ricerche storiche
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RICERCHE STORICHE Rivista quadrimestrale dell'Istituto per la storia della Resistenza e della guerra di Liberazione in provincia di Reggio Emilia SOMMARIO N. 50/51 - ANNO XVII DICEMBRE 1983 Comitato di Direzione Luigi Ferrari Annibale Alpi Villorio Parenti Aldo Magnani Mons. Prospero Si monelli Gismondo Veroni Direltore Responsabile Sergio Rivi Comitato di Redazione Renzo Barazzoni, Ellore Borghi, Sereno Folloni, Sergio Marini, Giorgio Boccolari Segretario Antonio Zambonelli Amministratore alga Baccarani OIREZIONE, REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE Piazza S. Giovanni, 4 Telefono 37.327 c.c.p. N. 14832422 Cod. Fisc. 363670357 Prezzo del fascicolo Prezzo del fascicolo doppio Numeri arretrati il doppio Abbonamento annuale Abbonamento sostenitore Abbonamento benemerito L. L. 3.000 4.000 L. 6.000 L. 20.000 L. 40.000 La collaborazione alla rivista è fatta solo per invito o previo accordo con la dire· zione. Ogni scritto pubblicato impegna politicamente e scientificamente l'e· sclusiva responsabilità dell'autore. I ma· noscritti e le fotografie non si restitui· sceno. Stampa TECNOSTAMPA· Via F. Casorati, 15 Tel. 43.941 ·5 linee ric. Aut. Editore proprietario Istituto per la Storia della Resistenza e della guerra di Liberazione in provincia di Reggio Emilia cod. lise. 80011330356 Registazione presso il Tribunale di Reggio E. n. 220 in data 18 marzo 1967 PER GUERRINO FRANZINI LUIGI FERRARI La bontà di "Frigio" ............................. pago 5 GIUSEPPE CARRETTI Orazi<;ln.e funebre per il compagno Franzlnl ................................................ 7 » LUCIANO CASALI La lezione di "Frigio" ........................ .. 13 GUERRINO FRANZINI Autobiografia di un militante .............. » 17 G. FRANZINI Pagine di diario. 1956-1958 ................. » 41 MAURO SACCANI Aspetti economici delle campagne reggiane e prime indicazioni di lotta del P.C.I. (1939-1943) ........................... » 53 LUIGI ARBIZZANI Il problema operaio nei periodici clandestini emiliano-romagnoli (1943-1945) .................... ...... ................. » 73 » 90 » 105 SAGGI DOCUMENTI E TESTIMONIANZE ELGINA PIFFERI Storia di una donna (a cura di A. Zambonelli) .................................................. RECENSIONI L. GUIDOTTI, Reggiane 1943-1951. I giorni dell'ira, (M. Lasagni); O. SALTINI, B. DELMONTE, La tana della tigre (A. Zambonelli); R. BARAZZONI, La cognizione del tempo (S. Marini) ........ Il progetto di questo numero di «Ricerche storiche» era stato abbozzato da Guerrino Franzini nel settembre 1983. Il sopraggiungere della Sua improvvisa scomparsa, il 25 ottobre successivo, ha indotto la Redazione ad una modifica del progetto stesso nel senso di rinviare la pubblicazione di parte del materiale previsto, per dedicare ampio spazio al ricordo del nostro indimenticabile Frigio, pubblicando inediti di e su Guerrino Franzini partigiano, storico della Resistenza, organizzatore culturale. Peraltro, portando avanti l'ipotesi che assieme a Lui avevamo elaborato per il triennio 1983-1985, ci siamo attenuti, con gli altri saggi e note che pubblichiamo, al criterio di inserirci nel Quarantennale della Resistenza non con scritti «commemorativi» ma con lavori di approfondimento di quella «storia sociale» in cui la lotta di Liberazione va collocata. Abbiamo così un saggio di Mauro Saccani (sulla produzione agricola e sul livello dei consumi alimentari nel Reggiano dal 1939 al '43) condotto sulfilo di una ipotesi di correlazionema senza univocità e determinismo - tra «progressivo peggioramento delle condizioni di vita ed il passaggio di gruppi sempre più consistenti di lavoratori da un generico afascismo ad un deciso antifascismo, per giungere alla lotta armata». Col saggio di Arbizzani l'ambito geografico si allarga all'Emilia-Romagna e il discorso si sposta a livello «sovrastrutturale» attraverso l'analisi del proporsi di un «problema operaio» sui giornali clandestini pubblicati nella regione dal 1943 al 1945. Scegliendo tra le <<fonti orali» che da anni il nostro Istituto va raccogliendo ed accumulando, pubblichiamo l'intervista ad Elgina Pifferi, una vivace signora di 76 anni, che vive a Parigi (è presidente della «Fratellanza reggiana») ma che spesso ritorna a Reggio ed a Roteglia (dove è nata); una signora che ha alle spalle una lunga militanza comunista e la cui testimonianza costituisce un prezioso contributo non solo alla storia dell'antifascismo ma anche a quella «storia delle donne» a cui si rivolge da qualche tempo una particolare attenzione. LA BONTÀ DI "FRIGIO" Mi sembra giusto e doveroso che una parte di questo numero della Nostra Rivista "Ricerche Storiche" sia dedicato a Guerrino Franzini (Frigio) che della Rivista e del Nostro Istituto è stato Direttore per tanti anni ed è significativo che la vita e le opere di questo Nostro amico siano ricordate proprio in questo numero di cui Egli ebbe modo di curare e preparare l'impostazione scegliendane anche il materiale da pubblicare. Di chi ci lascia si è soliti ricordare l'opera e l'attività che lo hanno contraddistinto in vita e che ne perpetuano nel tempo la memoria: molte cose a questo riguardo si possono dire di Franzini: partigiano valoroso, studioso serio e preparato, ricercatore preciso ed appassionato ma a me preme, in questa testimonianza, mettere in risalto di Franzini, l'uomo, la Sua bontà d'animo, la Sua gentilezza nei modi e nelle parole, la Sua sensibilità ai problemi ed alle esigenze degli altri, il carattere mite. Ci conoscemmo non molti anni addietro, nell'Istituto, e trovammo subito, nei frequenti incontri e pure nella diversità di idee e di opinioni, a volte anche vivace, un'ansia comune di giustizia, di lealtà, di operare bene per tutti, di comprenderci. E tale fu il nostro rapporto: di sincera stima ed amicizia. La Sua sorte ci richiama, ancora una volta, al profondo mistero della vita ed a meditare sulla caducità delle cose terrene; ma una cosa, io credo, non è caduca: la bontà e l'amicizia che si è data e che si è conquistata. lo amo ricordare Franzini sopratutto per queste Sue virtù. LUIGI FERRARI ORAZIONE FUNEBRE PER IL COMPAGNO GUERRINO FRANZINI (FRIGIO) Pronunciata da Giuseppe Carretti, Presidente dell'ANPI di Reggio Emilia, il 26.10.1983, al nuovo Cimitero suburbano di Villa Coviolo. Oltre al nostro Presidente dotto Luigi Ferrari ed a Carretti, parlò anche, nella stessa circostanza, l'Ono Otello Montanari, a nome dei comunisti reggiani. Signor Sindaco, signor Presidente dell' Amministrazione Provinciale, autorità, donne e uomini della resistenza, cittadini, il nostro caro Frigio ci ha lasciato per sempre. Aggredito da un male improvviso, il suo gracile corpo non ha resistito. Per questa grave perdita, che colpisce la resistenza e l'intera vita democratica della città e della provincia, il nostro cuore è colmo di tristezza. Abbiamo perso una figura meravigliosa, un uomo semplice, modesto, buono, onesto, schivo, nemico della saccenteria e dei discorsi vuoti e fumosi. Abbiamo perso un uomo al quale in gioventù, come a tanti di noi, fu negata la possibilità d'istruirsi, di andare a scuola, ma che con la forza della sua volontà e della sua intelligenza seppe ugualmente assurgere alla dignità di storiografo, di scrittore, di narratore, di uomo di cultura, dotato di una ricca sensibilità poetica ed umana. Frigio aveva soltanto la 5 a Elementare ma la sua modestissima casa è una ricca biblioteca. Amava molto l'arte e la scultura e per questo riuscì, con sacrifici, a frequentare la scuola «Gaetano Chierici». Celebre rimane la statuetta del partigiano, sua creazione artistica. La sua prima pubblicazione risale al 1946. Frigio allora era molto noto come figura esemplare della resistenza, come Capo di Stato Maggiore della 145 a Brigata Garibaldi, ma a nessuno di noi era noto come scrittore e storico. Quelle sue prime 120 pagine, messe in vendita al prezzo di 50 lire, portavano come titolo «Storie di Montagna». Era quella la storia del Distaccamento «Gaetano Bedeschi», uno dei primi formatisi in montagna, comandato dal fornaio di Rivalta Pio Montermini (Luigi) anch'esso troppo presto scomparso. E poichè ero anch'io tra i fondatori del «Bedeschi», mi sono sempre lusingato di potermi in qualche modo considerare un allievo di queste due bellissime figure della resistenza reggiana. Preparando questi tristi appunti per rivolgere a Frigio l'estremo saluto dei suoi più cari compagni di lotta e dell'intera famiglia dei partigiani, ho preso tra le mani, quasi con senso religioso, quelle «Storie di Montagna» e con animo turbato ho fermato lo sguardo sulla prima pagina, nella quale 37 anni fa Frigio scriveva: «Ispirandomi all'assoluta verità dei fatti, scrivo col proposito di far rivivere ai vecchi e nuovi compagni di lotta, le vicende di uno dei primi distaccamenti 8 partigiani del reggiano: il distaccamento «Gaetano Bedeschi». Agli occhi degli altri lettori, vorrei essere riuscito a rendere fedelmente la vita di uno di questi gruppi partigiani che, pur essendo perseguitati e calunniati dal fascismo ed incompresi da molti dei loro stessi fratelli, seppero tener accesa la scintilla della lotta, che portò atrinsurrezione armata popolare e quindi alla liberazione. Vorrei anche convincere come questi «brandelli di libertà», insofferenti di ogni oppressione, fossero, nella loro intima costituzione, lo specchio della futura società democratica. Mi auguro che questo modesto tentativo possa far nascere il desiderio in altri, di fare molto di più e meglio, per valorizzare l'opera dei partigiani che troppi oggi cercano di disconoscere.» Il desiderio di Frigio è stato appagato. Sul suo esempio, in tutti questi anni, sono nate copiose opere che fanno tante storie particolari dell'antifascismo e della resistenza e tante sono state scritte da autentiche mani partigiane, ma dell'opera fondamentale che doveva raccogliere con rigore ed in forma organica, compiuta e moderna, la storia della guerra di liberazione nazionale combattuta nella provincia di Reggio Emilia, l'autore doveva essere proprio lui. Con le mille pagine vive, cocenti, della «Storia della Resistenza Reggiana», che gli sono costate lunghi anni di faticoso lavoro e di attente, impegnate ricerche, Frigio ha dato alla storiografia e alla cultura dell'Italia risorta un prezioso contributo i cui frutti, già copiosi, cresceranno ancora poichè è da quel libro, che non dovrebbe mancare in nessuna delle nostre scuole, che i ragazzi di oggi e di domani possono imparare, con una visione ampia, libera e serena, che cos'è stato il 2° Risorgimento nazionale a Reggio Emilia e qual è stato il contributo di sacrificio e di sangue che Reggio ha dato per la causa della libertà, dell'indipendenza e della pace. Che io sappia, tranne Modena, nessuna provincia partigiana d'Italia dispone di un'opera simile a quella donataci dal compagno Frigio. Verso Frigio noi ci sentiamo debitori. Egli ha dato tanto alla democrazia e per quello che ha dato non sempre gli siamo stati interamente riconoscenti. Credo si possa dire, senza timore di sbagliare, che senza uomini come Frigio la democrazia non avrebbe percorso un così lungo cammino, anche se, per colpe che non sono della resistenza, tante sono ancora le incognite che gravano sul nostro futoro. È con uomini con Frigio che abbiamo sbarrato il cammino alle barbarie nazifasciste e riportato l'Italia all'onore del mondo; è con uomini della levatura ideale e morale di Frigio che il nostro popolo è chiamato adesso a sbarrare il cammino alla criminalità, alla violenza organizzata, alla droga, all'immoralità, alla mafia, alla camorra, ai poteri occulti e ai tremendi pericoli che una guerra nucleare distrugga i principali centri della nostra civiltà. lo ho conosciuto Frigio nei primi giorni del mese di maggio del 1944 alle capanne della Magolese, ai piedi del Cusna, proprio nei giorni in cui i sessantasettanta partigiani che si trovavano lassù, decisero di organizzarsi in tre distaccamenti: il «Gaetano Bedeschi», il «Camillo Prampolini» e 1'«Antonio Piccinini». 9 Notarlo non era cosa facile per il fatto che modestia e semplicità erano - e sono rimaste fino alla fine - le caratteristiche principali della sua personalità. Ascoltava molto e parlava poco. Adesso invece è di moda il contrario, si parla molto e si ascolta poco. Che si trattasse di un uomo non solo buono ma anche saggio, previdente e capace anche sul piano militare, ce ne accorgemmo la notte tra il 19 e 20 maggio del 1944 quando proprio quasi sugli stessi tetti delle capanne della Magolese (stalle di paglia per pecore) nelle quali eravamo accampati, gli inglesi, dopo tante promesse, effettuarono il primo lancio. Fu Eros, che si era spostato, in quei giorni, nel Ramisetano, a dirci di accendere i fuochi qualora avessimo avvertito che aeroplani sorvolavano la nostra zona. Quella notte così facemmo. Descrivere quello che provammo in quei momenti non è possibile tant'era la gioia, l'emozione e la confusione. Le fiamme alte dei nostri fuochi che illuminarono tutta la Val d'Asta e che furono avvertite dagli stessi fascisti del Presidio di Villaminozzo, simbolicamente si congiungevano con i potenti segnali luminosi del grande aquilone alleato che in piena notte sganciava il suo carico prezioso per i partigiani di Reggio Emilia. È in quel momento che Frigio, rompendo il silenzio, mette in luce, per la prima volta, le sue qualità. Fu uno dei pochi a non lasciarsi travolgere dalla gioia. Saltava veloce da un punto all'altro raccomandando che si raccogliessero rapidamente gli alti fusti e i paracadute perchè non restasse traccia alcuna. L'ansia di aprire quei pesanti e voluminosi involucri era tantissima, ma Frigio si preoccupò prima di tutto di conoscere le armi per imparare come andavano montate e quali erano i meccanismi che si dovevano conoscere per farle funzionare. Frigio immaginava che poteva determinarsi il bisogno di doverle adoperare anche subito. Ma i lavori di raccolta non erano ancora terminati quando udii la voce di Frigio che mi disse: «Prepara subito la tua squadra e con altre due andiamo con Luigi a prendere posizione sul monte Prampa sopra Coriano, Santonio e il ponte della Governara». Frigio intuì subito che il nemico da Villaminozzo poteva tentare di giocarci qualche sorpresa nella speranza di riuscire a strapparci le armi appena cadute dal cielo. Quella notte non accadde nulla. Il nemico spuntò invece qualche giorno dopo con un grande schieramento di forze, ma trovando ognuno di noi al proprio posto di combattimento fu duramente battuto e messo in precipitosa fuga. Frigio soffrì molto quando dalla battaglia di Villaminozzo del 25 maggio 1944 non fece più ritorno Franco Casoli (Mollo) di Pieve Modolena, un coraggioso ragazzo di 19 anni. Da allora non mancava mai di ricordarci che la nostra tattica doveva essere 10 quella di colpire con sicurezza, prontezza e rapidità senza lasciarci colpire. Richiamandoci sempre al senso del dovere e della disciplina non mancava mai di ricordarci che la nostra vita era preziosa e che a casa avevamo una mamma che ci attendeva, anche se lui, nato nel 1946, all'età di 12 anni era già orfano di entrambi i genitori. Era buono e gentile come pochi altri, ma desiderava che anche gli altri fossero gentili e rispettosi con lui. Prima di prendere la via dei monti Frigio aveva stabilito contatti con esponenti del PCI di Reggio Emilia. Uno di questi fu Giovanni Ferretti qui con noi alle esequie di Frigio nonostante la salute malferma. È da questi uomini che egli apprese che la resistenza doveva essere un grande fatto rivoluzionario nella storia d'Italia. Un fatto capace di fare entrare a pieno diritto le masse popolari nella vita della nazione. Egli perciò, prima di tanti di noi capì che con la guerra partigiana non si trattava soltanto di distruggere il regime fascista alla superficie e di cacciare l'invasore nazista, ma si trattava di togliere per sempre ai gruppi reazionari, veri responsabili del fascismo, ogni possibilità di ritornare a dominare, si trattava di portare avanti, nell'unità di tutte le forze democratiche e nella concordia nazionale, il profondo processo di trasformazione e di rinnovamento del Paese. Per tutto ciò Frigio fu per i partigiani della montagna una figura preziosissima. E per la sua preparazione politico-militare e per la sua gentilezza d'animo Frigio godeva di tanta stima non solo tra i partigiani semplici, ma anche negli alti comandi. Credo siano queste le ragioni per cui a Frigio furono affidati anche compiti particolarmente seri e delicati. Compiti da lui assolti con la dignità del vero soldato del 2° Risorgimento nazionale, onorando in tal modo la resistenza e l'Esercito Italiano che s'andava risollevando dal baratro in cui l'aveva trascinato il fascismo. Consapevole dei sacrifici ai quali erano sottoposte le coraggiose popolazioni della montagna, egli dedicava una particolare attenzione ai rapporti tra partigiani e popolazioni, avendo sempre presente che senza il sostegno del popolo la nostra non poteva essere una vera guerra di liberazione nazionale. Non sembra ancor vero, caro Frigio, che tu non sia più tra di noi. Con la tua morte, giunta così inaspettata, sentiamo che è una parte di noi stessi e della resistenza che si allontana, che se ne va per sempre. Ma noi non vogliamo, noi non sappiamo pensarti racchiuso dentro questa fredda bara. Noi continuiamo a pensarti come partigiano semplice, come capo squadra, come comandante di distaccamento, come capo di stato maggiore della 145 a Brigata Garibaldi «Franco Casoli». E se pensiamo a questi 39 anni di non facile vita democratica, noi vogliamo ricordarti come cittadino integerrimo che ha lottato e si è sacrificato, che ha tenuto sempre alta la bandiera della resistenza, soprattutto negli anni delle persecuzioni anti-partigiane. 11 Sì, davanti alla bara di Frigio non possiano non ricordare che ai tempi della guerra fredda la bandiera della resistenza fu rudemente e ripetutamente aggredita ed offesa. Ma contro tutti i tentativi filofascisti e reazionari essa è rimasta la bandiera della Repubblica e della Costituzione perchè così ha voluto il popolo italiano il quale non dimentica uomini come Frigio. Noi ti ricordiamo e ti onoriamo, caro Frigio, come combattente esemplare, come dirigente stimatissimo della nostra Associazione, come democratico sincero, studioso, scrittore, autore della «Storia della Resistenza Reggiana» e di numerose altre pubblicazioni. Noi, tuoi compagni di lotta, ti ricordiamo così perchè così ti abbiamo conosciutn. !1crchè così sei stato e perchè così tu rimani nella storia delle lotte del generoso popolo della terra del Tricolore, dei sette fratelli Cervi, di don Pasquino Borghi e di tantissimi altri eroi; popolo forte e tenace che con coraggio, sacrificio e sangue ha saputo guadagnarsi la medaglia d'Oro al Valor Militare. Siamo qui in tanti Frigio, insieme con i rappresentanti delle istituzioni, per dirti tutto il bene che ti abbiamo voluto, per manifestarti ancora una volta tutto il nostro affetto, per ringraziarti per tutto ciò che hai dato a noi e alla causa della libertà, dell'indipendenza e della pace. Prima che il male ti colpisse hai fatto in tempo ad avere notizie del grande sussulto che veniva avanti da ogni parte del mondo contro gli armamenti nucleari e contro i pericoli di uno sterminio atomico. La pace era anche il tuo sogno. Ebbene Frigio, come siamo stati ieri degni partigiani per la libertà, sorretti anche dal tuo insegnamento, ti assicuriamo che continueremo ad essere oggi degni partigiani per la pace. Alle autorità tutte, ai comandanti partigiani, ai rappresentanti della vita democratica della città e dell'intera provincia e a quanti in qualunque modo hanno voluto testimoniare la loro partecipazione al lutto che ha così duramtente colpito l'ANPI e tutta la resistenza, rivolgiamo, profondamente commossi, il nostro più vivo ringraziamento. Ai tuoi cari Frigio, a tua moglie, a tuo fratello, a tua sorella, ai tuoi nipoti, l'abbraccio fraterno di tutta la resistenza. A te l'assicurazione che non dimenticheremo mai il tuo esempio. Ciao Frigio. GIUSEPPE CARRETTI LA LEZIONE DI «FRIGIO» Il consiglio generale dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia il 26 giugno 1966 nominò vice presidente dell'Istituto stesso Pietro Secchia. Un atto del tutto «formale» e tranquillo, di normale amministrazione, in quanto si trattava di sostituire Umberto Terracini, che aveva rassegnato le dimissioni, e la tradizione dell'Istituto prevedeva un presidente azionista affiancato da due vice, un democristiano ed un comunista. Può forse sorprendere, leggendo lo scarno verbale della riunione pubblicato sul n. 83 de «Il movimento di liberazione in Italia», una compatta presenza degli Istituti emiliani, un poco desueta a quei tempi. Ciò che invece non appare nel verbale, che però costituì un momento molto importante per parecchi giovani studiosi di storia contemporanea vicini agli Istituti storici della resistenza, è che, a fianco della nomina di Pietro Secchia, si era avviato un importante e serio impegno dello stesso Secchia e di Ernesto Ragionieri per creare spazi e momenti di confronto e di discussione, per non limitare, almeno per quanto concerneva gli studiosi marxisti, i momenti di incontro degli Istituti storici della resistenza agli annuali appuntamenti a Milano per approvare i bilanci, o poco più. Così un paio di settimane prima di quel 26 giugno in via delle Botteghe oscure a Roma si erano incontrati i comunisti che operavano all'interno degli Istituti per un primo scambio di idee, per discutere, per la prima volta in maniera ampia, delle ricerche in corso, per confrontare metodi ed idee, per scambiarsi informazioni e giudizi, anche se presenze come quelle di Ragionieri e Sereni sembrarono, da principio, intimorire non poco i convenuti. Gli incontri, poi, una o due volte all'anno, continuarono, a volte organizzati, più spesso individuali, finchè la morte di Ragionieri troncò un lavoro, un dibattito, una «scuola», che nessuno, purtroppo, ha voluto mantenere in vita. In quella giornata romana incontrai per la prima volta Frigio, che raccolse, in quella sede, per la sua Storia della Resistenza reggiana da poco uscita, una serie di elogi e congratulazioni che lo imbarazzarono, lo resero, per l'intera riunione, silenzioso, e lo «costrinsero» a rifugiarsi, quasi a nascondersi, in fondo al grande tavolo che riempiva il salone. Tanto più che quel libro di Frigio costituiva, all'interno della discussione che si stava sviluppando, un evidente punto di riferimento per la ricchezza della documentazione usata e per l'ampiezza dei problemi affrontati che facevano superare certe strettoie nelle quali il celebrativismo aveva costretto troppi studi sulla lotta di liberazione nazionale. Ma ciò che immediatamente mi colpì fin da quel primo incontro fu la 14 «modestia» di Frigio, l'assoluto rifiuto di ogni protagonismo, il volersi quasi mettere in ombra o in disparte dopo aver scritto il libro, come se lo sforzo per farlo non fosse stato altro che un «dovere» compiuto verso i partigiani, coloro che di quello scritto erano i protagonisti. Gli incontri divennero, poi, abbastanza regolari e frequenti e la mia puntigliosità di documentare il più ampiamente possibile ogni ricerca incontrò in Frigio una ancor maggiore determinazione, la consapevolezza della necessità di allargare sempre di più la documentazione; ma soprattutto venne la «lezione» di non fidarsi di nessuna fonte, anche la più sicura ed autorevole. Si veda sul n. 12 di «Ricerche storiche» (pp. 95-99), come sono stato, giustamente, «maltrattato» per alcune affermazioni che avevo fatto sulla repubblica di Montefiorino accettando acriticamente le versioni di alcuni dei maggiori protagonisti di quell'episodio della resistenza modenese-reggiana. E sono convinto che quelle pagine sono state pensate da Frigio cento volte, rimeditate lungamente; che gli hanno causato ripensamenti a non finire, di fronte al problema di dover «uscire» in prima persona a correggere ed insegnare. Come, più recentemente, di fronte al Memoriale di «Carlo» si è posto per mesi il problema di come intervenire, come precisare gli errori senza «offendere» chi aveva curato l'edizione e le note al volume (una cura, a mio parere, molto approssimativa, affrettata e, comunque, senza alcuna volontà di portare a fondo una seria analisi scientifica). In fondo, secondo Frigio, anche quel libro era utile, in quanto poteva servire a porre il problema di un recupero degli archivi e della documentazione delle «Fiamme verdi», rimasti nascosti, inutilizzati ed inutilizzabili. Forse quella lezione (politica) del vecchio militante mi è rimasta più ostica e più difficile da accettare e non esito quasi mai, quando sono costretto, di fronte anche alla critica più pesante, frutto di un «massimalismo» di cui certamente Frigio aveva verificato l'inutilità o,per lo meno, la non costruttività. Molto probabilmente egli non amerebbe di essere ricordato così, tuttavia Frigio mi ha sempre riproposto l'immagine del riformismo e del pragmatismo emiliano e reggiano, nella costanza e continuità dell'impegno, nel porre regolarmente, senza badare ad ostacoli o deviazioni, pietra su pietra, la costruzione di quel vero e proprio monumento che ha lasciato al movimento operaio reggiano e alla sua provincia, un monumento difficilmente cancellabile: i 49 numeri di «Ricerche storiche», la Storia della Resistçnza, l'Istituto reggiano con un archivio invidiabile e una struttura di documentazione pronta, ampia, aperta e disponibile. Certe affermazioni possono apparire, in questo momento, frutto di retorica o semplici frasi di circostanza. Non importa ed è un rischio da correre, perchè mi pare necessario ricordare come Frigio abbia rappresentato per me, come per altri studiosi e ricercatori, un punto di riferimento sicuro e forse un po' tutti lo abbiamo «sfruttato», data la sua disponibilità a farsi sfruttare, a fornire documentazioni e consigli, a tirare fuori rapidamente documenti e citazioni, a indicare fonti e giudizi frutto di letture, studi e riflessioni che andavano ben al di là della sola storia della resistenza reggiana. Diciassette annate di «Ricerche storiche» stanno a dimostrare l'attenzione continua di Frigio a 15 quanto si muoveva, si scriveva, si studiava (e come) anche fuori dalla sua Reggio e dimostrano una notevole prontezza ad accorgersi del nuovo e ad accettarlo. Si veda l'introduzione delle «fonti orali», l'apertura delle pagine della rivista alla storia degli anni venti e trenta. In alcune pagine autobiografiche inedite Frigio scrive di essere andato in montagna, all'indomani dell'8 settembre 1943, per documentarsi, scrivere e disegnare. Ne è sceso nella primavera 1945 dirigente del movimento operaio reggiano e ne è poi diventato lo studioso e lo storico. Così dobbiamo ricordarlo. LUCIANO CASALI AUTOBIOGRAFIA DI UN MILITANTE All'autobiografia che pubblichiamo, Franzini stava lavorando negli ultimi mesi di vita. Costituisce perciò un inedito assoluto, salvo la parte in cui racconta della sua (e di altri commilitoni) fuga dal Distretto militare dopo 1'8 settembre del '43. Su quella vicenda infatti Franzini aveva pubblicato un 'ampia testimonianza in «Ricerche storiche» n. 44/45, dicembre 1981. Fu proprio anche in seguito a quella pubblicazione che gli suggerii di scrivere un'autobiografia completa; dovetti anche affettuosamente spronarlo perchè considerava di nessun interesse «scientifico» un tale impegno. A voce mi raccontava talvolta episodi assai significativi della sua infanzia, ai quali qui non accenna; io insistevo perchè li inserisse nel testo che a pezzettini, nei ritagli di tempo tra un impégno e l'altro, andava componendo al tavolo di lavoro dello studio lo privato di Via San Girolamo, una stanzetta affollata di libri, documenti, collezioni varie. Di quegli episodi, che Frigio non ha fatto in tempo ad inserire, ne voglio ricordare uno. Verso i sedici anni, ospite di quel Collegio Artigianelli in cui si sentiva come «prigioniero», acquistava periodicamente, lungo il tragitto per recarsi al proprio lavoro di garzone marmista, la Bibbia a dispense con illustrazioni del Dorè. Lo spingevano due interessi: da un lato il bisogno di capire - ricorrendo, per così dire, alla fonte originale - quel fenomeno religioso che per tradizione familiare gli era rimasto piuttosto estraneo e che in collegio gli veniva imposto nelle forme di un esteriore ritualismo e di rigideformule catechistiche; dall'altra la volontà di affinare, attraverso le tavole del Dorè, lo studio del «nudo». (Sono molti, forse un centinaio, i nudi disegnati da Franzini a matita, carboncino o sanguigna che ci rimangono, superstiti di rigorose, periodiche selezioni che inducevano lo scrupoloso Autore a scartare, distruggendoli, i lavori che considerava non riusciti). Sorpreso da un «istitutore» mentre sfogliava una di quelle dispense, se la vide sequestrare a motivo appunto di quei corpi nudi raffigurati in molte tavole di Gustavo Dorè. In seguito riuscì, col suo tono già allora dimesso ma persuasivo, per chi sapeva ascoltarlo, a convincere l'istitutore e il direttore che i propri interessi non erano di natura erotica bensì estetica e spirituale ad un tempo. Si arrivò ad un compromesso: continuasse pure il piccolo marmista ad acquistare le dispense 18 della Bibbia, ma doveva ogni volta consegnarle in Direzione, ricevendo le in visione in determinati periodi ed in circostanze tali che altri ragazzi non le potessero vedere. C'era già, in quell'episodio, tutto il Franzini che abbiamo imparato a conoscere e ad amare: il suo bisogno di verità, la sua sensibilità di artista, la sua paziente capacità di persuadere. A.Z. FRANZINI GUERRINO Nato a Guastalla il 17 febbraio 1916 Residente in Reggio Emilia, Via S. Girolamo, 7 Marmista-scultore Mio padre morì di febbre spagnola sul finire della prima guerra mondiale, mia madre manteneva stentatamente il figlio piccolo lavorando come donna di servizio. In casa nostra c'era la fame. Per quanto ricordo mia madre era di sentimenti socialisti. Contro il fascismo dal suo primo apparire, vi era una rabbiosa ostilità in chi mi stava vicino: mia madre, sua sorella e il di lei marito. Quando eravamo irrequieti mia madre, per intimorirci, anzichè minacciare di chiamare il lupo soleva gridarci: «Se non state buoni chiamo i fascisti». Vidi i fascisti all'opera un primo maggio del 1921 e '22 a Guastalla in «Piazzola», luogo ove noi ragazzi, per tradizione, costruivamo nella circostanza delle capanne di frasche illuminate di sera. Una squadra di energumeni in camicia nera distrussero a randellate quelle capanne, tra le proteste della gente. Anche dalla porta di casa nostra mia madre gridò due o tre volte: «Delinquenti! ». Quel vandalismo che colpiva in primo luogo noi ragazzi così come i commenti degli adulti e certe altre gesta squadristiche di cui molto si parlava, determinarono in me sentimenti di avversione nei confronti del fascismo, che mantenni all'incirca da 6 a 14 anni. Morta mia madre, dai 12 ai 19 anni vissi nel collegio degli artigianelli, in Via Don Zefferino J odi (Reggio Emilia), una istituzione che mirava a preparare gli orfani a varie attività artigiane, e a fare di loro dei «buoni cattolici». Ovviamente era amministrato e diretto da sacerdoti. Eravamo come prigionieri e quando fummo inviati, non so in seguito a quali trattative col clero, alle lezioni di ginnastica e atletica leggera per partecipare al «Campo Dux», vi andammo tutti abbastanza volentieri. Il fascismo era piuttosto avversato dai collegiali, ma il fatto di uscire di gabbia per fare dello sport una o due volte la settimana, rappresentava un diversivo non sgradito per ragazzi che avevano bisogno di spendere energie fisiche. 1\.aturalmente i gerarchi della GIL contavano su questo fatto per poterci 19 conquistare alla causa fascista. Con le frequenti concioni e con iniezioni di «cultura fascista», nella quale bisognava prepararsi per aumentare il nostro punteggio nelle gare, ritenevano di riuscire nell'impresa. Non mi risulta che ci siano state opposizioni da parte della direzione del collegio, per quell'indottrinamento che faceva a pugni con le pratiche religiose che si tenevano all'interno nel nostro Istituto. E noi, tutto sommato, eravamo alquanto disorientati. Mal sopportavamo quelle pressioni costanti. Le considerevamo tutte alla leggera e con scetticismo, gradivamo soltanto le pratiche sportive, riconoscendo che il fascismo, almeno in quelle, faceva per la gioventù qualcosa di buono. Solo con l'andare degli anni ci si accorse che in effetti si voleva la nostra «fascistizzazione» e «militarizzazione»; precisamente quando venivamo preparati alle parate e alle «evoluzioni di reparto» che erano anch'esse «gare» da sostenere al campo «Dux». Intanto noi eravamo tutti divenuti, automaticamente, degli «avanguardisti» e partecipavamo alle sfilate e alle «evoluzioni di reparto» in divisa. Nostro campo d'azione era la palestra di via Guasco, il cortile annesso e la grande area antistante; ma non era raro che uscissimo da quell'ambito per sfilare attraverso vie cittadine. Dopo la morte dello scultore Guglielmo Fornaciari, presso il quale ero allievo all'interno dell'Istituto, i miei superiori mi collocarono presso Eligio Sezzi, un ex allievo di Fornaciari che aveva un laboratorio di marmista molto bene avviato e con parecchi dipendenti, in Viale Timavo. Qui conobbi problemi economici e tendenze ideologiche dei lavoratori. La mia indifferenza verso la politica fascista ridivenne pertanto ostilità perchè imparai cos'erano la disoccupazione, la miseria, e la persecuzione verso quanti si battevano contro questo stato di cose. Vi era anche qualche operaio organizzato nel PCI. Tra di questi, chi faceva apertamente propaganda antifascista era Giovanni Ferretti, di famiglia contadina. Aveva sugli altri un certo ascendente. Noi tutti aderivamo al «Soccorso rosso» versando periodicamente le relative quote. In laboratorio si parlava piuttosto liberamente e non c'era nessuna spia. Sezzi, sapeva tutto ma non se ne interessava. Uscito di collegio, continuai a lavorare a Reggio, mentre risiedevo a Guastalla. Per diversi anni feci la vita del pendolare viaggiando in un treno sempre sovraffollato di studenti, e particolarmente di operai delle «Reggiane». Affluivano da tutta la provincia in quel grosso stabilimento, che si andava potenziando, poichè produceva per la guerra ormai vicina. Intanto io, sempre automaticamente con la «Leva fascista», ero divenuto, da avanguardista giovane fascista. Frequentavo anche il «Premilitare» al sabato pomeriggio sopportando noiosissimi esercizi di istruzione di reparto: marcia, evoluzioni ecc. Qualche volta ci portavano al tiro a segno, e questo non mi dispiaceva perchè imparavo l'uso di un'arma, «cosa sempre utile», mi dicevo. Per qualche tempo riuscii ad evitare le frequenze, ma non era facile sfuggire a lungo. lo che lavoravo tutta la settimana, intendevo dedicarmi al sabato ai miei studi d'arte, ero furioso per questo tempo che mi veniva sottratto. Per ben tre anni mi si privava 20 del sabato pomeriggio. Mi sentivo colpito nella mia libertà personale ed anche danneggiato nella mia carriera di artista alla quale miravo. Divenni quindi antifascista arrabbiato, soprattutto a causa del premilitare. Non ricordo in quale anno fu, dovetti partecipare ai littoriali del lavoro a Catania. Era in quel tempo dirigente del GUF un ex istitutore agli Artigianelli, il quale pertanto mi conosceva bene. Fui da lui chiamato e perentoriamente invitato a prepararmi per partecipare ai littoriali. Tentai di resistere dicendo che dovevo finire certi lavori da presentare ad una mostra d'arte (era vero) ma mi rispose esplicitamente che non si poteva rifiutare. Dovetti prepararmi su di un libro di cultura fascista, perchè questa materia non mancava mai, e predisporre un bozzetto di «targa per una sede della G.I.L.». Questo era il tema del lavoro in marmo che avrei dovuto eseguire a Catania. Alla data stabilita, partimmo in alcuni, tra cui ricordo Dino Prandi, quello della libreria antiquaria, di famiglia socialista. Egli concorreva come vetrinista. Ci accompagnava lo studente universitario Dante Torelli, il futuro federale repubblichino. Eravamo tutti per obbligo in divisa nera, fez a bombetta, sahariana ecc. A Catania cominciai il lavoro ma mi presi delle febbri e lo lasciai a mezzo. Il viaggio di ritorno lo feci una settimana più tardi in compagnia di un altro giovane. Visitai Taormina, Pompei, il Museo Nazionale e Napoli, non so quali musei e monumenti di Roma, gli Uffizi e palazzo Pitti a Firenze. Una vera pacchia. Così, pur essendo stato ingaggiato contro la mia volontà, i littotiali del lavoro, in sè apprezzabili ma inquinati di fascismo fino alla nausea e pertanto un po' snobbati dai partecipanti, furono per me una occasione per vedere un po' di Italia. Il militare di leva lo feci a La Spezia nei primi mesi e poi a Lucca, nel locale Distretto Militare. Ricordo le marce mozzafiato sulle alture del Golfo di La Spezia sotto il sole cocente. Si mirava a conseguire l'affaticamento fisico sino all'esaurimento delle energie del soldato: una pratica cretina di nessuna utilità. Ricordo pure la maledetta boria di un atletico sottotenente, che soleva dire ai soldati come la cosa più naturale di questo mondo «Tra me e voi c'è un abisso», suscitando naturalmente un sordo risentimento nella truppa. A Lucca, un giorno, senza preavviso, ci fu l'appello in cortile. Intanto gli ufficiali perquisivano nelle camerate i nostri zaini e le nostre valigie. Vollero poi guardare nei nostri portafogli e ci chiesero conto delle persone di cui conservavamo gli indirizzi. A me sequestrarono vari libri di Tolstoj e Dostojewski. Vedendo che non me li restituivano e che neppure mi parlavano della cosa, dopo qualche giorno li chiesi facendo osservare che tali libri erano stampati e venduti liberamente in Italia. Me li ridiedero con la raccomandazione e intimazione: «Comunque, stai lontano dai russi più che puoi!». L'anticomunismo di qualche ufficiale giungeva dunque al grottesco. Eravamo nel 36-37 ed evidentemente c'era un po' di «caccia alle streghe», perchè l'intervento in Spagna era antipopolare. Partivano