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PRESENTAZIONE
In questo momento sociale e collettivo, dove emergono preponderanti i comportamenti estremi e di riflusso, risultanti da malesseri e
carenze di valori interpersonali e di relazione, nella debole prospettiva di un futuro e di speranze, l’analisi dell’autrice sui comportamenti
dell’eccesso, in relazione all’oralità (anoressia, bulimia, obesità), si
pone come pretesto di un’indagine più vasta sui comportamenti che
esprimono una mancata «assunzione dei limiti» (una mancata assunzione della morte). L’autrice è osservatrice di questi comportamenti
estremi, senza con-fine, illimitati, che sfociano in pretese inumane
di onnipotenza e nella distruttività grottesca. Tali osservazioni prendono avvio dal linguaggio proprio della complessità anoressico-bulimica e dell’obesità, nei modi di descriversi e comunicare, attraverso
esempi. In questa indagine emerge l’uso del «legame di relazione
o paragone», utilizzato per descriversi, a sottolineare il bisogno di
dipendenza ancora in atto, in questa complessità. Vi è «uno più piccolo», il soggetto, e «uno più grande», il termine di paragone, attraverso cui trovare conferma di sé.
Questa la condizione interiore di chi ancora non sente la propria soggettività come libera da vincoli di giudizio o paragone, come
semplicemente e umanamente se stessa. In questo intermezzo, parla
il malessere, attraverso la «personalità silenziosa», dipendente, incapace di comunicare se non «tramite i disturbi del corpo, del comportamento, attraverso l’unidirezione ipnotica e simbiotica, che si ripro5
pone nell’eccesso televisivo, del computer, del cibo, delle dipendenze
dalle droghe, sesso, shopping compulsivo». L’osservazione dell’autrice prende avvio dall’analisi di vari modi comunicativi che si attivano
nel nucleo famiglia e fin dall’infanzia.
La tematica del comportamento orale in eccesso (bulimia/anoressia) è affrontata attraverso il principio «Similia similibus curantur», nell’intento di portare alla luce ciò che il sintomo sottintende,
poiché la complessità bulimico-anoressica è anche un modo attraverso cui l’inconscio intende fornire segnali di «guarigione soggettiva», tramite un processo simbolico. È proprio il simbolo dell’eccesso dell’anoressia-bulimia l’oggetto della trattazione del volume. E il
simbolo tende ad evocare, alludere, connettere elementi contrastanti
(pur rimanendo presente il «non»), mediante dissolvenze, trame, incroci. In quest’ottica, l’eccesso dell’anoressia-bulimia assume anche
la portata di rituale difensivo primario (M. Klein, D. W. Winnicott,
J. Bowlby), comportamento ritualizzato, messo in atto nell’infanzia
e nell’adolescenza, quale risposta ad una comunicazione ed una presenza familiare vissuta dal bambino (e dal ragazzo) come pericolosa
e inadeguata alla sopravvivenza psichica, e di ostacolo alle proprie
espressioni vitali (in quanto tali, abitate nel corpo).
L’impossibilità del poter esserci, occupando uno spazio e un tempo
definiti, fa sì che il bambino (e poi, l’adulto) auto-limiti nella rappresentazione di sé la propria vita, attraverso due rituali messi in scena, inizialmente, in modo difensivo: la bulimia o rituale dell’eccesso,
del far barriera, della dispersione, confusione, dell’accumulo, della
spazzatura, della sottovalutazione; e l’anoressia o rituale del difetto,
del rifiuto, della sfida alla fame per sentirsi vivere, morendo, dell’onnipotenza priva di corpo, della solitudine, dell’invidia, dell’orgoglio.
Ma questi rituali difensivi diventano via via una vera e propria «gabbia grottesca», prigione nell’adulto. Si è molto abusato di termini
quale normale e diverso ma, in questi casi, per il principio «Similia similibus curantur» (il male serve per guarire), la diversità diventa
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modo con cui accedere alla «normalità», nel consentirsi, attraverso la
cura terapeutica, di riconoscere i propri vissuti, conflitti e sofferenze,
riconoscendosi, nel diritto di vivere, senza «dover dimostrare».
Questa accettazione consente di eliminare quel «dover essere»,
quale «pegno per la vita», consentendo la libertà dalle precedenti rappresentazioni di sé, attivate in modo difensivo. La confusività con la
madre, il voler essere il suo complemento, Uno con lei, porta, se tale tratto non viene elaborato, a mettere in scena «copioni disumani»
del sempre disponibile buono o del cinico, sprezzante e distaccato,
in una articolazione simbolica, che va dal sentirsi vittima o giudice,
«spazzatura» o «idolo»: lo sregolato, il pettegolo, il maniaco perfezionista, o il moralista per eccesso di regole.
