UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Corso di

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Corso di
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI
TORINO
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di Laurea Specialistica in
Antropologia culturale ed Etnologia
TESI DI LAUREA
Fare la differenza.
Forme del pregiudizio in ambito sanitario
Relatore
Candidata
Prof. Francesco Remotti
Aurora Lo Bue
Matr. 281176
A.A. 2011-2012
A mia mamma,
esempio quotidiano di apertura,
mediazione e pacificazione
2
INDICE
RINGRAZIAMENTI………………………………………………….5
INTRODUZIONE…………………………………………………….9
I. SALUTE E PREGIUDIZIO: PROFILI TEORICI E
SGUARDO ANTROPOLOGICO…………………………….15
1.1
RICUCIRE UNO STRAPPO. SALUTE E MALATTIA SECONDO LO
SGUARDO ANTROPOLOGICO………………………………………15
1.2
ANTROPOLOGIA IN OSPEDALE…………………………………….27
1.3
IMMAGINARI,
PREGIUDIZI
E
STEREOTIPI:
PERCORSI
E
CONNESSIONI…………………………………………………………34
1.3.1
La costruzione dell’immaginario………………………………..36
1.3.2
Stereotipi e pregiudizi……………………………………………..47
1.4 DECOSTRUIRE
PER
RICOSTRUIRE:
PERCHÉ
OCCUPARSI
DI
PREGIUDIZIO IN AMBITO MEDICO-SANITARIO……………………55
II. SOGGETTI, TERRENI, METODI……………………….62
2.1 PROBLEMI METODOLOGICI E IPOTESI DI SOLUZIONE…………...64
2.1.1 Dalla parola, oltre la parola: l’uso delle immagini nelle interviste
con gli infermieri nei Pronto Soccorso……………………………………...64
2.1.2 La necessità di allargare il campo: gli utenti………………………..81
2.1.3
Un
campo
intermedio:
la
formazione
delle
professioni
sanitarie………………………………………………………………………….89
2.1.4 Fra un campo e l’altro………………………………………………….92
3
III.
CREARE
L’“ALTRO”.
RAPPRESENTAZIONE
E
FORME
PRATICHE
DI
DI
ESCLUSIONE…………………………………………….…..93
3.1 DEFAMILIARIZZARE L’OVVIETÀ……………………………………...95
3.1.1 Sindrome di Salgari: sintomatologie e terapie……………………..100
3.2 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MACRO”: IL DIRITTO ALLA SALUTE
IN ITALIA, TRA BUONE INTENZIONI, RIPENSAMENTI E STRATEGIE DI
ESCLUSIONE………………………………………………………...………109
3.3 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MESO”: LA FORMAZIONE ALLE
PROFESSIONI SANITARIE………………………………………………….127
3.4 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MICRO”…………………...………….142
3.4.1
Gli infermieri e la rappresentazione dell’immigrato………..143
IV. “UNA MAGLIA ROTTA NELLA RETE”. LA VOCE
DELL’“ALTRO” ……………………………………………...172
4.1
FORME
DEL
PREGIUDIZIO:
IL
PUNTO
DI
VISTA
DELL’“ALTRO”……………………………………………………………...174
4.1.1 Il pregiudizio subito……………………………………………….......176
4.1.2 Differenza sociale, sofferenza sociale……………………………….186
4.1.3 Oltre la differenza……………………………………………………...192
4.2 RIPENSARE IL PREGIUDIZIO…………………………………………..198
V. RIFLESSIONI CONCLUSIVE……………………………203
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO………………………………..210
SITOGRAFIA DI RIFERIMENTO…………………………………..221
4
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio il Prof. Francesco Remotti per avermi
accordato la fiducia necessaria a poter scrivere questa Tesi e
per l’attenzione che vi ha dedicato. Il suo invito costante a
“tormentarmi” per trovare gli spunti necessari a produrre una
riflessione
organica
e
che
“mordesse”,
sono
stati
fondamentali per dare corpo a questo lavoro.
Sono molto riconoscente alla Prof.ssa Cristina Vargas
per il tempo dedicato a sciogliere i nodi tematici e
argomentativi della trattazione, per tutti i preziosi consigli
offerti in itinere, e per avermi sempre guidato a procedere
con profondità di sguardo e approccio critico.
Gran parte della ricerca non sarebbe stata possibile
senza l’intervento del Dott. Pietro Altini, Coordinatore della
Facoltà di Scienze Infermieristiche di Torino, che ringrazio
per aver reso possibile il mio ingresso nelle strutture
ospedaliere
e
nei
Pronto
Soccorso
designati
per
l’osservazione e le interviste, e che ha dimostrato sin da
subito grande apertura e interesse per questo lavoro.
La mia riconoscenza va anche alla Dott.ssa Adriana
Pracca, Responsabile del Personale Infermieristico dell’A.O.
Umberto I, che mi ha agevolato con estrema cortesia nella
raccolta delle
interviste, e che ha sempre risposto
tempestivamente ed esaustivamente alle mie richieste.
Ringrazio caldamente Signor G., Pollon, Grisu,
Buknero, Biancaneve, Lollo, Labrador, Alex, Inglesina e
Mimi, gli infermieri che hanno voluto dedicare non poco
tempo a svolgere le interviste, che hanno condiviso con me
5
qualcosa di estremamente prezioso – parte delle loro
esperienze personali e professionali.
Accanto a loro, ringrazio i migranti, richiedenti asilo e
titolari di protezione internazionale, incontrati nei territori
coinvolti per la ricerca sulla salute del progetto FER Non solo
asilo 3, la cui voce ha rappresentato uno dei contributi più
significativi a questo lavoro. Grazie a loro è possibile credere
in cambiamenti positivi.
Un grande ringraziamento è riservato a Cristina
Molfetta, per la passione con cui svolge i suoi incarichi e che
ha trasmesso nella ricerca sulla salute, in parte condotta
fianco a fianco, e per l’attenzione alla concretezza, l’energia e
la cura nella relazione. Da lei ho molto da imparare.
Ringrazio Gabriele Proglio, per avermi aiutato, nella
fase embrionale di questo lavoro, a focalizzare gli obiettivi e
le domande cognitive su cui basare la ricerca negli ospedali.
In questo, il gruppo del Laboratorio interfacoltà Le città
(in)visibili è stato una fucina di idee e uno spazio fertile di
confronto.
È in quest’ambito che ho conosciuto Valentina
Porcellana. A lei va un ringraziamento sincero per il tempo
gratuitamente offerto per problematizzare metodologie,
chiarire dubbi e dare importanti suggerimenti.
A Leslie Hernández Nova va il mio ringraziamento per
aver fornito un aiuto indiretto e involontario sull’uso delle
immagini durante la ricerca, attraverso le sue lezioni sul
metodo di indagine tramite mappe cognitive, in seno al
Laboratorio Le città (in)visibili.
Tra i contribuenti “indiretti” a questo lavoro, rientra
anche Salvatore Geraci. Grazie alle sue pubblicazioni ho
maturato la volontà di elaborare una tesi sul tema del
pregiudizio in ambito sanitario. Poterlo conoscere di persona
6
e vederlo nelle vesti di formatore ha ulteriormente
confermato la validità e l’importanza del suo operato.
Ringrazio di cuore Fabio Pettirino, che non si è
risparmiato nel darmi consigli, che è stato counsellor
inconsapevole fra alti e bassi (spronandomi durante gli “alti”
e smorzando i “bassi” con l’ironia) durante la scrittura, che ha
voluto elaborare insieme a me i punti più critici,
accompagnandomi durante questo “rito di passaggio”.
Ringrazio Luca Fossarello, che segue le mie vicende
universitarie da tempo, che ha sempre condiviso senza
gelosie contatti e suggerimenti, e ha sempre dimostrato
interesse per il mio punto di vista e per il mio lavoro.
Un grazie sincero va a tutti i miei amici più cari, che mi
sono stati vicini in infiniti modi diversi durante l’ultimo
faticoso periodo. Grazie in particolare a
Cecilia, per la
vicinanza pur oltreoceano, a Margherita, con cui ho aperto e
con cui chiudo questo ciclo di studi, e su cui posso sempre
contare, a Domenico per avermi suggerito indirettamente il
modo di uscire dagli impasses, a Marta, Alessandra e Valeria
per il “tifo” costante, e a tutti coloro che mi hanno fatto in
qualche modo sentire la loro presenza.
Senza l’aiuto morale e materiale della mia famiglia,
non sarei riuscita a concludere questo lavoro. Ai miei
familiari più stretti – e a quelli “acquisiti” per profondissima
amicizia – va tutta la mia gratitudine per aver sopportato e
supportato con affetto questi ultimi mesi. Ringrazio i miei
genitori per
la
comprensione
profonda,
Cecilia
per
l’immancabile ascolto e vicinanza, Caterina per l’interesse
condiviso e dimostrato in più occasioni.
Ringrazio infine Michele, per la sua pazienza senza
limiti, per farmi conoscere ogni giorno il valore della gratuità
e del disinteresse, per la sua vicinanza delicata e opportuna,
7
per l’incoraggiamento costante, perché in lui trovo sempre
una mano libera, o per potermi risollevare o per poter
continuare a costruire sogni e realizzarli insieme.
8
INTRODUZIONE
Nel 2006 compariva un articolo di Salvatore Geraci
intitolato La sindrome di Salgari 20 anni dopo..., pubblicato
su Janus, Medicina: Cultura, Culture, la rivista legata
all’Istituto Giano di Roma. Tale proposta editoriale si
propone di raccogliere scritti che considerino la medicina
“come una prassi in cui scienza e tecnica sono intrecciate con
la cultura”1. La stessa mission dell’Istituto, come molti simili
ne stanno nascendo nel corso degli ultimi anni, è quella di
inserire le humanities all’interno dei percorsi formativi per le
professioni sanitarie, per far convergere i saperi delle scienze
naturali con quelli delle scienze umane e sociali, allo scopo di
migliorare le pratiche della cura.
Sull’articolo di Geraci, in particolare, veniva raccontata
la genesi dell’espressione sindrome di Salgari e se ne
tracciavano gli sviluppi nel tempo. Quella lettura, in cui mi
sono imbattuta piuttosto casualmente circa un anno e mezzo
fa, mi aveva molto colpito poiché definiva in che misura, in
ambito sanitario, il pregiudizio possa prendere forma e
arrivare a sostituirsi alla realtà, determinando azioni politiche
e comportamenti individuali improntati alla fantasia più che a
dati empirici.
Questo lavoro nasce dalla volontà di approfondire le
suggestioni e richiami emersi dalla lettura di quell’articolo,
attraverso gli strumenti e le conoscenze acquisite durante il
corso di studi, e ritenendo valida la proposta di indossare le
1
La citazione è tratta dal sito ufficiale dell’Istituto Giano
(http://www.istitutogiano.it/editoria/janus.html).
9
lenti dell’Antropologia per guardare al tema del pregiudizio
nei confronti dell’utenza immigrata in ambito sanitario.
La sfida era rappresentata dalla possibilità di creare
strumenti idonei per indagare ciò che in genere rimane
relegato alla sfera dell’implicito e del non detto – l’uso degli
stereotipi, il complesso dei pregiudizi – e per riflettere
sull’incidenza di un determinato approccio culturale sulla
relazione medico-paziente quando quest’ultimo è straniero.
Da un punto di vista culturale, la costruzione
dell’alterità si inserisce in una cornice teorica e storica ben
precisa, sulla quale anche la stessa antropologia ha molto
riflettuto negli ultimi decenni con atteggiamento fortemente
autocritico.
Questo lavoro, dunque, si articola su tre nodi tematici
fondamentali: da una parte, sulla costruzione culturale
dell’alterità, che assume forma concreta nella percezione
dell’esperienza immigratoria, e che su di essa sviluppa e
implementa
il
pregiudizio
nei
confronti
dell’“altro”;
dall’altra, sul riesame della sfera della salute e della malattia
sotto il profilo antropologico, nell’ottica di restituire al corpo
un’integrità bio-psico-sociale, spesso ignorata dall’approccio
biomedico alla cura; infine sulla convergenza e sull’incidenza
di questi due aspetti nel percorso di salute dei migranti, sul
cui corpo si iscrivono le dinamiche di un complesso
ideologico dominato dalle logiche differenzialiste.
Il Capitolo I fornisce un inquadramento generale alle
questioni appena presentate. Parte col tratteggiare la storia e
le ragioni dell’avvicinamento della disciplina antropologica
alla salute, nell’intento di superare le dicotomizzazioni che
separano la dimensione fisica da quella sociale, per poi
illustrare l’utilità che può avere il trasporre le tecniche e
l’approccio antropologico alla cura presso le strutture
10
ospedaliere e gli enti erogatori di servizi sanitari. Da questi
assunti, ho poi voluto procedere ripercorrendo le tappe
storiche e socio-politiche che hanno portato a plasmare un
cospicuo immaginario dell’alterità, a partire dalle dottrine
evoluzioniste che hanno influenzato anche la nascita delle
scienze sociali. A partire da questi presupposti filosofici e
“scientifici” si è potuto, nella nostra società, organizzare un
complesso di stereotipi e di pregiudizi che, per quanto
riproducano in modo decomplessificato e talvolta distorto la
realtà, hanno una profonda influenza sulle pratiche sociali e
politiche.
I contributi della psicologia sociale, nella definizione
iniziale di stereotipi e pregiudizi, sono stati inevitabili per
approcciarmi al tema. Ma l’antropologia, col suo procedere
“retrospettivo”, volto a considerare i processi di costruzione a
monte dei modelli culturali, può distanziarsi da quella
disciplina nel momento in cui non assume stereotipi e
pregiudizi come processi cognitivi automatici, ma come
costrutti
socio-culturali
che
prendono
forma
entro
determinate coordinate storiche e politiche. In questo senso, è
possibile analizzare il pregiudizio in ambito sanitario con la
tendenza a
cercare
un suo
potenziale
superamento,
problematizzando di volta in volta ciò che appare come
naturale, ma che, a ben vedere, è un artificio culturale.
Il Capitolo II è dedicato ad illustrare le metodologie di
ricerca adottate per indagare il pregiudizio nei confronti di
pazienti stranieri nel contesto sanitario. Qui la trattazione
assume una forma simile alla narrazione, poiché si occupa di
ripercorrere le fasi che hanno portato all’elaborazione dei vari
strumenti analitici in base alle esigenze che si presentavano
svolgendo il lavoro di indagine. L’utilizzo di metodologie
poco ortodosse per l’Antropologia culturale sono motivate da
11
difficoltà tecniche incontrate sul campo, a cui ho cercato di
porre rimedio grazie a dispositivi mutuati anche da altre
discipline e adattati ai bisogni che si presentavano sul campo
e nella rielaborazione dei dati.
Per dare corpo alla ricerca sulle forme del pregiudizio
in ambito sanitario, avevo scelto di dedicare del tempo
all’osservazione (inevitabilmente non partecipante) in due
Pronto Soccorso torinesi e di svolgere al loro interno alcune
interviste con gli infermieri triagisti. Parlare di pregiudizio
con
gli
infermieri
si
presentava
come
un’impresa
praticamente irrealizzabile, trattandosi di un tema coperto da
pesante interdizione. Per questo motivo ho deciso di
utilizzare un canale comunicativo che andasse oltre la parola,
nel tentativo di esplorare il non-detto attraverso le
rappresentazioni per immagini. Queste non avrebbero
sostituito la parola poiché, affiancate alle singole elaborazioni
discorsive dei disegni, avrebbero piuttosto potuto arricchirla,
confermarla o smentirla, dandomi suggerimenti e spunti non
raggiungibili attraverso mezzi esclusivamente linguistici.
Ma non avrei potuto basarmi soltanto su quanto
dichiarato
dagli
estremamente
infermieri.
limitante,
Inoltre,
l’osservazione
il
era
campo
era
delimitata
dall’area del triage ed era per me impossibile varcare quel
confine. Si è rivelato perciò necessario cercare anche il
confronto con l’utenza, reso possibile dalla partecipazione ad
una ricerca sulla salute di migranti (in particolare richiedenti
asilo, rifugiati e titolari di protezione internazionale)
organizzata dal progetto FER Non solo asilo 3, a cui ho preso
parte da febbraio a giugno del 2012.
Infine, per ampliare ulteriormente il campo, ho trovato
importante riuscire ad inserirmi, come uditrice esterna, ad un
corso di formazione per professioni sanitarie organizzato da
12
una
delle
due
aziende
ospedaliere
considerate
per
l’osservazione – l’A.O.U. San Giovanni Battista di Torino – e
per le interviste, allo scopo di trovare ulteriori connessioni tra
quanto sostenuto dagli infermieri, quanto affermato dagli
utenti stranieri e le suggestioni ricavate dal corso di
formazione per operatori sanitari sulle tematiche legate
all’intercultura. Ogni strumento di indagine è motivato quindi
da un bisogno, al quale ho cercato di fornire una spiegazione
inserendolo proprio in un percorso di maturazione di idee e
proposte.
Con il Capitolo III si accede al cuore della ricerca, non
prima di aver descritto il panorama legislativo e il tragitto
normativo sul diritto alla salute degli stranieri, che si presenta
come un cammino a singhiozzo, e che ultimamente ha reso
estremamente complessi l’accesso e la fruibilità delle cure
agli immigrati che vivono nel territorio nazionale. Ma la
politica e il sistema normativo non rappresentano in questo
lavoro un “di più” informativo. Al contrario, si collocano nel
campo di operatività del pregiudizio che agisce a livello
“macro” (delle politiche, appunto), a livello “meso”, nel
campo della formazione delle professioni sanitarie, e a livello
“micro”, quello delle relazioni interpersonali tra operatore e
utente.
Riconoscere la pervasività del pregiudizio anche in
processi che scavalcano il semplice agire individuale,
significa restituire una risonanza politica – nel senso di
pubblica e collettiva – al pregiudizio, e sottrarlo così al
dominio del comportamento dei singoli.
Il Capitolo IV è dedicato infine alla voce degli utenti,
che hanno rappresentato un contributo tra i più importanti a
questa trattazione. Ascoltare il loro punto di vista mi ha dato
infatti la possibilità di individuare possibili vie da percorrere
13
per superare il pregiudizio, per incrinarne un sistema così
naturalizzato ed efficace, il quale tuttavia presenta delle falle,
che semplicemente andrebbero valorizzate. Inoltre, in questa
fase finale del lavoro, ho trovato indispensabile ripensare al
concetto di pregiudizio, per rielaborarne le caratteristiche e
poter chiarire la posizione in cui esso si colloca. Più che
rispondere alla domanda sulla natura del pregiudizio, ho
ritenuto importante interrogarmi sulla sua collocazione fra le
maglie dei sistemi culturali e dei rapporti di potere, grazie
alla quale si rende così efficace. Efficace ma non
indistruttibile. E forse un primo passo in questa direzione è la
problematizzazione
crescente
sul
pregiudizio,
la
consapevolizzazione della sua esistenza, la riflessività su cui
poter insistere per rimuovere l’atteggiamento poco critico che
favorisce la perpetuazione delle visioni stereotipiche e
dell’agire pregiudizievole e discriminatorio.
Il Capitolo V raccoglie queste riflessioni e chiude il
lavoro facendo riferimento a nozioni come impoverimento
culturale o metacultura (Remotti 2010; 2011a), a indicare
rispettivamente il pericolo dell’abbandono della riflessività
sui modelli di riferimento acquisiti ed interiorizzati e, per
contro, l’importanza di recuperare un atteggiamento critico di
fronte a quegli stessi modelli. Tra la fluidità ineffabile della
realtà e l’opposto irrigidimento delle rappresentazioni
stereotipiche e delle azioni pregiudizievoli, occorre frapporsi
per ritrovare il senso della complessità, il presupposto
fondamentale che dispone all’ascolto, favorisce l’incontro e
apre la strada ad un’effettiva mediazione interculturale e ad
una più armoniosa convivenza.
14
CAPITOLO I
SALUTE E PREGIUDIZIO: PROFILI TEORICI E
SGUARDO ANTROPOLOGICO
L’uomo è nel mondo mediante il corpo.
Perdere contatto con gli altri equivale talvolta a perdere il mondo:
essere nuovamente oggetto (o, meglio, soggetto) di un contatto,
significa ritrovarlo.
(David Le Breton, Il sapore del mondo)
1.1
RICUCIRE
MALATTIA
UNO
STRAPPO.
SECONDO
LO
SALUTE
E
SGUARDO
ANTROPOLOGICO
La prima volta che ho cominciato a riflettere sul tema
della salute da un punto di vista antropologico risale a
qualche anno fa. Mi preparavo a svolgere un’indagine di
campo nel sud del Cile, presso i Mapuche della IX Regione,
in Araucanía, per poter raccogliere così i materiali necessari
alla tesi di laurea.
Le mie intenzioni erano quelle di conoscere, per quanto
possibile nell’arco di alcuni mesi, il modo di operare delle
machi, sciamane-guaritrici ancora molto attive nei territori
indigeni mapuche. Convinta di potermi immergere in una
realtà squisitamente rurale, ero poi stata sorpresa da un dato
di fatto che non avevo potuto ignorare: le machi operavano
anche in contesti urbani, e iniziavano ad essere impegnate
15
anche in realtà ospedaliere che prevedevano, nella loro
struttura interna, alcuni settori di medicina interculturale, ai
quali approdavano tutti quei soggetti, principalmente di
origine mapuche, le cui patologie non potevano essere risolte
e guarite soltanto dalla medicina allopatica.
Nel corso degli ultimi decenni i Mapuche hanno
migrato dalle campagne alle città, dall’Araucanía fino a
Santiago, in cerca di opportunità di lavoro, e come tutti i
migranti hanno cominciato ad essere vittime di malesseri
“nuovi”, i malesseri della modernità e del migrante: stress,
nostalgia, ansia, depressione, il senso di straniamento
prodotto dalla “scissione” interiore di chi si deve trasferire da
un mondo all’altro, fatto di abitudini e ritmi di vita diversi da
quelli dei contesti di origine, per adeguarsi, il più delle volte
coattamente, ad un modello economico e produttivo
egemonico che non lascia un margine di scelta molto ampio.
I
disagi prodotti da questo sradicamento sono in primo
luogo di natura psicologica, ma hanno ripercussioni dirette ed
evidenti sul piano fisico, e ad essi si può far fronte
adoperando dei dispositivi spesso ignoti o quanto meno
trascurati dalla biomedicina. Questa infatti spesso trascura la
complessità bio-psichica dell’individuo e riduce il malessere
ad un’unica dimensione, quella organica. L’impressione che
avevo avuto allora era proprio quella per cui l’inserimento
delle machi anche negli ospedali cittadini, fosse un modo per
richiamare l’attenzione su quei metodi di cura alternativi in
grado di rimandare all’universo culturale e sociale del
paziente, ed evidentemente più efficaci per la loro capacità di
interpretare un linguaggio – quello del corpo e del corpo
malato – che i modelli terapeutici di marca occidentale non
riescono a comprendere.
16
La presenza di settori di medicina interculturale negli
ospedali cileni deriva dalla riforma sanitaria, ad opera del
Ministero della Salute del governo Bachelet (2006-2010)2,
che dedicava un’attenzione particolare all’interculturalità nei
servizi sanitari, e approvava la relativa introduzione
sperimentale di settori di medicina interculturale all’interno
delle strutture ospedaliere in diversi centri urbani3.
L’importanza data alla dimensione dell’intercultura ha
permesso così, nel caso cileno,
una riformulazione della
metodica diagnostica e terapeutica, tale da consentire
all’individuo malato – in primo luogo mapuche, ma anche
cileno – di affrontare la malattia servendosi di “specialisti
della cura” appartenenti al mondo indigeno di riferimento,
che costituiscono una risorsa ulteriore per affrontare la
malattia. Non solo: riconoscere uno statuto di rilievo anche
ad altre medicine che non si rifanno al modello biomedico
occidentale, ma che ad esso possono essere complementari,
significa permettere, almeno in teoria, di non considerarlo
l’unico sistema legittimo sopra ad ogni altro, ma inquadrarlo
come una delle tante “etnomedicine” possibili.
Grazie a questi spunti specifici derivati dalla mia prima
esperienza di campo in Cile, attraverso il giro lungo
dell’antropologia, ho maturato nel tempo la curiosità di
approfondire il tema della salute e della malattia come oggetti
passibili di indagine culturale, sottratte al dominio esclusivo
della scienza medica, e ho potuto sviluppare l’interesse per la
situazione italiana in materia di salute e immigrazione. In
Italia le tematiche connesse all’interculturalità non sono
naturalmente legate alla presenza sul territorio di popolazioni
2
Norma general administrativa N° 16, sobre Interculturalidad en los
Servicios de Salud, Resolución Exenta N° 261, Santiago 26 de Abril de
2006.
3
Uno fra gli altri, il comune di Puerto Saavedra, che ho potuto visitare
personalmente.
17
indigene, come nel caso cileno. Tuttavia, la popolazione
immigrata nel nostro paese – peraltro
estremamente
eterogenea per quanto riguarda le provenienze – impone una
riflessione costante circa i possibili modelli di convivenza e
di gestione di beni comuni quale, fra gli altri, la salute.
Occorre
specificare
che
esattamente
come
la
popolazione cilena percepisce le popolazioni indigene come
una minoranza che è espressione dell’assoluta alterità, per noi
la situazione è rovesciata ma molto simile: i “nativi” siamo
noi, e la minoranza che è espressione massima di alterità è
costituita dalla popolazione immigrata, verso la quale si
riserva spesso un trattamento pari a quello che i cileni
adottano nei confronti dei Mapuche o delle altre minoranze
indigene: rappresentazioni stereotipate di chi si ritiene
biologicamente e
culturalmente diverso, e verso cui si
direziona il pregiudizio e si attuano forme di esclusione. In
ambito sanitario queste dinamiche emergono con forza,
soprattutto negli ultimi anni, dove l’intensità dei flussi è
cresciuta e il fenomeno dell’immigrazione è diventato più
evidente.
Tali riflessioni che nel tempo si sono approfondite,
costituiscono il cuore di questo lavoro e della ricerca che vi
sta alla base, le cui intenzioni, come verrà specificato in
seguito, sono quelle di cogliere il peso del pregiudizio che
grava su chi è visto come “diverso” in ambito sanitario, tanto
da determinarne il suo benessere o, appunto, pregiudicarlo.
Fatte queste osservazioni iniziali, è diventato necessario
avvicinarsi alla branca dell’antropologia medica, che da
alcuni decenni riflette in modo sistematico sulla possibilità di
includere salute e malattia fra i suoi temi di studio. Come
afferma Giovanni Pizza,
18
L’antropologia medica cerca di far rientrare nel dibattito scientifico e in
quello pubblico saperi e pratiche implicitamente ed esplicitamente
prodotti intorno all’esperienza del corpo, della salute e della malattia, che
emergono dai diversi contesti umani ma che in genere sono ignorati dalle
discipline più “disciplinate” (2005: 18).
Questo implica la necessità di riconsiderare una
dimensione esperienziale del corpo, che vive e si muove in
determinati contesti storici e culturali e che di fatto ne è il
prodotto, nel tentativo di ricucire lo strappo che è avvenuto
tra la sfera biologica e la sfera psicologica, sociale e
culturale. Questo tentativo di recupero avviene in buona parte
attraverso la risignificazione del corpo visto come parte
essenziale del complesso psico-fisico che è l’essere umano, in
grado di produrre delle risonanze concernenti le relazioni che
intesse col mondo in cui è immerso e che, letteralmente,
incarna.
Come scrive ancora Pizza,
In questo senso potremmo dire che la stessa storia dell’uomo è fondata
sulla “presenza” del corpo nel mondo e sulla “presenza” del mondo nei
corpi, poiché noi incorporiamo costantemente le forze esterne e le
esperienze passate e al tempo stesso, in un processo vitale in continuo
divenire, agiamo creativamente nel mondo trasformandolo con la nostra
“presenza” (2005: 37).
Una delle prime lezioni dell’antropologia è proprio
quella di segnalare come la natura non basti a se stessa: la
cultura interviene sul corpo umano per completare quello che
la natura lascia di incompleto. “Diventare umani è un
compito a cui gli esseri umani non possono sottrarsi:
l’umanità non è data e garantita biologicamente” (Remotti
2000: 111). Dall’abbigliamento alle scarificazioni, dalla
19
chirurgia plastica alle modificazioni genitali, la cultura lascia
il suo segno sul corpo.
Il corpo si nutre di cultura, non solo nel darsi una
foggia a livello estetico ed esteriore, in modo permanente o
meno, ma altresì filtra e interagisce, non senza conseguenze,
con gli stimoli che provengono dall’ambiente esterno.
Espressioni come habitus (Bourdieu 2005), mindful body
(Lock, Scheper-Hughes 1987) o come embodiment (Csordas
1990), ormai molto note all’antropologia, hanno esattamente
la funzione di tracciare delle aree di intersezione fra il
biologico e il culturale, ponendo enfasi non sulla separazione
e concettualizzazione distinta di questi due terreni, quanto
piuttosto sulle loro reciproche connessioni. Questa relazione
dinamica si manifesta nel corpo che agisce, che si emoziona4,
e nel corpo che si ammala e fa esperienza del dolore:
l’accento è posto sulle pratiche, sulle disposizioni del corpo
che assorbe ciò che proviene dall’esterno e che esso
rielabora. Interiorità ed esteriorità in questo senso vengono
sottratte a logiche dualistiche e sono finalmente considerate
inscindibili.
Questa inscindibilità è una conquista teorica piuttosto
recente, se si pensa al percorso filosofico occidentale, in cui,
dal Seicento, la separazione mente/corpo prende forma come
costrutto teorico e acquisisce il valore di un universale. La
famosa dicotomia cartesiana tra res cogitans e res extensa,
espressa dal filosofo francese nelle Meditazioni metafisiche e
in altre opere pubblicate a cavallo tra il Cinquecento e il
Seicento, diventa un modo di procedere del pensiero
occidentale
non
solo
molto
comune
ma
addirittura
inoppugnabile, e sembra per molti versi persistere ancora.
4
Per lo studio delle emozioni da una prospettiva antropologica, si
rimanda alla lettura del lavoro di Pussetti sui Bijagò della Guinea Bissau
(2005).
20
Scrive così Cartesio in un passo delle Meditazioni:
Se il genio maligno mi inganna, non v’è dubbio che io sono; e mi inganni
pure quanto può, tuttavia non potrà mai fare in modo che io sia nulla,
mentre penso di essere qualcosa […] Pensare? Ho trovato; è il pensiero;
questo solo non può essere separato da me. Io sono, io esisto…questo è
certo, e dunque sono esattamente soltanto una cosa che pensa, cioè una
mente, un animo, un intelletto o piuttosto una ragione5.
I dualismi e le dicotomie appaiono fortemente
incastonati nelle più intime “rappresentazioni collettive”
occidentali, e si rilevano facilmente anche nell’analisi che ho
cercato di condurre in materia di pregiudizi. In questo lavoro
tornerò più volte sulla dicotomia noi/altri che, con maggiore
o minore ingenuità, non smette di manifestarsi nella sua
violenza6.
La dicotomizzazione infatti rimanda nel suo significato
letterale ad una recisione, ad un taglio, ad una cesura che, a
mio giudizio, non è lungi dall’essere un atto violento,
soprattutto quando a tale separazione si accompagnano
interventi di classificazione gerarchica. Si tratta di un
processo astratto che tuttavia si riflette sul piano pratico:
distinguere nettamente tra corpo e mente, noi e gli altri, uomo
e donna, salute e malattia, normale e patologico, può avere
una qualche funzionalità teorica in termini di ordine e
sistematizzazione, ma lascia inevitabilmente uno spazio
minore alle gradazioni intermedie, e in questo senso genera
esclusione. Accogliere le contraddizioni del reale e la labilità
5
Cartesio, Meditazioni II, in Descartes René. Meditazioni metafisiche,
Antonella Lignani (a cura di), Roma, Armando Editore, 2008 (Rist.), p.
198.
6
La dicotomia noi/altri è da considerarsi violenta nella misura in cui
produce esclusioni e marginalizzazioni: tracciare dei netti confini tra noi e
gli altri, rispetto al tema della salute, diventa spesso un modo per
determinare chi ha diritto a determinati servizi, chi è degno di usufruirne e
chi no. In questo senso da semplice distinzione categoriale si passa ad un
atto discriminatorio, e per questo, ad un atto di violenza.
21
dei confini significa invece ristabilire dei legami, creare dei
ponti, includere, ricucire, accomunare, ricreare relazioni.
Ai fini di questo lavoro sarà importante tenere conto sin
da ora dell’importanza della complessità a svantaggio della
semplificazione, valore delle contraddizioni a svantaggio
dell’indiscutibilità dualistica, delle relazioni a svantaggio
dell’isolamento.
Pizza sottolinea anche, tuttavia, come sia inesatto
ricondurre in toto a Cartesio la responsabilità dell’ “errore”
fondamentale della separazione mente/corpo, poiché nello
stesso
formulatore
del
dualismo
coesisteva
una
“contraddizione originaria” (Pizza 2005: 53): Cartesio
ammetteva infatti, sempre nelle Meditazioni, l’inaccettabilità
della distinzione assoluta tra res cogitans e res extensa nel
vissuto pratico. Tuttavia, nel pensiero occidentale ha poi
prevalso la separazione teoretica, distaccata dall’esperienza
della realtà e delle relazioni sociali e la supremazia del
pensiero sull’esperienza fisica.
In ambito medico, come in molti altri terreni scientifici
occidentali, si riproduce questa dicotomia. La separazione
mente/corpo si palesa ogni qual volta si consideri il corpo
umano come macchina biologica, scomponibile e analizzabile
a prescindere dalle relazioni in cui è immersa.
Tobie Nathan, psicoanalista e professore di psicologia
clinica e psicopatologia clinica a Parigi, scrive:
Lo scopo dello “scienziato” […] è sempre quello di separare il soggetto
dai suoi universi, dalle sue possibili affiliazioni, sottomettendo anche lui,
come tutti gli altri, e soprattutto come individuo isolato, all’implacabile e
cieca “legge di natura” (1996: 26).
La critica che Nathan muove alla farmacologia
occidentale ed anche alla psicoanalisi, si muove contro lo
22
stesso assunto di base: considerare il corpo in termini
meccanicistici e il corpo malato nella sua mera disfunzione
organica, tralasciando l’universo relazionale entro il quale il
corpo è immerso. L’impresa teorica di Nathan, è quella di
trarre energia anche dalle discipline antropologiche, unendo
sincreticamente la lettura “occidentale” – bianca – a quella
dei
saperi
tradizionali
specifici
di
altre
culture
–
principalmente africane. Il suo rappresenta un tentativo
audace di allargare le maglie del paradigma biomedico per
includere metodi “altri” di soluzioni terapeutiche, in genere
ignorati o addirittura surclassati a semplici o bizzarre
curiosità dal sapore etnologico. In questo mi pare di vedere
anche un esempio di un bisogno reale, di un’esigenza
concreta da parte di un crescente numero di studiosi e di
correnti disciplinari di allargare i propri confini nel
fronteggiare domande sempre più complesse che necessitano
di altrettanta complessità nel rispondervi.
L’antropologia medica, a partire fra gli altri dagli
autorevoli contributi della Scuola di Harvard, tenta di
spostare lo sguardo dalla dimensione puramente fisica a
quella relazionale del corpo, della salute e della malattia,
decostruendo
alcune
delle
più
miopi
impostazioni
biomediche e restituendo soggettività a ciò che in genere è
pensato asetticamente, come se un disturbo organico dovesse
necessariamente nascere e morire nella sua “organicità” (cioè
diagnosticato e curato solo ed esclusivamente in termini
organici). La soggettività – e dunque la complessità
costitutiva di un individuo – si recupera guardando alla
disfunzione anche dal punto di vista della percezione del
paziente, dalla narrazione che questi ne fa. Si tratta pertanto
di guardare al disturbo da più angolazioni, come se la lettura
non potesse essere univoca: di ogni disturbo o sintomo,
23
occorre infatti considerare almeno tre livelli: il livello
soggettivo (il modo in cui una persona “vive” il suo
disturbo), il livello della narrazione del disturbo da parte del
paziente e infine il livello della descrizione del disturbo da
parte del terapeuta. L’aspetto più interessante, dal punto di
vista antropologico, diventa il secondo livello, cioè quello
della narrazione7. Ognuna di esse sarà unica e specifica,
perché ciascuno interpreta e rielabora la propria esperienza di
dolore in modo personale, attingendo tuttavia ad un
patrimonio culturale di saperi, simboli ed eziologie.
Come scrive David Le Breton,
Tutte le società umane integrano il dolore nella loro visione del mondo,
conferendogli un senso, o un valore, che ne attenua la nudità e spesso
anche l’intensità. Lo inscrivono all’interno della rete di causalità volta a
spiegare la sua origine e, soprattutto, forniscono i mezzi simbolici e
pratici per combatterlo, grazie alle particolari medicine che ogni società
elabora. […] La trama di senso è la materia prima della cultura (Le
Breton 2007:105).
Da qui nasce la proposta da parte di alcuni dei
principali esponenti della scuola di Harvard di distinguere fra
desease e illness8, la quale ricalca precisamente la volontà di
pensare alla malattia come “realtà simbolica” e alla
“medicina come un’impresa ermeneutica” (Quaranta 2006:
X). I simboli, le concezioni e le interpretazioni che ciascuno
elabora ed utilizza per dare senso e significato alla propria
esperienza di dolore (ma anche solo per descriverlo,
comunicarlo), possono rientrare nelle competenze dell’analisi
7
Per Byron Good (1999), la malattia è addirittura da vedersi come un
“oggetto estetico”, da analizzare con strategie interpretative più che
positiviste. I fatti biologici vissuti dal paziente possiedono significati
inseriti in determinate reti semantiche che emergono nelle pratiche
narrative di chi soffre.
8
Rispettivamente, le disfunzioni e alterazioni dell’organismo e il senso
che viene associato dal paziente alla sua esperienza di dolore.
24
culturale: per questo motivo l’antropologia può farsi carico di
mediare tra le realtà terapeutiche dei medici e dei pazienti,
considerando gli uni e gli altri come parti di uno specifico
sistema culturale suscettibile di analisi comparative con altri
sistemi.
Con le parole di Byron Good,
non (è) sostenibile la teoria che dipinge il linguaggio della medicina come
un semplice specchio del mondo empirico. Credo, invece, che si tratti di
un ricco linguaggio culturale, legato ad una visione altamente
specializzata della realtà e a un sistema di relazioni sociali (Good 1999:
9).
Si può affermare che l’antropologia, da quando ha
rivolto il suo sguardo alle società cosiddette “complesse” e ha
esteso le sue analisi etnografiche anche alla sfera della salute,
abbia tentato innanzitutto di ristabilire quel legame
mente/corpo, trascurato nella rappresentazione della malattia
unicamente come desease: l’introduzione di un concetto
come quello di illness restituisce legittimità alla sofferenza
del soggetto, riconsiderandone la personale narrazione e il
personale inserimento delle cause di disagio nel proprio
vissuto.
Separando
nettamente
tra
illness
e
desease
e
prediligendo la prima a scapito della seconda, spiega però Ivo
Quaranta nella raccolta dei saggi più rappresentativi
dell’antropologia medica, la Scuola di Harvard “cade vittima
delle stesse dicotomie che aspirava a superare” (2006: XIII).
Questa
incrinatura
analitica
viene
stemperata
grazie
all’introduzione di un’altra categoria, quella della sickness,
che
rimanda
alla dimensione
“politica”
dell’incontro
terapeutico, che non si esaurisce nella visione del medico e
del paziente ma che rappresenta i meccanismi di formazione
25
del sapere medico e della sofferenza esperita. In questo senso
si potrà parlare di “ideologia medica”, e l’antropologia si
potrà occupare di svelarne i modi di agire ed eventualmente
di decostruirne i processi.
Si può affermare infatti che dietro ad ogni terapia si celi
un sistema di valori. Curare il sintomo e il dolore non è
un’operazione neutrale, ma risponde a precise concezioni
sull’identità, sulle rappresentazioni dell’essere umano.
L’analisi della dimensione sociale e politica del dolore
trova un terreno molto fertile nell’odierno assetto economico
e politico, generatore di povertà più o meno estreme, sia nel
Primo che nel Terzo mondo. Il corpo, secondo questa
prospettiva, diventa strumento di rappresentazione dei poteri
economici o politici: la distribuzione della malattia non è
casuale, ma risponde a specifiche dinamiche di tipo
economico e politico, che si palesano nelle limitazioni di
accesso a servizi e strutture di cura, spesso sulla base di
discriminanti razziali, di genere o di status.
Chi lavora attivamente su questo tipo di processi – per
citare come esempio uno degli autori che conduce da tempo
una vera e propria battaglia per i diritti umani, usando come
strumento di denuncia i dati e le analisi delle sue ricerche – è
Paul Farmer, medico e antropologo che dai primi anni
Novanta si interessa ai rapporti tra salute, politica e mercato,
e che introduce, a seguito della sua ricerca sul campo ad
Haiti, il concetto di sofferenza sociale e violenza strutturale
(1992): le diseguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari,
espongono maggiormente gli haitiani più disagiati a livello
economico a contrarre i virus dell’HIV e della TBC. La
povertà e le discriminazioni legate al genere, all’etnia o ad
altri fattori creano una situazione di estrema vulnerabilità che
ha un impatto diretto sulla salute del soggetto. In questo
26
senso si può parlare di violazione del diritto alla salute: sul
corpo malato e contagiato si iscrivono e si manifestano i
segni di una violenza strutturale, che muove dalle nefaste
dinamiche politiche e di mercato globali che agiscono a
livello locale, producendo povertà e inducendo malattia.
L’esperienza della malattia viene così ampliata ad un
processo sociale più esteso, e non relegata alla sola sfera
soggettiva: corpo, dolore e cura sono il frutto di processi di
socializzazione e di costruzione culturale, ma anche di
dinamiche di potere che occorre tenere in considerazione, e in
molti casi, denunciare.
1.2 ANTROPOLOGIA IN OSPEDALE
È utile evidenziare alcuni nodi centrali del percorso
disciplinare
dell’antropologia medica
per avvicinarsi al
cuore del tema affrontato in questo lavoro. Prima di
addentrarsi nella tematica del pregiudizio in ambito medicosanitario, occorre infatti disegnare una cornice teorica che
prenda in considerazione l’approccio antropologico alla
corporeità e alla salute o malattia, e in seguito rilevarne la
funzionalità nell’analisi delle professioni di cura e delle
relazioni con l’utenza.
Come espresso nel paragrafo precedente, l’antropologia
riesce ad inserirsi nel discorso della medicina in senso lato,
sia per la sua naturale propensione a fornire informazioni su
strumenti diagnostici e terapeutici alternativi – ricavati da
quei
saperi etnologici di indiscutibile importanza, che
rappresentano molto più che “semplici e bizzarre curiosità” –
sia per la sua capacità di aderire ad un approccio di tipo
27
olistico alla corporeità che, soprattutto negli ultimi decenni, si
sta riscoprendo l’utilità di recuperare.
Afferma Tullio Seppilli:
[…] Com’è noto, in tutti i paesi occidentali, - e proprio a partire dai centri
urbani maggiori e più moderni – si vanno affermando le forme più
diverse, e in un certo senso “nuove”, di cosiddetta “medicina alternativa”.
[…] E’ evidente che lo spostamento di quote crescenti di popolazione
verso il ricorso parallelo o alternativo alle “nuove” forme di medicina
“altra” trova un forte stimolo – come ha segnalato la stessa
Organizzazione mondiale di sanità – nella intensa carica emozionale e,
spesso, nei lunghi tempi e nell’attenzione personalizzata che a differenza
della biomedicina caratterizzano in queste forme il rapporto con il
paziente e con il suo contesto (1996: XIX).
L’analisi culturale e antropologica della malattia
coniuga da una parte il tentativo di sviluppare una coscienza
critica di fronte ad un modello terapeutico e diagnostico,
quello biomedico, che è soltanto uno dei tanti possibili e che
inizia a rivelare le sue debolezze, e dall’altro l’aspirazione a
fornire degli strumenti in grado interpretare benessere e
malessere secondo criteri non solo di tipo organico ma anche
di tipo sociale.
A causa delle sue frequenti pretese di superiorità, la
biomedicina è in genere refrattaria ad accogliere o quanto
meno a legittimare altri modelli terapeutici, che chiama “non
ufficiali”, “non convenzionali” e che considera illegittimi
poiché intrisi di “credenze” e saperi ritenuti “non scientifici”.
Considerare invece il paradigma biomedico come specifico
prodotto di un contesto storico e culturale, equivale a
riconsiderarlo una delle tante “etnomedicine”, come già si
accennava nel paragrafo precedente. Se la biomedicina è
dunque passibile di analisi culturale, ne consegue che anche
le
professioni
sanitarie
possano
28
essere
sottoposte
all’osservazione antropologica. Portare l’antropologia negli
ospedali significa riconoscere modelli di comportamento e di
rappresentazione culturalmente e socialmente costruiti nel
trattamento della malattia e nel vissuto della sofferenza.
