ricordando la sollecitazione che avevo lanciato in Collegio Docenti fin da settembre, ad un
certo punto dell’anno mi ha proposto un aggancio rispetto al tema che intendeva trattare in classe: la questione del male in filosofia, anche negli aspetti legati all’incontro
dell’occidente con culture di altri continenti, in particolare negli anni di passaggio tra
XIX e XX secolo. In questo modo il discorso sul male si ampliava al rifiuto dell’altro,
visto come elemento sconosciuto, come controparte negativa che si guarda con
sospetto e da cui tendiamo a difenderci (passando per la disumanizzazione e arrivando, come il ‘900 insegna, a pratiche di sterminio).
Anche in questo caso il Consiglio di Classe non si è lasciato coinvolgere al di là di
una presa d’atto per permettere l’avvio del progetto.
I PROTAGONISTI
La classe, composta da 22 ragazzi con una leggera prevalenza dei maschi, ha accettato invece con curiosità la proposta congiunta; non era chiaro dove si sarebbe andati
a parare ma la novità era stimolante, in particolare questa sfida di cercare di congiungere due ambiti lontani come la filosofia e l’educazione fisica. “Ma cosa farete?” era l’inevitabile domanda; a cui, onestamente, potevamo solo rispondere. “Non sappiamo
bene, lo stiamo creando con voi. Siete disposti a giocare con noi?” Lo sono stati.
Oltre alla possibilità di avere un argomento di riflessione su vasta scala, una delle
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motivazioni era anche arrivare ad un prodotto di studio originale da presentare all’esame. Ma la disponibilità dimostrata da tutti, anzi l’entusiasmo durante le lezioni (da ricordare quella mattina, che, rientrati da una manifestazione, i ragazzi si sono precipitati alla
sede del laboratorio teatrale) dimostrano che non si trattava di calcolo di maturandi.
IL LAVORO IN PALESTRA
Il progetto ha avuto qualche lentezza nell’avviarsi (in un primo tempo sembrava
possibile allargare l’esperienza ad altre aree disciplinari, poi si sono aggiunti ostacoli
di natura organizzativa, si sono dovuti fare i conti con il complesso della programmazione curricolare e non, …). Nonostante questo, in palestra è stato naturale continuare attività che erano state impostate già negli anni precedenti: esplorazione, controllo,
approfondimento rispetto all’uso del corpo, sia come “strumento” da sciogliere e di cui
conoscere potenzialità non solo di tipo atletico, sia come medium comunicativo.
Lavorare sulle fasce corporee è preliminare ad azioni più complesse: sentire e intervenire sulla motilità delle spalle, per esempio, ha aperto il movimento, ha portato a
riflettere su aspetti della postura, sui cambiamenti di peso, di forza, su altre possibilità di contatto e di espressione. Si è poi recuperato in attività più articolate, come (un
esempio tra altri) la rappresentazione gestuale di caratteri: dato un contesto fittizio (la
sala di aspetto di un ambulatorio), ognuno doveva scegliere un personaggio con peculiarità caratteriali o sociologiche, attivare posture, andature, comportamenti appropriati, interagire quindi con gli altri. Solo alla fine si aveva la “soluzione” (chi impersonava chi): osservare e poi discutere le strategie usate per l’”interpretazione” e soprattutto le dinamiche che si producevano ha fatto toccare direttamente il peso del linguaggio nonverbale.
IL LABORATORIO TEATRALE
Per approfondire in modo professionalmente più attrezzato il lavoro sull’espressione gestuale e sui suoi condizionamenti culturali (identità/differenza, maschile/femminile, coscienza/corporeità, io/altro) in un primo momento avevo pensato di lavorare sugli stereotipi e sui pregiudizi partendo da un laboratorio sui personaggi tipizzati
della Commedia dell’Arte (anche qui, ero debitrice di un corso di aggiornamento sulla
costruzione di maschere e sull’osservazione di caratteristiche e deformazioni, di
aspetti grotteschi veicolati dai personaggi). Il lavoro si poteva prestare ad una riflessione in chiave interculturale: come i messaggi culturali che abbiamo scritti addosso ci
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connotano, ci fanno leggere dagli altri spesso in modo inconscio, impostano e determinano le nostre relazioni.
Dovendo rinunciare alla strada della Commedia dell’Arte per indisponibilità degli
esperti, ho trovato un’offerta altrettanto pertinente rispetto agli obiettivi nel laboratorio teatrale tenuto da Giacomo Anderle e Camilla Davigo.
Anche qui si è lavorato su maschere, sia bianche, anonime, che caratterizzate. L’idea
era di lasciarsi cogliere dalla seduttività del gesto, di non trattenersi da una reazione
corrispondente agli inviti letti nel gesto altrui, privato dell’espressività facciale.
Concentrandosi sul linguaggio del corpo, l’obiettivo era leggere l’interiorità espressa
dal corpo, a prescindere dalle caratteristiche del volto o della maschera.
“Un disegno su un foglio non bianco sarà condizionato dalla traccia già presente”:
così ha esordito Giacomo Anderle cominciando il lavoro con i ragazzi.
Contatti strutturati e attività di “modellamento” del corpo altrui hanno suggerito
atteggiamenti di fiducia, di abbandono alle indicazioni motorie esterne; hanno portato ad assumere ruoli ed emozioni determinati da precise posture.
A volte le richieste potevano creare quell’imbarazzo dovuto alla novità di sentirsi
un corpo e di dover giocare solo su una fisicità che diventava il centro della scena e del
lavoro. È stato interessante osservare come il gruppo abbia sostenuto tutti; ognuno dei
ragazzi sapeva di avere diritto a non partecipare nel caso l’avesse ritenuto troppo invasivo o imbarazzante; ma se qualcuno dimostrava difficoltà e resistenza c’era sempre
un compagno pronto ad assumersi il compito. E il bello era che veniva sempre il
momento in cui il timido trovava il proprio spazio (e il proprio coraggio). Importante
era l’assenza programmatica di ogni elemento di giudizio: osservazione, ascolto (di sé
e degli altri), cooperazione, riflessione successiva, ma nessuna attribuzione di valore.
Era possibile manifestare il timore del ridicolo, era ammesso dichiarare l’imbarazzo
personale, chiedere il senso delle attività proposte.
Dimenticavo di dire che il gruppo di espressione corporea era costituito dai 20
ragazzi ma anche da noi due professori; e su di noi i riflettori erano accesi in modo
particolarmente vivido: “Vediamo come se la cavano”, si poteva immaginare nella
mente di ognuno dei ragazzi. Questo era particolarmente forte per il mio collega che
in classe è testa e voce, controllo intellettuale per due materie di grande impegno e che
qui si ritrovava in una veste completamente diversa. Possiamo valutare la positività del
lavoro anche dal fatto che, alla fine, nel rivedere il video di due ore girato nel laboratorio, i commenti sono stati tanti e di diversa natura, ma tutti caratterizzati da simpatia.
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LA PARTE TEORICA
Impegnativa è stata la sutura dell’esperienza di laboratorio con le lezioni di storia
e filosofia; gli obiettivi erano sviluppare la consapevolezza dell’integrazione coscienza-corporeità e portare alla comprensione dei fondamenti e della crisi dei fondamenti della cultura occidentale del XX secolo (crisi dei linguaggi e dei metalinguaggi).
Lavorando su pagine di autore (in particolare Di fronte all’estremo di Todorov), su
dati storici, su sistemi del pensiero filosofico, i contenuti sono stati vari e non si pretende di riassumerli in poche righe.
Il concetto del male abbinato alla fisicità ha portato a leggere il Novecento come il
secolo in cui compaiono situazioni di aggressività scientifica, la strutturazione efficientista dell’intervento sul fisico per annientare la parte di “male” identificata in una
componente della società. Concetto di male complicato dal fatto che per gli autori di
politiche e pratiche di “pulizia etnica” queste corrispondevano a strumenti per un
“bene” superiore. Di qui l’espressione “aldilà del bene e del male”.
Se l’altro è il nemico, va eliminato fisicamente (amputazioni, torture, uccisioni); il
corpo diventa oggetto e veicolo del male. Si identifica nell’aspetto fisico il “male” di cui
l’altro è ritenuto portatore (vedi la caricatura grottesca dell’ebreo o degli indigeni di
vari continenti). E certi messaggi corporei sono una tela su cui altri scrivono; comportamenti, gesti, rituali vengono letti con il filtro della propria appartenenza.
BREVE BILANCIO
Con i ragazzi si è cercata una sintesi e un bilancio del percorso durante due ore di
lezione congiunta dei due insegnanti; si è parlato di come è stato vissuto il laboratorio
teatrale e di come era stato percepito il rapporto tra quello e i temi trattati nelle ore di
storia e filosofia. I due momenti sono stati sentiti staccati, lontani tra loro, anche se
riconducibili ad un denominatore comune di fondo.
I risultati di un questionario di gradimento (graduato ma anche con alcuni spazi
aperti per raccogliere suggerimenti dei ragazzi) parlano di un vissuto ricco, di una
“riconoscenza” per questa traccia così anomala. Si lamenta la brevità dei tempi di
laboratorio, la possibilità non sviluppata di approfondire le relazioni interpersonali; si
valorizza la “scoperta” che “non sempre le parole sono il mezzo di comunicazione più
utile… anche se quello corporeo è più difficile e compromettente”.
Per noi docenti era anche importante verificare se per i ragazzi si era trattato solo
di un’esperienza diversa o se avevano percepito che i vari momenti facevano parte di
un progetto completo. Su questo siamo stati confortati da tutte le risposte, condensa-
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te in questa: “Un’esperienza diversa, ma ovviamente non “campata per aria”. Si è seguito un percorso completo. Non cambierei nulla.”
Il percorso nell’area storico-filosofica di Giorgio Waller
Il lavoro condotto in classe nelle ore di storia e filosofia ha cercato di far cogliere
agli studenti il carattere dirompente (non solo a livello secolare, ma epocale) di una
rivoluzione che, situata nel cuore dell’organico XIX secolo (secolo della Ragione, della
Scienza, del Progresso, della borghesia, dell’Europa), costringeva all’ascolto dell’inaudita e inascoltabile voce-non voce della corporeità, della materialità, dell’esteriorità
(estraneità), ossia di tutto ciò che è radicalmente altro dallo spirituale, dall’immateriale, dall’intimo: e, in quanto “altro”, ostile. Filosofi come Feuerbach e Marx, e soprattutto come Shopenhauer, Nietzsche e Freud, sono stati letti come pensatori “altri”,
controcorrente, perturbatori dei fondamenti metafisici e psicologici dell’Occidente
logo- e euro-centrico. Tutto ciò a partire dalla scoperta del corpo come interruttore
della univocità del senso, della comunicazione monologica, della dittatura dell’anima;
dal denudamento di una corporeità incontenibile, esplosiva, frammentatrice, produttrice di un’allusività/ambiguità simbolico-metaforica non ricomponibile nelle trame
dell’evidenza platonico-cartesiana.
L’analisi ha permesso di scoprire i tratti avanguardistici di un pensiero cronologicamente ottocentesco, ma di fatto novecentesco nei suoi caratteri, ed insieme di svelare le responsabilità di una filosofia “identitaria”, universalizzante, totalizzante, monologica. Tali elementi logici, linguistici, mentali sono stati ripensati anche nei loro
risvolti sociali, culturali, etnici, proiettandoli nelle situazioni concrete della quotidianità dove meccanicamente, e dunque inconsapevolmente, “diverso” continua a far
rima con “perverso” (l’emarginazione del corpo come paradigma di ogni emarginazione? Anche in una società apparentemente tanto celebratrice del corpo?). Tale problematizzazione ha permesso di riconoscere nel “dualismo” il vizio di fondo, un vizio
certo non superabile rovesciando semplicemente i poli delle opposizioni di cui si
nutre.
Sul versante storico è così stato possibile utilizzare questa chiave filosofica per
rileggere il Novecento, secolo degli “estremi” e della “barbarie” secondo una prospettiva più aperta e disincantata, meno arroccata su posizioni criminalizzanti e autogiustificatorie. Sono state utilizzate a tal fine soprattutto molte pagine di Memoria del male,
tentazione del bene di T. Todorov: non siamo ancora e sempre esposti a quella “tentazione del Bene” che ha prodotto nel Novecento la disumanizzazione di vittime e carnefici? È forse il grigio il colore della speranza?
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CONTENUTI E CAMPI DI ESPERIENZA
1. In palestra
L’attività in palestra, all’interno della programmazione annuale, ha continuato proposte già inserite negli anni precedenti; propedeutica rispetto all’esperienza con i formatori teatrali, ha riguardato in particolare:
•
•
•
•
Lavoro sulle fasce corporee.
Esercitazioni su atteggiamenti, movimenti, contatto.
Rappresentazione gestuale di caratteri e situazioni.
Riflessione su vissuto e valenza dei messaggi non verbali.
2. Il Laboratorio teatrale
Attività proposte dal formatore:
• Elementi di biomeccanica: dalla posizione neutra al movimento nello spazio; l’importanza
•
•
•
•
•
•
•
dello sguardo.
Elementi di acrobatica a coppie (porteur e agile).
L’uso della maschera:
- le fasce corporee, il motore del movimento (camminare con la testa, il naso, una spalla, il
bacino, …);
- la maschera espressiva larvale: alla ricerca del carattere (interpretare dall’interno), cercando le linee di forza, il motore del movimento (punto di carattere) e il peso del personaggio;
- agire con la maschera: improvvisazioni guidate.
La relazione tra due caratteri: improvvisazioni a coppie con l’utilizzo di esercizi di acrobatica.
L’uso della voce:
- indagare il proprio corpo con il suono (la scoperta dei risuonatori); corpi e voci; la relazione tra voce e gesto; brevi improvvisazioni vocali.
Elementi di Commedia dell’Arte: postura e carattere dei personaggi; piccole improvvisazioni.
La costruzione di un personaggio attraverso la deformazione grottesca del corpo (lavoro
sugli stereotipi).
Non essere prigioniero della maschera: recitare in contromaschera (lavorare sul contrario del
carattere indicato dalla maschera); improvvisazioni singole e di gruppo.
