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RASSEGNA STAMPA
venerdì 20 marzo 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI
BENI COMUNI/AMBIENTE
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
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LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere.it – Corriere del Mezzogiorno del 19/03/15
Astradoc, ecco «Largo Baracche»
col regista scugnizzo Gaetano Di Vaio
Lo storico Academy Astra ospita il film vincitore della sezione Doc/It al
festival di Roma anticipato dal cortometraggio «Ore 12» di Toni
D’Angelo; il 27 c’è Antonietta De Lillo
di Noemi Rinaldi
NAPOLI - Il cinema documentario prosegue la sua ascesa a Napoli nel ritrovato Academy
Astra, sala storica ora familiare anche ai giovanissimi - via Mezzocannone 109 - grazie alla
rassegna «Astradoc-Viaggio nel cinema del reale» organizzata da Arci Movie, Parallelo 41
produzioni, Università Federico II di Napoli e Coinor.
Vincitore al festival del cinema di Roma
Gaetano Di Vaio al festival del cinema di Roma 2014Gaetano Di Vaio al festival del
cinema di Roma 2014
Il prossimo appuntamento, fissato per venerdì 20 marzo alle ore 21, sarà con Gaetano Di
Vaio e la sua«Figli del Bronx produzioni» per il film «Largo Baracche», vincitore del premio
DOC/IT come migliore documentario italiano all’ultimo festival internazionale del film di
Roma, accompagnati alla visione in sala dallo stesso regista che si intratterrà con il
pubblico, così come è solito proporre il cinema Academy Astra.
Toni D’Angelo e Antonietta De Lillo
La visione del film è anticipata dal cortometraggio di Toni D’Angelo «Ore 12», pure
presente in sala. E venerdì 27 ci sarà Antonietta De Lillo per la proiezione del suo «Let’s
Go». Il prezzo del singolo ingresso è di 3 euro; 2,50 per i soci Arci. È possibile tesserarsi
presso il cinema durante la rassegna.
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/spettacoli/15_marzo_19/astradoc-eccolargo-baracche-col-regista-scugnizzo-gaetano-vaio-trailer-851ef81e-ce45-11e4-96b72cbc6edfe378.shtml
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ESTERI
del 20/03/15, pag. 12
Fiori sulle macchie di sangue dei turisti massacrati, slogan per la difesa
della democrazia. La società civile tunisina è scesa in piazza di fronte al
museo del Bardo Avvocati, guide turistiche, giovani: “Il nostro Paese ha
le braccia aperte verso il mondo”
Tra i tunisini in marcia con la bandiera sulle
spalle “Abbiamo cacciato un raìs non ci
piegheranno ora”
DAL NOSTRO INVIATO
GIAMPAOLO CADALANU
TUNISI
NEL piazzale sterrato davanti al museo del Bardo, c’è un angolo vicino alla staccionata
che i manifestanti non calpestano. Una donna in jeans si china per poggiare sulla ghiaia
una candela accesa, accanto una ragazza velata prega in silenzio, con gli occhi bassi.
Nessuno ha ancora coperto quelle macchie brune che circondano un’unica rosa di stoffa.
È il sangue dei turisti massacrati dal jihadista novellino, quello che, raccontano i testimoni,
imbracciava il kalashnikov come fosse la prima volta. Forse da buon principiante ha voluto
dar prova di zelo, tanto da aprire la mattanza prima ancora di essere nelle sale del museo,
perché comunque sia quegli esseri che vedeva scendere dal pullman erano kafir , infedeli.
Accanto all’ingresso, nella mezza dozzina di corone di fiori spicca quella firmata
dall’associazione Guide di crociera. Per Ahmedi, che da 33 anni porta in giro i turisti
italiani, la presenza alla manifestazione è un obbligo: «Dobbiamo lottare perché la Tunisia
resti un Paese moderno, una terra di pace e civiltà, con le braccia aperte a chi la vuole
conoscere ». Gli avvocati manifestano in toga, i giovani con la bandiera tunisina sulle
spalle. Spiega Leila Toubel, attrice teatrale fra le più apprezzate: «I tunisini hanno trovato
l’energia per reagire alla dittatura nel 2010, l’hanno trovata dopo i primi attentati, dopo il
primo omicidio politico, dopo la strage di soldati a Kasserine. La trovano oggi, per reagire
alla strage, perché il sogno di donne e uomini è una Tunisia vestita di rosso e bianco,
capelli al vento. E questi jihadisti non possono entrare nel nostro sogno. Siamo tutti pronti
a prendere le armi per difenderlo ». Mokhtar Trifi, ex presidente della Lega tunisina per i
diritti umani, si sente pessimista: «Non vedo energia nella lotta al terrorismo e contro le
diseguaglianze sociali, quelle che hanno portato alla rivoluzione. Non c’è stabilità, e si
vedono segni di un ritorno indietro». Più ottimisti sono i giovani: per Yathreb, ventenne
velata, quello che conta è l’unità, che si ottiene superando anche le divisioni religiose.
Muhamed, ventenne disoccupato, è sdegnato con chi ha attaccato «i turisti, che sono
nostri ospiti».
Quando arriva la notizia che il sedicente Stato islamico ha rivendicato l’assalto sui siti del
fanatismo online, annunciando che quello al «nido degli infedeli e del vizio in Tunisia è
solo la prima goccia di una grande pioggia », fra i dimostranti si diffonde rapidissima la
voce di un “allarme bomba”. Non si sa dove, non si sa chi lo proclama. Forse perché
l’allarme è generico, quindi inutile, nessuno si preoccupa. O più probabilmente, alla fine il
messaggio che si è diffuso è un altro. È lo stesso contenuto nelle parole di Humat al-Hima,
“Difensori della patria”, l’inno nazionale che cantavano i parlamentari costretti a rifugiarsi in
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un sottoscala della Camera per sfuggire ai jihadisti. Sono gli stessi versi che appena pochi
anni fa, un’era geologica dal punto di vista della politica, intonavano assieme agli slogan
contro Ben Ali i ragazzi di piazza della Casbah, abbracciati dai soldati fino alla fuga del
tiranno. Dice: “Leali alla Tunisia, viviamo una vita di dignità e moriamo una morte gloriosa”.
Lo chiarisce una volta per tutte Ahmed Galleb, ottant’anni, che non ha voluto rinunciare a
fare la sua parte. Veterano della lotta per l’indipendenza, si è fatto accompagnare da figlio
e nipotino per arrivare davanti al luogo della strage. «Paura? Macché. Tutti i tunisini sono
contro questa barbarie. E nessuno ha paura».
Lontano dal museo, la città va avanti comme d’habitude , come ha sempre fatto. I
marciapiedi sono pieni di famiglie a passeggio, i caffè di clienti. «La verità è che la
reazione vera deve ancora arrivare», argomenta Mohamed davanti ad un espresso a
l’Etoile di Nord, il locale degli studenti. E annuncia che ha già postato su Facebook un
omaggio al sacrificio dei poliziotti, perché «questo è stato un attacco annunciato. Quello
che deve ancora arrivare sarà molto peggio».
Ma nessuno si dà per vinto, nessuno molla. C’è chi accusa direttamente le responsabilità
di altri Paesi, in prima fila il Qatar, c’è chi ricorda che il modo migliore per guardare al
futuro è costruirlo, puntando sull’istruzione, sullo sviluppo, che sono medicine formidabili
contro il fanatismo. E qualche segnale arriva anche dalle nuove generazioni. Nella sede di
Ennahda un gruppo di giovanissimi ascolta lezioni di politica da un anziano in abiti
tradizionali. È la politica in salsa islamica, di quell’islam che sulla democrazia ha giurato. E
Habib, dieci anni, vince la timidezza per spiegare: «Da grande voglio lavorare con gli
agenti delle Forze speciali, come mio papà. Per difendere il mio Paese».
del 20/03/15, pag. 6
Tunisi sogna una marcia come a Parigi «Noi,
il popolo contro i terroristi»
DAL NOSTRO INVIATO TUNISI I tunisini si preparano oggi, festa dell’Indipendenza, a
marciare contro il terrorismo. Con le idee chiare: Tunisi può reagire come Parigi. Alcuni
parlamentari del partito di maggioranza, Nidaa Tounes, e dell’opposizione, Fronte
popolare, stanno preparando una lettera per suggerire al capo dello Stato, Beji Caid
Essebsi, di organizzare un’altra manifestazione, magari già domenica 22 marzo. Il modello
cui ispirarsi è il presidente francese François Hollande: invitare a Tunisi i leader del mondo
per sfilare insieme contro il nemico comune.
Si vedrà se l’iniziativa potrà avere un seguito nei palazzi del potere tunisino. I cittadini,
intanto, sono pronti a riversarsi nell’Avenue Bourguiba, il viale dedicato al presidente
fondatore del Paese. Si aspetta solo che i politici si mettano d’accordo. Le formazioni di
sinistra non vogliono condividere la piazza con Ennahda, il partito islamico moderato che
appoggia l’esecutivo guidato dai laici di Nidaa Tounes. Il contrasto ha suggerito il rinvio
della mobilitazione, nella speranza che si trovi il modo di non spezzare subito «il fronte
unitario» antiterrorismo cui tutti si appellano.
Nel frattempo i tunisini si fanno vedere nelle strade, come spinti da una forza individuale,
prima ancora che politica e collettiva. Mercoledì sera, a poche ore dalla strage, i militanti di
Ennahda si erano riversati nel centro della capitale. Ieri pomeriggio, preavvertiti via
Facebook, davanti al Bardo, il museo della strage, si sono dati appuntamento i sindacalisti,
i rappresentanti di tante organizzazioni della società civile vicini soprattutto alla sinistra di
Fronte popolare.
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«La Tunisia non è un grande hotel e i tunisini non sono i suoi dipendenti». Hajer Ajroudi,
36 anni, giornalista e blogger, si stringe nella bandiera tunisina gettata sulle spalle, si
aggiusta gli occhiali. È arrabbiata: «C’erano ancora i morti nel museo e tutti hanno subito
cominciato a parlare di quanto turismo avrebbe perso il nostro Paese. È una cosa
umiliante per la Tunisia e trovo sia offensivo anche per le vittime straniere, che sono esseri
umani e non clienti. Noi siamo uno Stato come gli altri, vogliamo, dobbiamo essere come
gli altri. I terroristi hanno colpito la Francia, la Turchia, la Danimarca. Qualcuno si è messo
a fare i conti sulle perdite economiche prima ancora dei funerali? Non credo». Con Hajer
arrivano gruppi alla spicciolata, sollevando striscioni strutturati e molti cartelloni preparati
alla buona, con i pennarelli. Tante ragazze, tante donne, come ai tempi della Rivoluzione
dei Gelsomini. Anche gli slogan sembrano quasi uguali: «Il popolo vuole cacciare i
terroristi», laddove quattro anni fa era «Il popolo vuole cacciare Ben Alì», il dittatore. Dopo
un’oretta si forma una piccola folla: 1.000, forse 1.500 persone. Cantano l’inno, dispiegano
le bandiere nazionali, un po’ anche a uso del plotone di giornalisti e operatori. Houcine
Kuini è un signore con i capelli bianchi che osserva silenzioso, candidandosi al ruolo di
comparsa così necessario nei fenomeni di massa. Piano, piano, però, esce allo scoperto:
«Sono un militante sindacale, vivo qui a Tunisi. Non so se sono giovane o vecchio: ho 53
anni. Quello di cui, invece, sono sicuro è che i terroristi non sono un pericolo solo per me e
la mia famiglia. Riguarda tutti, noi e voi. Ci dovreste aiutare, come avete fatto con Parigi».
La capitale vicina, colpita a gennaio. Parigi e Tunisi sullo stesso meridiano epocale. Dahie
Jaivi, 58 anni, si è presentato in toga nera e fiocco bianco, con tanti altri colleghi avvocati.
Si incarica lui di identificare il nemico comune: «Faccio il penalista e vengo da Sfax, la città
portuale nel centro della Tunisia. Dobbiamo bloccare tutti quei Paesi e tutti quei partiti che
usano la religione per arrivare al potere. È un problema che riguarda i musulmani, ma non
solo loro. Sono questi gli integralisti che stanno facendo di tutto per distruggere le società
aperte e democratiche». Emna Aouadi è una dirigente del sindacato Ugt e chiede di
aggiungere un’ultima cosa: «Guardo il Bardo e penso che la nostra storia, la nostra cultura
risale a tremila anni fa. Non siamo come voi?».
Giuseppe Sarcina
del 20/03/15, pag. 14
Pinotti lancia “Mare sicuro”
“Più navi militari e caccia così ci difenderemo
dall’Is”
Via all’operazione per rafforzare le difese nel Mediterraneo E dopo la
crisi dei marò, stop ai soldati sui mercantili
PAOLO G. BRERA
ROMA .
Addio lotta alla pirateria, l’Italia riposiziona le sue forze armate concentrando nel
Mediterraneo navi e aerei da guerra. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha illustrato ieri
alle camere lo stato delle missioni italiane all’estero, annunciando novità radicali
nell’assetto della nostra presenza armata. Le priorità sono cambiate, «le crisi si sono
avvicinate» e l’Italia risponde varando l’operazione “Mare sicuro”. «A seguito
dell’aggravarsi della minaccia terroristica, resa di drammatica evidenza dagli eventi in
Tunisia», Roma potenzia «il dispositivo aeronavale dispiegato nel Mediterraneo centrale»
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per «tutelare i molteplici interessi nazionali esposti a rischi crescenti», dice il ministro.
Contemporaneamente, non solo abbandoniamo Ocean Shield , la missione Nato di
contrasto alla pirateria, sfruttando «la diminuzione degli attacchi dei pirati negli ultimi
mesi»; ma licenziamo finalmente i “nuclei militari di protezione”, quelli che nonostante il
disastro giudiziario e diplomatico dei due marò arrestati in India continuavano
regolarmente a essere allestiti a bordo delle navi mercantili. Da oggi, spiega il ministero, il
servizio pubblico allestito dal governo Berlusconi non esiste più: gli armatori potranno
ricorrere ai vigilantes privati.
Nel Mediterraneo arrivano i rinforzi, dunque, per proteggere i pozzi petroliferi e chiudere la
porta del mare all’Is: «Le forze armate — dice il ministro — stanno dispiegando unità
navali, team di protezione marittima, aerei, elicotteri, velivoli a pilotaggio remoto e da
ricognizione elettronica», cioè anche i droni Predator. Si occuperanno «tanto della
protezione delle linee di comunicazione, dei natanti commerciali e delle piattaforme offshore nazionali quanto della sorveglianza delle formazioni jihadiste». Pozzi petroliferi
italiani che, in realtà, al momento non hanno avuto alcun rallentamento né incidente, e
continuano a pompare al massimo anche se Eni ha ridotto la presenza di personale
italiano indirizzandola esclusivamente sulle basi offshore.
Intanto, alla Tunisia colpita a morte dall’islamismo Roma offre i visori notturni «presi dalla
dotazione delle nostre forze armate, che dovrà pertanto essere reintegrata»: sono
«fondamentali per controllare le frontiere con la Libia», dove «il quadro della sicurezza è in
progressivo peggioramento» e dove continuano ad arrivare forniture militari «malgrado
l’embargo decretato dall’Onu».
“Mare sicuro” è il primo passo, non l’unico messo in cantiere dal governo. «L’Italia —
avverte il ministro — è pronta a tornare a giocare un ruolo di rilievo in un’eventuale
iniziativa internazionale di stabilizzazione e ricostruzione della Libia», un passo che
affronteremmo «solo in un quadro di legittimità internazionale sancito dall’Onu».
Occorrerebbe perciò «un preliminare accordo delle parti in causa», e dunque «un
rinnovato sforzo diplomatico», quello che sta caparbiamente portando avanti l’inviato
dell’Onu Bernardino León «con tutto l’appoggio dell’Italia per il suo delicatissimo incarico».
I Servizi, intanto, monitorano con preoccupazione i prossimi grandi eventi: dall’ostensione
della Sindone , fra un mese a Torino, fino all’Expo e all’Anno Santo.
del 20/03/15, pag. 17
Una lista con tremila nomi ecco il bacino delle
reclute nei dossier degli 007 italiani
“Sono possibili fiancheggiatori della jihad, a volte inconsapevoli” Si
tratta di connazionali e stranieri. “Ma non è una schedatura”
PAOLO BERIZZI
UNA mappatura con l’elenco degli obbiettivi più a rischio. Dagli scali di Fiumicino e
Malpensa alla Cappella Sistina e agli Uffizi. Dai porti di Bari e Napoli alle stazioni
ferroviarie dell’Alta velocità. Fino ai «luoghi di culto» e quelli di «interesse turistico»: «siti
storico-monumentali» come l’Arena di Verona, gli scavi di Pompei e Ercolano, i Fori
Imperiali, il Colosseo. Questo è il primo livello: «prevenzione logistica». Poi c’è il secondo
livello. Gli 007 impegnati sul fronte anti Is lo chiamano «il listino». Perché ci sono nomi che
entrano e nomi che escono. Sono quasi 3 mila. Con una percentuale di «negatività » —
che significa zero interesse investigativo — approssimabile a un quasi rassicurante 98 per
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cento. Che cos’è il «listino »? «Niente di etnico o di lombrosiano », spiega una fonte di
intelligence. Sono file dove sono annotati, tra quelli delle oltre 5mila persone controllate
dall’Antiterrorismo in Italia negli ultimi tre mesi, i nomi di alcuni dipendenti e collaboratori di
società e compagnie di trasporti (ferroviarie, aeree, di navigazione sia turistica che
commerciale), di gestione di porti e aeroporti, di strutture e luoghi «sensibili»: musei e
monumenti appunto, e chiese, sinagoghe, enti pubblici nel caso di sedi istituzionali
(palazzi della politica, ambasciate, consolati). Sono nominativi di cittadini, italiani e
stranieri, che secondo i Servizi potrebbero — pur non avendo profili paraterroristici né
legami accertati con soggetti a rischio — ,«offrire, anche inconsapevolmente, informazioni
utili a soggetti collegati all’Is di passaggio in Italia per la pianificazione di azioni
terroristiche». E fare dunque da «sponda» per la penetrazione del terrorismo islamista.
Dopo gli attentati di Parigi c’è stato un innalzamento dei livelli di sicurezza. La conferma
che siamo uno dei Paesi europei nel mirino dell’Is è arrivata proprio dai Servizi. «L’Italia è
un potenziale obiettivo di attacchi pure per la sua valenza simbolica di epicentro della
cristianità», è scritto nell’ultima «Relazione sulla politica dell’informazione sulla sicurezza».
In quest’ottica scrupolosamente preventiva va inquadrato il «listino». Intelligence e uomini
dell’Antiterrorismo lo aggiornano sulla base delle informazioni richieste alla Sicurezza
interna e alla Protezione aziendale degli obiettivi ritenuti a rischio. Può essere una
compagnia navale, la società pubblica o privata che gestisce un sito storico, un’azienda di
trasporti, la comunità religiosa che amministra un luogo di culto: dalla sinagoga al
Vaticano. La richiesta degli 007 è tarata e orientata su caratteristiche che, in chiave di
analisi preventiva, sono interpretate come pre-indicatori: abitudini religiose, nazionalità,
spostamenti, status, eventuali precedenti penali. «Ma la prima regola che ci diamo,
nonostante e vista la delicatezza del tema, è la massima cautela. Il rispetto della
persona», ragiona la fonte d’intelligence. Non una «schedatura», dunque. Termine
improprio e scivoloso. Anche perché, una volta acceso l’interesse investigativo su un
soggetto apparentemente «neutro», il passaggio più difficile e complesso è dimostrare il
link che lo connette al presunto jihadista.