Ciò che si è cercato di fare in alcuni momenti della
ricerca è stato proprio questo: introdursi all’interno delle
strutture ospedaliere e considerarle come il contesto
etnografico di riferimento. Tra i vari membri della
“comunità” ospedaliera, l’attenzione maggiore era rivolta ai
terapeuti, in particolare a quelli più vicini all’utenza. Come
verrà mostrato più dettagliatamente nel capitolo che segue,
una fase della ricerca era costituita dall’incontro e confronto
con alcuni infermieri. Le interviste condotte con loro avevano
lo scopo di cogliere parte di quel sistema di valori e di quei
codici comportamentali dettati dalla loro professione, ma che
sono negoziati e reinterpretati anche in base a stimoli di
matrice socio-culturale e non strettamente “medica”.
La scelta degli infermieri come principali interlocutori
non era casuale. Gli infermieri, infatti, sono coloro che si
occupano della delicata fase primaria dell’accoglienza, della
descrizione del problema da parte del malato, che va
ascoltata, interpretata e in base alla quale occorre cercare una
soluzione.
Al fine di sensibilizzare sempre più le professioni
sanitarie al valore degli apporti delle discipline sociali nello
svolgimento del loro mestiere e nell’approccio allo stesso, c’è
chi ha addirittura sottolineato alcune somiglianze, per quanto
le competenze e gli scopi siano diversi, tra infermieri e
antropologi:
Infermiere e antropologo si pongono […] in una posizione di interprete e
di mediatore culturale […] Le barriere sociali fra infermiere e malato
sono senza dubbio meno rigide di quelle che dividono il paziente dal
29
medico e favoriscono rapporti meno formali ed una maggiore
comunicazione (Cozzi, Nigris 1996: 4).
E probabilmente, almeno in questa fase “dialogica” con
il paziente, gli infermieri svolgono un ruolo interpretativo
analogo a quello dell’antropologo. Al di là di questo
paragone, è significativa, a mio parere, nel percorso di
formazione degli operatori sanitari,
l’introduzione di
insegnamenti antropologici e sociologici, ormai parte
integrante dei programmi curriculari degli studenti delle
facoltà di Medicina e dei corsi di laurea in Scienze
infermieristiche, che rappresentano un tentativo di avvicinare
e coniugare saperi medici con saperi umanistici, fondamentali
per arricchire e migliorare la relazione medico-paziente.
Un fattore determinante per la scelta degli infermieri
come interlocutori è la vicinanza al paziente, che consente
loro di ridurre le distanze e di relazionarsi a lui in modo
sicuramente più profondo rispetto ad un medico. Non solo:
l’infermiere intesse una relazione si può dire “epidermica”
con il malato, meno filtrata e più immediata, e funge da ponte
tra desease e illness. L’infermiere realizza la sua formazione
professionale grazie a questa esperienza diretta che fa della
malattia e della percezione che di essa ne ha il paziente. Da
qui è derivata la scelta di svolgere interviste proprio agli
infermieri impegnati nei Pronto Soccorso di alcuni ospedali
torinesi9.
L’esperienza diretta degli infermieri è funzionale anche
ad un altro aspetto, forse ancora più importante ai fini di
questo lavoro: per sondare radici e conseguenze del
pregiudizio in ambito medico-sanitario, i livelli di analisi
sono stati molteplici, e uno di questi era proprio quello del
9
Il modo di condurre le interviste sarà illustrato dettagliatamente nel
capitolo specifico dedicato alle metodologie di ricerca.
30
contatto con
l’“altro” in ospedale, e in particolare in un
luogo specifico dell’ospedale quale è il Pronto Soccorso,
dove si ha relativamente poco tempo per riflettere sul da farsi
e occorre agire tempestivamente davanti ad emergenze. E’
grazie alla riduzione dei processi di razionalizzazione infatti
che i pregiudizi diventano operativi e si rendono, in un certo
senso, manifesti.
Ma di quale “altro” si sta parlando?
L’“altro” più
prossimo potrebbe essere già di per sé il malato. Secondo la
già discussa logica delle dicotomie, il sano si oppone al
malato, nonostante il discrimine fra i due stati sia sempre
molto labile e discutibile. Per quanto il dolore sia “senza
dubbio l’esperienza umana meglio distribuita, assieme alla
morte” (Le Breton 2007: 21), esso è in grado di sancire una
netta separazione tra chi esperisce dolore e il resto del
mondo. Il dolore spezza ogni tipo di routine, si frappone tra
se stessi e i propri progetti, rende l’equilibrio personale
precario. Essere malati, spiegano l’antropologa Daniela Cozzi
e il sociologo Daniele Nigris (1996: 91-92) equivale anche a
ricoprire un vero e proprio ruolo sociale, interpretato secondo
criteri prestabiliti culturalmente, e che necessita del
riconoscimento da parte di chi sta intorno, come ogni altro
ruolo sociale. Riconoscere il malato come tale significa
legittimare il suo status, temporaneo o cronico che sia, e
poterlo sollevare dagli obblighi quotidiani per dedicarsi a
cercare soluzioni di cura.
Ma c’è un’alterità più difficile da afferrare, più subdola,
incarnata dall’esperienza del dolore stesso: come scrive Le
Breton,
Il dolore è un momento dell’esistenza in cui nell’individuo viene a fissarsi
l’impressione che il suo corpo sia altro da lui. […] L’erosione più o meno
sensibile del senso di identità sotto le bordate del dolore […] richiama
31
l’immagine, spesso evocata dai malati, di un’entità estranea che smantella
l’uomo dall’interno. Come se il dolore fosse una forma di possessione,
una potenza colossale che rode l’individuo e gli comanda la sua condotta,
frantumando in un attimo aspetti specifici della sua antica rispettabilità.
[…] Come se fare entrare il male dentro di sé fosse il segno di
un’abdicazione davanti all’alterità (2007: 22-23, corsivo mio).
Il malato come “altro” e il dolore come “altro-da-sé”:
questi sono due livelli, distinti ma fra loro connessi, su cui
collocare un certo tipo di “alterità”.
Nel presente lavoro ci si interroga sull’alterità sita su un
livello ancora differente. Con un bisticcio linguistico che si
spera non eccessivo, ci si domanda: che cosa succede quando
chi è ammalato (dunque già “altro”) è più “altro” di altri? Qui
si inserisce la tematica dell’immigrazione, che in questo
lavoro diventa lo sfondo imprescindibile per tracciare una
mappa delle percezioni che abbiamo dell’“altro” quando
affronta l’esperienza della malattia. Questa, la più comune
delle esperienze umane, come la descrive Le Breton, va
incontro ad ostacoli enormi nelle soluzioni di cura poiché,
prima di tutto e sopra tutto, si staglia di fronte ad essa, rigido
come una muraglia, un complesso di pregiudizi che
determina chi è “più altro di altri” rispetto alla possibilità di
affrontare il proprio malessere. Non solo: il malato, se
considerato più “diverso”, viene trattato
secondo questa
logica dominata dallo stereotipo, da idee fantasiose, che
purtroppo diventano vere e proprie logiche di pensiero e di
pratiche: il luogo comune secondo il quale chi ha una pelle
diversa dalla nostra si ammala necessariamente in modo
“diverso” dal nostro, dilaga, e si accompagna alla paura della
contaminazione e a tutte quelle simbologie fatte di
polarizzazioni tra il puro e l’impuro, dove, naturalmente, il
secondo va tenuto lontano, quando non addirittura eliminato.
32
Infatti è indubbio che la sofferenza sia vissuta e manifestata
in modo differente (se il ruolo di malato è un ruolo sociale
come gli altri, sarà accompagnato da una serie di
comportamenti stabiliti culturalmente per sancire, dichiarare
il proprio status), ma il pregiudizio nei confronti del diverso
entra in azione nel momento in cui, accanto alla condizione di
malato, viene affiancata un’altra qualità, non più temporanea,
suscettibile di essere abbandonata o modificata, ma
considerata permanente, essenziale e soprattutto prevaricante
rispetto alle altre: si tratta del colore della pelle, dell’aspetto
esteriore che non può mascherare caratteri somatici di
matrice diversa da quella europea, attributi che diventano
preminenti nel determinare la relazione e il contatto tra “noi”
e “loro”, poiché scatenano echi, reminiscenze, bagagli di
rappresentazioni
che
influenzano
necessariamente
il
comportamento con l’“altro”.
Come verrà dimostrato più in dettaglio nei capitoli che
seguono, può accadere che le caratteristiche fisiche
condizionino a tal punto le prassi da predeterminare
l’assegnazione “preventiva” e pregiudiziale di alcune
patologie ad alcuni individui per il solo fatto di essere
stranieri, o di presentarsi fisicamente come tali. Verranno
infatti citate le dichiarazioni di alcuni utenti (migranti) che
testimoniano che chi si inserisce nel sistema sanitario per
problemi di salute di maggiore o minore rilevanza, va
incontro ad una serie di problematiche indotte dal pensare per
pregiudizi, o viene preliminarmente estromesso dal sistema
solo per la sua provenienza, il suo status giuridico, o ancora
viene trattato in maniera differente (spesso poco gradevole)
da operatori e altri utenti per il solo fatto di presentarsi come
“diverso”.
33
Evidenziare questi aspetti serve ad introdurre il
paragrafo che segue, dove si intende trattare in modo più
specifico il tema dell’alterità, provando a fornire alcuni
elementi con i quali questa (e i luoghi comuni ad essa
connessi) si sono nel tempo costruiti e continuano ad
alimentarsi.
1.3 IMMAGINARI, PREGIUDIZI E STEREOTIPI:
PERCORSI E CONNESSIONI
A partire dall’interesse per lo sguardo antropologico
alla sfera della salute e della malattia, la curiosità rispetto al
potere dei pregiudizi di condizionare comportamenti, scelte
politiche e infine di incidere sui percorsi di vita individuali è
nata leggendo un articolo a proposito di un fenomeno
battezzato da Salvatore Geraci10 con l’espressione “sindrome
di Salgari”. Tale sindrome, che si andava definendo negli
anni Novanta in Italia, a seguito del consistente flusso
migratorio dal Nord Africa, dall’Est Europa e dai Balcani, si
manifestava attraverso una sorta di diagnostica ossessiva
circa le malattie infettive che si supponeva gli immigrati
portassero nel nostro paese11.
L’ “effetto migrante sano” – ovvero la constatazione
che a partire da un certo luogo, per trovare altrove migliori
condizioni di vita, siano gli individui in buona salute, in
grado di adattarsi più facilmente ai nuovi contesti, e che
dunque già nel paese d’origine avvenga di prassi una certa
selezione – si contrappose alla sindrome di Salgari: a fronte
10
Presidente della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni.
Gli immigrati continuano ad essere considerati “untori”: si tratta di
un’immagine molto comune che ben si presta come contributo alle
argomentazioni dirette contro stranieri e migranti, usati come “capro
espiatorio” nelle società di “accoglienza”.
11
34
di verifiche scientifiche (test e statistiche) decisamente più
affidabili delle supposizioni foraggiate da équipe mediche e
politiche e agenzie di informazione dominate più da fantasmi
che non da prove empiriche, le sorprese rispetto alla bassa
percentuale di riscontri di patologie “strane”, rare e infettive,
furono molte.
Da ingenua lettrice dell’articolo12, il quesito, che poi si
è trasformato in domanda cognitiva per l’avvio di una ricerca
più approfondita, era sorto in merito al potere di incidenza di
miti e di superstizioni sull’“altro”,
non solo sulla gente
comune, ma anche su “uomini di scienza”, per così dire, e
supportate in maniera massiccia dai politici dei vari
schieramenti.
Non sono di certo i flussi migratori attuali, pur
potenziati e diversificati nel corso degli ultimi decenni, ad
aver creato degli immaginari, generalmente negativi, del
migrante. Le varie forme di razzismo sono estremamente
resistenti poiché estremamente duttili, elastiche ed adattabili
ai diversi contesti storici; ciò che cambia possono essere i
bersagli delle discriminazioni, ma le modalità con cui
attaccarli sono molto simili a quelle utilizzate in epoche che
si credono ormai lontane e superate. Come scrive Dal Lago,
[…] il razzismo gode di una straordinaria libertà di parola e d’immagine,
sconcertando una cultura che non si vorrebbe razzista, e che non è capace
di vedere il razzismo nelle nuove forme (1999: 102).
Quello che emerge dai discorsi dell’opinione pubblica
così come
dai
politici,
sembra
essere
piuttosto
la
riproduzione, adattata alla situazione attuale, di precisi
12
Geraci Salvatore, La sindrome di Salgari 20 anni dopo, in Janus.
Medicina: cultura, culture, N. 21, primavera 2006, “Sanità meticcia”,
Zadigroma Editore, pp. 21-29.
35
schemi, categorizzazioni e rappresentazioni dell’“altro” che
affondano le radici in dottrine di classificazione e
gerarchizzazione della razza elaborate un paio di secoli fa.
[…] L’inizio della storia del razzismo europeo si deve collocare nel
secolo XVIII, qualunque precedente possa essere scoperto in epoche più
lontane. Fu in questo secolo che la struttura del pensiero razzista si
consolidò e assunse le precise connotazioni poi mantenute fino ad oggi
(Mosse 2005: X).
Mosse suggerisce di scegliere questo come punto di
inizio della diffusione delle ideologie razziste. E’ a partire
infatti dal periodo storico che abbraccia l’Ottocento che ciò
che prima era un complesso di idee non ancora sistematizzate
diventa strutturato e “ordinato”, grazie ad alcune coincidenze
di eventi e trasformazioni sociali ed economiche, coadiuvate
dagli orientamenti teorici assunti da vari settori disciplinari,
che hanno funzionato da energia convogliante e supporto
teorico fondamentale.
La relativa anzianità di quelle dottrine non sembra
essere un ostacolo alla loro efficacia: al contrario, sembra che
abbiano compiuto un enorme e lungo lavorio sulla società,
fino a diventare parte del suo sentire comune. È forse proprio
per questa loro profondità di radicamento che si fatica a
liberarsene, o anche solo a riconoscerle.
1.3.1 La costruzione dell’immaginario
L’ “altro” messo in scena e ingabbiato insieme ad
animali provenienti da mondi diversi da quello occidentale –
europeo – è una fine strategia di marketing, come diremmo
oggi, che risale alle ultime decadi dell’Ottocento. A Parigi,
36
sede di alcune delle note esposizioni universali di fine secolo,
il direttore del Giardino zoologico, Geoffroy de Saint-Hilaire,
fu molto impressionato dal successo che aveva avuto, in
Germania,
l’esposizione
di
“popolazioni
puramente
naturali”13 come samoani, nubiani e altri esseri umani
deportati dal loro paese d’origine - colonia europea - per
attrarre pubblico, ponendolo di fronte al fascino di “creature”
esotiche.
Per risollevare la situazione economica del Giardino
zoologico, non si perse l’occasione, nel 1877, di presentare
“spettacoli etnologici” ai parigini. E il successo fu strepitoso:
di fronte a singolari animali e non meno singolari individui, il
pubblico si emozionò e le visite raddoppiarono. Così fino ai
primi del Novecento.
Il modo in cui l’europeo veniva in contatto e a
conoscenza dell’“altro” era anche questo: ingabbiato ed
esposto come attrazione per gli sguardi più curiosi,
equiparato agli animali esotici che affiancava, il “selvaggio”
iniziava a rendersi visibile da chiunque, durante una
domenica pomeriggio qualsiasi, nel centro della propria città
brulicante di progresso e innovazione, in perfetto stile belle
époque.
Difficile stabilire il rapporto tra visibilità e invisibilità
dell’“altro”: da una parte la sua visibilizzazione è ostentata,
esposta, resa nuda, dall’altra è in atto un violento processo di
occultamento, poiché l’ “altro” viene invisibilizzato nelle sue
caratteristiche umane, e si rappresenta in sembianze
animalesche. Il dominio coloniale, per essere legittimato,
aveva bisogno di rappresentare l’“altro” in termini negativi:
in questo modo, il corpo disumanizzato poteva essere oggetto
di dominio e assoggettamento.
13
Bancel, Blanchard, Lemaire, Gli zoo umani della Repubblica coloniale,
in Le Monde Diplomatique, settembre 2000.
37
Per citare un nome tra i tanti che si annoverano
nell’articolarsi delle dottrine sulla razza, Robert Knox, uno
dei più insigni docenti di anatomia di Edimburgo nelle prime
decadi dell’Ottocento, era strenuo sostenitore della bestialità
dei non-bianchi, i quali difettavano, a suo dire, di ogni
caratteristica degna di essere definita umana e hanno molto
più in comune con gli animali che non con gli esseri umani14.
Naturalmente, ogni affermazione era supportata da ricerche e
misurazioni di enorme rigore scientifico, o tale almeno era la
pretesa. Per inciso, proprio Knox, che definiva “bestie” i nonbianchi, si racconta che fu costretto ad abbandonare la
cattedra per via del coinvolgimento in uno scandalo, che
assunse proporzioni internazionali, relativo all’acquisto di
cadaveri per i suoi studenti da due malfattori irlandesi
responsabili delle uccisioni per vendere i corpi delle vittime.
In un certo senso ritorna, in queste operazioni di
inferiorizzazione,
l’eco
dei
dibattiti
cinquecenteschi
sull’anima delle popolazioni indigene delle Americhe15. Non
era
la
prima
volta
che
in
Europa
si
discuteva
sull’appartenenza alla specie umana o meno delle popolazioni
incontrate per la prima volta durante i grandi viaggi degli
esploratori di fine Quattrocento. Le posizioni che allora si
scontravano erano sull’umanità o animalità degli indigeni. Il
contrasto, risolto solo con una bolla papale di Paolo III16
14
R. Knox, The Races of Men, London, 1862, in G. L. Mosse, 1978: 7677.
15
Il dibattito a cui si allude, che ha animato le università e i teologi
europei a lungo, è quello tra la posizione di Bartolomeo de Las Casas,
strenuo sostenitore dell’umanità delle popolazioni indigene, e Juan de
Sepùlveda, convinto invece della loro animalità (Mario Rosa, Marcello
Verga, La Storia moderna. 1450-1870, Bruno Mondadori, Milano 2003).
16
“Indios veros homines esse” è il verdetto pronunciato dal Papa in
Veritas Ipsa (2 giugno 1537). La bolla papale aveva avuto il merito
indiscusso di aver vietato, almeno nelle disposizioni e nei propositi, la
possibilità di ridurre in schiavitù gli indios, ma considerandoli “uomini
veri” e ammettendo che possedessero un’anima, si rendeva possibile e
necessaria la loro conversione alla fede cristiana cattolica (Reginaldo
38
(Rosa, Verga 2003: 40), che stabilì una volta per tutte che le
popolazioni indigene possedevano un’anima, era in realtà un
contrasto soltanto apparente, perché conferire umanità a
quegli individui significava certamente sottrarli al mondo
animale, ma al tempo stesso li rendeva passibili di
conversione, e quindi comunque “inaccettabili” così come si
presentavano.
Che cosa è cambiato da allora? Moltissimo è cambiato
naturalmente, eppure il seme di un certo tipo di approccio all’
“altro”, che sarebbe sopravvissuto fino ad oggi, era ormai
stato gettato.
“Il frame generale del nemico si istituzionalizza
nell’opinione pubblica ribadendo, ogni volta, la differenza
assoluta tra noi e loro”, scrive Dal Lago durante l’analisi dei
neorazzismi odierni (1999: 101). Storicamente infatti, il
discorso sull’Altro – straniero, colonizzato, immigrato – è
sempre stato pregno di una retorica basata sull’irriducibilità
della
differenza,
retorica
così
ridondante
che,
normalizzandosi, arriva a costituire quel patrimonio di
immagini attorno al quale il pregiudizio sull’“altro”, anche
quello più inconsapevole e involontario, si modella.
Ciò che dunque già diversi secoli prima aveva portato
gli europei a interrogarsi sul modo di relazionarsi con
l’“altro”, nell’Ottocento prendeva la forma di trattati
filosofici e scientifici, organizzando idee, disegnando
gerarchie, stabilendo con la presupposta autorevolezza e
inequivocabilità del linguaggio scientifico ciò che era persino
bello o brutto, umano o inumano, accettabile o inaccettabile.
Passando attraverso le dottrine biologiche della razza
elaborate in modo sistematico in quel periodo, la visione
dell’“altro” si riempiva di teorie, ricerche filologiche,
Iannarone, La scoperta dell’America e la prima difesa degli Indios. I
Domenicani, PDUL Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, p. 181).
39
linguistiche e archeologiche, osservazioni etnografiche
compiute nelle colonie e nei protettorati europei, creando un
sapere che si sedimentava e attecchiva nel sentire comune.
I resoconti di viaggiatori di varia natura (missionari,
militari, etnografi, funzionari dei governi coloniali) e le teorie
e classificazioni del genere umano che si erano diffuse nel
tempo grazie ai lavori dei vari settori disciplinari, andavano
creando
una
continuamente
determinata
messa
a
immagine
confronto
con
dell’“altro”,
quello
che
rappresentava – o voleva rappresentare – l’Europa nel e col
proprio mito.
Citando nuovamente Dal Lago,
Ciò che mi sembra decisivo […] non è il ciarpame di qualche nostalgico,
ma la ricollocazione di ogni possibile simbolo xenofobo nell’opposizione
“noi/loro” (1999: 104).
Rivolgere lo sguardo a queste porzioni di passato, non
significa infatti osservare un oggetto da museo rinchiuso in
una teca, ma significa capire quali riflessi, quali strascichi,
quali risonanze di storia – politica, sociale e del pensiero – ci
si porta dietro, e come questi si adattano a nuove esigenze. Il
paragone tra “noi” e “loro”, mai scomparso, fa sempre
emergere un migliore e un peggiore, un superiore e un
inferiore, secondo una specifica scala di valori creata
stabilendo un prima e un dopo, un avanti e un indietro, un
“già” e un “non ancora”, opposizioni inconciliabili che
guidano molto spesso le nostre interazioni sociali o il nostro
modo di vedere il mondo, gli eventi e i soggetti che lo
attraversano.
Si tratta di un modo di pensare ancora diffusissimo –
discendente diretto delle dottrine sviluppatesi nel XIX secolo
– che è quello che dice “pre-politica” una società con
40
un’organizzazione sociale diversa dallo stato-nazione, “prelogica” una società con modi di pensare e concepire la
spiritualità e la quotidianità diversamente dalle religioni più
istituzionalizzate e dal metodo scientifico, “pre-industriali”
coloro che non si avvalgono di un’economia di stampo
capitalistico. E fa dire anche “società semplici” piuttosto che
“società complesse”, come se tutti si partecipasse della stessa
storia – lineare, continua, senza balzi, frammentazioni o
rotture, e sempre rivolta verso un presunto futuro orientato in
un unico e irreversibile senso di marcia –, come se “noi”
costituissimo il punto di riferimento indiscusso a cui guardare
per valutare rispetto ad esso la propria posizione: chi non è
come noi, probabilmente “aspetta” di diventare come noi, è
indietro e per qualche ragione non ci ha ancora raggiunto. Ed
è come se tutto ciò che si pensa non ci appartenga, in quanto
occidentali, si possa e si debba definire “per difetto”, in via
negativa, togliendo sempre qualcosa.
La letteratura postcoloniale ha contribuito a mettere in
luce le dinamiche politiche sottese alla colonizzazione
europea e supportate da più ampi discorsi filosofici. A questo
riguardo, mi sembrano particolarmente significative le parole
dello storico postcoloniale indiano Dipesh Chakrabarthy, che
ben sintetizzano questo tipo di orientamento:
Nell’Ottocento lo storicismo ha consentito all’Europa di dominare il
mondo. Detto sommariamente, esso rappresenta un’importante forma
assunta dall’ideologia del progresso o dello “sviluppo” dall’Ottocento in
poi. Lo storicismo ha consentito di pensare la modernità e il capitalismo
non solo come fenomeni globali, ma anche come fenomeni che sono
andati globalizzandosi nel tempo, fenomeni che hanno avuto origine in un
luogo (l’Europa) per poi diffondersi altrove. La struttura del tempo storico
globale del tipo “prima in Europa e poi nel resto del mondo” era storicista
[…] Lo storicismo intendeva il tempo storico come la misura della
presunta distanza culturale che separava (almeno dal punto di vista dello
41
sviluppo istituzionale) Occidente e non-Occidente. Nelle colonie, esso
legittimava l’idea di civilizzazione (Chakrabarty 2004: 21).
E’ importante insistere sul momento storico della
massima espansione del colonialismo europeo, poiché
rappresenta la fase in cui si gettano le basi di quello che oggi
è diventato un pregiudizio comune, così comune e così
radicato da non poterlo neanche distinguere e astrarre
facilmente
dal
linguaggio
politico,
legislativo,
dell’informazione o del parlato quotidiano. Emerge infatti nei
discorsi tra amici in un bar, tra sconosciuti sui mezzi
pubblici, tra studenti, tra docenti e formatori, tra operatori
agli sportelli; costituisce una sorta di substrato semiotico su
soventemente
ci
si
appoggia
ingenuamente
e
automaticamente, senza neanche averne coscienza.
E le scienze sociali, fra cui la stessa antropologia, sono
indenni da questo genere di automatismi? La risposta è no,
nella misura in cui esse stesse discendono e si connaturano, al
momento del loro esordio accademico, a questo tipo di
pregiudizio. Le teorie evoluzioniste, le dottrine sulla razza e il
mito del progresso che hanno preso forma nel corso
dell’Ottocento, sono state determinanti anche per le scienze
sociali e ne hanno indubbiamente influenzato i caratteri alla
nascita.
Ugo Fabietti ha tracciato la cornice teorica entro la
quale si inscrive la nascita dell’antropologia17, ponendo in
evidenza il quadro economico, politico e sociale che ha
permesso all’evoluzionismo di penetrare attraverso i discorsi
scientifici e di avere successo per molto tempo anche in quel
campo di saperi che avrebbe scoperto l’importanza del
relativismo culturale molto tempo dopo, e che molto tempo
17
Fabietti Ugo (a cura di), Alle origini dell’Antropologia, Bollati
Boringhieri, Torino 1980.
42
dopo sarebbe stato in grado di mettersi in discussione ed
autoesaminarsi criticamente.
Lo sviluppo tecnologico, scientifico, economico e
politico britannico in epoca vittoriana, ha generato un’idea di
progresso che si è trasformata in vera e propria ideologia a
carattere universalizzante. Le caratteristiche fondamentali del
progresso erano la sua cumulatività e la sua continuità
(Fabietti 1980: 14), come se il sapere si depositasse in modo
ordinato e lungo un percorso rettilineo (e le innovazioni
tecnologiche supportavano in termini materiali questa
posizione), in base al quale fosse dunque possibile stabilire
l’arretratezza o meno rispetto a tale incedere senza sosta dello
sviluppo. Naturalmente non fu solo la sfera della cultura
materiale e dello sviluppo della tecnica a fornire degli
strumenti per appoggiare le teorie evoluzioniste, anche se è
indubbio che esse rappresentassero la prova tangibile di quel
determinato principio filosofico del progresso. In molti altri
settori disciplinari, numerosi studiosi si cimentarono,
nell’archeologia come nella linguistica o nella biologia, a
classificare, ordinare e comparare, giungendo ovunque al
medesimo risultato. È questo consenso generale che permette
a Fabietti di asserire che l’antropologia è il frutto del clima
intellettuale dell’Inghilterra di metà Ottocento, e che i
precursori legittimi della disciplina vanno rintracciati proprio
in questo momento storico e non altrove:
L’antropologia […] è nata come effetto di un lento processo di
aggregazione di discorsi e di quadri epistemici differenti tra loro,
provenienti da contesti di sapere molto lontani gli uni agli altri, ed è solo
al momento in cui vediamo un certo numero di individui riconoscersi in
un linguaggio e in una pratica di ricerca che noi possiamo cominciare a
parlare di “origini dell’antropologia” (Fabietti 1980: 11).
43
Grazie alla convergenza di più ricerche, indagini ed
elaborati accademici, era diventato possibile parlare del “noi”
(l’uomo vittoriano borghese dell’Ottocento) come del punto
di arrivo della civiltà, un “noi” come misura di tutte le cose,
e degli “altri” come coloro che si trovavano a dover colmare
delle
lacune
nel
procedere
rettilineo
ed
uniforme
dell’evoluzione e della storia, secondo un sistema di
riferimento assoluto in base al quale gli “altri” si
posizionavano, con alcune differenze di grado, poco o molto
indietro rispetto a “noi”. Tutto ciò era reso possibile grazie al
confronto dei reperti archeologici, dei resoconti etnografici a
disposizione, che fornivano fra l’altro dei “dati di fatto” che
testimoniavano inequivocabilmente la condizione differente
in cui vivevano le società umane extra-europee. Al centro
delle
riflessioni
evoluzioniste
(in
campo
biologico,
archeologico, antropologico e così via), si collocava anche il
grande dibattito circa “le origini” della civiltà. In quel
percorso lineare della storia, secondo l’evoluzionismo,
qualcuno era rimasto più indietro rispetto a qualcun altro –
c’erano i reperti e i rapporti etnografici a darne prova. Le
società “altre” erano perciò considerate “sopravvivenze” di
un passato arcaico ormai superato dai più civilizzati. Al
culmine dello sviluppo della civiltà, naturalmente, si poneva
l’uomo occidentale europeo. Da qui anche la sorta di
vocazione “missionaria” – questa volta più laica rispetto a
quella evangelizzatrice dei secoli precedenti – per poter
liberare dall’inciviltà, dall’arretratezza, dall’inferiorità tutti
coloro che erano rimasti per qualche ragione estranei al
processo di sviluppo eurocentricamente inteso.
E’ importante, a questo proposito, citare un passaggio
ulteriore messo in evidenza da Fabietti. Dall’ottimismo
positivistico di matrice illuminista, si passava, in Inghilterra e
44
poi in Europa nel XIX secolo, ad una serie di sconvolgimenti
politici ed economici dettati dai traumi conseguenti alla
rivoluzione industriale, alle disfatte napoleoniche, che tutto
sembravano voler rappresentare tranne che progresso
razionale. L’“altro”, a questo punto, subiva inevitabilmente
gli effetti delle frustrazioni generate dalle aspettative
insoddisfatte di ordine politico, sociale, morale richieste dagli
euro-occidentali
del
tempo.
Chi
non
partecipava
a
quell’esigenza e ansia di ordine, sviluppo e progresso,
incarnava perciò una degradazione, una degenerazione.
Spiega Fabietti:
Allo stesso modo in cui il “selvaggio”, l’altro, aveva trovato un posto
nella storia del genere umano proprio grazie alla’ideologia progressista e
ottimista degli illuministi, col declino di questa e con l’esclusione della
ragione dall’orizzonte del progetto politico e sociale, il selvaggio si
ritrovò estromesso dalla storia (1980: 36).
Tutta una parte di umanità non aveva proseguito nello
sviluppo, ed era come decaduta. Senza entrare nel dettaglio
dei complessi dibattiti ideologici e filosofici del tempo,
dall’evoluzionismo al degenerazionismo, nonostante le
direttrici cambiassero, tutto l’argomentare sull’ “altro”
muoveva da uno stesso assunto fondamentale, e cioè
l’irriducibilità di una differenza, più o meno inaccettabile,
che si sentiva il bisogno di “mettere a posto”, di collocare, di
aggiustare e migliorare.
Al di là della credibilità e della “scientificità” rincorsa
con affanno per dimostrare l’arretratezza e l’inferiorità di
individui o categorie, il fatto più importante è che, comunque,
“il mito accettato come realtà, diventa la realtà” (Mosse
2005: VIII). Il mito del progresso, il mito della superiorità
della razza erano di fatto stati accettati come veri,
45
rappresentati da oggetti e fatti concreti e dall’evidente
differenza riscontrata presso i diversi soggetti e modi di vita
estranei al mondo euro-occidentale.
Scrive Mosse:
I miti narrano gli svariati modi in cui il sacro penetra nel mondo, sono
soprannaturali storie sacre che intervengono per offrire modelli […] a
tutta l’attività umana. Questi modelli tuttavia non rimangono astratti, ma
sono concretizzati in simboli. […] Il mito e il simbolo creano un mondo
senziente e vivente, non astratto (Mosse 2005: 10).
L’ostilità nei confronti dell’“altro” si faceva strada nel
momento in cui le tendenze filosofiche e i miti stessi
cambiavano forma, pur mantenendo la stessa sostanza (quella
del differenzialismo e delle opposizioni irriducibili noi/loro):
dal nobile selvaggio dei primitivisti si passava, come si è
detto, a considerare l’“altro” come simbolo di atavismo e di
regresso.
In apertura a questo paragrafo sono stati citati gli zoo
umani, che qui funzionano da cerniera per chiudere questa
digressione.
La
rigogliosa
letteratura
scientifica
dell’Ottocento, dalle scienze naturali alle scienze umane, ha
prodotto, con le sue classificazioni gerarchizzanti, tutta
l’ostilità, il disprezzo e gli atteggiamenti pregiudizievoli
verso l’“altro”, da cui ancora non possiamo ritenerci liberi.
Questo è stato possibile anche grazie al contatto diretto non
solo dei viaggiatori e dei ricercatori, ma anche della gente
comune,
con
l’“altro”
stesso.
L’oggettivazione
della
differenza è fondamentale per sostenere il mito della
differenza stessa. La gente, ieri come oggi, ha bisogno di
poter vedere e toccare l’oggetto delle sue fantasie, ha bisogno
di testare e confermare la bestialità e
ritiene tanto diverso.
46
l’inferiorità di chi
In questo modo, la costruzione dell’immaginario
collettivo sull’“altro” aveva preso avvio, e ancora oggi il mito
sulla superiorità del “noi” e l’inferiorità del “loro” non ha
perso il suo vigore e la sua capacità di penetrazione nel
quotidiano.
1.3.2 Stereotipi e pregiudizi
Il fine di tale riflessione sui concetti di stereotipo e
pregiudizio si allaccia al percorso intrapreso in precedenza,
che evidenzia come, a livello storico, si sia prodotto l’attuale
modo di interpretare, convivere e relazionarsi con l’“altro”,
un “altro” che oggi globalizzazione e transnazionalizzazione
rendono molto più vicino a noi. L’immigrazione si presenta
in questo senso come un fenomeno in grado di rimettere in
discussione i modelli di relazione e compartecipazione allo
spazio pubblico e politico all’interno del corpo sociale.
Si aprirà una finestra su alcune interpretazioni teoriche
di vari scienziati sociali che si sono occupati dei concetti di
stereotipo e pregiudizio e del loro funzionamento. La
letteratura di riferimento appartiene in primo luogo agli studi
anglo-americani condotti a partire dagli anni Cinquanta. Essa
presenta pertanto evidenti limiti per la sua collocazione
temporale, che la rende inevitabilmente datata, e per le
circostanze storiche e politiche entro le quali prende forma –
il clima postbellico e della guerra fredda.
Tuttavia i contributi di questi autori conservano
un’indubbia utilità sia per il fatto di essere stati fra i primi a
riconoscere negli stereotipi e nei pregiudizi dei generatori di
esclusione e violenza sociale, sia per aver spostato lo studio
di tali fenomeni dal piano dell’individuale al piano del
47
collettivo. Grazie anche a questi autori, si è potuto
riconoscere che stereotipi e pregiudizi possono essere
analizzati come fatti sociali, il che ha significato sottrarli a
quella logica che li considerava dei processi esclusivamente
legati alle psicologie individuali. Ammettere che un
determinato fatto è sociale e non personale, significa
ricondurlo alla sfera del collettivo, e questo non è certo un
passaggio teorico trascurabile. Così ad esempio scriveva
Herbert Blumer negli ultimi anni Cinquanta, criticando i
lavori precedenti che riconducevano a caratteristiche innate
dell’individuo i comportamenti razzisti:
Una comprensione fondamentale del pregiudizio razziale deve essere
cercata nel processo attraverso cui il gruppo razziale forma l’immagine di
sé e degli altri. Questo processo […] è essenzialmente un processo
collettivo. Esso opera principalmente attraverso i mezzi di informazione,
grazie ai quali i commentatori che fanno parte di un certo gruppo razziale
dipingono pubblicamente un altro gruppo (Blumer 1958, in Alietti,
Padovan 2005: 118).
Chiamare in causa i mezzi di informazione diventa
fondamentale perché, ieri come oggi, la stampa e i media
concorrono a plasmare l’opinione pubblica e le sue
percezioni di sé e dell’“altro”. Se si analizzasse il linguaggio
con cui l’“altro” è presentato dai vari mezzi di comunicazione
– e alcuni esempi di questi processi di plasmazione attraverso
parole e linguaggi della comunicazione di massa saranno
citati nei capitoli successivi – si noterebbe la densa farcitura
di pregiudizio che riempie i corpi e l’idea stessa dell’“altro”,
pur essendo questo pregiudizio difficile da stanare poiché
parte di un patrimonio condiviso e accettato dai più.
Blumer e gli altri autori che saranno citati in questo
paragrafo provengono da scuole e discipline legate alla
sociologia, alla psicologia, alla psicologia sociale. La scelta
48
di tali riferimenti disciplinari è dovuta non alla volontà di
riorientare la riflessione in senso psico-sociologico, ma al
fatto che il tema del pregiudizio e dello stereotipo hanno
conosciuto il primo maggiore sviluppo presso altre discipline
piuttosto che nell’ambito dell’antropologia. La spiegazione a
questo “ritardo” nella comparsa dell’interesse di approfondire
queste tematiche risiede probabilmente nel fatto che
l’antropologia si è inserita nei discorsi sui conflitti sulla base
di pregiudizi – razziali, etnici – quando il terreno era più
fertile per essa e per i suoi strumenti di osservazione e analisi,
e cioè quando hanno cominciato ad emergere, in seguito
soprattutto alle destabilizzazioni della colonizzazione e al
riesame critico dell’etnologia classica al suo stesso interno, le
dinamiche identitarie di stampo etnico, dando luogo ad un
cambiamento di oggetti di ricerca e persino di paradigmi. Da
allora è stato importante includere e riconsiderare secondo
nuove prospettive la costruzione delle identità etniche, il
conflitto, i rapporti fra gruppi subalterni e dominanti, e le loro
conseguenze sull’assetto sociale. Prima di questa svolta, chi
si era occupato di pregiudizio aveva una formazione
psicologica e per lo più mirava a sostenere o a verificare la
presenza o meno di atteggiamenti pregiudiziali in individui
con determinate caratteristiche personali, innate e del tutto
specifiche di quei casi isolati. A partire dagli anni Cinquanta
è diventata invece più comune presso diversi settori
disciplinari l’esigenza di trasferire al livello del collettivo e
del sociale ciò che fino ad allora era stato ascritto ad attributi
individuali. E come spesso accade, il convergere e coincidere
di vari avvenimenti storici, politici e socio-culturali
determina nuovi bisogni, nuove domande e nuove lenti
attraverso cui guardare i fenomeni sociali.
49
Fatte queste premesse, si possono menzionare i vari
contributi teorici mettendone in luce gli aspetti positivi, ma
distanziandosi di volta in volta da quegli assunti, secondo i
quali alcuni procedimenti del pensiero e del comportamento
umano, essendo risposte automatiche agli stimoli che il
cervello riceve dall’esterno, sarebbero inevitabili. Questa
caratteristica di alcuni processi cerebrali potrebbe infatti
indurre a pensare – e non è questa la nostra intenzione – che
la denuncia contro un qualsiasi pregiudizio rimarrebbe
sempre e comunque molto debole se non addirittura inutile.
“Qualcuno ha detto che è più facile smantellare un
atomo che un pregiudizio”, scriveva Gordon Allport (1973)
nella prefazione a La natura del pregiudizio, uno dei suoi
lavori più rappresentativi su questo tema che per molto tempo
ha rappresentato il riferimento principale per l’analisi delle
dinamiche psico-sociali del razzismo. Ciò che in più
occasioni non manca di sottolineare Allport è infatti la grande
funzionalità del pregiudizio e del pensare per stereotipi:
esistono sempre delle buone ragioni per non separarsi da
queste modellizzazioni, il cui uso ci evita sforzi di
ragionamento, trova consenso presso le nostre conoscenze e
amicizie, allontana il rischio di destrutturare i nostri schemi
mentali (1973: 33-34) – ovvero le nostre certezze.
Più recentemente, a sostegno di questa indiscutibile
utilità di produrre classificazioni e modellizzazioni, Pierre
André Taguieff
nel suo importante saggio La forza del
pregiudizio, in cui sottoponeva a esame sia l’ideologia legata
al razzismo che quella legata all’antirazzismo, invitava a
rinunciare a condannare in toto stereotipi e pregiudizi come
procedimenti
erronei
e
irrazionali,
malformazioni del pensiero:
50
come
sorta
di
Se ci proponiamo infatti di stanare e reprimere certe forme complesse di
pregiudizi
detti
“razziali”,
ugualmente
consideriamo
l’idea
programmatica di un mondo senza pregiudizi come una fantasia capace di
sollecitare utopie nefaste (1994: 17).
Non solo è inimmaginabile, ma è anche pericoloso
pensare
di
eliminare
quei
processi
mentali
di
categorizzazione che, in ultima analisi, sono un dispositivo a
cui ricorriamo per muoverci nel mondo, per rendere più
sottile il margine di rischio di perderci nella complessità
inafferrabile del reale.
Chi per primo aveva introdotto il concetto di stereotipo
nell’area di studi delle scienze sociali e lo aveva
strenuamente condannato per essere una vera e propria
distorsione del pensiero, era stato, Walter Lippmann. Nel
1922, a seguito della celebre pubblicazione di Public
Opinion18, il termine si diffonde ed inizia ad essere trattato
come oggetto di indagine da scienziati e psicologi sociali.
Lippmann, giornalista di professione, sviluppava il suo
ragionamento sugli stereotipi a partire dall’etimo della parola,
naturalmente molto nota nel suo ambiente di lavoro: come lo
stampo tipografico, lo stereotipo è quel modello originario da
cui derivano tutte le altre copie identiche. In questo modo,
una caratteristica di un singolo viene estesa a tutti gli altri
membri che appartengono al suo gruppo, come se fossero
tutti uguali gli uni agli altri. In quanto semplificatorio e
generalizzante, incapace di cogliere la complessità, lo
stereotipo subisce la pesante condanna di Lippmann: lo
stereotipo, in questo senso, è associato esclusivamente allo
stigma, e nel suo sguardo miope alla realtà, non è altro che
un’etichetta superficiale apposta a gruppi che in qualche
18
Trad. it. L’opinione pubblica, 1995, Roma, Donzelli Editore.
51
modo e misura si tende a giudicare in modo sbrigativo per
giustificarne poi la marginalizzazione.
La
connotazione
esclusivamente
negativa
dello
stereotipo viene smussata da ricerche successive, come si è
visto, di stampo più sociologico e psico-sociale, che mirano
ad evidenziare l’importanza del contesto sociale, delle
dinamiche tra gruppi e della costruzione dell’identità sociale,
che spesso non possono fare a meno delle stereotipizzazioni.
La percezione faziosa e distorta dell’individuo, viziata dagli
stereotipi, va inserita in un più ampio contesto, ed analizzata
in base ad esso. Come scrive Tajfel,
The functioning and use of stereotypes result from an intimate interaction
between (the) contextual structuring and their role in the adaptation of
individuals to their social environment (1981: 146).
La stereotipizzazione è dunque da interpretarsi come un
anello di congiunzione tra l’individuale e il sociale, uno
schema
del
pensiero
che
permette
all’individuo
di
destreggiarsi nel mondo. Non a caso Tajfel inserisce la
riflessione sugli stereotipi all’interno dello studio delle
dinamiche
di
gruppo,
delle
relazioni
intergruppo
e
intragruppo: l’individuo e le sue percezioni e comportamenti
sono da tenere in considerazione, ma non sono da assumere
come valore assoluto a cui ridurre l’analisi. Riconoscere che
l’io è parte di un “noi”, significa riconoscere che la
partigianeria per il modo personale di interpretare gli eventi e
di agire è parte di una partigianeria più ampia che si riferisce
alle proprie affiliazioni e appartenenze, che prendiamo a
riferimento e presso cui cerchiamo riconoscimento.
Anche le varie teorie dell’identità sviluppate in ambito
sociologico, hanno affermato come la personalità di ciascuno
si costruisca grazie a relazioni su più livelli: si parla infatti di
52
identità sociale, personale, collettiva, rinviando in ciascuno di
questi casi ad una specifica dimensione intersoggettiva del sé
con l’ambiente (Sciolla 2010: 37-40).
Inserendo queste suggestioni teoriche all’interno del
discorso su stereotipi e pregiudizi, in ogni ambiente sociale,
di cui quello sanitario costituisce in questo lavoro la specifica
area di interesse, è sensato pensare che l’“altro” venga
immaginato e riconosciuto in prima istanza attingendo da un
vasto patrimonio di immagini, prodotto storico di un ampio
processo, che ha creato una serie di rappresentazioni
stereotipiche che adoperiamo molto facilmente e molto
comodamente, come fossero quasi degli automatismi del
pensiero e dell’azione. Lo scopo di studiare i meccanismi di
produzione di stereotipi e pregiudizi – e dunque anche lo
scopo di questo lavoro – dovrebbe essere quello di svelarne le
falle, e di poterli mettere in discussione nel momento in cui
diventano strumento di discriminazione.