3. La parte storico-filosofica
Durante le lezioni di storia e filosofia:
• Il dualismo spirito-materia d’origine platonica.
• La dimensione della corporeità nel pensiero filosofico contemporaneo.
• La diversità come principio e giustificazione di politiche e progetti: colonialismo, genocidi
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storici, pulizie etniche attuali, ambiti e fenomeni di emarginazione.
• Rilettura del Novecento (disumanizzazione e barbarie) attraverso saggi e articoli giornalistici (in particolare testi di Todorov).
Materiali prodotti
Tutta l’attività di laboratorio è stata ripresa con videocamera. Il materiale non è stato
rielaborato in un video autonomo, riutilizzabile da altri; resta tuttavia una testimonianza e un’illustrazione del laboratorio che abbiamo potuto presentare in modo più
efficace sia al gruppo di lavoro che ad altri colleghi.
Scheda di progetto
Al di là del bene e del male: corporeità e interculturalità
Linguaggi non verbali e rappresentazione del corpo: consapevolezza di sé,
TEMA
la visione dell’altro e la crisi dei linguaggi dal colonialismo storico alla globalizzazione.
DESTINATARI
DISCIPLINE
Studenti dell’ultimo anno di liceo
Realizzato con 5°E. 22 studenti.
• Educazione fisica (Daniela Franceschini).
• Storia e filosofia (Giorgio Waller).
• Prendere consapevolezza del proprio corpo: posture, movimenti, azioni.
• Prendere consapevolezza della propria voce.
• Sperimentare potenzialità espressive e comunicative del gesto e della voce
OBIETTIVI FORMATIVI
• Sperimentare il contatto con l’altro.
• Riconoscere inibizioni, imbarazzi, paure.
• Riconoscere i tratti della corporeità nella costruzione e decostruzione di
stereotipi.
• Riconoscere e analizzare alcuni gesti di uso comune.
• Riconoscere il valore e la forza del linguaggio nonverbale.
• Comprendere i fondamenti della cultura occidentale del XX secolo e la
OBIETTIVI COGNITIVI
loro crisi, (dei linguaggi e dei metalinguaggi).
• Tematizzare la valenza della fisicità nelle dottrine e negli eventi che
hanno segnato il Novecento.
• Identificare elementi logici, linguistici, sociali, culturali, etnici nell’immagine e nell’uso del corpo nella quotidianità.
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• Esercitazioni gestuali, espressive e interattive.
MODALITÀ DI LAVORO
• Lezioni frontali.
• Momenti di confronto e discussione.
• Videocamera.
STRUMENTI e MATERIALI
• Accessori del laboratorio teatrale.
• Letture.
RISORSE ESTERNE
• Giacomo Anderle e Camilla Davigo, formatori teatrali.
• Aula.
SPAZI
• Palestra.
• Laboratorio teatrale (spazio attrezzato privato, esterno alla scuola).
• 2 mesi nel 2° quadrimestre.
TEMPI
• 8 ore di educazione fisica.
• 6 ore di laboratorio teatrale.
• 8 ore di storia e filosofia.
• Osservazione diretta.
STRUMENTI di VALUTAZIONE
• Autoosservazione da parte del gruppo (attraverso le riprese video).
• Discussione finale plenaria.
• Questionario.
Bibliografia
Ceronetti G. (1979), Il silenzio del corpo, Adelphi, Milano
Decroux E. (1994), Paroles sur le mime, Librérie Théâtrale, Paris
De Marinis M. (1993), Mimo e teatro nel Novecento, La casa Usher, Firenze
Lecocq J. (2000), Il corpo poetico, I manuali Ubulibri, Milano
Todorov T. (2001), Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano
Todorov T. (1992), Di fronte all’estremo, Garzanti, Milano
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Gestualità e comunicazione1
Un progetto in cerca d’attori
Chiara Vettorazzo
“L’atto diviene gesto allorché nel suo pro-tendersi racconta
la ineliminabile ambivalenza della relazione del soggetto con il mondo.
Ogni gesto esprime un desiderio sottostante che lo anima:
esso non è la semplice reazione nervosa ad uno stimolo,
ma la risposta di un corpo a un mondo che lo impegna (…),
è una rappresentazione della stessa vita.” (U. Galimberti)
“(…) La gestualità è la parola carnale che rappresenta
le mie intenzioni sul mondo degli oggetti e degli altri.”
(Franco Nanetti, I segreti del corpo. La comunicazione trascurata nel comportamento non verbale)
CONTENUTI E CAMPI DI ESPERIENZA
I precedenti
Negli anni precedenti erano state proposte diverse esperienze tese a riflettere sulla
comunicazione.
In particolare, attraverso un lavoro sulle danze popolari, si erano affrontate le seguenti questioni:
•
•
•
•
1
Quanto pesa l’omologazione culturale sulle varie culture presenti nelle nostre scuole?
Quanto una “musica/danza etnica” è rappresentativa dell’universo culturale dei singoli? C’è una distanza anche enorme tra la nostra rappresentazione di culture lontane
e la realtà vissuta e percepita dai ragazzi portatori di quelle culture. Quale è il rapporto con la tradizione?
Come scegliere, quindi?
Come si formano le nostre idee sulle diversità culturali (stereotipi)? Non dimentichiamo che ogni cultura è, per definizione,“contaminata”.
Questo progetto non ha potuto essere attuato per motivi di salute dell’insegnante. Chiara Vettorazzo lo aveva presentato, tra le prime e in forma compiuta e precisa, come prosecuzione di un proprio filone di lavoro pluriennale. Il
percorso, concordato con la collega di Italiano e presentato all’istituto, era stato inserito nella programmazione dell’anno scolastico 2002/2003. Benché non realizzato, viene qui riportato per l’interesse del tema e per l’articolazione
delle questioni presentate.
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Gestualità e comunicazione
Area motoria
Espressione corporea con esercitazioni pratiche guidate, in palestra:
•
•
•
•
•
•
•
corpo nello spazio,
la deambulazione,
la postura,
gli atteggiamenti corporei,
lo spazio nella relazione tra i corpi,
la lateralità,
il corpo e le emozioni fondamentali.
Approfondimenti
Individuazione di gesti di uso comune utilizzati come codice comunicativo intenzionale.
Sperimentazione e analisi di “gesti-frase” conosciuti il cui uso è diffuso in Italia, eventuali gesti regionali, gesti tipici di altri paesi (Albania, Moldavia, Polonia, Marocco,
Francia).
Riflessione sul significato dei gesti individuati:
• Quali fanno parte di un registro comunicativo formale? Quali rientrano in un contesto di
conoscenza e intimità?
• Quali sembrano essere “universali”, quali invece “culturali”?
• Quali fraintendimenti si possono verificare quando entra in gioco la componente culturale?
ecc.
Le attività consistono in:
• Giochi mimici con analisi della gestualità delle mani e della mimica facciale (gesti espressivi, simbolici, tecnici e codificati, segni-guida, esempi di segnali regionali, ecc.).
• Momenti di analisi del vissuto e verbalizzazione delle esperienze, sia in palestra che in aula,
con gli insegnanti di educazione fisica e/o italiano.
Rielaborazione
Riflessione sulle esperienze e sintesi con lavori di gruppo in aula:
•
•
•
•
•
elencazione dei “gesti-frase” e tentativo di classificazione;
fotografia dei gesti e delle principali espressioni facciali;
attribuzione di significato ad ogni gesto con appropriate descrizioni verbali;
raccolta e sistemazione del materiale (cartelloni);
eventuale indagine sul comportamento delle persone in vari momenti informali della vita di
istituto.
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Valutazione
Le aree per la valutazione vengono così definite:
1) Interesse e coinvolgimento dimostrati dalla classe
• Da parte dei docenti: osservazione costante del comportamento del gruppo (partecipazione, attenzione, risposta, curiosità, motivazione, difficoltà, ecc.) ai fini di calibrare via via il
percorso.
• Da parte degli studenti: discussione in classe, osservazioni scritte sull’esperienza, disegni,
eventuale questionario.
2) Collaborazione realizzata tra i docenti coinvolti
• Considerazioni sull’esperienza.
• Evidenziazione di successi e difficoltà.
3) Coinvolgimento del Consiglio di Classe
• Nell’analisi dell’esperienza.
• Per la formulazione di futuri percorsi.
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Gestualità e comunicazione
Scheda di progetto
Gestualità e comunicazione
TEMA
DESTINATARI
La gestualità come forma di comunicazione e di espressione umana.
Una classe prima dell’Istituto Professionale “L. Battisti”: 22 studenti, di cui 5
provenienti da altri paesi (16 ragazze e 6 ragazzi).
DISCIPLINE
• Educazione fisica.
• Italiano.
• Sviluppare la consapevolezza del proprio corpo.
OBIETTIVI FORMATIVI
• Potenziare le capacità di osservazione del comportamento altrui.
• Accettare di mettersi in gioco, con atteggiamento libero dal giudizio.
• Individuare gesti di uso comune (comunicazione intenzionale).
• Riflettere sul significato dei gesti individuati.
OBIETTIVI COGNITIVI
• Capire che il corpo possiede un suo linguaggio, sia intenzionale che
inconsapevole ed esprime stati d’animo, emozioni, relazioni, ecc.
• Essere consapevoli dell’importanza del dialogo corporeo nelle relazioni
umane.
• Esercitazioni gestuali.
MODALITÀ DI LAVORO
• Lezioni frontali.
• Momenti di confronto e discussione.
STRUMENTI e MATERIALI
RISORSE ESTERNE
• Macchine fotografiche.
• Telecamera.
• Non è previsto il ricorso a personale esterno; il percorso si sviluppa attraverso l’attività didattica curricolare dei docenti.
• Palestra.
SPAZI
• Aula.
• Aula “CIC”.
• L’intero anno scolastico, con maggior impegno nei mesi di febbraiomarzo 2003.
TEMPI
• 20 ore ca. di attività, suddivise in:
- 10 ore pratiche, in palestra o giochi in aula;
- 10 ore di lavoro di gruppo.
• Discussioni in classe.
STRUMENTI di VALUTAZIONE
• Elaborati degli studenti (testuali e grafici).
• Incontri tra docenti.
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Dieci punti per rilanciare
Federica Fortunato
“Le civiltà diventano, in mano agli apprendisti-stregoni dell’odio, degli idoli sacri intoccabili o dei feticci
intorno ai quali si organizzano gli autodafè delle diversità altrui in una spirale infernale
che coinvolge pericolosamente la dimensione locale e quella globale.
I nostri sforzi locali per avviare processi di dialogo e di mutua comprensione
devono inserirsi in questo scenario mondiale nella consapevolezza di contribuire alla pace e alla stabilità globali.
Piccoli e circoscritti spazi di comune unione tra diversità
che diventano paradigma e promessa di una pace possibile.
A condizione di non dimenticare le lezioni della storia delle nostre relazioni culturali
e di non condannare l’altro nella sua irriducibile diversità.”
(Jean Léonard Touadi, Corpi individuali e mediazione interculturale)
A qualche mese dalla conclusione dei vari percorsi, il gruppo di lavoro si è ritrovato con Duccio Canestrini per una rilettura dei percorsi e della loro documentazione.
Si è entrati nel merito delle piste seguite, delle difficoltà incontrate e dei risultati raggiunti, spostandosi poi a prefigurare gli sviluppi di una documentazione efficace sul
piano comunicativo e gradevole dal punto di vista dell’oggetto. In quasi tutte le scuole coinvolte il nuovo anno scolastico aveva visto la ripresa dei progetti, come espansione del lavoro o in forma rivisitata quando proposti a classi diverse; oltre ad aver
guadagnato in decantazione del vissuto, c’erano quindi ulteriori elementi di valutazione rispetto alle ricadute a medio termine.
Riordiniamo qui alcuni temi toccati in quell’incontro, interessati al loro aspetto di
suggerimenti per azioni future più che di valutazione. Per questo siamo in particolare
debito verso Duccio Canestrini, al cui Corpi comunicanti (p. 25) rimandiamo per altre
osservazioni e spunti di lavoro.
HUMANAE LITTERAE E CORPOREITÀ
Far interagire gli ambiti umanistici e l’educazione fisica: questa era la sfida iniziale, e i percorsi che sono nati hanno mostrato la possibilità e la preziosità di questa
coniugazione tra obiettivi e strumenti di aree disciplinari che meno si riconoscono
come interlocutrici possibili. Preziosità per il lavoro concreto che ne è derivato, ma
anche per aver discusso il conformismo culturale della separazione mente-corpo, un
dualismo che si radica fin dall’infanzia1, informa tutto l’iter educativo, dà origine a
1
Crescendo in un mondo di adulti, i bambini assumono con grande precocità l’immagine propria del sistema cultu-
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Dieci punti per rilanciare
scale di valori attive in tutti gli ambiti.
Si sono costruiti esempi di una didattica che, anche per gli adolescenti, integri
ricerca sensoriale e ricerca concettuale, verso un’alleanza tra diversi vari canali di
apprendimento2. I progetti hanno incrociato piani diversi giocando parallelamente su
esperienza corporea, processi di autoconsapevolezza, approfondimenti disciplinari,
contatto diretto con persone ed elementi di altre culture, riflessione interculturale,
produzione di testi e di oggetti. L’esperienza attiva, con valore in sé e funzionale agli
obiettivi di ogni percorso, si spera resti iscritta “nella memoria del corpo”; l’elaborazione con la lente dei diversi insegnamenti aveva il compito di far emergere il significato delle pratiche avvicinate (danza, arti marziali, tecniche teatrali, …), scongiurando il pericolo, sempre presente, che queste restassero degli “innesti di folklore”. È difficile dire se queste intenzioni si sono realizzate in modo pieno e per tutti; sicuramente però interrogativi e conseguenti attenzioni si sono posti con grande consapevolezza non solo per il gruppo di lavoro, ma anche per i colleghi delle rispettive scuole. Un
contagio si è dato, sia per la necessaria collaborazione ai progetti avviati, sia come prospettiva per il futuro; la produzione e la messa a disposizione di materiali documentari vuole allargare questo contagio. Chi temesse di deviare troppo dall’ambito della
propria materia trova in tutti i progetti la pertinenza rispetto ai programmi: sport,
rituali, valori civici nell’antichità classica; elementi di cultura locale e di diverse aree
del mondo studiati in tutte le materie della scuola media; storia e filosofia del
Novecento attraverso il filo conduttore della corporeità e della rappresentazione dell’altro; il mito tra antropologia e filosofia. Continuare in questa direzione significa
lavorare creativamente, sapendo che si possono trovare idee e strumenti3 a supporto
di chi voglia cercare nuove connessioni con la dimensione corporea e l’intercultura,
vuoi leggendo I Promessi Sposi4, insegnando una lingua straniera, occupandosi del
pensiero filosofico o scientifico. Letteratura e arti visive offrono una possibilità enorme di analizzare la gestualità e le relazioni; mentre uso del corpo e attività sociali si
prestano a infinite riflessioni sulla lingua, su insiemi semantici e relative espressioni
rale di appartenenza, compresa la dicotomia mente-corpo. Per una recente indagine su questo, cfr. M.Cantoia e V.
