Novella - Scarpa

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Novella - Scarpa
Giovanni Boccaccio, Decameron
Giornata terza, Novella quinta
Il Zima dona a Messer Francesco Vergellesi un suo pallafreniere, col suo permesso parla con la di lui
moglie, che tace, il Zima, rispondendo al posto di lei, ottiene il risultato voluto.
La regina, avendo Panfilo concluso il racconto di frate Puccio, fece cenno ad Elissa , un po’ ritrosa e timida,
per indole, di continuare. Ed ella incominciò col dire che molti saputoni credevano che gli altri non
sapessero nulla e, volendo ingannare gli altri alla fine dagli altri erano ingannati; per questo era da ritenersi
follia provocare, senza motivo, l’ingegno altrui.
Per convincere tutti della sua opinione Elissa, seguendo l’ordine della narrazione, raccontò che vi fu, un
tempo, in Pistoia un cavaliere di nome messer Francesco, della famiglia dei Vergellesi, uomo ricco e savio,
ma avarissimo. Dovendo andare a Milano, come podestà, si era rifornito di tutto quello che gli poteva
servire; gli mancava soltanto un bel pallafreno (garzone, attendente), ma non ne aveva trovato uno che gli
piacesse.
In Pistoia viveva, allora, un giovane di nome Ricciardo, di umile origine, ma molto ricco, così ordinato e
ricercato che veniva chiamato da tutti “Il Zima” (L’azzimato).
Costui era da tempo innamorato, senza speranza, della moglie di messer Francesco, che era bellissima e
molto onesta. La qual cosa era risaputa da tutti. Il giovane aveva uno dei più bei palafrenieri della Toscana
e lo teneva in gran conto. Qualcuno consigliò all’avaro di chiedere il garzone al Zima, che glielo avrebbe
sicuramente dato per l’amore che portava alla donna.
Messer Francesco, fatto chiamare il Zima, gli chiese di vendergli il ragazzo. Zima glielo offrì in dono a
condizione di poter parlare, con il suo permesso, con la moglie. Il colloquio doveva avvenire alla presenza
del marito, ma separatamente, così che il Zima potesse essere ascoltato solo da lei. Il cavaliere, spinto
dall’avarizia, sperando di ingannare il giovane, andò dalla moglie, le spiegò tutto e le impose di ascoltare,
ma di non rispondere assolutamente alle parole dell’uomo.
La donna gradì poco la cosa, ma acconsentì per compiacere il marito e lo seguì per udire ciò che costui
voleva dirle. Il Zima le si sedette accanto e le confessò tutto il suo amore, dichiarandosi suo umile servitore.
Affermò che se non fosse stato ricambiato sarebbe morto e lei sarebbe stata un’omicida.
Sperando in una risposta positiva, tacque sospirando, in attesa che la donna gli rispondesse. La donna, già
piegata dagli assidui corteggiamenti, fu turbata dalle affettuose parole del ferventissimo amante e cominciò
a provare amore per lui. Pure rimase in silenzio per obbedire all’ordine del marito, ma con l’espressione del
viso, con il lampeggiar degli occhi e con lunghi sospiri dava speranza al suo corteggiatore. Zima, allora, per
comunicare, seguì un nuovo sistema.
Come se fosse la donna a rivolgersi a lui disse “ Zima mio caro, già da tempo conosco il tuo amore per me
e ne sono contenta, anzi ti ho amato più di ogni altro uomo, ma ho dovuto respingerti per paura d’altri e per
conservare il mio buon nome. Ora viene il momento di dimostrarti il mio amore, abbi speranza. Infatti
messer Francesco, fra pochi giorni, andrà a Milano, come podestà, come ben sai, visto che gli hai donato il
bel palafreno. Fra pochi giorni, quando sarà partito, potremo realizzare il nostro amore.
Non ci parleremo più fino al giorno in cui vedrai due asciugamani stesi alla finestra della mia camera, che è
sopra al giardino. Quella sera, di notte, senza che nessuno ti veda, attraverso l’ingresso del giardino, verrai
da me. Io ti aspetterò e tutta la notte, scambievolmente, ci ameremo, come desideriamo”. Zima, terminato il
discorso da lui fatto al posto della donna, incominciò a parlare per sé, assicurando che avrebbe fatto ogni
cosa, proprio come lei aveva indicato.