Gli 007 considerano il «listino» una lente investigativa light, un ulteriore supporto nella lotta
all’Is e a quel rischio che Aqila Saleh, presidente del parlamento libico di Tobruk, ha
sintetizzato così: «L’Is e Al Qaeda possono passare dalla Libia all’Italia» (dopo la
carneficina di Tunisi l’allarme cresce). Al Viminale si lavora pancia a terra per questo: per
scongiurare il rischio che la contiguità geografica tra Italia e Libia, e più in generale coi
Paesi affacciati sul Mediterraneo, diventi «continuità» dell’offensiva terroristica.
Nei database dell’Antiterrorismo, dopo gli attentati parigini, sono finite 4.432 persone: per
dire solo quelle controllate (17 arresti e 33 espulsioni). Il «listino» d’appoggio è un’altra
cosa. Si riempie e si svuota mano a mano che gli investigatori, acquisite sommarie
informazioni, «rilasciano » i nominativi esplorati. Si tratta per lo più di addetti alla logistica,
al trasporto, alle pulizie (in molti casi sono dipendenti di società esterne e cooperative).
Guardiani, magazzinieri, marinai, macchinisti. Nazionalità e provenienza sono disparate.
Comandano le indicazioni che caratterizzano i guerriglieri del Califfato. Gli analisti hanno
accertato che — al netto degli oltre 12mila combattenti stranieri, quasi 3000 europei — la
composizione delle milizie dell’Is è frammentata: siriani, iracheni, turchi, magrebini,
pachistani, ceceni. Ora: la quasi totalità (98%) dei nominativi sondati dagli 007 non ha
offerto spunti investigativi. Ma ugualmente, e fino a quando i livelli di allerta resteranno ai
massimi livelli in tutta Europa, i servizi di sicurezza non vogliono lasciare nulla di intentato.
Spiegano al Viminale: «Moltissime informazioni le scarti, qualcuna resta nella rete. E a
volte può risultare decisiva».
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del 20/03/15, pag. 3
Il commando terrorista si è addestrato in
Libia Poi ha atteso l’ordine
Il giorno dopo Souheil Alouini, membro del parlamento tunisino, depone
un mazzo di fiori sul pavimento macchiato di sangue davanti al museo
del Bardo a Tunisi. L’Isis afferma di aver pianificato l’attentato ma non è
ancora chiaro se la rivendicazione sia o meno credibile
di Guido Olimpio
WASHINGTON La macchina mediatica dell’Isis ha usato i tempi dei «vecchi» di al Qaeda
ed ha atteso una giornata prima di rivendicare, con un testo e un audio sul web, la strage
di Tunisi. Un’assunzione di responsabilità farcita di minacce ma priva di quei particolari
che permettano di considerarla credibile senza ombra di dubbio. Bastava poco e quel
poco non c’è. Però, molti esperti lo considerano un documento interessante, diffuso
attraverso i canali di comunicazione certificati dal Califfo.
«Credevano di essere protetti nella loro fortezza ma Dio è arrivato sopra di loro», inizia
così il messaggio dove si precisa che l’attacco è «la prima goccia di pioggia». Poi il
riferimento — ormai classico — ai due «cavalieri», identificati con i nomi di guerra, Abu
Zakaria al Tunisi e Abu Anas al Tunisi. Sono stati loro i protagonisti della «gazwat
benedetta», altra espressione del vocabolario jihadista a sottolineare l’incursione a
sorpresa. L’obiettivo — sostiene l’Isis — era il museo del Bardo, un obiettivo attaccato con
mitra e granate: «I nostri fratelli sono riusciti a colpire un gruppo di crociati». Nessun
accenno alle cinture esplosive sofisticate citate dalle autorità. Il proclama è stato poi
ripetuto attraverso un audio su Internet, a declamarlo una voce dall’accento saudita o
yemenita.
Sono tutti dettagli oggetto di valutazione per capire se il massacro sia davvero l’apertura
del fronte tunisino da parte del Califfo. Un quadro dove pesa una certa reticenza del
governo, in imbarazzo per essersi fatto sorprendere malgrado i molti segnali di tempesta.
Nel tentativo di reagire, la polizia ha annunciato nove arresti, tra i quali quattro persone
ritenute collegate ai due killer, Jabeur Khachnaoui e Yassine Laabidi. In manette anche il
padre e la sorella del primo, rintracciati a Sblita, la cittadina dove passa un segmento di
indagine.
Per gli inquirenti i militanti sono stati reclutati in una moschea dalla capitale, poi in
settembre hanno raggiunto un campo d’addestramento in Libia, forse a Derna.
Indiscrezioni hanno aggiunto la coda. La permanenza in Libia si è conclusa in dicembre,
quando la coppia è rientrata in patria stabilendosi a Ettahir, ospitata da un uomo che
commercia in legumi ma è anche parte della falange Okba bin Nafi, movimento qaedista
coinvolto in una lunga striscia di attacchi contro i soldati. Al riparo da occhi indiscreti gli
assassini hanno atteso il momento opportuno (o l’ordine) per la missione senza ritorno nel
cuore della capitale.
Non è però chiaro come la possibile connessione con Okba possa incastrarsi con la
rivendicazione dell’Isis. Sono due formazioni in concorrenza, la falange predilige bersagli
militari, l’Isis quando usa la falce non fa distinzioni. A meno che — ipotesi difficile — non ci
sia stato un patto d’azione, come è avvenuto con i terroristi di Parigi. Oppure i criminali
erano dei semplici simpatizzanti, con legami non troppo stretti con le organizzazioni. Ma
se è vero che sono stati in Libia è arduo pensare che siano dei cani sciolti. Ed allora
ritorna la teoria del Califfo che pianta un’altra bandierina nera su una pila di corpi in un
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Paese dove non aveva mai agito pur avendo ai suoi ordini centinaia di tunisini. La strage
come parte del piano globale ma anche mossa per distrarre dalle sconfitte subite in Iraq.
Manovra agevolata dalla sponda dei mujaheddin attivi sul suolo libico.
E’ comunque una fase delicata, dove non mancano notizie contraddittorie e speculazioni.
Il presidente Beji Caid Essebsi ha accusato la formazione Ansar al Sharia, protagonista
dell’uccisione di due politici tunisini nel 2013 e con ramificazioni in Libia dove vivono i suoi
capi. La polizia ha confermato che uno degli attentatori, Laabidi, era «un soggetto noto»,
anche se per fatti minori. Un sito ha pubblicato la foto di Khachnaoui con un alto dirigente
del partito islamico Ennhada ipotizzando un’affiliazione politica.
Piste che si intrecciano in un clima dove lo scempio del Bardo è visto come l’inizio di una
nuova fase di terrore. Con al centro la Tunisia.
del 20/03/15, pag. 18
La lunga e strana dittatura del padre della patria introdusse diritti
impensabili nel mondo arabo. La cacciata di Ben Ali diede il via alle
Primavere
nel 2011. Oggi l’intesa tra Ennahda e Nidaa Tounes ha spezzato la
complicità con i salafiti. Ma Al Qaeda ha fatto breccia anche qui
Dalle riforme di Bourguiba al patto tra
islamisti e laici così la democrazia tunisina è
un affronto per la Jihad
BERNARDO VALLI
L’ATTENTATO al Museo del Bardo, a Tunisi, riassume gli obiettivi dell’islamismo jihadista.
È avvenuto in un alto luogo di cultura, dove si trova una delle più ricche collezioni di
mosaici romani; ha investito dei kafir, miscredenti occidentali; ha colpito il Paese in cui si
sta dimostrando che la democrazia è compatibile con una società musulmana. È probabile
che gli autori non abbiano calcolato tutti questi tre aspetti della loro azione; o che
comunque non fossero consapevoli di quanto essi sintetizzino insieme la natura del
conflitto che hanno scatenato. Il museo è un tempio sacrilego in cui si contemplano opere
che violano il principio iconoclasta dell’Islam che si vuole ortodosso. I turisti sono infedeli
venuti a inquinare la terra musulmana. Con la sua democrazia ricalcata su quelle
occidentali, con le libertà concesse alle donne, e con l’alleanza tra islamici e laici, la
Tunisia è un pessimo esempio da combattere.
Il principale obiettivo è senz’altro la Tunisia che si è dotata di una Costituzione moderna,
non ispirata alla Sharia, la legge coranica, e in cui sono riconosciuti pari diritti a uomini e
donne. Ferire il paese nel grande museo gremito di visitatori stranieri, significa colpire il
turismo, una delle sue più importanti risorse. Che occupa un cittadino su dieci, e che
rappresenta quasi il dieci per cento del prodotto nazionale. Ma interrompere il flusso degli
europei in vacanza significa anche spezzare il pacifico legame tra l’Europa e la Tunisia.
Senz’altro una delle spiagge più ospitali e amiche sulla sponda meridionale del
Mediterraneo. Ci sono poi gli investimenti stranieri, che danno lavoro ai giovani, pronti ad
andarsene se minacciati dal terrorismo. La disoccupazione ha spesso come conseguenza
l’emigrazione avventurosa verso il Nord, al di là del mare, con i pericoli, le tragedie, che
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sappiamo. La Tunisia è un Paese spigliato, ricco di risorse intellettuali, ma privo di materie
prime. Non ha il petrolio dei vicini.
È stretta tra l’Algeria a Ovest e la Libia a Est. I confini sono profondi e si spingono nel
deserto. Sono quindi permeabili. E lo sono anche perché il commercio è una delle grandi
risorse e il traffico di merci e persone non va ostacolato. Le città tunisine, Sfax, Sousse,
Biserta, sono animatissimi centri in cui gli uomini d’affari arrivano anche da Paesi lontani. I
tunisini emigrano non solo come mano d’opera, ma anche come commercianti e
professionisti: economisti, ingegneri, medici. Ne trovi negli Stati Uniti, in Canada, in Arabia
Saudita, negli Emirati del golfo. Nelle fabbriche ma anche nelle università, negli ospedali.
Negli anni della guerra di indipendenza (‘54-’62) molti algerini, semplici esuli o dirigenti del
Fronte di liberazione nazionale, hanno trovato ospitalità a Tunisi e dintorni, a Sidi Bou
Said, La Marsa, Cartagine, Salambò. E lo stesso è avvenuto quando l’Algeria è stata
investita negli anni Novanta dalla guerra civile. L’ospitalità tunisina non è venuta mai
meno, anche se le forze di cui dispone per mantenere l’ordine interno sono limitate.
Quando, di recente, ai confini orientali con la Libia sono arrivate decine di migliaia di
profughi in fuga da un’altra guerra civile, quella che ha portato alla fine del regime di
Gheddafi, la Tunisia ha aperto di nuovo le porte.
Gli avvenimenti nei Paesi vicini non hanno lasciato indifferenti i giovani tunisini. I fermenti
islamici in Algeria e in Libia, come la mobilitazione tra gli arabi per combattere negli anni
Ottanta gli invasori sovietici dell’Afghanistan, hanno spinto non pochi tunisini a impegnarsi
in attività politiche ma anche in imprese armate. Non pochi hanno militato nelle file di Al
Qaeda, quando il movimento di Bin Laden si batteva contro i russi e poi ci sono rimasti
quando ha rivolto le armi e il terrorismo contro gli americani, e i regimi arabi giudicati loro
complici. La Tunisia è un Paese pacifico che ha dato molti combattenti.
Yassine Abidi e Hatem Khachnaoui, i due terroristi uccisi durante l’assalto nel museo del
Bardo, sono i figli o i nipoti ideologici dei primi combattenti di Al Qaeda. Il primo, Abidi, era
cresciuto a Ibn Khaldun, quartiere popolare di Tunisi, mentre Khachnaoui era della regione
tra Kasserine e la montagna di Chaambi, verso l’Algeria. Una zona dove i jihadisti
agiscono a piccoli gruppi, di dieci o quindici combattenti, e attaccano i soldati e i poliziotti
tunisini. La formazione principale, quella più attiva, è l’Ansar Al Sharia, la quale avrebbe
deciso di concertare le sue azioni con quelle di Al Qaeda del Maghreb (Aqmi), che non è
tanto un’affiliazione quanto un movimento che si ispira ad Al Qaeda. Ansar Al Sharia è
l’animatore di tanti piccoli gruppi. Li organizza, li rifornisce in armi e denaro e li stimola ad
agire. L’ intelligence di Tunisi ha di recente intercettato messaggi in cui si esortava una
cellula, Oqba Ibn Nafi, ad agire, vale a dire a compiere attentati. Il jihadismo salafista nel
Maghreb è una nebulosa che nessuno ha ancora decifrato. Si calcola comunque che
almeno 3mila giovani siano stati reclutati di recente per andare a combattere in Siria e in
Iraq nelle file dello Stato islamico o delle fazioni concorrenti. Cinquecento sarebbero già
rientrati. Il primo ministro, Habib Essid, sostiene di avere arrestato dal 6 febbraio 400
persone sospette di essere jihadisti. Tra gli arrestati alcuni avevano compiuto soggiorni in
Libia, dove avrebbero avuto rapporti con gruppi islamisti armati, ed altri avevano invece
compiuto soggiorni nelle regioni limitrofe all’Algeria. La polizia ha appena annunciato la
morte di Ahmed Al Rouissi, un tunisino capo di una falange jihadista a Sirte, in Libia.
L’insurrezione del 2011 cacciò Ben Ali, il raìs tunisino, e dette il via alle altre primavere
arabe, quella egiziana in particolare. Per Ennahda (Movimento), versione locale dei Fratelli
musulmani, fu l’occasione per uscire dalla clandestinità. E in breve tempo, grazie alla sua
organizzazione, assunse un ruolo dominante e poi vinse le elezioni. Di fatto scippò la
rivoluzione alla forze libertarie e disorganizzate. A quell’epoca Ennahda intratteneva
rapporti evidenti, anche se non ufficiali, con i salafiti di Ansar Al Sharia. Ne tollerava o
addirittura copriva le violenze e gli eccessi politici. Via via, assumendo il potere e le
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inerenti responsabilità, ha interrotto la complicità e la polizia ha potuto intervenire contro
chi infrangeva la legge in nome di Allah. Gli omicidi di due uomini politici di sinistra hanno
accentuato il distacco tra islamisti disarmati e islamisti armati. La svolta ha portato col
tempo a una laboriosa intesa tra Ennahda e Nidaa Tounes (Appello della Tunisia),
quest’ultimo partito avendo vinto le seconde elezioni, in una posizione preminente.
L’accordo laici-islamisti e il varo di un sistema democratico sono apparsi ai jihadisti di
Ansar Al Sharia un imperdonabile tradimento. Non è azzardato interpretare il massacro del
museo come una prima terribile punizione.
La minacciata democrazia tunisina ha radici lontane. La lunga strana dittatura di Habib
Bourguiba, il padre della patria, ne ha gettato le basi. Bourguiba era al tempo stesso un
raìs arabo, autoritario come voleva la tradizione, ma convinto che l’autoritarismo dovesse
essere provvisorio, e fi- nire a tappe. via via, fino a quando il popolo fosse pronto alla
libertà. Nella lunga presidenza ha tentato tante formule: dal socialismo a un capitalismo
mercantile. Dal suo comportamento affiorava spesso l’uomo che nelle prigioni francesi si
era appassionato della storia dei suoi repressori, fino a pensare a tratti come un
personaggio della Terza Repubblica, che conobbe anche il Fronte popolare. Dal pensiero
non passava tuttavia all’azione, quando governava da despota la Repubblica tunisina.
Rispettava però alcuni principi. Non aveva alcun debole per i militari. In un regime con
deboli istituzioni l’esercito costituisce una forza troppo invadente e minacciosa. E dunque
non creò mai un vero esercito. Si accontentò della polizia. Inoltre Bourguiba amava e
rispettava le donne. E promosse leggi che garantivano loro libertà e diritti impensabili nel
resto del mondo arabo. Teneva a freno i sindacati ma non li abolì mai del tutto e lasciò loro
sempre un certo potere. La giovane e minacciata democrazia tunisina usufruisce ancora di
quelle strane, incerte, ambigue idee di Habib Bourguiba, che amava la democrazia ma
praticava la dittatura. Sulla sua scrivania c’erano sempre dei testi di storia della
Rivoluzione francese.
del 20/03/15, pag. 5
Primavere arabe. Al G-8 di Deauville nel 2011 i
Grandi promisero 80 miliardi
Un piano Marshall mai decollato e il Mediterraneo torna polveriera
Le primavere arabe cominciarono con un’audace promessa dell’Occidente: un piano
Marshall da 80 miliardi di dollari, 61 miliardi di euro, per il Nordafrica e il Medio Oriente.
Era il 27 maggio del 2011 e a Deauville il G-8 annunciava solennemente un programma
senza precedenti. Dopo la caduta dei dittatori si trattava di incoraggiare nel mondo arabo
la creazione di uno stato di diritto sotto il controllo dei cittadini e assicurare prosperità alle
nascenti democrazie.
Quelle illusioni, quattro anni dopo, sono crollate nel caos libico, nell’autoritarismo egiziano
del generale Al Sisi, nelle guerre civili della Siria, dell’Iraq, dello Yemen, e ora le speranze
sono sfiorite persino nell’unico caso di successo, quello della Tunisia.
Invece del piano Marshall adesso si rischia di perdere il Nordafrica e anche quella fascia di
stati subsahariani, il ventre molle del continente, sempre più in crisi, dal Mali al Chad, dal
Niger alla Nigeria, dove imperversano i Boko Haram affiliati al Califfato e le formazioni
jihadiste ereditate da Al Qaeda che agiscono da anni nella fascia del Sahel tra Algeria,
Mauritania, Marocco, per arrivare fino al Sinai e al Mar Rosso: un fronte di migliaia di
chilometri dove l’”uomo bianco” senza scorta armata non mette più piede.
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Il piano Marshall per gli arabi non ha mai avuto un domani. A volere essere velenosi ma
realisti quel vertice dal sapore balneare del G-8 venne convocato dal presidente Nicolas
Sarkozy per far dimenticare certe posizioni maldestre che avevano accompagnato la
sollevazione araba. Tre giorni prima della caduta dei Ben Alì in Tunisia la ministra
francese degli Esteri Michéle Alliot-Marie aveva offerto «le sue forze di sicurezza” per
reprimere la rivolta. Sarkozy poi aveva dato il via al bombardamento di Gheddafi per
coprire oscure e pericolose relazioni che lo legavano al dittatore libico.
Il piano di Deauville aveva ambizioni colossali. Oltre al G-8, i Paesi arabi erano coivolti
come partner, con loro 10 organizzazioni internazionali e potenze regionali come Arabia
Saudita, Emirati, Kuwait, Qatar, Turchia. Questi “partner regionali” che avrebbero dovuto
stabilizzare i Paesi in transizione ora si stanno facendo la guerra schierandosi nei conflitti
interni che imperversano in Libia, Siria e Iraq. In Libia l’Egitto si appoggia ai sauditi e agli
Emirati aiutando in Cireanica il generale Khalifa Haftar, che bombarda Tripoli, mentre
Turchia e Qatar sostengono il governo tripolino dei Fratelli Musulmani: si è quindi
riprodotto lo stesso schieramento di alleanze che già si era scontrato in Egitto. Al Cairo
non c’è stato nessun piano internazionale: sauditi, Emirati e Kuwait hanno versato al
generale Abdel Fattah al Sisi 20 miliardi di dollari per far fuori nel 2013 i Fratelli Musulmani
e l’incompetente presidente Morsi.