Ma il vero nodo centrale della questione è da un lato
riconoscere la necessità di semplificare la realtà ricorrendo
agli stereotipi, a quei cliché che permettono di rendere più
semplici e familiari fenomeni di varia natura e complessità,
dall’altro sorpassare il presupposto secondo il quale lo
stereotipo e, nella sua manifestazione più concreta e
sistematizzata, il pregiudizio, siano meccanismi di pensiero e
azione sociale inevitabili, automatici, a tal punto da diventare
insuperabili. Tra la dispersione nella complessità del reale e
l’ipersemplificazione della stessa, esistono dei processi
intermedi che sono resi possibili proprio dall’esperienza
individuale in connessione con l’ambiente e le relazioni
sociali.
Se si accetta indiscriminatamente il presupposto per cui
il nostro comportamento è ridotto ad automatismi dettati dal
53
funzionamento cerebrale, si tornerebbe a considerare il
cervello umano in termini meccanicistici, e si potrebbero
trovare giustificazioni ai comportamenti in quanto semplici
risposte a comandi di natura organica. In questo modo si
ammetterebbe pertanto che non ci sono alternative, che
abbiamo una facoltà di scelta molto limitata. Per non cadere
nella trappola del meccanicismo, gli studi neuroscientifici
offrono un contributo molto valido: da diversi anni si
impegnano
a
dimostrare
come
una
delle
principali
caratteristiche del cervello umano sia proprio la sua
plasticità: l’interazione continua del cervello, che è un’entità
dinamica,
con
l’ambiente
sociale
e
culturale
può
determinarne lo sviluppo, ed entrambi, essendo in interazione
fra loro, si trasformano reciprocamente19.
Questo implica abbracciare sicuramente l’idea per cui
un certo grado di semplificazione della realtà sia un reale
bisogno, senza però presumere che le operazioni di
semplificazione a) siano le risposte passive di un cervello che
reagisce sempre nello stesso modo (semplificando e
generalizzando) a determinati stimoli (la complessità delle
informazioni) e b) che quelle operazioni di semplificazione
siano degli automatismi così inevitabili (poiché, in definitiva,
dominati da processi fisiologici) da considerarli l’unico modo
per guardare e interpretare la realtà. Sarebbe forse opportuno
considerare la complessità e la semplificazione come estremi
di un continuum, all’interno del quale esiste un’infinita serie
di gradazioni diverse, in modo tale da non dover scegliere,
secondo una logica dell’ aut aut, l’una o l’altra. Allora si
potrà propendere verso un polo o verso l’altro, consapevoli
che la complessità può essere decomplessificata per gradi, e
non solo semplificata attraverso tagli netti.
19
Per un’applicazione delle teorie neuro scientifiche agli studi
antropologici, si rimanda nuovamente a Pussetti (2005).
54
A questo punto, avendo menzionato l’idea del “taglio”,
si può tornare al problema delle dicotomie e riportare la
riflessione al tema centrale di questo lavoro.
Quando un individuo, o nel caso specifico di questo
lavoro, un operatore sanitario, si trova davanti un altro
individuo o un paziente che, per caratteri i somatici o per altri
indicatori, evoca l’idea della diversità, dell’alterità, ecco che,
per riconoscerlo e interagire con lui, dovrà fare appello a
determinate rappresentazioni, spesso grossolane, decidendo
di tagliare, recidere ed escludere la complessificazione. Si è
visto che ci sono voluti secoli di storia per foggiare un certo
immaginario da cui attingere spunti per interpretare la
“differenza” così come, almeno noi occidentali, vediamo in
chi “non è come noi”. Non appiattire l’“altro” alle sue sole
differenze
rispetto
a
noi,
non
significa
negarle
completamente, ma magari significa riconoscerne alcune
lasciando aperta la possibilità di scovare delle somiglianze.
Questa apertura al “dubbio” che oltre alla differenza
possa esistere la somiglianza e oltre alla somiglianza la
differenza, significa allora non dicotomizzare, non tagliare in
modo netto, come vuole il “paradigma” identità versus
differenza, ma lasciare spazio a possibilità intermedie.
1.4 DECOSTRUIRE PER RICOSTRUIRE: PERCHÉ
OCCUPARSI
DI
PREGIUDIZIO
IN
AMBITO
MEDICO-SANITARIO
Una delle tesi di fondo di questo lavoro è il
riconoscimento del potenziale del pregiudizio – prodotto
culturale oltre che e prima che psicologico individuale – un
potenziale enorme che ha capacità di penetrazione su molti
55
livelli del vivere sociale, e le cui basi spesso fantasiose non
cessano di esercitare una grande influenza nel nostro
relazionarci all’“altro” e nel riprodurre dinamiche e retoriche
differenzialiste su cui basare azioni politiche dal risultato
discriminatorio. Il tentativo è quello di far emergere, anche
attraverso le voci incontrate nella ricerca di campo, quali
meccanismi portano ad interpretare una differenza somatica
in modo pregiudizievole, e quanto questa interpretazione sia
fondata su astrazioni più che su dati empirici. Può poi essere
utile indagare il tipo di pregiudizio utilizzato per istituire
delle differenze e marcare delle distanze, tentando di capire
con che cosa si ha a che fare: si tratta di pregiudizi che
disprezzano, denigrano e osteggiano l’“altro” o di pregiudizi
che, con fare pseudo-filantropico tollerano l’“altro” in virtù
della sua “innocente inferiorità”? E quale differenza c’è,
infine, tra questi due atteggiamenti nei risultati pratici? E
questa differenza esiste davvero oppure si tratta di due modi
diversi di intendere ed esercitare, ancora una volta, un potere
di esclusione nei confronti dell’“altro”?
Si tratta di domande legittime, ma ci sono alcuni
elementi che a tutte queste domande e alle loro possibili
risposte funzionano da base e da sfondo.
Evitare i tagli netti delle semplificazioni stereotipiche e
del pregiudizio, significa decomplessificare con gradualità la
realtà. Significa, in un certo senso, poter essere più
disponibili ad individuare quell’incrinatura nelle rigide
strutture degli immaginari, o quella falla nell’ingranaggio
quasi
perfetto del pensare per stereotipi o dell’agire
pregiudizievole, che permettono di leggere la realtà in un
modo diverso, più aperto e meno portato all’esclusione
aprioristica.
56
Francesco Remotti, in Cultura. Dalla complessità
all’impoverimento (2011), ha offerto degli strumenti teorici
che, a mio giudizio, si adattano molto bene a queste
riflessioni. Riformulando il concetto di cultura, quel
controverso e dibattuto oggetto di studio della disciplina
antropologica, sostiene la tesi delle “culture a densità
variabile” (2011: 231). Considerandola un’entità non
uniforme, si possono riconoscere al suo interno, zone più o
meno intense e zone ignorate dalla cultura stessa, lacune,
zone in ombra dove la cultura esercita meno impegno, verso
cui dirige un minor interesse. Lo “spessore” e la “densità”
culturale sono in rapporto inversamente proporzionale con
l’automatismo, l’abitualizzazione, la sedimentazione (ivi:
230) dei modelli culturali, che aumentano il senso di stabilità
ma riducono la consapevolezza e la possibilità di ulteriori
approfondimenti.
Il vantaggio […] di un’adeguata penetrazione e di una conseguente
impregnazione da parte di un modello culturale consiste nel far scendere
nel corpo – e non solo nella mente – idee e valori; il corpo viene
“abitualizzato” e nel suo comportamento riproduce particolari modelli
culturali, che non richiedono più di essere appresi e su cui non c’è più
bisogno di riflettere. Il prezzo che si paga invece è la relativa scomparsa
della dimensione ideativa della coscienza (ivi: 230).
Ciò che non dovrebbe accadere è pensare che
immaginari, stereotipi e pregiudizi siano tanto sedimentati da
essere ormai inevitabili. Per quanto si sia cercato di
dimostrare che la percezione dell’alterità sia una costruzione
massiccia che affonda le radici nella storia di secoli fa, questo
non deve indurre a pensare che non esistano alternative e che
siano ormai processi normalizzati. Decostruire i meccanismi
che producono e perpetuano quegli immaginari, stereotipi e
57
pregiudizi significa destabilizzare un rigido basamento, ma
significa anche sottoporre ad un’attenta critica quella che si
crede un’ovvietà.
Lasciando uno spazio riflessivo ai modelli culturali che
si sono acquisiti, significa optare per una cultura più densa,
che non abbandona la possibilità di riflettere e di riflettere su
se stessa:
Una cultura densa non si semplifica troppo e non semplifica troppo la
realtà: mantiene un certo senso della complessità delle cose, della società
e dei rapporti con gli altri (ivi: 243).
Questo percorso di (auto)analisi e di (auto)critica si
presenta dunque come modesto tentativo di far luce su alcune
zone scure della relazione fra noi e l’ “altro” per acquisire
una consapevolezza maggiore al riguardo e, se possibile,
deviare
da
quelle
strade
che
inducono,
quasi
automaticamente, a creare delle differenze anche quando, a
ben vedere, non esistono, o a non riconoscerle e non
considerarle legittime quando esistono.
Nel
capitolo
che
segue,
saranno
illustrate
le
metodologie della ricerca di campo condotta nei Pronto
Soccorso torinesi e in altri ambienti che sono stati utilizzati
per l’osservazione delle dinamiche di formazione ed esercizio
dei pregiudizi.
Ciò che mi interessa dimostrare è indubbiamente la
forza del pregiudizio stesso e la sua natura fondamentalmente
immaginaria che ciononostante non ne mina il potere di
influenza. Ribadire l’esistenza del pregiudizio multiforme che
pervade la comunicazione di massa, il linguaggio di
documenti legislativi e degli esperti impegnati nella
formazione e informazione in materia di immigrazione, o lo
58
scambio nella relazione interpersonale, non rappresenta certo
nulla di innovativo.
Ma ritengo utile, oltre a far emergere gli aspetti più
latenti, sottili e indiretti del pregiudizio, per dimostrare
quanto la “logica del taglio netto” identità/differenza sia
presente nel discorso politico, scientifico e del senso comune,
menzionare quale sia stata quella “falla nell’ingranaggio” del
pregiudizio che mi ha permesso di esercitare quel “dubbio”
fertile che ha aperto la strada ad una possibile alternativa a
tale logica.
Il campo cela sempre qualche sorpresa. Ci si affanna,
prima di intraprendere qualsiasi ricerca, di qualsiasi
dimensione e spessore, a creare griglie tematiche, a
indovinare possibili scoperte o a creare aspettative su quanto
si potrà indagare, sulle risposte che si potranno ottenere. Una
volta sul campo, invece, accade sempre qualcosa di
imprevisto, qualcosa che non si è riusciti a programmare.
Ascoltando le voci degli interlocutori, stando a contatto con
l’ambiente che si è eletto a terreno di ricerca, l’occhio cade
immancabilmente su un dettaglio inaspettato che ribalta le
prospettive, che rompe gli schemi e costringe a rivedere le
proprie aspettative e i propri intenti.
Nella mia personale esperienza, ho trovato certamente
molto materiale a sostegno della tesi dalla quale ero partita:
esiste un pregiudizio diffuso fra il personale medico nei
confronti di pazienti immigrati. Muoversi all’interno di
ospedali e ambienti affini mi ha sicuramente dato la
possibilità di osservare comportamenti e movimenti che
rientrano a pieno titolo dentro le categorie “pregiudizio” e
“stereotipo”, ma ciò che si è rivelato ancora più interessante e
che mi ha permesso di andare oltre a questa evidenza forse
59
poco originale, è stato quel “dettaglio inaspettato che ribalta
le prospettive”.
Dopo un’esperienza di ricerca sulla salute di migranti –
soprattutto
rifugiati
politici
e
titolari
di
protezione
internazionale – condotta tra febbraio e giugno del 2012, ho
avuto modo di relazionarmi con persone delle più svariate
provenienze. Prima di avviare le interviste20, nelle quali erano
previste alcune domande di portata generale a proposito
dell’idea di salute e malattia (dello “star bene” e “star male”)
degli interlocutori, non nascondo di aver ceduto alla
tentazione di immaginare risposte dal sapore anche solo
leggermente “esotico”. Avendo a che fare con persone di
origine diversa dalla mia e tendenzialmente lontane a livello
geografico e socio-culturale, mi immaginavo che questa
“differenza” emergesse con forza. Così non è stato. Al
contrario, le risposte che sono state fornite dagli interlocutori
erano sorprendentemente vicine alle mie, alla mia idea di
salute e malattia, alla mia percezione del Servizio Sanitario
Nazionale, e il dato culturale tanto agognato è risultato
praticamente assente.
Esattamente questa somiglianza tra le mie (nostre)
percezioni e le “loro” ha attirato la mia attenzione e mi ha
stimolato a creare delle connessioni, da un lato tra il
pregiudizio che viene alimentato e riprodotto nei contesti
sanitari considerati e la logica identità/differenza riproposta
in ogni discorso (politico e del senso comune), e dall’altro tra
la
voce
di
quegli
interlocutori
che
facevano
inconsapevolmente luce sulla necessità di recuperare il senso
della complessità e il valore delle relazioni, quelle “cose” che
non sono mai ovvie e mai semplici, e grazie a questo sono in
20
La ricerca sarà presentata in modo dettagliato nel Capitolo II.
60
grado di aprire la strada al mutamento, anche a quello degli
elementi che si considerano più immodificabili.
61
Capitolo II
SOGGETTI, TERRENI E METODI
Fare etnografia è come cercare di leggere (nel senso di “costruire
una lettura di”) un manoscritto – straniero, sbiadito, pieno di
ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti
tendenziosi, ma scritto non in convenzionali caratteri alfabetici,
bensì con fugaci esempi di comportamento strutturato.
(Clifford Geertz, Interpretazione di culture)
Le pagine che seguono sono dedicate alla descrizione
dei soggetti incontrati durante la ricerca, dei terreni che si
sono per così dire “calpestati” per incontrare quei soggetti,
dei metodi utilizzati per stabilire con essi un contatto e della
letteratura di supporto per interpretarne le voci.
Gli strumenti di indagine sono variati nel corso del
tempo, hanno subito adattamenti, e sono in ogni caso di
origine e natura composita. Ho ritenuto infatti che per
affrontare il tema di tesi fosse necessario sfruttare più
strategie osservative e documentative.
Questa decisione nasce da un insieme di riflessioni
scaturite dal tentativo di rispondere alla domanda, che ha
funzionato come motore primario della ricerca, sulla presenza
o meno di pregiudizi verso pazienti stranieri in ambito
medico-sanitario.
Se la cultura, come la definisce Clifford Geertz, è una
“sorta di documento agito” (1988), il pregiudizio, nella sua
62
caratteristica di sistema culturale e di significati, è
intellegibile attraverso la decifrazione congiunta di più codici
e di più linguaggi che si esprimono per lo più in forme
implicite e indirette. In generale,
Tranne che quando segue […] le pratiche più automatizzate della raccolta
dei dati, l’etnografo si trova di fronte a una molteplicità di strutture
concettuali complesse, molte delle quali sovrapposte o intrecciate fra di
loro, che sono al tempo stesso strane, irregolari e non-esplicite, che egli
deve in qualche modo riuscire prima a cogliere e poi a rendere (Geertz,
1998:17).
Soltanto
attraverso
l’affiancamento
e
la
ricomposizione dei diversi tipi di testi (che come si vedrà
comprendono le interviste con gli infermieri, quelle con i
migranti, i resoconti dei corsi di formazione per professioni
sanitarie, i miei appunti su ciò che potevo osservare in Pronto
Soccorso, nonché infine alcuni documenti legislativi in
materia di salute e immigrazione) è stato possibile cogliere
alcuni elementi ascrivibili al pregiudizio in ambito sanitario,
per poter rispondere così alla domanda di ricerca.
Illustrare le metodologie che ho utilizzato è come
ripercorrere a ritroso il percorso riflessivo che mi ha portato,
tappa dopo tappa, a cercare delle strategie per affrontare
dubbi e mettere in luce problemi, pur senza la pretesa di
risolverli.
63
2.1 PROBLEMI METODOLOGICI E IPOTESI DI
SOLUZIONE
2.1.1 Dalla parola, oltre la parola: l’uso delle immagini nelle
interviste con gli infermieri nei Pronto Soccorso
Esiste e si esercita un pregiudizio in ambito medicosanitario nei confronti dei pazienti stranieri? Per rispondere a
tale domanda, avevo pensato che i miei primi interlocutori
dovessero essere gli infermieri impiegati nei Pronto
Soccorso. Tale scelta deriva dal fatto che questa professione
sanitaria, più di altre, vive quotidianamente il confronto e il
contatto diretto con il largo bacino di utenza che affluisce
nelle strutture ospedaliere, si trova a dover risolvere urgenze,
a gestire i pazienti che si presentano all’accettazione, a
interpretarne
i
bisogni
e
a
individuare
le
priorità
dell’assistenza. Conoscerli, incontrarli e parlare con loro di
come ogni giorno affrontino le dinamiche relazionali con gli
utenti, mi sembrava il primo essenziale passaggio per
intraprendere la ricerca.
A questo scopo, ho contattato diverse strutture
ospedaliere per ottenere le autorizzazioni ufficiali dei direttori
sanitari ad accedere alle aree di Pronto Soccorso e
individuare al loro interno degli operatori disponibili per le
interviste.
Su cinque ospedali contattati, due mi hanno concesso
l’autorizzazione ad entrare, uno ha negato esplicitamente la
possibilità di svolgere il lavoro all’interno della struttura,
senza peraltro motivare il diniego, i due rimanenti hanno
posto una serie di ostacoli burocratici, fatti di autorizzazioni
tardive e altre farraginosità formali, che non mi è stato
possibile aggirare o superare. Laddove ho avuto accesso
64
invece, ho incontrato, superata la barriera delle autorizzazioni
degli organi dirigenziali, una grande disponibilità e un’ottima
accoglienza da
parte dei responsabili del
personale
infermieristico.
Alle interviste in ospedale hanno partecipato 10
infermieri dei Pronto Soccorso dell’A.O. Umberto I-Ordine
Mauriziano e dell’A.O.U. San Giovanni Battista-Molinette di
Torino, nello specifico 6 donne e 4 uomini, di età compresa
tra i 29 e i 49 anni. La selezione del campione è avvenuta in
modo piuttosto casuale, non avendo bisogno di requisiti
specifici, ma avendo cura di rispettare il criterio di almeno
due anni di esperienza pratica in Pronto Soccorso. La relativa
casualità selettiva era dovuta al fatto che, direttamente dalla
direzione del personale infermieristico delle strutture
ospedaliere coinvolte, veniva chiesta la disponibilità agli
infermieri di turno nelle fasce orarie compatibili a dedicare
circa un’ora extra-lavorativa a fine turno, e non tutti
chiaramente hanno avuto la possibilità o la volontà di
mettersi a disposizione.
Le mie difficoltà di accesso alle strutture ospedaliere, in
quanto esterna, e gli impedimenti personali a prolungare nel
tempo la ricerca, non mi hanno permesso di adoperare
ulteriori criteri selettivi – la specificità della professione
infermieristica ha in definitiva prevalso sugli altri criteri di
selezione – e di raccogliere un numero più elevato di
interviste. Le peculiarità di ogni singolo soggetto sono
emerse durante gli scambi informali di reciproca conoscenza
che aprivano l’intervista.
Ma sin da questo momento iniziale si poneva un
fondamentale problema metodologico. Il pregiudizio risulta
infatti essere una sorta di argomento tabù. “Svelare” il
pregiudizio in ambito medico-sanitario, significa infatti,
65
prima di tutto, togliere il velo di interdizione che ricopre tale
tematica.
Non si parla facilmente di pregiudizio, soprattutto del
proprio pregiudizio. Chiedere di poter rappresentare e
riflettere sui propri pregiudizi e sul condizionamento degli
stereotipi nel proprio vissuto professionale, può risultare
quasi oltraggioso. Tanto nelle indagini quantitative quanto in
quelle qualitative, non è possibile sottovalutare l’incidenza
della desiderabilità sociale, cioè, secondo le scienze
psicosociali, quella propensione del soggetto intervistato a
fornire risposte quanto più conformi alla norma socialmente e
culturalmente condivisa, e che possano incontrare il favore
dell’intervistatore. Indagare un tema spinoso come quello del
pregiudizio attraverso lo strumento dell’intervista, significava
perciò andare incontro a grandi rischi di idealizzazione
nell’autorappresentazione. Inoltre, gli interlocutori avrebbero
potuto ritrarsi, invece che aprirsi, se avessero avuto
l’impressione che le mie domande fossero delle insinuazioni.
Come superare l’interdizione? Come parlare di ciò di
cui non si può
parlare? Come superare
l’ostacolo
rappresentato dal non-detto? Il pregiudizio può essere molto
esplicito, ma le sue dinamiche e le sue rappresentazioni sono
profondamente implicite. Per portarle alla luce, il canale della
comunicazione verbale era dunque insufficiente, limitato e
limitante. Occorreva trovare dei metodi di indagine
alternativi, che si servissero delle parole ma che al contempo
permettessero di oltrepassarle.
Per questa ragione ho deciso di condurre le interviste
servendomi di un altro linguaggio oltre a quello verbale,
ricorrendo alle immagini.
Il percorso riflessivo che mi ha condotto a maturare
questa scelta, partiva dagli spunti emersi durante alcuni
66
incontri organizzati all’interno di un laboratorio universitario
interfacoltà, Le città (in)visibili. Tale laboratorio, a cui ho
preso parte per circa un anno e mezzo, era il frutto di
un’iniziativa spontanea e autonoma nata alcuni anni fa
dall’idea di alcuni laureandi, laureati e dottorandi, provenienti
da vari settori disciplinari umanistici, di riunirsi per
condividere esperienze, discutere e confrontare metodologie,
con il supporto di esperti chiamati a tenere lezioni e seminari
interattivi, e avviare ricerche nel contesto urbano torinese,
con la precisa volontà di sviluppare un approccio alla ricerca
fortemente improntato all’interdisciplinarietà. Durante una
lezione tenuta dalla ricercatrice messicana Leslie Hernández
Nova, che conduce da diversi anni indagini storiche
sull’esperienza migratoria, nel contesto disciplinare della
storia orale (2009, 2012), ho appreso dell’uso delle immagini
anche al di fuori dell’ambito strettamente psicologico.
Hernández Nova spiegava del ricorso a mappe cognitive nella
ricostruzione delle storie di migrazione dei soggetti delle sue
ricerche. La rappresentazione soggettiva dello spazio da parte
degli intervistati, soprattutto nelle storie di migrazione, è
fondamentale per cogliere la multidimensionalità nella
percezione della propria collocazione geografica e sociale e
dei propri spostamenti. I luoghi vissuti, immaginati e
ricordati, acquisiscono una profondità spaziale ma anche una
profondità temporale nella rielaborazione personale dei
propri percorsi. Attraverso le immagini prodotte dai soggetti
della ricerca, si possono ricavare molte informazioni che
sfuggono alla parola, pur non essendo in grado naturalmente
di sostituirla.
Le ricerche di Hernández Nova e di altri rappresentano
uno dei modi attraverso i quali è possibile mutuare uno
strumento che si è creato in seno alle discipline psicologiche,
67
ma che può avere una sua utilità anche in altri contesti
scientifici e accademici.
Per mappa cognitiva, secondo la psicologia ambientale,
si intende la rappresentazione interna che ci facciamo di un
ambiente (Baroni 2008). Il presupposto è che uomo e
ambiente siano in interazione fra loro e che quest’ultimo non
sia una realtà oggettivamente descrivibile (Bianchi, Perussia
1986), ma sia al contrario recepita in modo del tutto
soggettivo da chi lo abita, lo vive o lo attraversa. Le
informazioni spaziali che ognuno di noi acquisisce sono
relative alle emozioni, alle cognizioni, all’affettività che
entrano in gioco rispetto a quel determinato spazio, ai nostri
scopi, a ciò che di un determinato luogo giudichiamo più o
meno rilevante a livello percettivo. Le rappresentazioni
mentali dell’ambiente, che di conseguenza possono diventare
descrizioni grafiche, consentono di cogliere il punto di vista
dell’osservatore attraverso i dettagli presentati, omessi,
enfatizzati e via dicendo (Baroni 2008: 57).
La sintesi tra i fondamenti di psicologia ambientale e le
esigenze di altre discipline si è recentemente concretizzata
attraverso l’uso delle mappe e la definizione soggettiva degli
spazi
attraverso
l’immagine
in
campo
storico,
sociolinguistico, antropologico, per lo studio del vissuto
territoriale delle comunità, e non solo. In questi casi le
immagini prodotte dagli informatori sono vere e proprie
mappe dei territori abitati (così come sono immaginati e
percepiti) che restituiscono una visione soggettiva al
ricercatore, da cui egli può trarre sicuramente una grande
quantità di elementi e non raggiungibili direttamente ed
esclusivamente tramite il linguaggio verbale. Si parla in
questi casi di “mappe culturali”, “mappe di comunità” e, nella
68
letteratura inglese, di “mental maps” e “sketch maps”. La
mappa percettiva, che ingloba queste definizioni,
è utilizzata in molti campi di ricerca come strumento d’analisi: dalla
progettazione urbanistica partecipata alla didattica della geografia, dallo
sviluppo agricolo al turismo sostenibile, dall’educazione ambientale
all’antropologia applicata, all’arte contemporanea. La letteratura in
materia propone opinioni differenti sull’efficacia della mappa di tipo
percettivo come mezzo d’indagine della complessità. Da più parti
vengono sollevate critiche che mettono in luce i limiti del metodo, ma
dalle esperienze in atto, numerose e diversificate, emergono anche gli
indubbi vantaggi. Il “lato debole” del metodo è il non avere - ancora - un
apparato teorico che lo possa legittimare come strumento scientifico, ma
il suo largo uso lo impone all’attenzione del dibattito interdisciplinare
(Porcellana 2004: 30-32).
La possibilità di trasporre il metodo delle mappe
spaziali ad altre aree di indagine mi aveva molto colpito e
poteva rappresentare un suggerimento, un’ipotesi da valutare
per elaborare delle tracce di intervista per gli infermieri dei
Pronto Soccorso.
Per quanto persistano molti dubbi sull’efficacia e
sull’attendibilità di tali strumenti, ho finito per tentare questa
via, data la complessità e la delicatezza del tema del
pregiudizio, che si presenta altamente refrattario ad essere
colto attraverso tecniche metodologiche più consolidate.
A riprova dell’interdizione che grava sul tema del
pregiudizio, cito la domanda provocatoria di un infermiere
che, mentre percorrevo la corsia dell’Area Rossa del Pronto
Soccorso
dell’ospedale
Mauriziano,
per
recarmi
intervistare una sua collega, mi aveva apostrofato così:
“Cosa sei venuta a fare? A misurare il nostro grado di razzismo?”
69
ad
Avevo cercato di schermare l’imbarazzo che mi era
stato provocato rispondendo con una risata e qualche parola
ironica per dimostrare che stavo al gioco. L’infermiere che
aveva pronunciato quella battuta non conosceva il mio
argomento di tesi nello specifico, così come lo ignoravano i
miei
interlocutori,
ai
quali,
se
mi
domandavano
espressamente su cosa vertesse il mio studio, preferivo dare
risposte non menzognere, ma sempre molto vaghe e
generiche, proprio per evitare di suscitare in loro chiusura e
diffidenza. Forse guidato da uno stereotipo che fa
dell’antropologo uno studioso di questioni interculturali e una
specie di “giustificazionista dell’alterità”, l’infermiere ha
voluto prendere una posizione per sé e per i colleghi,
allontanando col sarcasmo l’ipotesi che potessi trovare dei
razzisti fra i professionisti della cura, e in un certo senso
invitandomi ad essere molto cauta nelle mie successive
interpretazioni. La sua domanda retorica ad ogni modo
conferma l’interdizione che grava sul pregiudizio e la
necessità di trovare strategie alternative ai soli discorsi
verbali.
Nonostante l’“eterodossia” della metodologia che avrei
usato, sul valore invece del linguaggio visivo in generale ha
riflettuto ampiamente anche l’antropologia visuale: se
l’immagine che si riproduce (attraverso un disegno, una
fotografia o un filmato) non è e non può essere il calco
oggettivo della realtà (Pennacini 2005), allora vuol dire che
avviene, al momento della riproduzione, un processo di
selezione, quasi a dire che si vede non ciò che si vede, ma ciò
che si vuole vedere, e potremmo aggiungere, ciò che ci è
stato “insegnato” a vedere.
Se dunque fossi riuscita a utilizzare il linguaggio visivo
nelle interviste, avrei potuto in parte superare gli ostacoli
70
imposti dalla natura stessa del tema del pregiudizio. Perché
proprio in quella selezione nella rappresentazione di
determinati oggetti, si manifesta l’attività culturale e la
rielaborazione della stessa in termini soggettivi.
In definitiva, si trattava non tanto di ricalcare in toto la
metodologia delle mappe, ma di prendere spunto da esse
parzialmente, e cioè semplicemente traslando l’uso delle
immagini prodotte dagli intervistati per comunicare i
contenuti delle loro risposte.
Lo scopo delle idee espresse nel primo capitolo di
questo lavoro era infatti quello di presentare in che modo il
pregiudizio esercitato in ambito sanitario scaturisca da un
patrimonio di immagini e stereotipizzazioni, frutto a loro
volta di un vero e proprio lavorio culturale. Questa tesi di
fondo ci dovrebbe allontanare dal presupporre che i
comportamenti pregiudizievoli discendano da semplici
meccanismi e automatismi cerebrali, ma prendano corpo
invece da un discorso culturale organico, sistematizzato con
una metodicità tale da sedimentarsi nel sentire comune e
diventare un patrimonio condiviso. Parlare dell’“altro”,
descriverlo, nominarlo, rappresentarlo, anche visivamente,
risponde a quella preliminare costruzione dell’“altro”, che si
riformula quotidianamente, adattandosi a esigenze specifiche.
Affiancare e giustapporre i frammenti di informazioni e
le suggestioni ricavate dai diversi contesti di ricerca, ha
significato per me tentare di ricostruire la dialettica di quel
discorso culturale, che parte dalla creazione delle differenze,
assunte poi come sostanziali, e finisce per ricadere sul piano
pratico, in un processo di affermazione e radicamento in
continuo divenire.
Sondare gli stereotipi che definiscono l’“altro”,
attraverso immagini e pratiche discorsive più o meno
71
esplicite, sarebbe stato utile per stabilire la connessione fra la
rappresentazione dell’“altro” e le dinamiche del pregiudizio,
e per stabilire in che misura l’immaginario sotteso a quelle
dinamiche possa influire sulla realtà.
Dunque, per tornare all’uso di elementi figurativi, lungi
dal voler sostituire la parola con l’immagine, ho pensato però
che quest’ultima potesse funzionare da compendio, la cui
importanza emerge ogni qual volta confermi, smentisca o
arricchisca la parola.
Abbandonare la descrizione grafica a se stessa, infatti,
sarebbe risultato evidentemente inefficace e fuorviante. Ho
pertanto ritenuto importante lavorare contestualmente sui due
linguaggi, quello verbale e quello figurativo. Dare agli
interlocutori la possibilità di esprimersi graficamente, anche
tramite forme, simboli e colori, ha significato fornire a
entrambi gli estremi dell’interazione – loro e me –
un’occasione per riflettere e lavorare analiticamente su più
aspetti, senza perdere di vista il corpo di dati semantici e
lessicali e gli elementi delle pratiche discorsive. Queste infatti
costituivano un supporto fondamentale, anche per non
incorrere nel rischio di formulare interpretazioni di carattere
psicologico sui disegni e mantenere invece viva l’attenzione
sull’analisi culturale.
Una volta deciso l’utilizzo delle immagini, oltre che
della parola, si poneva un’altra domanda: che cosa far
disegnare agli infermieri incontrati e intervistati? Occorreva
fornire sia a loro che a me stessa delle linee-guida, isolare dei
referenti o per lo meno dei concetti che potessero servire da
base per la traduzione dal linguaggio verbale all’immagine.
Per questa ragione ho ritenuto necessario dividere
l’intervista in due tracce: nella prima traccia l’intervistato
avrebbe potuto riflettere su alcune parole, che solo in un
72
secondo momento avrei chiesto di rappresentare. Con l’aiuto
delle parole concettualizzate nella prima fase, ho ritenuto che
sarebbe stato più facile produrre delle immagini a riguardo.
Infatti, a differenza delle ricerche condotte con l’uso delle
mappe percettive, nel mio tipo di indagine lo scopo non era
quello di far rielaborare soggettivamente contesti fisici come
luoghi, ambienti, percorsi, viaggi, ma condurre gli intervistati
a
rappresentare
un
atteggiamento,
a
riprodurre
un
orientamento relazionale improntato al pregiudizio, qualcosa
che si esplicita in molti modi, ma che in genere è difficile da
catturare a livello concettuale e ancor di più a livello verbale
o grafico.
Il passaggio fondamentale era dunque rendere concreto
il pregiudizio, dargli una forma, un nome, o comunque
trovare degli elementi “attivatori” del pregiudizio stesso, e
dunque delle parole che potessero fungere da stimolo per
condurlo in superficie.
A questo punto ho proceduto dividendo l’intervista in
due tracce. Nella prima gli intervistati avrebbero potuto
riflettere e ragionare su quegli elementi lessicali scelti come
attivatori, e nella seconda traccia avrebbero poi potuto
rappresentarli.
Le parole-input individuate per la prima traccia, sono il
frutto di una riflessione collettiva condotta durante un
incontro seminariale del laboratorio interfacoltà Le città
(in)visibili sopra citato. Avevo discusso con il gruppo la
volontà di condurre una ricerca negli ospedali e avevo reso
noti gli obiettivi che avrei voluto raggiungere e le difficoltà
metodologiche che stavo affrontando. Da questo laboratorio
avevo già ricavato un importante spunto grazie alla lezione
sulle mappe cognitive, che mi aveva dato la possibilità di
venire a conoscenza di uno strumento di lavoro che avrebbe
73
potuto adattarsi alla mia ricerca. Senza la pretesa di ricalcare
quel metodo, avevo voluto tentare di adoperarne l’elementochiave – l’immagine – riadattandolo alle mie esigenze.
Il gruppo, composto in quell’occasione da studenti e
dottorandi, si è sforzato di immaginare quali potessero essere
gli elementi lessicali a cui i disegni prodotti dagli intervistati
avrebbero potuto richiamarsi. La prima cosa da fare era
individuare verso chi o cosa fosse rivolto il pregiudizio. A
partire dalla domanda di ricerca, era chiaro che il pregiudizio
che avrei voluto rendere manifesto fosse quello nei confronti
dell’utenza straniera, spesso percepiti come incarnazione di
un’alterità rifiutata, invisibilizzata o inferiorizzata, come ho
cercato di spiegare nel primo capitolo di questo lavoro.
La parola straniero è stata allora utilizzata come punto
di partenza per procedere con un brainstorming21. Ciò che
ognuno ha cercato di fare durante questa operazione era
esattamente prendere spunto dalla vulgata comune, che
rappresenta lo straniero – l’immigrato, per definirlo con un
termine meno neutro – con determinati caratteri (il colore
scuro della pelle, la povertà, e via dicendo) e legare questi
elementi al contesto sanitario. Le parole emerse da questo
processo sono state poi selezionate, a volte unificandole
all’interno di aree semantiche (ad esempio, dalle parole
“scuro” e “nero”, si è ricavata la parola comprensiva di
entrambi “colore”), a volte invece evidenziando le distinzioni
21
Mi avvalgo di espressioni come “parole-stimolo”, “parole-input”,
brainstorming o “libere associazioni di idee” al solo scopo di chiarire la
funzione delle parole e delle strategie scelte per farle emergere: in questo
senso, “stimolo” o input si riferisce alla capacità di una parola di attivare
un processo evocativo a oggetti, situazioni o persone che fanno parte del
bagaglio esperienziale di ciascuno e del proprio immaginario. Non ci si
riferisce pertanto a teorie comportamentiste o ad altre correnti
psicologiche. Così come per le libere associazioni di idee e il
brainstorming, sono qui utilizzate nel valore che conferisce loro il
linguaggio corrente, senza riferimenti scientifici particolari di impronta
psicologica.
74
(ad esempio, l’espressione “malattie contagiose” è stata
divisa in “malattia” e “contagio”), fino ad arrivare ad un
gruppo definitivo di sei parole (immigrato, colore, sporco,
contagio, malattia, corpo), che ho scelto come potenziali
input e attivatori, e riferite sia al concetto-chiave della ricerca
– il pregiudizio verso la categoria degli stranieri – sia al
contesto etnografico di riferimento, cioè l’ospedale e la
professione infermieristica.
Ho deciso a questo punto di riproporre l’operazione del
brainstorming e delle libere associazioni di idee anche agli
infermieri. Una prima traccia di intervista iniziava così a
prendere corpo. Utilizzare una serie di input verbali, invece di
domande esplicite, avrebbe consentito agli infermieri di
riflettere in modo forse più libero e meno condizionato,
attingendo agli immaginari che ciascuna parola poteva
suggerire.
Per tradurre in immagini i concetti, lo sforzo di
concretizzazione richiesto agli infermieri non era esiguo.
Pertanto, ho deciso di inserire nella traccia un elemento in più
che indirizzasse verso la concretezza, e cioè l’abbinamento
delle parole-input a dei “luoghi” generici che avrebbero
assunto una forma specifica nei vari casi. Durante le
interviste informavo i miei interlocutori che il referente
spaziale da loro indicato, avrebbe potuto essere legato
all’ambiente di lavoro come ad altri ambienti della vita
quotidiana. Non mi è sembrato opportuno vincolare gli
interlocutori al terreno professionale, ma semplicemente
avvisarli di questa possibilità. Il ventaglio delle combinazioni
(identificare le parole e i concetti ai luoghi legati alla
professione o ad altri luoghi o “forme” fisiche e spaziali), si è
rivelato molto ampio.
75
Riporto qui di seguito il testo della prima traccia
dell’intervista.
Traccia n. 1
Leggi le parole riportate nella tabella sottostante. A ciascuna di
esse, che cosa abbineresti? Scrivi negli spazi bianchi laterali
tutto ciò che ti viene in mente, indicando anche quali “luoghi”
assoceresti a ciascun termine.
IMMIGRATO
CONTAGIO
COLORE
SPORCO
MALATTIA
CORPO
Mantenere l’analisi su un piano antropologico piuttosto
che su quello psicologico, era un difficile gioco di equilibri, a
cui ho cercato di dare soluzione facendo in modo che quanto
prodotto in forma scritta o grafica dagli intervistati fosse
sempre affiancata la loro voce e la loro argomentazione.
Infatti, dopo questa prima parte, che gli intervistati
completavano in mia assenza – preferivo infatti allontanarmi
in questa fase, per permettere loro di darsi il tempo necessario
alla compilazione e per evitare che si sentissero in qualche
modo vigilati – chiedevo di rileggere ad alta voce quanto
scritto, con il duplice scopo di non lasciare completamente a
me l’interpretazione delle loro libere associazioni.
Era a questo punto che entrava in gioco la registrazione
audio delle interviste. Con il loro consenso, avevo cura di
registrare le loro voci, che spesso non si limitavano alla
pedestre rilettura di quanto scritto, ma anzi lo arricchivano di
76
particolari. Le registrazioni sono pertanto servite per
condurre in un secondo momento le analisi discorsive.
Conclusa questa parte, arrivava il momento di tradurre
in immagini le parole su cui gli interlocutori avevano
ragionato.
La traccia fornita era la seguente:
Traccia n. 2
Se dovessi disporre in una stanza queste parole e ciò che
ognuna di esse ti evoca, come le disporresti? Componi un
disegno nello spazio sottostante, utilizzando immagini e
parole a tuo piacimento.
Avevo concepito l’idea di far disporre all’interno di una
“stanza” le parole precedentemente concettualizzate con lo
scopo di semplificare il lavoro di rappresentazione ai miei
interlocutori. Nello sforzo di concretizzazione di concetti per
lo più astratti, richiamare l’attenzione sui luoghi fisici nella
prima e nella seconda traccia, sarebbe stato funzionale,
pensavo, al tentativo di oggettivazione da parte degli
intervistati, in modo tale da fornire degli orientamenti e
fluidificare il lavoro di per sé poco consueto.
Anche in questo caso, come nella prima parte
dell’intervista, chiedevo agli interlocutori di leggere la
consegna e pronunciarsi in caso di dubbi. Fornivo dei colori e
chiedevo di descrivere le proprie azioni grafiche ad alta voce,
in modo da garantire la mia comprensione delle loro azioni e
del loro percorso. La massima libertà espressiva veniva
spesso ribadita, e in effetti ogni intervista in questo senso si è
rivelata estremamente originale. Di fronte al non facile
compito di rappresentare sotto forma di immagini ciò che
prima si era descritto a parole facendo degli sforzi prima di
astrazione, poi di concretizzazione, ognuno ha usato le
77
proprie capacità immaginative e rappresentative in modo
decisamente
creativo.
Come
veniva
precisato
agli
interlocutori, la presenza del registratore era fondamentale
per poter rileggere le loro rappresentazioni grafiche secondo
le intenzioni espresse e non solo secondo le mie personali
interpretazioni, e in questo raffigurava una garanzia e una
tutela per loro quanto per me. Tutti gli interlocutori hanno
apprezzato questa scelta e non hanno obiettato di fronte alla
necessità di usare il registratore, e l’impressione che anche io
ho avuto era che non lo considerassero uno strumento
invasivo.
La mia presenza accanto a loro durante il riempimento
del secondo foglio funzionava anche da supporto, nel senso
che, di fronte all’inusuale attività di disegno che veniva
richiesta, spesso mi trovavo a incoraggiarli a procedere,
soprattutto quando mi chiedevano conferma che ciò che
stessero componendo fosse “giusto” o “sbagliato”. Cercavo
allora di rasserenarli sul fatto che non fossero minimamente
obbligati a seguire percorsi logici e razionali, o a seguire
l’ordine con cui le parole erano elencate nella traccia
precedente, e che, in caso di assoluta difficoltà, avrebbero
potuto aiutarsi con parole o simboli.
Al termine di ogni intervista, potevo quindi disporre di
un complesso di informazioni costituito da più testi: le mie
annotazioni sui colloqui informali di conoscenza, i testi delle
interviste, divisi in testi scritti e prodotti dagli infermieri nella
prima traccia e testi delle interviste registrate, e le immagini
da loro prodotte nella seconda traccia. Il lavoro di analisi si
sarebbe basato pertanto su queste fonti.
Già dopo la rilettura delle prime interviste, avevo
notato che alcune associazioni fra parole e alcune formule
descrittive ricorrevano, quasi come fossero dei τόποι, sia
78
all’interno delle diverse parti di una singola intervista, sia fra
diverse interviste. Sul piano dei contenuti avrei riflettuto in
un secondo momento e seguendo un percorso analitico di tipo
qualitativo, considerando i dati in relazione al contesto e
tenendo conto della loro complessità. Tuttavia, spinta dalla
curiosità di confermare o smentire quella che era stata una
percezione frequente, ho deciso di fare uso di uno strumento
di analisi quantitativa che a livello accademico può essere
utile nel settore della Linguistica, durante l’esecuzione delle
analisi testuali22.
Wordle, uno strumento molto semplice e disponibile
online23, nasce come un calcolatore dei lessici di frequenza
contenuti all’interno dei testi. Una volta selezionato un testo,
cioè, viene eseguito un calcolo matematico che rileva la
frequenza con cui ogni parola compare nel corpo del testo. Il
risultato è espresso sotto forma di “word clouds”,
letteralmente “nuvole di parole”, che rappresentano il peso, in
termini numerici, delle parole di un testo, indicato attraverso
la dimensione del carattere, come nell’esempio che segue.
22
Roberto Trinchero, docente di Pedagogia sperimentale presso la Facoltà
di Scienze della Formazione dell’Università di Torino, ha elaborato alcuni
strumenti per l’analisi testuale che si basano su rilevazioni statisticomatematiche applicate ai testi, dall’analisi delle distribuzioni di
frequenza, a quella della posizione dei termini nel testo. Questi strumenti
sono stati da lui condivisi nel web, e si possono visualizzare e utilizzare
accedendo al sito www.edurete.org.
23
Wordle è un programma accessibile dalla piattaforma Java, al sito
www.wordle.net.