La donna, per tutto il tempo, non disse una sola parola. Poi Zima si alzò e ritornò verso il cavaliere e gli
disse che non aveva mantenuto la promessa di farlo parlare con la sua donna, invece l’aveva fatto parlare
con una statua di marmo. Messer Francesco, soddisfatto per aver ottenuto il palafreniere, conservando la
stima per sua moglie, se ne andò a fare il podestà a Milano.
La donna, rimasta sola, ripensava alle parole di Zima, che aveva rinunziato all’attendente per amor suo,
vedendolo spesso passare sotto la sua casa. Riflettè che non era il caso di perdere la sua giovinezza
nell’attesa di un marito che era andato a Milano, sarebbe ritornato dopo sei mesi e l’avrebbe risarcita da
vecchia. Pensò, ancora, che difficilmente avrebbe trovato un amante come Zima, che era sola, che nessuno
avrebbe saputo nulla, ed, infine, che era meglio fare una cosa e pentirsi, piuttosto che non farla e
pentirsene lo stesso.
Dopo queste riflessioni, pose due asciugamani alla finestra che affacciava sul giardino, come Zima aveva
detto. Vedendoli, lietissimo, la notte seguente, l’uomo andò alla porta del giardino, la trovò aperta, entrò in
casa dove trovò la gentildonna che lo aspettava e che lo ricevette con grandissima festa.
Abbracciandola e baciandola centomila volte, Zima la seguì per le scale e, senza indugio, si coricarono e
fecero l’amore appassionatamente.
E quella fu la prima, ma non l’ultima volta, perché si incontrarono, con gran piacere reciproco, molte altre
volte, sia quando il marito era a Milano, sia dopo che era tornato.
Quarta Giornata, Novella seconda
Frate Alberto dà a vedere ad una donna che l'Agnolo Gabriello è di lei innamorato, in forma del quale più
volte si giace con lei; poi, per paura de'parenti di lei della casa gittatosi, in casa d'uno povero uomo
ricovera, il quale in forma d'uomo salvatico il dì seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è da'suoi
frati preso e incarcerato.
La novella di Fra’ Alberto è narrata nella IV giornata, dedicata agli amori infelici, da Pampinea per ‘dire […]
una novella da ridere [… e] gli animi vostri pieni di compassione per la morte di Ghismunda forse con risa e
con piacer rilevare’; dunque, il suo fine è sollevare gli animi dopo il racconto della tragica storia di Tancredi e
Ghismunda. La novella è introdotta da un proverbio che prospetta la serie di ribaltamenti, opposizioni e
metamorfosi che l’attraversano: ‘Chi è reo e buono è tenuto, può fare il male e non è creduto’. Il
protagonista si presenta come una specie di ipocrita per antonomasia, il quale da Imola deve rifugiarsi a
Venezia, città con il blasone della corruzione, per continuare a perpetrare le proprie malefatte fingendo una
vita da sant’uomo, vissuta tra ‘penitenzia’ e ‘astinenzia’. Divenuto confessore di Madonna Lisetta, ‘una
giovane donna bamba e sciocca’, Alberto riesce a convincerla che l’Arcangelo Gabriele si è innamorato di
lei, e arriva a goderne le grazie fingendo di prestare il suo corpo terreno alla celeste consistenza
dell’Arcangelo. Scoperto l’inganno, a causa della vanità pettegola di Lisetta, Alberto finisce per perdere le
sue finte ali d’angelo e ritrovarsi coperto di ‘piuma matta’, ‘in uom salvatico convertito’, in mezzo a piazza
San Marco, dove il popolo lo ‘vitupera’e i suoi confratelli lo trascinano via per rinchiuderlo in prigione fino
alla morte. Dunque, risate sì, ma che finiscono male.