Ornaghi, Mente e corpo: un’indagine sulle rappresentazioni dei bambini, in “Psicologia dell’educazione e della formazione”, Erickson, Trento 2001.
2 “Usando come parametro di riferimento le nostre caratteristiche corporee, nel corso di tutta la vita, conosciamo il
mondo attraverso il corpo e il corpo attraverso il mondo, così che è fin troppo ovvio che la conoscenza che ciascuno
ha delle proprie caratteristiche cinestetiche dipende dall’ambiente, dai luoghi, dalle cose che tocca, vede, sperimenta,
e rispetto alle quali costruisce coscienza e abilità.“ (M. Dallari, I saperi e le identità, Guerini, Milano 2000, p.17-18.)
3 Qualche suggerimento si trova nella Bibliografia ragionata che conclude questo libro.
4 Spunti di lavoro sono presenti ne Il linguaggio dei capelli e Alessandro Manzoni del libro di M. Baldini e C. Baldini, Il
linguaggio dei capelli, Armando editore, Roma 2004.
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linguistiche che in culture diverse si sovrappongono o si caratterizzano per specifiche
traslazioni. Solo un esempio di riflessione interlinguistica e interculturale: le parole
che hanno a che fare con il corpo nella performance artistica (danza, teatro, musica)5
permetterebbero approfondimenti in varie direzioni, dalla storia sociale, alla comunicazione dei media, ai vissuti personali.
Ma i contenuti vengono in secondo piano, e anche le metodologie; nella triangolazione corpo-intercultura-discipline la vera domanda è “come fare ponte”, come creare
un equilibrio produttivo tra il fare e il riflettere, come collegare i momenti evitando sia
di ridurre l’approfondimento ad un lavoro statico nelle ore di lettere, sia di trasformare anche l’educazione fisica in termini intellettualistici.
E per questo non c’è una regola: bisogna giocarsi nell’interazione.
IL PRINCIPIO DEL PIACERE
Si dice che prerequisiti per l’insegnamento dovrebbero essere un alto indice di
curiosità per la vita, la disponibilità e l’interesse a mettersi in gioco, a sperimentare su
di sé quello che si vuol proporre in aula, a farlo con i ragazzi.
Nei percorsi di cui si è parlato gli insegnanti sono davvero scesi nell’arena, che
fosse per la danza o per l’esercitazione nel laboratorio teatrale; e questo non è passato
inosservato per i ragazzi, né è stato dimenticato. Il ruolo dei docenti è dunque uscito
da quello di educatori-registi; entrare a condividere l’esperienza degli studenti nell’uso del gesto, nella relazione guidata, nei momenti di necessaria esibizione di sé: tutto
questo porta nella pratica pedagogica un valore da considerare con attenzione.
Dai racconti come dalle immagini di video e CDRom, emerge per tutti un indubbio piacere del provare situazioni nuove; anche le resistenze iniziali, poi superate, sono
un dato eloquente; anche l’imbarazzo, lo spaesamento, le perplessità (emozioni e
atteggiamenti che qualcuno degli studenti ha ricordato a fine percorso) segnano oggi
la memoria e hanno richiesto, allora, uno sforzo funzionalmente analogo a quello di
affrontare e appropriarsi di concetti nuovi. (Va segnalato che non c’è mai stata coercizione; in alcuni casi gli studenti hanno assunto la posizione di osservatori, lasciandosi coinvolgere in tempi successivi.)
Mettersi in gioco è anche la condizione per qualsiasi vero dialogo, soprattutto
quando le differenze tra gli interlocutori sono ampie; in ogni interazione “si è presi”
5
In molte lingue europee (sia neolatine, che anglosassoni, o slave), con diverse segmentazioni, si ruota intorno all’idea
del gioco; altrettanto, e con interessanti differenze, avviene in culture più lontane, come per esempio nelle lingue
d’Africa che (con distinzioni tra swahili, rwandese, peulh, ecc.) allargano il campo all’idea di festa, piacere, veglia.
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(come dice Gadamer, noi non “conduciamo un dialogo”, ma è il dialogo che ci “cattura”); e l’incontro diventa tanto più significativo quanto più siamo disposti a vedere e a
far nascere “qualcosa che non c’era prima”. Da ricordare, quando si parla di dialogo
interculturale.
CRITICA DEL GIUDIZIO
a) Giudicare
Il “piacere di mettersi in gioco” richiede, fra tante altre, una condizione che fatica a
realizzarsi, ovunque ma soprattutto nella scuola: la sospensione dell’atteggiamento
valutativo. Che non si riferisce solo all’arma del registro e della pagella, ma investe
piani profondi, abitudini dure da scalpellare (sono in gioco, e alla massima potenza,
condizionamenti culturali, ragioni psicologiche, dinamiche di gruppo e di potere) e
persino da riconoscere. Proprio la dialettica verbale-nonverbale svela spesso drammatiche discrepanze: con la lingua incoraggio, ma con gli occhi o con la piega della
bocca mostro un giudizio (quanti educatori sono consapevoli del rischio?).
Si tratta di un aspetto che non può essere ignorato, troppo fondamentale per tutte
le aree in cui ci stiamo movendo: sviluppo della consapevolezza, integrazione del
corpo, disposizione interculturale non si sviluppano restando prigionieri della logica
“giusto/sbagliato”. Riconoscere e sorvegliare la tendenza ad anteporre un giudizio
(implicito quando procediamo per stereotipi) sarebbe già un grande risultato; un
lavoro di pratica e di riflessione aiuta a promuovere quella sequenza corretta che va
dall’osservazione al giudizio, passando per l’interpretazione.
b) Valutare
Torniamo alla questione non eludibile del giudizio scolastico. Un passo importante, oltre che un bel precedente, sarebbe stato portare esperienze con questo carattere
interdisciplinare al colloquio di maturità; era stato previsto nel progetto del “Galilei”
(l’unico rivolto ad una quinta), ma non attuato, in parte per una banale questione
organizzativa (l’insegnante di riferimento non era membro di commissione), in parte
per scelta degli stessi studenti che, con un comprensibile calcolo di convenienza,
distinguevano tra il peso dell’educazione fisica e quello di altre materie. Ma la partita,
finita per quella classe, può riaprirsi per altre.
Restando in tema di valutazione finale, citiamo lo sconforto di un’insegnante che,
dopo aver registrato la sorpresa e la soddisfazione dei colleghi di fronte alla partecipazione competente di alunni considerati in difficoltà (soprattutto stranieri con limiti nella lingua italiana), a giugno ha visto comunque respinti quegli stessi ragazzi. Non
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si trattava certo di attribuire crediti tout court, ma di valorizzare le potenzialità scoperte e investire su queste: se l’educazione fisica è uno degli ambiti privilegiati per chi
non padroneggia la lingua, lo spazio in cui può vedere valorizzata la sua corporeità (e
cioè una serie di competenze oltre che forma dell’intelligenza) e trovarsi alla pari o in
vantaggio rispetto ad altri, perché non sfruttare questo canale? Per l’insegnante che
esca dalla prospettiva della cattedra la palestra diventa il luogo per vedere altri aspetti dei ragazzi; e anche per capire il carattere stereotipato del nostro tipo di cultura.
IMBARAZZO, UMORISMO E MALINTESI
Imbarazzismi è il titolo di una raccolta di aneddoti su malintesi ed imbarazzi a
sfondo interculturale di cui è stato testimone o protagonista l’autore, il togolese Kossi
Komla-Ebri6. Quella dell’imbarazzo è un’esperienza (un’emozione) universale; sapendo che le attività in cui si richiede di esibirsi con i gesti o con la voce in modo non
familiare producono spesso imbarazzo (a volte paralisi), può essere formativo utilizzare questo dato invece che sforzarsi solo di superarlo come un handicap improduttivo. Sempre nel rispetto delle sensibilità in gioco, un lavoro su questo versante potrebbe diventare sorprendente, con obiettivi di consapevolezza di sé e di riflessione sulle
interazioni culturali: il peso del nostro corpo, la richiesta di movimenti estranei, lo
sguardo altrui, una propria (presunta o reale) difformità rispetto al contesto dato,
strategie e processi di superamento, condizioni facilitanti o aggravanti, …
Un terreno difficile, che richiederebbe strumenti e competenze particolari, è poi
quello del senso del pudore, diverso da persona a persona, ma soprattutto da cultura
a cultura. Nei percorsi qui descritti studenti stranieri ce n’erano, anche se non molti;
ma è mancata una pluralità che rendesse evidenti le differenze (o la mancanza di differenze) e le trasversalità di comportamento tra ragazzi di diverse provenienze: se il
ragazzo di origine brasiliana si è rianimato con l’esperienza della capoeira, alla stessa
proposta come avrebbe reagito, per esempio, una ragazza musulmana?
Situazioni di imbarazzo possono essere affrontate e superate dall’umorismo e dall’ironia; un bel terreno di lavoro, questi, anche ai fini della sensibilità interculturale.
Vale però anche il contrario, quando culture diverse rimandano a diverse percezioni
dell’ironia: un uso poco accorto può produrre esiti drammatici, ma un atteggiamento
creativo e sensibile può giocare sulle occasioni comiche e renderle produttive. È un
tema delicato ed è così sentito il bisogno di conoscenze specifiche, interne alle aree
culturali di riferimento che, per addentrarsi in questi ambiti è opportuno ricorrere a
6
Kossi Komla-Ebri, Imbarazzismi, edizioni dell’Arco-Marna, Milano 2001.
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professionisti, studiosi di etologia umana o mediatori interculturali qualificati7.
In ogni caso, come strumento pedagogico l’umorismo ha una potenza spiazzante;
spesso mortificato a favore della serietà del lavoro scolastico, permette di demistificare senza retorica, di usare un tocco più lieve senza banalizzare, di moltiplicare i punti
di vista.
Esistono diversi studi e manuali d’uso pratico sui problemi della comunicazione
interculturale (dove va sempre ricordato che interculturale non si applica solo a chi
proviene da stati nazionali diversi), con esempi di incidenti accaduti o possibili: letture gradevoli con spunti di lavoro con le classi. Codici linguistici e comportamentali
diversi sono fonte di malintesi, imbarazzo, comicità; anche qui è interessante rilevarne l’utilità come strumento di analisi e di comprensione delle diversità8.
PERCORSI DI INCUBAZIONE
I progetti realizzati non sono nati dal nulla, per uno sforzo della volontà dei singoli docenti. La ricognizione preliminare delle esperienze compiute dai diversi insegnanti dimostra che si è intervenuti su un terreno già dissodato, nelle classi (una delle
insegnanti ha sottolineato che l’esperienza, forte e concentrata nel tempo, è stata possibile grazie ai cinque anni di lavoro precedenti con lo stesso gruppo di ragazzi), ma
anche, almeno in alcuni contesti, rispetto all’istituto e ai rapporti tra insegnanti. Non
si vuole minimizzare la fatica del gruppo di lavoro nel coinvolgere i colleghi (ma lì
dove non c’erano precondizioni i progetti non si sono nemmeno dati…): il carico
organizzativo, gli accordi “presi sul corridoio”, le obiezioni culturali di colleghi che
sottintendevano un “non valore del corpo”… Ma il lavoro di un anno scolastico ha
contribuito a mettere in moto e a rendere, se non familiari, possibili attenzioni e pratiche originali. È importante tenere presente questo processo di preparazione, incubazione potremmo dire, quello che comporta in termini di permeabilità tra le discipline,
di disponibilità complessiva della scuola (flessibilità di programmazione, tempi, risorse interne, finanziamenti per gli esperti) e, naturalmente, di azione propedeutica verso
i diretti destinatari. Ogni scuola può contare su esperienze collettive che la caratteriz7
Ricordiamo qui un’efficace definizione di mediazione interculturale offerta da J. L. Touadi: “La mediazione è la presa
in conto degli equivoci e della complessità dei giochi nei quali gli individui e i gruppi si impigliano nello sforzo di
crearsi hic et nunc un patrimonio soggettivo che attinge alle radici ma che si adatta alle sfide del quotidiano” (in J. L.
Touadi, Corpi individuali e mediazione interculturale, in AAVV., Corpi individuali e contesti interculturali, L’Harmattan
Italia, Torino 2003, p. 38.)
8 Vedi l’elogio del malinteso e della sua vitalità nel far dialogare linguaggi, esperienze, culture e dimensioni diverse nel
saggio di F. La Cecla, Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Laterza, Bari 1997.
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zano; i segmenti possono essere diversi (percorsi di formazione dei docenti, progettazioni interdisciplinari, l’attenzione alle diverse forme della diversità piuttosto che alle
attività espressive o sportive, …), non necessariamente segnati dalla ricerca interculturale. Volendo immettere nuovi contenuti senza rischiare resistenze con i colleghi e
con i ragazzi, è strategico potersi appoggiare ad un canovaccio già esistente di rapporti e di attività. Questo è tanto più vero quando la progettazione è tutta interna alla
scuola; ma vale anche quando, importando uno dei percorsi proposti da soggetti esterni (enti, associazioni), si voglia evitare l’effetto cornice, la separatezza di un’esperienza
senza agganci con la quotidianità del programma.