Tale catena simbolica verrà spezzata allorquando la persona riconoscerà che, in realtà, si rivolge a sé, dovendo sempre dimostrare qualcosa, sfidando la vita, disprezzando la vita stessa, senza comprendere le proprie ferite e sofferenze, più delle volte proiettate come
ingiuria, o lamentazione, come incapacità dell’altro di comprenderle. Più che mai, oggi, ciò che «altera» il soggetto, l’Altro in sé (inconscio) viene espulso, proiettato sull’altro, agito sull’altro, diventando
estraneo al soggetto, alienato, in una posizione paranoica. E questo
differimento può anche essere idealizzazione, che si inverte, poi, nella svalutazione e nell’odio invidioso, come tentativi di impossessarsi
di un Ideale irraggiungibile, che diviene, così, sottovalutazione, rimprovero o autorimprovero. Ciò mostra il regime confusivo del narcisismo primario, privo di relazioni, di legame sociale, ed è questa
la natura «immaginaria» che è in opposizione all’ordine «simbolico»
che crea mediazione, legame, poiché l’altro, nella paranoia, è l’Ideale
da possedere, impossibilitato a possederlo, lo si può solo odiare.
Le intenzioni aggressive, in quanto intenzioni distruttive, mostrano la matrice «immaginaria» propria dell’esperienza originaria e
rivelano, anche, la misura del corpo in frammenti che ad esso soggiace. In questo, ci si ricollega alla Klein e alla posizione «schizopara-
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noide», posizione propriamente proiettiva, che riflette l’angoscia psicotica di frammentazione, propria anche dell’odio invidioso.
Questo è il senso dell’affermazione di Lacan, secondo la quale
l’aggressività svela la serie di fissazioni più arcaiche in cui è preso il
soggetto (Lacan, 1948).
La pressione aggressiva resta in opposizione alla mediazione, offerta dal simbolo, dove essa domina non può esservi dialogo, parola,
poiché, come scrive Lacan, «il dialogo sembra costituire a sé stesso
una rinuncia all’aggressività».
Il saper mettere in parola, nel dialogo, esclude la proiezione paranoica, dove l’altro non è altro, ma solo una parte di sé mortifera, ed
esclude anche l’odio invidioso, che rifiuta di abbeverarsi al bene dell’altro, anzi, poiché ricco di «bene», lo si vuole danneggiare.
Nell’ingiuria della voce paranoica (psicotica) in primo piano è la
nullificazione della relazione del soggetto con l’altro, la parola arriva
al soggetto come una vera e propria sentenza (senza alcuna possibilità di appello).
In realtà, la voce che ingiuria pone l’altro non più come soggetto,
ma, come oggetto, come cosa.
Da questo punto di vista, l’avversario più radicale della psicoanalisi
è il pensiero paranoico, che esteriorizza nell’«Altro maligno» quella
parte di Sé di cui non intende assumere la responsabilità (Recalcati, 2007).
Così, il registro del possesso o della aggressività, che si semplifica
nell’«immediatezza», riduce il soggetto alla semplice presenza della
cosa, che si può manipolare e onnipotentemente forgiare in modo
grottesco, nel voler tornare «piccolo», fuori dal tempo progressivo
della vita o sempre sveglio, attivo, efficace, macchinico.
Il corpo (privo di soggettivazione equivale a massa, materia da
modellare, alterare, imbruttire, tatuare, forare, manipolare in modo
tribale) viene sovrainvestito (come cosa, adesivamente nella Cosa)
e non si riescono a portare a pensabilità (attraverso un salto «sim8
bolico») la rabbia, il conflitto, il desiderio, che vengono «agiti» senza riconoscerli. Vi è un «troppo reale» del corpo rispetto al potere
simbolico della parola, alla simbolizzazione, mentalizzazione (Bion,
1962).
Così si esprime un soggetto anoressico:
– «Considero il mio corpo un’esteriorità, è là, un osso che mi dà
stabilità, che mi fa essere, quando lo tocco».
Così un soggetto bulimico:
– «Non mi penso con un corpo, se mi penso, vedo e mi piacciono
solo le mani, le gambe, così, sono “leggero”, vado dove voglio, mi
piace volare» (è qui evidente la frammentazione schizoparanoide, ma
anche una sorta di allucinosi).
