sant`ilario di poitiers - Fuoco dello Spirito Santo

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sant`ilario di poitiers - Fuoco dello Spirito Santo
SANT’ILARIO DI P OITIERS
Sant’Ilario di Poitiers è un vescovo e Dottore della Chiesa e rappresenta una delle grandi figure di
Vescovi del IV secolo.
Non disponiamo di dati sicuri sulla maggior parte della vita di Ilario, né abbiamo una sua biografia:
le fonti circa la sua conversione e la sua vita prima della conversione vengono principalmente dai
suoi scritti.
Ilario nasce a Poitiers, in Francia, verso il 315, da una nobile e agiata famiglia pagana, e questo gli
permette di studiare alla scuola degli oratori gallici, sia a Bordeaux che nella stessa Poitiers, dove
insegnavano i retori Rufo e Anastasio. Ha quindi una solida formazione letteraria e filosofica a base
neoplatonica.
Saranno proprio i suoi studi a far nascere in lui il desiderio di trovare una ragione per l’esistenza
dell’uomo e una risposta circa il suo destino. Egli stesso ha raccontato le tappe della sua
conversione nel Prologo dell’opera “De Trinitate”.
Quando, una volta cresciuto, inizia a pensare a cosa fare della sua vita, molte cose gli vengono in
mente e, soprattutto, quella che tutti considerano come la migliore realizzazione della vita umana,
cioè il tempo libero abbinato alla ricchezza. Eppure, se questa era considerata da tutti come la
condotta migliore e più perfetta della vita dell’uomo, essa sembrava, allo stesso tempo, non così
distante dal vivere degli animali. In effetti, è indegno di umanità vivere solo per soddisfare la
propria avidità e pigrizia, senza puntare in alto, a qualcosa di più. Benché potesse ottenere tutto ciò
che voleva, il problema del destino dell’uomo lo tormentava. Può mai essere, si chiedeva Ilario, che
non esista un compimento più alto nella vita dell’uomo? Se così fosse, questa vita non meriterebbe
neppure di essere considerata un dono di Dio, dato che comunque, anche la vita più serena è
tormentata dal dolore e carica di problemi. Nessun Dio avrebbe dato all’uomo la piacevole
sensazione della vita per poi coprirla con la cupa paura di morire.
Da qui inizia la sua riflessione.
Ilario, come già detto, aveva ricevuto un’istruzione molto solida ed era un uomo molto colto, eppure
né negli autori, né nelle filosofie che aveva studiato, era riuscito a trovare un senso vero per la sua
vita. Lui stesso scrive che non aveva potuto considerare questi uomini come guide competenti per
condurlo alla vita buona e felice, perché i loro precetti erano banalità, a livello di mero impulso
umano, come se l’uomo fosse guidato, al pari delle bestie, dall’istinto animale.
Aveva studiato i filosofi pagani, ma la sua anima non poteva accontentarsi di quello che offriva il
paganesimo, né tantomeno riusciva a trovare risposta nei culti provenienti dall’oriente. Nulla riesce
a calmare l’ansia che sente nel suo cuore, in nulla trova pace: le storie di questa folla di dei, che
vengono venerati attorno a lui e che non si curano degli uomini, per lui sono inaccettabili, non
possono essere fonte di verità, perché sono storie assurde, tra loro vi è sporcizia ed empietà.
Ilario, invece, era convinto che un dio, che potesse veramente definirsi tale, dovesse essere di natura
potente e pura, e non vi dovesse essere nulla di superiore a lui. L’onnipotenza e l’eternità sono il
possesso di uno solo. È così che decide di rivolgersi alla Sacra Scrittura e inizia a leggere i libri
scritti da Mosè e dai profeti.
Legge il passo dell’Esodo in cui Dio dice a Mosè: “Io sono colui che sono” e rimane stupito di
trovare in queste poche parole un’indicazione riguardante in modo così esatto il mistero
irraggiungibile di Dio. Capisce di aver trovato la strada giusta e decide di percorrerla. Così inizia a
leggere i salmi e nel salmo 138 scopre il vero Dio, Colui che è ovunque e contemporaneamente è
presente in tutte le cose: non c’è spazio dove Dio non è; spazio non esiste senza di Lui, dimora in
tutte le cose, avvolge tutti e pervade tutto.