dal nostro magazzino, grandi casse con la scritta O.M.S. La sigla doveva essere un segreto per tutti i non iniziati, ma noi sapevamo che significava «Oltre Mare Spagna». Andai in congedo ma a casa ci 21 stetti poco. 1110 maggio del 1940 ero già richiamato presso il Distretto militare di Reggio Emilia. Il lO giugno l'Italia entrava in guerra. Tra i soldati serpeggiava un antifascismo in sordina. Il lavoro era molto negli uffici, specie alla Mobilitazione ave lavoravo io. Anche qualche ufficiale non era favorevole al regime. Nel nostro ufficio c'era un reparto che si occupava della 79 a legione MVSN. Il comando della Legione effettuava direttamente i richiami alle armi, ma doveva darne comunicazione al Distretto ave esisteva una copia dei fogli matricolari dei militi, nei quali le singole variazioni dovevano essere sempre aggiornate. Il Col. Cibelli dei Carabinieri, nostro capufficio, non si fidava molto di quel che faceva il comando della Milizia ed aveva il sospetto che qualche milite sfuggisse al richiamo. Così, non so per quale ragione, mandò me (che dopo anni di militare ero divenuto sergente) a fare un controllo all'Ufficio matricola della 79 a • Naturalmente questo intervento non fu gradito, e un ufficiale fascista, prima di cominciare il controllo, volle sentire il parere del comandante, il quale era quel tale Seniore Giovanni Fagiani, che dopo 1'8 settembre doveva essere colpito a morte in una delle prime azioni gappiste. Il Seniore, dopo aver sentito la mia richiesta, molto offeso mi domandò se mi rendevo conto di quel che chiedevo. Risposi che me ne rendevo conto, ma che eseguivo l'ordine di un mio superiore. Mi squadrò da capo a piedi con supremo disprezzo per vari secondi e fece segno che potevo procedere. Il controllo non rivelò differenze tra le nostre e le loro posizioni. lo non capivo perchè il Senio re se la fosse presa con me. Con un colpo di telefono poteva mettersi in comunicazione col col. Cibelli, ma non fece niente. Quest'ultimo, sentito come erano andate le cose, sorrise sotto i baffi e fece con la mano un gesto che significava: fregatene! Alla prima incursione aerea su Reggio scendemmo nel rifugio antiareo che stava sotto la Chiesa di S. Pietro, ma si assistette a scene di panico e di disperazione tra i civili, specie donne e bambini, sicchè in seguito, ad ogni allarme aereo, ci portavamo con una rapida marcia in periferia di Reggio, presso il Buco del Signore. Con l'intervento italiano in URSS, presso il Distretto si andavano costituendo in fretta dei «Comandi di Tappa» che via via venivano spediti al seguito delle truppe combattenti. Circolavano tra noi dei libretti contenenti parole e frasi in italiano e in russo ad uso dei soldati dell' AMIR. Vi fu presso di noi anche un sergente di origine russa che doveva far parte di un Comando Tappa. Era evidentemente un russo «bianco», ciò che gli venne rinfacciato da un sergente meridionale simpatizzante dell'URSS. Il russo non se la prese molto, ma non volle entrare in una discussione aperta. Poco tempo dopo i due partirono con un Comando Tappa. Un anno più tardi, con la ritirata dell' ARMIR, i Comandi Tappa tornarono in Italia. Rivedemmo molti nostri compagni. Parlavano con ammirazione dell'URSS e in particolare del popolo russo che fraternizzava con gli italiani, distinguendoli nettamente dai tedeschi. E ci facevano ascoltare alcune canzoni popolari, tra le quali ricordo la famosa «Katiuscia» che poi diverrà, con parole adattate, una canzone partigiana italiana. La guerra contro l'URSS appariva dunque come una cosa sbagliata agli oc- 22 chi dei soldati, e contro questa convinzione, ben poco potevano le conferenze, che col ritmo di circa una volta al mese, venivano tenute dall'«Ufficiale di propaganda» . Nell'estate del 1943, con l'invasione della Sicilia e della Calabria da parte di truppe alleate, affluirono al Distretto alcuni ufficiali e soldati sbandati con le loro armi. Il 26 luglio, in seguito alla caduta di Mussolini, molti di noi furono inviati a presidiare gli uffici pubblici in città contro chissà quale pericolo. A me toccò di comandare un drappello di commilitoni incaricati di tenere sgombro l'ingresso delle carceri di S. Tommaso. La piccola colonna percorse la Via Emilia, cosparsa di vetri infranti e di carta strappata (i ritratti di Mussolini volavano dalle finestre) e ci disponemmo tra piazza Casotti e Via delle Carceri. Vi era una folla tumultuante di cittadini, in maggioranza operai, che chiedeva la liberazione dei prigionieri politici. Dicevano di non avercela con noi, e tuttavia premevano e spingevano cercando di farci arretrare. E noi resistevamo cercando di smorzare con assicurazioni la furia repressa dei manifestanti: «Qualcuno - gridavamo - sta parlamentando con il magistrato responsabile delle carceri, non c'è che da attendere». Un poliziotto in borghese uscì dalla nostra catena e disse la sua, ma forse riconosciuto, ricevette subito una gragnuola di scapaccioni rabbiosi sulla testa pelata e dovette rientrare in fretta. Ad un certo punto, dietro di me, una voce ordinò il «Bajonetta! ». Era un capitano sbucato da chissà dove. Ed io cominciai a tremare per quel che poteva succedere. In mezzo ai manifestanti vi erano miei amici e conoscenti tra cui quel Ferretti Giovanni che lavorava con me da Sezzi e che mi gridò subito di non fare sciocchezze. Certo dalla mia bocca non sarebbe mai venuta la parola: fuoco. Ma chi era quell'ufficiale, mio superiore quindi, che si era arrogato il compito di comandarci? La folla rimase per un momento interdetta, poi si mise a protestare nuovamente che non ce l'aveva con noi. Dieci metri più avanti, su di un carretto, un frate tarchiato con una lunga barba, cercava di farsi ascoltare, ma non ci riusciva, in quell'inferno. Era Padre Placido da Pavullo. Lo seppi più tardi. Finalmente arrivarono, autotrasportati, dei bersaglieri in numero superiore al nostro. E come si misero a fare essi la catena per contenere la folla, io ritirai in fretta i miei fantaccini e me ne rientrai con loro in caserma. Avevo trascorso i momenti più drammatici della mia vita. In quei giorni uscimmo più volte per compiti di ordine pubblico. In tali circostanze ci comandava un tenente reggiano ex squadrista che però si era tolto in fretta dalle maniche il rosso rombo che fino a quel momento aveva portato con orgoglio. Certo egli sarebbe stato volontieri in caserma, ma chi lo mandava fuori, sicuramente con intenzione, era il col. Cibelli. E noi, marciando ai suoi ordini, venivamo apostrofati dai cittadini: «Bell'arnese avete a comandarvi!» «Siete comandati da un bel campione». E l'ufficiale doveva fingersi sordo, ma diveniva di tutti i colori. I pochi soldati o sergenti fascisti, da arroganti quali erano sempre stati, non 23 capacitandosi di quella repentina caduta del fascismo, avevano perso la favella. I pochi antifascisti notori invece, la riacquistavano. C'era un gruppetto che si riuniva nel laboratorio del falegname, una specie di cantina, per discutere tranquillamente e apertamente della situazione. Fui invitato ad andarci, e vi andai più volte. Le previsioni non erano facili in quei primi giorni, ma quando comparvero le divisioni tedesche calate dal Brennero, le nostre perplessità aumentarono. Intanto, tra un argomento e l'altro, si diceva peste e corna del fascismo. Il falegname era un fascista in buona fede, col quale si poteva parlare. lo lo convinsi della vera essenza del movimento, leggendogli alcuni passi della «Dottrina del fascismo». Questi infatti rimase malissimo nel sapere che per lo stesso Mussolini «Il pacifismo è una viltà di fronte al sacrificio» e che solo la guerra (cito a memoria) «porta al massimo di tensione le energie umane». Anche gli altri presenti erano sorpresi di scoprire che la guerra era stata voluta deliberatamente dal fascismo, anche come realizzazione della sua dottrina. Dei 45 giorni, ricordo in modo particolare i tedeschi che sfilavano all'imbrunire in città, lungo la Via Emilia, provenienti da Porta S. Pietro. Erano SS, accampate presso S. Maurizio o Villa Ospizio. Marciavano a ranghi compatti senza la normale divisione tra una riga e l'altra, praticamente ognuno col petto contro la schiena di chi lo precedeva. E così marciando, cantavano tra il silenzio dei passanti certe loro marce talmente ritmate da sembrare latrati. Era una cosa veramente impressionante, quasi disumana, evidentemente inscenata per intimidire gli italiani. Non ricordo più in quale giorno, il nostro colonnello comandante Francesco De Marchi, che era anche comandante del Presidio, dopo i fatti dolorosi delle «Reggiane», temendo forse reazioni popolari, emanò una disposizione in virtù della quale chiunque fosse in possesso di armi, anche di fucili da caccia, era tenuto a versarle al distretto. E questo avveniva proprio mentre aumentava la presenza delle truppe tedesche. Una quantità enorme di fucili da caccia fu sistemata nel nostro magazzino e noi ci chiedevamo, nei nostri conciliaboli se, nella situazione tutt'altro che chiara in cui si viveva, non era meglio lasciare quelle armi in mano ai rispettivi proprietari. Qualche tempo dopo, e precisamente la sera dell'8 settembre, fu diffusa dalla radio la notizia della firma dell'armistizio. L'Italia usciva dunque dalla guerra, ma che avrebbero fatto i tedeschi? E come ci dovevamo comportare in qualità di soldati? Lo sapemmo poche ore dopo. Il primo comune impulso fu quello di difenderci in caso di attacco tedesco. Avevamo come reparto soltanto dei vecchi fucili ed una mitragliatrice malsicura. Tuttavia prendemmo posizione chi sotto i portici del cortile, chi alle finestre dei piani superiori e chi sui tetti. Viceversa chi non era impegnato in questi servizi fu invitato a gettarsi sulle brande in camerata, ma senza spogliarsi. A notte inoltrata fummo svegliati da uno sferragliare di cingoli. Evidentemente i carri armati tedeschi prendevano posizione davanti alle caserme. Sentimmo delle sparatoirie non molto lontano. Intanto suonò l'adunata, o l'allarmi, non ricordo bene. Ci riunimmo in cortile armati dei nostri '91, in attesa di ordini. Dall'Ufficio Maggiorità, il col. Cibelli (comandante interinale perchè il col. De Marchi se ne era andato a Reggio qualche giorno prima) cercava di rendersi conto della situa- 24 zione, telefonando in giro. Verso le due, si presentarono alla porta del distretto due parlamentari tedeschi, che intimarono la resa, dicendosi pronti, in caso di rifiuto, ad impiegare contro di noi i mezzi corazzati. Cibelli accettò la resa e poi venne a parlarci. Disse che varie caserme erano già cadute in mano ai tedeschi, che noi, coi nostri mezzi non potevamo ragionevolmente resistere ad un attacco avversario e che egli, per evitare un inutile spargimento di sangue, aveva accettato la resa. Ci pregava quindi di rimanere calmi e di restare in attesa di ordini. Poco dopo fu aperta la porta carraia attraverso la quale entrò un carro armato «Tigre» coi fari accesi. Ricevemmo l'ordine di disporci in fila indiana e di andare a deporre le armi in un dato punto del cortile. Dopo un rapido conciliabolo, parendoci non dignitoso consegnare le armi efficienti, passammo rapidamente la parola «Gettare nel pozzo l'otturatore»! Infatti, quindici o venti soldati fecero in tempo a levare furtivamente l'otturatore dall'arma e a gettarlo nel pozzo, prima di deporre il fucile nel mucchio che si andava ingrossando a mano a mano che la fila avanzava, illuminata dai fari del carro armato. Provavamo una vergogna bruciante, ma che altro si poteva fare? Finita l'operazione fummo rimandati in camerata a dormire. Nella notte, qualcuno scavalcò un muro in fondo al cortile e disertò prevedendo il peggio. Al mattino, per ogni angolo del cortile stazionavano a gambe larghe delle sentinelle SS con la tuta mimetizzata di verde e con il mitra in pugno, evidentemente per scoraggiare la fuga a chiunque. Il comandante della compagnia distrettuale era il cap. Morselli, un cattolico praticante, di una mitezza incredibile (e per questo ligio al dovere), che certamente non era al suo posto, in quei momenti difficili in cui per salvarsi occorreva iniziativa personale e non obbedienza cieca. Il nostro pensiero comune era quello di trovare la via della fuga. Circolava la voce che presto ci avrebbero messo in congedo provvisorio, ma intanto eravamo nelle mani dei tedeschi e la cosa non garbava a nessuno. Dalle finestre degli uffici che davano sull'allora mercato bestiame e dalle cantine con finestroni che guardavano nella stessa direzione, i soldati trovavano mille modi per squagliarsi alla spicciolata. Il Cap. Geminiano Morselli, certo a richiesta dei tedeschi, ogni ora faceva l'appello e ogni volta si constatava la mancanza di cinque o dieci soldati. Al suo fianco un maresciallo tedesco seguiva muto le operazioni ed è forse per volontà di questi che il capitano indicò i punti delle cantine di dove i soldati potevano fuggire: le sentinelle tedesche armate furono pertanto messe all'ingresso delle cantine. Ronde tedesche in servizio alla stazione, accompagnavano al Distretto tutti i soldati italiani che scendevano dai treni e quelli che potevano rastrellare per ìe strade di Reggio: nella mattinata, in un angolo del cortile, circa 100 persone catturate stavano in attesa di conoscere la loro sorte. Nel primo pomeriggio vennero portati da noi anche molti bersaglieri che, se ben ricordo, erano quelli del deposito allora situato nella caserma di via dell'Ospedale. Il cortile era pieno di soldati, ma i distrettuali erano pochi. Comunque la situazione si faceva difficile. Non si poteva fuggire dal basso e poi coloro che ancora rimanevano erano sprovvisti di abiti civili, come me del resto. I tede- 25 schi erano padroni assoluti ed a loro vennero consegnate le chiavi dei magazzini contenenti oggetti di equipaggiamento, armi, ed anche le armi da caccia che poco prima erano state ritirate ai civili. Se non era possibile fuggire dal basso - pensai - bisogna farlo dall'alto. Nel tardo pomeriggio, accompagnato da un commilitone, entrai in una soffitta di cui possedevo la chiave perchè vi avevo radunato i miei studi di scultura in quegli anni (1940-1943), salimmo sui tetti e, quasi strisciando ventre a terra per non farci scorgere dal basso, raggiungemmo una apertura della torre di S. Pietro e ci infilammo per quel passaggio, cominciando a scendere. Nostro intento era quello di raggiungere la chiesa e di lì uscire all'aperto per una porta secondaria, dopo aver trovato qualcosa da infilarci addosso. Ma bisognava fare presto perchè i tedeschi avevano istituito il coprifuoco per le ore venti. Giunti alla metà della torre, trovammo una porta sbarrata. Spingemmo e bussammo invano per molto tempo, e finalmente riuscimmo a forzarla. Giunti al piano terreno, un'altra porta massiccia ci impediva di penetrare in chiesa. E qui ci facemmo sentire con grida di richiamo e con colpi contro la porta, che rimbombavano sinistramente. Finalmente giunsero Don Pasi, l'anziano parroco, spaventato e il campanaro. Attraverso la porta che nessuno dei due si decideva ad aprire, intavolammo un colloquio spiegando la situazione dei soldati, ormai prigionieri dei tedeschi, e chiedendo il loro aiuto per farli fuggire. Ma il parroco non intendeva essere coinvolto in questa operazione. Dopo molto insistere ci aprì. Pregammo allora il campanaro di recarsi dal fornaio Manghi, nostro commilitone già evaso, abitante in via Samarotto, proprio di fianco alla chiesa, per chiedere qualche vecchio capo di vestiario. Ma questi obiettò che doveva suonare il vespro. Poi anche questa resistenza fu vinta ed avemmo i vestiti. lo indossai, ricordo, una maglietta e un paio di pantaloni alla zuava. Quando uscimmo il coprifuoco stava per avere inizio. Ci portammo verso Viale Timavo con l'intento di pernottare da Sezzi, ma l'attraversamento della città richiese un po' di tempo perchè dovevamo evitare le pattuglie; e noi portavamo scarponi chiodati che rendevano assai rumorosi i nostri passi, tanto che, dalle finestre, udivamo i civili sussurrare: «quelli sono due soldati che scappano». Registrammo anche qualche sorriso compiaciuto. Sezzi ci accolse volentieri. Dormimmo in qualche modo, quindi, il mattino seguente, dalla stazione di S. Croce, prendemmo il treno. Il mio amico si portò a Correggio ed io a Guastalla. Seppi poi che attraverso il passaggio da noi inaugurato poterono fuggire nella notte moltissimi distrettuali; che si era creata spontaneamente tutta una organizzazione di assistenza tra i cittadini pronti ad aiutare i soldati a fuggire fornendo loro abiti di ogni sorta, e che le divise divenute inutili si ammassavano nel sotterraneo della chiesa. Seppi anche che di circa 200 distrettuali, soltanto tre, cattolici praticanti, rimasero nelle mani dei tedeschi e furono deportati. Il più intelligente dei tre, nonostante le nostre esortazioni, si era rifiutato di fuggire dicendo che se Dio aveva predisposto le cose in modo che egli fosse deportato, lui accettava questa volontà senza ribellarsi. Gli altri due lo seguirono. Sopravvissero tutti e tre. 26 Furono deportati anche parecchi ufficiali, tra cui il cap. Morselli, che putroppo non tornò. Anche lui poteva fuggire, ma non lo fece. Pure a Guastalla circolava qualche carro armato tedesco in quei giorni. Assistetti ad una scena significativa. In Via Gonzaga, abbastanza frequentata, un mattino un tedesco in motocicletta si fermò e fece cenno ad un civile di avvicinarsi. Quando questi gli fu vicino, il tedesco tentò di levargli l'orologio da polso. Questi protestò piuttosto vivacemente, sicchè cominciò ad accorrere gente. A questo punto il tedesco rinunciò alla piccola rapina, e se ne fuggì sulla sua moto. Era chiaro che costui si sentiva il padrone di casa (e lo era) al punto da considerarsi in diritto di impadronirsi impunentemente degli averi di chi viveva in terra di conquista. Quante centinaia e migliaia di suoi compagni si comportarono allo stesso modo in territorio italiano, e con maggior successo, nel corso della occupazione? A Guastalla non facevo niente. Per di più ero conosciuto e più soggetto ad essere sorvegliato ed arrestato. Appartenevo già alla schiera di coloro che non avevano risposto ai primi appelli tedeschi, miranti a rastrellare tutti i soldati che erano in servizio 1'8 settembre. Tornai a Reggio, ove mi misi a lavorare da Sezzi ed a frequentare come un tempo la scuola d'arte Gaetano Chierici. Il nostro insegnante era il pittore Destri. (Episodio della Caserma Zucchi) [Ma l'A. non ha fatto in tempo ad inserirlo, NdR] Non avevo le tessere degli alimenti razionati, perchè non intendevo regolarizzare la mia posizione presso il Municipio di Guastalla. Per qualche mese mangiai grazie all'aiuto di Sezzi che conosceva molti contadini e poteva trovare di che nutrirmi. Facevo qualche scappata a casa, ma subito tornavo a Reggio. In sostanza ero uno sbandato e lo diventai del tutto quando, dopo il bombardamento del 7-8 gennaio 1944, dormivo in una casa abbandonata e pericolante, concessami in uso da persona amica, situata nei pressi della stazione. La sera, prima di dormire, leggevo i giornali pieni di comunicati minacciosi, e la luce, nonostante le liste di carta nera incollate ai vetri, un poco trapelava all'esterno, e in quel periodo c'era molta severià nel far rispettare le regole dell'oscuramento. Una sera, verso le lO, sentii dei passi sulla ghiaia del giardino. Trattavasi di una pattuglia tedesca. Spensi la luce, ma i passi continuarono attorno alla casa. Ad un certo momento bussarono alla porta. Naturalmente mi guardai bene dall'aprire. Bussarono per parecchio tempo, ma io non mi feci vivo. La porta era robusta e resisteva. Ero solo in casa e la villetta era circondata da case lesionate dai bombardamenti ed abbandonata. Non c'era nessuno a cui rivolgersi. Se costoro riuscivano ad entrare in casa, potevo considerarmi un deportato in Germania, poichè ero in una posizione irregolare. Finalmente se ne andarono, ma l'episodio, data la forte tensione subita, mi provocò dei disturbi di neurosi cardiaca. Ne approfittai per farmi fare da un medico un documento contenente la relativa diagnosi, da esibire nel caso che mi trovassi nella necessità di dimostrare 27 la mia inidoneità al lavoro obbligatorio in Germania. Devo aggiungere che in quella occasione, il medico si sentì in dovere di dirmi che in Germania si veniva trattati bene, che potevo andarci tranquillamente e che non condivideva la mia ostilità. La mia posizione si andava facendo più difficile. Una domenica pomeriggio mentre ero da Sezzi (uscivo il meno possibile), vidi fermarsi di fronte allaboratorio una macchina da cui sbucarono tedeschi armati che circondarono, con un fare tipico da azione di guerra, l'isolato comprendente il vicino caffè Spaggiari e il nostro laboratorio. Mi rifugiai in un solaio pensando che intendessero perquisire anche la casa. L'obiettivo dei tedeschi, era invece il caffè Spaggiari. Fecero una retata di tutti coloro che vi si trovavano in quel momento. Li portarono al campo Tocci e vagliarono le loro posizioni. Dopo di che li rilasciarono. Simili operazioni le facevano anche per la via e nei cinema. A questo rischio si aggiunse, da parte di Sezzi, la difficoltà di trovare i viveri al mercato nero per me, ed anche la disposizione tedesca che minacciava determinate pene per quanti aiutavano i soldati sbandati. Il mio benefattore si dimostrò molto preoccupato dell'andamento delle cose. Per parte mia non intendevo essere la causa di eventuali disgrazie sue. Sicchè mi decisi a regolarizzare la mia posizione presso il Municipio di Guastalla, per poter godere delle tessere dei viveri, che erano razionati. Come era da prevedersi, dopo circa quindici giorni mi venne recapitata la cartolina di richiamo alle armi. Eravamo a fine febbraio 44, se ben ricordo. Mi misi in contatto con Giovanni Ferretti, impegnato sin da allora nell'organizzazione partigiana, per sentire da lui se c'era modo di sottrarmi alla chiamata. Ero destinato a Guastalla, in una unità chiamata 130° Battaglione genio lavoratori. Il suo consiglio fu quello di presentarmi per essere equipaggiato ed armato ed anche per fornire eventuali informazioni. Rimanemmo intesi però che quando il battaglione fosse stato trasferito ad Anzio, come si prevedeva, dopo il periodo di addestramento, io avrei disertato e mi sarei messo a sua disposizione. A sua volta egli mi avrebbe fatto inviare in montagna, tra i parti. giani. Ricominciai così la vita del militare, ma in una condizione del tutto anormale. Sarei rimasto a Guastalla una ventina di giorni. Il battaglione era comandato, mi par di ricordare, da un certo Cap. Roberti di Montecchio, il suo compito era quello di addestrare gli uomini a scavare postazioni per fucilieri, piazzuole per armi di vario tipo. In sostanza, lo comprendemmo subito, eravamo destinati ad Anzio per fare da operai sterratori alle dipendenze dei tedeschi, naturalmente col rischio di perdere la vita sotto i bombardamenti delle artiglierie degli aerei alleati. Questa condizione non piaceva a nessuno, tanto più che eravamo disarmati, solo gli ufficiali portavano la pistola. Tre fucili venivano dati in mano alla ronda, ma senza munizioni. Insomma eravamo della mano d'opera precettata e militarizzata. Non tardai a notare il diffuso spirito di ribellione che serpeggiava anche apertamente tra le reclute, come pure la tendenza diffusa alla diserzione. Eravamo soggetti alle disposizioni della Repubblica sociale in materia militare. 28 In quel momento si doveva dichiarare disertore colui che mancava all'appello per tre giorni, e per i disertori c'era la pena di morte. Gli ufficiali ce lo ricordavano continuamente, ma i giovani non se ne preoccupavano. I «disertori» erano all'ordine del giorno, ma non si arrivò mai ad applicare il provvedimento estremo, forse perchè in tal caso si doveva fucilare troppa gente e questo era controproducente dal punto di vista politico. La difficoltà di mobilitare i giovani in quei mesi era dimostrata dal fatto che, il nostro, era il terzo battaglione lavoratori che veniva costituito e che gli altri due, al momento del trasferimento ad Anzio, si erano come volatilizzati. Anche tra i sergenti, che dovevano coadiuvare gli ufficiali per dare un solido inquadramento al battaglione, nelle conversazioni si discuteva quasi sempre per escogitare la via migliore di disertare al momento opportuno, [e di] quel che ciascuno avrebbe fatto dopo. Per rimanere a quelli della mia compagnia, ve n'era uno di Casina che riportava con entusiasmo le notizie sulla comparsa frequente dei partigiani, in questo o quel punto della montagna; uno che aveva in progetto di rimanere nascosto dopo la diserzione e almeno 4, me compreso, che erano decisi ad arruolarsi nelle formazioni partigiane. Tra gli ufficiali ve n'era uno sicuramente fascistissimo, il sotto tenente Perraymond, e lo manifestava continuamente. Gli altri non si sbottonavano badando soltanto al mantenimento della disciplina ed alla istruzione. Tenevamo le orecchie aperte per cercare di capire in anticipo quando il battaglione sarebbe partito, ma su questo fatto nulla si sapeva. Nemmeno gli ufficiali ne erano informati. Quasi ogni mattina ci recavamo sulla riva del Po. Qui si facevano nel terreno buche di diversi tipi, oppure si marciava avanti e indietro fino all'intontimento, o si ascoltavano i discorsi a base di barzellette sconce del tenente fascista. I soldati solitamente ridevano a quelle oscenità mentre io mi arrabbiavo. Vedevo in ciò un tentativo di far divertire quei giovani con mezzi ignobili per guadagnarli alla sua causa. Pertanto davo in giro gomitate ed invitavo sottovoce a non ridere. Un giorno, vestiti ed equipaggiati di tutto punto, ci riunirono nel campo sportivo. Qui sfilammo di fronte ad un generale e ad alcuni ufficiali tedeschi. Il generale ci passò poi in rivista e faceva a cenni, rivolto ai nostri ufficiali, le sue osservazioni sui fatti che andava rilevando con molta pignoleria: quello aveva una fascia allentata, quell'altro una stringa slacciata, ecc. Infine ci fece un discorso. Le sue brevi frasi, puntualmente tradotte da un piccolo ed occhialuto interprete in un italiano storpiato, avevano all'incirca questo significato: «Mi compiaccio per l'ottimo grado di addestramento che avete raggiunto. Questo fa onore al nuovo esercito italiano. Il traditore Badoglio sarà sconfitto anche in virtù della opera che voi presterete lottando a fianco del grande Reieh!». Ero nauseato. Il generale, come un diligente fattore, passava in rivista il bestiame prima di inviarlo al macello e intanto lo blandiva, sia pur maldestramente. La mia decisione di andarmene mi parve, proprio per questo, tanto più giusta e morale. E i soldati? Cosa sentivano? Il loro spirito di ribellione si manifestava sem- 29 pre soprattutto con le assenze arbitrarie e le diserzioni. A Guastalla, come altrove, erano state costituite le «Fiamme bianche», un corpo di fascisti giovanissimi, fanatizzati, armati di moschetto, che spesso sfilavano per la via principale. Un giorno si sparse la voce che alcuni di essi avevano schiaffeggiato un vecchio perchè al passaggio del loro labaro, non si era levato il cappello. Questi ragazzi in camicia nera, proprio lo stesso giorno, sfilarono davanti alla nostra caserma. Senza che alcuno desse il segnale, spontaneamente i soldati si ammassarono alle finestre fischiando, insultando e prendendo a pagnottate quei giovani sciagurati. Costoro, interdetti, guardarono in alto non comprendendo tanta e tale ostilità. Ma qualcuno di loro si azzardò a puntare il fucile verso le finestre. Si scatenò il finimondo, le grida, i fischi ed il lancio di oggetti vari raddoppiarono di intensità. L'Ufficiale di picchetto fece loro segno di andarsene alla svelta, cosa che fecero senza por tempo in mezzo. Il tumulto finì, ma rimase in tutti la soddisfazione di aver dato una lezione a quei palloncini gonfiati. Il fatto, strano a dirsi, provocò qualche protesta verbale da parte dei fascisti, ma niente di più. Trovai poi, nel dopoguerra, una relazione della G.N.R. su quel fatto specifico. Un giorno di fine marzo, nel tardo pomeriggio, un ufficiale fece disporre in cerchio i soldati e pretese di far cantare a loro la fascistissima canzone «Battaglioni M». Varie volte egli accennò al motivo per dare inizio al canto, ma non veniva seguito da nessuno. Poco distante, un maresciallo tedesco che aveva l'incarico di seguire la vita del battaglione, assisteva impassibile. L'ufficiale allora cominciò ad interrogare uno per uno tutti i soldati, chiedendo loro il perchè non volevano cantare. Le risposte erano le più svariate. In genere i giovani asserivano di non sapere le parole, di non conoscere il motivo, ecc ... L'ufficiale, dopo quella consultazione, fatta con un evidente scopo intimidatorio, disse che se i soldati non cantavano, non sarebbero andati in libera uscita. Ma ad un nuovo cenno al motivo da parte sua, la scena muta si ripetè. Che fare, di fronte ad una disubbidienza collettiva di tal fatta? L'Ufficiale non trovò di meglio che far correre in cerchio i soldati per tempo lunghissimo, anzichè mandarli in libera uscita. Un mattino, senza nessun preavviso per non provocare diserzioni, i soldati furono fatti scendere in cortile ed inquadrati per partecipare alla cerimonia del giuramento. Nel poco tempo che la preparazione ci consentiva, noi sergenti della compagnia ci consultammo in fretta. Lo sgomento, la repulsione, la preoccupazione, erano comuni. Nessuno avrebbe giurato se fosse stato libero di scegliere. D'altra parte nessuno si sentiva di fare il gesto eroico, ma inutile, di rifiutarsi di giurare. Avevamo assistito ad uno scambio di parole tra un soldato e un ufficiale. Il soldato, con aria sorniona, chiese cosa sarebbe accaduto se non avesse giurato. L'ufficiale rispose che probabilmente sarebbe stato deportato in Germania, e ricordò che il battaglione che era stato organizzato prima del nostro, era stato costretto a giurare sotto la minaccia di una mitragliatrice tedesca puntata. Anche quel mattino era presente qualche tedesco assieme agli ufficiali. La decisione fu presa rapidamente. Nella nostra coscienza eravamo contrari al giuramento, che per noi comunque, proprio perchè ci veniva imposto, non sa- 30 rebbe stato impegnativo. Per questa ragione, ed anche perchè era evidente che si avvicinava la partenza del battaglione, avremmo disertato in esecuzione di un piano che avremmo elaborato immediatamente. I soldati giurarono collettivamente, ma da noi sergenti si pretese il bacio della bandiera (infine era quella italiana) e la firma in calce alla formula scritta, e questa fu per noi una inattesa e sgraditissima umiliazione. Eravamo furenti. lo dovevo montare di guardia proprio quella sera, come capoposto. Ne approfittai per studiare come si poteva uscire nottetempo dalla caserma. Mi accorsi che il catenaccio della porta carraia era fermato con un lucchetto che si poteva aprire senza bisogno di chiave. Era quella una circostanza insperata. Durante la giornata carpii qualche frase di una conversazione tra un gruppo di ufficiali. Ne trassi la certezza che anche tra loro non vi era molto entusiasmo. La sera in camerata, tutto fu calcolato nei minimi particolari: saremmo fuggiti la notte stessa in sette, provocando, era prevedibile, un certo sconquasso, all'interno del battaglione. Rispondemmo all'appello serale. Poi, alle quattro del mattino, scendemmo silenziosamente in cortile. Quale non fu la nostra sorpresa nel constatare che proprio in quelle poche ore il lucchetto era stato cambiato! Avvicinammo allora una sentinella che vigilava nel cortile, gli dicemmo della nostra intenzione di disertare scavalcando il muro, naturalmente contando sulla sua solidarietà. Avrebbe sempre potuto dire di non aver visto niente. Ma il giovane temeva troppo di essere coinvolto in una inchiesta e di dover passare dei guai. Non rimaneva che la sentinella del portone principale, che per fortuna accettò volentieri di aiutarci. Mentre ci levavamo le scarpe aprì in silenzio il portoncino. Poi, senza cessare la sua camminata avanti e indietro per l'androne, passando ogni volta davanti al corpo di guardia ove dormiva l'ufficiale di picchetto, ad uno ad uno ci accompagnò fuori. I miei colleghi presero la via dei campi. lo andai a casa, ove mi preparai per partire col primo treno. Feci scomparire la divisa, presi con me una valigetta con poche cose e mi portai alla stazione, con l'intesa che a casa, qualora mi avessero cercato, avrebbero detto di avermi visto la sera precedente e di non saper niente di una mia diserzione. Alla stazione incontrai Marmiroli Camillo, uno dei sergenti. Sorridemmo alla ronda, ignara dei nostri propositi, e partimmo. Seppi poi che verso le dieci un ufficiale mi cercò a casa mia. Seppi anche che parlando al battaglione riunito, un ufficiale disse: «Li ritroveremo quei traditori, e sarete proprio voi a fucilarli». Anzichè portarci alla stazione centrale di Reggio, scendemmo a S. Croce. Dalla ressa che c'era al cancello di uscita, ci accorgemmo che alcuni fascisti della G.N.R. stavano controllando bagagli e documenti dei viaggiatori. Girammo pertanto attorno all'edificio uscendo dal cancello riservato ai carri delle merci. Marmiroli si portò a Pieve Modolena; io andai in Vicolo Venezia, nello studio dello scultore Ferruccio Orlandini, ove sapevo che avrei trovato Giovanni Ferretti: Gli raccontai tutto e gli chiesi i collegamenti per andare in montagna tra i partigiani. Mi disse che era ancora presto, che c'erano ancora pochi elementi, che era meglio attendere un po' . Ma io non potevo ritornare indietro e d'altro canto non avevo parenti in campagna presso i quali nascondermi. 31 Convenimmo che era il momento di accettare la proposta di Pierino Rovacchi, cognato di Sezzi, che abitava a Barco. Questi, quando fui richiamato, mi aveva detto che se avessi deciso di disertare avrei potuto rifugiarmi a casa sua per qualche tempo. Lo stesso giorno mi portai a Barco e Rovacchi mi accolse bene, come mi aveva promesso. Per tutti, compresi i suoi famigliari, io ero un marmi sta suo amico venuto a dargli una mano nello sbrigare una parte del lavoro funerario che gli era stato ordinato. Difatti, feci non so quante lapidi. In compenso avevo vitto e alloggio. Una domenica pomeriggio capitò a Barco Sezzi, che appena mi vide disse imprudentemente di fronte ad altri: «Veh! Chi si vede. Mi hanno detto che sei fuggito da Guastalla dove eri soldato! ». Saltava così il segreto mio e di Pierino, i cui famigliari nei giorni seguenti, si dimostrarono molto preoccupati nello scoprirsi protettori di un disertore e nel doverne affrontare le spiacevoli conseguenze nel caso che i fascisti lo avessero saputo. Mandai Rovacchi ad informare Ferretti. Questi venne a Barco e si dimostrò ancora indeciso sul da farsi. Mi disse che i partigiani avevano appena affrontato un combattimento (quello di Cerrò Sologno) e si erano sbandati. Inoltre, essendomi amico, e conoscendo bene il mio carattere, pensava che mi sarei trovato male nel condurre la vita tribolata e rischiosa del partigiano, alla quale, secondo lui, non ero molto tagliato. Meglio che fossi andato più tardi quando ci fosse stata una ripresa dell'organizzazione. Ma io, ancora una volta, non potevo tornare indietro col pericolo di farmi fucilare e non potevo più rimanere a Barco per la situazione che si era venuta a creare nella famiglia Rovacchi. Obiettai che dovevo andare subito e che avrei cercato comunque di realizzare il mio progetto. Mi consigliò, nel caso fossi riuscito, di dire a chiunque che io venivo inviato in montagna dal C.L.N., e, in caso di necessità, di citare il suo nome. Ci informò che una spedizione di reclute si sarebbe effettuata in una certa data e che io avrei potuto unirmi alla colonna. Rovacchi si recò a S. Polo da un suo cugino che sapeva impegnato nel reclutamento dei partigiani, un imbianchino di nome Caio. L'intesa era che io e Marmiroli dovevamo trovar ci alla stazione di San Polo nel tardo pomeriggio del 14 aprile. Qui avremmo incontrato un ragazzo con un fiore all'occhiello, che si sarebbe occupato di noi. Tutto andò liscio. Incontrai Marmiroli sul treno che fermava a Barco, proseguimmo fino a S. Polo, incontrammo il ragazzo col fiore all'occhiello e costui ci pilotò al Caffè Stella. Qui, al calar della sera venne Caio, il quale si incamminò verso la collina, raccomandando che noi lo seguissimo ad una distanza di circa 100 metri per non destare sospetti; poi, cammin facendo, col sopravvenire dell'oscurità proseguì con noi. Fece sosta in diversi punti del tragitto, ed ogni volta uno o due giovani si univano al nostro gruppo. Ad un certo punto ci furono consegnati dei caricatori per moschetti. Anche due russi, sbucati da un casolare avvolto nelle tenebre, si unirono a noi per un buon tratto di strada poi tornarono indietro. Li avremmo rivisti dopo due settimane, sui monti. Ci fermammo in una radura dopo la lunga camminata. Eravamo in vista di Grassano. Bisognava aspettare non so che cosa, e intanto Caio ci fece un sermoncino. Lui ci aveva accompagnati, ma dovevamo dimenticarci di lui e del suo nome per non comprometterlo; per parte 32 nostra sarebbe stata buona norma d'ora in poi essere senza documenti perchè in caso di cattura avrebbero subito scoperto la nostra identità e potuto perseguitare la nostra famiglia. Se fossimo caduti in mano al nemico, non dovevamo rivelare nulla della organizzazione partigiana. Finalmente Caio ci consegnò a,d un giovanotto in divisa da sergente dell'aeronautica e costui ci guidò a Grassano, ove, in un fienile, prendemmo contatto con le reclute che ivi sostavano: una trentina di giovani sdraiati ovunque alla meglio. C'era chi mangiava del prosciutto. Ricordo un giovane sciancato che, con aria soddisfatta raccontava come alcuni prosciutti fossero stati prelevati la sera prima, da lui e da alcuni suoi amici armati di una pistola di legno, dalla casa di un fascista. Oltre ai prosciutti v'erano nel fienile numerosi e pesantissimi involti. Contenevano munizioni per una mitragliatrice francese che avremmo trovato a Rovolo. Dopo qualche ora, partimmo in colonna e raggiungemmo «Casa Roma», una casa colonica che diverrà poi una delle più famose basi partigiane. Il contadino che vi abitava, Giuseppe Fontanili, sarà barbaramente ucciso dai tedeschi e gettato tra le fiamme della casa, alla fine di agosto del 1944. Quando vi arrivammo noi, se non erro, era la prima volta che Fontanili ospitava una colonna così numerosa. Non vi era nulla di preparato. Ricordo che Walter Tarasconi, che ci guidava, prese col contadino gli accordi per predisporre una infornata di pane. Ci sistemammo alla meglio su della paglia per il resto della notte. Svegliando mi notai con grande stupore che avevo dormito vicino a Franco Cigarini, un ragazzo che ben conoscevo perchè avevamo lavorato assieme come marmisti da Sezzi. Rimanemmo tutto il giorno tappati in casa per non farci avvistare. Anche i componenti della famiglia contadina, per sicurezza nostra, non potevano uscire. Poi cadde la nebbia ed io uscii per fare qualche schizzo degli animali e degli attrezzi agricoli che si trovavano nei pressi. Da tempo, pensando di salire in montagna, mi ero proposto di documentare la vita partigiana con disegni. Ma non riuscii a realizzare questo mio proposito per le ragioni che dirò più innanzi. Mentre disegnavo mi si avvicinò un partigiano, uno «anziano» che aveva partecipato alla battaglia di Cerrè Sologno e che ne aveva narrato i particolari a noi reclute. Osservò quello che stavo disegnando e mi chiese perchè lo facevo. Glielo dissi ed egli rimase piuttosto freddo. Poco dopo, all'interno, notai che uno degli «anziani» che ci scortavano, possedeva un fucile tedesco. Gli chiesi di esaminarlo ed egli me lo allungò. Ero curioso di conoscere questa arma di cui mi interessava particolarmente il meccanismo di caricamento e sparo. Mentre la osservavo attentamente, vidi che altri osservavano me. Mi sentii un poco a disagio e restituii il fucile. Walter Tarasconi, ad un certo momento, mi chiese come avevo trovato il modo di salire in montagna. Glielo dissi, tenendo presenti le raccomandazioni di Giovanni Ferretti. Parve accontentarsi, ma obiettò che ero vestito in modo poco adeguato. «Ad pèr al can d'un sgnòn> (sembri il cane di un signore). E gli altri risero. Per la verità ero vestito comunemente e non equipaggiato da montagna. Indossavo un impermeabile ed un cappello come fossi in città. Ma nella mia fuga da Guastalla non avevo trovato di meglio. 