Interpellati, i ragazzi stessi hanno espresso un bisogno di continuità, di trovare un
seguito ad un percorso sentito come iniziale, non episodico. Proprio loro (nel caso
della classe del “Rosmini”) hanno mantenuto il cordone ombelicale con il progetto
dell’anno precedente attraverso un lavoro di ulteriore rielaborazione e documentazione.
FABBRICHE DI TRASFORMAZIONE
Saranno necessari tempo e sforzi mirati per capire cosa sedimentano, a distanza di
tempo, queste esperienze: cosa resta non solo nei ragazzi, ma anche negli insegnanti,
nella scuola, cosa è passato nelle famiglie. Vedere che il filo non si interrompe, che
quasi tutti i progetti sono stati ripresi nell’anno successivo, è un segnale incoraggiante.
Pur seguendo temi e percorsi diversi, i ragazzi hanno beneficiato di esperienze tra
loro contigue: hanno affrontato territori ignoti, scoperto lati sconosciuti di sé e dei
compagni, ricreato le relazioni con gli insegnanti, sperimentato la sorpresa di constatare che a volte si interagisce meglio con chi si conosce meno.
Fra diversi apprezzamenti da parte delle famiglie, va registrata come fortemente
rivelatrice anche la resistenza espressa da qualche genitore a considerare educativo
l’avvicinamento fisico, il contatto espressivo/esplorativo (anche il semplice prendersi
per mano tra ragazzi, connotato come un pericolo di ambiguità sessuale). Un’altra
riprova che dalla spontaneità della situazione si può arrivare a discorsi impegnativi
riguardanti le identità, le convenzioni, il mutare dei codici e delle percezioni. Contatti
e distanze culturalmente normati diventano anche un’occasione per riflettere sulla
nozione di confine, proprio partendo da sé.
In una cultura traboccante di materiali e di stimoli, dove i collegamenti almeno virtuali coinvolgono tutto il mondo, viviamo il paradosso di forme di sterilizzazione, di
modalità asettiche di rapporto con le cose e con le persone, dove i ragazzi sembrano
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perdere la capacità di sentire quello che fanno. Riappropriarsi della propria sinestesia
potrebbe diventare un obiettivo preliminare per i bambini come per i ragazzi che dalla
scuola stanno uscendo. E il piacere che, nelle testimonianze dei ragazzi, è derivato da
queste proposte va anche riscoperto come principio pedagogico: contrastando un
atteggiamento diffuso di diffidenza cognitiva (il bisogno di definire preliminarmente
perché faccio questo, a cosa serve) puntare ad una estetica dell’insegnamento che
diventi magari, almeno per qualche momento, anche una poetica. Attraverso movimenti e relazioni nuove, ripensate, si rivedono schemi di apprendimento, di comportamento, di reazione; si raggiunge un pensiero nuovo, un cambiamento9.
Ed è attraverso queste microesperienze e questi microcambiamenti che possiamo
sperare di formare persone consapevoli di sé e del mondo, più competenti rispetto ai
modelli comunicativi e culturali, “protagonisti di un mondo che alle pulizie etniche
sostituisce la curiosità, il rispetto, l’interesse per soluzioni diverse da quelle proprie della
sua cultura.”10
BLENDED GENERATION
Enfatizzato dalle icone spettacolari della pubblicità e rappresentato con varia
intensità nelle aule scolastiche, il carattere etnicamente ambiguo delle mode giovanili
fa pensare alla realizzazione già data di un meticciato che da una parte declina individualmente l’idea di globalizzazione, dall’altro è visto come una sorta di liberazione da
connotazioni etniche e sociologiche pesanti da portare. L’appartenenza va a fondarsi
su altri elementi che non l’origine familiare o nazionale: i vari gruppi giovanili, spesso antagonisti tra loro, identificati da abbigliamento, acconciatura, orpelli specifici,
gusti musicali, luoghi di frequentazione11.
Ancora in evoluzione, vediamo una koinè speziata di costume e di consumo (la
varietà del mondo viene letta come varietà di oggetti e di modelli) che risponde a
bisogni profondi e non può quindi essere liquidata come fenomeno di imitazione; che
non è ancora meticciato culturale, ma che possiamo recuperare per una riflessione tra
diversità e appartenenze. Nella polarizzazione attuale tra l’attenuarsi dei confini e del
9
Riprendiamo queste idee dal seminario di V. Lombardi all’interno del corso “Oralità e corporeità. L’attenzione comunicativa nella didattica interculturale” (Trento, 6-8 settembre 2001).
10 P. Balboni, Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione interculturale, Marsilio, Venezia 1999, p. 18 (corsivo dell’autore).
11 “Il rapporto tra corpo e identità è oggi davvero strano, fragile e complesso. I soggetti, influenzati dai media e dalla
moda, chiedono al corpo di essere immagine identitaria anche quando questa non corrisponde alle reali caratteristiche degli individui e ai loro vissuti.” (M. Dallari, I saperi e le identità, Guerini, Milano 2000, p. 22.).
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senso dell’altro (la globalizzazione dei costumi) e l’esasperarsi di identità etniche
(nazionalismi, regionalismi) e di gruppo (il panorama frammentato delle appartenenze giovanili) è importante affrontare in modo concreto alcuni nodi intorno ai
quali “ci costruiamo” a partire da domande che interpellano l’io e il noi. Indagare “chi
sono” con quell’abito e “cosa faccio“ quando lo indosso è un modo per cominciare dal
sé, dando senso e corpo a quesiti altrimenti astratti; e va nella direzione di compensare la mancanza di meccanismi di identificazione e compensazione che nelle società
tradizionali operano attraverso le feste, i riti di nascita, i passaggi di stato, le diverse
forme di elaborazione del lutto.
Più o meno riconosciute, per tutti i ragazzi ci sono continue occasioni di contaminazione culturale, a partire dai messaggi (linguistici, musicali, artistici) che sono
ormai dentro alle loro pratiche visive e comportamentali. Trovare forme di lettura di
questo, ricercare le origini etnico-culturali delle espressioni corporee e del loro uso
nella cultura giovanile contemporanea sono belle piste di lavoro, nelle quali forse si
può contare più che per altre sulla complicità dei destinatari-protagonisti.
Praticare una sorta di etnologia del noi è un esercizio per allenarsi a guardare gli
altri e a notare gli incroci tra i piani delle differenze e delle somiglianze. E anche un
piccolo antidoto, o almeno uno strumento di resistenza, agli eccessi della surmodernità12 con il suo eccesso di tempo, di spazio, di eventi, di informazioni, di individualizzazione, in ultima analisi: di solitudine.
TOPOI E DUBBI COMUNI
Raccontati in sintesi e con la forza delle immagini ravvicinate dei filmati di documentazione, i diversi percorsi hanno evidenziato i temi, le azioni, gli strumenti comuni; in forma autonoma, con rare forme di prestito informativo e metodologico veicolate negli incontri del gruppo di lavoro, si sono date declinazioni originali che è possibile mettere a confronto. Nello stesso tempo hanno preso corpo anche perplessità e
dubbi rispetto ai rischi pedagogici e culturali insiti nell’uso di alcuni argomenti e
modalità di lavoro. Prendiamo i temi più frequenti: la danza (soprattutto africana) e il
lavoro sulle e con le maschere.
La danza, utilizzata ormai da anni nelle scuole anche grazie alla disponibilità di
esperti provenienti da paesi dell’Africa subsahariana e dell’America Latina, è presente in ben tre dei cinque progetti. Per i ragazzi del “Rosmini” ha avuto una funzione
motivazionale, ma è stata soprattutto oggetto di un ricco lavoro di approfondimento
12
Per questa categoria cfr. M. Augé, Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
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sul suo valore iniziatico e sull’alfabeto del corpo nelle tradizioni dell’Africa occidentale. Dall’apparente banalità del gesto, alla sua interpretazione letterale e simbolica, al
collegamento con dati culturali più generali: tutto è stato tenuto insieme all’elaborazione del vissuto delle ragazze e dei ragazzi che, in un’unica volta, avevano sperimentato un complesso di novità: la danza guidata, con musica e movenze aliene, in situazione collettiva, a scuola, come compito di una proposta didattica, come strumento e
fonte di conoscenza.
Anche nel progetto Il corpo come memoria si è usata la danza come canale per
entrare nel vivo di culture lontane attraverso l’esperienza delle due formatrici, le loro
proposte coreografiche e la loro narrazione. Per bocca degli studenti, un lavoro su
tempi più lunghi avrebbe fatto entrare in modo più attivo e sciolto anche chi qualche
ritrosia doveva superarla; ma va riconosciuto che aver offerto alla danza studenti di un
istituto tecnico è un passo coraggioso, da far maturare.
Un percorso più sistematico, finalizzato alla rappresentazione pubblica, ha permesso ai ragazzi della scuola media d’arte di usare la danza come complemento naturale di un lavoro a tutto tondo sulla ritualità oltre che come mezzo per assaporare e
rendere attraverso il gesto i tratti delle maschere studiate e riprodotte.
Questo ci porta al secondo tema, l’uso delle maschere per le quali si è lavorato su
due modalità distinte. Nella “processione multietnica” messa in scena dalla scuola
d’arte si è trattato di maschere etniche analizzate nei loro caratteri plastici e simbolici,
ricostruite e quindi indossate (impersonate) dai ragazzi. Come il rischio di un esotismo criptocolonialista è forte nella proposta delle danze, anche l’uso delle maschere
contiene il pericolo del carnevale etnico, fuorviante e irrispettoso rispetto al contesto
originale. Però con un accorto controllo pedagogico la processione apparentemente
folkloristica è stata solo la parte pubblica, spettacolare, di un lavoro profondo sulla
simbologia delle maschere e dei colori di un paese lontano e sull’osservazione delle
analogie di questi con oggetti di ritualità locali (vedi il percorso dalla Valfloriana
all’Ecuador)13. Come dice l’insegnante: “In prospettiva didattica il ragazzino che sfila
con una maschera Dogon capisce quanto questa sia carica di significato culturale; la
maschera non è solo maschera, è la persona”.
In due progetti (ancora La memoria del corpo e Al di là del bene e del male) la
maschera è stata quella neutra o larvale, un calco bianco inespressivo usato nelle esercitazioni di tecnica teatrale ed espressione corporea: è uno strumento potente che
amplifica l’osservazione della morfologia corporea e dei gesti, accentua l’espressività
del corpo (togliendo il messaggio del volto, ogni minima variazione di gesto o postu-
13
Rimandiamo al repertorio iconografico contenuto nell’ipertesto Danzando nel mondo curato da P. Perale e C.
Bassetti.
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ra viene enfatizzata), favorisce l’ascolto e l’analisi delle proprie sensazioni.
Tra le idee iniziali poi non realizzate ma recuperabili, ricordiamo quella del lavoro
sulle maschere della Commedia dell’Arte che offrirebbe spazi vastissimi di esercitazione diretta, di approfondimento su caratteri ed emozioni, oltre che animare un capitolo di storia sociale e letteraria.
Il confronto interno al gruppo di lavoro ha portato a definire una serie di interrogativi, rimasti come segno di consapevolezza, ma senza risposta. Che avere messo in
moto i corpi e l’immaginazione di adolescenti abbia aperto brecce positive, è un dato
condiviso. Sono rimasti con la loro forza alcuni dei dubbi rispetto alle conoscenze e
alle condizioni necessarie per impostare in modo corretto proposte così caratterizzate. Contro la paralisi, tuttavia, è accettato che insegnare comporta anche assumere dei
rischi: il compito diventa riconoscerli, cercare e trovare supporti professionali, prevedere strategie di contrasto o di contenimento.
CONTAMINARSI
La parola “intercultura” è stata raramente pronunciata negli incontri di lavoro; e si
trova usata con parsimonia anche nei testi. Come se, una volta assunta questa prospettiva pedagogica, fosse stata incorporata (è la parola) ad ogni singola azione.
“Puoi conoscere qualcuno soltanto dopo aver camminato a lungo nei suoi mocassini”,
recita un proverbio navajo. E possiamo aggiungere che entrare “nelle scarpe dell’altro”
porta anche a sentire meglio o diversamente i propri piedi. Possiamo chiederci quali
siano le condizioni necessarie perché un’esperienza di incontro sia significativa: questioni di tempo (la durata di una proposta e il collegamento con altre nel corso degli
anni), un’effettiva messa in gioco che vada oltre la simulazione e l’esperienza episodica,
la relazione con “testimoni d’altrove”, coloro che portano sulla pelle, nella lingua, nel
narrare un’alterità non solo etnica ma esistenziale. Il ricorso ad esperti stranieri non ha
garantito solo l’intervento dello specialista (per il mito africano, le danze, la capoeira),
ma proprio nell’unione tra competenza e appartenenza ha promosso il dialogo e il riconoscimento; più efficace anche da un punto di vista didattico-comunicativo (gli insegnanti lo confermano), l’interazione con professionisti “che vengono da lontano” è
intrinsecamente un atto di mediazione interculturale, un’occasione per guardare diversamente alle altre differenze presenti nella scuola, favorendo il processo di riscoperta
dell’altro come tu; non solo come altro da me, ma anche altro di me14.
“Oggi non si tratta di aprire con le culture diverse un rapporto puramente cono14
Cfr. G. Cicchese, I percorsi dell’altro, antropologia e storia, Città Nuova, Roma 1999.
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scitivo, quanto piuttosto di affiancare a esso un rapporto di interazione, di scambio
profondo, per i quali i termini di contaminazione, di meticciato sembrano essere più
adatti che non quello tradizionale, ma usurato, di integrazione.”15
Insieme alla complessità della tessitura di montaggio, la scelta del titolo per il video
del “Rosmini”, A scuola con Gabriel, dice non solo il ricordo del percorso che ha portato i ragazzi a contatto con la Costa d’Avorio, ma il lascito più largo in termini di rinnovamento dello sguardo e dell’esperienza quotidiana negli spazi dell’istituto e nei
rapporti tra chi li abita.