Ogni nuovo passo in avanti, spinge Ilario a continuare con sempre più gioia la sua ricerca. Quello
che lo converte definitivamente è la lettura del prologo del Vangelo di Giovanni. Qui, egli trova
molto di più di quanto sperasse, perché qui avviene l’incontro con Gesù Cristo, un Dio che si è fatto
uomo per stare tra gli uomini sue creature e che, a chi lo riceve, dà il potere di diventare suoi figli.
Scriverà più tardi che il fatto che Dio si sia fatto carne, permette alla nostra carne di giungere
all’unione con Dio e la figliolanza di Dio non è una costrizione ma una possibilità.
Finalmente la sua anima ha trovato un porto sicuro in cui riposare.
Decide di farsi battezzare; allora Ilario ha circa 30 anni, è sposato e padre di una figlia, Abra. Da
questo momento, la sua vita cambia: inizia una nuova vita austera e ferventissima; proprio per
questo, è molto probabile che il vescovo della città lo abbia aggregato alla sua chiesa con qualche
ordine sacro. Alla morte del vescovo che presiedeva la comunità di Poitiers, nell’anno 353, Ilario
venne immediatamente acclamato suo successore, con l’appoggio sia del popolo che del clero. Nel
suo episcopato, Ilario si sforza di seguire le orme del suo predecessore e di praticare quanto scriverà
più tardi: “La santità senza la scienza non può essere utile che a se stessa. Quando si insegna,
occorre che la scienza fornisca un alimento alla parola e che la virtù serva di ornamento alla
scienza” (De Trinitate, VIII, l). Il sapere teologico diventa fecondo ed efficace nella misura in cui si
esprime nella condotta pratica di chi lo coltiva e promuove. Attratto dalla fama di lui, S. Martino,
lasciata la milizia, decide di mettersi alla sua scuola acconsentendo a lasciarsi ordinare esorcista.
“Il Santo pastore fu ben presto spinto dalle circostanze a lottare tanto strenuamente contro
l’arianesimo da essere considerato l’Atanasio dell’Occidente”.
Siamo negli anni immediatamente successivi al concilio di Nicea del 325: da mezzo secolo,
l’impero era sconvolto da conflitti religiosi, in particolare, un prete di Alessandria, Ario, aveva
predicato che Cristo non era Dio, ma una semplice creatura, sicuramente eccellente, la più perfetta,
ma solo una creatura; fu per questo che la prima assise ecumenica della storia della Chiesa ebbe
come principale preoccupazione, la corretta definizione dei rapporti tra le tre Persone della Trinità e
stabilì la consustanzialità del Padre e del Figlio.
Nonostante ciò, molti vescovi in oriente non accettarono la dottrina di Nicea e finirono per
convincere anche lo stesso Costantino. In occidente, invece, molti vescovi addirittura ignoravano il
credo definito nel 325. Costanzo, figlio di Costantino, fu a sua volta favorevole agli ariani e
pretendeva di fare accettare le loro idee da tutto l’impero, pena l’esilio.
Nonostante questa imposizione da parte dell’imperatore, Ilario decide di impegnarsi nel confronto
con gli ariani, consacrando tutta la sua vita all’annuncio della fede nella divinità di Gesù Cristo,
Figlio di Dio e Dio come il Padre, che lo ha generato fin dall’eternità.
Per la difesa della fede autentica, S. Ilario convocò, forse a Parigi nel 355, un’assemblea che
scomunicò Valente e Ursacio, ambiziosi vescovi di corte – persecutori di Atanasio – e Saturnino,
arcivescovo di Arles, che aveva condiviso le loro violenze. Costui e i suoi complici, incoraggiati
dall’indifferenza con cui Giuliano, governatore della Gallia, trattava le dispute dei teologi, si
riunirono a Béziers, nel sud della Francia, nel 356. Per ordine di Costanzo, Ilario dovette prendervi
parte. Ilario definirà questo concilio il “sinodo dei falsi apostoli”, dal momento che l’assemblea fu
dominata dai Vescovi filoariani, che negavano la divinità di Gesù Cristo.
Questi “falsi apostoli” chiesero all’imperatore Costanzo la condanna all’esilio del Vescovo di
Poitiers, che si era opposto strenuamente alla falsa dottrina. Così Ilario è costretto a lasciare la
Gallia durante l’estate del 356 e viene deportato nella Frigia, l’attuale Turchia. I vescovi della
Gallia, in maggioranza osservanti della dottrina tradizionale, non volevano però che un intruso
s’impadronisse della sede di Poitiers. Durante il suo esilio, dunque, S. Ilario può, con lettere,
dirigere la sua chiesa.