33 Queste attenzioni verso di me, mi apparvero normali. Ferretti mi aveva detto che la «via di S. Polo», di cui mi ero servito per arruolarmi, non era molto apprezzata perchè i locali non mostravano molta prudenza cospirativa. Era giunto a Casa Roma, con funzioni ispettive (ma lo seppi dopo la liberazione da lui stesso) il partigiano Emore Silingardi il quale, parlando con Walter accennò al caso mio e di Camillo. Essendo due sergenti dell'esercito, era possibile che la nostra venuta in montagna avesse degli scopi informativi. In altre parole, potevamo essere due spie. Il fatto che io mi interessassi a quell'arma tedesca non fece su di lui buona impressione. Pertanto disse a Walter che dovevamo essere tenuti d'occhio e che, in caso di necessità, si poteva disporre per la nostra fucilazione. lo naturalmente non sapevo nulla di tutto questo. Solo un mese dopo Walter mi disse all'incirca: «Abbiamo saputo che sei un bravo ragazzo, che sei venuto in montagna veramente per fare il partigiano. Tutto è a posto». E mi battè due pacche amichevoli sulla spalla. La rivelazione mi lasciò perplesso, perchè non sapevo che sino a quel momento era stata dedicata a me e Camillo una particolare attenzione. Il nostro caso spiega molte cose. Innanzi tutto, almeno nei primi momenti, l'arruolamento avveniva con molta oculatezza. Nello studio dello scultore Orlandini, mi era stato detto che poteva essere partigiano chiunque, indipendentemente dalla sua posizione politica, fosse disposto a combattere contro i tedeschi e i fascisti. Nei fatti, però, la rete cospirativa comunista usava molta prudenza (forse eccessiva) nel timore di arruolare persone pericolose per il movimento. Ma torniamo a Casa Roma. Su quelle giornate iniziali, i miei ricordi sono nitidi. Ero molto attento ad ogni cosa perchè intendevo capire l'ambiente e perchè il passaggio alla mia nuova condizione era stato molto meditato. Sapevo di essere 'un mite e un timido, un prudente, senza esperienze di guerra benchè avessi sulle spalle vari anni di servizio militare. Non ero certo tagliato per la vita avventurosa e travagliata del partigiano e, se mi ero deciso al gran passo, era perchè motivi di coscienza me lo imponevano. La scelta collimava con le mie idee di simpatizzante comunista e speravo che mi sarei presto adeguato a quella nuova esistenza, poichè ero volonteroso, abbastanza in forma fisicamente (la neurosi cardiaca soltanto mi dava qualche pensiero) e perchè comunque fossero andate le cose, ero sicuro di aver scelto la strada giusta. Durante la giornata, riuniti in una unica stanza, assistemmo ad una conferenza. Parlava un uomo della mia età, che indossava un pastrano tedesco. Era (lo seppi a fine guerra) il partigiano «Gim», James Catellani, che doveva tornare subito in pianura e che morì dopo la liberazione per una malattia contratta nel periodo del partigianato. La sua figura mi rimase impressa. Con molta sicurezza, ma senzajattanza, conservando in viso un'espressione serena anche nei punti più «caldi» del suo dire, parlava delle guerre, quasi sempre determinate da conflitti economici che scoppiavano specie nell'ambito del mondo capitalista, citando esempi pratici e fatti storici. Parlava in chiave marxista e fu molto chiaro e convincente. Ne riportai una impressione molto positiva. Pensavo che conferenze come quella si sarebbero ripetute e che mi avrebbero aiutato a capire molte cose. E 34 invece non ve ne furono altre, purtroppo. In un altro momento, fummo invitati a mettere in comune tutte le sigarette. Si sarebbe poi provveduto a distribuirle, una per volta, a tutti, non ricordo quante volte al giorno. Questo egualitarismo mi andava a genio e lasciava prevedere una vita comune basata su sani principi di giustizia. lo non fumavo, ma nella prima distribuzione, pregato da Camillo, presi la mia sigaretta e gliela passai. Mi fu fatto osservare che se io non fumavo non dovevo ritirare le sigarette perchè avrei inutilmente intaccato la scorta ed avrei permesso al mio amico di avere, ingiustamente, una doppia razione. Avevo compiuto un passo falso e lo riconobbi volentieri. Sempre nel corso di quella giornata, si venne a sapere che una delle reclute aveva conservato nel suo zaino una scorta personale di sigarette. Si provvide pertanto a recuperarla. L'interessato, indirettamente accusato di egoismo, arrossì sino alle orecchie (Diverrà poi un bravissimo partigiano). Poi, di sera, si parte in fila indiana, preceduti dalla pattuglia di «anziani» armati. Il buio è quasi totale e stentiamo a vedere dove mettiamo i piedi. Seguiamo una strada, stando sul bordo erboso per non far troppo rumore con le scarpe. Ogni tanto si passa la voce dalla testa alla coda della colonna: «proibito fumare», «fare silenzio», «alt», «a terra». Non sappiamo niente di,quello che succede, ma ci fidiamo di Walter e della pattuglia. Ancora non è notte fonda e incontriamo qualche raro passante per la strada. A volte ci nascondiamo per non farci scorgere, altre volte si fermano persone isolate che non facciamo in tempo a evitare, interrogandole, guardando i loro documenti, intimando loro di fare silenzio sul nostro incontro. Ricordo tra gli altri, un vecchio dapprima spaventatissimo temendo di aver a che fare con banditi, poi tutto euforico apprendendo che eravamo partigiani. Tende le mani in alto, ci chiama fratelli con voce commossa, si dice contento che l'ora tanto attesa è giunta. Mentre ce ne andiamo, sentiamo ancora dalla sua voce tremula il nome di Camillo Prampolini. Ora non seguiamo più la strada, ma scorciatoie attraverso i campi e sentieri appena segnati. Ci conduce una guida del posto che conosce il percorso. Dopo qualche ora, una seconda guida ci prende in consegna e si procede, ora più faticosamente per il terreno accidentato con frequenti dislivelli. Siamo stanchi, dovendo sobbarcarci anche il peso delle munizioni. La grossa valigia dei medicinali rappresenta un grosso impedimento. La si porta in due, con un bastone infilato nella maniglia, ma il terreno viscido e pieno di difficoltà rende faticoso il trasporto. Frequenti sono gli scivoloni e le . cadute con conseguenti rumori e bestemmie, puntualmente azzittiti. Il nostro trasferimento deve passare inosservato il più possibile. Sul far dell'alba facciamo sosta in una grossa casa di contadini. Ci sistemiamo in un ampio granaio ove, dormicchiando, passiamo tutta la giornata. Ricordo con un certo stupore che un partigiano mostrava in giro delle fote di piccole dimensioni. Trattavasi di un gruppo di persone tra cui un sacerdote «Vedete - diceva - questo è Don Pasquino Borghi, il nostro prete, fucilato dai fascisti». Penso che le foto (divenute poi molto note nel dopo guerra) fossero di Olimpio Mercati, che era nella nostra colonna e la cui immagine appare nelle foto assieme a quella del sacerdote. All'imbrunire, mentre ci prepariamo alla nuova partenza, Walter ci comunica che dobbiamo tornare indie- 35 tro. Il suo sermoncino suona all'incirca così: «La guerra sta per finire, le truppe alleate avanzano, è inutile ormai andare in montagna. Dobbiamo essere contenti di aver fatto il nostro dovere, ma ora è tardi per fare i partigiani. Torniamo dunque alle nostre case, contenti che sia andata così». Non avevamo nessun motivo di dubitare che il nostro capo non conoscesse la situazione. Ci incamminammo dunque sulla via del ritorno e dopo aver marciato tutta la notte, ci ritrovammo nei pressi della «Casa Roma». Mi pare di ricordare che fosse domenica e che non potessimo alloggiare entro quell'edificio forse perchè il contadino avrebbe avuto delle visite. Sta il fatto che, dietro sua indicazione, ci sistemammo entro una vicina casa in costruzione. La strada passava vicina e noi, come al solito, dovevamo fare silenzio. Nel pomeriggio, si ebbe la visita del proprietario e del capomastro che, stando per fortuna ad una certa distanza, discussero a lungo mentre osservavano la costruzione che stava sorgendo, non sospettando minimamente che essa, in quel momento, ospitasse circa 40 giovani partigiani. Alla sera potemmo tornare alla Casa Roma e rimanervi per la notte e per il giorno seguente. Non si parlava più di tornare a casa, della fine della guerra, ecc. Si diceva invece che bisognava nuovamente partire alla volta della montagna. Si venne così a sapere la verità. Eravamo tornati indietro perchè gli informatori avevano segnalato movimenti di fascisti nelle vicinanze e si sospettava che cercassero noi. Walter però, non volendo demoralizzarci, aveva inventato di sana pianta le favole della fine della guerra. Nessuno piantò grane. Non ci conoscevamo ancora tra di noi e ognuno si teneva per sè i propri pensieri. Certo, (lo seppi più avanti nel tempo) molti si chiedettero se avevamo un capo serio oppure no. Comunque riprendemmo il nostro cammino verso i monti, che procedette sempre di notte, sin presso Felina ed oltre. Ci fermammo in una casa disabitata e male in arnese. Vi rimanemmo tutta la giornata. Non ricordo se fosse nuovamente domenica o se vi fosse una sagra paesana. Ricordo solo i montanari vestiti a festa che andavano a messa, uomini e donne, in una giornata serena ma piuttosto fredda. Eravamo nei pressi della Pietra di Bismantova. Queste tappe, non avvenivano a caso. Come seppi più tardi, l'organizzazione del PCI, specialmente per opera di Aristide Papazzi, aveva nei mesi precedenti impegnato uomini per i servizi di guida e fissato luoghi ove le colonne dirette verso la montagna dovevano sostare e trovare ristoro. Partimmo questa volta con una guida di Castelnuovo Monti (Aristide Leonardi che poi diverrà a sua volta partigiano). Attraversammo con le dovute cautele la S.S. n. 63 in località Croce e sostammo aMaro ove ci vennero offerte alcune casse di bottiglie. Più che sete io avevo fame. Inoltre ero astemio. Comunque, pensando che nel vino vi erano sostanze nutrienti, ne bevvi alcune sorsate. Riprendemmo la marcia verso Minozzo e ressi bene per un certo tempo, ma verso l'alba mi prese una spossatezza terribile. Eravamo giunti nei pressi del paese, ma non potevamo fermarci perchè a Villa Minozzo c'era un forte presidio della O.N.R. le cui pattuglie potevano giungere benissimo, data la poca distanza, sino a Minozzo ed oltre. Attraversammo rapidamente la strada e cominciammo a salire verso il 36 Prampa. Ora ci guidava Dante, un montanaro di Coriano che a sua volta diverrà partigiano, Chi guidava la marcia in salita «tirava» molto ed io facevo grandi sforzi per non lasciarmi distaccare. Sostammo in una piccola radura sul Prampa. Arrivai molto distaccato dagli altri percorrendo l'ultimo tratto quasi a quattro gambe. Poi mi lasciai andare in terra sfinito. Tremavo per il freddo e lo sforzo, ed ero, mi dicevano, pallidissimo. I compagni mi osservavano e Walter, con mio grande conforto, disse agli altri: «Ma quello muore». Il sole cominciava a scaldarci e quella sosta mi fece bene. Quando riprendemmo a camminare si andava prevalentemente in discesa e me la cavai in qualche modo. Giungemmo in piena notte presso la canonica di Febbio. Anche questa volta comparvero bottiglie di vino, ma mi guardai bene dall'assaggiarlo. Il nostro cammino proseguì alla volta di Cervarolo e poi di Gazzano, ove dormimmo in un accogliente fienile. Molti di noi scrissero cartoline e le imbucarono, ma, non ricordo chi, fece aprire la buca delle lettere e strappò tutte le cartoline, stimando che il fatto costituiva una grossa imprudenza per noi e per le nostre famiglie. Dunque si apprese che non potevamo comunicare con le famiglie per il momento. Più tardi avremmo potuto far recapitare la posta soltanto attraverso nostri collaboratori. Salimmo poi a Rovolo per recuperare le armi ivi nascoste dai partigiani che si erano sbandati da un mese. A Gazzano, attendemmo. Bisognava cercare il collegamento con gli uomini di Luigi che dovevano essere poco distanti. E infatti, dopo circa 24 ore furono rintracciati e da quel momento vissero con noi. Erano in 12. In quei giorni pensavo alla voce popolare secondo la quale le montagne brulicavano di partigiani. Ma pensavo anche alle descrizioni di Ferretti, secondo il quale esistevano reparti bene organizzati, istruiti e diretti da un capitano di artiglieria. Si trattava evidentemente di «Miro», che in quel momento non c'era essendo rimasto gravemente ferito a Cerrè Sologno. Quei 12 uomini rappresentavano il totale delle forze partigiane in Val d'Aosta, dopo lo sbandamento di un mese prima. Il personaggio più prestigioso era Luigi, coadiuvato da Gino. Fu Luigi a tentare una prima organizzazione interna alla nostra colonna. Volle sapere tutti i nomi buoni, poi i nomi di battaglia che ognuno si dovette scegliere seduta stante mentre lui scriveva. Poi descrisse la vita partigiana a tinte non troppo incoraggianti, aggiungendo che chi non se la sentiva di affrontare i sacrifici e i pericoli che essa comportava, era ancora in tempo a ritirarsi. Nessuno volle ritirarsi. Cominciammo così da quel momento la vita partigiana, che in quel periodo consisteva prevalentemente nel creare riserve alimentari per coloro che, prevedibilmente, sarebbero saliti in montagna di lì a poco. È una vitaccia da facchini, condotta sempre di notte e quasi sempre lontano dalla base provvisoria, situata sopra Cervarolo. E ogni volta che effettuiamo uno spostamento portiamo con noi l'armamento, il munizionamento e le coperte, come dovessimo cambiare base. È una precauzione contro eventuali sorprese fasciste, ma questo fatto aumenta non poco le nostre fatiche fisiche. Ricordo che una notte dovevamo portare le provviste sino a Rovolo. Sempre al buio affrontammo una salita accidentata e boscosa di circa 45 gradi, stracarichi. Era una impresa pazzesca. Un sacco di farina particolarmente 37 pesante passava da una spalla all'altra perchè sfiancava chiunque. A metà cammino il sacco venne passato a me. Cercai di mettercela tutta e di non cedere sino a quando lo avrebbe consentito la mia limitata resistenza fisica, in altre parole, di non fare lo scansafatiche, per principio. Presto rimasi in coda, procedendo adagio e con difficoltà ed infine misi il sacco a terra chiedendo invano ai pochi compagni vicini di prenderlo. Tutti si dichiararono spossati. Dovette caricarselo sulle spalle lo stesso Luigi. A Ròvolo, non ricordo bene se in quella circostanza, rimase ferito accidentalmente da un colpo della sua pistola cadutagli di mano, uno dei due russi che avevamo con noi. Era una ferita impegnativa da curare. Dopo avergli praticato la puntura antitetanica, lasciammo il giovane sul posto, assistito dal «Principe» (Abbo Partisotti) e dalla Rosina (Rosina Becchi), l'unica donna che fosse nel distaccamento in quei primi tempi. Il russo se la cavò relativamente bene e continuò la lotta partigiana, ma divenne poi invalido. Il secondo russo lo chiamavamo «il Siberiano». Con lui i rapporti erano un po' difficili perchè non sapeva una parola di italiano. «Lince» (Codeluppi Aves) si era assunto l'incarico di stargli vicino anche per evitare che a causa di malintesi, non compisse qualche gesto sbagliato, durante il nostro vagabondare notturno tra le montagne. Una volta cavalcammo il Passone per recarci a Sillano attraverso la Valle di Soraggio. Ci fermammo prima perchè a Sillano vi erano molti militi. Ci accompagnava Vincenzo (Vincenzo Costi) un montanaro di Cervarolo, duro e deciso, a cui era stato ucciso il fratello nell'eccidio del 20 marzo. L'unica azione che compimmo in un paesello di poche case, fu la intimidazione di un funzionario comunale da tutti descritto come una «carogna» verso gli amministrati. Una sera Vincenzo e alcuni altri partigiani fecero irruzione nella sua casa. lo ero di guardia fuori e potevo assistere a tutta la scena, osservandola da una finestra. Vincenzo, con la pistola in mano, rinfacciava all'«imputato» tutte le sue malefatte. Le donne erano spaventatissime, ma costui conservava una certa imperturbabilità. Cominciò a cambiare atteggiamento quando Vincenzo dicendosi un ex maresciallo dei carabinieri passato ai partigiani, fece perquisire la casa, che risultò piena di ogni ben di Dio. Quando poi si trovarono due scarponi da uomo nuovi fiammanti che Vincenzo, per punizione (ed anche per necessità del distaccamento) requisì assieme ad una certa quantità di viveri, l'uomo cominciò a piatire, inginocchiandosi persino per ottenerne la restituzione. Mi stupì il comportamento di quel notabile paesano. Poteva temere di essere ucciso dopo le accuse fattegli e rimase tranquillo, salvo poi a perdere calma e dignità di fronte alla perdita degli scarponi nuovi. Un episodio per certi aspetti analogo, ma con conseguenze più tragiche, ebbe luogo nei pressi di Toano. In seguito al disarmo del posto di guardia GNR all'ammasso di Cerredolo effettuato da una formazione modenese, rinforzi fascisti giunti sul posto, fucilavano il4 Maggio in Cerredolo 5 soldati sbandati. Gli infelici avevano trovato temporaneo rifugio in una casa di contadini di Castagneto. Sennonchè la loro presenza venne segnalata ai fascisti che, come si è detto, li uccisero immediatamente. La delazione andava punita affinchè 38 l'esempio non venisse imitato e provocasse altri lutti. Partimmo prima di sera dalla Magolese e arrivammo sul posto a notte fonda. Anche questa volta entrò nella casa Vincenzo con alcuni partigiani. La famiglia era radunata nell'ampia cucina. Al centro, l'alta figura di Vincenzo in veste di accusatore, dominava come su di una scena. Cominciò con il compiangere la sorte dei 5 giovani dovuta alla spiata partita da quella casa. Il capo famiglia sedeva allibito ascoltando mentre gli altri familiari facevano circolo. Si venne a sapere che a portare la notizia ai fascisti era stata la giovane nuora, ma che era stata mandata dal vecchio il quale, pertanto, era da ritenersi il massimo responsabile. Vincenzo pronunciò una specie di atto d'accusa con accenti ora infuocati ora patetici. Il vecchio,accasciato e con le mani sul volto, confessava: «Lo so, la colpa è mia, sono un disgraziato». Venne portato via assieme al figlio e alla nuora. Inoltre due vaccine furono prelevate dalla stalla. La nostra colonna sulla via del ritorno si fermò un attimo tra i campi. Il vecchio fu accompagnato da una pattuglia poco distante e ucciso con un colpo di pistola. I due giovani sposi invece furono trattenuti per qualche giorno alla Magolese e poi rilasciati. La Magolese, da quando la scegliemmo come base stabile, era una sorta di distretto. Eravamo in circa cento uomini divisi in tre distaccamenti ognuno dei quali alloggiava in una capanna. La vita all'interno del distaccamento, relativamente tranquilla in maggio, favoriva la conoscenza reciproca degli uomini e quindi l'armonizzazione dei rapporti tra i partigiani, favoriti dai consigli e dai richiami di Luigi. Avevamo un cantante, il cuciniere Tarzan (la cucina era unica) che mentre compiva il suo lavoro intonava le canzoni insegnandole così ai nuovi venuti. Spesso tali canzoni venivano cantate in coro. Si continuava la raccolta delle scorte alimentari, si spingevano pattuglie a nord di Villa Minozzo (che fermavano i pullman di linea catturando i militi che vi si trovavano a bordo) ma soprattutto si viveva in attesa dei lanci. Nel prato, si trovavano disposti a triangolo tre mucchi di fascine, pronte per essere date alle fiamme nel caso della attesa comparsa di apparecchi alleati. Le notizie del lancio erano all'ordine del giorno. Accadde che più volte, di notte, accendessimo inutilmente i fuochi. Gli apparecchi si facevano sentire ma poi si allontanavano. lo mi meravigliavo, da buon sergente, che nessuno pensasse di approfittare di quel periodo di relativa calma, per istruire militarmente i molti giovani presenti. Moltissimi non avevano prestato il servizio di leva e si trovavano ad aver tra le mani un fucile per la prima volta. Mi pareva una enormità e spontaneamente, conversando senza parere con l'uno e con l'altro giovane, mi accertavo se conosceva o meno l'arma che gli era stata affidata. Siccome le risposte erano per lo più negative, ne convinsi alcuni ad osservare come si caricava, come si puntava e si sparava. Da principio ricevevo risposte risentite. «Non le conosco sino in fondo, ma se dovessero venire i tedeschi mi saprei arrangiare». Al che obiettavo che si può rendere in combattimento nella misura in cui si conosce quel che l'arma può dare. L'arma, dicevo, può essere in certe condizioni la salvezza del partigiano. 39 Insomma, a forza di insistere, con l'aiuto di una sorta di rudimentale treppiede costituito da tre rami legati e poggiati sul prato, insegnai a vari giovani i «misteri» del puntamento e della linea di mira. Luigi si credette in dovere di nominarmi Capo nucleo, vedendo che mi dedicavo a quell'impresa. Non volevo accettare perchè nei vari anni di militare, coi gradi mi ero sempre trovato male. Mi mi si fece notare che i gradi nell'esercito erano una cosa e quelli nelle formazioni partigiane un'altra, e che se possedevo anzianità e preparazione non avevo il diritto di rifiutare perchè ciò era contrario alla morale partigiana. Cominciò così la mia carriera anche come partigiano. lo che ero venuto in montagna con il proposito di documentare la vita partigiana con scritti e disegni, mi trovai da allora nella condizione di dover pensare a tutt'altre cose. Tuttavia, mi pareva che lo scrivere quel che si faceva fosse anche nell'interesse della formazione. Posi il quesito a Luigi. Gli chiesi se aveva preso appunti relativi a tutto quel che era avvenuto da quando era salito in montagna sino a quel momento, ed egli mi disse che lo scrivere era pericoloso nel caso che gli scritti fossero caduti in mano al nemico e che comunque lui si ricordava bene di tutto. [Qui finisce il testo autobiografico, già piuttosto elaborato. Di seguito pubblichiamo gli appunti che lo stesso Franzini aveva preparato relativamente agli anni del dopo-guerra, appunti che si interrompono al 1955. Ilfatto che Franzini abbia sentito il bisogno di «saltare» al dopo-guerra, prima di stendere i propri ricordi del periodo primavera '44-aprile '45, dipende probabilmente dal fatto che sui mesi della guerriglia egli aveva tenuto un Diario (lo si veda in «Ricerche storiche» n. 7/8, giugno 1969) ed aveva anche scritto e pubblicato diversi racconti (Storie di montagna, Reggio Emilia, ANPI, 1946)] - Nell'immediato dopo Liberazione, all'Ufficio stralcio del Comando unico Zona. Poi divenni [sic] l'Ufficio storico dell' ANPI (ero solo). - Per circa 8 anni, (46-53) lavorai a «Il Volontario della Libertà» (poi Nuovo Risorgimento) - Contemporaneamente con questi lavori per me a tempo pieno, produssi qualche opera di scultore, ma faticando moltissimo perchè non avevo più la tranquillità e la mente sgombra come quando facevo il lavoro manuale. Ora le cose erano cambiate. Dovevo puntare alla carriera artistica come avevo fatto sino a quel momento, quindi ad un futuro da tempo programmato per me, o dovevo lavorare soprattutto per gli altri per coerenza con la ideologia che avevo abbracciata durante la lotta? Intanto divenni socio fondatore della Cooperativa marmisti perchè prevedevo che gli incarichi all' ANPI potevano finire presto ed avrei ripreso la mia professione. 40 Senonchè la pleurite essudativa che avevo contratto in montagna e dalla quale ero uscito senza praticamente curarmi si riacutizzò. Dovetti condurre un regime di vita tutto diverso che non comportava certamente le fatiche fisiche. Questa malattia fu un assillo. Cominciai a chiedermi se avessi retto come un tempo alla vita del marmista, che è piuttosto pesante. Nel frattempo rimanemmo in pochi all' ANPI e gli impegni miei crebbero. Smobilitazione dei partigiani, ricerca dei dispersi, pratiche di pensione per i caduti, i feriti e gli invalidi ecc. Poi le pratiche di riconoscimento delle qualifiche e delle qualifiche gerarchiche. Avevo trascorso il tempo di guerra come soldato al Distretto Militare e in queste cose mi trovavo a mio agio. Intanto nessuno scriveva della lotta partigiana. Era quello un mio vecchio chiodo sin dal 1944. Tenevo un diario che poi mi fu utilissimo. Mi dicevo che se non si documentasse quanto avevamo compiuto, poco sarebbe rimasto nel giro di pochi anni, dei sacrifici compiuti, delle speranze nutrite, in sostanza della stessa epopea partigiana che doveva essere la base ideale della società nuova che si intendeva costruire, più libera, più giusta per tutti, sorretta dal consenso popolare più ampio. Produssi nel 1946 il mio primo scritto, un opuscoletto di 127 pp. «Storie di Montagna». Poi, dal 1947 al 1955, pubblicai, dopo averli ricostruiti [ricorrendo] ai documenti rispettivi, i diari delle tre Brigate Garibaldine, nonchè una infinità di testimonianze( da me sollecitate) su vari episodi di guerra. Direttamente tentai di ricostruire alcune delle fasi più importanti. Consideravo il giornale [Il Volontario della libertà, Nuovo Risorgimento] anche e soprattutto come la miniera a cui avrebbero dovuto attingere gli storici futuri. Intanto andavo recuperando il carteggio delle Brigate Garibaldi, esemplari della stampa clandestina. Riuscii anche, sempre come ufficio storico dell' ANPI, a racimolare una collezione completa dei giornalini ciclostilati che venivano prodotti e diffusi in montagna e una grande parte dei manifestini clandestini prodotti in pianura. Verso il 19491'ANPI cominciò la elaborazione dell'Albo D'Oro dei partigiani della Provincia di Reggio Emilia, caduti nella guerra di liberazione. GUERRINO FRANZINI GUERRINO FRANZINI. PAGINE DI DIARIO 1956 - 1958 Con alcune iniziali esplorazioni dell'archivio privato di Guerrino Franzini abbiamo rinvenuto, e ricevuto in consegna fiduciaria dalla Vedova -la valorosa ex staffetta del T.I. N. E. Alberta Rossi - alcuni fascicoli di carte e una decina tra quaderni e blocchi per appunti. Le note che qui pubblichiamo, scritte su di un brogliaccio di fogli quadrettati, nascono evidentemente dal bisogno di riflessione interiore in una fase gli anni 1956-1958 - particolarmente intensa della vita di Franzini (una vita che del resto non fu mai di riposo, fino all'ultimo); sono anni che lo vedono impegnato contemporaneamente su vari fronti: è funzionario all'ANPI provinciale, attivo militante nel P.C.I., scrive su «La Verità», settimanale della Federazione comunista reggiana, ha messo mano alla elaborazione di quella «Storia della Resistenza reggiana» che, pubblicata nel 1966, «resta ancora oggi - come ha avuto occasione di affermare recentemente Luciano Casali - il miglior esempio in assoluto di una storia provinciale della lotta di liberazione nazionale». In quanto funzionario dell'ANPI, doveva poi contemporaneamente occuparsi delle questioni più diverse, come emerge anche dalle presenti note diaristiche: riunioni, organizzazione e allestimento di mostre, costante azione di «vigilanza» e di intervento su quanto vari organi di stampa neofascisti o «indipendenti» andavano in quegli anni scrivendo nel quadro di una perdurante campagna antiresistenziale che ebbe toni assai virulenti. Del resto l'intensità dell'impegno di Frigio in quegli anni, incise profondamente sulla sua salute, e non è un caso che poco dopo la conclusione della sua «Storia» egli sia stato colpito da infarto. Come considerazione generale relativa a questi primi reperti di un Franzini «intimo», balza agli occhi l'ampiezza degli interessi coltivati da questo uomo modesto e schivo, autodidatta (aveva concluso gli studi regolari alla 5 a elementare); si notino i suoi rapidi accenni al monumento alla Resistenza parmense di Mazzacurati o quelli, dell'8 luglio '56, sulla pittura sovietica e americana, dopo una visita alla Biennale di Venezia, rivelatori di una non banale sensibilità frutto anche di una antica (e pressochè sconosciuta) sua consuetudine con la creazione artistica, plastica e figurativa. (A casa sua abbiamo rinvenuto anche alcune cartelle di disegni e una ventina di pezzi di scultura che meriterebbero sicuramente di essere fatti conoscere in un 'apposita mostra). Poi c'è il Franzini militante di partito, ci sono le sue equilibrate riflessioni, 42 anche i suoi dubbi, nel corso dei dibattiti che si ebbero tra i comunisti reggiani nel clima della «destalinizzazione» seguita al XX Congresso del Pcus. Sono spesso brevi appunti, stesi con stile sobrio, ma che ci aprono squarci improvvisi su di una ricca interiorità, costituendo nel contempo tasselli preziosi per la ricostruzione di un'epoca della nostra storia. Per parte nostra continueremo a cercare tra le carte e i libri di Frigio, chiedendo scusa alla sua ombra per quel tanto di inevitabilmente irriverente che ci può essere nello scandagliare gli angoli più intimi di una esperienza intellettuale ed esistenziale condotta all'insegna di un misurato riserbo. Continueremo a cercare, certi che l'intelligenza di Frigio ci fornirà ancora stimoli preziosi, ci regalerà altri frutti dopo quelli, copiosi, di cui è stata prodiga fino al momento in cui l'indimenticabile nostro compagno se ne è andato per sempre, col suo consueto passo leggero. a.Z. to Per rendere meglio comprensibili a tutti alcuni accenni a persone o situazioni cui si fa riferimennel testo abbiamo apposto note esplicative a pie' di pagina. Sabato 15 giugno 56 Ho ormai tratteggiato la complessa situazione della pianura nel novembre 1944. Penso di interrompere a questo punto la narrazione cronologica e di inserirvi un capitolo dedicato al trattamento dei prigionieri da parte dei fascisti. Ho cercato il materiale relativo. È una successione di orrori indicibili, specie per quanto concerne la tortura delle donne. Il sadismo degli inquirenti è incredibile. Mi chiedo come farò a descriverli. Debbo tenere conto che vari torturati sono ancora viventi e che non potrei narrare di loro cose tanto atroci e ripugnanti. Donne violentate, depilate, leccate da cani nelle parti pubiche cosparse di sostanze indefinite tra lo scherno e il divertimento degli sgherri. Uomini cui veniva percosso con un bastoncino o bruciacchiato il membro, o forati i testicoli con spilli e con perdita della capacità sessuale. Domenica 17 Partecipo a un convegno provinciale dei dirigenti dell' ANPI. Apprendo tra l'altro da Gianni l che Boiardi Franco vorrebbe interessarsi di studi sulla Resistenza. Dico a Gianni che noi siamo disposti ad aiutarlo. [ ... ] Giovedì 21 - (?) Vedo che la rivista «Oggi» pubblica una precisazione di Eros sul numero datato (22?) Giugno. l Giovanni Farri, ex Vice comandante della 26" Brigata Garibaldi. 43 La precisazione si riferisce a un articolo di certo Giorgio Pisanò, uscito sul n. 22 del 31 Maggio 55 della medesima rivista. L'intento dell'autore era quella di attaccare i comunisti reggi ani come combattenti della guerra di liberazione. Essi venivano accusati di aver condotto una guerra privata, di aver ucciso oltre 2000 persone innocenti, di aver sabotato l'attività del Tribunale partigiano, di aver ucciso un numero indefinito di preti non per necessità di guerra ma per applicazione della «etica marxista». Eros 2 definito «comandante di 1200 comunisti» era implicitamente il colpevole di questi crimini. Da qui la sua precisazione che si limitava, secondo la legge sulla stampa, a smentire Ljuanto poteva pregiudicare il suo passato di partigiano senza confuUlIl' k accuse ai comunisti in genere. Proprio per questo la precisazione fu pubblicata con l'aggiunta di note biografiche di Eros allo scopo di screditare le sue parole (medaglia d'argento ritirata, sua condanna ecc ... ). Vi si aggiungeva che la lettera non smentiva la sostanza del Pisanò, che quella d'altro canto era l'unica lettera giunta (ciò che confermava le accuse, l'atroce realtà del reggiano) e che per contro sarebbe stato augurabile la smentita di voci autorevoli da parte comunista. La mala fede del Rusconi era evidente perchè mentre Eros inviava la sua lettera, una seconda veniva pure inviata dall' A.N.P.1. Il Rusconi la ignorava proprio perchè questa lettera smentiva la sostanza dello scritto del Pisanò. Prendendo pretesto dall'invito fatto sul n. 26 della rivista, inizio l'elaborazione di un documento di smentita delle calunnie di «Oggi», documento che sarà reso autorevole dalla firma di 15 esponenti comunisti della Resistenza. Contemporaneamente invio a «Patria» il testo della lettera dell' A.N.P.1. che «Oggi» non ha voluto 'pubblicare, corredandola di alcuni dati fuori testo sulla Resistenza reggiana. La lettera sarà pubblicata sul n. 14 di «Patria». 25 - Lavoro per La Verità. 26 Giugno - (?) Per aderire ad una richiesta dell' A.N.P.1. Nazionale elaboro uno scritto sulla partecipazione di soldati tedeschi alla Resistenza Reggiana. 30 Giugno - Sabato. Mi reco a Parma per presenziare alla inaugurazione del monumento al Partigiano, che ha luogo alla presenza del Presidente della Repubblica. Spettacolo imponente e toccante. Entusiasmo di popolazione per Gronchi. Esercito e partigiani sfilano assieme. Il significato è evidente e sarà rilevato dallo stesso Presidente più tardi in un ricevimento al Municipio. Le parole di Parri e del Sindaco Ferrari sono commosse. Burocratiche e fredde quelle del rappresentante del governo. Gronchi scopre il monumento, appaiono così alla luce del sole le due bronzee figure di Mazzacurati. 2 Didimo Ferrari, ex Commissario generale del Comando unico provinciale delle Brigate Garibaldi e Brigata Fiamme verdi. 44 Buono il concetto e ottima l'esecuzione del partigiano caduto. Quello in piedi invece presenta alcuni difetti di esecuzione. La gamba destra di fianco ha un panneggio poco convincente. Non si sa dove sia il panno e dove la muscolatura. Nell'insieme però il monumento è una bella opera. l [luglio] - Dibattito degli attivisti. 2 [luglio] - Dibattito dell'attivo due sere consecutive (vedi appunti). - Nel dibattito in corso fra i dirigenti comunisti è notevole il senso di profondo disagio, causato dagli avvenimenti sovietici. Si nota un rapido aggiornamento e una sincera autocritica in alcuni dirigenti. In altri invece la preoccupazione di contenere il dibattito per tema di colpi di testa; in altri ancora un esagerato atteggiamento di accusa. I più spinti sono gli intellettuali che come tali, avvertono più di tutti la gravità degli errori commessi e anche, l'umiliazione per essersi adeguati senza aperte riserve a metodi che hanno limitato la democrazia nel partito ed hanno condotto anche qui da noi, ,se non ad un vero culto della personalità nel P.C.I., comunque all'accettazione irrazionale di tutto quanto ci veniva dall'URSS, compreso il mito di Stalin. Ma gli uomini sono uomini. La critica è talora aspra e ingiustificata, risente un poco del personalismo nel senso di difesa spietata delle idee personali su tutto e su tutti. Si sente in troppi, implicito, il desiderio di lasciare intendere il nauseante: «io avevo ragione quando dicevo ecc ... ». Manca il senso della misura e la modestia. Nei più intelligenti si avverte anche la riserva della critica dettata dal timore di offendere questo o quel dirigente, e di provo carne le spiacevoli reazioni. Basta questo per vedere che effettivamente ancora non siamo comunisti maturi. Chi non ha avuto nel corso di tanti anni, dissidenze e dubbi più o menogravi su questo o quell'aspetto della nostra politica, della nostra propaganda, della nostra organizzazione? Tutti li hanno avuti ma pochissimi hanno rischiato la rottura per sostenere le loro idee. Prima di tutto perchè ciò che è possibile oggi nel clima distensivo non era possibile ieri con la guerra fredda e con la conseguente rigidezza interna nel partito, in secondo luogo perchè c'era un dovere molto importante da compiere e cioè il rispetto del centralismo democratico. È vero per contro che esisteva il timore della critica aperta e se questo era indubbiamente dovuto al cosidetto caporalismo (che a me personalmente non ha mai dato soverchi fastidi) è anche vero che tutti indistintamente dovevano avere il coraggio delle proprie idee e più di tutti gli intellettuali. Bastava denunciarle con costanza all'interno del P. (invece di tenerle in riserva nella propria mente) in modo che esse fossero ben conosciute, pur agendo in conformità con le decisioni della maggioranza. Certo la questione è complessa. Si insiste sull'utilità dell'azione sovietica perchè ha avuto il risultato di risvegliare nuove energie, ma il fatto è che ora da noi gli entusiasmi si sono placati, la via appare più lunga di quanto sembrava a molti faciloni, la chiarezza delle idee e dei propositi è ancora dubbia. 