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RASSEGNA STAMPA venerdì 20 marzo 2015 L’ARCI SUI MEDIA ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA WELFARE E SOCIETA’ DIRITTI CIVILI BENI COMUNI/AMBIENTE CULTURA E SPETTACOLO ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Corriere.it – Corriere del Mezzogiorno del 19/03/15 Astradoc, ecco «Largo Baracche» col regista scugnizzo Gaetano Di Vaio Lo storico Academy Astra ospita il film vincitore della sezione Doc/It al festival di Roma anticipato dal cortometraggio «Ore 12» di Toni D’Angelo; il 27 c’è Antonietta De Lillo di Noemi Rinaldi NAPOLI - Il cinema documentario prosegue la sua ascesa a Napoli nel ritrovato Academy Astra, sala storica ora familiare anche ai giovanissimi - via Mezzocannone 109 - grazie alla rassegna «Astradoc-Viaggio nel cinema del reale» organizzata da Arci Movie, Parallelo 41 produzioni, Università Federico II di Napoli e Coinor. Vincitore al festival del cinema di Roma Gaetano Di Vaio al festival del cinema di Roma 2014Gaetano Di Vaio al festival del cinema di Roma 2014 Il prossimo appuntamento, fissato per venerdì 20 marzo alle ore 21, sarà con Gaetano Di Vaio e la sua«Figli del Bronx produzioni» per il film «Largo Baracche», vincitore del premio DOC/IT come migliore documentario italiano all’ultimo festival internazionale del film di Roma, accompagnati alla visione in sala dallo stesso regista che si intratterrà con il pubblico, così come è solito proporre il cinema Academy Astra. Toni D’Angelo e Antonietta De Lillo La visione del film è anticipata dal cortometraggio di Toni D’Angelo «Ore 12», pure presente in sala. E venerdì 27 ci sarà Antonietta De Lillo per la proiezione del suo «Let’s Go». Il prezzo del singolo ingresso è di 3 euro; 2,50 per i soci Arci. È possibile tesserarsi presso il cinema durante la rassegna. http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/spettacoli/15_marzo_19/astradoc-eccolargo-baracche-col-regista-scugnizzo-gaetano-vaio-trailer-851ef81e-ce45-11e4-96b72cbc6edfe378.shtml 2 ESTERI del 20/03/15, pag. 12 Fiori sulle macchie di sangue dei turisti massacrati, slogan per la difesa della democrazia. La società civile tunisina è scesa in piazza di fronte al museo del Bardo Avvocati, guide turistiche, giovani: “Il nostro Paese ha le braccia aperte verso il mondo” Tra i tunisini in marcia con la bandiera sulle spalle “Abbiamo cacciato un raìs non ci piegheranno ora” DAL NOSTRO INVIATO GIAMPAOLO CADALANU TUNISI NEL piazzale sterrato davanti al museo del Bardo, c’è un angolo vicino alla staccionata che i manifestanti non calpestano. Una donna in jeans si china per poggiare sulla ghiaia una candela accesa, accanto una ragazza velata prega in silenzio, con gli occhi bassi. Nessuno ha ancora coperto quelle macchie brune che circondano un’unica rosa di stoffa. È il sangue dei turisti massacrati dal jihadista novellino, quello che, raccontano i testimoni, imbracciava il kalashnikov come fosse la prima volta. Forse da buon principiante ha voluto dar prova di zelo, tanto da aprire la mattanza prima ancora di essere nelle sale del museo, perché comunque sia quegli esseri che vedeva scendere dal pullman erano kafir , infedeli. Accanto all’ingresso, nella mezza dozzina di corone di fiori spicca quella firmata dall’associazione Guide di crociera. Per Ahmedi, che da 33 anni porta in giro i turisti italiani, la presenza alla manifestazione è un obbligo: «Dobbiamo lottare perché la Tunisia resti un Paese moderno, una terra di pace e civiltà, con le braccia aperte a chi la vuole conoscere ». Gli avvocati manifestano in toga, i giovani con la bandiera tunisina sulle spalle. Spiega Leila Toubel, attrice teatrale fra le più apprezzate: «I tunisini hanno trovato l’energia per reagire alla dittatura nel 2010, l’hanno trovata dopo i primi attentati, dopo il primo omicidio politico, dopo la strage di soldati a Kasserine. La trovano oggi, per reagire alla strage, perché il sogno di donne e uomini è una Tunisia vestita di rosso e bianco, capelli al vento. E questi jihadisti non possono entrare nel nostro sogno. Siamo tutti pronti a prendere le armi per difenderlo ». Mokhtar Trifi, ex presidente della Lega tunisina per i diritti umani, si sente pessimista: «Non vedo energia nella lotta al terrorismo e contro le diseguaglianze sociali, quelle che hanno portato alla rivoluzione. Non c’è stabilità, e si vedono segni di un ritorno indietro». Più ottimisti sono i giovani: per Yathreb, ventenne velata, quello che conta è l’unità, che si ottiene superando anche le divisioni religiose. Muhamed, ventenne disoccupato, è sdegnato con chi ha attaccato «i turisti, che sono nostri ospiti». Quando arriva la notizia che il sedicente Stato islamico ha rivendicato l’assalto sui siti del fanatismo online, annunciando che quello al «nido degli infedeli e del vizio in Tunisia è solo la prima goccia di una grande pioggia », fra i dimostranti si diffonde rapidissima la voce di un “allarme bomba”. Non si sa dove, non si sa chi lo proclama. Forse perché l’allarme è generico, quindi inutile, nessuno si preoccupa. O più probabilmente, alla fine il messaggio che si è diffuso è un altro. È lo stesso contenuto nelle parole di Humat al-Hima, “Difensori della patria”, l’inno nazionale che cantavano i parlamentari costretti a rifugiarsi in 3 un sottoscala della Camera per sfuggire ai jihadisti. Sono gli stessi versi che appena pochi anni fa, un’era geologica dal punto di vista della politica, intonavano assieme agli slogan contro Ben Ali i ragazzi di piazza della Casbah, abbracciati dai soldati fino alla fuga del tiranno. Dice: “Leali alla Tunisia, viviamo una vita di dignità e moriamo una morte gloriosa”. Lo chiarisce una volta per tutte Ahmed Galleb, ottant’anni, che non ha voluto rinunciare a fare la sua parte. Veterano della lotta per l’indipendenza, si è fatto accompagnare da figlio e nipotino per arrivare davanti al luogo della strage. «Paura? Macché. Tutti i tunisini sono contro questa barbarie. E nessuno ha paura». Lontano dal museo, la città va avanti comme d’habitude , come ha sempre fatto. I marciapiedi sono pieni di famiglie a passeggio, i caffè di clienti. «La verità è che la reazione vera deve ancora arrivare», argomenta Mohamed davanti ad un espresso a l’Etoile di Nord, il locale degli studenti. E annuncia che ha già postato su Facebook un omaggio al sacrificio dei poliziotti, perché «questo è stato un attacco annunciato. Quello che deve ancora arrivare sarà molto peggio». Ma nessuno si dà per vinto, nessuno molla. C’è chi accusa direttamente le responsabilità di altri Paesi, in prima fila il Qatar, c’è chi ricorda che il modo migliore per guardare al futuro è costruirlo, puntando sull’istruzione, sullo sviluppo, che sono medicine formidabili contro il fanatismo. E qualche segnale arriva anche dalle nuove generazioni. Nella sede di Ennahda un gruppo di giovanissimi ascolta lezioni di politica da un anziano in abiti tradizionali. È la politica in salsa islamica, di quell’islam che sulla democrazia ha giurato. E Habib, dieci anni, vince la timidezza per spiegare: «Da grande voglio lavorare con gli agenti delle Forze speciali, come mio papà. Per difendere il mio Paese». del 20/03/15, pag. 6 Tunisi sogna una marcia come a Parigi «Noi, il popolo contro i terroristi» DAL NOSTRO INVIATO TUNISI I tunisini si preparano oggi, festa dell’Indipendenza, a marciare contro il terrorismo. Con le idee chiare: Tunisi può reagire come Parigi. Alcuni parlamentari del partito di maggioranza, Nidaa Tounes, e dell’opposizione, Fronte popolare, stanno preparando una lettera per suggerire al capo dello Stato, Beji Caid Essebsi, di organizzare un’altra manifestazione, magari già domenica 22 marzo. Il modello cui ispirarsi è il presidente francese François Hollande: invitare a Tunisi i leader del mondo per sfilare insieme contro il nemico comune. Si vedrà se l’iniziativa potrà avere un seguito nei palazzi del potere tunisino. I cittadini, intanto, sono pronti a riversarsi nell’Avenue Bourguiba, il viale dedicato al presidente fondatore del Paese. Si aspetta solo che i politici si mettano d’accordo. Le formazioni di sinistra non vogliono condividere la piazza con Ennahda, il partito islamico moderato che appoggia l’esecutivo guidato dai laici di Nidaa Tounes. Il contrasto ha suggerito il rinvio della mobilitazione, nella speranza che si trovi il modo di non spezzare subito «il fronte unitario» antiterrorismo cui tutti si appellano. Nel frattempo i tunisini si fanno vedere nelle strade, come spinti da una forza individuale, prima ancora che politica e collettiva. Mercoledì sera, a poche ore dalla strage, i militanti di Ennahda si erano riversati nel centro della capitale. Ieri pomeriggio, preavvertiti via Facebook, davanti al Bardo, il museo della strage, si sono dati appuntamento i sindacalisti, i rappresentanti di tante organizzazioni della società civile vicini soprattutto alla sinistra di Fronte popolare. 4 «La Tunisia non è un grande hotel e i tunisini non sono i suoi dipendenti». Hajer Ajroudi, 36 anni, giornalista e blogger, si stringe nella bandiera tunisina gettata sulle spalle, si aggiusta gli occhiali. È arrabbiata: «C’erano ancora i morti nel museo e tutti hanno subito cominciato a parlare di quanto turismo avrebbe perso il nostro Paese. È una cosa umiliante per la Tunisia e trovo sia offensivo anche per le vittime straniere, che sono esseri umani e non clienti. Noi siamo uno Stato come gli altri, vogliamo, dobbiamo essere come gli altri. I terroristi hanno colpito la Francia, la Turchia, la Danimarca. Qualcuno si è messo a fare i conti sulle perdite economiche prima ancora dei funerali? Non credo». Con Hajer arrivano gruppi alla spicciolata, sollevando striscioni strutturati e molti cartelloni preparati alla buona, con i pennarelli. Tante ragazze, tante donne, come ai tempi della Rivoluzione dei Gelsomini. Anche gli slogan sembrano quasi uguali: «Il popolo vuole cacciare i terroristi», laddove quattro anni fa era «Il popolo vuole cacciare Ben Alì», il dittatore. Dopo un’oretta si forma una piccola folla: 1.000, forse 1.500 persone. Cantano l’inno, dispiegano le bandiere nazionali, un po’ anche a uso del plotone di giornalisti e operatori. Houcine Kuini è un signore con i capelli bianchi che osserva silenzioso, candidandosi al ruolo di comparsa così necessario nei fenomeni di massa. Piano, piano, però, esce allo scoperto: «Sono un militante sindacale, vivo qui a Tunisi. Non so se sono giovane o vecchio: ho 53 anni. Quello di cui, invece, sono sicuro è che i terroristi non sono un pericolo solo per me e la mia famiglia. Riguarda tutti, noi e voi. Ci dovreste aiutare, come avete fatto con Parigi». La capitale vicina, colpita a gennaio. Parigi e Tunisi sullo stesso meridiano epocale. Dahie Jaivi, 58 anni, si è presentato in toga nera e fiocco bianco, con tanti altri colleghi avvocati. Si incarica lui di identificare il nemico comune: «Faccio il penalista e vengo da Sfax, la città portuale nel centro della Tunisia. Dobbiamo bloccare tutti quei Paesi e tutti quei partiti che usano la religione per arrivare al potere. È un problema che riguarda i musulmani, ma non solo loro. Sono questi gli integralisti che stanno facendo di tutto per distruggere le società aperte e democratiche». Emna Aouadi è una dirigente del sindacato Ugt e chiede di aggiungere un’ultima cosa: «Guardo il Bardo e penso che la nostra storia, la nostra cultura risale a tremila anni fa. Non siamo come voi?». Giuseppe Sarcina del 20/03/15, pag. 14 Pinotti lancia “Mare sicuro” “Più navi militari e caccia così ci difenderemo dall’Is” Via all’operazione per rafforzare le difese nel Mediterraneo E dopo la crisi dei marò, stop ai soldati sui mercantili PAOLO G. BRERA ROMA . Addio lotta alla pirateria, l’Italia riposiziona le sue forze armate concentrando nel Mediterraneo navi e aerei da guerra. