UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Corso di
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea Specialistica in Antropologia culturale ed Etnologia TESI DI LAUREA Fare la differenza. Forme del pregiudizio in ambito sanitario Relatore Candidata Prof. Francesco Remotti Aurora Lo Bue Matr. 281176 A.A. 2011-2012 A mia mamma, esempio quotidiano di apertura, mediazione e pacificazione 2 INDICE RINGRAZIAMENTI………………………………………………….5 INTRODUZIONE…………………………………………………….9 I. SALUTE E PREGIUDIZIO: PROFILI TEORICI E SGUARDO ANTROPOLOGICO…………………………….15 1.1 RICUCIRE UNO STRAPPO. SALUTE E MALATTIA SECONDO LO SGUARDO ANTROPOLOGICO………………………………………15 1.2 ANTROPOLOGIA IN OSPEDALE…………………………………….27 1.3 IMMAGINARI, PREGIUDIZI E STEREOTIPI: PERCORSI E CONNESSIONI…………………………………………………………34 1.3.1 La costruzione dell’immaginario………………………………..36 1.3.2 Stereotipi e pregiudizi……………………………………………..47 1.4 DECOSTRUIRE PER RICOSTRUIRE: PERCHÉ OCCUPARSI DI PREGIUDIZIO IN AMBITO MEDICO-SANITARIO……………………55 II. SOGGETTI, TERRENI, METODI……………………….62 2.1 PROBLEMI METODOLOGICI E IPOTESI DI SOLUZIONE…………...64 2.1.1 Dalla parola, oltre la parola: l’uso delle immagini nelle interviste con gli infermieri nei Pronto Soccorso……………………………………...64 2.1.2 La necessità di allargare il campo: gli utenti………………………..81 2.1.3 Un campo intermedio: la formazione delle professioni sanitarie………………………………………………………………………….89 2.1.4 Fra un campo e l’altro………………………………………………….92 3 III. CREARE L’“ALTRO”. RAPPRESENTAZIONE E FORME PRATICHE DI DI ESCLUSIONE…………………………………………….…..93 3.1 DEFAMILIARIZZARE L’OVVIETÀ……………………………………...95 3.1.1 Sindrome di Salgari: sintomatologie e terapie……………………..100 3.2 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MACRO”: IL DIRITTO ALLA SALUTE IN ITALIA, TRA BUONE INTENZIONI, RIPENSAMENTI E STRATEGIE DI ESCLUSIONE………………………………………………………...………109 3.3 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MESO”: LA FORMAZIONE ALLE PROFESSIONI SANITARIE………………………………………………….127 3.4 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MICRO”…………………...………….142 3.4.1 Gli infermieri e la rappresentazione dell’immigrato………..143 IV. “UNA MAGLIA ROTTA NELLA RETE”. LA VOCE DELL’“ALTRO” ……………………………………………...172 4.1 FORME DEL PREGIUDIZIO: IL PUNTO DI VISTA DELL’“ALTRO”……………………………………………………………...174 4.1.1 Il pregiudizio subito……………………………………………….......176 4.1.2 Differenza sociale, sofferenza sociale……………………………….186 4.1.3 Oltre la differenza……………………………………………………...192 4.2 RIPENSARE IL PREGIUDIZIO…………………………………………..198 V. RIFLESSIONI CONCLUSIVE……………………………203 BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO………………………………..210 SITOGRAFIA DI RIFERIMENTO…………………………………..221 4 RINGRAZIAMENTI Ringrazio il Prof. Francesco Remotti per avermi accordato la fiducia necessaria a poter scrivere questa Tesi e per l’attenzione che vi ha dedicato. Il suo invito costante a “tormentarmi” per trovare gli spunti necessari a produrre una riflessione organica e che “mordesse”, sono stati fondamentali per dare corpo a questo lavoro. Sono molto riconoscente alla Prof.ssa Cristina Vargas per il tempo dedicato a sciogliere i nodi tematici e argomentativi della trattazione, per tutti i preziosi consigli offerti in itinere, e per avermi sempre guidato a procedere con profondità di sguardo e approccio critico. Gran parte della ricerca non sarebbe stata possibile senza l’intervento del Dott. Pietro Altini, Coordinatore della Facoltà di Scienze Infermieristiche di Torino, che ringrazio per aver reso possibile il mio ingresso nelle strutture ospedaliere e nei Pronto Soccorso designati per l’osservazione e le interviste, e che ha dimostrato sin da subito grande apertura e interesse per questo lavoro. La mia riconoscenza va anche alla Dott.ssa Adriana Pracca, Responsabile del Personale Infermieristico dell’A.O. Umberto I, che mi ha agevolato con estrema cortesia nella raccolta delle interviste, e che ha sempre risposto tempestivamente ed esaustivamente alle mie richieste. Ringrazio caldamente Signor G., Pollon, Grisu, Buknero, Biancaneve, Lollo, Labrador, Alex, Inglesina e Mimi, gli infermieri che hanno voluto dedicare non poco tempo a svolgere le interviste, che hanno condiviso con me 5 qualcosa di estremamente prezioso – parte delle loro esperienze personali e professionali. Accanto a loro, ringrazio i migranti, richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, incontrati nei territori coinvolti per la ricerca sulla salute del progetto FER Non solo asilo 3, la cui voce ha rappresentato uno dei contributi più significativi a questo lavoro. Grazie a loro è possibile credere in cambiamenti positivi. Un grande ringraziamento è riservato a Cristina Molfetta, per la passione con cui svolge i suoi incarichi e che ha trasmesso nella ricerca sulla salute, in parte condotta fianco a fianco, e per l’attenzione alla concretezza, l’energia e la cura nella relazione. Da lei ho molto da imparare. Ringrazio Gabriele Proglio, per avermi aiutato, nella fase embrionale di questo lavoro, a focalizzare gli obiettivi e le domande cognitive su cui basare la ricerca negli ospedali. In questo, il gruppo del Laboratorio interfacoltà Le città (in)visibili è stato una fucina di idee e uno spazio fertile di confronto. È in quest’ambito che ho conosciuto Valentina Porcellana. A lei va un ringraziamento sincero per il tempo gratuitamente offerto per problematizzare metodologie, chiarire dubbi e dare importanti suggerimenti. A Leslie Hernández Nova va il mio ringraziamento per aver fornito un aiuto indiretto e involontario sull’uso delle immagini durante la ricerca, attraverso le sue lezioni sul metodo di indagine tramite mappe cognitive, in seno al Laboratorio Le città (in)visibili. Tra i contribuenti “indiretti” a questo lavoro, rientra anche Salvatore Geraci. Grazie alle sue pubblicazioni ho maturato la volontà di elaborare una tesi sul tema del pregiudizio in ambito sanitario. Poterlo conoscere di persona 6 e vederlo nelle vesti di formatore ha ulteriormente confermato la validità e l’importanza del suo operato. Ringrazio di cuore Fabio Pettirino, che non si è risparmiato nel darmi consigli, che è stato counsellor inconsapevole fra alti e bassi (spronandomi durante gli “alti” e smorzando i “bassi” con l’ironia) durante la scrittura, che ha voluto elaborare insieme a me i punti più critici, accompagnandomi durante questo “rito di passaggio”. Ringrazio Luca Fossarello, che segue le mie vicende universitarie da tempo, che ha sempre condiviso senza gelosie contatti e suggerimenti, e ha sempre dimostrato interesse per il mio punto di vista e per il mio lavoro. Un grazie sincero va a tutti i miei amici più cari, che mi sono stati vicini in infiniti modi diversi durante l’ultimo faticoso periodo. Grazie in particolare a Cecilia, per la vicinanza pur oltreoceano, a Margherita, con cui ho aperto e con cui chiudo questo ciclo di studi, e su cui posso sempre contare, a Domenico per avermi suggerito indirettamente il modo di uscire dagli impasses, a Marta, Alessandra e Valeria per il “tifo” costante, e a tutti coloro che mi hanno fatto in qualche modo sentire la loro presenza. Senza l’aiuto morale e materiale della mia famiglia, non sarei riuscita a concludere questo lavoro. Ai miei familiari più stretti – e a quelli “acquisiti” per profondissima amicizia – va tutta la mia gratitudine per aver sopportato e supportato con affetto questi ultimi mesi. Ringrazio i miei genitori per la comprensione profonda, Cecilia per l’immancabile ascolto e vicinanza, Caterina per l’interesse condiviso e dimostrato in più occasioni. Ringrazio infine Michele, per la sua pazienza senza limiti, per farmi conoscere ogni giorno il valore della gratuità e del disinteresse, per la sua vicinanza delicata e opportuna, 7 per l’incoraggiamento costante, perché in lui trovo sempre una mano libera, o per potermi risollevare o per poter continuare a costruire sogni e realizzarli insieme. 8 INTRODUZIONE Nel 2006 compariva un articolo di Salvatore Geraci intitolato La sindrome di Salgari 20 anni dopo..., pubblicato su Janus, Medicina: Cultura, Culture, la rivista legata all’Istituto Giano di Roma. Tale proposta editoriale si propone di raccogliere scritti che considerino la medicina “come una prassi in cui scienza e tecnica sono intrecciate con la cultura”1. La stessa mission dell’Istituto, come molti simili ne stanno nascendo nel corso degli ultimi anni, è quella di inserire le humanities all’interno dei percorsi formativi per le professioni sanitarie, per far convergere i saperi delle scienze naturali con quelli delle scienze umane e sociali, allo scopo di migliorare le pratiche della cura. Sull’articolo di Geraci, in particolare, veniva raccontata la genesi dell’espressione sindrome di Salgari e se ne tracciavano gli sviluppi nel tempo. Quella lettura, in cui mi sono imbattuta piuttosto casualmente circa un anno e mezzo fa, mi aveva molto colpito poiché definiva in che misura, in ambito sanitario, il pregiudizio possa prendere forma e arrivare a sostituirsi alla realtà, determinando azioni politiche e comportamenti individuali improntati alla fantasia più che a dati empirici. Questo lavoro nasce dalla volontà di approfondire le suggestioni e richiami emersi dalla lettura di quell’articolo, attraverso gli strumenti e le conoscenze acquisite durante il corso di studi, e ritenendo valida la proposta di indossare le 1 La citazione è tratta dal sito ufficiale dell’Istituto Giano (http://www.istitutogiano.it/editoria/janus.html). 9 lenti dell’Antropologia per guardare al tema del pregiudizio nei confronti dell’utenza immigrata in ambito sanitario. La sfida era rappresentata dalla possibilità di creare strumenti idonei per indagare ciò che in genere rimane relegato alla sfera dell’implicito e del non detto – l’uso degli stereotipi, il complesso dei pregiudizi – e per riflettere sull’incidenza di un determinato approccio culturale sulla relazione medico-paziente quando quest’ultimo è straniero. Da un punto di vista culturale, la costruzione dell’alterità si inserisce in una cornice teorica e storica ben precisa, sulla quale anche la stessa antropologia ha molto riflettuto negli ultimi decenni con atteggiamento fortemente autocritico. Questo lavoro, dunque, si articola su tre nodi tematici fondamentali: da una parte, sulla costruzione culturale dell’alterità, che assume forma concreta nella percezione dell’esperienza immigratoria, e che su di essa sviluppa e implementa il pregiudizio nei confronti dell’“altro”; dall’altra, sul riesame della sfera della salute e della malattia sotto il profilo antropologico, nell’ottica di restituire al corpo un’integrità bio-psico-sociale, spesso ignorata dall’approccio biomedico alla cura; infine sulla convergenza e sull’incidenza di questi due aspetti nel percorso di salute dei migranti, sul cui corpo si iscrivono le dinamiche di un complesso ideologico dominato dalle logiche differenzialiste. Il Capitolo I fornisce un inquadramento generale alle questioni appena presentate. Parte col tratteggiare la storia e le ragioni dell’avvicinamento della disciplina antropologica alla salute, nell’intento di superare le dicotomizzazioni che separano la dimensione fisica da quella sociale, per poi illustrare l’utilità che può avere il trasporre le tecniche e l’approccio antropologico alla cura presso le strutture 10 ospedaliere e gli enti erogatori di servizi sanitari. Da questi assunti, ho poi voluto procedere ripercorrendo le tappe storiche e socio-politiche che hanno portato a plasmare un cospicuo immaginario dell’alterità, a partire dalle dottrine evoluzioniste che hanno influenzato anche la nascita delle scienze sociali. A partire da questi presupposti filosofici e “scientifici” si è potuto, nella nostra società, organizzare un complesso di stereotipi e di pregiudizi che, per quanto riproducano in modo decomplessificato e talvolta distorto la realtà, hanno una profonda influenza sulle pratiche sociali e politiche. I contributi della psicologia sociale, nella definizione iniziale di stereotipi e pregiudizi, sono stati inevitabili per approcciarmi al tema. Ma l’antropologia, col suo procedere “retrospettivo”, volto a considerare i processi di costruzione a monte dei modelli culturali, può distanziarsi da quella disciplina nel momento in cui non assume stereotipi e pregiudizi come processi cognitivi automatici, ma come costrutti socio-culturali che prendono forma entro determinate coordinate storiche e politiche. In questo senso, è possibile analizzare il pregiudizio in ambito sanitario con la tendenza a cercare un suo potenziale superamento, problematizzando di volta in volta ciò che appare come naturale, ma che, a ben vedere, è un artificio culturale. Il Capitolo II è dedicato ad illustrare le metodologie di ricerca adottate per indagare il pregiudizio nei confronti di pazienti stranieri nel contesto sanitario. Qui la trattazione assume una forma simile alla narrazione, poiché si occupa di ripercorrere le fasi che hanno portato all’elaborazione dei vari strumenti analitici in base alle esigenze che si presentavano svolgendo il lavoro di indagine. L’utilizzo di metodologie poco ortodosse per l’Antropologia culturale sono motivate da 11 difficoltà tecniche incontrate sul campo, a cui ho cercato di porre rimedio grazie a dispositivi mutuati anche da altre discipline e adattati ai bisogni che si presentavano sul campo e nella rielaborazione dei dati. Per dare corpo alla ricerca sulle forme del pregiudizio in ambito sanitario, avevo scelto di dedicare del tempo all’osservazione (inevitabilmente non partecipante) in due Pronto Soccorso torinesi e di svolgere al loro interno alcune interviste con gli infermieri triagisti. Parlare di pregiudizio con gli infermieri si presentava come un’impresa praticamente irrealizzabile, trattandosi di un tema coperto da pesante interdizione. Per questo motivo ho deciso di utilizzare un canale comunicativo che andasse oltre la parola, nel tentativo di esplorare il non-detto attraverso le rappresentazioni per immagini. Queste non avrebbero sostituito la parola poiché, affiancate alle singole elaborazioni discorsive dei disegni, avrebbero piuttosto potuto arricchirla, confermarla o smentirla, dandomi suggerimenti e spunti non raggiungibili attraverso mezzi esclusivamente linguistici. Ma non avrei potuto basarmi soltanto su quanto dichiarato dagli estremamente infermieri. limitante, Inoltre, l’osservazione il era campo era delimitata dall’area del triage ed era per me impossibile varcare quel confine. Si è rivelato perciò necessario cercare anche il confronto con l’utenza, reso possibile dalla partecipazione ad una ricerca sulla salute di migranti (in particolare richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione internazionale) organizzata dal progetto FER Non solo asilo 3, a cui ho preso parte da febbraio a giugno del 2012. Infine, per ampliare ulteriormente il campo, ho trovato importante riuscire ad inserirmi, come uditrice esterna, ad un corso di formazione per professioni sanitarie organizzato da 12 una delle due aziende ospedaliere considerate per l’osservazione – l’A.O.U. San Giovanni Battista di Torino – e per le interviste, allo scopo di trovare ulteriori connessioni tra quanto sostenuto dagli infermieri, quanto affermato dagli utenti stranieri e le suggestioni ricavate dal corso di formazione per operatori sanitari sulle tematiche legate all’intercultura. Ogni strumento di indagine è motivato quindi da un bisogno, al quale ho cercato di fornire una spiegazione inserendolo proprio in un percorso di maturazione di idee e proposte. Con il Capitolo III si accede al cuore della ricerca, non prima di aver descritto il panorama legislativo e il tragitto normativo sul diritto alla salute degli stranieri, che si presenta come un cammino a singhiozzo, e che ultimamente ha reso estremamente complessi l’accesso e la fruibilità delle cure agli immigrati che vivono nel territorio nazionale. Ma la politica e il sistema normativo non rappresentano in questo lavoro un “di più” informativo. Al contrario, si collocano nel campo di operatività del pregiudizio che agisce a livello “macro” (delle politiche, appunto), a livello “meso”, nel campo della formazione delle professioni sanitarie, e a livello “micro”, quello delle relazioni interpersonali tra operatore e utente. Riconoscere la pervasività del pregiudizio anche in processi che scavalcano il semplice agire individuale, significa restituire una risonanza politica – nel senso di pubblica e collettiva – al pregiudizio, e sottrarlo così al dominio del comportamento dei singoli. Il Capitolo IV è dedicato infine alla voce degli utenti, che hanno rappresentato un contributo tra i più importanti a questa trattazione. Ascoltare il loro punto di vista mi ha dato infatti la possibilità di individuare possibili vie da percorrere 13 per superare il pregiudizio, per incrinarne un sistema così naturalizzato ed efficace, il quale tuttavia presenta delle falle, che semplicemente andrebbero valorizzate. Inoltre, in questa fase finale del lavoro, ho trovato indispensabile ripensare al concetto di pregiudizio, per rielaborarne le caratteristiche e poter chiarire la posizione in cui esso si colloca. Più che rispondere alla domanda sulla natura del pregiudizio, ho ritenuto importante interrogarmi sulla sua collocazione fra le maglie dei sistemi culturali e dei rapporti di potere, grazie alla quale si rende così efficace. Efficace ma non indistruttibile. E forse un primo passo in questa direzione è la problematizzazione crescente sul pregiudizio, la consapevolizzazione della sua esistenza, la riflessività su cui poter insistere per rimuovere l’atteggiamento poco critico che favorisce la perpetuazione delle visioni stereotipiche e dell’agire pregiudizievole e discriminatorio. Il Capitolo V raccoglie queste riflessioni e chiude il lavoro facendo riferimento a nozioni come impoverimento culturale o metacultura (Remotti 2010; 2011a), a indicare rispettivamente il pericolo dell’abbandono della riflessività sui modelli di riferimento acquisiti ed interiorizzati e, per contro, l’importanza di recuperare un atteggiamento critico di fronte a quegli stessi modelli. Tra la fluidità ineffabile della realtà e l’opposto irrigidimento delle rappresentazioni stereotipiche e delle azioni pregiudizievoli, occorre frapporsi per ritrovare il senso della complessità, il presupposto fondamentale che dispone all’ascolto, favorisce l’incontro e apre la strada ad un’effettiva mediazione interculturale e ad una più armoniosa convivenza. 14 CAPITOLO I SALUTE E PREGIUDIZIO: PROFILI TEORICI E SGUARDO ANTROPOLOGICO L’uomo è nel mondo mediante il corpo. Perdere contatto con gli altri equivale talvolta a perdere il mondo: essere nuovamente oggetto (o, meglio, soggetto) di un contatto, significa ritrovarlo. (David Le Breton, Il sapore del mondo) 1.1 RICUCIRE MALATTIA UNO STRAPPO. SECONDO LO SALUTE E SGUARDO ANTROPOLOGICO La prima volta che ho cominciato a riflettere sul tema della salute da un punto di vista antropologico risale a qualche anno fa. Mi preparavo a svolgere un’indagine di campo nel sud del Cile, presso i Mapuche della IX Regione, in Araucanía, per poter raccogliere così i materiali necessari alla tesi di laurea. Le mie intenzioni erano quelle di conoscere, per quanto possibile nell’arco di alcuni mesi, il modo di operare delle machi, sciamane-guaritrici ancora molto attive nei territori indigeni mapuche. Convinta di potermi immergere in una realtà squisitamente rurale, ero poi stata sorpresa da un dato di fatto che non avevo potuto ignorare: le machi operavano anche in contesti urbani, e iniziavano ad essere impegnate 15 anche in realtà ospedaliere che prevedevano, nella loro struttura interna, alcuni settori di medicina interculturale, ai quali approdavano tutti quei soggetti, principalmente di origine mapuche, le cui patologie non potevano essere risolte e guarite soltanto dalla medicina allopatica. Nel corso degli ultimi decenni i Mapuche hanno migrato dalle campagne alle città, dall’Araucanía fino a Santiago, in cerca di opportunità di lavoro, e come tutti i migranti hanno cominciato ad essere vittime di malesseri “nuovi”, i malesseri della modernità e del migrante: stress, nostalgia, ansia, depressione, il senso di straniamento prodotto dalla “scissione” interiore di chi si deve trasferire da un mondo all’altro, fatto di abitudini e ritmi di vita diversi da quelli dei contesti di origine, per adeguarsi, il più delle volte coattamente, ad un modello economico e produttivo egemonico che non lascia un margine di scelta molto ampio. I disagi prodotti da questo sradicamento sono in primo luogo di natura psicologica, ma hanno ripercussioni dirette ed evidenti sul piano fisico, e ad essi si può far fronte adoperando dei dispositivi spesso ignoti o quanto meno trascurati dalla biomedicina. Questa infatti spesso trascura la complessità bio-psichica dell’individuo e riduce il malessere ad un’unica dimensione, quella organica. L’impressione che avevo avuto allora era proprio quella per cui l’inserimento delle machi anche negli ospedali cittadini, fosse un modo per richiamare l’attenzione su quei metodi di cura alternativi in grado di rimandare all’universo culturale e sociale del paziente, ed evidentemente più efficaci per la loro capacità di interpretare un linguaggio – quello del corpo e del corpo malato – che i modelli terapeutici di marca occidentale non riescono a comprendere. 16 La presenza di settori di medicina interculturale negli ospedali cileni deriva dalla riforma sanitaria, ad opera del Ministero della Salute del governo Bachelet (2006-2010)2, che dedicava un’attenzione particolare all’interculturalità nei servizi sanitari, e approvava la relativa introduzione sperimentale di settori di medicina interculturale all’interno delle strutture ospedaliere in diversi centri urbani3. L’importanza data alla dimensione dell’intercultura ha permesso così, nel caso cileno, una riformulazione della metodica diagnostica e terapeutica, tale da consentire all’individuo malato – in primo luogo mapuche, ma anche cileno – di affrontare la malattia servendosi di “specialisti della cura” appartenenti al mondo indigeno di riferimento, che costituiscono una risorsa ulteriore per affrontare la malattia. Non solo: riconoscere uno statuto di rilievo anche ad altre medicine che non si rifanno al modello biomedico occidentale, ma che ad esso possono essere complementari, significa permettere, almeno in teoria, di non considerarlo l’unico sistema legittimo sopra ad ogni altro, ma inquadrarlo come una delle tante “etnomedicine” possibili. Grazie a questi spunti specifici derivati dalla mia prima esperienza di campo in Cile, attraverso il giro lungo dell’antropologia, ho maturato nel tempo la curiosità di approfondire il tema della salute e della malattia come oggetti passibili di indagine culturale, sottratte al dominio esclusivo della scienza medica, e ho potuto sviluppare l’interesse per la situazione italiana in materia di salute e immigrazione. In Italia le tematiche connesse all’interculturalità non sono naturalmente legate alla presenza sul territorio di popolazioni 2 Norma general administrativa N° 16, sobre Interculturalidad en los Servicios de Salud, Resolución Exenta N° 261, Santiago 26 de Abril de 2006. 3 Uno fra gli altri, il comune di Puerto Saavedra, che ho potuto visitare personalmente. 17 indigene, come nel caso cileno. Tuttavia, la popolazione immigrata nel nostro paese – peraltro estremamente eterogenea per quanto riguarda le provenienze – impone una riflessione costante circa i possibili modelli di convivenza e di gestione di beni comuni quale, fra gli altri, la salute. Occorre specificare che esattamente come la popolazione cilena percepisce le popolazioni indigene come una minoranza che è espressione dell’assoluta alterità, per noi la situazione è rovesciata ma molto simile: i “nativi” siamo noi, e la minoranza che è espressione massima di alterità è costituita dalla popolazione immigrata, verso la quale si riserva spesso un trattamento pari a quello che i cileni adottano nei confronti dei Mapuche o delle altre minoranze indigene: rappresentazioni stereotipate di chi si ritiene biologicamente e culturalmente diverso, e verso cui si direziona il pregiudizio e si attuano forme di esclusione. In ambito sanitario queste dinamiche emergono con forza, soprattutto negli ultimi anni, dove l’intensità dei flussi è cresciuta e il fenomeno dell’immigrazione è diventato più evidente. Tali riflessioni che nel tempo si sono approfondite, costituiscono il cuore di questo lavoro e della ricerca che vi sta alla base, le cui intenzioni, come verrà specificato in seguito, sono quelle di cogliere il peso del pregiudizio che grava su chi è visto come “diverso” in ambito sanitario, tanto da determinarne il suo benessere o, appunto, pregiudicarlo. Fatte queste osservazioni iniziali, è diventato necessario avvicinarsi alla branca dell’antropologia medica, che da alcuni decenni riflette in modo sistematico sulla possibilità di includere salute e malattia fra i suoi temi di studio. Come afferma Giovanni Pizza, 18 L’antropologia medica cerca di far rientrare nel dibattito scientifico e in quello pubblico saperi e pratiche implicitamente ed esplicitamente prodotti intorno all’esperienza del corpo, della salute e della malattia, che emergono dai diversi contesti umani ma che in genere sono ignorati dalle discipline più “disciplinate” (2005: 18). Questo implica la necessità di riconsiderare una dimensione esperienziale del corpo, che vive e si muove in determinati contesti storici e culturali e che di fatto ne è il prodotto, nel tentativo di ricucire lo strappo che è avvenuto tra la sfera biologica e la sfera psicologica, sociale e culturale. Questo tentativo di recupero avviene in buona parte attraverso la risignificazione del corpo visto come parte essenziale del complesso psico-fisico che è l’essere umano, in grado di produrre delle risonanze concernenti le relazioni che intesse col mondo in cui è immerso e che, letteralmente, incarna. Come scrive ancora Pizza, In questo senso potremmo dire che la stessa storia dell’uomo è fondata sulla “presenza” del corpo nel mondo e sulla “presenza” del mondo nei corpi, poiché noi incorporiamo costantemente le forze esterne e le esperienze passate e al tempo stesso, in un processo vitale in continuo divenire, agiamo creativamente nel mondo trasformandolo con la nostra “presenza” (2005: 37). Una delle prime lezioni dell’antropologia è proprio quella di segnalare come la natura non basti a se stessa: la cultura interviene sul corpo umano per completare quello che la natura lascia di incompleto. “Diventare umani è un compito a cui gli esseri umani non possono sottrarsi: l’umanità non è data e garantita biologicamente” (Remotti 2000: 111). Dall’abbigliamento alle scarificazioni, dalla 19 chirurgia plastica alle modificazioni genitali, la cultura lascia il suo segno sul corpo. Il corpo si nutre di cultura, non solo nel darsi una foggia a livello estetico ed esteriore, in modo permanente o meno, ma altresì filtra e interagisce, non senza conseguenze, con gli stimoli che provengono dall’ambiente esterno. Espressioni come habitus (Bourdieu 2005), mindful body (Lock, Scheper-Hughes 1987) o come embodiment (Csordas 1990), ormai molto note all’antropologia, hanno esattamente la funzione di tracciare delle aree di intersezione fra il biologico e il culturale, ponendo enfasi non sulla separazione e concettualizzazione distinta di questi due terreni, quanto piuttosto sulle loro reciproche connessioni. Questa relazione dinamica si manifesta nel corpo che agisce, che si emoziona4, e nel corpo che si ammala e fa esperienza del dolore: l’accento è posto sulle pratiche, sulle disposizioni del corpo che assorbe ciò che proviene dall’esterno e che esso rielabora. Interiorità ed esteriorità in questo senso vengono sottratte a logiche dualistiche e sono finalmente considerate inscindibili. Questa inscindibilità è una conquista teorica piuttosto recente, se si pensa al percorso filosofico occidentale, in cui, dal Seicento, la separazione mente/corpo prende forma come costrutto teorico e acquisisce il valore di un universale. La famosa dicotomia cartesiana tra res cogitans e res extensa, espressa dal filosofo francese nelle Meditazioni metafisiche e in altre opere pubblicate a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, diventa un modo di procedere del pensiero occidentale non solo molto comune ma addirittura inoppugnabile, e sembra per molti versi persistere ancora. 4 Per lo studio delle emozioni da una prospettiva antropologica, si rimanda alla lettura del lavoro di Pussetti sui Bijagò della Guinea Bissau (2005). 20 Scrive così Cartesio in un passo delle Meditazioni: Se il genio maligno mi inganna, non v’è dubbio che io sono; e mi inganni pure quanto può, tuttavia non potrà mai fare in modo che io sia nulla, mentre penso di essere qualcosa […] Pensare? Ho trovato; è il pensiero; questo solo non può essere separato da me. Io sono, io esisto…questo è certo, e dunque sono esattamente soltanto una cosa che pensa, cioè una mente, un animo, un intelletto o piuttosto una ragione5. I dualismi e le dicotomie appaiono fortemente incastonati nelle più intime “rappresentazioni collettive” occidentali, e si rilevano facilmente anche nell’analisi che ho cercato di condurre in materia di pregiudizi. In questo lavoro tornerò più volte sulla dicotomia noi/altri che, con maggiore o minore ingenuità, non smette di manifestarsi nella sua violenza6. La dicotomizzazione infatti rimanda nel suo significato letterale ad una recisione, ad un taglio, ad una cesura che, a mio giudizio, non è lungi dall’essere un atto violento, soprattutto quando a tale separazione si accompagnano interventi di classificazione gerarchica. Si tratta di un processo astratto che tuttavia si riflette sul piano pratico: distinguere nettamente tra corpo e mente, noi e gli altri, uomo e donna, salute e malattia, normale e patologico, può avere una qualche funzionalità teorica in termini di ordine e sistematizzazione, ma lascia inevitabilmente uno spazio minore alle gradazioni intermedie, e in questo senso genera esclusione. Accogliere le contraddizioni del reale e la labilità 5 Cartesio, Meditazioni II, in Descartes René. Meditazioni metafisiche, Antonella Lignani (a cura di), Roma, Armando Editore, 2008 (Rist.), p. 198. 6 La dicotomia noi/altri è da considerarsi violenta nella misura in cui produce esclusioni e marginalizzazioni: tracciare dei netti confini tra noi e gli altri, rispetto al tema della salute, diventa spesso un modo per determinare chi ha diritto a determinati servizi, chi è degno di usufruirne e chi no. In questo senso da semplice distinzione categoriale si passa ad un atto discriminatorio, e per questo, ad un atto di violenza. 21 dei confini significa invece ristabilire dei legami, creare dei ponti, includere, ricucire, accomunare, ricreare relazioni. Ai fini di questo lavoro sarà importante tenere conto sin da ora dell’importanza della complessità a svantaggio della semplificazione, valore delle contraddizioni a svantaggio dell’indiscutibilità dualistica, delle relazioni a svantaggio dell’isolamento. Pizza sottolinea anche, tuttavia, come sia inesatto ricondurre in toto a Cartesio la responsabilità dell’ “errore” fondamentale della separazione mente/corpo, poiché nello stesso formulatore del dualismo coesisteva una “contraddizione originaria” (Pizza 2005: 53): Cartesio ammetteva infatti, sempre nelle Meditazioni, l’inaccettabilità della distinzione assoluta tra res cogitans e res extensa nel vissuto pratico. Tuttavia, nel pensiero occidentale ha poi prevalso la separazione teoretica, distaccata dall’esperienza della realtà e delle relazioni sociali e la supremazia del pensiero sull’esperienza fisica. In ambito medico, come in molti altri terreni scientifici occidentali, si riproduce questa dicotomia. La separazione mente/corpo si palesa ogni qual volta si consideri il corpo umano come macchina biologica, scomponibile e analizzabile a prescindere dalle relazioni in cui è immersa. Tobie Nathan, psicoanalista e professore di psicologia clinica e psicopatologia clinica a Parigi, scrive: Lo scopo dello “scienziato” […] è sempre quello di separare il soggetto dai suoi universi, dalle sue possibili affiliazioni, sottomettendo anche lui, come tutti gli altri, e soprattutto come individuo isolato, all’implacabile e cieca “legge di natura” (1996: 26). La critica che Nathan muove alla farmacologia occidentale ed anche alla psicoanalisi, si muove contro lo 22 stesso assunto di base: considerare il corpo in termini meccanicistici e il corpo malato nella sua mera disfunzione organica, tralasciando l’universo relazionale entro il quale il corpo è immerso. L’impresa teorica di Nathan, è quella di trarre energia anche dalle discipline antropologiche, unendo sincreticamente la lettura “occidentale” – bianca – a quella dei saperi tradizionali specifici di altre culture – principalmente africane. Il suo rappresenta un tentativo audace di allargare le maglie del paradigma biomedico per includere metodi “altri” di soluzioni terapeutiche, in genere ignorati o addirittura surclassati a semplici o bizzarre curiosità dal sapore etnologico. In questo mi pare di vedere anche un esempio di un bisogno reale, di un’esigenza concreta da parte di un crescente numero di studiosi e di correnti disciplinari di allargare i propri confini nel fronteggiare domande sempre più complesse che necessitano di altrettanta complessità nel rispondervi. L’antropologia medica, a partire fra gli altri dagli autorevoli contributi della Scuola di Harvard, tenta di spostare lo sguardo dalla dimensione puramente fisica a quella relazionale del corpo, della salute e della malattia, decostruendo alcune delle più miopi impostazioni biomediche e restituendo soggettività a ciò che in genere è pensato asetticamente, come se un disturbo organico dovesse necessariamente nascere e morire nella sua “organicità” (cioè diagnosticato e curato solo ed esclusivamente in termini organici). La soggettività – e dunque la complessità costitutiva di un individuo – si recupera guardando alla disfunzione anche dal punto di vista della percezione del paziente, dalla narrazione che questi ne fa. Si tratta pertanto di guardare al disturbo da più angolazioni, come se la lettura non potesse essere univoca: di ogni disturbo o sintomo, 23 occorre infatti considerare almeno tre livelli: il livello soggettivo (il modo in cui una persona “vive” il suo disturbo), il livello della narrazione del disturbo da parte del paziente e infine il livello della descrizione del disturbo da parte del terapeuta. L’aspetto più interessante, dal punto di vista antropologico, diventa il secondo livello, cioè quello della narrazione7. Ognuna di esse sarà unica e specifica, perché ciascuno interpreta e rielabora la propria esperienza di dolore in modo personale, attingendo tuttavia ad un patrimonio culturale di saperi, simboli ed eziologie. Come scrive David Le Breton, Tutte le società umane integrano il dolore nella loro visione del mondo, conferendogli un senso, o un valore, che ne attenua la nudità e spesso anche l’intensità. Lo inscrivono all’interno della rete di causalità volta a spiegare la sua origine e, soprattutto, forniscono i mezzi simbolici e pratici per combatterlo, grazie alle particolari medicine che ogni società elabora. […] La trama di senso è la materia prima della cultura (Le Breton 2007:105). Da qui nasce la proposta da parte di alcuni dei principali esponenti della scuola di Harvard di distinguere fra desease e illness8, la quale ricalca precisamente la volontà di pensare alla malattia come “realtà simbolica” e alla “medicina come un’impresa ermeneutica” (Quaranta 2006: X). I simboli, le concezioni e le interpretazioni che ciascuno elabora ed utilizza per dare senso e significato alla propria esperienza di dolore (ma anche solo per descriverlo, comunicarlo), possono rientrare nelle competenze dell’analisi 7 Per Byron Good (1999), la malattia è addirittura da vedersi come un “oggetto estetico”, da analizzare con strategie interpretative più che positiviste. I fatti biologici vissuti dal paziente possiedono significati inseriti in determinate reti semantiche che emergono nelle pratiche narrative di chi soffre. 8 Rispettivamente, le disfunzioni e alterazioni dell’organismo e il senso che viene associato dal paziente alla sua esperienza di dolore. 24 culturale: per questo motivo l’antropologia può farsi carico di mediare tra le realtà terapeutiche dei medici e dei pazienti, considerando gli uni e gli altri come parti di uno specifico sistema culturale suscettibile di analisi comparative con altri sistemi. Con le parole di Byron Good, non (è) sostenibile la teoria che dipinge il linguaggio della medicina come un semplice specchio del mondo empirico. Credo, invece, che si tratti di un ricco linguaggio culturale, legato ad una visione altamente specializzata della realtà e a un sistema di relazioni sociali (Good 1999: 9). Si può affermare che l’antropologia, da quando ha rivolto il suo sguardo alle società cosiddette “complesse” e ha esteso le sue analisi etnografiche anche alla sfera della salute, abbia tentato innanzitutto di ristabilire quel legame mente/corpo, trascurato nella rappresentazione della malattia unicamente come desease: l’introduzione di un concetto come quello di illness restituisce legittimità alla sofferenza del soggetto, riconsiderandone la personale narrazione e il personale inserimento delle cause di disagio nel proprio vissuto. Separando nettamente tra illness e desease e prediligendo la prima a scapito della seconda, spiega però Ivo Quaranta nella raccolta dei saggi più rappresentativi dell’antropologia medica, la Scuola di Harvard “cade vittima delle stesse dicotomie che aspirava a superare” (2006: XIII). Questa incrinatura analitica viene stemperata grazie all’introduzione di un’altra categoria, quella della sickness, che rimanda alla dimensione “politica” dell’incontro terapeutico, che non si esaurisce nella visione del medico e del paziente ma che rappresenta i meccanismi di formazione 25 del sapere medico e della sofferenza esperita. In questo senso si potrà parlare di “ideologia medica”, e l’antropologia si potrà occupare di svelarne i modi di agire ed eventualmente di decostruirne i processi. Si può affermare infatti che dietro ad ogni terapia si celi un sistema di valori. Curare il sintomo e il dolore non è un’operazione neutrale, ma risponde a precise concezioni sull’identità, sulle rappresentazioni dell’essere umano. L’analisi della dimensione sociale e politica del dolore trova un terreno molto fertile nell’odierno assetto economico e politico, generatore di povertà più o meno estreme, sia nel Primo che nel Terzo mondo. Il corpo, secondo questa prospettiva, diventa strumento di rappresentazione dei poteri economici o politici: la distribuzione della malattia non è casuale, ma risponde a specifiche dinamiche di tipo economico e politico, che si palesano nelle limitazioni di accesso a servizi e strutture di cura, spesso sulla base di discriminanti razziali, di genere o di status. Chi lavora attivamente su questo tipo di processi – per citare come esempio uno degli autori che conduce da tempo una vera e propria battaglia per i diritti umani, usando come strumento di denuncia i dati e le analisi delle sue ricerche – è Paul Farmer, medico e antropologo che dai primi anni Novanta si interessa ai rapporti tra salute, politica e mercato, e che introduce, a seguito della sua ricerca sul campo ad Haiti, il concetto di sofferenza sociale e violenza strutturale (1992): le diseguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari, espongono maggiormente gli haitiani più disagiati a livello economico a contrarre i virus dell’HIV e della TBC. La povertà e le discriminazioni legate al genere, all’etnia o ad altri fattori creano una situazione di estrema vulnerabilità che ha un impatto diretto sulla salute del soggetto. In questo 26 senso si può parlare di violazione del diritto alla salute: sul corpo malato e contagiato si iscrivono e si manifestano i segni di una violenza strutturale, che muove dalle nefaste dinamiche politiche e di mercato globali che agiscono a livello locale, producendo povertà e inducendo malattia. L’esperienza della malattia viene così ampliata ad un processo sociale più esteso, e non relegata alla sola sfera soggettiva: corpo, dolore e cura sono il frutto di processi di socializzazione e di costruzione culturale, ma anche di dinamiche di potere che occorre tenere in considerazione, e in molti casi, denunciare. 1.2 ANTROPOLOGIA IN OSPEDALE È utile evidenziare alcuni nodi centrali del percorso disciplinare dell’antropologia medica per avvicinarsi al cuore del tema affrontato in questo lavoro. Prima di addentrarsi nella tematica del pregiudizio in ambito medicosanitario, occorre infatti disegnare una cornice teorica che prenda in considerazione l’approccio antropologico alla corporeità e alla salute o malattia, e in seguito rilevarne la funzionalità nell’analisi delle professioni di cura e delle relazioni con l’utenza. Come espresso nel paragrafo precedente, l’antropologia riesce ad inserirsi nel discorso della medicina in senso lato, sia per la sua naturale propensione a fornire informazioni su strumenti diagnostici e terapeutici alternativi – ricavati da quei saperi etnologici di indiscutibile importanza, che rappresentano molto più che “semplici e bizzarre curiosità” – sia per la sua capacità di aderire ad un approccio di tipo 27 olistico alla corporeità che, soprattutto negli ultimi decenni, si sta riscoprendo l’utilità di recuperare. Afferma Tullio Seppilli: […] Com’è noto, in tutti i paesi occidentali, - e proprio a partire dai centri urbani maggiori e più moderni – si vanno affermando le forme più diverse, e in un certo senso “nuove”, di cosiddetta “medicina alternativa”. […] E’ evidente che lo spostamento di quote crescenti di popolazione verso il ricorso parallelo o alternativo alle “nuove” forme di medicina “altra” trova un forte stimolo – come ha segnalato la stessa Organizzazione mondiale di sanità – nella intensa carica emozionale e, spesso, nei lunghi tempi e nell’attenzione personalizzata che a differenza della biomedicina caratterizzano in queste forme il rapporto con il paziente e con il suo contesto (1996: XIX). L’analisi culturale e antropologica della malattia coniuga da una parte il tentativo di sviluppare una coscienza critica di fronte ad un modello terapeutico e diagnostico, quello biomedico, che è soltanto uno dei tanti possibili e che inizia a rivelare le sue debolezze, e dall’altro l’aspirazione a fornire degli strumenti in grado interpretare benessere e malessere secondo criteri non solo di tipo organico ma anche di tipo sociale. A causa delle sue frequenti pretese di superiorità, la biomedicina è in genere refrattaria ad accogliere o quanto meno a legittimare altri modelli terapeutici, che chiama “non ufficiali”, “non convenzionali” e che considera illegittimi poiché intrisi di “credenze” e saperi ritenuti “non scientifici”. Considerare invece il paradigma biomedico come specifico prodotto di un contesto storico e culturale, equivale a riconsiderarlo una delle tante “etnomedicine”, come già si accennava nel paragrafo precedente. Se la biomedicina è dunque passibile di analisi culturale, ne consegue che anche le professioni sanitarie possano 28 essere sottoposte all’osservazione antropologica. Portare l’antropologia negli ospedali significa riconoscere modelli di comportamento e di rappresentazione culturalmente e socialmente costruiti nel trattamento della malattia e nel vissuto della sofferenza. Ciò che si è cercato di fare in alcuni momenti della ricerca è stato proprio questo: introdursi all’interno delle strutture ospedaliere e considerarle come il contesto etnografico di riferimento. Tra i vari membri della “comunità” ospedaliera, l’attenzione maggiore era rivolta ai terapeuti, in particolare a quelli più vicini all’utenza. Come verrà mostrato più dettagliatamente nel capitolo che segue, una fase della ricerca era costituita dall’incontro e confronto con alcuni infermieri. Le interviste condotte con loro avevano lo scopo di cogliere parte di quel sistema di valori e di quei codici comportamentali dettati dalla loro professione, ma che sono negoziati e reinterpretati anche in base a stimoli di matrice socio-culturale e non strettamente “medica”. La scelta degli infermieri come principali interlocutori non era casuale. Gli infermieri, infatti, sono coloro che si occupano della delicata fase primaria dell’accoglienza, della descrizione del problema da parte del malato, che va ascoltata, interpretata e in base alla quale occorre cercare una soluzione. Al fine di sensibilizzare sempre più le professioni sanitarie al valore degli apporti delle discipline sociali nello svolgimento del loro mestiere e nell’approccio allo stesso, c’è chi ha addirittura sottolineato alcune somiglianze, per quanto le competenze e gli scopi siano diversi, tra infermieri e antropologi: Infermiere e antropologo si pongono […] in una posizione di interprete e di mediatore culturale […] Le barriere sociali fra infermiere e malato sono senza dubbio meno rigide di quelle che dividono il paziente dal 29 medico e favoriscono rapporti meno formali ed una maggiore comunicazione (Cozzi, Nigris 1996: 4). E probabilmente, almeno in questa fase “dialogica” con il paziente, gli infermieri svolgono un ruolo interpretativo analogo a quello dell’antropologo. Al di là di questo paragone, è significativa, a mio parere, nel percorso di formazione degli operatori sanitari, l’introduzione di insegnamenti antropologici e sociologici, ormai parte integrante dei programmi curriculari degli studenti delle facoltà di Medicina e dei corsi di laurea in Scienze infermieristiche, che rappresentano un tentativo di avvicinare e coniugare saperi medici con saperi umanistici, fondamentali per arricchire e migliorare la relazione medico-paziente. Un fattore determinante per la scelta degli infermieri come interlocutori è la vicinanza al paziente, che consente loro di ridurre le distanze e di relazionarsi a lui in modo sicuramente più profondo rispetto ad un medico. Non solo: l’infermiere intesse una relazione si può dire “epidermica” con il malato, meno filtrata e più immediata, e funge da ponte tra desease e illness. L’infermiere realizza la sua formazione professionale grazie a questa esperienza diretta che fa della malattia e della percezione che di essa ne ha il paziente. Da qui è derivata la scelta di svolgere interviste proprio agli infermieri impegnati nei Pronto Soccorso di alcuni ospedali torinesi9. L’esperienza diretta degli infermieri è funzionale anche ad un altro aspetto, forse ancora più importante ai fini di questo lavoro: per sondare radici e conseguenze del pregiudizio in ambito medico-sanitario, i livelli di analisi sono stati molteplici, e uno di questi era proprio quello del 9 Il modo di condurre le interviste sarà illustrato dettagliatamente nel capitolo specifico dedicato alle metodologie di ricerca. 