Berto della Massa era uno degli uomini peggiori di Imola e nessuno in quella città gli credeva più, così lui si
trasferisce a Venezia e, qui "rinsavisce" talmente tanto che si fa nominare frate minore (fra' Alberto da
Imola). Sembrava diventato un santo (in realtà continuava a conservare i suoi vizi di nascosto) e così
conquista la stima di tutti i veneziani. Un giorno va a confessarsi da lui Lisetta da ca' Querini, moglie di un
ricco mercante sempre in viaggio per lavoro, che non è molto intelligente e Berto capisce subito di poterla
imbrogliare. Durante la confessione Lisetta si vanta di essere bella come un angelo e Berto la ammonisce
per ciò. Dopo qualche giorno Berto si reca a casa di lei per chiederle scusa e le rivela di avere ricevuto la
visita dell'Arcangelo Gabriele che decantava la sua bellezza e che aveva manifestato il desiderio di giacere
con lei servendosi di un corpo umano. Lisetta crede alle parole del frate e accetta che il corpo nel quale si
incarnerà l'Arcangelo sia il suo. Quella notte Alberto/Gabriele va da lei e soddisfa il proprio desiderio, poi
trona anche le notti successive. Un giorno, per vantarsi, Lisetta racconta il fatto ad una sua amica che
diffonde poi la storia, della quale vengono a conoscenza anche i cognati di Lisetta che si preparano a
prendere questo "Arcangelo". La sera seguente Alberto/Gabriele si reca da Lisetta e, sul più bello arrivano i
cognati di lei: Alberto riesce a scappare gettandosi nel Canal Grande. Albero riesce ad entrare nella casa di
un uomo che, quando sente la storia, lo ricatta per farlo uscire. Per evitare di essere riconosciuto dalle
guardie dei cognati di Lisetta, Alberto accetta di farsi travestire, così l'uomo lo maschera e lo porta in piazza
S. Marco dove lo lega ad una colonna. L'uomo, che aveva avvisato i veneziani del ritrovamento, smaschero
il finto angelo che viene riconosciuto e coperto di insulti, poi i frati del convento lo liberano e lo portano in
carcere dove muore.
Tancredi e Ghismunda
Prima novella del quarto giorno. Il re Filostrato sceglie un tema cupo, ben più di quanto non siano stati quelli
precedenti, come annota Fiammetta, la prima narratrice. Si parlerà infatti di amori dall’esito tragico, in
perfetta coerenza con il nome stesso di Filostrato, cioè “vinto d’amore”. Anche la scelta del nome
Fiammetta è significativo: il personaggio cela Maria d’Aquino, la donna amata in gioventù da Boccaccio, che
la narratrice qui, a sua volta, in parte richiama.
Riassunto
Fiammetta esordisce esprimendo preoccupazione e disagio per il tema cupo scelto da Filostrato, cui però
intende attenersi secondo le regole stabilite. Ella dunque narrerà una storia degna delle loro lacrime.
Tancredi, principe di Salerno, è un uomo di grande umanità e indole generosa, padre di una giovane,
Ghismunda, che ama immensamente, tanto che dapprima ne ritarda il matrimonio e poi, quando ella è
rimasta vedova, ne prolunga lo stato di solitudine, pur di averla vicina a sé. La ragazza, affezionata al padre
ma infelice per l’isolamento, comincia a nutrire il desiderio di innamorarsi, disposta anche ad avere un
amante. In tale disposizione d’animo, subisce il fascino di un valletto del padre, Guiscardo, di bell’aspetto e
animo nobile, benché povero e di umili origini. A sua volta il giovane ha notato la bellezza e nobiltà di lei e la
ama segretamente. Ghismunda a questo punto trova il modo di incontrare in modo discreto e privato il suo
amato e lo avverte facendogli avere con l’astuzia un messaggio nascosto in una canna di bambù. La
camera della giovane è collegata, mediante una scala segreta che tutti hanno dimenticato da tempo, ad una
grotta scavata nel monte a ridosso del palazzo, in cui Guiscardo può calarsi con una corda per poi
raggiungere le stanze dell’amata. I due giovani coronano così il loro amore e continuano a vedersi
clandestinamente in diverse occasioni.