Vi è l’attitudine in tali soggetti anoressico/bulimici (a/b) e obesi (o)
ad una sorta di pensiero concreto-operativo, come effetto di una
confusione tra gli affetti e i pensieri, tra il soggetto stesso e la sua
realtà psichica (J. Mc Dougall, 1990). In termini bioniani, si tratta
della difficoltà del soggetto di trasformare gli elementi beta dell’esperienza (sensoriali ed emotivi), in elementi alfa (mentali), che si genera da un impatto del soggetto con una frustrazione precoce, senza
un «contenitore sufficiente» (operato dalla madre) per moderarne gli
effetti traumatici; o dal troppo saturante, «intrusivo» («contenitore
parassitario»), materno (che anticipando, o prevenendo, i bisogni del
bambino, gli impedisce l’affermazione di sé, il desiderio, attraverso il
pianto), che non consente di trasformare gli elementi beta in alfa, le
impressioni sensoriali e somatiche in mentalizzazione, pensiero.
Con il termine pensare, Bion designa due processi, che in realtà sono diversi: c’è un pensare che dà origine ai pensieri e un altro
pensare che consiste nell’usare i pensieri epistemologicamente preesistenti. Due meccanismi partecipano alla formazione dell’«apparato
per pensare i pensieri»: il primo, rappresentato dalla relazione dinamica fra qualcosa che il bambino proietta, un contenuto, e un ogget9
to (madre) che lo contiene, «contenitore»; il secondo è rappresentato
dalla relazione dinamica fra le posizioni schizoparanoide e depressiva. In primo luogo, la madre opera da «contenitore» effettivo delle sensazioni del lattante e con la sua maturità riesce a trasformare
emozioni per lui insostenibili in emozioni più «digeribili», sopportabili, in modo tale che il bambino reintroietti l’esperienza emotiva modificata e mitigata, reintroiettando, così, la funzione alfa (che
diviene operativa nel bambino stesso), aspetto non sensoriale dell’amore della madre. Questa capacità della madre di essere aperta alle proiezioni-necessità del bambino è ciò che si chiama capacità di
rêverie (v. nota 9, p. 154).
I nuclei emotivi filtrati dalla funzione alfa (che elabora le emozioni in direzione della pensabilità) si trasformano in elementi alfa,
immagini inconsce prevalentemente visive ma talvolta, anche, acustiche e olfattive, che costituiscono la prima tappa verso la formazione del pensiero. Gli elementi alfa non sono ancora pensieri, bensì
immagini presenti nel sogno, nei ricordi, nel pensiero onirico della
veglia.
Il pensiero (il desiderio) si forma, nella teoria di Bion come in
quella di Freud, in relazione ad un’assenza.
Se l’elemento alfa incontra la realizzazione (il seno è disponibile)
dà origine ad una concezione (sensoriale-percettiva), se invece incontra una frustrazione (il seno è assente) produce un pensiero. Il pensiero è il risultato della capacità di tollerare la frustrazione, che porta
non ad allucinare l’oggetto assente, dandogli un’esistenza illusoria,
ma a pensare l’oggetto che non c’è, a desiderarlo, a rappresentarlo
come realmente esistente (l’oggetto «buono» permane nella mente,
anche in sua assenza), ma al momento non disponibile.
Se la capacità del neonato di tollerare la frustrazione è grande, l’esperienza/percezione del «nessun seno» viene trasformata in un pensiero che aiuta a sopportare la frustrazione stessa. [...] Gradualmente
questa capacità si trasforma nella capacità di immaginare che la sensazione negativa della frustrazione stia effettivamente avendo luogo
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a causa di un oggetto «buono» che è assente, ma, può ritornare. Se
invece la capacità di tollerare la frustrazione è scarsa, l’esperienza del
«nessun seno» non si sviluppa nel pensiero del «buon seno assente»
(che può ritornare), ma sussiste come «seno cattivo presente»; questo è sentito come un oggetto cattivo concreto di cui ci si deve liberare mediante l’evacuazione, cioè mediante la proiezione onnipotente. Se quest’ultimo processo rimane tale, i veri simboli e il pensiero non possono svilupparsi (Bion, 1962) (vedi nota 9 p. 39).
Così, la Klein, in una prospettiva teorica, in parte assimilabile a
questa, sostiene che il pensiero è possibile se l’oggetto interno buono
e idealizzato prevale su quello cattivo e persecutorio (Bion, 1962).