79
Le parole che compaiono con un carattere di maggiore
dimensione, sono quelle più utilizzate nel testo dell’intervista
dell’infermiere, che qui si è presa ad esempio. L’infermiere in
questione aveva raccontato di come molti suoi colleghi
giudichino sulla base di stereotipi i migranti delle varie
nazionalità che fanno ingresso nei pronto soccorso. Ogni
nazionalità coincideva con alcune caratteristiche (i rumeni, ad
esempio, sarebbero violenti e alcolisti, i peruviani e in genere
i latinoamericani, semplicemente alcolisti). Quando ha
cominciato a parlarmi dell’immigrato “tipico” attorno al
quale aveva costruito la sua narrazione, notavo che il
personaggio migrante da lui descritto, un peruviano, appunto,
era connotato linguisticamente proprio come lo stereotipo che
precedentemente aveva costituito il capo d’accusa dei
colleghi. Il peruviano era sempre affiancato, nella narrazione
dell’infermiere, al verbo “bere” nelle sue varie flessioni, che
ha infatti un’elevata frequenza, come si vede nella word
cloud. Il peso della parola “immigrato”, che è stato un
riferimento costante nel discorso dell’operatore, mantiene
anche nella frequenza d’uso la sua centralità.
Si tratta anche in questo caso di aver scelto di utilizzare
una strategia in più, che non diventasse centrale per l’analisi
80
dei discorsi, ma che potesse arricchire l’elaborazione finale
dei dati raccolti. Mi preme sottolineare che questo strumento,
così come quello delle immagini, è stato un supporto e non ha
costituito la base portante della raccolta e dell’analisi dei dati.
Ho ritenuto utile adoperare queste tecniche semplicemente
come strategie ausiliarie – le indicazioni che forniscono sono
inevitabilmente parziali – e non sostitutive dell’approccio
qualitativo.
2.1.2 La necessità di allargare il campo: gli utenti
Le strategie appena illustrate servivano, come si è detto,
per superare l’interdizione sul pregiudizio e tentare invece di
coglierlo attraverso i vari linguaggi usati per comunicare con
gli operatori.
Ma per indagare sulle modalità attraverso le quali il
pregiudizio si espleta e prende forma, si poneva un ulteriore
problema metodologico. Tale problema era rappresentato dal
“campo” stesso della ricerca, un campo inevitabilmente
limitato e limitante. L’ospedale, eletto a contesto etnografico
di riferimento, poteva essere sottoposto all’osservazione solo
in una sua ristretta area, osservazione peraltro non
partecipante. Il mio campo visivo si fermava inevitabilmente
al di qua dei confini dell’area di triage, la mia presenza non
poteva essere partecipativa in nessun modo fuorché nei radi
colloqui informali con qualche infermiere di passaggio. Ogni
qual volta mi recassi in ospedale per le interviste, sfruttavo la
possibilità di rimanere qualche ora all’interno della zona di
accettazione. Il Pronto Soccorso è un luogo pubblico dove
chiunque ha diritto di accedere, pensavo, dunque avrei potuto
fermarmi e, senza essere d’intralcio all’utenza o agli
81
operatori,
aspettare
che
si
verificasse
qualcosa
di
“interessante” ai fini della ricerca. Nonostante in accettazione
si potessero registrare delle situazioni particolarmente
interessanti per la ricerca – ad esempio nei brevi scambi tra i
pazienti stranieri e gli infermieri di turno – la mia esperienza
cominciava e finiva entro i limiti di quell’area, e non poteva
spingersi oltre. La linea di demarcazione del triage indicava
chiaramente fin dove avessi accesso. La conseguenza di
simili problemi tecnici era che non avrei potuto verificare
nella pratica ciò che in teoria mi veniva raccontato durante le
interviste.
In qualunque lavoro etnografico,
[…] quello che noi iscriviamo (o cerchiamo di iscrivere) non è il discorso
sociale bruto a cui non abbiamo accesso diretto, non essendone gli attori
se non in modo marginale o eccezionalmente, ma soltanto quella piccola
parte di esso che i nostri informatori possono portarci a capire (Geertz
1988: 29).
Ancora di più, nel mio caso specifico, non potendo
verificare il metodo di lavoro degli infermieri intervistati, ero
costretta a fermarmi e in un certo senso ad affidarmi ai loro
resoconti.
Tutto ciò che avrei potuto fare, rimanendo nel campo
del Pronto Soccorso, sarebbe stato confrontare alcuni dei dati
ricavati con le vicende osservate in accettazione. A fronte di
questo limite, ho ritenuto necessario affiancare alle voci degli
operatori quelle dell’utenza, provando ad accostarle e
sovrapporle, alla ricerca di corrispondenze o divergenze.
La possibilità di dare ascolto anche a “chi sta dall’altra
parte”, ovvero l’utenza straniera, per poter incrociare in un
secondo momento i dati rilevati dalle interviste con gli
operatori, è derivata dal coinvolgimento in prima persona in
82
un progetto di ricerca sostenuto dal Fondo Europeo per i
Rifugiati in collaborazione con il coordinamento Non solo
asilo (Progetto FER Non Solo Asilo 324), sviluppato e
presentato in seno ad un laboratorio interdisciplinare sul
diritto d’asilo organizzato dall’Università di Torino e dal
coordinamento
stesso.
Il
laboratorio
prevedeva
la
partecipazione di studenti dei corsi di laurea specialistica in
Antropologia Culturale ed Etnologia e in Sociologia,
affiancati da operatori sociali che lavorano con migranti e
rifugiati da alcuni anni, a tre mesi di formazione sul tema del
diritto d’asilo affrontato dalle varie prospettive – legislativogiuridica, antropologica, sociologica, economica – grazie ai
relatori esperti in materia, e una fase successiva di lavoro
concreto presso enti o associazioni impegnate sul territorio
piemontese e torinese in progetti rivolti a migranti, nello
specifico a rifugiati e titolari di protezione internazionale.
Fra quelli presentati a fine corso, il progetto FER Non
Solo Asilo 3 consisteva in una ricerca sulla salute di
richiedenti
asilo,
rifugiati
e
titolari
di
protezione
internazionale, a cui si sono aggiunti anche altri migranti,
presenti sul territorio italiano da alcuni anni, circa la loro idea
di salute e malattia e la loro percezione e fruizione del
Servizio Sanitario Nazionale. Il gruppo di lavoro era formato
da un coordinatore scientifico, la Prof.ssa Paola Sacchi,
docente
di
Antropologia
del
Medio
Oriente
presso
l’Università di Torino, dalla responsabile e curatrice del
progetto,
impegnata
la
Dott.ssa
nel
terzo
Cristina
settore
24
Molfetta,
e
nella
antropologa
cooperazione
I risultati della ricerca (PROGETTO FER NON SOLO ASILO 3 –
Convenzione 210/FER/PROG-5021 Azione 11BAP2010 Salute e
malattia: percezioni, significati e modalità di fruizione del Sistema
Sanitario Nazionale Italiano da parte di richiedenti asilo e titolari di
protezione internazionale), che sono stati presentati nei territori
piemontesi interessati, sono disponibili sul sito www.nonsoloasilo.org.
83
internazionale,
e
da
due
studentesse
laureande
in
Antropologia culturale. Mi sono candidata con entusiasmo
per essere inserita all’interno di questo specifico progetto
proprio per l’attinenza con l’argomento di tesi, e l’esperienza
si è rivelata ancor più significativa del previsto.
In questo caso gli intervistati sono stati 21, 12 uomini e
9 donne, scelti in base alla loro disponibilità e nel rispetto dei
loro impegni lavorativi o familiari, fra i vari territori coinvolti
nel progetto25. Non sono stati adoperati restrittivi criteri di
selezione. Al contrario, la varietà dei profili individuali ha
arricchito di informazioni la ricerca.
Gli operatori degli enti coinvolti avevano l’incarico di
invitare a partecipare alle interviste alcune persone coinvolte
o conosciute tramite i loro progetti e attività, dunque gli
informatori erano solo parzialmente partecipanti spontanei.
Occorre anche tenere presente che i colloqui si svolgevano
all’interno delle sedi degli enti coinvolti, dunque non in
campo neutro. In parte, le risposte fornite dagli interlocutori
sono state condizionate dal luogo in cui si trovavano e dalla
presenza o meno degli operatori di riferimento.
Le interviste raccolte erano di tipo discorsivo, sulla
base di uno schema molto flessibile e adattabile di volta in
volta rispetto all’andamento dell’intervista – che si è cercato
di rendere meno formale possibile per mettere a proprio agio
gli interlocutori – e alle risposte date. Gli intervistati, insieme
ad altri che hanno voluto spontaneamente inserirsi, hanno
25
I territori coinvolti nel progetto sono stati cinque comuni piemontesi,
sedi a loro volta di enti di accoglienza di vario genere, facenti parte del
coordinamento Non solo asilo; le interviste si sono svolte nella sede del
consorzio CO.A.LA. ad Asti, nella sede della cooperativa sociale
Crescere Insieme ad Acqui Terme, nella sede della cooperativa sociale
Marypoppins ad Ivrea, nella sede della Caritas Diocesana a Biella e nella
casa privata Cascina Pina, sita in località Mussotto d’Alba. Ognuna di
queste realtà fa parte della rete regionale che sostiene e compone il
coordinamento Non Solo Asilo. Le interviste si sono svolte tra febbraio e
giugno 2012.
84
anche partecipato, in due momenti e sedi differenti, a dei
focus group, durante i quali sono nate discussioni attorno ad
alcuni termini-chiave26. Anche durante le sessioni di focus
group si è cercato di creare un clima informale per
fluidificare lo scambio di pareri e informazioni.
Le modalità di intervista che sono state elaborate con il
gruppo di ricerca sulla salute per il Progetto FER Non Solo
Asilo 3, seguiva una traccia composta da temi e parole-chiave
da sviluppare durante i singoli colloqui. Riporto qui di
seguito la traccia, che è in definitiva una guida ai temi che
erano da sviluppare durante il colloquio.
Traccia n. 3
SALUTE E MALATTIA: significati e riferimenti personali
Che cosa vuol dire “star bene” per te?
Quali situazioni, cose o persone ti fanno stare bene (nel tuo Paese
e in Italia)?
Che cosa vuol dire “star male” per te?
Quali situazioni, cose o persone ti fanno stare male (nel tuo Paese
e in Italia)?
A chi ti rivolgi o che cosa fai quando stai male? (nel tuo Paese e in
Italia)?
GRAVIDANZA E MATERNITA' (esplorazione aggiuntiva che si
attiva solo se la gravidanza e la maternità vengono citate dalle
interlocutrici nelle risposte alle domande precedenti o emergono
come esperienze significative nella loro vita o nel loro Paese).
Aspettare un bambino, avere un bambino, nel tuo Paese è…?
Aspettare un bambino, farlo nascere in Italia è stato…? (Aspetti
26
I due focus group si sono svolti ad Acqui Terme e ad Ivrea; durante il
primo i partecipanti sono stati circa una ventina, durante il secondo, una
decina. Ciascun focus group è stato suddiviso in due momenti: la
presentazione dei risultati delle interviste nei singoli territori, e la
discussione attorno a quattro parole-chiave scelte per l’occasione (fiducia,
prevenzione, mediazione e cura).
85
positivi/negativi? Cose che cambieresti o che ti sono mancate?)
PERCEZIONE DEL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE
Se dovessi spiegare a una persona appena arrivata che cosa fare
quando sta male, che cosa le diresti?
Come hai imparato queste cose? Chi te le ha dette? Un amico, un
operatore, un mediatore o le hai imparate da solo?
Secondo la tua esperienza, che cosa ha funzionato bene in Italia
quando ti sei sentito male?
Secondo la tua esperienza, che cosa non funziona o potrebbe
essere migliorato qui?
Secondo
la
tua
esperienza,
che
cosa
cambieresti/toglieresti/aggiungeresti del sistema sanitario in Italia?
Le domande venivano poste nell’ordine più consono
alla
situazione,
in
base
all’effettiva
esperienza
dell’interlocutore e alla sua padronanza della lingua italiana.
E’ da osservare che in questa fase il mio ruolo non è stato
sempre direttamente quello di intervistatrice ma anche
semplicemente di ascoltatrice, poiché le interviste venivano
condotte nella maggioranza dei casi dalla Dott.ssa Molfetta.
Data la complessità e anche la delicatezza dei temi
affrontati, nonché le storie personali degli interlocutori –
essendo per lo più rifugiati politici e titolari di protezione
internazionale, con vissuti e trascorsi biografici spesso molto
difficili – avevamo cura di metterli il più possibile a proprio
agio, per evitare che la conversazione si trasformasse in un
interrogatorio, e di non tormentarli o di non insistere nel fare
domande laddove si ravvisavano reticenze.
Di grande importanza, come si è detto, la presenza o
assenza, durante le interviste, dell’operatore di riferimento,
contattato per radunare gli intervistati. I nostri incontri infatti,
avvenivano, come esplicitato in nota nel primo paragrafo, in
86
alcune delle sedi piemontesi facenti parte del coordinamento
Non Solo Asilo, coinvolte nel progetto del FER 3. La loro
presenza o meno durante l’intervista significava naturalmente
una
pur
parziale
distorsione
o
aggiustamento
delle
informazioni date dagli interlocutori, che potevano, a buon
diritto, sentirsi in obbligo di dimostrare gratitudine a quegli
operatori che li avevano seguiti personalmente dal loro
arrivo. Ad ogni modo, non ci si trovava nella posizione di
poter chiedere all’operatore di allontanarsi se l’incontro si
svolgeva nel suo ufficio. Lasciavamo all’operatore di turno la
scelta, che è avvenuta secondo le diverse sensibilità.
I partecipanti a queste interviste sono poi stati chiamati
a partecipare ai focus group, che si aprivano con
l’esposizione dei dati raccolti nelle interviste, affinché anche
loro potessero avere un feedback degli incontri svolti e una
loro visione complessiva; in seguito veniva avviata una
discussione secondo la traccia seguente.
Traccia n. 4
Restituzione di ciò che è emerso dalle interviste: che cosa
funziona/che cosa non funziona/che cosa si può migliorare
del SSN e confronti con le esperienze all’estero.
Discussione guidata attorno a quattro parole-chiave:
FIDUCIA (come si costruisce il rapporto di fiducia nel
rapporto medico-paziente), PREVENZIONE, MEDIAZIONE
(quanto è importante la mediazione linguistica e quanto lo
è quella socio-culturale), CURA (quanto sono importanti le
medicine/quali medicine).
La raccolta delle singole interviste ha permesso di
elaborare dei quadri complessivi circa le percezioni degli
intervistati
sul Servizio
Sanitario
Nazionale.
I
loro
apprezzamenti, le loro critiche e le loro proposte sono state
87
radunate insieme e restituite ai gruppi di lavoro dei focus
group, con l’insieme di testimonianze delle esperienze
all’estero
provenienti dalle
storie di ciascuno:
ogni
intervistato poteva parlare con cognizione di causa di ciò che
sembrava funzionare o meno del sistema, poiché aveva avuto
contatti almeno con due sistemi differenti (quello italiano e
quello del paese d’origine) e la maggior parte di loro aveva
viaggiato molto e dunque incontrato realtà diverse da poter
mettere a confronto.
I dati raccolti sia nelle interviste che nei focus group
sono stati accorpati ed elaborati per dare vita ad un
documento in formato Power Point27, nel quale si illustrano
gli obiettivi della ricerca, le metodologie utilizzate e i dati
raccolti. La presentazione dei risultati della ricerca sulla
salute era prevista nei cinque territori coinvolti: la
restituzione del lavoro svolto doveva avvenire di fronte alle
professioni sanitarie delle A.S.L. di quei territori (medici di
base in primo luogo), in quanto negli intenti principali si
auspicava esattamente a raccogliere le voci dell’utenza per
poter mettere al corrente gli operatori sanitari degli aspetti
positivi o negativi del sistema, e dare in questo modo la
possibilità di riflettere su quanto emerso ed, eventualmente,
apportare migliorie. È importante sottolineare che la
presentazione dei risultati della ricerca è avvenuta soltanto in
tre dei cinque territori, perché le altre A.S.L. in un caso hanno
dichiarato la mancanza di interesse verso l’iniziativa,
nell’altro caso hanno opposto il silenzio di fronte all’invito. È
altresì curioso ricordare che coloro che hanno partecipato a
questi incontri formativi, erano nell’assoluta maggioranza dei
casi operatori sociali e non sanitari, salvo rare eccezioni. La
formazione era espressamente rivolta al personale socio27
Tale documento è disponibile sul sito www.nonsoloasilo.org.
88
sanitario, ma fa riflettere il fatto che una ricerca sulla salute
venga così poco considerata dai sanitari e molto più dagli
operatori sociali.
L’esperienza nel suo complesso è stata per me più utile
del previsto, perché ha favorito la comparsa di ulteriori
interrogativi e riflessioni critiche sul tema di tesi. È stato
infatti il confronto con loro ad aprire un varco in ciò che
sembrava un impeccabile e inevitabile meccanismo di
riproduzione del pregiudizio nelle sue diverse manifestazioni
a accezioni. Nella loro voce e nel loro messaggio mi è
sembrato di poter scorgere quella “maglia rotta nella rete”,
quella falla del sistema del pregiudizio, quella via verso il
superamento del differenzialismo e verso la riappropriazione
di una dimensione meno escludente e più aperta del “noi”.
Nell’esigenza di soddisfare bisogni comuni, come la salute e
la cura, la differenziazione noi/loro e il pregiudizio che crea
ed esaspera le distinzioni, crollano, e aprono su possibilità
nuove di coesistenza e condivisione che, anche se sono
nascoste, esistono, e necessitano soltanto di essere “svelate”.
2.1.3 Un campo intermedio: la formazione delle professioni
sanitarie
Un’ulteriore esperienza che è importante inserire nella
rielaborazione dei percorsi di ricerca è la partecipazione al
corso di formazione Immigrazione e salute in una società
multietnica:
aspetti
relazionali,
clinico-assistenziali,
organizzativi e gestionali della multiculturalità, rivolto a tutte
le professioni sanitarie, che si è tenuto a metà marzo 2012
89
presso l’istituto Rosmini di Torino28, sede della Facoltà di
Scienze Infermieristiche.
Anche questa scelta nasceva da un’esigenza specifica.
Lo scopo del confronto con gli infermieri, era quello di
cogliere la visione stereotipata del paziente “altro” e le
concezioni differenzialiste su cui si basano i pregiudizi. Ma
fermarsi alle loro rappresentazioni significava rendicontare in
modo parziale le dinamiche di esclusione, mancando il
riscontro pratico impedito dal contesto etnografico limitato
dell’ospedale. Allora si è valutata la possibilità di cercare
quel
riscontro
dando
voce
all’utenza
bersaglio
del
pregiudizio, per cominciare a verificare l’operatività del
pregiudizio e le sue ricadute concrete. Frequentare il corso di
formazione per le professioni sanitarie, come annuncia il
titolo di questo paragrafo, ha rappresentato un’occasione per
esplorare un campo intermedio, posto fra l’utenza e gli
operatori sanitari.
Tramite l’ascolto delle voci dei formatori e le
dinamiche del gruppo di discenti, potevano emergere dei
suggerimenti per vedere confermata o smentita l’ipotesi che il
pregiudizio si possa rinforzare grazie alla sua alimentazione
da parte di varie agenzie di formazione e informazione.
Sarebbe stato anche un modo per comprendere le modalità di
presentazione delle tematiche interculturali da parte degli
interni al settore sanitario, verso altri interni.
Grazie ad un escamotage, ho potuto inserirmi nelle aule
di formazione in qualità di uditrice esterna. Ho frequentato
interamente il corso, ma naturalmente solo come ascoltatrice
e come presenza muta, almeno durante le ore di lezione.
28
L’Edizione I del corso si è tenuta durante tre intense giornate di metà
marzo2012; l’Edizione II, tenutasi in maggio, prevedeva il medesimo
programma.
90
Il corso si presentava come una sorta di guida e
orientamento all’approccio con l’utenza straniera e alle sue
dinamiche, tramite la presentazione del fenomeno migratorio
in generale, dal punto di vista normativo, socio-economico,
antropologico, relazionale, clinico. Al termine di ogni
giornata i partecipanti erano sottoposti ad un test il cui
superamento, insieme alla frequenza, avrebbe determinato
per loro l’acquisizione di crediti formativi E.C.M.
Il programma prevedeva la discussione di temi salienti
e di estrema attualità: durante la prima giornata si affrontava
il tema del fenomeno migratorio in Italia dal punto di vista
demografico e socio-sanitario, l’“effetto migrante sano”, il
percorso
della
normativa
sanitaria
nazionale
relativa
all’immigrazione con relative luci ed ombre; durante la
seconda invece le tematiche affrontate erano relative alla
salute del bambino immigrato, alle mutilazioni genitali
femminili, alle vittime di tortura, alla mediazione culturale, ai
fattori antropologici e socio-economici che condizionano i
servizi sanitari, alla relazione fra cultura, salute e malattia e
infine alla relazione transculturale; la terza giornata era
dedicata alle problematiche sanitarie dei cittadini stranieri in
Piemonte, alla normativa applicata agli S.T.P., alla storia e al
funzionamento dei centri I.S.I. e della rete assistenziale nonprofit, e si concludeva con la distribuzione e spiegazione di
una Guida per operatori sanitari che si occupano di
immigrati.
Da queste giornate di ascolto, ho ricavato diverse
informazioni e spunti per riflettere sulla problematica del
pregiudizio trasmesso e alimentato anche in ambito formativo
e i cui promotori, purtroppo molto spesso, sono gli stessi
formatori, anche i più insospettabili poiché attivi in diversi
settori che hanno a che fare con migranti.
91
2.1.4 Fra un campo e l’altro
Ciò che ha accompagnato il contatto diretto con le
realtà scelte per l’osservazione e l’indagine, è un corpus
bibliografico comprensivo di saggi e articoli specialistici di
antropologia culturale, antropologia medica, sociologia e
psicologia sociale, articoli medici specialistici sulle più
recenti ricerche in materia di pregiudizi e discriminazioni in
ambito sanitario, ma anche testi di leggi e normative in
materia di immigrazione e di salute. Queste ultime in
particolare
sono
state
fondamentali
per
aiutarmi
a
comprendere come il pregiudizio agisca o sia utilizzato
politicamente per finalità torbide – l’esclusione dal diritto alla
salute di una categoria prima adeguatamente costruita nelle
sue connotazioni negative, e poi non solo estromessa
dall’accesso agli stessi servizi, ma persino privata della
possibilità di possedere gli stessi bisogni della collettività.
Ogni settore disciplinare e ogni campo di indagine ha
rappresentato un prezioso contributo per garantire una base
teorica, raccogliere i dati, analizzarli e riformularli in questo
lavoro.
Il problema, o, meglio, la sfida maggiore è stata quella
di orientarsi all’interno delle diverse fonti, senza perdere di
vista non solo e non tanto l’obiettivo della ricerca, quanto
piuttosto l’approccio antropologico alla stessa. L’uso di
metodologie meno consolidate e la natura composita dei
campi di ricerca e della letteratura hanno richiesto da parte
mia una continua riflessione critica,
operazione sottesa all’intero lavoro.
92
caratteristica e
Capitolo III
CREARE L’“ALTRO”.
FORME DI RAPPRESENTAZIONE E PRATICHE
DI ESCLUSIONE
L’antropologia sociale e culturale è “lo studio del senso
comune”…Sia quando è inteso come “autoevidenza”…sia quando è
inteso come “ovvietà”, il senso comune – cioè la comprensione
quotidiana di come funziona il mondo – risulta straordinariamente
diverso, contraddittorio fino all’esasperazione e altamente resistente ad
ogni scetticismo. È radicato sia nell’esperienza sensoriale che nelle
pratiche politiche, entrambe potenti realtà che impongono e modellano
l’accesso alla conoscenza.
(Michael Herzfeld, Antropologia. Pratica della teoria
nella cultura e nella società)
Analizzare le forme del pregiudizio ai vari livelli di
operatività presi in esame, è come condurre una sorta di
“analisi ipertestuale”.
Riprendendo la metafora geertziana della cultura come
documento agito (Geertz 1988), ho proceduto da un’ulteriore
ipotesi, e cioè che vi sia uno stretto legame tra cultura e
pregiudizio. Il pregiudizio infatti si presenta nelle sue forme e
manifestazioni come una sorta di manufatto culturale, nel
senso che la cultura contribuisce a foggiarlo e al contempo
agisce su di esso, fornendo ai soggetti che ne prendono parte
gli strumenti necessari per alimentarlo.
Il lavoro di ricerca condotto è stato quello di rendere
manifesto, nei contesti considerati, quello che in genere è
93
latente, ovvero il pregiudizio stesso inteso come modello
culturale, insito nelle relazioni politiche come in quelle
interpersonali, acquisito e radicato a tal punto da risultare
automatico. Il lavoro antropologico sul pregiudizio è quello
di
guardare
oltre
l’automatismo
e
alle
spalle
dell’automatismo, provando a comprendere cosa stia alla
base di ciò che è pensato come “naturale” e svelarne invece il
carattere artefatto.
Questi assunti possono servire da griglie interpretative
per “leggere” il pregiudizio nelle parole, nei comportamenti e
nelle rappresentazioni, creando di volta in volta dei
collegamenti e dei rimandi a ciò che non è direttamente
scritto nel “corpo del testo”, ma che si ricava indirettamente,
tramite collegamenti multipli e
non
sempre
lineari,
sequenziale e uniforme. I documenti raccolti (normative,
dichiarazioni, commenti, trascrizioni di colloqui, immagini),
di natura e provenienza decisamente composita, illustrate nel
capitolo precedente, rappresentano quelle connessioni e quei
percorsi di lettura resi possibili a partire dal concetto-chiave
di pregiudizio.
Per questa ragione ho ritenuto importante riportare
enunciati verbali o immagini, cioè segni e simboli che
rimandano a significati ascrivibili al dominio del pregiudizio.
E per lo stesso motivo ho tentato di mettere continuamente in
relazione fra loro i diversi tipi di “documenti”, poiché ognuno
di essi è il prodotto di una serie di azioni congiunte, compiute
dalla cultura – cioè dai soggetti per mezzo della cultura
stessa, al fine di riprodurla e riaffermarla.
94
3.1 DEFAMILIARIZZARE L’OVVIETÀ
Di fronte a questa massiccia invasione straniera, dei suoi diritti
fondamentali me ne frego. Per me i diritti fondamentali sono poter vivere
in un condominio tranquillo, senza dovermi piegare alle abitudini diurne e
notturne degli immigrati, di potere camminare nel mio quartiere senza
dovermi voltare sempre indietro, di stare sereno quando escono i miei
figli e di veder cessare il degrado morale e materiale della mia zona.
Degrado coinciso con la massiccia presenza di immigrati.29
“Quanto” sentire comune è contenuto in questa
dichiarazione? Un caso isolato di xenofobia o un insieme di
opinioni diffuse?
Questo
commento,
significativamente
intitolato
dall’autore “Vedere i diritti solo da una parte”, è apparso nel
marzo 2009 in reazione all’articolo di un giornale online
sull’approvazione in Senato del disegno di legge sulla
sicurezza pubblica. Tale complesso normativo
aveva
sollevato un acceso dibattito, non ancora del tutto sopito, per
alcune disposizioni in materia di immigrazione che, a ben
vedere, poco avevano a che fare con l’accrescimento del
clima di sicurezza, ma che al contrario avevano generato
un’atmosfera di incertezze, paure e discriminazioni non
ancora estinte. Il Ddl sulla sicurezza pubblica, noto come
“pacchetto sicurezza”, veniva approvato definitivamente nel
luglio del 2009. Tra le varie disposizioni, quella più grave dal
punto
di
vista
sanitario
era
stata,
in
conseguenza
all’introduzione del reato di clandestinità, l’abolizione del
comma 5 dell’articolo 35 del Decreto Legislativo 286 del
1998, che garantiva l’accesso presso strutture sanitarie anche
allo straniero non in regola con il permesso di soggiorno. La
29
Commento
tratto
dalla
pagina
web
http://www.lavoce.info/commenti/011-281001015.html, sezione dedicata
ai commenti relativi all’articolo del 24.03.2009 di Sergio Briguglio “Ora
insicuri sono i diritti fondamentali”.
95
cancellazione di questa norma avrebbe previsto una
“clandestinità sanitaria” pericolosa per l’individuo ma anche
per la popolazione30. Nonostante questa modifica fosse stata
ritirata, grazie alla massiccia mobilitazione di medici, ONG,
associazioni e organizzazioni, tra cui la Società Italiana di
Medicina
delle
Migrazioni
(SIMM),
che
avevano
esplicitamente disobbedito a tale norma31, il timore della
denuncia aveva fatto calare repentinamente l’affluenza degli
utenti stranieri ad ambulatori ed ospedali, e nonostante le
attività di sensibilizzazione da parte dei protagonisti della
protesta al provvedimento, la paura era ed è rimasta.
Il provvedimento, la cui trattazione sarà ripresa nel
paragrafo 3.1.2, viene qui assunto come emblema di una crisi
dal punto di vista politico nel percorso normativo italiano in
materia di salute e immigrazione, che registra, soprattutto a
partire dal 2009,
ripetute battute d’arresto rispetto alla
possibilità di sviluppare politiche inclusive che favoriscano
seriamente il benessere della collettività.
Il “pacchetto sicurezza” è anche il simbolo di un
processo di confusione ben organizzata e di un complesso di
pregiudizi che si diffonde sia verticalmente (dai poteri politici
verso l’opinione pubblica) sia orizzontalmente (dai circuiti
massmediatici alle masse e viceversa). E’ da considerare
pertanto una delle dimostrazioni di come modello culturale
basato sul pregiudizio venga sostenuto, alimentato e
riprodotto anche ai livelli più alti – quelli dei centri di potere
che gestiscono la vita pubblica del Paese – benché fondata su
30
Geraci Salvatore, Salute e immigrazione in Italia: il percorso del diritto
all’assistenza sanitaria; dispense e materiali del corso di formazione
Immigrazione e salute in una società multietnica, Edizione I, marzo 2012.
31
In 38 comuni italiani si era svolta, il 17 marzo 2009, la cosiddetta “NOI
NON SEGNALIAMO DAY”, una manifestazione atta a contrastare il
provvedimento che, se approvato, avrebbe obbligato gli operatori
pubblici, sanitari compresi, di segnalare la condizione di migranti
illegalmente soggiornanti in Italia.
96
una serie di luoghi comuni, così comuni da averne perso di
vista l’origine e l’artificialità, e da suscitare sempre meno
riflessioni critiche.
Se, come sostiene Michael Herzfeld, l’antropologia va
intesa come modello critico con il mondo e non come
modello di distanziata e accademica spiegazione del mondo
(2006: XV), in questa specifica parte del lavoro, ho cercato di
fare mio questo principio, provando a problematizzare alcune
pratiche comuni e ad offrire degli spunti per una critica a tali
pratiche, qualora generino esclusione e diseguaglianza.
Il pregiudizio che in questo lavoro si tenta di analizzare
nelle sue sfaccettature, ben si adatta al concetto di senso
comune utilizzato nella concezione di Herzfeld. Il pregiudizio
verso l’“altro” stesso è un complesso, spesse volte molto ben
articolato, di luoghi comuni – per sua natura “resistente ad
ogni scetticismo” (Herzfeld 2006: 1).
Nelle pagine precedenti sono comparsi più volte
termini come “immaginario”, “fantasia”, “mito”, ma ciò che
al contempo ho voluto sottolineare è la pregnanza di queste
dimensioni all’interno della realtà e i relativi effetti quando li
si considera “la realtà”. Il pregiudizio stesso è da considerarsi
come qualcosa che, seppur in modo aprioristico e senza
effettive
basi
epistemologiche,
irrompe
nella
realtà
modellandola, modificando e plasmando cioè non solo le
percezioni e le concezioni, ma anche i comportamenti.
Comprendere la distinzione tra fantasia e realtà dunque è un
problema di scarso valore rispetto invece a quello di cogliere
la capacità di penetrazione della prima nella seconda e le
conseguenze concrete di questo processo.
Colui che ha scritto quel commento citato in apertura al
paragrafo, per quanto inesatte siano le sue affermazioni, ha
perfettamente colto gli stimoli che gli provenivano dalle
97
agenzie politiche e dell’informazione, trovando in essi degli
argomenti che ha ritenuto validi per esprimere un dissenso
nei confronti di qualsiasi possibile apertura verso l’“altro”,
minaccioso, moralmente inferiore e pericoloso. Un cittadino
qualsiasi, ha adattato alla sua personale esperienza e al suo
vissuto ciò che il discorso politico e mediatico ha fatto in
modo di trasmettergli a proposito del fenomeno migratorio.
Poco importa che gli scenari apocalittici descritti dalle
agenzie di informazione siano distanti dalla realtà. Cos’è
reale? È reale l’insofferenza di questa persona, è reale il suo
dissenso per qualunque politica inclusiva verso una
determinata categoria – l’“altro” omogeneizzato, l’immigrato
pensato nel suo più misero apparire – vista come responsabile
delle sue angosce e delle sue insoddisfazioni.
Naturalmente il pregiudizio non è sempre così evidente.
A volte è celato dietro ad altre locuzioni, molto meno severe,
ma altrettanto
inferiorizzanti:
“poverino”,
“poveretto”,
“disgraziato”, “sfortunato” sono vocaboli che i miei
interlocutori hanno utilizzato molto spesso nel momento di
pensare al migrante. Per quanto meno visibile, un’assunzione
di superiorità è evidentemente presente in queste concezioni.
L’immigrato non è quasi mai pensato come una persona che
possa vantare un alto livello di istruzione, l’immigrato non
richiama mai la figura di un inglese dalla carnagione chiara,
ed è per lo più impensabile che l’immigrato avesse uno status
sociale molto elevato nel paese d’origine, prima di approdare
nel paese ospite. L’immigrato, nell’immaginario comune, è
l’alieno, è l’“altro” incomprensibile ed è l’“altro” che non è
in grado di capire, è tanto colui che usufruisce dei nostri
servizi, presumibilmente togliendo a noi la possibilità di fare
altrettanto, quanto un parassita che vive sulle nostre spalle,
che ha delle strane e non ben identificate “abitudini diurne e
98
notturne”, o ancora un “poveretto” da aiutare. In tutti questi
casi, che incuta timore o che susciti pena, l’immigrato è
l’alterità che ha qualcosa in meno rispetto a noi. La chiave di
lettura evoluzionista, più raffinata o più grossolana a seconda
dei casi, è molto più utilizzata di quello che si pensi.
Cogliere i canali attraverso i quali si crea e si riproduce
la cultura del pregiudizio, diventa un lavoro interessante
soprattutto quando questo è negato e invisibilizzato, quando
il
pregiudizio
cioè
diventa
un
dato
di
fatto,
quell’autoevidenza e quell’ovvietà che sono proprie del senso
comune. Che le cifre relative agli ingressi di migranti in Italia
allontanino qualsiasi possibilità che si tratti di una “massiccia
invasione”, o che i dossier statistici dimostrino che non sia
possibile stabilire un legame inevitabile tra migrazione e
criminalità, non ha importanza nel momento in cui l’assidua e
incessante alimentazione di un immaginario negativo è ormai
penetrata nel senso comune, e diventa pertanto un luogo
comune a cui appellarsi per interpretare e descrivere la realtà.
Riprendendo le parole di Herzfeld,
[…] La distinzione fra il reale e la finzione (fiction), così come quella tra
materiale e simbolico, è essa stessa una parte importante della realtà
sociale e della mitologia culturale che guida, in molte culture,
l’apprezzamento tanto delle rappresentazioni mediatiche quanto del
discorso accademico. Il trucco, per l’antropologo, è mostrare quale
bizzarria storica
e culturale rappresenti questa percezione, oggi
prevalente, del senso comune. Si tratta, nei termini di un vecchio canone
della critica letteraria, di “defamiliarizzare” l’ovvietà (2006: 375-376).
Non è infatti importante quanto realismo ci sia nelle
descrizioni del fenomeno migratorio, è importante invece
comprendere quanto efficaci siano gli slogan e le
rappresentazioni che, veicolando determinati contenuti,
suggeriscono anche delle forme, dei modelli narrativi ed
99
esplicativi per pensare la realtà, interpretarla, descriverla e
viverla.
Accogliendo la proposta di Herzfeld, defamiliarizzare
l’ovvietà significa allora, in un certo senso, disorientare lo
sguardo, almeno in un primo momento, per riorientarlo
successivamente verso visioni alternative sulle quali spesso si
trascura di far luce.
3.1.1 Sindrome di Salgari: sintomatologie e terapie
Salvatore Geraci, citato sin dalle prime pagine di questo
lavoro, è un medico che si occupa della salute degli immigrati
dal 1986 ed è responsabile dell’Area sanitaria della Caritas
romana. Membro del Consiglio della SIMM, la Società
Italiana di Medicina delle Migrazioni, di cui è stato
presidente dal 2000 al 2009, collabora con vari atenei e altri
enti per la formazione con insegnamenti circa la sanità
pubblica e l’immigrazione.
Il suo modo di operare a mio giudizio rispecchia quel
proficuo “disorientamento”, quel dubbio che crea disordine e
che, a volte, permette di riappropriarsi di un maggior senso di
complessità nella lettura della realtà.
Nelle varie occasioni in cui ho potuto incontrarlo ed
assistere alle sue lezioni sul tema della sanità in rapporto
all’immigrazione, ho notato che i primi scambi con il
pubblico avvengono soventemente attraverso “giochi”, sorte
di indovinelli volti a smascherare i pregiudizi più diffusi nei
confronti degli immigrati. Riporto un esempio tratto dai miei
appunti presi durante la prima giornata del corso di
formazione rivolto alle professioni sanitarie Immigrazione e
100
salute in una società multietnica32. Geraci parte col
domandare al pubblico quanti immigrati si stima che siano
presenti nel nostro paese con regolare permesso di soggiorno.
Il pubblico, quasi completamente d’accordo, risponde che la
cifra degli immigrati regolari dovrebbe corrispondere agli 8
milioni. Geraci a questo punto chiede quanti immigrati
irregolari sarebbero presenti sul territorio italiano. Il
pubblico, asserisce che, con certezza praticamente assoluta,
gli irregolari dovrebbero corrispondere ad un numero pari o
maggiore rispetto ai regolari. Lo scenario che si profila dalle
risposte date è quello di un’Italia che accoglie circa 16
milioni di immigrati, la maggior parte dei quali soggiorna
irregolarmente. Geraci a quel punto domanda al pubblico
quale sia il paese europeo che ospita il maggior numero di
immigrati. Di nuovo, l’Italia è messa ai primi posti fra paesi
di accoglienza. Passando alla situazione sanitaria, ancor più
pertinente rispetto al contesto in cui si svolge la lezione,
Geraci pone un altro quesito, relativo alle malattie più
frequenti tra la popolazione immigrata. Il pubblico poteva
scegliere fra le varie tipologie di disturbi e malattie: 1) TBC,
HIV, malattie infettive e sessualmente trasmissibili; 2) disagi
psichici; 3) problemi gastrointestinali, respiratori (per es.
bronchiti, asma), traumi da cadute, incidenti e via dicendo.
Per la prima categoria il pubblico stima almeno un tasso di
ricoveri del 60%, per la seconda del 20%, a pari merito con la
terza categoria.
E’ a questo punto che interviene Geraci, fornendo le
risposte esatte alle varie stime richieste: in Italia sono presenti
in totale circa 5 milioni di immigrati, di cui circa 600 mila
irregolari; l’Italia ha in percentuale un numero molto
inferiore di immigrati rispetto a paesi europei di estensione
32
Cfr. Capitolo II.
101
molto minore, come il Belgio, che ne accolgono anche il
doppio; la richiesta di assistenza sanitaria degli immigrati è
per il 60% per i disturbi della terza categoria, per il 20-30%
per i disagi psichici e del 10% circa per le malattie del primo
tipo. Il pubblico è piuttosto disorientato e, in un certo senso,
privato delle sue antecedenti certezze. Da qui in avanti,
Geraci invita il pubblico ad operare una riflessione critica su
ciò che in genere si crede sia la realtà. Come aveva già detto
e scritto in altre occasioni,
In definitiva possiamo indicare a partire dall’evidenza dei dati disponibili,
come il profilo sanitario dell’immigrato in gran parte si sovrappone (per
tipologia delle condizioni patologiche) a quello della popolazione
autoctona di pari età seppur condizionato dall’effetto di scadenti
condizioni di vita presenti soprattutto nelle prime fasi dell’immigrazione
nel nostro paese (Geraci 2006: 5).
Dal pregiudizio si può “guarire”, così come si può
acquisire una maggiore elasticità grazie ad una corretta
informazione.
Come nel caso dell’autore del commento iniziale,
quella della “massiccia invasione” straniera è una credenza
molto diffusa, per quanto distante dalla realtà effettiva dei
numeri, così anche gli operatori sanitari tendono a
sopravvalutare in termini di flussi ma anche di patologie il
fenomeno migratorio. Si incorporano i messaggi mediatici a
tal punto da non essere più in grado, se non con constatazioni
posteriori, di discernere ciò che è dimostrabile da ciò che è
immaginario. In questo processo di distorsioni e sovrastime,
il linguaggio gioca un ruolo importantissimo nel plasmare
un’opinione: veicola contenuti di forte impatto, insieme alle
immagini (ancora più immediate delle parole) che vengono
continuamente riproposte a livello mediatico in tema di
102
immigrazione. Per quanto riguarda la salute, la sindrome di
Salgari fa pensare all’immigrato come ad una specie di
“untore”, portatore delle malattie che pensavamo estinte
cent’anni fa o di quelle che, inoltre, racchiudono il germe di
uno stigma sociale di enorme portata – le malattie
sessualmente trasmissibili che sono legate, nell’immaginario
collettivo, alla promiscuità e al presunto “degrado morale e
materiale”, come afferma l’autore del commento iniziale,
posto in apertura al capitolo.
Sostiene Geraci che molti operatori sanitari siano
ancora affetti dalla sindrome di Salgari, come dichiara con
malcelata ironia al pubblico di operatori sanitari durante la
sua lezione.
L’aveva denominata così, insieme al collega Riccardo
Colasanti,
nel 199033, quando il fenomeno migratorio in
Italia iniziava ad essere al centro del dibattito pubblico. E la
visibilità di tale fenomeno, agli occhi dei politici e degli
“esperti”, e di conseguenza agli occhi dei cittadini, partiva già
con delle significative distorsioni e veniva accompagnato da
diversi luoghi comuni ancora molto vivi.
La
sindrome
di
Salgari
coincide
con
quella
rappresentazione dell’“altro” visto più nei suoi aspetti
“mitologici”, qualcuno che incuriosisce e spaventa al
contempo. L’espressione coniata da Geraci e Colasanti
prende il nome dalle spettacolari avventure intrise di
esotismo raccontate all’inizio del secolo scorso dallo scrittore
veronese Emilio Salgari, il quale descriveva con dovizia di
particolari paesaggi e personaggi di mondi lontani, pur non
essendovi mai stato. I racconti meravigliosi di Salgari, pur
essendo basati su descrizioni fittizie, non hanno minato il suo
successo e la grande diffusione della sua letteratura
33
La sindrome di Salgari 20 anni dopo, in Janus. Medicina: cultura,
culture, N. 21, “Sanità meticcia”, Zadigroma Editore, pp. 21-29.
103
romanzesca. Un po’ come Salgari, gli operatori “affetti” da
questa stessa sindrome, compiono, quando si ritrovano di
fronte a ciò che percepiscono come alterità, dei grandi viaggi
immaginari alla ricerca di patologie “strane e bizzarre” di cui
gli immigrati sarebbero portatori. Questo atteggiamento di
timore del contagio è testimoniato da comportamenti al limite
del paranoico che hanno investito non tanto e non solo
l’“uomo della strada”, quanto anche uomini politici negli anni
Novanta e che persistono ancora. Il senso comune è infatti
trasversale ad ogni strato sociale, a qualunque livello di
formazione e istruzione. Come spiega Geraci, l’ex ministro
De Lorenzo, all’inizio degli anni Novanta, aveva istituito, a
fronte dell’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese,
una commissione altamente specializzata che operasse per la
scoperta e la difesa da patologie rare potenzialmente
importabili dai migranti. Non solo gli immigrati venivano
associati al rischio di portare malattie infettive all’interno
delle frontiere, ma venivano anche ritenuti talmente alieni da
spingere i medici incaricati a ricercare accuratamente malattie
esotiche, sconosciute, e pertanto pericolose. La commissione
ministeriale creata da De Lorenzo per approfondire e
provvedere alla questione della salute degli immigrati, questa
“nuova popolazione” che cominciava ad essere presente sul
suolo italiano, constava infatti quasi esclusivamente di medici
tropicalisti, con l’aggiunta di alcuni infettivologi e di un…
veterinario.
Dai dirigenti politici agli operatori sanitari – dai medici
di ogni settore specialistico agli infermieri – si era diffusa
questa metodica ossessiva nella ricerca e nella diagnostica, su
pazienti immigrati, di malattie rare, per l’effetto di uno
sguardo intriso di pregiudizio nei confronti di quella
categoria,
all’interno
della
104
quale
era
decisamente
sovrastimata la presenza di patologie sconosciute i cui vettori
di diffusione sarebbero stati proprio i migranti.