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha illustrato ieri alle camere lo stato delle missioni italiane all’estero, annunciando novità radicali nell’assetto della nostra presenza armata. Le priorità sono cambiate, «le crisi si sono avvicinate» e l’Italia risponde varando l’operazione “Mare sicuro”. «A seguito dell’aggravarsi della minaccia terroristica, resa di drammatica evidenza dagli eventi in Tunisia», Roma potenzia «il dispositivo aeronavale dispiegato nel Mediterraneo centrale» 5 per «tutelare i molteplici interessi nazionali esposti a rischi crescenti», dice il ministro. Contemporaneamente, non solo abbandoniamo Ocean Shield , la missione Nato di contrasto alla pirateria, sfruttando «la diminuzione degli attacchi dei pirati negli ultimi mesi»; ma licenziamo finalmente i “nuclei militari di protezione”, quelli che nonostante il disastro giudiziario e diplomatico dei due marò arrestati in India continuavano regolarmente a essere allestiti a bordo delle navi mercantili. Da oggi, spiega il ministero, il servizio pubblico allestito dal governo Berlusconi non esiste più: gli armatori potranno ricorrere ai vigilantes privati. Nel Mediterraneo arrivano i rinforzi, dunque, per proteggere i pozzi petroliferi e chiudere la porta del mare all’Is: «Le forze armate — dice il ministro — stanno dispiegando unità navali, team di protezione marittima, aerei, elicotteri, velivoli a pilotaggio remoto e da ricognizione elettronica», cioè anche i droni Predator. Si occuperanno «tanto della protezione delle linee di comunicazione, dei natanti commerciali e delle piattaforme offshore nazionali quanto della sorveglianza delle formazioni jihadiste». Pozzi petroliferi italiani che, in realtà, al momento non hanno avuto alcun rallentamento né incidente, e continuano a pompare al massimo anche se Eni ha ridotto la presenza di personale italiano indirizzandola esclusivamente sulle basi offshore. Intanto, alla Tunisia colpita a morte dall’islamismo Roma offre i visori notturni «presi dalla dotazione delle nostre forze armate, che dovrà pertanto essere reintegrata»: sono «fondamentali per controllare le frontiere con la Libia», dove «il quadro della sicurezza è in progressivo peggioramento» e dove continuano ad arrivare forniture militari «malgrado l’embargo decretato dall’Onu». “Mare sicuro” è il primo passo, non l’unico messo in cantiere dal governo. «L’Italia — avverte il ministro — è pronta a tornare a giocare un ruolo di rilievo in un’eventuale iniziativa internazionale di stabilizzazione e ricostruzione della Libia», un passo che affronteremmo «solo in un quadro di legittimità internazionale sancito dall’Onu». Occorrerebbe perciò «un preliminare accordo delle parti in causa», e dunque «un rinnovato sforzo diplomatico», quello che sta caparbiamente portando avanti l’inviato dell’Onu Bernardino León «con tutto l’appoggio dell’Italia per il suo delicatissimo incarico». I Servizi, intanto, monitorano con preoccupazione i prossimi grandi eventi: dall’ostensione della Sindone , fra un mese a Torino, fino all’Expo e all’Anno Santo. del 20/03/15, pag. 17 Una lista con tremila nomi ecco il bacino delle reclute nei dossier degli 007 italiani “Sono possibili fiancheggiatori della jihad, a volte inconsapevoli” Si tratta di connazionali e stranieri. “Ma non è una schedatura” PAOLO BERIZZI UNA mappatura con l’elenco degli obbiettivi più a rischio. Dagli scali di Fiumicino e Malpensa alla Cappella Sistina e agli Uffizi. Dai porti di Bari e Napoli alle stazioni ferroviarie dell’Alta velocità. Fino ai «luoghi di culto» e quelli di «interesse turistico»: «siti storico-monumentali» come l’Arena di Verona, gli scavi di Pompei e Ercolano, i Fori Imperiali, il Colosseo. Questo è il primo livello: «prevenzione logistica». Poi c’è il secondo livello. Gli 007 impegnati sul fronte anti Is lo chiamano «il listino». Perché ci sono nomi che entrano e nomi che escono. Sono quasi 3 mila. Con una percentuale di «negatività » — che significa zero interesse investigativo — approssimabile a un quasi rassicurante 98 per 6 cento. Che cos’è il «listino »? «Niente di etnico o di lombrosiano », spiega una fonte di intelligence. Sono file dove sono annotati, tra quelli delle oltre 5mila persone controllate dall’Antiterrorismo in Italia negli ultimi tre mesi, i nomi di alcuni dipendenti e collaboratori di società e compagnie di trasporti (ferroviarie, aeree, di navigazione sia turistica che commerciale), di gestione di porti e aeroporti, di strutture e luoghi «sensibili»: musei e monumenti appunto, e chiese, sinagoghe, enti pubblici nel caso di sedi istituzionali (palazzi della politica, ambasciate, consolati). Sono nominativi di cittadini, italiani e stranieri, che secondo i Servizi potrebbero — pur non avendo profili paraterroristici né legami accertati con soggetti a rischio — ,«offrire, anche inconsapevolmente, informazioni utili a soggetti collegati all’Is di passaggio in Italia per la pianificazione di azioni terroristiche». E fare dunque da «sponda» per la penetrazione del terrorismo islamista. Dopo gli attentati di Parigi c’è stato un innalzamento dei livelli di sicurezza. La conferma che siamo uno dei Paesi europei nel mirino dell’Is è arrivata proprio dai Servizi. «L’Italia è un potenziale obiettivo di attacchi pure per la sua valenza simbolica di epicentro della cristianità», è scritto nell’ultima «Relazione sulla politica dell’informazione sulla sicurezza». In quest’ottica scrupolosamente preventiva va inquadrato il «listino». Intelligence e uomini dell’Antiterrorismo lo aggiornano sulla base delle informazioni richieste alla Sicurezza interna e alla Protezione aziendale degli obiettivi ritenuti a rischio. Può essere una compagnia navale, la società pubblica o privata che gestisce un sito storico, un’azienda di trasporti, la comunità religiosa che amministra un luogo di culto: dalla sinagoga al Vaticano. La richiesta degli 007 è tarata e orientata su caratteristiche che, in chiave di analisi preventiva, sono interpretate come pre-indicatori: abitudini religiose, nazionalità, spostamenti, status, eventuali precedenti penali. «Ma la prima regola che ci diamo, nonostante e vista la delicatezza del tema, è la massima cautela. Il rispetto della persona», ragiona la fonte d’intelligence. Non una «schedatura», dunque. Termine improprio e scivoloso. Anche perché, una volta acceso l’interesse investigativo su un soggetto apparentemente «neutro», il passaggio più difficile e complesso è dimostrare il link che lo connette al presunto jihadista. Gli 007 considerano il «listino» una lente investigativa light, un ulteriore supporto nella lotta all’Is e a quel rischio che Aqila Saleh, presidente del parlamento libico di Tobruk, ha sintetizzato così: «L’Is e Al Qaeda possono passare dalla Libia all’Italia» (dopo la carneficina di Tunisi l’allarme cresce). Al Viminale si lavora pancia a terra per questo: per scongiurare il rischio che la contiguità geografica tra Italia e Libia, e più in generale coi Paesi affacciati sul Mediterraneo, diventi «continuità» dell’offensiva terroristica. Nei database dell’Antiterrorismo, dopo gli attentati parigini, sono finite 4.432 persone: per dire solo quelle controllate (17 arresti e 33 espulsioni). Il «listino» d’appoggio è un’altra cosa. Si riempie e si svuota mano a mano che gli investigatori, acquisite sommarie informazioni, «rilasciano » i nominativi esplorati. Si tratta per lo più di addetti alla logistica, al trasporto, alle pulizie (in molti casi sono dipendenti di società esterne e cooperative). Guardiani, magazzinieri, marinai, macchinisti. Nazionalità e provenienza sono disparate. Comandano le indicazioni che caratterizzano i guerriglieri del Califfato. Gli analisti hanno accertato che — al netto degli oltre 12mila combattenti stranieri, quasi 3000 europei — la composizione delle milizie dell’Is è frammentata: siriani, iracheni, turchi, magrebini, pachistani, ceceni. Ora: la quasi totalità (98%) dei nominativi sondati dagli 007 non ha offerto spunti investigativi. Ma ugualmente, e fino a quando i livelli di allerta resteranno ai massimi livelli in tutta Europa, i servizi di sicurezza non vogliono lasciare nulla di intentato. Spiegano al Viminale: «Moltissime informazioni le scarti, qualcuna resta nella rete. E a volte può risultare decisiva». 7 del 20/03/15, pag. 3 Il commando terrorista si è addestrato in Libia Poi ha atteso l’ordine Il giorno dopo Souheil Alouini, membro del parlamento tunisino, depone un mazzo di fiori sul pavimento macchiato di sangue davanti al museo del Bardo a Tunisi. L’Isis afferma di aver pianificato l’attentato ma non è ancora chiaro se la rivendicazione sia o meno credibile di Guido Olimpio WASHINGTON La macchina mediatica dell’Isis ha usato i tempi dei «vecchi» di al Qaeda ed ha atteso una giornata prima di rivendicare, con un testo e un audio sul web, la strage di Tunisi. Un’assunzione di responsabilità farcita di minacce ma priva di quei particolari che permettano di considerarla credibile senza ombra di dubbio. Bastava poco e quel poco non c’è. Però, molti esperti lo considerano un documento interessante, diffuso attraverso i canali di comunicazione certificati dal Califfo. «Credevano di essere protetti nella loro fortezza ma Dio è arrivato sopra di loro», inizia così il messaggio dove si precisa che l’attacco è «la prima goccia di pioggia». Poi il riferimento — ormai classico — ai due «cavalieri», identificati con i nomi di guerra, Abu Zakaria al Tunisi e Abu Anas al Tunisi. Sono stati loro i protagonisti della «gazwat benedetta», altra espressione del vocabolario jihadista a sottolineare l’incursione a sorpresa. L’obiettivo — sostiene l’Isis — era il museo del Bardo, un obiettivo attaccato con mitra e granate: «I nostri fratelli sono riusciti a colpire un gruppo di crociati». Nessun accenno alle cinture esplosive sofisticate citate dalle autorità. Il proclama è stato poi ripetuto attraverso un audio su Internet, a declamarlo una voce dall’accento saudita o yemenita. Sono tutti dettagli oggetto di valutazione per capire se il massacro sia davvero l’apertura del fronte tunisino da parte del Califfo. Un quadro dove pesa una certa reticenza del governo, in imbarazzo per essersi fatto sorprendere malgrado i molti segnali di tempesta. Nel tentativo di reagire, la polizia ha annunciato nove arresti, tra i quali quattro persone ritenute collegate ai due killer, Jabeur Khachnaoui e Yassine Laabidi. In manette anche il padre e la sorella del primo, rintracciati a Sblita, la cittadina dove passa un segmento di indagine. Per gli inquirenti i militanti sono stati reclutati in una moschea dalla capitale, poi in settembre hanno raggiunto un campo d’addestramento in Libia, forse a Derna. Indiscrezioni hanno aggiunto la coda. La permanenza in Libia si è conclusa in dicembre, quando la coppia è rientrata in patria stabilendosi a Ettahir, ospitata da un uomo che commercia in legumi ma è anche parte della falange Okba bin Nafi, movimento qaedista coinvolto in una lunga striscia di attacchi contro i soldati. Al riparo da occhi indiscreti gli assassini hanno atteso il momento opportuno (o l’ordine) per la missione senza ritorno nel cuore della capitale. Non è però chiaro come la possibile connessione con Okba possa incastrarsi con la rivendicazione dell’Isis. Sono due formazioni in concorrenza, la falange predilige bersagli militari, l’Isis quando usa la falce non fa distinzioni. A meno che — ipotesi difficile — non ci sia stato un patto d’azione, come è avvenuto con i terroristi di Parigi. Oppure i criminali erano dei semplici simpatizzanti, con legami non troppo stretti con le organizzazioni. Ma se è vero che