Il secondo meccanismo riguarda l’interazione dinamica tra le
posizioni schizoparanoide e depressiva. Melanie Klein ha descritto
la posizione schizoparanoide come la situazione del bambino che,
esposto all’impatto con la realtà esterna, e all’angoscia provocata dalla pulsione di morte, utilizza, per difendersi, i meccanismi di dissociazione, negazione, onnipotenza, idealizzazione e identificazione
proiettiva. Ciò comporta la dissociazione degli oggetti in idealizzati
e persecutori. Tali meccanismi portano a dispersione e frantumazione l’Io stesso e gli oggetti.
La posizione depressiva costituisce il processo di integrazione dalla dissociazione, con l’apparizione di sentimenti di ambivalenza; sottolineiamo che esistono momenti di integrazione depressiva, anche
durante la fase schizoparanoide.
Bion concettualizza il passaggio dalla disintegrazione all’integrazione, attraverso quella situazione che già Poincaré aveva descritto
come «fatto scelto». Esso è un’emozione o un’idea che dà coerenza a
ciò che è disperso e introduce un ordine nel disordine. Il «fatto scelto» è la denominazione di un’esperienza emotiva, di un sentimento
di scoperta, di coerenza e può tradursi nella denominazione di un
elemento che sia utilizzato per specificarlo.
Così, nella formazione e utilizzazione dei pensieri, entrambi i
processi «contenuto-contenitore» e «fatto scelto» operano insieme.
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In modo forte, oggi, epoca del tramonto del padre, della Legge del
padre che apre al simbolico, alle relazioni, che crea legame, è operativa una sorta di maternizzazione primaria, sociale, una società «liquido-moderna», dove circolano sempre nuovi beni di consumo, facili
e discontinui; così, l’uomo ha assunto le sembianze di questi stessi
beni di consumo: consuma e si consuma.
Tutto si consuma, incessantemente, secondo un’espansione globalizzante, nell’illusione che in questa consumazione infinita la «mancanza a essere» del soggetto, possa essere, magicamente risolta.
Per questo, il discorso del capitalista, per funzionare, non deve solo
promettere la risoluzione della mancanza, ma creare continuamente pseudo «mancanze» che possano alimentare il circuito del consumo.
In questo senso l’offerta maniacale dell’oggetto da consumare, prende il posto del divieto, proprio, del discorso del Padrone. L’oggetto piccolo (a) viene stravolto nel suo statuto di oggetto-perduto (lo
scarto che l’oggetto piccolo -a- consente, attiva il desiderio, la differenza, la mancanza, consente quindi il simbolico e la pensabilità), essendo messo a disposizione sul mercato, in una metamorfosi
spettacolare, che mobilita quella girandola dei gadgets, che dell’oggetto piccolo (a) costituisce solo il suo aspetto «fasullo» (J. Lacan,
1969)1.
L’incontro con l’Altro sesso è evitato, come viene evitata la ricerca
del segno d’amore che sospenderebbe, inevitabilmente, l’assicurazione del godimento (illusorio), garantita dal consumo dell’oggetto,
alla contingenza del desiderio dell’Altro.
In questo modo, l’oblio contemporaneo del «segno» d’amore, favorisce la spinta indiscriminata al consumo dell’oggetto, nel vortice
del consumo, sempre rinnovato dell’oggetto (M. Recalcati, 2002).