Questa sopravvalutazione degli effetti della migrazione
sopravvive in modo estremamente vitale, il più delle volte
perché, trasmessa in modo inesatto ma efficace a livello
comunicativo, tramite slogan e immagini che colpiscono in
modo diretto, sfugge ad analisi più attente.
Spesso, è il confronto con i dati reali che permette di
ridimensionare il proprio sguardo e di mettere in dubbio
quegli assunti di dominio pubblico che, salgarianamente,
sono molto efficaci nel rappresentare la realtà, pur
nascondendola, pur non avendola mai vista. Riporto qui di
seguito la testimonianza di un medico che opera da alcuni
anni presso un’associazione di volontariato di Milano che si
occupa della tutela dei diritti dei cittadini stranieri, riportata
sulla newsletter associativa:
[…] Ho scoperto di essere stato affetto dalla Sindrome di Salgari che è stata
definita come il desiderio degli operatori sanitari alle prime armi con gli
stranieri, di scoprire patologie esotiche, incontrare strane malattie e fare
brillanti diagnosi nella popolazione immigrata.
Affetto dalla sindrome ho visitato 10, 15, pazienti ogni lunedì pomeriggio.
Qualcuno l’ho anche operato. Ho ascoltato tanti stranieri irregolari che
raccontavano le loro malattie alla caccia della malattia rara. Ma più passava il
tempo e meno questa si trovava e poco a poco calava la voglia di andare tutti i
lunedì al Naga. Desideravo incontrare la patologia rara e il non trovarla mai
mi creava noia, a volte ostilità, verso i pazienti che più o meno avevano
sempre gli stessi problemi. Passava il tempo e cresceva la consapevolezza di
non capirci niente. Non capivo perché gli stranieri venissero a farsi visitare
per il raffreddore, per la forfora, per i calli.
Leggere della sindrome di
Salgari è stata una specie di rivelazione, il primo passo per affrontare la
questione salute – immigrazione da un diverso punto di vista. […] Se per
curare gli immigrati servono caratteristiche particolari credo esse siano
105
nell’atteggiamento mentale disposto a riconoscere e superare i pregiudizi di
cui tutti siamo vittime inconsapevoli34.
Geraci e Colasanti, recentemente, hanno individuato
un’articolazione in tre fasi per quanto concerne la diffusione
e l’eventuale superamento della sindrome di Salgari. La
prima fase, quella dell’esotismo,
vede il più intenso ed articolato processo di produzione di "immagini
dell'altro". Lo straniero è in primo luogo un agente contaminante: il
medico o l’infermiere si aspetta di trovare il paziente affetto da chissà
quali strane malattie, lo inquadra come vettore di morbi esotici o malattie
inconsuete, ogni sintomo si ammanta di una sua presunta “eccezionalità”
rispetto alla patologia “addomesticata” nostrana, si richiedono non solo
più analisi, ma anche indagini più sofisticate alla ricerca di una sicura
malattia tropicale o comunque infettiva ben occultata. La ricerca di un
malato, che sia tale in virtù di un suo contatto con il pericolo esotico,
implica anche una maggior protezione dal potenziale contagio (Geraci
2006: 3).
In questa fase sono attivi tanto i pregiudizi che
inferiorizzano
l’“altro”
come
soggetto
potenzialmente
pericoloso, che contagia a livello sanitario e che contamina e
degrada a livello morale, quanto i pregiudizi che ribadiscono
quell’inferiorità e alterità attraverso un’altra prospettiva,
riferita ad un certo tipo di ideologie di stampo cattolicoconservatore, per le quali l’immigrato è visto come il
bisognoso a cui offrire aiuto per emanciparlo dalla sua
condizione di povertà (materiale e spirituale). Si tratta di due
aspetti operativi del pregiudizio che sono parte di uno stesso
processo di svalutazione e di non riconoscimento dell’“altro”,
e che in questo modo marcano con forza la sua diversità e la
sua alterità rispetto a “noi”.
34
Articolo tratto da Nagazzetta, Sindromi. La testimonianza di un medico
volontario del Naga, n. 15, marzo 2010.
106
Come sottolinea ancora Geraci, il pregiudizio non è
però unidirezionale. Se si accetta il presupposto secondo il
quale, come si diceva nei capitoli precedenti, ragionare per
stereotipi, crearsi dei modelli interpretativi e di lettura della
realtà e avere dei pregiudizi sono meccanismi comuni a tutti
per orientarsi con successo nel mondo, allora occorre anche
pensare – cosa che si fa molto di rado – al pregiudizio di cui
“noi” siamo investiti da parte “loro”. La sindrome da General
Hospital indica quell’insieme di aspettative che il migrante
possiede quando si reca nel Nord del mondo credendo di
poter essere curato in strutture laccate, come quelle che si
vedono nelle soap e nelle serie televisive americane, con
macchinari miracolosi e altamente tecnologici, di cui si ha
conoscenza – per lo meno al livello dell’immaginario – su
scala globale grazie alle antenne satellitari.
A questa fase, seguirebbe quella dello scetticismo: di
fronte all’evidenza – non si registrano le brillanti diagnosi
delle tanto agognate malattie esotiche e rare o sconosciute nel
corpo considerato infetto del migrante – emerge da parte del
personale medico una sorta di disillusione e una conseguente
disattenzione nei confronti di chi, dopo tutto, chiede
assistenza per mali “banali”: come sottolineava il medico
dell’associazione di volontariato, i migranti chiedono
assistenza per il raffreddore, su di loro e dentro di loro, non
c’è nulla di così interessante da scovare. A volte sono
considerati addirittura dei malati immaginari (perché
chiedono cure per un semplice raffreddore?). Specularmente,
anche gli immigrati rimangono particolarmente delusi dalla
cruda realtà che incontrano poco tempo dopo il loro arrivo
nel paese ospite: l’ipertecnologia sembra un miraggio, così
come l’efficienza delle dell’apparato burocratico, delle
strutture e del personale sanitario, spesso incompetente,
107
distratto, ingiusto. Il dubbio, in questa doppia direzione,
caratterizzerebbe in modo precipuo questa fase.
E’ a questo punto che subentra la fase del criticismo,
nel senso di crisi e di criterio (Geraci 2006: 3): gli operatori
e, simmetricamente, i migranti subiscono una crisi di fronte
alle aspettative disattese, ma proprio per questa ragione sono
spinti inevitabilmente a riformulare i propri criteri di giudizio
e di analisi.
Questa articolazione trifasica trova riscontro anche nel
percorso normativo in materia di salute e immigrazione,
secondo Geraci e i suoi collaboratori (Geraci 2006),
riferendosi al diritto alla salute per gli stranieri invisibile fino
al 1998, anno di approvazione del Testo Unico (la Legge
Turco-Napolitano che ha cura di specificare che tutti devono
poter esercitare il diritto alla salute, a prescindere dalla loro
condizione giuridica), frutto di un processo di maturazione
che, dagli anni Novanta ha portato al ripensamento delle
categorie e all’emersione di un diritto alla salute che fosse più
inclusivo. Tuttavia Geraci aveva affrontato questo genere di
riflessione, oltre che durante il periodo della comparsa della
sindrome negli anni Novanta, anche durante i lustri
successivi.
L’articolo a cui si è appena fatto riferimento, La
sindrome di Salgari…vent’anni dopo, risale al 2006, cioè
prima che le leggi sanitarie a tutela degli stranieri subissero
una brusca impennata verso l’esclusione e la discriminazione
– si potrebbe parlare, a partire dal 2009, di un criticismo
nuovo, con risvolti e sfumature più cupi.
A mio giudizio, si può pensare al modello interpretativo
suggerito da Geraci, Colasanti, Mazzetti e altri colleghi
medici delle migrazioni, non come ad un modello superato,
date le svolte negative degli ultimi anni, ma ancora molto
108
valido, soprattutto se visto non come uno schema che procede
seguendo un andamento di successione cronologica, ma
accettando di vedere le varie fasi come molto mescolate fra di
loro, pronte a sovrapporsi, senza che vi sia un'unica tendenza
generale.
Ho ritenuto importante citare il ragionamento proposto
da Salvatore Geraci poiché, oltre ad essere stato uno dei
principali propulsori di questo lavoro, si adatta e riesce a far
luce su molti dati che ho potuto personalmente raccogliere, in
ambiente ospedaliero e fuori, in materia di pregiudizio.
Come si vedrà, infatti, è possibile conoscere e ascoltare
gli interlocutori intravvedendo talvolta dell’esotismo, talvolta
dello scetticismo, talvolta del criticismo, come se, più che
rappresentare delle fasi in successione cronologica, potessero
servire da lenti attraverso cui guardare rappresentazioni e
comportamenti.
3.2 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MACRO”: IL
DIRITTO ALLA SALUTE IN ITALIA, TRA BUONE
INTENZIONI, RIPENSAMENTI E STRATEGIE DI
ESCLUSIONE
Parlare di pregiudizio come di uno di quegli “strati di
ovvietà” (Herzfeld 2006: XXI), implica riconoscerne non
solo la pervasività nel quotidiano, ma anche le caratteristiche
tipiche
di
un
modello
culturale
qualsiasi,
che
per
sopravvivere deve essere continuamente rinnovato, ribadito,
riaffermato. Solo se continuamente vivificato, ancorché con
mezzi impliciti, quel modello può far perdere le tracce della
sua artificialità ed essere ciò che incorporiamo, mentalmente
e fisicamente.
109
Pur non parlando di pregiudizio, Francesco Remotti
(2011a: 291), nel testo citato nel Capitolo I, parla
dell’intrinseca fragilità della cultura:
Ogni cultura […] esige di essere di continuo riprodotta, rifatta, rieseguita
(pena la sua estinzione).
L’impressione che ho avuto avvicinandomi alla
tematica salute-immigrazione e al relativo pregiudizio
nell’ambito sanitario, è infatti che il discorso sul pregiudizio
sia qualcosa che si tiene in piedi proprio in virtù della sua
continua riproposta e riproduzione in svariati ambienti e
situazioni del vivere sociale. Tuttavia, riconosciuto il
processo culturale che sta alla base di questo discorso e che lo
sottrae al dominio di ciò che è perché “è naturale che sia”, si
può trovare il tallone d’Achille del discorso stesso, che si
indebolirebbe nel momento in cui si cominciasse a smontarlo
pezzo per pezzo. Ma su questo passaggio tornerò in
conclusione a questo lavoro, concentrandomi su quella che a
me è parsa una via di fuga dall’ovvietà, rappresentata dalla
voce dell’“altro”, risorsa importante per far luce su possibili
alternative al “sistema”.
Il quadro normativo italiano che stabilisce le regole di
accesso e fruizione dei servizi sanitari per gli immigrati si
presenta altamente instabile e variegato. L’instabilità è
dovuta al carattere macchinoso del percorso legislativo in
materia di immigrazione, che ha portato ad una presa in
carico della questione relativamente tardiva rispetto ai primi
flussi dall’estero che negli anni Novanta si erano fatti più
consistenti.
La
sua
variegazione
è
invece
dovuta
all’irregolarità delle intenzioni e soprattutto delle azioni
politiche, che hanno più volte cambiato orientamento e che
non hanno saputo mantenere la stessa profondità e costanza
110
nella riflessione sull’assistenza sanitaria allo straniero,
dimostrando a tratti la volontà di creare un corpus di leggi
improntate all’inclusione, a tratti la precisa volontà di
marginalizzare ed escludere dal diritto determinate categorie.
Se si considera il pregiudizio come qualcosa di
ampiamente supportato dalla cultura nei suoi vari aspetti, si
deve tener conto della traduzione del pregiudizio stesso in più
linguaggi e su più livelli. Il pregiudizio può essere infatti
tradotto e veicolato da leggi e norme (livello “macro”). Gli
effetti di tali norme, e del modo in cui vengono formulate, si
ripercuotono su coloro che sono incaricati della formazione
degli operatori sanitari, e che seguono delle istruzioni più o
meno esplicite per attuarle (livello “meso”, in questo lavoro
rappresentato dai dati raccolti durante le giornate di
formazione per le professioni sanitarie). Le ricadute di un
impianto normativo pregiudizievole, nelle
intenzioni e
nell’espletamento, sono evidenti anche sugli operatori sanitari
che si trovano, nel concreto, ad operare una sintesi tra ciò che
le linee guida politiche dettano e ciò che i loro formatori
propongono e trasmettono. Gli utenti, i pazienti immigrati,
che subiscono le conseguenze di un pregiudizio multisituato
sono, insieme agli operatori, i due aspetti speculari e
complementari del livello “micro”, quello delle relazioni
interpersonali e del contatto diretto.
Ho ritenuto opportuno dunque far coincidere il livello
“macro” di trasmissione ed espletamento del pregiudizio, con
le politiche sanitarie.
Se si volesse tracciare sinteticamente il percorso
normativo sul versante sanitario nel nostro paese, si potrebbe
considerare come punto di partenza il periodo degli anni
Novanta, e in particolare si potrebbe ricordare il 1995 come
l’anno in cui, per la prima volta fa capolino nel contesto
111
politico italiano il tema del diritto alla salute, in modo più
concreto rispetto agli anni precedenti, in cui la salute era un
diritto per lo più invisibile e ben nascosto per gli stranieri
regolarmente presenti (a causa di una miriade di decreti mai
convertiti in Legge), o direttamente impossibile da esercitare
per gli irregolari.
È a partire dagli anni Novanta infatti che, in
concomitanza con l’aumento dei flussi migratori verso
l’Italia, cominciano a muoversi diversi gruppi, associazioni e
organizzazioni sempre più sensibili – e evidentemente più
attenti – al fenomeno migratorio e alla possibilità di estendere
e garantire pari diritti sanitari per i migranti. Questo è anche
il periodo in cui nasce la Società Italiana di Medicina delle
Migrazioni, ad indicare un differente approccio alle tematiche
sanitarie e politiche nei confronti dell’esperienza migratoria.
Le spinte “dal basso” di questo genere di mobilitazioni hanno
sottoposto all’attenzione della politica la questione del diritto
alla salute per gli immigrati, con un impegno tale da ottenere
il sostegno del ministro della Sanità Prof. Elio Guzzanti e da
far presentare, nell’agosto del 1995 un Disegno di legge che
prevedesse la tutela anche degli stranieri irregolari presenti
sul territorio. L’idea di fondo era e rimane, da parte di questi
enti promotori e difensori dei diritti fondamentali, la forte
convinzione che le restrizioni per la fruizione del diritto alla
salute non giovino all’interesse collettivo, e che per
salvaguardare il benessere della società intera sia nocivo un
atteggiamento discriminatorio.
L’impronta di questo messaggio è presente già
nell’articolo 13 (poi articolo 11) del Decreto Legge n. 489 del
18.9.1995, Disposizioni urgenti in materia di politica
dell’immigrazione, che sancisce il diritto alla salute per tutti
gli stranieri, al di là della loro condizione di regolarità o
112
irregolarità di permesso, e non soltanto in casi straordinari (le
cure urgenti) ma anche nel diritto alle cure di prevenzione e
continuative.
Non è questa la sede per dilungarsi sul modus operandi
tipico della politica italiana per quanto concerne le questioni
relative all’immigrazione – improntate all’“urgenza”, alla
risoluzione tempestiva, disordinata. Tuttavia si può ricordare
che, nel lessico giuridico, come è noto, una disposizione che
prende la forma di un Decreto Legge e non di una Legge vera
e propria, indica un provvedimento che vale come legge, ma
che è da considerarsi provvisorio e non definitivo, e a cui si
ricorre in casi eccezionali. Dopo circa trent’anni dai flussi
migratori più consistenti e visibili, l’Italia sembra considerare
il fenomeno ancora un’emergenza, e le problematiche
annesse delle urgenze a cui ricorrere senza soluzioni
sostenibili nel lungo periodo35.
Il Decreto n. 489/95, conosciuto come Decreto Dini, dal
nome del capo del Governo tecnico allora in carica, venne
reiterato per cinque volte ed è continuamente oggetto di
dibattito tecnico e politico, un dibattito in definitiva
produttivo perché ha permesso di formulare delle politiche
sanitarie più adeguate (Geraci 2009): in base a tale
provvedimento, l’inclusività diventa la cifra con la quale
vengono elaborate e implementate le politiche locali e
nazionali. L’articolo 13, ormai diventato articolo 11,
scompare quasi improvvisamente dal quadro normativo di
fronte all’impossibilità di reiterarlo ancora e alla conseguente
sentenza della Corte Costituzionale. Grazie ad un’Ordinanza
Ministeriale, viene reinserito grazie all’intervento dell’allora
35
Viene da domandarsi se il fatto di considerare in modo emergenziale un
fenomeno stabile non sia anch’essa una strategia politica (negare
l’esistenza di qualcosa significa, in fin dei conti, non assumersi la
responsabilità di affrontarla).
113
ministro della Sanità on. Rosy Bindi, e la tutele del diritto
all’assistenza per tutti viene in questo modo salvato
dall’eliminazione.
È nel 1997 che prende corpo un importante Disegno di
Legge, sotto il governo Prodi, Disciplina dell’immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero che porterà nel ’98 a
emanare il Decreto Legislativo n. 286 del 25.7.1998, il Testo
Unico
delle
disposizioni
concernenti
la
disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero,
che incorpora le disposizioni di quella che era da Disegno di
Legge era ormai diventata la Legge n. 40 del 6.3.1998. Il
Testo Unico, noto anche come Legge Turco-Napolitano,
contiene al suo interno alcuni articoli di fondamentale
importanza per quanto riguarda la salute degli immigrati: gli
articoli 34, 35, 36 e 42, 43, 44 contengono le norme e i
dettagli operativi per regolare l’accesso alle strutture sanitarie
e il diritto a ricevere cure sia per gli immigrati regolarmente
soggiornanti (art. 34), sia per quelli non in regola con il
permesso di soggiorno (art. 35), sia per coloro che fanno
ingresso in Italia per sottoporsi a cure mediche.
L’elemento che fa intravvedere un’impostazione il più
possibile inclusiva per la popolazione straniera è l’estensione
del diritto alle cure essenziali ma anche ordinarie e preventive
anche a coloro la cui condizione giuridica è di irregolarità o
clandestinità. In questa serie di disposizioni è anche segnalato
il divieto per gli operatori sanitari di denunciare la condizione
irregolare di chi richieda aiuto medico. Si tratta di una fase,
come non manca di sottolineare Geraci in più occasioni
(2006, 2009, 2012), in cui il diritto alla salute non solo ha
acquisito visibilità, ma ha anche potuto consolidarsi, grazie
all’azione
sinergica
della
politica
e
del
mondo
dell’associazionismo, la cui opera di sensibilizzazione,
114
formazione e informazione era riuscita ad arrivare ai centri di
potere più alti.
Nell’ottica di rendere più aperte le possibilità di
esercitare il diritto alla salute e trasferire nelle politiche
contenuti improntati all’equità (la qual cosa non si può invece
dire
per
le
politiche
riguardanti
gli
ingressi,
le
regolarizzazioni e i ricongiungimenti familiari, in cui la
restrittività è stata una caratteristica comune ai discorsi e alle
proposte dei vari schieramenti politici, a prescindere dal loro
orientamento a destra o a sinistra), la Legge n. 40 ha
permesso l’avvio di una serie di percorsi di riflessione che
ponevano il tema della salute per gli stranieri fra le priorità
del Sistema Sanitario Nazionale.
Questa fuoriuscita del diritto dalla zona d’ombra
dell’esclusione aprioristica, relativa allo status giuridico dei
migranti,
ha
significato
un
significativo
passaggio
dall’invisibilizzazione alla visibilità, ponendo al centro
dell’interesse politico e sanitario la tutela della persona, come
vorrebbe anche l’articolo 13 della Costituzione Italiana, per
cui la salute è un “fondamentale diritto dell’individuo”. La
Costituzione infatti non opera la distinzione tra cittadini e
non-cittadini, dichiarando implicitamente l’intenzione di
tutelare la persona al fine di tutelare la collettività. Si tratta di
un principio che permette di ridurre la diseguaglianza,
secondo una logica non tanto buonista ma ragionevolmente
volta ad integrare, per tutelare e per prevenire.
Nonostante le buone intenzioni però, le conquiste
normative raggiunte fino a questo momento non riescono a
farsi strada, per via dell’assenza di percorsi “intelligenti” e
lungimiranti, che garantiscano la sostenibilità dei progetti di
integrazione, e soprattutto a causa del forte attrito tra le
normative di riferimento per la regolarizzazione, che non
115
seguono gli stessi principi tendenzialmente inclusivi delle
politiche sanitarie. Queste frizioni vengono esacerbate con le
modifiche al titolo V della seconda parte della Costituzione e
il relativo effetto dell’articolo 117 della Legge Costituzionale
n.3 del 2001, dove si riscontra un’ambiguità di fondo
nell’oscillazione tra politiche sanitarie, la cui potestà
legislativa spetta alle Regioni (legislazione “concorrente”), e
politiche relative all’immigrazione in generale, di pertinenza
dello Stato (legislazione “esclusiva”), generando una tensione
difficile da sciogliere.
politico,
che
Il decentramento amministrativo e
determina
una
maggiore
autonomia
e
discrezionalità per le Regioni, produce così una situazione
estremamente eterogenea negli interventi, ed è molto
frequente che la normativa locale arrivi a confliggere con
quella statale, determinando disuguaglianze sia per l’accesso
ai servizi, sia per il profilo di salute della popolazione
immigrata su base territoriale (Geraci 2012). Se infatti le
politiche sanitarie locali possono da una parte smussare le
politiche nazionali, in genere più rigide, può anche avvenire il
contrario, cioè che alcuni enti locali, per allinearsi con la
politica statale, decidano di rendere vani e di abbandonare i
percorsi intrapresi nella direzione dell’inclusione. Oppure,
come capita molto spesso, gli operatori sanitari non sono
adeguatamente informati sulla prassi da seguire con stranieri
presenti in Italia a vario titolo. La cattiva informazione
diventa generatrice di diseguaglianze poiché di fronte
all’ignoranza sul da farsi, si sceglie soventemente di non
agire affatto, con evidenti e immaginabili ricadute sulla salute
per la popolazione straniera. Per fronteggiare questo
problema
drammaticamente
diffuso,
durante
il
corso
Immigrazione e salute in una società multietnica ho appreso
che di recente è stato stilato un documento indirizzato a tutti
116
gli operatori sanitari, intitolato Indicazioni per la corretta
applicazione della normativa per l’assistenza sanitaria alla
popolazione straniera da parte delle Regioni e Province
Autonome italiane36, allo scopo di evitare che persistano
quelle
lacune
informative
che
forniscono
un
alibi
all’inazione.
Se già nel 2001 il percorso verso maggiori tutele
comincia a procedere a singhiozzi, col passare degli anni e
delle legislature (si ricorda a questo proposito un’ulteriore
svolta negativa, rappresentata dalla Legge 189/2002, la
cosiddetta Legge Bossi-Fini, che si ispira a criteri tutt’altro
che “morbidi” nella regolamentazione dei flussi e delle
permessi di soggiorno), la situazione va aggravandosi, e la
salute dei migranti comincia a perdere quella posizione di
rilievo che con fatica aveva acquisito in precedenza.
Nonostante alcune proposte positive, come quella di
Livia Turco di istituire una Commissione Salute e
Immigrazione (2006), con l’intento di promuovere gli
interventi di prevenzione, incrementare l’accessibilità e la
fruibilità dei servizi sanitari e addirittura di contrastare il
pregiudizio sanitario nei confronti degli stranieri, l’apparato
politico non prende seriamente in carico le questioni sanitarie
degli immigrati. Questa stessa Commissione perde valore, si
riunisce pochissime volte, non traduce i documenti stilati in
atti formali e, per mancanza di fondi assegnati, nel giro di
appena due anni cessa praticamente le sue attività.
Prima di arrivare al 2008-2009, già segnalato come
momento culminante di quella crisi delle politiche sanitarie a
tutela degli immigrati, altri segni di disinteresse da parte della
36
Documento realizzato nel giugno 2011, ad opera della Direzione
Generale diritto alla Salute e Politiche di Solidarietà e del Coordinamento
Interregionale in Sanità, all’interno del Tavolo interregionale “Immigrati
e Servizi Sanitari”, con il Coordinamento dell’Osservatorio sulle
Disuguaglianze nella Salute (Regione Marche).
117
politica si possono ravvisare nel Disegno di Legge Delega
sull’immigrazione (Legge Amato-Ferrero dell’aprile 2007),
che contiene pochi riferimenti e dettagli in merito alla sanità,
se non un accenno all’inclusione degli stranieri nel Sistema
Sanitario Nazionale. Il 2007 è anche l’anno dell’apertura
all’Unione Europea per la Bulgaria e la Romania. Non sono
stati pochi i problemi relativi, di nuovo, alla scorretta
informazione da parte del personale medico-sanitario
relativamente ai neocomunitari. A questi ultimi, a livello
sanitario, in quanto cittadini teoricamente aventi pari diritti
agli altri cittadini europei, sarebbe stata garantita ogni cura
necessaria dietro esibizione della tessera TEAM, la tessera
europea di assicurazione malattia, in caso di soggiorno di
breve durata. Tuttavia, si sono verificati più casi in cui molti
cittadini neocomunitari non hanno potuto beneficiare delle
cure garantite nella teoria, ma non nella pratica, poiché non
in possesso di tale tessera, a causa della loro fragilità socioeconomica. E’ da chiarire inoltre che molti di questi cittadini
neocomunitari si sono trovati a viaggiare in Italia non per un
breve soggiorno, ma con la prospettiva di rimanere nel nostro
paese per una durata maggiore ai tre mesi coperti dalla
TEAM.
Questo è uno dei tanti paradossi insiti nel legiferare in
materia di sanità e immigrazione in generale: alcune norme
sono intrinsecamente discriminanti, pregiudicano l’accesso ai
servizi di cura e generano l’esclusione dei migranti
dall’esercitare i loro diritti, sulla base di cavilli che sembrano
appositamente costruiti per lasciar fuori qualcuno. Nel caso
dell’Europa, l’ingresso di due paesi come la Bulgaria e la
Romania dovrebbe far pensare all’equiparazione dei diritti e
dei doveri degli altri stati comunitari. Tuttavia, il linguaggio
delle politiche e i loro contenuti fanno comprendere molto
118
bene che la salute è un bene comune ad alcuni soggetti e
categorie, e che qualcuno è “meno uguale” di qualcun altro.
Non a caso, come ho notato presso diversi miei interlocutori,
l’etichetta di “extra-comunitario” viene ancora applicata ai
migranti provenienti dalla Romania o dalla Bulgaria,
ignorando del tutto la possibilità di definirli membri
comunitari quanto un cittadino italiano.
In definitiva, anche nel caso dei neocomunitari, la
mancanza di informazioni adeguate ha portato nuovamente a
grandi discrezionalità da parte degli operatori sanitari.
Dalle buone intenzioni, si è dunque passati ai
ripensamenti, alla confusione e alle incertezze e, in ultimo, al
diniego del diritto alla salute, che è coinciso in modo evidente
con
l’emanazione
del
“pacchetto
sicurezza”
e
del
conseguente clima di criminalizzazione contro la popolazione
immigrata. Come si diceva nel paragrafo 3.1, la cancellazione
della norma di divieto di segnalazione che era stata introdotta
nel Testo Unico del 1998, poi sventata solo grazie ad una
ingente mobilitazione di protesta che i dirigenti politici non
hanno potuto ignorare, ha creato un clima di incertezze che è
perdurato anche molto oltre la definitiva approvazione della
norma, che lasciava per lo meno invariato il divieto di
segnalazione. I timori per il rischio della denuncia non sono
scomparsi e per un lungo periodo, fino ad una circolare del
Ministero dell’Interno, sul finire del 2009, che ha fatto
chiarezza sul divieto di segnalazione salvo i casi in cui sia
obbligatorio il referto (per le azioni delittuose perseguibili
penalmente), la confusione è stata grande tra operatori, che
non sapevano in che direzione muoversi, e utenti, che hanno
preferito rinunciare all’assistenza medica per non correre il
rischio di essere denunciati.
119
La grave ambiguità era in questo caso determinata dalla
doppiezza della norma, volutamente poco chiara, sul divieto
di denuncia in caso di irregolarità e la coincidenza
dell’irregolarità stessa con un azione punibile secondo le
prescrizioni del diritto penale. L’aspetto più inquietante della
norma è infatti rappresentato dall’equiparazione di un reato
amministrativo (la scadenza o la non regolarità di un
documento di ingresso e soggiorno) ad un reato penale (come
un omicidio, un atto di violenza e via dicendo). Se si volesse
indicare un luogo fisico in cui questa nefasta coincidenza e
commistione categoriale prende forma, si potrebbe pensare ai
CIE, i Centri di Identificazione ed Espulsione che raccolgono
soggetti la cui irregolarità di soggiorno è stata rintracciata
dalle autorità, e la cui detenzione arriva ai 18 mesi, la stessa
prevista per gli indagati per associazione mafiosa, sequestro
di persona, pornografia e violenza sessuale (Geraci 2012).
In questo senso, questi centri di detenzione, possono
essere visti anche come una sintesi concreta di ciò che
Alessandro Dal Lago chiama “la ridefinizione neorazzista
dell’immigrato” (1999: 95), per la quale l’appartenenza
etnica collima con la delinquenza. Ritornando di nuovo al
commento di apertura al paragrafo 3.1, del degrado morale di
un quartiere e di una società intera, la responsabilità e la
colpa ricadono interamente sull’immigrazione. Non esistono
distinzioni tra stranieri, stranieri irregolari e criminali. Non si
tiene conto del fatto che con un permesso di soggiorno in
scadenza si può passare dall’oggi al domani da una
condizione di regolarità ad una condizione di invisibilità
giuridica, e di precarietà estrema dovuta alla perseguibilità
penale. Ma la complessità delle singole situazioni non è
compresa nello sguardo pregiudizievole, che azzera qualsiasi
dislivello e riduce il migrante a una sola dimensione, in
120
questo caso quella del criminale, che assume qualità
estremamente elastiche, in grado di abbracciare i soggetti
migranti che si trovano nelle condizioni più svariate.
Nel 2009, con l’emanazione del “pacchetto sicurezza” il
pregiudizio coltivato (e la cultura in effetti si coltiva e va
coltivata, come indica l’etimo latino della parola: colere,
coltivare) dall’inizio degli anni Novanta sembra aver preso
una forma concreta. Tutti i timori legati alla sicurezza, alla
difesa del proprio territorio e aggiungerei, per quanto
riguarda la salute, delle proprie risorse e dei propri servizi, da
elementi minacciosi e degradanti, ricevono con questa
normativa una degna risposta.
Il senso comune più pernicioso, quello secondo il quale
migrante è rappresentato quotidianamente come una minaccia
o come un peso insopportabile, ha trionfato nel momento in
cui la politica ha dimostrato il suo disinteresse, ha rinunciato
a fare dell’esperienza migratoria una questione seria (non un
“problema” serio), in base alla quale riorganizzare il dibattito
politico e le relazioni tra i membri di una collettività più
estesa e composita.
Il senso comune, nella rappresentazione degli immigrati
come pericolosi, scomodi, o disgraziati, si rafforza anche
grazie a quelle ambiguità normative, a quei percorsi pieni di
buone intenzioni ma non sostenute nel tempo e non rese
pratiche.
Le
ambiguità
generano
confusione
e
sembrano
diventareuna strategia politica. E in questo si rivede ciò che
alcuni anni fa scriveva Dal Lago, a proposito del doppio
gioco delle società di immigrazione:
[…] la durezza delle norme contro i clandestini e l’accettazione di un
certo afflusso di migranti, la coesistenza di esclusione e ideologia del
multiculturalismo, di negazione dei diritti e di esaltazione della diversità
121
culturale, di ossessione per il controllo degli stranieri e di tolleranza del
lavoro nero (1999: 46-47).
Il contesto sanitario è da intendersi come uno dei settori
della società dove agisce il procedere paradossale del senso
comune, prima elevato a norma giuridica e poi trasformato in
slogan politico.
È interessante notare come, in ambito sanitario, trovino
un canale concreto di sfogo molte delle paure che già
prendevano forma intorno alla figura dell’immigrato nei
primi anni Novanta. La visione dello straniero come
potenziale criminale ha assunto una forma legittima con
l’entrata in vigore del “pacchetto sicurezza”, che ha
cancellato la distinzione fra
il reato amministrativo
(l’irregolarità dei documenti di soggiorno) e il reato penale.
Anche in ambito sanitario, l’immigrato continua ad essere
visto come un pericolo pubblico, poiché viene rappresentato
come potenziale e principale vettore di contagio.
Come si vedrà nell’analisi dedicata alle voci degli
interlocutori dell’ambiente ospedaliero, il timore del contagio
è strettamente attinente alla pratica infermieristica, che
prevede una serie di accorgimenti e l’utilizzo dei dispositivi
di sicurezza come guanti e mascherine. Tali dispositivi sono
adoperati
anche
per
evitare
che
il
contagio
passi
dall’operatore al paziente e dunque, in generale, garantiscono
bidirezionalmente una protezione, tanto all’utenza, quanto
alle professioni sanitarie. L’aspetto interessante nell’uso di
queste protezioni si coglie quando sono arbitrariamente
utilizzate nei confronti di utenti stranieri, come ho avuto
occasione di notare durante alcune osservazioni in Pronto
Soccorso. In questo senso, il naturale timore di contagiarsi
per uno schizzo durante un esame di routine in ospedale può
venire amplificato nel momento in cui, sinergicamente,
122
agiscono i rappresentanti politici con le loro dichiarazioni a
effetto e i media con la loro tempesta di messaggi
allarmistici.
Nel 2006 il ministro Amato dichiarava, sollevando
immediatamente molte reazioni indignate da gran parte del
personale esperto di medicina delle migrazioni, che
Non è possibile eliminare i CPT e lasciare per strada chi sbarca perché c’è
un’emergenza sanitaria con casi di lebbra, TBC e scabbia.
O ancora, su un’altra testata nazionale:
Non possiamo mica lasciare su una strada chi sbarca da un barcone. Li
dobbiamo accogliere. E li dobbiamo anche visitare. Sono un pericolo
sanitario. Serve una verifica. È gente povera che viene da Paesi poveri,
dove la sanità è modesta e dove ci sono malattie come la scabbia o la
tubercolosi.37
Anche questa dichiarazione è colma di luoghi comuni.
Se ne possono cogliere di almeno tre ordini: gli immigrati
sono dei disperati che giungono nel nostro paese solo per
mare, con mezzi di fortuna; è gente esclusivamente povera;
provoca emergenze sanitarie perché porta entro i nostri
confini quelle malattie tanto temute di cui noi non abbiamo
neanche più memoria. Gran parte dei migranti raggiunge il
nostro paese anche via terra (un immigrato dall’Europa
dell’est non troverà più comodo spostarsi via mare); colui che
migra ha in genere i mezzi economici necessari per affrontare
le spese di viaggio, molto onerose e in ultimo deve poter
godere di buona salute per affrontare le fatiche dello
spostamento e quelle di adattamento nel contesto di approdo.
37
Le dichiarazioni sono comparse rispettivamente sul Corriere della Sera
e sul quotidiano La Stampa, il 28 settembre 2006 (corsivi miei).
123
Ma la gravità maggiore di questa dichiarazione risiede
nell’aver la presenza di un’emergenza sanitaria. La
definizione di tale fenomeno rimanda a una condizione di
pericolo abnorme per un esteso numero di persone e che
richiede interventi immediati, cosa che non accade se non
molto di rado, per le ragioni spiegate nel paragrafo che tratta
della sindrome di Salgari. Usare espressioni di una simile
gravità senza la coscienza del loro significato è un atto
estremamente grave, che devia l’attenzione del cittadino e
dell’operatore sanitario verso problemi inesistenti
e
giustificare in questo modo altre azioni politiche – in quel
caso la permanenza dei Centri di permanenza temporanea
come la “miglior” soluzione ai flussi migratori.
Le conseguenze di tali affermazioni, prodotte dai
politici e suffragate dai media, sono la perpetuazione di
quell’immaginario con cui l’“altro” è pensato e visto, peraltro
già connotato negativamente, a cui semplicemente si
continuano ad addossare caratteristiche intollerabili.
L’“altro” viene rappresentato come l’elemento di
disturbo, che si infiltra nel corpo sociale, disgregandolo, e nel
corpo fisico, contagiandolo.
Le reazioni che questi messaggi istigano sono quelle o
di repulsione o di un’“accoglienza” viziata dal pregiudizio.
L’“altro” viene allontanato o isolato o, in alternativa,
sopportato o tollerato.
Il pregiudizio che si riscontra in ambito medicosanitario diventa una metafora con cui leggere e con cui
spiegare il modo in cui l’esperienza migratoria è vissuta e
affrontata dalla società.
I livelli sui quali il pregiudizio si dispiega sono infatti
strettamente intrecciati fra loro, rappresentano cause ed effetti
di una stessa retorica continuamente riproposta e riaffermata.
124
Da parte della politica e dei
media, lavorare sulla
paura, sulla creazione di un clima di tensione, sociale e
sanitaria, diventa una strategia di grande efficacia.
È opportuno riproporre a questo proposito un processo
sociale di senso comune che Dal Lago ha definito “tautologia
della paura” (1999), che si adatta molto bene a questo
modellarsi e assestarsi l’uno sull’altro dei vari piani di azione
del pregiudizio, dall’ambito politico a quello sanitario.
Secondo Dal Lago
infatti la semplice enunciazione
dell’allarme (nel caso delle dichiarazioni del ministro Amato
l’“emergenza sanitaria” degli immigrati che sbarcano sulle
nostre coste) dimostra la realtà che esso denuncia (1999: 73).
Ciò significa che benché falsa o assolutamente improbabile,
una situazione definita come reale, diventa reale nelle sue
conseguenze38. Nel processo di elaborazione dello scenario di
pericolo rappresentato dagli immigrati, questi rappresentano
la risorsa simbolica a cui attingere in primo luogo. La
definizione soggettiva dei cittadini – del loro timore – assume
una prima forma oggettiva con i media, a cui segue una
trasformazione della risorsa simbolica in frame dominante,
successivamente riconfermato dai cittadini. Le misure
legislative rese operative dai politici confermano a loro volta
quel frame dominante (1999: 74-75).
Anche in ambito sanitario, produrre paura è un mezzo
funzionale a creare consenso e legittimità per l’adozione di
misure marginalizzanti e discriminanti. Non solo. Le norme
che estromettono i migranti dalla corretta ed equa fruizione
dei servizi sanitari godono della soddisfazione generale
proprio in virtù della paura da un lato e del fastidio dall’altro,
generati da quegli elementi scomodi che minacciano
l’integrità del corpo sociale (invadono il paese e, nello
38
Si tratta del famoso teorema di Thomas della definizione della
situazione (1918; 1969), ripreso anche da Dal Lago (1999).
125
specifico, invadono gli ospedali creando disordine e
confusione) e del corpo fisico (è giusto isolarli perché vicino
a loro incorriamo maggiormente nel rischio di contagio di
malattie pericolose)39.
Attraverso questi meccanismi si crea una precisa
immagine dell’“altro”, un “altro” che però rimane travisato e
misconosciuto,
invisibile
nella
sua
complessità,
ma
paradossalmente riconoscibile ed identificabile attraverso
caratteristiche negative.
Ancora zoo umani (Blanchard 2000). Riesaminando le
macrosequenze del percorso normativo sanitario si assiste
esattamente ad un processo di invisibilizzazione dell’“altro”
nelle sue caratteristiche di persona40. L’“altro” è visibile per
le sue caratteristiche “etniche”, in primo luogo, dalle quali
emerge un’inconciliabile diversità somatica, linguistica e di
costume, e una diversità anche nella malattia. Si segue, in
questo senso, la logica dicotomica noi/altri, e il ragionamento
che ne deriva, conduce a concludere che se “loro” sono
diversi, si ammaleranno in modo diverso. Per precauzione,
nel 1990, l’incarico ministeriale di verifica e controllo delle
condizioni di salute della specie “aliena” veniva affidata
anche ad un veterinario. È visibile per le sue caratteristiche
sociali, dove la sua immagine viene quasi sempre riferita
all’approfittatore, al peso gravoso di cui la società deve farsi
carico senza alcun vantaggio, rischiando anzi di incorrere nel
pericolo di emergenze sanitarie.
Queste osservazioni – sia quelle dedicate ai “primordi”
della costruzione dell’immaginario e del pregiudizio verso
l’“altro”, nei capitoli precedenti, sia quelle ora dedicate alla
39
Queste dichiarazioni fra parentesi sono le sintesi delle dichiarazioni
degli infermieri intervistati nei Pronto Soccorso di riferimento della
ricerca.
40
Cfr. Capitolo I.
126
pervasività di quel pregiudizio nel sistema normativo e
politico italiano in materia sanitaria – sono utili per la
comprensione
dei
paragrafi
successivi.
Verrà
infatti
presentata, su altri livelli, la perpetuazione e il ripristino
continuo del pregiudizio, funzionale alla sua sopravvivenza e
resistenza come vero e proprio sistema culturale, incorporato
e agito.
3.3 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MESO”: LA
FORMAZIONE ALLE PROFESSIONI SANITARIE
Partecipare ad alcune giornate di formazione per le
professioni sanitarie è stata una scelta principalmente dettata
dalla necessità di sondare un terreno intermedio fra i dettami
degli ordinamenti giuridici e le linee guida politiche e
l’operato concreto degli infermieri.
Avevo già cominciato a raccogliere interviste e a fare
osservazione
in Pronto Soccorso, ma era diventato utile
sapere in che misura gli atteggiamenti e i comportamenti
degli interlocutori che avevo incontrato, come probabilmente
quelli che non ho raggiunto, fossero determinati tutti da
“spontanee” reazioni ai messaggi politici e mediatici oppure
se fossero in qualche modo incoraggiati anche da coloro che
sono incaricati della loro formazione professionale.
Da molto tempo la professione infermieristica prevede,
negli
stessi
percorsi
formativi,
universitari
ed
extrauniversitari, precisi spazi di approfondimento legati alla
dimensione relazionale nel rapporto con il paziente. Sono
anche previsti, fra gli insegnamenti dei corsi di laurea in
Scienze infermieristiche, lezioni di Antropologia culturale,
Sociologia e altre discipline che sensibilizzino gli aspiranti
127
operatori a interpretare la cura come qualcosa di strettamente
legato alla sfera culturale, e a vedere la persona stessa nella
sua complessità biologica ma anche sociale.
Le giornate di formazione a cui ho assistito, organizzate
dall’A.O.U. San Giovanni Battista di Torino, erano rivolte a
tutte le professioni sanitarie, anche se di fatto la maggioranza
dei partecipanti era specificamente composta da infermieri.
I temi affrontati erano di estrema attualità, come
specificato nel Capitolo II. Il titolo stesso, Immigrazione e
salute in una società multietnica, rimandava ad un dibattito
che investe ogni settore della vita pubblica, oltre a quello
sanitario, e di cui tutti hanno una evidente percezione ed
esperienza, più o meno diretta.
Più che mimetizzarmi fra il pubblico, mi sono resa
praticamente invisibile – la qual cosa non era certo difficile,
essendo stata presentata dagli organizzatori come uditrice
esterna: tutti sapevano che non ero medico o infermiera, e
dunque non mi hanno molto considerato; da parte mia,
dovevo e volevo stare attenta a non espormi più di tanto, per
evitare che la mia presenza diventasse ingombrante . Senza
poter intervenire, mi sono limitata ad annotare ciò che
ascoltavo e vedevo, restringendo le mie possibilità di
interazione con relatori e discenti nelle pause pranzo e nelle
pause di metà mattinata.
Durante le giornate di formazione, avevo organizzato le
note in modo tale da poter riconoscere, a posteriori, chi
pronunciava le dichiarazioni che trascrivevo, distinguendo tra
il pubblico e i formatori con colori diversi, e inserendo una
terza sezione fra gli appunti dedicata ai miei commenti e
impressioni personali. Questi ultimi rappresentavano i miei
interventi, quelli che avrei voluto fare ad alta voce e che sono
rimasti muti, almeno finora.
128
L’impressione personale che ho avuto al termine di
queste giornate è che il senso comune abbia avuto un peso
molto rilevante all’interno di questo specifico contesto
formativo. Nonostante alcuni interventi significativi, che
hanno
rappresentato
quel
dubbio,
quell’elemento
di
discussione, nelle persone di due membri della SIMM, tra cui
Salvatore Geraci, gli altri relatori hanno a mio giudizio
riproposto e vitalizzato quella logica che non ci allontana dal
pregiudizio, e che al contrario contribuisce a sostenerlo.
È molto importante sottolineare che la formazione
presa in esame è un esempio di come una cultura del
pregiudizio possa essere alimentata anche da chi si dice
“esperto” di tematiche interculturali. Ma tengo molto a
precisare che le obiezioni e rimandi che sono presenti in
questo paragrafo sono indirizzati a ciò che personalmente ho
visto ed ascoltato.