“LE EMOZIONI SONO PASSI DI DANZA”
“Dobbiamo coltivare la consapevolezza che dobbiamo tutti fare i conti con la
nostra alterità e che ci sarà sempre qualcuno a ricordarci che siamo diversi” dice il
giornalista Jean Léonard Touadi16 alla fine di un intervento in cui ricorda la fisicità
interpellante di chi tra noi è immigrato (corpi erranti, mercificati, da sfamare, culturali). Questo “coltivare consapevolezza” richiede di guardarsi dalle astrazioni e di impegnarsi nella relazione, in “processi di dialogo e di mutua comprensione.”
Ogni passo in direzione di una consapevolezza a più livelli (di sé e degli altri) porta
respiro a quel percorso educativo permanente verso un mondo di rispetto e di pace
che è il vero sfondo di quanto si è andato facendo e dicendo. La dimensione simbolica, propria del gesto e dell’arte, ha in questo un’importanza fondamentale; rivalutare
la forza comunicativa delle icone, recuperare la fiducia nel pensiero simbolico (che la
cultura occidentale ha mortificato rispetto a quello concettuale) è un altro processo di
trasformazione strutturale che il lavoro su e con il corpo permette di attivare17.
Per restare su questa idea e concludere con un pensiero creativo e trasformativo,
ritorniamo all’espressione più forte di comunicazione simbolica attraverso il corpo: la
danza, elemento ricorrente dei nostri percorsi, pratica artistica e comunicativa, di contatto con il proprio corpo, con quello altrui, con la collettività. Rilanciamo la palla a
chi vorrà proseguire su questi sentieri offrendo questo passaggio vitalissimo e ottimistico dal libro Se la sua danza si muove, l’Africa si muoverà di Alphonse Tiérou, coreografo e ricercatore ivoriano, consulente all’Unesco per la ricerca sulla danza in Africa:
“La danza, culturalmente, ha un ruolo essenziale per la riuscita di una politica dell’in-
15
M. Callari Galli, Antropologia per insegnare, Mondadori, Milano, 2000, p. 100.
J. L. Touadi, op. cit., p. 39.
17 Per una trattazione del valore dialogico della conoscenza simbolica vedi R. Panikkar, Pace e Intercultura. Una riflessione filosofica, Jaka Book, Milano 2002.
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tegrazione. La danza pura, quella vera, originale, svela, demistifica, lascia cadere la
maschera. Essa è libertà, indipendenza e autonomia. È l’astrazione totale dei problemi
di origine, di classe sociale, di altezza, di peso, d’età, di sesso, di bellezza o di pigmentazione della pelle, che sono fonte di divisioni e sangue ingiustificato. La funzione fondamentale della danza è di trasformare l’insieme dei corpi, la materia prima per eccellenza, in una pioggia di suoni, scintille, fiamme, gioia e luce, attraverso il genio creatore.”18
18 A. Tiérou, Si sa danse bouge, l’Afrique bougera, Editions Maisonneuve et Larose, Parigi 2001. Il passaggio è citato nell’articolo di Rossella Xillovich, Anime danzanti, in “Volontari per lo sviluppo”, agosto-settembre 2002, p. 37.
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Tra gli obiettivi iniziali del progetto Gesto – Espressione – Cultura erano state inserite due voci che, in corso d’opera, si è deciso di lasciare in sospeso: la ricognizione,
nelle scuole della provincia, di percorsi di educazione interculturale attraverso i linguaggi non verbali e la definizione di una “mappa delle risorse locali” utili per lavorare in questo ambito. È sembrato molto oneroso e poco produttivo investire nella creazione di un quadro statico di elementi che sono in continua trasformazione. Per la
prima area di raccolta si è preferito mettere a disposizione delle scuole interessate la
sezione del sito web dell’IPRASE dedicata ai progetti qui presentati: è possibile presentare il proprio progetto attraverso una scheda sintetica che viene animata con l’inserimento di immagini, musica, filmati, collegamenti ad altri siti. Il link con la pagina
web del Centro Millevoci (che a sua volta è aperto alla circolazione di qualsiasi progetto di natura interculturale) permette di far comunicare le due banche dati.
Per quanto riguarda l’elenco delle risorse: esperti, formatori, animatori, associazioni e centri culturali sono in continua espansione e, da questo punto di vista, una
pubblicazione invecchia presto. I confini, inoltre, non sono facili da stabilire: c’è chi si
propone esplicitamente per un lavoro didattico con queste caratteristiche (che riassumiamo nei tratti di “gesto e intercultura”); ma cercare nuove piste di lavoro può portare ad approdi inattesi, significa anche reinventare l’uso delle risorse. E qui si colloca
l’operare creativo della scuola. Le diverse aree dello sport, della danza, della musica,
del teatro possono diventare occasione di riflessione e di incontro in senso interculturale; possiamo poi avvicinare gli aspetti cerimoniali delle diverse tradizioni, religiose
e laiche, che abitano lo stesso territorio (facciamo riferimento alle diverse comunità
religiose, ma si stanno moltiplicando anche gruppi su base nazionale). Possiamo infine far ricorso alle competenze e all’eloquenza naturale dei singoli mediatori culturali:
di chi, venendo da lontano e avendo lavorato su di sé e sulle dinamiche interculturali,
con vari strumenti comunicativi aiuta a rinnovare il nostro sguardo sulle cose, sugli
altri, su di noi.
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Territorio
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Schede
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A LEZIONE DAL CORPO
IPRASE Trentino
Schede di lavoro
Raccogliamo qui gli strumenti predisposti per e dal gruppo di lavoro, inserendo
anche i questionari costruiti e utilizzati in due scuole per la valutazione del percorso
da parte dei ragazzi.
1. Griglia per la mappatura dei progetti realizzati
Raccoglie temi, caratteristiche e problematiche specifici di singoli percorsi, permettendone una comparazione sinottica.
È stata utilizzata nel corso degli incontri preliminari del gruppo per la raccolta
delle esperienze pregresse.
2. Attenzioni preliminari
Alcuni suggerimenti su modalità e ad azioni per il coinvolgimento delle classi e per
il lavoro di progettazione.
Hanno accompagnato la griglia seguente.
3. Griglia per la stesura di un progetto
Contiene le classiche voci relative ad un progetto, organizzate in un modello sintetico.
È stata usata come traccia per il documento di progettazione ed è ripresa con lievi
modifiche nella Scheda di progetto alla sezione In viaggio con i ragazzi: palestra, palcoscenico e altri luoghi.
4. Griglia di osservazione
Contiene alcuni spunti per sostenere il lavoro di osservazione in aula1.
Consegnata in fase di avvio dei progetti.
5. Indicazioni per predisporre la documentazione
È una bozza operativa per facilitare l’individuazione di una personale tipologia di
documentazione e per organizzare le azioni opportune.
Consegnata contestualmente all’avvio dei progetti.
1 Per approfondimento è stata distribuita una sintesi derivata dal libro di P. Bonetti e F. Roman Jacopino, L’osservazione
sistematica degli alunni. Tecniche per la rilevazione del comportamento e per l’organizzazione delle attività educative,
Fabbri, Milano, 1978.
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MAPPE E STRUMENTI
Schede di lavoro
6. Griglia per la presentazione di un progetto sul sito web
Riporta i dati del progetto in forma sintetica, con sezioni per un bilancio provvisorio e per l’inserimento di materiali utilizzati e/o prodotti.
Utilizzata in fase di attuazione dei progetti per una prima presentazione del lavoro.
7. Traccia per la rielaborazione narrativa del percorso
Presenta i campi di descrizione, un ordine possibile e una serie di suggerimenti.
È stata utilizzata dai docenti per la relazione conclusiva.
8. Questionari di valutazione
Sono questionari costruiti da insegnanti di due scuole come rilevazione del gradimento da parte dei ragazzi e di riflessione sintetica sul loro vissuto.
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A LEZIONE DAL CORPO
IPRASE Trentino
1. Griglia per la mappatura dell’esistente
Quando
Progetto
Area
è stata fatta
Elementi
Dove
Da chi
Obiettivi significativi
Nodi cruciali
1.
2.
3.
2. Attenzioni preliminari
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Analizzare i bisogni.
Verificare e mappare le conoscenze e le esperienze pregresse della classe.
Verificare e mappare le risorse della classe/della scuola/del territorio.
Prevedere fasi per la motivazione (e la rimotivazione in corso d’opera).
Prevedere e organizzare il contratto formativo con gli alunni ed eventualmente con le
famiglie e/o altri soggetti.
Costruire una mappa concettuale.
Declinare le fasi di lavoro.
Stabilire strumenti di raccordo con altre esperienze in corso o attivate nel periodo di
attuazione del progetto.
Stabilire strumenti per il monitoraggio del lavoro.
Stabilire modalità e strumenti per la documentazione.
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MAPPE E STRUMENTI
Schede di lavoro
3. Griglia per la stesura sintetica di un progetto
Schede
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A LEZIONE DAL CORPO
IPRASE Trentino
4. Griglia di osservazione: alcune linee
Risposta dei ragazzi all’input dato
•
•
•
•
•
•
•
Reazioni immediate:
- positiva/negativa
- attiva/passiva
Partecipazione all’attività: - attiva/passiva
- stereotipata/creativa
Cambiamenti nel tempo.
Differenze di genere.
Differenze rispetto ad altre appartenenze.
Sorprese.
Nuove proposte/rilanci.
Aggiustamenti rispetto alla proposta iniziale
Tempi
•
•
Aspetti relazionali
•
•
•
Rispettati quelli previsti.
Cambiamenti (più brevi, più lunghi, rinviati, alternanze, …).
Clima generale.
Relazioni nel gruppo.
Relazioni interpersonali.
Imprevisti
5. Indicazioni per predisporre il lavoro di documentazione
Definire il/i prodotto/i
•
foto, dispensa, video, CDRom, … (con ipotesi di forma finale).
Definire i destinatari
Individuare i responsabili della documentazione e i rispettivi ruoli
•
•
•
•
•
Insegnante referente.
Insegnanti collaboratori.
Studenti.
Esperti.
Eventuali osservatori esterni (genitori, bidelli, tecnici, …).
Individuare possibili collaborazioni (esperti, enti).
Definire tempi e spazi di lavoro
Stendere una lista di ciò che occorre(esperti, contatti, attrezzatura, letture, modelli,
consultazione altra documentazione, …).
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MAPPE E STRUMENTI
Schede di lavoro
Definire tipologia e fasi del lavoro
•
•
•
Tecniche audiovisive.
Lavoro redazionale.
Organizzazione dei materiali.
6. Griglia per la presentazione di un progetto sul sito web
Titolo
Tematica
Scuola
Classe/i (numero degli studenti, composizione)
Discipline
Docenti
Esperti coinvolti
Strumenti
Letture, film, siti Web
(eventualmente con link ai testi e ai siti)
Suggerimenti bibliografici
Sintesi del percorso
Materiali prodotti
Materiali in elaborazione
Difficoltà – ostacoli
Prospettive
Suggerimenti
•
•
•
Caratterizzare la pagina con un’immagine (logo) e un sottofondo musicale.
Prevedere rimandi per approfondimenti rispetto alla sintesi di questa videata
(verso la costruzione di un ipertesto).
Proporre una documentazione visiva sostenibile (foto, brevi sequenze video).
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A LEZIONE DAL CORPO
IPRASE Trentino
7. Traccia per la rielaborazione narrativa del percorso
Premessa
•
•
•
•
•
Motivazione personale
•
•
•
•
•
•
•
Caratteristiche della scuola.
Caratteristiche della/e classe/i:
- Composizione.
- Problematiche/bisogni/richieste esplicite.
- Risorse presenti nella classe.
- Progetti già sviluppati.
Disponibilità dei colleghi.
Collegamenti con territorio (istituzioni, associazioni, ecc).
...
Contratto formativo
•
•
•
•
Formative personali.
Professionali (anche extra scuola).
Didattiche.
…
Contesto
•
•
Interesse per gli ambiti (intercultura, antropologia, espressione corporea, ecc.).
Interesse per un’impostazione didattica non tradizionale (v. esperienze già attuate).
Adesione al progetto complessivo.
...
Esperienze pregresse
•
•
•
•
I nuovi studenti (italiani e non).
Processi di globalizzazione.
La scuola che cambia (o dovrebbe).
I diversi saperi e le diverse intelligenze.
...
C’è stato e come con i ragazzi (ma anche con i colleghi, gli esperti, …)?
Motivazione.
Eventuale rimotivazione.
...
Finalità e obiettivi
•
•
•
Rivedere quanto previsto dal progetto: in corso d’opera gli obiettivi sono stati
selezionati o ne sono stati raggiunti altri non previsti?
Può essere più stimolante trasformare gli obiettivi in domande dirette.
...
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MAPPE E STRUMENTI
Schede di lavoro
Metodologia
•
•
•
Risorse utilizzate
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Cosa.
Quale partecipazione dei ragazzi (suggerimenti, iniziativa, arricchimenti, saperi
tecnici, …).
Quale destinazione, quale possibilità di circolazione.
…
Valutazione
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Narrazione lineare oppure narrazione per sequenze forti (smontaggio per segmenti rilevanti del percorso).
La gestione, il monitoraggio, il filo tenuto con i ragazzi attraverso le diverse fasi.
I rapporti interdisciplinari.
…
Materiali prodotti
•
•
Docenti della scuola, Esperti, Animatori, Testimoni.
Libri, film, Internet, ecc.
Spazi (anche esterni alla scuola).
Strutture e servizi extrascolastici.
...
Descrizione del percorso
•
Riferimenti teorici.
Tipologie utilizzate.
...
Quello che è stato possibile valutare ufficialmente (e attraverso quali strumenti).
Forme e procedure di valutazione informale (anche autovautazione).
Ricadute positive (cercate o impreviste).
Il progetto e “il programma scolastico”.
Riutilizzabilità delle esperienze.
Aggiustamenti.
Problemi emersi: pratici (logistica, tempi, ecc.), comunicativo-relazionali, …
Sorprese.
Condizioni che hanno favorito o ostacolato il percorso.
Modalità di informazione nella scuola e oltre.
….
Testimonianze
•
•
Ragazzi: scritte (questionari o relazioni), raccolte da discussione collettiva, commenti occasionali, …
Famiglie.