Un giorno però Tancredi, secondo un’abitudine consolidata, va a trovare Ghismunda nelle sue stanze e,
non trovandola, si siede ad aspettarla dietro un baldacchino, dove si addormenta. Nel frattempo
Ghismunda, che non sospetta della presenza del padre, riceve in segreto Guiscardo. Tancredi si sveglia
quando ormai il loro legame è evidente. Il principe, pur consapevole di quello che sta succedendo e
profondamente addolorato, decide di restare nascosto per evitare lo scandalo e avere il tempo di decidere a
mente fredda quali provvedimenti prendere.
Il principe decide quindi di arrestare Guiscardo e rinchiuderlo in una stanza con delle guardie che lo
sorvegliano giorno e notte; poi comunica a Ghismunda di aver scoperto la sua tresca con un uomo che,
oltre a non essere suo marito, è soprattutto di condizione inferiore, il che costituisce un’onta inaccettabile
per un uomo tanto nobile quanto Tancredi. Ghismunda, pur temendo che Guiscardo sia già morto, mantiene
un atteggiamento decoroso e controllato. In un lungo e accorato discorso, in cui dimostra la sua nobiltà
d’animo e la sua eloquenza, confessa al padre il suo amore per il valletto, esaltandone la virtù e la
grandezza interiore, che nulla hanno a che fare con la classe sociale inferiore cui appartiene. Ghismunda
per altro insiste sul fatto che tutti gli uomini nascono uguali e che spesso la sorte ne cambia all’improvviso la
condizione. Infine, ella lascia intendere al padre che ha intenzione di porre fine alla propria vita, qualora
l’amante muoia.
Tancredi, accecato dalla sua folle gelosia e incapace di credere alla minaccia della figlia, comprende
comunque di non potersi vendicare sulla figlia e decide di concentrare la propria crudeltà sul giovane.
Ordina perciò alle sue guardie di strangolare Guiscardo e portargliene il cuore. Egli poi lo fa consegnare in
una coppa d’oro alla figlia, accompagnato da una frase che chiarisce l’intento vendicativo del gesto. Ma
Ghismunda, che temendo il peggio aveva già distillato delle radici velenose, dopo aver a lungo elogiato il
suo amato e pianto la sua morte, versa la fiala di veleno sul cuore dell’amato e da lì la beve. Sul letto
accostando il cuore dell’amante al suo, aspetta la morte. Le ancelle di Ghismunda corrono quindi a
informare dell’accaduto Tancredi, il quale corre al capezzale della figlia: ma è ormai troppo tardi.
Ghismunda, come suo ultimo desiderio, chiede al padre di seppellirla al fianco di Guiscardo; poi spira.
Tancredi, pentitosi troppo tardi della propria crudeltà, fa seppellire i due amanti nella stessa tomba.
Lisabetta da Messina
è la quinta novella della quarta giornata del Decameron. Come in tutti i testi di questa sezione dell’opera,
la trama è quella di un amore infelice, che si conclude in modo drammatico.
Lisabetta è una giovane ragazza messinese, orfana di padre, che vive insieme ai suoi tre fratelli,
originari di San Gimignano e divenuti ricchi conducendo affari e commerci particolarmente redditizi. La
giovane donna, non ancora maritata, commette lo sbaglio d’innamorarsi di Lorenzo, un modesto ragazzo di
Pisa che aiuta i fratelli nel loro lavoro. Il giovane appartiene a un ceto inferiore a quello di Lisabetta e di
conseguenza il loro amore assume immediatamente implicazioni sociali assai complicate per l’epoca,
esemplificate dalla mentalità ristretta dei tre fratelli, rispetto alla quale invece la passione tra i due
protagonisti si afferma come qualcosa di assolutamente spontaneo e naturale. Dice infatti Boccaccio:
Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori, incominciò
a porre l'animo a lei; e si andò la bisogna che, piacendo l'uno all'altro igualmente, non passò gran tempo
che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno.