In Turchia Ilario si trova a contatto con un contesto religioso totalmente dominato dall’arianesimo.
Anche lì la sua sollecitudine di Pastore lo spinge a lavorare strenuamente per il ristabilimento
dell’unità della Chiesa; ne approfitta per studiare a fondo i problemi dell’oriente con larghezza di
vedute e cerca di ricondurre gli erranti alla vera fede. Sulla base della retta fede formulata dal
Concilio di Nicea, avvia la stesura della sua opera dogmatica più importante e conosciuta: La
Trinità. In essa, Ilario espone il suo personale cammino verso la conoscenza di Dio e si preoccupa
di mostrare che la Scrittura attesta chiaramente la divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il
Padre, non soltanto nel Nuovo Testamento, ma anche in molte pagine dell’Antico, in cui già appare
il mistero di Cristo. Di fronte agli ariani, egli insiste sulla verità dei nomi di Padre e di Figlio e
sviluppa tutta la sua teologia trinitaria partendo dalla formula del Battesimo donataci dal Signore
stesso: “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Sempre fermo nell’opposizione agli
ariani radicali, sant’Ilario mostra uno spirito conciliante nei confronti di coloro che accettavano di
confessare che il Figlio era somigliante al Padre nell’essenza, naturalmente cercando di condurli
verso la piena fede, secondo la quale non vi è soltanto una somiglianza, ma una vera uguaglianza
del Padre e del Figlio nella divinità. Anche questo è caratteristico di Ilario: lo spirito di
conciliazione che cerca di comprendere quelli che ancora non sono arrivati e li aiuta, con grande
intelligenza teologica, a giungere alla piena fede nella divinità vera del Signore Gesù Cristo. “Non
ho considerato come un delitto – dirà più tardi – di aver avuto colloqui con loro, anzi, pur
rifiutando loro la comunione, di entrare nelle loro case di preghiera e di sperare ciò che si doveva
attendere da loro per il bene della pace, allorché aprivamo loro una via al riscatto dei loro errori
mediante la penitenza, un ricorso a Cristo mediante l’abbandono dell’anticristo”. (Adv. Costant.
2). La stessa sollecitudine per la conciliazione, la manifesterà nel De Synodis, libro scritto per
informare i vescovi della Gallia riguardo alle varie professioni di fede degli orientali.
Il suo esilio durava da quattro anni, quando, nel 359, Costanzo convoca un concilio a Rimini per gli
occidentali, e un altro a Seleucia, nell’Isauria, per gli orientali. Ilario vi viene accolto
favorevolmente e può così esporre la fede nicena, ma la concordia non viene raggiunta per il
malanimo di molti. Dopo il sinodo, il santo va a Costantinopoli per ottenere da Costanzo il
permesso di discutere pubblicamente con Saturnino che era stato la causa del suo esilio, e di
comparire nel concilio che si teneva allora nella città imperiale per potervi difendere la fede
ortodossa sull’autorità delle Sacre Scritture. Per tutta risposta Costanzo lo rimanda a Poitiers
sobillato dagli ariani, i quali, per sbarazzarsi dello scomodo avversario, glielo avevano dipinto
“come seminatore di discordia e perturbatore dell’oriente”.
A Poitiers Ilario è accolto in trionfo. Appena saputo del suo ritorno, S. Martino lo raggiunge dal suo
ritiro nell’isola Gallinaria (Albenga), e sotto la direzione del suo maestro fondò a Ligugé il più
antico monastero della Gallia onde neutralizzare almeno in parte i tristi effetti della eresia.
Appena tornato dall’esilio, Ilario riprende immediatamente l’attività pastorale nella sua Chiesa, ma
l’influsso del suo magistero si estende di fatto ben oltre i confini di essa.
Ilario ogni tanto va a visitare i cenobiti per seguire le loro regole e prendere parte ai loro canti. È
risaputo che fu egli il primo compositore di inni dell’occidente nell’intento di contrapporsi
all’attività poetica degli ariani.
La situazione politica intanto era notevolmente cambiata a partire dal mese di maggio 360, quando i
soldati di stanza a Parigi avevano gridato imperatore Giuliano.