30 contatto con l’“altro” in ospedale, e in particolare in un luogo specifico dell’ospedale quale è il Pronto Soccorso, dove si ha relativamente poco tempo per riflettere sul da farsi e occorre agire tempestivamente davanti ad emergenze. E’ grazie alla riduzione dei processi di razionalizzazione infatti che i pregiudizi diventano operativi e si rendono, in un certo senso, manifesti. Ma di quale “altro” si sta parlando? L’“altro” più prossimo potrebbe essere già di per sé il malato. Secondo la già discussa logica delle dicotomie, il sano si oppone al malato, nonostante il discrimine fra i due stati sia sempre molto labile e discutibile. Per quanto il dolore sia “senza dubbio l’esperienza umana meglio distribuita, assieme alla morte” (Le Breton 2007: 21), esso è in grado di sancire una netta separazione tra chi esperisce dolore e il resto del mondo. Il dolore spezza ogni tipo di routine, si frappone tra se stessi e i propri progetti, rende l’equilibrio personale precario. Essere malati, spiegano l’antropologa Daniela Cozzi e il sociologo Daniele Nigris (1996: 91-92) equivale anche a ricoprire un vero e proprio ruolo sociale, interpretato secondo criteri prestabiliti culturalmente, e che necessita del riconoscimento da parte di chi sta intorno, come ogni altro ruolo sociale. Riconoscere il malato come tale significa legittimare il suo status, temporaneo o cronico che sia, e poterlo sollevare dagli obblighi quotidiani per dedicarsi a cercare soluzioni di cura. Ma c’è un’alterità più difficile da afferrare, più subdola, incarnata dall’esperienza del dolore stesso: come scrive Le Breton, Il dolore è un momento dell’esistenza in cui nell’individuo viene a fissarsi l’impressione che il suo corpo sia altro da lui. […] L’erosione più o meno sensibile del senso di identità sotto le bordate del dolore […] richiama 31 l’immagine, spesso evocata dai malati, di un’entità estranea che smantella l’uomo dall’interno. Come se il dolore fosse una forma di possessione, una potenza colossale che rode l’individuo e gli comanda la sua condotta, frantumando in un attimo aspetti specifici della sua antica rispettabilità. […] Come se fare entrare il male dentro di sé fosse il segno di un’abdicazione davanti all’alterità (2007: 22-23, corsivo mio). Il malato come “altro” e il dolore come “altro-da-sé”: questi sono due livelli, distinti ma fra loro connessi, su cui collocare un certo tipo di “alterità”. Nel presente lavoro ci si interroga sull’alterità sita su un livello ancora differente. Con un bisticcio linguistico che si spera non eccessivo, ci si domanda: che cosa succede quando chi è ammalato (dunque già “altro”) è più “altro” di altri? Qui si inserisce la tematica dell’immigrazione, che in questo lavoro diventa lo sfondo imprescindibile per tracciare una mappa delle percezioni che abbiamo dell’“altro” quando affronta l’esperienza della malattia. Questa, la più comune delle esperienze umane, come la descrive Le Breton, va incontro ad ostacoli enormi nelle soluzioni di cura poiché, prima di tutto e sopra tutto, si staglia di fronte ad essa, rigido come una muraglia, un complesso di pregiudizi che determina chi è “più altro di altri” rispetto alla possibilità di affrontare il proprio malessere. Non solo: il malato, se considerato più “diverso”, viene trattato secondo questa logica dominata dallo stereotipo, da idee fantasiose, che purtroppo diventano vere e proprie logiche di pensiero e di pratiche: il luogo comune secondo il quale chi ha una pelle diversa dalla nostra si ammala necessariamente in modo “diverso” dal nostro, dilaga, e si accompagna alla paura della contaminazione e a tutte quelle simbologie fatte di polarizzazioni tra il puro e l’impuro, dove, naturalmente, il secondo va tenuto lontano, quando non addirittura eliminato. 32 Infatti è indubbio che la sofferenza sia vissuta e manifestata in modo differente (se il ruolo di malato è un ruolo sociale come gli altri, sarà accompagnato da una serie di comportamenti stabiliti culturalmente per sancire, dichiarare il proprio status), ma il pregiudizio nei confronti del diverso entra in azione nel momento in cui, accanto alla condizione di malato, viene affiancata un’altra qualità, non più temporanea, suscettibile di essere abbandonata o modificata, ma considerata permanente, essenziale e soprattutto prevaricante rispetto alle altre: si tratta del colore della pelle, dell’aspetto esteriore che non può mascherare caratteri somatici di matrice diversa da quella europea, attributi che diventano preminenti nel determinare la relazione e il contatto tra “noi” e “loro”, poiché scatenano echi, reminiscenze, bagagli di rappresentazioni che influenzano necessariamente il comportamento con l’“altro”. Come verrà dimostrato più in dettaglio nei capitoli che seguono, può accadere che le caratteristiche fisiche condizionino a tal punto le prassi da predeterminare l’assegnazione “preventiva” e pregiudiziale di alcune patologie ad alcuni individui per il solo fatto di essere stranieri, o di presentarsi fisicamente come tali. Verranno infatti citate le dichiarazioni di alcuni utenti (migranti) che testimoniano che chi si inserisce nel sistema sanitario per problemi di salute di maggiore o minore rilevanza, va incontro ad una serie di problematiche indotte dal pensare per pregiudizi, o viene preliminarmente estromesso dal sistema solo per la sua provenienza, il suo status giuridico, o ancora viene trattato in maniera differente (spesso poco gradevole) da operatori e altri utenti per il solo fatto di presentarsi come “diverso”. 33 Evidenziare questi aspetti serve ad introdurre il paragrafo che segue, dove si intende trattare in modo più specifico il tema dell’alterità, provando a fornire alcuni elementi con i quali questa (e i luoghi comuni ad essa connessi) si sono nel tempo costruiti e continuano ad alimentarsi. 1.3 IMMAGINARI, PREGIUDIZI E STEREOTIPI: PERCORSI E CONNESSIONI A partire dall’interesse per lo sguardo antropologico alla sfera della salute e della malattia, la curiosità rispetto al potere dei pregiudizi di condizionare comportamenti, scelte politiche e infine di incidere sui percorsi di vita individuali è nata leggendo un articolo a proposito di un fenomeno battezzato da Salvatore Geraci10 con l’espressione “sindrome di Salgari”. Tale sindrome, che si andava definendo negli anni Novanta in Italia, a seguito del consistente flusso migratorio dal Nord Africa, dall’Est Europa e dai Balcani, si manifestava attraverso una sorta di diagnostica ossessiva circa le malattie infettive che si supponeva gli immigrati portassero nel nostro paese11. L’ “effetto migrante sano” – ovvero la constatazione che a partire da un certo luogo, per trovare altrove migliori condizioni di vita, siano gli individui in buona salute, in grado di adattarsi più facilmente ai nuovi contesti, e che dunque già nel paese d’origine avvenga di prassi una certa selezione – si contrappose alla sindrome di Salgari: a fronte 10 Presidente della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni. Gli immigrati continuano ad essere considerati “untori”: si tratta di un’immagine molto comune che ben si presta come contributo alle argomentazioni dirette contro stranieri e migranti, usati come “capro espiatorio” nelle società di “accoglienza”. 11 34 di verifiche scientifiche (test e statistiche) decisamente più affidabili delle supposizioni foraggiate da équipe mediche e politiche e agenzie di informazione dominate più da fantasmi che non da prove empiriche, le sorprese rispetto alla bassa percentuale di riscontri di patologie “strane”, rare e infettive, furono molte. Da ingenua lettrice dell’articolo12, il quesito, che poi si è trasformato in domanda cognitiva per l’avvio di una ricerca più approfondita, era sorto in merito al potere di incidenza di miti e di superstizioni sull’“altro”, non solo sulla gente comune, ma anche su “uomini di scienza”, per così dire, e supportate in maniera massiccia dai politici dei vari schieramenti. Non sono di certo i flussi migratori attuali, pur potenziati e diversificati nel corso degli ultimi decenni, ad aver creato degli immaginari, generalmente negativi, del migrante. Le varie forme di razzismo sono estremamente resistenti poiché estremamente duttili, elastiche ed adattabili ai diversi contesti storici; ciò che cambia possono essere i bersagli delle discriminazioni, ma le modalità con cui attaccarli sono molto simili a quelle utilizzate in epoche che si credono ormai lontane e superate. Come scrive Dal Lago, […] il razzismo gode di una straordinaria libertà di parola e d’immagine, sconcertando una cultura che non si vorrebbe razzista, e che non è capace di vedere il razzismo nelle nuove forme (1999: 102). Quello che emerge dai discorsi dell’opinione pubblica così come dai politici, sembra essere piuttosto la riproduzione, adattata alla situazione attuale, di precisi 12 Geraci Salvatore, La sindrome di Salgari 20 anni dopo, in Janus. Medicina: cultura, culture, N. 21, primavera 2006, “Sanità meticcia”, Zadigroma Editore, pp. 21-29. 35 schemi, categorizzazioni e rappresentazioni dell’“altro” che affondano le radici in dottrine di classificazione e gerarchizzazione della razza elaborate un paio di secoli fa. […] L’inizio della storia del razzismo europeo si deve collocare nel secolo XVIII, qualunque precedente possa essere scoperto in epoche più lontane. Fu in questo secolo che la struttura del pensiero razzista si consolidò e assunse le precise connotazioni poi mantenute fino ad oggi (Mosse 2005: X). Mosse suggerisce di scegliere questo come punto di inizio della diffusione delle ideologie razziste. E’ a partire infatti dal periodo storico che abbraccia l’Ottocento che ciò che prima era un complesso di idee non ancora sistematizzate diventa strutturato e “ordinato”, grazie ad alcune coincidenze di eventi e trasformazioni sociali ed economiche, coadiuvate dagli orientamenti teorici assunti da vari settori disciplinari, che hanno funzionato da energia convogliante e supporto teorico fondamentale. La relativa anzianità di quelle dottrine non sembra essere un ostacolo alla loro efficacia: al contrario, sembra che abbiano compiuto un enorme e lungo lavorio sulla società, fino a diventare parte del suo sentire comune. È forse proprio per questa loro profondità di radicamento che si fatica a liberarsene, o anche solo a riconoscerle. 1.3.1 La costruzione dell’immaginario L’ “altro” messo in scena e ingabbiato insieme ad animali provenienti da mondi diversi da quello occidentale – europeo – è una fine strategia di marketing, come diremmo oggi, che risale alle ultime decadi dell’Ottocento. A Parigi, 36 sede di alcune delle note esposizioni universali di fine secolo, il direttore del Giardino zoologico, Geoffroy de Saint-Hilaire, fu molto impressionato dal successo che aveva avuto, in Germania, l’esposizione di “popolazioni puramente naturali”13 come samoani, nubiani e altri esseri umani deportati dal loro paese d’origine - colonia europea - per attrarre pubblico, ponendolo di fronte al fascino di “creature” esotiche. Per risollevare la situazione economica del Giardino zoologico, non si perse l’occasione, nel 1877, di presentare “spettacoli etnologici” ai parigini. E il successo fu strepitoso: di fronte a singolari animali e non meno singolari individui, il pubblico si emozionò e le visite raddoppiarono. Così fino ai primi del Novecento. Il modo in cui l’europeo veniva in contatto e a conoscenza dell’“altro” era anche questo: ingabbiato ed esposto come attrazione per gli sguardi più curiosi, equiparato agli animali esotici che affiancava, il “selvaggio” iniziava a rendersi visibile da chiunque, durante una domenica pomeriggio qualsiasi, nel centro della propria città brulicante di progresso e innovazione, in perfetto stile belle époque. Difficile stabilire il rapporto tra visibilità e invisibilità dell’“altro”: da una parte la sua visibilizzazione è ostentata, esposta, resa nuda, dall’altra è in atto un violento processo di occultamento, poiché l’ “altro” viene invisibilizzato nelle sue caratteristiche umane, e si rappresenta in sembianze animalesche. Il dominio coloniale, per essere legittimato, aveva bisogno di rappresentare l’“altro” in termini negativi: in questo modo, il corpo disumanizzato poteva essere oggetto di dominio e assoggettamento. 13 Bancel, Blanchard, Lemaire, Gli zoo umani della Repubblica coloniale, in Le Monde Diplomatique, settembre 2000. 37 Per citare un nome tra i tanti che si annoverano nell’articolarsi delle dottrine sulla razza, Robert Knox, uno dei più insigni docenti di anatomia di Edimburgo nelle prime decadi dell’Ottocento, era strenuo sostenitore della bestialità dei non-bianchi, i quali difettavano, a suo dire, di ogni caratteristica degna di essere definita umana e hanno molto più in comune con gli animali che non con gli esseri umani14. Naturalmente, ogni affermazione era supportata da ricerche e misurazioni di enorme rigore scientifico, o tale almeno era la pretesa. Per inciso, proprio Knox, che definiva “bestie” i nonbianchi, si racconta che fu costretto ad abbandonare la cattedra per via del coinvolgimento in uno scandalo, che assunse proporzioni internazionali, relativo all’acquisto di cadaveri per i suoi studenti da due malfattori irlandesi responsabili delle uccisioni per vendere i corpi delle vittime. In un certo senso ritorna, in queste operazioni di inferiorizzazione, l’eco dei dibattiti cinquecenteschi sull’anima delle popolazioni indigene delle Americhe15. Non era la prima volta che in Europa si discuteva sull’appartenenza alla specie umana o meno delle popolazioni incontrate per la prima volta durante i grandi viaggi degli esploratori di fine Quattrocento. Le posizioni che allora si scontravano erano sull’umanità o animalità degli indigeni. Il contrasto, risolto solo con una bolla papale di Paolo III16 14 R. Knox, The Races of Men, London, 1862, in G. L. Mosse, 1978: 7677. 15 Il dibattito a cui si allude, che ha animato le università e i teologi europei a lungo, è quello tra la posizione di Bartolomeo de Las Casas, strenuo sostenitore dell’umanità delle popolazioni indigene, e Juan de Sepùlveda, convinto invece della loro animalità (Mario Rosa, Marcello Verga, La Storia moderna. 1450-1870, Bruno Mondadori, Milano 2003). 16 “Indios veros homines esse” è il verdetto pronunciato dal Papa in Veritas Ipsa (2 giugno 1537). La bolla papale aveva avuto il merito indiscusso di aver vietato, almeno nelle disposizioni e nei propositi, la possibilità di ridurre in schiavitù gli indios, ma considerandoli “uomini veri” e ammettendo che possedessero un’anima, si rendeva possibile e necessaria la loro conversione alla fede cristiana cattolica (Reginaldo 38 (Rosa, Verga 2003: 40), che stabilì una volta per tutte che le popolazioni indigene possedevano un’anima, era in realtà un contrasto soltanto apparente, perché conferire umanità a quegli individui significava certamente sottrarli al mondo animale, ma al tempo stesso li rendeva passibili di conversione, e quindi comunque “inaccettabili” così come si presentavano. Che cosa è cambiato da allora? Moltissimo è cambiato naturalmente, eppure il seme di un certo tipo di approccio all’ “altro”, che sarebbe sopravvissuto fino ad oggi, era ormai stato gettato. “Il frame generale del nemico si istituzionalizza nell’opinione pubblica ribadendo, ogni volta, la differenza assoluta tra noi e loro”, scrive Dal Lago durante l’analisi dei neorazzismi odierni (1999: 101). Storicamente infatti, il discorso sull’Altro – straniero, colonizzato, immigrato – è sempre stato pregno di una retorica basata sull’irriducibilità della differenza, retorica così ridondante che, normalizzandosi, arriva a costituire quel patrimonio di immagini attorno al quale il pregiudizio sull’“altro”, anche quello più inconsapevole e involontario, si modella. Ciò che dunque già diversi secoli prima aveva portato gli europei a interrogarsi sul modo di relazionarsi con l’“altro”, nell’Ottocento prendeva la forma di trattati filosofici e scientifici, organizzando idee, disegnando gerarchie, stabilendo con la presupposta autorevolezza e inequivocabilità del linguaggio scientifico ciò che era persino bello o brutto, umano o inumano, accettabile o inaccettabile. Passando attraverso le dottrine biologiche della razza elaborate in modo sistematico in quel periodo, la visione dell’“altro” si riempiva di teorie, ricerche filologiche, Iannarone, La scoperta dell’America e la prima difesa degli Indios. I Domenicani, PDUL Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, p. 181). 39 linguistiche e archeologiche, osservazioni etnografiche compiute nelle colonie e nei protettorati europei, creando un sapere che si sedimentava e attecchiva nel sentire comune. I resoconti di viaggiatori di varia natura (missionari, militari, etnografi, funzionari dei governi coloniali) e le teorie e classificazioni del genere umano che si erano diffuse nel tempo grazie ai lavori dei vari settori disciplinari, andavano creando una continuamente determinata messa a immagine confronto con dell’“altro”, quello che rappresentava – o voleva rappresentare – l’Europa nel e col proprio mito. Citando nuovamente Dal Lago, Ciò che mi sembra decisivo […] non è il ciarpame di qualche nostalgico, ma la ricollocazione di ogni possibile simbolo xenofobo nell’opposizione “noi/loro” (1999: 104). Rivolgere lo sguardo a queste porzioni di passato, non significa infatti osservare un oggetto da museo rinchiuso in una teca, ma significa capire quali riflessi, quali strascichi, quali risonanze di storia – politica, sociale e del pensiero – ci si porta dietro, e come questi si adattano a nuove esigenze. Il paragone tra “noi” e “loro”, mai scomparso, fa sempre emergere un migliore e un peggiore, un superiore e un inferiore, secondo una specifica scala di valori creata stabilendo un prima e un dopo, un avanti e un indietro, un “già” e un “non ancora”, opposizioni inconciliabili che guidano molto spesso le nostre interazioni sociali o il nostro modo di vedere il mondo, gli eventi e i soggetti che lo attraversano. Si tratta di un modo di pensare ancora diffusissimo – discendente diretto delle dottrine sviluppatesi nel XIX secolo – che è quello che dice “pre-politica” una società con 40 un’organizzazione sociale diversa dallo stato-nazione, “prelogica” una società con modi di pensare e concepire la spiritualità e la quotidianità diversamente dalle religioni più istituzionalizzate e dal metodo scientifico, “pre-industriali” coloro che non si avvalgono di un’economia di stampo capitalistico. E fa dire anche “società semplici” piuttosto che “società complesse”, come se tutti si partecipasse della stessa storia – lineare, continua, senza balzi, frammentazioni o rotture, e sempre rivolta verso un presunto futuro orientato in un unico e irreversibile senso di marcia –, come se “noi” costituissimo il punto di riferimento indiscusso a cui guardare per valutare rispetto ad esso la propria posizione: chi non è come noi, probabilmente “aspetta” di diventare come noi, è indietro e per qualche ragione non ci ha ancora raggiunto. Ed è come se tutto ciò che si pensa non ci appartenga, in quanto occidentali, si possa e si debba definire “per difetto”, in via negativa, togliendo sempre qualcosa. La letteratura postcoloniale ha contribuito a mettere in luce le dinamiche politiche sottese alla colonizzazione europea e supportate da più ampi discorsi filosofici. A questo riguardo, mi sembrano particolarmente significative le parole dello storico postcoloniale indiano Dipesh Chakrabarthy, che ben sintetizzano questo tipo di orientamento: Nell’Ottocento lo storicismo ha consentito all’Europa di dominare il mondo. Detto sommariamente, esso rappresenta un’importante forma assunta dall’ideologia del progresso o dello “sviluppo” dall’Ottocento in poi. Lo storicismo ha consentito di pensare la modernità e il capitalismo non solo come fenomeni globali, ma anche come fenomeni che sono andati globalizzandosi nel tempo, fenomeni che hanno avuto origine in un luogo (l’Europa) per poi diffondersi altrove. La struttura del tempo storico globale del tipo “prima in Europa e poi nel resto del mondo” era storicista […] Lo storicismo intendeva il tempo storico come la misura della presunta distanza culturale che separava (almeno dal punto di vista dello 41 sviluppo istituzionale) Occidente e non-Occidente. Nelle colonie, esso legittimava l’idea di civilizzazione (Chakrabarty 2004: 21). E’ importante insistere sul momento storico della massima espansione del colonialismo europeo, poiché rappresenta la fase in cui si gettano le basi di quello che oggi è diventato un pregiudizio comune, così comune e così radicato da non poterlo neanche distinguere e astrarre facilmente dal linguaggio politico, legislativo, dell’informazione o del parlato quotidiano. Emerge infatti nei discorsi tra amici in un bar, tra sconosciuti sui mezzi pubblici, tra studenti, tra docenti e formatori, tra operatori agli sportelli; costituisce una sorta di substrato semiotico su soventemente ci si appoggia ingenuamente e automaticamente, senza neanche averne coscienza. E le scienze sociali, fra cui la stessa antropologia, sono indenni da questo genere di automatismi? La risposta è no, nella misura in cui esse stesse discendono e si connaturano, al momento del loro esordio accademico, a questo tipo di pregiudizio. Le teorie evoluzioniste, le dottrine sulla razza e il mito del progresso che hanno preso forma nel corso dell’Ottocento, sono state determinanti anche per le scienze sociali e ne hanno indubbiamente influenzato i caratteri alla nascita. Ugo Fabietti ha tracciato la cornice teorica entro la quale si inscrive la nascita dell’antropologia17, ponendo in evidenza il quadro economico, politico e sociale che ha permesso all’evoluzionismo di penetrare attraverso i discorsi scientifici e di avere successo per molto tempo anche in quel campo di saperi che avrebbe scoperto l’importanza del relativismo culturale molto tempo dopo, e che molto tempo 17 Fabietti Ugo (a cura di), Alle origini dell’Antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 1980. 42 dopo sarebbe stato in grado di mettersi in discussione ed autoesaminarsi criticamente. Lo sviluppo tecnologico, scientifico, economico e politico britannico in epoca vittoriana, ha generato un’idea di progresso che si è trasformata in vera e propria ideologia a carattere universalizzante. Le caratteristiche fondamentali del progresso erano la sua cumulatività e la sua continuità (Fabietti 1980: 14), come se il sapere si depositasse in modo ordinato e lungo un percorso rettilineo (e le innovazioni tecnologiche supportavano in termini materiali questa posizione), in base al quale fosse dunque possibile stabilire l’arretratezza o meno rispetto a tale incedere senza sosta dello sviluppo. Naturalmente non fu solo la sfera della cultura materiale e dello sviluppo della tecnica a fornire degli strumenti per appoggiare le teorie evoluzioniste, anche se è indubbio che esse rappresentassero la prova tangibile di quel determinato principio filosofico del progresso. In molti altri settori disciplinari, numerosi studiosi si cimentarono, nell’archeologia come nella linguistica o nella biologia, a classificare, ordinare e comparare, giungendo ovunque al medesimo risultato. È questo consenso generale che permette a Fabietti di asserire che l’antropologia è il frutto del clima intellettuale dell’Inghilterra di metà Ottocento, e che i precursori legittimi della disciplina vanno rintracciati proprio in questo momento storico e non altrove: L’antropologia […] è nata come effetto di un lento processo di aggregazione di discorsi e di quadri epistemici differenti tra loro, provenienti da contesti di sapere molto lontani gli uni agli altri, ed è solo al momento in cui vediamo un certo numero di individui riconoscersi in un linguaggio e in una pratica di ricerca che noi possiamo cominciare a parlare di “origini dell’antropologia” (Fabietti 1980: 11). 43 Grazie alla convergenza di più ricerche, indagini ed elaborati accademici, era diventato possibile parlare del “noi” (l’uomo vittoriano borghese dell’Ottocento) come del punto di arrivo della civiltà, un “noi” come misura di tutte le cose, e degli “altri” come coloro che si trovavano a dover colmare delle lacune nel procedere rettilineo ed uniforme dell’evoluzione e della storia, secondo un sistema di riferimento assoluto in base al quale gli “altri” si posizionavano, con alcune differenze di grado, poco o molto indietro rispetto a “noi”. Tutto ciò era reso possibile grazie al confronto dei reperti archeologici, dei resoconti etnografici a disposizione, che fornivano fra l’altro dei “dati di fatto” che testimoniavano inequivocabilmente la condizione differente in cui vivevano le società umane extra-europee. Al centro delle riflessioni evoluzioniste (in campo biologico, archeologico, antropologico e così via), si collocava anche il grande dibattito circa “le origini” della civiltà. In quel percorso lineare della storia, secondo l’evoluzionismo, qualcuno era rimasto più indietro rispetto a qualcun altro – c’erano i reperti e i rapporti etnografici a darne prova. Le società “altre” erano perciò considerate “sopravvivenze” di un passato arcaico ormai superato dai più civilizzati. Al culmine dello sviluppo della civiltà, naturalmente, si poneva l’uomo occidentale europeo. Da qui anche la sorta di vocazione “missionaria” – questa volta più laica rispetto a quella evangelizzatrice dei secoli precedenti – per poter liberare dall’inciviltà, dall’arretratezza, dall’inferiorità tutti coloro che erano rimasti per qualche ragione estranei al processo di sviluppo eurocentricamente inteso. E’ importante, a questo proposito, citare un passaggio ulteriore messo in evidenza da Fabietti. Dall’ottimismo positivistico di matrice illuminista, si passava, in Inghilterra e 44 poi in Europa nel XIX secolo, ad una serie di sconvolgimenti politici ed economici dettati dai traumi conseguenti alla rivoluzione industriale, alle disfatte napoleoniche, che tutto sembravano voler rappresentare tranne che progresso razionale. L’“altro”, a questo punto, subiva inevitabilmente gli effetti delle frustrazioni generate dalle aspettative insoddisfatte di ordine politico, sociale, morale richieste dagli euro-occidentali del tempo. Chi non partecipava a quell’esigenza e ansia di ordine, sviluppo e progresso, incarnava perciò una degradazione, una degenerazione. Spiega Fabietti: Allo stesso modo in cui il “selvaggio”, l’altro, aveva trovato un posto nella storia del genere umano proprio grazie alla’ideologia progressista e ottimista degli illuministi, col declino di questa e con l’esclusione della ragione dall’orizzonte del progetto politico e sociale, il selvaggio si ritrovò estromesso dalla storia (1980: 36). Tutta una parte di umanità non aveva proseguito nello sviluppo, ed era come decaduta. Senza entrare nel dettaglio dei complessi dibattiti ideologici e filosofici del tempo, dall’evoluzionismo al degenerazionismo, nonostante le direttrici cambiassero, tutto l’argomentare sull’ “altro” muoveva da uno stesso assunto fondamentale, e cioè l’irriducibilità di una differenza, più o meno inaccettabile, che si sentiva il bisogno di “mettere a posto”, di collocare, di aggiustare e migliorare. Al di là della credibilità e della “scientificità” rincorsa con affanno per dimostrare l’arretratezza e l’inferiorità di individui o categorie, il fatto più importante è che, comunque, “il mito accettato come realtà, diventa la realtà” (Mosse 2005: VIII). Il mito del progresso, il mito della superiorità della razza erano di fatto stati accettati come veri, 45 rappresentati da oggetti e fatti concreti e dall’evidente differenza riscontrata presso i diversi soggetti e modi di vita estranei al mondo euro-occidentale. Scrive Mosse: I miti narrano gli svariati modi in cui il sacro penetra nel mondo, sono soprannaturali storie sacre che intervengono per offrire modelli […] a tutta l’attività umana. Questi modelli tuttavia non rimangono astratti, ma sono concretizzati in simboli. […] Il mito e il simbolo creano un mondo senziente e vivente, non astratto (Mosse 2005: 10). L’ostilità nei confronti dell’“altro” si faceva strada nel momento in cui le tendenze filosofiche e i miti stessi cambiavano forma, pur mantenendo la stessa sostanza (quella del differenzialismo e delle opposizioni irriducibili noi/loro): dal nobile selvaggio dei primitivisti si passava, come si è detto, a considerare l’“altro” come simbolo di atavismo e di regresso. In apertura a questo paragrafo sono stati citati gli zoo umani, che qui funzionano da cerniera per chiudere questa digressione. La rigogliosa letteratura scientifica dell’Ottocento, dalle scienze naturali alle scienze umane, ha prodotto, con le sue classificazioni gerarchizzanti, tutta l’ostilità, il disprezzo e gli atteggiamenti pregiudizievoli verso l’“altro”, da cui ancora non possiamo ritenerci liberi. Questo è stato possibile anche grazie al contatto diretto non solo dei viaggiatori e dei ricercatori, ma anche della gente comune, con l’“altro” stesso. L’oggettivazione della differenza è fondamentale per sostenere il mito della differenza stessa. La gente, ieri come oggi, ha bisogno di poter vedere e toccare l’oggetto delle sue fantasie, ha bisogno di testare e confermare la bestialità e ritiene tanto diverso. 46 l’inferiorità di chi In questo modo, la costruzione dell’immaginario collettivo sull’“altro” aveva preso avvio, e ancora oggi il mito sulla superiorità del “noi” e l’inferiorità del “loro” non ha perso il suo vigore e la sua capacità di penetrazione nel quotidiano. 1.3.2 Stereotipi e pregiudizi Il fine di tale riflessione sui concetti di stereotipo e pregiudizio si allaccia al percorso intrapreso in precedenza, che evidenzia come, a livello storico, si sia prodotto l’attuale modo di interpretare, convivere e relazionarsi con l’“altro”, un “altro” che oggi globalizzazione e transnazionalizzazione rendono molto più vicino a noi. L’immigrazione si presenta in questo senso come un fenomeno in grado di rimettere in discussione i modelli di relazione e compartecipazione allo spazio pubblico e politico all’interno del corpo sociale. Si aprirà una finestra su alcune interpretazioni teoriche di vari scienziati sociali che si sono occupati dei concetti di stereotipo e pregiudizio e del loro funzionamento. La letteratura di riferimento appartiene in primo luogo agli studi anglo-americani condotti a partire dagli anni Cinquanta. Essa presenta pertanto evidenti limiti per la sua collocazione temporale, che la rende inevitabilmente datata, e per le circostanze storiche e politiche entro le quali prende forma – il clima postbellico e della guerra fredda. Tuttavia i contributi di questi autori conservano un’indubbia utilità sia per il fatto di essere stati fra i primi a riconoscere negli stereotipi e nei pregiudizi dei generatori di esclusione e violenza sociale, sia per aver spostato lo studio di tali fenomeni dal piano dell’individuale al piano del 47 collettivo. Grazie anche a questi autori, si è potuto riconoscere che stereotipi e pregiudizi possono essere analizzati come fatti sociali, il che ha significato sottrarli a quella logica che li considerava dei processi esclusivamente legati alle psicologie individuali. Ammettere che un determinato fatto è sociale e non personale, significa ricondurlo alla sfera del collettivo, e questo non è certo un passaggio teorico trascurabile. Così ad esempio scriveva Herbert Blumer negli ultimi anni Cinquanta, criticando i lavori precedenti che riconducevano a caratteristiche innate dell’individuo i comportamenti razzisti: Una comprensione fondamentale del pregiudizio razziale deve essere cercata nel processo attraverso cui il gruppo razziale forma l’immagine di sé e degli altri. Questo processo […] è essenzialmente un processo collettivo. Esso opera principalmente attraverso i mezzi di informazione, grazie ai quali i commentatori che fanno parte di un certo gruppo razziale dipingono pubblicamente un altro gruppo (Blumer 1958, in Alietti, Padovan 2005: 118). Chiamare in causa i mezzi di informazione diventa fondamentale perché, ieri come oggi, la stampa e i media concorrono a plasmare l’opinione pubblica e le sue percezioni di sé e dell’“altro”. Se si analizzasse il linguaggio con cui l’“altro” è presentato dai vari mezzi di comunicazione – e alcuni esempi di questi processi di plasmazione attraverso parole e linguaggi della comunicazione di massa saranno citati nei capitoli successivi – si noterebbe la densa farcitura di pregiudizio che riempie i corpi e l’idea stessa dell’“altro”, pur essendo questo pregiudizio difficile da stanare poiché parte di un patrimonio condiviso e accettato dai più. Blumer e gli altri autori che saranno citati in questo paragrafo provengono da scuole e discipline legate alla sociologia, alla psicologia, alla psicologia sociale. La scelta 48 di tali riferimenti disciplinari è dovuta non alla volontà di riorientare la riflessione in senso psico-sociologico, ma al fatto che il tema del pregiudizio e dello stereotipo hanno conosciuto il primo maggiore sviluppo presso altre discipline piuttosto che nell’ambito dell’antropologia. La spiegazione a questo “ritardo” nella comparsa dell’interesse di approfondire queste tematiche risiede probabilmente nel fatto che l’antropologia si è inserita nei discorsi sui conflitti sulla base di pregiudizi – razziali, etnici – quando il terreno era più fertile per essa e per i suoi strumenti di osservazione e analisi, e cioè quando hanno cominciato ad emergere, in seguito soprattutto alle destabilizzazioni della colonizzazione e al riesame critico dell’etnologia classica al suo stesso interno, le dinamiche identitarie di stampo etnico, dando luogo ad un cambiamento di oggetti di ricerca e persino di paradigmi. Da allora è stato importante includere e riconsiderare secondo nuove prospettive la costruzione delle identità etniche, il conflitto, i rapporti fra gruppi subalterni e dominanti, e le loro conseguenze sull’assetto sociale. Prima di questa svolta, chi si era occupato di pregiudizio aveva una formazione psicologica e per lo più mirava a sostenere o a verificare la presenza o meno di atteggiamenti pregiudiziali in individui con determinate caratteristiche personali, innate e del tutto specifiche di quei casi isolati. A partire dagli anni Cinquanta è diventata invece più comune presso diversi settori disciplinari l’esigenza di trasferire al livello del collettivo e del sociale ciò che fino ad allora era stato ascritto ad attributi individuali. E come spesso accade, il convergere e coincidere di vari avvenimenti storici, politici e socio-culturali determina nuovi bisogni, nuove domande e nuove lenti attraverso cui guardare i fenomeni sociali. 49 Fatte queste premesse, si possono menzionare i vari contributi teorici mettendone in luce gli aspetti positivi, ma distanziandosi di volta in volta da quegli assunti, secondo i quali alcuni procedimenti del pensiero e del comportamento umano, essendo risposte automatiche agli stimoli che il cervello riceve dall’esterno, sarebbero inevitabili. Questa caratteristica di alcuni processi cerebrali potrebbe infatti indurre a pensare – e non è questa la nostra intenzione – che la denuncia contro un qualsiasi pregiudizio rimarrebbe sempre e comunque molto debole se non addirittura inutile. “Qualcuno ha detto che è più facile smantellare un atomo che un pregiudizio”, scriveva Gordon Allport (1973) nella prefazione a La natura del pregiudizio, uno dei suoi lavori più rappresentativi su questo tema che per molto tempo ha rappresentato il riferimento principale per l’analisi delle dinamiche psico-sociali del razzismo. Ciò che in più occasioni non manca di sottolineare Allport è infatti la grande funzionalità del pregiudizio e del pensare per stereotipi: esistono sempre delle buone ragioni per non separarsi da queste modellizzazioni, il cui uso ci evita sforzi di ragionamento, trova consenso presso le nostre conoscenze e amicizie, allontana il rischio di destrutturare i nostri schemi mentali (1973: 33-34) – ovvero le nostre certezze. Più recentemente, a sostegno di questa indiscutibile utilità di produrre classificazioni e modellizzazioni, Pierre André Taguieff nel suo importante saggio La forza del pregiudizio, in cui sottoponeva a esame sia l’ideologia legata al razzismo che quella legata all’antirazzismo, invitava a rinunciare a condannare in toto stereotipi e pregiudizi come procedimenti erronei e irrazionali, malformazioni del pensiero: 50 come sorta di Se ci proponiamo infatti di stanare e reprimere certe forme complesse di pregiudizi detti “razziali”, ugualmente consideriamo l’idea programmatica di un mondo senza pregiudizi come una fantasia capace di sollecitare utopie nefaste (1994: 17). Non solo è inimmaginabile, ma è anche pericoloso pensare di eliminare quei processi mentali di categorizzazione che, in ultima analisi, sono un dispositivo a cui ricorriamo per muoverci nel mondo, per rendere più sottile il margine di rischio di perderci nella complessità inafferrabile del reale. Chi per primo aveva introdotto il concetto di stereotipo nell’area di studi delle scienze sociali e lo aveva strenuamente condannato per essere una vera e propria distorsione del pensiero, era stato, Walter Lippmann. Nel 1922, a seguito della celebre pubblicazione di Public Opinion18, il termine si diffonde ed inizia ad essere trattato come oggetto di indagine da scienziati e psicologi sociali. Lippmann, giornalista di professione, sviluppava il suo ragionamento sugli stereotipi a partire dall’etimo della parola, naturalmente molto nota nel suo ambiente di lavoro: come lo stampo tipografico, lo stereotipo è quel modello originario da cui derivano tutte le altre copie identiche. In questo modo, una caratteristica di un singolo viene estesa a tutti gli altri membri che appartengono al suo gruppo, come se fossero tutti uguali gli uni agli altri. In quanto semplificatorio e generalizzante, incapace di cogliere la complessità, lo stereotipo subisce la pesante condanna di Lippmann: lo stereotipo, in questo senso, è associato esclusivamente allo stigma, e nel suo sguardo miope alla realtà, non è altro che un’etichetta superficiale apposta a gruppi che in qualche 18 Trad. it. L’opinione pubblica, 1995, Roma, Donzelli Editore. 51 modo e misura si tende a giudicare in modo sbrigativo per giustificarne poi la marginalizzazione. La connotazione esclusivamente negativa dello stereotipo viene smussata da ricerche successive, come si è visto, di stampo più sociologico e psico-sociale, che mirano ad evidenziare l’importanza del contesto sociale, delle dinamiche tra gruppi e della costruzione dell’identità sociale, che spesso non possono fare a meno delle stereotipizzazioni. La percezione faziosa e distorta dell’individuo, viziata dagli stereotipi, va inserita in un più ampio contesto, ed analizzata in base ad esso. Come scrive Tajfel, The functioning and use of stereotypes result from an intimate interaction between (the) contextual structuring and their role in the adaptation of individuals to their social environment (1981: 146). La stereotipizzazione è dunque da interpretarsi come un anello di congiunzione tra l’individuale e il sociale, uno schema del pensiero che permette all’individuo di destreggiarsi nel mondo. Non a caso Tajfel inserisce la riflessione sugli stereotipi all’interno dello studio delle dinamiche di gruppo, delle relazioni intergruppo e intragruppo: l’individuo e le sue percezioni e comportamenti sono da tenere in considerazione, ma non sono da assumere come valore assoluto a cui ridurre l’analisi. Riconoscere che l’io è parte di un “noi”, significa riconoscere che la partigianeria per il modo personale di interpretare gli eventi e di agire è parte di una partigianeria più ampia che si riferisce alle proprie affiliazioni e appartenenze, che prendiamo a riferimento e presso cui cerchiamo riconoscimento. Anche le varie teorie dell’identità sviluppate in ambito sociologico, hanno affermato come la personalità di ciascuno si costruisca grazie a relazioni su più livelli: si parla infatti di 52 identità sociale, personale, collettiva, rinviando in ciascuno di questi casi ad una specifica dimensione intersoggettiva del sé con l’ambiente (Sciolla 2010: 37-40). Inserendo queste suggestioni teoriche all’interno del discorso su stereotipi e pregiudizi, in ogni ambiente sociale, di cui quello sanitario costituisce in questo lavoro la specifica area di interesse, è sensato pensare che l’“altro” venga immaginato e riconosciuto in prima istanza attingendo da un vasto patrimonio di immagini, prodotto storico di un ampio processo, che ha creato una serie di rappresentazioni stereotipiche che adoperiamo molto facilmente e molto comodamente, come fossero quasi degli automatismi del pensiero e dell’azione. Lo scopo di studiare i meccanismi di produzione di stereotipi e pregiudizi – e dunque anche lo scopo di questo lavoro – dovrebbe essere quello di svelarne le falle, e di poterli mettere in discussione nel momento in cui diventano strumento di discriminazione. Ma il vero nodo centrale della questione è da un lato riconoscere la necessità di semplificare la realtà ricorrendo agli stereotipi, a quei cliché che permettono di rendere più semplici e familiari fenomeni di varia natura e complessità, dall’altro sorpassare il presupposto secondo il quale lo stereotipo e, nella sua manifestazione più concreta e sistematizzata, il pregiudizio, siano meccanismi di pensiero e azione sociale inevitabili, automatici, a tal punto da diventare insuperabili. Tra la dispersione nella complessità del reale e l’ipersemplificazione della stessa, esistono dei processi intermedi che sono resi possibili proprio dall’esperienza individuale in connessione con l’ambiente e le relazioni sociali. Se si accetta indiscriminatamente il presupposto per cui il nostro comportamento è ridotto ad automatismi dettati dal 53 funzionamento cerebrale, si tornerebbe a considerare il cervello umano in termini meccanicistici, e si potrebbero trovare giustificazioni ai comportamenti in quanto semplici risposte a comandi di natura organica. In questo modo si ammetterebbe pertanto che non ci sono alternative, che abbiamo una facoltà di scelta molto limitata. Per non cadere nella trappola del meccanicismo, gli studi neuroscientifici offrono un contributo molto valido: da diversi anni si impegnano a dimostrare come una delle principali caratteristiche del cervello umano sia proprio la sua plasticità: l’interazione continua del cervello, che è un’entità dinamica, con l’ambiente sociale e culturale può determinarne lo sviluppo, ed entrambi, essendo in interazione fra loro, si trasformano reciprocamente19. Questo implica abbracciare sicuramente l’idea per cui un certo grado di semplificazione della realtà sia un reale bisogno, senza però presumere che le operazioni di semplificazione a) siano le risposte passive di un cervello che reagisce sempre nello stesso modo (semplificando e generalizzando) a determinati stimoli (la complessità delle informazioni) e b) che quelle operazioni di semplificazione siano degli automatismi così inevitabili (poiché, in definitiva, dominati da processi fisiologici) da considerarli l’unico modo per guardare e interpretare la realtà. Sarebbe forse opportuno considerare la complessità e la semplificazione come estremi di un continuum, all’interno del quale esiste un’infinita serie di gradazioni diverse, in modo tale da non dover scegliere, secondo una logica dell’ aut aut, l’una o l’altra. Allora si potrà propendere verso un polo o verso l’altro, consapevoli che la complessità può essere decomplessificata per gradi, e non solo semplificata attraverso tagli netti. 