Il linguaggio di relazione non è il linguaggio analogico (et. gr.:
ana-logos: verso la parola, parola specchiante, che corrisponde) della
madre. All’inizio il linguaggio è voce, suono, ritornello, ripetizione,
riverbero, prevale il duale, la simmetria, l’«immaginario», la nomi-
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nazione ritmica di sensazioni, emozioni, sensorialità, parole stimolo, parole dai contorni netti e isolate (es.: bambino mio, tesoro mio,
angelo, bello). L’isolamento linguistico, l’uso dell’attributo singolo,
rassicurano e circoscrivono gli sforzi caotici e distruttivi del neonato,
e attivano la funzione alfa. La madre annuncia il mondo al bambino,
la sua rêverie opera anche una estetica dell’essere al mondo: Il mondo si annuncia come mondo-madre. È reso ac-coglibile (accogliente)
dalla madre (Bion, Spitz, Winnicott, Bollas). Da questa estetica, da
questa prima «parola-suono» (oggetto transizionale per Winnicot,
1971), parola guida («oggetto» precursore per Gaddini, 1970), deriverà poi l’esperienza della distanza e percezione, dell’alterità (piccola a), il terzo, che annuncia la presenza del padre. Il linguaggio della
similitudine, metafora, metonimia, ma anche la litote, l’antitesi, alla
cui base è operativo il meccanismo difensivo della scissione, dà continuità al linguaggio iniziale simmetrico madre-bambino. Ma anche
la frammentazione delle singole parole, nominate, si ricollega allo
«smembramento del mondo» per renderlo più digeribile, coglibile,
attraverso la funzione alfa, alla fase che precede lo Stadio dello Specchio, alla posizione schizoparanoide. Se si rimane «presi» da questo
stadio la parola rimane bizzarra, concreta, scissa, priva della componente emotiva e «simbolica», rimane isolata, psicotica. La parola non
significa, è più del significante, assume la veste del reale, «agalma»
che annuncia la Cosa. Il linguaggio fiabico (et.: fiaba da fari: parlare,
proteggere, coprire, «contenere»), la prima forma di narrazione che il
bambino ascolta, ripropone la simmetria materna (i detti, i ritornelli, i proverbi – es.: «Scuotiti, scrollati d’oro e d’argento coprimi», «il
vento il venticello il celeste bambinello» –, le prove ripetute tre volte,
come pure la peripezia) ma anche il linguaggio di relazione, paterno,
che annuncia il terzo (l’imprevisto, l’oppositore, le figure soccorrevoli, i passaggi di trama, la differenza, la lisis). Il sapere relare, l’operatività del linguaggio di relazione, include la presenza del padre. È
infatti dalla norma paterna che deriva l’azione dell’interdizione edipica, che apre al simbolico (v. nota 13, p. 124). È il principio di «ca-
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strazione» che «argina» la pulsione pre-genitale, che impone una «limitazione». La Legge del padre, dunque, norma la pulsione, addolcisce, umanizza la pulsione, s-voltandola verso Altro.
Nella psicosi, dove manca la Legge del padre, tale normazione
non è avvenuta: non vi è significazione genitale, gli oggetti libidici
non si ordinano (perversione), non è avvenuta la perdita dell’oggetto, non c’è rimozione, non c’è spinta al ritrovamento dell’oggetto
perduto, non c’è limitazione, non c’è «pudore», non c’è «disgusto»,
non vi è Altro. Vi è l’abolizione dell’Altro, del desiderio e della parola. Nella anoressia e bulimia non si riesce a sopportare il riflesso
di identità che viene restituito dal desiderio dell’Altro, in nome dell’identità «impossibile» della madre (adesività alla Cosa, all’Uno materno), dello specchio infranto della madre, dove, di fatto, si è spezzato il circuito speculare. L’a/b non sopporta il desiderio dell’Altro
e persegue il programma di fare sparire il corpo femminile. È la seduttività che non sopporta, perché la seduttività è uno dei linguaggi
della differenza: attraverso la seduttività, donna e uomo riconoscono
e apprezzano la loro reciproca e distinta identità, nel riconoscimento dell’Altro. Lo specchio infranto ha pervertito l’immagine (l’ha
messa sottosopra), l’Altro incongruo materno ha spezzato il circuito
speculare, e l’immagine sottosopra, sconvolgente, dell’anoressia bulimia è il segno che abita adesivamente questo Altro e che ha abolito
la funzione dello specchio, quale Altro organizzatore dell’immagine
corporea.
Per questa ragione, un insegnamento di Bion e Lacan dice che
lo psicotico soffre, in modo esclusivo, dei «disturbi del linguaggio».
Esso è infatti confuso, bizzarro, le parole sono cose. Nella psicosi la
pulsione appare sregolata, non è presa dal «significante» che fa esistere il corpo, attraverso la «castrazione» simbolica, bensì è godimento
illimitato del soggetto che rimane attaccato alla Cosa (Altro materno). Il godimento non è ritagliato dall’oggetto (a) (dallo scarto tra
significante e significato, tra parola e cosa, dallo scarto che fa nascere
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il desiderio e il simbolico), appare, quindi, invasivo, abusivo, devastante, godimento illimitato, mortifero. Anche per Freud la pulsione
pre-genitale (narcisistica), dal carattere perverso e polimorfo, precede e crea resistenza al primato simbolico del Padre edipico2.
Per questo le «difese mortifere» di anoressia e bulimia vengono
osservate e riscoperte nel linguaggio simbolico di alcune fiabe popolari, assai conosciute, nelle quali l’autrice ritrova e mette in evidenza
questo processo di riconoscimento e di trasformazione di sé. Si tratta, quindi, di un pregevole lavoro in cui elementi simbolici permeano un po’ tutta l’opera, rendendola di profondo significato e di utile
studio per quanti vogliono allargare il proprio orizzonte conoscitivo
sui «comportamenti anoressici o bulimici», spesso assai complessi e
di difficile interpretazione.