sono stati in Libia è arduo pensare che siano dei cani sciolti. Ed allora ritorna la teoria del Califfo che pianta un’altra bandierina nera su una pila di corpi in un 8 Paese dove non aveva mai agito pur avendo ai suoi ordini centinaia di tunisini. La strage come parte del piano globale ma anche mossa per distrarre dalle sconfitte subite in Iraq. Manovra agevolata dalla sponda dei mujaheddin attivi sul suolo libico. E’ comunque una fase delicata, dove non mancano notizie contraddittorie e speculazioni. Il presidente Beji Caid Essebsi ha accusato la formazione Ansar al Sharia, protagonista dell’uccisione di due politici tunisini nel 2013 e con ramificazioni in Libia dove vivono i suoi capi. La polizia ha confermato che uno degli attentatori, Laabidi, era «un soggetto noto», anche se per fatti minori. Un sito ha pubblicato la foto di Khachnaoui con un alto dirigente del partito islamico Ennhada ipotizzando un’affiliazione politica. Piste che si intrecciano in un clima dove lo scempio del Bardo è visto come l’inizio di una nuova fase di terrore. Con al centro la Tunisia. del 20/03/15, pag. 18 La lunga e strana dittatura del padre della patria introdusse diritti impensabili nel mondo arabo. La cacciata di Ben Ali diede il via alle Primavere nel 2011. Oggi l’intesa tra Ennahda e Nidaa Tounes ha spezzato la complicità con i salafiti. Ma Al Qaeda ha fatto breccia anche qui Dalle riforme di Bourguiba al patto tra islamisti e laici così la democrazia tunisina è un affronto per la Jihad BERNARDO VALLI L’ATTENTATO al Museo del Bardo, a Tunisi, riassume gli obiettivi dell’islamismo jihadista. È avvenuto in un alto luogo di cultura, dove si trova una delle più ricche collezioni di mosaici romani; ha investito dei kafir, miscredenti occidentali; ha colpito il Paese in cui si sta dimostrando che la democrazia è compatibile con una società musulmana. È probabile che gli autori non abbiano calcolato tutti questi tre aspetti della loro azione; o che comunque non fossero consapevoli di quanto essi sintetizzino insieme la natura del conflitto che hanno scatenato. Il museo è un tempio sacrilego in cui si contemplano opere che violano il principio iconoclasta dell’Islam che si vuole ortodosso. I turisti sono infedeli venuti a inquinare la terra musulmana. Con la sua democrazia ricalcata su quelle occidentali, con le libertà concesse alle donne, e con l’alleanza tra islamici e laici, la Tunisia è un pessimo esempio da combattere. Il principale obiettivo è senz’altro la Tunisia che si è dotata di una Costituzione moderna, non ispirata alla Sharia, la legge coranica, e in cui sono riconosciuti pari diritti a uomini e donne. Ferire il paese nel grande museo gremito di visitatori stranieri, significa colpire il turismo, una delle sue più importanti risorse. Che occupa un cittadino su dieci, e che rappresenta quasi il dieci per cento del prodotto nazionale. Ma interrompere il flusso degli europei in vacanza significa anche spezzare il pacifico legame tra l’Europa e la Tunisia. Senz’altro una delle spiagge più ospitali e amiche sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Ci sono poi gli investimenti stranieri, che danno lavoro ai giovani, pronti ad andarsene se minacciati dal terrorismo. La disoccupazione ha spesso come conseguenza l’emigrazione avventurosa verso il Nord, al di là del mare, con i pericoli, le tragedie, che 9 sappiamo. La Tunisia è un Paese spigliato, ricco di risorse intellettuali, ma privo di materie prime. Non ha il petrolio dei vicini. È stretta tra l’Algeria a Ovest e la Libia a Est. I confini sono profondi e si spingono nel deserto. Sono quindi permeabili. E lo sono anche perché il commercio è una delle grandi risorse e il traffico di merci e persone non va ostacolato. Le città tunisine, Sfax, Sousse, Biserta, sono animatissimi centri in cui gli uomini d’affari arrivano anche da Paesi lontani. I tunisini emigrano non solo come mano d’opera, ma anche come commercianti e professionisti: economisti, ingegneri, medici. Ne trovi negli Stati Uniti, in Canada, in Arabia Saudita, negli Emirati del golfo. Nelle fabbriche ma anche nelle università, negli ospedali. Negli anni della guerra di indipendenza (‘54-’62) molti algerini, semplici esuli o dirigenti del Fronte di liberazione nazionale, hanno trovato ospitalità a Tunisi e dintorni, a Sidi Bou Said, La Marsa, Cartagine, Salambò. E lo stesso è avvenuto quando l’Algeria è stata investita negli anni Novanta dalla guerra civile. L’ospitalità tunisina non è venuta mai meno, anche se le forze di cui dispone per mantenere l’ordine interno sono limitate. Quando, di recente, ai confini orientali con la Libia sono arrivate decine di migliaia di profughi in fuga da un’altra guerra civile, quella che ha portato alla fine del regime di Gheddafi, la Tunisia ha aperto di nuovo le porte. Gli avvenimenti nei Paesi vicini non hanno lasciato indifferenti i giovani tunisini. I fermenti islamici in Algeria e in Libia, come la mobilitazione tra gli arabi per combattere negli anni Ottanta gli invasori sovietici dell’Afghanistan, hanno spinto non pochi tunisini a impegnarsi in attività politiche ma anche in imprese armate. Non pochi hanno militato nelle file di Al Qaeda, quando il movimento di Bin Laden si batteva contro i russi e poi ci sono rimasti quando ha rivolto le armi e il terrorismo contro gli americani, e i regimi arabi giudicati loro complici. La Tunisia è un Paese pacifico che ha dato molti combattenti. Yassine Abidi e Hatem Khachnaoui, i due terroristi uccisi durante l’assalto nel museo del Bardo, sono i figli o i nipoti ideologici dei primi combattenti di Al Qaeda. Il primo, Abidi, era cresciuto a Ibn Khaldun, quartiere popolare di Tunisi, mentre Khachnaoui era della regione tra Kasserine e la montagna di Chaambi, verso l’Algeria. Una zona dove i jihadisti agiscono a piccoli gruppi, di dieci o quindici combattenti, e attaccano i soldati e i poliziotti tunisini. La formazione principale, quella più attiva, è l’Ansar Al Sharia, la quale avrebbe deciso di concertare le sue azioni con quelle di Al Qaeda del Maghreb (Aqmi), che non è tanto un’affiliazione quanto un movimento che si ispira ad Al Qaeda. Ansar Al Sharia è l’animatore di tanti piccoli gruppi. Li organizza, li rifornisce in armi e denaro e li stimola ad agire. L’ intelligence di Tunisi ha di recente intercettato messaggi in cui si esortava una cellula, Oqba Ibn Nafi, ad agire, vale a dire a compiere attentati. Il jihadismo salafista nel Maghreb è una nebulosa che nessuno ha ancora decifrato. Si calcola comunque che almeno 3mila giovani siano stati reclutati di recente per andare a combattere in Siria e in Iraq nelle file dello Stato islamico o delle fazioni concorrenti. Cinquecento sarebbero già rientrati. Il primo ministro, Habib Essid, sostiene di avere arrestato dal 6 febbraio 400 persone sospette di essere jihadisti. Tra gli arrestati alcuni avevano compiuto soggiorni in Libia, dove avrebbero avuto rapporti con gruppi islamisti armati, ed altri avevano invece compiuto soggiorni nelle regioni limitrofe all’Algeria. La polizia ha appena annunciato la morte di Ahmed Al Rouissi, un tunisino capo di una falange jihadista a Sirte, in Libia. L’insurrezione del 2011 cacciò Ben Ali, il raìs tunisino, e dette il via alle altre primavere arabe, quella egiziana in particolare. Per Ennahda (Movimento), versione locale dei Fratelli musulmani, fu l’occasione per uscire dalla clandestinità. E in breve tempo, grazie alla sua organizzazione, assunse un ruolo dominante e poi vinse le elezioni. Di fatto scippò la rivoluzione alla forze libertarie e disorganizzate. A quell’epoca Ennahda intratteneva rapporti evidenti, anche se non ufficiali, con i salafiti di Ansar Al Sharia. Ne tollerava o addirittura copriva le violenze e gli eccessi politici. Via via, assumendo il potere e le 10 inerenti responsabilità, ha interrotto la complicità e la polizia ha potuto intervenire contro chi infrangeva la legge in nome di Allah. Gli omicidi di due uomini politici di sinistra hanno accentuato il distacco tra islamisti disarmati e islamisti armati. La svolta ha portato col tempo a una laboriosa intesa tra Ennahda e Nidaa Tounes (Appello della Tunisia), quest’ultimo partito avendo vinto le seconde elezioni, in una posizione preminente. L’accordo laici-islamisti e il varo di un sistema democratico sono apparsi ai jihadisti di Ansar Al Sharia un imperdonabile tradimento. Non è azzardato interpretare il massacro del museo come una prima terribile punizione. La minacciata democrazia tunisina ha radici lontane. La lunga strana dittatura di Habib Bourguiba, il padre della patria, ne ha gettato le basi. Bourguiba era al tempo stesso un raìs arabo, autoritario come voleva la tradizione, ma convinto che l’autoritarismo dovesse essere provvisorio, e fi- nire a tappe. via via, fino a quando il popolo fosse pronto alla libertà. Nella lunga presidenza ha tentato tante formule: dal socialismo a un capitalismo mercantile. Dal suo comportamento affiorava spesso l’uomo che nelle prigioni francesi si era appassionato della storia dei suoi repressori, fino a pensare a tratti come un personaggio della Terza Repubblica, che conobbe anche il Fronte popolare. Dal pensiero non passava tuttavia all’azione, quando governava da despota la Repubblica tunisina. Rispettava però alcuni principi. Non aveva alcun debole per i militari. In un regime con deboli istituzioni l’esercito costituisce una forza troppo invadente e minacciosa. E dunque non creò mai un vero esercito. Si accontentò della polizia. Inoltre Bourguiba amava e rispettava le donne. E promosse leggi che garantivano loro libertà e diritti impensabili nel resto del mondo arabo. Teneva a freno i sindacati ma non li abolì mai del tutto e lasciò loro sempre un certo potere. La giovane e minacciata democrazia tunisina usufruisce ancora di quelle strane, incerte, ambigue idee di Habib Bourguiba, che amava la democrazia ma praticava la dittatura. Sulla sua scrivania c’erano sempre dei testi di storia della Rivoluzione francese. del 20/03/15, pag. 5 Primavere arabe. Al G-8 di Deauville nel 2011 i Grandi promisero 80 miliardi Un piano Marshall mai decollato e il Mediterraneo torna polveriera Le primavere arabe cominciarono con un’audace promessa dell’Occidente: un piano Marshall da 80 miliardi di dollari, 61 miliardi di euro, per il Nordafrica e il Medio Oriente. Era il 27 maggio del 2011 e a Deauville il G-8 annunciava solennemente un programma senza precedenti. Dopo la caduta dei dittatori si trattava di incoraggiare nel mondo arabo la creazione di uno stato di diritto sotto il controllo dei cittadini e assicurare prosperità alle nascenti democrazie. Quelle illusioni, quattro anni dopo, sono crollate nel caos libico, nell’autoritarismo egiziano del generale Al Sisi, nelle guerre civili della Siria, dell’Iraq, dello Yemen, e ora le speranze sono sfiorite persino nell’unico caso di successo, quello della Tunisia. Invece del piano Marshall adesso si rischia di perdere il Nordafrica e anche quella fascia di stati subsahariani, il ventre molle del continente, sempre più in crisi, dal Mali al Chad, dal Niger alla Nigeria, dove imperversano i Boko Haram affiliati al Califfato e le formazioni jihadiste ereditate da Al Qaeda che agiscono da anni nella fascia del Sahel tra Algeria, Mauritania, Marocco, per arrivare fino al Sinai e al Mar Rosso: un fronte di migliaia di chilometri dove l’”uomo bianco” senza scorta armata non mette più piede. 