19 Per un’applicazione delle teorie neuro scientifiche agli studi antropologici, si rimanda nuovamente a Pussetti (2005). 54 A questo punto, avendo menzionato l’idea del “taglio”, si può tornare al problema delle dicotomie e riportare la riflessione al tema centrale di questo lavoro. Quando un individuo, o nel caso specifico di questo lavoro, un operatore sanitario, si trova davanti un altro individuo o un paziente che, per caratteri i somatici o per altri indicatori, evoca l’idea della diversità, dell’alterità, ecco che, per riconoscerlo e interagire con lui, dovrà fare appello a determinate rappresentazioni, spesso grossolane, decidendo di tagliare, recidere ed escludere la complessificazione. Si è visto che ci sono voluti secoli di storia per foggiare un certo immaginario da cui attingere spunti per interpretare la “differenza” così come, almeno noi occidentali, vediamo in chi “non è come noi”. Non appiattire l’“altro” alle sue sole differenze rispetto a noi, non significa negarle completamente, ma magari significa riconoscerne alcune lasciando aperta la possibilità di scovare delle somiglianze. Questa apertura al “dubbio” che oltre alla differenza possa esistere la somiglianza e oltre alla somiglianza la differenza, significa allora non dicotomizzare, non tagliare in modo netto, come vuole il “paradigma” identità versus differenza, ma lasciare spazio a possibilità intermedie. 1.4 DECOSTRUIRE PER RICOSTRUIRE: PERCHÉ OCCUPARSI DI PREGIUDIZIO IN AMBITO MEDICO-SANITARIO Una delle tesi di fondo di questo lavoro è il riconoscimento del potenziale del pregiudizio – prodotto culturale oltre che e prima che psicologico individuale – un potenziale enorme che ha capacità di penetrazione su molti 55 livelli del vivere sociale, e le cui basi spesso fantasiose non cessano di esercitare una grande influenza nel nostro relazionarci all’“altro” e nel riprodurre dinamiche e retoriche differenzialiste su cui basare azioni politiche dal risultato discriminatorio. Il tentativo è quello di far emergere, anche attraverso le voci incontrate nella ricerca di campo, quali meccanismi portano ad interpretare una differenza somatica in modo pregiudizievole, e quanto questa interpretazione sia fondata su astrazioni più che su dati empirici. Può poi essere utile indagare il tipo di pregiudizio utilizzato per istituire delle differenze e marcare delle distanze, tentando di capire con che cosa si ha a che fare: si tratta di pregiudizi che disprezzano, denigrano e osteggiano l’“altro” o di pregiudizi che, con fare pseudo-filantropico tollerano l’“altro” in virtù della sua “innocente inferiorità”? E quale differenza c’è, infine, tra questi due atteggiamenti nei risultati pratici? E questa differenza esiste davvero oppure si tratta di due modi diversi di intendere ed esercitare, ancora una volta, un potere di esclusione nei confronti dell’“altro”? Si tratta di domande legittime, ma ci sono alcuni elementi che a tutte queste domande e alle loro possibili risposte funzionano da base e da sfondo. Evitare i tagli netti delle semplificazioni stereotipiche e del pregiudizio, significa decomplessificare con gradualità la realtà. Significa, in un certo senso, poter essere più disponibili ad individuare quell’incrinatura nelle rigide strutture degli immaginari, o quella falla nell’ingranaggio quasi perfetto del pensare per stereotipi o dell’agire pregiudizievole, che permettono di leggere la realtà in un modo diverso, più aperto e meno portato all’esclusione aprioristica. 56 Francesco Remotti, in Cultura. Dalla complessità all’impoverimento (2011), ha offerto degli strumenti teorici che, a mio giudizio, si adattano molto bene a queste riflessioni. Riformulando il concetto di cultura, quel controverso e dibattuto oggetto di studio della disciplina antropologica, sostiene la tesi delle “culture a densità variabile” (2011: 231). Considerandola un’entità non uniforme, si possono riconoscere al suo interno, zone più o meno intense e zone ignorate dalla cultura stessa, lacune, zone in ombra dove la cultura esercita meno impegno, verso cui dirige un minor interesse. Lo “spessore” e la “densità” culturale sono in rapporto inversamente proporzionale con l’automatismo, l’abitualizzazione, la sedimentazione (ivi: 230) dei modelli culturali, che aumentano il senso di stabilità ma riducono la consapevolezza e la possibilità di ulteriori approfondimenti. Il vantaggio […] di un’adeguata penetrazione e di una conseguente impregnazione da parte di un modello culturale consiste nel far scendere nel corpo – e non solo nella mente – idee e valori; il corpo viene “abitualizzato” e nel suo comportamento riproduce particolari modelli culturali, che non richiedono più di essere appresi e su cui non c’è più bisogno di riflettere. Il prezzo che si paga invece è la relativa scomparsa della dimensione ideativa della coscienza (ivi: 230). Ciò che non dovrebbe accadere è pensare che immaginari, stereotipi e pregiudizi siano tanto sedimentati da essere ormai inevitabili. Per quanto si sia cercato di dimostrare che la percezione dell’alterità sia una costruzione massiccia che affonda le radici nella storia di secoli fa, questo non deve indurre a pensare che non esistano alternative e che siano ormai processi normalizzati. Decostruire i meccanismi che producono e perpetuano quegli immaginari, stereotipi e 57 pregiudizi significa destabilizzare un rigido basamento, ma significa anche sottoporre ad un’attenta critica quella che si crede un’ovvietà. Lasciando uno spazio riflessivo ai modelli culturali che si sono acquisiti, significa optare per una cultura più densa, che non abbandona la possibilità di riflettere e di riflettere su se stessa: Una cultura densa non si semplifica troppo e non semplifica troppo la realtà: mantiene un certo senso della complessità delle cose, della società e dei rapporti con gli altri (ivi: 243). Questo percorso di (auto)analisi e di (auto)critica si presenta dunque come modesto tentativo di far luce su alcune zone scure della relazione fra noi e l’ “altro” per acquisire una consapevolezza maggiore al riguardo e, se possibile, deviare da quelle strade che inducono, quasi automaticamente, a creare delle differenze anche quando, a ben vedere, non esistono, o a non riconoscerle e non considerarle legittime quando esistono. Nel capitolo che segue, saranno illustrate le metodologie della ricerca di campo condotta nei Pronto Soccorso torinesi e in altri ambienti che sono stati utilizzati per l’osservazione delle dinamiche di formazione ed esercizio dei pregiudizi. Ciò che mi interessa dimostrare è indubbiamente la forza del pregiudizio stesso e la sua natura fondamentalmente immaginaria che ciononostante non ne mina il potere di influenza. Ribadire l’esistenza del pregiudizio multiforme che pervade la comunicazione di massa, il linguaggio di documenti legislativi e degli esperti impegnati nella formazione e informazione in materia di immigrazione, o lo 58 scambio nella relazione interpersonale, non rappresenta certo nulla di innovativo. Ma ritengo utile, oltre a far emergere gli aspetti più latenti, sottili e indiretti del pregiudizio, per dimostrare quanto la “logica del taglio netto” identità/differenza sia presente nel discorso politico, scientifico e del senso comune, menzionare quale sia stata quella “falla nell’ingranaggio” del pregiudizio che mi ha permesso di esercitare quel “dubbio” fertile che ha aperto la strada ad una possibile alternativa a tale logica. Il campo cela sempre qualche sorpresa. Ci si affanna, prima di intraprendere qualsiasi ricerca, di qualsiasi dimensione e spessore, a creare griglie tematiche, a indovinare possibili scoperte o a creare aspettative su quanto si potrà indagare, sulle risposte che si potranno ottenere. Una volta sul campo, invece, accade sempre qualcosa di imprevisto, qualcosa che non si è riusciti a programmare. Ascoltando le voci degli interlocutori, stando a contatto con l’ambiente che si è eletto a terreno di ricerca, l’occhio cade immancabilmente su un dettaglio inaspettato che ribalta le prospettive, che rompe gli schemi e costringe a rivedere le proprie aspettative e i propri intenti. Nella mia personale esperienza, ho trovato certamente molto materiale a sostegno della tesi dalla quale ero partita: esiste un pregiudizio diffuso fra il personale medico nei confronti di pazienti immigrati. Muoversi all’interno di ospedali e ambienti affini mi ha sicuramente dato la possibilità di osservare comportamenti e movimenti che rientrano a pieno titolo dentro le categorie “pregiudizio” e “stereotipo”, ma ciò che si è rivelato ancora più interessante e che mi ha permesso di andare oltre a questa evidenza forse 59 poco originale, è stato quel “dettaglio inaspettato che ribalta le prospettive”. Dopo un’esperienza di ricerca sulla salute di migranti – soprattutto rifugiati politici e titolari di protezione internazionale – condotta tra febbraio e giugno del 2012, ho avuto modo di relazionarmi con persone delle più svariate provenienze. Prima di avviare le interviste20, nelle quali erano previste alcune domande di portata generale a proposito dell’idea di salute e malattia (dello “star bene” e “star male”) degli interlocutori, non nascondo di aver ceduto alla tentazione di immaginare risposte dal sapore anche solo leggermente “esotico”. Avendo a che fare con persone di origine diversa dalla mia e tendenzialmente lontane a livello geografico e socio-culturale, mi immaginavo che questa “differenza” emergesse con forza. Così non è stato. Al contrario, le risposte che sono state fornite dagli interlocutori erano sorprendentemente vicine alle mie, alla mia idea di salute e malattia, alla mia percezione del Servizio Sanitario Nazionale, e il dato culturale tanto agognato è risultato praticamente assente. Esattamente questa somiglianza tra le mie (nostre) percezioni e le “loro” ha attirato la mia attenzione e mi ha stimolato a creare delle connessioni, da un lato tra il pregiudizio che viene alimentato e riprodotto nei contesti sanitari considerati e la logica identità/differenza riproposta in ogni discorso (politico e del senso comune), e dall’altro tra la voce di quegli interlocutori che facevano inconsapevolmente luce sulla necessità di recuperare il senso della complessità e il valore delle relazioni, quelle “cose” che non sono mai ovvie e mai semplici, e grazie a questo sono in 20 La ricerca sarà presentata in modo dettagliato nel Capitolo II. 60 grado di aprire la strada al mutamento, anche a quello degli elementi che si considerano più immodificabili. 61 Capitolo II SOGGETTI, TERRENI E METODI Fare etnografia è come cercare di leggere (nel senso di “costruire una lettura di”) un manoscritto – straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in convenzionali caratteri alfabetici, bensì con fugaci esempi di comportamento strutturato. (Clifford Geertz, Interpretazione di culture) Le pagine che seguono sono dedicate alla descrizione dei soggetti incontrati durante la ricerca, dei terreni che si sono per così dire “calpestati” per incontrare quei soggetti, dei metodi utilizzati per stabilire con essi un contatto e della letteratura di supporto per interpretarne le voci. Gli strumenti di indagine sono variati nel corso del tempo, hanno subito adattamenti, e sono in ogni caso di origine e natura composita. Ho ritenuto infatti che per affrontare il tema di tesi fosse necessario sfruttare più strategie osservative e documentative. Questa decisione nasce da un insieme di riflessioni scaturite dal tentativo di rispondere alla domanda, che ha funzionato come motore primario della ricerca, sulla presenza o meno di pregiudizi verso pazienti stranieri in ambito medico-sanitario. Se la cultura, come la definisce Clifford Geertz, è una “sorta di documento agito” (1988), il pregiudizio, nella sua 62 caratteristica di sistema culturale e di significati, è intellegibile attraverso la decifrazione congiunta di più codici e di più linguaggi che si esprimono per lo più in forme implicite e indirette. In generale, Tranne che quando segue […] le pratiche più automatizzate della raccolta dei dati, l’etnografo si trova di fronte a una molteplicità di strutture concettuali complesse, molte delle quali sovrapposte o intrecciate fra di loro, che sono al tempo stesso strane, irregolari e non-esplicite, che egli deve in qualche modo riuscire prima a cogliere e poi a rendere (Geertz, 1998:17). Soltanto attraverso l’affiancamento e la ricomposizione dei diversi tipi di testi (che come si vedrà comprendono le interviste con gli infermieri, quelle con i migranti, i resoconti dei corsi di formazione per professioni sanitarie, i miei appunti su ciò che potevo osservare in Pronto Soccorso, nonché infine alcuni documenti legislativi in materia di salute e immigrazione) è stato possibile cogliere alcuni elementi ascrivibili al pregiudizio in ambito sanitario, per poter rispondere così alla domanda di ricerca. Illustrare le metodologie che ho utilizzato è come ripercorrere a ritroso il percorso riflessivo che mi ha portato, tappa dopo tappa, a cercare delle strategie per affrontare dubbi e mettere in luce problemi, pur senza la pretesa di risolverli. 63 2.1 PROBLEMI METODOLOGICI E IPOTESI DI SOLUZIONE 2.1.1 Dalla parola, oltre la parola: l’uso delle immagini nelle interviste con gli infermieri nei Pronto Soccorso Esiste e si esercita un pregiudizio in ambito medicosanitario nei confronti dei pazienti stranieri? Per rispondere a tale domanda, avevo pensato che i miei primi interlocutori dovessero essere gli infermieri impiegati nei Pronto Soccorso. Tale scelta deriva dal fatto che questa professione sanitaria, più di altre, vive quotidianamente il confronto e il contatto diretto con il largo bacino di utenza che affluisce nelle strutture ospedaliere, si trova a dover risolvere urgenze, a gestire i pazienti che si presentano all’accettazione, a interpretarne i bisogni e a individuare le priorità dell’assistenza. Conoscerli, incontrarli e parlare con loro di come ogni giorno affrontino le dinamiche relazionali con gli utenti, mi sembrava il primo essenziale passaggio per intraprendere la ricerca. A questo scopo, ho contattato diverse strutture ospedaliere per ottenere le autorizzazioni ufficiali dei direttori sanitari ad accedere alle aree di Pronto Soccorso e individuare al loro interno degli operatori disponibili per le interviste. Su cinque ospedali contattati, due mi hanno concesso l’autorizzazione ad entrare, uno ha negato esplicitamente la possibilità di svolgere il lavoro all’interno della struttura, senza peraltro motivare il diniego, i due rimanenti hanno posto una serie di ostacoli burocratici, fatti di autorizzazioni tardive e altre farraginosità formali, che non mi è stato possibile aggirare o superare. Laddove ho avuto accesso 64 invece, ho incontrato, superata la barriera delle autorizzazioni degli organi dirigenziali, una grande disponibilità e un’ottima accoglienza da parte dei responsabili del personale infermieristico. Alle interviste in ospedale hanno partecipato 10 infermieri dei Pronto Soccorso dell’A.O. Umberto I-Ordine Mauriziano e dell’A.O.U. San Giovanni Battista-Molinette di Torino, nello specifico 6 donne e 4 uomini, di età compresa tra i 29 e i 49 anni. La selezione del campione è avvenuta in modo piuttosto casuale, non avendo bisogno di requisiti specifici, ma avendo cura di rispettare il criterio di almeno due anni di esperienza pratica in Pronto Soccorso. La relativa casualità selettiva era dovuta al fatto che, direttamente dalla direzione del personale infermieristico delle strutture ospedaliere coinvolte, veniva chiesta la disponibilità agli infermieri di turno nelle fasce orarie compatibili a dedicare circa un’ora extra-lavorativa a fine turno, e non tutti chiaramente hanno avuto la possibilità o la volontà di mettersi a disposizione. Le mie difficoltà di accesso alle strutture ospedaliere, in quanto esterna, e gli impedimenti personali a prolungare nel tempo la ricerca, non mi hanno permesso di adoperare ulteriori criteri selettivi – la specificità della professione infermieristica ha in definitiva prevalso sugli altri criteri di selezione – e di raccogliere un numero più elevato di interviste. Le peculiarità di ogni singolo soggetto sono emerse durante gli scambi informali di reciproca conoscenza che aprivano l’intervista. Ma sin da questo momento iniziale si poneva un fondamentale problema metodologico. Il pregiudizio risulta infatti essere una sorta di argomento tabù. “Svelare” il pregiudizio in ambito medico-sanitario, significa infatti, 65 prima di tutto, togliere il velo di interdizione che ricopre tale tematica. Non si parla facilmente di pregiudizio, soprattutto del proprio pregiudizio. Chiedere di poter rappresentare e riflettere sui propri pregiudizi e sul condizionamento degli stereotipi nel proprio vissuto professionale, può risultare quasi oltraggioso. Tanto nelle indagini quantitative quanto in quelle qualitative, non è possibile sottovalutare l’incidenza della desiderabilità sociale, cioè, secondo le scienze psicosociali, quella propensione del soggetto intervistato a fornire risposte quanto più conformi alla norma socialmente e culturalmente condivisa, e che possano incontrare il favore dell’intervistatore. Indagare un tema spinoso come quello del pregiudizio attraverso lo strumento dell’intervista, significava perciò andare incontro a grandi rischi di idealizzazione nell’autorappresentazione. Inoltre, gli interlocutori avrebbero potuto ritrarsi, invece che aprirsi, se avessero avuto l’impressione che le mie domande fossero delle insinuazioni. Come superare l’interdizione? Come parlare di ciò di cui non si può parlare? Come superare l’ostacolo rappresentato dal non-detto? Il pregiudizio può essere molto esplicito, ma le sue dinamiche e le sue rappresentazioni sono profondamente implicite. Per portarle alla luce, il canale della comunicazione verbale era dunque insufficiente, limitato e limitante. Occorreva trovare dei metodi di indagine alternativi, che si servissero delle parole ma che al contempo permettessero di oltrepassarle. Per questa ragione ho deciso di condurre le interviste servendomi di un altro linguaggio oltre a quello verbale, ricorrendo alle immagini. Il percorso riflessivo che mi ha condotto a maturare questa scelta, partiva dagli spunti emersi durante alcuni 66 incontri organizzati all’interno di un laboratorio universitario interfacoltà, Le città (in)visibili. Tale laboratorio, a cui ho preso parte per circa un anno e mezzo, era il frutto di un’iniziativa spontanea e autonoma nata alcuni anni fa dall’idea di alcuni laureandi, laureati e dottorandi, provenienti da vari settori disciplinari umanistici, di riunirsi per condividere esperienze, discutere e confrontare metodologie, con il supporto di esperti chiamati a tenere lezioni e seminari interattivi, e avviare ricerche nel contesto urbano torinese, con la precisa volontà di sviluppare un approccio alla ricerca fortemente improntato all’interdisciplinarietà. Durante una lezione tenuta dalla ricercatrice messicana Leslie Hernández Nova, che conduce da diversi anni indagini storiche sull’esperienza migratoria, nel contesto disciplinare della storia orale (2009, 2012), ho appreso dell’uso delle immagini anche al di fuori dell’ambito strettamente psicologico. Hernández Nova spiegava del ricorso a mappe cognitive nella ricostruzione delle storie di migrazione dei soggetti delle sue ricerche. La rappresentazione soggettiva dello spazio da parte degli intervistati, soprattutto nelle storie di migrazione, è fondamentale per cogliere la multidimensionalità nella percezione della propria collocazione geografica e sociale e dei propri spostamenti. I luoghi vissuti, immaginati e ricordati, acquisiscono una profondità spaziale ma anche una profondità temporale nella rielaborazione personale dei propri percorsi. Attraverso le immagini prodotte dai soggetti della ricerca, si possono ricavare molte informazioni che sfuggono alla parola, pur non essendo in grado naturalmente di sostituirla. Le ricerche di Hernández Nova e di altri rappresentano uno dei modi attraverso i quali è possibile mutuare uno strumento che si è creato in seno alle discipline psicologiche, 67 ma che può avere una sua utilità anche in altri contesti scientifici e accademici. Per mappa cognitiva, secondo la psicologia ambientale, si intende la rappresentazione interna che ci facciamo di un ambiente (Baroni 2008). Il presupposto è che uomo e ambiente siano in interazione fra loro e che quest’ultimo non sia una realtà oggettivamente descrivibile (Bianchi, Perussia 1986), ma sia al contrario recepita in modo del tutto soggettivo da chi lo abita, lo vive o lo attraversa. Le informazioni spaziali che ognuno di noi acquisisce sono relative alle emozioni, alle cognizioni, all’affettività che entrano in gioco rispetto a quel determinato spazio, ai nostri scopi, a ciò che di un determinato luogo giudichiamo più o meno rilevante a livello percettivo. Le rappresentazioni mentali dell’ambiente, che di conseguenza possono diventare descrizioni grafiche, consentono di cogliere il punto di vista dell’osservatore attraverso i dettagli presentati, omessi, enfatizzati e via dicendo (Baroni 2008: 57). La sintesi tra i fondamenti di psicologia ambientale e le esigenze di altre discipline si è recentemente concretizzata attraverso l’uso delle mappe e la definizione soggettiva degli spazi attraverso l’immagine in campo storico, sociolinguistico, antropologico, per lo studio del vissuto territoriale delle comunità, e non solo. In questi casi le immagini prodotte dagli informatori sono vere e proprie mappe dei territori abitati (così come sono immaginati e percepiti) che restituiscono una visione soggettiva al ricercatore, da cui egli può trarre sicuramente una grande quantità di elementi e non raggiungibili direttamente ed esclusivamente tramite il linguaggio verbale. Si parla in questi casi di “mappe culturali”, “mappe di comunità” e, nella 68 letteratura inglese, di “mental maps” e “sketch maps”. La mappa percettiva, che ingloba queste definizioni, è utilizzata in molti campi di ricerca come strumento d’analisi: dalla progettazione urbanistica partecipata alla didattica della geografia, dallo sviluppo agricolo al turismo sostenibile, dall’educazione ambientale all’antropologia applicata, all’arte contemporanea. La letteratura in materia propone opinioni differenti sull’efficacia della mappa di tipo percettivo come mezzo d’indagine della complessità. Da più parti vengono sollevate critiche che mettono in luce i limiti del metodo, ma dalle esperienze in atto, numerose e diversificate, emergono anche gli indubbi vantaggi. Il “lato debole” del metodo è il non avere - ancora - un apparato teorico che lo possa legittimare come strumento scientifico, ma il suo largo uso lo impone all’attenzione del dibattito interdisciplinare (Porcellana 2004: 30-32). La possibilità di trasporre il metodo delle mappe spaziali ad altre aree di indagine mi aveva molto colpito e poteva rappresentare un suggerimento, un’ipotesi da valutare per elaborare delle tracce di intervista per gli infermieri dei Pronto Soccorso. Per quanto persistano molti dubbi sull’efficacia e sull’attendibilità di tali strumenti, ho finito per tentare questa via, data la complessità e la delicatezza del tema del pregiudizio, che si presenta altamente refrattario ad essere colto attraverso tecniche metodologiche più consolidate. A riprova dell’interdizione che grava sul tema del pregiudizio, cito la domanda provocatoria di un infermiere che, mentre percorrevo la corsia dell’Area Rossa del Pronto Soccorso dell’ospedale Mauriziano, per recarmi intervistare una sua collega, mi aveva apostrofato così: “Cosa sei venuta a fare? A misurare il nostro grado di razzismo?” 69 ad Avevo cercato di schermare l’imbarazzo che mi era stato provocato rispondendo con una risata e qualche parola ironica per dimostrare che stavo al gioco. L’infermiere che aveva pronunciato quella battuta non conosceva il mio argomento di tesi nello specifico, così come lo ignoravano i miei interlocutori, ai quali, se mi domandavano espressamente su cosa vertesse il mio studio, preferivo dare risposte non menzognere, ma sempre molto vaghe e generiche, proprio per evitare di suscitare in loro chiusura e diffidenza. Forse guidato da uno stereotipo che fa dell’antropologo uno studioso di questioni interculturali e una specie di “giustificazionista dell’alterità”, l’infermiere ha voluto prendere una posizione per sé e per i colleghi, allontanando col sarcasmo l’ipotesi che potessi trovare dei razzisti fra i professionisti della cura, e in un certo senso invitandomi ad essere molto cauta nelle mie successive interpretazioni. La sua domanda retorica ad ogni modo conferma l’interdizione che grava sul pregiudizio e la necessità di trovare strategie alternative ai soli discorsi verbali. Nonostante l’“eterodossia” della metodologia che avrei usato, sul valore invece del linguaggio visivo in generale ha riflettuto ampiamente anche l’antropologia visuale: se l’immagine che si riproduce (attraverso un disegno, una fotografia o un filmato) non è e non può essere il calco oggettivo della realtà (Pennacini 2005), allora vuol dire che avviene, al momento della riproduzione, un processo di selezione, quasi a dire che si vede non ciò che si vede, ma ciò che si vuole vedere, e potremmo aggiungere, ciò che ci è stato “insegnato” a vedere. Se dunque fossi riuscita a utilizzare il linguaggio visivo nelle interviste, avrei potuto in parte superare gli ostacoli 70 imposti dalla natura stessa del tema del pregiudizio. Perché proprio in quella selezione nella rappresentazione di determinati oggetti, si manifesta l’attività culturale e la rielaborazione della stessa in termini soggettivi. In definitiva, si trattava non tanto di ricalcare in toto la metodologia delle mappe, ma di prendere spunto da esse parzialmente, e cioè semplicemente traslando l’uso delle immagini prodotte dagli intervistati per comunicare i contenuti delle loro risposte. Lo scopo delle idee espresse nel primo capitolo di questo lavoro era infatti quello di presentare in che modo il pregiudizio esercitato in ambito sanitario scaturisca da un patrimonio di immagini e stereotipizzazioni, frutto a loro volta di un vero e proprio lavorio culturale. Questa tesi di fondo ci dovrebbe allontanare dal presupporre che i comportamenti pregiudizievoli discendano da semplici meccanismi e automatismi cerebrali, ma prendano corpo invece da un discorso culturale organico, sistematizzato con una metodicità tale da sedimentarsi nel sentire comune e diventare un patrimonio condiviso. Parlare dell’“altro”, descriverlo, nominarlo, rappresentarlo, anche visivamente, risponde a quella preliminare costruzione dell’“altro”, che si riformula quotidianamente, adattandosi a esigenze specifiche. Affiancare e giustapporre i frammenti di informazioni e le suggestioni ricavate dai diversi contesti di ricerca, ha significato per me tentare di ricostruire la dialettica di quel discorso culturale, che parte dalla creazione delle differenze, assunte poi come sostanziali, e finisce per ricadere sul piano pratico, in un processo di affermazione e radicamento in continuo divenire. Sondare gli stereotipi che definiscono l’“altro”, attraverso immagini e pratiche discorsive più o meno 71 esplicite, sarebbe stato utile per stabilire la connessione fra la rappresentazione dell’“altro” e le dinamiche del pregiudizio, e per stabilire in che misura l’immaginario sotteso a quelle dinamiche possa influire sulla realtà. Dunque, per tornare all’uso di elementi figurativi, lungi dal voler sostituire la parola con l’immagine, ho pensato però che quest’ultima potesse funzionare da compendio, la cui importanza emerge ogni qual volta confermi, smentisca o arricchisca la parola. Abbandonare la descrizione grafica a se stessa, infatti, sarebbe risultato evidentemente inefficace e fuorviante. Ho pertanto ritenuto importante lavorare contestualmente sui due linguaggi, quello verbale e quello figurativo. Dare agli interlocutori la possibilità di esprimersi graficamente, anche tramite forme, simboli e colori, ha significato fornire a entrambi gli estremi dell’interazione – loro e me – un’occasione per riflettere e lavorare analiticamente su più aspetti, senza perdere di vista il corpo di dati semantici e lessicali e gli elementi delle pratiche discorsive. Queste infatti costituivano un supporto fondamentale, anche per non incorrere nel rischio di formulare interpretazioni di carattere psicologico sui disegni e mantenere invece viva l’attenzione sull’analisi culturale. Una volta deciso l’utilizzo delle immagini, oltre che della parola, si poneva un’altra domanda: che cosa far disegnare agli infermieri incontrati e intervistati? Occorreva fornire sia a loro che a me stessa delle linee-guida, isolare dei referenti o per lo meno dei concetti che potessero servire da base per la traduzione dal linguaggio verbale all’immagine. Per questa ragione ho ritenuto necessario dividere l’intervista in due tracce: nella prima traccia l’intervistato avrebbe potuto riflettere su alcune parole, che solo in un 72 secondo momento avrei chiesto di rappresentare. Con l’aiuto delle parole concettualizzate nella prima fase, ho ritenuto che sarebbe stato più facile produrre delle immagini a riguardo. Infatti, a differenza delle ricerche condotte con l’uso delle mappe percettive, nel mio tipo di indagine lo scopo non era quello di far rielaborare soggettivamente contesti fisici come luoghi, ambienti, percorsi, viaggi, ma condurre gli intervistati a rappresentare un atteggiamento, a riprodurre un orientamento relazionale improntato al pregiudizio, qualcosa che si esplicita in molti modi, ma che in genere è difficile da catturare a livello concettuale e ancor di più a livello verbale o grafico. Il passaggio fondamentale era dunque rendere concreto il pregiudizio, dargli una forma, un nome, o comunque trovare degli elementi “attivatori” del pregiudizio stesso, e dunque delle parole che potessero fungere da stimolo per condurlo in superficie. A questo punto ho proceduto dividendo l’intervista in due tracce. Nella prima gli intervistati avrebbero potuto riflettere e ragionare su quegli elementi lessicali scelti come attivatori, e nella seconda traccia avrebbero poi potuto rappresentarli. Le parole-input individuate per la prima traccia, sono il frutto di una riflessione collettiva condotta durante un incontro seminariale del laboratorio interfacoltà Le città (in)visibili sopra citato. Avevo discusso con il gruppo la volontà di condurre una ricerca negli ospedali e avevo reso noti gli obiettivi che avrei voluto raggiungere e le difficoltà metodologiche che stavo affrontando. Da questo laboratorio avevo già ricavato un importante spunto grazie alla lezione sulle mappe cognitive, che mi aveva dato la possibilità di venire a conoscenza di uno strumento di lavoro che avrebbe 73 potuto adattarsi alla mia ricerca. Senza la pretesa di ricalcare quel metodo, avevo voluto tentare di adoperarne l’elementochiave – l’immagine – riadattandolo alle mie esigenze. Il gruppo, composto in quell’occasione da studenti e dottorandi, si è sforzato di immaginare quali potessero essere gli elementi lessicali a cui i disegni prodotti dagli intervistati avrebbero potuto richiamarsi. La prima cosa da fare era individuare verso chi o cosa fosse rivolto il pregiudizio. A partire dalla domanda di ricerca, era chiaro che il pregiudizio che avrei voluto rendere manifesto fosse quello nei confronti dell’utenza straniera, spesso percepiti come incarnazione di un’alterità rifiutata, invisibilizzata o inferiorizzata, come ho cercato di spiegare nel primo capitolo di questo lavoro. La parola straniero è stata allora utilizzata come punto di partenza per procedere con un brainstorming21. Ciò che ognuno ha cercato di fare durante questa operazione era esattamente prendere spunto dalla vulgata comune, che rappresenta lo straniero – l’immigrato, per definirlo con un termine meno neutro – con determinati caratteri (il colore scuro della pelle, la povertà, e via dicendo) e legare questi elementi al contesto sanitario. Le parole emerse da questo processo sono state poi selezionate, a volte unificandole all’interno di aree semantiche (ad esempio, dalle parole “scuro” e “nero”, si è ricavata la parola comprensiva di entrambi “colore”), a volte invece evidenziando le distinzioni 21 Mi avvalgo di espressioni come “parole-stimolo”, “parole-input”, brainstorming o “libere associazioni di idee” al solo scopo di chiarire la funzione delle parole e delle strategie scelte per farle emergere: in questo senso, “stimolo” o input si riferisce alla capacità di una parola di attivare un processo evocativo a oggetti, situazioni o persone che fanno parte del bagaglio esperienziale di ciascuno e del proprio immaginario. Non ci si riferisce pertanto a teorie comportamentiste o ad altre correnti psicologiche. Così come per le libere associazioni di idee e il brainstorming, sono qui utilizzate nel valore che conferisce loro il linguaggio corrente, senza riferimenti scientifici particolari di impronta psicologica. 74 (ad esempio, l’espressione “malattie contagiose” è stata divisa in “malattia” e “contagio”), fino ad arrivare ad un gruppo definitivo di sei parole (immigrato, colore, sporco, contagio, malattia, corpo), che ho scelto come potenziali input e attivatori, e riferite sia al concetto-chiave della ricerca – il pregiudizio verso la categoria degli stranieri – sia al contesto etnografico di riferimento, cioè l’ospedale e la professione infermieristica. Ho deciso a questo punto di riproporre l’operazione del brainstorming e delle libere associazioni di idee anche agli infermieri. Una prima traccia di intervista iniziava così a prendere corpo. Utilizzare una serie di input verbali, invece di domande esplicite, avrebbe consentito agli infermieri di riflettere in modo forse più libero e meno condizionato, attingendo agli immaginari che ciascuna parola poteva suggerire. Per tradurre in immagini i concetti, lo sforzo di concretizzazione richiesto agli infermieri non era esiguo. Pertanto, ho deciso di inserire nella traccia un elemento in più che indirizzasse verso la concretezza, e cioè l’abbinamento delle parole-input a dei “luoghi” generici che avrebbero assunto una forma specifica nei vari casi. Durante le interviste informavo i miei interlocutori che il referente spaziale da loro indicato, avrebbe potuto essere legato all’ambiente di lavoro come ad altri ambienti della vita quotidiana. Non mi è sembrato opportuno vincolare gli interlocutori al terreno professionale, ma semplicemente avvisarli di questa possibilità. Il ventaglio delle combinazioni (identificare le parole e i concetti ai luoghi legati alla professione o ad altri luoghi o “forme” fisiche e spaziali), si è rivelato molto ampio. 75 Riporto qui di seguito il testo della prima traccia dell’intervista. Traccia n. 1 Leggi le parole riportate nella tabella sottostante. A ciascuna di esse, che cosa abbineresti? Scrivi negli spazi bianchi laterali tutto ciò che ti viene in mente, indicando anche quali “luoghi” assoceresti a ciascun termine. IMMIGRATO CONTAGIO COLORE SPORCO MALATTIA CORPO Mantenere l’analisi su un piano antropologico piuttosto che su quello psicologico, era un difficile gioco di equilibri, a cui ho cercato di dare soluzione facendo in modo che quanto prodotto in forma scritta o grafica dagli intervistati fosse sempre affiancata la loro voce e la loro argomentazione. Infatti, dopo questa prima parte, che gli intervistati completavano in mia assenza – preferivo infatti allontanarmi in questa fase, per permettere loro di darsi il tempo necessario alla compilazione e per evitare che si sentissero in qualche modo vigilati – chiedevo di rileggere ad alta voce quanto scritto, con il duplice scopo di non lasciare completamente a me l’interpretazione delle loro libere associazioni. Era a questo punto che entrava in gioco la registrazione audio delle interviste. Con il loro consenso, avevo cura di registrare le loro voci, che spesso non si limitavano alla pedestre rilettura di quanto scritto, ma anzi lo arricchivano di 76 particolari. Le registrazioni sono pertanto servite per condurre in un secondo momento le analisi discorsive. Conclusa questa parte, arrivava il momento di tradurre in immagini le parole su cui gli interlocutori avevano ragionato. La traccia fornita era la seguente: Traccia n. 2 Se dovessi disporre in una stanza queste parole e ciò che ognuna di esse ti evoca, come le disporresti? Componi un disegno nello spazio sottostante, utilizzando immagini e parole a tuo piacimento. Avevo concepito l’idea di far disporre all’interno di una “stanza” le parole precedentemente concettualizzate con lo scopo di semplificare il lavoro di rappresentazione ai miei interlocutori. Nello sforzo di concretizzazione di concetti per lo più astratti, richiamare l’attenzione sui luoghi fisici nella prima e nella seconda traccia, sarebbe stato funzionale, pensavo, al tentativo di oggettivazione da parte degli intervistati, in modo tale da fornire degli orientamenti e fluidificare il lavoro di per sé poco consueto. Anche in questo caso, come nella prima parte dell’intervista, chiedevo agli interlocutori di leggere la consegna e pronunciarsi in caso di dubbi. Fornivo dei colori e chiedevo di descrivere le proprie azioni grafiche ad alta voce, in modo da garantire la mia comprensione delle loro azioni e del loro percorso. La massima libertà espressiva veniva spesso ribadita, e in effetti ogni intervista in questo senso si è rivelata estremamente originale. Di fronte al non facile compito di rappresentare sotto forma di immagini ciò che prima si era descritto a parole facendo degli sforzi prima di astrazione, poi di concretizzazione, ognuno ha usato le 77 proprie capacità immaginative e rappresentative in modo decisamente creativo. Come veniva precisato agli interlocutori, la presenza del registratore era fondamentale per poter rileggere le loro rappresentazioni grafiche secondo le intenzioni espresse e non solo secondo le mie personali interpretazioni, e in questo raffigurava una garanzia e una tutela per loro quanto per me. Tutti gli interlocutori hanno apprezzato questa scelta e non hanno obiettato di fronte alla necessità di usare il registratore, e l’impressione che anche io ho avuto era che non lo considerassero uno strumento invasivo. La mia presenza accanto a loro durante il riempimento del secondo foglio funzionava anche da supporto, nel senso che, di fronte all’inusuale attività di disegno che veniva richiesta, spesso mi trovavo a incoraggiarli a procedere, soprattutto quando mi chiedevano conferma che ciò che stessero componendo fosse “giusto” o “sbagliato”. Cercavo allora di rasserenarli sul fatto che non fossero minimamente obbligati a seguire percorsi logici e razionali, o a seguire l’ordine con cui le parole erano elencate nella traccia precedente, e che, in caso di assoluta difficoltà, avrebbero potuto aiutarsi con parole o simboli. Al termine di ogni intervista, potevo quindi disporre di un complesso di informazioni costituito da più testi: le mie annotazioni sui colloqui informali di conoscenza, i testi delle interviste, divisi in testi scritti e prodotti dagli infermieri nella prima traccia e testi delle interviste registrate, e le immagini da loro prodotte nella seconda traccia. Il lavoro di analisi si sarebbe basato pertanto su queste fonti. Già dopo la rilettura delle prime interviste, avevo notato che alcune associazioni fra parole e alcune formule descrittive ricorrevano, quasi come fossero dei τόποι, sia 78 all’interno delle diverse parti di una singola intervista, sia fra diverse interviste. Sul piano dei contenuti avrei riflettuto in un secondo momento e seguendo un percorso analitico di tipo qualitativo, considerando i dati in relazione al contesto e tenendo conto della loro complessità. Tuttavia, spinta dalla curiosità di confermare o smentire quella che era stata una percezione frequente, ho deciso di fare uso di uno strumento di analisi quantitativa che a livello accademico può essere utile nel settore della Linguistica, durante l’esecuzione delle analisi testuali22. Wordle, uno strumento molto semplice e disponibile online23, nasce come un calcolatore dei lessici di frequenza contenuti all’interno dei testi. Una volta selezionato un testo, cioè, viene eseguito un calcolo matematico che rileva la frequenza con cui ogni parola compare nel corpo del testo. Il risultato è espresso sotto forma di “word clouds”, letteralmente “nuvole di parole”, che rappresentano il peso, in termini numerici, delle parole di un testo, indicato attraverso la dimensione del carattere, come nell’esempio che segue. 22 Roberto Trinchero, docente di Pedagogia sperimentale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Torino, ha elaborato alcuni strumenti per l’analisi testuale che si basano su rilevazioni statisticomatematiche applicate ai testi, dall’analisi delle distribuzioni di frequenza, a quella della posizione dei termini nel testo. Questi strumenti sono stati da lui condivisi nel web, e si possono visualizzare e utilizzare accedendo al sito www.edurete.org. 23 Wordle è un programma accessibile dalla piattaforma Java, al sito www.wordle.net. 79 Le parole che compaiono con un carattere di maggiore dimensione, sono quelle più utilizzate nel testo dell’intervista dell’infermiere, che qui si è presa ad esempio. L’infermiere in questione aveva raccontato di come molti suoi colleghi giudichino sulla base di stereotipi i migranti delle varie nazionalità che fanno ingresso nei pronto soccorso. Ogni nazionalità coincideva con alcune caratteristiche (i rumeni, ad esempio, sarebbero violenti e alcolisti, i peruviani e in genere i latinoamericani, semplicemente alcolisti). Quando ha cominciato a parlarmi dell’immigrato “tipico” attorno al quale aveva costruito la sua narrazione, notavo che il personaggio migrante da lui descritto, un peruviano, appunto, era connotato linguisticamente proprio come lo stereotipo che precedentemente aveva costituito il capo d’accusa dei colleghi. Il peruviano era sempre affiancato, nella narrazione dell’infermiere, al verbo “bere” nelle sue varie flessioni, che ha infatti un’elevata frequenza, come si vede nella word cloud. Il peso della parola “immigrato”, che è stato un riferimento costante nel discorso dell’operatore, mantiene anche nella frequenza d’uso la sua centralità. Si tratta anche in questo caso di aver scelto di utilizzare una strategia in più, che non diventasse centrale per l’analisi 80 dei discorsi, ma che potesse arricchire l’elaborazione finale dei dati raccolti. Mi preme sottolineare che questo strumento, così come quello delle immagini, è stato un supporto e non ha costituito la base portante della raccolta e dell’analisi dei dati. Ho ritenuto utile adoperare queste tecniche semplicemente come strategie ausiliarie – le indicazioni che forniscono sono inevitabilmente parziali – e non sostitutive dell’approccio qualitativo. 