Dimenticati i buoni propositi di Deauville si sono scatenate delle guerre per procura e di
queste la Siria, l’Iraq, la Libia, ne sono l’emblema più sanguinoso: all’affondamento di
questi stati dobbiamo l’ascesa del Califfato. Altro che stabilizzazione.
Per questo ora bisogna salvare almeno la Tunisia e quel che resta del Nordafrica dal
gorgo di questa lotta tra musulmani sunniti che sta retrocendo la regione verso un’Islam
incompatibile con la civiltà. L’economia è la chiave di volta per sostenere dei processi di
transizione accettabili e contrastare il terrorismo.
Basta guardare le cifre della disoccupazione giovanile nall’area Nordafrica-Medio Oriente
(Mena), per capire da dove parte il problema. Siamo di fronte a dati ufficiali che vanno dal
25 al 30% della popolazione sotto i 25 anni ma le stime più vicine alla realtà parlano in
media di tassi intorno al 50 per cento.
Una demografia di senza lavoro esplosiva. Dalle rivolte del 2011 a oggi per i giovani
nordafricani è cambiato poco, anzi la situazione sta peggioranndo perché guerre come
quella libica hanno privato il mondo arabo di un serbatoio di posti di lavoro: non si estrae
quasi più petrolio, la ricchezza accumulata svanisce, l’economia è ferma. Non solo. La
disgregazione colpisce gli stati ma anche intere società vengono destruttutate: la Tunisia
ospita un milione di profughi libici, la Siria ha 9 milioni tra sfollati interni e rifugiati, altri duetre milioni sono quelli iracheni. La nazione dei profughi è sempre più grande. In quali Paesi
possono tornare e in quali città se la guerra ha distrutto intere economie?
Riprovarci oggi con un piano Marshall da parte dell’Europa può apparire ambizioso. Ma se
l’Occidente non si inventa qualche cosa il vuoto verrà occupato da monarchie del Golfo e
organizzazioni non statuali radicali interessate a propagandare la loro versione dell’Islam e
della società. E quando un giorno ci affacceremo alla sponda Sud scrutando Marocco,
Algeria, Tunisia, Egitto, Libia, non troveremo più neppure il simulacro di uno stato laico e
democratico.
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del 20/03/15, pag. 3
Anche per Obama l’Isis è figlio dell’invasione
dell’Iraq
Chiara Cruciati
Califfato. In un'intervista il presidente Usa punta il dito contro il
predecessore. L'amministrazione Usa nel caos: si smentisce da sola e
manca di una visione di lungo periodo
«L’Isis è il diretto risultato di al Qaeda in Iraq che è cresciuta con l’invasione Usa, esempio
di una conseguenza inattesa. Per questo dovremmo prendere la mira prima di sparare». A
dirlo non è il governo di Damasco o quello di Teheran. A dirlo è il presidente Obama: lo
sviluppo repentino dello Stato Islamico è la conseguenza di otto anni di occupazione Usa
dell’Iraq.
Così Obama, accusato di non avere strategie efficaci contro il califfato, si toglie i sassolini
dalla scarpa e punta il dito contro il predecessore, il George W. Bush della guerra globale
al terrore e dell’esportazione di democrazia. Lo fa in un’intervista a Vice News, scoprendo
le divisioni interne all’amministrazione Usa che dice, si contraddice, si smentisce da sola
ormai da mesi. Ora fa autocritica: i settarismi iracheni sono il frutto della distruzione dello
Stato, delle sue istituzioni, dei delicati equilibri tra sunniti, sciiti e kurdi, spazzati via dalla
coalizione dei volenterosi.
Proprio quei settarismi vengono additati da Obama come la principale fonte da cui l’Isis
attinge: «Se l’Isis venisse sconfitto, il problema di fondo dei sunniti resterebbe. Quando un
giovane cresce senza prospettive per il futuro, l’unico modo che ha per ottenere potere e
rispetto è diventare un combattente. Non possiamo affrontare tutto ciò con l’antiterrorismo
e la sicurezza, separandoli da diplomazia, sviluppo e educazione».
Le dichiarazioni del presidente sono passate quasi in sordina ma hanno la forza di un
terremoto: si mette in discussione l’intera strategia Usa, fatta di interventismo bellico e
interessi economici nazionali, priva spesso di una visione di lungo periodo, basata sui
finanziamenti a pioggia di soggetti divisivi, dall’ex premier iracheno al-Maliki alla
Coalizione Nazionale Siriana.
«L’Isis va visto non solo come un movimento alieno al più vasto mondo politico del Medio
Oriente – scrive Ramzi Baroud, direttore di Palestine Chronicle – ma anche come un
fenomeno in parte occidentale, il ripugnante risultato delle avventure neocolonialiste nella
regione, accompagnate alla demonizzazione delle comunità musulmane nelle società
occidentali».
«Con ‘fenomeno occidentale’ non intendo dire che l’Isis sia una creazione delle
intelligence straniere – continua – Ovviamente, si è giustificati a sollevare domante su
fondi, armamenti, mercato nero, le facili vie con cui migliaia di combattenti sono arrivati in
Siria e Iraq. Ma tracciando il movimento dall’ottobre 2006 quando l’Isis nacque, si
individuano le sue radici: lo smantellamento dello Stato iracheno e del suo esercito da
parte dell’occupazione militare Usa».
E alla fine chi di settarismi ferisce, di settarismi perisce. A stretto giro dalle dichiarazioni di
Obama, è giunta la reazione di uno dei falchi dell’entourage di Bush, l’ex segretario di
Stato Dick Cheney, grande burattinaio di quell’invasione: «Obama è il peggior presidente
della mia vita. Ne pagheremo il prezzo».
Fuori dalle ripicche politiche, resta il grande vuoto della strategia Usa in Medio Oriente:
dopo aver cambiato cavallo più di una volta, aver lanciato in prima linea le forze locali
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irachene, aver continuato a finanziare deboli opposizioni in Siria ed essere stati costretti
ad aprire ad Assad, gli Stati Uniti sono nudi. E debolissimi.
Tanto deboli da subire quasi in silenzio l’abbattimento di un proprio drone da parte
dell’aviazione siriana. È successo martedì a Latakia, roccaforte della famiglia Assad. I
servizi Usa stanno ancora indagando, seppur il governo siriano ammetta di aver colpito il
Predator. Perché? Volava fuori dai confini ufficiosi di intervento della coalizione. Obama
con Assad non intende parlare ma una cooperazione indiretta esiste. Per questo Damasco
non ha mosso un dito da settembre quando cominciarono i raid Usa. Ora però traccia le
sue “linee rosse”: Obama voli pure sui cieli siriani, ma non nelle zone sotto il controllo
governativo.
del 20/03/15, pag. 23
La Casa Bianca non esclude di votare per il riconoscimento della
Palestina. Il premier: “Sì alla pace, se cambiano le circostanze”. In
programma una telefonata tra i due leader
Ora Obama minaccia di togliere il veto all’Onu
ma Netanyahu rettifica “Soluzione con due
Stati”
FEDERICO RAMPINI
NEW YORK
«È la vendetta di Obama contro
Israele» annuncia la tv Fox News di Rupert Murdoch, allineata coi repubblicani proNetanyahu. La Casa Bianca starebbe preparando una svolta. Potrebbe smettere di usare
il suo veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, finora uno “scudo difensivo” per Israele. Da
sempre gli Stati Uniti hanno protetto Israele contro risoluzioni di condanna, o di
riconoscimento dello Stato palestinese. Senza il veto americano, Israele soffrirebbe un
isolamento diplomatico senza precedenti. Il termine “vendetta” lo usa solo la destra; ma la
Casa Bianca non smentisce la sostanza. E anzi si giustifica: è Benjamin Netanyahu ad
avere sconvolto gli equilibri internazionali, con quella frase in campagna elettorale in cui
negava la possibilità futura di uno Stato palestinese. Il principio dei “due Stati” è un pilastro
della dottrina americana in Medio Oriente, fin qui accettato anche dal governo israeliano.
«Rinnegandolo — spiegano i consiglieri di Obama — è Netanyahu che ci costringe a un
riesame di tutto il percorso davanti a noi».
Che cosa potrebbe succedere adesso? La Casa Bianca non scopre le sue carte. Ma
l’ambasciatrice Usa al Palazzo di Vetro, Samantha Power, potrebbe ricevere istruzioni
diverse da quelle che l’hanno guidata finora, così come guidarono Susan Rice e gli altri
predecessori. Non si contano le risoluzioni presentate da altri membri del Consiglio di
sicurezza, che non passarono perché bloccate dal veto Usa. «Ora che il governo d’Israele
abbandona l’obiettivo di uno Stato palestinese, allargheremo le nostre opzioni», è la frase
che ricorre ai vertici della diplomazia Usa. Un’ipotesi concreta è stata ventilata
dall’esponente di un gruppo proisraeliano di sinistra, molto vicino a Obama: l’associazione
J Street. Il suo presidente Jeremy Ben-Ami sostiene che “d’ora in avanti questa
Amministrazione non escluderà di votare in favore di risoluzioni Onu che fissino i parametri
per risolvere il conflitto israelo-palestinese”.
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Il capo dei negoziatori palestinesi, Saeb Erakat, è già pronto a sfruttare la nuova
situazione, intensificando la sua attività diplomatica in sede Onu.
Per avere un esempio di quello che potrà accadere, basta risalire al novembre scorso,
quando il Consiglio di sicurezza prese in esame un progetto di risoluzione, promosso dai
paesi arabi, che chiedeva il ritiro di Israele dalla Cisgiordania entro tre anni. L’opposizione
americana fu determinante per affossarlo. Risalendo un po’ più indietro, nel febbraio 2011
Obama esercitò il suo primo veto al Consiglio di sicurezza, per impedire che passasse una
condanna degli insediamenti costruiti col beneplacito di Netanyahu nei territori occupati.
Tutti gli altri membri del Consiglio erano favorevoli.
Un dossier scottante che si presenta a breve termine — il primo aprile — è l’ingresso
dell’autorità palestinese nella Corte criminale internazionale, altro organismo Onu. Qualora
i palestinesi avanzassero in quella sede la richiesta di condannare Israele per crimini di
guerra, il Congresso a maggioranza repubblicana ha già annunciato che cancellerà i 400
milioni di dollari annui di aiuti che l’America versa ai palestinesi. Tuttavia Obama potrebbe
trovare un modo per aggirare la minaccia del Congresso.
La ventilata “vendetta” di Obama sta già provocando delle conseguenze in Israele. Pur
assaporando il suo trionfo alle urne, e prima ancora di inaugurare il suo quarto mandato, il
premier ha cominciato un’opera di ricucitura con Washington. Questo mentre il portavoce
della Casa Bianca, Josh Earnest, fa sapere che la presidenza americana è in trattative con
lo staff di Netanyahu per concordare una telefonata fra i due leader.
Netanyahu si è affrettato a rilasciare un’intervista a una tv americana, la Msnbc, per
rimangiarsi la “frase galeotta” che Obama ha considerato come lo strappo più grave.
Senza ammettere il nuovo dietrofront, visto che il rifiuto dello Stato palestinese gli era
valso pochi giorni prima un travaso di voti dalla destra, ieri Netanyahu ha presentato la
nuova correzione come una «interpretazione autentica » delle proprie parole. «Non ho
cambiato la mia politica — ha dichiarato Netanyahu — non mi sono rimangiato durante la
campagna elettorale ciò che dissi sei anni fa all’università Bar-Ilan, quando invocai uno
Stato palestinese smilitarizzato che riconosca lo Stato d’Israele. Quello che è cambiato, è
la realtà», ha detto accusando i palestinesi di non voler riconoscere lo Stato d’Israele, ed
evocando il controllo di Hamas sulla striscia di Gaza. «Io non voglio uno Stato solo — ha
proseguito Netanyahu nell’intervista al network americano — voglio una soluzione
sostenibile e pacifica fondata su due Stati. Per questo, però, le circostanze devono
cambiare».
del 20/03/15, pag. 8
Obama: “Ora avanti con i due Stati”
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Israele/Stati Uniti. La Casa Bianca, riferisce il New York Times, si
prepara a rispondere al premier israeliano che in campagna elettorale
ha proclamato la sua opposizione alla creazione di uno Stato
palestinese. Netanyahu ieri ha fatto una parziale marcia indietro ma il
presidente Usa negli ultimi due anni del suo mandato potrebbe rendere
la vita difficile a un primo ministro israeliano che lo ha umiliato e
contrastato in troppe occasioni
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Qualcuno forse ha riferito a Benyamin Netanyahu delle congratulazioni che gli ha fatto il
senatore italiano Maurizio Gasparri che ha salutato la sua vittoria elettorale come una
umiliazione per Barack Obama «il peggior presidente della recente storia americana».
Obama, ha notato l’arguto Gasparri, che sino a qualche giorno fa non aveva mai fatto
sfoggio di una conoscenza tanto approfondita della politica internazionale, «ha interferito
nella vita interna di Israele ed è stato respinto». In verità dubitiamo che Netanyahu abbia
cognizione dell’esistenza di Gasparri. Sa invece che il «peggior presidente» si prepara a
regolare qualche conto in sospeso con lui. Anche perchè non ha ancora digerito il discorso
che Netanyahu ha pronunciato il 3 marzo a Washington di fronte al Congresso per
ostacolare l’accordo che gli Stati Uniti stanno negoziando sul programma nucleare
iraniano. Naturalmente non sono in vista passi che potrebbero mettere in forse l’alleanza
strategica tra i due Paesi. E nessuno dimentica che, nonostante le umiliazioni che
Netanyahu gli ha inflitto in questi anni, Obama ha comunque protetto gli interessi di Israele
ovunque, anche al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite silurando, solo per fare un
esempio recente, la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina.
La Casa Bianca due giorni fa ha fatto sapere che «valuterà la strada da seguire per
portare avanti il processo di pace in Medio Oriente, ma si va avanti con la soluzione dei
due Stati», in risposta alle dichiarazioni del primo ministro israeliano che alla vigilia del
voto è stato chiaro: finchè ci sarà lui non nascerà alcuno Stato palestinese e ogni mezzo
sarà lecito per bloccare il programma nucleare dell’Iran (anche la guerra). Netanyahu ieri
ha corretto in parte, in un’intervista a Msnbc, le sue promesse elettorali affermando «di
non volere una soluzione con uno Stato…voglio una soluzione con due Stati pacifica e
sostenibile, ma per questo le circostanze devono cambiare». Parole che non devono aver
fatto piacere ai partiti dell’ultradestra che ritengono di essersi sacrificati in nome della
vittoria elettorale di Netanyahu cedendo consensi e seggi al Likud e che ora vedono il
primo ministro farsi più vago sulla questione dello Stato palestinese.
Arutz 7, l’agenzia di informazione dei coloni israeliani, parla di «punizione» che attende il
primo ministro, in riferimento a quanto scritto dal New York Times, che cita una fonte
anonima della Casa Bianca, su una presunta intenzione dell’Amministrazione Obama di
dare il suo appoggio a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per i “Due Stati”, basata
sui confini del 1967, quelli precedenti l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e
Gerusalemme Est. «Le premesse della nostra posizione a livello internazionale — ha detto
la fonte spiegando l’opposizione a fine 2014 alla risoluzione sullo Stato di Palestina all’Onu
— è stata quella di sostenere negoziati diretti tra israeliani e palestinesi». «Ora invece —
ha aggiunto — siamo in una realtà in cui il governo israeliano non è più a favore di
negoziati diretti». Interessanti sono anche i commenti giunti dalla portavoce del
Dipartimento di Stato Jen Psaki. «Le recenti dichiarazioni del premier (israeliano) mettono
in dubbio il suo impegno per una soluzione a Due Stati… ma questo non significa che
abbiamo preso la decisione di cambiare la nostra posizione rispetto alle Nazioni Unite».
Per alcuni è sufficiente solo il riferimento al veto Usa sulla Palestina al Consiglio di
Sicurezza per indicare che a Washington si stanno valutando tutte le opzioni, nessuna
esclusa, per rispondere al rifiuto di Netanyahu della soluzione dei Due Stati.
Tra gli analisti israeliani si tende, per ora, a ridimensionare l’importanza dei passi che
potrebbe muovere la Casa Bianca in risposta alla posizioni espresse da Netanyahu in
campagna elettorale. «La tensione tra Netanyahu ed Obama esiste da anni ed è salita
ancora di più da quando il primo ministro ha parlato al Congresso. Tuttavia mi riesce
difficile immaginare che gli Stati Uniti arrivino a modificare totalmente le loro posizioni sul
conflitto israelo-palestinese al punto da sostenere una proclamazione unilaterale dello
Stato di Palestina», ci ha detto ieri Oded Eran, analista dell’Istituto per gli Studi sulla
Sicurezza Nazionale di Tel Aviv. Ciò non toglie, ha aggiunto Eran, che si faranno persino
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più difficili le relazioni tra Obama e Netanyahu negli ultimi due anni di mandato del
presidente americano. Di recente, peraltro, è stato nominato coordinatore della politica
della Casa Bianca in Medio Oriente, Nord Africa e la regione del Golfo, proprio Robert
Malley, un esperto statunitense di Vicino Oriente preso di mira qualche anno fa da Israele
per i suoi contatti con Hamas e per le sue critiche alla politica di Tel Aviv.
Gli Usa con ogni probabilità faranno conoscere meglio le loro reali intenzioni dopo la
formazione del governo al quale sta lavorando il premier che tra qualche giorno riceverà
l’incarico dal capo dello stato Rivlin. Nel frattempo lo scrutinio degli ultimi 200 mila voti
rimasti in sospeso, quelli di soldati, diplomatici e di altri israeliani che risiedono all’estero,
ha reso ancora più netta la vittoria del Likud di Netanyahu, che è salito da 29 a 30 seggi e
danneggiato la Lista Araba Unita passata da 14 a 13 seggi (resta comunque il terzo
gruppo alla Knesset), La lista Campo Sionista, avversaria principale del Likud, è ferma a
24 seggi mentre a sinistra ottiene un deputato in più il Meretz, passato da 4 a 5 seggi.
del 20/03/15, pag. 4
La Grecia ora è “pericolosa”
Anna Maria Merlo
PARIGI
Consiglio europeo. Al vertice dedicato all'energia, mini-summit sulla
crisi di Atene, chiesto da Tsipras, che vorrebbe "politicizzare" la crisi,
sull'orlo del crollo nel default. Ma i partner restano sul piano "tecnico" e
chiedono di applicare le riforme (Memorandum). Un minuto di silenzio in
apertura per il massacro in Tunisia. Tusc spinge per un intervento in
Libia. Russia: non ci sono nuove sanzioni, ma la minaccia di un rinnovo
automatico di quelle in corso, se non entro giugno non sono fatti passi
avanti. La Lettonia: azione contro la propaganda di Mosca, che sta
"vincendo"
Dopo un minuto di silenzio per l’ultimo attacco terrorista, a Tunisi, la Grecia «pericolosa»
(la definizione è di Martin Schulz) è stata al centro delle preoccupazioni, pur non essendo
nell’agenda ufficiale del Consiglio europeo di ieri e oggi a Bruxelles, con in programma le
questioni economiche (Fiscal Compact e riforme strutturali), l’energia e, per la politica
estera, l’Ucraina, la Libia e il terrorismo.