La condanna non è qui rivolta ai singoli, che peraltro
fanno parte di un caso circoscritto. Ho potuto tuttavia
cogliere dei rimandi a quel sistema che incoraggia un modo
di vedere e di pensare l’intercultura che non focalizza
l’attenzione sulla complessità, ma che si adagia sulle
ipersemplificazioni e riproduce in certa misura quelle
dinamiche “patologiche” che generano incomprensione ed
esclusione.
L’incapacità di contrastare quella logica dicotomica che
distingue “noi” da “loro” anche nei contesti di cura e
assistenza sanitaria da parte dei responsabili della formazione
che ho incontrato, è stato perciò motivo di profonda
riflessione, e talvolta di grande insofferenza nel dare per
scontate molte ovvietà del senso comune, che creavano
consenso generale senza che fossero messe in discussione.
129
In ambito sanitario, ci si sta muovendo, negli ultimi
anni, verso la formulazione di un programma formativo che
tenga in considerazione l’importanza delle scienze sociali e
delle discipline che esulano dal campo strettamente medico
ma che ad esso sono connesse. L’idea di promuovere un
corso rivolto alle professioni sanitarie che avesse come
oggetto la questione dell’immigrazione rappresenta infatti la
volontà di confrontarsi sulla dinamicità e sulle nuove
esigenze della realtà sanitaria. E la partecipazione da parte
degli operatori a queste giornate è evidentemente mossa
dall’esigenza di approfondire tematiche interculturali e
rispondere a problemi di natura pratica che si riscontra nei
contesti di cura. Inoltre, per la formazione delle professioni
sanitarie, si coinvolgono sempre più antropologi o sociologi,
ad indicare una crescente apertura verso settori disciplinari
che possono offrire alcuni suggerimenti per interpretare e
migliorare il rapporto con l’utenza.
Rispetto a ciò che ho avuto modo di ascoltare, tuttavia,
ho colto alcuni elementi che a mio giudizio andrebbero rivisti
e riformulati, muovendosi sempre di più nella direzione del
coinvolgimento
di
strumenti
e
approcci
di
stampo
antropologico per far fronte a necessità umane e culturali, in
parallelo con quelle mediche.
Lo scopo di questa interdisciplinarità potrebbe essere
individuata proprio nel concorso allo sradicamento dei
pregiudizi più comuni, che se riproposti anche in ambito
formativo, possono portare a riprodurre scenari semplificati e
a fornire indirettamente degli argomenti che giustificano le
disparità nel trattamento dell’utenza straniera.
In sintesi, queste giornate di formazione, a mio
giudizio, hanno rappresentato un’occasione mancata per
130
riportare su un piano realmente critico e costruttivo le
discussioni in materia di intercultura.
Durante il corso di formazione che ho seguito, il
momento culminante delle retoriche del pregiudizio in ambito
sanitario, ho trovato che sia stato toccato durante la giornata
dedicata alla trattazione di Mutilazioni Genitali Femminili,
un argomento particolarmente delicato che per molti
rappresenta l’emblema dell’irriducibile lontananza tra “noi” e
“loro”.
Alcuni commenti significativamente viziati dalla logica
della differenza inconciliabile con l’“altro” provenivano dal
pubblico, ma venivano confermati e sottoscritti dalla
formatrice. L’impressione, alla fine di quella lezione, era
quella di aver assistito ad una chiacchiera da bar, trasposta in
un’aula universitaria. Il senso comune e i luoghi comuni, cioè
letteralmente sentiti come comuni, hanno creato, nel gruppoclasse e con l’insegnate, una solidarietà e una coesione che
non ho percepito così fortemente anche durante gli altri
incontri.
Al
solo
pronunciare
il
titolo
della
relazione,
“Mutilazioni genitali femminili (MGF)”, le reazioni del
pubblico si dividevano tra chi liquidava la pratica come
barbara e chi proponeva drastiche soluzioni alternative, come
ad esempio il taglio degli organi sessuali esterni maschili ai
soggetti responsabili di quelle atrocità. A questi commenti
non è stata immediatamente opposta, da parte della
formatrice, alcuna azione correttiva, spiegando ad esempio
che la pratica viene eseguita in genere da donne e che gli
uomini spesso hanno un potere decisionale relativamente
limitato in merito alle operazioni, o che prima di giudicare
barbaro tale costume (proponendo peraltro, per contrastarlo,
una “punizione” decisamente cruenta), sarebbe possibile fare
131
riferimento agli interventi di chirurgia plastica a cui ci si
sottopone nel mondo occidentale, spesso altrettanto invasivi e
permanenti. I commenti inferiorizzanti degli operatori e i
supporti da parte della formatrice hanno permesso ai luoghi
comuni di cadere “a cascata” nell’aula, e la discussione,
basata su dicerie piuttosto che su dati concreti e
approfondimenti, si è protratta per l’intera mattinata.
Riporto alcune frasi emblematiche degli operatoridiscenti:
Ma perché nella loro cultura il piacere femminile è vietato? Le donne di lì
non capiscono che è un’aberrazione?.
Il discorso, come mostra questa frase, presa ad esempio
tra le tante, verte esclusivamente sul piacere femminile,
ignorando
completamente
la
funzione
sociale
dell’operazione, senza anche solo suggerito il dubbio che si
tratti di qualcosa di più complesso da spiegare e da cogliere.
La donna è vista come se fosse l’oggetto di un atto vandalico
sul suo corpo, di cui nemmeno è consapevole, e che non
possiede i mezzi (intellettuali? culturali? cognitivi?) per
comprendere.
È la donna che subisce…quello è solo un modo per tenerla sotto
controllo, è solo per quello
La donna, che il senso comune vuole emancipata in
Occidente e frustrata e repressa nella sua femminilità nel
resto del mondo, è qui privata della sua agentività, e vista
come soggetto passivo sottomesso al potere e all’abuso
maschile.
132
Ma la cultura araba è così, è quella che tratta le donne in modo meno
equo. Ogni cultura ha le sue usanze, ma quella araba tratta le donne
peggio di altre…io vorrei proprio capirne di più perché in questo sono
poco elastica.
La pratica delle MGF viene etnicizzata e ricondotta
all’interno di confini nazionali e culturali, ignorando che si
tratta di una pratica trasversale a più aree geografiche diverse,
e indipendente dai dettami religiosi. Di nuovo si sposta
l’attenzione verso la presunta inferiorità della donna, e verso
la sua passività in contesti culturali non-occidentali.
E, improvvisamente, si finisce col parlare dell’usanza
di indossare il burqa, la cui unica pertinenza nel discorso che
in quel momento andava sviluppandosi, era quella di essere
anch’esso un tema inflazionato e ridotto a luogo comune che
indica la presunta sottomissione della donna in alcuni contesti
culturali.
La confusione, la cattiva informazione, insieme alla
reazione debole e accomodante da parte della formatrice, ha
reso quella che doveva essere un’aula di formazione, un
laboratorio di luoghi comuni.
Dalla docente giungono altre dichiarazioni riduttive:
Chiamiamole pratiche tradizionali…è comunque una forma di controllo, e
sono eseguite dalle santone dei villaggi.
“Pratiche tradizionali” diventa sinonimo di arretratezza,
una leggera giustificazione ad un atto considerato aberrante,
funzionale alla sottomissione della donna, secondo il classico
luogo comune già emerso. Le santone dei villaggi sono figure
non ben identificate, ma che tutti conoscono o per lo meno
riconoscono nell’iconografia di un immaginario dell’alterità,
in stile “salgariano”.
133
Infine, la classificazione delle MGF viene interpretata
in modo difforme dalle intenzioni con cui l’Organizzazione
Mondiale della Sanità ha voluto presentarla di recente (2008):
(Proiettando una slide con la classificazione delle MGF dell’OMS)
Vedete, la prima cosa che fanno è l’ablazione del clitoride, come a dire:
“Prima ti privo del piacere”, e poi tutto il resto, le fanno la seconda
operazione, la terza, eccetera.
La classificazione dell’OMS ha suddiviso in quattro tipi
gli interventi effettuati sugli organi sessuali femminili: il
primo tipo comprende l’escissione, con o senza asportazione
totale o parziale della clitoride; il secondo tipo l’escissione
della clitoride con totale o parziale asportazione delle piccole
labbra; il terzo tipo rinvia invece alla rimozione totale dei
genitali esterni e al restringimento dell’apertura vaginale o
sutura (infibulazione). Il quarto tipo è “misto” e comprende
una serie di interventi non ascrivibili alle prime tre categorie,
alcuni dei quali diffusi anche in contesti occidentali, come ad
esempio il piercing.
Presentata come nella citazione, sembra invece essere
una successione cronologica degli interventi, che muove da
quelli meno cruenti a quelli più invasivi. Quella che è una
distinzione in categorie, diventa una sequenza di fasi
cronologiche, e l’interpretazione finale ne risulta pertanto
stravolta.
La discussione sulle MGF segue le dinamiche confuse
delle libere associazioni di idee, delle sentenze per luoghi
comuni, e delle conseguenti mistificazioni dei significati. Ma
mette indubbiamente tutti d’accordo. I dati presentati sulle
conseguenze sulla salute delle donne che hanno avuto
esperienza di tali pratiche, sembrano la riprova che si tratti di
azioni meritevoli delle peggiori condanne.
134
Ma purtroppo, quando non conoscono altro…Purtroppo in quei paesi la
donna non ha voce in capitolo…Mi auguro che tra cent’anni quelle cose
non si pratichino più in quei paesi.
Di nuovo si offre una giustificazione alla “barbarie”
sulla base della mancanza di alternative, trasmettendo ancora
una volta il messaggio secondo il quale le donne non hanno
scelta, nel senso che sono ignoranti o semplicemente ottuse.
La conclusione di sapore evoluzionista pone fine alla
trattazione
dell’argomento:
si
spera
che
un
giorno,
evidentemente ancora molto lontano, loro capiranno la
gravità e l’oscenità della loro barbarie e vi rinunceranno.
La formatrice addetta alla trattazione delle MGF, nei
loro aspetti “culturali” e sanitari, aveva aperto l’incontro
sostenendo la delicatezza dell’argomento e asserendo che il
tema il tema avrebbe scatenato, come solitamente accade, un
acceso dibattito.
La
percezione
che
invece
ho
avuto
durante
quell’incontro era esattamente opposta. Il dibattito non è mai
stato aperto, dal momento che ognuna delle parti coinvolte
(docente e discenti), partiva dagli stessi presupposti, e
giungeva alle medesime conclusioni.
Le
dichiarazioni
qui
riportate
forniscono
delle
indicazioni di come i processi di riproduzione e riproposta del
pregiudizio siano drammaticamente presenti anche negli
ambienti di formazione. Si divide nettamente il “noi” dal
“loro” (e si tratta di un’effettiva dicotomizzazione, che separa
“noi” dal resto del mondo), e si procede con le
ipersemplificazioni, ignorando la possibilità di valutare il
fenomeno preso in considerazione nella sua complessità.
Se si legge uno dei Pareri del Comitato Nazionale per la
Bioetica in merito alle MGF, si conferma il funzionamento
135
della retorica differenzialista, di cui la formatrice qui presa in
esame non è che portavoce, e che gli operatori iscritti al corso
di formazione,
possedendo
le
stesse
argomentazioni,
sostengono con soddisfazione.
Il CNB è ben consapevole del rispetto che è doveroso prestare alla
pluralità delle culture, anche quando queste si manifestino in forme
estremamente lontane da quelle della tradizione occidentale, e del gran
valore del giusto confronto con la diversità culturale, che è oggetto di
continuo studio. Ritiene non di meno - e consapevolmente contro il parere
di pur illustri antropologi - che nessun rispetto sia dovuto a pratiche,
ancorché ancestrali, volte non solo a mutilare irreversibilmente le
persone, ma soprattutto ad alterarne violentemente l'identità psico-fisica,
quando ciò non trovi una inequivocabile giustificazione nello stretto
interesse della salute della persona in questione. E' evidente che le
pratiche di circoncisione femminile non sono poste in essere per ovviare a
problemi di salute né fisica, né psichica delle donne che le subiscono, anzi
esse comportano gravi conseguenze negative sulla salute delle donne che
ad esse vengono sottoposte. Il CNB non può quindi che ritenerle
eticamente inammissibili sotto ogni profilo ed auspicare che vengano
esplicitamente combattute e proscritte, anche con l'introduzione di nuove,
specifiche norme di carattere penale41.
Già a partire dalla prima frase riportata in questa
citazione è riscontrabile quell’atteggiamento di malcelata
superiorità tipico di chi si sforza di tollerare qualcosa di
inammissibile. Quasi a dire che il confronto con la “diversità”
è giusto, a patto che non sia “troppo diversa” e a meno che
non sia troppo refrattaria a rientrare nei parametri di
legittimità che noi stabiliamo. Ma il rispetto che si riserva
solo a ciò che non è considerato troppo lontano, che genere di
rispetto è?
41
Comitato Nazionale per la Bioetica, Presidenza del Consiglio dei
Ministri – La circoncisione: profili bioetici, 25 settembre 1998 (corsivo
mio).
136
Nessun accenno alla possibilità di conoscere a fondo,
nessun tentativo di comprendere. Sembra tutto talmente
chiaro, inoppugnabile ed evidente, che non necessita di
spiegazioni e approfondimenti.
In un linguaggio sicuramente più formale, il Parere
illustre del Comitato Nazionale per la Bioetica esprime ciò
che la formatrice e gli operatori sanitari presenti alla lezione
dichiaravano in toni più colloquiali.
In questo genere di dichiarazioni, il relativismo
culturale,
un
presupposto
fondante
dello
sguardo
antropologico, viene confuso con relativismo morale o con
giustificazionismo.
Da
relativisti
allora
si
diventa
qualunquisti, non riconoscendo che la differenza non sta nel
risultato ma nell’approccio, un approccio più critico verso le
istituzioni culturali e sociali e volto a riconoscerne la
processualità storica e contestualizzata che le ha prodotte.
Contrariamente a quanto si può pensare il tipo di relativismo sostenuto
dagli antropologi si riferisce soprattutto ad un approccio epistemologico
alla realtà, che parte da un riconoscimento della particolarità dei sistemi
culturali umani, e dal presupposto che “tutte le manifestazioni culturali
hanno significato e validità soltanto all’interno del loro contesto”.Non si
tratta, dunque, di un’affermazione acritica di equivalenza fra tutti i sistemi
di valore, ma di un’attenzione per il particolare a partire dalla quale
muoversi verso l’abbattimento dei postulati etnocentrici e verso il
riconoscimento di una pari dignità fra le diverse società umane (González
Díez, Vargas Montoya 2007: 87).
Si tratta del lavoro esattamente opposto del pregiudizio,
in questo caso specifico di quel pregiudizio che deplora, in
nome di una visione universalistica, ogni pratica che non
rientri nei parametri stabiliti dall’Occidente in materia di
diritti umani. Anche in questo caso, la base
su cui il
pregiudizio si fonda e può operare è la sua capacità di porsi
137
come certezza autoevidente, che si autoconferma e si
autocompiace, che non contempla di essere rivisitata e
ridiscussa.
Ciò che viene di nuovo dato per scontato è una
diversità che presentata piuttosto come un’inconciliabilità
culturale, e così descritta diventa un problema senza molte
possibilità di soluzione.
Una lezione intera è stata dedicata a mostrare,
attraverso
statistiche,
grafici
a
torta
e
istogrammi,
l’eterogeneità della popolazione straniera in Italia, per
invitare il pubblico a prendere atto del fatto che gli immigrati
non sono tutti uguali. Alla fine della lezione, ognuno aveva
avuto l’ennesima conferma che gli immigrati fossero molto
diversi da noi, e che, cosa ancora più complicata da sostenere,
fossero molto diversi tra loro. Si parlava a questo proposito
del bisogno di mediazione culturale, anch’essa fraintesa
spesso come mera traduzione linguistica. Le domande più
frequenti del pubblico ai formatori, una volta visualizzato il
quadro estremamente variegato delle provenienze della
popolazione immigrata, vertevano sulle possibili strategie da
adottare di fronte a tanta diversità. Non è certo possibile, si
diceva tra il pubblico, conoscere tutte queste “culture”.
Cultura e lingua arrivavano a coincidere quando si parlava di
mediazione, secondo il luogo comune per cui ogni migrante
sarebbe il rappresentante della cultura d’origine e che questa
si potesse ricondurre ad una questione linguistica.
Io come faccio a conoscere tutte queste culture e tutte queste lingue?
Era quello che si mormorava tra il pubblico dei
discenti. Un grosso problema, in effetti. È praticamente
impossibile conoscere tutte le lingue del mondo, così come è
138
impossibile avere una conoscenza antropologica approfondita
dei vari contesti sociali da cui i migranti provengono.
Rimaneva pertanto, a fine lezione, lo spaesamento di fronte
ad una complessità incontrollabile e inafferrabile, al quale
purtroppo non ho visto suggerire nessuna soluzione.
Ma non si tratta forse di un falso problema? Perché i
formatori, mi sono chiesta, non sono intervenuti per
concentrare l’attenzione dei discenti sulla necessità di
applicare con l’utenza delle strategie d’ascolto trasversali alle
provenienze del singolo? Proprio la sfera della salute
potrebbe essere un terreno di mediazione reale che vada oltre
l’etnicizzazione, un luogo in cui poter sperimentare il
confronto non tanto basato sulle ideologie della tolleranza o
del rispetto a tutti i costi, ma un confronto meno condizionato
dal pregiudizio che oppone “noi” a “loro”, che colga le
differenze individuali prima che culturali, e che al contempo
non trasformi la diversità in ossessione. In materia di bisogni
collettivi, come quello della salute e del benessere, perché
non provare a cogliere una maggiore somiglianza, piuttosto
che una paralizzante differenza?
Un lavoro di comunicazione interculturale dovrebbe
convertire la differenza in risorsa, e sciogliere i nodi che
portano invece a fare di quella differenza una barriera
insormontabile per la relazione.
Non mi è sembrato che questa fosse un’idea condivisa,
e tanto meno presa in considerazione, come si evince da un
altro esempio. Durante un incontro dedicato a spiegare il
funzionamento dei centri I.S.I42, venivano presentate da due
42
Si tratta dei Centri Informazione Salute Immigrati, predisposti per
rispondere ai bisogni sanitari degli stranieri temporaneamente presenti sul
territorio (S.T.P.), non iscrivibili al Servizio Sanitario Nazionale. Per
quanto riguarda il funzionamento dei Centri dislocati sul territorio
piemontese, si rimanda al sito web della Regione Piemonte
139
formatori alcune
caratteristica
slide
esplicative
particolare:
nei
che
avevano
titoli
una
occorrevano
continuamente vocaboli come “problema”, “problematica”
(per esempio: “Le problematiche sanitarie dei cittadini
stranieri:
presentazione del problema”).
Si tratta di
suggestioni, che tuttavia, nell’insieme, creano un certo tipo di
visione e di approccio al fenomeno. Gli stranieri sono dunque
un problema, a cui ci si deve sforzare di porre rimedio.
Si parlava di disomogeneità del fenomeno migratorio,
ma non si sollevava la proposta di costruire dei linguaggi
trasversali in grado di cogliere l’essenziale, al di là delle
“differenze culturali”, si parlava di problematiche relative
agli stranieri, ma non si affrontava, ad esempio, la questione
delle problematiche relative al sistema di accoglienza, ciò su
cui invece potrebbe essere condotto un effettivo riesame.
Riflettevo così sul fatto che se questi formatori
trasmettevano messaggi improntati a rilevare la differenza,
senza mitigarla, senza presentarla come una qualità piuttosto
che come un ostacolo, costruire un sistema di integrazione
reale, diventa un’impresa pressoché irrealizzabile agli occhi
dei discenti che li hanno ascoltati. Dichiarazioni come
Bisogna capire che molti di loro spesso non si vogliono curare,
o come
La prevenzione a livello dentistico è difficile con loro, se pensiamo che
per loro andare dal dentista significa mettere uno sgabello in mezzo alla
piazza del villaggio e farsi strappare i denti con le tenaglie
o ancora
http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2008/46/attac
h/9847.pdf.
140
Dobbiamo capire che le religioni “altre” sono difficili,
significa trasferire dei contenuti che, nelle rappresentazioni e
nei comportamenti saranno poi riproposti43.
Nel primo caso si comunica l’idea che il migrante sia
colpevole della propria condizione di indigenza e cattiva
salute, nel secondo si ripropone l’immagine stereotipata del
migrante “involuto”,
appellandosi all’immaginario
più
impregnato di esotismo, e nel terzo si assume come
incomprensibile e insuperabile la diversità religiosa. A
seconda delle esigenze specifiche per giustificare il proprio
pregiudizio, si definiscono gli “altri” come culturalmente
rozzi, “poveri” e semplici (come nell’esempio del santone del
villaggio che ricopre il ruolo del dentista e che strappa via i
denti con le tenaglie), oppure, per fornire un alibi alla propria
inazione e presa di distanza, si definisce l’“altro” come così
“difficile” e complesso da non poterlo raggiungere.
Gli enunciati trascritti, qui decontestualizzati, hanno un
effetto e un peso diverso che se inseriti all’interno delle
lezioni, entro le quali forse potevano avere una vaga coerenza
con i discorsi affrontati. Ma questo non giustifica la loro
imprecisione, la loro capacità di distorcere la realtà e di
presentare l’immigrato talvolta come responsabile della
propria condizione, talaltra come un personaggio salgariano,
al limite dell’anacronismo, talaltra ancora come l’“altro”
incomprensibile. Personalmente ritengo importante, in ogni
situazione di docenza, assumersi la responsabilità dei
messaggi che, pur fra parentesi, pur nell’informalità e nella
marginalità di un commento, vengono emessi e, nel lungo
43
Gli enunciati riportati fra parentesi sono riferiti alla seconda e terza
giornata di formazione , in lezioni dedicate ai servizi di mediazione
presenti negli ospedali e alla rete dei centri I.S.I.
141
periodo, si sedimentano e alimentano l’immaginario a cui
attingere nelle relazioni quotidiane.
Ritengo inoltre che per una ricerca volta a rintracciare i
varie forme che il pregiudizio può assumere, si debba fare
riferimento proprio a quelle dichiarazioni marginali, che
sottendono un’idee fortemente acquisite, che assume il
carattere dell’ovvietà, quella più invisibile, che ormai non
colpisce più l’attenzione.
Il corso di formazione che qui ho preso in esame deve
essere considerato non come un esempio di portata generale,
ma come un campo etnografico specifico che non ha pretese
generalizzanti.
Nella direzione delle medical humanities e della loro
crescente diffusione, stanno emergendo, negli ultimi anni,
molti cambiamenti nell’approccio alla pratica medica. Ciò
che è emerso in queste giornate è da considerare pertanto
come spunto per riflettere su quali messaggi potenziare e
quali invece provare a decostruire in ambito formativo.
A livello “micro”, infatti, nel rapporto con l’utenza
straniera, molti di questi frammenti possono giungere a creare
una cornice teorica di riferimento, che permette di incasellare
il paziente che ci si trova di fronte entro precise categorie, in
base alle quali dirigere il proprio comportamento.
3.4 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MICRO”
I paragrafi che seguono daranno voce a ciò che è
emerso dal confronto con gli operatori sanitari impegnati nei
Pronto Soccorso considerati. La finalità è quella di mettere in
luce gli elementi che derivano dal lungo lavorio effettuato
dalle retoriche differenzialiste dei media e dalla classe
142
politica, che possono in alcuni casi ripetersi anche su alcuni
incaricati della formazione delle professioni sanitarie e che
possono poi incidere sull’operato del personale medico.
Anche
in questo
caso,
non si tratta di compiere
generalizzazioni, ma si tratta forse di impegnarsi per ridurre
la probabilità che si possano verificare ed alimentare prassi
discriminanti. La convergenza dei livelli di operatività del
pregiudizio, finisce infatti per creare le basi per un diverso
trattamento nei confronti dell’utenza straniera, che ne risulta
condizionata nei percorsi e nei profili di salute.
3.4.1 Gli infermieri e la rappresentazione dell’immigrato
Come si è detto nel Capitolo II, illustrando il modo in
cui sono stati condotti gli incontri con gli infermieri dei
Pronto Soccorso presi in esame, si è tentato di far convergere
più linguaggi e più esperienze. Lo scopo era quello di trovare
eventuali conferme o disconferme all’ipotesi che vi sia una
sorta di inculturazione del pregiudizio, espressa a più livelli e
riversata nella relazione con pazienti stranieri. Ogni incontro,
grazie ai diversi linguaggi utilizzati, ha rappresentato
un’opportunità
importante
per
cogliere
nelle
varie
sfaccettature l’operato del pregiudizio, che influenza tanto le
rappresentazioni della realtà, quanto la realtà stessa e le
relazioni con l’utenza.
Operando una revisione dell’insieme dei dati raccolti,
ho potuto individuare delle tendenze generali relative ad ogni
settore indagato, per quanto la rielaborazione soggettiva delle
domande e degli stimoli da parte degli interlocutori sia
indubbiamente originale e creativa.
143
L’ordine con cui procedere per spiegare quali siano
queste tendenze generali può essere quello di analizzare in
modo comparato, fra i soggetti delle interviste raccolte, le
idee, rappresentazioni e percezioni emerse dagli “attivatori”,
quelle parole-chiave o parole-stimolo che avviavano la
riflessione approfondita degli intervistati.
Dare dei semplici input, anziché guidare l’intervista dal
principio alla fine, voleva essere anche un modo per mettere
in primo piano non tanto l’intervistatore quanto l’intervistato,
conferendogli una maggiore libertà espressiva durante il
colloquio.
Il primo input da concettualizzare e sviluppare per gli
infermieri intervistati, era rappresentato dal vocabolo
immigrato. Oltre ad essere il primo vocabolo nella sequenza
delle parole-input, rappresentava anche il fulcro della
riflessione, poiché rispetto ad esso potevano essere collegati
ed associati gli altri termini e le relative concettualizzazioni.
Ho potuto riscontrare come questa parola sia stata
associata, nella totalità dei casi esaminati, all’alterità, così
come viene creata e rappresentata secondo i canoni della
comunicazione di massa (mediatica e politica), e infine
percepita dai singoli. L’immigrato, nel senso comune, è una
figura che, nella maggior parte dei casi, corrisponde a ciò che
culturalmente abbiamo appreso a percepire come diverso da
noi. Diverso nei suoi tratti somatici, diverso nella lingua che
parla, diverso persino nei suoi bisogni.
Dalle parole degli interlocutori, scritte e poi spiegate
oralmente, emerge tutto ciò che è possibile ricondurre a
questa irriducibile alterità:
Immigrato: ho pensato a gente straniera che viene nel nostro paese, quindi
extracomunitari…ho pensato a quello. Quindi ho messo Intercultura
144
perché un insieme di culture diverse con bisogni diversi, lingue diverse
quindi difficoltà nelle comunicazioni.44
Questa infermiera, una ragazza di 28 anni, in Pronto
Soccorso da due anni e con precedenti esperienze in altri
reparti,
sosteneva
anche
una
diversa
ed
esagerata
esternazione del dolore da parte degli immigrati, come se
esigessero più attenzioni degli altri, attenzioni quasi sempre
sproporzionate rispetto alla patologia realmente presente:
C’è da parte loro ignoranza, nel senso buono del termine, nel senso che
ignorano tutti i servizi che ci sono qui, come usarli e proprio perché
probabilmente tanti che sono arrivati vengono qui senza avere un medico
loro di base, chiaramente per ogni cosa vengono qui in pronto soccorso.
E…(sono) sopravvalutate le loro necessità rispetto alle nostre, in senso
lato, proprio a livello di Stato, di governo, di religione, basta solo pensare
al fatto che abbiamo tolto i crocifissi nelle scuole per dare la priorità a
loro, mentre sappiamo che se tu vai nel loro paese ti devi coprire il
capo…queste cose qui45.
È indubbio che un atteggiamento carico di stereotipi nei
confronti dello straniero agisca in maggior misura fra gli
infermieri impiegati nel Pronto Soccorso, più che, invece, fra
coloro che sono impegnati nei reparti, dove hanno modo di
dedicare più tempo ai pazienti e disporsi nei loro confronti
con un atteggiamento incline ad un ascolto più attento.
Tuttavia, il peso delle rappresentazioni stereotipiche rimane
un nodo difficile da sciogliere nei contesti in cui si è costretti
ad agire in tempi ristretti e laddove non si può costruire con
l’utenza un rapporto più profondo.
È comunque un dato di fatto che molti migranti
ignorino buona parte dei propri diritti. Anche nelle interviste
44
Dall’intervista con Biancaneve, Pronto Soccorso dell’Ospedale
Mauriziano (corsivo mio).
45
Ivi.
145
condotte per il progetto FER Non solo asilo 3, soprattutto i
migranti appena arrivati riconoscono come ente primario per
l’erogazione di cure il Pronto Soccorso. Da qui, pensare che
rimangano nell’ignoranza (come se questa fosse una
caratteristica ontologica del migrante) non è per nulla vero.
Dalle interviste con alcuni utenti emergeva infatti una serie di
conoscenze pratiche del Servizio Sanitario Nazionale molto
ampia, che cresceva contestualmente al prolungarsi della
permanenza in Italia. Dalle testimonianze dell’utenza infatti
emergeva un vero e proprio processo di apprendimento
spesso basato sull’esperienza personale, nei casi in cui chi era
appena arrivato non era stato affiancato per varie ragioni ad
un operatore sociale o non avesse altri punti di riferimento.
Occorre però distanziarsi anche dall’idea che il migrante sia
completamente isolato e abbandonato a se stesso. Molti degli
intervistati infatti, come molti dei migranti in genere, si sono
serviti, per adattarsi nel contesto di approdo, di reti di
conoscenze coltivate o durante il viaggio stesso, o in loco.
Anche in questo caso può intervenire una rappresentazione
stereotipata che fa del migrante un individuo dotato di
un’ignoranza quasi congenita e immutabile, quando invece,
nella maggior parte dei casi, l’adattabilità del migrante è
molto elevata, in virtù proprio della necessità di comprendere
la realtà nuova in cui si trova immerso.
Inoltre, occorre tenere presente che se molti migranti
ignorano i propri diritti in materia di salute, di certo non sono
i soli ad avere difficoltà nel decidere il da farsi: molti
operatori sanitari, come viene detto nei paragrafi precedenti,
spesso si trovano in difficoltà ad orientarsi nei labirinti
normativi regionali e nazionali.
L’infermiera fa anche riferimento a quella sorta di
“sottomissione” da parte nostra alle loro esigenze, una
146
percezione che ritorna spesso nelle interviste. In alcuni casi
addirittura mi si parlava di “ingiustizia sociale”.
Nelle parole appena riportate emergono molte delle
logiche tipiche del pregiudizio: le categorie o sono confuse
(gli stranieri sono necessariamente extracomunitari, e lo si
evince da quel “quindi extracomunitari”), oppure sono rese
impenetrabili. Le culture sembrano delle entità fisse,
immutabili, che si scontrano quando entrano in contatto,
rigide come palle da biliardo. Dalla stessa autrice della
citazione a inizio paragrafo, viene persino ripresa, come
esempio della nostra subalternità rispetto alle “imposizioni”
degli immigrati, la controversia questione che aveva acceso i
dibattiti politici nei primi anni Duemila a proposito dell’uso
del velo delle donne islamiche in Francia, surrogata in Italia
dall’esposizione dei crocifissi nelle scuole . Anche in quel
caso,
i
sentimenti
anti-stranieri,
nello
specifico
principalmente islamofobi, avevano ricevuto un cospicuo
supporto parte di media, politici e autorità religiose,
dirigendosi contro i “nemici interni” che minavano l’integrità
identitaria e sociale italiana o europea e che avevano portato
anche molti laici a rivendicare le “radici cristiane” europee e
occidentali, argomento che aveva funzionato da collante per i
più svariati orientamenti politici e religiosi (Rivera 2005).
Si tratta di un chiaro esempio di come il pregiudizio,
inteso come modello culturale, se opportunamente e
puntualmente rinforzato, diventi parte del sentire comune e
serva poi da schema orientativo per l’agire sociale. Questo
processo di attivazione del pregiudizio, inoltre, consente di
notare quanto le rappresentazioni stereotipiche siano efficaci
quando manca un’adeguata conoscenza del fenomeno
migratorio. Dalle dichiarazioni degli intervistati, infatti
sembra
emerga
una
profonda
147
lacuna
informativa
sull’immigrazione in generale, che viene colmata con
pregiudizi e stereotipi, utili a tamponare il vuoto di
conoscenza, ma erigendo ostacoli alla comprensione della
complessità del fenomeno stesso.
Un’infermiera del Pronto Soccorso dell’Ospedale
Molinette, aveva espresso in altri termini, ugualmente
significativi, le ragioni dell’astio e del risentimento verso la
generica categoria degli stranieri che in qualche modo
usurpano il nostro territorio, minano alla nostra integrità e
riescono anche a privarci e prevaricarci nei nostri diritti di
cittadini. Durante una chiacchierata informale, nell’area del
triage, senza che io la conducessi personalmente verso la
tematica che mi stava a cuore indagare, tra la registrazione di
un paziente e l’altro – una donna molto anziana e una coppia
rom – mi diceva, usando le sue parole, che a volte è molto
difficile scindere i propri sentimenti personali dalla figura
professionale, specie con gli immigrati: arrivano e non
chiedono, ma pretendono di essere curati, gratis. Allora,
proseguiva, in quei casi, viene da pensare a se stessi: noi
paghiamo le tasse e loro passano gratis, e ottengono anche le
visite prima di noi. Si tratta di un’ingiustizia sociale, così la
definiva. Si nutre un sentimento di ingiustizia, che fa rabbia,
continuava. Per questo ci sono dei colleghi
che sono –
aggiungeva sottovoce, guardandosi attorno, assicurandosi di
non essere vista o sentita – proprio razzisti, e se incontrano
una persona che non parla la nostra lingua, trovano il modo
per dargli meno cure, o lo ascoltano meno. Si va in burn out,
perché dopo tanto tempo che le cose stanno così, sono
ingiustizie troppo grandi che non si riescono a sostenere. Io
non arrivo a dare meno cure agli immigrati, concludeva, però
certamente è difficile. Sono infermiera da dodici anni,
all’inizio si è tutti entusiasti, si ascolta di più, ma forse ci
148
vorrebbero dei corsi di aggiornamento per questi temi, perché
per noi è molto difficile confrontarsi ogni giorno con questi
problemi46.
Questa
infermiera,
dell’età
di
34
anni,
con
un’esperienza di dodici in Pronto Soccorso e un periodo di
due come infermiera in Inghilterra, stava facendo un bilancio
del proprio vissuto, esprimendo, alla fine della nostra
conversazione, la volontà di lavorare su determinati problemi
relazionali:
All’inizio, la tua professione ti sembra bellissima, con tutti i pazienti hai
un atteggiamento aperto e disponibile, metti in pratica le cose migliori che
ti insegnano ai corsi, sei propositivo. Però dopo dodici anni…Dovrebbero
farci dei corsi di aggiornamento, perché dopo un po’ è normale che non
ne puoi più...
Il senso di ingiustizia percepito, il sovraccarico anche
emotivo presentato dalle infermiere, e confermato dagli altri
loro colleghi intervistati, fa parte di quella frustrazione
indotta da un eccesso di informazione negativa e scorretta che
viene prima assorbita e poi riproposta nella pratica. Il
pregiudizio
all’integrità
che
vuole
sociale,
l’“altro”
anche
come
una
attraverso
minaccia
l’apparente
approfittarsene dei servizi per la comunità, è penetrata nelle
pratiche discorsive: si afferma e si conferma che l’immigrato
è una presenza ingombrante, una presenza che si subisce, in
primo luogo, tanto da rovesciare la percezione e vedere nella
nostra società la vittima.
La fantasia, se presentata come dato reale, diventa
realtà. A ben vedere, soltanto in rari casi lo straniero ha la
possibilità di ricevere assistenza gratuita, e presso circuiti
diversi dal Servizio Sanitario Nazionale (come ad esempio
46
Colloquio informale con Inglesina, Ospedale Molinette.
149
nei Centri I.S.I.). A ben vedere, gli immigrati non sono poi un
peso sociale ed economico così grave come il pregiudizio nei
loro confronti vorrebbe far credere. Gli stranieri in Italia
infatti contribuiscono per l’11% sul PIL nazionale e gravano
per il 2,5% sulla spesa pubblica totale, pari a circa la metà del
gettito da loro assicurato, quest’ultimo pari al 4%47.
Come sostiene anche Dal Lago (1999), difendere il
proprio territorio significa cercare e trovare un nemico, nel
caso attuale un nemico interno, verso il quale rivolgere il
proprio odio, a varie intensità. In questo modo l’immigrato
diventa una risorsa simbolica a cui l’ideologia nazionalista
può attingere per alimentarsi.
Nei discorsi dell’infermiera sopra citati, è presente
un’altra tendenza molto frequente, cioè quella di identificare
negli altri atteggiamenti razzisti e discriminatori, scagionando
se stessi da qualunque accusa, a riprova del fatto che il
pregiudizio si evince sempre in modo indiretto, e mai
attraverso dichiarazioni esplicite. Si riesce con facilità ad
individuare negli altri atteggiamenti pregiudizievoli, ma su di
sé lo stesso potenziale di criticismo è decisamente esiguo.
Questo rende
molto difficile riuscire a catturare il
pregiudizio, isolarlo e decostruirlo, per la sua stessa
refrattarietà all’autocritica e all’autoanalisi. Occorre operare
delle deduzioni, attraverso strategie che portino ad una
dimensione manifesta ciò che rimane per lo più in latenza.
Il modo in cui contrastare il pregiudizio, potrebbe
essere proprio quello di sviluppare una capacità riflessiva,
che non dimentichi di interrogare di volta in volta il nostro
percepire e il nostro agire.
47
Questo dati sono stati forniti da Salvatore Geraci durante il corso di
formazione Immigrazione e salute in una società multietnica, e sono stati
ricavati dai Dossier Statistici della Caritas/migrantes, aggiornati al 2011.
150
Dando la parola agli infermieri incontrati nella “ricerca
di campo”, ho notato anche come il processo di
categorizzazione dicotomica che distingue i “noi” dai “loro”,
costituisca di per sé la prima operazione funzionale allo
strutturarsi di esclusioni conseguenti e crescenti. Occorre
creare la differenza, per poi usarla come alibi, più o meno
implicito, ad azioni discriminatorie a vari livelli.
Un altro infermiere, di 49 anni, con una vocazione
infermieristica tardiva e un’esperienza in Pronto Soccorso di
un anno e mezzo, asseriva, come la sua collega, che in triage
e nei vari reparti, di sentire spesso alcuni colleghi insultare
l’utenza straniera, producendo fra l’altro una dettagliata
classificazione stereotipata per ogni “etnia”: i rumeni sono
alcolisti e sono violenti con le donne, i sudamericani sono
meno violenti ma ugualmente alcolisti, i cinesi sono chiusi e
via dicendo.
Per inciso, la stessa distinzione stereotipata dei
migranti, sulla base di una categorizzazione etnica di marca
essenzialista, avveniva anche nell’aula di formazione per le
professioni sanitarie, incontrando deboli reazioni da parte di
molti formatori: i cinesi sono chiusi, inespressivi e sfruttatori,
i rumeni sono violenti, e così via. Il senso comune sembra
mettere tutti d’accordo.
Lo stesso infermiere, che aveva additato come razzisti,
criticandoli, molti dei suoi colleghi, nell’atto di raffigurare le
parole-input della prima traccia di intervista, aveva
cominciato
con
la
rappresentazione
stilizzata
di un
immigrato. Questo, nella sua concezione, corrispondeva ad
un peruviano. L’infermiere in questione ama il Perù, dov’è
stato più volte, mi racconta. Pur avendo quindi una
conoscenza diretta del luogo da cui fa provenire il
personaggio della sua rappresentazione grafica, sceglie
151
comunque di utilizzare un’immagine stereotipata. Fra le
buone qualità, il peruviano eletto a protagonista della storia
di fantasia dell’infermiere, aveva solo un difetto: bere molto.
- Il mio peruviano è tosto perché non si ammala mai…però bevendo, può
capitare che incorra in una intossicazione alcolica…può succedere,
dai…una volta sola, una sola, solo una volta capita in ospedale…beve
molto e va in ospedale…e qui gli dicono: “Ecco il peruviano…il
peruviano di merda…” Qualcuno lo dice! Eh! I rumeni bevono e
picchiano le donne, i peruviani son dei poveracci che bevono solo, sono
un po’ maschilisti ma non picchiano, non sono così maneschi.
- E tu che cosa fai in questi casi?
- A volte reagisco, anche perché poi ne conosco qualcuno, sai, è un po’ il
limite nostro, degli italiani, e anche degli operatori…anche un po’
questo…se c’è una cosa che non dobbiamo mai fare è giudicare, però…è
regolare tra infermieri, O.S.S., regolarmente li senti: “Ecco, loro sono più
furbi degli altri, quelli là sono ubriachi”…Non ce n’è uno che non giudica
e lascia correre e che guarda il personaggio con tranquillità. Nessuno. Ti
dicevo, il mio peruviano beve, arriva qui (in ospedale) e incontra il
giudizio…ma a lui non importa…lui continua la sua vita, il mattino dopo
torna a casa, col mal di testa, non ha nessuno, è solo…magari torna a
lavorare. Fa il badante, in una R.S.A. ...48
Si è parlato di narrazione poiché, nel tentativo di
seguire la seconda traccia dell’intervista, e cioè quella della
rappresentazione per immagini delle parole immigrato,
contagio, colore, sporco, malattia, corpo, diversi infermieri
hanno deciso, per orientarsi meglio nel lavoro, di costruire un
racconto, una fiction (come quella del frammento di intervista
riportato sopra), scegliendo un punto di partenza –
generalmente proprio l’immigrato – a partire dal quale
descrivere un percorso, associando ai vari momenti della
narrazione gli altri vocaboli attivatori – gli stessi che
48
Dall’intervista con Labrador, Ospedale Mauriziano. Le parti in corsivo
corrispondono ai miei interventi.
152
precedentemente avevano concettualizzato attraverso le libere
associazioni di idee.
A questo proposito si possono fare due considerazioni.
La prima è che, nel tentativo di rendere concreto qualcosa di
concettuale e astratto, può essere utile assemblare elementi
presi dal vissuto personale e sintetizzarli in una narrazione,
per conferire una processualità e uno sviluppo logico alle
idee, trasformandole in eventi. La seconda è che, in questa
fase di sintesi di elementi che devono essere oggettivati in
una figura, in un’immagine, è probabile che si scelga
qualcosa di più semplice riproduzione.
Quando ancora le tracce di intervista erano in fase di
elaborazione, avevo provato a pormi le stesse domande che
avrei poi sottoposto agli infermieri. Per quanto concerne la
parola immigrato, la prima libera associazione di idee che
avevo
abbinato
era
il
viaggio.
Avrei
rappresentato
l’immigrato con un paio di scarpe. Ricordo che quando
raccontai di questa associazione ad un membro del
Laboratorio interfacoltà Le città (in)visibili, lui mi disse che
per scegliere le parole-input, avrei dovuto togliermi gli
“occhiali” della studentessa di Antropologia culturale, per
indossare quelli di una persona qualunque che basa la sua
conoscenza del fenomeno immigratorio soltanto attraverso la
televisione.
Al di là del sapore aneddotico di questo inciso, mi
sembra importante sottolineare come ogni sguardo sia
realmente condizionato da ciò che “impariamo” ad osservare.
Su di me, come su chiunque, incide la formazione, non solo
in termini di istituzione scolastica, che plasma visioni e
orientamenti rispetto alla realtà.
Per quanto riguarda il modo in cui dimostrare la propria
idea di immigrato come simbolo dell’alterità, la maggioranza
153
degli intervistati ha scelto spontaneamente delle immagini
molto evocative poco “neutre”.
Degli esempi sottostanti, occorre tenere presente che le
spiegazioni delle didascalie e quelle riportate in forma più
estesa qui di seguito, non sono mie interpretazioni personali,
ma corrispondono ai commenti esplicativi degli intervistati.
Fig. 1 L’immigrato è il “peruviano”, che beve.
In questa prima immagine, l’immigrato peruviano reca
una sorta di didascalia verbale che sottolinea una delle sue
caratteristiche (“beve”), che
nella storia di finzione
dell’infermiere si connette al passaggio logico e sequenziale
secondo cui questo peruviano non si ammala perché di
costituzione forte (almeno in parte, la sindrome di Salgari è
superata nella fase dell’esotismo e lascia spazio all’effetto
migrante sano), ma viene a contatto con strutture ospedaliere
per questo vizio del bere. Lì, in ospedale, incontrerà il
giudizio dei medici più “razzisti”.
154
Fig. 2 L’immigrato è un “africano” generico, che non è in grado di capire
ciò che gli si dice.