11 Il piano Marshall per gli arabi non ha mai avuto un domani. A volere essere velenosi ma realisti quel vertice dal sapore balneare del G-8 venne convocato dal presidente Nicolas Sarkozy per far dimenticare certe posizioni maldestre che avevano accompagnato la sollevazione araba. Tre giorni prima della caduta dei Ben Alì in Tunisia la ministra francese degli Esteri Michéle Alliot-Marie aveva offerto «le sue forze di sicurezza” per reprimere la rivolta. Sarkozy poi aveva dato il via al bombardamento di Gheddafi per coprire oscure e pericolose relazioni che lo legavano al dittatore libico. Il piano di Deauville aveva ambizioni colossali. Oltre al G-8, i Paesi arabi erano coivolti come partner, con loro 10 organizzazioni internazionali e potenze regionali come Arabia Saudita, Emirati, Kuwait, Qatar, Turchia. Questi “partner regionali” che avrebbero dovuto stabilizzare i Paesi in transizione ora si stanno facendo la guerra schierandosi nei conflitti interni che imperversano in Libia, Siria e Iraq. In Libia l’Egitto si appoggia ai sauditi e agli Emirati aiutando in Cireanica il generale Khalifa Haftar, che bombarda Tripoli, mentre Turchia e Qatar sostengono il governo tripolino dei Fratelli Musulmani: si è quindi riprodotto lo stesso schieramento di alleanze che già si era scontrato in Egitto. Al Cairo non c’è stato nessun piano internazionale: sauditi, Emirati e Kuwait hanno versato al generale Abdel Fattah al Sisi 20 miliardi di dollari per far fuori nel 2013 i Fratelli Musulmani e l’incompetente presidente Morsi. Dimenticati i buoni propositi di Deauville si sono scatenate delle guerre per procura e di queste la Siria, l’Iraq, la Libia, ne sono l’emblema più sanguinoso: all’affondamento di questi stati dobbiamo l’ascesa del Califfato. Altro che stabilizzazione. Per questo ora bisogna salvare almeno la Tunisia e quel che resta del Nordafrica dal gorgo di questa lotta tra musulmani sunniti che sta retrocendo la regione verso un’Islam incompatibile con la civiltà. L’economia è la chiave di volta per sostenere dei processi di transizione accettabili e contrastare il terrorismo. Basta guardare le cifre della disoccupazione giovanile nall’area Nordafrica-Medio Oriente (Mena), per capire da dove parte il problema. Siamo di fronte a dati ufficiali che vanno dal 25 al 30% della popolazione sotto i 25 anni ma le stime più vicine alla realtà parlano in media di tassi intorno al 50 per cento. Una demografia di senza lavoro esplosiva. Dalle rivolte del 2011 a oggi per i giovani nordafricani è cambiato poco, anzi la situazione sta peggioranndo perché guerre come quella libica hanno privato il mondo arabo di un serbatoio di posti di lavoro: non si estrae quasi più petrolio, la ricchezza accumulata svanisce, l’economia è ferma. Non solo. La disgregazione colpisce gli stati ma anche intere società vengono destruttutate: la Tunisia ospita un milione di profughi libici, la Siria ha 9 milioni tra sfollati interni e rifugiati, altri duetre milioni sono quelli iracheni. La nazione dei profughi è sempre più grande. In quali Paesi possono tornare e in quali città se la guerra ha distrutto intere economie? Riprovarci oggi con un piano Marshall da parte dell’Europa può apparire ambizioso. Ma se l’Occidente non si inventa qualche cosa il vuoto verrà occupato da monarchie del Golfo e organizzazioni non statuali radicali interessate a propagandare la loro versione dell’Islam e della società. E quando un giorno ci affacceremo alla sponda Sud scrutando Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Libia, non troveremo più neppure il simulacro di uno stato laico e democratico. 12 del 20/03/15, pag. 3 Anche per Obama l’Isis è figlio dell’invasione dell’Iraq Chiara Cruciati Califfato. In un'intervista il presidente Usa punta il dito contro il predecessore. L'amministrazione Usa nel caos: si smentisce da sola e manca di una visione di lungo periodo «L’Isis è il diretto risultato di al Qaeda in Iraq che è cresciuta con l’invasione Usa, esempio di una conseguenza inattesa. Per questo dovremmo prendere la mira prima di sparare». A dirlo non è il governo di Damasco o quello di Teheran. A dirlo è il presidente Obama: lo sviluppo repentino dello Stato Islamico è la conseguenza di otto anni di occupazione Usa dell’Iraq. Così Obama, accusato di non avere strategie efficaci contro il califfato, si toglie i sassolini dalla scarpa e punta il dito contro il predecessore, il George W. Bush della guerra globale al terrore e dell’esportazione di democrazia. Lo fa in un’intervista a Vice News, scoprendo le divisioni interne all’amministrazione Usa che dice, si contraddice, si smentisce da sola ormai da mesi. Ora fa autocritica: i settarismi iracheni sono il frutto della distruzione dello Stato, delle sue istituzioni, dei delicati equilibri tra sunniti, sciiti e kurdi, spazzati via dalla coalizione dei volenterosi. Proprio quei settarismi vengono additati da Obama come la principale fonte da cui l’Isis attinge: «Se l’Isis venisse sconfitto, il problema di fondo dei sunniti resterebbe. Quando un giovane cresce senza prospettive per il futuro, l’unico modo che ha per ottenere potere e rispetto è diventare un combattente. Non possiamo affrontare tutto ciò con l’antiterrorismo e la sicurezza, separandoli da diplomazia, sviluppo e educazione». Le dichiarazioni del presidente sono passate quasi in sordina ma hanno la forza di un terremoto: si mette in discussione l’intera strategia Usa, fatta di interventismo bellico e interessi economici nazionali, priva spesso di una visione di lungo periodo, basata sui finanziamenti a pioggia di soggetti divisivi, dall’ex premier iracheno al-Maliki alla Coalizione Nazionale Siriana. «L’Isis va visto non solo come un movimento alieno al più vasto mondo politico del Medio Oriente – scrive Ramzi Baroud, direttore di Palestine Chronicle – ma anche come un fenomeno in parte occidentale, il ripugnante risultato delle avventure neocolonialiste nella regione, accompagnate alla demonizzazione delle comunità musulmane nelle società occidentali». «Con ‘fenomeno occidentale’ non intendo dire che l’Isis sia una creazione delle intelligence straniere – continua – Ovviamente, si è giustificati a sollevare domante su fondi, armamenti, mercato nero, le facili vie con cui migliaia di combattenti sono arrivati in Siria e Iraq. Ma tracciando il movimento dall’ottobre 2006 quando l’Isis nacque, si individuano le sue radici: lo smantellamento dello Stato iracheno e del suo esercito da parte dell’occupazione militare Usa». E alla fine chi di settarismi ferisce, di settarismi perisce. A stretto giro dalle dichiarazioni di Obama, è giunta la reazione di uno dei falchi dell’entourage di Bush, l’ex segretario di Stato Dick Cheney, grande burattinaio di quell’invasione: «Obama è il peggior presidente della mia vita. Ne pagheremo il prezzo». Fuori dalle ripicche politiche, resta il grande vuoto della strategia Usa in Medio Oriente: dopo aver cambiato cavallo più di una volta, aver lanciato in prima linea le forze locali 13 irachene, aver continuato a finanziare deboli opposizioni in Siria ed essere stati costretti ad aprire ad Assad, gli Stati Uniti sono nudi. E debolissimi. Tanto deboli da subire quasi in silenzio l’abbattimento di un proprio drone da parte dell’aviazione siriana. È successo martedì a Latakia, roccaforte della famiglia Assad. I servizi Usa stanno ancora indagando, seppur il governo siriano ammetta di aver colpito il Predator. Perché? Volava fuori dai confini ufficiosi di intervento della coalizione. Obama con Assad non intende parlare ma una cooperazione indiretta esiste. Per questo Damasco non ha mosso un dito da settembre quando cominciarono i raid Usa. Ora però traccia le sue “linee rosse”: Obama voli pure sui cieli siriani, ma non nelle zone sotto il controllo governativo. del 20/03/15, pag. 23 La Casa Bianca non esclude di votare per il riconoscimento della Palestina. Il premier: “Sì alla pace, se cambiano le circostanze”. In programma una telefonata tra i due leader Ora Obama minaccia di togliere il veto all’Onu ma Netanyahu rettifica “Soluzione con due Stati” FEDERICO RAMPINI NEW YORK «È la vendetta di Obama contro Israele» annuncia la tv Fox News di Rupert Murdoch, allineata coi repubblicani proNetanyahu. La Casa Bianca starebbe preparando una svolta. Potrebbe smettere di usare il suo veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, finora uno “scudo difensivo” per Israele. Da sempre gli Stati Uniti hanno protetto Israele contro risoluzioni di condanna, o di riconoscimento dello Stato palestinese. Senza il veto americano, Israele soffrirebbe un isolamento diplomatico senza precedenti. Il termine “vendetta” lo usa solo la destra; ma la Casa Bianca non smentisce la sostanza. E anzi si giustifica: è Benjamin Netanyahu ad avere sconvolto gli equilibri internazionali, con quella frase in campagna elettorale in cui negava la possibilità futura di uno Stato palestinese. Il principio dei “due Stati” è un pilastro della dottrina americana in Medio Oriente, fin qui accettato anche dal governo israeliano. «Rinnegandolo — spiegano i consiglieri di Obama — è Netanyahu che ci costringe a un riesame di tutto il percorso davanti a noi». Che cosa potrebbe succedere adesso? La Casa Bianca non scopre le sue carte. Ma l’ambasciatrice Usa al Palazzo di Vetro, Samantha Power, potrebbe ricevere istruzioni diverse da quelle che l’hanno guidata finora, così come guidarono Susan Rice e gli altri predecessori. Non si contano le risoluzioni presentate da altri membri del Consiglio di sicurezza, che non passarono perché bloccate dal veto Usa. «Ora che il governo d’Israele abbandona l’obiettivo di uno Stato palestinese, allargheremo le nostre opzioni», è la frase che ricorre ai vertici della diplomazia Usa. Un’ipotesi concreta è stata ventilata dall’esponente di un gruppo proisraeliano di sinistra, molto vicino a Obama: l’associazione J Street. Il suo presidente Jeremy Ben-Ami sostiene che “d’ora in avanti questa Amministrazione non escluderà di votare in favore di risoluzioni Onu che fissino i parametri per risolvere il conflitto israelo-palestinese”. 14 Il capo dei negoziatori palestinesi, Saeb Erakat, è già pronto a sfruttare la nuova situazione, intensificando la sua attività diplomatica in sede Onu. Per avere un esempio di quello che potrà accadere, basta risalire al novembre scorso, quando il Consiglio di sicurezza prese in esame un progetto di risoluzione, promosso dai paesi arabi, che chiedeva il ritiro di Israele dalla Cisgiordania entro tre anni. L’opposizione americana fu determinante per affossarlo. Risalendo un po’ più indietro, nel febbraio 2011 Obama esercitò il suo primo veto al Consiglio di sicurezza, per impedire che passasse una condanna degli insediamenti costruiti col beneplacito di Netanyahu nei territori occupati. Tutti gli altri membri del Consiglio erano favorevoli. Un dossier scottante che si presenta a breve termine — il primo aprile — è l’ingresso dell’autorità palestinese nella Corte criminale internazionale, altro organismo Onu. Qualora i palestinesi avanzassero in quella sede la richiesta di condannare Israele per crimini di guerra, il Congresso a maggioranza repubblicana ha già annunciato che cancellerà i 400 milioni di dollari annui di aiuti che l’America versa ai palestinesi. Tuttavia Obama potrebbe trovare un modo per aggirare la minaccia del Congresso. La ventilata “vendetta” di Obama sta già provocando delle conseguenze in Israele. Pur assaporando il suo trionfo alle urne, e prima ancora di inaugurare il suo quarto mandato, il premier ha cominciato un’opera di ricucitura con Washington. Questo mentre il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, fa sapere che la presidenza americana è in trattative con lo staff di Netanyahu per concordare una telefonata fra i due leader. Netanyahu si è affrettato a rilasciare un’intervista a una tv americana, la Msnbc, per rimangiarsi la “frase galeotta” che Obama ha considerato come lo strappo più grave. Senza ammettere il nuovo dietrofront, visto che il rifiuto