L’idea di un mini-summit ai margini del vertice — una «flash-mob» per Schulz — che
obtorto collo Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e Jeroen Dijsselbloem hanno accettato
ieri sera, con la presenza di Angela Merkel e François Hollande, su richiesta di Alexis
Tsipras, ha irritato i partner, che hanno chiesto senza esito di poter partecipare anch’essi,
vista l’importanza del caso greco.
Con la domanda di uno spazio specifico dedicato ad Atene, Tsipras ha voluto politicizzare
il dossier greco, che è bloccato in uno stallo a rischio. «La Ue ha bisogno di un’iniziativa
politica – ha spiegato Tsipras – che nel rispetto sia della democrazia che dei trattati
consenta di lasciarci la crisi dietro le spalle e di muoverci verso una maggiore crescita».
È più o meno la stessa cosa che ha detto la vigilia il primo ministro francese, Manuel Valls,
convocato a Bruxelles dalla Commissione per spiegarsi rispetto al non rispetto da parte di
Parigi del parametro del 3%.
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La Francia ha comunque ottenuto due anni di tempo in più per rientrare nei parametri, ma
per la Grecia c’è un trattamento speciale: «è assolutamente chiaro che nessuno può
attendersi una soluzione né stasera né lunedì» a Berlino (nel previsto incontro con
Tsipras), ha sottolineato Merkel, secondo la quale un accordo si farà «solo se si trova
un’intesa e tutti si attengono ad essa».
Cioè, non verrà versata in anticipo parte dell’ultima tranche (7,2 miliardi) del secondo
piano di aiuti, sulla carta prolungato di 4 mesi il 20 febbraio scorso, prima che Atene mostri
di aver intrapreso le riforme del Memorandum.
Il presidente dell’europarlamento ha giudicato la Grecia «pericolosa» (e sprezzante ha
chiesto a Tsipras se aveva «dimenticato la cravatta»): per Martin Schulz, «sarebbe bene
che la Grecia mantenesse gli impegni presi, un nuovo aiuto finanziario arriverà dopo». Ma
il tempo stringe.
Lo stesso Schulz ha dato credito all’ipotesi che Atene sia quasi a secco e che abbia
difficoltà a far fronte ai nuovi, imminenti, rimborsi: «nel breve termine, 2–3 miliardi di euro
sono necessari per rispettare gli impegni esistenti» (oggi scadono altri 2 miliardi da
restituire dopo l’1,2 già versati e altri seguiranno a ruota per raggiungere la quota di 6
miliardi dovuti in questo mese di marzo, una buona parte all’Fmi).
Il governo greco sta grattando il fondo del barile in casa (dai fondi pensione alla
previdenza sociale), ma non ce la farà se la Bce non versa almeno i 1,9 miliardi di
interessi maturati (ha anche in cassa circa 11 miliardi del Fondo ellenico di stabilità).
Ma Draghi fa concessioni con il contagocce, per tenere il governo di Syriza sulla corda: ha
aumentato l’Ela (liquidità di emergenza, l’unico rubinetto che resta aperto tra Francoforte e
il sistema bancario greco, dopo aver chiuso la possibilità di dare in garanzia le
obbligazioni, junk per le agenzie di rating, come «collaterale») di altri 400 milioni, al di
sotto della richiesta di Atene.
La Grecia è sull’orlo di un panico bancario e il presidente dell’Eurogruppo, Dijsselbloem,
gioca col fuoco, evocando uno «scenario cipriota», con il blocco dei movimenti di capitali
(una misura considerata il prologo per un Grexit).
Juncker ha cercato di mediare, ricordando che «la Grecia negli ultimi tre anni ha intrapreso
molte riforme, fatto molte economie nel budget, realizzato un avanzo primario. Non è vero
dire che la Grecia non abbia fatto sforzi, non sarebbe corretto dire che i greci sono un
popolo di fannulloni». Ma anche Juncker insiste: bisogna rispettare gli impegni ed evoca
quelli del 2012 (cioè il Memorandum), oltre ai più recenti. Non è solo la Grecia a ricevere
bacchettate.
La Bce ha richiamato all’ordine Italia, Francia, Belgio e Finlandia sul rispetto del Fiscal
Compact, per Draghi «la gravità degli squilibri sta aumentando in vari paesi».
La Ue sembra un bateau ivre in questo periodo, incapace di prendere decisioni: anche per
il piano Juncker, il progetto si concentra ora, a pochi mesi dalle decisioni definitive su dove
intervenire con la «leva» che dovrebbe coinvolgere 315 miliardi, sulla «depoliticizzazione»
della scelta della selezione dei progetti.
Terreno minato anche in politica estera. A cena c’era l’Ucraina nel menu.
Il draft del comunicato finale non prevede nuove sanzioni alla Russia, ma la riconferma
automatica di quelle in atto che scadono a giugno, se non ci saranno passi avanti entro
quella data.
La Lettonia, che ha la presidenza semestrale del Consiglio, ha inserito nelle conclusioni la
richiesta a Mrs.Pesc, Federica Mogherini, di mettere in atto un «piano di azione» della Ue
contro la propaganda russa, perché «stiamo perdendo la battaglia» della comunicazione
con Mosca.
Sulla Libia, il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusc, spinge da giorni per un nuovo
intervento militare.
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del 20/03/15, pag. 5
Grecia, i retroscena del pressing Ue
Pavlos Nerantzis
ATENE
Miti e realtà. La Germania guadagna dal disastro ellenico e i fondi Ue
finiscono solo alle banche
Nella capitale greca si sapeva a priori che lo scontro tra un governo delle sinistre e
l’establishment europeo sarebbe stato inevitabile. Non tanto perché «l’altra Europa» a cui
fa riferimento Syriza — gli Stati uniti d’Europa — va in una direzione diversa rispetto alla
struttura attuale dell’Ue, basata sui Trattati di Maastricht e di Lisbona, dove la logica dei
mercati prevale sulla politica, o meglio dominano le politiche neoliberiste.
L’alto livello di tensione tra Atene da una parte e Bruxelles e Berlino dall’altra, presentata
come mancanza di fiducia, è inevitabile nel momento in cui Tsipras, pur presentandosi
pragmatico e disposto ad applicare solo una parte del programma di Salonicco per far
fronte alla crisi umanitaria greca, non é disposto a seguire le politiche precedenti, come
vogliono i partner europei. La ristrutturazione del debito greco è la pietra angolare,
l’elemento portante per il risanamento economico della Grecia e per una costruzione
europea diversa dall’attuale.
Tutto ció era noto. Ma tutto sommato ad Atene speravano che l’«avversario», ovvero i
creditori internazionali, avrebbero rispettato le regole del gioco. A distanza di un mese e
mezzo dallo scrutinio del 25 gennaio, invece, ció che si registra é una lotta quasi accanita
contro il governo di Alexis Tsipras, il quale rispetta i suoi impegni verso i creditori
nonostante i gravi problemi di liquiditá. Visto che l’ aggiustamento di bilancio greco è stato
piú pesante che altrove (i tagli di spesa e le misure fiscali hanno diminuito del 45% il
reddito delle famiglie contro il 20% del Portogallo e il 15% di Italia e Irlanda), Atene
vorrebbe una soluzione basata per il momento sull’accordo dell’Eurogruppo del 20
febbraio scorso. Quindi un negoziato a livello politico, un’apertura di trattativa come ha
scritto pochi giorni fa il vice-premier Yannis Dragasakis sul Financial Times.
I partner europei, invece, non solo non sembrano disposti a dare tempo e spazio al
neogoverno greco, ma sempre di piú c’è la netta impressione che vorrebbero la sua
caduta, la messa in angolo di Syriza. E usano a questo proposito tutti i mezzi: la Bce che
ha chiuso i rubinetti del finanziamento di emergenza (Ela) che tiene in piedi le banche
greche; l’Euroworking group e l’Eurogruppo che chiede dati tecnici delle finanze greche —
che guarda caso sono sempre negativi o mancanti — come pressuposto per un negoziato
politico; e la stampa internazionale che, quando non mente, diventa perfino più realista del
re.
A causa della mancanza di liquiditá nelle casse dello Stato ellenico tutti, o quasi, parlano
del grexident, cioé di un default non voluto o di un grexit (Schaeuble addirittura ha detto a
Varoufakis che Berlino sarebbe disposto ad aiutare l’ uscita della Grecia dall’eurozona);
tutti sottolineano ad ogni occasione i benefici che hanno avuto i greci dagli aiuti finanziari
pari a 240 miliardi di euro ottenuti nel maggio 2010 e nell’ ottobre 2011, ma pochi notano
che soltanto il 10% di questo flusso di soldi é stato assorbito per i fabbisogni interni e veri
del paese. Il resto é servito per ricapitalizzare le banche greche — le quali peró non
prestano un euro alle imprese medie e piccole in stato di emergenza — e sopratutto per
pagare gli interessi sui capitali dei prestiti ai creditori internazionali. Vale a dire che la
Grecia prende in prestito sempre di più dai suoi partner (e questo vale per l’ Italia e tutti i
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paesi) per pagare debiti precedenti. Intanto decine di migliaia di greci fanno la fame,
perdono i loro posti di lavoro, si ammalano, i piú giovani scelgono le vie di migrazione,
ecc., ecc. Le vittime umane, lo sfacelo sociale, l’annientamento del welfare state e la
perdita del 25% della richezza nazionale in Grecia sono considerate dall’establishment
europeo perdite collaterali.
Chi viene beneficiato e chi guadagna con la crisi greca? In Germania ma anche nel resto
d’Europa a sentire i media e parte del mondo politico — che non perdono occasione per
disprezzare i Pigs, i paesi del sud — i contribuenti tedeschi pagano «di tasca loro» per i
greci. Ma questi opinion makers — su cui Wolfang Schauble insiste sempre nei suoi
discorsi — non dicono nulla del fatto che la Germania grazie alla crisi greca e in specifico
alla differenza dei tassi d’interesse ha guadagnato dal 2009, secondo la London School of
Economics, quasi 80 miliardi di euro.
L’economista americano Paul Krugman (premio Nobel) ha scritto sul New York Times che
«i politici tedeschi non hanno mai spiegato ai loro cittadini “la matematica”, ma hanno
scelto la via facile del moralismo per l’atteggiamento irresponsabile dei mutuati». Unica
eccezione dalla Grande Koalition, Klauss Regling (Mes), che ha detto: «Finora i prestiti di
salvataggio alla Grecia non sono costati un solo euro al contribuente tedesco».
Questa campagna diffamatoria piena di stereotipi («i greci pelandroni», promossa non solo
dalla Bild ma anche da quotidiani «autorevoli» italiani) nasconde una realtá emersa
recentemente dall’Office for National statistics britannico: i «pigri» greci lavorano molto di
piú rispetto ai «disciplinati» tedeschi (42,2 ore settimanali i greci, 35,5 ore i tedeschi)». È
questa campagna che alimenta il nazionalismo greco, fino alla minaccia dell’apertura dei
confini perché i jihadisti invadano la Germania.
Mercoledì i «18» dell’Eurozona venivano descritti dalle agenzie internazionali come «irritati
perché il governo di Tsipras si rifiuta di promuovere le riforme», vale a dire gli impegni
presi dai governi precedenti. Costello Declan, il rappresentante della Commissione
europea alle «istituzioni» è contrario (sic) al progetto di legge che facilita i contribuenti
greci a pagare i loro debiti allo Stato, nonostante che non influenzi negativamente il
bilancio dello Stato. E poi tutti sono contrari a Yanis Varoufakis, perció fanno di tutto per
farlo allontanare dalla sua carica. Il video falso del ministro delle finanze greco che manda
a quel paese con il dito alzato la Germania é solo l’ ultimo episodio di una lunga fila di
menzogne.
Il viaggio di Tsipras a Berlino il 23 e l’incontro con i leader europei ai margini del summit di
Bruxelles di ieri sera e probabilmente anche oggi, dovrebbe servire per distendere il clima,
ma sará dura per premier greco.
«La guerra é la continuazione della politica con altri mezzi… é un atto di forza che ha lo
scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontá» scriveva Karl von
Clausewitz. E Atene, secondo Berlino, deve sottomettersi alla volontá dei suoi partner.
Clausewitz aveva notato per primo che «la prima vittima di ogni guerra è la veritá». Tante
le cose scritte e dette su come la Grecia sia arrivata a questa crisi e su chi ne ha la
responsabilitá. Una cosa è certa. La ricetta applicata dalla troika (Fmi, Ue, Bce) per il
risanamento economico del Paese ha avuto conseguenze simili a quelle di una guerra. E
la sensazione che «stiamo vivendo in condizioni di guerra» e di emergenza permanente
ce l’hanno (quasi) tutti i greci.
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del 20/03/15, pag. 20
Atene non ha soldi per stipendi e pensioni
Servono tre miliardi per scongiurare il default
ETTORE LIVINI
MILANO .
La Grecia arriva al redde rationem con l’ex Troika senza soldi in cassa e si affida alla
finanza creativa (leggi “gratta il fondo del barile”) per trovare i 3 miliardi necessari a pagare
stipendi e pensioni di marzo. Bce, Ue e Fmi — dopo aver garantito ad Atene 230 miliardi
di prestiti — hanno sospeso i finanziamenti lo scorso agosto. A tenere in piedi la macchina
dello Stato è da allora la liquidità — distribuita con il contagocce — girata dalla Bce alle
banche elleniche per sottoscrivere i titoli di Stato in scadenza e pagare gli interessi sul
debito.
I NODI AL PETTINE
I conti però non tornano più e i nodi sono arrivati al pettine. I greci hanno smesso di
pagare le tasse da quando sono state convocate le elezioni (solo a gennaio è mancato
all’appello un miliardo di entrate fiscali). La corsa ai bancomat ha fatto sparire in due mesi
dai caveau degli istituti di credito 25 miliardi — il 15% dei depositi — di cui 600 milioni
negli ultimi tre giorni. Le cose non vanno meglio oltrefrontiera. Bce, Ue e Fmi, irritate
dall’impasse nei negoziati, hanno stretto i cordoni della borsa: l’ultima tranche di aiuti da
7,2 miliardi è bloccata fino all’ok al piano di riforme e i tecnici di Eurotower hanno suggerito
ieri al Board della banca centrale — che ha respinto la proposta — di impedire alle banche
elleniche di comprare nuovi titoli di stato («troppo rischiosi»). Risultato: la Grecia rischia di
finire in bancarotta senza aver nemmeno iniziato a discutere davvero con i creditori:
«Servono subito 2-3 miliardi per evitare il crac», ha detto allarmatissimo il presidente del
Parlamento europeo Martin Schulz. Mentre Yanis Dragasakis, il vi- cepremier che sembra
aver rubato un po’ di spazio sui temi economici al ministro delle finanze Yanis Varoufakis,
ha ammesso per la prima volta che esiste un «problema di finanziamenti da affrontare
subito».
IL CAPPIO AL COLLO
Nessuno si stupisce più di tanto. L’arma della liquidità — come molti immaginavano — è il
vero bazooka con cui l’ex Troika vuol costringere Atene ad accettare la sua ricetta per
salvare il paese. Il Governo ha provato a mettere qualche toppa per non finire all’angolo.
Ha approvato una legge che gli consente di mettere mano alle riserve di liquidità dei fondi
pensione, ha sbloccato (con il tacito assenso Ue) 550 milioni del fondo salva-banche, ha
approvato un condono fiscale che cancella le sanzioni a chi paga subito gli arretrati con
l’erario, ha chiesto alle municipalizzate di usare le riserve in cassa per sottoscrivere titoli di
stato.
Mosse disperate. Inutili perchè le uscite, purtroppo, sono più delle entrate. A poco servono
pure gli 875 euro che una coppia tedesca ha regalato ieri ad Atene come risarcimento per
i danni di guerra: solo questo mese sono stati ripagati 1,5 miliardi di prestiti al Fondo
Monetario (altri 350 milioni sono in calendario venerdì), nelle prossime ore dovrebbe
scadere un derivato confezionato da Goldman Sachs nel 2000 per consentire alla Grecia
l’ingresso nell’euro. Entro maggio ci sono da pagare altri 4,5 miliardi di interessi mentre tra
luglio ed agosto scadono 6,7 miliardi di prestiti Bce. Un circolo vizioso in cui i debiti
pagano i debiti: dei 230 miliardi di prestiti dell’ex Troika — stima Macropolis — solo l’11%
è arrivato davvero ai greci mentre il resto se n’è andato in interessi e salvataggi di banche
e creditori.
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LE RICHIESTE DI TSIPRAS
La liquidità sarà dunque il tema principe dei bilaterali di queste ore. Cosa chiede Tsipras?
Tre cose (non obbligatoriamente tutte): la restituzione degli 1,9 miliardi di profitti fatti dalla
Bce su titoli di stato ellenici; lo sblocco di una parte dell’ultima tranche di aiuti da 7,2
miliardi; l’ok all’emissione di nuovi titoli di Stati — il tetto di 15 miliardi è già stato raggiunto
— assieme al via libera a nuovi finanziamenti di emergenza dalla Bce. Ossigeno
necessario per prendere fiato e poi discutere di riforme. Cosa può offrire in cambio? Un
ammorbidimento della linea muro contro muro con i creditori e l’impegno a far decollare in
tempi stretti un “pacchetto-base” di riforme chieste dall’ex-Troika. «L’unica linea rossa che
non vogliamo valicare è quella di nuove misure d’austerità», ha detto un dialogante
Tsipras. Il tempo delle parole, minaccia l’Europa, è finito. Servono i fatti. Senza soldi (e
con la sinistra di Syriza che lo attende al varco), il premier ellenico si giocherà in queste
ore una partita decisiva in cui si misurerà non solo la sua statura politica ma soprattutto la
possibilità per la Grecia di rimanere davvero nell’euro.
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INTERNI
del 20/03/15, pag. 4
Dopo essere stato per anni un assiduo comprimario nei salotti
televisivi, Lupi è salito sul trono del protagonista per annunciare le sue
dimissioni alle telecamere prima che al Parlamento
L’addio-show del ministro la carriera nata in
tv finisce davanti a Vespa
FILIPPO CECCARELLI
VATTI a fidare di quelli che fanno carriera con la tv. Ieri sera Maurizio Lupi ha consegnato
le sue dimissioni nelle mani di Bruno Vespa - di chi altri se no? - che l’ha accettate senza
riserve dinanzi a un grande fondale con il volto contratto del ministro dimissionario, le mani
giunte sulla bocca, e la scritta, se non si fosse capito bene: «Mi dimetto».
Vatti a fidare, anche, dei personaggi dei talk-show. Lupi fa parte della compagnia di giro,
immancabile in quei salotti lì, impossibile non averlo mai visto. Non esattamente un
mattatore, ma un comprimario affidabile, un motore diesel, una maschera standard.
Pare di sentirli i cercatori e smistatori di presenze politiche: «Ci sarebbe Lupi...»: ah, bene.
Eccolo sulla poltroncina, per la prima volta ieri gli è stato concesso il tronetto di
consolazione. Qualcun altro prenderà il suo posto, la tv è per sua natura cannibalica e
richiede sempre carne fresca. Troppo spesso si dimentica che risponde alle leggi dello
spettacolo, poco o nulla di ciò che si vede è vero, semplicemente deve sembrarlo.