45 8 luglio: Domenica Vado a Venezia in visita alla Biennale d'arte. Sono piuttosto deluso. Non capisco De Pisis, non capisco gli astrattisti. Rivedo volentieri la copia di bronzo del partigiano caduto di Mazzacurati fatto per il monumento di Parma. «La spiaggia» di Guttuso attira e mi convince nonostante il parere contrario di molti della nostra comitiva. La scultura, tranne il conosciutissimo Messina e il sensibile Manzù dice poco. Non ho visto tutti i padiglioni. Quello dell'URSS è un disastro. Onestà, ottimo mestiere, ma povertà di creazione, scarsa sensibilità artistica. L'URSS evidentemente risente dell'isolamento culturale rispetto all'occidente. C'è retorica e conformismo. L'America pecca in senso opposto col suo astrattismo delle città. Mi stanco terribilmente per il caldo, la levataccia del mattino e per di più sono vincolato nelle mie scorribande fra i padiglioni dalla compagnia alla quale non mi posso sottrarre. In compenso, usciti nel pomeriggio dalla Biennale, mi gusto un giro in gondola (è la prima volta) che mi consente la visione di una Venezia meno monumentale e più intima. 17 luglio I miei timori erano fondati. Non riesco a svincolar mi da vari impegni e ho pertanto interrotto nuovamente il lavoro del libro. Quasi tutti i giorni sono in ufficio. Devo aiutare i miei compagni di lavoro, devo collaborare con «La Verità», devo girare da un compagno all'altro per sottoporre in visione la minuta del lungo documento, da inviare ad «Oggi». Debbo vincere varie reticenze e resistenze a questa iniziativa. Esiste una sottovalutazione della polemica. In alcuni il silenzio e il tempo sono i migliori difensori dalle accuse dei nostri avversari. [ ... ] 20 luglio - venerdì Vado ad una conferenza di Boiardi indetta dal circolo ANPI di S. Croce Interna. Boiardi è un conferenziere coscienzioso ma il tema: «La Costituzione e la via italiana al socialismo» è troppo ardito per essere svolto in una conferenza promossa dall' ANPI. La politica unitaria della Resistenza, è piuttosto aspra da assimilare dai «politici». 23 - V. 3 è partito per Roma e proseguirà per la Bulgaria. F 4 è in procinto di lasciare le sue mansioni. Rimarrò solo in ufficio. Cattive prospettive dunque, per il libro. Decido fin che sono in tempo di accettare l'invito di Borghesi, e mi reco a 3 4 Veleno, alias Alberto Vanicelli. Melchiorre Fontanesi, ex Capo settore nella 77" Brigata SAP. 46 Castelnuovo Monti. Ogni luogo di montagna, da Casina in avanti, mi ricorda qualche episodio di guerra. Borghesi è sempre immerso nel lavoro del suo libro e sarebbe opportuno incontrarci spesso per scambiare informazioni e giudizi 5. Passo una giornata intera a lavorare con lui e riparto al mattino seguente. Hanno avuto luogo in questi giorni due riunioni del Comitato Direttivo dell'ANPI. Ho avuto la inaspettata soddisfazione di vedere riconosciuta la importanza della «Storia della Resistenza Reggiana» che sto scrivendo. Tutti, dopo l'intervento fatto da Toscanino 6, convengono che io debba essere immobilizzato per portarlo a termine. Non è solo un pronunciamento platonico. Alla mia obiezione sulla insufficienza dell'apparato associativo è stato risposto con la decisione di assumere un altro elemento al posto di Fontanesi. 30 luglio - Passo tutti i giorni in ufficio. Sbrigo la corrispondenza, rispondo agli associati che si presentano per diverse questioni. 31 luglio Oggi prendo in consegna da F il liquido, gli assegni, il libretto bancario ecc., alla presenza di Cucchi. 1 agosto Oggi viene in ufficio C. 7 È un uomo bruno e tarchiato, col volto da meridionale. Un tipo semplice sembra. Finalmente! La semplicità mi pareva una dote perduta da tutti. Forse non ha doti tecniche eccezionali ma credo che un po' di serenità ci sarà di nuovo nel lavoro in virtù del suo temperamento pratico e lineare. Passo a lui le consegne ricevute ieri. 2 agosto C'è un certo trambusto in ufficio. Comincio il lavoro lasciatomi da V. Molto da fare per i ragazzi che vanno all'estero in vacanza. C ha bisogno di essere introdotto nel lavoro e parliamo molto assieme. 6 agosto Questa sera si riunisce l'esecutivo. Riunione interessante. D solleva la questione della regolarizzazione del personale. Si conviene che è una questione da affrontare. C rimarrà in prova. - Il caffè Italia risorgerà? 8 Si discute la proposta dei Gruppi Unificati di , Il libro del Prof. Aleardo Borghesi non vide mai la luce. Franzini talvolta ne parlava, deprecando che un intellettuale preparato come Borghesi non avesse condotto a termine un lavoro per il quale lui, Franzini, aveva oltretutto fornito parecchia documentazione. 6 Aldo Ferretti, ex Commissario della 37" Brigata GAP. 7 Franco Carini 8 Il Caffè «Italia», a gestione ANPI, era un caratteristico locale liberty sotto i Portici della Trinità, nel vecchio Isolato San Rocco. Nei primi anni del dopo guerra fu luogo d'incontro per gli ex partigiani reggiani. 47 comprare un locale nell'isolato di S. Rocco che dovrebbe funzionare con la nostra licenza. Lunghissima discussione. - Aria meno ufficiale e più spigliata del solito. 7 agosto Le nostre proposte per il caffè Italia sono state presentate alla Fed. Coop. e sono state giudicate accettabili - Vedremo. C'è ancora in gioco il famoso documento in cui mancano alcune firme. C mi aiuta. Sirio 9, però punta ancora i piedi e debbo cambiare una pagina. - Per fortuna mi sono svincolato dal lavoro della Verità. lO agosto «Patria indipendente» (N. 15 del 15 agosto) ha pubblicato il mio articolo sulle torture nel reggiano. È piuttosto amputato ma non importa: Il necessario è che questa materia sia conosciuta il più possibile a scorno dei fascisti e dei loro fiancheggiatori. 12 agosto Vado a Guastalla e trovo la Giacomina lO a letto. Com'è dimagrita. Non l'avevo mai vista così! Davvero più si invecchia e più si assomiglia alla morte. Ma pare impossibile che la dolcezza del suo sguardo si debba spegnere per sempre un giorno o l'altro. È un pensiero che non vorrei avere. Quando parto mi abbraccia commossa. Credo che si rimetterà ancora. Questa è una delle sue mezze crisi. 14 agosto Da alcuni giorni stiamo riordinando la mole dei giornali che per anni sono rimasti accatastati in ufficio. - Terminiamo in giornata. - Chiuderemo gli uffici da domani 15 fino a domenica 19 per le ferie. 15 agosto Mentre la città si spopola io passo tutto il giorno a casa. Ho deciso di ritagliare tutti gli scritti pubblicati in circa lO anni di attività. Sono quasi tutti usciti sul «Nuovo Risorgimento» che ha cessato la pubblicazione ilIo maggio del 1955. 16-17-18 Inizio e proseguo il lavoro di ritaglio dei giornali. - Ho fretta ma è un lavoro lungo. Per di più sono spesso indotto a soffermarmi su uno scritto o l'altro. La curiosità è irresistibile e senza volerIo mi trovo spesso immerso nella lettura, rivivendo le tappe di una lunga lotta politiParide Allegri, ex Comandante della 76" Brigata SAP. Giacomina Torelli; ebbe cura, con affetto materno, di Franzini dopo che questi, a 12 anni, era rimasto orfano anche della madre. 9 iO 48 ca e giornalistica. Gli avvenimenti nazionali mi appaiono riflessi attraverso la vita locale. Periodi difficili come quelli del 48-49, densi di fatti, dati, polemiche sulla persecuzione antipartigiana, sui tenaci attacchi alle libertà, sulle violenze poliziesche, vi sono descritti con vivacità che denota la partecipazione viva alla contesa. Mi convinco che nel nostro piccolo abbiamo contribuito notevolmente alla resistenza popolare contro l'offensiva della d.c., del clero e dei conservatori. A Reggio tale contesa è stata molto aspra e l'opera di un giornale di opposizione sempre attento come il nostro a tutti gli abusi appare oggi di un grande valore documentario. 20 agosto - Conferenza Boiardi a S. Croce. 21 agosto - Spedizione del documento a «Oggi» 22 agosto - A Piacenza (Bettola) per funerale «Grillo». 26 agosto - A Guastalla. 4 settembre - Risposta Marmiroli per il Concorso. Dal 5 al 9 settembre - Gita con Veroni a Rimini. Belle spiagge - città sorgenti - stranieri. Donne belle e brutte. Maria (cameriera). Cattolica - Riccione - Castello Gradarara (Meraviglie e orrore di donne tedesche di fronte strumenti di tortura). S. Apollinare in Classe e S. Vitale. - S. Marino. Il settembre Lavoro per la storia - Ricostruzione delle torture. 12 settembre - Riunione di partigiani in Federazione. 17 settembre - Seconda riunione di partigiani in Federazione 20 settembre - Lavoro per la storia (Politica inglese a favore FFVV e contatti nostri con missione americana). 5 (?) - Incontro con attore Montaldo e aiuto regista (?) su documentario Cervi. A Milano in visita a Brioschi 11 per il monumento alla Resistenza. 25 settembre - È incredibile quanto sia difficile rimanere tranquillo al lavoro: Verbali, riunioni, riunioni serali (una anche per l'ANPI), articoli e ricerche per conto dell' Associazione, proposte ecc ... (vedi più avanti). 27 settembre - Conferenza Piccinini. Il Remo Brioschi, autore del Monumento alla Resistenza di Piazza Martiri del 7 luglio, inaugurato il 25 aprile 1958. 49 8 ottobre - Articolo per l'Unità sulla mancata pubblicazione da parte di «Oggi» del famoso documento. 3 ottobre - Viaggio a Milano, visita alla fonderia 12. 9 - Prefazione per documento partigiani comunisti che viene pubblicato su La Verità. lO ottobre - Devo fare una statistica delle decorazioni partigiane [;l perdo alcuni giorni nel rovistare fra i documenti e nel comporre una relazione in merito. È incredibile la parzialità. Decorazioni diminuite di grado a danno di formazioni garibaldine, maggiore numero di concessione al Btg. Alleato. Decoraziorii arbitrarie. Ho perso molto tempo per la compilazione della proposta di Demonio 13. Il - Esposto al Questore e al Procuratore della Repubblica per Comizio Almirante che si terrà sabato 13 e carattere fascista del M.S.I. 15 ottobre - Ho consegnato una relazione sul contributo dei partigiani stranieri. 16 ottobre - Articolo su «La Verità» per il monumento alla Resistenza (visita a Brioschi). Il pretore di Reggio ha mandato a chiamare Veroni per l'esposto contro i fascisti. Vuole la documentazione a comprova di quanto i missini avrebbero detto a suo carico. 17 - Veroni porta l'originale del giornaletto missino al pretore e io porto al Dott. Possenti la copia fotografica del medesimo assieme ad altri documenti. Lungo colloquio del Commissario che si dimostra molto premuroso (tempi cambiati?). Prima evitava perfino di guardarci. Ci tiene a dire che non c'è connivenza tra polizia e fascisti [... l. So però che fa il suo mestiere e che ora tenta di tenere un piede nell'altra staffa. È finito dunque l'atteggiamento di rottura? Dice delle gravi preoccupazioni della polizia per ogni comizio missino e mi consiglia di ricorrere alla polizia piuttosto che permettere disordini. Stenderà la denuncia contro i fascisti, probabilmente per apologia di fascismo per «ricostituzione di fascismo». La magistratura farà altrettanto? Se ci fosse un magistrato coraggioso, ma soprattutto rispettoso veramente delle leggi, ne potrebbe nascere una grossa questione. 12 '3 Si trattava della fonderia in cui vennero «gettate» le sculture in bronzo di cui a nota Il. Germano Nicolini, ex Comandante del Distaccamento SAP di Correggio. 50 (Da registrare) 17-18 novembre 56- IV Congresso della Sezione di Porta Castello, in preparazione dell'VIII Congresso nazionale del P.C.I. (per particolar.i: vedi cartella). Sono nominato proboviro di Sezione. Marzo 57 - Veleno si ammala e io sono costretto a riprendere il mio lavoro in ufficio. Aprile - preparaz. 25 aprile (opuscolo). Giugno-luglio 57 - Forte lavoro per preparazione Raduno Villa Minozzo. 31 luglio 57 - Ha lugo il Raduno. Settembre 57 - comincia il lavoro per la preparazione del Raduno della Resistenza. - Convegni; raccolta fondi; documenti e mozioni. Dicembre - Convegno Adriano: Roma insulto ,a Parri. Natale 57 - A Milano vedo Elda dopo tanti anni 14. 1 gennaio 58 - A Guastalla Giacomina a letto malata, aggiusto stufa, c'è Teresa. Gennaio e febbraio 58 - Intensissimo lavoro per Raduno. 20 febbraio - Muore Giacomina. Vado a Guastalla nel pieno del lavoro. Mi sento male. Stupore per l'atmosfera trovata. Visto Giacomina morta. In compagnia di Teresa la sera. 21 febbraio - Piove. Triste funerale, aiuto a portare la cassa in chiesa. - Al cimitero. - Riparto nel pomeriggio. 22 (?) - Vicende varie per il Raduno. - Divieto treni. - Misure Questura. Vado alla stazione. - Passo tutta la notte in piedi per assistere alla partenza degli scaglioni. - lo non parto sono troppo stanco. Giorni seguenti - impressione per Raduno. Marzo 58 - Dovrò preparare la mostra, l'opuscolo e le cartoline per il 25 aprile. In tale occasione sarà inaugurato il monumento con una grande manifestazione. (Riunione commiss. apposita - Vari contatti con Bagni. Viaggio in provincia per raccolta firme - impressioni - contatti con Vecchia - Rifacimento del libretto - Foto monumento - foto opuscolo - assistenza in tipografia - legatoria 14 Elda era una sorella di Franzini. 51 museo - Architetto ... e Bartoli - Riccò - Montaggio mostra ecc ... ). 25 aprile - Ultimazione mostra che viene inaugurata alle Il circa da Parri e Salizzoni: Distribuisco opuscoli: Le autorità fanno il giro. Parri si interessa particolarmente. Vengo presentato a lui. Dice che la mostra è fatta con intelligenza. Mi prega di segnalare all'Istituto Storico Nazionale l'esistenza del materiale stampato clandestino. Il maggio - Riprendo finalmente il lavoro della storia, interrotta a metà febbraio da oltre un anno. Luglio - Nel frattempo ho portato a termine il febbraio. Nuova interruzione per circa 15 giorni per gita di Vetto e di altrettanti giorni per sostituire C che va in ferie. Settembre - Lavoro al mese di marzo. Principio ottobre 58 Ho terminato anche il mese di marzo. Inizio pertanto lo spoglio del carteggio per il mese di aprile. Da vario tempo ho ripreso contatto con Borghesi. 20 ottobre' Finito lo spoglio del carteggio. Dovrei iniziare la narrazione dei fatti dell'aprile, ma decido di fare prima un capitolo che reputo molto importante su «La Direzione politica della lotta». In questi giorni ho esaminato, con Degani, la stampa clandestina. Ho portato con lui dal fotografo ben 140 documenti da far riprodurre. Degani e Negri, con quel materiale, intendono elaborare uno studio su quell'aspetto della Resistenza. Già hanno preso contatto a questo scopo, con l'editore Feltrinelli. Se il volume uscirà prima del mio dovrò tagliare dal testo gran parte del materiale clandestino che io pure ho utilizzato. Non sarà un gran male perchè il volume del dattiloscritto aumenta paurosamente 15. 27 ottobre Rispondo a Borghesi dandogli le notizie richiestemi su avvenimenti della Resistenza e polemizzando con la sua affermazione secondo la quale l'ANPI «continua a far suoi, come per il passato, i punti di vista e le polemiche a senso unico di un determinato partito politico». Insomma, sta estendendo la sua diffidenza politica verso il P.C.1. all'ANPI. Questo mi pare grave, prima di tutto perchè trattasi di accuse infondate, in secondo luogo perchè egli pare assumere ora un atteggiamento ipercritico su tutto ciò che ha sapore di «sinistra». Ciò non promette niente di buono. 15 Lo studio in questione non fu mai pubblicato nè risulta che i compianti Giannino Degani e Arrigo Negri lo avessero mai portato a termine. Saggi ASPETTI ECONOMICI DELLE CAMPAGNE REGGIANE E PRIME INDICAZIONI DI LOTTA DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO (1939-1943) 1. Rapporto città-campagna Lo scopo che ci prefiggiamo con questo intervento è quello di fornire alcuni elementi di conoscenza sul rapporto città-campagna e sulle condizioni di vita dell'una e dell'altra nel periodo che va, grossomodo, dallo scoppio della guerra all'affermarsi della Resistenza come moto popolare e di massa. Ciò ci pare indispensabile, sia per capire meglio il contesto nel quale il partito comunista si muove, per valutarne oggettivamente le difficoltà e gli eventuali errori o ritardi, sia per analizzare il ruolo svolto dalle campagne nelle vicende della prima Resistenza, vale a dire fino alla primavera del 1944. Se infatti la storiografia è concorde nell'assegnare ai contadini emiliani un ruolo fondamentale negli avvenimenti del 1944-1945, non altrettanto può dirsi per il periodo precedente. Sono largamente conosciute affermazioni del tipo: «il sonno dell'Emilia è durato otto mesi» " oppure: «il posto che ... occupano le campagne ... è di gran lunga meno rilevante rispetto alle lotte operaie. Le campagne anzi restano relativamente assenti dal quadro» 2, e ancora: «il movimento partigiano nelle campagne stenta a decollare» 3, tutte riferentesi al periodo autunno 1943-primavera 1944. Ad esse, a Reggio come nell'Emilia in genere, troppo spesso si è risposto in modo per così dire «emotivo», senza cioè andare a vedere i rapporti economici esistenti nella città e nella campagna prima del 1944, per verificarne il tenore di vita. Cosa invece a nostro avviso indispensabile, in quanto pensiamo vi sia una strettissima correlazione tra il progressivo peggioramento delle condizioni di vita ed il passaggio di gruppi sempre più consistenti di lavoratori da un gel G. BOCCA, Storia dell'Italia Partigiana, Settembre 1943 - Maggio 1945, Bari, Laterza, 1970, p. 372. 2 AA.VV., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 5. 3 P. SPRIANa, Storia del Partito Comunista Italiano, V, La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, Torino, Einaudi, 1975, p. 90. 54 nerico «afascismo» ad un deciso antifascismo, per giungere alla lotta armata e all'adesione a quePa forza politica che più coerentemente s'impegna per essa, vale a dire il partito comunista. È quindi con questo taglio che vanno lette le considerazioni che ci accingiamo a sviluppare, non senza però aver fatto altre due premesse indispensabili. Stretta relazione tra tenore di vita e fronte interno non significa univocità o determinismo meccanicistico: in altre parole, diverse sono le motivazioni che stanno alla base di un fenomeno così complesso. Si pensi, ad esempio, ai bombardamenti, alle distruzioni, all'andamento della guerra, alla morte dei giovani sui fronti più disparati, oppure, su di un piano più strettamente politico, a cosa ha significato per molti la guerra di Spagna o l'aggressione all'Unione Sovietica. Sull'analisi di questi fattori altri si sono, giustamente, soffermati, perciò abbiamo preferito tralasciarli, non perchè irrilevanti o poco importanti, ma per porre l'accento su problemi e su dati meno noti a livello provinciale. La seconda premessa è questa: spesso parleremo di produzioni, di tenore di vita, di livelli di consumo delle masse, definendoli buoni, discreti, in leggera flessione o altre espressioni simili: si tenga presente che il confronto viene sempre fatto con la situazione economico-alimentare dell'anteguerra, situazione che è già caratterizzata, per quanto riguarda le masse popolari, da un tenore di vita estremamente basso. Detto ciò, vediamo di entrare nello specifico. 2. La produzione agricola nei primi anni di guerra A partire dal 1939, quando cioè le prospettive di guerra diventano via via realtà e fino al 1941 compreso, la produzione agricola della provincia complessivamente si mantiene assai elevata, anzi, in qualche caso, si registrano aumenti anche molto consistenti sia nelle produzioni complessive che in quelle unitarie. È il caso dei pomodori, delle patate, delle barbabietole da zucchero, ma, ciò che più conta per l'economia provinciale, soprattutto dell'allevamento del bestiame e della produzione del latte, del burro e del formaggio. Anche il granoturco ed il riso sono in leggera ascesa, mentre il frumento e l'uva appaiono più stazionari 4. Anche per il proletariato sia agricolo che industriale, il primo biennio di guerra non comporta significative riduzioni dei consumi, questo almeno secondo i dati in nostro possesso. Il salario nominale dei braccianti agricoli infatti, dal 1939 al 1941 aumenta del 34OJo per gli uomini e del 31 % per le donne, con un aumento in termini reali rispettivamente dell'8 e del 5,5% 5. Anche sotto il profilo occupazionale la situazione non sembra aggravarsi ri4 Camera di Commercio, Agricoltura e Industria di Reggio Emilia (d'ora in poi C.C.A.I.RE.), Linee e cifre, provincia di Reggio Emilia. Compendio statistico 1938-1949, Reggio Emilia, Arti Grafiche Emiliane, [1950], pp. 15-19. Cfr. anche I.S.T.A.T., Annuario statistico dell'Agricoltura Italiana, 1939-1942, Roma, Tip. I. Failli, 1948, pp. 318-319. 5 Cfr. Ivi. 55 spetto all'anteguerra: basti pensare alla generalizzata riduzione della forza lavoro che la guerra inevitabilmente provoca con i richiami alle armi ed al forte sviluppo dell'industria bellica, in particolar modo delle Reggiane, la quale assorbe notevoli contingenti di manodopera dalle campagne 6. Leggermente diverso il discorso per il proletariato industriale ed in particolare per quello del comune capoluogo nel quale maggiormente esso si concentra. Fin dal 1941 i consumi dei generi soggetti a tesseramento sono molto bassi: le razioni sono infatti di 250 grammi giornalieri di pane a testa, più un supplemento di 100 grammi per chi svolge lavori pesanti e di 2 chilogrammi di generi da minestra al mese, con un supplemento, sempre negli stessi casi, di 600 grammi 7. Almeno in questo periodo, tuttavia, i lavoratori della città sembrano in grado di supplire a tali carenze con l'acquisto di generi alimentari non soggetti a tesseramento o con il ricorso al libero mercato. Vediamo infatti che nel comune di Reggio Emilia i consumi di carni, soprattutto di quelle suine, lardo e insaccati, così come quello dei formaggi e latticini, del pesce e del vino registrano leggeri aumenti rispetto all'anteguerra 8. Questi generi tuttavia sono più cari rispetto al pane, la pasta o il riso, i quali, a loro volta, al di fuori dei quantitativi acquistabili con la carta annonaria, sono reperibili soltanto sul libero mercato, cioè a prezzi superiori. In entrambi i casi è evidente che ciò può avvenire, il più delle volte, spendendo quei piccoli risparmi che le famiglie possono aver accumulato in anni di lavoro, finiti i quali però non ci sarà più via di scampo. In sostanza, almeno per questo primo biennio di guerra, il regime sembra in grado di garantire una certa «normalità» al rapporto città-campagna: da un lato mantenendo inalterata la produzione agricola e quindi i rifornimenti alla città, dall'altro garantendo alla campagna l'uso di quei fattori produttivi ad essa indispensabili. Abbiamo detto «sembra» poichè, se si approfondisce un attimo la ricerca, ci si accorge che già nel 1941 si cominciano ad avere quegli «scompensi», chiamiamoli così, che porteranno fin dall'anno successivo ad una prima diminuzione della produzione agricola e poi, pur con notevoli oscillazioni, praticamente a una riduzione del 50070 nell'ultimo anno di guerra. Un primo elemento che occorre notare fin d'ora è la diminuzione dell'uso dei fertilizzanti chimici dai 293.066 quintali del 1939 ai 251.467 del 1941 9. Un secondo elemento è dato dall'uso delle macchine agricole: se è vero che il loro numero complessivo in provincia è in aumento, è altrettanto vero che l'impiego del carburante per usi agricoli è già in forte diminuzione (46.158 quintali nel 1939 contro 34.921 nel 1941) l0. È poi evidente che la diminuzione di entrambi questi fattori produttivi non 6 Gli addetti alle Reggiane passano dalle 5.221 unità del 1939 alle 10.000 del 1941. Cfr. C.C.A.I.RE., Indici della ricostruzione, Reggio E., Poligrafica Reggiana, [1953], p. 60. Secondo Spreafico nel 1941 essi sono 11.229. Cfr. S. SPREAFICO, Un'industria, una città. (50 anni alle Officine Reggiane), Bologna, Il Mulino, 1968, pp. 254-258. 7 Cfr. «Il Solco Fascista», a. XV, n. l, l Gennaio 1942. 8 Cfr. C.C.A.I.RE., Linee e cifre, cit., pp. 56-57. 9 Cfr. I.S.T.A.T., Annuario statistico ... 1939-1942, cit., pp. 92-97. lO Cfr. Ivi, pp. 85-107. 56 colpisce in ugual misura tutti gli agricoltori ma soprattutto quelli piccoli, sia perchè essi in genere sono esclusi dalla gestione di quegli enti che ne presiedono la distribuzione, quali il Consorzio Agrario Provinciale o l'UMA (Utenti Motori Agricoli), sia perchè, in una situazione inflattiva che spesso vede allargarsi la forbice tra i prezzi dei prodotti agricoli e quelli dei prodotti industriali, chi produce prevalentemente per l'autoconsumo vede più drasticamente ridotte le proprie capacità di acquisto. Da ultimo, occorre sottolineare la presenza fin d'ora di un doppio mercato, soprattutto per i generi alimentari. La differenza fra prezzi legali e di mercato dei prodotti agricoli è abbastanza contenuta, dell'ordine del 10-50070 a seconda dei casi 11, ma già tale da accentuare quegli «scompensi» di cui parlavamo all'inizio. Ora, se si pensa che la produzione dei generi di prima necessità in provincia non subisce flessioni rispetto all'anteguerra, che, come vedremo tra poco, anche la consegna dei prodotti agli ammassi non cala, risulta evidente che il fenomeno non dipende tanto dall'«egoismo dei contadini», come il regime vorrebbe far credere, quanto piuttosto dalle disfunzioni del sistema, determinate «dalla collusione di interessi speculativi stabilitisi fra ristretti gruppi di produttori e le gerarchie del regime», come giustamente afferma Legnani 12. Altri sono gli elementi che lo possono confermare. Già nel 1938, ad esempio, mentre l quintale di grano è pagato al produttore 135 lire, l quintale di farina viene poi venduto al consumo a 189 lire: È evidente che un divario del 40% circa tra i due prezzi non trova sufficiente giustificazione nelle spese tecnico-burocratiche d'ammasso e di macinazione; ma che di speculazione si tratti, diventa tuttavvia ancor più chiaro l'anno successivo, quando, pur rimanendo inalterato il prezzo pagato al produttore, quello al consumo sale a 201 lire 13. Come avevamo accennato in precedenza, è con l'annata agraria del 1942 che si cominciano a registrare i primi cali produttivi soprattutto in alcuni dei settori più importanti per l'agricoltura provinciale, quali la cerealicoltura, la viticoltura e l'allevamento del bestiame 14. Indubbiamente, sulle produzioni del 1942 influisce anche il cattivo andamento stagionale, ma che non si tratti di una crisi contingente lo dimostreranno gli anni successivi. Inoltre, da questo momento, al progressivo venir meno di fattori produttivi come i fertilizzanti, gli anticrittogamici, l'uso dei motori agricoli, si aggiunge un ulteriore elemento di «squilibrio» e cioè l'irregolarità delle rotazioni. Dal 1938 in poi si assiste ad una progressiva espansione delle aree adibite alle colture cerealicole a scapito ovviamente di colture più specializzate ed anche di quelle foraggere. Se nel 1940 e 1941 il fenomeno è poco rilevante, nel 1942 e ancor più nel 1943 diventa massiccio, tanto che le aree adibite a grano e granoCfr. C.C.A.l.RE., Linee e cifre, cit., p. 37. LEGNANI, Aspetti economici delle campagne settentrionali e motivi di politica agraria nei programmi dei partiti antifascisti (1942-1945), in «Il movimento di liberazione in Italia», n. 78, Gennaio-Marzo 1965, p. 12. 13 Cfr. C.C.A.l.RE., Linee e cifre, cit., pp. 37-38. 14 L'allevamento dei bovini passa da 204.796 capi ne11941 a 187.674 nel 1942; la produzione di grano da 724.100 q.li a 574.850; quella del granoturco da 251.800 q.li a 176.030; quella dell'uva da 1.321.833 q.li a 794.913. Cfr. C.C.A.l.RE., Linee e cifre, cit., pp. 15-23. Il 12 M. 57 turco aumentano rispettivamente di 4.140 e 8.720 ettari rispetto al 1938 15. La ragione di ciò è da ricercarsi nella politica dei prezzi praticata dal regime per sostenere tali colture. Questo però comporta il mancato rispetto dei cicli rotativi, che, a lungo andare, provoca un progressivo depauperamento del terreno. Inoltre la restrizione delle colture foraggere a favore di quelle cerealicole costringe i contadini a ridurre il patrimonio bovino, e così, alla scarsità di concimi chimici (nel '42 il loro impiego scende a 181.720 quintali) 16, si aggiunge quella dei concimi organici. È un ciclo che si chiude con effetti che sono e saranno in futuro ancor più disastrosi per l'economia agricola provinciale. Ad aggravare le condizioni di vita dei contadini non è soltanto la recessione produttiva, ma anche l'inasprimento della politica di rapina portata avanti dal regime attraverso gli ammassi obbligatori. Quello del grano era stato istituito fin dal 1936, vale a dire quando la politica autarchica a fini bellici aveva posto la necessità di un sempre maggiore controllo dell'economia nazionale. Fin dal primo momento i contadini avevano mal sopportato questa espropriazione del prodotto, tanto che i quantitativi di grano consegnati non erano mai stati molto elevati, oscillando da un minimo del 22,6OJo nel 1936 ad un massimo del 35% nel 1939 17. Tuttavia, in assenza di grossi incentivi economici all'evasione (nel 1938 e 1939 la differenza tra il prezzo d'ammasso e il prezzo di libero mercato non supera il 5%) 18 ed in presenza di prezzi abbastanza remunerativi, non si era avuto un vero e proprio scontro tra contadini e potere politico, anche se la presenza di un forte malessere nella categoria si avverte, oltre che dalle basse quote conferite, anche dalla stampa. Non passa un'estate, infatti, che il quotidiano locale «Il Solco Fascista» non dedichi qualche articolo al problema: richiamando gli agricoltori a compiere il loro «dovere», ricordando la necessità di consegnare «tutto» il prodotto, sottolineando le «pene» non solo pecuniarie nelle quali incorre chi non consegna, l'obbligo da parte dei gestori delle trebbiatrici di denunciare «scrupolosamente» i quantitativi di grano trebbiato 19. L'impressione complessiva che si ricava dalla lettura della stampa, almeno per questo primo periodo, è che le necessità del regime da una parte e la riluttanza dei contadini dall'altra, anche se questi avvertono sin d'ora che sulla loro pelle si concentrano interessi speculativi di vaste proporzioni, non siano tali da determinare interventi pesanti sotto l'aspetto repressivo. Nel primo biennio di guerra, sempre per quanto riguarda il grano, il quadro non muta sostanzialmente: i quantitativi consegnati permangono sui livelli degli anni precedenti (rispettivamente il 30% e il 37,5%) 20 e la stampa locale mantiene complessivamente il tono che abbiamo testè descritto. In sostanza, Cfr. [vi, pp. 15-20. Cfr. I.S.T.A.T., Annuario statistico ... 1939-1942, cit., pp. 92-97. 17 Cfr. I.S.T.A.T., Annuario statistico dell'agricoltura Italiana 1936-1938, Roma, Tip.1. Failli, 1940, pp. 158, 159, [*]; I.S.T.A.T., Annuario statistico ... 1939-1942, cit., pp. 318-319. l' Cfr. C.C.A.I.RE., Linee e cifre, cit., p. 37. 19 Cfr. «Il Solco Fascista», a. IX, n. 205, 28 Agosto 1936; a. XI, n. l32, 4 Giugno 1938; ivi, n. 156, 2 Luglio 1938; ivi, n. 180, 30 Luglio 1938. 20 Cfr. I.S.T.A.T., Annuario statistico ... 1939-1942, cit., pp. 318-319. 15 IO 58 anche in questo settore, sembra garantita quella «normalità» cui prima accennavamo. Parallelamente, però, il regime vincolistico viene notevolmente esteso: dapprima ai restanti prodotti cerealicoli (1939 riso e granoturco, 1941 orzo) e poi anche ad altri, quali il vino (1941), le patate e le barbabietole da zucchero (1942) per citare i più importanti 21. Ma non basta. Nell'estate del 1942 vengono emanate le norme per il censimento del bestiame 22. «L'Unità» denuncia il fatto affermando che con «il censimento ... il governo vuole aumentare la percentuale di prelevamento del bestiame che è ora del 40070 annuo» 23. Ma che non si tratta di un accertamento per semplici fini statistici, i contadini lo intuiscono da soli. È tuttavia sempre sul grano che da una parte si concentra l'attenzione del regime e dall'altra si coagula la prima opposizione dei contadini e anche in questo braccio di ferro il 1942 sembra segnare un punto di svolta. L'anno si apre con l'annuncio della proroga dei termini di consegna relativi al raccolto del 1941, al 28 febbraio del 1942 24. All'annuncio fa seguito, sul «Solco Fascista», un'intensa campagna di stampa che non esita ad usare accenti minatori: «il grano c'è - si legge, ad esempio nel numero del 13 gennaio - perchè sappiamo che la terra lo ha prodotto: bisogna che venga fuori dai ricettacoli ove s'annida» 25. Ma evidentemente dai «ricettacoli» non ne deve essere uscito molto se subito dopo viene varato un decreto che stabilisce un conferimento supplementare per i «produttori coltivatori diretti» e i loro famigliari nella misura di 15 chilogrammi a persona, da effettuarsi entro il 31 marzo 26. Indubbiamente è un attacco ai consumi delle famiglie contadine non solo per l'entità del conferimento, ma anche per il fatto che esso avviene nel momento più critico dell'anno, cioè quello della saldatura tra il passato raccolto e quello che deve ancora venire. Ma è con la campagna granaria del 1942 che lo scontro si acutizza. La lettura del «Solco Fascista» dell'estate del 1942 è non priva di indicazioni. Il regime appare cosciente delle difficoltà dei contadini e del fatto che per molti di essi il non consegnare totalmente il grano è l'unico mezzo per evitare la fame, ma le necessità belliche sono impellenti. Infatti, per ottenere armi dall'alleato tedesco, il regime non può offrire altro che grano e in questo periodo ben 6,5 milioni di quintali sono venduti alla Germania 27, vale a dire circa il 10% del prodotto nazionale, di quel prodotto cioè che è già insufficiente a garantire il fabbisogno della collettività pur in presenza di bassissimi livelli di consumo. Ma ritorniamo alla stampa locale. In maggio essa annuncia che il prezzo dei cereali pagato ai produttori nella imminente campagna rimarrà invariato riCfr. «Il Solco Fascista», a. XV, n. 209, 28 Luglio 1942; ivi, n. 239, 27 Agosto 1942. Cfr. Le norme per il censimento del bestiame, decreto del 25 Giugno del Ministero dell'Agricoltura e Foreste, in «Il Solco Fascista» a. XV, n. 188, 7 Luglio 1942. 23 Il censimento del bestiame, in «l'Unità», a. XIX, n. l, l Luglio 1942. 24 Cfr. Tutto il grano agli ammassi entro il 28 Febbraio per ottenere il premio del Duce, in «Il Solco Fascista», a. XV, n. 3, 3 Gennaio 1942. 25 Agricoltori: il 28 Febbraio, ivi, n. 13, 13 Gennaio 1942. 26 Il quantativo di grano che gli agricoltori hanno la facoltà di non conferire all'ammasso, ivi, n. 76, 17 Marzo 1942. 27 Cfr. I.S.T.A.T.,Annuario statistico ... 1939-1942, cito 21 22 59 spetto all'anno precedente 28. Per un'esatta valutazione si tenga presente che il costo della vita in provincia è nel frattempo cresciuto del 12OJo a prezzi ufficiali 29, escludendo cioè il «mercato nero» ormai dilagante, come vedremo tra poco. In giugno poi il quantitativo di grano che i produttori possono tr:fttenere per l'autoconsumo viene fissato in 2 quintali a persona 30. Anche in questo caso si tratta di un notevole arretramento: all'atto della istituzione degli ammassi obbligatori tale quantitativo era di 3 quintali pro capite, nel 1940 era stato ridotto a 2,5 quintali ed ora a 3, praticamente 1/3 in meno, e prima che la campagna finisca verrà ulteriormente ridotto ad 1,5 quintali. Infine, per tutto il periodo della mietitura e trebbiatura, la stampa locale è solcata da appelli, richiami al senso patriottico dei «rurali d'Italia»; con grandi titoli e ampie fotografie si annuncia che il prefetto o il federale, oppure i diversi segretari dei fasci comunali hanno iniziato la trebbiatura nei comuni, nelle ville, nelle frazioni; si trebbia persino in Piazza della Vittoria a Reggio 3I. Ma, oltre alla propaganda, c'è l'inasprimento delle pene, l'uso di toni intimidatori 32, e soprattutto, a differenza di quanto accadeva in precedenza, ci sono pure gli arresti, le denunce, le punizioni esemplari 33, anche queste poste bene in vista, in modo che siano di monito per chi non vuole capire la «convenienza di consegnare». L'esito dello «scontro» (ormai si può definirlo tale), fa presupporre una notevole accentuazione di quella «riluttanza» che sin dall'inizio aveva caratterizzato l'atteggiamento dei contadini di fronte agli ammassi: il quantitativo consegnato in provincia è pari al 32,3% del prodotto del 1942 34 • In sostanza, si tratta di una percentuale di circa 1/3 superiore a quella del 1936, quando però i contadini potevano trattenere 1/3 in più di grano, quando gli ammassi erano ancora in fase di perfezionamento anche sotto l'aspetto tecnico-burocratico e quando, soprattutto, le esigenze del regime non erano paragonabili a quelle attuali, tanto da rendere necessario, allora, uno «scontro» frontale con questa categoria. Sul piano politico cosa significa tutto questo? È estremamente difficile po teme trarre indicazioni univoche, soprattutto perchè mancano dati disaggreCfr. Il prezzo dei cereali, in «Il Solco Fascista», a. XV, n. 142,22 Maggio 1942. Cfr. C.C.A.I.RE., Linee e cifre, cit., p. 39 30 Cfr. Denuncia produzione cereali e fave, in «Il Solco Fascista», a. XV, n. 170, 19 Giugno 1942. 31 Cfr. «Il Solco Fascista», a. XV, nn. 182-183-186-188-191-192-193, rispettivamente del 1-2-57-10-12-13 luglio 1942. 32 «Chiunque sottrae al consumo normale merci di rilevante entità è punito con la reclusione da 5 a 25 anni». Le nuove pene e sanzioni per le attività criminose in materia annonaria, ivi, n. 163, 12 Giugno 1942. «I nuovi provvedimenti economici adottati quest'anno dal governo ... sono tali da rendere praticamente impossibile ogni evasione alla legge». E se non consegnassi il grano all'ammasso?, ivi, n. 188, 7 Luglio 1942. 33 Riportiamo alcuni titoli significativi a questo riguardo: Agricoltore di Boretto denunciato per gravi infrazioni annonarie; Arresto di 5 persone a Carpineti per sottrazione di frumento all'ammasso; La sentenza nel processo per sottrazione di grano all'ammasso: O.M. condannato a quattordici mesi di reclusione ... ; ivi, nn. 127, 203, 261, rispettivamente del 7 Maggio, 22 Luglio, 25 Agosto 1942. 