Siamo perfettamente d’accordo con l’Autrice, sul fatto che questo
libro è per adulti, genitori e bambini. È in controtendenza, e cerca di
porre una «resistenza» alla «liquidazione» dell’umano.
Il libro di Beatrice Balsamo è utile poiché, oltre agli aspetti interpretativi, quindi diagnostici, pone a disposizione del lettore una serie di suggerimenti, di consigli, di indicazioni rilevanti, ma al tempo
stesso di facile comprensione.
In particolare, ci sembra di valido aiuto il capitolo relativo alla
Comunicazione viva e quello che riguarda le Strategie, unitamente alla pratica di giochi dedicati ai bambini. Quanti tra i genitori lo leggeranno potranno migliorare la propria comunicazione interpersonale, e con i loro figli. Lo scambio di «amore-nutrimento» potrà essere più equilibrato ed armonico e contribuirà, così, ad aumentare il
numero, nel prossimo futuro, di persone migliori.
La complessità propria dell’obesità, a partire da psiche, nella sua
valenza simbolica, è da noi considerata inclusa in tutto il volume,
anche se non sempre con una specifica indicazione. L’analisi più dettagliata la si ritrova nel paragrafo A causa del «troppo che nutre».
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Note
J. LACAN, Il seminario XVII (1969-1970), Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi,
Torino 2001, p. 97.
2
M. RECALCATI, Il miracolo della forma, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp.
103-105. «Per intendere bene questo punto è necessario chiarire il rapporto tra il
corpo e la sua presa simbolica da parte dell’Altro, così come viene concettualizzato
da Lacan. Quando ci riferiamo a una presa simbolica dell’Altro, consideriamo che
il corpo simbolico del linguaggio precede l’avvento del corpo pulsionale, essendone
la condizione preliminare. La marca essenziale che il linguaggio imprime sul corpo
del soggetto, consiste in una sottrazione di godimento. L’azione del significante
sul corpo si configura come una rapina simbolica: il corpo preso nell’Altro del
linguaggio è il corpo svuotato di godimento (J. LACAN, Radiofonia. Televisione,
a c. di G. B. Contri, Einaudi, Torino 1982, p. 20). Su questa idea, Lacan, non è
mai venuto meno: il corpo necessita del taglio significante (non il taglio reale, che
è azione psicotica che tende a riempire la mancanza, la differenza, lo scarto simbolico con una presenza, “agendo” in un pieno mortifero: sentirsi vivi, rischiando di
morire), della sua azione letale, per esistere come corpo pulsionale. La sottrazione
di godimento – la negativizzazione del corpo (del troppo reale del corpo) – è
condizione per l’esistenza vitale del soggetto. La Cosa deve essere perduta e il suo
resto, il famoso oggetto (a), deve potersi localizzare nel quadrilatero degli oggetti
pulsionali (orale, anale, scopico, vocale) il cui fondamento è costituito dalla castrazione simbolica, ovvero dalla rinuncia del godimento integrale e assoluto della
Cosa. La rapina simbolica del corpo, operata dal significante, concede al corpo
vivente del soggetto la possibilità del desiderio. Nel caso in cui, invece la castrazione simbolica non sia operativa, come avviene nelle psicosi, il soggetto si trova
inondato da un godimento abusivo e distruttivo che, anziché localizzarsi nelle
zone erogene, dilaga surclassando il soggetto e provocando una disintegrazione
mortifera del corpo» [...] «il culmine della confusione psicotica di reale e simbolico viene raggiunto in un’azione reale di autocastrazione. La confusione psicotica
consiste qui, nello scivolamento brusco dal taglio significante (significatizzazione
e corporeizzazione) al taglio reale, al passaggio all’atto dell’automutilazione (anoressia e bulimia, dipendenze, cutting). Mentre la castrazione, per la psicoanalisi,
è il principio simbolico fondamentale che determina una regolazione del godimento, la castrazione agita sul corpo come taglio reale, evidenzia la “forclusione”
dell’azione simbolica della castrazione stessa; in altre parole la castrazione reale
del corpo (come avviene nella clinica della psicosi, attraverso le automutilazioni),
cerca di sopperire (inutilmente) all’assenza forclusiva della castrazione simbolica e
del suo principio normativo: il Nome del Padre».
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