2.1.2 La necessità di allargare il campo: gli utenti Le strategie appena illustrate servivano, come si è detto, per superare l’interdizione sul pregiudizio e tentare invece di coglierlo attraverso i vari linguaggi usati per comunicare con gli operatori. Ma per indagare sulle modalità attraverso le quali il pregiudizio si espleta e prende forma, si poneva un ulteriore problema metodologico. Tale problema era rappresentato dal “campo” stesso della ricerca, un campo inevitabilmente limitato e limitante. L’ospedale, eletto a contesto etnografico di riferimento, poteva essere sottoposto all’osservazione solo in una sua ristretta area, osservazione peraltro non partecipante. Il mio campo visivo si fermava inevitabilmente al di qua dei confini dell’area di triage, la mia presenza non poteva essere partecipativa in nessun modo fuorché nei radi colloqui informali con qualche infermiere di passaggio. Ogni qual volta mi recassi in ospedale per le interviste, sfruttavo la possibilità di rimanere qualche ora all’interno della zona di accettazione. Il Pronto Soccorso è un luogo pubblico dove chiunque ha diritto di accedere, pensavo, dunque avrei potuto fermarmi e, senza essere d’intralcio all’utenza o agli 81 operatori, aspettare che si verificasse qualcosa di “interessante” ai fini della ricerca. Nonostante in accettazione si potessero registrare delle situazioni particolarmente interessanti per la ricerca – ad esempio nei brevi scambi tra i pazienti stranieri e gli infermieri di turno – la mia esperienza cominciava e finiva entro i limiti di quell’area, e non poteva spingersi oltre. La linea di demarcazione del triage indicava chiaramente fin dove avessi accesso. La conseguenza di simili problemi tecnici era che non avrei potuto verificare nella pratica ciò che in teoria mi veniva raccontato durante le interviste. In qualunque lavoro etnografico, […] quello che noi iscriviamo (o cerchiamo di iscrivere) non è il discorso sociale bruto a cui non abbiamo accesso diretto, non essendone gli attori se non in modo marginale o eccezionalmente, ma soltanto quella piccola parte di esso che i nostri informatori possono portarci a capire (Geertz 1988: 29). Ancora di più, nel mio caso specifico, non potendo verificare il metodo di lavoro degli infermieri intervistati, ero costretta a fermarmi e in un certo senso ad affidarmi ai loro resoconti. Tutto ciò che avrei potuto fare, rimanendo nel campo del Pronto Soccorso, sarebbe stato confrontare alcuni dei dati ricavati con le vicende osservate in accettazione. A fronte di questo limite, ho ritenuto necessario affiancare alle voci degli operatori quelle dell’utenza, provando ad accostarle e sovrapporle, alla ricerca di corrispondenze o divergenze. La possibilità di dare ascolto anche a “chi sta dall’altra parte”, ovvero l’utenza straniera, per poter incrociare in un secondo momento i dati rilevati dalle interviste con gli operatori, è derivata dal coinvolgimento in prima persona in 82 un progetto di ricerca sostenuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati in collaborazione con il coordinamento Non solo asilo (Progetto FER Non Solo Asilo 324), sviluppato e presentato in seno ad un laboratorio interdisciplinare sul diritto d’asilo organizzato dall’Università di Torino e dal coordinamento stesso. Il laboratorio prevedeva la partecipazione di studenti dei corsi di laurea specialistica in Antropologia Culturale ed Etnologia e in Sociologia, affiancati da operatori sociali che lavorano con migranti e rifugiati da alcuni anni, a tre mesi di formazione sul tema del diritto d’asilo affrontato dalle varie prospettive – legislativogiuridica, antropologica, sociologica, economica – grazie ai relatori esperti in materia, e una fase successiva di lavoro concreto presso enti o associazioni impegnate sul territorio piemontese e torinese in progetti rivolti a migranti, nello specifico a rifugiati e titolari di protezione internazionale. Fra quelli presentati a fine corso, il progetto FER Non Solo Asilo 3 consisteva in una ricerca sulla salute di richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione internazionale, a cui si sono aggiunti anche altri migranti, presenti sul territorio italiano da alcuni anni, circa la loro idea di salute e malattia e la loro percezione e fruizione del Servizio Sanitario Nazionale. Il gruppo di lavoro era formato da un coordinatore scientifico, la Prof.ssa Paola Sacchi, docente di Antropologia del Medio Oriente presso l’Università di Torino, dalla responsabile e curatrice del progetto, impegnata la Dott.ssa nel terzo Cristina settore 24 Molfetta, e nella antropologa cooperazione I risultati della ricerca (PROGETTO FER NON SOLO ASILO 3 – Convenzione 210/FER/PROG-5021 Azione 11BAP2010 Salute e malattia: percezioni, significati e modalità di fruizione del Sistema Sanitario Nazionale Italiano da parte di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale), che sono stati presentati nei territori piemontesi interessati, sono disponibili sul sito www.nonsoloasilo.org. 83 internazionale, e da due studentesse laureande in Antropologia culturale. Mi sono candidata con entusiasmo per essere inserita all’interno di questo specifico progetto proprio per l’attinenza con l’argomento di tesi, e l’esperienza si è rivelata ancor più significativa del previsto. In questo caso gli intervistati sono stati 21, 12 uomini e 9 donne, scelti in base alla loro disponibilità e nel rispetto dei loro impegni lavorativi o familiari, fra i vari territori coinvolti nel progetto25. Non sono stati adoperati restrittivi criteri di selezione. Al contrario, la varietà dei profili individuali ha arricchito di informazioni la ricerca. Gli operatori degli enti coinvolti avevano l’incarico di invitare a partecipare alle interviste alcune persone coinvolte o conosciute tramite i loro progetti e attività, dunque gli informatori erano solo parzialmente partecipanti spontanei. Occorre anche tenere presente che i colloqui si svolgevano all’interno delle sedi degli enti coinvolti, dunque non in campo neutro. In parte, le risposte fornite dagli interlocutori sono state condizionate dal luogo in cui si trovavano e dalla presenza o meno degli operatori di riferimento. Le interviste raccolte erano di tipo discorsivo, sulla base di uno schema molto flessibile e adattabile di volta in volta rispetto all’andamento dell’intervista – che si è cercato di rendere meno formale possibile per mettere a proprio agio gli interlocutori – e alle risposte date. Gli intervistati, insieme ad altri che hanno voluto spontaneamente inserirsi, hanno 25 I territori coinvolti nel progetto sono stati cinque comuni piemontesi, sedi a loro volta di enti di accoglienza di vario genere, facenti parte del coordinamento Non solo asilo; le interviste si sono svolte nella sede del consorzio CO.A.LA. ad Asti, nella sede della cooperativa sociale Crescere Insieme ad Acqui Terme, nella sede della cooperativa sociale Marypoppins ad Ivrea, nella sede della Caritas Diocesana a Biella e nella casa privata Cascina Pina, sita in località Mussotto d’Alba. Ognuna di queste realtà fa parte della rete regionale che sostiene e compone il coordinamento Non Solo Asilo. Le interviste si sono svolte tra febbraio e giugno 2012. 84 anche partecipato, in due momenti e sedi differenti, a dei focus group, durante i quali sono nate discussioni attorno ad alcuni termini-chiave26. Anche durante le sessioni di focus group si è cercato di creare un clima informale per fluidificare lo scambio di pareri e informazioni. Le modalità di intervista che sono state elaborate con il gruppo di ricerca sulla salute per il Progetto FER Non Solo Asilo 3, seguiva una traccia composta da temi e parole-chiave da sviluppare durante i singoli colloqui. Riporto qui di seguito la traccia, che è in definitiva una guida ai temi che erano da sviluppare durante il colloquio. Traccia n. 3 SALUTE E MALATTIA: significati e riferimenti personali Che cosa vuol dire “star bene” per te? Quali situazioni, cose o persone ti fanno stare bene (nel tuo Paese e in Italia)? Che cosa vuol dire “star male” per te? Quali situazioni, cose o persone ti fanno stare male (nel tuo Paese e in Italia)? A chi ti rivolgi o che cosa fai quando stai male? (nel tuo Paese e in Italia)? GRAVIDANZA E MATERNITA' (esplorazione aggiuntiva che si attiva solo se la gravidanza e la maternità vengono citate dalle interlocutrici nelle risposte alle domande precedenti o emergono come esperienze significative nella loro vita o nel loro Paese). Aspettare un bambino, avere un bambino, nel tuo Paese è…? Aspettare un bambino, farlo nascere in Italia è stato…? (Aspetti 26 I due focus group si sono svolti ad Acqui Terme e ad Ivrea; durante il primo i partecipanti sono stati circa una ventina, durante il secondo, una decina. Ciascun focus group è stato suddiviso in due momenti: la presentazione dei risultati delle interviste nei singoli territori, e la discussione attorno a quattro parole-chiave scelte per l’occasione (fiducia, prevenzione, mediazione e cura). 85 positivi/negativi? Cose che cambieresti o che ti sono mancate?) PERCEZIONE DEL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE Se dovessi spiegare a una persona appena arrivata che cosa fare quando sta male, che cosa le diresti? Come hai imparato queste cose? Chi te le ha dette? Un amico, un operatore, un mediatore o le hai imparate da solo? Secondo la tua esperienza, che cosa ha funzionato bene in Italia quando ti sei sentito male? Secondo la tua esperienza, che cosa non funziona o potrebbe essere migliorato qui? Secondo la tua esperienza, che cosa cambieresti/toglieresti/aggiungeresti del sistema sanitario in Italia? Le domande venivano poste nell’ordine più consono alla situazione, in base all’effettiva esperienza dell’interlocutore e alla sua padronanza della lingua italiana. E’ da osservare che in questa fase il mio ruolo non è stato sempre direttamente quello di intervistatrice ma anche semplicemente di ascoltatrice, poiché le interviste venivano condotte nella maggioranza dei casi dalla Dott.ssa Molfetta. Data la complessità e anche la delicatezza dei temi affrontati, nonché le storie personali degli interlocutori – essendo per lo più rifugiati politici e titolari di protezione internazionale, con vissuti e trascorsi biografici spesso molto difficili – avevamo cura di metterli il più possibile a proprio agio, per evitare che la conversazione si trasformasse in un interrogatorio, e di non tormentarli o di non insistere nel fare domande laddove si ravvisavano reticenze. Di grande importanza, come si è detto, la presenza o assenza, durante le interviste, dell’operatore di riferimento, contattato per radunare gli intervistati. I nostri incontri infatti, avvenivano, come esplicitato in nota nel primo paragrafo, in 86 alcune delle sedi piemontesi facenti parte del coordinamento Non Solo Asilo, coinvolte nel progetto del FER 3. La loro presenza o meno durante l’intervista significava naturalmente una pur parziale distorsione o aggiustamento delle informazioni date dagli interlocutori, che potevano, a buon diritto, sentirsi in obbligo di dimostrare gratitudine a quegli operatori che li avevano seguiti personalmente dal loro arrivo. Ad ogni modo, non ci si trovava nella posizione di poter chiedere all’operatore di allontanarsi se l’incontro si svolgeva nel suo ufficio. Lasciavamo all’operatore di turno la scelta, che è avvenuta secondo le diverse sensibilità. I partecipanti a queste interviste sono poi stati chiamati a partecipare ai focus group, che si aprivano con l’esposizione dei dati raccolti nelle interviste, affinché anche loro potessero avere un feedback degli incontri svolti e una loro visione complessiva; in seguito veniva avviata una discussione secondo la traccia seguente. Traccia n. 4 Restituzione di ciò che è emerso dalle interviste: che cosa funziona/che cosa non funziona/che cosa si può migliorare del SSN e confronti con le esperienze all’estero. Discussione guidata attorno a quattro parole-chiave: FIDUCIA (come si costruisce il rapporto di fiducia nel rapporto medico-paziente), PREVENZIONE, MEDIAZIONE (quanto è importante la mediazione linguistica e quanto lo è quella socio-culturale), CURA (quanto sono importanti le medicine/quali medicine). La raccolta delle singole interviste ha permesso di elaborare dei quadri complessivi circa le percezioni degli intervistati sul Servizio Sanitario Nazionale. I loro apprezzamenti, le loro critiche e le loro proposte sono state 87 radunate insieme e restituite ai gruppi di lavoro dei focus group, con l’insieme di testimonianze delle esperienze all’estero provenienti dalle storie di ciascuno: ogni intervistato poteva parlare con cognizione di causa di ciò che sembrava funzionare o meno del sistema, poiché aveva avuto contatti almeno con due sistemi differenti (quello italiano e quello del paese d’origine) e la maggior parte di loro aveva viaggiato molto e dunque incontrato realtà diverse da poter mettere a confronto. I dati raccolti sia nelle interviste che nei focus group sono stati accorpati ed elaborati per dare vita ad un documento in formato Power Point27, nel quale si illustrano gli obiettivi della ricerca, le metodologie utilizzate e i dati raccolti. La presentazione dei risultati della ricerca sulla salute era prevista nei cinque territori coinvolti: la restituzione del lavoro svolto doveva avvenire di fronte alle professioni sanitarie delle A.S.L. di quei territori (medici di base in primo luogo), in quanto negli intenti principali si auspicava esattamente a raccogliere le voci dell’utenza per poter mettere al corrente gli operatori sanitari degli aspetti positivi o negativi del sistema, e dare in questo modo la possibilità di riflettere su quanto emerso ed, eventualmente, apportare migliorie. È importante sottolineare che la presentazione dei risultati della ricerca è avvenuta soltanto in tre dei cinque territori, perché le altre A.S.L. in un caso hanno dichiarato la mancanza di interesse verso l’iniziativa, nell’altro caso hanno opposto il silenzio di fronte all’invito. È altresì curioso ricordare che coloro che hanno partecipato a questi incontri formativi, erano nell’assoluta maggioranza dei casi operatori sociali e non sanitari, salvo rare eccezioni. La formazione era espressamente rivolta al personale socio27 Tale documento è disponibile sul sito www.nonsoloasilo.org. 88 sanitario, ma fa riflettere il fatto che una ricerca sulla salute venga così poco considerata dai sanitari e molto più dagli operatori sociali. L’esperienza nel suo complesso è stata per me più utile del previsto, perché ha favorito la comparsa di ulteriori interrogativi e riflessioni critiche sul tema di tesi. È stato infatti il confronto con loro ad aprire un varco in ciò che sembrava un impeccabile e inevitabile meccanismo di riproduzione del pregiudizio nelle sue diverse manifestazioni a accezioni. Nella loro voce e nel loro messaggio mi è sembrato di poter scorgere quella “maglia rotta nella rete”, quella falla del sistema del pregiudizio, quella via verso il superamento del differenzialismo e verso la riappropriazione di una dimensione meno escludente e più aperta del “noi”. Nell’esigenza di soddisfare bisogni comuni, come la salute e la cura, la differenziazione noi/loro e il pregiudizio che crea ed esaspera le distinzioni, crollano, e aprono su possibilità nuove di coesistenza e condivisione che, anche se sono nascoste, esistono, e necessitano soltanto di essere “svelate”. 2.1.3 Un campo intermedio: la formazione delle professioni sanitarie Un’ulteriore esperienza che è importante inserire nella rielaborazione dei percorsi di ricerca è la partecipazione al corso di formazione Immigrazione e salute in una società multietnica: aspetti relazionali, clinico-assistenziali, organizzativi e gestionali della multiculturalità, rivolto a tutte le professioni sanitarie, che si è tenuto a metà marzo 2012 89 presso l’istituto Rosmini di Torino28, sede della Facoltà di Scienze Infermieristiche. Anche questa scelta nasceva da un’esigenza specifica. Lo scopo del confronto con gli infermieri, era quello di cogliere la visione stereotipata del paziente “altro” e le concezioni differenzialiste su cui si basano i pregiudizi. Ma fermarsi alle loro rappresentazioni significava rendicontare in modo parziale le dinamiche di esclusione, mancando il riscontro pratico impedito dal contesto etnografico limitato dell’ospedale. Allora si è valutata la possibilità di cercare quel riscontro dando voce all’utenza bersaglio del pregiudizio, per cominciare a verificare l’operatività del pregiudizio e le sue ricadute concrete. Frequentare il corso di formazione per le professioni sanitarie, come annuncia il titolo di questo paragrafo, ha rappresentato un’occasione per esplorare un campo intermedio, posto fra l’utenza e gli operatori sanitari. Tramite l’ascolto delle voci dei formatori e le dinamiche del gruppo di discenti, potevano emergere dei suggerimenti per vedere confermata o smentita l’ipotesi che il pregiudizio si possa rinforzare grazie alla sua alimentazione da parte di varie agenzie di formazione e informazione. Sarebbe stato anche un modo per comprendere le modalità di presentazione delle tematiche interculturali da parte degli interni al settore sanitario, verso altri interni. Grazie ad un escamotage, ho potuto inserirmi nelle aule di formazione in qualità di uditrice esterna. Ho frequentato interamente il corso, ma naturalmente solo come ascoltatrice e come presenza muta, almeno durante le ore di lezione. 28 L’Edizione I del corso si è tenuta durante tre intense giornate di metà marzo2012; l’Edizione II, tenutasi in maggio, prevedeva il medesimo programma. 90 Il corso si presentava come una sorta di guida e orientamento all’approccio con l’utenza straniera e alle sue dinamiche, tramite la presentazione del fenomeno migratorio in generale, dal punto di vista normativo, socio-economico, antropologico, relazionale, clinico. Al termine di ogni giornata i partecipanti erano sottoposti ad un test il cui superamento, insieme alla frequenza, avrebbe determinato per loro l’acquisizione di crediti formativi E.C.M. Il programma prevedeva la discussione di temi salienti e di estrema attualità: durante la prima giornata si affrontava il tema del fenomeno migratorio in Italia dal punto di vista demografico e socio-sanitario, l’“effetto migrante sano”, il percorso della normativa sanitaria nazionale relativa all’immigrazione con relative luci ed ombre; durante la seconda invece le tematiche affrontate erano relative alla salute del bambino immigrato, alle mutilazioni genitali femminili, alle vittime di tortura, alla mediazione culturale, ai fattori antropologici e socio-economici che condizionano i servizi sanitari, alla relazione fra cultura, salute e malattia e infine alla relazione transculturale; la terza giornata era dedicata alle problematiche sanitarie dei cittadini stranieri in Piemonte, alla normativa applicata agli S.T.P., alla storia e al funzionamento dei centri I.S.I. e della rete assistenziale nonprofit, e si concludeva con la distribuzione e spiegazione di una Guida per operatori sanitari che si occupano di immigrati. Da queste giornate di ascolto, ho ricavato diverse informazioni e spunti per riflettere sulla problematica del pregiudizio trasmesso e alimentato anche in ambito formativo e i cui promotori, purtroppo molto spesso, sono gli stessi formatori, anche i più insospettabili poiché attivi in diversi settori che hanno a che fare con migranti. 91 2.1.4 Fra un campo e l’altro Ciò che ha accompagnato il contatto diretto con le realtà scelte per l’osservazione e l’indagine, è un corpus bibliografico comprensivo di saggi e articoli specialistici di antropologia culturale, antropologia medica, sociologia e psicologia sociale, articoli medici specialistici sulle più recenti ricerche in materia di pregiudizi e discriminazioni in ambito sanitario, ma anche testi di leggi e normative in materia di immigrazione e di salute. Queste ultime in particolare sono state fondamentali per aiutarmi a comprendere come il pregiudizio agisca o sia utilizzato politicamente per finalità torbide – l’esclusione dal diritto alla salute di una categoria prima adeguatamente costruita nelle sue connotazioni negative, e poi non solo estromessa dall’accesso agli stessi servizi, ma persino privata della possibilità di possedere gli stessi bisogni della collettività. Ogni settore disciplinare e ogni campo di indagine ha rappresentato un prezioso contributo per garantire una base teorica, raccogliere i dati, analizzarli e riformularli in questo lavoro. Il problema, o, meglio, la sfida maggiore è stata quella di orientarsi all’interno delle diverse fonti, senza perdere di vista non solo e non tanto l’obiettivo della ricerca, quanto piuttosto l’approccio antropologico alla stessa. L’uso di metodologie meno consolidate e la natura composita dei campi di ricerca e della letteratura hanno richiesto da parte mia una continua riflessione critica, operazione sottesa all’intero lavoro. 92 caratteristica e Capitolo III CREARE L’“ALTRO”. FORME DI RAPPRESENTAZIONE E PRATICHE DI ESCLUSIONE L’antropologia sociale e culturale è “lo studio del senso comune”…Sia quando è inteso come “autoevidenza”…sia quando è inteso come “ovvietà”, il senso comune – cioè la comprensione quotidiana di come funziona il mondo – risulta straordinariamente diverso, contraddittorio fino all’esasperazione e altamente resistente ad ogni scetticismo. È radicato sia nell’esperienza sensoriale che nelle pratiche politiche, entrambe potenti realtà che impongono e modellano l’accesso alla conoscenza. (Michael Herzfeld, Antropologia. Pratica della teoria nella cultura e nella società) Analizzare le forme del pregiudizio ai vari livelli di operatività presi in esame, è come condurre una sorta di “analisi ipertestuale”. Riprendendo la metafora geertziana della cultura come documento agito (Geertz 1988), ho proceduto da un’ulteriore ipotesi, e cioè che vi sia uno stretto legame tra cultura e pregiudizio. Il pregiudizio infatti si presenta nelle sue forme e manifestazioni come una sorta di manufatto culturale, nel senso che la cultura contribuisce a foggiarlo e al contempo agisce su di esso, fornendo ai soggetti che ne prendono parte gli strumenti necessari per alimentarlo. Il lavoro di ricerca condotto è stato quello di rendere manifesto, nei contesti considerati, quello che in genere è 93 latente, ovvero il pregiudizio stesso inteso come modello culturale, insito nelle relazioni politiche come in quelle interpersonali, acquisito e radicato a tal punto da risultare automatico. Il lavoro antropologico sul pregiudizio è quello di guardare oltre l’automatismo e alle spalle dell’automatismo, provando a comprendere cosa stia alla base di ciò che è pensato come “naturale” e svelarne invece il carattere artefatto. Questi assunti possono servire da griglie interpretative per “leggere” il pregiudizio nelle parole, nei comportamenti e nelle rappresentazioni, creando di volta in volta dei collegamenti e dei rimandi a ciò che non è direttamente scritto nel “corpo del testo”, ma che si ricava indirettamente, tramite collegamenti multipli e non sempre lineari, sequenziale e uniforme. I documenti raccolti (normative, dichiarazioni, commenti, trascrizioni di colloqui, immagini), di natura e provenienza decisamente composita, illustrate nel capitolo precedente, rappresentano quelle connessioni e quei percorsi di lettura resi possibili a partire dal concetto-chiave di pregiudizio. Per questa ragione ho ritenuto importante riportare enunciati verbali o immagini, cioè segni e simboli che rimandano a significati ascrivibili al dominio del pregiudizio. E per lo stesso motivo ho tentato di mettere continuamente in relazione fra loro i diversi tipi di “documenti”, poiché ognuno di essi è il prodotto di una serie di azioni congiunte, compiute dalla cultura – cioè dai soggetti per mezzo della cultura stessa, al fine di riprodurla e riaffermarla. 94 3.1 DEFAMILIARIZZARE L’OVVIETÀ Di fronte a questa massiccia invasione straniera, dei suoi diritti fondamentali me ne frego. Per me i diritti fondamentali sono poter vivere in un condominio tranquillo, senza dovermi piegare alle abitudini diurne e notturne degli immigrati, di potere camminare nel mio quartiere senza dovermi voltare sempre indietro, di stare sereno quando escono i miei figli e di veder cessare il degrado morale e materiale della mia zona. Degrado coinciso con la massiccia presenza di immigrati.29 “Quanto” sentire comune è contenuto in questa dichiarazione? Un caso isolato di xenofobia o un insieme di opinioni diffuse? Questo commento, significativamente intitolato dall’autore “Vedere i diritti solo da una parte”, è apparso nel marzo 2009 in reazione all’articolo di un giornale online sull’approvazione in Senato del disegno di legge sulla sicurezza pubblica. Tale complesso normativo aveva sollevato un acceso dibattito, non ancora del tutto sopito, per alcune disposizioni in materia di immigrazione che, a ben vedere, poco avevano a che fare con l’accrescimento del clima di sicurezza, ma che al contrario avevano generato un’atmosfera di incertezze, paure e discriminazioni non ancora estinte. Il Ddl sulla sicurezza pubblica, noto come “pacchetto sicurezza”, veniva approvato definitivamente nel luglio del 2009. Tra le varie disposizioni, quella più grave dal punto di vista sanitario era stata, in conseguenza all’introduzione del reato di clandestinità, l’abolizione del comma 5 dell’articolo 35 del Decreto Legislativo 286 del 1998, che garantiva l’accesso presso strutture sanitarie anche allo straniero non in regola con il permesso di soggiorno. La 29 Commento tratto dalla pagina web http://www.lavoce.info/commenti/011-281001015.html, sezione dedicata ai commenti relativi all’articolo del 24.03.2009 di Sergio Briguglio “Ora insicuri sono i diritti fondamentali”. 95 cancellazione di questa norma avrebbe previsto una “clandestinità sanitaria” pericolosa per l’individuo ma anche per la popolazione30. Nonostante questa modifica fosse stata ritirata, grazie alla massiccia mobilitazione di medici, ONG, associazioni e organizzazioni, tra cui la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), che avevano esplicitamente disobbedito a tale norma31, il timore della denuncia aveva fatto calare repentinamente l’affluenza degli utenti stranieri ad ambulatori ed ospedali, e nonostante le attività di sensibilizzazione da parte dei protagonisti della protesta al provvedimento, la paura era ed è rimasta. Il provvedimento, la cui trattazione sarà ripresa nel paragrafo 3.1.2, viene qui assunto come emblema di una crisi dal punto di vista politico nel percorso normativo italiano in materia di salute e immigrazione, che registra, soprattutto a partire dal 2009, ripetute battute d’arresto rispetto alla possibilità di sviluppare politiche inclusive che favoriscano seriamente il benessere della collettività. Il “pacchetto sicurezza” è anche il simbolo di un processo di confusione ben organizzata e di un complesso di pregiudizi che si diffonde sia verticalmente (dai poteri politici verso l’opinione pubblica) sia orizzontalmente (dai circuiti massmediatici alle masse e viceversa). E’ da considerare pertanto una delle dimostrazioni di come modello culturale basato sul pregiudizio venga sostenuto, alimentato e riprodotto anche ai livelli più alti – quelli dei centri di potere che gestiscono la vita pubblica del Paese – benché fondata su 30 Geraci Salvatore, Salute e immigrazione in Italia: il percorso del diritto all’assistenza sanitaria; dispense e materiali del corso di formazione Immigrazione e salute in una società multietnica, Edizione I, marzo 2012. 31 In 38 comuni italiani si era svolta, il 17 marzo 2009, la cosiddetta “NOI NON SEGNALIAMO DAY”, una manifestazione atta a contrastare il provvedimento che, se approvato, avrebbe obbligato gli operatori pubblici, sanitari compresi, di segnalare la condizione di migranti illegalmente soggiornanti in Italia. 96 una serie di luoghi comuni, così comuni da averne perso di vista l’origine e l’artificialità, e da suscitare sempre meno riflessioni critiche. Se, come sostiene Michael Herzfeld, l’antropologia va intesa come modello critico con il mondo e non come modello di distanziata e accademica spiegazione del mondo (2006: XV), in questa specifica parte del lavoro, ho cercato di fare mio questo principio, provando a problematizzare alcune pratiche comuni e ad offrire degli spunti per una critica a tali pratiche, qualora generino esclusione e diseguaglianza. Il pregiudizio che in questo lavoro si tenta di analizzare nelle sue sfaccettature, ben si adatta al concetto di senso comune utilizzato nella concezione di Herzfeld. Il pregiudizio verso l’“altro” stesso è un complesso, spesse volte molto ben articolato, di luoghi comuni – per sua natura “resistente ad ogni scetticismo” (Herzfeld 2006: 1). Nelle pagine precedenti sono comparsi più volte termini come “immaginario”, “fantasia”, “mito”, ma ciò che al contempo ho voluto sottolineare è la pregnanza di queste dimensioni all’interno della realtà e i relativi effetti quando li si considera “la realtà”. Il pregiudizio stesso è da considerarsi come qualcosa che, seppur in modo aprioristico e senza effettive basi epistemologiche, irrompe nella realtà modellandola, modificando e plasmando cioè non solo le percezioni e le concezioni, ma anche i comportamenti. Comprendere la distinzione tra fantasia e realtà dunque è un problema di scarso valore rispetto invece a quello di cogliere la capacità di penetrazione della prima nella seconda e le conseguenze concrete di questo processo. Colui che ha scritto quel commento citato in apertura al paragrafo, per quanto inesatte siano le sue affermazioni, ha perfettamente colto gli stimoli che gli provenivano dalle 97 agenzie politiche e dell’informazione, trovando in essi degli argomenti che ha ritenuto validi per esprimere un dissenso nei confronti di qualsiasi possibile apertura verso l’“altro”, minaccioso, moralmente inferiore e pericoloso. Un cittadino qualsiasi, ha adattato alla sua personale esperienza e al suo vissuto ciò che il discorso politico e mediatico ha fatto in modo di trasmettergli a proposito del fenomeno migratorio. Poco importa che gli scenari apocalittici descritti dalle agenzie di informazione siano distanti dalla realtà. Cos’è reale? È reale l’insofferenza di questa persona, è reale il suo dissenso per qualunque politica inclusiva verso una determinata categoria – l’“altro” omogeneizzato, l’immigrato pensato nel suo più misero apparire – vista come responsabile delle sue angosce e delle sue insoddisfazioni. Naturalmente il pregiudizio non è sempre così evidente. A volte è celato dietro ad altre locuzioni, molto meno severe, ma altrettanto inferiorizzanti: “poverino”, “poveretto”, “disgraziato”, “sfortunato” sono vocaboli che i miei interlocutori hanno utilizzato molto spesso nel momento di pensare al migrante. Per quanto meno visibile, un’assunzione di superiorità è evidentemente presente in queste concezioni. L’immigrato non è quasi mai pensato come una persona che possa vantare un alto livello di istruzione, l’immigrato non richiama mai la figura di un inglese dalla carnagione chiara, ed è per lo più impensabile che l’immigrato avesse uno status sociale molto elevato nel paese d’origine, prima di approdare nel paese ospite. L’immigrato, nell’immaginario comune, è l’alieno, è l’“altro” incomprensibile ed è l’“altro” che non è in grado di capire, è tanto colui che usufruisce dei nostri servizi, presumibilmente togliendo a noi la possibilità di fare altrettanto, quanto un parassita che vive sulle nostre spalle, che ha delle strane e non ben identificate “abitudini diurne e 98 notturne”, o ancora un “poveretto” da aiutare. In tutti questi casi, che incuta timore o che susciti pena, l’immigrato è l’alterità che ha qualcosa in meno rispetto a noi. La chiave di lettura evoluzionista, più raffinata o più grossolana a seconda dei casi, è molto più utilizzata di quello che si pensi. Cogliere i canali attraverso i quali si crea e si riproduce la cultura del pregiudizio, diventa un lavoro interessante soprattutto quando questo è negato e invisibilizzato, quando il pregiudizio cioè diventa un dato di fatto, quell’autoevidenza e quell’ovvietà che sono proprie del senso comune. Che le cifre relative agli ingressi di migranti in Italia allontanino qualsiasi possibilità che si tratti di una “massiccia invasione”, o che i dossier statistici dimostrino che non sia possibile stabilire un legame inevitabile tra migrazione e criminalità, non ha importanza nel momento in cui l’assidua e incessante alimentazione di un immaginario negativo è ormai penetrata nel senso comune, e diventa pertanto un luogo comune a cui appellarsi per interpretare e descrivere la realtà. Riprendendo le parole di Herzfeld, […] La distinzione fra il reale e la finzione (fiction), così come quella tra materiale e simbolico, è essa stessa una parte importante della realtà sociale e della mitologia culturale che guida, in molte culture, l’apprezzamento tanto delle rappresentazioni mediatiche quanto del discorso accademico. Il trucco, per l’antropologo, è mostrare quale bizzarria storica e culturale rappresenti questa percezione, oggi prevalente, del senso comune. Si tratta, nei termini di un vecchio canone della critica letteraria, di “defamiliarizzare” l’ovvietà (2006: 375-376). Non è infatti importante quanto realismo ci sia nelle descrizioni del fenomeno migratorio, è importante invece comprendere quanto efficaci siano gli slogan e le rappresentazioni che, veicolando determinati contenuti, suggeriscono anche delle forme, dei modelli narrativi ed 99 esplicativi per pensare la realtà, interpretarla, descriverla e viverla. Accogliendo la proposta di Herzfeld, defamiliarizzare l’ovvietà significa allora, in un certo senso, disorientare lo sguardo, almeno in un primo momento, per riorientarlo successivamente verso visioni alternative sulle quali spesso si trascura di far luce. 3.1.1 Sindrome di Salgari: sintomatologie e terapie Salvatore Geraci, citato sin dalle prime pagine di questo lavoro, è un medico che si occupa della salute degli immigrati dal 1986 ed è responsabile dell’Area sanitaria della Caritas romana. Membro del Consiglio della SIMM, la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, di cui è stato presidente dal 2000 al 2009, collabora con vari atenei e altri enti per la formazione con insegnamenti circa la sanità pubblica e l’immigrazione. Il suo modo di operare a mio giudizio rispecchia quel proficuo “disorientamento”, quel dubbio che crea disordine e che, a volte, permette di riappropriarsi di un maggior senso di complessità nella lettura della realtà. Nelle varie occasioni in cui ho potuto incontrarlo ed assistere alle sue lezioni sul tema della sanità in rapporto all’immigrazione, ho notato che i primi scambi con il pubblico avvengono soventemente attraverso “giochi”, sorte di indovinelli volti a smascherare i pregiudizi più diffusi nei confronti degli immigrati. Riporto un esempio tratto dai miei appunti presi durante la prima giornata del corso di formazione rivolto alle professioni sanitarie Immigrazione e 100 salute in una società multietnica32. Geraci parte col domandare al pubblico quanti immigrati si stima che siano presenti nel nostro paese con regolare permesso di soggiorno. Il pubblico, quasi completamente d’accordo, risponde che la cifra degli immigrati regolari dovrebbe corrispondere agli 8 milioni. Geraci a questo punto chiede quanti immigrati irregolari sarebbero presenti sul territorio italiano. Il pubblico, asserisce che, con certezza praticamente assoluta, gli irregolari dovrebbero corrispondere ad un numero pari o maggiore rispetto ai regolari. Lo scenario che si profila dalle risposte date è quello di un’Italia che accoglie circa 16 milioni di immigrati, la maggior parte dei quali soggiorna irregolarmente. Geraci a quel punto domanda al pubblico quale sia il paese europeo che ospita il maggior numero di immigrati. Di nuovo, l’Italia è messa ai primi posti fra paesi di accoglienza. Passando alla situazione sanitaria, ancor più pertinente rispetto al contesto in cui si svolge la lezione, Geraci pone un altro quesito, relativo alle malattie più frequenti tra la popolazione immigrata. Il pubblico poteva scegliere fra le varie tipologie di disturbi e malattie: 1) TBC, HIV, malattie infettive e sessualmente trasmissibili; 2) disagi psichici; 3) problemi gastrointestinali, respiratori (per es. bronchiti, asma), traumi da cadute, incidenti e via dicendo. Per la prima categoria il pubblico stima almeno un tasso di ricoveri del 60%, per la seconda del 20%, a pari merito con la terza categoria. E’ a questo punto che interviene Geraci, fornendo le risposte esatte alle varie stime richieste: in Italia sono presenti in totale circa 5 milioni di immigrati, di cui circa 600 mila irregolari; l’Italia ha in percentuale un numero molto inferiore di immigrati rispetto a paesi europei di estensione 32 Cfr. Capitolo II. 101 molto minore, come il Belgio, che ne accolgono anche il doppio; la richiesta di assistenza sanitaria degli immigrati è per il 60% per i disturbi della terza categoria, per il 20-30% per i disagi psichici e del 10% circa per le malattie del primo tipo. Il pubblico è piuttosto disorientato e, in un certo senso, privato delle sue antecedenti certezze. Da qui in avanti, Geraci invita il pubblico ad operare una riflessione critica su ciò che in genere si crede sia la realtà. Come aveva già detto e scritto in altre occasioni, In definitiva possiamo indicare a partire dall’evidenza dei dati disponibili, come il profilo sanitario dell’immigrato in gran parte si sovrappone (per tipologia delle condizioni patologiche) a quello della popolazione autoctona di pari età seppur condizionato dall’effetto di scadenti condizioni di vita presenti soprattutto nelle prime fasi dell’immigrazione nel nostro paese (Geraci 2006: 5). Dal pregiudizio si può “guarire”, così come si può acquisire una maggiore elasticità grazie ad una corretta informazione. Come nel caso dell’autore del commento iniziale, quella della “massiccia invasione” straniera è una credenza molto diffusa, per quanto distante dalla realtà effettiva dei numeri, così anche gli operatori sanitari tendono a sopravvalutare in termini di flussi ma anche di patologie il fenomeno migratorio. Si incorporano i messaggi mediatici a tal punto da non essere più in grado, se non con constatazioni posteriori, di discernere ciò che è dimostrabile da ciò che è immaginario. In questo processo di distorsioni e sovrastime, il linguaggio gioca un ruolo importantissimo nel plasmare un’opinione: veicola contenuti di forte impatto, insieme alle immagini (ancora più immediate delle parole) che vengono continuamente riproposte a livello mediatico in tema di 102 immigrazione. Per quanto riguarda la salute, la sindrome di Salgari fa pensare all’immigrato come ad una specie di “untore”, portatore delle malattie che pensavamo estinte cent’anni fa o di quelle che, inoltre, racchiudono il germe di uno stigma sociale di enorme portata – le malattie sessualmente trasmissibili che sono legate, nell’immaginario collettivo, alla promiscuità e al presunto “degrado morale e materiale”, come afferma l’autore del commento iniziale, posto in apertura al capitolo. Sostiene Geraci che molti operatori sanitari siano ancora affetti dalla sindrome di Salgari, come dichiara con malcelata ironia al pubblico di operatori sanitari durante la sua lezione. L’aveva denominata così, insieme al collega Riccardo Colasanti, nel 199033, quando il fenomeno migratorio in Italia iniziava ad essere al centro del dibattito pubblico. E la visibilità di tale fenomeno, agli occhi dei politici e degli “esperti”, e di conseguenza agli occhi dei cittadini, partiva già con delle significative distorsioni e veniva accompagnato da diversi luoghi comuni ancora molto vivi. La sindrome di Salgari coincide con quella rappresentazione dell’“altro” visto più nei suoi aspetti “mitologici”, qualcuno che incuriosisce e spaventa al contempo. L’espressione coniata da Geraci e Colasanti prende il nome dalle spettacolari avventure intrise di esotismo raccontate all’inizio del secolo scorso dallo scrittore veronese Emilio Salgari, il quale descriveva con dovizia di particolari paesaggi e personaggi di mondi lontani, pur non essendovi mai stato. I racconti meravigliosi di Salgari, pur essendo basati su descrizioni fittizie, non hanno minato il suo successo e la grande diffusione della sua letteratura 33 La sindrome di Salgari 20 anni dopo, in Janus. Medicina: cultura, culture, N. 21, “Sanità meticcia”, Zadigroma Editore, pp. 21-29. 103 romanzesca. Un po’ come Salgari, gli operatori “affetti” da questa stessa sindrome, compiono, quando si ritrovano di fronte a ciò che percepiscono come alterità, dei grandi viaggi immaginari alla ricerca di patologie “strane e bizzarre” di cui gli immigrati sarebbero portatori. Questo atteggiamento di timore del contagio è testimoniato da comportamenti al limite del paranoico che hanno investito non tanto e non solo l’“uomo della strada”, quanto anche uomini politici negli anni Novanta e che persistono ancora. Il senso comune è infatti trasversale ad ogni strato sociale, a qualunque livello di formazione e istruzione. Come spiega Geraci, l’ex ministro De Lorenzo, all’inizio degli anni Novanta, aveva istituito, a fronte dell’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese, una commissione altamente specializzata che operasse per la scoperta e la difesa da patologie rare potenzialmente importabili dai migranti. Non solo gli immigrati venivano associati al rischio di portare malattie infettive all’interno delle frontiere, ma venivano anche ritenuti talmente alieni da spingere i medici incaricati a ricercare accuratamente malattie esotiche, sconosciute, e pertanto pericolose. La commissione ministeriale creata da De Lorenzo per approfondire e provvedere alla questione della salute degli immigrati, questa “nuova popolazione” che cominciava ad essere presente sul suolo italiano, constava infatti quasi esclusivamente di medici tropicalisti, con l’aggiunta di alcuni infettivologi e di un… veterinario. Dai dirigenti politici agli operatori sanitari – dai medici di ogni settore specialistico agli infermieri – si era diffusa questa metodica ossessiva nella ricerca e nella diagnostica, su pazienti immigrati, di malattie rare, per l’effetto di uno sguardo intriso di pregiudizio nei confronti di quella categoria, all’interno della 104 quale era decisamente sovrastimata la presenza di patologie sconosciute i cui vettori di diffusione sarebbero stati proprio i migranti. Questa sopravvalutazione degli effetti della migrazione sopravvive in modo estremamente vitale, il più delle volte perché, trasmessa in modo inesatto ma efficace a livello comunicativo, tramite slogan e immagini che colpiscono in modo diretto, sfugge ad analisi più attente. Spesso, è il confronto con i dati reali che permette di ridimensionare il proprio sguardo e di mettere in dubbio quegli assunti di dominio pubblico che, salgarianamente, sono molto efficaci nel rappresentare la realtà, pur nascondendola, pur non avendola mai vista. Riporto qui di seguito la testimonianza di un medico che opera da alcuni anni presso un’associazione di volontariato di Milano che si occupa della tutela dei diritti dei cittadini stranieri, riportata sulla newsletter associativa: […] Ho scoperto di essere stato affetto dalla Sindrome di Salgari che è stata definita come il desiderio degli operatori sanitari alle prime armi con gli stranieri, di scoprire patologie esotiche, incontrare strane malattie e fare brillanti diagnosi nella popolazione immigrata. Affetto dalla sindrome ho visitato 10, 15, pazienti ogni lunedì pomeriggio. Qualcuno l’ho anche operato. Ho ascoltato tanti stranieri irregolari che raccontavano le loro malattie alla caccia della malattia rara. Ma più passava il tempo e meno questa si trovava e poco a poco calava la voglia di andare tutti i lunedì al Naga. Desideravo incontrare la patologia rara e il non trovarla mai mi creava noia, a volte ostilità, verso i pazienti che più o meno avevano sempre gli stessi problemi. Passava il tempo e cresceva la consapevolezza di non capirci niente. Non capivo perché gli stranieri venissero a farsi visitare per il raffreddore, per la forfora, per i calli. Leggere della sindrome di Salgari è stata una specie di rivelazione, il primo passo per affrontare la questione salute – immigrazione da un diverso punto di vista. […] Se per curare gli immigrati servono caratteristiche particolari credo esse siano 105 nell’atteggiamento mentale disposto a riconoscere e superare i pregiudizi di cui tutti siamo vittime inconsapevoli34. Geraci e Colasanti, recentemente, hanno individuato un’articolazione in tre fasi per quanto concerne la diffusione e l’eventuale superamento della sindrome di Salgari. La prima fase, quella dell’esotismo, vede il più intenso ed articolato processo di produzione di "immagini dell'altro". Lo straniero è in primo luogo un agente contaminante: il medico o l’infermiere si aspetta di trovare il paziente affetto da chissà quali strane malattie, lo inquadra come vettore di morbi esotici o malattie inconsuete, ogni sintomo si ammanta di una sua presunta “eccezionalità” rispetto alla patologia “addomesticata” nostrana, si richiedono non solo più analisi, ma anche indagini più sofisticate alla ricerca di una sicura malattia tropicale o comunque infettiva ben occultata. La ricerca di un malato, che sia tale in virtù di un suo contatto con il pericolo esotico, implica anche una maggior protezione dal potenziale contagio (Geraci 2006: 3). In questa fase sono attivi tanto i pregiudizi che inferiorizzano l’“altro” come soggetto potenzialmente pericoloso, che contagia a livello sanitario e che contamina e degrada a livello morale, quanto i pregiudizi che ribadiscono quell’inferiorità e alterità attraverso un’altra prospettiva, riferita ad un certo tipo di ideologie di stampo cattolicoconservatore, per le quali l’immigrato è visto come il bisognoso a cui offrire aiuto per emanciparlo dalla sua condizione di povertà (materiale e spirituale). Si tratta di due aspetti operativi del pregiudizio che sono parte di uno stesso processo di svalutazione e di non riconoscimento dell’“altro”, e che in questo modo marcano con forza la sua diversità e la sua alterità rispetto a “noi”. 