Vatti a fidare, quindi, dei volti «presentabili». Il termine è ambiguo e non troppo simpatico,
ma per una volta funziona, sia pure alla rovescia, a disvelare gli artifici della messa in
scena e delle parti assegnate. Lupi era la «presentabilità» televisiva fatta persona. La
parlantina. Il decoro formale. Una certa compostezza. Bagliori di entusiasmo. Equilibrio.
Moderazione. E anche un po’ di simpatia, sia pure di genere oratoriale. Dunque, alta
reputazione in pixel.
Ma allora, per tornare alla realtà: come si combina questa assidua e sicura rendita
catodica con quella cruda battutaccia che l’utile barbarie delle intercettazioni telefoniche
ha divulgato in questi giorni: «Non me ne frega un cazzo» e qui pazienza. Ma poi:
«Possono venirmi a fare una pompa!». E qui invece alt! Come «una pompa»? E chi mai
vorrebbe o dovrebbe venire a fare «una pompa» a Lupi?
Dice: uh, quante storie, quanta ipocrisia, era un modo di dire, scherzoso. D’accordo,
quante risate! Sennonché in tv Lupi ci era arrivato, o ce l’avevano mandato - nel mondo
berlusconiano si può ragionevolmente sostenere che Lui e Lui Solo decidesse chi, dove e
quando - proprio perché era lontano da quelle cosacce che a lungo hanno condizionato il
discorso pubblico.
Bene, Lupi sarà anche stato bravo, sveglio e competente. Ma a partire dal biennio rosa
2008-2009 la sua precipua risorsa narrativa, la sua mission mediatica è consistita nel
riequilibrare l’andazzo ludico e sporcaccione in cui il Cavaliere, con la collaborazione di
«Forza Gnocca», aveva sprofondato il centrodestra.
Perfetto antidoto mediatico. Sposatissimo (su YouTube in uno spot elettorale conteggia in
«26 anni » la durata del suo matrimonio, oggi siamo a 28). Perciò morigerato. Organizzava
pellegrinaggi con monsignor Fisichella, sulle tracce di San Paolo, o in Terra Santa, tour
operator per deputati alla ricerca delle radici cristiane. Un ciellino tranquillo, oltretutto, cosa
abbastanza rara. Niente fanatismi o camicette a fiori tipo Formigoni.
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Il casting degli spettacoli, che per la politica danza con il cinismo, con la religione sfiora la
simonia. Ecco, magari era un po’ rischioso fare da padrino di battesimo a Magdi Allam, il
giorno di Pasqua (2008) ma dopo tutto c’era il Santo Padre. Strideva anche un po’
menzionare l’« Imitatio Christi » per difendere Berlusconi dagli impicci in cui s’era cacciato.
Ma pazienza. Lupi era anche un grande sportivo. Stile di vita sano, mica stravizi. La corsa,
la maratona, il «Montecitorio running club». Le foto sui rotocalchi. La vicepresidenza della
Camera. I buoni sentimenti: sospendeva la seduta per gli auguri di compleanno ai ministri.
Sia ben chiaro: Lupi non è né un attore, né un impostore, né la sua storia incarna La
Grande Menzogna. E’ e resta un politico di questo tempo. Perciò il suo alias elettronico ha
sfidato l’ubiquità manifestandosi in qualsiasi visione a distanza: «Una corsa con Maurizio
Lupi», «Un caffè con Maurizio Lupi», «Soul con Maurizio Lupi», «Incontri ravvicinati con
Maurizio Lupi»...
Si scoprirà prima o poi quali effetti psichici comporta vivere sotto il fuoco delle telecamere,
dietro una perenne lente d’ingrandimento. Un tempo si sarebbe detto che Lupi si è
montato la testa. Così ha pure scritto un libro, « La prima politica è vivere » (Mondadori).
E’ diventato ministro. Infrastrutture, te le raccomando. E nel momento in cui si trattava di
mollare la poltrona, ha mollato Berlusconi. Alla fondazione del Ncd ha fatto il presentatore,
citando il Re Leone. E’ rimasto ministro con Renzi.
I giornalisti politici, ormai, devono fare attenzione a queste cose. Così quando il suo
nemico del Pd, De Luca, ha detto che assomigliava alla figlia di Fantozzi, che è anche un
po’ vero anche se non coinvolge i destini collettivi, Lupi si è offeso moltissimo. Allora ha
telefonato al presidente del Consiglio per protestare, ma sul suo sito ha anche pubblicato
le foto di quelli a cui lui ritiene di assomigliare: Gianni Morandi, Aaron Spelling, Demetrio
Albertini e Gollum de « Il Signore degli anelli ». Dimissionari pure loro?
del 20/03/15, pag. 6
Ora l’interim al premier poi Delrio o Cantone
Quagliariello alle Regioni
L’Ncd perderà il ministero delle Infrastrutture, a Palazzo Chigi la
Struttura che Lupi non volle cedere
TOMMASO CIRIACO
EMANUELE LAURIA
ROMA .
Il dopo-Lupi, per ora, si chiama Renzi. Sarà il presidente del Consiglio a tenere l’interim
alle Infrastrutture, in vista di un mini-rimpasto previsto nelle prossime settimane.
Nell’incontro di Palazzo Chigi, in cui ha concordato con Lupi e Angelino Alfano l’exit
strategy dal rovente caso dei grandi appalti, il premier non ha indicato alcuna soluzione
immediata per la sostituzione del ministro costretto alle dimissioni. Ha solo fatto capire ai
suoi interlocutori che la pesante delega non andrà più all’Ncd. Renzi, adesso, non vuole
commettere passi falsi per la gestione di questo ministero-chiave ed è pronto a discuterne
lunedì con il capo dello Stato Sergio Mattarella. Nel frattempo, valuta l’ipotesi di
spacchettare il dicastero, trasferendo a Palazzo Chigi le competenze della struttura
tecnica di missione (quella che era guidata da Ercole Incalza). Un vecchio pallino del
presidente, che proprio Lupi non ha mai condiviso.
Il ministero, così “alleggerito”, potrebbe essere affidato a un tecnico. A un nome magari di
prestigio come quello di Raffaele Cantone, presidente dell’authority anticorruzione.
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Sarebbe una scelta di chiaro significato simbolico, una riposta mediatica all’allarme
tangenti. Ma il magistrato dovrebbe dimettersi dall’attuale incarico dopo un solo anno dalla
nomina. Circolano pure alcune possibili alternative: Mauro Moretti, amministratore
delegato di Finmeccanica ed ex ad di Ferrovie, o Andrea Guerra, già al timone di Luxottica
e oggi consulente di Palazzo Chigi. Chi ha parlato con Renzi nelle ultime ore, però, non
esclude affatto che il successore di Lupi sia alla fine di nuovo un politico. Un abituale
frequentatore dell’inner circle del primo ministro: si fa il nome anche di Graziano Delrio,
sottosegretario alla presidenza che lascerebbe così il posto al collega Luca Lotti. Ma non è
escluso che lo stesso Lotti - che oggi presiede il Cipe - vada a sedersi sulla poltrona fino a
oggi occupata da Lupi. Più difficile, invece, la pista che porta al deputato David Ermini o a
Debora Serracchiani: quest’ultima darebbe più peso alla componente rosa nel governo,
ma dovrebbe abbandonare la guida della Regione Friuli a meno di due anni dall’elezione.
E c’è chi, in nome del mantenimento degli equilibri interni al Pd, azzarda il nome di Matteo
Mauri, che fu responsabile Infrastrutture della segreteria Bersani.
All’Ncd, uscito acciaccato dalla bufera giudiziaria di Firenze, Renzi avrebbe comunque
assicurato «un adeguato peso politico all’interno dell’esecutivo ». Un modo anche per
favorire il commiato di Lu- pi. In realtà, l’ipotesi più probabile è l’approdo di Gaetano
Quagliariello agli Affari Regionali. Di fatto, un ridimensionamento. Ecco perché l’influente
componente meridionale del Nuovo centrodestra da ieri ha cominciato a reclamare alcune
“compensazioni”. Come un irrobustimento del ministero con alcune deleghe per il
Mezzogiorno. Soluzione che, però, dovrebbe passare da una legge.
I margini di incertezza, insomma, sono ancora molti. Quagliariello, attuale coordinatore di
Ncd, resta comunque in pole per un ingresso nel governo, anche se fra gli alfaniani non
manca chi avanza altre candidature, come quella dell’ex presidente del Senato Renato
Schifani. Non è un mistero che Quagliariello prediliga la Pubblica istruzione, e
quest’opzione apre un altro scenario possibile: il “sacrificio” di Stefania Giannini, che a
difesa della sua posizione può però vantare il recente passaggio al Pd e il lavoro appena
avviato per la riforma della scuola. Di rimpasto più ampio, con un lungo valzer di deleghe,
parlavano invece ieri sera alcuni stretti collaboratori di Renzi. In ogni caso il premier si
presenterà al taglio del nastro per l’Expo da ministro delle Infrastrutture. Ma dopo le
Regionali l’esecutivo avrà un aspetto differente. Non un Renzi-bis, ma una squadra che
punta tutto (anche in termini d’immagine) sulla lotta al malaffare.
del 20/03/15, pag. 7
Fitto come Tosi, in Puglia vuol sfidare Forza
Italia
CARMELO LOPAPA
ROMA . Fitto come Tosi, la Puglia come il Veneto. La differenza è che la scissione (ci
siamo quasi) stavolta si consuma in Forza Italia. L’eurodeputato ed ex governatore da 220
mila voti medita lo strappo definitivo correndo nella sua Regione e trascinando i suoi. Un
ritorno, e tutt’altro che da terzo incomodo, dato che l’obiettivo già annunciato è scavalcare
il candidato ufficiale forzista Francesco Schittulli.
Tutt’altro che un fulmine a ciel sereno. La notizia rimbalza da Bari, dove le decine di
sindaci, consiglieri regionali e comunali e dirigenti locali vicini a Fitto entrano in
fibrillazione, dopo aver appreso che Berlusconi e il commissario Luigi Vitali difficilmente li
candideranno. Troppo profonda ormai la frattura. Mercoledì sera a Palazzo Grazioli, con
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l’ex Cavaliere e Giovanni Toti erano presenti proprio il candidato Schittulli e Vitali, che è
anche coordinatore. «Candidiamo gli uscenti ma non rinunciando al rinnovamento, in ogni
caso, gli aspiranti candidati dovranno chiedere l’accesso alle liste al commissariocoordinatore, riconoscendone il ruolo», sono le conclusioni tirate da Berlusconi. E poi
ribadite alla cena tenuta sempre a Palazzo Grazioli con alcuni imprenditori pugliesi, come
nel pranzo di ieri, presenti Denis Verdini e Gianni Letta, Toti, il comitato per le regionali
presieduto da Altero Matteoli. Proprio quest’ultimo in una nota prova a smussare, «non ci
saranno esclusioni preconcette in Puglia».
Ma per Fitto è il punto di non ritorno. E alza il tiro. «Non ho alcuna intenzione di uscire da
Forza Italia — premette, stando ai racconti dei fedelissimi —. Ma se davvero vogliono
escluderci dalle liste, se davvero vogliono distruggere un partito, non possiamo limitarci
alla battaglia legale, ma lanciamo la sfida e vediamo chi prende più voti». Il segnale di
guerra che le sue truppe attendevano, «in tantissimi ormai premono per un mio impegno
diretto», ammette il big pugliese in altri colloqui coi deputati. Mossa che sarebbe preludio
all’uscita da Fi, alla corsa con liste di rottura anche in Campania (contro Caldoro) e in
Veneto (probabilmente al fianco di Tosi), alla nascita di gruppi parlamentari autonomi. E la
kermesse romana di domani di Fitto a questo punto assume tutto un altro peso.
«Sarebbe assurdo se lo facesse — attacca Giovanni Toti —. Per mesi gli abbiamo chiesto
di candidarsi in Puglia e ora lo farebbe contro il partito? Si metterebbe fuori». Resta invece
in freezer per ora (ma probabile nel fine settimana) il faccia a faccia tra Berlusconi,
rientrato ieri sera ad Arcore, e Salvini. «A queste condizioni non avrei cosa dirgli —
raccontava ieri a pranzo il capo ai dirigenti —. Prima Matteo ritiri i suoi in Liguria e
Toscana e tratti da alleato, non da avversario». Soprattutto, niente liste di disturbo in
Campania, è l’altra priorità: un sondaggio dà Caldoro in vantaggio sul pd De Luca di soli 4
punti.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 20/03/15, pag. 24
Bimbi e immigrati l’omaggio di Libera alle
ottocento vittime della mafia
Domani a Bologna la ventesima edizione della giornata organizzata
dall’associazione Don Ciotti: la memoria contro Cosa nostra
ELEONORA CAPELLI
BOLOGNA .
Vittime innocenti di mafia che non entreranno mai nei libri di storia, i cui familiari si
ritrovano oggi a Bologna per una veglia di preghiera insieme a Don Luigi Ciotti. Bambini e
immigrati, pescatori e imbianchini, pensionati e casalinghe, preti e comunisti. Agenti della
scorta insieme ai più noti magistrati che proteggevano. Saranno chiamati per nome, uno a
uno, domani in piazza a Bologna al termine del corteo per i vent’anni di Libera. Le loro
storie sono raccolte in un libro, Memoria, che sceglie di metterli in ordine alfabetico per
dare a tutti pari dignità. C’è chi è morto per cause «ricondotte all’organizzazione di un
concerto del cantante Nino D’Angelo», come il sindaco di Molfetta, Giovanni Carnicella, e
ci sono i gemelli Giuseppe e Salvatore Asta, morti a 6 anni sulla strada per andare a
scuola nell’auto della mamma, che incrociò quella del sostituto procuratore di Trapani,
Carlo Palermo. C’è la strage di Portella della Ginestra, e ci sono regolamenti di conti nati
per strada, dagli apprezzamenti rivolti a una ragazza. C’è il cassiere di cinema Salvatore
Benigno, morto nel 1986 per aver visto due mafiosi dare alle fiamme un’auto, e il rumeno
Petru Birladeanu, calciatore di serie A in patria e suonatore ambulante a Napoli, colpito
per disgrazia in una sparatoria. Lungo il filo delle pagine si snodano 799 storie di «coloro
che non ci sono più», cui viene dedicata la manifestazione «La verità illumina la giustizia».
E c’è una cosa che accomuna tutti: lo strazio di chi rimane. Lo diceva la mamma di
Roberto Antiochia, agente di polizia ucciso a 23 anni nell’estate del 1985: «Quando ti
uccidono un figlio, sparano anche su di te». La storia del suo Roberto è legata a doppio
filo a quella di Antonino Cassarà, vice dirigente della squadra mobile di Palermo. Di
Cassarà era noto il talento investigativo, insieme ai colleghi americani aveva guidato
l’operazione Pizza Connection. Ma erano in pochi a conoscere il senso del dovere di
Antiochia, agente di polizia che da Palermo era stato trasferito a Roma e in quell’estate si
trovava ancora in Sicilia in ferie. Aveva lavorato nella squadra mobile con Beppe Montana,
poi decise di restare al fianco di Cassarà, fino all’estremo tentativo di proteggerlo dai colpi
di kalashnikov che attendevano il vice capo della squadra mobile sotto casa sua. I nomi e
le storie messi in fila (erano 799 quando è stato chiuso il libro, in gennaio), ci dicono
alcune cose. «Primo, che la violenza colpisce indistintamente – spiega Don Ciotti – e,
secondo, che il presunto riguardo mafioso verso le giovani vite è una menzogna: tra
bambini e ragazzi si contano 83 vittime. Quella mafiosa è una violenza cieca: sono 156 le
persone uccise per essersi trovate dentro un conflitto o perché scambiate per qualcun
altro. Inoltre la mafia ha cominciato a uccidere tanto tempo fa e non ha mai smesso: il
primo omicidio risale a due secoli fa, le morti continuano fino ai giorni nostri». Un tributo a
chi ha perso la vita e anche a chi è rimasto, a ricordare e a piangere.
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del 20/03/15, pag. 18
La legge anticorruzione in Aula al Senato
dopo due anni di scontri
Incontro Anm-Mattarella: disagi, ma basta contrasti
ROMA Con un deciso scatto di reni, alla fine governo e maggioranza riescono a
incardinare in aula al Senato il disegno di legge anticorruzione con il giro di vite sul falso in
bilancio, che, a questo punto, verrà approvato la prossima settimana per poi passare alla
Camera. E sempre alla vigilia delle annunciate dimissioni del ministro Maurizio Lupi per i
favori chiesti a un indagato, si ricuce in parte lo strappo provocato due giorni fa
dall’Associazione nazionale magistrati con il premier Renzi («Il governo accarezza i
corrotti e schiaffeggia i giudici»): «A Mattarella abbiamo manifestato il disagio delle toghe
ma ora bisogna superare i contrasti..» ha detto il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli dopo
l’incontro di ieri con il capo dello Stato.
Il caso Lupi — innescato dalle intercettazioni telefoniche chieste della Procura di Firenze
— ha accelerato le delicate partite aperte in materia di giustizia. Con molta tenacia, il
capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, è dunque riuscito a ottenere che il ddl
anticorruzione fosse incardinato in Aula nella giornata di ieri dopo lo svarione del governo
che mercoledì aveva un po’ pasticciato con la data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di
una norma di riferimento (la tenuità del fatto) per la nuova disciplina del falso in bilancio.
Soddisfatto per l’accelerazione anche il presidente del Senato Pietro Grasso che ha molto
a cuore il provvedimento perché fu lui, da semplice senatore, a rompere il ghiaccio in
materia di anticorruzione il 15 marzo del 2013 con il suo disegno di legge. E sono passati
ben 724 giorni. E così, alla fine, anche il presidente della commissione Giustizia,
Francesco Nitto Palma (Forza Italia), ha dovuto cedere il passo alle fortissime pressioni
(maggioranza, governo, presidenza del Senato) e consentire, senza ulteriori rinvii, che il
testo approdasse in Aula nel pomeriggio di ieri.
«Alleluia, Alleluia» aveva detto Grasso lunedì nel momento in cui il governo tirava fuori dal
cassetto l’emendamento sul falso in bilancio. «Evviva, evviva» ha replicato, non senza
perfida ironia, Nitto Palma quando ha appreso (convocato dalla capigruppo) che il
provvedimento sarebbe andato subito in Aula. «Che sia un alelluia o un evviva non fa
differenza. Il disegno di legge è arrivato in Aula: era ora. Un passo importante per un
cammino ancora lungo» ha chiuso il match il presidente Grasso.
E quanto sia delicata la materia trattata lo ha spiegato con autorevolezza il relatore Nico
D’Ascola del Ncd (avvocato, autore di pubblicazioni sul falso in bilancio). Dopo la
sostanziale depenalizzazione del 2001 (governo Berlusconi), si torna dunque alla pena da
3 a 8 anni nel caso delle società quotate. Ma sarà reato di pericolo anche per le società
non quotate (pena da 1 a 5 anni), salvo, però, i casi in cui il giudice riconosce i fatti di lieve
entità (1-3 anni) e quelli in cui scatta la particolare tenuità del fatto e dunque la non
punibilità.