Ilario ne approfitta con decisione e moderazione per radunare sinodi provinciali, onde confermare
nell’ortodossia i vescovi rimasti fedeli, e richiamarvi quelli che avevano sottoscritto per ignoranza o
timore formule erronee o compromettenti, come quella del concilio di Rimini. Un sinodo celebrato
a Parigi nel 360 o nel 361 riprende il linguaggio del Concilio di Nicea. Alcuni autori antichi
pensano che questa svolta antiariana dell’episcopato della Gallia sia stata in larga parte dovuta alla
fortezza e alla mansuetudine del Vescovo di Poitiers. Questo era appunto il suo dono: coniugare
fortezza nella fede e mansuetudine nel rapporto interpersonale.
La deposizione di Saturnino di Arles e di Paterno di Périgueux segnò la disfatta dell’arianesimo
nell’occidente. La morte di Costanzo, nel 361 diede un colpo decisivo alla supremazia ariana in
Oriente, perché i vescovi furono richiamati dall’esilio e, l’anno dopo, S. Atanasio poté radunare ad
Alessandria il celebre “concilio dei confessori” e adottare con successo la moderazione del vescovo
di Poitiers.
S. Ilario insieme con S. Eusebio, vescovo di Vercelli, ha anche combattuto per due anni
l’arianesimo in Italia, tentando di cacciare dalla sede di Milano Aussenzio, che il concilio di Parigi
del 361 aveva anatematizzato. Questi, nel 364, si appellò all’imperatore Valentiniano, allegando i
decreti del concilio di Rimini da lui fatti sottoscrivere da tanti vescovi, e accusando i suoi avversari
di turbare la pace religiosa. Queste considerazioni impressionarono l’imperatore il quale mantenne
Aussenzio nella sua sede, soddisfatto della professione di fede equivoca che costui aveva fatto alla
presenza di dieci vescovi e di alti funzionari. S. Ilario, ricevuto l’ordine di lasciare Milano, scrive
allora il suo Contra Auxentium per smascherare le ipocrite reticenze di lui e mantenere l’integrità
della fede tra il popolo.
Ritiratosi nella sua diocesi, il santo poté dedicarsi ai suoi studi prediletti e al commento dei Salmi,
finché lo colse la morte, alcune stime parlano del 1-11-367, altre del 13-1-368. Si racconta che al
momento della sua morte, la stanza venne invasa da una luce così vivida che gli occhi non la
potevano sostenere: la luce della sua saggezza, che aveva illuminato la Chiesa e guidato tante anime
fuori dall’oscurità dell’errore.
Già quando era ancora in vita veniva chiamato “il Santo”; i suoi scritti sono largamente diffusi in
Occidente, perché S. Girolamo e S. Agostino vi fanno numerose allusioni. In particolare, S.
Agostino scrive: “colui che parla è un cattolico, è un insigne dottore delle chiese, è Ilario”. Le sue
reliquie nel 1562 furono bruciate dagli ugonotti. Pio IX nel 1851 lo proclamò Dottore della Chiesa.
Riassumendo l’essenziale della sua dottrina, sant’Ilario trova il punto di partenza della sua
riflessione teologica nella fede battesimale. Nel De Trinitate Ilario scrive: Gesù “ha comandato di
battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (cfr Mt 28,19), cioè nella
confessione dell’Autore, dell’Unigenito e del Dono. Uno solo è l’Autore di tutte le cose, perché uno
solo è Dio Padre, dal quale tutto procede. E uno solo il Signore nostro Gesù Cristo, mediante il
quale tutto fu fatto (1 Cor 8,6), e uno solo è lo Spirito (Ef 4,4), dono in tutti ... In nulla potrà essere
trovata mancante una pienezza così grande, in cui convergono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito
Santo l’immensità nell’Eterno, la rivelazione nell’Immagine, la gioia nel Dono” (2,1). Per questo il
Figlio è pienamente Dio senza alcuna mancanza o diminuzione. Dio Padre, essendo tutto amore, è
capace di comunicare in pienezza la sua divinità al Figlio. Da qui nasce una prima riflessione sulla
paternità di Dio e sull’amore che Lui ha per noi, Suoi figli, che può essere racchiusa in una formula
particolarmente bella di sant’Ilario: “Dio non sa essere altro se non amore, non sa essere altro se
non Padre. E chi ama non è invidioso, e chi è Padre lo è nella sua totalità. Questo nome non
ammette compromessi, nessuno può essere padre in parte e in parte no.”. Queste parole ci
ricordano che sbagliamo quando, davanti alla sofferenza, al fallimento o al dolore, pensiamo che
Dio non è con noi, che non ci ascolta, che continua a metterci davanti ostacoli e prove per una sorta
di “cattiveria” nei nostri confronti. Dio è sempre accanto a noi a sostenerci, a tenderci una mano per
farci rialzare, a tenerci in braccio se non riusciamo ad andare avanti. Dio non è indifferente al nostro
grido di aiuto, ma si lascia toccare dai dolori dei Suoi figli perché è Padre, lo è sempre, anche
quando non Lo vogliamo, e lo è nel senso più alto della parola, ed è sempre Amore per noi, anche
quando non capiamo cosa sta facendo o non ne comprendiamo le ragioni. Perché quale padre al
figlio che gli chiede il pane dà una pietra?