34 Cfr. I.S.T.A.T., Annuario statistico ... 1939-1942, cit., pp. 318-319. 28 29 60 gati, ad esempio per categorie di produttori, per zone della provincia, trimestrali e non annuali come quelli che possediamo. Alcune riflessioni, tuttavia, ci paiono possibili. Innanzitutto, non si può individuare nell'evasione un segno inequivocabile di opposizione al fascismo. È vero che il regime da un lato spinge in tutti i modi alla consegna ed il partito comunista dall'altro si batte contro di essa con la stampa 35, con le trasmissioni radio foniche di «Radio Milano Libertà» 36 e con la propaganda orale dei quadri di base 37. È però altrettanto vero che i prezzi al libero mercato sono alle stelle e che se per quella larghissima schiera di piccoli produttori che si collocano più o meno sulla fascia dell'autoconsumo il rifiuto alla consegna significa lotta per la sussistenza 38, per i produttori medi e grandi il rifiuto alla consegna non significa altro che lauti guadagni. Che poi anche per questi, come è stato affermato, l'accumulazione si traduca spesso in tesaurizzazione di carta moneta, trovando essi rigidi vincoli nelle possibilità di reinvestimento, ad esempio comprando altra terra 39, può essere significativo per il dopo, ma al momento attuale non importa granchè. Importa invece il fatto che fin d'ora numerose famiglie compiono un atto d'insubordinazione, un atto contrario alla legge, ponendosi oggettivamente, cioè di fatto, anche se non ancora soggettivamente, cioè con una precisa coscienza politica, in una posizione antitetica rispetto al regime. Dal discorso sin qui svolto, si può trarre un'ulteriore conclusione circa le condizioni del «ceto medio» della campagna, valida soprattutto per gli strati inferiori di esso: il 1942 significa lavoro estenuante per ottenere scarsi prodotti da conferire allo stato a prezzi praticamente bloccati e che in genere non tengono conto dei reali costi di produzione. Ciò che tuttavia appare meno intaccato per questi ceti, è il livello dei consumi alimentari, soprattutto se lo si confronta con quello di altre categorie. In sostanza, non sembra azzardato affermare che il livello di vita dei contadini è ancora relativamente accettabile rispetto a quello del proletariato agricolo e industriale. I braccianti, infatti, sono colpiti sia sotto il profilo occupazionale che sotto quello salariale. Pur in assenza di dati precisi, è facile intuire come la recessione produttiva da un lato e la necessità delle famiglie contadine dall'altro di sfruttare tutta la forza lavoro esistente al proprio interno, compresa quella " Cfr. Ai lavoratori della campagna, in «l'Unità», a. XIX, n. 1, 1 Luglio 1942. 36 Cfr. M. CORRENTI, Discorsi agli italiani, Roma, 1945, pp. 134 e segg. 37 Per il reggiano le testimonianze in tal senso sono assai numerose, citiamo tra le altre: A. FERRETTI (Toscanino), Ricordi e lotte antifasciste, Reggio E., Edizioni Rinascita, 1971, p. 89; R. MALAGUTI, Non dimenticare. Cent'anni di lotte politiche e sociali e antifasciste a Bagnolo in Piano (R.E.), Reggio E., Tecnostampa, 1970, p. 81. 38 Si tenga presente che nel censimento agricolo del 1930, su 33.487 aziende censite, ben 20.890 avevano una superficie inferiore ai 5 ettari, con una media di 1,5 ettari per azienda. Cfr. I.S.T.A.T., Catasto agrario 1929, Compartimnto dell'Emilia, provincia di Reggio Emilia, fascicolo 42, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1935, p. 15. 39 M. LEGNANI, Aspetti economici..., cit., p. 14. Ciò è vero anche per la provincia di Reggio E. In un documento del febbraio 1945, sul quale torneremo più avanti, si dice: «In nessun caso o rarissimo i contadini hanno acquistato terreni come ad esempio nella prima guerra mondiale». Relazione sulle condizioni dei contadini nella provincia di Reggio E. in Archivio Istituto Storico della Resistenza di Reggio E. (d'ora in poi abbreviato A.I.S.R.RE.), cart. 3/F, ora pubblicato in «Ricerche Storiche», a. VIII, nn. 20-21, Dicembre 1973, pp. 127-133. 61 marginale, lascino poco spazio al lavoro salariato. In secondo luogo, il salario orario cresce, in provincia, rispetto all'anno precedente, del 13070 40, mentre il costo della vita, nello stesso periodo, cresce, sempre stando ai prezzi ufficiali, del 12% 41. Ma qual'è il livello di copertura dei fabbisogni familiari garantito dai generi tesserati, cioè al di fuori del mercato nero? Certamente bassissimo, e non solo per i braccianti, ma anche per gli operai e per la piccola borghesia cittadina a reddito fisso. Dalla metà del 1942 all'inizio del 1943 la razione gioranaliera di pane viene ridotta da 250 grammi a 200 ed infine a 150, e anche se permangono inalterati i supplementi per chi svolge lavori pesanti è chiaramente una razione al di sotto del limite fisiologico. Inoltre, per il proletariato sia agricolo che industriale, a differenza di quanto era avvenuto in precedenza, ora risulta sempre più difficile compensare con l'acquisto di altri generi alimentari l'insufficienza dei generi tesserati, mentre il ricorso al mercato nero, anche se in continuo aumento, il più delle volte è impraticabile data l'enormità dei prezzi. Abbiamo visto in precedenza come il consumo di certi generi alimentari nel comune capoluogo fosse in ascesa fino al 1941: ora tale tendenza si inverte. Il consumo di carne fresca passa, infatti, da 24.511 quintali a 20.482; quello di carni salate, strutto e lardo, da 4.371 quintali a 2.822; quello del pesce conservato da 1790 a 1397; quello del formaggio e latticini da 6.765 a 6.132 e quello del vino da 79.021 ettolitri a 75.610 42. Interessante notare un altro fatto: il gettito dell'imposta di consumo sui generi di pellicceria aumenta, nello stesso periodo, da 12.433 lire a 19.900 4 \ segno evidente che, mentre le classi popolari subiscono una prima e grave diminuzione dei consumi alimentari (il dato relativo alle carni salate, strutto e lardo, così importanti nella loro alimentazione, è assai significativo) vi sono ceti e categorie che si rivolgono ai generi di lusso onde evitare una tesaurizzazione praticamente inutile. Che il mercato nero sia un fenomeno ormai dilagante, ma anche con prezzi sempre più proibitivi per le classi popolari, lo testimonia la differenza tra i prezzi legali di alcuni prodotti fondamentali quali il grano, il riso, il burro, il formaggio ed il lardo, e i prezzi di mercato. Se nell'anno precedente tale differenza oscillava da un minimo del 20070 ad un massimo del 70%, ora varia tra il 300 e il 500% 44. In tal modo il rapporto città-campagna esce stravolto, dominato com'è da una specie di doppio mercato nero: quello della città verso la campagna, che rende proibitivo l'uso di fertilizzanti, anticrittogamici, carburante e pneumatici per i motori, e quello della campagna verso la città che abbiamo appena viCfr. I.S.T.A.T., Annuario statistico ... 1939-1942, cit., pp. 368-369. Cfr. C.C.A.I.RE., Linee e cifre, cit., p. 39. 42 Cfr. 1vi, pp. 56-57. 43 Ibidem. Non sappiamo se ciò sia dovuto ad un aumento dell'aliquota oppure a maggiori consumi; anche nel primo caso tuttavia non sembra ipotizzabile una riduzione dei medesimi. 44 Riportiamo alcuni dati relativi al 1942 (i prezzi si riferiscono ad un quintale di merce, il primo è quello legale, il secondo è quello del mercato nero): grano 195 - 800; riso 203 -750; burro 2.1009.500; formaggio grana 1.570 - 6.500; lardo 1.533 - 7.000. Cfr. ivi, p. 38. 40 41 62 sto. A farne le spese sono gli strati inferiori dell'una e dell'altra, braccianti e piccoli contadini da una parte, operai e piccola borghesia a reddito fisso dall'altra, e se la maggior «tenuta» complessiva della campagna permette ai primi, ancora per poco, discreti livelli di consumo, altrettanto non può dirsi per i secondi. Ed è proprio tra questi strati che il «fronte interno» comincia a disgregarsi, che la base di massa viene meno. È un processo lento ma continuo, le cui cause, occorre ripeterlo per evitare accuse di unilateralità o di eccessiva semplificazione, sono molteplici, ma tra le quali, e non certo in posizione secondaria, figura quella da noi indicata. Non è certo casuale che dal proletariato sia agricolo che industriale vengano i primi scioperi e le prime manifestazioni antifasciste nella provincia: 1'8 ottobre 1941 centinaia di donne, in prevalenza braccianti agricole 45, danno vita ad una manifestazione a Cadelbosco, al grido di «Pane, Pace, Basta con la tessera della fame» 46, e nell'aprile del 1942 sono le operaie del «Calzificio Manifatture Maglierie Milano» a scendere in sciopero compatte 47. Anche la prima metà del 1943 vede ancora il proletariato sia agricolo che industriale promuovere agitazioni, manifestazioni e scioperi. In febbraio, alle Reggiane si ha dapprima una serie di arresti tra gli operai che stanno organizzando la lotta, il primo marzo si ha ugualmente una fermata del lavoro che dura pochi minuti e nelle settimane successive, permanendo il malcontento, si hanno fermate in vari reparti 48. In questo periodo, anche alla Lombardini si ha uno sciopero di un' ora 49, mentre il giorno 8 le operaie delle Trancerie Mossina di Guastalla scioperano compatte 50. In aprile, sono ancora le donne delle Trancerie Mossina a scendere in agitazione per aumenti salariali e altrettanto fanno gli apprendisti delle Reggiane. È la stessa stampa fascista ad informarci delle due agitazioni, affermando poi che il pronto intervento delle autorità, nell'un caso come nell'altro, ha risolto il problema 51. Sempre nella primavera, sono le mondine di Gualtieri a scioperare per ottenere miglioramenti nelle razioni alimentari 52. " In seguito alla manifestazione vengono arrestate lO donne tra le dimostranti e vediamo che queste sono tutte braccianti agricole. Cfr. G. CARRETTI, I giorni della grande prova. Appunti per una storia della Resistenza a Cadelbosco, Reggio E., Tecnostampa, 1974, p. 79. 46 Cfr. ivi, pp. 78-83; ed anche Adunata sediziosa, a cura dell' Amministrazione comunale di Cadelbosco Sopra, Reggio E., Tecnostampa, 1974, p. 79. 47 Cfr. La donna reggiana nella Resistenza. Atti del convegno tenuto a Reggio E. il 5 Aprile 1965, a cura dell' Amministrazione Provinciale di Reggio E., Tecnostampa, 1967, p. 27; L. STEFANI, La donna nella Resistenza reggiana, in «Ricerche Storiche», a. IX, n. 25, Luglio 1975, pp. 1516; Episodio poco noto del 1942: si ribellano le operaie reggiane delle Manifatture Maglierie Milano (con note di Vivaldo Salsi), ivi, a. VI, n. 16, Maggio 1972, pp. 85-91. 48 Cfr.: A. GIANOLlO, Fascismo e classe operaia a Reggio Emilia (1920-1945), in «Aspetti e momenti della Resistenza reggiana», a cura dell'Amministrazione della Provincia di Reggio E., Reggio E., Tecnostampa, 1967, p. 159; I.S.R.RE., Origine e primi atti del C.L.N. provinciale di Reggio E., Reggio E., Tip. Emiliana, 1970, p. 25. 49 Cfr. L. ARBIZZANI, L'Emilia Romagna nella guerra di liberazione. Azione operaia, contadina, di massa, Bari, De Donato, 1976, p. 43. " A. GIANOLlO, Fascismo e classe operaia ... , pp. 159-160. 51 Cfr. L. ARBIZZANI, Azione operaia... , cit., pp. 45-46. " Cfr. G. DEGANI, Introduzione a G. FRANZINI, Storia della Resistenza reggiana, Reggio E., A.N.P.I., 1970, p. XXXV. 63 Significativo è anche il fatto che il più delle volte si tratti di donne, in quanto, come è stato giustamente affermato, esse «risentivano maggiormente della precari età della situazione economica, della penuria di viveri: oltre ad essere operaie erano anche massaie a contatto con le difficoltà spesso insuperabiIi del desco famigliare» 53. A questo punto ci potrebbe venire obiettato che è metodologicamente errato valutare la lotta nelle campagne secondo schemi propri delle indagini sulle città, sulle fabbriche, sugli operai, senza cioè tener conto dei tempi e delle forme di lotta caratteristiche del settore agricolo. La campagna, infatti, possiede tempi propri, che sono determinati dall'andamento stagionale dell'attività lavorativa, legata a precise scadenze colturali, e rallentati dalle oggettive difficoltà di aggregazione dovute all'assetto del territorio, ed ha anche dei «modi» propri, che non sono solo lo sciopero e la manifestazione di piazza, ma anche la resistenza passiva, il sabotaggio, la non consegna dei prodotti 54. Se questo rilievo critico, dunque, ha un suo fondamento, è però altrettanto vero che in epoca successiva, in pratica dopo 1'8 settembre, ma soprattutto dopo la primavera del 1944, le campagne sapranno muoversi sia con lo sciopero e la manifestazione di piazza, sia con l'adozione di forme e strumenti di lotta affatto originali. Oltre alla battaglia contro la trebbiatura dell'estate 1944 avremo infatti, tanto per fare alcuni esempi, quella contro la scrematura del latte, la costituzione delle SAP, espressione tipica di organizzazione della lotta armata in pianura propria delle campagne emiliane, l'impostazione di una lotta per una diversa ripartizione del prodotto nella mezzadria ecc. 55. Ma prima del 25 luglio, durante i 45 giorni e nei primi mesi successivi all'8 settembre, ci sembra di poter affermare che, pur registrandosi nelle campagne un continuo passaggio dall'afascismo all'antifascismo, questo fenomeno stenta a tradur si in azioni rigorosamente consequenziali sul piano della lotta. Contro la circolare Roatta sono ancora gli operai delle Reggiane a manifestare compatti e ad essere abbattuti dal fuoco delle mitragliatrici 56. E questo avviene anche perchè sotto il profilo alimentare la campagna «tiene» ancora, soprattutto se si fa il confronto con la città. È solo nell'inverno 1943-44, quando cioè la recessione iniziata l'anno precedente si aggrava, che le condizioni di vita degli strati inferiori delle campagne scendono a livelli bassissimi. E anche questa volta non è casuale che gli scioperi del marzo 1944 trovino eco nelle campagne, dove appunto si ha «un certo Testimonianza di James Malaguti in A. GIANOLIO, Fascismo e classe operaia ... , cit., p. 159. Su questo argomento confronta le interessanti considerazioni svolte da: L. CASALI, Il programma agrario del P.C.I. nella Resistenza, in «Critica Marxista», a. VII, n. 6, Novembre-Dicembre 1970, p. 168; L. ARBIZZANI, Azione operaia ... , cit., pp. 101-103. " Sulla lotta di liberazione nelle campagne reggiane cfr.: A. GIANOLIO, La resistenza nelle campagne reggiane, in «Le campagne emiliane nell'età moderna», a cura di R. Zangheri, Milano, Feltrinelli, 1957, pp. 351-392; G. FRANZINI, Storia della Resistenza reggiana, cit.; Case di Latitanza e Resistenza Contadina nel Reggiano, Reggio E., Tip. Emiliana, 1957,66 pp.; M. SACCANI, Lotta di classe e antifascimo: le campagne reggiane 1939-1945, Tesi di laurea, Università di Bologna, a.a. 1974-75, XLVII-985 pp. 56 Cfr.: S. SPREAFICO, Un 'industria, una città, cit., p. 269; I.S.R.RE., Origine e primi atti... , cit., pp. 30-31; G. DEGANI, /125 Luglio a Reggio Emilia nelle carte ufficiali, in «Ricerche Storiche», a. VII, n. 19, Luglio 1973, p. 8. 53 54 64 fermento» 5\ mentre quelli dell'anno precedente avevano trovato rispondenza soltanto nel proletariato cittadino. Ma vediamo, il più brevemente possibile, cosa succede nel 1943 sotto il profilo economico, dando per scontata la conoscenza dei principali avvenimenti politici. Le necessità del «paese in guerra» sono sempre più impellenti e, visto che le consegne complessive di grano agli ammassi nonostante le repressioni non danno i risultati sperati, si tenta di affrontare il problema alla radice, determinando per decreto le superfici da destinare alle singole coltivazioni. È così che nel settembre del 1942 il ministero dell'agricoltura ordina di non ridurre la superficie coltivata a grano, granoturco, orzo e riso 58, e una settimana dopo il Prefetto di Reggio fissa nel 30070 e nel 10% la percentuale di superficie da adibire rispettivamente al grano e granoturco 59. L'Unità, seppur con notevole ritardo, prende posizione contro il decreto: dopo aver denunciato i gravi danni che deriverebbero all'agricoltura e alla zootecnia in particolare qualora il decreto fosse rispettato, invita i contadini a «non accettare di modificare le rotazioni» e «per evitare l'impoverimento dei terreni [ad] aumentare la superficie alla coltura destinata ai foraggi» 60. Quanto paventato dall'Unità si verifica puntualmente l'anno successivo. Se si eccettua infatti il grano, per il quale si ha una buona produzione complessiva soprattutto per l'estensione della superficie ad esso adibita 61, e l'uva la cui produzione registra un aumento rispetto all'anno precedente pur rimanendo al di sotto di quella del 1939 62, tutti gli altri prodotti diminuiscono sia nella produzione complessiva che in quella unitaria. Il granoturco, il riso, la barbabietola da zucchero, il pomodoro e la patata subiscono cali varianti tra il 57 Sugli scioperi del Marzo 1944 nella provincia di Reggio E. oltre alle diverse monografie sin qui citate cfr.: G. FRANZINI, Cronologia dei fatti militari e politici più importanti o significativi della guerra di liberazione nel reggiano, in «Ricerche Storiche», a. X, nn. 32-33, Dicembre 1977, pp. 93-84; V. VALLINI, La donna reggiana nella Resistenza, in «La donna reggiana nella Resistenza», cit., pp. 31 e 91; R. CAVANDOLI, Quattro Castella ribelle, in «Ricerche Storiche», a. VI, nn. 17-18, Dicembre 1972; ma confronta soprattutto i seguenti docllmenti: Rapporto da Reggio Emilia, considerazioni generali e prospettive, Marzo 1944, in P. SECCIDA, Il Partito Comunista Italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 307; Rapporto della O.N.R. del 14 Marzo 1944, in «Riservato a Mussolini», Milano, Feltrinelli, 1974, p. 188; Informazioni sullo sciopero generale del 1 o Marzo 1944. Bollettino n. 4, 5 pp., in «Archivio Gramsci Bologna», ora citato in L. ARBIZZANI, Azione operaia ... , cit., p. 253 ed infine Rapporto del Comitato Sportivo, s.d. ma certamente del Marzo 1944, firmato «Il responsabile della Sezione Sportiva», in Istituto Gramsci Roma, Archivio Brigate Garibaldi IV-3-2 dove si dice: «A Bagnolo e altre località della bassa Reggiana, i contadini, aderendo alla chiamata di scioperare, favorirono l'interruzione delle comunicazioni effettuate dai plotoni di garibaldini dislocati sul posto». 58 Cfr. Norme per l'attuazione del piano agricolo, in «Il Solco Fascista», a. XV, n. 261, 19 Settembre 1942. 59 Cfr. Il decreto per l'attuazione del piano provinciale delle colture erbacee per l'annata agraria 1942-43, ivi, n. 266, 24 Settembre 1942. 60 Il piano di produzione agricola 1942-43 deve essere sabotato, in «l'Unità», a. 20, n. 2, 31 Gennaio 1943. 6i Nel 1943 la produzione di grano è di 811.540 q.li, superiore a quella degli anni precedenti, ma la produzione per ettaro è di 17,8 q.li contro i 19 del 1941 e i 19,5 del 1940. Cfr. C.C.A.I.RE., Linee e cifre, cito p. 25. 62 Nel 1943 la produzione di uva è di 1.321.820 q.li quindi ben superiore ai 794.913 dell'anno precedente, ma inferiore a 1.705.680 del 1939. Cfr. iv i, p. 18. 65 IO e il 500/0 rispetto al 1941 63; ma è soprattutto la produzione di foraggio a risentirne (4 milioni di quintali contro i 6 del 1939) 64. Questo calo si ripercuote naturalmente sull'intero allevamento del bestiame e di quello bovino in particolare (10.000 capi in meno dell'anno precedente, 28.000 in meno del 1941) il che significa meno latte, meno formaggio, meno burro 65. 3. I contadini tra mercato nero e rivolta In tal modo l'autunno inverno 1943-44 diventa assai critico anche per le campagne, e non solo per i due anni consecutivi di scarsi raccolti ma anche perchè ad essi si aggiunge la politica di spoliazione del risorgente fascismo repubblicano. Questo, al di là delle enunciazioni socializzatrici che non si traducono mai in atto, riprende in pieno la politica del periodo precedente, forte ancora di un apparato che i 45 giorni, sia per la loro brevità, sia per la mancanza di volontà politica, avevano solo in parte scalfito. Le autorità locali si rendono conto che ormai anche le condizioni dei piccoli e medi contadini sono insostenibili, quando sono costretti ad ammettere che le semine debbono effettuarsi con scarsissime disponiblità di concimi e praticamente senza carburante per i trattori 66 e quando affermano che «le autorità ... sapranno al momento opportuno considerare gli sforzi effettivi dei produttori e compensarli equamente attraverso il riconoscimento di prezzi adeguati» 67. Intanto, però, la strada da tempo imboccata della compressione estrema dei consumi, affidando all'apparato repressivo il contenimento delle spinte centrifughe che da ciò possono derivare, non ammette alternative. Nell'autunno 1943 è il vino che viene precettato nella misura del 150/0 68, portata poco dopo addirittura al 50% perchè, sono le parole del Solco Fascista, «debbono ora usufruirne anche le forze germaniche» 69. La stessa cosa accade per il bestiame precettato, il cui numero viene diverse volte elevato «in seguito a ... richieste del comando Germanico» 70, quand'anche non venga direttamente requisito dalle truppe d'occupazione senza alcun compenso per la produzione 71. Poco dopo vengono fissate le «norme per la realizzazione, en63 Questi i dati, espressi in quintali, relativi alla produzione del 1943, confrontati con quelli del 1941, anno di maggior espansione produttiva: granoturco 122.150 - 251.800; riso 47.520 - 53.816; pomodori 27.400 - 113.550; patate 89.590 - 93.750. Cfr. iv i, pp. 15-17. 64 Cfr. ivi, pp. 19-20. 65 Questi i dati, confrontati sempre con quelli del 1941: latte 1.974.400 - 2.351.200; formaggio grana 120.326 - 143.071; burro 30.081 - 35.767. Cfr. ivi, p. 24. 66 «Gli avvenimenti che si sono succeduti in questi ultimi tempi hanno non solo intralciato, ma completamente sospeso l'arrivo del carburante necessario ai lavori agricoli di preparazione del terreno per la semina del grano e delle colture provinciali». La distribuzione del carburante agricolo, in «Il Solco Fascista», a. XVI, n. 315, 12 Novembre 1943. 67 Il dovere degli agricoltori, ivi, n. 297, 15 Ottobre 1943. 68 Cfr. Denuncia del vino, ivi, n. 314, Il Novembre 1943. 69 La percentuale di trattenuta del vino viene elevata al 50%, ivi, n. 341, 8 Dicembre 1943. 10 Raduni di bovini precettati, ivi, n. 324, 21 Novembre 1943. 71 Nello stesso articolo si smentisce la voce secondo cui il bestiame requisito dai tedeschi non viene pagato; sappiamo tuttavia quanto quella «diceria» fosse esatta. Cfr. fra gli altri: R. CAVANDOLI, Ciano per la libertà 1859-1945, a cura dell'Amministrazione Comunale di Ciano d'Enza, Reggio E., Tecnostampa, 1977, pp. 255-256. 66 tro l'ottobre 1944, del piano di conferimento da parte degli allevatori del 35070 del peso bloccato del bestiame» 72. Nell'inverno 1943-44 è la volta del latte che «deve essere totalmente ed esclusivamente conferito ai caseifici o centri di raccolta» 73, i quali, in base ad un decreto emanato nell'ottobre 1943, devono «procedere alla totale scrematura del latte affluito» 74. Come si vede, se si escludono alcuni prodotti ortofrutticoli di scarsa importanza nel bilancio della famiglia contadina, tutto è sottoposto a regime vincolistico e per «convincere» i contadini a consegnare non si usa più la propaganda ma la repressione pura e semplice. Anche in questo caso la lettura del «Solco Fascista» è indicativa: «La disciplina dei conferimenti - vi si legge - deve essere più rigorosamente osservata ... Nell'attuale momento non può essere compiuta nessuna evasione: costituirebbe un gravissimo reato» 75; poco più avanti: «gli allevatori i quali ricevono precetti obbligatori per il conferimento dei capi debbono inderogabilmente effettuare la consegna nel raduno indicato nella cartolina-precetto, onde evitare la diretta requisizione nella stalla e severissimi provvedimenti a loro carico» 76; e ancora: «agli inadempienti all'ammasso, non solo verrà confiscato il granoturco non conferito, ma verrà applicata una penalità in denaro corrispondente al decuplo del prodotto non consegnato» 77. Dietro queste affermazioni della stampa sta il fatto che nell'inverno 1943-44, il potere politico di applicazione delle leggi è ancora molto forte 78, in quanto alle deficienze del fascismo locale supplisce l'alleato tedesco, la cui forza militare, non ancora scossa dalle grosse sconfitte del 1944 e da un'azione partigiana di massa, incute grande timore nelle popolazioni. Tutto all'ammasso dunque, a prezzi molto inferiori al corrispondente aumento del costo della vita: questo infatti dal 1938 è salito del 170%, con punte del 400% per i generi alimentari 79; nello stesso periodo invece, i prezzi d'ammasso di alcuni prodotto fondamentali come il grano, il granoturco ed il riso sono saliti solo del 60-90% 80. Ma prezzi soprattutto che non permettono ai contadini l'acquisto dei prodotti indispensabili per il loro lavoro: il carburante agricolo ad esempio manca totalmente, ed è la stessa stampa fascista ad ammetterlo, e l'uso dei fertilizIl blocco del bestiame bovino, in «Il Solco Fascista», a. XVII, n. 45, 25 Febbraio 1944. Totale conferimento e utilizzazione del latte, ivi, n. 65, 19 Marzo 1944. 74 La scrematura del latte sarà totale e obbligatoria, ivi, a. XVI, n. 380, 8 Ottobre 1943. 75 Rigorosa disciplina nei conferimenti all'ammasso, ivi, n. 272, 30 Settembre 1943. 76 I raduni di bovini nel mese di febbraio, ivi, a. XVII, n. 18,23 Gennaio 1944. 77 Nuove norme sull'ammasso del granoturco, ivi, n. 44, 24 Febbraio 1944. 78 Cfr. G. DEGANI, Fascismo e resistenza nel movimento contadino reggiano, comunicazione presentata allO convegno di storia del movimento contadino, su «Antifascismo, Resistenza, Contadini», Reggio E., 26-29 Gennaio 1975 (ciclostilato) p. 17. 79 Cfr. C.C.A.l.RE., Linee e cifre, cit., p. 39. 80 Questi i prezzi legali di alcuni importanti prodotti relativi ad un quintale di merce (iliO è quello del 1938, il 2 0 è quello del 1943): grano 135 - 235; granoturco 92 - 160; riso 168 - 265. Cfr. ivi, p. 37. 72 73 67 zanti diventa proibitivo, soprattutto per i piccoli coltivatori: nel 1943 esso scende in provincia a 77 .185 quintali contro i 293.066 q.li del 1939 81. Tutto ciò non va certo a vantaggio nè del proletariato agricolo nè di quello urbano: al contrario, entrambi vedono peggiorare le loro condizioni sino al limite della tollerabilità. Il regime, in questo momento, cerca in tutti i modi di ricrearsi una verginità, riprendendo i cosiddetti toni della «prim'ora», sbandierando pr-!getti socializzatori e comunque tentando di adottare delle misure tampone, come quella di aumentare del 50070 il salario dei braccianti agricoli nel dicembre del 1943 82. Ma contemporaneamente il costo della vita è aumentato del 100% e per i generi alimentari addirittura del 200% 83. Inoltre il bombardamento delle Reggiane dell'8 gennaio 1944 porta di colpo ad una riduzione degli addetti di circa 7.000 unità 84, determinando una brusca inversione di quel processo di inurbamento dei ceti bracciantili cui accennavamo prima, con conseguenze facilmente intuibili sui livelli occupazionali. Per gli operai la situazione non è migliore: le razioni ormai sono al di sotto dei livelli fisiologici e in dicembre quella della carne viene ridotta a 100 grammi settimanali 85. Anche in questo caso i dati relativi ai consumi nel comune capoluogo sono molto significativi: già nel 1942 erano calati rispetto all'anno precedente, ma ora tale tendenza si rafforza. Il consumo di carne, infatti, scende dai 20.482 q.li del 1942 ai 17.408 del 43; quello del formaggio e latticini da 6.132 a 4.151; quello del vino da 75.610 ettolitri a 58.863 e gli esempi potrebbero continuare 86. Per la maggior parte della popolazione non è "nemmeno più possibile il ricorso al mercato nero, ove i prezzi dei generi di prima necessità sono 7-8 volte, addirittura lO, superiori ai prezzi legali 87. Il fenomeno va attentamente valutato in quanto contribuisce notevolmente ad approfondire quella frattura tra città e campagna sulla quale il fascisl!lO fin dall'inizio aveva puntato per garantirsi il potere. Abbiamo già citato alcuni dati che dimostrano come le ragioni del mercato nero siano da ricercare all'interno del fascismo (rapporto con la Germania e speculazioni delle gerarchie e degli agrari) e non certo nell'opposizione agli ammassi da parte dei piccoli contadini, per i quali la vendita di 1 o 2 quintali di farina si inserisce a livello della lotta per la sussistenza. Ciò risulta evidente anche da un altro dato: nel 1943 la produzione complessiva di grano in provincia è buona e la consegna all'ammasso non è inferiore agli anni precedenti nè 81 Cfr. I.S.T.A.T., Annuario statistico ... 1939-42, cit., pp. 92-97; I.S.T.A.T., Annuario statistico dell'agricoltura italiana 1943-1946, Roma, Tip. Failli, 1950, pp. 110-119. 82 Cfr. Il problema degli aumenti salariali risolto nella nostra provincia, in «Il Solco Fascista», a. XVI, n. 338, 5 Dicembre 1943. 83 Cfr. C.C.A.I.RE., Linee e cifre, cit., p. 39. 84 Cfr. S. SPREAFICO, Un'industria, una città, cit., pp. 235-237. 85 Cfr. Trafiletto, in «Il Solco Fascista», a. XVI, n. 341, 8 Dicembre 1943. 86 Cfr. C.C.A.I.RE., Linee e cifre, cit., p. 39. 87 Forniamo alcuni dati di confronto tra i prezzi legali e quelli di mercato nero praticati nel 1943 riferiti ad un quintale di merce: grano 235 - 2000; granoturco 160 - 1.450; riso 245 - 1.850; burro 2.100 - 18.500; formaggio grana 1.650 - 15.000; lardo 1.680 - 13.000. Cfr. ivi, p. 37. 68 in percentuale, nè come quantitativo globale 88: ebbene, sia nel 1943 che nel 1944 il prezzo del grano al mercato nero è di 8-10 volte superiore al prezzo legale. Tuttavia, per l'operaio o l'impiegato che si rivolge al mezzadro o al fittavolo per comprare un sacco di farina e lo paga 2.000 lire anzicchè 235, il borsanerista è il contadino, anche perchè il regime si guarda bene dallo smascherare i cosiddetti «pescicani» e va invece ad arrestare, dandone poi ampio risalto sulla stampa locale, questo o quel contadino che ha sottratto 2 o 3 quintali di grano all'ammasso 89. 4. I comunisti reggiani dall'operaismo al radicamento nelle campagne Questa frattura condiziona in maniera abbastanza consistente lo stesso partito comunista, il quale, per tutto il primo periodo della Resistenza, trova notevoli difficoltà ad «inquadrare» correttamente il problema delle campagne. Ciò accade anche nel reggiano, dove il problema delle alleanze di classe con le campagne, per la stessa struttura produttiva della provincia, doveva essere più sentito e presente nell'attenzione dei dirigenti locali. Le ragioni sono da ricercarsi anche altrove, soprattutto nella tradizione ideologica ed organizzativa del partito, così come si è venuta formando all'ombra della III Internazionale e nella clandestinità, tanto che le tesi gramsciane, predominanti al congresso di Lione, appaiono ora piuttosto lontane. Ma questo è un discorso che non possiamo approfondire in questa sede. Piuttosto, cosa intendiamo per «inquadrare» correttamente il problema delle campagne? Innanzitutto, l'estrema difficoltà che il partito incontra nel compiere un'analisi puntuale della stratificazione delle campagne, dei problemi economici che investono le diverse categorie contadine, delle profonde differenziazioni quivi esistenti non solo in termini di reddito e di consumi, anche di valutazione politica e di posizione sociale. Da questa difficoltà di analisi derivano una serie di indicazioni di lotta, di parole d'ordine, di proposte organizzative, a volte sbagliate o parziali quando addirittura non ci si trovi di fronte al vuoto, cioè alla mancanza di qualsiasi indicazione. Abbastanza spesso, come afferma Bergonzini, «la discussione sulla funzione guida della classe operaia, che rappresenta un principio rivoluzionario irrinunciabile, posta ... specie alla periferia del movimento in termini 88 Nel 1943 vengono consegnati all'ammasso in provincia di Reggio 339.400 q.li di grano su una produzione di 811.540, vale a dire il 41,80/0 del prodotto. Cfr. I.S.T.A.T., Annuario statistico ... 1943-46, cit., p. 438. Ai fini diuna più esatta valutazione del comportamento dei contadini sotto il profilo politico questo dato globale però è scarsamente significativo: bisognerebbe infatti conoscere i quantitativi consegnati prima del 25 Luglio, durante i 45 giorni e dopo 1'8 Settembre. 89 «II Solco Fascista» orchestra una vera e propria campagna di stampa per dividere i contadini dagli operai, scaricando sui primi le difficoltà alimentari incontrate dai secondi. Ad esempio nel mese di Dicembre del 1943 sul quotidiano appare più volte il seguente trafiletto: «Se la disciplina annonaria fosse integralmente rispettata, sia dal produttore che dal consumatore, si potrebbe seriamente valutare la possibilità di un aumento delle razioni. Questa semplice constatazione dimostra quanto sia dannosa l'azione degli evasori e quanto sia necessaria, salutare e utile la repressione dei loro delitti». 69 dogmatici, finì con l'assegnare un ruolo subalterno ai contadini, determinando orientamenti che ... rappresentavano un'aperta contraddizione con la realtà della stratificazione sociale e di classe della regione» 90. Anche nei quadri di base del partito troppo spesso si vede nel contadino colui che ha venduto il sacco di farina a carissimo prezzo, tanto che il partito interviene più volte sia a livello centrale che periferico per arginare quella frattura di cui parlavamo prima. Nelle Norme provvisorie per l'organizzazione del Partito Comunista, dell'inizio del 1944, ad esempio, vengono minacciate sanzioni disciplinari per quei compagni che giudicano (cito testualmente) «tutti i contadini come ignoranti, egoisti, avari e tirchi» 91, e nella circolare dal titolo L'organizzazione del Partito Comunista Italiano, di poco posteriore, si dice: «Constatiamo che le organizzazioni formate da compagni operai e artigiani e contadini hanno una grande incomprensione e sfiducia nei contadini» 92. Ciò accade anche a Reggio, tanto che in un documento di partito addirittura dell'aprile 1945 si dice: «noi dobbiamo ... creare l'unione fra operai e contadini e infrangere quegli attriti. .. e quelle ingiuriose prevenzioni con arte mantenute dai regimi reazionari che portavano la città ad odiare la campagna e viceversa. Non si deve più sentir dire dagli operai: voi contadini siete stati il braccio armato del fascismo contro di noi» 93. Ma desta ancor più meraviglia che un quadro intermedio come «Berto», parlando di Reggio, si esprima così: «Una dettagliata relazione fattami dal compagno Chia[rini] mi ha orientato sull'efficienza dell'organizzazione locale, nella quale appaiono subito questi due caratteri negativi: prevalenza numerica e combattiva dei membri contadini, deficienza notevole di quadri» 94. A parte la non veridicità della prima affermazione, dettata molto probabilmente dal fatto che in questo momento gli unici ad aver scelto la via della lotta armata in montagna sono i Cervi, è da sottolineare il giudizio negativo che viene dato circa la prevalenza dei contadini. Certo, non tutti la pensano in questo modo: Luigi Banfi [Giovanni Nicola] inviato come istruttore nel settore Nord Emilia, in un rapporto al centro del 16 dicembre afferma: «Se il legame del partito con le masse è debole, quello con le campagne è quasi nullo e lo studio dei problemi contadini del tutto trascurato. La conquista delle campagne, il problema degli alleati della classe operaia, non suscita tra i compagni il dovuto interessamento» 95. Il passo è estremamente importante non solo per l'affermazione teorica ivi contenuta ma anche perchè ci informa su un certo tipo di realtà ed in modo nettamente diverso ri90 L. BERGONZINI, L'Emilia Romagna nella guerra di Liberazione. La lotta armata, Bari, De Deonato, 1975, p. 227. 91 Cfr. Norme provvisorie per l'organizzazione del Partito Comunista, in A.I.S.R.RE., cart. 4/A. 92 Cfr. L'organizzazione del Partito Comunista Italiano, in A.I.S.R.RE., cart. 12/ A. 93 Relazione scritta sulla riunione tenuta dalla segret.[eria] col comp.[agno] S. del triumvirato il giorno 8 Aprile 1945, ora pubblicato col titolo: Direttive del P.C.!. alla vigilia della liberazione di Reggio (con nota di A. Magnani), in «Ricerche Storiche», a. VI, nn. 17-18, Dicembre 1972, p. 88. 94 BERTa [B. AlbertiJ, Bologna, dattiloscritto di 6 pp. del 23 Ottobre 1943, in Archivio Istituto Gramsci Roma, fondo P .C.I., cart. Emilia. 95 L. BANFI, Rapporto al centro del partito dall'Emilia del Nord, 16 Dicembre 1943, in P. SECCHIA, Il Partito Comunista Italiano, cit., p. 231. 70 spetto a «Berto». La lettura dei primi volantini diffusi e stampati in provincia ci pare abbastanza significativa circa il ruolo subalterno e le indicazioni confuse ed errate di cui abbiamo parlato. Prima di esaminarli occorre però fare una precisazione: in generale essi portano la firma del CLN ma, dal momento che l'addetto alla stampa e alla propaganda all'interno di esso è in questo momento il rappresentante del partito comunista Cesare Campioli, che per la stampa ci si serve dell'attrezzatura del PCI 96, che lo stesso partito è di gran lunga quello più attivo e organizzato è abbastanza logico ritenerli, se non proprio frutto esclusivo del partito, almeno da esso non contrastati. Nel primo, in ordine di tempo, diffuso in provincia si dice ai contadini: «Nascondete, e se del caso, distruggete il bestiame e i generi alimentari che possono essere oggetto di requisizione» 97. Giustamente Casali e la Gagliani hanno scritto in proposito: «Se si pensa all'economia famigliare e alla psicologia contadina, per cui il bestiame costituiva sia uno strumento di lavoro che un prodotto e i generi alimentari erano l'unica risorsa di cui il contadino potesse disporre» 98, una parola d'ordine del genere può essere definita quantomeno fuori luogo. Tant'è che «Il Solco Fascista» sembra avere buon gioco nell'irridere i «senza patria» che incitano i contadini a distruggere il proprio prodotto. In altri due manifestini datati 26 novembre e 29 dicembre 1943, «concepiti - è lo stesso Campioli che lo dice - come bollettini del CLN di una parte della bassa reggiana [vengono riportati] i primi risultati di una sottoscrizione a favore dei partigiani» 99. Sono diffusi con lo scopo di indicare un esempio che deve essere seguito dalla generalità della popolazione e vi si legge: «Come in ogni parte d'Italia occupata dai tedeschi il popolo aiuta i partigiani, così i possidenti, gli agricoltori, i contadini di una parte della bassa reggiana ai quali il Comit. di Lib. Naz. ha rivolto un caldo appello ... hanno risposto prontamente e sottoscritto con generosità» 100. Ma il manifesto che sotto il profilo politico appare più significativo è quello rivolto a Possidenti-Agricoltori-Contadini, quasi certamente della prima metà di gennaio del 1944, nel quale li si invita a «venire incontro ai fabbisogni delle masse popolari, degli operai, dei braccianti, delle famiglie di combattenti tutti» 101. 