La prossima settimana, ricorda la presidente della commissione Giustizia della Camera,
Donatella Ferranti (Pd), «siamo pronti all’“uno-due”: falso in bilancio al Senato,
allungamento dei tempi di prescrizione alla Camera». Il non detto del pacchetto giustizia
però, ora più che mai riguarda il nodo della riforma delle intercettazioni telefoniche, che il
caso Lupi ha riportato tra i dossier all’attenzione del governo. E qualcosa di concreto si
muove anche sul fronte del processo civile: il ministro Andrea Orlando ha annunciato che
verranno spesi 10 milioni di euro per incentivare la conciliazione e altre procedure
alternative al processo attingendo personale dalle graduatorie dell’Ice.
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Tutto rinviato per l’elezione dei due giudici costituzionali mancanti. Ancora fumata nera e
tutto lascia pensare che la partita della Consulta si concluderà solo a luglio quando scade
anche il mandato del giudice Paolo Maria Napolitano. Allora ci saranno tre giudici da
eleggere dal Parlamento diviso in tre blocchi (Pd, FI, M5S) .
Dino Martirano
del 20/03/15, pag. 3 (Roma)
«Mafie, c’è poco tempo e molto da fare»
Nuovo allarme del capo della Dda Michele Prestipino sulle infiltrazioni
della criminalità a Roma e sul litorale Nel Lazio 88 clan: 35 di
’Ndrangheta, 16 di Cosa nostra, 29 di Camorra, 2 della Sacra corona
unita e 6 autoctoni
Si è detto e scritto delle «succursali» mafiose e delle loro alleanze, si è soppesato il potere
economico degli ‘ndranghetisti che comprano locali e ristoranti in centro, si è lanciato
l’allarme per le crescenti infiltrazioni camorristiche in appalti leciti e affari illeciti. E si è a
lungo analizzato l’emergere di un fenomeno come Mafia Capitale e lo strapotere , anche
violento, dei clan sul litorale. Eppure, la somma di tutto ciò fornisce un totale che ancora
sorprende e ancora più inquieta: nel Lazio esistono 88 clan mafiosi, di cui 35 della
‘Ndrangheta, 16 di Cosa Nostra, 29 della Camorra, due della Sacra corona unita e sei
autoctoni. Nel 2008 ne erano stati censiti 60. Il Lazio risulta la quinta regione per presenza
mafiosa dopo Campania, Calabria, Sicilia e Puglia.
Tutti fanno affari e mettono radici a Roma, dove la procura ha avviato da un paio d’anni
una capillare azione di contrasto. Se la battaglia sia impari lo diranno gli anni a venire.
Intanto, dal 2012 al 2014 nel Lazio risultano indagati per associazione di stampo mafioso
834 persone, mentre nel solo 2014, in provincia di Roma, è stato registrato un record dei
sequestri che hanno sottratto ai boss 849 immobili, 593 beni mobili e 339 aziende per un
valore di oltre un miliardo di euro.
«Credo nessuno possa dire che esiste una porzione di territorio nel Lazio dove non c’è un
problema genericamente malavitoso. Dobbiamo prendere atto di quanto ci sia da fare e
del poco tempo che abbiamo per farlo», dice il procuratore aggiunto Michele Prestipino a
capo della Dda romana, illustrando i dati del rapporto dell’Osservatorio per la Sicurezza e
la Legalità. Giampiero Cioffredi, che come presidente dell’Osservatorio ha curato il
rapporto si dice «sconvolto» dai dati, che potrebbero essere addirittura sottostimati per
mancanza - al momento - di riscontri investigativi. «Roma è un laboratorio criminale».
«Abbiamo accolto l’inchiesta Mafia Capitale come un elemento di liberazione e di
rigenerazione democratica possibile, non bisogna essere complici o omertosi», dice il
Governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che loda «l’azione di contrasto avviata dalla
procura». Sul nuovo «caso Ostia» (le dimissioni del presidente del Municipio Andrea
Tassone), si sofferma l’assessore capitolino alla Legalità, Alfonso Sabella: «In certe
situazioni la politica locale non basta, serve un supporto da tutte le istituzioni».
«Dove c’è un corrotto c’è anche un corruttore che spesso appartiene ai sistemi d’impresa.
Ma Unindustria è qui per fare la sua parte», assicura invece Attilio Tranquilli,
vicepresidente dell’Unione industriali, che con Confindustria ha firmato un «protocollo per
la legalità». E prendono posizione anche i sindacati: «Bisogna combattere seriamente
l’evasione e la corruzione che alimentano il mercato dell’illegalità», è la ricetta di Claudio
Di Berardino, segretario generale della Cgil di Roma e Lazio.
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La battaglia è solo all’inizio.
Fulvio Fiano
del 20/03/15, pag. 9
di Alessio Schiesari
SEMESTRE UE, LA SOLITA ITALIA: NIENTE
GARE, SI FA TRA AMICI
UN SOLO BANDO SU 58 CONTRATTI STIPULATI NEI SEI MESI DI
PRESIDENZA PER IL RESTO SONO AFFIDAMENTI DIRETTI E
CONSULENZE AI PENSIONATI
Cinquantotto contratti e una sola gara d’appalto, quella per l’unica fornitura gratuita. È
questo il bilancio dei lavori commissionati dal ministero degli Esteri per il Semestre italiano
di presidenza Ue, finito i il 31 dicembre scorso. Ben 52 contratti su 58 sono stati concessi
con affidamento diretto (i restanti con convenzione). Il ministero decide chi invitare a
presentare l’offerta e, sulla base di una ristretta rosa di partecipanti, affida la fornitura,
senza gara di appalto. SE DAL PUNTO DI VISTA politico il bilancio della presidenza è
stato piuttosto magro, quello relativo all’organizzazione è invece positivo, almeno per le
aziende che sono state scelte, a totale discrezione del ministero, per le forniture. Il
catering a Roma, ad esempio, è stato monopolizzato da Triumph group: cinque appalti per
un valore totale di 1 milione 7. 692 euro. Il nome della presidente Maria Criscuolo è
balzato alle cronache nel settembre di due anni fa, quando decise di celebrare in modo
speciale il suo compleanno. Fece aprire il Mitreo all’interno delle Terme di Caracalla a
Roma, uno spazio inaccessibile ai comuni mortali, per festeggiare il lieto evento insieme a
una nutrita rappresentanza del governo Monti (Elsa Fornero, Filippo Patroni Griffi e la
moglie dell’allora premier, Elsa Monti). Ai sorrisi di Triumph corrisponde la delusione di
Relais le Jardin, l’azienda del genero di Gianni Letta, altra sempre presente quando a
decidere chi lavora è la politica. Per loro un solo appalto da 52. 853 euro. Ma il Semestre
italiano sarà ricordato soprattutto per le cravatte e i foulard di seta, di rigorosa “produzione
italiana” precisa il ministero. Per il dono ufficiale del Semestre sono stati spesi un milione
336 mila euro scaglionati in tre affidamenti diversi, anche se, specifica la Farnesina, uno
dei tre lotti era comprensivo anche di “matite legno / grafite” e “penne biro in materiale
plastico riciclato”. Il più piccolo dei tre contratti, quello da 68. 680 euro, è stato affidato alla
Sve. ti. a. di Maurizio Talarico, lo stesso che vestiva Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Va
dato merito alla Farnesina di non avere inseguito un evento faraonico: in totale per il
Semestre sono stati spesi 30, 24 milioni di euro, meno dei 34 stanziati dal governo
Berlusconi nel 2003 e, soprattutto, una cifra considerevolmente inferiore ai 56 previsti dalla
legge di Stabilità. Le buone notizie però si fermano alla spending review, perché
organizzare un evento del genere utilizzando le gare d’appalto solo per selezionare lo
sponsor (ha vinto Fiat, che ha messo a disposizione quaranta 500 L, una Panda e nove
Ducato), è quantomeno singolare. Per evitare la procedura standard, quella che
consentirebbe a tutti i soggetti interessati di concorrere alla fornitura, la legge (il decreto
163 del 2006) prevede tre fattispecie: si può realizzare un affidamento diretto quando in
una precedente gara d’appalto non è stata presentata alcuna offerta, per ragioni artistiche
o tecniche, quando vi è un’estrema urgenza. Per il ministero degli Esteri il massiccio
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ricorso agli affidamenti diretti è stato giustificato proprio dall’urgenza dell’evento, che ha
colto di sorpresa il governo nonostante fosse in programma da un decennio. “Il tempo
restante fra il momento dell’effettiva disponibilità dei fondi 2014 (fine gennaio) e l’inizio
delle attività del Semestre rendeva difficile adottare procedure aperte o ristrette con previa
pubblicazione di bando di gara. Il ricorso alla procedura negoziata ha consentito di
rispettare i tempi imposti dal calendario”. Tradotto dal burocratichese, i soldi sono arrivati
tardi. Non va meglio sul fronte delle consulenze. Nonostante gli oltre 400 diplomatici in
servizio a Roma, la Farnesina ha speso 213. 935 euro per quattro consulenze, tutte
assegnate ad ambasciatori in pensione. La più corposa, 90. 936 euro per il cerimoniale, è
stata affidata a Leonardo Visconti di Modrone. Un esperto che sulla materia ha pubblicato
Consuetudini di Cerimoniale Diplomatico. E, a proposito di nomi che ritornano, il tomo è
edito dalla Tipolitografia Vitaliano Calenne, che per il Semestre ha ricevuto un affidamento
diretto da oltre 339 mila euro. Un’altra consulenza da 41 mila euro è andata
all’ambasciatore in pensione Gianpaolo Arpe-sella per coordinare i responsabili
all’accoglienza: 75 contratti a termine costati oltre 969 mila euro. E, anche loro, selezionati
senza concorso pubblico.
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WELFARE E SOCIETA’
del 20/03/15, pag. VI (Roma)
Povertà, l’allarme della Caritas “Il 2014 l’anno
più duro” Tutti i numeri dell’accoglienza
Quasi 350mila pasti, 200mila pernottamenti in ostello. Il caso dei malati
di tumore Record di italiani all’Emporio e nei centri ascolto. Straniero il
13% degli assistenti
ANNA RITA CILLIS
LA CRISI a Roma non sembra allontanarsi. Lo dice chiaramente monsignor Enrico Feroci,
direttore della Caritas diocesana, l’organismo pastorale fondato da don Luigi Di Liegro:
«C’è un malessere profondo e costante e purtroppo noi lo tocchiamo con mano tutti i
giorni: dal nostro osservatorio non si vede alcuna ripresa ». E a rafforzare le sue parole c’è
anche il dossier “Caritas in cifre”. Numeri riferiti al 2014 che si trasformano in una cartina
di tornasole della nuova povertà nella Capitale. E che rivelano come siano aumentati il
numero dei pasti offerti dalle mense (348mila per oltre 11mila persone) e le prestazioni
sanitarie del poliambulatorio sociale: oltre 15mila, e più di 2500 i pazienti visitati per la
prima volta. Un’attività ampia di aiuto ai più bisognosi che si dispiega in una città ancora
duramente colpita.
MENSE E SANITÀ SOCIALE
Oltre 348mila i pasti distribuiti, 186mila i pernottamenti offerti, 15mila le prestazioni
sanitarie erogate e 10mila visite domiciliari fatte a famiglie e anziani. È la fotografia
dell’attività svolta dalle parrocchie romane. Feroci precisa: «Nei nostri empori della
solidarietà, ogni mese centinaia di famiglie vengono a prendere generi alimentari. Ma
abbiamo la sensazione che sia una povertà nascosta, che non si vede ma si tocca solo nei
nostri centri». E i numeri gli danno ragione: 1.329 le famiglie (4.413 i componenti totali)
che si sono rivolte ai tre empori della solidarietà per rifornirsi di beni primari, +16% rispetto
al 2013.
MALATI E SENZA FISSA DIMORA
Negli ultimi mesi i centri di ascolto diocesani sono stati ripetutamente «contattati da
assistenti sociali di strutture ospedaliere per essere supportati nelle dimissioni di pazienti
senza fissa dimora ricoverati», spiegano dalla Caritas: per lo più si tratta di malati
oncologici che una volta usciti dalle strutture sanitarie si ritrovano a vivere di nuovo in
strada. Un fenomeno, purtroppo, in crescita.
I VOLONTARI
Un dato, ma questa volta positivo, è l’aumento «significativo», dice Feroci «del numero dei
volontari stranieri, circa il 13 per cento» su un totale di 1800.
LA SETTIMANA DELLA CARITÀ
L’occasione per presentare i numeri del 2014 la offre l’annuncio della Settimana della
carità che si aprirà domenica 22 e si chiuderà il 29: una serie di iniziative «di animazione
sociale e preghiera per venire incontro ai bisogni di chi è in difficoltà», racconta il cardinale
Agostino Vallini. E tra le iniziative più importanti spicca la colletta a favore delle famiglie
cristiane che vivono in Iraq: «Per seimila di loro la chiesa di Roma assicurerà una Pasqua
di solidarietà».
FONDO E AZZERAMENTO DEBITI
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Tra le novità presentate ieri anche due progetti sui quali la diocesi di Roma sta lavorando
in vista del Giubileo straordinario. Il primo, che sarà presentato a ottobre, «ha l’obiettivo di
sostenere le famiglie che si trovano in momentanea difficoltà per pagare le rate del mutuo
o l’iscrizione all’università dei figli o le spese improvvise », spiegano dalla Caritas. Un
fondo di solidarietà gestito dalle parrocchie. Il secondo è «che le municipalizzate di Roma
azzerino le bollette nei confronti delle famiglie sovraindebita- te. Purtroppo dare generi
alimentari non basta più, molti ci chiedono cifre esorbitanti per pagare le utenze
domestiche, l’affitto o il mutuo. Ma aiutarli una volta sola non può bastare».
IL GIUBILEO
Un Anno Santo pensando agli ultimi: «Il Giubileo della misericordia sia un aprirsi agli
ultimi, ai poveri e non un business. Roma non sarà solo la capitale d’Italia, ma del
mondo», è l’appello di Feroci che aggiunge: «Si sono fatti subito tavoli per gestire i
pellegrini, ma vorremmo che si facessero tavoli per gestire i poveri di Roma. Ci sono 67mila persone che dormono per strada. La prima misericordia dovrebbe essere per loro
che hanno diritto ad una casa e servono tavoli anche per questo».
del 20/03/15, pag. 9
di Paola Zanca
Disabili, lo Stato non assume e non paga
PERFINO GLI ENTI LOCALI NON RISPETTANO LE ASSUNZIONI
OBBLIGATORIE. E LE SANZIONI RESTANO SULLA CARTA
Mi domando: ma la ministra Madia che sta facendo? Dorme in piedi?”. La deputata Pd
Ileana Argentin questa mattina aspetta al varco, piuttosto sveglia, lei e il ministro Poletti
nell’aula della Camera. Ha da rivolgere ai titolari del Lavoro e della Pubblica
amministrazione un paio di domande apparentemente semplicissime: “Quanti sono i
disabili assunti nelle amministrazioni centrali dello Stato? Quanti negli Enti locali?”.
I numeri che nessuno sa e la legge inapplicata
Eppure la risposta non dev’essere così immediata se c’è stato bisogno di presentare
un’interpellanza urgente per acquisire dati impossibili da reperire. “I ministeri non
rispondono – spiega la Argentin – sono proprio curiosa di sapere cosa mi diranno oggi dal
governo”. La richiesta della deputata democratica, per la verità, vuole solo fotografare una
situazione che lei conosce già benissimo. Ovvero quella della legge 68 del 1999 che ha
istituito le assunzioni obbligatorie per i disabili e altre categorie protette: buchi di centinaia
e centinaia di posti di lavoro, iscrizioni agli uffici di collocamento che restano senza
risposta e – come se non bastasse – altrettante sanzioni per inadempienze che nessuno
paga. La Argentin lo sa perché si è messa a scavare, prima di tutto negli uffici del Comune
di Roma. E lì ha scoperto che quella legge di sedici anni fa è ancora troppe volte
inapplicata.
Mafia Capitale e le cooperative congelate
A far precipitare la situazione, nelle ultime settimane, ci si è messa Mafia Capitale: se molti
lavoratori disabili – come consente la legge – erano assunti attraverso cooperative sociali,
ora che il mondo dell’associazionismo è stato messo nel congelatore in attesa di fare
chiarezza sulla rete di Buzzi e Carminati, tantissimi si sono ritrovati in mezzo a una strada.
È così che le falle dell’applicazione della legge 68 sono venute a galla. “Il sindaco Marino
– dice ancora la Argentin – che è il ‘ sindaco dei diritti’, che fa?”.
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Le multe non pagate e i 700 mila fuori dal mercato
I dati forniti dal Campidoglio parlano di una carenza di circa 300 lavoratori (259 per i
disabili e 11 per le categorie protette) seppure dall’amministrazione arrivino notizie di
prossime assunzioni. Ma quello che più indigna la parlamentare Pd è che non vengano
applicate le “sanzioni penali, amministrative e disciplinari” previste dalla legge: “Ti vuoi
prendere la responsabilità di non assumere? Però almeno paga le sanzioni!”, dice la
Argentin, “non mi risulta che finora il Comune di Roma lo abbia mai fatto”. Che le multe
restino scritte sulla carta, lo dice anche una relazione (il biennio in esame è 2012 / 2013)
scritta dall’Isfol insieme al ministero del Lavoro: a fronte di 4600 autorizzazioni di esonero
delle assunzioni (la legge prevede che le aziende pubbliche o private possano farlo, pena
pagamento) in tutta Italia, nel 2013, ci sono state 182 sanzioni. La stessa indagine dice
che il numero dei lavoratori disabili in cerca di occupazione sfiora i 700 mila l’anno. E al
contrario, gli avviamenti al lavoro non arrivano nemmeno a 20 mila. E non si può dare solo
la colpa alla crisi.
Quando il posto c’è non si può entrare
Racconta Gianluca Cantalini – 41 enne, tetraplegico a seguito di un incidente – che lui
dall’ufficio di collocamento in questi anni qualche (rara) chiamata l’ha ricevuta. Ma più di
una volta ha dovuto rinunciare all’opportunità: “Mi era impossibile entrare nell’edificio a
causa delle barriere architettoniche”. Così si barcamena con i 285 euro di pensione di
invalidità e i 490 euro dell’assegno di accompagno. “Ma io arrivo a dire che anche i ‘
privilegi ’ dei disabili devono finire – conclude la Argentin –. Perché dobbiamo vivere di
pensione? Noi quelle pensioni non le vogliamo. Siamo persone produttive che vogliono
trovare un lavoro, non perché sono in carrozzina ma perché hanno competenze e
capacità”.
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DIRITTI CIVILI
del 20/03/15, pag. 1
Sorpresa, l’omosessualità non offende
Matteo Bartocci
Sentenza storica del tribunale di Roma. Querela per diffamazione per
una copertina del 2012. La giudice Valeria Ciampelli ha assolto Norma
Rangeri con formula piena: "Il fatto non sussiste". L'accostamento
all'omosessualità non è (più) reato. E' la prima volta per la magistratura
italiana
Una causa di diffamazione che ci ha visto involontari protagonisti abbatte un muro della
giurisprudenza e apre una breccia importante per i diritti civili.
Fino a mercoledì scorso accostare una persona qualunque all’omosessualità è stato
sempre giudicato di per sé — considerato il presunto sentire collettivo di questo paese —
causa di discredito e pubblico ludibrio. E perciò senza eccezioni sempre diffamatorio.