Un’altra caratteristica importante della personalità di Ilario era la sua grande umiltà. Sant’Ilario era
un uomo colto, di buona famiglia, che in tutta la sua vita è stato a contatto con gente semplice e
umile, ma questa condizione non lo ha mai fatto sentire superiore. La stessa umiltà la ritroviamo
nell’Ilario vescovo: avrebbe potuto usare la propria posizione per affermare se stesso e le sue idee
piuttosto che Dio, così come facevano tanti al suo tempo, eppure non si è mai messo sul piedistallo,
al di sopra degli altri, ma è sempre rimasto umile, mettendo la sua vita al servizio dei suoi fratelli.
Ancora, sant’Ilario ci dice che: “Colui che viene dal perfetto è perfetto, perché chi ha tutto, gli ha
dato tutto” (ibid., 2,8). È per questo che soltanto in Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, trova
salvezza l’umanità. Assumendo la natura umana, Egli ha unito a sé ogni uomo, “si è fatto la carne
di tutti noi” (Trattato sui Salmi 54,9); “ha assunto in sé la natura di ogni carne e, divenuto per
mezzo di essa la vite vera, ha in sé la radice di ogni tralcio” (ibid., 51,16). Proprio per questo, il
cammino verso Cristo è aperto a tutti – perché egli ha attirato tutti nel suo essere uomo –, anche se è
richiesta sempre la conversione personale: “Mediante la relazione con la sua carne, l’accesso a
Cristo è aperto a tutti, a patto che si spoglino dell’uomo vecchio (cfr Ef 4,22) e lo inchiodino alla
sua croce (cfr Col 2,14); a patto che abbandonino le opere di prima e si convertano, per essere
sepolti con Lui nel suo Battesimo, in vista della vita (cfr Col 1,12; Rm 6,4)” (ibid., 91,9). Queste
parole mettono in luce un aspetto molto moderno del nostro santo: la sua preoccupazione per
l’ecumenismo. Nonostante la sua avversità per l’eresia ariana, infatti, Ilario non ha mai oltraggiato o
diffamato gli eretici, né ha tagliato i ponti con loro ma, al contrario, ha accettato di frequentare le
loro case di preghiera per cercare di ricondurli alla vera fede e questa, in un secolo violento e
settario (quale era il IV secolo) è una cosa molto inconsueta. Pur continuando a difendere con forza
e fermezza la vera fede, schierandosi apertamente contro chi predicava il falso credo, Ilario ha
sempre parlato a coloro che erano lontani – o si erano allontanati – e si è avvicinato a loro,
correggendoli con l’amore e la comprensione del padre che riaccoglie il figliol prodigo, senza
puntare il dito o sentirsi superiore (Il suo amico e compagno d’esilio Lucilio di Cagliari gli
rimproverò questa indulgenza. Rufino di Aquileia affermava che Ilario era “dolce e pacifico per
natura”. Questa dolcezza, però, non escludeva il coraggio.). Se guardiamo al nostro modo di vivere
la fede, ci rendiamo conto di quanto il nostro modo di vivere la fede e sentirci cristiani sia diverso.