34 Articolo tratto da Nagazzetta, Sindromi. La testimonianza di un medico volontario del Naga, n. 15, marzo 2010. 106 Come sottolinea ancora Geraci, il pregiudizio non è però unidirezionale. Se si accetta il presupposto secondo il quale, come si diceva nei capitoli precedenti, ragionare per stereotipi, crearsi dei modelli interpretativi e di lettura della realtà e avere dei pregiudizi sono meccanismi comuni a tutti per orientarsi con successo nel mondo, allora occorre anche pensare – cosa che si fa molto di rado – al pregiudizio di cui “noi” siamo investiti da parte “loro”. La sindrome da General Hospital indica quell’insieme di aspettative che il migrante possiede quando si reca nel Nord del mondo credendo di poter essere curato in strutture laccate, come quelle che si vedono nelle soap e nelle serie televisive americane, con macchinari miracolosi e altamente tecnologici, di cui si ha conoscenza – per lo meno al livello dell’immaginario – su scala globale grazie alle antenne satellitari. A questa fase, seguirebbe quella dello scetticismo: di fronte all’evidenza – non si registrano le brillanti diagnosi delle tanto agognate malattie esotiche e rare o sconosciute nel corpo considerato infetto del migrante – emerge da parte del personale medico una sorta di disillusione e una conseguente disattenzione nei confronti di chi, dopo tutto, chiede assistenza per mali “banali”: come sottolineava il medico dell’associazione di volontariato, i migranti chiedono assistenza per il raffreddore, su di loro e dentro di loro, non c’è nulla di così interessante da scovare. A volte sono considerati addirittura dei malati immaginari (perché chiedono cure per un semplice raffreddore?). Specularmente, anche gli immigrati rimangono particolarmente delusi dalla cruda realtà che incontrano poco tempo dopo il loro arrivo nel paese ospite: l’ipertecnologia sembra un miraggio, così come l’efficienza delle dell’apparato burocratico, delle strutture e del personale sanitario, spesso incompetente, 107 distratto, ingiusto. Il dubbio, in questa doppia direzione, caratterizzerebbe in modo precipuo questa fase. E’ a questo punto che subentra la fase del criticismo, nel senso di crisi e di criterio (Geraci 2006: 3): gli operatori e, simmetricamente, i migranti subiscono una crisi di fronte alle aspettative disattese, ma proprio per questa ragione sono spinti inevitabilmente a riformulare i propri criteri di giudizio e di analisi. Questa articolazione trifasica trova riscontro anche nel percorso normativo in materia di salute e immigrazione, secondo Geraci e i suoi collaboratori (Geraci 2006), riferendosi al diritto alla salute per gli stranieri invisibile fino al 1998, anno di approvazione del Testo Unico (la Legge Turco-Napolitano che ha cura di specificare che tutti devono poter esercitare il diritto alla salute, a prescindere dalla loro condizione giuridica), frutto di un processo di maturazione che, dagli anni Novanta ha portato al ripensamento delle categorie e all’emersione di un diritto alla salute che fosse più inclusivo. Tuttavia Geraci aveva affrontato questo genere di riflessione, oltre che durante il periodo della comparsa della sindrome negli anni Novanta, anche durante i lustri successivi. L’articolo a cui si è appena fatto riferimento, La sindrome di Salgari…vent’anni dopo, risale al 2006, cioè prima che le leggi sanitarie a tutela degli stranieri subissero una brusca impennata verso l’esclusione e la discriminazione – si potrebbe parlare, a partire dal 2009, di un criticismo nuovo, con risvolti e sfumature più cupi. A mio giudizio, si può pensare al modello interpretativo suggerito da Geraci, Colasanti, Mazzetti e altri colleghi medici delle migrazioni, non come ad un modello superato, date le svolte negative degli ultimi anni, ma ancora molto 108 valido, soprattutto se visto non come uno schema che procede seguendo un andamento di successione cronologica, ma accettando di vedere le varie fasi come molto mescolate fra di loro, pronte a sovrapporsi, senza che vi sia un'unica tendenza generale. Ho ritenuto importante citare il ragionamento proposto da Salvatore Geraci poiché, oltre ad essere stato uno dei principali propulsori di questo lavoro, si adatta e riesce a far luce su molti dati che ho potuto personalmente raccogliere, in ambiente ospedaliero e fuori, in materia di pregiudizio. Come si vedrà, infatti, è possibile conoscere e ascoltare gli interlocutori intravvedendo talvolta dell’esotismo, talvolta dello scetticismo, talvolta del criticismo, come se, più che rappresentare delle fasi in successione cronologica, potessero servire da lenti attraverso cui guardare rappresentazioni e comportamenti. 3.2 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MACRO”: IL DIRITTO ALLA SALUTE IN ITALIA, TRA BUONE INTENZIONI, RIPENSAMENTI E STRATEGIE DI ESCLUSIONE Parlare di pregiudizio come di uno di quegli “strati di ovvietà” (Herzfeld 2006: XXI), implica riconoscerne non solo la pervasività nel quotidiano, ma anche le caratteristiche tipiche di un modello culturale qualsiasi, che per sopravvivere deve essere continuamente rinnovato, ribadito, riaffermato. Solo se continuamente vivificato, ancorché con mezzi impliciti, quel modello può far perdere le tracce della sua artificialità ed essere ciò che incorporiamo, mentalmente e fisicamente. 109 Pur non parlando di pregiudizio, Francesco Remotti (2011a: 291), nel testo citato nel Capitolo I, parla dell’intrinseca fragilità della cultura: Ogni cultura […] esige di essere di continuo riprodotta, rifatta, rieseguita (pena la sua estinzione). L’impressione che ho avuto avvicinandomi alla tematica salute-immigrazione e al relativo pregiudizio nell’ambito sanitario, è infatti che il discorso sul pregiudizio sia qualcosa che si tiene in piedi proprio in virtù della sua continua riproposta e riproduzione in svariati ambienti e situazioni del vivere sociale. Tuttavia, riconosciuto il processo culturale che sta alla base di questo discorso e che lo sottrae al dominio di ciò che è perché “è naturale che sia”, si può trovare il tallone d’Achille del discorso stesso, che si indebolirebbe nel momento in cui si cominciasse a smontarlo pezzo per pezzo. Ma su questo passaggio tornerò in conclusione a questo lavoro, concentrandomi su quella che a me è parsa una via di fuga dall’ovvietà, rappresentata dalla voce dell’“altro”, risorsa importante per far luce su possibili alternative al “sistema”. Il quadro normativo italiano che stabilisce le regole di accesso e fruizione dei servizi sanitari per gli immigrati si presenta altamente instabile e variegato. L’instabilità è dovuta al carattere macchinoso del percorso legislativo in materia di immigrazione, che ha portato ad una presa in carico della questione relativamente tardiva rispetto ai primi flussi dall’estero che negli anni Novanta si erano fatti più consistenti. La sua variegazione è invece dovuta all’irregolarità delle intenzioni e soprattutto delle azioni politiche, che hanno più volte cambiato orientamento e che non hanno saputo mantenere la stessa profondità e costanza 110 nella riflessione sull’assistenza sanitaria allo straniero, dimostrando a tratti la volontà di creare un corpus di leggi improntate all’inclusione, a tratti la precisa volontà di marginalizzare ed escludere dal diritto determinate categorie. Se si considera il pregiudizio come qualcosa di ampiamente supportato dalla cultura nei suoi vari aspetti, si deve tener conto della traduzione del pregiudizio stesso in più linguaggi e su più livelli. Il pregiudizio può essere infatti tradotto e veicolato da leggi e norme (livello “macro”). Gli effetti di tali norme, e del modo in cui vengono formulate, si ripercuotono su coloro che sono incaricati della formazione degli operatori sanitari, e che seguono delle istruzioni più o meno esplicite per attuarle (livello “meso”, in questo lavoro rappresentato dai dati raccolti durante le giornate di formazione per le professioni sanitarie). Le ricadute di un impianto normativo pregiudizievole, nelle intenzioni e nell’espletamento, sono evidenti anche sugli operatori sanitari che si trovano, nel concreto, ad operare una sintesi tra ciò che le linee guida politiche dettano e ciò che i loro formatori propongono e trasmettono. Gli utenti, i pazienti immigrati, che subiscono le conseguenze di un pregiudizio multisituato sono, insieme agli operatori, i due aspetti speculari e complementari del livello “micro”, quello delle relazioni interpersonali e del contatto diretto. Ho ritenuto opportuno dunque far coincidere il livello “macro” di trasmissione ed espletamento del pregiudizio, con le politiche sanitarie. Se si volesse tracciare sinteticamente il percorso normativo sul versante sanitario nel nostro paese, si potrebbe considerare come punto di partenza il periodo degli anni Novanta, e in particolare si potrebbe ricordare il 1995 come l’anno in cui, per la prima volta fa capolino nel contesto 111 politico italiano il tema del diritto alla salute, in modo più concreto rispetto agli anni precedenti, in cui la salute era un diritto per lo più invisibile e ben nascosto per gli stranieri regolarmente presenti (a causa di una miriade di decreti mai convertiti in Legge), o direttamente impossibile da esercitare per gli irregolari. È a partire dagli anni Novanta infatti che, in concomitanza con l’aumento dei flussi migratori verso l’Italia, cominciano a muoversi diversi gruppi, associazioni e organizzazioni sempre più sensibili – e evidentemente più attenti – al fenomeno migratorio e alla possibilità di estendere e garantire pari diritti sanitari per i migranti. Questo è anche il periodo in cui nasce la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, ad indicare un differente approccio alle tematiche sanitarie e politiche nei confronti dell’esperienza migratoria. Le spinte “dal basso” di questo genere di mobilitazioni hanno sottoposto all’attenzione della politica la questione del diritto alla salute per gli immigrati, con un impegno tale da ottenere il sostegno del ministro della Sanità Prof. Elio Guzzanti e da far presentare, nell’agosto del 1995 un Disegno di legge che prevedesse la tutela anche degli stranieri irregolari presenti sul territorio. L’idea di fondo era e rimane, da parte di questi enti promotori e difensori dei diritti fondamentali, la forte convinzione che le restrizioni per la fruizione del diritto alla salute non giovino all’interesse collettivo, e che per salvaguardare il benessere della società intera sia nocivo un atteggiamento discriminatorio. L’impronta di questo messaggio è presente già nell’articolo 13 (poi articolo 11) del Decreto Legge n. 489 del 18.9.1995, Disposizioni urgenti in materia di politica dell’immigrazione, che sancisce il diritto alla salute per tutti gli stranieri, al di là della loro condizione di regolarità o 112 irregolarità di permesso, e non soltanto in casi straordinari (le cure urgenti) ma anche nel diritto alle cure di prevenzione e continuative. Non è questa la sede per dilungarsi sul modus operandi tipico della politica italiana per quanto concerne le questioni relative all’immigrazione – improntate all’“urgenza”, alla risoluzione tempestiva, disordinata. Tuttavia si può ricordare che, nel lessico giuridico, come è noto, una disposizione che prende la forma di un Decreto Legge e non di una Legge vera e propria, indica un provvedimento che vale come legge, ma che è da considerarsi provvisorio e non definitivo, e a cui si ricorre in casi eccezionali. Dopo circa trent’anni dai flussi migratori più consistenti e visibili, l’Italia sembra considerare il fenomeno ancora un’emergenza, e le problematiche annesse delle urgenze a cui ricorrere senza soluzioni sostenibili nel lungo periodo35. Il Decreto n. 489/95, conosciuto come Decreto Dini, dal nome del capo del Governo tecnico allora in carica, venne reiterato per cinque volte ed è continuamente oggetto di dibattito tecnico e politico, un dibattito in definitiva produttivo perché ha permesso di formulare delle politiche sanitarie più adeguate (Geraci 2009): in base a tale provvedimento, l’inclusività diventa la cifra con la quale vengono elaborate e implementate le politiche locali e nazionali. L’articolo 13, ormai diventato articolo 11, scompare quasi improvvisamente dal quadro normativo di fronte all’impossibilità di reiterarlo ancora e alla conseguente sentenza della Corte Costituzionale. Grazie ad un’Ordinanza Ministeriale, viene reinserito grazie all’intervento dell’allora 35 Viene da domandarsi se il fatto di considerare in modo emergenziale un fenomeno stabile non sia anch’essa una strategia politica (negare l’esistenza di qualcosa significa, in fin dei conti, non assumersi la responsabilità di affrontarla). 113 ministro della Sanità on. Rosy Bindi, e la tutele del diritto all’assistenza per tutti viene in questo modo salvato dall’eliminazione. È nel 1997 che prende corpo un importante Disegno di Legge, sotto il governo Prodi, Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero che porterà nel ’98 a emanare il Decreto Legislativo n. 286 del 25.7.1998, il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, che incorpora le disposizioni di quella che era da Disegno di Legge era ormai diventata la Legge n. 40 del 6.3.1998. Il Testo Unico, noto anche come Legge Turco-Napolitano, contiene al suo interno alcuni articoli di fondamentale importanza per quanto riguarda la salute degli immigrati: gli articoli 34, 35, 36 e 42, 43, 44 contengono le norme e i dettagli operativi per regolare l’accesso alle strutture sanitarie e il diritto a ricevere cure sia per gli immigrati regolarmente soggiornanti (art. 34), sia per quelli non in regola con il permesso di soggiorno (art. 35), sia per coloro che fanno ingresso in Italia per sottoporsi a cure mediche. L’elemento che fa intravvedere un’impostazione il più possibile inclusiva per la popolazione straniera è l’estensione del diritto alle cure essenziali ma anche ordinarie e preventive anche a coloro la cui condizione giuridica è di irregolarità o clandestinità. In questa serie di disposizioni è anche segnalato il divieto per gli operatori sanitari di denunciare la condizione irregolare di chi richieda aiuto medico. Si tratta di una fase, come non manca di sottolineare Geraci in più occasioni (2006, 2009, 2012), in cui il diritto alla salute non solo ha acquisito visibilità, ma ha anche potuto consolidarsi, grazie all’azione sinergica della politica e del mondo dell’associazionismo, la cui opera di sensibilizzazione, 114 formazione e informazione era riuscita ad arrivare ai centri di potere più alti. Nell’ottica di rendere più aperte le possibilità di esercitare il diritto alla salute e trasferire nelle politiche contenuti improntati all’equità (la qual cosa non si può invece dire per le politiche riguardanti gli ingressi, le regolarizzazioni e i ricongiungimenti familiari, in cui la restrittività è stata una caratteristica comune ai discorsi e alle proposte dei vari schieramenti politici, a prescindere dal loro orientamento a destra o a sinistra), la Legge n. 40 ha permesso l’avvio di una serie di percorsi di riflessione che ponevano il tema della salute per gli stranieri fra le priorità del Sistema Sanitario Nazionale. Questa fuoriuscita del diritto dalla zona d’ombra dell’esclusione aprioristica, relativa allo status giuridico dei migranti, ha significato un significativo passaggio dall’invisibilizzazione alla visibilità, ponendo al centro dell’interesse politico e sanitario la tutela della persona, come vorrebbe anche l’articolo 13 della Costituzione Italiana, per cui la salute è un “fondamentale diritto dell’individuo”. La Costituzione infatti non opera la distinzione tra cittadini e non-cittadini, dichiarando implicitamente l’intenzione di tutelare la persona al fine di tutelare la collettività. Si tratta di un principio che permette di ridurre la diseguaglianza, secondo una logica non tanto buonista ma ragionevolmente volta ad integrare, per tutelare e per prevenire. Nonostante le buone intenzioni però, le conquiste normative raggiunte fino a questo momento non riescono a farsi strada, per via dell’assenza di percorsi “intelligenti” e lungimiranti, che garantiscano la sostenibilità dei progetti di integrazione, e soprattutto a causa del forte attrito tra le normative di riferimento per la regolarizzazione, che non 115 seguono gli stessi principi tendenzialmente inclusivi delle politiche sanitarie. Queste frizioni vengono esacerbate con le modifiche al titolo V della seconda parte della Costituzione e il relativo effetto dell’articolo 117 della Legge Costituzionale n.3 del 2001, dove si riscontra un’ambiguità di fondo nell’oscillazione tra politiche sanitarie, la cui potestà legislativa spetta alle Regioni (legislazione “concorrente”), e politiche relative all’immigrazione in generale, di pertinenza dello Stato (legislazione “esclusiva”), generando una tensione difficile da sciogliere. politico, che Il decentramento amministrativo e determina una maggiore autonomia e discrezionalità per le Regioni, produce così una situazione estremamente eterogenea negli interventi, ed è molto frequente che la normativa locale arrivi a confliggere con quella statale, determinando disuguaglianze sia per l’accesso ai servizi, sia per il profilo di salute della popolazione immigrata su base territoriale (Geraci 2012). Se infatti le politiche sanitarie locali possono da una parte smussare le politiche nazionali, in genere più rigide, può anche avvenire il contrario, cioè che alcuni enti locali, per allinearsi con la politica statale, decidano di rendere vani e di abbandonare i percorsi intrapresi nella direzione dell’inclusione. Oppure, come capita molto spesso, gli operatori sanitari non sono adeguatamente informati sulla prassi da seguire con stranieri presenti in Italia a vario titolo. La cattiva informazione diventa generatrice di diseguaglianze poiché di fronte all’ignoranza sul da farsi, si sceglie soventemente di non agire affatto, con evidenti e immaginabili ricadute sulla salute per la popolazione straniera. Per fronteggiare questo problema drammaticamente diffuso, durante il corso Immigrazione e salute in una società multietnica ho appreso che di recente è stato stilato un documento indirizzato a tutti 116 gli operatori sanitari, intitolato Indicazioni per la corretta applicazione della normativa per l’assistenza sanitaria alla popolazione straniera da parte delle Regioni e Province Autonome italiane36, allo scopo di evitare che persistano quelle lacune informative che forniscono un alibi all’inazione. Se già nel 2001 il percorso verso maggiori tutele comincia a procedere a singhiozzi, col passare degli anni e delle legislature (si ricorda a questo proposito un’ulteriore svolta negativa, rappresentata dalla Legge 189/2002, la cosiddetta Legge Bossi-Fini, che si ispira a criteri tutt’altro che “morbidi” nella regolamentazione dei flussi e delle permessi di soggiorno), la situazione va aggravandosi, e la salute dei migranti comincia a perdere quella posizione di rilievo che con fatica aveva acquisito in precedenza. Nonostante alcune proposte positive, come quella di Livia Turco di istituire una Commissione Salute e Immigrazione (2006), con l’intento di promuovere gli interventi di prevenzione, incrementare l’accessibilità e la fruibilità dei servizi sanitari e addirittura di contrastare il pregiudizio sanitario nei confronti degli stranieri, l’apparato politico non prende seriamente in carico le questioni sanitarie degli immigrati. Questa stessa Commissione perde valore, si riunisce pochissime volte, non traduce i documenti stilati in atti formali e, per mancanza di fondi assegnati, nel giro di appena due anni cessa praticamente le sue attività. Prima di arrivare al 2008-2009, già segnalato come momento culminante di quella crisi delle politiche sanitarie a tutela degli immigrati, altri segni di disinteresse da parte della 36 Documento realizzato nel giugno 2011, ad opera della Direzione Generale diritto alla Salute e Politiche di Solidarietà e del Coordinamento Interregionale in Sanità, all’interno del Tavolo interregionale “Immigrati e Servizi Sanitari”, con il Coordinamento dell’Osservatorio sulle Disuguaglianze nella Salute (Regione Marche). 117 politica si possono ravvisare nel Disegno di Legge Delega sull’immigrazione (Legge Amato-Ferrero dell’aprile 2007), che contiene pochi riferimenti e dettagli in merito alla sanità, se non un accenno all’inclusione degli stranieri nel Sistema Sanitario Nazionale. Il 2007 è anche l’anno dell’apertura all’Unione Europea per la Bulgaria e la Romania. Non sono stati pochi i problemi relativi, di nuovo, alla scorretta informazione da parte del personale medico-sanitario relativamente ai neocomunitari. A questi ultimi, a livello sanitario, in quanto cittadini teoricamente aventi pari diritti agli altri cittadini europei, sarebbe stata garantita ogni cura necessaria dietro esibizione della tessera TEAM, la tessera europea di assicurazione malattia, in caso di soggiorno di breve durata. Tuttavia, si sono verificati più casi in cui molti cittadini neocomunitari non hanno potuto beneficiare delle cure garantite nella teoria, ma non nella pratica, poiché non in possesso di tale tessera, a causa della loro fragilità socioeconomica. E’ da chiarire inoltre che molti di questi cittadini neocomunitari si sono trovati a viaggiare in Italia non per un breve soggiorno, ma con la prospettiva di rimanere nel nostro paese per una durata maggiore ai tre mesi coperti dalla TEAM. Questo è uno dei tanti paradossi insiti nel legiferare in materia di sanità e immigrazione in generale: alcune norme sono intrinsecamente discriminanti, pregiudicano l’accesso ai servizi di cura e generano l’esclusione dei migranti dall’esercitare i loro diritti, sulla base di cavilli che sembrano appositamente costruiti per lasciar fuori qualcuno. Nel caso dell’Europa, l’ingresso di due paesi come la Bulgaria e la Romania dovrebbe far pensare all’equiparazione dei diritti e dei doveri degli altri stati comunitari. Tuttavia, il linguaggio delle politiche e i loro contenuti fanno comprendere molto 118 bene che la salute è un bene comune ad alcuni soggetti e categorie, e che qualcuno è “meno uguale” di qualcun altro. Non a caso, come ho notato presso diversi miei interlocutori, l’etichetta di “extra-comunitario” viene ancora applicata ai migranti provenienti dalla Romania o dalla Bulgaria, ignorando del tutto la possibilità di definirli membri comunitari quanto un cittadino italiano. In definitiva, anche nel caso dei neocomunitari, la mancanza di informazioni adeguate ha portato nuovamente a grandi discrezionalità da parte degli operatori sanitari. Dalle buone intenzioni, si è dunque passati ai ripensamenti, alla confusione e alle incertezze e, in ultimo, al diniego del diritto alla salute, che è coinciso in modo evidente con l’emanazione del “pacchetto sicurezza” e del conseguente clima di criminalizzazione contro la popolazione immigrata. Come si diceva nel paragrafo 3.1, la cancellazione della norma di divieto di segnalazione che era stata introdotta nel Testo Unico del 1998, poi sventata solo grazie ad una ingente mobilitazione di protesta che i dirigenti politici non hanno potuto ignorare, ha creato un clima di incertezze che è perdurato anche molto oltre la definitiva approvazione della norma, che lasciava per lo meno invariato il divieto di segnalazione. I timori per il rischio della denuncia non sono scomparsi e per un lungo periodo, fino ad una circolare del Ministero dell’Interno, sul finire del 2009, che ha fatto chiarezza sul divieto di segnalazione salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto (per le azioni delittuose perseguibili penalmente), la confusione è stata grande tra operatori, che non sapevano in che direzione muoversi, e utenti, che hanno preferito rinunciare all’assistenza medica per non correre il rischio di essere denunciati. 119 La grave ambiguità era in questo caso determinata dalla doppiezza della norma, volutamente poco chiara, sul divieto di denuncia in caso di irregolarità e la coincidenza dell’irregolarità stessa con un azione punibile secondo le prescrizioni del diritto penale. L’aspetto più inquietante della norma è infatti rappresentato dall’equiparazione di un reato amministrativo (la scadenza o la non regolarità di un documento di ingresso e soggiorno) ad un reato penale (come un omicidio, un atto di violenza e via dicendo). Se si volesse indicare un luogo fisico in cui questa nefasta coincidenza e commistione categoriale prende forma, si potrebbe pensare ai CIE, i Centri di Identificazione ed Espulsione che raccolgono soggetti la cui irregolarità di soggiorno è stata rintracciata dalle autorità, e la cui detenzione arriva ai 18 mesi, la stessa prevista per gli indagati per associazione mafiosa, sequestro di persona, pornografia e violenza sessuale (Geraci 2012). In questo senso, questi centri di detenzione, possono essere visti anche come una sintesi concreta di ciò che Alessandro Dal Lago chiama “la ridefinizione neorazzista dell’immigrato” (1999: 95), per la quale l’appartenenza etnica collima con la delinquenza. Ritornando di nuovo al commento di apertura al paragrafo 3.1, del degrado morale di un quartiere e di una società intera, la responsabilità e la colpa ricadono interamente sull’immigrazione. Non esistono distinzioni tra stranieri, stranieri irregolari e criminali. Non si tiene conto del fatto che con un permesso di soggiorno in scadenza si può passare dall’oggi al domani da una condizione di regolarità ad una condizione di invisibilità giuridica, e di precarietà estrema dovuta alla perseguibilità penale. Ma la complessità delle singole situazioni non è compresa nello sguardo pregiudizievole, che azzera qualsiasi dislivello e riduce il migrante a una sola dimensione, in 120 questo caso quella del criminale, che assume qualità estremamente elastiche, in grado di abbracciare i soggetti migranti che si trovano nelle condizioni più svariate. Nel 2009, con l’emanazione del “pacchetto sicurezza” il pregiudizio coltivato (e la cultura in effetti si coltiva e va coltivata, come indica l’etimo latino della parola: colere, coltivare) dall’inizio degli anni Novanta sembra aver preso una forma concreta. Tutti i timori legati alla sicurezza, alla difesa del proprio territorio e aggiungerei, per quanto riguarda la salute, delle proprie risorse e dei propri servizi, da elementi minacciosi e degradanti, ricevono con questa normativa una degna risposta. Il senso comune più pernicioso, quello secondo il quale migrante è rappresentato quotidianamente come una minaccia o come un peso insopportabile, ha trionfato nel momento in cui la politica ha dimostrato il suo disinteresse, ha rinunciato a fare dell’esperienza migratoria una questione seria (non un “problema” serio), in base alla quale riorganizzare il dibattito politico e le relazioni tra i membri di una collettività più estesa e composita. Il senso comune, nella rappresentazione degli immigrati come pericolosi, scomodi, o disgraziati, si rafforza anche grazie a quelle ambiguità normative, a quei percorsi pieni di buone intenzioni ma non sostenute nel tempo e non rese pratiche. Le ambiguità generano confusione e sembrano diventareuna strategia politica. E in questo si rivede ciò che alcuni anni fa scriveva Dal Lago, a proposito del doppio gioco delle società di immigrazione: […] la durezza delle norme contro i clandestini e l’accettazione di un certo afflusso di migranti, la coesistenza di esclusione e ideologia del multiculturalismo, di negazione dei diritti e di esaltazione della diversità 121 culturale, di ossessione per il controllo degli stranieri e di tolleranza del lavoro nero (1999: 46-47). Il contesto sanitario è da intendersi come uno dei settori della società dove agisce il procedere paradossale del senso comune, prima elevato a norma giuridica e poi trasformato in slogan politico. È interessante notare come, in ambito sanitario, trovino un canale concreto di sfogo molte delle paure che già prendevano forma intorno alla figura dell’immigrato nei primi anni Novanta. La visione dello straniero come potenziale criminale ha assunto una forma legittima con l’entrata in vigore del “pacchetto sicurezza”, che ha cancellato la distinzione fra il reato amministrativo (l’irregolarità dei documenti di soggiorno) e il reato penale. Anche in ambito sanitario, l’immigrato continua ad essere visto come un pericolo pubblico, poiché viene rappresentato come potenziale e principale vettore di contagio. Come si vedrà nell’analisi dedicata alle voci degli interlocutori dell’ambiente ospedaliero, il timore del contagio è strettamente attinente alla pratica infermieristica, che prevede una serie di accorgimenti e l’utilizzo dei dispositivi di sicurezza come guanti e mascherine. Tali dispositivi sono adoperati anche per evitare che il contagio passi dall’operatore al paziente e dunque, in generale, garantiscono bidirezionalmente una protezione, tanto all’utenza, quanto alle professioni sanitarie. L’aspetto interessante nell’uso di queste protezioni si coglie quando sono arbitrariamente utilizzate nei confronti di utenti stranieri, come ho avuto occasione di notare durante alcune osservazioni in Pronto Soccorso. In questo senso, il naturale timore di contagiarsi per uno schizzo durante un esame di routine in ospedale può venire amplificato nel momento in cui, sinergicamente, 122 agiscono i rappresentanti politici con le loro dichiarazioni a effetto e i media con la loro tempesta di messaggi allarmistici. Nel 2006 il ministro Amato dichiarava, sollevando immediatamente molte reazioni indignate da gran parte del personale esperto di medicina delle migrazioni, che Non è possibile eliminare i CPT e lasciare per strada chi sbarca perché c’è un’emergenza sanitaria con casi di lebbra, TBC e scabbia. O ancora, su un’altra testata nazionale: Non possiamo mica lasciare su una strada chi sbarca da un barcone. Li dobbiamo accogliere. E li dobbiamo anche visitare. Sono un pericolo sanitario. Serve una verifica. È gente povera che viene da Paesi poveri, dove la sanità è modesta e dove ci sono malattie come la scabbia o la tubercolosi.37 Anche questa dichiarazione è colma di luoghi comuni. Se ne possono cogliere di almeno tre ordini: gli immigrati sono dei disperati che giungono nel nostro paese solo per mare, con mezzi di fortuna; è gente esclusivamente povera; provoca emergenze sanitarie perché porta entro i nostri confini quelle malattie tanto temute di cui noi non abbiamo neanche più memoria. Gran parte dei migranti raggiunge il nostro paese anche via terra (un immigrato dall’Europa dell’est non troverà più comodo spostarsi via mare); colui che migra ha in genere i mezzi economici necessari per affrontare le spese di viaggio, molto onerose e in ultimo deve poter godere di buona salute per affrontare le fatiche dello spostamento e quelle di adattamento nel contesto di approdo. 37 Le dichiarazioni sono comparse rispettivamente sul Corriere della Sera e sul quotidiano La Stampa, il 28 settembre 2006 (corsivi miei). 123 Ma la gravità maggiore di questa dichiarazione risiede nell’aver la presenza di un’emergenza sanitaria. La definizione di tale fenomeno rimanda a una condizione di pericolo abnorme per un esteso numero di persone e che richiede interventi immediati, cosa che non accade se non molto di rado, per le ragioni spiegate nel paragrafo che tratta della sindrome di Salgari. Usare espressioni di una simile gravità senza la coscienza del loro significato è un atto estremamente grave, che devia l’attenzione del cittadino e dell’operatore sanitario verso problemi inesistenti e giustificare in questo modo altre azioni politiche – in quel caso la permanenza dei Centri di permanenza temporanea come la “miglior” soluzione ai flussi migratori. Le conseguenze di tali affermazioni, prodotte dai politici e suffragate dai media, sono la perpetuazione di quell’immaginario con cui l’“altro” è pensato e visto, peraltro già connotato negativamente, a cui semplicemente si continuano ad addossare caratteristiche intollerabili. L’“altro” viene rappresentato come l’elemento di disturbo, che si infiltra nel corpo sociale, disgregandolo, e nel corpo fisico, contagiandolo. Le reazioni che questi messaggi istigano sono quelle o di repulsione o di un’“accoglienza” viziata dal pregiudizio. L’“altro” viene allontanato o isolato o, in alternativa, sopportato o tollerato. Il pregiudizio che si riscontra in ambito medicosanitario diventa una metafora con cui leggere e con cui spiegare il modo in cui l’esperienza migratoria è vissuta e affrontata dalla società. I livelli sui quali il pregiudizio si dispiega sono infatti strettamente intrecciati fra loro, rappresentano cause ed effetti di una stessa retorica continuamente riproposta e riaffermata. 124 Da parte della politica e dei media, lavorare sulla paura, sulla creazione di un clima di tensione, sociale e sanitaria, diventa una strategia di grande efficacia. È opportuno riproporre a questo proposito un processo sociale di senso comune che Dal Lago ha definito “tautologia della paura” (1999), che si adatta molto bene a questo modellarsi e assestarsi l’uno sull’altro dei vari piani di azione del pregiudizio, dall’ambito politico a quello sanitario. Secondo Dal Lago infatti la semplice enunciazione dell’allarme (nel caso delle dichiarazioni del ministro Amato l’“emergenza sanitaria” degli immigrati che sbarcano sulle nostre coste) dimostra la realtà che esso denuncia (1999: 73). Ciò significa che benché falsa o assolutamente improbabile, una situazione definita come reale, diventa reale nelle sue conseguenze38. Nel processo di elaborazione dello scenario di pericolo rappresentato dagli immigrati, questi rappresentano la risorsa simbolica a cui attingere in primo luogo. La definizione soggettiva dei cittadini – del loro timore – assume una prima forma oggettiva con i media, a cui segue una trasformazione della risorsa simbolica in frame dominante, successivamente riconfermato dai cittadini. Le misure legislative rese operative dai politici confermano a loro volta quel frame dominante (1999: 74-75). Anche in ambito sanitario, produrre paura è un mezzo funzionale a creare consenso e legittimità per l’adozione di misure marginalizzanti e discriminanti. Non solo. Le norme che estromettono i migranti dalla corretta ed equa fruizione dei servizi sanitari godono della soddisfazione generale proprio in virtù della paura da un lato e del fastidio dall’altro, generati da quegli elementi scomodi che minacciano l’integrità del corpo sociale (invadono il paese e, nello 38 Si tratta del famoso teorema di Thomas della definizione della situazione (1918; 1969), ripreso anche da Dal Lago (1999). 125 specifico, invadono gli ospedali creando disordine e confusione) e del corpo fisico (è giusto isolarli perché vicino a loro incorriamo maggiormente nel rischio di contagio di malattie pericolose)39. Attraverso questi meccanismi si crea una precisa immagine dell’“altro”, un “altro” che però rimane travisato e misconosciuto, invisibile nella sua complessità, ma paradossalmente riconoscibile ed identificabile attraverso caratteristiche negative. Ancora zoo umani (Blanchard 2000). Riesaminando le macrosequenze del percorso normativo sanitario si assiste esattamente ad un processo di invisibilizzazione dell’“altro” nelle sue caratteristiche di persona40. L’“altro” è visibile per le sue caratteristiche “etniche”, in primo luogo, dalle quali emerge un’inconciliabile diversità somatica, linguistica e di costume, e una diversità anche nella malattia. Si segue, in questo senso, la logica dicotomica noi/altri, e il ragionamento che ne deriva, conduce a concludere che se “loro” sono diversi, si ammaleranno in modo diverso. Per precauzione, nel 1990, l’incarico ministeriale di verifica e controllo delle condizioni di salute della specie “aliena” veniva affidata anche ad un veterinario. È visibile per le sue caratteristiche sociali, dove la sua immagine viene quasi sempre riferita all’approfittatore, al peso gravoso di cui la società deve farsi carico senza alcun vantaggio, rischiando anzi di incorrere nel pericolo di emergenze sanitarie. Queste osservazioni – sia quelle dedicate ai “primordi” della costruzione dell’immaginario e del pregiudizio verso l’“altro”, nei capitoli precedenti, sia quelle ora dedicate alla 39 Queste dichiarazioni fra parentesi sono le sintesi delle dichiarazioni degli infermieri intervistati nei Pronto Soccorso di riferimento della ricerca. 40 Cfr. Capitolo I. 126 pervasività di quel pregiudizio nel sistema normativo e politico italiano in materia sanitaria – sono utili per la comprensione dei paragrafi successivi. Verrà infatti presentata, su altri livelli, la perpetuazione e il ripristino continuo del pregiudizio, funzionale alla sua sopravvivenza e resistenza come vero e proprio sistema culturale, incorporato e agito. 3.3 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MESO”: LA FORMAZIONE ALLE PROFESSIONI SANITARIE Partecipare ad alcune giornate di formazione per le professioni sanitarie è stata una scelta principalmente dettata dalla necessità di sondare un terreno intermedio fra i dettami degli ordinamenti giuridici e le linee guida politiche e l’operato concreto degli infermieri. Avevo già cominciato a raccogliere interviste e a fare osservazione in Pronto Soccorso, ma era diventato utile sapere in che misura gli atteggiamenti e i comportamenti degli interlocutori che avevo incontrato, come probabilmente quelli che non ho raggiunto, fossero determinati tutti da “spontanee” reazioni ai messaggi politici e mediatici oppure se fossero in qualche modo incoraggiati anche da coloro che sono incaricati della loro formazione professionale. Da molto tempo la professione infermieristica prevede, negli stessi percorsi formativi, universitari ed extrauniversitari, precisi spazi di approfondimento legati alla dimensione relazionale nel rapporto con il paziente. Sono anche previsti, fra gli insegnamenti dei corsi di laurea in Scienze infermieristiche, lezioni di Antropologia culturale, Sociologia e altre discipline che sensibilizzino gli aspiranti 127 operatori a interpretare la cura come qualcosa di strettamente legato alla sfera culturale, e a vedere la persona stessa nella sua complessità biologica ma anche sociale. Le giornate di formazione a cui ho assistito, organizzate dall’A.O.U. San Giovanni Battista di Torino, erano rivolte a tutte le professioni sanitarie, anche se di fatto la maggioranza dei partecipanti era specificamente composta da infermieri. I temi affrontati erano di estrema attualità, come specificato nel Capitolo II. Il titolo stesso, Immigrazione e salute in una società multietnica, rimandava ad un dibattito che investe ogni settore della vita pubblica, oltre a quello sanitario, e di cui tutti hanno una evidente percezione ed esperienza, più o meno diretta. Più che mimetizzarmi fra il pubblico, mi sono resa praticamente invisibile – la qual cosa non era certo difficile, essendo stata presentata dagli organizzatori come uditrice esterna: tutti sapevano che non ero medico o infermiera, e dunque non mi hanno molto considerato; da parte mia, dovevo e volevo stare attenta a non espormi più di tanto, per evitare che la mia presenza diventasse ingombrante . Senza poter intervenire, mi sono limitata ad annotare ciò che ascoltavo e vedevo, restringendo le mie possibilità di interazione con relatori e discenti nelle pause pranzo e nelle pause di metà mattinata. Durante le giornate di formazione, avevo organizzato le note in modo tale da poter riconoscere, a posteriori, chi pronunciava le dichiarazioni che trascrivevo, distinguendo tra il pubblico e i formatori con colori diversi, e inserendo una terza sezione fra gli appunti dedicata ai miei commenti e impressioni personali. Questi ultimi rappresentavano i miei interventi, quelli che avrei voluto fare ad alta voce e che sono rimasti muti, almeno finora. 128 L’impressione personale che ho avuto al termine di queste giornate è che il senso comune abbia avuto un peso molto rilevante all’interno di questo specifico contesto formativo. Nonostante alcuni interventi significativi, che hanno rappresentato quel dubbio, quell’elemento di discussione, nelle persone di due membri della SIMM, tra cui Salvatore Geraci, gli altri relatori hanno a mio giudizio riproposto e vitalizzato quella logica che non ci allontana dal pregiudizio, e che al contrario contribuisce a sostenerlo. È molto importante sottolineare che la formazione presa in esame è un esempio di come una cultura del pregiudizio possa essere alimentata anche da chi si dice “esperto” di tematiche interculturali. Ma tengo molto a precisare che le obiezioni e rimandi che sono presenti in questo paragrafo sono indirizzati a ciò che personalmente ho visto ed ascoltato. La condanna non è qui rivolta ai singoli, che peraltro fanno parte di un caso circoscritto. Ho potuto tuttavia cogliere dei rimandi a quel sistema che incoraggia un modo di vedere e di pensare l’intercultura che non focalizza l’attenzione sulla complessità, ma che si adagia sulle ipersemplificazioni e riproduce in certa misura quelle dinamiche “patologiche” che generano incomprensione ed esclusione. L’incapacità di contrastare quella logica dicotomica che distingue “noi” da “loro” anche nei contesti di cura e assistenza sanitaria da parte dei responsabili della formazione che ho incontrato, è stato perciò motivo di profonda riflessione, e talvolta di grande insofferenza nel dare per scontate molte ovvietà del senso comune, che creavano consenso generale senza che fossero messe in discussione. 