dello Stato palestinese gli era valso pochi giorni prima un travaso di voti dalla destra, ieri Netanyahu ha presentato la nuova correzione come una «interpretazione autentica » delle proprie parole. «Non ho cambiato la mia politica — ha dichiarato Netanyahu — non mi sono rimangiato durante la campagna elettorale ciò che dissi sei anni fa all’università Bar-Ilan, quando invocai uno Stato palestinese smilitarizzato che riconosca lo Stato d’Israele. Quello che è cambiato, è la realtà», ha detto accusando i palestinesi di non voler riconoscere lo Stato d’Israele, ed evocando il controllo di Hamas sulla striscia di Gaza. «Io non voglio uno Stato solo — ha proseguito Netanyahu nell’intervista al network americano — voglio una soluzione sostenibile e pacifica fondata su due Stati. Per questo, però, le circostanze devono cambiare». del 20/03/15, pag. 8 Obama: “Ora avanti con i due Stati” Michele Giorgio GERUSALEMME Israele/Stati Uniti. La Casa Bianca, riferisce il New York Times, si prepara a rispondere al premier israeliano che in campagna elettorale ha proclamato la sua opposizione alla creazione di uno Stato palestinese. Netanyahu ieri ha fatto una parziale marcia indietro ma il presidente Usa negli ultimi due anni del suo mandato potrebbe rendere la vita difficile a un primo ministro israeliano che lo ha umiliato e contrastato in troppe occasioni 15 Qualcuno forse ha riferito a Benyamin Netanyahu delle congratulazioni che gli ha fatto il senatore italiano Maurizio Gasparri che ha salutato la sua vittoria elettorale come una umiliazione per Barack Obama «il peggior presidente della recente storia americana». Obama, ha notato l’arguto Gasparri, che sino a qualche giorno fa non aveva mai fatto sfoggio di una conoscenza tanto approfondita della politica internazionale, «ha interferito nella vita interna di Israele ed è stato respinto». In verità dubitiamo che Netanyahu abbia cognizione dell’esistenza di Gasparri. Sa invece che il «peggior presidente» si prepara a regolare qualche conto in sospeso con lui. Anche perchè non ha ancora digerito il discorso che Netanyahu ha pronunciato il 3 marzo a Washington di fronte al Congresso per ostacolare l’accordo che gli Stati Uniti stanno negoziando sul programma nucleare iraniano. Naturalmente non sono in vista passi che potrebbero mettere in forse l’alleanza strategica tra i due Paesi. E nessuno dimentica che, nonostante le umiliazioni che Netanyahu gli ha inflitto in questi anni, Obama ha comunque protetto gli interessi di Israele ovunque, anche al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite silurando, solo per fare un esempio recente, la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina. La Casa Bianca due giorni fa ha fatto sapere che «valuterà la strada da seguire per portare avanti il processo di pace in Medio Oriente, ma si va avanti con la soluzione dei due Stati», in risposta alle dichiarazioni del primo ministro israeliano che alla vigilia del voto è stato chiaro: finchè ci sarà lui non nascerà alcuno Stato palestinese e ogni mezzo sarà lecito per bloccare il programma nucleare dell’Iran (anche la guerra). Netanyahu ieri ha corretto in parte, in un’intervista a Msnbc, le sue promesse elettorali affermando «di non volere una soluzione con uno Stato…voglio una soluzione con due Stati pacifica e sostenibile, ma per questo le circostanze devono cambiare». Parole che non devono aver fatto piacere ai partiti dell’ultradestra che ritengono di essersi sacrificati in nome della vittoria elettorale di Netanyahu cedendo consensi e seggi al Likud e che ora vedono il primo ministro farsi più vago sulla questione dello Stato palestinese. Arutz 7, l’agenzia di informazione dei coloni israeliani, parla di «punizione» che attende il primo ministro, in riferimento a quanto scritto dal New York Times, che cita una fonte anonima della Casa Bianca, su una presunta intenzione dell’Amministrazione Obama di dare il suo appoggio a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per i “Due Stati”, basata sui confini del 1967, quelli precedenti l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. «Le premesse della nostra posizione a livello internazionale — ha detto la fonte spiegando l’opposizione a fine 2014 alla risoluzione sullo Stato di Palestina all’Onu — è stata quella di sostenere negoziati diretti tra israeliani e palestinesi». «Ora invece — ha aggiunto — siamo in una realtà in cui il governo israeliano non è più a favore di negoziati diretti». Interessanti sono anche i commenti giunti dalla portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki. «Le recenti dichiarazioni del premier (israeliano) mettono in dubbio il suo impegno per una soluzione a Due Stati… ma questo non significa che abbiamo preso la decisione di cambiare la nostra posizione rispetto alle Nazioni Unite». Per alcuni è sufficiente solo il riferimento al veto Usa sulla Palestina al Consiglio di Sicurezza per indicare che a Washington si stanno valutando tutte le opzioni, nessuna esclusa, per rispondere al rifiuto di Netanyahu della soluzione dei Due Stati. Tra gli analisti israeliani si tende, per ora, a ridimensionare l’importanza dei passi che potrebbe muovere la Casa Bianca in risposta alla posizioni espresse da Netanyahu in campagna elettorale. «La tensione tra Netanyahu ed Obama esiste da anni ed è salita ancora di più da quando il primo ministro ha parlato al Congresso. Tuttavia mi riesce difficile immaginare che gli Stati Uniti arrivino a modificare totalmente le loro posizioni sul conflitto israelo-palestinese al punto da sostenere una proclamazione unilaterale dello Stato di Palestina», ci ha detto ieri Oded Eran, analista dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale di Tel Aviv. Ciò non toglie, ha aggiunto Eran, che si faranno persino 16 più difficili le relazioni tra Obama e Netanyahu negli ultimi due anni di mandato del presidente americano. Di recente, peraltro, è stato nominato coordinatore della politica della Casa Bianca in Medio Oriente, Nord Africa e la regione del Golfo, proprio Robert Malley, un esperto statunitense di Vicino Oriente preso di mira qualche anno fa da Israele per i suoi contatti con Hamas e per le sue critiche alla politica di Tel Aviv. Gli Usa con ogni probabilità faranno conoscere meglio le loro reali intenzioni dopo la formazione del governo al quale sta lavorando il premier che tra qualche giorno riceverà l’incarico dal capo dello stato Rivlin. Nel frattempo lo scrutinio degli ultimi 200 mila voti rimasti in sospeso, quelli di soldati, diplomatici e di altri israeliani che risiedono all’estero, ha reso ancora più netta la vittoria del Likud di Netanyahu, che è salito da 29 a 30 seggi e danneggiato la Lista Araba Unita passata da 14 a 13 seggi (resta comunque il terzo gruppo alla Knesset), La lista Campo Sionista, avversaria principale del Likud, è ferma a 24 seggi mentre a sinistra ottiene un deputato in più il Meretz, passato da 4 a 5 seggi. del 20/03/15, pag. 4 La Grecia ora è “pericolosa” Anna Maria Merlo PARIGI Consiglio europeo. Al vertice dedicato all'energia, mini-summit sulla crisi di Atene, chiesto da Tsipras, che vorrebbe "politicizzare" la crisi, sull'orlo del crollo nel default. Ma i partner restano sul piano "tecnico" e chiedono di applicare le riforme (Memorandum). Un minuto di silenzio in apertura per il massacro in Tunisia. Tusc spinge per un intervento in Libia. Russia: non ci sono nuove sanzioni, ma la minaccia di un rinnovo automatico di quelle in corso, se non entro giugno non sono fatti passi avanti. La Lettonia: azione contro la propaganda di Mosca, che sta "vincendo" Dopo un minuto di silenzio per l’ultimo attacco terrorista, a Tunisi, la Grecia «pericolosa» (la definizione è di Martin Schulz) è stata al centro delle preoccupazioni, pur non essendo nell’agenda ufficiale del Consiglio europeo di ieri e oggi a Bruxelles, con in programma le questioni economiche (Fiscal Compact e riforme strutturali), l’energia e, per la politica estera, l’Ucraina, la Libia e il terrorismo. L’idea di un mini-summit ai margini del vertice — una «flash-mob» per Schulz — che obtorto collo Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e Jeroen Dijsselbloem hanno accettato ieri sera, con la presenza di Angela Merkel e François Hollande, su richiesta di Alexis Tsipras, ha irritato i partner, che hanno chiesto senza esito di poter partecipare anch’essi, vista l’importanza del caso greco. Con la domanda di uno spazio specifico dedicato ad Atene, Tsipras ha voluto politicizzare il dossier greco, che è bloccato in uno stallo a rischio. «La Ue ha bisogno di un’iniziativa politica – ha spiegato Tsipras – che nel rispetto sia della democrazia che dei trattati consenta di lasciarci la crisi dietro le spalle e di muoverci verso una maggiore crescita». È più o meno la stessa cosa che ha detto la vigilia il primo ministro francese, Manuel Valls, convocato a Bruxelles dalla Commissione per spiegarsi rispetto al non rispetto da parte di Parigi del parametro del 3%. 17 La Francia ha comunque ottenuto due anni di tempo in più per rientrare nei parametri, ma per la Grecia c’è un trattamento speciale: «è assolutamente chiaro che nessuno può attendersi una soluzione né stasera né lunedì» a Berlino (nel previsto incontro con Tsipras), ha sottolineato Merkel, secondo la quale un accordo si farà «solo se si trova un’intesa e tutti si attengono ad essa». Cioè, non verrà versata in anticipo parte dell’ultima tranche (7,2 miliardi) del secondo piano di aiuti, sulla carta prolungato di 4 mesi il 20 febbraio scorso, prima che Atene mostri di aver intrapreso le riforme del Memorandum. Il presidente dell’europarlamento ha giudicato la Grecia «pericolosa» (e sprezzante ha chiesto a Tsipras se aveva «dimenticato la cravatta»): per Martin Schulz, «sarebbe bene che la Grecia mantenesse gli impegni presi, un nuovo aiuto finanziario arriverà dopo». Ma il tempo stringe. Lo stesso Schulz ha dato credito all’ipotesi che Atene sia quasi a secco e che abbia difficoltà a far fronte ai nuovi, imminenti, rimborsi: «nel breve termine, 2–3 miliardi di euro sono necessari per rispettare gli impegni esistenti» (oggi scadono altri 2 miliardi da restituire dopo l’1,2 già versati e altri seguiranno a ruota per raggiungere la quota di 6 miliardi dovuti in questo mese di marzo, una buona parte all’Fmi). Il governo greco sta grattando il fondo del barile in casa (dai fondi pensione alla previdenza sociale), ma non ce la farà se la Bce non versa almeno i 1,9 miliardi di interessi maturati (ha anche in cassa circa 11 miliardi del Fondo ellenico di stabilità). Ma Draghi fa concessioni con il contagocce, per tenere il governo di Syriza sulla corda: ha aumentato l’Ela (liquidità di emergenza, l’unico rubinetto che resta aperto tra Francoforte e il sistema bancario greco, dopo aver chiuso la possibilità di dare in garanzia le obbligazioni, junk per le agenzie di rating, come «collaterale») di altri 400 milioni, al di sotto della richiesta di Atene. La Grecia è sull’orlo di un panico bancario e il presidente dell’Eurogruppo, Dijsselbloem, gioca col fuoco, evocando uno «scenario cipriota», con il blocco dei movimenti di capitali (una misura considerata il prologo per un Grexit). Juncker ha cercato di mediare, ricordando che «la Grecia negli ultimi tre anni ha intrapreso molte riforme, fatto molte economie nel budget, realizzato un avanzo primario. Non è vero dire che la Grecia non abbia fatto sforzi, non sarebbe corretto dire che i greci sono un popolo di fannulloni». Ma anche Juncker insiste: bisogna rispettare gli impegni ed evoca quelli del 2012 (cioè il Memorandum), oltre ai più recenti. Non è solo la Grecia a ricevere bacchettate. La Bce ha richiamato all’ordine Italia, Francia, Belgio e Finlandia sul rispetto del Fiscal Compact, per Draghi «la gravità degli squilibri sta aumentando in vari paesi». La Ue sembra un bateau ivre in questo periodo, incapace di prendere decisioni: anche per il piano Juncker, il progetto si concentra ora, a pochi mesi dalle decisioni definitive su dove intervenire con la «leva» che dovrebbe coinvolgere 315 miliardi, sulla «depoliticizzazione» della scelta della selezione dei progetti. Terreno minato anche in politica estera. A cena c’era l’Ucraina nel menu. Il draft del comunicato finale non prevede nuove sanzioni alla Russia, ma la riconferma automatica di quelle in atto che scadono a giugno, se non ci saranno passi avanti entro quella data. La Lettonia, che ha la presidenza semestrale del Consiglio, ha inserito nelle conclusioni la richiesta a Mrs.Pesc, Federica Mogherini, di mettere in atto un «piano di azione» della Ue contro la propaganda russa, perché «stiamo perdendo la battaglia» della comunicazione con Mosca. Sulla Libia, il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusc, spinge da giorni per un nuovo intervento militare. 