Nella seconda immagine, l’immigrato coincide con una
persona
dalla
carnagione
scura
(l’intervistata
diceva
testualmente: “Se penso a immigrato, penso all’Africa e a
qualcuno che ha “problemi linguistici”). Fedelmente a quanto
riportato a parole nella prima traccia dell’intervista,
l’infermiera ha deciso di disegnare un fumetto che indicasse
l’incapacità da parte dell’immigrato di comprendere che cosa
gli venga detto, con particolare riferimento alla zona del
triage del Pronto Soccorso. Evidentemente, il problema
linguistico così presentato, esiste in senso univoco: sono loro
a non capire, ma non il contrario. Il generico problema della
non-compliance tra medico e paziente, per il quale spesso
viene percepita da parte degli operatori una unilaterale e
scarsa disposizione a “capire” le soluzioni terapeutiche
proposte, nel caso di un paziente straniero, viene acuita ed
essenzializzata, cioè nuovamente ridotta ad una “ontologica”
carenza culturale o etnica.
155
Fig. 3 L’immigrato si riconosce dagli abiti, di colori non abbinati fra loro,
sgargianti. Normalmente vestito con abiti di recupero e di seconda mano.
Nella
terza
rappresentazione
dell’immigrato,
a
caratterizzarlo sono gli abiti di recupero, di colori sgargianti e
non abbinati fra loro. Si tratta in un certo senso del
“poveretto” a cui si è fatto cenno nei paragrafi precedenti –
povero economicamente e socialmente.
Fig. 4 L’immigrato coincide con un corpo femminile interamente velato,
che non lascia scoperte nemmeno le caviglie, ma soltanto le mani e gli
occhi, molto truccati. La donna qui rappresentata ha in mano un cesto per
il pane o per qualche altro genere alimentare.
Nella quarta figura invece, compare un corpo velato, il
simbolo
dell’alterità
assoluta
nella
versione
di
una
femminilità nascosta, appartenente al mondo religioso
musulmano più osservante, molto più idealizzato che non
effettivamente
conosciuto
e
156
compreso.
Si
tratta
di
un’interessante rielaborazione di ciò che era stato scritto a
parole nella prima traccia. Secondo l’infermiera autrice del
disegno, infatti, la libera associazione alla parola “immigrato”
era costituita da poche semplici parole: “Numerosi accessi in
Pronto Soccorso” e “Paesi dell’Est”. La prima espressione,
spiegava l’infermiera, si riferiva al fatto che gli immigrati
affollano i Pronto Soccorso e sono l’utenza maggioritaria. La
provenienza era ricondotta ai paesi dell’Est europeo, anche
neocomunitari. Nel momento di trasporre in immagine questi
concetti, intraprende però tutt’altra via, e sceglie quella
dell’immaginario dell’“altro”, un altro assoluto – la donna
completamente coperta, e non una rumena, ad esempio, per
seguire ciò che era stato verbalizzato nella prima traccia.
Durante l’intervista, l’infermiera spiega che la donna ha un
“oggetto tradizionale” in mano, un cestino per il pane “o
quelle cose lì”, alludendo a qualcosa che rimanda a ipotetici
contesti “tradizionali”, ma che con tutta probabilità non
appartengono a una realtà urbana italiana, dove il pane o altri
generi alimentari sono trasportati in buste di carta o plastica,
almeno nella maggioranza dei casi.
In particolare, di questa ultima rappresentazione citata,
mi avevano colpito la cura dei particolari, e la maggiore
attenzione descrittiva nel disegno, nonché la riproduzione di
un’azione quotidiana che rende più dinamica la figura.
Nonostante questi accorgimenti importanti ho trovato
comunque condizionati da stereotipi alcuni elementi, come il
cestino per il pane, descritto dalla stessa intervistata come
qualcosa di “strano”:
Sto disegnando un’immigrata con il burqa, per cui tutta accollata, persino
con le scarpe che non mostrano i piedi, però gli occhi sì, quelli ce li hanno
sempre molto truccati. Non azzurri, però…questa rappresenta la prima
157
parola…magari con un cestino o quelle robe strane tipo…che vanno a
prendere il pane…una roba così.
L’uso delle immagini è risultato utile allo scopo di
rintracciare in che modo l’immaginario costruito nel tempo
circa l’alterità prenda spesso il sopravvento sulla realtà.
L’immagine, in questo senso, arricchisce la parola, a volte
confermandola, a volte, invece, smentendola. Infatti, nel
processo di trasferimento delle parole in immagini, in modo
creativo, molti intervistati hanno scelto di non seguire le
proprie tracce verbali elaborate precedentemente, ma hanno
optato per altri percorsi di significazione, arricchendo così le
informazioni ricavate.
È ciò che accade, ad esempio, anche nelle altre
interviste in cui l’immigrato non è rappresentato in maniera
antropomorfa, ma ad esso viene invece associato un simbolo.
Il simbolo in questione è il barcone.
Se si ricordano le parole del ministro Amato nel 2006,
per cui
Non possiamo mica lasciare su una strada chi sbarca da un barcone. Li
dobbiamo accogliere. E li dobbiamo anche visitare. Sono un pericolo
sanitario49,
che è solo uno dei tanti esempi che la stampa offre
riportando
le
dichiarazioni
dei
politici,
l’immigrato,
nell’immaginario comune, è il “disgraziato” che arriva sulle
nostre coste (solo) su precari barconi. Non sono ammesse,
all’interno del modello culturale basato sul pregiudizio e
sullo del migrante, altre vie d’accesso alle frontiere italiane.
All’immigrato, non vengono lasciate molte alternative.
49
Si veda la nota n. 37.
158
La metafora “liquida” è molto presente nel gergo
giornalistico per indicare il fenomeno immigratorio: “una
marea di immigrati”, l’“ondata migratoria” sono espressioni
decisamente comuni del linguaggio politico-mediatico. Oltre
a questo genere di metafore, sono frequenti i rimandi, verbali
e iconografici, al migrante che si sposta soltanto attraverso
barche, barconi, gommoni, pescherecci instabili e pericolosi.
Il che è assolutamente vero, ma, come sempre, esiste una
grande varietà di situazioni possibili, che le logiche che
perseguono i “tagli” alla complessificazione rinunciano ad
includere nella loro retorica.
Persino un organismo come l’UNHCR, l’agenzia delle
Nazioni Unite per i rifugiati, propone una retorica simile in
occasione della Giornata mondiale del rifugiato 2012, il 20
giugno scorso, e ripropone ancora una volta lo stesso
stereotipo. Ho voluto conservare l’immagine della locandina
che veniva distribuita nei vari centri torinesi che si sono
impegnati a svolgere incontri e attività di sensibilizzazione
per l’occasione.
Fig. 5 Locandina dell’UNHCR per la Giornata mondiale del rifugiato
2012.
159
La forza dell’insistente iconografia che rappresenta in
questo modo i migranti, ha portato un elevato numero di
infermieri, rispetto al totale, a trasferire questo tipo di
immagine nelle rappresentazioni della seconda traccia
dell’intervista. Riporto alcuni esempi.
Fig. 6 L’immigrato è simboleggiato da una “barca” nel primo caso, da un
“gommone” nel secondo caso e da un “barcone” nel terzo.
In queste rappresentazioni ho visto un collegamento e
un intreccio fra le varie retoriche stereotipate al livello di
messaggi politici e mediatici e ciò che, a livello “micro”, si
riflette nelle rappresentazioni degli operatori sanitari. Se in
ogni contesto, mediatico, politico o formativo, si riproduce
uno stesso modello, tale modello finirà per essere acquisito.
Quand’è che il senso comune, sistematizzato a pregiudizio,
diventa, per riprendere Herzfeld, “resistente ad ogni
scetticismo”? Quando un’infermiera, nel disegnare il barcone
con la bandiera verde, per lei simbolo di speranza, sceglie di
identificare l’immigrato con quel barcone, pur essendo
emerso un dubbio poco prima della rappresentazione:
160
Sì, ho pensato alla barca però dall’est…ce ne sono anche dall’est, ma non
vengono in barca. Beh, faccio il barcone, anche con la veletta…ecco, così
passa il messaggio? Sono molto speranzosi, quindi un bel verde lo metto,
perché loro arrivano carichi di…idee…(Lollo, Ospedale Mauriziano).
Questa infermiera si era posta un problema, aveva
individuato l’incoerenza del ragionamento stereotipato, ma
alla fine, nel momento di rappresentare con un’immagine
l’immigrato, ha scelto il simbolo secondo lei più efficace,
cioè quello a cui è stata abituata nel vedere, immaginarsi e
percepire il migrante. Nella sua rappresentazione stilizzata
sembra esserci la stessa identica retorica della locandina
dell’UNHCR: i migranti sono raffigurati nella miseria più
assoluta, ancorché rifugiati, attorno a loro e sopra di loro il
grigio e il nero, e, verso il fondo dell’immagine, in un altrove
non ben definito, una luce…di speranza, come la “veletta”
dell’intervistata. In realtà la distinzione tra un richiedente
asilo o un migrante economico si perde nell’immaginario
standardizzato, tanto che, ad esempio, questa stessa
infermiera, aveva scritto accanto alla parola “immigrato”,
nella prima traccia, “straniero, clandestino, est”, livellando le
diverse categorie.
La logica differenzialista e il pregiudizio che ne
consegue, i “tagli” alla complessità e l’automatismo senza
spazi per la riflessione critica, non danno adito ai dubbi, alle
sottigliezze, accorpano quando sarebbe opportuno distinguere
(straniero, extracomunitario, clandestino, romeno sono
considerati equivalenti) e distinguono quando sarebbe
opportuno unire (“gli stranieri hanno bisogni diversi dai
nostri”).
Alla luce dei dati raccolti, si può ravvisare un’altra
tendenza generale ancora, che è quella di associare
161
l’immigrazione alla malattia e al contagio. Tale associazione,
come si è visto, è riproposta puntualmente,
dalle prime
indagini sui migranti alla ricerca della malattia rara, da parte
di coloro che risentono della
sindrome di Salgari, alle
dichiarazioni di alcuni politici, indistintamente di destra o di
sinistra, che rimpolpano l’immaginario pauperistico e
stigmatizzante riferito ai migranti.
A proposito di contagio, esiste un protocollo che ogni
infermiere, nella sua delicata professione, deve rispettare, per
evitare di contagiarsi durante lo svolgimento della sua
professione50. Tuttavia, trattandosi spesso di linee-guida, cioè
di orientamenti volti alla prevenzione più che di norme
cogenti, alcuni dettami possono essere o meno seguiti a
seconda della sensibilità dell’operatore e della situazione in
cui si trova coinvolto.
Infatti, per quanto clinicamente si possa stabilire con
precisione se un paziente sia o meno affetto da patologia
contagiosa, nel momento dell’arrivo in Pronto Soccorso gli
infermieri
incaricati
della
registrazione
non
possono
conoscere a priori le condizioni di salute dell’utenza. Possono
indovinarle, grazie alle loro conoscenze e competenze, ma
occorrono degli esami specifici che stabiliscano lo stato di
salute dei pazienti. A tutti gli infermieri veniva posta una
domanda specifica a proposito dell’uso che essi fanno dei
dispositivi di protezione individuale, quali i guanti, le
mascherine o i visor, le cuffie per coprire i capelli.
Un’attenzione particolare era indirizzata all’uso dei guanti,
dal momento che gli altri dispositivi sono in genere utilizzati
in situazioni molto specifiche.
50
Il riferimento è ai protocolli e alle linee guida definite dai CDC, in
particolare da alcuni infermieri è stato citato il CDC di Atlanta, che
definisce le modalità di utilizzo dei dispositivi di protezione (guanti,
mascherine, visor e via dicendo).
162
In questo senso ho potuto constatare come vi sia una
certa discrezionalità relativa all’uso di quei dispositivi che,
salvo nei casi di ferite aperte o possibilità di contatto con i
vari fluidi organici, si può decidere autonomamente se
utilizzare o meno. Ad ognuno infatti ho domandato se
esistesse un protocollo da seguire obbligatoriamente per
l’utilizzo dei guanti, e le risposte si dividevano fra chi
asseriva l’assoluta obbligatorietà e chi invece, in favore di un
contatto più diretto e di una relazione meno distaccata con il
paziente, sosteneva l’uso dei guanti solo in situazioni molto
particolari.
È interessante notare come, anche attorno al contagio,
esista una sorta di immaginario culturalmente costruito. Si
possono infatti riscontrare delle connessioni che legano il
contagio, lo sporco e la malattia alla figura dell’immigrato
come potenziale infetto per antonomasia. In molte occasioni
infatti, l’immigrato, nelle rappresentazioni figurative e nei
discorsi, veniva allacciato all’idea del contagio.
Fig. 7 Il legame sporco-immigrato-contagio-malattia.
163
E poi quando penso agli immigrati, purtroppo, per quello che puoi vedere,
penso a queste stanze sovrappopolate, di gente che vive…come una
gabbia
di
animali…tante
teste,
tanta
gente,
che
vivono..tutti
insieme..grandi piccoli…un po’ anonimi…Scrivo che rappresentano gli
immigrati? Quelli sfortunati però, eh! Ci saranno anche quelli che stanno
bene…però ce ne sono? Il muro che ho fatto qui è tutto rotto, scrostato…
Malattia e contagio? Lo sporco può dare vita al contagio; condizioni
precarie…e dove ci porta questo? Ci porta…in ospedale…promiscuità e
condizioni
igieniche
precarie
possono
originare
patologie…epidemie…(Lollo, Ospedale Mauriziano)
L’intervistata si rende conto della fragilità sociale degli
immigrati, che spesso è causa delle loro cattive condizioni di
salute, ma si tratta di una fragilità sociale che andrebbe vista
anche
dal
punto
di
vista
dell’organizzazione
(o
disorganizzazione) dei piani di accoglienza. Molto spesso
infatti gli stili di vita incidono sulla salute dei migranti ancor
più in relazione con l’accessibilità ai servizi di cura che, si è
visto, ripercorrendo le tappe fondamentali delle normative sul
diritto alla salute, risultano molto esclusive ed escludenti. Il
migrante non è volutamente poco fortunato, spesso lo diventa
a causa del sistema politico e sanitario poco improntato
all’inclusività quando non esplicitamente alla xenofobia.
Nella
visione
dell’intervistata,
il
migrante
è
letteralmente anonimo, e il suo habitat è una “gabbia di
animali”, dove regna la promiscuità, dove c’è abbandono e
trascuratezza degli ambienti, dove cose e persone sono mal
curate, e sporche. E dallo sporco si generano malattie,
addirittura epidemie – qui sembra riecheggiare l’emergenza
sanitaria invocata dal Ministro Amato.
Altri infermieri hanno invece esplicitamente collegato
l’immaginario relativo al contagio allo stereotipo relativo
all’immigrato:
164
Quando penso a contagio, mi viene in mente l’Africa (Inglesina, Ospedale
Molinette).
Oppure,
Fra i luoghi, per il contagio, che so io, semplicemente l’Africa, con
malaria, febbre gialla, che so io. Metto questo luogo, ma solo perché così,
mi è venuto in mente (Biancaneve, Ospedale Mauriziano).
In particolare, da parte degli intervistati che hanno
asserito l’obbligatorietà dell’uso dei guanti, c’era una
tendenza ad associare lo sporco alle persone trasandate, che
non si curano e che “non si vogliono far aiutare da nessuno”
(Biancaneve, Ospedale Mauriziano), e il contagio allo sporco,
come se ci fosse un legame diretto fra la persona trascurata e
la potenzialità che sia contagiosa.
Grazie ad un semplice strumento come Wordle, che
analizza la frequenza lessicale che occorre nei testi scritti, ho
potuto rileggere le interviste rilevando alcune significative
connessioni lessicali e semantiche nei discorsi degli
intervistati. A proposito del legame tra sporco e contagio,
ecco un risultato ottenuto tra i più rappresentativi (si tenga
presente che le parole che compaiono con maggior frequenza
nel testo, sono quelle di maggiore dimensione all’interno del
riquadro).
165
Fig. 8 Analisi di frequenza lessicale (Alex, Ospedale Mauriziano)
Lo sporco e il contagio, in particolare per vie aeree,
erano spesso nominati insieme, e quando non erano nominati
insieme erano associati a parole che rinviavano ad una
dimensione comune. Nel caso dell’intervistato la cui analisi
lessicale è rappresentata dal quadro della Fig. 8, il contagio
avviene quasi esclusivamente per vie aeree, come è stato
raffigurato
anche
attraverso
linee
che
percorrono
e
attraversano l’intero foglio, a significare che il contagio è
ovunque (cosa che a parole l’infermiere specificava
soventemente) e lo sporco è associato all’utenza, in primis,
che emana cattivi odori. Alla fine dei suoi ragionamenti,
concludeva che il rischio di contagiarsi è riconducibile alla
sporcizia, ed essendo questa una prerogativa dell’utenza,
occorre sempre indossare quanti più dispositivi possibili per
evitare i contatti pericolosi.
Va sottolineato che lo sporco e il pulito, il puro e
l’impuro, sono categorie significative e pregnanti per quanto
riguarda il contatto con l’alterità. Trovo importante
166
specificare questo aspetto perché nelle parole degli infermieri
tale distinzione era molto presente.
L’antropologa Mary Douglas, in Purezza e pericolo
(2003), affrontava la questione delle categorie simboliche
dello sporco e del pulito sostenendo che la loro definizione,
arbitraria e variabile a seconda delle società, contribuisce a
creare un ordine del mondo. Vorrei a questo proposito
riportare ciò che emerso a proposito della parola sporco da
parte di un’infermiera del Mauriziano:
Sporco, come malattia e contagio, lo sporco è negativo. Ho pensato alla
strada perché è grigia, impersonale, e mi dà l’idea che ci sia qualcosa che
va aggiustato. Sporco dev’essere tolto, come la polvere sui mobili…è un
momento in cui c’è bisogno di mettere ordine dove c’è disordine. Sporco
per me rappresenta qualcosa che va messo in ordine, togliere l’inutile e
sistemare l’utile (Mimi, Ospedale Molinette).
Le parole di un’altra infermiera, scritte accanto alla
parola sporco, nella prima traccia, a me avevano francamente
molto sorpreso:
Sporco: non attinente alla nostra professione (Inglesina, Ospedale
Molinette).
Leggendo queste parole, le avevo chiesto delle
spiegazioni, condizionata anch’io da quello che in genere mi
avevano detto tutti gli altri colleghi, e cioè che l’ospedale in
primis è un luogo sporco, lo sono i corridoi, lo sono i vuota
vasi, i “pappagalli” e tutti gli altri strumenti e oggetti che
mettono in relazione con i liquidi corporei secreti dai
pazienti.
Com’era
possibile
che
quest’infermiera
mi
informasse della mancanza di relazione tra la sporcizia e la
professione infermieristica? In realtà la sua risposta, semplice
167
ma non banale, era stata: “Perché lo sporco non deve esistere
nella nostra professione”.
La rimozione dello sporco è qualcosa che ha a che fare
con una specifica concezione di igiene, per la quale, almeno
nella nostra società, lo sporco va eliminato, lo sporco è “fuori
posto” e va allontanato o, meglio, eliminato.
Nella prima delle due citazioni riportate questo
passaggio del mettere ordine e ripulire qualcosa che è sporco
e fuori posto è reso in maniera esplicita. Nella seconda
citazione invece lo sporco è assolutamente negato, e durante
la spiegazione emerge quell’imperatività della negazione: lo
sporco non deve esistere nella professione di infermiere.
Certamente si tratta di un’affermazione molto vera, dal
momento che l’infermiere è tenuto ad agire e a svolgere il suo
lavoro con strumenti sterili e accuratamente detersi. Ma, ai
fini delle nostre riflessioni, è utile prendere atto di come il
timore del contagio e della contaminazione possa essere
sovrastimato, tanto da utilizzare dispositivi di protezione
quando si abbia la percezione di avere di fronte un pericolo
maggiore.
Ritengo che connettere queste informazioni ricavate
dalle interviste, possa portare ad affermare che esista una
stretta relazione tra
cultura e pregiudizio, nel senso che
quest’ultimo assume forme diverse servendosi di mezzi
culturali, al livello “macro”, nelle politiche, al livello “meso”,
pervadendo chi si occupa di formare le professioni sanitarie,
e al livello “micro”, nelle relazioni interpersonali tra
operatore sanitario e utente straniero. Si tratta di qualcosa che
si è dotato dei suoi miti, dei suoi riti, delle sue leggi, dei suoi
protocolli, dei suoi sostenitori mediatici, e che, grazie a
questo edificio ben organizzato e costruito, può offrire dei
168
modelli di comportamento agli individui che vi si
riconoscono.
In ambito sanitario, conoscere queste implicazioni può
diventare
importante, perché consente di osservare
retrospettivamente che cosa induce a discriminare e che cosa
invece può essere utilizzato per aprire delle crepe in
quell’edificio culturale e nelle sue fenomenologie.
Quando si è parlato di immigrati come di attentatori
all’integrità del corpo sociale, si è utilizzata una metafora che
si sposa con il contesto etnografico di riferimento per questo
lavoro. La dimensione della salute e della malattia, vista nei
suoi caratteri antropologici, può essere un terreno di indagine
per risignificare il corpo nelle sue estensioni e dilatazioni
oltre i limiti fisici.
Quando si dice che l’immigrato mina l’integrità del
corpo sociale, sì sta compiendo un importante passaggio
logico che è preceduto però dalla costruzione dell’alterità,
con
dispositivi
verbali
e
iconografici,
seguita
dalla
negativizzazione dell’alterità, stigmatizzata e trasformata in
“agente
patogeno”.
L’allontanamento
e la
rimozione
dell’agente patogeno rappresentano quindi delle strategie per
allontanare il rischio che si leda alla nostra integrità e
incolumità.
Credo si debba insistere sul passaggio fondamentale
rappresentato dalla costruzione dell’alterità, perché da esso
dipendono, e su di esso si reggono, le successive
argomentazioni:
sono
la
costruzione
dell’alterità
e
l’esasperazione della differenza che rendono possibili le
dinamiche di esclusione. Senza che questa differenza sia
percepita e sovrastimata, la struttura teorica e pratica del
pregiudizio non terrebbe.
169
A questo proposito, è opportuno osservare che nessuno
degli operatori intervistati ha voluto mettere sullo stesso
piano, semantico, linguistico e figurativo, l’immigrato con il
corpo e la persona. Spesso alla parola corpo si faceva
coincidere la voce “persona”, “essere umano”. L’immigrato e
la persona, tuttavia, sono stati puntualmente scissi, tranne nel
caso del peruviano con problemi di alcolismo della
narrazione citata in precedenza, dove la parola “corpo” era
stata messa in relazione di uguaglianza con l’immagine
dell’immigrato stesso.
Trovo particolarmente significativo il caso seguente, in
cui immigrato e corpo definito come persona sono
diametralmente opposti all’interno
dello
spazio
della
rappresentazione:
Fig. 9 Il racconto di Grisu (Ospedale Mauriziano).
Anche in questo caso l’intervistata aveva scelto di
narrare una storia, a partire da un ipotetico immigrato che ha
170
“problemi linguistici” e non capisce che cosa gli si dica, a tal
punto da confondere i colori del triage con l’arcobaleno: “Lui
non capisce quello che gli diciamo e magari nella sua testa
pensa che i colori del triage siano i colori dell’arcobaleno”. Il
contagio procede dallo sporco e per lo sporco. L’immigrato
che si ammala ha bisogno delle nostre cure. L’immigrato
diventa paziente. Chi cura e libera dalla malattia il pazienteimmigrato, è la persona, quella con la carnagione chiara e la
pelle rosa. “Può anche capitare, questo lo metto come fine
della storia, che l’immigrato ben integrato possa poi fare dei
corsi e diventare come noi”.
La storia ha un lieto fine. L’immigrato perde alcune
delle sue caratteristiche inaccettabili e diventa come noi, non
prima però di un’adeguata formazione, volta ad “integrarlo”.
Al di là dei sarcasmi, dai dati raccolti si evince che il
pregiudizio, come modello e costruzione culturale, trova
terreno fertile in retoriche e dottrine più datate, e dimostra
estrema duttilità riadattandosi ai tempi recenti, in un processo
di continuo rinnovamento.
Mi dissocio dal pensare che si tratti di un ineludibile
automatismo, poiché se interpretato come senso comune, se
ne riconoscerebbe un processo costruttivo. Proprio per il suo
carattere “culturale” e dunque costruito e rinforzato grazie
alla pratica dei soggetti che ne prendono parte, il pregiudizio
potrebbe dissolversi se si smettesse di alimentarlo. Le voci
dell’“altro”, cioè le voci dell’utenza, ci conducono a
ripensare le categorie più rigide per ammorbidirle, ci
permettono di coltivare il dubbio per ridiscutere le certezze,
ci invitano a rivalutare l’importanza della complessità e a
temere di meno la possibilità di che i confini possano essere
più labili di quanto si stimi.
171
Capitolo IV
“UNA MAGLIA ROTTA NELLA RETE”.
LA VOCE DELL’“ALTRO”
Si parla di «funzione specchio» dell’immigrazione, cioè
dell’occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che
è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per
smascherare ciò che è mascherato, per rilevare ciò che si ha interesse a
ignorare e lasciare in uno stato di «innocenza» o ignoranza sociale, per
portare alla luce o ingrandire (ecco l’ effetto specchio) ciò che è
abitualmente nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a
rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o di non-pensato sociale.
(Abdelmalek Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle
sofferenze dell’immigrato)
Della poesia di Eugenio Montale, i motivi dominanti
più noti e
ricorrenti sono l’amarezza, il pessimismo, la
desolazione, racchiusi in quella famosa formula che è “il
male di vivere”. Tuttavia, alcuni versi si aprono e lasciano
penetrare della luce, vengono sottratti all’angoscia, e liberano
simboli positivi che alludono a speranze nostalgiche per una
condizione esistenziale diversa, a vie di fuga possibili.
Immagini come la “maglia rotta nella rete”, o l’“anello che
non tiene”, o il “varco”, o lo “sbaglio di Natura”, evocano la
possibilità di scenari differenti, di alternative e riscatti
possibili.
La metafora della “maglia rotta nella rete” si adattava, a
mio parere, a ciò che la voce dell’utenza ha rappresentato per
questo lavoro. La voce dell’“altro” infatti, riserva alcune
significative sorprese rispetto al sistema del pregiudizio, se
172
non si può addirittura dire che ne rappresenti la falla, una
crepa che, se valorizzata, porterebbe il sistema stesso di
incrinarsi.
Il pregiudizio come sistema di significati o come
modello culturale, così come è stato presentato nei capitoli
precedenti, è capace di indirizzare l’azione sociale sia al
livello delle politiche, sia al livello delle relazioni
interpersonali tra singoli.
Fino ad ora, per indagare il tema del pregiudizio come
complesso di significati, ho preso a riferimento due concetti
di cultura fra loro diversi, ma, a mio giudizio, compatibili.
Sono il concetto di cultura proposto da
Clifford Geertz
(1988), che descrive la cultura come testo, come “documento
agito” e come “rete di significati” in cui l’uomo è immerso,
ma che egli stesso ha intessuto, e quello di Michael Herzfeld
(2006), più provocatorio, secondo il quale la cultura altro non
è che “senso comune”, un insieme cioè di “strati di ovvietà”,
oggetto di studio dell’antropologia e che la stessa ha il
compito di “defamiliarizzare”.
Il pregiudizio che si espleta in ambito sanitario nei
confronti di pazienti immigrati assume in questo senso la
forma di un modello culturale: sostenuto da un possente
immaginario, continuamente rinvigorito, che rappresenta
l’“altro” attraverso stereotipi sedimentati, crea i presupposti
fondamentali
per
consentirne
la
marginalizzazione
e
l’esclusione a livello politico e a livello individuale.
Consolidato sul piano storico e scientifico, condiviso e
alimentato dalle agenzie politiche e di informazione, e nelle
pratiche quotidiane, il pregiudizio appare come qualcosa di
profondamente
radicato,
quasi
inattaccabile
e
incontrovertibile. Tuttavia, riconoscerne la natura artefatta –
dal momento che sopravvive come modello culturale e
173
attraverso mezzi culturali – è un primo passo per non cedere
alla tentazione di considerarlo un mero automatismo, e cioè
come qualcosa di indistruttibile. Non solo. Rintracciare il
processo dinamico attraverso il quale il pregiudizio prende
forma e interrogarsi sulla sua operatività pratica – cogliendo i
vari collegamenti “ipertestuali”, come li ho definiti nel
Capitolo III – significa anche lasciare uno spazio maggiore
alla possibilità di individuarne le eventuali falle.
Le falle del sistema del pregiudizio che personalmente
mi è sembrato di poter individuare, risiedono proprio nella
voce dell’“altro”.
4.1 FORME DEL PREGIUDIZIO: IL PUNTO DI VISTA
DELL’“ALTRO”
L’ascolto delle testimonianze dell’utenza straniera,
inizialmente, mi erano sembrate fondamentali per allargare il
campo della ricerca. Tale era infatti l’esigenza di fronte alle
ristrettezze del terreno d’indagine. Sapevo di non potermi
limitare all’ascolto
di alcuni operatori sanitari,
alla
partecipazione di qualche giornata di formazione, e
all’osservazione,
forzatamente
incompleta,
in
Pronto
Soccorso. Il terreno necessitava di essere esteso anche ai
diretti fruitori del sistema sanitario, e ai potenziali bersagli
dell’approccio pregiudizievole preso in esame.
Dalle interviste condotte in seno al progetto di ricerca
sulla salute di richiedenti asilo, titolari di protezione
internazionale e rifugiati51, sono emerse delle risposte che
hanno in larga misura confermato la presenza di consistenti
51
Progetto FER Non solo asilo 3. Alle categorie citate, si sono poi
aggiunti anche altri migranti cosiddetti “economici” o presenti in Italia
grazie ai ricongiungimenti familiari.
174
pregiudizi nell’operato del personale medico, come anche
nelle inique politiche sanitarie che limitano l’accesso ai
servizi e oscurano o negano il diritto alla salute. Le
testimonianze
ascoltate
hanno
anche
confermato
l’importanza dell’incidenza dei fattori sociali sulle condizioni
di salute dei migranti. Infine, hanno richiamato la mia
attenzione verso un elemento che ha confermato il paradosso
e l’inconsistenza delle basi più “mitologiche” che empiriche
delle logiche differenzialiste. Questi elementi mi hanno
aiutato a supportare l’ipotesi che ad essere chiamate in causa
siano piuttosto delle specifiche strategie politiche, che si
nutrono del complesso di pregiudizi comuni sull’“altro” e che
offuscano la vista rispetto alla possibilità di creare e
incrementare
pratiche di comunicazione e ascolto più
profonde e comprensive.
In questo senso i migranti, definendo la loro idea di
benessere e raccontando le loro percezioni relative al Servizio
Sanitario Nazionale, secondo la loro personale esperienza,
hanno tratteggiato uno scenario molto distante da quello
voluto dalle retoriche del pregiudizio. Hanno presentato,
forse senza volerlo, una visione alternativa possibile, che si
basa su presupposti improntati alla somiglianza molto più che
alla differenza. In altri termini, nell’ascoltare i loro vissuti e
le loro impressioni, soprattutto per quello che concerne
coloro che sono iscritti al Servizio Sanitario Nazionale,
sembrava di sentire individui e cittadini qualunque, alle prese
con un sistema complesso, con le sue mancanze e le sue
incompletezze, con le sue farraginosità e la sua miopia nel
rispondere alle richieste di assistenza. Con questo non
intendo trasmettere un messaggio semplificatore che riduca la
complessità della situazione in cui versano i migranti. Vorrei
però sottolineare come le loro dichiarazioni offrano degli
175
spunti per riesaminare un concetto di cittadinanza più
flessibile e aperto. Essi infatti, si approcciano ad un sistema
istituzionale come potenziali cittadini e come parte di una
collettività che invece tende a non abbracciare determinate
categorie.
Lo sguardo dei migranti, che si trovano a condividere
esperienze simili a quelle del cittadino del paese di approdo,
dà la possibilità di ripensare quelle categorie, rendendole,
quando
possibile,
meno
rigide,
pur
sempre
nel
riconoscimento dell’eterogeneità individuale di chi ne fa
parte.
In definitiva, mettere insieme le varie risposte mi ha
dato modo di sviluppare diversi ordini di riflessione, che da
un lato richiamano la trattazione condotta finora sul
pregiudizio agito e subito, e che dall’altro si aprono a
prospettive inattese e proiettano visioni alternative.
4.1.1 Il pregiudizio subito
Il pregiudizio, come ho cercato di mostrare nei capitoli
precedenti, si incastra fra le maglie del sistema politicosanitario, e se ne vedono gli effetti quando questo predispone
criteri selettivi di accessibilità alla cura, e mina la possibilità
di dare risposte adeguate secondo le esigenze di ciascuno.
Ancor prima, il pregiudizio si inserisce negli anfratti di un
sistema culturale che, naturalizzando le differenze, non
permette che se ne riconosca il carattere artificiale, e finisce
per creare dei criteri di legittimità ai quali le azioni
discriminanti possono appellarsi.
In questo modo, quella che è una differenza tutta
sociale e politica, viene interpretata come differenza naturale
176
e biologica – o culturale, come il razzismo moderno
preferisce interpretarla. Confondendo i due piani, si può
arrivare a giustificare le discriminazioni, oppure si giunge a
considerarle anch’esse “naturali” e non passibili di revisione
critica.
Alla reception del Pronto Soccorso dell’ospedale
Mauriziano, durante un’osservazione condotta prima di
effettuare alcune interviste agli infermieri, si era avvicinata
una signora molto anziana, con diverse carte in mano,
palesemente disorientata e in cerca di spiegazioni sul da farsi.
L’infermiere dell’accettazione si era alzato dalla sua
postazione, aveva raggiunto la signora oltre il banco, e aveva
iniziato a sfogliare le carte, dividendole, spiegandole che cosa
dovesse
fare con ogni
singolo
documento,
dandole
indicazioni per uscire dal Pronto Soccorso e arrivare nel
reparto specialistico dell’ospedale, dove avrebbe dovuto
effettuare la visita prenotata. Dopo circa un’ora (erano le 4
pomeridiane), si erano presentati due ragazzi molto giovani,
neri, uno dei due con diverse carte in mano, palesemente
disorientato e in cerca di informazioni sul da farsi. Lo stesso
infermiere dell’accettazione, rimanendo seduto, aveva dato
un’occhiata alle carte, aggrottando le sopracciglia le aveva
restituite al giovane, chiedendogli in modo piuttosto seccato
che cosa ci facesse di nuovo in Pronto Soccorso, e dicendogli
che dovevano smetterla di presentarsi in accettazione, che la
visita era prevista per le 11.30 di quella stessa mattina, e che
avendo perso il loro turno, avrebbero dovuto fare interamente
l’iter di prenotazione e pagamento del ticket. Con poche
parole, i due erano stati allontanati (probabilmente per la
seconda volta), senza avere nessun tipo di indicazione utile
sul come procedere per l’annullamento della visita e
l’eventuale nuova prenotazione, o per poterla recuperare. I
177
due parlavano un italiano piuttosto stentato. L’infermiere
dell’accettazione, con un paio di frasi scandite e pronunciate
ad alta voce, aveva fatto capire con efficacia che dovevano
andarsene.
Un caso, probabilmente, ma un caso emblematico di
come la “differenza pensata” diventi una “differenza agita”.
La signora molto anziana, che non si raccapezzava né a
livello spaziale (aveva confuso l’entrata del Pronto Soccorso
con l’entrata principale dell’ospedale) né a livello burocratico
(non riusciva a districarsi fra i vari incartamenti), aveva
ricevuto, in maniera piuttosto cordiale, le indicazioni
necessarie a mandare a buon fine la sua visita specialistica.
L’infermiere aveva ridotto le distanze, si era alzato dalla sua
postazione, e aveva fatto in modo che la donna non tornasse
più in Pronto Soccorso una volta individuata la strada corretta
da percorrere. I due giovani neri erano stati allontanati dal
Pronto
Soccorso
senza
molte
spiegazioni,
sarebbero
probabilmente tornati a chiedere informazioni nello stesso
posto, suscitando maggiore stizza e insofferenza. Oppure, con
un po’ di fortuna, avrebbero trovato l’ufficio informazioni
interno
alla
struttura
ospedaliera
e
magari
qualche
suggerimento in più per non perdere la priorità della visita
acquisita con la prenotazione.
Ma la salute non può (o per lo meno non dovrebbe)
essere affidata alla fortuna. Se a questa disparità di
trattamento basata sul colore della pelle o sulla scarsa
padronanza della lingua del paese d’approdo, si aggiungono
altri fattori come la difficile fruibilità del diritto alla cura, per
la fragilità socio-economica del migrante, emerge un quadro
in cui la salute diventa un bene di lusso, più che un diritto
inalienabile o un bene indivisibile.
178
Il fatto che l’infermiera citata nel Capitolo III parlasse
di utenza straniera in sovrannumero nei Pronto Soccorso, e il
fatto che l’infermiere dell’accettazione fosse scocciato per il
ritorno dei due giovani per un problema che continuava a non
risolversi, messi a confronto con le risposte dell’utenza
straniera, suggeriscono che ciò su cui ci si ostina a
concentrarsi, è in realtà un problema fittizio. Ovvero, quella
che è una disuguaglianza sociale, viene
differenza
naturale.
I
due
aspetti
mascherata da
si
alimentano
reciprocamente e si traducono, nella pratica, in una disparità
sul piano dei diritti.
Se più che concentrarsi sulle “ontologie dell’alterità” ci
si interrogasse sul sistema di accoglienza e, in questo caso
specifico, sul funzionamento o meno del sistema sanitario, si
eviterebbero forse alcuni problemi gestionali. L’infermiera
che parlava in termini di “ingiustizia sociale” (Capitolo III),
probabilmente sarebbe meno propensa a definire gli stranieri
come semplici approfittatori, ad esempio, e le ostruzioni
provocate dall’afflusso consistente dell’utenza straniera nei
Pronto Soccorso potrebbe in parte sciogliersi.
Il senso comune infatti definisce chi è percepito come
diverso e “altro” talvolta come scroccone, che vive sulle
spalle degli “italiani”, come asserivano alcuni infermieri dei
Pronto Soccorso, o molti operatori sanitari che avevano
partecipato alle giornate di formazione a cui ho assistito, o i
mass media con i loro messaggi più o meno esplicitamente
stigmatizzanti. Ma il senso comune attribuisce all’“altro”
anche altre qualità negative, prima fra tutte, in ambito
sanitario e non, quella della contaminazione e del contagio.
Lo si è visto nel capitolo precedente, organizzando le risposte
date da diversi infermieri, che dirigevano un’attenzione
179
particolare ai concetti di sporco, contagio e immigrazione,
spesso ponendoli in stretta relazione.
Questa visione si riflette nella pratica quando, di fronte
a colui che corrisponde ai criteri di alterità stabiliti, si
utilizzano accortezze eccezionali e preventive. Potevo
osservare questo fenomeno in uno dei due Pronto Soccorso
considerati per le interviste agli infermieri, dove, registrando
i vari pazienti, l’infermiera di turno tastava polsi e toccava
fronti a mani nude, ma nel compiere le stesse identiche
operazioni nei confronti di una donna rom, aveva preferito
indossare i guanti.
Il pregiudizio si agisce, dunque, si subisce, ma si
interiorizza anche.
Durante un focus group, condotto nell’ambito della
ricerca sulla salute del progetto FER Non solo asilo 3, una
donna di origine africana (subsahariana), affrontando
l’argomento fiducia – una delle quattro parole chiave attorno
alle quali si incentravano le discussioni52 – si scagliava contro
la cattiva pratica preventiva negli ospedali di fare esami del
sangue per verificare l’infezione da HIV:
Se sei africano ti fanno gli esami del sangue prima di tutto, per vedere se
hai malattie strane che porti dall’Africa e se hai l’Aids. Quella è la prima
cosa che ti controllano.
Questa dichiarazione era stata avversata da alcuni dei
presenti, che sottolineavano come gli esami del sangue siano
una prassi normale in qualunque ambulatorio. Fra coloro che
partecipavano, diversi asserivano che ogni qual volta si
fossero recati in Pronto Soccorso, erano stati sottoposti a
esami del sangue.
52
Si rimanda la descrizione della ricerca al Capitolo II.
180
Parlando con gli infermieri mi ero mossa in modo tale
da capire se questi esami del sangue “preventivi” fossero una
pratica obbligatoria da effettuare con tutti i pazienti. I
responsabili del personale infermieristico dei due Pronto
Soccorso torinesi considerati, mi avevano risposto che gli
esami del sangue non sono obbligatori, ma sono richiesti solo
in casi clinici specifici (ad esempio nel caso in cui sia
necessario sottoporre il paziente a intervento chirurgico).
Inoltre, il test per accertare l’infezione da HIV, se effettuato
senza il consenso formale del paziente, è un’azione
perseguibile penalmente, ai sensi della legge emanata dal
Ministero della Salute nel 1990 (Legge 135/1990, art. 5,
comma 3), che prevede che nessuno può essere sottoposto,
senza consenso, ad analisi tendenti ad accertare l'infezione da
HIV, salvo che per motivi di necessità clinica e nel proprio
interesse.
Se davvero la donna avesse avuto esperienze simili e se
gli stranieri che partecipavano al focus group fossero stati
sottoposti in modo preventivo e non clinicamente giustificato
agli esami del sangue ad ogni accesso in Pronto Soccorso,
sarebbe un fatto grave, anzitutto sotto il profilo legale.
Purtroppo, anche in questo caso, sono stata costretta ad
attenermi a quanto riportato dagli utenti e dagli operatori
sanitari, non essendomi consentita la possibilità di accertare
tale pratica e di poterla comprovare o smentire.
È probabile che la donna che si sentiva bersaglio di
razzismo aveva generalizzato una situazione particolare, ma
la sua percezione va contestualizzata, e va considerata
nell’insieme delle “cattive pratiche” che portano a trattare in
modo diseguale chi si presenta con caratteristiche ascrivibili
all’alterità.
181
Altri esempi di queste “cattive pratiche”, si possono
ravvisare nelle indicazioni riportate dagli utenti per quanto
concerne il rapporto medico-paziente in generale.
Di nuovo durante la conduzione dello stesso focus
group, e ancora durante la discussione circa la tematica della
fiducia nel sistema sanitario e nei suoi funzionari, un ragazzo
nigeriano si esprimeva così:
Non frequento molto i medici, ma se vedo che davanti ho una persona che
mi ascolta senza fare discriminazioni e mi accoglie, questo mi dà fiducia;
molti che vedono che sei straniero, sembra abbiano fretta di mandarti via.
La fretta nell’allontanare i casi clinici “scomodi”,
difficili da interpretare era una sensazione piuttosto diffusa
fra gli utenti intervistati, e un esempio parziale ma
emblematico di tale atteggiamento può essere rappresentato
dal caso dei due giovani neri citati poc’anzi, che sono stati
respinti
senza
troppe
spiegazioni
dall’operatore
dell’accettazione.
Parlando di prevenzione, durante i focus group, questo
problema riemerge. Al di là degli ostacoli burocratici e
normativi, che impediscono ad alcune categorie con uno
status giuridico precario, come i migranti, una fluida
accessibilità ai servizi di cura, anche la dimensione
relazionale gioca un ruolo fondamentale nella salvaguardia
del proprio benessere.
Dichiarare che i medici di base, ad esempio, sono poco
frequentati da molti migranti, rinvia proprio all’aspetto di una
comunicazione insufficiente e inefficace.
Legate al commento del ragazzo nigeriano, in materia
di fiducia e prevenzione, erano molte le testimonianze di chi,
a causa di problemi linguistici, invece che ricevere un ascolto
più attento e concentrato a cogliere la natura del disturbo che
182
a fatica veniva presentata, aveva avuto esperienze piuttosto
negative, di disattenzione e superficialità nell’incontro con gli
operatori sanitari consultati:
Io vado dal medico solo quando sto molto male; anche perché spesso per
farmi capire uso il traduttore di Google, ma più volte per questo sono
stata derisa…e poi anche se riesco con la traduzione di Google a spiegare
quello che ho, il medico mi fa delle domande che io non riesco a capire e
a cui non so rispondere,
ci raccontava una ragazza somala, a seguito di un’altra
dichiarazione particolarmente incisiva di un’altra donna:
Vado dal medico quando sto male e non mi curano…figurati se vado per
fare prevenzione!
E un giovane guineano, medico nel suo paese d’origine,
e disoccupato qui in Italia, sottolineava:
La mancanza di ascolto può minare la fiducia. Io sono medico e so quanto
è importante parlare bene alle persone malate, il problema è che qui, a
volte, non hanno tatto e ti spaventano.
Raccontando episodi specifici della sua esperienza
professionale, ribadiva l’importanza dell’ascolto del paziente
come atto terapeutico principale, in un certo senso prioritario
rispetto a qualunque altro farmaco.