96 Cfr. I.S.R.RE., Origine e primi atti del C.L.N., cit., pp. 89-90; C. CAMPIOLI, Cronache di lotta, Parma, Guanda, p. 126. 97 Cfr. Contadini-agricoltori, volantino firmato da: «Un gruppo di agricoltori aderenti al Comitato di Liberazione Nazionale», s.d., ma certamente del settembre-ottobre 1943, in A.I.S.R.RE., cartella della stampa clandestina non periodica, ora pubblicato anche in Case di Latitanza e Resistenza Contadina nel Reggiano, cit., appendice non numerata. 98 L. CASALI - D. GAGLIANI, Presenza comunista, lotta armata e lotta sociale nelle relazioni degli «ispettori»: Settembre 1943-Marzo 1944, in «L'Emilia Romagna nella guerra di liberazione», voI. III, cit., p. 509. 99 Cfr. I.S.R.RE., Origine e primi atti del C.L.N., cit., p. 90. I volantini sono: Bollettino n. l, Bollettino del Comit. di Lib. Naz. di una parte della bassa reggiana, 26 Novembre 1943 e Bollettino n. 2, stesso sottotitolo, 29 Dicembre 1943, entrambi in A.I.S.R.RE., cartella della stampa clandestina non periodica. 100 Bollettino n. l, cito 101 Possidenti-agricoltori-contadini, volantino del C.L.N., s.d. ma certamente anteriore al gennaio 1944, in A.I.S.R.RE., cartella della stampa clandestina non periodica. 71 Come si vede da tutti questi esempi, il ruolo assegnato alle campagne è di semplice supporto alla lotta di liberazione. Ma ciò che più colpisce è che tra possidenti (agrari), agricoltori (grandi e medi affittuari o proprietari coltivatori diretti), contadini (piccoli proprietari, mezzadri e fittavoli) non viene operata alcuna distinzione. Tutti vengono, per così dire, posti sullo stesso piano e chiamati a svolgere lo stesso compito, cioè di «venire incontro ai fabbisogni delle masse popolari», come se i contadini non fossero essi stessi «masse popolari», a differenza invece dei «possidenti», mentre, a sua volta, la discriminante sembra passare tra gli operai e i braccianti da un lato e tutti i ceti medi agricoli dall'altro, semiproletari o borghesi che siano. Ciò che manca in definitiva è un'analisi precisa del rapporto città-campagna, delle stratificazioni sociali che si sono venute determinando nella seconda durante l'ultimo decennio e dei problemi che travagliano le famiglie contadine. Anche le indicazioni che in tal senso vengono dal «Centro» sono ancora molto scarse e generiche. Basta sfogliare «L'Unità» e «La Nostra Lotta» per accorgersi che fino al febbraio del 1944 non si parla del problema contadino 102, ed anche le rare volte in cui si fa, non si va oltre le indicazioni spesso ripetute e cioè di «non consegnare i prodotti agricoli agli ammassi, di non vendere nulla ai tedeschi, di nascondere i viveri e conservarli per i partigiani e per la popolazione lavoratrice italiana» 103. Tale carenza si riscontra anche nei documenti interni di partito: tra il settembre e il dicembre 1943 il Centro manda alla periferia una serie di 7 circolari, che arrivano anche aReggio, in ciascuna delle quali si danno direttive organizzative, strategiche, di lotta, per le varie circostanze e a seconda delle categorie sociali. Esse riguardano l'atteggiamento da tenersi nei confronti dei fascisti e dei capitalisti, l'organizzazione dei CLN, dei distaccamenti partigiani, il lavoro sindacale, l'organizzazione del fronte della gioventù, delle masse femminili ed infine la preparazione dello sciopero insurrezionale 104. «Si nota subito che dal «corpus» mancano, a tutto il dicembre del 1943, direttive specifiche attinenti le masse contadine» 105. Per la verità, Anton Vratusa nel rapporto inviato nel marzo 1944 al partito comunista jugoslavo accenna ad una 102 La prima approfondita analisi fatta sulla stampa non locale del P.C.I. dopo 1'8 Settembre 1943 è costituita dall'articolo: Necessità e possibilità del nostro lavoro nelle campagne, in «La Nostra Lotta» a. II, n. 3, 1 Febbraio 1944 pp. 11-12. In seguito, fino all'estate, il problema non viene più ripreso. Solo qualche accenno è contenuto negli articoli: P. SECCHIA, Considerazioni ed esperienze da trarre dal grande sciopero generale del 1-8 Marzo 1944, ivi, nn. 5-6 Marzo 1944, ora in P. SECCHIA, 1 Comunisti e l'insurrezione 1943-1945, Roma, Ed. Riuniti, 1973, p. 122 e in Appello del P. C.I. per la Resistenza, la lotta a fondo e l'insurrezione nazionale contro i tedeschi e i fascisti, in «La Nostra Lotta», a. II, n. 9, Maggio 1944. IO] Il passo è tratto dall'articolo La mobilitazione generale per la guerra di Liberazione Nazionale, in «La Nostra Lotta» , a. I, n. 2, Ottobre 1943. Anche le indicazioni espresse in questo articolo sono alquanto sommarie e non può dirsi che in esso vi sia un'analisi del problema. 104 I documenti sono: 1) Direttive per l'atteggiamento da tenersi nei confronti dei fascisti e dei capitalisti; 2) Direttive di organizzazione da sostenere nei comitati di liberazione nazionale; 3) Direttive di organizzazione per i distaccamenti partigiani; 4) Direttive per il lavoro sindacale; 5) Direttive per l'organizzazione del fronte della gioventù per l'indipendenza nazionale e per la libertà; 6) Direttive per il lavoro tra le masse femminili; 7) Direttive per la preparazione dell'insurrezione nazionale; in A.I.S.R.RE. 105 L. ARBIZZANI, Azione operaia, contadina di massa, cit., p. 129. 72 direttiva generale datata 20 dicembre 1943, riguardante le campagne, della quale però non si sono reperite copie. Ma il giudizio che lo stesso Vratusa dà del problema conferma quanto appena detto: egli, infatti, così si esprime: «Ancora meno si parla sulla stampa e nelle direttive di partito dei contadini, eccezion fatta per qualche disposizione riguardante la collaborazione dell'elemento contadino con le unità garibaldine» 106. Per di più, nelle Norme Cospirative emanate alla fine del 1943 si dà la disposizione di «rivedere la composizione degli organismi dirigenti [in modo che] la maggioranza [sia] di operai e in particolar modo quelli di grandi fabbriche» 107. Questa carenza di indicazioni viene spesso sttolineata nelle relazioni che i vari ispettori inviano al centro, soprattutto da quelli che si trovano ad operare in contesti prevalentemente agricoli. A sua volta però il centro sollecita i compagni della periferia e soprattutto quelli delle federazioni emiliane ad inviare dati, analisi, relazioni, studi sulle campagne, onde poterne trarre gli elementi indispensabili di conoscenza 108 in base ai quali poi formulare precise indicazioni di lotta. «Berto», in un rapporto da Bologna del 23 ottobre, parlando del «lavoro per i contadini», scrive: «Sarà preparata (anche da Parma e da Reggio) una relazione sul lavoro svolto, difficoltà incontrate, errori compiuti e risultati ottenuti in questo settore. Tali relazioni serviranno non solo all'esame critico del lavoro svolto, ma serviranno anche come materiale di studio per tracciare direttive generali, da trasmettersi alle varie organizzazioni, direttive di cui tutti sentono (anzi sentiamo) la mancanza» 109. Ancora nel dicembre tuttavia, Giacchetti è costretto a chiedere al segretario della federazione reggiana di «scrivere un rapporto al P. sul problema dei contadini» ilO. Si dovrà però attendere ancora molto prima che ciò avvenga e prima che il centro elabori le direttive per il lavoro nelle campagne. Questo avviene soltanto nella tarda primavera del 1944, quando appunto vengono diffuse le Direttive per il/avaro nelle campagne I I I . È finalmente un documento estremamente ricco di indicazioni per tutte le categorie sociali delle campagne, per ciascuna delle quali si individuano problemi e peculiarità. In base a quali informazioni è stato steso? Non lo sappiamo, ma molto probabilmente non da quelle inviate dalla provincia di Reggio che «Berto» aveva promesso. 106 A. VRATUSA, Rapporto alla direzione del Partito Comunista Jugoslavo, zona, Marzo 1944, in P. SECCHIA, Il Partito Comunista Italiano, cit., pp. 332-333. 107 Norme cospirative, in A.I.S.R.RE., cart. 12/ A; citato da L. CASALI-D. GAGLIANI, Operai e «contadini»: le alleanze d,i classe nella politica del Partito comunista italiano durante la resistenza, in «Annali dell'Istituto "Alcide Cervi"», 1/1979, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 226. 108 In una lettera inviata al «centro» di Roma il6 Dicembre 1943 Luigi Longo scrive a proposito del problema contadino: «dappertutto ci chiedono direttive e materiale [che] noi non siamo in grado di dare, perchè manchiamo di dati concreti sulla reale situazione, oggi, nelle campagne». L. LONGo, I centri dirigenti del P.C./. nella resistenza, Roma, Ed. Riuniti, 1973, p. 168. 109 BERTO, Bologna, cito 110 Il passo è citato in L. CASALI-D. GAGLIANI, Presenza comunista, lotta armata ... , cit., p. 578. III Direttive per il lavoro nelle campagne, (6 cartelle dattiloscritte) s.d. ma sicuramente dell' Aprile 1944, in A.I.S.R.RE., cart. 4/ A, ora interamente riprodotto in M. SACCANI, Antifascismo e lotta di classe ... , cit., appendice pp. XI-XVII ed anche in L. ARBIZZANI, Azione operaia, contadina di massa, cit., pp. 202-206. 73 È infatti soltanto nel febbraio del 1945 che viene stilata la Relazione sulle condizioni dei contadini in provincia di Reggio I l \ un documento estremamente articolato, nel quale si compie un'analisi dettagliata della stratificazione sociale delle campagne, così che per la sua completezza e precisione testimonia il salto qualitativo che il Partito in un anno e mezzo di lotta è riuscito a compiere, non solo come capacità di analisi ma anche di mobilitazione, di capacità organizzativa, di stimolo alla lotta medesima. Un anno e mezzo che ha visto gli operai, i contadini, i braccianti, gli uni di fianco agli altri, nell'assalto agli ammassi, nella lotta contro la scrematura del latte, nella formazione delle squadre sappiste, nella lotta contro la trebbiatura e la consegna agli ammassi, contro le requisizioni del bestiame e dei prodotti in genere, nella settimana del partigiano, nell'impostazione di un diverso riparto del prodotto della mezzadria, nel tentativo, a volte riuscito, di creare un mercato alternativo rispetto al mercato nero del regime, un mercato di scambio diretto dal produttore al consumatore. Una lotta che il PCI ha diretto e guidato spesso in prima persona e di cui ha quasi sempre saputo cogliere tutte le potenzialità, in un rapporto estremamente dialettico, al punto che il Partito ha visto mutare la sua composizione e la sua stessa fisionomia. Nel luglio del 1944 gli iscritti al partito comunista sono 1.400, in ottobre circa 2.000 113 ,850 dei quali sono contadini e in prevalenza mezzadri 114; a fine anno, gli iscritti sono 4.050 115 e alla vigilia del VI congresso provinciale del 1947 essi saranno ben 59.938, dei quali il 30DJo operai, il 29,8DJo mezzadri, fittavoli e piccoli proprietari e il 17,7DJo braccianti 116. MAURO SACCANI Cfr. Relazione sulle condizioni dei contadini nella provincia di Reggio E., cit., pp. 127-133. Cfr. BERTELLI [Gaetano Bertelli], Note sulla situazione dell'Emilia Settentrionale. Reggio, Parma e Piacenza, 5 Ottobre 1944, relazione del T.I.N.E. al centro del P.C.I., A.I.GR. Roma, fondo P.C.I., cart. Emilia. In essa si dice: «A Reggio i membri del partito sono diventati 2.000 da 1.400 che erano nel mese di Luglio». 114 Cfr. il documento dell'8 Ottobre 1944 citato da E. RAGIONIERI, Il partito comunista, in L. VALlANI-G. BIANCHI-E. RAGIONIERI, Azionisti, cattolici e comunisti nella Resistenza, Milano, Angeli, 1971, p. 377. 115 Cfr. P.C.I., L'attività del partito in cifre. VI Congresso Nazionale, Milano, 4 Gennaio 1948, (personale, riservato ai delegati al VI Congresso), a cura della Commissione Centrale d'Organizzazione, Roma, U.E.S.I.S.A., [1947], p. 12. 116 Cfr. P .C.l. FEDERAZIONE PROVINCIALE REGGIANA, VI Congresso Provinciale, 23-24 Novembre 1947, Relazione sull'attività della Federazione (appunti per i congressisti), Reggio E., Coop. Operai Tipografi, 1947, p. 4. 112 Il) IL PROBLEMA OPERAIO NEI PERIODICI CLANDESTINI EMILIANO-ROMAGNOLI 1943-1945 1. Il tema che affrontiamo ci ha posto nella necessità di censire il complesso delle pubblicazioni (a stampa, ciclostilate e in offset), che, per la veste e la periodicità assunte, costituiscono dei veri e propri giornali (anche se nessuno di essi è quotidiano). Ci è risultato che in Emilia-Romagna, fra il 26 luglio 1943 (dopo la caduta del governo Mussolini) e il 28 aprile 1945 (liberazione di Piacenza), sono stati pubblicati clandestinamente ben 113 periodici così distribuiti per le singole province: Bologna 34; Ferrara 2; Forlì e Ravenna 21; Modena 17; Parma 17; Piacenza 7; Reggio Emilia 15. In allegato è l'elenco completo dei periodici censiti 1. Di questo consistente numero di fogli, solo una parte tratta diffusamente e con continuità dei problemi specifici, contingenti e generali, della classe operaia. Tutti, invece, li sottendono. I periodici vari che sono espressione dei contadini, degli intellettuali, delle donne e dei giovani, o di formazioni partigiane, stabiliscono implicitamente od esplicitamente, delle sole relazioni d'ordine generico. Questo nostro rapido esame, si fonda solamente sul primo gruppo dei periodici su ricordati. Procediamo disarticolando la trattazione secondo temi distinti tra loro per semplice comodità espositiva, poichè, effettivamente, sono tra di loro strettamente connessi. 2. Ruolo assegnato alla classe operaia dalla stampa dei partiti e dei Comitati di Liberazione Nazionale La stampa dei partiti di sinistra assegna alla classe operaia un ruolo primario nella lotta di liberazione che, all'indomani della caduta di Mussolini e della proclamazione dell'armistizio (25 luglio - 8 settembre 1943), spetta alle forze politiche e sociali antifasciste. l Per la provincia di Bologna e per la Romagna sono state edite due raccolte di testi integrali di tali periodici. Esse sono: Luciano Bergonzini - Luigi Arbizzani, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, voI. II, Stampa periodica clandestina, Istituto per la storia di Bologna, 1969, pp. 1128, e Giornali dell'antifascismo forlivese. 1 maggio 1943 - 9 novembre 1944, Presentazione di Arrigo Boldrini, edito a cura dell'Istituto storico della Resistenza, Forlì, 1975, pp. 264. 76 La classe operaia ha motivazioni economiche, sociali e politiche profonde contro il fascismo. Dal fascismo è stata duramente colpita. Avanguardie operaie, specialmente, hanno condotta un'attiva opposizione al regime e lo attestano i processi e le condanne inferte dal Tribunale speciale e gli invii al confino di polizia e le ammonizioni comminate. Con lotte coraggiose, condotte negli anni di guerra, esse hanno incrinato le strutture oppressive del regime. Gli scioperi operai del marzo 1943 e quelli dei mesi successivi, hanno inferto colpi importanti all'impalcatura fascista; hanno deciso la monarchia a sbarazzarsi di Mussolini; hanno mostrato forze e volontà fondamentali per combattere a fondo il fascismo e la potente «stampella» del neo-fascismo, costituita dagli occupanti nazisti. Queste motivazioni, alle quali vanno aggiunte le prove pronte ed estese della partecipazione di operai alle prime fasi della guerra di Liberazione e la discesa in campo degli operai contro i nazifascisti con le loro lotte di fabbrica, costituiscono larga parte delle argomentazioni che vi assegnano un ruolo primario, indiscusso, additato ad esempio alle altre formazioni sociali chiamate alla lotta di liberazione. Tra tanti scritti che potrebbero essere citati a documentazione, riportiamo alcuni brani tratti dall'appello ai lavoratori del Comitato di Liberazione Nazionale di Bologna, diffuso (attraverso un foglio volante) in preparazione dello sciopero del marzo 1944 e da un foglio operaio del novembre dello stesso anno. Nel primo si legge: «Operai!. Le rivendicazioni che voi coraggiosamente ponete agli industriali, rappresentano il grido di disperazione, l'anello esasperante della classe lavoratrice contro gli oppressori, l'invocazione a finirla con una guerra distruggitrice di ogni civiltà, di tutte le risorse economiche, delle ultime resistenze umane provate e straziate in questo terribile conflitto. E intanto, la classe industriale, anche in quest'ora, baratta l'amore alla Patria coll'ingordigia del guadagno, rendendosi complice dei tedeschi nello strazio che il Paese è condannato a subire in un tentativo di resistenza, attraverso il quale, nazismo e fascismo, tentano disperatamente il salvataggio della coalizione di quelle forze che nell'ultimo ventennio si sono dimostrate espressioni della più spietata violenza contro tutta la classe lavoratrice d'Europa ... Lavoratori! Decidendovi alla lotta, oggi vi schierate a fianco dei valorosi compagni di Torino, di Milano, di Genova che negli scioperi per le rivendicazioni economiche e politiche, e nel Marzo 1943 e in quelli di queste ultime settimane, hanno strappato vittorie audaci e gloriose, irrorando di sangue operaio gli spalti sui quali coraggiosamente si sono battuti. Non dimenticate che la guerra aperta al fascismo è stata iniziata dagli operai torinesi e milanesi cogli scioperi del Marzo 1943. È necessario che la classe operaia vi perseveri con ostinatezza, con decisione, senza recedere a lusinghe, a blandizie, a patteggiamenti allettevoli. In quest'ora ci si batte per la conquista di tutti i postulati economici che la classe lavoratrice italiana ha rivendicato, con una tradizione gloriosa, fin dal sorgere del movimento di lotta operaio in Europa. Ci si batte, soprattutto, per conquistare alla classe lavoratrice, tutte le sue libertà, e una dignità di vita, di governo, di benessere umano. E ciò sarà possibile raggiungerlo soltanto il giorno in cui, scacciati i tedeschi, colla lotta che operai e partigiani strettamente uniti negli intenti combattono, annientato definitivamente ilfascismo sopraffattore e assassino, la Patria sarà vendicata di tutte le sventure che la generazione nostra ha subite. Lavoratori! Di questa battaglia, nella quale tutte le rivendicazioni poste dalle vostre organizzazioni di classe costituiscono la base per reclamare il diritto alla vita per i vostri figli e per voi stessi, voi costituite l'esercito che non piega, che non cede. È attraverso di voi che la Nazione rinasce, si riabilita, si impone al mondo civile, riscatta se stessa!» 2. Nel secondo si legge: «Nazionale fu la ventennale lotta della classe operaia contro il fascismo. Nazionale è oggi l'al Il foglio volante è riprodotto integralmente in: LUIGI ARBIZZANI, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, val. IV, Manifesti, opuscoli e fogli volanti, Istituto per la Storia di Bologna, 1975, pp. 95-96 (testo n. 52). 77 zione dei lavoratori per la liberazione del paese, alla testa di tutta la popolazione, come forza essenziale che acquista titolo e capacità di classe dirigente, grazie alla sua chiaroveggenza ed al suo sacrificio. Ed oggi la classe operaia, avanguardia della Nazione, difendendo se stessa difende ancora una volta l'interesse generale, e domanda a quei datori di lavoro che non vogliono rendersi complici del nemico di darle i mezzi materiali per vivere e resistere alla pressione nazi-fascista, rifiutare di lavorare contro gli interessi della Patria ... Per la parte decisiva avuta nella lotta di liberazione nazionale, e per lo sforzo che hanno fatto e faranno per il più rapido conseguimento della vittoria finale sul nazi-fascismo, la classe operaia e le sue organizzazioni hanno acquistato un indiscutibile diritto al rispetto di tutti. Nell'unione nazionale la classe operaia domanda il riconoscimento dei suoi diritti elementari alla vita. I datori di lavoro che vi si rifiutassero, si escluderebbero perciò dalla comunità nazionale. La ricostruzione di tutto ciò che è stato distrutto dal nazi-fascismo sarà lunga e dura; appunto per questo i sacrifici non dovranno tutti ricadere, come nel passato, sui lavoratori, e molto dovrà cambiare in una nuova democrazia progressiva presidiata dalle organizzazioni operaie e popolari» (Risorge la Camera Confederale del Lavoro, in: La Voce dell'Operaio, Organo della classe operaia di Bologna e Provincia, Novembre 1944, n. 8). - Contro la «socializzazione» della Repubblica sociale fascista Promulgati i 18 punti programmatici della «Carta di Verona» (15 novembre 1943) e successivamente i decreti legislativi sulla socializzazione (15 febbraio 1944) - un coacervo di promesse anche sul piano nominalistico di limitata portata (del resto il grande padronato italiano ed i nazisti hanno premuto perchè i provvedimenti non suscitino, semplicemente sul terreno propagandistico, attese troppo vaste) e tutte finalizzate all'obiettivo produttivo bellico, e tutte procrastinate, per l'avvio alla loro attuazione a dopo la «vittoria» nazifascista della guerra - la stampa clandestina le combatte con intensità, e sul piano finalistico-strumentale e sul piano del «contenuto» intrinseco. In riferimento al campo operaio - dati per conosciuti i «problemi operai» proposti dai documenti fascisti - pungenti e forti sono gli argomenti contrappostivi. Eccone un brano esemplare. La Comune, di Imola, del 20 gennaio 1944 (a.!, n. 3), nell'articolo La socializzazione fascista, ricordato che i postulati della repubblica sociale sono «Socializzazione e nazionalizzazione delle aziende fondamentali / e gli operai e i tecnici partecipi al consiglio di gestione», cosÌ commenta: «Lo Stato non è l'espropriatore senza indennizzo, ma il coordinatore del grande capitale industriale. In tal modo lo Stato: 1) garantisce ai grandi capitalisti un lauto reddito annuo in quanto sono i possessori delle azioni che rappresentano il capitale aziendale; 2) garantisce ai grandi capitalisti di rimanere sempre i proprietari delle aziende in quanto lo Stato, rappresentato da essi, li assicura da ogni eventuale azione rivoluzionaria, da parte delle masse lavoratrici; 3) per assicurarli nel possesso mette questi finanzieri ed industriali a capo dell'economia nazionale inserendoli come componenti dell'Istituto di Gestione e di Finanziamento con la scusa che sono dei tecnici in materia. Agli operai, ai tecnici vien dato, come si suoi dire, «un bell'osso da rosicchiare», tanto per accontentarli. Ed ecco che vengono messi a far parte del Consiglio di gestione dell'azienda con il compito di garantire il buon funzionamento della produzione voluta e controllata dal capo azienda nominato esclusivamente dallo Stato, cioè dai capitalisti facenti parte dell'Istituto di Gestione e Finanziamento. Risultato: maggiore accentramento del capitale che con grande demagogia il lavoratore deve servire». La «socializzazione» proposta dalla Repubblica sociale fascista - il cui scopo è quello di abbindolare lavoratori e popolo, per neutralizzarli, legarli o riconquistarli al carro nazifascista - fallisce proprio tra le classi lavoratrici e mercè l'azione operaia, fin dai primi passi che muove (i notiziari della GNR e delle autorità fasciste inviati in via riservata a Mussolini, denunciano il fatto 78 fin dal febbraio-marzo 1944) e via via nei momenti successivi di riviviscenza 3. 3. Ruolo della classe operaia nella stampa «della classe operaia» e dei comitati sindacali clandestini e di agitazione La stampa clandestina portavoce della classe operaia ed espressione dei comitati sindacali e di agitazione, affronta il problema operaio sotto due particolari profili, quello relativo ai problemi generali e permanenti di classe e quello relativo alla classe operaia quale componente delle forze interessate ed impegnate nella guerra di Liberazione. Il tema della distinzione e dell'unità (tra lotta sociale di classe e lotta nazionale), è proposto in origine, come problema unitario nelle due sfere distinte, dalle forze politiche più avanzate del movimento di Liberazione, poi permanentemente discusso negli organismi unitari (Comitati di Liberazione Nazionale) nel corso della lotta. La risultante che ne scaturisce, è un processo dinamico che sollecita all'impegno nella lotta contro i nazifascisti, oltre che sul terreno militare, sul terreno sociale e politico, in modo del tutto speciale e positivo. Uno degli scritti più espliciti sull'argomento è quello che appare sul periodico dei lavoratori fornai di Bologna nell'inverno 1945. Lo riproduciamo per intero: «I Comitati d'Agitazione. (Qal'è la loro funzione nazionale?). Il Comitato d'Agitazione è l'organo unitario di classe che dirige oggi, sul luogo di lavoro, la lotta delle maestranze per la difesa delle loro condizioni di lavoro e di vita. È un organo unitario dal punto di vista politico, in quanto esso comprende una rappresentanza di tutte le correnti politiche nazionali esistenti nelle maestranze. Si differenzia tuttavia dal C. di L.N. aziendale in quanto è un organismo di classe che come tale rappresenta sul luogo di produzione, solo le categorie lavoratrici (operai ed impiegati; non il personale dirigente). Riconoscendo l'autorità e la missione dei Comitati d'Agitazione, il C.L.N.A.I. ha dato un efficace riconoscimento della funzione nazionale che la classe operaia ha dimostrato di assolvere con la sua lotta nel quadro della guerra di liberazione. Ha voluto riconoscere che con la sua lotta rivendicativa in difesa delle condizioni di lavoro e di vita delle masse, con la sua partecipazione nelle prime file della lotta armata, con il suo spirito di sacrificio e con il suo slancio, e con i suoi grandi scioperi politici e con le sue manifestazioni di massa, la classe operaia assolve una funzione di avanguardia, che non si esplica nella rivendicazione di gretti interessi corporativi, ma si identifica con gli interessi generali della lotta di Liberazione Nazionale. I Comitati d'Agitazione sono stati e sono i promotori e gli organizzatori di questa lotta della classe operaia. Mobilitando le classi lavoratrici sul terreno della difesa delle loro condizioni di lavoro e di vita essi le hanno mobilitate e le mobilitano, appunto, su di un terreno che si identifica con quello degli interessi generali del movimento di liberazione: e ciò nella forma più larga ed efficace, in quanto parte delle esigenze vitali stesse delle masse. La funzione nazionale dei Comitati d'Agitazione, pertanto, nasce dalla loro stessa funzione di direzione della lotta della classe operaia, classe d'avanguardia nella lotta di Liberazione Nazionale e democratica; e per assolvere efficacemente questa loro funzione nazionale, è necessario che i Comitati d'Agitazione mantengano nella più completa indipendenza la loro funzione di classe. Questo non significa, beninteso, che la loro azione non debba essere coordinata a quella di tutti gli organi del movimento di liberazione, e in particolare a quella dei C. di L.N. aziendali, coi quali i Comitati d'Agitazione debbono mantenere un contatto permanente. Ma la loro iniziativa deve rimanere autonoma e indipendente, senza di chè essi non potrebbero assolvere alla loro specifica funzione di mobilitazione della classe operaia, verrebbero meno alla loro efficacia democratica, che è quella appunto, dell'intervento diretto ed autonomo delle masse lavoratrici nella lotta e nella soluzione dei problemi della liberazione» (La Riscossa, Bollettino sindacale mensile degli operai fornai di Bologna e Prov., a.I, n. 1, febbraio '45). 3 Si veda per tutte le province dell'Emilia-Romagna: Riservato a Mussolini. Notiziari giornalieri della Guardia nazionale repubblicana, novembre 1943 / giugno 1944, Documenti dell'archivio Micheletti, Milano, Feltrinelli editore, 1974, pp. 134-196. 79 4. Problematica organizzativa della classe operaia (ricostruzione autonoma del sindacato, ricostruzione sindacale unitaria) La problematica principale relativa alla classe operaia che viene proposta e dibattuta ampiamente, è quella attinente alla ricostituzione di strumenti autonomi di classe, che acconsentano l'esercizio di un peso proprio delle masse operaie all'interno dei luoghi di produzione e nella società. Le direzioni verso le quali si sviluppa l'intervento della stampa clandestina, sono due (ed entrambe si contrappongono a misure nominalisticamente analoghe propugnate dalla Repubblica sociale italiana): 1) la costruzione di organismi sindacali di fabbrica espressione diretta dei lavoratori (in contrapposizione alle commissioni interne volute dai sindacati fascisti); 2) la costruzione di una organizzazione sindacale autonoma e di classe (in contrapposizione all'organizzazione sindacale fascista, peraltro «rifondata» sulla base dei postulati del neo-fascismo repubblicano). - Contro le «commissioni interne» fasciste È ben noto che all'indomani della caduta di Mussolini, una delle prime rivendicazioni poste dai partiti antifascisti e sostenuta dal vasto movimento popolare che investe il Paese, fra il 26 e il 30 luglio 1943, è quella dell'allontanamento dei fiduciari fascisti dalle fabbriche e della istituzione di rappresentanze dei lavoratori, designate dai lavoratori stessi. Durante i «quarantacinque giorni» del governo Badoglio, dopo la nomina (condizionata alla liberazione di tutti i prigionieri e confinati politici) a commissari sindacali, di esponenti antifascisti, si giunge all'accordo, fra gli esponenti sindacali ed esponenti delle industrie, per la costituzione di commissioni interne di fabbrica, elette dai lavoratori delle singole aziende. In diverse fabbriche tali nomine avvengono già prima dell'8 settembre 1943. Nella nuova situazione determinatasi all'indomani della proclamazione dell'armistizio e dopo la costituzione della «Repubblica sociale», i fascisti (nell'ambito della vasta manovra demagogica che li porta a caratterizzare il loro nuovo regime «repubblicano»), riconfermano l'intento di voler dar vita alle «commissioni interne», col proposito di subordinare le masse operaie agli scopi produttivi che perseguono le autorità naziste che amministrano l'Italia occupata (Il resto del Carlino ne dà comunicazione il 23 novembre 1943, con la nota Le Commissioni di fabbrica nel settore dell'industria). Alla classe operaia ed a tutte le forze patriottiche - sostiene la stampa clandestina - s'impone il compito di rovesciare gli intendimenti fascisti e quindi di far fallire la loro campagna di elezioni di commissioni interne, «collaborazioniste» sul piano aziendale e supine al disegno più generale dei nazifascisti. Agli inizi di tale agitazione, così argomenta un foglio edito in Romagna: «I sindacati fascisti invitano con la falsa firma di Buozzi, Roveda, ecc. gli operai alle elezioni delle commissioni interne: come fare? Portiamo l'esempio degli operai della Mangelli di Forlì. Su 1200 votanti solamente 435 hanno risposto. 80 Delle 435 schede, 67 contenevano nome e cognome di elementi antifascisti e delle altre, parte in biaco, parte chiedevano aumento di razioni di generi alimentari, parte inneggiava a Stalin, le rimanenti portavano l'eloquente emblema della falce e martello» (I compiti della classe operaia nelle fabbriche, in: La Lotta, Organo quindicinale delle Federazioni comuniste romagnole, a.I, n. 1, 1-15 gennaio 1944). - Per la creazione di Comitati di agitazione e sindacali clandestini L'organismo di direzione della lotta rivendicativa ed unitaria delle forze antifasciste di fabbrica, da contrapporre alle proprietà ed alle autorità fasciste, viene indicato nei comitati di agitazione (o «comitati sindacali clandestini») di fabbrica. Tali organismi - secondo gli indirizzi generali, sostenuti dalle forze politiche che li promuovono - debbono essere rappresentativi degli operai, dei tecnici e degli impiegati di tutte le tendenze e godere l'assoluta fiducia delle masse; debbono conoscere la situazione della fabbrica ed i bisogni delle maestranze; studiare le rivendicazioni da porre raccogliendo le esigenze espresse dalla base; promuovere le azioni per averle soddisfatte (delegazioni, fermate di lavoro, dimostrazioni, scioperi); «illuminare i lavoratori sulla loro partecipazione alla lotta di liberazione nazionale e sulla connessione fra la difesa dei loro interessi e l'azione patriottica e liberatrice del popolo italiano». Numerosi sono i Comitati di agitazione e sindacali clandestini che si costituiscono, che elaborano proprie piattaforme, che promuovono lotte aziendali, cittadine e generali. Basta ricordare che, nella regione, (tali dati li ricaviamo da una nostra ricerca specifica sulla «azione operaia, contadina, di massa» in Emilia-Romagna), nei 600 giorni di vita della Repubblica sociale fascista, solo sul terreno più alto delle lotte operaie, si verificano 13 giorni di sciopero generale in 9 città (con larghissima partecipazione delle maestranze delle fabbriche) e scioperi in fabbriche, stabilimenti ed officine in 76 giorni diversi, in ben 121 località distinte. L'importanza dell'azione operaia sul terreno sociale ha anche valore «militare». Questo è sottolineato da un commento sugli effetti dello sciopero operaio generale dell'I-8 marzo 1944: «Gli operai hanno privato i nemici del popolo del prodotto di sette giorni di lavoro, cioè di decine di areoplani, di tank, di veicoli e di centinaia di migliaia di armi e di prodotti destinati ad opprimere il popolo ... La lotta rivendicativa deve continuare a combinarsi alla lotta armata nella città e nella officina stessa, ad ogni istante. La lotta frontale deve accompagnarsi all'azione di disgregazione e di corrosione delle stesse forze che il fascismo cerca di mettere al servizio di Hitler. .. » (Dallo sciopero generale all'insurrezione armata, in: Il Combattente, Organo dei distaccamenti e delle Brigate d'assalto Garibaldi [edizione della Romagna], a.I, n. 8, 15 marzo 1944). - Contro l'«ordinamento sindacale» della Repubblica sociale italiana Continuando nell'estremo tentativo di frenare l'ostilità crescente delle masse operaie ed il crescere delle loro lotte, il 9 maggio 1944, il governo fascista 81 emana un nuovo ordinamento sindacale, che discende dai postulati della «Carta di Verona». La stampa clandestina lo combatte, denunciandone la caratterizzazione fondamentale, che resta fascista, e lo strumentalismo. Anche tale provvedimento non provoca affatto i risultati che i fascisti si attendono e tanto meno ottiene di far desistere le forze operaie dall'impegno di lotta contro i nazifascisti 4. -La ricostituzione di organi autonomi ed unitari (Camere del Lavoro) Nella presunzione di una vicina e rapida liberazione dell'intera Valle Padana, nel settembre 1944, dietro precisi indirizzi vengono costituite «Commissioni esecutive provvisorie delle Camere del Lavoro» (fondate su basi unitarie, nello spirito del «Patto di Roma», tra esponenti dei movimenti sindacali, comunista, socialista e cattolico), col compito di prendere possesso degli organismi sindacali nel momento della liberazione e di passare al lavoro di ricostituzione della organizzazione sindacale. Per la regione Emilia-Romagna (fatta eccezione per le città di Forlì, che sarà libera dal 9 novembre 1944 e di Ravenna, che sarà libera dal 4 dicembre successivo), l'occupazione nazifascista si prolungherà fino all'aprile 1945. L'impulso impresso dall'avvenuta costituzione delle Commissioni esecutive provvisorie, nell'autunno 1944, porta alla ricostituzione compiuta della Camera Confederale del Lavoro, a Bologna, fin dal novembre 1944. Essa diviene una realtà funzionante nella clandestinità, per sei mesi. I temi dell'organizzazione sindacale vera e propria divengono, perciò oggetto non astratto - ma concretamente ancorato all'operare di una organizzazione sindacale seppure alla «macchia» - della stampa clandestina. La larga documentazione fornita sul processo di ricostruzione della Camera Confederale del Lavoro di Bologna; gli apprezzamenti espressi sul fatto; le informazioni sugli interventi successivi da essa compiuti, costituiscono un punto di riferimento costante ed una incentivazione all'azione sindacale di base su scala regionale ed alla qualificazione, a livello delle diverse province, delle Commissioni esecutive provvisorie. Alla vigilia della Liberazione risorgono organismi camerali confederali con contorni e programmi definiti (a Modena, a Ferrara, ad esempio) e, in piccoli comuni, strutture operative che costituiscono vere e proprie (e tali si nominano) Camere del Lavoro 5. 5. Problematica rivendicativa sindacale immediata Il problema operaio, immediato, improcrastinabile, che costituisce allo Si veda il già citato: Riservato a Mussolini, pp. 134-196. Per la ricostruzione degli organismi sindacali nel bolognese si veda: La Camera del Lavoro di Bologna nella Resistenza (1944-1945), Edito dalla Camera Confederale del Lavoro di Bologna nel XXX anniversario della lotta di Liberazione, Bologna, Steb, 1973, pp. 112. 