Tancredi, una confessione

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Tancredi, una confessione
Liceo Scientifico Statale “F.Severi”
Salerno
3^ Premio Letterario Rotary
“Salerno nel Decameron”
Docente Referente: Paola Cuoco
I POSTO
Tancredi, una confessione
(di Michele Ianniello)
“Non v’è pena più grande per il cuore, del tormento di essere stato causa di male.
Non dà pace all’uomo, se teme Iddio!
A me il rimorso più grande: io cagione della morte dell’unica adorata figlia, amata più di me
stesso.
Io non ho temuto Dio.
Perdonami, Ghismunda”
Così va gridando per l’eternità, il principe Tancredi, Signore di Salerno.
Non v’è stato giorno, in cui, in preda ad una struggente afflizione, non abbia maledetto se stesso;
compiacendosi del meritato dolore e rimorso, divenuti suoi inseparabili compagni.
Il bene più prezioso perso per sempre: chi ne avrebbe mai più preso il posto?
Niente aveva più senso, neppure il potere.
Gli venne naturale allontanarsi da tutti, così assurdamente allegri, così crudelmente felici, così
spietatamente severi, e vivere gli ultimi brandelli della sua vita, aspettando l’arrivo della morte,
sperata benevola e materna, per sedare quella insopportabile pena.
Ci volle davvero poco perché a Tancredi fosse chiaro dove si trovasse: la densa oscurità, i lamenti, i
pianti, le parole di dolore e le bestemmie, le schiere interminabili di anime dannate.
Era dinanzi a Minosse, enorme e minaccioso, che avvolse l’orribile coda tante volte per farlo
precipitare giù nel Flegetonte, tra gli assassini del settimo cerchio.
Immerso fino al collo nel fiume di sangue bollente, tormentato dai bestiali Centauri, il dolore più
acuto rimaneva, comunque e ancora, quello del cuore.
Raccontava la sua storia con ossessione.
“Ho governato con saggezza e virtù il mio popolo per un’intera vita, ma in vecchiaia ho commesso
un atroce delitto.
Ebbi una figliuola, bellissima e saggia più del dovuto ad una donna, che amai teneramente di un
amore assoluto, profondo, puro, lei l’orizzonte dei miei sentimenti.
Conoscevo i miei doveri di padre e, sebbene separarmi da lei fosse per me fonte di mestizia, la
maritai ad un duca, che la lasciò quasi subito vedova.
Che felicità averla nuovamente con me, che follia credere di bastarle!
Giammai pensai di rimaritarla né mai lei me ne parlò, eppure quel desiderio, che sgretolò ai miei
occhi ogni sua virtù, cresceva in lei come un’ossessione.
Ai nobili che frequentavano la mia casa, preferì Guiscardo, uno dei miei valletti, un giovane di
umili origini.
Ben presto divennero amanti, trascorrendo segretamente le notti nella stanza della mia figliuola.
Fu il destino, invidioso e crudele, a mutare la felicità in delitto.
Da quando era tornata a vivere al castello, ero solito trattenermi un po’ nella sua camera per
parlare liberamente con lei, senza le orecchie indiscrete e gli occhi invidiosi che popolano una
corte, in quei momenti potevo essere liberamente affettuoso e paterno, confessarle le mie
preoccupazioni o i miei progetti.
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Un pomeriggio come tanti entrai nella sua stanza, ma la mia bambina era in giardino con le
ancelle, così mentre l’aspettavo mi addormentai. Dopo un po’ arrivò e, non essendosi accorta della
mia presenza, fece entrare Guiscardo con cui, com’era avvezza, si intrattenne a lungo. La loro
passione mi svegliò e ciò che vidi mi raggelò il sangue: la mia adorata figliuola… una bugiarda…
un’immorale… una sconosciuta. Cosa avrebbero detto gli altri se avessero saputo, tutti l’avrebbero
biasimata senza comprensione alcuna, la sua reputazione sarebbe stata infangata e quale difficile
avvenire l’avrebbe attesa. Dovevo aiutarla, solo io, suo padre, avrei potuto, sarei stato in grado di
farlo, perché io avrei continuato ad amarla nonostante gli errori, nonostante le colpe.
Decisi di non svelare la mia presenza e solo quando i due amanti lasciarono la stanza, andai via
anch’io, altro uomo da quello di poche ore prima.
La notte successiva, dopo che i due amanti si furono salutati, feci arrestare Guiscardo. Al mio
cospetto, con voce rotta, gli rinfacciai la mia generosità che avrebbe meritato rispetto e non la
vergogna subita.
Ma le sue ragioni furono che Amore è forte e potente più della riconoscenza.
La mia indignazione offuscò la mia mente e lo gettai in prigione.
A Ghismunda rivelai di sapere tutto, piansi tutto il mio dolore, e mentre già sapevo nel mio animo
cosa ne sarebbe stato di Guiscardo, non sapevo ancora per lei quale decisione prendere,
combattuto com’ero tra l’amore che mi spingeva a perdonarla e lo sdegno che invece mi istigava al
castigo. Lei difese il suo amore, mi accusò delle sue menzogne e dei sotterfugi, che se io ero
insensibile ai richiami della carne, lei era troppo giovane per non sentirli forti e pressanti.
Aveva provato ad opporre ad essi le sue virtù, ma aveva già assaporato le gioie dell’amore
coniugale.
Guiscardo era stato scelto da lei non solo per la grazia della forma, ma per il suo animo nobile e
virtuoso, guardandomi con estrema freddezza ella non cercò il mio perdono ma il meritato castigo
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e la medesima sorte dell’amante, usò parole alate e coraggiose che la mostrarono ai miei occhi per
la prima volta donna, capace di difendere con fierezza il suo amore e le sue scelte.
Ma io dovevo difendere il suo onore, rieducarla alla giusta morale, condannare il peccato, punire
chi aveva sbagliato.
Diedi ordine di uccidere Guiscardo e fattogli strappare il cuore, lo inviai in una coppa d’oro alla
sua amante; ella baciava quel cuore, abbandonandosi alla disperazione e maledicendo la mia
crudeltà, che punì con un veleno, che bevve senza esitazione.
Sul letto attese la morte, che giunse prima che io avessi capito che aveva ragione, che l’unica cosa
importante per me avrebbe dovuto essere la sua felicità, che amare qualcuno vuol dire anche
saperne intuire i desideri, che un padre deve essere capace di sostenere le scelte del proprio figlio,
anche se diverse dalle proprie”.
Tancredi sa che in uno di quegli alberi nodosi e contorti sulla sponda del fiume in cui è immerso,
c’è l’anima suicida della sua amata figlia.
E’per questo che da secoli e per sempre griderà: “… Perdonami, Ghismunda”.
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