129 In ambito sanitario, ci si sta muovendo, negli ultimi anni, verso la formulazione di un programma formativo che tenga in considerazione l’importanza delle scienze sociali e delle discipline che esulano dal campo strettamente medico ma che ad esso sono connesse. L’idea di promuovere un corso rivolto alle professioni sanitarie che avesse come oggetto la questione dell’immigrazione rappresenta infatti la volontà di confrontarsi sulla dinamicità e sulle nuove esigenze della realtà sanitaria. E la partecipazione da parte degli operatori a queste giornate è evidentemente mossa dall’esigenza di approfondire tematiche interculturali e rispondere a problemi di natura pratica che si riscontra nei contesti di cura. Inoltre, per la formazione delle professioni sanitarie, si coinvolgono sempre più antropologi o sociologi, ad indicare una crescente apertura verso settori disciplinari che possono offrire alcuni suggerimenti per interpretare e migliorare il rapporto con l’utenza. Rispetto a ciò che ho avuto modo di ascoltare, tuttavia, ho colto alcuni elementi che a mio giudizio andrebbero rivisti e riformulati, muovendosi sempre di più nella direzione del coinvolgimento di strumenti e approcci di stampo antropologico per far fronte a necessità umane e culturali, in parallelo con quelle mediche. Lo scopo di questa interdisciplinarità potrebbe essere individuata proprio nel concorso allo sradicamento dei pregiudizi più comuni, che se riproposti anche in ambito formativo, possono portare a riprodurre scenari semplificati e a fornire indirettamente degli argomenti che giustificano le disparità nel trattamento dell’utenza straniera. In sintesi, queste giornate di formazione, a mio giudizio, hanno rappresentato un’occasione mancata per 130 riportare su un piano realmente critico e costruttivo le discussioni in materia di intercultura. Durante il corso di formazione che ho seguito, il momento culminante delle retoriche del pregiudizio in ambito sanitario, ho trovato che sia stato toccato durante la giornata dedicata alla trattazione di Mutilazioni Genitali Femminili, un argomento particolarmente delicato che per molti rappresenta l’emblema dell’irriducibile lontananza tra “noi” e “loro”. Alcuni commenti significativamente viziati dalla logica della differenza inconciliabile con l’“altro” provenivano dal pubblico, ma venivano confermati e sottoscritti dalla formatrice. L’impressione, alla fine di quella lezione, era quella di aver assistito ad una chiacchiera da bar, trasposta in un’aula universitaria. Il senso comune e i luoghi comuni, cioè letteralmente sentiti come comuni, hanno creato, nel gruppoclasse e con l’insegnate, una solidarietà e una coesione che non ho percepito così fortemente anche durante gli altri incontri. Al solo pronunciare il titolo della relazione, “Mutilazioni genitali femminili (MGF)”, le reazioni del pubblico si dividevano tra chi liquidava la pratica come barbara e chi proponeva drastiche soluzioni alternative, come ad esempio il taglio degli organi sessuali esterni maschili ai soggetti responsabili di quelle atrocità. A questi commenti non è stata immediatamente opposta, da parte della formatrice, alcuna azione correttiva, spiegando ad esempio che la pratica viene eseguita in genere da donne e che gli uomini spesso hanno un potere decisionale relativamente limitato in merito alle operazioni, o che prima di giudicare barbaro tale costume (proponendo peraltro, per contrastarlo, una “punizione” decisamente cruenta), sarebbe possibile fare 131 riferimento agli interventi di chirurgia plastica a cui ci si sottopone nel mondo occidentale, spesso altrettanto invasivi e permanenti. I commenti inferiorizzanti degli operatori e i supporti da parte della formatrice hanno permesso ai luoghi comuni di cadere “a cascata” nell’aula, e la discussione, basata su dicerie piuttosto che su dati concreti e approfondimenti, si è protratta per l’intera mattinata. Riporto alcune frasi emblematiche degli operatoridiscenti: Ma perché nella loro cultura il piacere femminile è vietato? Le donne di lì non capiscono che è un’aberrazione?. Il discorso, come mostra questa frase, presa ad esempio tra le tante, verte esclusivamente sul piacere femminile, ignorando completamente la funzione sociale dell’operazione, senza anche solo suggerito il dubbio che si tratti di qualcosa di più complesso da spiegare e da cogliere. La donna è vista come se fosse l’oggetto di un atto vandalico sul suo corpo, di cui nemmeno è consapevole, e che non possiede i mezzi (intellettuali? culturali? cognitivi?) per comprendere. È la donna che subisce…quello è solo un modo per tenerla sotto controllo, è solo per quello La donna, che il senso comune vuole emancipata in Occidente e frustrata e repressa nella sua femminilità nel resto del mondo, è qui privata della sua agentività, e vista come soggetto passivo sottomesso al potere e all’abuso maschile. 132 Ma la cultura araba è così, è quella che tratta le donne in modo meno equo. Ogni cultura ha le sue usanze, ma quella araba tratta le donne peggio di altre…io vorrei proprio capirne di più perché in questo sono poco elastica. La pratica delle MGF viene etnicizzata e ricondotta all’interno di confini nazionali e culturali, ignorando che si tratta di una pratica trasversale a più aree geografiche diverse, e indipendente dai dettami religiosi. Di nuovo si sposta l’attenzione verso la presunta inferiorità della donna, e verso la sua passività in contesti culturali non-occidentali. E, improvvisamente, si finisce col parlare dell’usanza di indossare il burqa, la cui unica pertinenza nel discorso che in quel momento andava sviluppandosi, era quella di essere anch’esso un tema inflazionato e ridotto a luogo comune che indica la presunta sottomissione della donna in alcuni contesti culturali. La confusione, la cattiva informazione, insieme alla reazione debole e accomodante da parte della formatrice, ha reso quella che doveva essere un’aula di formazione, un laboratorio di luoghi comuni. Dalla docente giungono altre dichiarazioni riduttive: Chiamiamole pratiche tradizionali…è comunque una forma di controllo, e sono eseguite dalle santone dei villaggi. “Pratiche tradizionali” diventa sinonimo di arretratezza, una leggera giustificazione ad un atto considerato aberrante, funzionale alla sottomissione della donna, secondo il classico luogo comune già emerso. Le santone dei villaggi sono figure non ben identificate, ma che tutti conoscono o per lo meno riconoscono nell’iconografia di un immaginario dell’alterità, in stile “salgariano”. 133 Infine, la classificazione delle MGF viene interpretata in modo difforme dalle intenzioni con cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha voluto presentarla di recente (2008): (Proiettando una slide con la classificazione delle MGF dell’OMS) Vedete, la prima cosa che fanno è l’ablazione del clitoride, come a dire: “Prima ti privo del piacere”, e poi tutto il resto, le fanno la seconda operazione, la terza, eccetera. La classificazione dell’OMS ha suddiviso in quattro tipi gli interventi effettuati sugli organi sessuali femminili: il primo tipo comprende l’escissione, con o senza asportazione totale o parziale della clitoride; il secondo tipo l’escissione della clitoride con totale o parziale asportazione delle piccole labbra; il terzo tipo rinvia invece alla rimozione totale dei genitali esterni e al restringimento dell’apertura vaginale o sutura (infibulazione). Il quarto tipo è “misto” e comprende una serie di interventi non ascrivibili alle prime tre categorie, alcuni dei quali diffusi anche in contesti occidentali, come ad esempio il piercing. Presentata come nella citazione, sembra invece essere una successione cronologica degli interventi, che muove da quelli meno cruenti a quelli più invasivi. Quella che è una distinzione in categorie, diventa una sequenza di fasi cronologiche, e l’interpretazione finale ne risulta pertanto stravolta. La discussione sulle MGF segue le dinamiche confuse delle libere associazioni di idee, delle sentenze per luoghi comuni, e delle conseguenti mistificazioni dei significati. Ma mette indubbiamente tutti d’accordo. I dati presentati sulle conseguenze sulla salute delle donne che hanno avuto esperienza di tali pratiche, sembrano la riprova che si tratti di azioni meritevoli delle peggiori condanne. 134 Ma purtroppo, quando non conoscono altro…Purtroppo in quei paesi la donna non ha voce in capitolo…Mi auguro che tra cent’anni quelle cose non si pratichino più in quei paesi. Di nuovo si offre una giustificazione alla “barbarie” sulla base della mancanza di alternative, trasmettendo ancora una volta il messaggio secondo il quale le donne non hanno scelta, nel senso che sono ignoranti o semplicemente ottuse. La conclusione di sapore evoluzionista pone fine alla trattazione dell’argomento: si spera che un giorno, evidentemente ancora molto lontano, loro capiranno la gravità e l’oscenità della loro barbarie e vi rinunceranno. La formatrice addetta alla trattazione delle MGF, nei loro aspetti “culturali” e sanitari, aveva aperto l’incontro sostenendo la delicatezza dell’argomento e asserendo che il tema il tema avrebbe scatenato, come solitamente accade, un acceso dibattito. La percezione che invece ho avuto durante quell’incontro era esattamente opposta. Il dibattito non è mai stato aperto, dal momento che ognuna delle parti coinvolte (docente e discenti), partiva dagli stessi presupposti, e giungeva alle medesime conclusioni. Le dichiarazioni qui riportate forniscono delle indicazioni di come i processi di riproduzione e riproposta del pregiudizio siano drammaticamente presenti anche negli ambienti di formazione. Si divide nettamente il “noi” dal “loro” (e si tratta di un’effettiva dicotomizzazione, che separa “noi” dal resto del mondo), e si procede con le ipersemplificazioni, ignorando la possibilità di valutare il fenomeno preso in considerazione nella sua complessità. Se si legge uno dei Pareri del Comitato Nazionale per la Bioetica in merito alle MGF, si conferma il funzionamento 135 della retorica differenzialista, di cui la formatrice qui presa in esame non è che portavoce, e che gli operatori iscritti al corso di formazione, possedendo le stesse argomentazioni, sostengono con soddisfazione. Il CNB è ben consapevole del rispetto che è doveroso prestare alla pluralità delle culture, anche quando queste si manifestino in forme estremamente lontane da quelle della tradizione occidentale, e del gran valore del giusto confronto con la diversità culturale, che è oggetto di continuo studio. Ritiene non di meno - e consapevolmente contro il parere di pur illustri antropologi - che nessun rispetto sia dovuto a pratiche, ancorché ancestrali, volte non solo a mutilare irreversibilmente le persone, ma soprattutto ad alterarne violentemente l'identità psico-fisica, quando ciò non trovi una inequivocabile giustificazione nello stretto interesse della salute della persona in questione. E' evidente che le pratiche di circoncisione femminile non sono poste in essere per ovviare a problemi di salute né fisica, né psichica delle donne che le subiscono, anzi esse comportano gravi conseguenze negative sulla salute delle donne che ad esse vengono sottoposte. Il CNB non può quindi che ritenerle eticamente inammissibili sotto ogni profilo ed auspicare che vengano esplicitamente combattute e proscritte, anche con l'introduzione di nuove, specifiche norme di carattere penale41. Già a partire dalla prima frase riportata in questa citazione è riscontrabile quell’atteggiamento di malcelata superiorità tipico di chi si sforza di tollerare qualcosa di inammissibile. Quasi a dire che il confronto con la “diversità” è giusto, a patto che non sia “troppo diversa” e a meno che non sia troppo refrattaria a rientrare nei parametri di legittimità che noi stabiliamo. Ma il rispetto che si riserva solo a ciò che non è considerato troppo lontano, che genere di rispetto è? 41 Comitato Nazionale per la Bioetica, Presidenza del Consiglio dei Ministri – La circoncisione: profili bioetici, 25 settembre 1998 (corsivo mio). 136 Nessun accenno alla possibilità di conoscere a fondo, nessun tentativo di comprendere. Sembra tutto talmente chiaro, inoppugnabile ed evidente, che non necessita di spiegazioni e approfondimenti. In un linguaggio sicuramente più formale, il Parere illustre del Comitato Nazionale per la Bioetica esprime ciò che la formatrice e gli operatori sanitari presenti alla lezione dichiaravano in toni più colloquiali. In questo genere di dichiarazioni, il relativismo culturale, un presupposto fondante dello sguardo antropologico, viene confuso con relativismo morale o con giustificazionismo. Da relativisti allora si diventa qualunquisti, non riconoscendo che la differenza non sta nel risultato ma nell’approccio, un approccio più critico verso le istituzioni culturali e sociali e volto a riconoscerne la processualità storica e contestualizzata che le ha prodotte. Contrariamente a quanto si può pensare il tipo di relativismo sostenuto dagli antropologi si riferisce soprattutto ad un approccio epistemologico alla realtà, che parte da un riconoscimento della particolarità dei sistemi culturali umani, e dal presupposto che “tutte le manifestazioni culturali hanno significato e validità soltanto all’interno del loro contesto”.Non si tratta, dunque, di un’affermazione acritica di equivalenza fra tutti i sistemi di valore, ma di un’attenzione per il particolare a partire dalla quale muoversi verso l’abbattimento dei postulati etnocentrici e verso il riconoscimento di una pari dignità fra le diverse società umane (González Díez, Vargas Montoya 2007: 87). Si tratta del lavoro esattamente opposto del pregiudizio, in questo caso specifico di quel pregiudizio che deplora, in nome di una visione universalistica, ogni pratica che non rientri nei parametri stabiliti dall’Occidente in materia di diritti umani. Anche in questo caso, la base su cui il pregiudizio si fonda e può operare è la sua capacità di porsi 137 come certezza autoevidente, che si autoconferma e si autocompiace, che non contempla di essere rivisitata e ridiscussa. Ciò che viene di nuovo dato per scontato è una diversità che presentata piuttosto come un’inconciliabilità culturale, e così descritta diventa un problema senza molte possibilità di soluzione. Una lezione intera è stata dedicata a mostrare, attraverso statistiche, grafici a torta e istogrammi, l’eterogeneità della popolazione straniera in Italia, per invitare il pubblico a prendere atto del fatto che gli immigrati non sono tutti uguali. Alla fine della lezione, ognuno aveva avuto l’ennesima conferma che gli immigrati fossero molto diversi da noi, e che, cosa ancora più complicata da sostenere, fossero molto diversi tra loro. Si parlava a questo proposito del bisogno di mediazione culturale, anch’essa fraintesa spesso come mera traduzione linguistica. Le domande più frequenti del pubblico ai formatori, una volta visualizzato il quadro estremamente variegato delle provenienze della popolazione immigrata, vertevano sulle possibili strategie da adottare di fronte a tanta diversità. Non è certo possibile, si diceva tra il pubblico, conoscere tutte queste “culture”. Cultura e lingua arrivavano a coincidere quando si parlava di mediazione, secondo il luogo comune per cui ogni migrante sarebbe il rappresentante della cultura d’origine e che questa si potesse ricondurre ad una questione linguistica. Io come faccio a conoscere tutte queste culture e tutte queste lingue? Era quello che si mormorava tra il pubblico dei discenti. Un grosso problema, in effetti. È praticamente impossibile conoscere tutte le lingue del mondo, così come è 138 impossibile avere una conoscenza antropologica approfondita dei vari contesti sociali da cui i migranti provengono. Rimaneva pertanto, a fine lezione, lo spaesamento di fronte ad una complessità incontrollabile e inafferrabile, al quale purtroppo non ho visto suggerire nessuna soluzione. Ma non si tratta forse di un falso problema? Perché i formatori, mi sono chiesta, non sono intervenuti per concentrare l’attenzione dei discenti sulla necessità di applicare con l’utenza delle strategie d’ascolto trasversali alle provenienze del singolo? Proprio la sfera della salute potrebbe essere un terreno di mediazione reale che vada oltre l’etnicizzazione, un luogo in cui poter sperimentare il confronto non tanto basato sulle ideologie della tolleranza o del rispetto a tutti i costi, ma un confronto meno condizionato dal pregiudizio che oppone “noi” a “loro”, che colga le differenze individuali prima che culturali, e che al contempo non trasformi la diversità in ossessione. In materia di bisogni collettivi, come quello della salute e del benessere, perché non provare a cogliere una maggiore somiglianza, piuttosto che una paralizzante differenza? Un lavoro di comunicazione interculturale dovrebbe convertire la differenza in risorsa, e sciogliere i nodi che portano invece a fare di quella differenza una barriera insormontabile per la relazione. Non mi è sembrato che questa fosse un’idea condivisa, e tanto meno presa in considerazione, come si evince da un altro esempio. Durante un incontro dedicato a spiegare il funzionamento dei centri I.S.I42, venivano presentate da due 42 Si tratta dei Centri Informazione Salute Immigrati, predisposti per rispondere ai bisogni sanitari degli stranieri temporaneamente presenti sul territorio (S.T.P.), non iscrivibili al Servizio Sanitario Nazionale. Per quanto riguarda il funzionamento dei Centri dislocati sul territorio piemontese, si rimanda al sito web della Regione Piemonte 139 formatori alcune caratteristica slide esplicative particolare: nei che avevano titoli una occorrevano continuamente vocaboli come “problema”, “problematica” (per esempio: “Le problematiche sanitarie dei cittadini stranieri: presentazione del problema”). Si tratta di suggestioni, che tuttavia, nell’insieme, creano un certo tipo di visione e di approccio al fenomeno. Gli stranieri sono dunque un problema, a cui ci si deve sforzare di porre rimedio. Si parlava di disomogeneità del fenomeno migratorio, ma non si sollevava la proposta di costruire dei linguaggi trasversali in grado di cogliere l’essenziale, al di là delle “differenze culturali”, si parlava di problematiche relative agli stranieri, ma non si affrontava, ad esempio, la questione delle problematiche relative al sistema di accoglienza, ciò su cui invece potrebbe essere condotto un effettivo riesame. Riflettevo così sul fatto che se questi formatori trasmettevano messaggi improntati a rilevare la differenza, senza mitigarla, senza presentarla come una qualità piuttosto che come un ostacolo, costruire un sistema di integrazione reale, diventa un’impresa pressoché irrealizzabile agli occhi dei discenti che li hanno ascoltati. Dichiarazioni come Bisogna capire che molti di loro spesso non si vogliono curare, o come La prevenzione a livello dentistico è difficile con loro, se pensiamo che per loro andare dal dentista significa mettere uno sgabello in mezzo alla piazza del villaggio e farsi strappare i denti con le tenaglie o ancora http://www.regione.piemonte.it/governo/bollettino/abbonati/2008/46/attac h/9847.pdf. 140 Dobbiamo capire che le religioni “altre” sono difficili, significa trasferire dei contenuti che, nelle rappresentazioni e nei comportamenti saranno poi riproposti43. Nel primo caso si comunica l’idea che il migrante sia colpevole della propria condizione di indigenza e cattiva salute, nel secondo si ripropone l’immagine stereotipata del migrante “involuto”, appellandosi all’immaginario più impregnato di esotismo, e nel terzo si assume come incomprensibile e insuperabile la diversità religiosa. A seconda delle esigenze specifiche per giustificare il proprio pregiudizio, si definiscono gli “altri” come culturalmente rozzi, “poveri” e semplici (come nell’esempio del santone del villaggio che ricopre il ruolo del dentista e che strappa via i denti con le tenaglie), oppure, per fornire un alibi alla propria inazione e presa di distanza, si definisce l’“altro” come così “difficile” e complesso da non poterlo raggiungere. Gli enunciati trascritti, qui decontestualizzati, hanno un effetto e un peso diverso che se inseriti all’interno delle lezioni, entro le quali forse potevano avere una vaga coerenza con i discorsi affrontati. Ma questo non giustifica la loro imprecisione, la loro capacità di distorcere la realtà e di presentare l’immigrato talvolta come responsabile della propria condizione, talaltra come un personaggio salgariano, al limite dell’anacronismo, talaltra ancora come l’“altro” incomprensibile. Personalmente ritengo importante, in ogni situazione di docenza, assumersi la responsabilità dei messaggi che, pur fra parentesi, pur nell’informalità e nella marginalità di un commento, vengono emessi e, nel lungo 43 Gli enunciati riportati fra parentesi sono riferiti alla seconda e terza giornata di formazione , in lezioni dedicate ai servizi di mediazione presenti negli ospedali e alla rete dei centri I.S.I. 141 periodo, si sedimentano e alimentano l’immaginario a cui attingere nelle relazioni quotidiane. Ritengo inoltre che per una ricerca volta a rintracciare i varie forme che il pregiudizio può assumere, si debba fare riferimento proprio a quelle dichiarazioni marginali, che sottendono un’idee fortemente acquisite, che assume il carattere dell’ovvietà, quella più invisibile, che ormai non colpisce più l’attenzione. Il corso di formazione che qui ho preso in esame deve essere considerato non come un esempio di portata generale, ma come un campo etnografico specifico che non ha pretese generalizzanti. Nella direzione delle medical humanities e della loro crescente diffusione, stanno emergendo, negli ultimi anni, molti cambiamenti nell’approccio alla pratica medica. Ciò che è emerso in queste giornate è da considerare pertanto come spunto per riflettere su quali messaggi potenziare e quali invece provare a decostruire in ambito formativo. A livello “micro”, infatti, nel rapporto con l’utenza straniera, molti di questi frammenti possono giungere a creare una cornice teorica di riferimento, che permette di incasellare il paziente che ci si trova di fronte entro precise categorie, in base alle quali dirigere il proprio comportamento. 3.4 IL PREGIUDIZIO A LIVELLO “MICRO” I paragrafi che seguono daranno voce a ciò che è emerso dal confronto con gli operatori sanitari impegnati nei Pronto Soccorso considerati. La finalità è quella di mettere in luce gli elementi che derivano dal lungo lavorio effettuato dalle retoriche differenzialiste dei media e dalla classe 142 politica, che possono in alcuni casi ripetersi anche su alcuni incaricati della formazione delle professioni sanitarie e che possono poi incidere sull’operato del personale medico. Anche in questo caso, non si tratta di compiere generalizzazioni, ma si tratta forse di impegnarsi per ridurre la probabilità che si possano verificare ed alimentare prassi discriminanti. La convergenza dei livelli di operatività del pregiudizio, finisce infatti per creare le basi per un diverso trattamento nei confronti dell’utenza straniera, che ne risulta condizionata nei percorsi e nei profili di salute. 3.4.1 Gli infermieri e la rappresentazione dell’immigrato Come si è detto nel Capitolo II, illustrando il modo in cui sono stati condotti gli incontri con gli infermieri dei Pronto Soccorso presi in esame, si è tentato di far convergere più linguaggi e più esperienze. Lo scopo era quello di trovare eventuali conferme o disconferme all’ipotesi che vi sia una sorta di inculturazione del pregiudizio, espressa a più livelli e riversata nella relazione con pazienti stranieri. Ogni incontro, grazie ai diversi linguaggi utilizzati, ha rappresentato un’opportunità importante per cogliere nelle varie sfaccettature l’operato del pregiudizio, che influenza tanto le rappresentazioni della realtà, quanto la realtà stessa e le relazioni con l’utenza. Operando una revisione dell’insieme dei dati raccolti, ho potuto individuare delle tendenze generali relative ad ogni settore indagato, per quanto la rielaborazione soggettiva delle domande e degli stimoli da parte degli interlocutori sia indubbiamente originale e creativa. 143 L’ordine con cui procedere per spiegare quali siano queste tendenze generali può essere quello di analizzare in modo comparato, fra i soggetti delle interviste raccolte, le idee, rappresentazioni e percezioni emerse dagli “attivatori”, quelle parole-chiave o parole-stimolo che avviavano la riflessione approfondita degli intervistati. Dare dei semplici input, anziché guidare l’intervista dal principio alla fine, voleva essere anche un modo per mettere in primo piano non tanto l’intervistatore quanto l’intervistato, conferendogli una maggiore libertà espressiva durante il colloquio. Il primo input da concettualizzare e sviluppare per gli infermieri intervistati, era rappresentato dal vocabolo immigrato. Oltre ad essere il primo vocabolo nella sequenza delle parole-input, rappresentava anche il fulcro della riflessione, poiché rispetto ad esso potevano essere collegati ed associati gli altri termini e le relative concettualizzazioni. Ho potuto riscontrare come questa parola sia stata associata, nella totalità dei casi esaminati, all’alterità, così come viene creata e rappresentata secondo i canoni della comunicazione di massa (mediatica e politica), e infine percepita dai singoli. L’immigrato, nel senso comune, è una figura che, nella maggior parte dei casi, corrisponde a ciò che culturalmente abbiamo appreso a percepire come diverso da noi. Diverso nei suoi tratti somatici, diverso nella lingua che parla, diverso persino nei suoi bisogni. Dalle parole degli interlocutori, scritte e poi spiegate oralmente, emerge tutto ciò che è possibile ricondurre a questa irriducibile alterità: Immigrato: ho pensato a gente straniera che viene nel nostro paese, quindi extracomunitari…ho pensato a quello. Quindi ho messo Intercultura 144 perché un insieme di culture diverse con bisogni diversi, lingue diverse quindi difficoltà nelle comunicazioni.44 Questa infermiera, una ragazza di 28 anni, in Pronto Soccorso da due anni e con precedenti esperienze in altri reparti, sosteneva anche una diversa ed esagerata esternazione del dolore da parte degli immigrati, come se esigessero più attenzioni degli altri, attenzioni quasi sempre sproporzionate rispetto alla patologia realmente presente: C’è da parte loro ignoranza, nel senso buono del termine, nel senso che ignorano tutti i servizi che ci sono qui, come usarli e proprio perché probabilmente tanti che sono arrivati vengono qui senza avere un medico loro di base, chiaramente per ogni cosa vengono qui in pronto soccorso. E…(sono) sopravvalutate le loro necessità rispetto alle nostre, in senso lato, proprio a livello di Stato, di governo, di religione, basta solo pensare al fatto che abbiamo tolto i crocifissi nelle scuole per dare la priorità a loro, mentre sappiamo che se tu vai nel loro paese ti devi coprire il capo…queste cose qui45. È indubbio che un atteggiamento carico di stereotipi nei confronti dello straniero agisca in maggior misura fra gli infermieri impiegati nel Pronto Soccorso, più che, invece, fra coloro che sono impegnati nei reparti, dove hanno modo di dedicare più tempo ai pazienti e disporsi nei loro confronti con un atteggiamento incline ad un ascolto più attento. Tuttavia, il peso delle rappresentazioni stereotipiche rimane un nodo difficile da sciogliere nei contesti in cui si è costretti ad agire in tempi ristretti e laddove non si può costruire con l’utenza un rapporto più profondo. È comunque un dato di fatto che molti migranti ignorino buona parte dei propri diritti. Anche nelle interviste 44 Dall’intervista con Biancaneve, Pronto Soccorso dell’Ospedale Mauriziano (corsivo mio). 45 Ivi. 145 condotte per il progetto FER Non solo asilo 3, soprattutto i migranti appena arrivati riconoscono come ente primario per l’erogazione di cure il Pronto Soccorso. Da qui, pensare che rimangano nell’ignoranza (come se questa fosse una caratteristica ontologica del migrante) non è per nulla vero. Dalle interviste con alcuni utenti emergeva infatti una serie di conoscenze pratiche del Servizio Sanitario Nazionale molto ampia, che cresceva contestualmente al prolungarsi della permanenza in Italia. Dalle testimonianze dell’utenza infatti emergeva un vero e proprio processo di apprendimento spesso basato sull’esperienza personale, nei casi in cui chi era appena arrivato non era stato affiancato per varie ragioni ad un operatore sociale o non avesse altri punti di riferimento. Occorre però distanziarsi anche dall’idea che il migrante sia completamente isolato e abbandonato a se stesso. Molti degli intervistati infatti, come molti dei migranti in genere, si sono serviti, per adattarsi nel contesto di approdo, di reti di conoscenze coltivate o durante il viaggio stesso, o in loco. Anche in questo caso può intervenire una rappresentazione stereotipata che fa del migrante un individuo dotato di un’ignoranza quasi congenita e immutabile, quando invece, nella maggior parte dei casi, l’adattabilità del migrante è molto elevata, in virtù proprio della necessità di comprendere la realtà nuova in cui si trova immerso. Inoltre, occorre tenere presente che se molti migranti ignorano i propri diritti in materia di salute, di certo non sono i soli ad avere difficoltà nel decidere il da farsi: molti operatori sanitari, come viene detto nei paragrafi precedenti, spesso si trovano in difficoltà ad orientarsi nei labirinti normativi regionali e nazionali. L’infermiera fa anche riferimento a quella sorta di “sottomissione” da parte nostra alle loro esigenze, una 146 percezione che ritorna spesso nelle interviste. In alcuni casi addirittura mi si parlava di “ingiustizia sociale”. Nelle parole appena riportate emergono molte delle logiche tipiche del pregiudizio: le categorie o sono confuse (gli stranieri sono necessariamente extracomunitari, e lo si evince da quel “quindi extracomunitari”), oppure sono rese impenetrabili. Le culture sembrano delle entità fisse, immutabili, che si scontrano quando entrano in contatto, rigide come palle da biliardo. Dalla stessa autrice della citazione a inizio paragrafo, viene persino ripresa, come esempio della nostra subalternità rispetto alle “imposizioni” degli immigrati, la controversia questione che aveva acceso i dibattiti politici nei primi anni Duemila a proposito dell’uso del velo delle donne islamiche in Francia, surrogata in Italia dall’esposizione dei crocifissi nelle scuole . Anche in quel caso, i sentimenti anti-stranieri, nello specifico principalmente islamofobi, avevano ricevuto un cospicuo supporto parte di media, politici e autorità religiose, dirigendosi contro i “nemici interni” che minavano l’integrità identitaria e sociale italiana o europea e che avevano portato anche molti laici a rivendicare le “radici cristiane” europee e occidentali, argomento che aveva funzionato da collante per i più svariati orientamenti politici e religiosi (Rivera 2005). Si tratta di un chiaro esempio di come il pregiudizio, inteso come modello culturale, se opportunamente e puntualmente rinforzato, diventi parte del sentire comune e serva poi da schema orientativo per l’agire sociale. Questo processo di attivazione del pregiudizio, inoltre, consente di notare quanto le rappresentazioni stereotipiche siano efficaci quando manca un’adeguata conoscenza del fenomeno migratorio. Dalle dichiarazioni degli intervistati, infatti sembra emerga una profonda 147 lacuna informativa sull’immigrazione in generale, che viene colmata con pregiudizi e stereotipi, utili a tamponare il vuoto di conoscenza, ma erigendo ostacoli alla comprensione della complessità del fenomeno stesso. Un’infermiera del Pronto Soccorso dell’Ospedale Molinette, aveva espresso in altri termini, ugualmente significativi, le ragioni dell’astio e del risentimento verso la generica categoria degli stranieri che in qualche modo usurpano il nostro territorio, minano alla nostra integrità e riescono anche a privarci e prevaricarci nei nostri diritti di cittadini. Durante una chiacchierata informale, nell’area del triage, senza che io la conducessi personalmente verso la tematica che mi stava a cuore indagare, tra la registrazione di un paziente e l’altro – una donna molto anziana e una coppia rom – mi diceva, usando le sue parole, che a volte è molto difficile scindere i propri sentimenti personali dalla figura professionale, specie con gli immigrati: arrivano e non chiedono, ma pretendono di essere curati, gratis. Allora, proseguiva, in quei casi, viene da pensare a se stessi: noi paghiamo le tasse e loro passano gratis, e ottengono anche le visite prima di noi. Si tratta di un’ingiustizia sociale, così la definiva. Si nutre un sentimento di ingiustizia, che fa rabbia, continuava. Per questo ci sono dei colleghi che sono – aggiungeva sottovoce, guardandosi attorno, assicurandosi di non essere vista o sentita – proprio razzisti, e se incontrano una persona che non parla la nostra lingua, trovano il modo per dargli meno cure, o lo ascoltano meno. Si va in burn out, perché dopo tanto tempo che le cose stanno così, sono ingiustizie troppo grandi che non si riescono a sostenere. Io non arrivo a dare meno cure agli immigrati, concludeva, però certamente è difficile. Sono infermiera da dodici anni, all’inizio si è tutti entusiasti, si ascolta di più, ma forse ci 148 vorrebbero dei corsi di aggiornamento per questi temi, perché per noi è molto difficile confrontarsi ogni giorno con questi problemi46. Questa infermiera, dell’età di 34 anni, con un’esperienza di dodici in Pronto Soccorso e un periodo di due come infermiera in Inghilterra, stava facendo un bilancio del proprio vissuto, esprimendo, alla fine della nostra conversazione, la volontà di lavorare su determinati problemi relazionali: All’inizio, la tua professione ti sembra bellissima, con tutti i pazienti hai un atteggiamento aperto e disponibile, metti in pratica le cose migliori che ti insegnano ai corsi, sei propositivo. Però dopo dodici anni…Dovrebbero farci dei corsi di aggiornamento, perché dopo un po’ è normale che non ne puoi più... Il senso di ingiustizia percepito, il sovraccarico anche emotivo presentato dalle infermiere, e confermato dagli altri loro colleghi intervistati, fa parte di quella frustrazione indotta da un eccesso di informazione negativa e scorretta che viene prima assorbita e poi riproposta nella pratica. Il pregiudizio all’integrità che vuole sociale, l’“altro” anche come una attraverso minaccia l’apparente approfittarsene dei servizi per la comunità, è penetrata nelle pratiche discorsive: si afferma e si conferma che l’immigrato è una presenza ingombrante, una presenza che si subisce, in primo luogo, tanto da rovesciare la percezione e vedere nella nostra società la vittima. La fantasia, se presentata come dato reale, diventa realtà. A ben vedere, soltanto in rari casi lo straniero ha la possibilità di ricevere assistenza gratuita, e presso circuiti diversi dal Servizio Sanitario Nazionale (come ad esempio 46 Colloquio informale con Inglesina, Ospedale Molinette. 149 nei Centri I.S.I.). A ben vedere, gli immigrati non sono poi un peso sociale ed economico così grave come il pregiudizio nei loro confronti vorrebbe far credere. Gli stranieri in Italia infatti contribuiscono per l’11% sul PIL nazionale e gravano per il 2,5% sulla spesa pubblica totale, pari a circa la metà del gettito da loro assicurato, quest’ultimo pari al 4%47. Come sostiene anche Dal Lago (1999), difendere il proprio territorio significa cercare e trovare un nemico, nel caso attuale un nemico interno, verso il quale rivolgere il proprio odio, a varie intensità. In questo modo l’immigrato diventa una risorsa simbolica a cui l’ideologia nazionalista può attingere per alimentarsi. Nei discorsi dell’infermiera sopra citati, è presente un’altra tendenza molto frequente, cioè quella di identificare negli altri atteggiamenti razzisti e discriminatori, scagionando se stessi da qualunque accusa, a riprova del fatto che il pregiudizio si evince sempre in modo indiretto, e mai attraverso dichiarazioni esplicite. Si riesce con facilità ad individuare negli altri atteggiamenti pregiudizievoli, ma su di sé lo stesso potenziale di criticismo è decisamente esiguo. Questo rende molto difficile riuscire a catturare il pregiudizio, isolarlo e decostruirlo, per la sua stessa refrattarietà all’autocritica e all’autoanalisi. Occorre operare delle deduzioni, attraverso strategie che portino ad una dimensione manifesta ciò che rimane per lo più in latenza. Il modo in cui contrastare il pregiudizio, potrebbe essere proprio quello di sviluppare una capacità riflessiva, che non dimentichi di interrogare di volta in volta il nostro percepire e il nostro agire. 47 Questo dati sono stati forniti da Salvatore Geraci durante il corso di formazione Immigrazione e salute in una società multietnica, e sono stati ricavati dai Dossier Statistici della Caritas/migrantes, aggiornati al 2011. 150 Dando la parola agli infermieri incontrati nella “ricerca di campo”, ho notato anche come il processo di categorizzazione dicotomica che distingue i “noi” dai “loro”, costituisca di per sé la prima operazione funzionale allo strutturarsi di esclusioni conseguenti e crescenti. Occorre creare la differenza, per poi usarla come alibi, più o meno implicito, ad azioni discriminatorie a vari livelli. Un altro infermiere, di 49 anni, con una vocazione infermieristica tardiva e un’esperienza in Pronto Soccorso di un anno e mezzo, asseriva, come la sua collega, che in triage e nei vari reparti, di sentire spesso alcuni colleghi insultare l’utenza straniera, producendo fra l’altro una dettagliata classificazione stereotipata per ogni “etnia”: i rumeni sono alcolisti e sono violenti con le donne, i sudamericani sono meno violenti ma ugualmente alcolisti, i cinesi sono chiusi e via dicendo. Per inciso, la stessa distinzione stereotipata dei migranti, sulla base di una categorizzazione etnica di marca essenzialista, avveniva anche nell’aula di formazione per le professioni sanitarie, incontrando deboli reazioni da parte di molti formatori: i cinesi sono chiusi, inespressivi e sfruttatori, i rumeni sono violenti, e così via. Il senso comune sembra mettere tutti d’accordo. Lo stesso infermiere, che aveva additato come razzisti, criticandoli, molti dei suoi colleghi, nell’atto di raffigurare le parole-input della prima traccia di intervista, aveva cominciato con la rappresentazione stilizzata di un immigrato. Questo, nella sua concezione, corrispondeva ad un peruviano. L’infermiere in questione ama il Perù, dov’è stato più volte, mi racconta. Pur avendo quindi una conoscenza diretta del luogo da cui fa provenire il personaggio della sua rappresentazione grafica, sceglie 151 comunque di utilizzare un’immagine stereotipata. Fra le buone qualità, il peruviano eletto a protagonista della storia di fantasia dell’infermiere, aveva solo un difetto: bere molto. - Il mio peruviano è tosto perché non si ammala mai…però bevendo, può capitare che incorra in una intossicazione alcolica…può succedere, dai…una volta sola, una sola, solo una volta capita in ospedale…beve molto e va in ospedale…e qui gli dicono: “Ecco il peruviano…il peruviano di merda…” Qualcuno lo dice! Eh! I rumeni bevono e picchiano le donne, i peruviani son dei poveracci che bevono solo, sono un po’ maschilisti ma non picchiano, non sono così maneschi. - E tu che cosa fai in questi casi? - A volte reagisco, anche perché poi ne conosco qualcuno, sai, è un po’ il limite nostro, degli italiani, e anche degli operatori…anche un po’ questo…se c’è una cosa che non dobbiamo mai fare è giudicare, però…è regolare tra infermieri, O.S.S., regolarmente li senti: “Ecco, loro sono più furbi degli altri, quelli là sono ubriachi”…Non ce n’è uno che non giudica e lascia correre e che guarda il personaggio con tranquillità. Nessuno. Ti dicevo, il mio peruviano beve, arriva qui (in ospedale) e incontra il giudizio…ma a lui non importa…lui continua la sua vita, il mattino dopo torna a casa, col mal di testa, non ha nessuno, è solo…magari torna a lavorare. Fa il badante, in una R.S.A. ...48 Si è parlato di narrazione poiché, nel tentativo di seguire la seconda traccia dell’intervista, e cioè quella della rappresentazione per immagini delle parole immigrato, contagio, colore, sporco, malattia, corpo, diversi infermieri hanno deciso, per orientarsi meglio nel lavoro, di costruire un racconto, una fiction (come quella del frammento di intervista riportato sopra), scegliendo un punto di partenza – generalmente proprio l’immigrato – a partire dal quale descrivere un percorso, associando ai vari momenti della narrazione gli altri vocaboli attivatori – gli stessi che 48 Dall’intervista con Labrador, Ospedale Mauriziano. Le parti in corsivo corrispondono ai miei interventi. 152 precedentemente avevano concettualizzato attraverso le libere associazioni di idee. A questo proposito si possono fare due considerazioni. La prima è che, nel tentativo di rendere concreto qualcosa di concettuale e astratto, può essere utile assemblare elementi presi dal vissuto personale e sintetizzarli in una narrazione, per conferire una processualità e uno sviluppo logico alle idee, trasformandole in eventi. La seconda è che, in questa fase di sintesi di elementi che devono essere oggettivati in una figura, in un’immagine, è probabile che si scelga qualcosa di più semplice riproduzione. Quando ancora le tracce di intervista erano in fase di elaborazione, avevo provato a pormi le stesse domande che avrei poi sottoposto agli infermieri. Per quanto concerne la parola immigrato, la prima libera associazione di idee che avevo abbinato era il viaggio. Avrei rappresentato l’immigrato con un paio di scarpe. Ricordo che quando raccontai di questa associazione ad un membro del Laboratorio interfacoltà Le città (in)visibili, lui mi disse che per scegliere le parole-input, avrei dovuto togliermi gli “occhiali” della studentessa di Antropologia culturale, per indossare quelli di una persona qualunque che basa la sua conoscenza del fenomeno immigratorio soltanto attraverso la televisione. Al di là del sapore aneddotico di questo inciso, mi sembra importante sottolineare come ogni sguardo sia realmente condizionato da ciò che “impariamo” ad osservare. Su di me, come su chiunque, incide la formazione, non solo in termini di istituzione scolastica, che plasma visioni e orientamenti rispetto alla realtà. Per quanto riguarda il modo in cui dimostrare la propria idea di immigrato come simbolo dell’alterità, la maggioranza 153 degli intervistati ha scelto spontaneamente delle immagini molto evocative poco “neutre”. Degli esempi sottostanti, occorre tenere presente che le spiegazioni delle didascalie e quelle riportate in forma più estesa qui di seguito, non sono mie interpretazioni personali, ma corrispondono ai commenti esplicativi degli intervistati. Fig. 1 L’immigrato è il “peruviano”, che beve. In questa prima immagine, l’immigrato peruviano reca una sorta di didascalia verbale che sottolinea una delle sue caratteristiche (“beve”), che nella storia di finzione dell’infermiere si connette al passaggio logico e sequenziale secondo cui questo peruviano non si ammala perché di costituzione forte (almeno in parte, la sindrome di Salgari è superata nella fase dell’esotismo e lascia spazio all’effetto migrante sano), ma viene a contatto con strutture ospedaliere per questo vizio del bere. Lì, in ospedale, incontrerà il giudizio dei medici più “razzisti”. 154 Fig. 2 L’immigrato è un “africano” generico, che non è in grado di capire ciò che gli si dice. Nella seconda immagine, l’immigrato coincide con una persona dalla carnagione scura (l’intervistata diceva testualmente: “Se penso a immigrato, penso all’Africa e a qualcuno che ha “problemi linguistici”). Fedelmente a quanto riportato a parole nella prima traccia dell’intervista, l’infermiera ha deciso di disegnare un fumetto che indicasse l’incapacità da parte dell’immigrato di comprendere che cosa gli venga detto, con particolare riferimento alla zona del triage del Pronto Soccorso. Evidentemente, il problema linguistico così presentato, esiste in senso univoco: sono loro a non capire, ma non il contrario. Il generico problema della non-compliance tra medico e paziente, per il quale spesso viene percepita da parte degli operatori una unilaterale e scarsa disposizione a “capire” le soluzioni terapeutiche proposte, nel caso di un paziente straniero, viene acuita ed essenzializzata, cioè nuovamente ridotta ad una “ontologica” carenza culturale o etnica. 