4 S 82 stesso tempo una potente forma di intervento di carattere patriottico e nazionale (colpendo le rivendicazioni operaie gli interessi economici e bellici del padronato fascista collaboratore ed i piani di produzione e di accaparramento ai fini bellici degli occupanti nazisti) è quello di garantire condizioni di sopravvivenza alla classe operaia stessa. È quello, in altre parole, di conquistare salari adeguati (in un clima di inflazione e di prezzi crescenti); di conquistare salari ed indennità in natura (in presenza di una carenza sempre più marcata di generi alimentari); di conquistare indennità aziendali e speciali (connesse allo stato particolare e straordinario della produzione: indennità di bombardamento, di sfollamento e per mancato lavoro; anticipazioni per acquisti di generi alimentari e per il periodo pre-post insurrezionale, ecc.); di consolidare istituti salariali strappati con le lotte precedenti (quali, ad esempio, le 192 ore pre-natalizie, corrispondenti ad una vera e proria 13 a mensilità»). La battaglia rivendicativa è tanto più efficace in dipendenza del sorgere e del crescere degli organismi autonomi dei lavoratori che - come abbiamo visto - prendono forma in alternativa agli istituti delle «commissioni interne» per la cui istituzione insistono i fascisti. (A volte, questi ultimi, tollerano anche «commissioni interne» sopravviventi dal periodo dei «quarantacinque giorni», ma le tollerano perchè deboli sul terreno autonomo - e quindi anche rivendicativo - e fino a quando non si pongono, comunque, su un terreno alternativo) . La piattaforma rivendicativa iniziale (e fondamentale), che costituisce la base delle più consistenti azioni di lotta (agitazioni, sospensioni di lavoro, scioperi bianchi, scioperi generali) è quella che ha origine dalla piattaforma degli scioperi operai del marzo 1943 e che, rielaborata ed ampliata, diviene la carta rivendicativa lanciata dal Comitato di Agitazione clandestino del Piemonte, della Lombardia e della Liguria, nel gennaio 1944, la quale costituisce la base degli imponenti scioperi di tutta l'Italia occupata, del marzo 1944. Su queste linee si innestano le rivendicazioni «articolate», particolari, di zona e di azienda, che sono presentate, sostenute con l'azione e, in diversi casi, risolte su scala locale. Le piattaforme generali del 1943 e del 1944, sono largamente divulgate dai periodici clandestini. Esse comprendono questo ventaglio di rivendicazioni: Aumento immediato del salario proporzionato all'aumento del costo della vita (fino allOOOJo). Corresponsione dell'indennità di caro viveri fino a termine della guerra. Pagamento dei salari arretrati e delle 192 ore. Aumento delle razioni alimentari e forniture da parte delle ditte ai propri dipendenti, di generi alimentari, di vestiario e di combustibile (fino al raddoppio delle razioni correnti). Razioni di 500 grammi di pane giornaliero fermo restando il supplemento per i lavoratori. Contro ogni nuovo licenziamento, per il sussidio a tutti i disoccupati, nessun obbligo di lavorare per l'organizzazione Todt. Pagamento immediato e senza condizioni e senza limiti di tempo del 750/0 della paga agli operai sospesi. Occupazione da parte dei senza tetto, dei locali vuoti, dei palazzi, degli alberghi, delle scuole, delle caserme, attualmente occupati dai tedeschi e dalle orga- 83 nizzazioni fasciste. Case per sinistrati. Distribuzione negli spacci aziendali di vestiario, scarpe, copertoni e combustibili. Anticipo di due-tre mesi di paga, da restituir si a termine della guerra, per far fronte alle esigenze invernali. Le «campagne» più rilevanti sostenute àalla stampa clandestina nella regione, in relazione alle particolarità proprie, sono le seguenti: a) fra il dicembre 1943 e il febbraio 1944: porre rivendicazioni analoghe a quelle sostenute negli scioperi dell'Italia del Nord del novembre-dicembre 1943 ed emergenti a livello locale e battersi anche con lo sciopero per ottenerle. L'impulso a tale azione è forte e ben lo caratterizza il brano seguente: «I sindacati fascisti con una spudorata demagogia si sono messi all'opera per attirare gli operai fingendo di democratizzare i loro rapporti nell'organismo produttivo e nei sindacati, promettendo loro la realizzazione delle aspirazioni economiche ... Occorre porre immediatamente rivendicazioni salariali anche per difendersi dalla fame e dal freddo. La demagogia fascista propone ad esempio il 30 per cento, bisogna chiedere il 70, il 100 per cento d'aumento. Bisogna rallentare al massimo la produzione, impedire assolutamente i licenziamenti degli operai, che sono gettati così nella rete tedesca» (I compiti della classe operaia nelle fabbriche, in: La Lotta, Organo quindicinale delle Federazioni comuniste romagnole, a.I, n. 1, 1-15 gennaio 1944). b) fra il febbraio e il giugno 1944: preparazione, sostegno e valorizzazione dello sciopero generale nell'Italia occupata dell' 1-8 marzo 1944; sostegno di lotte successive per consolidare ed estendere i risultati conseguiti. c) fra il giugno e l'ottobre 1944. Dopo la liberazione di Roma (4 giungo 1944) e l'apertura del «secondo fronte» (6 giugno), quando si ritiene «giunta l'ora dell'attacco finale», sono lanciate le seguenti tre nuove indicazioni: 1) «via dalle officine» per passare alla fase insurrezionale; 2) richiesta di anticipazione pari a tre mesi di salario; 3) salvataggio degli impianti per la ripresa e la ricostruzione post-liberazione. d) fra il novembre 1944 e l'aprile 1945. Dopo la stasi del fronte che segue il proclama del generale Alexander (13 novembre 1944), col quale si annuncia il rinvio delle operazioni degli eserciti Alleati alla primavera prossima, le indicazioni date alle masse operaie sono le seguenti: 1) rivendicare dagli imprenditori industriali corresponsioni di generi in natura, di sovvenzioni in denaro (da parte dei lavoratori che non sono più ingaggiati al lavoro - a seguito delle distruzioni operate dai bombardamenti, delle smobilitazioni, ecc. - e di quanti restano occupati) per affrontare i duri mesi del nuovo inverno: 2) là dove continua il lavoro, e là dove riprende, riproporre le rivendicazioni salariali e di indennità e riorganizzare l'azione sindacale. Nella fase insurrezionale di primavera sono riproposti gli indirizzi di: anticipazioni in denaro; salvataggio degli impianti. 6. Rapporti operai-contadini-altri strati sociali Ampia è la trattazione della questione chiave relativa ai rapporti operaicontadini ed altri strati sociali, quale problema contingente nella lotta di liberazione ma anche di carattere più permanente per la ricostruzione e la creazione del nuovo stato democratico. 84 7. Problematica operaia di prospettiva La problematica affrontata dalla stampa clandestina in ordine ai problemi di prospettiva della classe operaia, a medio e lungo termine, in principal modo riguarda i temi: della gestione delle aziende produttive nella fase della ricostruzione che seguirà la liberazione del Paese; della organizzazione delle aziende produttive e della loro collocazione nel quadro futuro della società italiana. La trattazione di tali argomenti (che è spazialmente e per insistenza, molto meno ampia) è molto più separata «particolarmente» e fortemente ideologizzata. Le quattro prospettazioni di fondo sono quelle espresse dal Partito d'Azione, dal Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista Italiano. Le riassumiamo attraverso il brano più significativo e compiuto che abbiamo tratto da un foglio clandestio, edito nella regione, da ognuna delle parti (tra parentesi segnaliamo eventuali altri periodici oltre quello dal quale è stato tratto il testo, che hanno ripetuto in forma eguale o simile lo stesso argomento). Eccole qui di seguito. Il periodico regionale del Partito d'Azione, esponendo - nel marzo 1944il proprio programma futuro, in un articolo dal titolo Che cosa vogliamo, in ordine ai problemi operai elenca i seguenti presupposti: «immediata socializzazione dei grandi complessi finanziari, industriali, agrari, assicurativi e di tutti quelli aventi rilevante interesse collettivo e gestione associata di essi in forma snodata, autonoma, antiburocratica, per la liberazione del lavoro dalla servitù del grande capitale, per il controllo del processo produttivo e per la difesa del consumatore; l'attuazione graduale e progressiva di libere forme associative (cooperative, consorzi di produzione e di collaborazione tecnica, e così via) che realizzino nelle minori aziende l'affrancazione del lavoro salariale dalla servitù del capitale; ... consigli elettivi e unitari di fabbrica e di aziende per il controllo della produzione, la applicazione delle leggi sociali, la risoluzione delle controversie aziendali, l'addestramento progressivo dei lavori alla gestione diretta ... » (Orizzonti di Libertà, Periodico Emiliano del Partito d'Azione, n. 1, Marzo 1944). Dal contesto di indicazioni del Partito Socialista per l'immediato dopoguerra, nell'articolo Sulle rovine attuali tutta la classe lavoratrice ricostruirà la nuova Italia. Il programma di immediate rivendicazioni della classe lavoratrice, si legge che obiettivo di fondo dei socialisti è la «eliminazione del profitto individuale» e la «rigida consacrazione del bene della collettività contro ogni categoria parassitaria» (A vanti!, Giornale del Partito Socialista di Unità Proletaria, a. 48, n. XI, 3 agosto 1944, edizione regionale, Bologna). Sintetizzando la posizione del Partito della Democrazia Cristiana, il foglio forlivese-ravennate di tale orientamento, in un articolo polemico dal titolo, La partecipazione agli utili come l'intende il fascismo e come l'intende la Democrazia Cristiana, è affermato «il diritto del lavoratore a partecipare attivamente al processo produttivo dello stabilimento là dove egli presta la sua attività e quindi a venire ammesso alla distribuzione degli utili dell'azienda che la sua stessa attività avrà contribuito a raggiungere». Poi più in particolare è detto: «In primo luogo il nostro programma riconosce intangibile il Vostro diritto alla libertà. Voi lavorerete in uno stabilimento dopo averlo spontaneamente scelto, dopo averne conosciuti i metodi di produzione e la disciplina alla quale dovete attenervi. Saranno stabilimenti che lavoreranno in uno stato nel quale l'iniziativa privata avrà tutti i modi per svilupparsi, purchè non leda l'interesse 85 che lo stato ha di difendersi ed i vostri diritti di persone libere, responsabili ed intelligenti. Inoltre sarete voi medesimi in virtù della vostra tenacia e della vostra alacrità, che entrerete in contatto con i datori di lavoro, che attraverso una serena ed obiettiva discussione, riuscirete ad affermare le vostre esigenze, a dimostrare, che nell'ambito dello stabilimento voi siete necessari, insostituibili, voi insomma gli elementi che fanno avanzare le macchine. In tal modo voi otterrete questa partecipazione agli utili, alla direzione degli stabilimenti da parte dello stato, ma perchè sarà una conseguenza di una armonica attività produttiva e quindi un contributo fecondo delle attività di tutti. Voi non sarete costretti a servire uno stato che abbrutisce il vostro lavoro per cercare di costituire le sue ricchezze, ma potrete mantenere intatte le vostre opinioni personali, le vostre convinzioni politiche, la vostra fede» (Movimento Democratico Cristiano, s.i.d., ma: agosto 1944, quarto numero) .• Il Partito Comunista Italiano, formula il proprio programma avvenire, nella proposta di creare in Italia una «democrazia progressiva», che, nelle edizioni regionali del proprio organo - nell'articolo Perchè vogliamo la democrazia progressiva? - così formula: «Ricostruzione non è soltanto riparazione dei danni prodotti dalla guerra, ma è soprattutto riparazione dei danni prodotti da vent'anni di fascismo: venti anni durante i quali gli interessi delle • forze produttive sono stati subordinati al potere monopolistico dei gruppi che attraverso il fascismo hanno dominato la vita italiana. Dunque, problemi immediati della ricostruzione sono il riattivamento ed il risanamento dell'apparato produttivo italiano, sono le riparazioni delle distruzioni dovute alla guerra. Concretamente ciò significa costruire centinaia di migliaia di case, migliaia di chilometri di ferrovie e di strade, centinaia di navi; significa fondare nuove grandi industrie, trasformare quelle che ci restano, significa insomma, imporre alla nazione uno sforzo produttivo colossale. Affrontare e risolvere questi problemi è condizione di vita per noi, ma affrontarli e risolverli è possibile solo se la classe operaia e le masse popolari riconosceranno che lo sforzo produttivo non sarà più rivolto ad arricchire pochi gruppi privilegiati ed a precipitare il paese in nuove guerre. L'operaio, il muratore, il tecnico, il contadino lavoreranno, daranno il massimo della loro capacità solo se sentiranno di essere i costruttori di una nuova società, nella quale la fatica del singolo contribuisca ad elevare, nel benessere collettivo, il benessere di ciascuno. Questa garanzia non si ottiene attraverso qualche decreto o qualche «carta del lavoro» ma presiedendo concretamente all'opera di ricostruzione, stimolando il governo e l'apparato esecutivo e appoggiandoli nella applicazione delle riforme democratiche; intervenendo nell'elaborazione dei piani di ricostruzione e di produzione, controllandone l'esecuzione. Tutto ciò è possibile soltanto nella democrazia progressiva, nella larga vita politica delle masse, nella profonda maturità di governo che da essa ne deriverà. Attraverso i sindacati liberi, la classe operaia ed i lavoratori tutti potranno far sentire possente la loro voce al governo ed alle classi borghesi potranno conquistare salari e condizioni di lavoro adeguate all'entità del loro contributo alla ricostruzione. Attraverso i comitati di fabbrica i lavoratori potranno contribuire all'elaborazione ed esercitare il controllo sui piani decisi collettivamente. Attraverso i Comitati di Liberazione Nazionale di massa la classe operaia e gli strati [popolari] potranno fare sentire nella società il loro peso preminente, esercitando in essi una vera e propria azione di governo, conducendo attraverso di essi la lotta contro il fascismo ed i trust. E gli operai sanno cosa vogliono dire conquiste ottenute e presiedute dai «loro» sindacati, dai «loro» comitati, soprattutto dopo vent'anni di «conquiste» di carta straccia ottenute da altri per loro. Ma la democrazia progressiva non serve solo ad assicurare alla classe operaia ed alle masse popolari il posto preminente della nuova società subentrata al fascismo ed ai trust, la democrazia progressiva è condizione essenziale del progresso economico e sociale. Nel dopoguerra molti problemi esigeranno imponenza tale di capitale e di energia che non potranno essere risolti nel quadro della proprietà privata dei mezzi di produzione. Affrontarli con i sistemi consueti della produzione capitalistica significherebbe soprattutto non risolverli. Essi dovranno venire affrontati con mezzi nuovi, che s'imporranno dal punto di vista tecnico prima ancora che dal punto di vista sociale. E a [garantire] queste soluzioni, ad impedire che si ricada negli errori e nei crimini fascisti, deve essere chiamata la classe operaia, devono essere chiamte le masse lavoratrici» (L'Unità, Organo Centrale del Partito Comunista Italiano, Edizione dell'Emilia-Romagna, [stampata a Bologna], a. XXI, n. 4, Agosto 1944. Riproposto anche in L'Unità !stampata in Romagna?, a. XXI, n. 13, l settembre 1944; Battaglia, Organo della massa operaia di Galliera approvato dal C.d.L.N., n. 5,22 dicembre 1944; La Fiaccola, Organo delle masse [stampato a S. Pietro in Casale], a.l, n. 5, 24 dicembre 1944). LUIGI ARBIZZANI 86 PERIODICI CLANDESTINI IN EMILIA-ROMAGNA DAL 26 LUGLIO 1943 AL 28 APRILE 1945 Bologna 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. A vanti!, Giornale del Partito Socialista di Unità Proletaria. Avanti! L'Unità, della Giunta d'intesa del Partito Comunista e del Partito Socialista di UP. Battaglia, «Organo della massa operaia», fondato da Marco e Regolo. Bollettino 8 a Armata, (bollettino di ascolto della radio dell'8 a Armata, redatto a cura dal C.L.N. di Imola). Bollettino dell'8," Brigata «Masia», [Titolo convenzionale attribuito al frammento. Edito a Bologna dall'Organizzazione del Partito d'Azione a cui si ispira la maggior parte dei partigiani della Brigata]. Compagna, Giornale dei gruppi femminili aderenti al Partito Socialista di Unità Proletaria. I diritti del Profugo, a cura del Comitato dei Profughi di Bologna. Il Combattente, Giornale dei Volontari della Libertà. Comando Militare Unico Emilia-Romagna. Il lavoratore agricolo, Organo dei contadini e dei braccianti bolognesi. L'Ardimento, Organo della 7 a Brigata Garibaldi G.A.P. «Gianni». L'Attacco, Giornale della Brigata bolognese (S.A.P.). L'Unità, Organo centrale del Partito Comunista Italiano (edizione regionale stampata a Bologna). L'Unità Avanti!, idem come Avanti! L'Unità. La Comune, Quindicinale comunista. Zona imolese. La Fiaccola, Organo delle masse operaie di S. Pietro in Casale. La Lotta, Organo della Federazione comunista di Bologna. La Lotta, Organo imolese del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. La Mondariso, Organo delle mondine bolognesi. La Punta, Organo della Gioventù Democratica cristiana. La Riscossa, Bollettino sindacale mensile degli operai fornai di Bologna e Provo La Riscossa, Organo degli operai e contadini della Val Padana [Bologna]. La Rinascita, Fronte della Gioventù. Organo del Comitato provinciale di Bologna. La Squilla, Organo della Federazione provinciale bolognese del Partito. Socialista di UP. La Voce dei Campi, Organo dei contadini e dei braccianti agricoli. La Voce dell'operaio, Organo della classe operaia di Bologna. La Voce delle donne, Organo del Comitato Centrale bolognese dei CirlJppi di Difesa della Donna e per l'assistenza ai Combattenti della Libertà. La Volontà partigiana, Settimanale della IV Brigata Garibaldi. Lavori Forzati, Periodico diretto ai lavoratori della Todt. Noi donne, Organo dei Gruppi di Difesa della Donna e per l'assistenza ai combattenti della libertà (edizione di Bologna). Orizzonti di libertà, Periodico emiliano del Partito d'Azione. Rinascita, Organo regionale dell'Unione Pace e Libertà. Rivoluzione socialista, Giornali dei gruppi giovanili del Partito Socialista di Unità Proletaria. Tempi Nuovi, Periodico del gruppo intellettuali «Antonio Labriola». Vent'anni, Organo della Gioventù Italiana della Rinascita Nazionale. Ferrara 1. Gioventù in lotta, Organo del Fronte della Gioventù di Ferrara. 2. La Nuova scintilla, Organo della Federazione comunista ferrarese. Forlì e Ravenna l. Bollettino interno P.C.I., Federazione provinciale di Forlì. 2. Il Combattente, Organo dei Distaccamenti e delle Brigate d'assalto Garibaldi. 3. Il Garibaldino, Edizione dell'ottava Brigata Garibaldi «Romagna» e della ventinovesima Brigata «G. Sozzi» (G.A.P.). 4. Il Garibaldino, Organo dei distaccamenti e delle brigate garibaldine romagnole. 5. Il Pensiero romagnolo, Quindicinale di politica arte letteratura, Forlì 6. Italia Giovane, Giornale della politica dell'arte e delle lettere dell'Italia Unita. 7. L'Unità (edizione di Forlì). 8. La Liberazione, Organo del Comitato di Liberazione Nazionale, Edizione Romagnola. 9. La Lotta, Organo quindicinale delle Federazioni comuniste romagnole. 87 La Nostra fabbrica, Organo delle Commissioni Sindacali Clandestine. La Scintilla, Organo di lotta della gioventù romagnola. La Voce dei giovani, Foglio emiliano del Partito Italiano del Lavoro. La Voce del popolo, Organo dell'Unione dei Lavoratori Italiani. La Voce repubblicana, Organo dei Repubblicani dell'Emilia Romagna. Libertà, (Forlì, 28 luglio 1943J. Movimento democratico cristiano. 17. Noi Donne, Organo di difesa delle donne romagnole. 18. Terra e Libertà, Giornale di difesa dei lavoratori Romagnoli della terra. IO. 11. 12. 13. 14. 15. 16. Ravenna 1. Bollettino della Federazione comunista provinciale di Ravenna. 2. Gioventù nuova, Organo ravennate del Fronte della Gioventù. 3. L'Unità, (edizione di Ravenna, stampata a Conselice). 4. Terra e lavoro, Organo del Comitato Provinciale Contadini. Modena 1. Audacia, Organo della brigata d'assalto Garibaldi «Walter Tabacchi». 2. Avanti! L'Unità, Numero speciale. Edizione per Modena e Provincia. 3. Brigate garibaldine, Corpo Volontari per la libertà (aderente al CLN) - Divisione «Modena»periodico partigiano. 4. Gioventù nuova, Organo del Fronte della Gioventù. 5. Il Combattente, Organo dei patrioti modenesi. 6. Il Contadino, Organo del Comitato dei contadini della provincia di Modena. 7. L'Obiettivo, Organo del comitato degli intellettuali antifascisti modenesi. 8. L'Unità (edizione di Modena). 9. La Frusta comunista. lO. La Lotta dei giovani, Organo del Fronte della Gioventù, Comitato Provo di Modena. Il. La Punta, Movimento giovanile democratico cristiano. 12. La Verità, Organo della Federazione Modenese del Partito Comunista Italiano. 13. La Verità, Quindicinale indipendente del Movimento Nazionale di Liberazione (III Zona). 14. La Voce della giustizia, Organo dell'Associazione lavoratori di Spilamberto. 15. Movimento giovanile per la Resistenza e la Rinascita. 16. Noi Donne (edizione di Modena). 17. Rinascita della Donna, Giornale dei Gruppi di Difesa della Donna. Parma 1. Giornale murale. 2. Giornale murale del distaccamento «Barbieri», 31 a Brigata d'Assalto Garibaldi «Distaccamento Barbieri». 3. Giornale murale del distaccamento «lezzi», 31 a Brigata Garibaldi, battaglione «Egidio», distaccamento «lezzi». 4. Gioventù in lotta, Numero straordinario per la montagna. 5. Il Partigiano, Organo settimanale del distaccamento comando F.lli «Zaccarini». 6. Il Piccone in montagna, Organo della 47 a Brigata d'a. Garibaldi. 7. Il Ribelle, Distaccamento Pelizza. Bollettino murale. 8. Il Ribelle, Periodico della 12 a Brigata d'assalto Garibaldi. 9. L'Unità (edizione di Parma). lO. La Nuova Italia, Giornale del territorio libero del Taro. 11. La Riscossa, Organo della Federazione Comunista Parmense. 12. Lo Specchio, Periodico settimanale del distaccamento «Germoni Gino». 13. La Voce partigiana, Comitato di Liberazione'Nazionale, 31 a Brigata d'assalto Garibaldi. 14. Obbiettivo, Periodico settimanale del distaccamento «Puzzarini». 15. Patriota, Quindicinale della III Julia. 16. Raffica, Organo ufficiale del distaccamento Sorrenti. Piacenza 1. Guerriglia, Organo delle Brigate Garibaldi di Piacenza. 2. Il Grido del Popolo, Organo della Divisione Volontari Giustizia-Libertà. 3. Il Martello, Organo della Federazione comunista di Piacenza. 4. Il Patriota, «Il Grido del Popolo» Italia Libera, Voce delle Divisioni piacentine e pavesi. 5. La Falce, Organo dei contadini e dei salariati agricoli di Piacenza. 88 6. La Libera voce, Settimanale politico formativo delle brigate Antinazifasciste. 7. Umanità nuova, Voce della 60' Brigata d'assalto Garibaldi «Stella Rossa». Reggio Emilia l. Bollettino del c.L.N. di una parte della bassa reggiana. 2. (Fogli tricolore). 3. Il Garibaldino, Organo delle Brigate Garibaldi - Reggio Emilia. 4. Il Garibaldino reggiano, Organo della Brigata Garibaldi. 5. Il Lavoratore, Foglio dei lavoratori della provincia di Reggio Emilia. 6. Il Partigiano, Organo delle Brigate Garibaldi e Fiamme Verdi. 7. Il Volontario della libertà, Organo delle formazioni patriottiche reggiane. 8. L'Unità (edizione di Reggio Emilia). 9. La Lotta, Organo della Federazione Comunista di Reggio Emilia. IO. La Penna, Dalla Montagna reggiana. Settimanale della Brigata «Fiamme Verdi». Il. La Riscossa giovanile, Organo del Fronte della Gioventù della Provincia di Reggio Emilia. 12. La Stampa libera, Bollettino della Federazione Comunista reggiana. Zona Montana. 13. Noi Donne (edizione di Reggio Emilia). 14. Partito Liberale [Castelnuovo Monti]. 15. S.A.P., V Zona. Documenti e testimonianze ELGINA PIFFERI: STORIA DI UNA DONNA Intervista effettuata da Antonio Zambonel/i il 29 marzo 1983 presso l'Istituto storico Resistenza di Reggio Emilia. Trascrizione dalla registrazione su nastro. D. Come ti chiami e quando sei nata? R. Elgina Pifferi, sono nata a Roteglia il 5 maggio 1907. D. La famiglia era di... R. ContadIni, famiglia di contadini residenti li, che poi mio padre s'è un po', come dire,-s'è messo a fare il falegname, perchè siamo, di origine, famiglia di falegnami; allora in casa nostra si è sempre lavorato il legno. D. Tu fino a quando sei andata a scuola? R. lo sono andata fino alla terza elementare ... la quarta elementare, che l'ho fatta in privato perchè non c'era. D. Già, nelle frazioni c'era solo la terza elementare allora ... R. Solo la terza. Allora c'era una maestra locale lì che ci ha fatto scuola a cinque ragazzi pagando, fra questi cinque c'ero anch'io, ho poi dato l'esame qui a Sassuolo come privatista. Sono stata promossa. D. Finita la scuola poi che cosa hai fatto? R. Son rimasta in casa fino all'età di 15 anni, poi mi son messa a fare la ricamatrice, per potere aiutare la famiglia; lavoravo a fare il ricamo per i corredi della scuola. D. Idee politiche in casa quando eri bambina ... R. Mio padre era socialista prampoliniano, leggeva il giornale Giustizia, e poi nel 1928 siamo entrati nel partito comunista con un gruppo di Carpi. D. Ah, perbacco, questo è interessante, con un gruppo di Carpi ... Tu ricordi dei nomi di questi di Carpi? R. No, assolutamente. Son tanti anni passati, so che io andavo qualche volta a queste riunioni, delle volte venivano su loro, perchè avevano una famiglia lì che erano dei mugnai, un certo Poli, che erano parenti con questa gente, e venivano su, e allora è stato lì che li avevo conosciuti, ma io non sapevo assolutamente niente di partito, di queste cose. Per me, se vuoi, era una rivolta contro il fascismo che mi era stato inculcato da mio padre, che l'idea comuni- 90 sta per me sai, non facevo nessuna differenza fra socialisti e comunisti, non avevo ancora una capacità selettiva. E allora ho cominciato, una volta sono andata, due o tre volte sono andata a Carpi a delle riunioni, ma se vuoi, per me era una specie di evasione il fatto di andar via da Roteglia, andare a Carpi. Poi abbiamo cominciato di lì, sono poi cominciate le persecuzioni perchè ogni volta che veniva Mussolini che si spostava da qualche posto, io e papà eravamo portati in prigione. Una volta a Castellarano, una volta qui a Reggio o a Scandiano, non a Castellarano, Scandiano. D. Perchè tu benchè giovanissima eri già identificata come una sovversiva? R. Sì, sì, sì. Diremo, aiutavo papà in tutte queste cos;,. E diremo, che mi sono quasi distinta ancora da bambina perchè c'era un ragazzetto della scuola, della 4 a elementare, che voleva mettermi una di quelle cimici, le chiamavano loro. E io non la volevo, lui voleva mettermela, lui mi ha preso per le trecce (allora andavano le trecce lunghe) e m'ha tirato per terra, e allora io gli ho dato tanti calci, tanti pugni e gli ho detto «Te la mangi la tua cimice» '. Allora tutta la gente diceva che ero comunista, che non avevo voluto quest'insegna, che tutti la portavano, lui era un cattolico. Ed è stato di lì se vuoi che è nato in me questa rabbia, questa rivolta contro ... D. Poi tu a un certo punto vai in Francia, quand'è che vai in Francia e perchè? R. Allora, io sono andata in francia nel 37, 36, perchè si sentiva che la cerchia si restringeva attorno a me. Queste notizie, le avevo avute attraverso un ragazzo che frequentavo, che era uno di Scandiano, che lui era tutt'altro che comunista che però era un ragazzo che aveva stima di me, allora mi dice: «Guarda che ho saputo in questura a Reggio che ti vogliono arrestare. Allora cerca di stare nascosta, di stare tranquilla». Allora c'era una mia cugina ch'era venuta durante l'estate a Roteglia e allora m'ha detto subito «Vieni a Parigi». D. Ma questa era già a Parigi? R. Sì, lei era già a Parigi, emigrata, una di Roteglia sposata con uno di Reggio che era già là. Soncini si chiamava. Lui Sacchetti. E allora mio papà mi ha detto: «Guarda, per te non c'è più spazio qui a Roteglia». Proprio parole di mio papà, «Non c'è spazio perchè tu, sposata con uno di Roteglia non vuoi, perchè son tutti contadini». lo avevo non so quanti anni, ma non volevo sposarmi con un ragazzo che non sapesse nè leggere, nè scrivere. Per me era una cosa che mi rivulsava 2. Perchè io leggevo già parecchio, anche all'epoca, e così via. D. Che cosa leggevi per esempio? Ricordi libri che ti hanno colpito allora? R. Oh! era tutta l'edizione a buon mercato, della Matilde Serao, dell'Invernizio, sai tutta quella roba lì, era tutta questa robetta che si trovava, così. Erano i primi libri che si è cominciato a leggere, che mi sono interessata alla lettura. E allora nel dicembre del '36 questo ragazzo mi ha detto, io gli ho det! Cimice, in senso ironico-spregiativo, era chiamato popolarmente il distintivo del P.N.F. (detto anche, in dialetto, maròla: midollo); lo stesso nomignolo si applicava ad ogni altro distintivo delle varie organizzazioni del regime. 2 Mi rivulsava, francesismo (me révulsait): mi faceva rivoltare, lo trovavo inaccettabile, ecc. 91 to «Vorrei partire, andare a Parigi qualche tempo». Dico «Ma, non c'è il passaporto e non me lo fanno». Dice «Guarda, vado io in Questura e te lo faccio avere, dammi la fotografia». Infatti è arrivato col passaporto. Ma non è che l'ho pagato, lui me l'ha fatto fare i timbri da qualcuno che conosceva lui. Questo è un certo Dallari di Scandiano. E così sono partita. Ma convinta di restare a Parigi no, ma ci son rimasta perchè appena sono arrivata a Parigi, mia cugina ch'era comunista m'ha messo nelle mani del partito comunista clandestino, e ho avuto come istitutore, direttore se vuoi di studi, Berti, Giuseppe Berti, e di lì ho cominciato a fare dei viaggi in Italia clandestini. D. «Fenicottero» eri ... Lo chiamavano fenicottero chi viaggiava dalla Francia all'Italia, con la valigia a doppio fondo ... R. C'est ça, naturale, eh, eh, eh ... E una volta ho avuto una gran paura, ma insomma mi son andati bene: ho fatto tre viaggi. D. Durante questi viaggi tu cosa facevi; portavi che cosa? R. lo portavo del materiale. Allora davo del materiale ... Una volta sono andata a Bologna, in un albergo vicino alla stazione e dopo è venuto qualcuno a prender la valigia, me n'ha dato un'altr'l con doppio fondo e io non ho visto cosa ha dato nè ho visto cosa ho portato, nè ho saputo il nome di chi era. lo mi chiamavo una certa Maria ma non ti posso dire di più. Un'altra volta sono andata a Roteglia e ho portato del materiale a mio padre e a Alceste, che poi è morto ... 3. D. Quello che abitava su al Monte della Croce? R. No, questo era Cavazzoni, e sono stata ospitata da Cavazzoni, su in montagna. E poi un altro viaggio di questi l'ho fatto fino a Milano. E anche lì m'hanno dato l'indirizzo: «Scendi alla stazione, prendi un taxi, vai al tal albergo, lì c'è qualcuno che ti prende la valigia ... ; ma era talmente, come dire, compartimenti stagni, io non dovevo chiedere niente, nè dovevo dire niente, nè chi me l'aveva data nè chi non me l'aveva data; ed era una certa Gualdi ... D. Egle Gualdi, di Reggio ... R. Di Reggio, che l'ultima volta m'ha mandato giù lei, che non l'ho più vista. D. A Parigi? Lei da Parigi ti ha mandato ... ? R. Sì, da Parigi m'ha mandato a Milano. Era lei e un certo Rossi allora, che era di Firenze, che poi è morto; che lei viveva con un compagno che si chiamava Rossi. Poi, finito con loro, perchè, dopo che io sono stata a Roteglia hanno arrestato mio padre e mio fratello, su denuncia di un contadino che abitava poco distante da questa famiglia dei Cavazzoni, lui m'aveva visto passare e allora è andato a raccontare al fascio di Castellarano che m'aveva visto, e di lì hanno fatto la catena e la famiglia è stata arrestata. Ma è stata arrestata principalmente per una cartolina che aveva mandato mio fratello da La Spezia a mio padre, dicendo che aveva visto imbarcarsi dei soldati che andavano verso la Spagna, che gli dicevano invece che andavano non so dove, dice, invece li 3 La vicenda è descritta in A. ZAMBONELLI, Castellarano dal fascismo alla resistenza, Amm.ne comunale di C., 1982, alle pagg. 34-37. 92 mandano in Spagna. Mio fratello ingenuo ha scritto queste cose sulla cartolina. Allora il postino di Roteglia ha mandato al fascio di Castellarano, da Casali, questa cartolina e allora lì han fatto tutto il macello. D. Senti, ma, quella cartolina lì fu l'unica notizia sulla Spagna che tu ricevesti o ricevevi altre notizie? R. No, no, no; io scrivevo a casa, ma con delle lettere, come dirti ... : avevamo dei fogli di carta ... un codice; allora c'era la tal parola voleva dire questo; io avevo lasciato il codice a mio padre ... D. E che cos'era questo codice, un foglio o era un libro? R. Era una pagina di un libro che aveva mio padre e dove avevamo preso, fatto dei segni, su questo foglio. Allora io scrivevo, su ... dico «quando ti scrivo questa tale parola che corrisponde a questa o questa vuoI dire la tale notizia». Adesso dirti le parole che erano non me lo ricordo. Ma scrivevamo in codice. Queste erano le notizie che mandavo io della Spagna. Per la Spagna. D. Tu mandavi queste notizie sulla Spagna a tuo padre, e da tuo padre ricevevi notizie di carattere politico? R. Ma, molto vago, così sai, ma io capivo, capivo mio padre; bastava che mi diceva per esempio «Tua madre ha avuto ancora la febbre», o così, «è molto nervosa (siccome mia madre soffriva di nervi); tua madre è molto nervosa, in questo momento ci sono molti medici che vengono», voleva dire che ci sono molti movimenti nel governo; i fascisti erano un po' in pensiero; era questa specie di linguaggio ... D. Quel recapito, quel nome Ciglieggio, che io ho trovato scritto su un documento di polizia appunto, che era, sarebbe stato il tuo recapito a Parigi... R. Era, in questa casa qui, doveva essere - adesso non me lo ricordo più il nome - si chiamava Cigliegio, di nome, Rue de Sèvres, ed era una delle nostre boftes aux lettres 4. Ed era un compagno, mi pare che fosse di Piacenza, questo qui, però era naturalizzato francese; perchè noi in generale adoperavamo della gente che non correva rischi... D. Sì, di essere espulsi... casomai... R. Oui, e allora era uno ... , perchè non davamo mai il nostro indirizzo giusto, perchè la polizia sai, ci avrebbe, beccato subito. D. Senti, tu quando sei arrivata in Francia, il francese non lo conoscevi ancora ... R. Niente. D. Come hai fatto a impararlo? R. Cominciando a leggere l'Unità, [anzi] l'Humanité, il giornale, e poi questi opuscoli che faceva il partito; in generale facevano ... c'era Stato operaio, c'erano anche delle cose in italiano e in francese. Ma tanto lo conoscevo poco che, mi ricordo Berti ... [anzi] Montagnana, mi aveva detto «Leggerai l'articolo di... di un compagno, però è in francese», il nome l'avevano messo in francese. lo ho sfogliato tutto il giornale non san riuscita a trovarlo. Tre giorni dopo che trovo Montagnana gli ho detto: «Ma guarda che io non ho trovato il nome che tu m'hai detto», dice «Ma sì, - dice - è questo ma è scritto così»; 4 Cassetta per le lettere, ma qui sta per «intermediario» (in uno scambio di lettere). 93 «e», dico, «ma io il francese non lo conosco». Mi pare che fosse un articolo di Sereni, e lui lì aveva un altro nome e l'articolo era in francese, e così pian piano ho imparato il francese; infatti lo scrivo molto, molto male ma lo leggo molto bene perchè non ho mai avuto tempo di andare a scuola. D. E là a Parigi vivevi, tu dove abitavi a Parigi? R. Subito ho abitato in una casa vicino à la porte Vincennes. Prima ho abitato da mia cugina, per quasi un anno, a Argenteuil, poi, quando a un certo momento - gli ho fatto tutto il ricamo per la figlia per poter pagare la mia pensione - e poi a un certo momento ho visto che la figlia era sposata e io non avevo più niente da fare; stavamo delle mezze giornate a far niente. Allora io ho detto con Montagnana e con Sereni, che erano quelli che vedevo di più: «Guarda io non ho più niente da fare lì, allora bisogna trovarmi un posto da lavorare, e, dico, mia cugina mi ha trovato un posto per andare a servizio ma ti dico francamente io non ho mai fatto la donna di servizio. Sono sempre stata in casa mia, ho fatto i lavori diversi; mi sento un po', un po' handicappata. Sono stata a vedere una famiglia che m'avevano detto che ci andassi, m'han detto che avevo tre cani da portar fuori al mattino, poi da preparare il caffè latte per la figlia e poi c'era ... io mi ero talmente umiliata! Sai, tutti i lavori san buoni ma bisogna avere anche un po' lo spirito per certe cose. Allora Montagnana, prima Sereni, ha detto «Assolutamente no, adesso vieni abitare in casa mia, noi abbiamo una bambina che ha cinque sei mesi, mia moglie lavora all'Unione donne italiane, allora abbiamo bisogno, allora vi date il cambio: quando lei va fuori, tu stai in casa ... » E allora sono stata 2 o 3 mesi con Sereni in casa sua, ma andavo sempre all'Unione donne italiane all'ufficio. D. Ma, Unione donne italiane, proprio, aveva già questo nome? R. Sì, sì, sì. E avevamo anche un giornale che si chiamava «La voce delle donne italiane» 5 e lo dirigeva la moglie di Longa, all'epoca, poi c'era la Negarville. E poi Montagnana m'ha fatto andare in casa sua, a un altro periodo, e poi nel frattempo m'hanno messo funzionaria, qui, del Partito, a fare il lavaro legale, perchè ormai ero bruciata come clandestina. D. E qui in che anni eravamo poi? R. Nel '38. Allora nel frattempo, fino al settembre del '39, ho diretto l'Unione donne italiane in Francia. E allora abitavo poi in Rue d'Vincennes. D. E della vicenda dei tuoi qui, del loro processo, eri stata .informata dai parenti? T'hanno scritto? R. Beh, evidente. M'ha scritto mia cognata una letteraccia che mi ha insultato me n'ha dette di tutti i colori dicendo che ero io la responsabile, naturalmente m'ha fatto molto male, mia madre era d'accordo con mia cognata che ero matta, che non avrei dovuto far 'ste cose ma, sai, ci si patisce molto, sai, perchè si ha anche rimorso, no ... D. Poi in Francia tu ti sei anche sposata? R. Mi sono, non sposata, ho vissuto con Ugolini per, molti anni ... 5 Secondo la stessa T. Noce il titolo era «Noi Donne»; cfr. T. NOCE, Rivoluzionaria professionale, La Pietra, 1974, p. 177. In realtà a Parigi, metà anni trenta, usciva «La voce delle donne/La voix des femmes», Organo del Comitato italiano femminile di lotta contro il fascismo [... ], (cfr. INSML, Catalogo della stampa periodica 1900-1975, p. 307). 