Una sentenza storica della giudice Valeria Ciampelli ha invece assolto il manifesto per il
titolo «Matrimonio all’italiana» pubblicato nella copertina del 16 marzo 2012 che
raccontava un’altra sentenza storica, ma della Cassazione, sul caso di due cittadini italiani
sposati in Olanda ai quali veniva riconosciuto sì «il diritto a una vita familiare» ma vista
l’assenza di una legge, in Italia quell’unione – legittima – era purtroppo priva di effetti
giuridici.
Una persona eterosessuale ritratta sul giornale si è sentita diffamata dall’accostamento e
ha querelato la direttrice.
Il tribunale di Roma, rompendo un tabù decennale, ha però dato ragione all’avvocato
Marcello Marchesi, che ha difeso il manifesto (e i diritti di tutti), avvalendosi anche della
testimonianza di Imma Battaglia, organizzatrice dell’iniziativa illustrata in quella copertina.
Essere omosessuali non è un reato né un illecito. È una espressione libera e neutra della
propria sessualità ed esservi accostati non può (più) essere considerato di per sé come
un’offesa. Tantomeno in un giornale che si è sempre battuto contro le discriminazioni e per
i diritti civili.
La nostra assoluzione è stata piena: «Il fatto non sussiste».
La sessualità è un diritto che la comunità intera ha il dovere di rispettare.
Speriamo che ora cada anche l’ultimo tabù, il più grande, quello di un parlamento che da
decenni resta muto e sordo a ciò che la società e la magistratura hanno ormai dimostrato
di saper interpretare e accettare.
del 20/03/15, pag. 36
QUEL PASSO LENTO SUI DIRITTI CIVILI
PIERO IGNAZI
IL PARLAMENTO francese ha appena adottato una legge sul fine vita attraverso una
“sedazione profonda e continua” di malati in fase terminale che avevano lasciato precise
indicazioni in merito. In Italia se ne parla da tempo ma nulla si muove. Il riformismo
renziano sembra infatti procedere con due diverse velocità. Sul piano istituzionale e su
alcuni aspetti socioeconomici esprime una forza propulsiva molto forte. Anzi, a volte si
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muove a passo di carica, usando ogni accorgimento, dal canguro alla tagliola, pur di
arrivare in tempi brevi alla approvazione. Sul piano dei diritti civili, invece, si sconta una
certa sedentarietà.
Il matrimonio omosessuale, le adozioni monoparentali, un effettivo diritto all’interruzione di
gravidanza, il fine vita, la libera somministrazione della pillola del giorno dopo (Ru486) e di
cinque giorni dopo (EllaOne), il diritto di cittadinanza rimangono indietro. Soprattutto non
hanno centralità nel dibattito politico. Anche la questione del divorzio breve, approvato al
Senato alcuni giorni fa, ha scontato una resistenza passiva al limite dell’ostruzionismo da
parte degli stessi esponenti del partito della maggioranza pur di evitare uno snellimento
radicale delle procedure. La componente cattolica del Pd si è imputata a “difendere la
famiglia”, utilizzando una espressione che si pensava appannaggio della destra tartufesca,
quella che sfilava in piazza durante il family day, nonostante tutti i leader del centrodestra
fossero divorziati. In questi casi viene invocata la libertà di coscienza, come se i diritti civili
fossero un problema soggetto alla sensibilità etica. Ovviamente si possono avere opinioni
diverse ma non le si può utilizzare per limitare i diritti di chi la pensa diversamente e
chiede riconoscimenti che non violano la libertà di nessuno.
Il problema rimanda alla cultura politica prevalente nella classe politica nazionale e alla
sua sintonia con l’opinione pubblica. Il caso Englaro fu una cartina di tornasole
drammatica della distanza siderale che separava il “Paese legale da quello reale”, per
usare una vecchia formula. In quella circostanza sembrava di essere tornati agli anni
Settanta quando la Dc sfidava sicura e arrogante un tremebondo Pci sul referendum sul
divorzio pensando di vivere in Paese ancora clericale. E invece, come allora, anche nella
drammatica vicenda Englaro, la maggioranza degli italiani stava dalla parte di coloro che
vennero definiti in pieno Parlamento “assassini”.
Quelle punte esasperate ora non risuonano più ma la maggioranza di governo — anche,
ma non solo, per la presenza dell’Ncd — non sembra intenzionata ad imprimere un passo
svelto a questa agenda. È di pochi giorni fa la restrizione imposta all’assunzione della
cosiddetta pillola dei cinque giorni: mentre la Commissione europea ha dato il via libera
all’acquisto senza prescrizione medica, il nostro ministro della Salute ha imposto l’obbligo
della ricetta «per evitare effetti collaterali ». Ottima precauzione, ma chissà perché negli
altri Paesi non la considerino necessaria.
Questo esempio, come gli altri ritardi — il 12 marzo il Parlamento europeo ha votato la
relazione annuale sui diritti umani in cui si invitano tutti i Paesi, e quindi anche l’Italia, a
riconoscere le unioni civili tra persone dello stesso sesso — dimostrano un perdurante
deficit di cultura politica laica nel Parlamento. Del resto, il Pd non ha mai brillato per
posizioni avanzate su questo terreno. Risente ancora del peso sulle ali depositato dalla
tradizione cattolica, prudente e a volte neghittosa sul fronte dei diritti civili, soprattutto se
connessi alla sfera della sessualità, e da quella comunista, anch’essa per lungo tempo
estranea a questi temi.
Così, è rimasto poco spazio per la promozione dei civil rights . Non per nulla sono i sindaci
più sbilanciati verso posizioni laiche, da Ignazio Marino a Giuliano Pisapia, ad aver sfidato
l’inerzia legislativa celebrando nozze gay (e incorrendo nei fulmini del ministro dell’Interno
Angelino Alfano). Eppure, proprio la nuova classe dirigente oggi al timone del Pd,
essendo, virtualmente, più in linea con la modernità e la postmodernità, non dovrebbe
aver timori o remore ad aprire le finestre. In fondo, il presidente del Consiglio ha tenuto un
profilo “laico”: non è corso in Vaticano appena nominato premier, non ha ostentato
frequentazioni con prelati, non ha mai fatto riferimenti impropri alla religione. Abbandoni
allora timidezze e imponga un altro ritmo a tutto il carnet dormiente dei diritti civili.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 20/03/15, pag. 47
Il mondo è a rischio carestia Per la Nasa sarà la peggiore degli ultimi
mille anni negli Usa. E ora in California razionano anche l’acqua nei
ristoranti
Siccità
Quella grande sete che minaccia il Pianeta
SILVIA BENCIVELLI
UNA nuova Dust Bowl è in arrivo sulle Grandi Pianure. Stavolta non durerà un decennio, e
non sarà come quella che John Steinbeck descriveva con le piogge leggere sulle “terre
rosse e grigie dell’Oklahoma”, e le immense nuvole di polvere che si sollevavano dai
campi. Stavolta, avverte il Nasa Goddard Institute di New York, la siccità potrebbe
affliggere gli Stati Uniti per quasi mezzo secolo e sarà la peggiore degli ultimi mille anni.
La causa: i cambiamenti climatici. L’unica soluzione: adattarsi. Cioè anche usare meno
acqua per annaffiare, per lavare e lavarsi, e razionare perfino l’acqua nei ristoranti, come
prevede una legge appena promulgata dallo stato della California, che stabilisce di servire
la brocca in tavola solo su esplicita richiesta da parte del cliente.
La siccità sarà dovuta alla combinazione di piogge sempre più scarse e di temperature
sempre più alte, che fanno evaporare la poca acqua caduta al suolo. Nel caso americano
le proiezioni sono state basate su 17 dei più recenti modelli climatici e sono spietate.
Possono essere lette in rete nel primo numero della rivista open access dell’AAAS,
“Science Advances”. Ma Benjamin Cook, prima firma dello studio, le riassume in una
frase: “le future siccità rappresentano eventi che nessuno nella storia degli Stati Uniti
d’America ha mai dovuto fronteggiare”.
L’America centrale, infatti, è da sempre soggetta a lunghi periodi di siccità. Ma se le
emissioni di gas serra continueranno a crescere al ritmo attuale, c’è una probabilità
superiore all’80% di un evento senza precedenti sulle Grandi Pianure e nel Sudovest degli
Stati Uniti, della durata di almeno 35 anni, tra il 2050 e il 2099. E se anche riuscissimo a
ridurle, quella probabilità calerebbe al 60-70% sulle Grandi Pianure per rimanere intorno
all’80% nel Sudovest. Cioè “anche negli scenari intermedi, vediamo un caldo secco che ci
porta oltre le peggiori siccità del passato della regione”, conclude Cook. Il riferimento è alla
cosiddetta Anomalia climatica medievale, un periodo di temperature molto alte tra l’800 e il
1300 d. C. A farne le spese furono gli indiani Anasazi, o Pueblo Ancestrali: un popolo
originario degli attuali Utah, Colorado, Arizona e Nuovo Messico, che si è estinto lasciando
poche tracce di sé.
Quanto al resto del mondo, la musica non è diversa: “lo Working Group II del quinto
Rapporto di Valutazione dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) delle
Nazioni Unite evidenzia i rischi regionali e punta il dito su diverse parti del pianeta”,
sottolinea Sergio Castellari, del Centro Euro- Mediterraneo sui Cambia- menti Climatici
(CMCC) e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). Allora è davvero il
momento di adattarsi.
Per esempio, “si tratta di studiare colture più tolleranti alla scarsità di acqua e sistemi di
irrigazione più sostenibili, e soprattutto di stabilire priorità attente nell’uso delle risorse”,
prosegue Castellari. È quello che è scritto anche nella nostra Strategia nazionale di
adattamento, la cui stesura si è conclusa pochi mesi fa ed è stata coordinata da Castellari
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stesso: “perché anche l’Italia è interessata, e potrà essere sempre più interessata, dal
rischio siccità”.
Non tutte le soluzioni sono però percorribili. In America, per esempio, le acque del Lago
Mead e del Lago Powell, i più grandi bacini artificiali del Nordamerica, stanno registrando i
livelli più bassi della storia.
Per questo in California si è pensato a una soluzione in grande, e a una in piccolo. In
piccolo, l’acqua dei giardini, delle lavatrici e dei ristoranti. In grande, si sta costruendo un
immenso impianto di desalinizzazione delle acque di mare nella cittadina di Carlsbad.
Sarà completato nel 2016 e costerà un miliardo di dollari. Ogni giorno succhierà 400
milioni di litri di acqua dall’Oceano Pacifico e restituirà 54 milioni di litri di acqua potabile.
Cioè appena il 10% del fabbisogno della regione. Ma così sarà anche una delle sorgenti di
acqua dolce più costose al mondo. Non solo: un desalinizzatore richiede grandissime
quantità di energia per funzionare. E se è alimentato a combustibili fossili, diventa una di
quelle attività umane che produce gas serra, che a sua volta è responsabile del
riscaldamento globale.
Nel dettaglio, l’impianto di Carlsbad consumerà più di 35 MW di elettricità (una potenza
equivalente al consumo di trentamila case). Proprio per questo non è considerato dagli
esperti una buona strategia. “L’adattamento deve integrarsi con la mitigazione”, chiosa
Castellari. Cioè: adattarsi a un pianeta sempre più caldo lo si deve fare senza creare nuovi
danni. Per i Pueblos ancestrali e per gli americani di John Steinbeck la siccità fu
invincibile. Vediamo, adesso, che cosa sapremo fare noi.
del 20/03/15, pag. 15
Energia. La Regione verso lo scongelamento delle esplorazioni di
petrolio e gas: investimenti potenziali per cinque miliardi
L’Emilia apre alle trivellazioni
Marchesini: le attività di ricerca non hanno alcuna relazione con gli eventi sismici
Investimenti potenziali per 5 miliardi di euro con ricadute occupazionali pari a oltre 35mila
addetti. Riprende quota il “sogno” dell’industria degli idrocarburi in Emilia-Romagna, patria
“storica” della scarsa produzione energetica nazionale che, comunque, “trova” lungo la via
Emilia il 50% della quota nazionale di gas. La sfida che ora il mondo industriale propone è
quella di realizzare un sistema di impresa perfettamente compatibile con l’ambiente e in
grado di superare i timori che il recente evento sismico tra Modena, Ferrara e Bologna
potesse aver avuto origine proprio dalle estrazioni di gas. Ora che la commissione Ichese,
composta dai maggiori esperti del settore, ha fugato questo sospetto, riparte la
progettualità. E il Rie - Ricerche industriali ed energetiche guidato da Alberto Clò, ex
ministro dell’Industria e docente di Economia all’università di Bologna - sommando gli
investimenti proposti dalle compagnie petrolifere per l’intero bacino adriatico, in cui
l’Emilia-Romagna è indiscussa protagonista, calcola investimenti per circa 4,8 miliardi
spalmati su una ventina di progetti che porterebbero al raddoppio della produzione di gas.
Con un risparmio per la bolletta energetica di 2,6 miliardi l’anno, decine di migliaia di posti
di lavoro ed entrate fiscali per 1,5 miliardi. Senza che a risentirne, come dimostrano i dati,
siano né il settore turistico né quello agricolo e della pesca che da sempre “pacificamente”
convivono in regione. Il nemico da battere a questo punto è il timore delle popolazioni
spesso in rivolta contro le trivelle e a maggior ragione sospettose dopo che si attribuì agli
emungimenti la causa del sisma.
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«Oggi possiamo affermare - ha spiegato ieri Maurizio Marchesini, presidente di
Confindustria Emilia-Romagna in occasione di un incontro sul tema “Territorio e
idrocarburi” - sulla base degli studi svolti dopo il sisma dai maggiori esperti del settore,
vale a dire la commissione Ichese, e, soprattutto, sulla base delle sperimentazioni svolte
nel laboratorio di Cavone, che le attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi non hanno
avuto né hanno alcuna relazione con gli eventi sismici. L’Italia ha bisogno di energia e
infrastrutture e possiamo andare avanti senza cedere a facili allarmismi o posizioni di
retroguardia». Inoltre, come ha spiegato Pietro Cavanna, presidente di AssominerariaIdrocarburi, «l’Emilia-Romagna in particolare è la dimostrazione della armoniosa
convivenza tra i settori e soprattutto della potenzialità di sviluppo legata alle eccellenze
industriali riconosciute a livello internazionale. È per questo che ci aspettiamo di poter
operare per lo sviluppo e nel pieno rispetto della sicurezza e della tutela ambientale».
Ora un ruolo importante lo giocherà la normativa regionale. Come ha spiegato Paola
Gazzolo, assessore all’Ambiente della Regione Emilia-Romagna, «con la pubblicazione
delle linee guida ministeriali, finirà per cessare lo stop a ogni attività di ricerca e
coltivazione. Si tratta ora di far superare alla popolazione il timore dei rischi per la
sicurezza».
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CULTURA E SPETTACOLO
del 20/03/15, pag. 14
Andrea Scanzi
Fenomeno Zerocalcare, una matita da Strega
“DIMENTICA IL MIO NOME” SARÀ AL PREMIO: IL GRAPHIC NOVEL
SFIDA IL ROMANZO
L a notizia di un graphic novel candidata allo Strega, Dimentica il mio nome (Bao
Publishing) di Zerocalcare, può stupire – e addirittura indignare – soltanto chi in questi
ultimi anni ha vissuto su Marte. Non c’è nulla di strano né di sacrilego: è semplicemente
una candidatura giusta. Era già accaduto un anno fa, con Unastoria di Gipi (Coconino
Press). I due autori sono stati i protagonisti di uno degli incontri più significativi della
rassegna Libri come, lo scorso weekend all’Auditorium di Roma. La Sala Petrassi (700
posti) era piena. L’organizzatore, Marino Sinibaldi, aveva avuto l’idea abbastanza
azzardata di un incontro senza reti: niente scaletta, niente moderatori. Il più terrorizzato
era Zerocalcare, al secolo Michele Rech, 31 enne nato casualmente ad Arezzo ma
romano di Rebibbia. Non un mattatore sul palcoscenico: timido, impacciato, fissava un
punto imprecisato del palco e si perdeva in mille parentesi, affidandosi al collega alla sua
destra. Ovvero Gipi, vero nome Gianni Paci-notti, 51 enne pisano, fresco reduce dal suo
matrimonio: “Mi sono sposato ieri in Alto Adige e sono appena tornato, dopo che per tutta
la cerimonia un gruppo di tedeschi alcolizzati ha tentato di possedere mia moglie”.
PER I PRIMI dieci minuti l’incontro è stato un balbettio reciproco, poi la chiacchierata si è
rivelata molto stimolante. Gipi regalava le sue battute malinconiche (ma esilaranti),
Zerocalcare raccontava la sua eterna lotta con l’accettazione di una passione – il disegno
– diventata ormai lavoro. Lavoro assai redditizio, perché nessuno ha mai venduto come lui
in Italia. Non con il fumetto: nei primi tre mesi di vita, Dimentica il mio nome (uscito a
ottobre) aveva già superato le 80 mila copie. Gipi non ha mancato di sottolinearlo: – con
decenni di ritardo – che forse il fumetto non è un’arte di serie B. Un po ’ come il
cantautorato, reputato fino a ieri la bruttissima copia della poesia. In Italia i disegnatori di
qualità non sono mai mancati, tanto nel fumetto seriale (gli albi della Bonelli, ma anche il
Lazarus Ledd del prematuramente scomparso e mai troppo lodato Ade Capone) quanto
nei maestri riconosciuti (Crepax, Milo Manara, Andrea Pazienza). Proprio Pazienza è il
punto di riferimento che meglio inquadra Gipi: all’autore pisano manca forse il taglio
pienamente ironico – quello di Paz e Pert – ma dentro ogni sua tavola c’è tutto quel
groviglio di dolore, inquietudine e follia che condusse Pazienza prima al genio e poi
all’implosione. Anche di questo, di implosioni, Gipi si intende: ha cominciato a disegnare
solo a 37 anni, dopo un’adolescenza da punk e rapporti conflittuali con la famiglia,
innamorandosi di un libro – rubato 15 anni prima in treno – che gli ha insegnato a pensare
“solo con la parte destra”. Aveva anche smesso di disegnare, dopo le prime avvisaglie di
successo, incapace di gestire quella nuova realtà. C’è, nel suo sguardo e nelle sue
pagine, una sorta di sofferenza incurabile. Le sue opere migliori, da La mia vita disegnata
male a Unastoria, sono fortemente autobiografiche. Una cifra anche di Zerocalcare, che
nel suo ultimo libro narra la storia della sua famiglia senza rinunciare ai sempiterni
armadilli, cavalieri dello Zodiaco e personaggi di Street Fighter. Entrambi sono stati ospiti
di Fazio e Bignardi, regalando alcune delle interviste migliori della stagione, ma non è solo
con l’esposizione mediatica che si spiega questo (meritato) successo. È piuttosto
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avvenuto, con consueto ritardo italico, che la graphic novel sia divenuta una delle arti più
indicate per tratteggiare una contemporaneità schizofrenica.
COSÌ COME Art Spiegelman seppe raccontare l’Olocausto con Maus (una delle opere
preferite da Gipi) e Joe Sacco il martirio della striscia di Gaza in Palestina, Gipi e
Zerocalcare fotografano questo presente deviato e schizoide, malato di ego (da qui
l’autobiografia insistita) e di intolleranza (il reportage da Kobane di Zerocalcare, pubblicato
su Internazionale, è pregevolissimo). A entrambi importa pochissimo di essere candidati
allo Strega e di “contribuire al rilancio del fumetto italiano”. C’è da capirli: sono cani sciolti,
artisticamente anarcoidi e in parte – soprattutto Zerocalcare – inconsapevoli del loro
talento. Gipi è un Pazienza meno allegro e non meno macerato, Zerocalcare è un rapper
del fumetto che neanche sa come nascano le sue rime (ma nascono bene). Entrambi
oltremodo contemporanei, entrambi oltremodo preziosi.