155 Fig. 3 L’immigrato si riconosce dagli abiti, di colori non abbinati fra loro, sgargianti. Normalmente vestito con abiti di recupero e di seconda mano. Nella terza rappresentazione dell’immigrato, a caratterizzarlo sono gli abiti di recupero, di colori sgargianti e non abbinati fra loro. Si tratta in un certo senso del “poveretto” a cui si è fatto cenno nei paragrafi precedenti – povero economicamente e socialmente. Fig. 4 L’immigrato coincide con un corpo femminile interamente velato, che non lascia scoperte nemmeno le caviglie, ma soltanto le mani e gli occhi, molto truccati. La donna qui rappresentata ha in mano un cesto per il pane o per qualche altro genere alimentare. Nella quarta figura invece, compare un corpo velato, il simbolo dell’alterità assoluta nella versione di una femminilità nascosta, appartenente al mondo religioso musulmano più osservante, molto più idealizzato che non effettivamente conosciuto e 156 compreso. Si tratta di un’interessante rielaborazione di ciò che era stato scritto a parole nella prima traccia. Secondo l’infermiera autrice del disegno, infatti, la libera associazione alla parola “immigrato” era costituita da poche semplici parole: “Numerosi accessi in Pronto Soccorso” e “Paesi dell’Est”. La prima espressione, spiegava l’infermiera, si riferiva al fatto che gli immigrati affollano i Pronto Soccorso e sono l’utenza maggioritaria. La provenienza era ricondotta ai paesi dell’Est europeo, anche neocomunitari. Nel momento di trasporre in immagine questi concetti, intraprende però tutt’altra via, e sceglie quella dell’immaginario dell’“altro”, un altro assoluto – la donna completamente coperta, e non una rumena, ad esempio, per seguire ciò che era stato verbalizzato nella prima traccia. Durante l’intervista, l’infermiera spiega che la donna ha un “oggetto tradizionale” in mano, un cestino per il pane “o quelle cose lì”, alludendo a qualcosa che rimanda a ipotetici contesti “tradizionali”, ma che con tutta probabilità non appartengono a una realtà urbana italiana, dove il pane o altri generi alimentari sono trasportati in buste di carta o plastica, almeno nella maggioranza dei casi. In particolare, di questa ultima rappresentazione citata, mi avevano colpito la cura dei particolari, e la maggiore attenzione descrittiva nel disegno, nonché la riproduzione di un’azione quotidiana che rende più dinamica la figura. Nonostante questi accorgimenti importanti ho trovato comunque condizionati da stereotipi alcuni elementi, come il cestino per il pane, descritto dalla stessa intervistata come qualcosa di “strano”: Sto disegnando un’immigrata con il burqa, per cui tutta accollata, persino con le scarpe che non mostrano i piedi, però gli occhi sì, quelli ce li hanno sempre molto truccati. Non azzurri, però…questa rappresenta la prima 157 parola…magari con un cestino o quelle robe strane tipo…che vanno a prendere il pane…una roba così. L’uso delle immagini è risultato utile allo scopo di rintracciare in che modo l’immaginario costruito nel tempo circa l’alterità prenda spesso il sopravvento sulla realtà. L’immagine, in questo senso, arricchisce la parola, a volte confermandola, a volte, invece, smentendola. Infatti, nel processo di trasferimento delle parole in immagini, in modo creativo, molti intervistati hanno scelto di non seguire le proprie tracce verbali elaborate precedentemente, ma hanno optato per altri percorsi di significazione, arricchendo così le informazioni ricavate. È ciò che accade, ad esempio, anche nelle altre interviste in cui l’immigrato non è rappresentato in maniera antropomorfa, ma ad esso viene invece associato un simbolo. Il simbolo in questione è il barcone. Se si ricordano le parole del ministro Amato nel 2006, per cui Non possiamo mica lasciare su una strada chi sbarca da un barcone. Li dobbiamo accogliere. E li dobbiamo anche visitare. Sono un pericolo sanitario49, che è solo uno dei tanti esempi che la stampa offre riportando le dichiarazioni dei politici, l’immigrato, nell’immaginario comune, è il “disgraziato” che arriva sulle nostre coste (solo) su precari barconi. Non sono ammesse, all’interno del modello culturale basato sul pregiudizio e sullo del migrante, altre vie d’accesso alle frontiere italiane. All’immigrato, non vengono lasciate molte alternative. 49 Si veda la nota n. 37. 158 La metafora “liquida” è molto presente nel gergo giornalistico per indicare il fenomeno immigratorio: “una marea di immigrati”, l’“ondata migratoria” sono espressioni decisamente comuni del linguaggio politico-mediatico. Oltre a questo genere di metafore, sono frequenti i rimandi, verbali e iconografici, al migrante che si sposta soltanto attraverso barche, barconi, gommoni, pescherecci instabili e pericolosi. Il che è assolutamente vero, ma, come sempre, esiste una grande varietà di situazioni possibili, che le logiche che perseguono i “tagli” alla complessificazione rinunciano ad includere nella loro retorica. Persino un organismo come l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, propone una retorica simile in occasione della Giornata mondiale del rifugiato 2012, il 20 giugno scorso, e ripropone ancora una volta lo stesso stereotipo. Ho voluto conservare l’immagine della locandina che veniva distribuita nei vari centri torinesi che si sono impegnati a svolgere incontri e attività di sensibilizzazione per l’occasione. Fig. 5 Locandina dell’UNHCR per la Giornata mondiale del rifugiato 2012. 159 La forza dell’insistente iconografia che rappresenta in questo modo i migranti, ha portato un elevato numero di infermieri, rispetto al totale, a trasferire questo tipo di immagine nelle rappresentazioni della seconda traccia dell’intervista. Riporto alcuni esempi. Fig. 6 L’immigrato è simboleggiato da una “barca” nel primo caso, da un “gommone” nel secondo caso e da un “barcone” nel terzo. In queste rappresentazioni ho visto un collegamento e un intreccio fra le varie retoriche stereotipate al livello di messaggi politici e mediatici e ciò che, a livello “micro”, si riflette nelle rappresentazioni degli operatori sanitari. Se in ogni contesto, mediatico, politico o formativo, si riproduce uno stesso modello, tale modello finirà per essere acquisito. Quand’è che il senso comune, sistematizzato a pregiudizio, diventa, per riprendere Herzfeld, “resistente ad ogni scetticismo”? Quando un’infermiera, nel disegnare il barcone con la bandiera verde, per lei simbolo di speranza, sceglie di identificare l’immigrato con quel barcone, pur essendo emerso un dubbio poco prima della rappresentazione: 160 Sì, ho pensato alla barca però dall’est…ce ne sono anche dall’est, ma non vengono in barca. Beh, faccio il barcone, anche con la veletta…ecco, così passa il messaggio? Sono molto speranzosi, quindi un bel verde lo metto, perché loro arrivano carichi di…idee…(Lollo, Ospedale Mauriziano). Questa infermiera si era posta un problema, aveva individuato l’incoerenza del ragionamento stereotipato, ma alla fine, nel momento di rappresentare con un’immagine l’immigrato, ha scelto il simbolo secondo lei più efficace, cioè quello a cui è stata abituata nel vedere, immaginarsi e percepire il migrante. Nella sua rappresentazione stilizzata sembra esserci la stessa identica retorica della locandina dell’UNHCR: i migranti sono raffigurati nella miseria più assoluta, ancorché rifugiati, attorno a loro e sopra di loro il grigio e il nero, e, verso il fondo dell’immagine, in un altrove non ben definito, una luce…di speranza, come la “veletta” dell’intervistata. In realtà la distinzione tra un richiedente asilo o un migrante economico si perde nell’immaginario standardizzato, tanto che, ad esempio, questa stessa infermiera, aveva scritto accanto alla parola “immigrato”, nella prima traccia, “straniero, clandestino, est”, livellando le diverse categorie. La logica differenzialista e il pregiudizio che ne consegue, i “tagli” alla complessità e l’automatismo senza spazi per la riflessione critica, non danno adito ai dubbi, alle sottigliezze, accorpano quando sarebbe opportuno distinguere (straniero, extracomunitario, clandestino, romeno sono considerati equivalenti) e distinguono quando sarebbe opportuno unire (“gli stranieri hanno bisogni diversi dai nostri”). Alla luce dei dati raccolti, si può ravvisare un’altra tendenza generale ancora, che è quella di associare 161 l’immigrazione alla malattia e al contagio. Tale associazione, come si è visto, è riproposta puntualmente, dalle prime indagini sui migranti alla ricerca della malattia rara, da parte di coloro che risentono della sindrome di Salgari, alle dichiarazioni di alcuni politici, indistintamente di destra o di sinistra, che rimpolpano l’immaginario pauperistico e stigmatizzante riferito ai migranti. A proposito di contagio, esiste un protocollo che ogni infermiere, nella sua delicata professione, deve rispettare, per evitare di contagiarsi durante lo svolgimento della sua professione50. Tuttavia, trattandosi spesso di linee-guida, cioè di orientamenti volti alla prevenzione più che di norme cogenti, alcuni dettami possono essere o meno seguiti a seconda della sensibilità dell’operatore e della situazione in cui si trova coinvolto. Infatti, per quanto clinicamente si possa stabilire con precisione se un paziente sia o meno affetto da patologia contagiosa, nel momento dell’arrivo in Pronto Soccorso gli infermieri incaricati della registrazione non possono conoscere a priori le condizioni di salute dell’utenza. Possono indovinarle, grazie alle loro conoscenze e competenze, ma occorrono degli esami specifici che stabiliscano lo stato di salute dei pazienti. A tutti gli infermieri veniva posta una domanda specifica a proposito dell’uso che essi fanno dei dispositivi di protezione individuale, quali i guanti, le mascherine o i visor, le cuffie per coprire i capelli. Un’attenzione particolare era indirizzata all’uso dei guanti, dal momento che gli altri dispositivi sono in genere utilizzati in situazioni molto specifiche. 50 Il riferimento è ai protocolli e alle linee guida definite dai CDC, in particolare da alcuni infermieri è stato citato il CDC di Atlanta, che definisce le modalità di utilizzo dei dispositivi di protezione (guanti, mascherine, visor e via dicendo). 162 In questo senso ho potuto constatare come vi sia una certa discrezionalità relativa all’uso di quei dispositivi che, salvo nei casi di ferite aperte o possibilità di contatto con i vari fluidi organici, si può decidere autonomamente se utilizzare o meno. Ad ognuno infatti ho domandato se esistesse un protocollo da seguire obbligatoriamente per l’utilizzo dei guanti, e le risposte si dividevano fra chi asseriva l’assoluta obbligatorietà e chi invece, in favore di un contatto più diretto e di una relazione meno distaccata con il paziente, sosteneva l’uso dei guanti solo in situazioni molto particolari. È interessante notare come, anche attorno al contagio, esista una sorta di immaginario culturalmente costruito. Si possono infatti riscontrare delle connessioni che legano il contagio, lo sporco e la malattia alla figura dell’immigrato come potenziale infetto per antonomasia. In molte occasioni infatti, l’immigrato, nelle rappresentazioni figurative e nei discorsi, veniva allacciato all’idea del contagio. Fig. 7 Il legame sporco-immigrato-contagio-malattia. 163 E poi quando penso agli immigrati, purtroppo, per quello che puoi vedere, penso a queste stanze sovrappopolate, di gente che vive…come una gabbia di animali…tante teste, tanta gente, che vivono..tutti insieme..grandi piccoli…un po’ anonimi…Scrivo che rappresentano gli immigrati? Quelli sfortunati però, eh! Ci saranno anche quelli che stanno bene…però ce ne sono? Il muro che ho fatto qui è tutto rotto, scrostato… Malattia e contagio? Lo sporco può dare vita al contagio; condizioni precarie…e dove ci porta questo? Ci porta…in ospedale…promiscuità e condizioni igieniche precarie possono originare patologie…epidemie…(Lollo, Ospedale Mauriziano) L’intervistata si rende conto della fragilità sociale degli immigrati, che spesso è causa delle loro cattive condizioni di salute, ma si tratta di una fragilità sociale che andrebbe vista anche dal punto di vista dell’organizzazione (o disorganizzazione) dei piani di accoglienza. Molto spesso infatti gli stili di vita incidono sulla salute dei migranti ancor più in relazione con l’accessibilità ai servizi di cura che, si è visto, ripercorrendo le tappe fondamentali delle normative sul diritto alla salute, risultano molto esclusive ed escludenti. Il migrante non è volutamente poco fortunato, spesso lo diventa a causa del sistema politico e sanitario poco improntato all’inclusività quando non esplicitamente alla xenofobia. Nella visione dell’intervistata, il migrante è letteralmente anonimo, e il suo habitat è una “gabbia di animali”, dove regna la promiscuità, dove c’è abbandono e trascuratezza degli ambienti, dove cose e persone sono mal curate, e sporche. E dallo sporco si generano malattie, addirittura epidemie – qui sembra riecheggiare l’emergenza sanitaria invocata dal Ministro Amato. Altri infermieri hanno invece esplicitamente collegato l’immaginario relativo al contagio allo stereotipo relativo all’immigrato: 164 Quando penso a contagio, mi viene in mente l’Africa (Inglesina, Ospedale Molinette). Oppure, Fra i luoghi, per il contagio, che so io, semplicemente l’Africa, con malaria, febbre gialla, che so io. Metto questo luogo, ma solo perché così, mi è venuto in mente (Biancaneve, Ospedale Mauriziano). In particolare, da parte degli intervistati che hanno asserito l’obbligatorietà dell’uso dei guanti, c’era una tendenza ad associare lo sporco alle persone trasandate, che non si curano e che “non si vogliono far aiutare da nessuno” (Biancaneve, Ospedale Mauriziano), e il contagio allo sporco, come se ci fosse un legame diretto fra la persona trascurata e la potenzialità che sia contagiosa. Grazie ad un semplice strumento come Wordle, che analizza la frequenza lessicale che occorre nei testi scritti, ho potuto rileggere le interviste rilevando alcune significative connessioni lessicali e semantiche nei discorsi degli intervistati. A proposito del legame tra sporco e contagio, ecco un risultato ottenuto tra i più rappresentativi (si tenga presente che le parole che compaiono con maggior frequenza nel testo, sono quelle di maggiore dimensione all’interno del riquadro). 165 Fig. 8 Analisi di frequenza lessicale (Alex, Ospedale Mauriziano) Lo sporco e il contagio, in particolare per vie aeree, erano spesso nominati insieme, e quando non erano nominati insieme erano associati a parole che rinviavano ad una dimensione comune. Nel caso dell’intervistato la cui analisi lessicale è rappresentata dal quadro della Fig. 8, il contagio avviene quasi esclusivamente per vie aeree, come è stato raffigurato anche attraverso linee che percorrono e attraversano l’intero foglio, a significare che il contagio è ovunque (cosa che a parole l’infermiere specificava soventemente) e lo sporco è associato all’utenza, in primis, che emana cattivi odori. Alla fine dei suoi ragionamenti, concludeva che il rischio di contagiarsi è riconducibile alla sporcizia, ed essendo questa una prerogativa dell’utenza, occorre sempre indossare quanti più dispositivi possibili per evitare i contatti pericolosi. Va sottolineato che lo sporco e il pulito, il puro e l’impuro, sono categorie significative e pregnanti per quanto riguarda il contatto con l’alterità. Trovo importante 166 specificare questo aspetto perché nelle parole degli infermieri tale distinzione era molto presente. L’antropologa Mary Douglas, in Purezza e pericolo (2003), affrontava la questione delle categorie simboliche dello sporco e del pulito sostenendo che la loro definizione, arbitraria e variabile a seconda delle società, contribuisce a creare un ordine del mondo. Vorrei a questo proposito riportare ciò che emerso a proposito della parola sporco da parte di un’infermiera del Mauriziano: Sporco, come malattia e contagio, lo sporco è negativo. Ho pensato alla strada perché è grigia, impersonale, e mi dà l’idea che ci sia qualcosa che va aggiustato. Sporco dev’essere tolto, come la polvere sui mobili…è un momento in cui c’è bisogno di mettere ordine dove c’è disordine. Sporco per me rappresenta qualcosa che va messo in ordine, togliere l’inutile e sistemare l’utile (Mimi, Ospedale Molinette). Le parole di un’altra infermiera, scritte accanto alla parola sporco, nella prima traccia, a me avevano francamente molto sorpreso: Sporco: non attinente alla nostra professione (Inglesina, Ospedale Molinette). Leggendo queste parole, le avevo chiesto delle spiegazioni, condizionata anch’io da quello che in genere mi avevano detto tutti gli altri colleghi, e cioè che l’ospedale in primis è un luogo sporco, lo sono i corridoi, lo sono i vuota vasi, i “pappagalli” e tutti gli altri strumenti e oggetti che mettono in relazione con i liquidi corporei secreti dai pazienti. Com’era possibile che quest’infermiera mi informasse della mancanza di relazione tra la sporcizia e la professione infermieristica? In realtà la sua risposta, semplice 167 ma non banale, era stata: “Perché lo sporco non deve esistere nella nostra professione”. La rimozione dello sporco è qualcosa che ha a che fare con una specifica concezione di igiene, per la quale, almeno nella nostra società, lo sporco va eliminato, lo sporco è “fuori posto” e va allontanato o, meglio, eliminato. Nella prima delle due citazioni riportate questo passaggio del mettere ordine e ripulire qualcosa che è sporco e fuori posto è reso in maniera esplicita. Nella seconda citazione invece lo sporco è assolutamente negato, e durante la spiegazione emerge quell’imperatività della negazione: lo sporco non deve esistere nella professione di infermiere. Certamente si tratta di un’affermazione molto vera, dal momento che l’infermiere è tenuto ad agire e a svolgere il suo lavoro con strumenti sterili e accuratamente detersi. Ma, ai fini delle nostre riflessioni, è utile prendere atto di come il timore del contagio e della contaminazione possa essere sovrastimato, tanto da utilizzare dispositivi di protezione quando si abbia la percezione di avere di fronte un pericolo maggiore. Ritengo che connettere queste informazioni ricavate dalle interviste, possa portare ad affermare che esista una stretta relazione tra cultura e pregiudizio, nel senso che quest’ultimo assume forme diverse servendosi di mezzi culturali, al livello “macro”, nelle politiche, al livello “meso”, pervadendo chi si occupa di formare le professioni sanitarie, e al livello “micro”, nelle relazioni interpersonali tra operatore sanitario e utente straniero. Si tratta di qualcosa che si è dotato dei suoi miti, dei suoi riti, delle sue leggi, dei suoi protocolli, dei suoi sostenitori mediatici, e che, grazie a questo edificio ben organizzato e costruito, può offrire dei 168 modelli di comportamento agli individui che vi si riconoscono. In ambito sanitario, conoscere queste implicazioni può diventare importante, perché consente di osservare retrospettivamente che cosa induce a discriminare e che cosa invece può essere utilizzato per aprire delle crepe in quell’edificio culturale e nelle sue fenomenologie. Quando si è parlato di immigrati come di attentatori all’integrità del corpo sociale, si è utilizzata una metafora che si sposa con il contesto etnografico di riferimento per questo lavoro. La dimensione della salute e della malattia, vista nei suoi caratteri antropologici, può essere un terreno di indagine per risignificare il corpo nelle sue estensioni e dilatazioni oltre i limiti fisici. Quando si dice che l’immigrato mina l’integrità del corpo sociale, sì sta compiendo un importante passaggio logico che è preceduto però dalla costruzione dell’alterità, con dispositivi verbali e iconografici, seguita dalla negativizzazione dell’alterità, stigmatizzata e trasformata in “agente patogeno”. L’allontanamento e la rimozione dell’agente patogeno rappresentano quindi delle strategie per allontanare il rischio che si leda alla nostra integrità e incolumità. Credo si debba insistere sul passaggio fondamentale rappresentato dalla costruzione dell’alterità, perché da esso dipendono, e su di esso si reggono, le successive argomentazioni: sono la costruzione dell’alterità e l’esasperazione della differenza che rendono possibili le dinamiche di esclusione. Senza che questa differenza sia percepita e sovrastimata, la struttura teorica e pratica del pregiudizio non terrebbe. 169 A questo proposito, è opportuno osservare che nessuno degli operatori intervistati ha voluto mettere sullo stesso piano, semantico, linguistico e figurativo, l’immigrato con il corpo e la persona. Spesso alla parola corpo si faceva coincidere la voce “persona”, “essere umano”. L’immigrato e la persona, tuttavia, sono stati puntualmente scissi, tranne nel caso del peruviano con problemi di alcolismo della narrazione citata in precedenza, dove la parola “corpo” era stata messa in relazione di uguaglianza con l’immagine dell’immigrato stesso. Trovo particolarmente significativo il caso seguente, in cui immigrato e corpo definito come persona sono diametralmente opposti all’interno dello spazio della rappresentazione: Fig. 9 Il racconto di Grisu (Ospedale Mauriziano). Anche in questo caso l’intervistata aveva scelto di narrare una storia, a partire da un ipotetico immigrato che ha 170 “problemi linguistici” e non capisce che cosa gli si dica, a tal punto da confondere i colori del triage con l’arcobaleno: “Lui non capisce quello che gli diciamo e magari nella sua testa pensa che i colori del triage siano i colori dell’arcobaleno”. Il contagio procede dallo sporco e per lo sporco. L’immigrato che si ammala ha bisogno delle nostre cure. L’immigrato diventa paziente. Chi cura e libera dalla malattia il pazienteimmigrato, è la persona, quella con la carnagione chiara e la pelle rosa. “Può anche capitare, questo lo metto come fine della storia, che l’immigrato ben integrato possa poi fare dei corsi e diventare come noi”. La storia ha un lieto fine. L’immigrato perde alcune delle sue caratteristiche inaccettabili e diventa come noi, non prima però di un’adeguata formazione, volta ad “integrarlo”. Al di là dei sarcasmi, dai dati raccolti si evince che il pregiudizio, come modello e costruzione culturale, trova terreno fertile in retoriche e dottrine più datate, e dimostra estrema duttilità riadattandosi ai tempi recenti, in un processo di continuo rinnovamento. Mi dissocio dal pensare che si tratti di un ineludibile automatismo, poiché se interpretato come senso comune, se ne riconoscerebbe un processo costruttivo. Proprio per il suo carattere “culturale” e dunque costruito e rinforzato grazie alla pratica dei soggetti che ne prendono parte, il pregiudizio potrebbe dissolversi se si smettesse di alimentarlo. Le voci dell’“altro”, cioè le voci dell’utenza, ci conducono a ripensare le categorie più rigide per ammorbidirle, ci permettono di coltivare il dubbio per ridiscutere le certezze, ci invitano a rivalutare l’importanza della complessità e a temere di meno la possibilità di che i confini possano essere più labili di quanto si stimi. 171 Capitolo IV “UNA MAGLIA ROTTA NELLA RETE”. LA VOCE DELL’“ALTRO” Si parla di «funzione specchio» dell’immigrazione, cioè dell’occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rilevare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di «innocenza» o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l’ effetto specchio) ciò che è abitualmente nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o di non-pensato sociale. (Abdelmalek Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato) Della poesia di Eugenio Montale, i motivi dominanti più noti e ricorrenti sono l’amarezza, il pessimismo, la desolazione, racchiusi in quella famosa formula che è “il male di vivere”. Tuttavia, alcuni versi si aprono e lasciano penetrare della luce, vengono sottratti all’angoscia, e liberano simboli positivi che alludono a speranze nostalgiche per una condizione esistenziale diversa, a vie di fuga possibili. Immagini come la “maglia rotta nella rete”, o l’“anello che non tiene”, o il “varco”, o lo “sbaglio di Natura”, evocano la possibilità di scenari differenti, di alternative e riscatti possibili. La metafora della “maglia rotta nella rete” si adattava, a mio parere, a ciò che la voce dell’utenza ha rappresentato per questo lavoro. La voce dell’“altro” infatti, riserva alcune significative sorprese rispetto al sistema del pregiudizio, se 172 non si può addirittura dire che ne rappresenti la falla, una crepa che, se valorizzata, porterebbe il sistema stesso di incrinarsi. Il pregiudizio come sistema di significati o come modello culturale, così come è stato presentato nei capitoli precedenti, è capace di indirizzare l’azione sociale sia al livello delle politiche, sia al livello delle relazioni interpersonali tra singoli. Fino ad ora, per indagare il tema del pregiudizio come complesso di significati, ho preso a riferimento due concetti di cultura fra loro diversi, ma, a mio giudizio, compatibili. Sono il concetto di cultura proposto da Clifford Geertz (1988), che descrive la cultura come testo, come “documento agito” e come “rete di significati” in cui l’uomo è immerso, ma che egli stesso ha intessuto, e quello di Michael Herzfeld (2006), più provocatorio, secondo il quale la cultura altro non è che “senso comune”, un insieme cioè di “strati di ovvietà”, oggetto di studio dell’antropologia e che la stessa ha il compito di “defamiliarizzare”. Il pregiudizio che si espleta in ambito sanitario nei confronti di pazienti immigrati assume in questo senso la forma di un modello culturale: sostenuto da un possente immaginario, continuamente rinvigorito, che rappresenta l’“altro” attraverso stereotipi sedimentati, crea i presupposti fondamentali per consentirne la marginalizzazione e l’esclusione a livello politico e a livello individuale. Consolidato sul piano storico e scientifico, condiviso e alimentato dalle agenzie politiche e di informazione, e nelle pratiche quotidiane, il pregiudizio appare come qualcosa di profondamente radicato, quasi inattaccabile e incontrovertibile. Tuttavia, riconoscerne la natura artefatta – dal momento che sopravvive come modello culturale e 173 attraverso mezzi culturali – è un primo passo per non cedere alla tentazione di considerarlo un mero automatismo, e cioè come qualcosa di indistruttibile. Non solo. Rintracciare il processo dinamico attraverso il quale il pregiudizio prende forma e interrogarsi sulla sua operatività pratica – cogliendo i vari collegamenti “ipertestuali”, come li ho definiti nel Capitolo III – significa anche lasciare uno spazio maggiore alla possibilità di individuarne le eventuali falle. Le falle del sistema del pregiudizio che personalmente mi è sembrato di poter individuare, risiedono proprio nella voce dell’“altro”. 4.1 FORME DEL PREGIUDIZIO: IL PUNTO DI VISTA DELL’“ALTRO” L’ascolto delle testimonianze dell’utenza straniera, inizialmente, mi erano sembrate fondamentali per allargare il campo della ricerca. Tale era infatti l’esigenza di fronte alle ristrettezze del terreno d’indagine. Sapevo di non potermi limitare all’ascolto di alcuni operatori sanitari, alla partecipazione di qualche giornata di formazione, e all’osservazione, forzatamente incompleta, in Pronto Soccorso. Il terreno necessitava di essere esteso anche ai diretti fruitori del sistema sanitario, e ai potenziali bersagli dell’approccio pregiudizievole preso in esame. Dalle interviste condotte in seno al progetto di ricerca sulla salute di richiedenti asilo, titolari di protezione internazionale e rifugiati51, sono emerse delle risposte che hanno in larga misura confermato la presenza di consistenti 51 Progetto FER Non solo asilo 3. Alle categorie citate, si sono poi aggiunti anche altri migranti cosiddetti “economici” o presenti in Italia grazie ai ricongiungimenti familiari. 174 pregiudizi nell’operato del personale medico, come anche nelle inique politiche sanitarie che limitano l’accesso ai servizi e oscurano o negano il diritto alla salute. Le testimonianze ascoltate hanno anche confermato l’importanza dell’incidenza dei fattori sociali sulle condizioni di salute dei migranti. Infine, hanno richiamato la mia attenzione verso un elemento che ha confermato il paradosso e l’inconsistenza delle basi più “mitologiche” che empiriche delle logiche differenzialiste. Questi elementi mi hanno aiutato a supportare l’ipotesi che ad essere chiamate in causa siano piuttosto delle specifiche strategie politiche, che si nutrono del complesso di pregiudizi comuni sull’“altro” e che offuscano la vista rispetto alla possibilità di creare e incrementare pratiche di comunicazione e ascolto più profonde e comprensive. In questo senso i migranti, definendo la loro idea di benessere e raccontando le loro percezioni relative al Servizio Sanitario Nazionale, secondo la loro personale esperienza, hanno tratteggiato uno scenario molto distante da quello voluto dalle retoriche del pregiudizio. Hanno presentato, forse senza volerlo, una visione alternativa possibile, che si basa su presupposti improntati alla somiglianza molto più che alla differenza. In altri termini, nell’ascoltare i loro vissuti e le loro impressioni, soprattutto per quello che concerne coloro che sono iscritti al Servizio Sanitario Nazionale, sembrava di sentire individui e cittadini qualunque, alle prese con un sistema complesso, con le sue mancanze e le sue incompletezze, con le sue farraginosità e la sua miopia nel rispondere alle richieste di assistenza. Con questo non intendo trasmettere un messaggio semplificatore che riduca la complessità della situazione in cui versano i migranti. Vorrei però sottolineare come le loro dichiarazioni offrano degli 175 spunti per riesaminare un concetto di cittadinanza più flessibile e aperto. Essi infatti, si approcciano ad un sistema istituzionale come potenziali cittadini e come parte di una collettività che invece tende a non abbracciare determinate categorie. Lo sguardo dei migranti, che si trovano a condividere esperienze simili a quelle del cittadino del paese di approdo, dà la possibilità di ripensare quelle categorie, rendendole, quando possibile, meno rigide, pur sempre nel riconoscimento dell’eterogeneità individuale di chi ne fa parte. In definitiva, mettere insieme le varie risposte mi ha dato modo di sviluppare diversi ordini di riflessione, che da un lato richiamano la trattazione condotta finora sul pregiudizio agito e subito, e che dall’altro si aprono a prospettive inattese e proiettano visioni alternative. 4.1.1 Il pregiudizio subito Il pregiudizio, come ho cercato di mostrare nei capitoli precedenti, si incastra fra le maglie del sistema politicosanitario, e se ne vedono gli effetti quando questo predispone criteri selettivi di accessibilità alla cura, e mina la possibilità di dare risposte adeguate secondo le esigenze di ciascuno. Ancor prima, il pregiudizio si inserisce negli anfratti di un sistema culturale che, naturalizzando le differenze, non permette che se ne riconosca il carattere artificiale, e finisce per creare dei criteri di legittimità ai quali le azioni discriminanti possono appellarsi. In questo modo, quella che è una differenza tutta sociale e politica, viene interpretata come differenza naturale 176 e biologica – o culturale, come il razzismo moderno preferisce interpretarla. Confondendo i due piani, si può arrivare a giustificare le discriminazioni, oppure si giunge a considerarle anch’esse “naturali” e non passibili di revisione critica. Alla reception del Pronto Soccorso dell’ospedale Mauriziano, durante un’osservazione condotta prima di effettuare alcune interviste agli infermieri, si era avvicinata una signora molto anziana, con diverse carte in mano, palesemente disorientata e in cerca di spiegazioni sul da farsi. L’infermiere dell’accettazione si era alzato dalla sua postazione, aveva raggiunto la signora oltre il banco, e aveva iniziato a sfogliare le carte, dividendole, spiegandole che cosa dovesse fare con ogni singolo documento, dandole indicazioni per uscire dal Pronto Soccorso e arrivare nel reparto specialistico dell’ospedale, dove avrebbe dovuto effettuare la visita prenotata. Dopo circa un’ora (erano le 4 pomeridiane), si erano presentati due ragazzi molto giovani, neri, uno dei due con diverse carte in mano, palesemente disorientato e in cerca di informazioni sul da farsi. Lo stesso infermiere dell’accettazione, rimanendo seduto, aveva dato un’occhiata alle carte, aggrottando le sopracciglia le aveva restituite al giovane, chiedendogli in modo piuttosto seccato che cosa ci facesse di nuovo in Pronto Soccorso, e dicendogli che dovevano smetterla di presentarsi in accettazione, che la visita era prevista per le 11.30 di quella stessa mattina, e che avendo perso il loro turno, avrebbero dovuto fare interamente l’iter di prenotazione e pagamento del ticket. Con poche parole, i due erano stati allontanati (probabilmente per la seconda volta), senza avere nessun tipo di indicazione utile sul come procedere per l’annullamento della visita e l’eventuale nuova prenotazione, o per poterla recuperare. I 177 due parlavano un italiano piuttosto stentato. L’infermiere dell’accettazione, con un paio di frasi scandite e pronunciate ad alta voce, aveva fatto capire con efficacia che dovevano andarsene. Un caso, probabilmente, ma un caso emblematico di come la “differenza pensata” diventi una “differenza agita”. La signora molto anziana, che non si raccapezzava né a livello spaziale (aveva confuso l’entrata del Pronto Soccorso con l’entrata principale dell’ospedale) né a livello burocratico (non riusciva a districarsi fra i vari incartamenti), aveva ricevuto, in maniera piuttosto cordiale, le indicazioni necessarie a mandare a buon fine la sua visita specialistica. L’infermiere aveva ridotto le distanze, si era alzato dalla sua postazione, e aveva fatto in modo che la donna non tornasse più in Pronto Soccorso una volta individuata la strada corretta da percorrere. I due giovani neri erano stati allontanati dal Pronto Soccorso senza molte spiegazioni, sarebbero probabilmente tornati a chiedere informazioni nello stesso posto, suscitando maggiore stizza e insofferenza. Oppure, con un po’ di fortuna, avrebbero trovato l’ufficio informazioni interno alla struttura ospedaliera e magari qualche suggerimento in più per non perdere la priorità della visita acquisita con la prenotazione. Ma la salute non può (o per lo meno non dovrebbe) essere affidata alla fortuna. Se a questa disparità di trattamento basata sul colore della pelle o sulla scarsa padronanza della lingua del paese d’approdo, si aggiungono altri fattori come la difficile fruibilità del diritto alla cura, per la fragilità socio-economica del migrante, emerge un quadro in cui la salute diventa un bene di lusso, più che un diritto inalienabile o un bene indivisibile. 178 Il fatto che l’infermiera citata nel Capitolo III parlasse di utenza straniera in sovrannumero nei Pronto Soccorso, e il fatto che l’infermiere dell’accettazione fosse scocciato per il ritorno dei due giovani per un problema che continuava a non risolversi, messi a confronto con le risposte dell’utenza straniera, suggeriscono che ciò su cui ci si ostina a concentrarsi, è in realtà un problema fittizio. Ovvero, quella che è una disuguaglianza sociale, viene differenza naturale. I due aspetti mascherata da si alimentano reciprocamente e si traducono, nella pratica, in una disparità sul piano dei diritti. Se più che concentrarsi sulle “ontologie dell’alterità” ci si interrogasse sul sistema di accoglienza e, in questo caso specifico, sul funzionamento o meno del sistema sanitario, si eviterebbero forse alcuni problemi gestionali. L’infermiera che parlava in termini di “ingiustizia sociale” (Capitolo III), probabilmente sarebbe meno propensa a definire gli stranieri come semplici approfittatori, ad esempio, e le ostruzioni provocate dall’afflusso consistente dell’utenza straniera nei Pronto Soccorso potrebbe in parte sciogliersi. Il senso comune infatti definisce chi è percepito come diverso e “altro” talvolta come scroccone, che vive sulle spalle degli “italiani”, come asserivano alcuni infermieri dei Pronto Soccorso, o molti operatori sanitari che avevano partecipato alle giornate di formazione a cui ho assistito, o i mass media con i loro messaggi più o meno esplicitamente stigmatizzanti. Ma il senso comune attribuisce all’“altro” anche altre qualità negative, prima fra tutte, in ambito sanitario e non, quella della contaminazione e del contagio. Lo si è visto nel capitolo precedente, organizzando le risposte date da diversi infermieri, che dirigevano un’attenzione 179 particolare ai concetti di sporco, contagio e immigrazione, spesso ponendoli in stretta relazione. Questa visione si riflette nella pratica quando, di fronte a colui che corrisponde ai criteri di alterità stabiliti, si utilizzano accortezze eccezionali e preventive. Potevo osservare questo fenomeno in uno dei due Pronto Soccorso considerati per le interviste agli infermieri, dove, registrando i vari pazienti, l’infermiera di turno tastava polsi e toccava fronti a mani nude, ma nel compiere le stesse identiche operazioni nei confronti di una donna rom, aveva preferito indossare i guanti. Il pregiudizio si agisce, dunque, si subisce, ma si interiorizza anche. Durante un focus group, condotto nell’ambito della ricerca sulla salute del progetto FER Non solo asilo 3, una donna di origine africana (subsahariana), affrontando l’argomento fiducia – una delle quattro parole chiave attorno alle quali si incentravano le discussioni52 – si scagliava contro la cattiva pratica preventiva negli ospedali di fare esami del sangue per verificare l’infezione da HIV: Se sei africano ti fanno gli esami del sangue prima di tutto, per vedere se hai malattie strane che porti dall’Africa e se hai l’Aids. Quella è la prima cosa che ti controllano. Questa dichiarazione era stata avversata da alcuni dei presenti, che sottolineavano come gli esami del sangue siano una prassi normale in qualunque ambulatorio. Fra coloro che partecipavano, diversi asserivano che ogni qual volta si fossero recati in Pronto Soccorso, erano stati sottoposti a esami del sangue. 52 Si rimanda la descrizione della ricerca al Capitolo II. 180 Parlando con gli infermieri mi ero mossa in modo tale da capire se questi esami del sangue “preventivi” fossero una pratica obbligatoria da effettuare con tutti i pazienti. I responsabili del personale infermieristico dei due Pronto Soccorso torinesi considerati, mi avevano risposto che gli esami del sangue non sono obbligatori, ma sono richiesti solo in casi clinici specifici (ad esempio nel caso in cui sia necessario sottoporre il paziente a intervento chirurgico). Inoltre, il test per accertare l’infezione da HIV, se effettuato senza il consenso formale del paziente, è un’azione perseguibile penalmente, ai sensi della legge emanata dal Ministero della Salute nel 1990 (Legge 135/1990, art. 5, comma 3), che prevede che nessuno può essere sottoposto, senza consenso, ad analisi tendenti ad accertare l'infezione da HIV, salvo che per motivi di necessità clinica e nel proprio interesse. Se davvero la donna avesse avuto esperienze simili e se gli stranieri che partecipavano al focus group fossero stati sottoposti in modo preventivo e non clinicamente giustificato agli esami del sangue ad ogni accesso in Pronto Soccorso, sarebbe un fatto grave, anzitutto sotto il profilo legale. Purtroppo, anche in questo caso, sono stata costretta ad attenermi a quanto riportato dagli utenti e dagli operatori sanitari, non essendomi consentita la possibilità di accertare tale pratica e di poterla comprovare o smentire. È probabile che la donna che si sentiva bersaglio di razzismo aveva generalizzato una situazione particolare, ma la sua percezione va contestualizzata, e va considerata nell’insieme delle “cattive pratiche” che portano a trattare in modo diseguale chi si presenta con caratteristiche ascrivibili all’alterità. 181 Altri esempi di queste “cattive pratiche”, si possono ravvisare nelle indicazioni riportate dagli utenti per quanto concerne il rapporto medico-paziente in generale. Di nuovo durante la conduzione dello stesso focus group, e ancora durante la discussione circa la tematica della fiducia nel sistema sanitario e nei suoi funzionari, un ragazzo nigeriano si esprimeva così: Non frequento molto i medici, ma se vedo che davanti ho una persona che mi ascolta senza fare discriminazioni e mi accoglie, questo mi dà fiducia; molti che vedono che sei straniero, sembra abbiano fretta di mandarti via. La fretta nell’allontanare i casi clinici “scomodi”, difficili da interpretare era una sensazione piuttosto diffusa fra gli utenti intervistati, e un esempio parziale ma emblematico di tale atteggiamento può essere rappresentato dal caso dei due giovani neri citati poc’anzi, che sono stati respinti senza troppe spiegazioni dall’operatore dell’accettazione. Parlando di prevenzione, durante i focus group, questo problema riemerge. Al di là degli ostacoli burocratici e normativi, che impediscono ad alcune categorie con uno status giuridico precario, come i migranti, una fluida accessibilità ai servizi di cura, anche la dimensione relazionale gioca un ruolo fondamentale nella salvaguardia del proprio benessere. Dichiarare che i medici di base, ad esempio, sono poco frequentati da molti migranti, rinvia proprio all’aspetto di una comunicazione insufficiente e inefficace. Legate al commento del ragazzo nigeriano, in materia di fiducia e prevenzione, erano molte le testimonianze di chi, a causa di problemi linguistici, invece che ricevere un ascolto più attento e concentrato a cogliere la natura del disturbo che 182 a fatica veniva presentata, aveva avuto esperienze piuttosto negative, di disattenzione e superficialità nell’incontro con gli operatori sanitari consultati: Io vado dal medico solo quando sto molto male; anche perché spesso per farmi capire uso il traduttore di Google, ma più volte per questo sono stata derisa…e poi anche se riesco con la traduzione di Google a spiegare quello che ho, il medico mi fa delle domande che io non riesco a capire e a cui non so rispondere, ci raccontava una ragazza somala, a seguito di un’altra dichiarazione particolarmente incisiva di un’altra donna: Vado dal medico quando sto male e non mi curano…figurati se vado per fare prevenzione! E un giovane guineano, medico nel suo paese d’origine, e disoccupato qui in Italia, sottolineava: La mancanza di ascolto può minare la fiducia. Io sono medico e so quanto è importante parlare bene alle persone malate, il problema è che qui, a volte, non hanno tatto e ti spaventano. Raccontando episodi specifici della sua esperienza professionale, ribadiva l’importanza dell’ascolto del paziente come atto terapeutico principale, in un certo senso prioritario rispetto a qualunque altro farmaco. Il “parlare bene”, cioè il tatto, la delicatezza che ogni paziente gradisce nell’ascolto del proprio problema come nella comunicazione di una diagnosi, era una questione già sollevata nella fase delle interviste singole ai migranti. Una donna eritrea, rievocando il periodo di convalescenza molto lungo (sei mesi circa), dovuto ad un’infezione tubercolare che aveva colpito sia lei che le due figlie più piccole, raccontava 183 di come il medico che le aveva comunicato la diagnosi, la necessità dell’isolamento in quanto vettore di contagio, le aveva causato un grande spavento per i modi non solo scortesi e allarmistici. La donna infatti non aveva compreso, per problemi linguistici (era da poco tempo arrivata in Italia, e ancora non era in grado di parlare fluentemente e di comprendere la lingua), ciò che il medico le aveva detto in termini specialistici. Non aveva capito la natura del problema e si era vista porre in isolamento, in quanto infetta, senza però comprendere la causa. Evidentemente, dall’altra parte era stato sottovalutato l’aspetto relazionale e comunicativo, e il medico in questione non aveva messo al corrente la paziente del suo stato di salute nel modo più adeguato. Ciò che era stato ritenuto più importante era cioè isolare la donna in quanto soggetto certamente un patogeno. senso, ma Questa soluzione aveva non accompagnandola ad un’adeguata comunicazione, aveva suscitato panico nella paziente. Una ragazza somala molto giovane, titolare di protezione sussidiaria e ora residente ad Alba, dove l’abbiamo conosciuta, raccontava un’esperienza simile, che sottolinea la forma di violenza che si cela dietro alla comunicazione poco curata e mal gestita. Ogni giorno, in un C.A.R.A. sito in Calabria, dove aveva trascorso diversi mesi dal momento del suo arrivo, le venivano somministrate delle pastiglie che non sapeva che cosa fossero e a che cosa servissero. Si trattava probabilmente di vaccinazioni che vengono disposte in questi centri di accoglienza, come chiariva la mediatrice culturale somala presente all’intervista (la ragazza infatti non parlava l’italiano, e aveva preferito affidarsi alla mediatrice). In qualunque contesto e per 184 qualunque motivo, non informare il paziente della terapia, è di per sé una grave mancanza. La scarsa attenzione data agli aspetti relazionali e gli atteggiamenti spesso viziati da logiche pregiudizievoli, concorrono a indebolire maggiormente una categoria di individui già giuridicamente fragile e favoriscono, più o meno consapevolmente, il mantenimento di tale debolezza. Questa vulnerabilità sociale dei migranti non deve essere intesa come caratteristica essenziale, ma come condizione provvisoria e impermalente dettata dal sistema di accoglienza e da dinamiche culturali pregiudizievoli. Occorre precisare infatti che il migrante si trova in una situazione di debolezza giuridica, ma rimane pur sempre, al contrario dell’immaginario inferiorizzante, un individuo dotato di agentività che deve far fronte a delle problematiche che si modificano continuamente durante il percorso migratorio. Il complesso di pregiudizi che avvolge la figura del migrante tende da un lato ad appiattire e a nascondere le sue potenzialità e le sue competenze, e dall’altro a mantenere intatti o a peggiorare i suoi aspetti di vulnerabilità, sul piano giuridico e su quello economico e sociale. In questo senso si può riprendere il concetto di sofferenza sociale, che chiama in causa i rapporti di potere e che rende visibili le asimmetrie sociali, molto più determinanti delle differenze culturali. Occorre infatti chiedersi in che misura le differenze culturali, percepite il più delle volte secondo linee guida improntate a visioni stereotipiche, siano strumentalizzate dalle retoriche del pregiudizio, al fine di mantenere quella diseguaglianza sociale, mascherandola da diseguaglianza culturale. 