94 D. Ugolini chi era? R. Direttore dell'Unità di Torino ... D. Di nome come si chiama? R. Amedeo. Adesso c'ha i figli che sono a Genova, che sono anche loro attivisti del Partito, così. Allora siamo stati, lui era redattore alla «Voce degli Italiani» a Parigi e io dirigevo l'Unione donne italiane. Allora pian piano abbiamo finito, insomma siamo andati ad abitare insieme e siamo stati insieme tre anni e mezzo a Parigi, poi lui è stato arrestato, dalla Gestapo, e portato in Italia. A me quella volta non m'hanno arrestata. Però son scappata subito da casa dopo il suo arresto, e son venuti poi a cercarmi, che me l'ha detto la portinaia, ma non c'ero più ... D. Qui eravamo perciò nel '40, dopo il giugno '40, occupazione della Francia da parte dei tedeschi. R. Nel '4l. D. Tu ti ricordi quando nel '39 c'è stato il patto germano-sovietico ... R. Eh, oui che me lo ricordo!. .. D. Ecco, fu un dramma nel Partito ... R. È stato, è stato lo smarrimento tra tutti i compagni del Partito. Veramente un vero smarrimento; tant'è vero che c'era un compagno di ... pistoiese, e poi c'era Dozza, di Bologna e poi c'era Montagnana, c'era Sereni, poi chi c'era ancora? .. L'ultima riunione che hanno fatto dopo quest'affare, l'hanno fatta - poi c'era Eugenio Reale, che allora era nel Partito -l'hanno fatta in casa mia, che erano poi insieme con mio marito, perchè mio marito era redattore al giornale, allora si conoscevano bene. E, non sapevano dove metter le mani. Non sapevano che attitudine prendere, quale atteggiamento prendere. Quella è stata l'ultima riunione che s'è fatta con loro. Poi siamo stati completamente isolati per un buon periodo di tempo. In più di questo non avevamo niente da mangiare e nessun lavoro, niente perchè eravamo più o meno funzionari del partito. D. Tu in quel periodo lì eri cittadina italiana ancora? R. Sì, italiana. D. E avevi comunque dei documenti? R. Italiani. D. Cioè, dal punto di vista legale in Francia eri a posto, avevi un passaporto regolare? R. Avevo un passaporto regolare, che avevo avuto e che loro pensavano fosse regolare, che non era, che però, avevo sempre il mio passaporto, con una carta di soggiorno rinnovabile tutti i tre mesi. D. Ho capito. R. Che me l'aveva dato il Soccorso Rosso, me lo aveva fatto avere. E mio marito invece era venuto lui legale, perchè era legale e lavorava alla Voce degli italiani, però non poteva più tornare in Francia perchè ormai era bruciato anche lui. D. Poi, tu quando c'è stato, diciamo, la Resistenza in Francia ... R. Sono entrata nella Resistenza nell'agosto del 41 come a fare un lavoro di solidarietà. 95 D. Tu sei entrata tramite sempre il partito, o ... R. Sempre tramite il partito. D. Però prima del 41 c'è stata una fase d'incertezza rispetto ... R. C'è stato un anno di fame, fame che non finiva. D. Di fame capisco, ma, voglio dire, l'atteggiamento del partito comunista francese nei confronti della ... R. Non sapevamo cosa fare, noi eravamo un po' slegati dal partito francese, perchè noi lavoravamo col partito italiano, e allora non avevamo i legami. D. E in mezzo agli italiani, c'era un dibattito allora, no? Anche per gli italiani, in Francia o nei campi, quelli che erano stati prima in Spagna che erano anche adesso da quelle parti ... R. Sì, sì. D. Dicevo nel '40, quando l'autorità francese chiedeva agli ex combattenti di Spagna che erano in Francia di arruolarsi, che so io, nelle compagnie di lavoro, molti dicevano «No perchè questa è una guerra imperialista non ci riguarda, le castagne nel fuoco, dal fuoco ve le togliete voi», cioè c'era un atteggiamento che non era ancora resistenziale, ma era di rimanere in attesa degli eventi. R. Sì, sì, infatti vi è stato un certo periodo in cui il governo francese ha chiesto che tutti gli emigrati si arruolassero nell'esercito francese per aiutare la Francia, allora c'è stato il Segretario dell'Unione Popolare Italiana, ha dato ordine a tutti i suoi aderenti di farsi iscrivere nell'esercito regolare francese, e che gli avrebbero dato le carte. E una di queste persone incaricate di andare iscrivere questa gente, avevano aperto un ufficio, c'ero anch'io. Ma abbiamo durato due giorni e poi abbiamo visto che non era una cosa da farsi e allora s'è chiuso, e tutta la cosa è rimasta allo stato ... D. Che non era una cosa da farsi, nel senso che non venivano? R. La gente non veniva, non la sentivan mica. I primi giorni c'è stata molta gente che è venuta, ma poi la gente dice «perchè ci dobbiamo fare amazzare?». I compagni sono spariti a destra e sinistra, e gli altri ... D. Ma secondo te nella decisione di buttarsi sul lavoro di Resistenza contro i tedeschi, ha influito l'invasione tedesca nell'Unione Sovietica? o no? R. No, erano cose completamente staccate. D. Che ricordi, è così insomma. R. Si, si, non mi ricodo che vi sia stato ... ciò che poi siamo rimasti in Francia dopo che Sereni, Dozza, che loro erano partiti al mezzogiorno, Montagnana era partito in Messico, c'era Donini anche lui era sparito perchè erano i pezzi grossi, allora eravamo rimasti io e mio marito, c'era Ravagnan ch'era di Venezia, poi c'era un'altro compagno di Bologna, siamo rimasti, i sotto-capi se vuoi. Siamo rimasti lì per vedere che cosa si poteva fare, anche perchè non avevamo dove andare, allora ci siamo arrangiati un po' tutti, a lavorare sia destra che a sinistra allora abbiamo avuto dei compagni che sono andati a cavare le rape, a lavorare. Reale, per me è stato un uomo eccellente, anche se poi le sue idee di partito son cambiate; lui era ricco di famiglia, allora ha venduto dei vestiti, dell'oro che aveva, per poter comprare da mangiare per questa cerchia 96 di 8 o lO compagni ch'eravamo rimasti lì sul posto. E allora io e mio marito, non sapendo cosa fare, ci siamo messi a fare il sapone clandestino. Compravamo da dei commercianti di Reggio Emilia che avevano della grassa, andavamo a comprare questa grassa e la facevano fondere alla notte poi vendevamo il sapone. Allora facevamo pezzi di sapone ch'era grande così, ma quando andavamo venderlo non era più così perchè si stringeva, non avevamo nessuna idea di come si faceva, ma questo ci ha dato da vivacchiare per un po', per un anno. E poi mio marito, ha visto che questo lavoro non andava, io mi son messo a fare del cucito per una ditta che ci dava una miseria, e mio marito e Reale e altri compagni mi mettevano i bottoni. C'erano 32 bottoni da mettere a mano in queste camicette, facevamo questo lavoro così insomma. Ci si arrangiava in qualsiasi maniera. D. E il lavoro nella Resistenza poi in cosa è consistito, cioè tu ricordi? R. Subito, bè questo me lo ricordo bene, è stato il periodo al quale sono molto attaccata. Allora sono entrata nella Resistenza, sono stata chiamata, sono venuti a chiamarmi a casa, il compagno Mazzetti di Bologna, che è Alfredo Mazzetti, che è ancora vivo adesso; non l'ho più visto, altro che una volta da allora. È venuto lui e un altro compagno che poi è stato responsabile della Federazione di Verona, per parecchi anni: lui è un genovese. Ho lavorato con loro fino al 42 circa, poi questo di Genova è partito, è venuto in Italia perchè quando era caduto il fascismo pensava che ormai c'era la liberazione, che poi è stato arrestato in seguito. Allora io sono passata nella clandestinità, cioè nella Resistenza non di solidarietà, ma di lavoro politico. Mi occupavo in modo particolare degli emigrati italiani che erano nelle miniere del Nord e del Pas de Calais. Allora tutto il mio lavoro l'ho poi svolto in quei posti lì. Ed ero responsabile politica, se vuoi, di questi gruppi, e avevamo tutti gli emigrati su dell' Alange, Coutange tutti quei paesi della Meurthe et Moselle, della Moselle e poi del Pas de Calais; e poi a Bordeaux. Ma ero un po', se vu~, la valigia viaggiante. Perchè siccome mio marito nel frattempo era stato arrestato, io ero da sola, allora magari arrivavo da Bordeaux, mi mandavano a Nantes, poi da Nantes andavo su a Longwy, o a Nancy o a destra o a sinistra, ero sempre in treno; ho passato un periodo che odiavo i treni. Ero sempre in treno; e si faceva sempre questo lavoro fino alla liberazione. Ho sempre fatto questo lavoro. Venivo giù da Parigi perchè ci passavo dei periodi anche di un mese, lassù in montagna; ma non nei boschi, ero nel paese, c'erano delle famiglie che mi ospitavano, oppure trovavamo degli alberghi che non ci chiedevano i documenti, si mangiava un po' a destra e a sinistra. D. E poi lì facevate riunioni? R. D. R. D. R. D. R. Facevamo riunioni della M.O.I., cioè eravamo insieme agli altri emigrati [MO!, cioè] Main d'oeuvre immigrée, no? [Mano d'opera immigrata] m.d'o.i. oui. Ma poi ne conseguivano anche delle azioni militari? Sì, sì, sì. Cioè, c'erano attentati? Attentati; abbiamo fatto saltare un treno nella Meurthe et Moselle che 97 veniva giù dalla Germania con molto materiale, che è andato a finire in un burrone, ci son stati anche dei morti. E questo l'hanno fatto degli italiani assieme ai polacchi; con le direttive che mi venivano dai compagni polacchi che erano diretti da un certo Milè che era un bulgaro, che è stato anche ministro plenipotenziario in Bulgaria dopo la Liberazione per molti anni, l'ho visto anche l'anno scorso. Et voilà, fino alla fine della Resistenza; non sono mai stata arrestata per fortuna mia. D. E quando arriva la liberazione, tu dove eri? R. Ero su nella Moselle, al confine della Germania. D. E sei rimasta lì o sei tornata a Parigi? R. Tanto che Mazzetti, e tutti quanti pensavano ... lo ero partita il 12 agosto, ricordo, qualche giorno prima della liberazione di Parigi. lo parto da Parigi con il materiale per andare su nella Moselle dove io lavoravo a Nancy e su di là; e son partita in bicicletta con una valigia con dentro del materiale, e due rivoltelle; ma la bicicletta a un certo momento, i copertoni sai, crepavano, le gomme non tenevano, e allora io sono a piedi sulla strada e vedo arrivare un camion, faccio segno: mi caricano sù, erano dei tedeschi. Allora mi buttano su la valigia sul camion e dietro mi mettono la bicicletta e io sono davanti con loro. Arriva verso sera e un tedesco voleva, voleva farmi la festa, ma allora dice «il marito dov'è?». lo gli ho detto che il marito era militare così, allora mi faceva così, segnava il bosco, io gli dicevo di no, e finalmente lui ha insistito molto e io a un certo momento ho avuto anche paura. Poi gli ho detto che assolutamente no perchè io ero religiosa, io ho detto «no non faccio peccato!». Poi siamo arrivati in un paese, eravamo a 20 km dal posto dove dovevo andare, ma era già notte e c'era il coprifuoco e non si poteva più andare avanti. Allora m'han detto di andare a dormire in mezzo a un pagliaio, c'era della paglia, un fienìle, dove c'erano anche delle altre donne; infatti c'erano un mucchio di donne tedesche, che stavano già scappando da Parigi. Allora abbiamo dormito lì e poi al mattino alle cinque, nel frattempo avevo fatto aggiustare la bicicletta da un tedesco che sapeva mettere una pezza, ho preso la bicicletta e son partita prima che loro saltassero giù. Ma come sono uscita, mi grattavo, mi grattavo. Arrivo a Nancy e c'è il treno, l'ultimo treno che stava partendo, allora il macchinista m'ha visto, m'ha preso la bicicletta e me l'ha buttata dentro e m'ha tirato su. E son salita lì. Avevo ancora una trentina di km da fare, son poi arrivato in questo paese dove dovevo andare a S1. Martin e lì i compagni quando sono arrivata, mi faceva tanto di quel prurito addosso tanto di quel prurito, mi hanno guardata, avevo dei pidocchi grossi così. .. ma lunghi erano! Ancora desso pensandoci ... li avevo presi dalle donne tedesche; e allora poi i compagni lassù mi han detto che la polizia mi cercava, e dicevano che avevo gli occhi verdi, io non me li ero mai visti verdi, bruna di capelli. Allora sono andata da un parrucchiere. D. Dovevi essere una gran bella fanciulla però a quell'epoca? R. Sì, pareva, non so. Allora mi son fatta tingere i capelli e sono uscita coi capelli color carota, ero così brutta, così brutta, e son andata all'appuntamento con questi compagni per dargli le rivoltelle e non mi ha riconosciuta. Finalmente ho dovuto togliermi gli occhiali per farmi vedere. Disse: «Porca M .... 98 - al'dis-ma guarda chi /'èe» 6. D. Allora era un compagno Teggiano? R. No, era un toscano, ma bestemmiava bene. Allora ci siamo parlati e poi m'ha detto «Devi andare appunto a Luçon che c'è un altro compagno che aspetta», un certo Mario, che aspettava il materiale clandestino. Allora prendo il treno, scendo giù, vado appunto a Luçon quando sono li faccio per ... cerco questo compagno e non lo vedo. Allora, dico avevamo recapito [= appuntamento] un'ora dopo. Ma ad un certo momento sento un colpo di rivoltella, sento sparare, dico «Ci sono i tedeschi; magari succede qualche cosa»; allora io taglio la corda e vado nell'albergo dove non mi chiedevano le carte e mi conoscevano, vado là e non vado al recapito. Poi al mattino rimonto su al paese e poi ho saputo che il compagno era all'appuntamento, che i tedeschi l'avevano preso, e che aveva il mio nome dentro al berretto, l'aveva messo dentro al berretto. Allora lui quando m'ha visto scendere, io non l'ho visto per fortuna perchè sarei andata verso di lui, lui s'è girato e ha fatto per scappare, i tedeschi gli hanno sparato e gli hanno ferito un calcagno, l'hanno fatto zoppicare. Allora io ho sentito il colpo, ma non sapevo che ero talmente interessata a questo colpo di rivoltella, e così mi sono salvata. Dico non sono mai stata arrestata. D .. Alla liberazione ... R. Alla liberazione mi son trovata li, 40 giorni dopo la liberazione di Parigi cioè al mese di settembre, ero sparita, non c'era più comunicazione, a Parigi avevano già fatto la messa funebre perchè la Gina è rimasta così, e poi invece ho trovato un compagno che poi è il mio attuale marito, che veniva a Parigi perchè lui era comandante M.O.I. della Resistenza. Allora mi ha detto «lo vado a Parigi», allora dico «Guarda, m'interesserebbe molto scendere a Parigi, perchè sono tagliata fuori, non so più nulla dei compagni, nè dove hanno la sede adesso, niente». Finalmente scendiamo a Parigi e vado al 15 nella rue Montmartre perchè lì sapevano che lì prima della guerra avevano un ufficio. Ed è lì che ho trovato Mazzetti; quando è venuto era a sedere come lì, sai; quando mi ha visto alla porta lui è svenuto quasi, talmente è rimasto sorpreso, gli parve di vedere un fantasma, poi è stato molto contento di vedermi, io non sapevo che mi pensavano morta. D. E a Parigi si è costituito un Comitato italiano di liberazione? R. Ecco io poi son partita. D. Partita per dove? R. Dunque nel 44 c'è stata la liberazione, io ho messo in piedi l'Unione donne italiane, assieme con la Fontanot una compagna di Milano, adesso. lo e lei abbiamo rimontato su l'organizzazione dell'Unione donne italiane,e sono rimasta lì fino al mese di Aprile. Poi nel mese di Aprile mi è arrivato dal Partito italiano, cioè da Torino, da mio marito, l'ordine di rientrare perchè non avevo più il processo, che avevo avuto, insomma, la condanna, tutte queste cose non erano più valide. Allora mi hanno mandato da Parigi a Marsiglia, e da Marsiglia son ritornata a Torino, nel 45 alla fine di aprile. 6 (Dialetto reggiano): Parca M. - dice - ma guarda chi è! 99 D. Allora negli anni immediatamente successivi alla liberazione in Italia sei rimasta in Italia ... R. A Torino, dal '45 fino al '60 sono poi rimasta a Torino con mio marito. D. Ecco perchè hai un accento vagamente anche torinese, hai la "è" un po' ... tuo marito com'è che si chiama? R. Weissberg. D. Tedesco, ebraico? R. Ebraico, lui è ebreo. D. Di nome? R. Gilbert. D. Però, voglio dire, di nazionalità francese? R. Lui è francese, però di origine russa; la madre era russa, il padre era rumeno, perchè lui faceva parte della ... D. Madre rumena? R. No madre russa, padre umeno. Lui era il mio comandante partigiano nell'ultimo periodo della Resistenza come M.O.I; sempre in Francia. D. No, dico M.O.I è sempre quella sigla del... R. Sì, Main d'oeuvre immigrée, oui, Mano d'opera immigrata. Lui era comandante partigiano, è stato, come dire, omologato, comandante partigiano nell' esercito. D. Senti, essendo tuo marito di origine ebraica, di fronte ad alcune vicende di questi ultimi anni nei paesi dell'Est europeo, non sò, lui ha mai avuto problemi di coscienza ... R. Lui ha rinunciato alla nazionalità rumena perchè non gli davano il passaporto. Non perchè fosse contro al regime, così, ma, lui avrebbe dovuto rientrare in Romania, ma lui non voleva, perchè ha avuto 42 persone della sua famiglia che sono stati sterminati, fra suo padre, sua madre, sorelle, e cugini, zii, insomma fra tutto il parentado, perchè era una famiglia enorme, ci sono state 42 persone che sono partite. Allora non gli è rimasto assolutamente niente la giù in Romania, allora lui non ha più voluto andarci. Poi era sposato durante la guerra con una donna polacca, morta dopo il campo di concentramento; è stata arrestata e portata in campo di concentramento, è morta 3 anni dopo quando è ritornata dal campo di concentramento. Allora non aveva più nessun legame e allora non ha voluto andarci più. Quando poi ci siamo rimessi, ci siamo conosciuti noi due, cioè che abbiamo ripreso, stà conoscenza che era stata prima solo una conoscenza di compagni, allora abbiamo deciso di sposarci, e poi di venire anche in Italia, ma lui non aveva passaporto; condizione per avere il passaporto era che rinunciasse alla nazionalità rumena. Ma non per astio contro la Romania. Per comodità, anche perchè poi è diventato francese ... D. Ma problemi come quello dello Stato di Israele, vicende che coinvolgono in qualche modo chi, pur non essendo religioso, però è di origine ebraica, lui non ... R. Posso darti molte informazioni su questo perchè lui è responsabile nazionale dei resistenti ebrei a Parigi, adesso. È in una organizzazione che ha messo su lui, se vuoi, ed è proprio il loro compito quello di raggruppare tutti 100 questi resistenti, ma per dargli anche una direttiva giusta, contro al governo, al governo di Israele, ma non contro Israele. Allora come eravamo noi, contro Mussolini ma non contro l'Italia. Allora la politica è molto, molto difficile, tu non hai un'idea delle battaglie che ci sono! E ogni volta che fa una riunione, ieri sera mi ha telefonato dice, «Abbiamo ancora bisticciato alla riunione perchè c'è il tale (che conosco) che dice ma Begin ha fatto questo, quello», allora sai è un problema difficile. D. A Parigi, dove abitate adesso? R. In via S. Lorenzo, rue S. Laurent, in centro. Siamo sposati da 22 anni. Sono veramente, con lui, sposata. D. Con rito civile, o con rito ebraico? R. No, con rito civile. Lui non è nè cattolico, noi non frequentiamo nessuno. D. Di origine ebraica poteva essere ... Casomai sentire il richiamo della tradizione ebraica? È capitato che alcuni compagni dopo l'olocausto, lo sterminio, hanno sentito, come dire, anche se non ci pensavano più, il richiamo delle radici ebraiche, anche religiose, o etiche ... R. Lui si sente, come dire, si sente ebreo in questo senso che ha sempre lavorato fra gli ebrei, ma lui sente molto il Partito francese. D. Con la comunità ebraica a Parigi, oltre a questa organizzazione di residenti ebrei, ha qualche contatto con la comunità ebraica, PIace des Vosges, là, dove c'è il TempIe? R. Ah beh no, questi sono completamente a parte. Però hanno delle riunioni insieme con Rotschild, il figlio di Rotschild; Rotschild il grande finanziere ... Che quando fanno delle riunioni per la pace, allora invitano tutte le organizzazioni, e allora in quelle occasioni mio marito va a rappresentare, va a rappresentare la sua organizzazione, ma sono gli unici rapporti che hanno. Altrimenti ci sono delle organizzazioni di resistenza in Francia, c'è la, una resistenza che raggruppa tutti, comunisti, anche, se vuoi, anche non comunisti, ma resistenti, oltre a quella di mio marito; sono quelle organizzazioni che vede lui insomma. Poi hanno un giornale che si chiama «La Presse Nouvelle» dove lui anche scrive quando ha bisogno di comunicare. D. Tu sei sempre membro del Partito comunista francese? R. lo ho la carte del partito francese, ma anche quella italiana D. Doppia nazionalità, e doppia tessera. R. E mio marito, ha la tessera anche lui del Partito italiano, oltre, ... gliel'hanno data l'anno scorso a Roteglia. D. Ma, come (potrebbe essere l'ultima domanda) ... rispetto alle svolte politiche recenti, agli atteggiamenti del Partito comunista italiano sui paesi dell'Est europeo, le critiche, che da parte del nostro partito son venute ... tu personalmente ... R. lo personalmente sono con il Partito comunista italiano, te lo dico subito, e allora sono le «grandi liti»; al rischio di divorzio arriviamo con mio marito. Questo è l'unico motivo che potrebbe farci divorziare perchè siamo sempre in lite sul partito italiano e partito francese, sai, ma lite per modo di dire; discussioni molto dure, ad esempio il fatto della Polonia, dell' Afghanistan, noi 101 non siamo assolutamente d'accordo, non siamo sullo stesso punto di vista assolutamente; allora, a parte questo, però poi, alla fine, ci facciamo una risata e diciamo «loro andranno avanti lo stesso, noi dobbiamo fare la nostra vita»; ma lui quando prende il giornale L'Unità è sempre critico. Legge già il giornale italiano, parla italiano, abbastanza bene insomma. Ma lui è critico, sempre dice: «Guarda un po' vanno abbaiare con il lupo anche loro quando ci sono le manifestazioni», chè siamo venuti qui a Reggio alla manifestazione ch'era per la pace, l'anno scorso qui, gridavano, sai, allora lui non era d'accordo insomma, che invece il partito francese sai è duro purtroppo, e lui è per l'Afghanistan, è per la Polonia, e così allora, insomma abbiamo questi punti di vista che ci dividono completamente. D. Facciamo un salto all'indietro nel tempo, quando sei stata per esempio ad Argenteuil, hai conosciuto dei reggiani? Ne abitavano moltissimi allora. R. Sì, sì, sì, sì. D. Di Cavriago, di Barco ... R. Sì, sì, sì, sì avevo una mia cugina che abitava lì, allora andavamo alle riunioni dell'Unione Popolare Italiana dove facevano parte tutti questi reggiani. D. Tu ti ricordi che Argenteuilla chiamavano tra reggi ani e Queriègh? R. Caveriègh! Sì, sì, sì, sì altrochè se li conoscevo, conoscevo tutti, c'era Busei. D. Siccome ce ne abitavano molti, dicevano che Argenteuil era diventata la nuova Cavriago, no? R. La nuova Cavriago, infatti; adesso non c'è quasi nessuno perchè i figli, sposati, integrati completamente con i francesi, e i vecchi o son partiti o sono morti. Son rimasti due o tre persone, che vedo ancora, li vedo ancora questa gente, ma sono veramente molto, molto vecchi; fra l'altro mia cugina che ha 85 anni che sta esaurendosi pian piano, insomma. Ma lei era proprio ad Argenteuil, è di Reggio, Roteglia. C'era un altro che era di Reggio Emilia che è morto l'anno scorso qui a Reggio, un compagno, che, anche lui di Argenteuil, faceva il tappezziere: Luigi, non mi ricordo come si chiamava di cognome, un certo Luigi, mi ricordo perchè andavo da lui a farmi dare della roba per fare la lotteria. È morto l'anno scorso di cancro, anche lui abitava ad Argenteuil. D. E quando c'era la guerra di Spagna, avevate fatto delle iniziative? R. Abbiamo raccolto camion di roba, dei camion, per mandare giù in Spagna. Sapone, così, e andavo in giro, mi ricordo una volta sono stata fuori tre settimane a raccogliere roba per la Spagna; andavo nel Lionese a Villeurbanne, avevamo raccolto un mucchio, un mucchio di roba. C'era una compagna che si chiamava Maria, era molto, molto brava, poi mi hanno detto che è morta, l'ho cercata dopo la liberazione. D. Giulio Cerreti l'hai mai conosciuto? quando eri ... R. Cerretti? D. Cerreti Giulio, quello che si chiamava poi in Francia con un altro nome. Ha scritto anche un libro recentemente, intitolato Con Togliatti e con Thorez. Era quello che dirigeva in Francia proprio questo lavoro di invio di materiale in Spagna. 102 R. PUÒ darsi che fosse un altro nome ... D. Sì, aveva un altro nome francese, perchè era proprio nel Partito comunista francese. Era un italiano; fu poi presidente della Lega Nazionale cooperative qui in Italia dopo la liberazione. È ancora vivo. È un uomo che scrive ancora sul L'Unità a volte, manda lettere, ma non mi viene in mente il nome francese. R. Non sò pUÒ darsi. Noi raccoglievamo come Unione Donne Italiane, poi lo passavamo naturalmente ai francesi perchè erano loro che avevano i trasporti. D. Sì, avevano proprio messo in piedi una grossa compagnia commerciale, regolare, di export-import, e dietro questa rete fingevano di essere dei semplici commercianti a livello internazionale e mandavano la roba, con le navi anche. R. Infatti, c'è stato un compagno che si chiamava Testa, che era di Torino, che era uno di questi camionisti che portavano via la roba e a un certo momento gli han fatto il sabotaggio, gli hanno svitato le ruote ed è finito in un burrone. Conosco la moglie, che abita a Torino adesso. Lui era torinese e faceva parte di questo gruppo, che portavano via, di questa Ditta che trasportava appunto il materiale in Spagna. D. In quel periodo rapporti con altri italiani che fossero, che so io, anarchici, o di altre posizioni ... R. No. Recensioni LUCIANO GUIDOTTI «Reggiane» 1943-51. I giorni dell'ira, Introduzione di Alfredo Gianolio, Edizioni il Voltone, 1983, pp. 182. Con «L'uomo delle Reggiane» [Recensito sul n. 49 di «Ricerche storiche»] e con «I Giorni dell'ira» Luciano Guidotti ha contribuito ad arricchire la cultura e la storia reggiana; storia e cultura che affondano le loro radici in una realtà politica, economica e sociale che ha come protagonisti grandi masse di operai, di contadini, di ceto medio. Ed è emblematico che a raccontare questa storia e a produrre questa cultura sia proprio uno di loro, un operaio, uno «scaldachiodi», come ama definirsi, con eccessiva modestia, Luciano Guidotti; cioè uno che ha vissuto dentro i fatti e che oggi con legittimo orgoglio può dire: «C'ero anch'io». Certo, l'opera di Guidotti non è la storia della lotta delle «Reggiane» ma è piuttosto un mosaico di episodi spesso altamente drammatici: come quello dell'eccidio di nove Operai delle «Reggiane» il 28 luglio 1943 o come quello dei frequenti scontri fra operai e forze dell'ordine durante la lotta per la salvezza della fabbrica. A tali vicende storiche si intrecciano quadri molto belli di vita reggiana, come «Piazza della Verdura», e rievocazioni di personaggi di un tempo, come il gelataio, l'arrotino, il postino, la Bizara ecc. insieme ad alcuni protagonisti della lotta delle «Reggiane». Egli riscopre cosÌ i nostri «graffiti» degli anni' 50 e li descrive con estro assai felice, in una prosa gustosa, I?ercorsa a volte da sottili venature poetiche. E di straordinario acume il suo spirito di osservazione, sorprendente la sua memoria visiva, al segno che nella sua scrittura (come afferma Alfredo Gianolio) egli filtra e ripropone, nei minimi particolari e in lucida successione, i vari aspetti dei suoi personaggi, quasi ce ne facesse vedere, sotto una lente, tutti i più delicati ingranaggi. In questo suo impeto descrittivo, denso di umanità, di rabbia, di pensieri travagliati e sofferti, Luciano Guidotti, a volte, indugia un po' troppo su modi di dire che sono propri della parlata reggiana ma che, italianizzati, perdono di efficacia. Per altro verso, fatti storici come il sacrificio dei sette Fratelli Cervi sono rappresentati in dimensioni ridotte, rispetto ad altre vicende e ad altri personaggi. Sono osservazioni, le mie, che nulla intendono togliere alla dignità letteraria, al valore poetico e umano dell'opera di Luciano Guidotti. Pura assonanza, «L'uomo delle Reggiane» e «l'Uomo di marmo» di Wajda? mi sono chiesto a lettura ultimata e ho scoperto che le due opere hanno davvero qualcosa in comune. Anzitutto il periodo storico coincide con l'opera di ricostruzione postbellica, sia in Italia, sia in Polonia; con una differenza sostanziale, però: che mentre in Polonia il potere con «L'uomo di marmo» costruisce la fabbrica in funzione di una società socialista, in Italia invece il potere, in funzione della restaurazione capitalistica, caccia «L'uomo delle Reggiane» dalla fabbrica, chiude uno stabilimento con macchine ed impianti perfettamente conservati e si accorda con il governo inglese per l'acquisto di 1700 trattori, compiendo, come affermò l'on. Simonini, . «un delitto premeditato» con l'intento di distruggere «il fortilizio comunista reggiano». In ogni caso, ambedue gli uomini, vengono liquidati dal potere, seppure in modi diversi e nonostante i meriti acquisiti, l'uno come costruttore dell'R60, l'altro come eroe del lavoro. Non è questo il luogo per approfondire le cause di queste storiche sconfitte del movimento operaio, ma se mai è l'occasione per riproporre a Guidotti una questione che potrebbe trovare risposta nel nuovo libro ch'egli sta scrivendo, a compimento della «trii 0gia» sulle «Reggiane»: in quei magnifici racconti durante i turni di notte in fabbrica o in quelle stupende biografie di operai, riguardanti il microcosmo dei loro sentimenti, delle loro paure, dei loro dubbi, che cosa si pensava della scarsa solidarietà a livello nazionale, attorno alla lotta delle «Reggiane»? E come mai la solidarietà realizzata nella nostra provincia fra operai, contadini, intellettuali e ceto medio ha avuto quello sviluppo, non ripetibile oltre i confine della nostra Provincia? lo ho vissuto la vertenza delle «Reggiane» 104 dalla parte dei contadini e posso testimoniare che la loro solidarietà non era improvvisata, non era effimera, ma affondava le proprie radici nelle origini stesse del movimento socialista reggiano, quando la Lega e la Cooperativa prima e il Comune poi rappresentavano i primi baluardi di difesa della classe operaia e contadina, i primi segnali di un nuovo rapporto fra città e campagna che si cimenterà con la lotta di Liberazione. È questa specificità reggiana che a mio parere meritava un particolare risalto nell' opera di Guidotti, anche per far comprendere quell'imponente fenomeno che va sotto il nome di «miracolo economico» e per cui la nostra provincia si trasforma da agricola-industriale in industriale-agricola con l'abbandono della terra e con l'ingresso di migliaia di contadini in fabbrica. In conclusione, i protagonisti delle pagine di Guidotti, modesti e grandi ad un tempo, si propongono tuttora come «modelli di comportamento» umano e civile validi soprattutto in questa nostra società in bilico tra progresso e barbarie, magari computerizzata. MARIO LASAGNI ODDONE BRUNO SAL TINI, REMO DELMONTE, La tana della tigre, Reggio Emilia, 1983, R. Delmonte Editore, pp. 193. La tana della tigre di cui al titolo, sarebbe poi l'equivalente maoista del Palazzo d'indi bolscevica memoria. verno E il Maotzetungpensiero, nell' accezione che ne diede in Italia il P.C. d'I. (m.i.) a cavallo degli anni sessanta-settanta, debitamente intrecciato ad un irrigidito marxismoleninismo impassibilmente recepito dalla vulgata staliniana, costituisce la griglia interpretativa degli eventi che O. Saltini narra e R. Delmonte trascrive. A scanso di equivoci, diremo subito che abbiamo letto con vivo interesse questo libro, essendo comunque prevalentemente il frutto dei ricordi personali (diretti o variamente mediati) di Oddone Saltini, relativi ad un arco temporale che, partendo dai primi anni venti, arriva fin presso ai nostri giorni. L'abbiamo letto, interpolazioni ideologizzanti a parte, come una avvincente testimonianza non solo autobiografica, ma anche tale da offrirci parecchi elementi di ulteriore conoscenza su di una famiglia contadina del Correggese, quella dei Saltini appunto (soprannominati «i Davòli»), impegnata nella lotta contro il fascismo dal '21 alla guerra di liberazione; una famiglia che ha visto il sacrificio di due dei suoi otto figli: Vittorio (Tati, Medaglia d'Oro della Resistenza) e Vandina, uccisi dai nazifascisti a Fosdondo di Correggio il 25 gennaio 1945. Di Vittorio Saltini, ci aveva già dato una bella biografia (inopportunamente e insistemente sottovalutata in questo libro) Rolando Cavandoli nel lontano 1955. Con questo nuovo libro abbiamo comunque, indubbiamente, un arricchimento di conoscenza sulla vita di un militante come Tati e dei suoi fratelli Adalciso, Emilio, Umberto, Vandina, Adele, Dante e Oddone nonchè sul più ampio contesto sociale ed umano in cui le loro vicende si collocano. Ne risulta un repertorio assai ricco ed utile per la ricostruzione di una storia dei comunisti reggiani che si basi anche (e qui siamo ovviamente d'accordo con Delmonte) sul vissuto personale dei militanti. Ed è una storia, quella di tanti militanti comunisti reggiani, che ha radici, ancora insufficientemente esplorate, nelle nostre campagne, e percorsi assai mossi e perfino «avventurosi» che passano attraverso la cospirazione antifascista, il carcere, il confino, l'esilio e le lotte in Francia o in altri paesi d'Europa, compresa l'Unione sovietica, dove tanti «quadri» ricevettero una formazione ideologica (fu il caso di Tatl) a quella «scuola leninista» che rimane una tappa fondamentale nella biografia di molti ex braccianti, operai, contadini italiani (diversi reggiani tra di essi) che ne ricevettero il carisma di «rivoluzionari di professione». L'aspetto che più favorevolmente colpisce, nella trascrizione che Delmonte ha operato della lunga testimonianza di Oddone Saltini, è a parer nostro la ricostruzione, oltre che di una rete di rapporti interpersonali negli anni della clandestinità, dei modi di comunicazione, fino al parlato dialettale, tra i vari protagonisti che in questo libro compaiono. È però mancato, da parte del curatore della pubblicazione, un soddisfacente controllo di altre fonti, in relazione a fatti e a circostanze. Facciamo alcuni esempi: «l ... ] Il primo comitato dirigente dei gruppi sportivi si formò nel luglio del' 43 ed era composto dai comunisti Gismondo Veroni, Alcide Leonardi, Attolini Armando» (p. 128). A parte che Alcide Leonardi fu liberato dal confino di Ventotene il18 agosto del '43, è ben noto e documentato che tale «comitato», che era poi il «Triangolo sportivo», fu costituito il 9 settembre '43, nella famosa riunione del P .C.I. tenuta tra Rivalta e Montecavolo; del «Triangolo» facevano parte Veroni, Leonardi e l'Avv. Osvaldo Poppi (non Attolini). A pago 134 si legge del «ruolo importante 105 che ebbe Paolo Davoli nella formazione dei primi nuclei della Brigata GAP, cosa che è stata dimenticata in tutte le opere scritte sulla Resistenza di Reggio Emilia (sottolineatura nostra, A.Z.). Tale ruolo in realtà è stato ripetutamente ricordato ed illustrato, a cominciare dalla biografia di P .D. pubblicata nel 1955 da Liano Fanti (vedasi pago 25 dell'opuscolo) nella collana «Quaderni del Decennale» della Federazione comunista reggiana. Come osservazione marginale, ma che ci permettiamo di fare essendo Delmonte persona di cultura superiore e sensibile alle questioni linguistiche, noteremo come si sia trascurata la grafia dei toponimi francesi ricorrenti: così Yvetot diventa Ivto (pag. 12), Fauville en Caux diventa Fouville (p. 122), Fécamp diventa Fecan (p. 124), Clichy diventa Clichi (pag. 119). Ma toponomastica francese e superfetazioni ideologizzanti a parte - e tenuto presente che alcune circostanze sono erroneamente (o faziosamente) riferite - il libro si impone all'attenzione del ricercatore per la messe di elementi inediti che offre. Da questo punto di vista Delmonte ha fatto un buon lavoro, tanto più meritorio se si considera che per l'occasione egli si è anche assunto l'onere di improvvisarsi editore. ANTONIO ZAMBONELLI RENzo BARAZZONI La cognizione del tempo, Reggio Emilia, Edizioni Il Voltone, 1983 (Introduzione di Ugo Bellocchi), pp. 69. Renzo Barazzoni, di cui è noto il prezioso contributo di ricerche sul movimento operaio e la Resistenza, ci presenta ora con "La cognizione del tempo" un'opera soltanto in apparenza lontana dai suoi abituali interessi di studioso e dal suo costante impegno civile. Un esame superficiale collocherebbe questo libro tra le scritture private, nella dimensione del diario intimo, di un autobiografismo liricizzante, allusivo e sfumato, nella sfera di una pura poetica della memoria: si tratta in realtà di un'interpretazione che falsa intenzioni e risultati e che finirebbe col ridurre il lavoro dell' Autore ad una esercitazione di bello stile o a una sottile dissertazione sull'eterno tema del tempo. La solida cultura di Barazzzoni non ignora ovviamente i termini filosofici e scientifici del problema: il tempo come immanenza o trascendenza assoluta, il tempo oggettivo o come funzione dell'io, il tempo come eterno presente o come dispiegarsi del processo sono temi presenti nell'opera, ma la riflessione su di essi è sempre saldamente incorporata nell'esperienza esistenziale, nel fluire della vita. La problematica sfuggente e angosciosa del tempo coincide con la problematica drammatica dell'esistenza nei suoi punti più tesi di contraddizione. La coscienza del tempo non è concepibile fuori dell'uomo, è la coscienza stessa del suo esistere, del suo divenire personale e collettivo. Da questa dimensione esistenziale nasce l'arduo sforzo di un recupero, di una parziale e contrastata ricomposizione di momenti fondamentali del passato: è un recupero di frammenti ottenuto non già attraverso gli strumenti di una memoria intimistica, estetizzante e crepuscolare, ma mediante l'acquisizione di una consapevolezza critica in crescendo. Scanditi dal ritmo del tempo riaffiorano i ricordi dell'infanzia, della guerra e della prigionia con l'approdo alla laica fede antifascista e socialista, dell'amore, della paternità. Uno dei risultati più notevoli ci pare consista nella qualità di una prosa ("superba letteratura" la definisce Ugo Bellocchi nell'acuta ed affettuosa introduzione) in cui le modulazioni musicali del periodo, il procedimento del discorso fitto di illuminazioni analogiche e metafore, sapientemente si fondono con il ragionamento rigoroso e conseguente. La lezione civile dell' opera sta nel suo non cedere a propositi di edificazione consolatrice: il problema del tempo sul piano speculativo resta sempre sullo sfondo come un grumo compatto, oscuro e irrosolto, ma non per questo rinvia a nebulosi misticismi, intrisi di passiva attesa e di rinuncia. La soluzione possibile è nella prassi, nel concreto agire, nel calarsi nel moto della storia, assecondandolo. "Il tempo del dubbio" è in questo senso un capitolo esemplare. "Non sto perdendo tempo a scrivere sul tempo?" si chiede l'Autore. "Meglio l'azione che l'attesa, per ingannare il tempo. Meglio far tesoro di ogni briciolo di vita, sapendo che essa è l'episodio più alto nella vicenda dell'universo". Nel capitolo conclusivo Barazzoni afferma che non bisogna "patire il tempo", subirlo, ma viverlo in un impegno di lotta e di trasformazione positiva del mondo. "È un tempo da redimere e da riscattare perchè non vi sia usura di uomo a danno di altri uomini, perchè il lavoro, non più servo, si riconcilii col tempo". È una visione storicistica e immanentistica del mondo questa di Renzo Barazzoni, nutrita di una fiducia profonda nei valori umani, dalla quale scaturisce la sostanza educativa della sua più recente opera edita. SERGIO MaRINI