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A LEZIONE DAL CORPO
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•
•
•
•
Continuazione
•
•
•
Colleghi.
Altro personale della scuola.
Esperti.
…
Interesse/condizioni per possibile proseguimento.
Contagio di altri colleghi.
…
Vissuto
•
•
•
•
•
•
Cosa ha immesso di nuovo nella programmazione ordinaria.
Il clima in classe (o nella scuola).
Difficoltà.
Spesa professionale e personale.
Cosa rimane a me.
…
Biblio/video/sitografia
Il progetto complessivo/Il gruppo di lavoro
•
•
•
•
•
Quale relazione tra il mio lavoro (comunque) e il progetto complessivo MillevociIPRASE.
Input degli esperti.
Utilità del gruppo di riferimento.
Limiti/delusioni…
Proposte.
Suggerimenti
•
•
•
•
•
•
Concentrare l’attenzione su quello che si discosta dall’abitudine, su quello che è
straordinario, imprevisto, alto, ….
Raccogliere e curare la dimensione espressiva (tradurre quello che passa attraverso il tono di voce, il gesto, …).
Evidenziare le domande soggiacenti (dagli obiettivi ai moventi per l’apprendimento).
Far emergere le direttrici del percorso e le caratteristiche della sua gestione.
Valorizzare/elaborare i problemi e gli eventuali incidenti di percorso.
Nella ricostruzione del percorso:
- Segmentare l’attività.
- Selezionarne i momenti nodali.
- Compiere uno “smontaggio” di una o più sequenze.
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MAPPE E STRUMENTI
Schede di lavoro
-
•
•
•
•
Trasformare gli eventi selezionati:
- o in “sequenza lineare” (che non coincide necessariamente con la ricostruzione diacronica);
- o in “struttura aperta”.
Nel caso di percorso lungo o frammentato (nel tempo e/o negli ambiti disciplinari) lavorare sugli elementi di connessione (o esercitare la critica sulla loro mancanza).
Sottolineare condizioni e/o strategie che hanno favorito la motivazione, facilitato
l’apprendimento.
Evidenziare l’emergere di forme di intelligenza solitamente non valorizzate.
Farsi (o farsi fare) domande provocatorie.
8. Questionari di valutazione
Progetto: Al di là del bene e del male: corporeità e interculturalità
Proff. Daniela Franceschini e Giorgio Waller
Per niente
1. Il lavoro svolto ti ha incuriosito?
2. Hai avuto opportunità di provare emozioni nuove?
3. Hai colto alcuni spunti per riflettere sul modo in cui il tuo corpo
esprime la tua cultura?
4. Dopo l’esperienza fatta è cambiata la tua lettura della gestualità altrui?
5. Ti senti più consapevole della
tua corporeità e degli aspetti
comunicativi che essa implica?
6. Il carattere interdisciplinare del
percorso ti è apparso chiaro?
7. Qualche aspetto del lavoro svolto ti ha stupito o ti ha comunque fatto scoprire aspetti del
tuo vissuto o della tua cultura su
cui non avevi finora riflettuto?
Se sì, descrivilo brevemente.
Poco
Abbastanza
Molto
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A LEZIONE DAL CORPO
IPRASE Trentino
Per niente
Poco
Abbastanza
Molto
8. I tempi dedicati al percorso, a
tuo avviso, sono stati adeguati?
Hai dei suggerimenti da dare in
proposito?
9. È stata solo un’esperienza diversa o hai sentito che faceva parte
di un progetto completo? Cosa
cambieresti?
Progetti: Sport e Guerra e Il Corpo come Memoria
Prof.ssa Paola Morini
Poco
Il lavoro svolto ti ha incuriosito?
Hai provato emozioni nuove?
Hai riflettuto sul rapporto tra il
tuo corpo e la tua cultura?
Hai scoperto cose nuove su te o
su altre culture?
L’incontro con persone di esperienza diversa è stato interessante?
I tempi sono stati adeguati?
Il carattere interdisciplinare del
percorso ti è parso chiaro?
Abbastanza
Molto
Moltissimo
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Biblio
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IPRASE Trentino
Bibliografia ragionata
Proponiamo alcune indicazioni bibliografiche appartenenti a diverse aree disciplinari (antropologia, pedagogia, linguistica, sociologia, arte); alcune hanno carattere
generale, altre più monografico rispetto al nostro tema. Offrono quindi approcci da
più lati e spunti per lavori di approfondimento rispetto alla corporeità come promozione di un atteggiamento interculturale. Denunciamo subito una quota di arbitrarietà in questa selezione; si noterà l’assenza di autori rappresentativi della ricerca pedagogica sull’intercultura, così come alcuni titoli potranno apparire di interesse marginale. Coinvolgendo molte aree del sapere, la letteratura di riferimento sarebbe sterminata; qui si è scelto di contenere il numero offrendo qualche nota sui contenuti e sull’eventuale possibilità di impiego diretto in ambito didattico. Si è fatto riferimento ad
opere suggerite al e dal gruppo di lavoro nel corso di questo progetto, con alcune integrazioni; la scelta è andata a testi solo in italiano (la letteratura anglosassone è ricchissima e non sempre tradotta) e facilmente reperibili. Con poche eccezioni si è scelta
un’unica opera di autori che invece molto hanno lavorato nell’ambito di cui si occupiamo.
A parte pochi esempi di interesse più generale, non inseriamo i testi utilizzati dagli
insegnanti nei progetti illustrati, molto specifici rispetto al lavoro svolto e già citati
nelle relative sezioni bibliografiche alle quali rinviamo.
AA VV. (2003), Corpi individuali e contesti interculturali, L’Harmattan Italia, Torino
Il volumetto raccoglie gli interventi presentati nell’omonimo seminario torinese del 2002.
Il tema sotteso ai vari contributi è quello della mediazione culturale, indagata a partire da
diverse prospettive. La dimensione corporea, anzi il corpo nella sua immediatezza, viene
indicato come terreno fondamentale per ogni discorso sulla cultura e sui rapporti sociali e
ne sia anzi la rappresentazione. Apre il libro il saggio Perché il corpo? di Francesco Remotti:
ricordando che l’uomo “è un essere culturalmente costruito, non solo nell’anima, ma anche
nel corpo” l’antropologo indaga la posizione della corporeità nella cultura e nell’educazione. Proprio nella riflessione sulla comunicazione interculturale, il corpo ha una posizione
strategica, come strumento per conoscere i fenomeni di superficie e gli impliciti dei codici
relazionali.
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MAPPE E STRUMENTI
Bibliografia ragionata
Balboni P. (1999), Parole comuni, culture diverse. Guida alla comunicazione intercultu-
rale, Marsilio, Venezia
In questo libro destinato a insegnanti e formatori Balboni sottolinea che nel lavoro sugli
stereotipi è ineludibile affrontare il tema della corporeità: il corpo che si vede, si tocca, si
presenta nelle sue differenze viene prima di qualsiasi categoria culturale o discorso linguistico. L’autore declina il concetto di comunicazione interculturale (che implica la conoscenza e il rispetto degli altri e delle differenze tra noi e gli altri, l’accettazione della potenziale superiorità di altri modelli culturali e la disponibilità a mettere in discussione i nostri)
e definisce gli obiettivi di una didattica della comunicazione interculturale. Di pronta spendibilità didattica, si trovano, nell’ultimo capitolo, griglie per l’osservazione sia di contesti
culturali che della comunicazione interculturale.
Baldini C. e Baldini M. (2004), Il linguaggio dei capelli, Armando editore, Roma
È un’antologia delle ricerche condotte, sul tema dei capelli, da studiosi di svariate aree
disciplinari: psicologia, etologia, sociologia, antropologia, semiotica, storia della moda,
zoologia. Da Darwin in poi, quindi, si ripercorre la storia e la simbologia delle acconciature attraverso molteplici punti di vista, immagini, tabelle esplicative. Ma si indaga anche il
significato dei contatti con i capelli (toccarli, tirarli, grattarsi la testa) e si suggeriscono
spunti teorici per la costruzione e decostruzione dell’immagine a partire dai capelli, senza
dimenticare consigli pratici per la loro cura. Di pronto (e spiazzante) sfruttamento didattico è il capitolo Il linguaggio dei capelli e Alessandro Manzoni.
Bateson G. (1976), Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano
Citiamo il libro forse più conosciuto tra quelli di un autore che ha affrontato in tutta la sua
opera il rapporto tra dinamiche della conoscenza e i diversi linguaggi: corporeo, verbale,
delle emozioni. Il tutto percorrendo i sentieri e usando i metodi di antropologia, biologia,
cibernetica, etologia, psichiatria.
Callari Galli M. (1996), Lo spazio dell’incontro. Percorso nella complessità, Meltemi, Roma
L’autrice utilizza l’approccio antropologico per argomentare la necessità, per l’uomo contemporaneo, di trasformare il modo tradizionale di pensare l’identità e l’appartenenza culturale.
La lettura della complessa realtà di oggi costringe a ripensare la visione separatista dei mondi
diversi che ormai vivono globalmente. Le contaminazioni culturali sono aspetti fondanti delle
identità individuali che si caratterizzano, come il mondo, per complessità e pluralità.
Callari Galli M. (2000), Antropologia per insegnare, Mondadori, Milano
Partendo dalle questioni legate alla complessità del mondo contemporaneo (globalizzazione di mercato e mediatica, turismo di massa, migrazioni), l’autrice introduce alcune dinamiche dei processi identitari nella società moderna. A proposito dell’educazione interculturale, indica nei campi e nei metodi dell’antropologia strumenti di utilizzo diretto, sia per
la comprensione dei fenomeni legati a culture diverse, sia per l’analisi di comportamenti,
valori, stili di vita nostri ed altrui su cui costruire spazi di dialogo e di confronto.
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A LEZIONE DAL CORPO
IPRASE Trentino
Castiglioni M. (1997), La mediazione linguistico-culturale, Angeli, Milano
Nessuno studio sulla mediazione culturale può prescindere dalla concretezza e dall’immediatezza delle relazioni umane e, quindi, dal dato corporeo. Marta Castiglioni, una delle
prime in Italia a sperimentare e definire le questioni della mediazione culturale, parte dal
campo della sua osservazione e pratica diretta, quello sanitario. Qui la fisicità è in primo
piano, non solo come dimensione del dolore e della cura, ma come campo in cui si affrontano le problematiche della relazione tra il panorama culturale di provenienza del migrante e quello di arrivo. Crocevia di natura e cultura, il corpo concentra e determina la rappresentazione di sé, le aspettative, la fatica dell’adattamento (o del disadattamento), i differenti universi simbolici che entrano in contatto.
Dallari M. (2000), I saperi e le identità, Guerini, Milano
In tempi di cultura planetaria e rapide trasformazioni i riferimenti per la costruzione della
nostra autorappresentazione sono scossi in modo profondo. Le identità legate al genere, al
luogo, alla religione, allo status sociale, ecc. non possono più essere considerate in modo
univoco. Per questo, per trovare piste, riferimenti che aiutino ad orientarsi nella complessità e nella mutevolezza, è necessario andare ai fondamenti, a quello che è, in modo immediato, oggetto della nostra esperienza e quindi della possibilità di conoscenza e riconoscimento personale. Al corpo Dallari fa esplicito riferimento proprio nel primo capitolo dal
titolo Il corpo, il nome e tutto ciò che è mio; ricorda qui come il corpo sia lo strumento attraverso il quale conosciamo il mondo, ma anche, viceversa, come esploriamo il nostro corpo
attraverso l’esperienza del e nel mondo. Ma problematizza ulteriormente sottolineando che
“il rapporto tra corpo e identità è oggi davvero strano, fragile e complesso.”
Diodato L. (a cura di) (1998), Il corpo parla. Gli altri linguaggi, Armando editore, Roma
“Nel mondo occidentale stiamo appena cominciando a scoprire o, per essere più precisi, a
riscoprire i nostri sensi trascurati. (…) Sono i nostri sensi che danno forma e corpo alla
realtà.” (Montagu) Nella prima parte il volumetto curato da Luciana Diodato analizza
diversi tipi di gesti e loro significati: il linguaggio corporeo viene diviso tra espressività
degli occhi, valenza comunicativa del tatto, gesti, atteggiamenti e segnali non intenzionali.
In alcuni casi si ritrovano accenni a differenze culturali; sempre il lavoro può essere utile
per impostare un lavoro di ricerca e di autoosservazione. La seconda parte approfondisce i
temi, presentati prima in modo abbastanza sintetico e didascalico, attraverso un’antologia
di scritti da parte di noti antropologi, psicologi, etologi.
Eibl-Eibensfeldt I. (1993), Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comporta-
mento, Bollati Boringhieri, Torino
Un’opera enciclopedica, dalla quale segnaliamo il capitolo sulla comunicazione, suddivisa
per i diversi canali sensoriali (olfattiva, tattile, visiva) e declinata poi nelle diverse strategie
per l’interazione (la grammatica universale del comportamento umano): dalle espressioni
del volto, alla scansione di un incontro tra amici (dai saluti alla separazione), ai rituali di
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MAPPE E STRUMENTI
Bibliografia ragionata
cortesia, alle richieste ultimative e molto altro ancora viene descritto, classificato e ampiamente illustrato con foto, tabelle, disegni. Un autentico archivio iconografico che in molti
casi arriva a sequenze quasi filmiche di un evento visto per fotogrammi successivi.
Fabietti–Malighetti-Matera (2002), Dal tribale al globale. Introduzione all’antropolo-
gia, Mondadori, Milano
“Questo libro è stato scritto per trasmettere l’idea che l’antropologia è uno strumento indispensabile per comprendere il mondo attuale.” Questo l’incipit della Prefazione ad un libro
molto denso che spazia da una ridefinizione attuale dell’antropologia, alla dimensione plurale del concetto di cultura. Forte aggancio con i temi della nostra pubblicazione si trova
nella terza parte che entra nelle questioni della contemporaneità: globalizzazione, ibridazione, omogeneizzazione, l’esperienza diretta del migrare e l’immaginario che intorno a
questa si costruisce nelle società di arrivo. Interessanti, e ben riutilizzabili in ambiente
didattico, anche gli esempi di meticciato culturale attraverso le arti.