Il “parlare bene”, cioè il tatto, la delicatezza che ogni
paziente gradisce nell’ascolto del proprio problema come
nella comunicazione di una diagnosi, era una questione già
sollevata nella fase delle interviste singole ai migranti. Una
donna eritrea, rievocando il periodo di convalescenza molto
lungo (sei mesi circa), dovuto ad un’infezione tubercolare che
aveva colpito sia lei che le due figlie più piccole, raccontava
183
di come il medico che le aveva comunicato la diagnosi, la
necessità dell’isolamento in quanto vettore di contagio, le
aveva causato un grande spavento per i modi non solo
scortesi e allarmistici. La donna infatti non aveva compreso,
per problemi linguistici (era da poco tempo arrivata in Italia,
e ancora non era in grado di parlare fluentemente e di
comprendere la lingua), ciò che il medico le aveva detto in
termini specialistici. Non aveva capito la natura del problema
e si era vista porre in isolamento, in quanto infetta, senza però
comprendere la causa. Evidentemente, dall’altra parte era
stato sottovalutato l’aspetto relazionale e comunicativo, e il
medico in questione non aveva messo al corrente la paziente
del suo stato di salute nel modo più adeguato. Ciò che era
stato ritenuto più importante era cioè isolare la donna in
quanto
soggetto
certamente un
patogeno.
senso,
ma
Questa
soluzione
aveva
non accompagnandola
ad
un’adeguata comunicazione, aveva suscitato panico nella
paziente.
Una ragazza somala molto giovane, titolare di
protezione sussidiaria e ora residente ad Alba, dove
l’abbiamo conosciuta, raccontava un’esperienza simile, che
sottolinea la forma di violenza che si cela dietro alla
comunicazione poco curata e mal gestita. Ogni giorno, in un
C.A.R.A. sito in Calabria, dove aveva trascorso diversi mesi
dal momento del suo arrivo, le venivano somministrate delle
pastiglie che non sapeva che cosa fossero e a che cosa
servissero. Si trattava probabilmente di vaccinazioni che
vengono disposte in questi centri di accoglienza, come
chiariva la mediatrice culturale somala presente all’intervista
(la ragazza infatti non parlava l’italiano, e aveva preferito
affidarsi alla mediatrice). In qualunque contesto e per
184
qualunque motivo, non informare il paziente della terapia, è
di per sé una grave mancanza.
La scarsa attenzione data agli aspetti relazionali e gli
atteggiamenti spesso viziati da logiche pregiudizievoli,
concorrono a indebolire maggiormente una categoria di
individui già giuridicamente fragile e favoriscono, più o
meno consapevolmente, il mantenimento di tale debolezza.
Questa vulnerabilità sociale dei migranti non deve
essere intesa come caratteristica essenziale, ma come
condizione provvisoria e impermalente dettata dal sistema di
accoglienza e da dinamiche culturali pregiudizievoli. Occorre
precisare infatti che il migrante si trova in una situazione di
debolezza giuridica, ma rimane pur sempre, al contrario
dell’immaginario inferiorizzante, un individuo dotato di
agentività che deve far fronte a delle problematiche che si
modificano continuamente durante il percorso migratorio. Il
complesso di pregiudizi che avvolge la figura del migrante
tende da un lato ad appiattire e a nascondere le sue
potenzialità e le sue competenze, e dall’altro a mantenere
intatti o a peggiorare i suoi aspetti di vulnerabilità, sul piano
giuridico e su quello economico e sociale.
In questo senso si può riprendere il concetto di
sofferenza sociale, che chiama in causa i rapporti di potere e
che rende visibili le asimmetrie sociali,
molto più
determinanti delle differenze culturali. Occorre infatti
chiedersi in che misura le differenze culturali, percepite il più
delle volte secondo linee guida improntate a visioni
stereotipiche, siano strumentalizzate dalle retoriche del
pregiudizio, al fine di mantenere quella diseguaglianza
sociale, mascherandola da diseguaglianza culturale.
185
4.1.2 Differenza sociale, sofferenza sociale
Durante le interviste singole e i focus group, ai migranti
che partecipavano veniva chiesto quale fosse la loro
percezione del Servizio Sanitario Nazionale, in che modo e in
quali occasioni se ne servissero e quali punti di forza o
debolezza potessero vedere in esso. Occorre tenere presente
che tutti i migranti potevano parlare con relativa cognizione
di causa, poiché ognuno di loro aveva almeno un altro
sistema (cioè quello del proprio paese d’origine) con il quale
mettere a confronto quello italiano. Inoltre, la maggioranza
degli intervistati aveva conosciuto almeno una o due altre
realtà europee prima di quella italiana.
Secondo le esperienze personali di malattia o
infortunio, ogni intervistato e partecipante ai gruppi di
discussione, aveva riportato la propria opinione, partendo dal
commentare i referenti concreti del Servizio Sanitario
Nazionale, come gli ospedali e le figure dei medici di base.
I migranti direttamente intervistati durante la ricerca
sulla salute, ribadivano l’importanza del Pronto Soccorso e
dell’ospedale come strutture di riferimento molto importanti
in caso di bisogno, a scapito invece del medico di base, una
figura talvolta meno conosciuta, meno
riconoscibile, più
difficile da raggiungere. Secondo gli infermieri, e in parte
secondo le testimonianze dei migranti che vedono nel Pronto
Soccorso un appiglio ben visibile (a volte l’unico) per
problemi sanitari, è possibile affermare che gran parte
dell’utenza straniera si riversi nei Pronto Soccorso, anche per
mali minori. Gli infermieri intervistati hanno talvolta
espresso insofferenza nei confronti dell’utenza straniera che
soventemente ha problemi ascrivibili al codice bianco del
triage. Questo dovrebbe portare a pensare che la conoscenza
186
dei servizi sia sommaria, e che l’orientamento all’interno del
sistema sanitario sia piuttosto complessa per uno straniero. Se
lo è per chi è nato e vissuto all’interno di questo contesto, per
chi viene da fuori è evidentemente più semplice smarrirsi.
Non si tratta però solo ed esclusivamente di lacune
informative, che peraltro coinvolgono anche molti operatori
sanitari che incappano nelle disarmonie normative locali e
statali, come spiegato nel Capitolo III. Occorre tenere conto
di una serie di fattori che, agendo in modo sinergico fra loro,
creano
le
condizioni
per
una
marginalizzazione
ed
indebolimento crescenti del migrante.
La carenza di informazioni relative al funzionamento
del Servizio Sanitario Nazionale, la debolezza sul piano
giuridico e la fragilità socio-economica, sono elementi non
trascurabili nella creazione di diseguaglianze a livello di
salute e mantenimento del benessere. I vari elementi, messi
insieme, riportano a considerare la salute e la malattia come
un complesso di significati e risvolti che vanno ben al di là
della dimensione organica.
Di questa visione più olistica della salute, i migranti
hanno una lucida consapevolezza.
Alla domanda sulla loro idea di malessere, nella
maggioranza assoluta dei casi, i migranti intervistati hanno
risposto facendo riferimento a qualcosa che non aveva
direttamente a che fare con la malattia intesa nel senso
biomedico di disease (Kleinman 1988) ma piuttosto
all’esperienza soggettiva di malattia, in stretta relazione con
la propria condizione sociale. Ognuno di loro infatti, salvo un
paio di eccezioni, ha indicato come cause principali di
malessere, le seguenti risposte, in quest’ordine di priorità: la
mancanza di lavoro, il non riconoscimento in Italia delle
proprie capacità e competenze personali, la mancanza di
187
relazioni e il relativo isolamento, a volte dovuto alle difficoltà
linguistiche iniziali. In due casi, la causa di malessere era
invece
individuata
dagli
intervistati
nella
“precarietà
giuridica”, nella mancanza di un regolare permesso di
soggiorno, ad esempio. A contribuire al benessere c’era, per
la maggior parte degli intervistati, la buona accoglienza da
parte della società ospite ma anche da parte degli operatori
sanitari stessi, che quando hanno cura di interagire con loro in
modo cortese, aperto e disposto all’ascolto, permettono di
affrontare le fasi più delicate della malattia in modo
completamente diverso e decisamente alleggerito.
L’importanza del riconoscimento delle proprie capacità,
come via per il mantenimento della dignità della propria
persona, o il valore del lavoro come mezzo per il
raggiungimento di un reale benessere, suggeriscono alcune
riflessioni ulteriori.
Il migrante che riconosce la complessità dell’idea di
benessere,
non
ridotta
esclusivamente
al
corretto
espletamento delle funzioni organiche, chiama in causa
problematiche inerenti anche all’ambito politico e sociale,
oltre che sanitario.
Un giovane ivoriano, intervistato ad Asti, fotoreporter
per un giornale nel suo paese, e qui declassato ad un lavoro
che aveva definito “un lavoro fisico e molto pesante, che non
ha nulla a che vedere con i titoli di studio e le competenze
professionali acquisite in dieci anni di esperienza” nel suo
paese, verso la conclusione del colloquio aveva espresso una
richiesta – una speranza, un desiderio – molto meno ingenua
dell’apparenza: avrebbe voluto un ufficio informazioni in cui
poter chiedere, testualmente, tutto.
La non banalità di questa richiesta risiede proprio nel
fatto che la domanda di salute e di benessere va ben oltre le
188
competenze sanitarie come le intendiamo tradizionalmente,
separate cioè dal contesto socio-economico da cui l’individuo
proviene e in cui vive. I migranti che ponevano al primo
posto, fra le cause di malessere, l’assenza di lavoro,
l’irregolarità giuridica o il mancato riconoscimento delle
proprie competenze personali, rinviano ad un concetto di
malessere di ampio respiro, che considera la dimensione biosocio-politica e non meramente organica del disturbo.
Soprattutto per il migrante economico53, la possibilità
di realizzare e portare a compimento il proprio progetto
migratorio, attraverso il lavoro, ha delle enormi implicazioni
sul proprio benessere. La mancanza di lavoro equivale ad un
fallimento che destabilizza in modo ancora più violento la già
precaria condizione del migrante. Per non parlare della
malattia, che rappresenta la minaccia più grande alla
realizzazione del progetto migratorio (Sayad 2002). Il
migrante offre il proprio corpo come strumento produttivo.
Nel momento in cui questo viene meno, il dramma si
amplifica, perché il corpo malato non serve, è improduttivo.
Le implicazioni sul piano individuale e sul piano sociale della
malattia assumono quindi per il migrante significati ancora
maggiori rispetto alla norma.
La metafora corporea utilizzata nel Capitolo III, cioè
quella del migrante pensato come minaccia che rompe
l’integrità del corpo sociale o come agente patogeno che
contagia il corpo fisico, serviva a sintetizzare i dati raccolti
dalle interviste, dalla letteratura giuridica e dai corsi di
formazione in ambito sanitario. Come si è visto infatti,
53
In questo caso specifico viene ridotta la complessità delle motivazioni
che stanno a monte della decisione di migrare. Rispetto agli utenti
incontrati e di cui riporto le testimonianze, non sono stati considerati i
migranti che si trovano nel nostro paese grazie ai ricongiungimenti
familiari o per altre ragioni che non siano la richiesta di asilo o la ragione
economica.
189
l’immigrato è spesso considerato il responsabile del degrado
del corpo fisico, in quanto soggetto contaminante, e del corpo
sociale, in quanto elemento estraneo che disfa gli ideali
nazionalisti dell’integrità socio-politica. In questa sezione del
lavoro dedicata all’utenza, si può adoperare nuovamente la
metafora corporea, questa volta però riempiendola di ulteriori
significati. La lettura che Sayad offre dell’esperienza
migratoria in generale (2002), ha molto a che vedere con la
malattia, nel senso che questa stessa sarebbe l’espressione
corporea del disagio connaturato alla figura del migrante,
escluso
giuridicamente
dalla
cosiddetta
società
di
“accoglienza”, e che offre il proprio corpo come unico
strumento di riconoscimento attraverso il lavoro. Se questo
diventa corpo malato, il migrante sprofonda in un duplice
vuoto.
La sofferenza, scrive Ivo Quaranta (2006b), appare
come esperienza del tutto naturale, “panumana”, eppure,
come indicano le risposte date dai migranti intervistati, la
sofferenza può essere un fatto squisitamente sociale, che
chiama in causa dimensioni ultra-organiche, come quella
giuridica e quella economica.
Per usare anche le parole di Didier Fassin,
Il corpo sofferente ha imposto la propria legittimità laddove altre basi per
il riconoscimento venivano progressivamente messe in questione […] La
legittimità del corpo che soffre, proposta in nome di un’umanità comune,
è opposta all’illegittimità di un corpo razzializzato, promulgato in nome
di una differenza insormontabile (Fassin 2006: 305-306, in Quaranta
2006a).
L’atto forse più violento che si può compiere in ragione
del pregiudizio, è quello di ridurre le connessioni del corpo
con altre dimensioni oltre quella fisica, operare cioè quella
190
consueta dicotomizzazione tra dimensione organica e
dimensione sociale.
Il frequente e prioritario richiamo, da parte degli utenti
intervistati, all’importanza del lavoro e del riconoscimento
delle proprie capacità come principali indici di benessere,
conduce ad interrogarsi sulla rilevanza dei fattori sociali e
sulla loro non trascurabile incidenza sul piano sanitario.
Questi richiami stanno infatti a significare che sul corpo e
sull’esperienza corporea di salute e malattia, si inscrivono gli
orientamenti delle politiche immigratorie, che hanno evidenti
ricadute sulla presenza o assenza di benessere percepito dalla
persona.
Una donna somala, durante il colloquio, aveva
sintetizzato questa riflessione dicendoci che quando si
possiede un tetto sulla testa, non si patiscono né caldo né
freddo, e tutte le preoccupazioni passano in secondo piano.
La dilatazione del concetto di salute a qualcosa che ha
attinenza con le condizioni di vita, con gli ordinamenti
giuridici e le possibilità economiche, induce anche a
considerare come sia fortemente illusorio pensare che la cura
vada nell’unica direzione del risanamento organico e della
liberazione da un disturbo fisico. Le testimonianze delle
persone che abbiamo incontrato durante la ricerca salute
facevano allusione a qualcosa che va al di là di quello che il
senso
comune
identifica
come
ambito
sanitario.
Nell’insistenza sugli aspetti sociali del malessere o benessere,
mi hanno suggerito che si trattasse di qualcosa che non
dovrebbe continuare ad essere ignorato.
La definizione di sofferenza sociale coniuga la
dimensione sanitaria con la dimensione sociale che la
trascende, ma che al tempo stesso la condiziona, e va intesa
come qualcosa che
191
[…] accomuna una serie di problemi umani la cui origine e le cui
conseguenze affondano le loro radici nelle devastanti fratture che le forze
sociali possono esercitare sull’esperienza umana. La sofferenza sociale
risulta da ciò che il potere politico, economico e istituzionale fa alla gente
e, reciprocamente, da come tali forme di potere possono esse stesse
influenzare le risposte ai problemi sociali. Ad essere incluse nella
categoria di sofferenza sociale sono condizioni che generalmente
rimandano a
campi
differenti,
condizioni
che
simultaneamente
coinvolgono questioni di salute, di welfare, ma anche legali, morali e
religiose (Kleinmann, Das, Lock, a cura, 1997)54.
La sofferenza sociale allora, letteralmente, prende
corpo e assume forme concrete
negli atteggiamenti
discriminatori individuali di alcuni operatori sanitari, nella
superficialità di alcuni formatori e nelle limitazioni
nell’accesso ai servizi di cura imposte dalle politiche
sanitarie, e nei profili di vita e di salute individuali è possibile
scorgere i riflessi di quelli che sono più ampi processi sociali.
4.1.3 Oltre la differenza
All’inizio del paragrafo 4.1 avevo posto l’attenzione
sugli aspetti per così dire “familiari” che potevano essere
riscontrati nelle risposte degli utenti stranieri.
Prima di affrontare la ricerca, mentre con gli altri
membri del gruppo di lavoro si definivano gli obiettivi e si
elaboravano le tracce delle interviste, mi aspettavo forse di
ricevere dagli intervistati alcune risposte se non “esotizzanti”,
quanto meno culturalmente connotate. Soprattutto per quanto
riguarda il concetto di salute e malattia, ero molto curiosa di
sapere che cosa ne pensassero i nostri interlocutori. Abbiamo
54
In Quaranta 2006b: 8-9.
192
avuto a che fare con somali, eritrei, nigeriani, afghani,
bangladeshi, iraniani e altre persone provenienti da contesti
geografici e socio-culturali molto distanti l’uno dall’altro e
soprattutto da quello italiano. Per questa ragione, all’inizio
del percorso pensavo (e forse, in qualche misura “speravo”)
che ognuno di questi migranti ci avrebbe consegnato delle
risposte imprevedibili, diverse dalla mia idea di salute e
malattia, sulla base delle quali costruire anche un discorso di
comparazione reso possibile dalla grande varietà di chiavi di
lettura possibili.
Le mie aspettative non sono state soddisfatte. La
sorpresa più grande è stata quella di poter constatare che
l’idea di salute e di malattia e la percezione del sistema
sanitario quasi arrivava a coincidere con la mia. Nulla di
esotico, nulla di così lontano e diverso da me. Un po’ come il
medico con la sindrome di Salgari citato nel Capitolo III, che
si era trovato a dover curare raffreddori e non malattie
tropicali o di inarrivabile diagnosi, anche io, in qualche modo
caduta nella trappola ideologica dell’esotismo e del
differenzialismo, mi aspettavo di avere chissà quali risposte
curiose sull’idea di malessere, benessere e cura. Dov’era
finita la differenza incolmabile tra “noi” e “loro”? La marca
“culturale” nelle loro risposte era ridotta ai minimi termini.
Ciò che è emerso, soprattutto nell’espressione dei bisogni, era
talmente vicino a “noi”, che la sorpresa è risultata
doppiamente amplificata. La diversità che ho potuto ravvisare
non risiedeva tanto nelle richieste degli intervistati, quanto
nelle risposte che il sistema è o non è in grado di dare loro, e
nella disparità di trattamento che viene loro riservato, nonché
in una differenza di status socio-economico, laddove cioè la
cultura non ha pressoché alcuna attinenza.
193
Certamente, si tratta di un terreno scivoloso, sul quale è
difficile
rimanere
in
equilibrio
per
non
azzerare
completamente la diversità culturale, un atto comunque grave
che non tiene conto del giusto riconoscimento delle
specificità culturali e individuali, o al contrario rendere tali
specificità insostenibili e insormontabili. Importante è dare il
giusto valore alla cultura di riferimento, senza tuttavia farla
rientrare in un discorso esotizzante. L’esotizzazione della
cultura rema infatti in senso contrario alla capacità della
cultura stessa di adattarsi e rinnovarsi, senza che arrivi a
rappresentare un nucleo fisso e permanente dal quale
l’individuo non ha scampo.
Anche il mio atteggiamento prevenuto è stato oggetto
di riflessione nel riesame dei dati raccolti e nella
rielaborazione degli stessi all’interno di questo lavoro.
Proprio da quello infatti ho voluto procedere, per sottolineare
i punti di forza del sistema culturale (o ideologico) del
pregiudizio, ma anche e soprattutto i suoi possibili punti di
debolezza.
Un primo passo per osteggiare la retorica dell’alterità
irriducibile, è mettere a fuoco la familiarità e la somiglianza
in coloro che sono potenziali cittadini e che condividono e
partecipano, per quanto invisibilizzati o misconosciuti, al
nostro stesso spazio pubblico.
Per quanto riguarda la percezione del Servizio Sanitario
Nazionale, i migranti che ne avevano avuto esperienza
lamentavano
i
lunghi
tempi
d’attesa
delle
visite
specialistiche, i costi proibitivi delle cure dentistiche, la
scarsa gentilezza e affabilità degli impiegati agli sportelli di
informazione, la rigidità burocratica, la copertura solo
parziale dei costi delle cure da parte del sistema sanitario
(anche se naturalmente veniva riconosciuta la positività del
194
sistema pubblico di assistenza, rispetto ad altri paesi il cui
sistema sanitario è privato e completamente a carico del
singolo), la frammentarietà delle informazioni, la figura del
medico di base a volte poco chiara per l’assenza di marcatori
simbolici – come il camice bianco nello studio – e per le
visite, spesso ridotte alla mera prescrizione di farmaci55.
Durante la restituzione dei risultati della ricerca agli
operatori socio-sanitari nei territori coinvolti dal progetto
FER Non solo asilo 3, era interessante notare come il
pubblico annuisse ad ogni dichiarazione di questo elenco. Il
commento più frequente era: “Non solo loro, non è una
novità! Anche per noi è così”.
Le differenze sostanziali su cui a posteriori potevo
riflettere, dunque, non risiedevano tanto nei bisogni di base –
la domanda di cura – bensì nella risposta a tali bisogni. Su
questo aspetto, a mio avviso, manca una sensibilizzazione
adeguata. Anche in queste rappresentazioni, che fanno
dell’“altro” un “altro assoluto”, tendiamo a vedere ciò che in
un certo senso ci viene insegnato a vedere. Lo sguardo non
registra tanto la realtà, ma anzi è soggetto ad una sorta di
abitudinarietà, offerta da un determinato modello culturale
all’interno del quale si è immersi, finendo per concentrarsi di
più su alcuni aspetti e per trascurarne altri. Un dato di fatto
spesso ignorato, forse perché dato troppo per scontato, è che
la salute è un bene indivisibile, un bisogno di tutti, perché la
malattia colpisce e destabilizza tanto lo straniero quanto
l’italiano.
La vera e propria differenza che emergeva dalle
interviste e dalle discussioni di gruppo, non era infatti
individuabile nei bisogni, quanto nella soddisfazione della
richiesta di assistenza oppure nelle operazioni aprioristiche
55
Si tratta di un riassunto dei dati emersi dalle interviste e dai focus
group, consultabili integralmente al sito www.nonsoloasilo.org.
195
stigmatizzanti di un sistema che, quando si confronta con una
persona che, per lingua o colore della pelle, si presenta come
diversa, le riserva un trattamento impari.
Tra il difendere l’uguaglianza o, in caso contrario, la
differenza a tutti i costi, c’è un vasto spettro di sfumature
possibili. Pertanto, ciò che vorrei sostenere non è
un’ennesima
dicotomia,
o
un
ennesimo
taglio
alla
complessità che riduca le esigenze dei migranti alle nostre,
sostenendo la tesi non dimostrabile per cui saremmo tutti
uguali. Si tratta ancora una volta di concentrarsi sulla varietà
dei gradi con cui pensare la differenza o l’uguaglianza. Senza
arrivare a sostenere nuovamente una dicotomia tra due poli
opposti (uguaglianza e differenza), si può pensare che
l’uguaglianza dell’essere umano, dei suoi bisogni primari
come quello del benessere e della salute, sia la base dalla
quale partire per ripensare la differenza in termini più sfumati
e flessibili, e sulla base di questa, rinnovare accordi e stabilire
norme comuni meno rigide ed esclusive.
Per questo motivo, più che di uguaglianza, sarebbe
bene parlare di equità nelle distribuzione di risorse e di
mezzi, a partire da una somiglianza nelle richieste che
vengono avanzate. C’è del simile nell’“altro”, qualcosa che lo
avvicina a noi e ci rende categorie in definitiva più
compatibili di ciò che si vorrebbe far credere. I nostri bisogni
sono molto simili, per lo meno in ambito sanitario, ma vanno
ascoltati nella loro diversità relativa, tenendo conto delle
specificità esistenziali, biografiche e sociali di ciascuno. Le
risposte devono essere dunque calibrate tenendo conto di più
aspetti e della complessità soggettiva dei pazienti.
L’evento della malattia, l’esperienza del dolore, così
come la soddisfazione di bisogni primari, costituiscono una
base comune sulla quale occorre costruire risposte eque. Il
196
migrante è diverso non tanto ontologicamente, quanto nella
rappresentazione che se ne fa e nelle politiche che lo
escludono in quanto migrante, non già attraverso razzismi o
discriminazioni individuali, bensì basandosi su un complesso
di pregiudizio che agisce a livello sistemico.
Andare oltre la differenza, in questo senso, non
significa negarla, ma riconsiderarla attraverso delle lenti
diverse, con uno sguardo meno essenzialista e più attento ai
processi economici, storici e sociali che determinano
un’eziologia del disagio più complessa. E per quanto
concerne la salute, significa da un lato valorizzare un
approccio olistico alla stessa, e dall’altro riappropriarsi di un
senso di collettività più fluido e permeabile. Una risposta più
attenta da parte dei servizi sanitari, dovrebbe cioè muovere
dall’idea che la salute è un bene comune e indivisibile, e la
sua salvaguardia giova alla comunità intera.
Come aveva sottolineato la Presidenza Portoghese del
Consiglio dell’Unione Europea nel settembre del 2007,
L’Unione Europea ha bisogno e continuerà ad aver bisogno degli
immigrati, per ragioni demografiche ed economiche, ... le politiche
europee per l’immigrazione hanno bisogno di essere riviste ... l’accesso
all’assistenza sanitaria da parte di tutti deve essere considerato come un
prerequisito per la salute pubblica in Europa ed un elemento essenziale
per il suo sviluppo sociale, economico e politico, oltre che per la
promozione dei diritti umani. Rivolgersi alla salute dei migranti non è
solo una giusta causa umanitaria, ma è anche un bisogno per il
raggiungimento di un miglior livello di salute e benessere di tutti coloro
che vivono in Europa56.
La risposta alla domanda di salute e di benessere,
dunque, non dovrebbero tanto basarsi sulla ricerca ostinata di
56
Conclusioni della Conferenza di Lisbona (Presidenza Portoghese del
Consiglio dell’Unione Europea, 2007).
197
patologie esotiche o su paranoiche ossessioni del contagio,
ma sull’assunto per il quale, se si agisce sulla limitazione
delle cause sociali (economiche, giuridiche) alla malattia, ne
consegue una maggior tutela da rischi a livello pubblico. In
questo senso, politiche esclusive e differenzialiste, non solo
sono violente nei confronti delle categorie più deboli, ma
sono controproducenti sulla collettività in senso lato.
4.2 RIPENSARE IL PREGIUDIZIO
I nodi fondamentali su cui ho riflettuto dopo aver
elaborato e organizzato i dati emersi dalla ricerca sulla salute,
si addensavano su alcuni interrogativi: qual è il passaggio che
porta da un’osservazione obiettiva delle differenze fra
individui al differenzialismo essenzialista delle categorie?
Perché tutte le energie (politiche, mediatiche) si spendono sul
differenzialismo e non su una visione alternativa?
Per cercare delle risposte, una prima distinzione che mi
è sembrato opportuno operare è stata quella tra differenza
culturale e differenza sociale. Il pregiudizio che vizia il
modello culturale dominante (quello proposto dai media,
attuato dalle istituzioni politiche e riprodotto a livello
individuale), porta a confondere le due differenze e induce a
credere che la miseria, l’indigenza, la malattia, il potenziale
contaminante,
situazioni
prodotte
da
una
particolare
condizione socio-economica, siano invece caratteristiche
essenziali di una certa categoria, quella degli stranieri,
concepiti stereotipicamente come emblema dell’alterità dalle
connotazioni negative. La dinamica sottesa al pregiudizio è
dunque quella di rendere ontologica, biologica e “culturale”
198
(nella versione essenzialista di cultura) una differenza che è
invece parte del sistema sociale ed economico.
Separare le due differenze significa porsi un altro
interrogativo. Se la differenza che il pregiudizio vorrebbe
come “naturale” si radica invece in fattori sociali, si dovrà
considerare la differenza nelle cause della sofferenza. Lo
scopo di introdurre il concetto di sofferenza sociale è
esattamente quello di chiarire come il malessere possa essere
indotto da disagi che nascono in dinamiche di potere che
marginalizzano la categoria dei migranti e li espongono più di
altri al malessere stesso.
A questo punto, allora, la malattia diventa un fatto
anche politico.
Il pregiudizio elevato a modello culturale o a sistema
istituzionale sembra inattaccabile proprio perché trae la sua
forza dalla capacità dei modelli culturali di imporsi ed essere
incorporati a tal punto da risultare naturali e da perdere di
vista l’approccio critico che ne rivela la natura artefatta.
Qui si inserisce una domanda che ho accennato
all’inizio di questo paragrafo e che costantemente mi sono
posta rileggendo i vari dati della ricerca sulla salute: per
quale ragione non si insiste con forza su un modello
alternativo?
In ambito sanitario, l’incontro con l’alterità sicuramente
pone dei problemi a livello comunicativo e gestionale. La
lingua,
le
abitudini,
indubbiamente
la
costituiscono
religione
delle
di
appartenenza
concrete
e
reali
eterogeneità con cui trovare compromessi e strategie
risolutive. Ma la voce dell’“altro” getta una luce su modelli di
convivenza possibili, al di là delle diversità che non possono
essere ignorate.
199
Il medico guineano che aveva partecipato a uno dei due
focus group, incoraggiato da altri migranti presenti alla
discussione, diceva:
Lo Stato dovrebbe occuparsi di questi problemi, ma anche gli stranieri li
possono provare ad evidenziare e proporre delle soluzioni: ad esempio, se
in ogni ospedale, ASL, ambulatorio dei medici di base e anche nei diversi
sportelli e luoghi pubblici ci fosse una cassetta dove mettere le proprie
critiche e i propri suggerimenti per migliorare la situazione, si creerebbe
un dialogo tra strutture ed utenti…Anche senza avere la cittadinanza, e
quindi anche se privi di certi diritti, possiamo comunque dire cosa
pensiamo, perché la legge dovrebbe essere uguale per tutti, abbiamo gli
stessi diritti e l’Italia è una paese libero dove tutti possono parlare…
I suggerimenti pratici che emergevano da parte degli
utenti nel corso dei focus group, erano molti. Quello che
proponevano erano soluzioni concrete, e spesso, come nel
caso riportato poc’anzi, piccoli gesti dettati dalla semplice
ragionevolezza. Al di là dell’applicabilità di tali proposte,
l’idea che andavo maturando era che ciò che descrivevano
altro non era che un modello di convivenza che si espleta
nella loro richiesta di cittadinanza e nell’implicita proposta di
ripensarla, oltre le barriere giuridiche che vengono imposte.
La cittadinanza giuridica viene di fatto negata,
producendo una diseguaglianza sul piano dei diritti, ma
ignorando che lo spazio di partecipazione è uno spazio
pubblico, entro il quale risiede una collettività, per quanto
eterogenea questa possa essere.
Il dubbio, allora, è che mantenere la frattura interna alla
collettività, separando “noi” dagli “altri”, e sulla base di
questa separazione, negare determinati diritti, non sia
un’operazione casuale, ma strategica.
Riprodurre lo stesso modello dicotomico, anche in
ambito sanitario, eliminare il dubbio dall’orizzonte, insistere
200
sul rafforzamento piuttosto che sull’indebolimento del
pregiudizio, forse risponde ad un obiettivo politico.
L’“altro” rappresenta una cartina di tornasole del nostro
approccio culturale, ne rivela forze e debolezze. Così i
processi migratori, come afferma Sayad (2002), rivelano ciò
che rimane in genere sommerso nel “non-pensato sociale”.
Ascoltando i migranti, emerge un sistema politico e sanitario
distratto, superficiale, disinformato, che non manca di usare
violenza nei confronti di categorie che tende talvolta a
invisibilizzare, talaltra a stigmatizzare o discriminare.
Il pregiudizio dove si colloca in tutto questo? In sé, è
difficile definirlo un vero e proprio modello culturale. Si
potrebbe dire piuttosto che si serva delle vesti di un modello
culturale, poiché questo è in grado di sopire i dubbi e
naturalizzare i processi storici.
Si potrebbe dire che il pregiudizio si annidi all’interno
di un certo approccio culturale che fornisce i mezzi necessari
a dirigere una determinata azione politica. Le logiche
pregiudizievoli diventano così un mezzo con cui stabilire e
mantenere determinati rapporti di potere fra dominanti e
subalterni.
Nell’ottica delle relazioni di potere, il pregiudizio può
allora essere allontanato definitivamente dalla definizione di
processo
cognitivo
individuale,
perché
investe
una
collettività, uno spazio pubblico e, pertanto, politico. In ciò,
forse, è simile all’ideologia, in quanto sistema integrato di
significati, di credenze e “mitologie”, che finiscono per
orientare l’azione politica e dare suggerimenti a quella
individuale.
La violenza istituzionale (implicita), che limita o nega
determinati diritti, e la violenza discriminatoria riprodotta
201
nelle pratiche individuali (esplicita), sembrano alimentarsi
reciprocamente e rispondere ad un obiettivo politico.
Il capovolgimento delle cause di questa violenza
xenofoba con gli effetti, è resa possibile grazie all’appello ai
pregiudizi più comuni sull’alterità: pensare agli immigrati
come ad una minaccia (Dal Lago 1999), in ambito sanitario
vettori di contagio o parassiti del sistema, giustifica azioni e
reazioni difensive ed escludenti. Ma si tratta di un
ragionamento viziato alla radice, di cui sembra si sia persa la
coscienza.
La questione sul ripensamento della natura del
pregiudizio rimane per me aperta.
Forse, riuscire ad intervenire sul pregiudizio non
significa tanto avere la pretesa assoluta di poterlo
smantellare, quanto piuttosto riconoscerne la presenza, tanto
efficace quanto subdola, nelle pratiche quotidiane, a livello
macro (delle istituzioni) e a livello micro (delle interazioni).
Avere coscienza del pregiudizio è un primo passo per
stemperare la violenza insita nelle semplificazioni, nei
riduttivismi. Il problema fondamentale del pregiudizio e delle
visioni stereotipiche risiede infatti nel considerarli “la realtà”,
e non dei processi di plasmazione della realtà stessa.
La capacità dei modelli culturali di presentarsi come
naturali, viene sfruttata dal pregiudizio e dal mondo
istituzionale che ne è fautore. L’unica arma che si possiede
per
osteggiare
questa
ovvietà,
è
problematizzarla,
defamiliarizzarla, dubitare che si tratti di un’inevitabile
autoevidenza.
202
Capitolo V
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
È indice di povertà culturale non essere in grado
di riconoscere i fenomeni di povertà culturale.
(Francesco Remotti, L’ossessione identitaria)
Il percorso finora tracciato, era teso ad individuare
alcuni processi culturali e sociali che consentono al
pregiudizio di prendere forma e di tradursi in prassi sociali,
politiche e relazionali.
Il pregiudizio assume forme mutevoli, è molto evidente
nelle sue conseguenze, ma è difficile da cogliere in modo
diretto, immerso com’è in una sorta di sottosuolo culturale.
Per raggiungerlo, spesso occorre scavare in profondità nella
dimensione dell’implicito, oppure disporre di più mezzi per
poter collegare fra loro le sue manifestazioni superficiali, i
suoi “affioramenti”, quasi a ricomporre le tessere di un
puzzle. Per questa ragione è stato necessario individuare più
terreni di ricerca, più voci a cui dare ascolto e più rimandi a
cui prestare attenzione.
Nei contesti sanitari, come si è visto, il pregiudizio
assume delle caratteristiche particolari, e finisce per diventare
un sistema di riferimento, un modello di comportamento e
uno schema interpretativo con cui approcciarsi a chi si
considera “altro”. L’“altro” assoluto, incarnato nella nostra
società nella figura dell’immigrato, diventa la metafora
vivente di un complesso di significati culturalmente costruiti,
di una vera e propria ideologia politica, con i suoi miti e le
203
sue credenze, continuamente riattualizzati e utilizzati come
ispirazione all’azione sociale e individuale.
Al livello sistemico, il pregiudizio verso l’“altro” si
espleta in un impianto normativo ambiguo, tendenzialmente
discriminante, fondato spesso su luoghi comuni e, molto
spesso, superficiale e approssimativo. A livello mediatico, il
pregiudizio viene veicolato attraverso la riproposta assillante
di un “altro” o scomodo e ingombrante, o minaccioso e
patogeno. In un processo in continuo divenire, l’immaginario
dell’alterità viene alimentato fino a diventare parte del senso
comune, e fino a ispirare le più automatiche pratiche
discorsive e i più “naturali” comportamenti interpersonali.
Qui si inserisce un paradosso. Gli stereotipi e i
pregiudizi costruiscono e definiscono l’alterità entro un
determinato orizzonte culturale. Così facendo, oppongono la
loro rigidità alla mutevolezza della realtà, al suo dinamismo,
alla sua complessità: ne forniscono una rappresentazione
semplificata
(decomplessificata),
stabile,
“dura”.
Al
contempo però, a contraddire questa staticità, c’è la realtà, nel
suo essere dinamico, fluido57. Gli stessi processi culturali che
si sforzano di interpretarla e affrontarla sono operazioni
intrinsecamente dinamiche. Si tratta, appunto, di processi: a
livello sociale e culturale, è impensabile escludere il carattere
di processualità e di elasticità.
Riflettendo sul legame che esiste tra cultura, intesa
dunque come fluida e processuale, e il pregiudizio, c’è una
discrepanza profonda, una paradossale inconciliabilità, che si
risolve non tanto separando le due cose, ma accettandone la
57
Sui meccanismi di opposizione al “flusso”, Francesco Remotti aveva
già parlato nel suo lavoro Contro l’identità (2005). L’identità, come il
pregiudizio che si fonda sulla logica dicotomica dell’irriducibile diversità
fra “noi” e “loro”, è una costruzione che implica uno sforzo di
differenziazione; si presenta pertanto come una riduzione drastica rispetto
alle possibilità di connessione e come un irrigidimento massiccio rispetto
all’inevitabilità del flusso.
204
coesistenza. Il pregiudizio, in definitiva, che assuma le forme
di un’ideologia o che si inserisca fra le maglie di un modello
culturale fino a diventare parte del senso comune, rimane
comunque un fatto culturale, è compreso cioè nella cultura,
proprio perché è un suo prodotto.
La sua efficacia e la sua forza, forse risiedono proprio
in questo stesso paradosso, cioè nella rappresentazione
stilizzata e decomplessificata della realtà che tuttavia, grazie
alle sintesi dei processi culturali, riesce ad adattarsi ad
esigenze concrete.
Le rappresentazioni stereotipate e un certo grado di
pregiudizio nei confronti della complessità ineffabile della
realtà, sembrano essere meccanismi fisiologici. Il punto è
capire quando questi diventano patologici. In altri termini,
rinunciare al pregiudizio definitivamente è praticamente
impossibile, nel senso che ognuno di noi avrà bisogno, per
necessità, di decidere come orientare le sue percezioni e
come gestire le sue relazioni, sapendo che è pressoché
utopistico cogliere le possibilità infinite che la realtà mette a
disposizione. Per fare un esempio, nel sottoporre a me stessa
la traccia di intervista che avrei poi presentato agli infermieri,
anche io avevo dato una rappresentazione semplificata
dell’immigrato,
riducendolo
all’idea
del
viaggio,
simboleggiato nel disegno da un paio di scarpe58. Questa
libera associazione deriva da una mia rappresentazione
stilizzata, che ho deciso fra infinite altre. L’immaginario che
nel tempo si è plasmato in me e attorno a me, e a cui attingo,
è frutto di un lavoro culturale che mi indirizza e mi orienta
nelle percezioni e nelle azioni.
58
Si rimanda alla lettura del Capitolo III, dove questa operazione è
inserita nella trattazione delle interviste condotte con gli infermieri dei
Pronto Soccorso.
205
Il problema risiede nella consapevolezza che si
possiede di tali operazioni di sfrondamento delle possibilità
alternative. Nel caso degli stereotipi e dei pregiudizi in
ambito sanitario, la stilizzazione delle rappresentazioni
diventa patologica nel momento in cui il nucleo solido e poco
flessibile delle stesse è assunto come sostituto della
complessità che ha di fronte, e viene in questo senso
naturalizzato, cioè sottratto alla riflessione, alla presa di
coscienza, alla consapevolezza che si tratti di una
rappresentazione possibile fra tante.
Francesco Remotti59 sostiene che sia la riflessività sia
l’ottundimento siano due operazioni culturali necessarie. La
prima consiste appunto nella capacità di riflettere sul senso
delle infinite possibilità, inafferrabili tutte insieme, ma che
impongono una scelta. L’ottundimento, al contrario, è
l’operazione di sfrondamento di quelle infinite possibilità
tramite la scelta. L’ottundimento può essere maturo, nel
momento in cui è accompagnato dalla consapevolezza
dell’operazione di decisione che si compie. Diventa invece
sinonimo di ottusità quando si perde di vista quel senso delle
possibilità, e si producono scenari senza via d’uscita, delle
sorte di vicoli ciechi culturali.
Ciò che a me sembra una prerogativa del pregiudizio
differenzialista analizzato finora nei contesti sanitari indagati,
è la sua capacità di sfruttare a proprio vantaggio e per i suoi
fini (più o meno ingenui e innocenti) la dinamicità e la
fluidità della realtà e dei processi culturali. Ma ciò che è
59
Alcuni di questi concetti sono presi da appunti delle lezioni di
Antropologia culturale per il Corso di Laurea triennale in Comunicazione
interculturale della Facoltà di Lettere e Filosofia, tenute dal Prof. Remotti
presso l’Università di Torino tra il 2006 e il 2008. Di alcune lezioni sono
disponibili i materiali didattici online, come segnalato nella sitografia di
riferimento. Analoghe riflessioni sono contenute in Remotti 2011b.
206
denunciabile del pregiudizio così inteso ed esercitato è che
svuota della riflessività quegli stessi processi.
In questo, come diceva Herzfeld (2006), occorre
opporre una critica alla pratica: lo studio antropologico del
senso comune, come lo presenta provocatoriamente, deve
essere funzionale a decostruire i processi che lo plasmano ed
eventualmente opporvisi.
L’attività
riflessiva
contro
l’ottundimento
inconsapevole è ciò che Remotti chiama metacultura,
riferendosi alla capacità di una cultura di riflettere su se
stessa, di rinnovarsi, di interrogarsi, di “saltar fuori dalle
convenzioni dalle situazioni al fine di meglio comprenderle e
cercare un senso ulteriore” (2011a: 298).
Prendendo in considerazione la cultura non come
oggetto statico e impermeabile, ma come processo dinamico
o come “progetto” (Remotti 2011a: 292), in virtù dei soggetti
attivi che la compongono, il pregiudizio rischia di impoverire
le azioni rigeneratrici della cultura stessa, riducendo
all’inerzia e alla passiva accettazione e riproduzione di
determinati modelli di riferimento.
La nozione di impoverimento culturale (Remotti 2010;
2011a) rimanda alla riduzione delle capacità creative e
riflessive di alcuni settori della cultura, che diventa miope e
inerte, che rinuncia a guardarsi e a rinnovarsi, di alcune aree
del tessuto culturale che presentano una minore densità. Nel
caso del pregiudizio, la perdita di densità o l’eccessiva
rigidità delle trame, sta a significare l’assestarsi sul senso
comune, adagiarsi su di esso, riprodurlo e alimentarlo
automaticamente, considerarlo una rappresentazione fedele
della realtà, accettarlo senza contrastarlo. In definitiva,
significa diventare complici inconsapevoli delle dinamiche di
esclusione che esso può generare.
207
Stimolare la creatività e
la riflessività, contro
l’impoverimento e la passività, significa riconsiderare i propri
modelli, decostruirli per progettare strategie alternative non
già di semplice coesistenza, bensì di convivenza.
Come afferma l’antropologo spagnolo Carlos Giménez
Romero (2005), mentre la coesistenza può essere considerata
come un dato di fatto, la convivenza necessita di un processo
di apprendimento, va costruita.
Si può forse parlare di cultura della convivenza in
questo senso, poiché, come ogni cultura, fatta di patti,
simboli, significati che vanno continuamente rinnovati, pena
l’estinzione (Remotti 2011a), così anche la convivenza va
appresa, negoziata continuamente.
Giménez (2005), nel parlare di convivenza, insiste
particolarmente sull’aspetto relazionale, perché è su di esso si
costruiscono le strategie di mediazione. Il fatto di abitare uno
stesso spazio, non è una condizione sufficiente per parlare di
convivenza. Questa infatti presuppone il tessuto delle
relazioni fra chi vive nello stesso luogo, che possono
funzionare con la flessibilità e il reciproco adattamento,
producendo appunto quell’armonia del vivere insieme, che
permette
di
distinguere
la
semplice
coesistenza
da
un’effettiva convivenza.
In ambito sanitario, il pregiudizio, con le sue pretese
generalizzanti e inflessibili, si oppone alla relazione, al
confronto profondo, e ostacola la mediazione. Questa non
deve essere intesa come l’oscuramento del conflitto
potenziale, o come una cecità di fronte ai vettori di
differenza, ma significa affrontare il conflitto, riconoscere la
differenza,
e
inventare
soluzioni
pacificazione.
208
di
risoluzione
e
La richiesta di cittadinanza latu sensu degli utenti
stranieri, va presa in considerazione per creare un amalgama
sociale che tenga conto delle diversità, senza esasperarle.
Il contesto sanitario, che si poggia su una base
egualitaria di bisogni, ma che può far emergere e inasprire le
disuguaglianze e le vulnerabilità sociali, può essere un
terreno fertile in cui far germinare nuovi patti, su cui edificare
nuove modalità di comunicazione e tecniche di mediazione
reale.
In questo senso, riportare anche la trattazione delle
tematiche della salute e della malattia sul piano del confronto
interculturale, significa restituire un respiro più ampio al
concetto di benessere, che si estenda a proposte nuove di
cittadinanza, plurale per i soggetti che la richiedono e la
esercitano, e plurale nei suoi significati.
209
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