185 4.1.2 Differenza sociale, sofferenza sociale Durante le interviste singole e i focus group, ai migranti che partecipavano veniva chiesto quale fosse la loro percezione del Servizio Sanitario Nazionale, in che modo e in quali occasioni se ne servissero e quali punti di forza o debolezza potessero vedere in esso. Occorre tenere presente che tutti i migranti potevano parlare con relativa cognizione di causa, poiché ognuno di loro aveva almeno un altro sistema (cioè quello del proprio paese d’origine) con il quale mettere a confronto quello italiano. Inoltre, la maggioranza degli intervistati aveva conosciuto almeno una o due altre realtà europee prima di quella italiana. Secondo le esperienze personali di malattia o infortunio, ogni intervistato e partecipante ai gruppi di discussione, aveva riportato la propria opinione, partendo dal commentare i referenti concreti del Servizio Sanitario Nazionale, come gli ospedali e le figure dei medici di base. I migranti direttamente intervistati durante la ricerca sulla salute, ribadivano l’importanza del Pronto Soccorso e dell’ospedale come strutture di riferimento molto importanti in caso di bisogno, a scapito invece del medico di base, una figura talvolta meno conosciuta, meno riconoscibile, più difficile da raggiungere. Secondo gli infermieri, e in parte secondo le testimonianze dei migranti che vedono nel Pronto Soccorso un appiglio ben visibile (a volte l’unico) per problemi sanitari, è possibile affermare che gran parte dell’utenza straniera si riversi nei Pronto Soccorso, anche per mali minori. Gli infermieri intervistati hanno talvolta espresso insofferenza nei confronti dell’utenza straniera che soventemente ha problemi ascrivibili al codice bianco del triage. Questo dovrebbe portare a pensare che la conoscenza 186 dei servizi sia sommaria, e che l’orientamento all’interno del sistema sanitario sia piuttosto complessa per uno straniero. Se lo è per chi è nato e vissuto all’interno di questo contesto, per chi viene da fuori è evidentemente più semplice smarrirsi. Non si tratta però solo ed esclusivamente di lacune informative, che peraltro coinvolgono anche molti operatori sanitari che incappano nelle disarmonie normative locali e statali, come spiegato nel Capitolo III. Occorre tenere conto di una serie di fattori che, agendo in modo sinergico fra loro, creano le condizioni per una marginalizzazione ed indebolimento crescenti del migrante. La carenza di informazioni relative al funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale, la debolezza sul piano giuridico e la fragilità socio-economica, sono elementi non trascurabili nella creazione di diseguaglianze a livello di salute e mantenimento del benessere. I vari elementi, messi insieme, riportano a considerare la salute e la malattia come un complesso di significati e risvolti che vanno ben al di là della dimensione organica. Di questa visione più olistica della salute, i migranti hanno una lucida consapevolezza. Alla domanda sulla loro idea di malessere, nella maggioranza assoluta dei casi, i migranti intervistati hanno risposto facendo riferimento a qualcosa che non aveva direttamente a che fare con la malattia intesa nel senso biomedico di disease (Kleinman 1988) ma piuttosto all’esperienza soggettiva di malattia, in stretta relazione con la propria condizione sociale. Ognuno di loro infatti, salvo un paio di eccezioni, ha indicato come cause principali di malessere, le seguenti risposte, in quest’ordine di priorità: la mancanza di lavoro, il non riconoscimento in Italia delle proprie capacità e competenze personali, la mancanza di 187 relazioni e il relativo isolamento, a volte dovuto alle difficoltà linguistiche iniziali. In due casi, la causa di malessere era invece individuata dagli intervistati nella “precarietà giuridica”, nella mancanza di un regolare permesso di soggiorno, ad esempio. A contribuire al benessere c’era, per la maggior parte degli intervistati, la buona accoglienza da parte della società ospite ma anche da parte degli operatori sanitari stessi, che quando hanno cura di interagire con loro in modo cortese, aperto e disposto all’ascolto, permettono di affrontare le fasi più delicate della malattia in modo completamente diverso e decisamente alleggerito. L’importanza del riconoscimento delle proprie capacità, come via per il mantenimento della dignità della propria persona, o il valore del lavoro come mezzo per il raggiungimento di un reale benessere, suggeriscono alcune riflessioni ulteriori. Il migrante che riconosce la complessità dell’idea di benessere, non ridotta esclusivamente al corretto espletamento delle funzioni organiche, chiama in causa problematiche inerenti anche all’ambito politico e sociale, oltre che sanitario. Un giovane ivoriano, intervistato ad Asti, fotoreporter per un giornale nel suo paese, e qui declassato ad un lavoro che aveva definito “un lavoro fisico e molto pesante, che non ha nulla a che vedere con i titoli di studio e le competenze professionali acquisite in dieci anni di esperienza” nel suo paese, verso la conclusione del colloquio aveva espresso una richiesta – una speranza, un desiderio – molto meno ingenua dell’apparenza: avrebbe voluto un ufficio informazioni in cui poter chiedere, testualmente, tutto. La non banalità di questa richiesta risiede proprio nel fatto che la domanda di salute e di benessere va ben oltre le 188 competenze sanitarie come le intendiamo tradizionalmente, separate cioè dal contesto socio-economico da cui l’individuo proviene e in cui vive. I migranti che ponevano al primo posto, fra le cause di malessere, l’assenza di lavoro, l’irregolarità giuridica o il mancato riconoscimento delle proprie competenze personali, rinviano ad un concetto di malessere di ampio respiro, che considera la dimensione biosocio-politica e non meramente organica del disturbo. Soprattutto per il migrante economico53, la possibilità di realizzare e portare a compimento il proprio progetto migratorio, attraverso il lavoro, ha delle enormi implicazioni sul proprio benessere. La mancanza di lavoro equivale ad un fallimento che destabilizza in modo ancora più violento la già precaria condizione del migrante. Per non parlare della malattia, che rappresenta la minaccia più grande alla realizzazione del progetto migratorio (Sayad 2002). Il migrante offre il proprio corpo come strumento produttivo. Nel momento in cui questo viene meno, il dramma si amplifica, perché il corpo malato non serve, è improduttivo. Le implicazioni sul piano individuale e sul piano sociale della malattia assumono quindi per il migrante significati ancora maggiori rispetto alla norma. La metafora corporea utilizzata nel Capitolo III, cioè quella del migrante pensato come minaccia che rompe l’integrità del corpo sociale o come agente patogeno che contagia il corpo fisico, serviva a sintetizzare i dati raccolti dalle interviste, dalla letteratura giuridica e dai corsi di formazione in ambito sanitario. Come si è visto infatti, 53 In questo caso specifico viene ridotta la complessità delle motivazioni che stanno a monte della decisione di migrare. Rispetto agli utenti incontrati e di cui riporto le testimonianze, non sono stati considerati i migranti che si trovano nel nostro paese grazie ai ricongiungimenti familiari o per altre ragioni che non siano la richiesta di asilo o la ragione economica. 189 l’immigrato è spesso considerato il responsabile del degrado del corpo fisico, in quanto soggetto contaminante, e del corpo sociale, in quanto elemento estraneo che disfa gli ideali nazionalisti dell’integrità socio-politica. In questa sezione del lavoro dedicata all’utenza, si può adoperare nuovamente la metafora corporea, questa volta però riempiendola di ulteriori significati. La lettura che Sayad offre dell’esperienza migratoria in generale (2002), ha molto a che vedere con la malattia, nel senso che questa stessa sarebbe l’espressione corporea del disagio connaturato alla figura del migrante, escluso giuridicamente dalla cosiddetta società di “accoglienza”, e che offre il proprio corpo come unico strumento di riconoscimento attraverso il lavoro. Se questo diventa corpo malato, il migrante sprofonda in un duplice vuoto. La sofferenza, scrive Ivo Quaranta (2006b), appare come esperienza del tutto naturale, “panumana”, eppure, come indicano le risposte date dai migranti intervistati, la sofferenza può essere un fatto squisitamente sociale, che chiama in causa dimensioni ultra-organiche, come quella giuridica e quella economica. Per usare anche le parole di Didier Fassin, Il corpo sofferente ha imposto la propria legittimità laddove altre basi per il riconoscimento venivano progressivamente messe in questione […] La legittimità del corpo che soffre, proposta in nome di un’umanità comune, è opposta all’illegittimità di un corpo razzializzato, promulgato in nome di una differenza insormontabile (Fassin 2006: 305-306, in Quaranta 2006a). L’atto forse più violento che si può compiere in ragione del pregiudizio, è quello di ridurre le connessioni del corpo con altre dimensioni oltre quella fisica, operare cioè quella 190 consueta dicotomizzazione tra dimensione organica e dimensione sociale. Il frequente e prioritario richiamo, da parte degli utenti intervistati, all’importanza del lavoro e del riconoscimento delle proprie capacità come principali indici di benessere, conduce ad interrogarsi sulla rilevanza dei fattori sociali e sulla loro non trascurabile incidenza sul piano sanitario. Questi richiami stanno infatti a significare che sul corpo e sull’esperienza corporea di salute e malattia, si inscrivono gli orientamenti delle politiche immigratorie, che hanno evidenti ricadute sulla presenza o assenza di benessere percepito dalla persona. Una donna somala, durante il colloquio, aveva sintetizzato questa riflessione dicendoci che quando si possiede un tetto sulla testa, non si patiscono né caldo né freddo, e tutte le preoccupazioni passano in secondo piano. La dilatazione del concetto di salute a qualcosa che ha attinenza con le condizioni di vita, con gli ordinamenti giuridici e le possibilità economiche, induce anche a considerare come sia fortemente illusorio pensare che la cura vada nell’unica direzione del risanamento organico e della liberazione da un disturbo fisico. Le testimonianze delle persone che abbiamo incontrato durante la ricerca salute facevano allusione a qualcosa che va al di là di quello che il senso comune identifica come ambito sanitario. Nell’insistenza sugli aspetti sociali del malessere o benessere, mi hanno suggerito che si trattasse di qualcosa che non dovrebbe continuare ad essere ignorato. La definizione di sofferenza sociale coniuga la dimensione sanitaria con la dimensione sociale che la trascende, ma che al tempo stesso la condiziona, e va intesa come qualcosa che 191 […] accomuna una serie di problemi umani la cui origine e le cui conseguenze affondano le loro radici nelle devastanti fratture che le forze sociali possono esercitare sull’esperienza umana. La sofferenza sociale risulta da ciò che il potere politico, economico e istituzionale fa alla gente e, reciprocamente, da come tali forme di potere possono esse stesse influenzare le risposte ai problemi sociali. Ad essere incluse nella categoria di sofferenza sociale sono condizioni che generalmente rimandano a campi differenti, condizioni che simultaneamente coinvolgono questioni di salute, di welfare, ma anche legali, morali e religiose (Kleinmann, Das, Lock, a cura, 1997)54. La sofferenza sociale allora, letteralmente, prende corpo e assume forme concrete negli atteggiamenti discriminatori individuali di alcuni operatori sanitari, nella superficialità di alcuni formatori e nelle limitazioni nell’accesso ai servizi di cura imposte dalle politiche sanitarie, e nei profili di vita e di salute individuali è possibile scorgere i riflessi di quelli che sono più ampi processi sociali. 4.1.3 Oltre la differenza All’inizio del paragrafo 4.1 avevo posto l’attenzione sugli aspetti per così dire “familiari” che potevano essere riscontrati nelle risposte degli utenti stranieri. Prima di affrontare la ricerca, mentre con gli altri membri del gruppo di lavoro si definivano gli obiettivi e si elaboravano le tracce delle interviste, mi aspettavo forse di ricevere dagli intervistati alcune risposte se non “esotizzanti”, quanto meno culturalmente connotate. Soprattutto per quanto riguarda il concetto di salute e malattia, ero molto curiosa di sapere che cosa ne pensassero i nostri interlocutori. Abbiamo 54 In Quaranta 2006b: 8-9. 192 avuto a che fare con somali, eritrei, nigeriani, afghani, bangladeshi, iraniani e altre persone provenienti da contesti geografici e socio-culturali molto distanti l’uno dall’altro e soprattutto da quello italiano. Per questa ragione, all’inizio del percorso pensavo (e forse, in qualche misura “speravo”) che ognuno di questi migranti ci avrebbe consegnato delle risposte imprevedibili, diverse dalla mia idea di salute e malattia, sulla base delle quali costruire anche un discorso di comparazione reso possibile dalla grande varietà di chiavi di lettura possibili. Le mie aspettative non sono state soddisfatte. La sorpresa più grande è stata quella di poter constatare che l’idea di salute e di malattia e la percezione del sistema sanitario quasi arrivava a coincidere con la mia. Nulla di esotico, nulla di così lontano e diverso da me. Un po’ come il medico con la sindrome di Salgari citato nel Capitolo III, che si era trovato a dover curare raffreddori e non malattie tropicali o di inarrivabile diagnosi, anche io, in qualche modo caduta nella trappola ideologica dell’esotismo e del differenzialismo, mi aspettavo di avere chissà quali risposte curiose sull’idea di malessere, benessere e cura. Dov’era finita la differenza incolmabile tra “noi” e “loro”? La marca “culturale” nelle loro risposte era ridotta ai minimi termini. Ciò che è emerso, soprattutto nell’espressione dei bisogni, era talmente vicino a “noi”, che la sorpresa è risultata doppiamente amplificata. La diversità che ho potuto ravvisare non risiedeva tanto nelle richieste degli intervistati, quanto nelle risposte che il sistema è o non è in grado di dare loro, e nella disparità di trattamento che viene loro riservato, nonché in una differenza di status socio-economico, laddove cioè la cultura non ha pressoché alcuna attinenza. 193 Certamente, si tratta di un terreno scivoloso, sul quale è difficile rimanere in equilibrio per non azzerare completamente la diversità culturale, un atto comunque grave che non tiene conto del giusto riconoscimento delle specificità culturali e individuali, o al contrario rendere tali specificità insostenibili e insormontabili. Importante è dare il giusto valore alla cultura di riferimento, senza tuttavia farla rientrare in un discorso esotizzante. L’esotizzazione della cultura rema infatti in senso contrario alla capacità della cultura stessa di adattarsi e rinnovarsi, senza che arrivi a rappresentare un nucleo fisso e permanente dal quale l’individuo non ha scampo. Anche il mio atteggiamento prevenuto è stato oggetto di riflessione nel riesame dei dati raccolti e nella rielaborazione degli stessi all’interno di questo lavoro. Proprio da quello infatti ho voluto procedere, per sottolineare i punti di forza del sistema culturale (o ideologico) del pregiudizio, ma anche e soprattutto i suoi possibili punti di debolezza. Un primo passo per osteggiare la retorica dell’alterità irriducibile, è mettere a fuoco la familiarità e la somiglianza in coloro che sono potenziali cittadini e che condividono e partecipano, per quanto invisibilizzati o misconosciuti, al nostro stesso spazio pubblico. Per quanto riguarda la percezione del Servizio Sanitario Nazionale, i migranti che ne avevano avuto esperienza lamentavano i lunghi tempi d’attesa delle visite specialistiche, i costi proibitivi delle cure dentistiche, la scarsa gentilezza e affabilità degli impiegati agli sportelli di informazione, la rigidità burocratica, la copertura solo parziale dei costi delle cure da parte del sistema sanitario (anche se naturalmente veniva riconosciuta la positività del 194 sistema pubblico di assistenza, rispetto ad altri paesi il cui sistema sanitario è privato e completamente a carico del singolo), la frammentarietà delle informazioni, la figura del medico di base a volte poco chiara per l’assenza di marcatori simbolici – come il camice bianco nello studio – e per le visite, spesso ridotte alla mera prescrizione di farmaci55. Durante la restituzione dei risultati della ricerca agli operatori socio-sanitari nei territori coinvolti dal progetto FER Non solo asilo 3, era interessante notare come il pubblico annuisse ad ogni dichiarazione di questo elenco. Il commento più frequente era: “Non solo loro, non è una novità! Anche per noi è così”. Le differenze sostanziali su cui a posteriori potevo riflettere, dunque, non risiedevano tanto nei bisogni di base – la domanda di cura – bensì nella risposta a tali bisogni. Su questo aspetto, a mio avviso, manca una sensibilizzazione adeguata. Anche in queste rappresentazioni, che fanno dell’“altro” un “altro assoluto”, tendiamo a vedere ciò che in un certo senso ci viene insegnato a vedere. Lo sguardo non registra tanto la realtà, ma anzi è soggetto ad una sorta di abitudinarietà, offerta da un determinato modello culturale all’interno del quale si è immersi, finendo per concentrarsi di più su alcuni aspetti e per trascurarne altri. Un dato di fatto spesso ignorato, forse perché dato troppo per scontato, è che la salute è un bene indivisibile, un bisogno di tutti, perché la malattia colpisce e destabilizza tanto lo straniero quanto l’italiano. La vera e propria differenza che emergeva dalle interviste e dalle discussioni di gruppo, non era infatti individuabile nei bisogni, quanto nella soddisfazione della richiesta di assistenza oppure nelle operazioni aprioristiche 55 Si tratta di un riassunto dei dati emersi dalle interviste e dai focus group, consultabili integralmente al sito www.nonsoloasilo.org. 195 stigmatizzanti di un sistema che, quando si confronta con una persona che, per lingua o colore della pelle, si presenta come diversa, le riserva un trattamento impari. Tra il difendere l’uguaglianza o, in caso contrario, la differenza a tutti i costi, c’è un vasto spettro di sfumature possibili. Pertanto, ciò che vorrei sostenere non è un’ennesima dicotomia, o un ennesimo taglio alla complessità che riduca le esigenze dei migranti alle nostre, sostenendo la tesi non dimostrabile per cui saremmo tutti uguali. Si tratta ancora una volta di concentrarsi sulla varietà dei gradi con cui pensare la differenza o l’uguaglianza. Senza arrivare a sostenere nuovamente una dicotomia tra due poli opposti (uguaglianza e differenza), si può pensare che l’uguaglianza dell’essere umano, dei suoi bisogni primari come quello del benessere e della salute, sia la base dalla quale partire per ripensare la differenza in termini più sfumati e flessibili, e sulla base di questa, rinnovare accordi e stabilire norme comuni meno rigide ed esclusive. Per questo motivo, più che di uguaglianza, sarebbe bene parlare di equità nelle distribuzione di risorse e di mezzi, a partire da una somiglianza nelle richieste che vengono avanzate. C’è del simile nell’“altro”, qualcosa che lo avvicina a noi e ci rende categorie in definitiva più compatibili di ciò che si vorrebbe far credere. I nostri bisogni sono molto simili, per lo meno in ambito sanitario, ma vanno ascoltati nella loro diversità relativa, tenendo conto delle specificità esistenziali, biografiche e sociali di ciascuno. Le risposte devono essere dunque calibrate tenendo conto di più aspetti e della complessità soggettiva dei pazienti. L’evento della malattia, l’esperienza del dolore, così come la soddisfazione di bisogni primari, costituiscono una base comune sulla quale occorre costruire risposte eque. Il 196 migrante è diverso non tanto ontologicamente, quanto nella rappresentazione che se ne fa e nelle politiche che lo escludono in quanto migrante, non già attraverso razzismi o discriminazioni individuali, bensì basandosi su un complesso di pregiudizio che agisce a livello sistemico. Andare oltre la differenza, in questo senso, non significa negarla, ma riconsiderarla attraverso delle lenti diverse, con uno sguardo meno essenzialista e più attento ai processi economici, storici e sociali che determinano un’eziologia del disagio più complessa. E per quanto concerne la salute, significa da un lato valorizzare un approccio olistico alla stessa, e dall’altro riappropriarsi di un senso di collettività più fluido e permeabile. Una risposta più attenta da parte dei servizi sanitari, dovrebbe cioè muovere dall’idea che la salute è un bene comune e indivisibile, e la sua salvaguardia giova alla comunità intera. Come aveva sottolineato la Presidenza Portoghese del Consiglio dell’Unione Europea nel settembre del 2007, L’Unione Europea ha bisogno e continuerà ad aver bisogno degli immigrati, per ragioni demografiche ed economiche, ... le politiche europee per l’immigrazione hanno bisogno di essere riviste ... l’accesso all’assistenza sanitaria da parte di tutti deve essere considerato come un prerequisito per la salute pubblica in Europa ed un elemento essenziale per il suo sviluppo sociale, economico e politico, oltre che per la promozione dei diritti umani. Rivolgersi alla salute dei migranti non è solo una giusta causa umanitaria, ma è anche un bisogno per il raggiungimento di un miglior livello di salute e benessere di tutti coloro che vivono in Europa56. La risposta alla domanda di salute e di benessere, dunque, non dovrebbero tanto basarsi sulla ricerca ostinata di 56 Conclusioni della Conferenza di Lisbona (Presidenza Portoghese del Consiglio dell’Unione Europea, 2007). 197 patologie esotiche o su paranoiche ossessioni del contagio, ma sull’assunto per il quale, se si agisce sulla limitazione delle cause sociali (economiche, giuridiche) alla malattia, ne consegue una maggior tutela da rischi a livello pubblico. In questo senso, politiche esclusive e differenzialiste, non solo sono violente nei confronti delle categorie più deboli, ma sono controproducenti sulla collettività in senso lato. 4.2 RIPENSARE IL PREGIUDIZIO I nodi fondamentali su cui ho riflettuto dopo aver elaborato e organizzato i dati emersi dalla ricerca sulla salute, si addensavano su alcuni interrogativi: qual è il passaggio che porta da un’osservazione obiettiva delle differenze fra individui al differenzialismo essenzialista delle categorie? Perché tutte le energie (politiche, mediatiche) si spendono sul differenzialismo e non su una visione alternativa? Per cercare delle risposte, una prima distinzione che mi è sembrato opportuno operare è stata quella tra differenza culturale e differenza sociale. Il pregiudizio che vizia il modello culturale dominante (quello proposto dai media, attuato dalle istituzioni politiche e riprodotto a livello individuale), porta a confondere le due differenze e induce a credere che la miseria, l’indigenza, la malattia, il potenziale contaminante, situazioni prodotte da una particolare condizione socio-economica, siano invece caratteristiche essenziali di una certa categoria, quella degli stranieri, concepiti stereotipicamente come emblema dell’alterità dalle connotazioni negative. La dinamica sottesa al pregiudizio è dunque quella di rendere ontologica, biologica e “culturale” 198 (nella versione essenzialista di cultura) una differenza che è invece parte del sistema sociale ed economico. Separare le due differenze significa porsi un altro interrogativo. Se la differenza che il pregiudizio vorrebbe come “naturale” si radica invece in fattori sociali, si dovrà considerare la differenza nelle cause della sofferenza. Lo scopo di introdurre il concetto di sofferenza sociale è esattamente quello di chiarire come il malessere possa essere indotto da disagi che nascono in dinamiche di potere che marginalizzano la categoria dei migranti e li espongono più di altri al malessere stesso. A questo punto, allora, la malattia diventa un fatto anche politico. Il pregiudizio elevato a modello culturale o a sistema istituzionale sembra inattaccabile proprio perché trae la sua forza dalla capacità dei modelli culturali di imporsi ed essere incorporati a tal punto da risultare naturali e da perdere di vista l’approccio critico che ne rivela la natura artefatta. Qui si inserisce una domanda che ho accennato all’inizio di questo paragrafo e che costantemente mi sono posta rileggendo i vari dati della ricerca sulla salute: per quale ragione non si insiste con forza su un modello alternativo? In ambito sanitario, l’incontro con l’alterità sicuramente pone dei problemi a livello comunicativo e gestionale. La lingua, le abitudini, indubbiamente la costituiscono religione delle di appartenenza concrete e reali eterogeneità con cui trovare compromessi e strategie risolutive. Ma la voce dell’“altro” getta una luce su modelli di convivenza possibili, al di là delle diversità che non possono essere ignorate. 199 Il medico guineano che aveva partecipato a uno dei due focus group, incoraggiato da altri migranti presenti alla discussione, diceva: Lo Stato dovrebbe occuparsi di questi problemi, ma anche gli stranieri li possono provare ad evidenziare e proporre delle soluzioni: ad esempio, se in ogni ospedale, ASL, ambulatorio dei medici di base e anche nei diversi sportelli e luoghi pubblici ci fosse una cassetta dove mettere le proprie critiche e i propri suggerimenti per migliorare la situazione, si creerebbe un dialogo tra strutture ed utenti…Anche senza avere la cittadinanza, e quindi anche se privi di certi diritti, possiamo comunque dire cosa pensiamo, perché la legge dovrebbe essere uguale per tutti, abbiamo gli stessi diritti e l’Italia è una paese libero dove tutti possono parlare… I suggerimenti pratici che emergevano da parte degli utenti nel corso dei focus group, erano molti. Quello che proponevano erano soluzioni concrete, e spesso, come nel caso riportato poc’anzi, piccoli gesti dettati dalla semplice ragionevolezza. Al di là dell’applicabilità di tali proposte, l’idea che andavo maturando era che ciò che descrivevano altro non era che un modello di convivenza che si espleta nella loro richiesta di cittadinanza e nell’implicita proposta di ripensarla, oltre le barriere giuridiche che vengono imposte. La cittadinanza giuridica viene di fatto negata, producendo una diseguaglianza sul piano dei diritti, ma ignorando che lo spazio di partecipazione è uno spazio pubblico, entro il quale risiede una collettività, per quanto eterogenea questa possa essere. Il dubbio, allora, è che mantenere la frattura interna alla collettività, separando “noi” dagli “altri”, e sulla base di questa separazione, negare determinati diritti, non sia un’operazione casuale, ma strategica. Riprodurre lo stesso modello dicotomico, anche in ambito sanitario, eliminare il dubbio dall’orizzonte, insistere 200 sul rafforzamento piuttosto che sull’indebolimento del pregiudizio, forse risponde ad un obiettivo politico. L’“altro” rappresenta una cartina di tornasole del nostro approccio culturale, ne rivela forze e debolezze. Così i processi migratori, come afferma Sayad (2002), rivelano ciò che rimane in genere sommerso nel “non-pensato sociale”. Ascoltando i migranti, emerge un sistema politico e sanitario distratto, superficiale, disinformato, che non manca di usare violenza nei confronti di categorie che tende talvolta a invisibilizzare, talaltra a stigmatizzare o discriminare. Il pregiudizio dove si colloca in tutto questo? In sé, è difficile definirlo un vero e proprio modello culturale. Si potrebbe dire piuttosto che si serva delle vesti di un modello culturale, poiché questo è in grado di sopire i dubbi e naturalizzare i processi storici. Si potrebbe dire che il pregiudizio si annidi all’interno di un certo approccio culturale che fornisce i mezzi necessari a dirigere una determinata azione politica. Le logiche pregiudizievoli diventano così un mezzo con cui stabilire e mantenere determinati rapporti di potere fra dominanti e subalterni. Nell’ottica delle relazioni di potere, il pregiudizio può allora essere allontanato definitivamente dalla definizione di processo cognitivo individuale, perché investe una collettività, uno spazio pubblico e, pertanto, politico. In ciò, forse, è simile all’ideologia, in quanto sistema integrato di significati, di credenze e “mitologie”, che finiscono per orientare l’azione politica e dare suggerimenti a quella individuale. La violenza istituzionale (implicita), che limita o nega determinati diritti, e la violenza discriminatoria riprodotta 201 nelle pratiche individuali (esplicita), sembrano alimentarsi reciprocamente e rispondere ad un obiettivo politico. Il capovolgimento delle cause di questa violenza xenofoba con gli effetti, è resa possibile grazie all’appello ai pregiudizi più comuni sull’alterità: pensare agli immigrati come ad una minaccia (Dal Lago 1999), in ambito sanitario vettori di contagio o parassiti del sistema, giustifica azioni e reazioni difensive ed escludenti. Ma si tratta di un ragionamento viziato alla radice, di cui sembra si sia persa la coscienza. La questione sul ripensamento della natura del pregiudizio rimane per me aperta. Forse, riuscire ad intervenire sul pregiudizio non significa tanto avere la pretesa assoluta di poterlo smantellare, quanto piuttosto riconoscerne la presenza, tanto efficace quanto subdola, nelle pratiche quotidiane, a livello macro (delle istituzioni) e a livello micro (delle interazioni). Avere coscienza del pregiudizio è un primo passo per stemperare la violenza insita nelle semplificazioni, nei riduttivismi. Il problema fondamentale del pregiudizio e delle visioni stereotipiche risiede infatti nel considerarli “la realtà”, e non dei processi di plasmazione della realtà stessa. La capacità dei modelli culturali di presentarsi come naturali, viene sfruttata dal pregiudizio e dal mondo istituzionale che ne è fautore. L’unica arma che si possiede per osteggiare questa ovvietà, è problematizzarla, defamiliarizzarla, dubitare che si tratti di un’inevitabile autoevidenza. 202 Capitolo V RIFLESSIONI CONCLUSIVE È indice di povertà culturale non essere in grado di riconoscere i fenomeni di povertà culturale. (Francesco Remotti, L’ossessione identitaria) Il percorso finora tracciato, era teso ad individuare alcuni processi culturali e sociali che consentono al pregiudizio di prendere forma e di tradursi in prassi sociali, politiche e relazionali. Il pregiudizio assume forme mutevoli, è molto evidente nelle sue conseguenze, ma è difficile da cogliere in modo diretto, immerso com’è in una sorta di sottosuolo culturale. Per raggiungerlo, spesso occorre scavare in profondità nella dimensione dell’implicito, oppure disporre di più mezzi per poter collegare fra loro le sue manifestazioni superficiali, i suoi “affioramenti”, quasi a ricomporre le tessere di un puzzle. Per questa ragione è stato necessario individuare più terreni di ricerca, più voci a cui dare ascolto e più rimandi a cui prestare attenzione. Nei contesti sanitari, come si è visto, il pregiudizio assume delle caratteristiche particolari, e finisce per diventare un sistema di riferimento, un modello di comportamento e uno schema interpretativo con cui approcciarsi a chi si considera “altro”. L’“altro” assoluto, incarnato nella nostra società nella figura dell’immigrato, diventa la metafora vivente di un complesso di significati culturalmente costruiti, di una vera e propria ideologia politica, con i suoi miti e le 203 sue credenze, continuamente riattualizzati e utilizzati come ispirazione all’azione sociale e individuale. Al livello sistemico, il pregiudizio verso l’“altro” si espleta in un impianto normativo ambiguo, tendenzialmente discriminante, fondato spesso su luoghi comuni e, molto spesso, superficiale e approssimativo. A livello mediatico, il pregiudizio viene veicolato attraverso la riproposta assillante di un “altro” o scomodo e ingombrante, o minaccioso e patogeno. In un processo in continuo divenire, l’immaginario dell’alterità viene alimentato fino a diventare parte del senso comune, e fino a ispirare le più automatiche pratiche discorsive e i più “naturali” comportamenti interpersonali. Qui si inserisce un paradosso. Gli stereotipi e i pregiudizi costruiscono e definiscono l’alterità entro un determinato orizzonte culturale. Così facendo, oppongono la loro rigidità alla mutevolezza della realtà, al suo dinamismo, alla sua complessità: ne forniscono una rappresentazione semplificata (decomplessificata), stabile, “dura”. Al contempo però, a contraddire questa staticità, c’è la realtà, nel suo essere dinamico, fluido57. Gli stessi processi culturali che si sforzano di interpretarla e affrontarla sono operazioni intrinsecamente dinamiche. Si tratta, appunto, di processi: a livello sociale e culturale, è impensabile escludere il carattere di processualità e di elasticità. Riflettendo sul legame che esiste tra cultura, intesa dunque come fluida e processuale, e il pregiudizio, c’è una discrepanza profonda, una paradossale inconciliabilità, che si risolve non tanto separando le due cose, ma accettandone la 57 Sui meccanismi di opposizione al “flusso”, Francesco Remotti aveva già parlato nel suo lavoro Contro l’identità (2005). L’identità, come il pregiudizio che si fonda sulla logica dicotomica dell’irriducibile diversità fra “noi” e “loro”, è una costruzione che implica uno sforzo di differenziazione; si presenta pertanto come una riduzione drastica rispetto alle possibilità di connessione e come un irrigidimento massiccio rispetto all’inevitabilità del flusso. 204 coesistenza. Il pregiudizio, in definitiva, che assuma le forme di un’ideologia o che si inserisca fra le maglie di un modello culturale fino a diventare parte del senso comune, rimane comunque un fatto culturale, è compreso cioè nella cultura, proprio perché è un suo prodotto. La sua efficacia e la sua forza, forse risiedono proprio in questo stesso paradosso, cioè nella rappresentazione stilizzata e decomplessificata della realtà che tuttavia, grazie alle sintesi dei processi culturali, riesce ad adattarsi ad esigenze concrete. Le rappresentazioni stereotipate e un certo grado di pregiudizio nei confronti della complessità ineffabile della realtà, sembrano essere meccanismi fisiologici. Il punto è capire quando questi diventano patologici. In altri termini, rinunciare al pregiudizio definitivamente è praticamente impossibile, nel senso che ognuno di noi avrà bisogno, per necessità, di decidere come orientare le sue percezioni e come gestire le sue relazioni, sapendo che è pressoché utopistico cogliere le possibilità infinite che la realtà mette a disposizione. Per fare un esempio, nel sottoporre a me stessa la traccia di intervista che avrei poi presentato agli infermieri, anche io avevo dato una rappresentazione semplificata dell’immigrato, riducendolo all’idea del viaggio, simboleggiato nel disegno da un paio di scarpe58. Questa libera associazione deriva da una mia rappresentazione stilizzata, che ho deciso fra infinite altre. L’immaginario che nel tempo si è plasmato in me e attorno a me, e a cui attingo, è frutto di un lavoro culturale che mi indirizza e mi orienta nelle percezioni e nelle azioni. 58 Si rimanda alla lettura del Capitolo III, dove questa operazione è inserita nella trattazione delle interviste condotte con gli infermieri dei Pronto Soccorso. 205 Il problema risiede nella consapevolezza che si possiede di tali operazioni di sfrondamento delle possibilità alternative. Nel caso degli stereotipi e dei pregiudizi in ambito sanitario, la stilizzazione delle rappresentazioni diventa patologica nel momento in cui il nucleo solido e poco flessibile delle stesse è assunto come sostituto della complessità che ha di fronte, e viene in questo senso naturalizzato, cioè sottratto alla riflessione, alla presa di coscienza, alla consapevolezza che si tratti di una rappresentazione possibile fra tante. Francesco Remotti59 sostiene che sia la riflessività sia l’ottundimento siano due operazioni culturali necessarie. La prima consiste appunto nella capacità di riflettere sul senso delle infinite possibilità, inafferrabili tutte insieme, ma che impongono una scelta. L’ottundimento, al contrario, è l’operazione di sfrondamento di quelle infinite possibilità tramite la scelta. L’ottundimento può essere maturo, nel momento in cui è accompagnato dalla consapevolezza dell’operazione di decisione che si compie. Diventa invece sinonimo di ottusità quando si perde di vista quel senso delle possibilità, e si producono scenari senza via d’uscita, delle sorte di vicoli ciechi culturali. Ciò che a me sembra una prerogativa del pregiudizio differenzialista analizzato finora nei contesti sanitari indagati, è la sua capacità di sfruttare a proprio vantaggio e per i suoi fini (più o meno ingenui e innocenti) la dinamicità e la fluidità della realtà e dei processi culturali. Ma ciò che è 59 Alcuni di questi concetti sono presi da appunti delle lezioni di Antropologia culturale per il Corso di Laurea triennale in Comunicazione interculturale della Facoltà di Lettere e Filosofia, tenute dal Prof. Remotti presso l’Università di Torino tra il 2006 e il 2008. Di alcune lezioni sono disponibili i materiali didattici online, come segnalato nella sitografia di riferimento. Analoghe riflessioni sono contenute in Remotti 2011b. 206 denunciabile del pregiudizio così inteso ed esercitato è che svuota della riflessività quegli stessi processi. In questo, come diceva Herzfeld (2006), occorre opporre una critica alla pratica: lo studio antropologico del senso comune, come lo presenta provocatoriamente, deve essere funzionale a decostruire i processi che lo plasmano ed eventualmente opporvisi. L’attività riflessiva contro l’ottundimento inconsapevole è ciò che Remotti chiama metacultura, riferendosi alla capacità di una cultura di riflettere su se stessa, di rinnovarsi, di interrogarsi, di “saltar fuori dalle convenzioni dalle situazioni al fine di meglio comprenderle e cercare un senso ulteriore” (2011a: 298). Prendendo in considerazione la cultura non come oggetto statico e impermeabile, ma come processo dinamico o come “progetto” (Remotti 2011a: 292), in virtù dei soggetti attivi che la compongono, il pregiudizio rischia di impoverire le azioni rigeneratrici della cultura stessa, riducendo all’inerzia e alla passiva accettazione e riproduzione di determinati modelli di riferimento. La nozione di impoverimento culturale (Remotti 2010; 2011a) rimanda alla riduzione delle capacità creative e riflessive di alcuni settori della cultura, che diventa miope e inerte, che rinuncia a guardarsi e a rinnovarsi, di alcune aree del tessuto culturale che presentano una minore densità. Nel caso del pregiudizio, la perdita di densità o l’eccessiva rigidità delle trame, sta a significare l’assestarsi sul senso comune, adagiarsi su di esso, riprodurlo e alimentarlo automaticamente, considerarlo una rappresentazione fedele della realtà, accettarlo senza contrastarlo. In definitiva, significa diventare complici inconsapevoli delle dinamiche di esclusione che esso può generare. 207 Stimolare la creatività e la riflessività, contro l’impoverimento e la passività, significa riconsiderare i propri modelli, decostruirli per progettare strategie alternative non già di semplice coesistenza, bensì di convivenza. Come afferma l’antropologo spagnolo Carlos Giménez Romero (2005), mentre la coesistenza può essere considerata come un dato di fatto, la convivenza necessita di un processo di apprendimento, va costruita. Si può forse parlare di cultura della convivenza in questo senso, poiché, come ogni cultura, fatta di patti, simboli, significati che vanno continuamente rinnovati, pena l’estinzione (Remotti 2011a), così anche la convivenza va appresa, negoziata continuamente. Giménez (2005), nel parlare di convivenza, insiste particolarmente sull’aspetto relazionale, perché è su di esso si costruiscono le strategie di mediazione. Il fatto di abitare uno stesso spazio, non è una condizione sufficiente per parlare di convivenza. Questa infatti presuppone il tessuto delle relazioni fra chi vive nello stesso luogo, che possono funzionare con la flessibilità e il reciproco adattamento, producendo appunto quell’armonia del vivere insieme, che permette di distinguere la semplice coesistenza da un’effettiva convivenza. In ambito sanitario, il pregiudizio, con le sue pretese generalizzanti e inflessibili, si oppone alla relazione, al confronto profondo, e ostacola la mediazione. Questa non deve essere intesa come l’oscuramento del conflitto potenziale, o come una cecità di fronte ai vettori di differenza, ma significa affrontare il conflitto, riconoscere la differenza, e inventare soluzioni pacificazione. 208 di risoluzione e La richiesta di cittadinanza latu sensu degli utenti stranieri, va presa in considerazione per creare un amalgama sociale che tenga conto delle diversità, senza esasperarle. Il contesto sanitario, che si poggia su una base egualitaria di bisogni, ma che può far emergere e inasprire le disuguaglianze e le vulnerabilità sociali, può essere un terreno fertile in cui far germinare nuovi patti, su cui edificare nuove modalità di comunicazione e tecniche di mediazione reale. In questo senso, riportare anche la trattazione delle tematiche della salute e della malattia sul piano del confronto interculturale, significa restituire un respiro più ampio al concetto di benessere, che si estenda a proposte nuove di cittadinanza, plurale per i soggetti che la richiedono e la esercitano, e plurale nei suoi significati. 209 BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO Alietti Alfredo, Dario Padovan (a cura di), 2005, Metamorfosi del razzismo. Antologia di testi su distanza sociale, pregiudizio e discriminazione, Milano, Franco Angeli. Allport Gordon W., 1973, La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia. Appadurai Arjun, 2007, Sicuri da morire, Roma, Meltemi. 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