Feldenkrais M. (1996), Il corpo e il comportamento maturo, Ed. Astrolabio, Roma
Una tra le diverse opere in cui Feldenkreis sviluppa il lavoro sul suo Metodo che dagli anni
’50 viene utilizzato per scoprire e modificare gli schemi individuali di posizione e movimento; questo con l’obiettivo di promuovere consapevolezza, attivazione di risorse naturali, trasformazione attraverso l’intervento a livello corporeo. Il pensiero di Feldenkreis investe la psicologia, la pedagogia, la filosofia; le sue tecniche, utilizzate in ambito medico, artistico, educativo, sportivo, sociale, permettono di sviluppare la capacità di osservazione di
sé, con il controllo dei più minuti segmenti corporei, insieme alla capacità di concentrazione; in una formula “consapevolezza attraverso il movimento”.
Firth R. (1977), I simboli e le mode, Laterza, Bari
Nella prima parte di questo libro l’autore fa il punto rispetto al concetto attuale di simbolismo, con un confronto diacronico delle idee relative e il ricorso ad altri campi teorici, come
la filosofia. La seconda parte è costituita da una generosa serie di esemplificazioni di comportamenti simbolici che investono il cibo, i rituali fisici di saluto, i capelli, la valenza delle
bandiere, il concetto di dono. Rilevante ai nostri fini il paragrafo sul simbolismo del corpo;
di interesse e attualità, rispetto ad obiettivi di conoscenza e comprensione interculturale, i
riferimenti all’area culturale e alla legge islamica.
Gallini C. (1996), Giochi pericolosi. Frammenti di un immaginario alquanto razzista,
manifestolibri, Roma
I diversi capitoli mettono in scena personaggi e oggetti stereotipi che popolano il nostro
immaginario e che vediamo utilizzati dalla pubblicità, dai film di evasione a basso profilo,
nelle barzellette. Sono sintomi di una specie di “banalità dell’etnocentrismo” difficile anche
da individuare, prima ancora che da decostruire. Alcuni dei racconti si prestano ad analisi
e ricerche, ma anche a giochi riutilizzabili per una didattica verso l’interculturalità (vedi la
sceneggiatura da spot pubblicitario Servi infedeli).
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A LEZIONE DAL CORPO
IPRASE Trentino
Galimberti U. (2002), Il corpo, Feltrinelli, Milano
Un classico (1983) che, dopo varie riedizioni, è uscito due anni fa notevolmente ampliato.
L’autore descrive i modi di concepire il corpo lungo la storia della cultura occidentale, sottolineando i paradigmi dominanti nelle diverse epoche. Costretto entro visioni riduttivistiche e strumentali (ieri soprattutto un corpo per il lavoro, da dominare e controllare; oggi
artificialmente curato ed esibito come status symbol), il corpo aspetta di vedersi restituita
una dignità piena che superi la dicotomia con la mente e valorizzi tutte le sue potenzialità.
Genero Madrigal K. (1999), Tubab. Una danzatrice sulla via dei tamburi, Ananke, Torino
Attraverso la sua esperienza diretta, l’autrice, danzatrice e studiosa di danza e musica africana, cubana e brasiliana, ci conduce nelle sua ricerca ed esperienza di vita presso alcune
popolazioni dell’Africa centrale: vediamo descritti rituali, strumenti, personaggi, pratiche
quotidiane. Con umiltà e atteggiamento di ascolto rispettoso, Genero Madrigal rende partecipi della dimensione spirituale del danzare: “attraverso la danza si prepara la persona al
contatto con le entità che agiranno prima di tutto sul suo essere fisico e poi, da qui, sul
piano mentale e spirituale, essendo il corpo la loro porta di entrata”.
Gennep van A. (1985), I riti di passaggio, Boringhieri, Torino
La prima edizione di quest’opera risale a quasi un secolo fa (1909); un classico, dunque, che
mantiene la sua carica suggestiva. La chiarezza del lavoro di classificazione, le esemplificazioni, la riflessione sulla valenza rituale di molte azioni che nella mondo contemporaneo
appaiono solo funzionali all’organizzazione quotidiana: sono alcune delle caratteristiche
che rendono questo testo utile sia per un’analisi dei nostri comportamenti individuali e
sociali, sia per uno sguardo verso altre culture di cui si considerino le differenze, ma anche
le somiglianze, esplicite o sotterranee, con le nostre tradizioni.
Goffman E. (1979), Espressione e identità, Mondadori, Milano
Il fondatore della microsociologia, autore di La vita quotidiana come rappresentazione
(1959) analizza le ritualità di ogni giorno, in particolare delle interazioni sociali (sorriso,
saluti, atti di accoglienza e di difesa, …). Se l’io individuale è definito dalle relazioni interpersonali, l’identità è costruzione in divenire continuo, mutevole nel tempo e dipendente
dalle situazioni. Ognuno recita sul palcoscenico della vita, a volte in primo piano, a volte
sullo sfondo; conoscere i codici e le regole, riflettere sui nostri gesti, sulle attese e sui comportamenti sociali è necessario per poter decifrare il mondo e non divenire, parlando o
movendosi in modo sbagliato,“un pericoloso gigante, un distruttore di mondi”.
Guerra Lisi S. (1987), Il metodo della Globalità dei Linguaggi, Borla, Roma
Il fondamento della G.d.L. è una visione olistica delle modalità di espressione e comunicazione che investono tutte le dimensioni, con riferimento particolare all’arte e alla musica.
Stefania Guerra Lisi, ideatrice di questo metodo, lavora in particolare con l’handicap sensoriale, motorio e psichico; ha sviluppato le potenzialità educative della G.d.L. nell’ambito
dell’educazione alla pace, ai diritti umani, all’incontro interculturale.
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Guglielmi A. (1999), Il linguaggio segreto del corpo, Edizioni Piemme, Milano
Rispetto ad altre opere sull’argomento, questo volume ha il pregio di analizzare in modo
facilmente accessibile, didascalico, illustrativo molte dimensioni: il corpo nello spazio,
caratteri, posture, andamenti locomotori, i gesti e le azioni delle diverse parti del corpo.
Questa segmentazione, oltre a coprire una vastissima quantità di aree di osservazione, dà
spunti operativi, impliciti ed espliciti, che possono essere assunti direttamente in un contesto didattico.
Hall E. T. (1978), La dimensione nascosta, Bompiani, Milano
Un classico (apparso nel 1966) dell’antropologia che aiuta a leggere la vita di tutti i giorni
e i comportamenti, culturalmente determinati, della comunità di appartenenza.
Proseguendo la prima formulazione complessiva della prossemica (Il linguaggio silenzioso
è del 1959), Hall ribadisce il concetto di “cultura come comunicazione”: i linguaggi non verbali (non solo le immagini o i segni socialmente condivisi, ma anche la postura, i gesti involontari, i modi di camminare, ecc.) costituiscono un sistema complesso di comunicazione
che completa, influenza, a volte contraddice il linguaggio verbale. Il paradigma su cui si
fonda La dimensione nascosta è quello spaziale, con lo sviluppo della prossemica, lo studio
delle distanze tra i soggetti e quindi il modo di vivere lo spazio.
Intenzioni dichiarate dell’autore erano quelle:“di aumentare la coscienza della nostra identità personale, di rendere più intense le nostre esperienze e di ridurre i fenomeni alienanti:
insomma, di aiutare l’uomo a conoscersi un po’ meglio – e di restituirlo a se stesso.”
Hinde R. (1974), La comunicazione non verbale, Laterza, Bari
Il volume raccoglie una serie di studi di psicologi, etologi, antropologi che hanno indagato
in modo coordinato tra loro diverse problematiche legate alla comunicazione non verbale
nell’uomo e negli animali. Si parte dall’analisi della distinzione tra comunicazione verbale
e non verbale; seguono vari saggi sui sistemi di segnalazione negli animali; per quanto
riguarda l’espressione umana indichiamo il lavoro su riso e sorriso di van Hooff, le questioni legate all’interazione sociale (M. Argyle) e l’influenza del contesto culturale (E.
Leach), lo studio su somiglianze e differenze interculturali di Eibl-Eibesfeldt, la gestualità e
gli stili espressivi nell’arte occidentale (E. Gombrich).
L’edizione italiana ha un’introduzione di Tullio De Mauro che, mettendo a confronto
comunicazione verbale e non verbale, mostra l’artificiosità e la limitatezza di una separazione delle due sfere: la creatività dell’uomo consiste nella capacità estesa “di sapere usare
una pluralità non solo di lingue, ma una pluralità di categorie di lingue, di linguaggi.”
La Cecla F. (1997), Il Malinteso. Antropologia dell’incontro, Laterza, Bari
In questo saggio Franco La Cecla descrive la funzione positiva del malinteso nella storia
dell’umanità: utilizzato con saggezza e creatività, può diventare un formidabile strumento
di tolleranza e convivenza tra persone e culture troppo diverse per capirsi. Funzionando
come un corto-circuito tra linguaggi, esperienze, culture diverse, favorisce comprensioni
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migliori. Questa storia dell’uso felice del malinteso è anche una critica alla fiducia cieca
rispetto all’omologazione entro una comunicazione globale.
Martinet S. (1998), La musica del corpo, Erikson, Trento
Partendo dalla ricerca sulla musica, la ritmica, la gestualità teatrale, Susanne Martinet ha
elaborato un proprio metodo di espressione corporea che ha utilizzato in scuole di formazione e laboratori per insegnanti, educatori, danzatori, musicisti. Il suo interesse è lo sviluppo di un senso musicale di tutto il corpo attraverso l’affinamento di consapevolezza,
spirito critico, intuito, controllo dei micromovimenti, senso della relazione e del lavoro di
gruppo. In questo metodo raccoglie in forma analitica il lavoro sui vari segmenti corporei
ed esprime il senso complessivo del suo lavoro.
Morris D. (2000), L’uomo e i suoi gesti, Mondadori, Milano
Un’enciclopedia dei gesti umani, divisi per tipologia e contesti, con un corredo iconografico ricchissimo. Dai rituali religiosi a quelli sportivi, dai gesti di corteggiamento alle espressioni di guerra, dalla caccia ai funerali: le rinnovate edizioni di questo classico dell’antropologia confermano il valore di un’opera che coniuga accuratezza della ricerca, completezza di argomenti, piacevolezza della lettura.
Munari B. (1994), Il dizionario dei gesti italiani, Adnkronos Libri, Roma
Un libro divertente oltre che utile, in cui i messaggi e la gestualità ad essi connessa vengono descritti in cinque lingue: italiano, inglese, francese, tedesco, giapponese. Le foto di Ivo
Foglietti danno immediatezza e forniscono il contesto di un linguaggio per cui gli italiani
sono famosi nel mondo.
Nanetti F. (2003), I segreti del corpo: la comunicazione trascurata nel comportamento
non verbale, Armando, Roma
Il saggio non vuole fornire un prontuario di segnali e loro significati, anche se vengono
esplorate mimica facciale, gestualità comunicativa ed espressiva, posture; è invece centrato
sull’osservazione e sull’ascolto attivo di cui fornisce paradigmi e strumenti, proponendo
quindi indicazioni per percorsi di consapevolezza rispetto al nostro “agire comunicativo”.
Questo per la promozione di relazioni interpersonali e interculturali più significative. dal
momento che “forme senza corpo e corpo senza forma sono due facce della stessa medaglia: il fallimento di ogni possibile incontro.”
Pacori M. (1997), Come interpretare i messaggi del corpo, de Vecchi, Milano
Studioso della comunicazione interpersonale e soprattutto non verbale, Pacori dà un taglio
divulgativo a questa pubblicazione che risulta così agile, didascalica, facilmente consultabile in proprio da parte di studenti.
Remotti F. (1993), Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere,
Bollati Boringhieri, Torino
Partendo dal concetto di necessità di un “dialogo tra antropologie”, Remoti indica nel
corpo una metafora sociale, un mediatore tra luoghi e costumi: ogni società è fatta di luo-
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ghi e di corpi che costituiscono un nesso non scindibile. Il corpo diventa anche il luogo in
cui si concentrano pratiche identitarie e memoria di una popolazione. “Per questioni di
identità […] ogni società si preoccupa di modellare tanto il corpo, quanto il comportamento dei suoi membri, e questo foggiare comporta inevitabilmente una modificazione, un
passaggio da una condizione di generica umanità a una condizione di umanità quale viene
pensata, programmata e decisa in questa o quella società, in questo o quel luogo.”
Remotti F. (2000), Prima lezione di antropologia, Laterza, Bari
Dopo i capitoli dedicati ad alcune questioni relative ad una definizione di antropologia e
ad una serie di assiomi sull’antropologia della multiformità, le parti sui rapporti e percezioni culturali e sulle mode antropo-poietiche presentano spunti e approfondimenti direttamente riutilizzabili per lavori didattici. Informazioni e stimoli a ricerche ed elaborazione
in classe vengono dalle riflessioni sull’uso del corpo nella modernità occidentale: dalla sua
esibizione e caratterizzazione all’estesa gamma di interventi trasformativi (cure, cosmesi,
tatuaggi e piercing, chirurgia estetica, ecc.).
Ricci Bitti P. e Roberto C. (a cura di) (1995), Mode, relazioni sociali e comunicazione,
Zanichelli, Bologna
Il volume contiene una corposa parte teorica e alcuni saggi che, trattando aspetti della
modernità si prestano ad una declinazione didattica operativa (la pubblicità, il mito dei
blue-jeans). “Attraverso lo studio della moda è possibile… attuare un collegamento tra
aspetti non verbali del comportamento umano e quei paradigmi teorici che danno ragione di processi, quali ad esempio la percezione sociale, l’influenza sociale, all’interno dei
quali la comunicazione non verbale svolge un ruolo così importante.” Le argomentazioni
teoriche seguono quattro tracce che permettono di definire in modo più completo il fenomeno moda e il suo utilizzo nell’analisi dei comportamenti: le teorie classiche relative alla
diffusione della moda e alla critica sociologica di questa; i processi psicologici che stanno
alla base dell’esperienza individuale nei confronti della moda; il ruolo della moda nella
costruzione del sé; il rapporto tra il sé e il gruppo, con le nozioni di norme sociali, conformismo, devianza, ecc. e nel rapporto tra l’individuo e la collettività;
Sarsini D. (2003), Il corpo in Occidente, Carocci, Roma
In un testo breve e tuttavia denso di informazioni, di rimandi, di piani di analisi, Sarsini
affronta i risvolti pedagogico-educativi della corporeità, spaziando dall’antichità omerica
al cyberspazio. Si trovano le tematiche di genere (il corpo femminile nel mondo greco e
nello spazio virtuale), il ruolo dell’educazione sportiva, la considerazione della fisicità nelle
diverse epoche (rappresentazione, cura, moda), la relazione del corpo con lo sviluppo identitario.