Quante volte noi pecchiamo sentendoci superiori agli altri, sentendoci migliori solo perché andiamo
in chiesa, perché non siamo “come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri”? Quante volte siamo
più simili al fariseo che sta in piedi nella sinagoga a gonfiarsi del suo essere “giusto”, quando
dovremmo sentirci piuttosto come il pubblicano che “fermatosi a distanza, non osava nemmeno
alzare gli occhi al cielo” perché si sentiva un peccatore? In un tempo in cui la Parola di Dio è
“rara”, noi abbiamo il più grande tesoro tra le mani, e questo deve farci sentire orgogliosi perché
Lui ci ha scelti, ma comunque non ci dà il diritto di sentirci superiori, non dobbiamo dimenticare
che quanto di bello e di buono c’è in noi non è merito nostro, ma Suo e Suo soltanto!
In ultimo, la storia di sant’Ilario ci mostra che, se cerchiamo veramente Dio con tutto il cuore e con
cuore sincero, Egli si fa trovare e che, anzi, è Lui il primo a cercare noi. Spesso ci lamentiamo
perché non riusciamo a sentirlo dentro di noi e quando preghiamo ci sembra distante, ma non è Dio
che si volta o si allontana da noi, siamo noi che lo “cerchiamo senza volerlo trovare”, che lo
invochiamo con le labbra ma teniamo ben chiusa la porta del nostro cuore, per paura, forse, di dover
rinunciare a troppo, di veder sconvolte le nostre certezze. Ma Lui è lì, perché è sempre Dio che fa il
primo passo verso di noi: sant’Ilario non lo conosceva ancora, ma Dio già lo stava cercando, Ilario
non lo stava aspettando, ma Dio già bussava alla porta del suo cuore in attesa che egli aprisse. Dio
cerca l’uomo, lo cerca da sempre. Cercava Adamo ed Eva nel giardino quando loro si erano nascosti
da Lui: “Poi l’uomo e la donna udirono la voce di Dio il Signore, il quale camminava nel giardino
sul far della sera; e l’uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza di Dio il Signore fra gli alberi
del giardino. Ma Dio il Signore chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?»“ (Genesi 3), e cerca
ognuno di noi senza stancarsi perché Egli ama l’uomo di un amore immenso e immutabile.
Continua a cercarci perché il Suo desiderio di noi, del nostro amore è immenso: Dio non ha bisogno
di nulla, a Lui non manca niente, tranne l’amore dei Suoi figli. Per riprendere una frase dei vescovi,
noi siamo “cercatori di Dio cercati da Dio”. Per questo Egli mette nel nostro cuore il desiderio di
incontrarlo. Anche quando ancora non sappiamo cosa inseguiamo, il desiderio di Lui è già nel
nostro cuore, perché noi siamo Sue creature, figli di Dio, e il nostro cuore cerca, si agita e non trova
pace fino a quando non incontra il Dio Padre da cui si sente personalmente amato. È quello che è
successo a sant’Ilario, che veniva da una famiglia pagana, che non aveva mai sentito parlare del Dio
dei cristiani da nessuno dei suoi maestri, ma che, nonostante ciò, avvertiva nel suo cuore il desiderio
inappagabile di un Dio profondamente diverso dalle divinità che conosceva e ancora non sapeva che
Colui che cercava era da sempre in cerca di lui, che era lì, alla porta del suo cuore e attendeva solo
che lui Gli aprisse. Sant’Ilario ha cercato Dio come la sposa del Cantico dei Cantici cerca l’amato
del suo cuore e Dio si è fatto trovare, ha preso dimora nel suo cuore e ha trasformato tutta la sua
vita.
La fede in Dio non è un nostro merito, ma un dono della Sua grazia. Perciò sant’Ilario chiede, alla
fine del suo trattato sulla Trinità, di potersi mantenere sempre fedele alla fede del Battesimo. E’ una
caratteristica di questo libro: la riflessione si trasforma in preghiera e la preghiera ritorna riflessione.
Tutto il libro è un dialogo con Dio. Questa è la preghiera con cui il libro si conclude.
Ti supplico,
conserva senza alcuna macchia
questa mia fede in cui credo
e concedimi di rendere questa testimonianza della mia coscienza
fino all'ultimo respiro dell’anima.
Fa’, o Signore,
che io mi mantenga sempre fedele
a ciò che ho professato
nel simbolo della mia rigenerazione,
quando sono stato battezzato
nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo.
Che io Ti adori, Padre nostro,
e con Te il Tuo Figlio;
che io meriti il Tuo Spirito Santo,
il quale procede da Te
mediante il Tuo Unigenito.
Amen
(La Trinità 12,57)