Se la "bisogna" (ovvero, la situazione che nasce tra i due) sembra promettere un esito felice della vicenda
(come nelle novelle della quinta giornata), lo sviluppo successivo sarà tragico. I tre fratelli infatti, una volta
scoperto che la sorella si reca notte tempo dal suo amante, decidono di contrastare con ogni mezzo la
loro unione, che nella loro ottica affaristica (Lisabetta è ancora nubile) nette a rischio il decoro e il buon
nome della famiglia. Inducono così Lorenzo a seguirli fuori città con una scusa, e una volta usciti da
Messina lo assassinano e ne occultano il corpo. Tornati a casa giustificano l’assenza del loro giovane
aiutante dicendo a tutti che si trova altrove per motivi di affari, e convincono di ciò anche la povera
Lisabetta. Quando l’assenza di Lorenzo diventa però sospetta, protraendosi per troppo tempo, la giovane
donna innamorata comincia a disperarsi.
Una notte il defunto compare ad animare i sogni di Lisabetta, rivelandole di essere stato ucciso dai
fratelli, e mostrandole il luogo dove è stato sepolto da questi. La ragazza, presa da sconforto e
disperazione, escogita un piano per recuperare il corpo di Lorenzo. Ottiene infatti il permesso dei fratelli di
fare una gita in campagna con una fidata donna di servizio, Lisabetta si reca sul luogo indicatole in sogno
dall'amato. Qui ne disseppellisce il cadavere, e, non potendogli dare più degna sepoltura, gli taglia la testa
per poter conservare vicino a sé almeno un ricordo del suo innamorato. Tornata a casa, Lisabetta nasconde
la testa di Lorenzo in un vaso ("un testo di bassilico", dice Boccaccio introducendoci alla narrazione), la
copre con una profumatissima pianta di basilico, che cresce in modo assai rigoglioso. Ogni giorno
Lisabetta piange e si dispera sul vaso di basilico, trasferendo su questa l'amore e la passione insopprimibili
per l'amato Lorenzo:
E per usanza aveva preso di sedersi sempre a questo testo vicina e quello con tutto il suo disidero
vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso: e poi che molto vagheggiato l'avea,
sopr'esso andatesene cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il basilico bagnava,
piagnea.
Il comportamento di Lisabetta insospettisce i vicini, che segnalano l'anomalia ai fratelli; questi ultimi
decidono quindi di requisirle la pianta e, dopo averci trovato all’interno la testa dell’amato, di far sparire il
tutto. Timorosi che la vicenda e il delitto da loro compiuto diventino di dominio pubblico, abbandonano
Messina si trasferiscono a Napoli, portando con loro Lisabetta. La ragazza, già ammalatasi dopo la
sottrazione della pianta, muore di lì a poco di dolore. Il suo amore disperato - ci dice Filomena, narratrice
degli eventi - viene ancor oggi ricordato in una struggente canzone, che ricorda il furto della pianta.
Masetto da Lamporecchio
è il personaggio principale della prima novella della terza giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio. Il
tema dei racconti di questa gionata riguardava "chi alcuna cosa molto da lui desiderata con industria
acquistasse o la perduta ricoverasse". È dunque un tema molto ampio, che tuttavia in questo caso offre lo
spunto per novelle in cui prevalgono l'aspetto licenzioso e il tono comico.
La prima novella è narrata da Filostrato: Masetto da Lamporecchio è un contadino "con bella persona e con
viso assai piacevole" che va a lavorare in un convento, incuriosito e stuzzicato dalla vicinanza con le
monache. Per farsi accogliere senza sospetti, si finge sordomuto. Dopo un po', però, fingendo di dormire,
attira l'attenzione di due giovani monache risvegliando in loro il desiderio carnale. La più "baldanzosa" lo
conduce in un capanno, dove "Masetto, senza farsi troppo invitare, fece quel che ella volle".
"La quale, sì come leale compagna, avuto quel che volea, diede all'altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi
semplice, faceva il lor volere. Per che avanti che quindi si dipartissono, da una volta in su ciascuna provar
volle come il mutolo sapea cavalcare; e poi, seco spesse volte ragionando, dicevano che bene era così
dolce cosa, e più, come udito aveano; e prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s'andavano a
trastullare."