Sayad A. (2002), La doppia assenza, Cortina, Milano
Tra la ormai nutrita letteratura che si occupa in modo specifico o più tangenziale di
etnopsichiatria, segnaliamo da questo libro il capitolo La malattia, la sofferenza e il corpo e
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in particolare il paragrafo Il corpo sostituto del linguaggio: relazioni familiari, aspetti simbolici, caratteristiche delle “lingue del concreto” (tra le quali Sayad inserisce l’arabo), linguaggio somatico sono alcuni dei temi che, concentrati in poche pagine, aprono a ragionamenti di grande portata.
Sclavi M. (2001), L’arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano
Uno dei capitoli di questo libro, per diversi aspetti prezioso, riprende il pensiero di Bateson
sul rapporto tra linguaggio verbale, del corpo, delle emozioni e dinamiche della conoscenza. “Le emozioni sono passi di danza” è una metafora che apre ad un modo alternativo di
considerare e lavorare sulle parti più delicate della nostra esperienza e del nostro essere, per
noi e in relazione agli altri.
Sirni Terranova C. (1997), Pedagogia interculturale, Guerini, Perugia
Nel capitolo Comunicazione interculturale c’è riferimento esplicito e argomentato alla
dimensione pragmatica, performativa, corporea del linguaggio come azione sociale.
Vengono affrontate diverse categorie (spazio, tempo, lavoro, abitazione), ma soprattutto si
sottolinea la necessità di un’attenzione piena a tutti i fenomeni comunicativi ad evitare che
il linguaggio diventi “strumento ideologico di rafforzamento del potere, fonte di emarginazione e sopraffazione, ostacolo pr la comunicazione”.
Squicciarino N. (1986), Il vestito parla: considerazioni psicosociologiche sull’abbiglia-
mento, Armando editore, Roma
Il saggio parte da un’analisi della comunicazione non verbale e dei segnali attraverso uno
studio segmentarlo di volto, sguardo, postura, ecc.; indaga poi la simbologia del colore,
forma e funzioni delle decorazioni, pitture, tatuaggi, capelli e altre modificazioni dell’aspetto fisico. L’abbigliamento è una dimensione importante della cultura complessiva e
delle strategie quotidiane di comunicazione: segnala le specificità di una comunità rispetto al senso del pudore, ai canoni dell’estetica, alla considerazione del corpo.
Squicciarino N. (1999), Il profondo della superficie. Abbigliamento e civetteria come
forma di comunicazione in Georg Simmel, Armando editore, Roma
Filosofia, psicologia e sociologia possono trovare indizi e strumenti di indagine anche nella
“superficie dell’esistenza”, negli elementi apparentemente banali e privi di significato.
Rileggendo Simmel, Squicciarino tratta, fra le altre, le aree dell’abbigliamento, della civetteria, dei rapporti intimi, della comunicazione non verbale. Non un lavoro descrittivo, ma
un’analisi di come i fenomeni di superficie (anche i microfenomeni) agiscono in modo
profondo nelle persone e nelle società e, di riflesso, sono segnali di quanto si muove nelle
profondità individuali e collettive.
Tambiah S. J. (1995), Rituali e cultura, Il Mulino, Bologna
Riconosciuto come uno degli antropologi sociali più originali, Tambiah presenta in quest’opera una serie di scritti condotti secondo un metodo interdisciplinare che coniuga
approccio antropologico, sociologico, linguistico e sociolinguistico. L’impostazione è pre-
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valentemente teorica, di analisi e classificazione dei modelli e delle pratiche rituali. Ci sono
ampi passaggi in cui il valore comunicativo del rito è ampiamente argomentato.
Segnaliamo il capitolo conclusivo (Una professione di fede dell’antropologo) in cui Tambiah
definisce i punti forti dell’antropologia del futuro: “la costruzione sociale della persona, la
dinamica delle relazioni interpersonali e le comprensioni intersoggettive, la struttura delle
comunità e delle forme sociali di piccola scala; l’integrazione di tutte queste in complessi
regionali...”
Turci M. (2001), Viaggi di uomini e di cose. Progetto speciale intercomunale Riccione,
Junior, Bergamo
Banca dati di tutti i progetti speciali delle scuole di un’area data, monitorati da una scheda
di documentazione ideata da De Bartolomeis. Si tratta di una delle pochissime pubblicazioni che rendono conto di progetti didattici, realizzati in particolare nella scuola elementare, centrati sugli aspetti di cultura materiale e con un’attenzione alle relazioni interculturali.
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Siti Web
Solo a titolo di inizio di ricerca, indichiamo alcuni siti dedicati ai nostri temi: l’educazione interculturale attraverso l’esperienza diretta e l’osservazione dei comportamenti; il linguaggio corporeo; gli interventi sul corpo. I siti sono in numero elevato e
nella stragrande maggioranza sono in lingua inglese.
http://www.cios.llc.rpi.edu/
Riporta una quantità impressionante di informazioni bibliografiche, saggi, materiali, episodi con problemi di incomprensione interculturale.
http://www.lingcorpo.3000.it
Un sito molto articolato sulla comunicazione non verbale; la sua Biblioteca on Line è
un’imponente collezione di link a documenti in linea sul linguaggio del corpo e su argomenti affini. Il suo ideatore e curatore è Marco Pacori, psicologo, psicoterapeuta e ricercatore nel campo del comportamento non verbale. La collezione è suddivisa per argomenti e
raccoglie centinaia di articoli ed estratti sul tema del linguaggio corporeo; in questa biblioteca si trovano anche abstract da riviste internazionali come “Nature”. È poi possibile accedere da qui ad altre librerie analoghe. In tre lingue: italiano, inglese, francese.
http://www.bodyart.surf.to/bodies-of-cultures
Immagini e azioni di interventi modificatori e artistici sul corpo in diversi contesti culturali e nelle pratiche giovanili.
http://www.upenn.edu/museum/Exhibits/bodmodintro.html
Il sito del Museo di Archeologia e Antropologia dell’Università della Pennsylvania esibisce
la galleria di reperti e immagini lungo il corso dei secoli (dal 9° a.C.) e tiene aperte le pagine per la discussione sui temi del tatuaggio e delle diverse decorazioni e modificazioni
usate a scopo estetico, identitario, comunicativo.
http://www.geocities.com/maurogenius/Intelligenza_Multipla.html
Approfondimenti sui diversi tipi di intelligenza (secondo la tipologia definita da Gardner),
tra le quali quella corporeo-cinestetica.
http://www.expotattoo.it/sinistro/segni.asp
Sito dedicato al tatuaggio come pratica antica e contemporanea, simbologia di segni, significato sociale, vissuti individuali.
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Compagni di viaggio
Duccio Canestrini, antropologo
e scrittore, ha viaggiato in tutti continenti come editor
per l’etnografia e inviato della rivista geografica “Airone”. Consulente nel campo dell’antropologia culturale e del turismo sostenibile, è responsabile dell’area antropologica del Master di Tourism Management di Trento e insegna Cinema foto e televisione nel corso di laurea in Scienze del turismo al Campus di Lucca. Esperto di problematiche relative all’incontro tra culture diverse, per la Provincia di Trento si è occupato di multiculturalità sviluppando la sezione antropologica nel sito http://www.trentinocultura.net. È autore di saggi e volumi tra i quali: Una penna tra i tamburi (Giorgio
Mondadori, 1993), Turistario (Baldini&Castoldi, 1993), Turpi tropici (Zelig, 1997),
Trofei di viaggio (Bollati Boringhieri, 2001), Andare a quel paese (Feltrinelli, 2001),
Non sparate sul turista (Bollati Boringhieri, 2004).
Monica Ducati,
insegna filosofia, pedagogia e scienze sociali nel triennio del Liceo
Pedagogico e del Liceo Sociale “A. Rosmini” di Trento; da due anni collabora con la
SSIS di Rovereto come tutor. Interessata da anni ai temi dell’interculturalità, dell’educazione alla pace, del volontariato internazionale, nel 2002/03 ha partecipato ad un
progetto FSE su “Educazione democratica e mass-media” con un seminario a Bruxelles
per conoscere le principali istituzioni europee; da quest’anno segue anche l’insegnamento dell’italiano come L2 ad alcuni studenti stranieri della sua scuola.
Federica Fortunato,
insegna educazione musicale presso la scuola media “P. Orsi” di
Rovereto. Su temi di musicologia e di formazione musicale ha collaborato con istituzioni (RAI, scuole musicali, Accademia roveretana di musica antica, IPRASE) e periodici locali. Interessata all’educazione alla pace, ai diritti umani, all’interculturalità, è
impegnata in diverse associazioni locali e, dal 1995, collabora con l’UNIP (Università
Internazionale delle Istituzioni del Popoli per la Pace). Dal 2000 al 2004 ha lavorato al
Centro Interculturale “Millevoci” di Trento occupandosi in particolare di mediazione
interculturale. Del progetto Gesto, Espressione, Cultura è stata coordinatrice.
Daniela Franceschini, insegna educazione fisica presso il liceo “G. Galilei” di Trento. Fin
dai primi anni ’80 si è occupata del movimento come forma di espressione e comunicazione, formandosi in corsi nazionali e internazionali, in particolare in Danimarca e
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Svezia, alle scuole di Johan Borghal e Monica Beckman. Ha approfondito la pratica
della ginnastica dolce, della ginnastica e della danza jazz, di altre forme di movimento su base musicale, dell’eutonia (metodi Alexander e Feldenkreis), di didattica teatrale. Attraverso queste esperienze, ha interpretato la propria disciplina come strumento
di introspezione, riconoscimento delle caratteristiche individuali, ricerca di equilibrio.
Giovanni Manetti, semiologo. Insegna
Semiotica nel Corso di Laurea in Scienze della
Comunicazione presso l’Università di Siena. Ha pubblicato saggi sulle teorie comunicative, sulla semiotica del comico, sulla filosofia del segno. È autore di Le teorie del
segno nell’antichità classica (Bompiani, 1987, tradotto in inglese presso la Indiana
University, 1992), Sport e giochi nell’antichità classica (Mondadori, 1988), La teoria
dell’enunciazione (Protagon, 1998). Dirige la rivista Symbolon e il Centro Studi e
Ricerche sulla comunicazione. È presidente dell’Associazione Italiana di Studi
Semiotici e curatore, insieme ad Adriano Fabris, della collana di studi
“Comunicazione e oltre” della casa editrice ETS di Pisa.
Paola Morini, insegna Lettere presso l’istituto “A.Tambosi” di Trento. È attiva da sempre
nelle aree della pace e della solidarietà internazionale. Nella propria scuola è referente
per gli alunni stranieri e l’educazione interculturale e ha organizzato numerose iniziative volte a sviluppare, attraverso il protagonismo dei ragazzi, il senso di cittadinanza,
l’attenzione ai temi della contemporaneità e la disponibilità al dialogo.
Ernesto Passante è direttore dell’IPRASE del Trentino dal gennaio 2002. Prima di assu-
mere tale ruolo ha svolto attività nel settore aggiornamento, formazione e ricerca per
il Centro Pedagogico Don Bosco di Verona, per il Provveditorato agli Studi di Verona,
e per l’Ufficio Scolastico Regionale del Veneto. Ha al suo attivo numerose collaborazioni per la formazione e l’aggiornamento degli insegnanti con numerosi
Provveditorati agli Studi del territorio nazionale e con il MIUR.
Paola Perale, insegna Educazione Fisica nella scuola media d’Arte presso l’Istituto comprensivo “Trento 4” di Trento. Da sempre si è occupata di linguaggio corporeo nelle sue
forme. Interessata ai temi dello sviluppo solidale, ha promosso iniziative di sensibilizzazione alle tematiche della pace, dell’amicizia fra i popoli ed ha partecipato a progetti
di cooperazione internazionale. È referente nel suo Istituto per l’intercultura. Ha promosso e gestito una pluriennale collaborazione con il centro “Franca Martini” per un
percorso di tecniche attive che ha coinvolto studenti e persone disabili.
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Maria Luisa Pollam, insegnante
elementare, laureata in Pedagogia, da alcuni anni è in
utilizzo presso l’IPRASE. Si occupa di formazione in servizio e coordina per l’Istituto
progetti di ricerca, tra cui quello sulla continuità educativa tra la scuola dell’infanzia e
la scuola elementare, ambito nel quale ha curato la pubblicazione di percorsi ed esperienze. Uno dei campi di interesse è infatti quello della documentazione come pratica
riflessiva, tema sul quale ha organizzato percorsi di formazione per insegnanti.
Per il progetto Gesto, Espressione, Cultura ha curato l’aspetto della documentazione e
ha collaborato a questa pubblicazione.
Claudio Tugnoli, docente di filosofia e storia nei licei, svolge da tempo ricerche e attivi-
tà didattica nel settore della filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia
dell’Università degli Studi di Bologna. Collabora con il Dipartimento di Scienze
umane e sociali della Facoltà di Sociologia di Trento e con l’IPRASE del Trentino. È
autore e curatore di diverse pubblicazioni tra cui La dialettica dell’esistenza.
L’hegelismo eretico di John Mc Taggart, (Franco Angeli, 2000) e L’apprendimento della
vittima. Implicazioni educative e culturali della teoria mimetica (Franco Angeli, 2003).
Del progetto Gesto, Espressione, Cultura è stato referente per l’IPRASE.
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