18 del 20/03/15, pag. 5 Grecia, i retroscena del pressing Ue Pavlos Nerantzis ATENE Miti e realtà. La Germania guadagna dal disastro ellenico e i fondi Ue finiscono solo alle banche Nella capitale greca si sapeva a priori che lo scontro tra un governo delle sinistre e l’establishment europeo sarebbe stato inevitabile. Non tanto perché «l’altra Europa» a cui fa riferimento Syriza — gli Stati uniti d’Europa — va in una direzione diversa rispetto alla struttura attuale dell’Ue, basata sui Trattati di Maastricht e di Lisbona, dove la logica dei mercati prevale sulla politica, o meglio dominano le politiche neoliberiste. L’alto livello di tensione tra Atene da una parte e Bruxelles e Berlino dall’altra, presentata come mancanza di fiducia, è inevitabile nel momento in cui Tsipras, pur presentandosi pragmatico e disposto ad applicare solo una parte del programma di Salonicco per far fronte alla crisi umanitaria greca, non é disposto a seguire le politiche precedenti, come vogliono i partner europei. La ristrutturazione del debito greco è la pietra angolare, l’elemento portante per il risanamento economico della Grecia e per una costruzione europea diversa dall’attuale. Tutto ció era noto. Ma tutto sommato ad Atene speravano che l’«avversario», ovvero i creditori internazionali, avrebbero rispettato le regole del gioco. A distanza di un mese e mezzo dallo scrutinio del 25 gennaio, invece, ció che si registra é una lotta quasi accanita contro il governo di Alexis Tsipras, il quale rispetta i suoi impegni verso i creditori nonostante i gravi problemi di liquiditá. Visto che l’ aggiustamento di bilancio greco è stato piú pesante che altrove (i tagli di spesa e le misure fiscali hanno diminuito del 45% il reddito delle famiglie contro il 20% del Portogallo e il 15% di Italia e Irlanda), Atene vorrebbe una soluzione basata per il momento sull’accordo dell’Eurogruppo del 20 febbraio scorso. Quindi un negoziato a livello politico, un’apertura di trattativa come ha scritto pochi giorni fa il vice-premier Yannis Dragasakis sul Financial Times. I partner europei, invece, non solo non sembrano disposti a dare tempo e spazio al neogoverno greco, ma sempre di piú c’è la netta impressione che vorrebbero la sua caduta, la messa in angolo di Syriza. E usano a questo proposito tutti i mezzi: la Bce che ha chiuso i rubinetti del finanziamento di emergenza (Ela) che tiene in piedi le banche greche; l’Euroworking group e l’Eurogruppo che chiede dati tecnici delle finanze greche — che guarda caso sono sempre negativi o mancanti — come pressuposto per un negoziato politico; e la stampa internazionale che, quando non mente, diventa perfino più realista del re. A causa della mancanza di liquiditá nelle casse dello Stato ellenico tutti, o quasi, parlano del grexident, cioé di un default non voluto o di un grexit (Schaeuble addirittura ha detto a Varoufakis che Berlino sarebbe disposto ad aiutare l’ uscita della Grecia dall’eurozona); tutti sottolineano ad ogni occasione i benefici che hanno avuto i greci dagli aiuti finanziari pari a 240 miliardi di euro ottenuti nel maggio 2010 e nell’ ottobre 2011, ma pochi notano che soltanto il 10% di questo flusso di soldi é stato assorbito per i fabbisogni interni e veri del paese. Il resto é servito per ricapitalizzare le banche greche — le quali peró non prestano un euro alle imprese medie e piccole in stato di emergenza — e sopratutto per pagare gli interessi sui capitali dei prestiti ai creditori internazionali. Vale a dire che la Grecia prende in prestito sempre di più dai suoi partner (e questo vale per l’ Italia e tutti i 19 paesi) per pagare debiti precedenti. Intanto decine di migliaia di greci fanno la fame, perdono i loro posti di lavoro, si ammalano, i piú giovani scelgono le vie di migrazione, ecc., ecc. Le vittime umane, lo sfacelo sociale, l’annientamento del welfare state e la perdita del 25% della richezza nazionale in Grecia sono considerate dall’establishment europeo perdite collaterali. Chi viene beneficiato e chi guadagna con la crisi greca? In Germania ma anche nel resto d’Europa a sentire i media e parte del mondo politico — che non perdono occasione per disprezzare i Pigs, i paesi del sud — i contribuenti tedeschi pagano «di tasca loro» per i greci. Ma questi opinion makers — su cui Wolfang Schauble insiste sempre nei suoi discorsi — non dicono nulla del fatto che la Germania grazie alla crisi greca e in specifico alla differenza dei tassi d’interesse ha guadagnato dal 2009, secondo la London School of Economics, quasi 80 miliardi di euro. L’economista americano Paul Krugman (premio Nobel) ha scritto sul New York Times che «i politici tedeschi non hanno mai spiegato ai loro cittadini “la matematica”, ma hanno scelto la via facile del moralismo per l’atteggiamento irresponsabile dei mutuati». Unica eccezione dalla Grande Koalition, Klauss Regling (Mes), che ha detto: «Finora i prestiti di salvataggio alla Grecia non sono costati un solo euro al contribuente tedesco». Questa campagna diffamatoria piena di stereotipi («i greci pelandroni», promossa non solo dalla Bild ma anche da quotidiani «autorevoli» italiani) nasconde una realtá emersa recentemente dall’Office for National statistics britannico: i «pigri» greci lavorano molto di piú rispetto ai «disciplinati» tedeschi (42,2 ore settimanali i greci, 35,5 ore i tedeschi)». È questa campagna che alimenta il nazionalismo greco, fino alla minaccia dell’apertura dei confini perché i jihadisti invadano la Germania. Mercoledì i «18» dell’Eurozona venivano descritti dalle agenzie internazionali come «irritati perché il governo di Tsipras si rifiuta di promuovere le riforme», vale a dire gli impegni presi dai governi precedenti. Costello Declan, il rappresentante della Commissione europea alle «istituzioni» è contrario (sic) al progetto di legge che facilita i contribuenti greci a pagare i loro debiti allo Stato, nonostante che non influenzi negativamente il bilancio dello Stato. E poi tutti sono contrari a Yanis Varoufakis, perció fanno di tutto per farlo allontanare dalla sua carica. Il video falso del ministro delle finanze greco che manda a quel paese con il dito alzato la Germania é solo l’ ultimo episodio di una lunga fila di menzogne. Il viaggio di Tsipras a Berlino il 23 e l’incontro con i leader europei ai margini del summit di Bruxelles di ieri sera e probabilmente anche oggi, dovrebbe servire per distendere il clima, ma sará dura per premier greco. «La guerra é la continuazione della politica con altri mezzi… é un atto di forza che ha lo scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontá» scriveva Karl von Clausewitz. E Atene, secondo Berlino, deve sottomettersi alla volontá dei suoi partner. Clausewitz aveva notato per primo che «la prima vittima di ogni guerra è la veritá». Tante le cose scritte e dette su come la Grecia sia arrivata a questa crisi e su chi ne ha la responsabilitá. Una cosa è certa. La ricetta applicata dalla troika (Fmi, Ue, Bce) per il risanamento economico del Paese ha avuto conseguenze simili a quelle di una guerra. E la sensazione che «stiamo vivendo in condizioni di guerra» e di emergenza permanente ce l’hanno (quasi) tutti i greci. 20 del 20/03/15, pag. 20 Atene non ha soldi per stipendi e pensioni Servono tre miliardi per scongiurare il default ETTORE LIVINI MILANO . La Grecia arriva al redde rationem con l’ex Troika senza soldi in cassa e si affida alla finanza creativa (leggi “gratta il fondo del barile”) per trovare i 3 miliardi necessari a pagare stipendi e pensioni di marzo. Bce, Ue e Fmi — dopo aver garantito ad Atene 230 miliardi di prestiti — hanno sospeso i finanziamenti lo scorso agosto. A tenere in piedi la macchina dello Stato è da allora la liquidità — distribuita con il contagocce — girata dalla Bce alle banche elleniche per sottoscrivere i titoli di Stato in scadenza e pagare gli interessi sul debito. I NODI AL PETTINE I conti però non tornano più e i nodi sono arrivati al pettine. I greci hanno smesso di pagare le tasse da quando sono state convocate le elezioni (solo a gennaio è mancato all’appello un miliardo di entrate fiscali). La corsa ai bancomat ha fatto sparire in due mesi dai caveau degli istituti di credito 25 miliardi — il 15% dei depositi — di cui 600 milioni negli ultimi tre giorni. Le cose non vanno meglio oltrefrontiera. Bce, Ue e Fmi, irritate dall’impasse nei negoziati, hanno stretto i cordoni della borsa: l’ultima tranche di aiuti da 7,2 miliardi è bloccata fino all’ok al piano di riforme e i tecnici di Eurotower hanno suggerito ieri al Board della banca centrale — che ha respinto la proposta — di impedire alle banche elleniche di comprare nuovi titoli di stato («troppo rischiosi»). Risultato: la Grecia rischia di finire in bancarotta senza aver nemmeno iniziato a discutere davvero con i creditori: «Servono subito 2-3 miliardi per evitare il crac», ha detto allarmatissimo il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz. Mentre Yanis Dragasakis, il vi- cepremier che sembra aver rubato un po’ di spazio sui temi economici al ministro delle finanze Yanis Varoufakis, ha ammesso per la prima volta che esiste un «problema di finanziamenti da affrontare subito». IL CAPPIO AL COLLO Nessuno si stupisce più di tanto. L’arma della liquidità — come molti immaginavano — è il vero bazooka con cui l’ex Troika vuol costringere Atene ad accettare la sua ricetta per salvare il paese. Il Governo ha provato a mettere qualche toppa per non finire all’angolo. Ha approvato una legge che gli consente di mettere mano alle riserve di liquidità dei fondi pensione, ha sbloccato (con il tacito assenso Ue) 550 milioni del fondo salva-banche, ha approvato un condono fiscale che cancella le sanzioni a chi paga subito gli arretrati con l’erario, ha chiesto alle municipalizzate di usare le riserve in cassa per sottoscrivere titoli di stato. Mosse disperate. Inutili perchè le uscite, purtroppo, sono più delle entrate. A poco servono pure gli 875 euro che una coppia tedesca ha regalato ieri ad Atene come risarcimento per i danni di guerra: solo questo mese sono stati ripagati 1,5 miliardi di prestiti al Fondo Monetario (altri 350 milioni sono in calendario venerdì), nelle prossime ore dovrebbe scadere un derivato confezionato da Goldman Sachs nel 2000 per consentire alla Grecia l’ingresso nell’euro. Entro maggio ci sono da pagare altri 4,5 miliardi di interessi mentre tra luglio ed agosto scadono 6,7 miliardi di prestiti Bce. Un circolo vizioso in cui i debiti pagano i debiti: dei 230 miliardi di prestiti dell’ex Troika — stima Macropolis — solo l’11% è arrivato davvero ai greci mentre il resto se n’è andato in interessi e salvataggi di banche e creditori. 