Anche la badessa, da ultima, gode delle grazie di Masetto, il quale poi, stanco per le continue attività
amatorie impostegli dalle nove monache, chiede alla badessa di esser lasciato libero. Allo stupore di lei
nell'udirlo parlare, risponde pronto di esser miracolosamente guarito dalla sua infermità proprio in quel
momento. Le monache, per salvare il buon nome del convento, diffondono la voce che la "guarigione" sia
avvenuta grazie alle loro preghiere, e per non allontanare Masetto dal convento lo nominano gastaldo al
posto del precedente amministratore, che era da poco deceduto, distribuendo equamente tra tutte e nove le
"prestazioni" di Masetto, con soddisfazione di tutti ("e per sì fatta maniera le sue fatiche partirono, che egli
le poté comportare"), finché, morta la badessa, egli può ritirarsi, "vecchio, padre e ricco".
Calandrino e l’elitropia
Novella narrata da Elissa, nell’ottava giornata, dedicata a racconti di beffe e scherzi tra uomini e donne.
Calandrino, il cui ritratto è basato su un personaggio realmente esistito, è del resto un personaggio tipico
della narrazione comica toscana, e incarna il popolano per eccellenza, rozzo e tonto, che è però
convinto d'essere furbo e brillante, e cerca quindi di beffare gli altri. La figura di Calandrino si adatta così
bene agli ingranaggi comici di Boccaccio da comparire in altre tre novelle del Decameron, sempre
accompagnato da Bruno e Buffalmacco; ma in tutte e tre le occasioni in cui si troverà sulla pagina,
Calandrino vestirà sempre i panni dello sciocco, che è giustamente vittima delle “beffe” più atroci tramate
alle sue spalle.
Riassunto
In questa novella, Calandrino viene beffato all’inizio della vicenda da altri due tipici personaggi burloni,
Bruno e Buffalmacco, con l’aiuto di Maso del Saggio. Quest’ultimo personaggio, che viene citato anche
nella novella di frate Cipolla per l’abile uso dell’arte oratoria, racconta a Calandrino numerose fandonie,
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svelandogli, tra le altre cose, l’esistenza di una pietra che rende invisibili, l’elitropia , che si troverebbe sul
greto del fiume Mugnone, lì vicino. Calandrino, non resistendo alla tentazione (e pregustando la possibilità
di arricchirsi illecitamente una volta invisibile, rubando i fiorini che abbondano sui banchi dei “cambiatori”
della città), propone a Bruno e Buffalmacco di organizzare una spedizione per recuperare la pietra dalle
mirabili doti. I due compari, intravedendo la possibilità di burlare l’amico, accettano di buon grado, e così,
una domenica mattina, si recano tutti e tre al Mugnone. Una volta giunti qui, Calandrino si getta su tutte le
pietre che vede, dato che Maso del Saggio, per meglio ingannare Calandrino, non gli ha fornito una
descrizione precisa del preziosissimo minerale.
Una volta che Calandrino ha le tasche piene di sassi, gli amici iniziano a fingere di non vederlo; anzi sulla
strada del ritorno Bruno e Buffalmacco ne approfittano, prendendo a sassate Calandrino, con la scusa
che ormai egli è invisibile e che loro quindi non possono capire dove stia. Convinto di aver trovato la famosa
pietra e di essere diventato invisibile, Calandrino torna a casa tutto contento. Appena entrato, però, la
moglie lo rimbrotta aspramente per il ritardo con cui è arrivato a pranzo; Calandrino, vedendosi scoperto e
certo che la donna (a cui, per un pregiudizio maschilista, egli associa il peccato e la corruzione morale)
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abbia spezzato l’incantesimo dell’elitropia, la picchia arrabbiatissimo . Fuori di sé, Calandrino corre a
raccontare l’accaduto agli amici che, trattenendo a stento le risate, gli spiegano come sia appunto una
prerogativa femminile quella di far “perdere la vertù alle cose”. Spiegatogli quindi che non deve più
prendersela con la povera donna, i due lasciano Calandrino, beffato per l’ennesima volta, "malinconoso con
la casa piena di pietre".