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ECONOMIA E LAVORO
del 20/03/15, pag. I (ins. Sbilanciamo l’Europa)
Workers act vs Jobs act
Giulio Marcon
La proposta. Nonostante l’ottimismo parolaio di Renzi, le stime del Def
parlano chiaro: il Jobs Act inciderà sul Pil al massimo per lo 0,1%. Per
ripartire ci sarebbe bisogno di una politica industriale, di contratti veri e
di investimenti pubblici. Una riforma del lavoro per uscire dall’Ottocento
2.0
Una volta — per essere competitivi — si svalutava la moneta, oggi si svaluta il lavoro:
meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in
questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato;
le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella della circolazione dei capitali); gli
investimenti privati (il mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro. La riforma del
mercato del lavoro è una di quelle riforme strutturali cui Renzi affida la speranza di
rilanciare l’occupazione e l’economia. In realtà, come sappiamo tutti, in questi anni
l’esistenza di oltre 45 forme di lavoro atipico non ha incoraggiato ad assumere di più, ma
semplicemente a sostituire i contratti di lavoro con tutele con forme di lavoro precario,
senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori precari. Nè queste
riforme hanno avuto effetti salvifici sull’economia. Proprio nel Def si dice che l’impatto del
Jobs Act sul Pil sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di previsioni; e quelle del
governo in questi vent’anni sono sempre state troppo ottimistiche e poi inevitabilmente
corrette al ribasso.
L’assunto dal quale si parte è noto: bisogna mettere le imprese nelle condizioni di avere
meno vincoli e costi possibile. E così potranno assumere. Solo che, probabilmente, i nuovi
assunti saranno assai pochi: la maggior parte dei nuovi contratti saranno sostitutivi, cioè
trasformeranno rapporti di lavoro pre-esistenti più gravosi in quelli più convenienti introdotti
dalla legge di stabilità. Tutte le agevolazioni fiscali di questi anni, le imprese non le hanno
utilizzate per fare investimenti nell’economia reale, ma in quella finanziaria e speculativa o
per arrotondare i loro profitti.
La realtà è che i governi occidentali di questi anni (e Renzi, oggi), rinunciano ad ogni
politica pubblica attiva: non c’è una politica industriale, non c’è una politica degli
investimenti pubblici (che in 20 anni si sono dimezzati), non c’è una politica del lavoro.
Non c’è più una politica della domanda (di sostegno, programmazione, investimento), ma
solo dell’offerta, dove — per quel che ci riguarda — non è più nemmeno offerta di lavoro,
ma offerta di lavoratori alle condizioni più vantaggiose per le imprese. Nel frattempo gli
ultimi dati Istat ci dicono che la situazione in Italia continua a peggiorare. E già questo
dovrebbe indurre i governi ad un serio ripensamento delle politiche sin qui seguite.
L’idea di lasciare al mercato la creazione di occupazione non funziona e non ha funzionato
mai, se non per la produzione di posti di lavoro precari, effimeri, mal retribuiti, senza tutele.
Ma quale sistema economico e produttivo può pensare di sopravvivere grazie ad una idea
di lavoro così retriva e padronale? Altro che modernità, qui siamo al ritorno all’ottocento,
anche se 2.0. Un lavoro senza qualità porta con sè una economia senza futuro. Senza un
investimento nel lavoro (in termini di risorse, ma anche di formazione, di tutele, ecc.) non
ci può essere alcuna economia di qualità, innovativa, capace di competere. Un’impresa
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che si serve del lavoro usa e getta, non ha speranze, è di bassa qualità, dura poco: non ’è
più impresa, ma solo business di piccolo cabotaggio (anche se magari di grande ritorno
affaristico).
Servirebbe invece una politica pubblica per il lavoro: una sorta di piano straordinario del
lavoro fondato sugli investimenti pubblici per creare occupazione nella risposta alle grandi
emergenze nazionali (lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, piccole opere,
ecc) e nelle frontiere delle nuove produzioni della cosiddetta Green Economy (mobilità
sostenibile, energie pulite, ecc.). Servirebbe uno Stato che fosse attivo –indirettamente,
ma anche direttamente– nella creazione di posti di lavoro, attraverso un’agenzia nazionale
come quella (la Works Progress Administration) che fu creata da Franklin Delano Roosvelt
durante il New Deal. E servirebbero degli investimenti pazienti (che danno riscontro sul
medio periodo) in settori fondamentali per creare buona economia e buona occupazione:
nell’innovazione e nella ricerca, nel settore formativo ed educativo e nella coesione
sociale. E poi, bisognerebbe riprendere un discorso che oggi può sembrare in
controtendenza (sicuramente rispetto alle politiche neoliberiste), ma quanto mai attuale e
necessario: la riduzione dell’orario di lavoro. Se il lavoro è poco, bisogna fare in modo che
il lavoro sia redistribuito il più possibile. Lasciare milioni di persone nella disoccupazione e
nell’inattività è economicamente sbagliato, moralmente disumano e socialmente ingiusto e
pericoloso.
del 20/03/15, pag. III (ins. Sbilanciamo l’Europa)
Nuove regole, così si trasforma il precariato
Rachele Gonnelli
Tendenze. Dai voucher agli stage pagati con ticket restaurant, così
cambia il ricorso per legge al lavoro temporaneo
Due settimane sono un tempo assai breve, ma i primi segnali dell’applicazione del primo
decreto attuativo del Jobs Act non sono promettenti, a dispetto degli annunci. I nuovi
licenziamenti facili senza art. 18 hanno provocato come primissimo effetto un’ondata di
licenziamenti collettivi in uno dei settori più fragili del mercato del lavoro, che già aveva un
costo del lavoro più basso degli altri e un’occupazione temporanea più alta: nei call-center
Almaviva sono stati messi a rischio 7 mila posti di lavoro per poterli sostituire con nuove
assunzioni meno tutelate. Ora Tito Boeri, dal suo nuovo seggio dell’Inps, dice che 76 mila
aziende hanno fatto domanda a febbraio di accedere alla decontribuzione per le nuove
assunzioni. Con meno enfasi la Fondazione Consulenti del Lavoro fa notare che nell’80%
dei casi si tratta di regolarizzazioni di collaborazioni a progetto, partite Iva e altra varia
precarietà e solo nel restante 20% di nuove assunzioni. È da notare che fino ad agosto
l’80% delle nuove assunzioni erano stipulate con contratti atipici e solo un 15% a tempo
indeterminato. La differenza è che ora il 100% è escluso dalla tutela dell’art. 18.
Che dire poi della coppia di giovani coniugi che a Cagliari, con il contratto unico fresco di
firma, è corsa in banca a stipulare un mutuo per la casa dei sogni. Hanno bussato a 11
istituti di credito, tedeschi, italiani e olandesi, ma nessun direttore ha dato loro credito, nel
vero senso della parola. Non hanno creduto, in assenza di ulteriori garanzie fideiussorie,
alla stabilità del loro reddito. Può darsi che la tendenza sarà invertita, che arriveranno le
assunzioni di Melfi a rimpolpare il numero dei nuovi occupati, ma di certo questi segnali
non sono dovuti a intrinseca cattiveria.
Per agevolare le assunzioni con quello che dallo scorso 7 marzo si propone come il nuovo
contratto standard, il governo, tramite la legge di Stabilità, ha messo sul tavolo un
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pacchetto di decontribuzione che arriva ad un massimale di 8.060 euro a persona. Il bonus
è alimentato anche dai 1,5 miliardi stanziati dal piano Youth Guarantee del Fondo sociale
europeo, partito 10 mesi fa con valutazioni ottimistiche del ministro Poletti: avrebbe portato
all’inserimento lavorativo di 900 mila giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non
lavorano nel giro di 24 mesi. Secondo il centro studi Adapt fondato da Marco Biagi e
diretto da Michele Tiraboschi, su un bacino potenziale di 2.254 mila giovani Neet, gli iscritti
al piano sono soltanto 435.729. Il flop non si ferma qui. Solo il 48% degli iscritti ha ottenuto
un primo colloquio di lavoro e solo l’8,1% ha avuto una qualche proposta di lavoro, spesso
assolutamente generica e senza alcuna formazione o apprendistato. Del resto, per
«avvicinare i giovani al lavoro», durante l’Expo si farà ampio ricorso a stage gratuiti o
pagati con qualche ticket-restaurant. Per i non più tanto giovani e già specializzati invece
si farà ampio uso di voucher, strumento che si delinea come nuovo salario d’ingresso.
I buoni-lavoro, concepiti inizialmente come forma di emersione puntiforme del lavoro nero
accessorio — baby-sittering e altri lavoretti — hanno avuto negli anni una progressione
esponenziale. Non per perfida casualità ma perché il loro campo di applicazione è stato
progressivamente esteso con 12 interventi regolativi in 11 anni di vita dello strumento.
Ormai sono utilizzati in quasi ogni settore, dal turismo all’agricoltura stagionale, dalle
aziende familiari alle imprese con fini di lucro e perfino nelle amministrazioni pubbliche e
nei tribunali. Ogni ticket da 10 euro incorpora una minima contribuzione Inps e Inail e nelle
indicazioni si riferisce a una paga oraria, ma il voucher è un pagamento a prestazione,
perciò troppo spesso viene usato per pagare una attività giornaliera, non necessariamente
di otto ore. Non prevede malattia o nessuna altra indennità, è una specie di gratta e vinci
del lavoro, acquistabile e riscuotibile anche nelle tabaccherie autorizzate oltre che online
grazie a una apposita carta Poste-pay. L’unico limite è il massimale, ampliato in tre anni
da 3 mila a 5.060 euro e ora, nello schema di decreto attuativo, fino a 7 mila euro l’anno.
La bozza di decreto vorrebbe renderlo più tracciabile, prevedendo la certificazione
anagrafica e fiscale del lavoratore da parte dell’utilizzatore, senza ulteriori oneri incluso
l’Irap, ed escluderne l’utilizzo negli appalti, dove si configurerebbe un dumping sociale,
cioè concorrenza sleale, ma già c’è chi si oppone a queste regolamentazioni. Nel
frattempo si sono perse le tracce del decreto che dovrebbe eliminare i cococo (sempre
possibili tramite accordo aziendale) e sfoltire la giungla contrattuale di altre due tipologie, il
job-sharing e il lavoro a somministrazione. Tra tagli all’Irap e decontribuzione fiscale pare
manchino le coperture. Ora, se anche si avverassero le previsioni del ministero
dell’Economia sugli effetti del Jobs Act, cioè circa 250 mila nuovi posti di lavoro standard
l’anno per tre anni, è chiaro che sarebbe solo una goccia nel mare. In più, dal punto di
vista di chi cerca un lavoro, dai tirocini gratuiti fino al punto d’arrivo del contratto unico a
fantomatiche tutele crescenti, passando per i voucher, si vede solo una trappola infinita
della precarietà legalizzata.
del 20/03/15, pag. 21
Scontro tra la Bce e Roma “Siete in ritardo
sul debito” la replica:“Opinione parziale”
VALENTINA CONTE
ROMA . Italia ancora bocciata sul fronte del debito pubblico. Lo «scostamento dallo sforzo
strutturale richiesto dalla regola del debito», scrive la Bce nel bollettino economico diffuso
ieri, è ancora «notevole». La regola «si rispetta anche se si fanno le riforme in modo
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deciso», replica secco in mattinata il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Mentre il
suo dicastero rincara in serata, definendo «quanto meno parziale» l’opinione della Bce
secondo cui la correzione strutturale del deficit italiano sarebbe un mero effetto del calo
dei pagamenti di interessi. Bollando come «informazioni imprecise» quelle del bollettino. E
infine ribadendo che «l’Eurogruppo a dicembre non chiedeva misure aggiuntive».
Polemica che si fa rovente, dunque. Per nulla stemperata dalle rassicurazioni del
vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, che ripete di essere «al
corrente delle critiche della Bce» e di continuare a monitorare paesi come Italia e Belgio.
Ritenendo però non necessario aprire una procedura per deficit eccessivo, anche grazie
allo sforzo fatto sulle riforme.
Sforzo non del tutto sufficiente per l’istituto di Francoforte che anzi bacchetta il ritmo
«piuttosto lento» della loro attuazione nell’Eurozona, ostacolo per una ripresa «più
robusta», inadatto a contrastare «la gravità degli squilibri» che al contrario «sta
aumentando in diversi paesi», e in maniera «preoccupante». Come appunto avviene per
l’Italia. Il messaggio recapitato al governo Renzi è chiaro. Con un debito così alto e la
scampata procedura (sconto non del tutto condiviso dalla Bce), occorrono altre spinte
all’economia, benché la ripresa sia alle porte. «L’Italia necessita di ulteriori riforme
strutturali per accrescere il prodotto potenziale », scrive la Bce. Riforme «significative»,
portate completamente a termine, come nuovi interventi nel mercato del lavoro e nel
campo delle liberalizzazioni che spingerebbero il Pil italiano di «oltre il 10% nel lungo
periodo».
Più in generale, la Bce rivede al rialzo le stime sul Pil dell’area euro (+1,5% quest’anno),
grazie al calo del petrolio, all’indebolimento dell’euro e all’impatto del quantitative easing, il
programma di acquisto di titoli messo in campo da qualche giorno. Sonoramente bocciato
però ieri dall’agenzia di rating Standard & Poor’s. Perché «può essere controproducente
nel lungo periodo, se porta la politica a cullarsi negli allori, mettendo sotto ulteriore
pressione i rating sovrani».
del 20/03/15, pag. 29
Oltre la metà sono studenti, tanti giovani laureati, qualche
professionista Hanno risposto in massa all’appello e, dopo un test di
prova, in felpa e cappellino andranno tra i padiglioni “Un capitale
umano per il futuro”. I sindacati hanno siglato un accordo ad hoc che
però non piace alla Fiom
Expo, l’esercito dei volontari in 17mila pronti
a lavorare gratis “Ma non chiamateci schiavi”
MATTEO PUCCIARELLI
MILANO .
Ci sono dei bandi ai quali iscriversi, poi si fa un “colloquio di orientamento” con un team
che esamina i candidati. A chi passa la selezione e il “test di verifica” viene assegnato un
periodo di servizio di 15 giorni più eventuali altri 15, e una volta partiti alle squadre
verranno assegnati dei turni da 5 ore e mezzo l’uno. Ma non si tratta di un lavoro vero e
proprio, cioè pagato, anche se procedura e terminologie sono quelle tipiche da ufficio di
collocamento o agenzia interinale: è tutta la macchina che si è messa in moto per dotare
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Expo dei volontari che «faciliteranno la permanenza dei visitatori nell’intero sito
espositivo» (7.500 “posti disponibili”).
Ad oggi all’appello della società Expo Spa hanno risposto in 15.829: età media 27 anni,
due terzi sono italiani (in testa i lombardi, poi piemontesi, siciliani, emiliani e campani), il
62 per cento sono studenti, il 40 per cento hanno già una laurea in tasca. Vanno aggiunti i
mille volontari richiesti dal padiglione dell’Unione Europea, e lì bisogna avere un’età
compresa tra i 18 e i 30 anni (oltre a saper parlare un buon inglese). In casa Ciessevi, il
Centro servizi per il volontariato che gestisce l’attività di “intercettazione, orientamento e
matching”, si va dritti al punto: «Le polemiche sono un po’ futili — dice il presidente
milanese Ivan Nissoli — queste persone sono dei volontari a tutti gli effetti e vogliamo che
vivano così questa bella esperienza. Si sta formando un “capitale volontariato” sotto i
nostri occhi che ci fa guardare al futuro con fiducia».
Jenny Rizzo ha 34 anni e viene dalla Brianza. Ha fatto il corso online, «moduli dove si va
dalla storia delle esposizioni universali alle misure di sicurezza da adottare ». Sarà sul
decumano della fiera prima a maggio e poi a ottobre. Dice di avere «il volontariato nel
Dna, in passato l’ho fatto nelle carceri». Qui però sarebbe un evento dalla natura più
commerciale che sociale, «ma io non guardo quell’aspetto, voglio cogliere un’opportunità;
certi discorsi non li considero, ognuno è libero di scegliere cosa fare, poi ho già un lavoro».
E però no, non prenderà le ferie per i 30 giorni da volontaria, «sono una libera
professionista». Alessio Quaglieri, 25 anni, parla di una esperienza «che comunque mi
farà curriculum, arricchirà la mia formazione. Insomma, non chiamateci schiavi, non lo
siamo ».
Il regolamento del bravo volontario prevede norme base da seguire — ad esempio
presentarsi all’inizio del turno con 10 minuti di anticipo o accettare i controlli della
sicurezza all’entrata — e anche qualche diritto minimo, tipo poter rimanere dentro la fiera
anche alla fine del turno, un buono pasto, un’assicurazione, il rimborso delle spese di
trasporto in città, la divisa (felpa, cerata, zaino, cappellino e prontuario) più il regalone
finale: un tablet. Ci si prende un impegno formale, ma se una mattina non ti presenti sul
posto di lavoro-volontariato «nessuno potrà dirti nulla, ci mancherebbe », garantiscono gli
organizzatori. A chi viene da fuori Lombardia verrà rimborsato il viaggio fino a un massimo
di 100 euro e garantita l’ospitalità in strutture ricettive milanesi; ma «in un’ottica di
condivisione e accoglienza, ogni volontario, anche attraverso i propri amici e familiari,
potrà ospitare altri volontari che, come lui, parteciperanno all’evento internazionale».
Anna, una delle orientatrici che valutano i partecipanti ai bandi, spiega che «a noi
interessa la motivazione: deve essere quella di condividere con gli altri e saper lavorare in
gruppo». E anche se tecnicamente si parla di volontariato la parola “lavoro” scappa
sempre. Cgil, Cisl e Uil hanno firmato un accordo ad hoc con Expo Spa, che tra l’altro
prevede pure una specie di “moratoria degli scioperi” per i lavoratori del sito (quelli
stipendiati) durante i sei mesi. Unica voce fuori dal coro, quella della Fiom. Che tiene il
punto. «Il problema non è il volontariato — ragiona il segretario lombardo Mirco Rota —
ma il sindacato che sottoscrive accordi di questo tipo. Per lavorare gratis non c’è mica
bisogno di noi. Il nostro compito è garantire salario e diritti. Lavorassimo tutti gratis
avremmo risolto il problema della disoccupazione...». Se per Ciessevi Expo è comunque
un “bene comune”, per la Fiom il volontariato «è quando uno va a aiutare anziani, la
parrocchia, il disabile: una Spa è una società a scopro di lucro, mica una confraternita.
Allora se me lo chiede Bombassei alla Brembo, perché non fare volontariato lì? A Vittorio
Sgarbi per Expo la Regione ha dato 1,9 milioni. Poi però a migliaia di persone si illustrano
le magnifiche virtù del volontariato ».
E quando tutto questo finirà, diatribe comprese, cosa resterà ai volontari? La risposta la dà
direttamente il sito di Expo Spa: «Se i tuoi nuovi amici torneranno a casa in altri Paesi,
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potrai continuare a restare in contatto con loro via Internet e magari andarli anche a
trovare. O perché no, fare il volontario nel loro Paese al prossimo grande evento».
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