21 LE RICHIESTE DI TSIPRAS La liquidità sarà dunque il tema principe dei bilaterali di queste ore. Cosa chiede Tsipras? Tre cose (non obbligatoriamente tutte): la restituzione degli 1,9 miliardi di profitti fatti dalla Bce su titoli di stato ellenici; lo sblocco di una parte dell’ultima tranche di aiuti da 7,2 miliardi; l’ok all’emissione di nuovi titoli di Stati — il tetto di 15 miliardi è già stato raggiunto — assieme al via libera a nuovi finanziamenti di emergenza dalla Bce. Ossigeno necessario per prendere fiato e poi discutere di riforme. Cosa può offrire in cambio? Un ammorbidimento della linea muro contro muro con i creditori e l’impegno a far decollare in tempi stretti un “pacchetto-base” di riforme chieste dall’ex-Troika. «L’unica linea rossa che non vogliamo valicare è quella di nuove misure d’austerità», ha detto un dialogante Tsipras. Il tempo delle parole, minaccia l’Europa, è finito. Servono i fatti. Senza soldi (e con la sinistra di Syriza che lo attende al varco), il premier ellenico si giocherà in queste ore una partita decisiva in cui si misurerà non solo la sua statura politica ma soprattutto la possibilità per la Grecia di rimanere davvero nell’euro. 22 INTERNI del 20/03/15, pag. 4 Dopo essere stato per anni un assiduo comprimario nei salotti televisivi, Lupi è salito sul trono del protagonista per annunciare le sue dimissioni alle telecamere prima che al Parlamento L’addio-show del ministro la carriera nata in tv finisce davanti a Vespa FILIPPO CECCARELLI VATTI a fidare di quelli che fanno carriera con la tv. Ieri sera Maurizio Lupi ha consegnato le sue dimissioni nelle mani di Bruno Vespa - di chi altri se no? - che l’ha accettate senza riserve dinanzi a un grande fondale con il volto contratto del ministro dimissionario, le mani giunte sulla bocca, e la scritta, se non si fosse capito bene: «Mi dimetto». Vatti a fidare, anche, dei personaggi dei talk-show. Lupi fa parte della compagnia di giro, immancabile in quei salotti lì, impossibile non averlo mai visto. Non esattamente un mattatore, ma un comprimario affidabile, un motore diesel, una maschera standard. Pare di sentirli i cercatori e smistatori di presenze politiche: «Ci sarebbe Lupi...»: ah, bene. Eccolo sulla poltroncina, per la prima volta ieri gli è stato concesso il tronetto di consolazione. Qualcun altro prenderà il suo posto, la tv è per sua natura cannibalica e richiede sempre carne fresca. Troppo spesso si dimentica che risponde alle leggi dello spettacolo, poco o nulla di ciò che si vede è vero, semplicemente deve sembrarlo. Vatti a fidare, quindi, dei volti «presentabili». Il termine è ambiguo e non troppo simpatico, ma per una volta funziona, sia pure alla rovescia, a disvelare gli artifici della messa in scena e delle parti assegnate. Lupi era la «presentabilità» televisiva fatta persona. La parlantina. Il decoro formale. Una certa compostezza. Bagliori di entusiasmo. Equilibrio. Moderazione. E anche un po’ di simpatia, sia pure di genere oratoriale. Dunque, alta reputazione in pixel. Ma allora, per tornare alla realtà: come si combina questa assidua e sicura rendita catodica con quella cruda battutaccia che l’utile barbarie delle intercettazioni telefoniche ha divulgato in questi giorni: «Non me ne frega un cazzo» e qui pazienza. Ma poi: «Possono venirmi a fare una pompa!». E qui invece alt! Come «una pompa»? E chi mai vorrebbe o dovrebbe venire a fare «una pompa» a Lupi? Dice: uh, quante storie, quanta ipocrisia, era un modo di dire, scherzoso. D’accordo, quante risate! Sennonché in tv Lupi ci era arrivato, o ce l’avevano mandato - nel mondo berlusconiano si può ragionevolmente sostenere che Lui e Lui Solo decidesse chi, dove e quando - proprio perché era lontano da quelle cosacce che a lungo hanno condizionato il discorso pubblico. Bene, Lupi sarà anche stato bravo, sveglio e competente. Ma a partire dal biennio rosa 2008-2009 la sua precipua risorsa narrativa, la sua mission mediatica è consistita nel riequilibrare l’andazzo ludico e sporcaccione in cui il Cavaliere, con la collaborazione di «Forza Gnocca», aveva sprofondato il centrodestra. Perfetto antidoto mediatico. Sposatissimo (su YouTube in uno spot elettorale conteggia in «26 anni » la durata del suo matrimonio, oggi siamo a 28). Perciò morigerato. Organizzava pellegrinaggi con monsignor Fisichella, sulle tracce di San Paolo, o in Terra Santa, tour operator per deputati alla ricerca delle radici cristiane. Un ciellino tranquillo, oltretutto, cosa abbastanza rara. Niente fanatismi o camicette a fiori tipo Formigoni. 23 Il casting degli spettacoli, che per la politica danza con il cinismo, con la religione sfiora la simonia. Ecco, magari era un po’ rischioso fare da padrino di battesimo a Magdi Allam, il giorno di Pasqua (2008) ma dopo tutto c’era il Santo Padre. Strideva anche un po’ menzionare l’« Imitatio Christi » per difendere Berlusconi dagli impicci in cui s’era cacciato. Ma pazienza. Lupi era anche un grande sportivo. Stile di vita sano, mica stravizi. La corsa, la maratona, il «Montecitorio running club». Le foto sui rotocalchi. La vicepresidenza della Camera. I buoni sentimenti: sospendeva la seduta per gli auguri di compleanno ai ministri. Sia ben chiaro: Lupi non è né un attore, né un impostore, né la sua storia incarna La Grande Menzogna. E’ e resta un politico di questo tempo. Perciò il suo alias elettronico ha sfidato l’ubiquità manifestandosi in qualsiasi visione a distanza: «Una corsa con Maurizio Lupi», «Un caffè con Maurizio Lupi», «Soul con Maurizio Lupi», «Incontri ravvicinati con Maurizio Lupi»... Si scoprirà prima o poi quali effetti psichici comporta vivere sotto il fuoco delle telecamere, dietro una perenne lente d’ingrandimento. Un tempo si sarebbe detto che Lupi si è montato la testa. Così ha pure scritto un libro, « La prima politica è vivere » (Mondadori). E’ diventato ministro. Infrastrutture, te le raccomando. E nel momento in cui si trattava di mollare la poltrona, ha mollato Berlusconi. Alla fondazione del Ncd ha fatto il presentatore, citando il Re Leone. E’ rimasto ministro con Renzi. I giornalisti politici, ormai, devono fare attenzione a queste cose. Così quando il suo nemico del Pd, De Luca, ha detto che assomigliava alla figlia di Fantozzi, che è anche un po’ vero anche se non coinvolge i destini collettivi, Lupi si è offeso moltissimo. Allora ha telefonato al presidente del Consiglio per protestare, ma sul suo sito ha anche pubblicato le foto di quelli a cui lui ritiene di assomigliare: Gianni Morandi, Aaron Spelling, Demetrio Albertini e Gollum de « Il Signore degli anelli ». Dimissionari pure loro? del 20/03/15, pag. 6 Ora l’interim al premier poi Delrio o Cantone Quagliariello alle Regioni L’Ncd perderà il ministero delle Infrastrutture, a Palazzo Chigi la Struttura che Lupi non volle cedere TOMMASO CIRIACO EMANUELE LAURIA ROMA . Il dopo-Lupi, per ora, si chiama Renzi. Sarà il presidente del Consiglio a tenere l’interim alle Infrastrutture, in vista di un mini-rimpasto previsto nelle prossime settimane. Nell’incontro di Palazzo Chigi, in cui ha concordato con Lupi e Angelino Alfano l’exit strategy dal rovente caso dei grandi appalti, il premier non ha indicato alcuna soluzione immediata per la sostituzione del ministro costretto alle dimissioni. Ha solo fatto capire ai suoi interlocutori che la pesante delega non andrà più all’Ncd. Renzi, adesso, non vuole commettere passi falsi per la gestione di questo ministero-chiave ed è pronto a discuterne lunedì con il capo dello Stato Sergio Mattarella. Nel frattempo, valuta l’ipotesi di spacchettare il dicastero, trasferendo a Palazzo Chigi le competenze della struttura tecnica di missione (quella che era guidata da Ercole Incalza). Un vecchio pallino del presidente, che proprio Lupi non ha mai condiviso. Il ministero, così “alleggerito”, potrebbe essere affidato a un tecnico. A un nome magari di prestigio come quello di Raffaele Cantone, presidente dell’authority anticorruzione. 24 Sarebbe una scelta di chiaro significato simbolico, una riposta mediatica all’allarme tangenti. Ma il magistrato dovrebbe dimettersi dall’attuale incarico dopo un solo anno dalla nomina. Circolano pure alcune possibili alternative: Mauro Moretti, amministratore delegato di Finmeccanica ed ex ad di Ferrovie, o Andrea Guerra, già al timone di Luxottica e oggi consulente di Palazzo Chigi. Chi ha parlato con Renzi nelle ultime ore, però, non esclude affatto che il successore di Lupi sia alla fine di nuovo un politico. Un abituale frequentatore dell’inner circle del primo ministro: si fa il nome anche di Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza che lascerebbe così il posto al collega Luca Lotti. Ma non è escluso che lo stesso Lotti - che oggi presiede il Cipe - vada a sedersi sulla poltrona fino a oggi occupata da Lupi. Più difficile, invece, la pista che porta al deputato David Ermini o a Debora Serracchiani: quest’ultima darebbe più peso alla componente rosa nel governo, ma dovrebbe abbandonare la guida della Regione Friuli a meno di due anni dall’elezione. E c’è chi, in nome del mantenimento degli equilibri interni al Pd, azzarda il nome di Matteo Mauri, che fu responsabile Infrastrutture della segreteria Bersani. All’Ncd, uscito acciaccato dalla bufera giudiziaria di Firenze, Renzi avrebbe comunque assicurato «un adeguato peso politico all’interno dell’esecutivo ». Un modo anche per favorire il commiato di Lu- pi. In realtà, l’ipotesi più probabile è l’approdo di Gaetano Quagliariello agli Affari Regionali. Di fatto, un ridimensionamento. Ecco perché l’influente componente meridionale del Nuovo centrodestra da ieri ha cominciato a reclamare alcune “compensazioni”. Come un irrobustimento del ministero con alcune deleghe per il Mezzogiorno. Soluzione che, però, dovrebbe passare da una legge. I margini di incertezza, insomma, sono ancora molti. Quagliariello, attuale coordinatore di Ncd, resta comunque in pole per un ingresso nel governo, anche se fra gli alfaniani non manca chi avanza altre candidature, come quella dell’ex presidente del Senato Renato Schifani. Non è un mistero che Quagliariello prediliga la Pubblica istruzione, e quest’opzione apre un altro scenario possibile: il “sacrificio” di Stefania Giannini, che a difesa della sua posizione può però vantare il recente passaggio al Pd e il lavoro appena avviato per la riforma della scuola. Di rimpasto più ampio, con un lungo valzer di deleghe, parlavano invece ieri sera alcuni stretti collaboratori di Renzi. In ogni caso il premier si presenterà al taglio del nastro per l’Expo da ministro delle Infrastrutture. Ma dopo le Regionali l’esecutivo avrà un aspetto differente. Non un Renzi-bis, ma una squadra che punta tutto (anche in termini d’immagine) sulla lotta al malaffare. del 20/03/15, pag. 7 Fitto come Tosi, in Puglia vuol sfidare Forza Italia CARMELO LOPAPA ROMA . Fitto come Tosi, la Puglia come il Veneto. La differenza è che la scissione (ci siamo quasi) stavolta si consuma in Forza Italia. L’eurodeputato ed ex governatore da 220 mila voti medita lo strappo definitivo correndo nella sua Regione e trascinando i suoi. Un ritorno, e tutt’altro che da terzo incomodo, dato che l’obiettivo già annunciato è scavalcare il candidato ufficiale forzista Francesco Schittulli. Tutt’altro che un fulmine a ciel sereno. La notizia rimbalza da Bari, dove le decine di sindaci, consiglieri regionali e comunali e dirigenti locali vicini a Fitto entrano in fibrillazione, dopo aver appreso che Berlusconi e il commissario Luigi Vitali difficilmente li candideranno. Troppo profonda ormai la frattura. Mercoledì sera a Palazzo Grazioli, con 25 l’ex Cavaliere e Giovanni Toti erano presenti proprio il candidato Schittulli e Vitali, che è anche coordinatore. «Candidiamo gli uscenti ma non rinunciando al rinnovamento, in ogni caso, gli aspiranti candidati dovranno chiedere l’accesso alle liste al commissariocoordinatore, riconoscendone il ruolo», sono le conclusioni tirate da Berlusconi. E poi ribadite alla cena tenuta sempre a Palazzo Grazioli con alcuni imprenditori pugliesi, come nel pranzo di ieri, presenti Denis Verdini e Gianni Letta, Toti, il comitato per le regionali presieduto da Altero Matteoli. Proprio quest’ultimo in una nota prova a smussare, «non ci saranno esclusioni preconcette in Puglia». Ma per Fitto è il punto di non ritorno. E alza il tiro. «Non ho alcuna intenzione di uscire da Forza Italia — premette, stando ai racconti dei fedelissimi —. Ma se davvero vogliono escluderci dalle liste, se davvero vogliono distruggere un partito, non possiamo limitarci alla battaglia legale, ma lanciamo la sfida e vediamo chi prende più voti». Il segnale di guerra che le sue truppe attendevano, «in tantissimi ormai premono per un mio impegno diretto», ammette il big pugliese in altri colloqui coi deputati. Mossa che sarebbe preludio all’uscita da Fi, alla corsa con liste di rottura anche in Campania (contro Caldoro) e in Veneto (probabilmente al fianco di Tosi), alla nascita di gruppi parlamentari autonomi. E la kermesse romana di domani di Fitto a questo punto assume tutto un altro peso. «Sarebbe assurdo se lo facesse — attacca Giovanni Toti —. Per mesi gli abbiamo chiesto di candidarsi in Puglia e ora lo farebbe contro il partito? Si metterebbe fuori». Resta invece in freezer per ora (ma probabile nel fine settimana) il faccia a faccia tra Berlusconi, rientrato ieri sera ad Arcore, e Salvini. «A queste condizioni non avrei cosa dirgli — raccontava ieri a pranzo il capo ai dirigenti —. Prima Matteo ritiri i suoi in Liguria e Toscana e tratti da alleato, non da avversario». Soprattutto, niente liste di disturbo in Campania, è l’altra priorità: un sondaggio dà Caldoro in vantaggio sul pd De Luca di soli 4 punti. 26 LEGALITA’DEMOCRATICA del 20/03/15, pag. 24 Bimbi e immigrati l’omaggio di Libera alle ottocento vittime della mafia Domani a Bologna la ventesima edizione della giornata organizzata dall’associazione Don Ciotti: la memoria contro Cosa nostra ELEONORA CAPELLI BOLOGNA . Vittime innocenti di mafia che non entreranno mai nei libri di storia, i cui familiari si ritrovano oggi a Bologna per una veglia di preghiera insieme a Don Luigi Ciotti. Bambini e immigrati, pescatori e imbianchini, pensionati e casalinghe, preti e comunisti. Agenti della scorta insieme ai più noti magistrati che proteggevano. Saranno chiamati per nome, uno a uno, domani in piazza a Bologna al termine del corteo per i vent’anni di Libera. Le loro storie sono raccolte in un libro, Memoria, che sceglie di metterli in ordine alfabetico per dare a tutti pari dignità. C’è chi è morto per cause «ricondotte all’organizzazione di un concerto del cantante Nino D’Angelo», come il sindaco di Molfetta, Giovanni Carnicella, e ci sono i gemelli Giuseppe e Salvatore Asta, morti a 6 anni sulla strada per andare a scuola nell’auto della mamma, che incrociò quella del sostituto procuratore di Trapani, Carlo Palermo. C’è la strage di Portella della Ginestra, e ci sono regolamenti di conti nati per strada, dagli apprezzamenti rivolti a una ragazza. C’è il cassiere di cinema Salvatore Benigno, morto nel 1986 per aver visto due mafiosi dare alle fiamme un’auto, e il rumeno Petru Birladeanu, calciatore di serie A in patria e suonatore ambulante a Napoli, colpito per disgrazia in una sparatoria. Lungo il filo delle pagine si snodano 799 storie di «coloro che non ci sono più», cui viene dedicata la manifestazione «La verità illumina la giustizia». E c’è una cosa che accomuna tutti: lo strazio di chi rimane. Lo diceva la mamma di Roberto Antiochia, agente di polizia ucciso a 23 anni nell’estate del 1985: «Quando ti uccidono un figlio, sparano anche su di te». La storia del suo Roberto è legata a doppio filo a quella di Antonino Cassarà, vice dirigente della squadra mobile di Palermo. Di Cassarà era noto il talento investigativo, insieme ai colleghi americani aveva guidato l’operazione Pizza Connection. Ma erano in pochi a conoscere il senso del dovere di Antiochia, agente di polizia che da Palermo era stato trasferito a Roma e in quell’estate si trovava ancora in Sicilia in ferie. Aveva lavorato nella squadra mobile con Beppe Montana, poi decise di restare al fianco di Cassarà, fino all’estremo tentativo di proteggerlo dai colpi di kalashnikov che attendevano il vice capo della squadra mobile sotto casa sua. I nomi e le storie messi in fila (erano 799 quando è stato chiuso il libro, in gennaio), ci dicono alcune cose. «Primo, che la violenza colpisce indistintamente – spiega Don Ciotti – e, secondo, che il presunto riguardo mafioso verso le giovani vite è una menzogna: tra bambini e ragazzi si contano 83 vittime. Quella mafiosa è una violenza cieca: sono 156 le persone uccise per essersi trovate dentro un conflitto o perché scambiate per qualcun altro. Inoltre la mafia ha cominciato a uccidere tanto tempo fa e non ha mai smesso: il primo omicidio risale a due secoli fa, le morti continuano fino ai giorni nostri». Un tributo a chi ha perso la vita e anche a chi è rimasto, a ricordare e a piangere. 27 del 20/03/15, pag. 18 La legge anticorruzione in Aula al Senato dopo due anni di scontri Incontro Anm-Mattarella: disagi, ma basta contrasti ROMA Con un deciso scatto di reni, alla fine governo e maggioranza riescono a incardinare in aula al Senato il disegno di legge anticorruzione con il giro di vite sul falso in bilancio, che, a questo punto, verrà approvato la prossima settimana per poi passare alla Camera. E sempre alla vigilia delle annunciate dimissioni del ministro Maurizio Lupi per i favori chiesti a un indagato, si ricuce in parte lo strappo provocato due giorni fa dall’Associazione nazionale magistrati con il premier Renzi («Il governo accarezza i corrotti e schiaffeggia i giudici»): «A Mattarella abbiamo manifestato il disagio delle toghe ma ora bisogna superare i contrasti..» ha detto il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli dopo l’incontro di ieri con il capo dello Stato. Il caso Lupi — innescato dalle intercettazioni telefoniche chieste della Procura di Firenze — ha accelerato le delicate partite aperte in materia di giustizia. Con molta tenacia, il capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, è dunque riuscito a ottenere che il ddl anticorruzione fosse incardinato in Aula nella giornata di ieri dopo lo svarione del governo che mercoledì aveva un po’ pasticciato con la data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di una norma di riferimento (la tenuità del fatto) per la nuova disciplina del falso in bilancio. Soddisfatto per l’accelerazione anche il presidente del Senato Pietro Grasso che ha molto a cuore il provvedimento perché fu lui, da semplice senatore, a rompere il ghiaccio in materia di anticorruzione il 15 marzo del 2013 con il suo disegno di legge. E sono passati ben 724 giorni. E così, alla fine, anche il presidente della commissione Giustizia, Francesco Nitto Palma (Forza Italia), ha dovuto cedere il passo alle fortissime pressioni (maggioranza, governo, presidenza del Senato) e consentire, senza ulteriori rinvii, che il testo approdasse in Aula nel pomeriggio di ieri. «Alleluia, Alleluia» aveva detto Grasso lunedì nel momento in cui il governo tirava fuori dal cassetto l’emendamento sul falso in bilancio. «Evviva, evviva» ha replicato, non senza perfida ironia, Nitto Palma quando ha appreso (convocato dalla capigruppo) che il provvedimento sarebbe andato subito in Aula. «Che sia un alelluia o un evviva non fa differenza. Il disegno di legge è arrivato in Aula: era ora. Un passo importante per un cammino ancora lungo» ha chiuso il match il presidente Grasso. E quanto sia delicata la materia trattata lo ha spiegato con autorevolezza il relatore Nico D’Ascola del Ncd (avvocato, autore di pubblicazioni sul falso in bilancio). Dopo la sostanziale depenalizzazione del 2001 (governo Berlusconi), si torna dunque alla pena da 3 a 8 anni nel caso delle società quotate. Ma sarà reato di pericolo anche per le società non quotate (pena da 1 a 5 anni), salvo, però, i casi in cui il giudice riconosce i fatti di lieve entità (1-3 anni) e quelli in cui scatta la particolare tenuità del fatto e dunque la non punibilità. La prossima settimana, ricorda la presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti (Pd), «siamo pronti all’“uno-due”: falso in bilancio al Senato, allungamento dei tempi di prescrizione alla Camera». Il non detto del pacchetto giustizia però, ora più che mai riguarda il nodo della riforma delle intercettazioni telefoniche, che il caso Lupi ha riportato tra i dossier all’attenzione del governo. E qualcosa di concreto si muove anche sul fronte del processo civile: il ministro Andrea Orlando ha annunciato che verranno spesi 10 milioni di euro per incentivare la conciliazione e altre procedure alternative al processo attingendo personale dalle graduatorie dell’Ice. 28 Tutto rinviato per l’elezione dei due giudici costituzionali mancanti. Ancora fumata nera e tutto lascia pensare che la partita della Consulta si concluderà solo a luglio quando scade anche il mandato del giudice Paolo Maria Napolitano. Allora ci saranno tre giudici da eleggere dal Parlamento diviso in tre blocchi (Pd, FI, M5S) . Dino Martirano del 20/03/15, pag. 3 (Roma) «Mafie, c’è poco tempo e molto da fare» Nuovo allarme del capo della Dda Michele Prestipino sulle infiltrazioni della criminalità a Roma e sul litorale Nel Lazio 88 clan: 35 di ’Ndrangheta, 16 di Cosa nostra, 29 di Camorra, 2 della Sacra corona unita e 6 autoctoni Si è detto e scritto delle «succursali» mafiose e delle loro alleanze, si è soppesato il potere economico degli ‘ndranghetisti che comprano locali e ristoranti in centro, si è lanciato l’allarme per le crescenti infiltrazioni camorristiche in appalti leciti e affari illeciti. E si è a lungo analizzato l’emergere di un fenomeno come Mafia Capitale e lo strapotere , anche violento, dei clan sul litorale. Eppure, la somma di tutto ciò fornisce un totale che ancora sorprende e ancora più inquieta: nel Lazio esistono 88 clan mafiosi, di cui 35 della ‘Ndrangheta, 16 di Cosa Nostra, 29 della Camorra, due della Sacra corona unita e sei autoctoni. Nel 2008 ne erano stati censiti 60. Il Lazio risulta la quinta regione per presenza mafiosa dopo Campania, Calabria, Sicilia e Puglia. Tutti fanno affari e mettono radici a Roma, dove la procura ha avviato da un paio d’anni una capillare azione di contrasto. Se la battaglia sia impari lo diranno gli anni a venire. Intanto, dal 2012 al 2014 nel Lazio risultano indagati per associazione di stampo mafioso 834 persone, mentre nel solo 2014, in provincia di Roma, è stato registrato un record dei sequestri che hanno sottratto ai boss 849 immobili, 593 beni mobili e 339 aziende per un valore di oltre un miliardo di euro. «Credo nessuno possa dire che esiste una porzione di territorio nel Lazio dove non c’è un problema genericamente malavitoso. Dobbiamo prendere atto di quanto ci sia da fare e del poco tempo che abbiamo per farlo», dice il procuratore aggiunto Michele Prestipino a capo della Dda romana, illustrando i dati del rapporto dell’Osservatorio per la Sicurezza e la Legalità. Giampiero Cioffredi, che come presidente dell’Osservatorio ha curato il rapporto si dice «sconvolto» dai dati, che potrebbero essere addirittura sottostimati per mancanza - al momento - di riscontri investigativi. «Roma è un laboratorio criminale». «Abbiamo accolto l’inchiesta Mafia Capitale come un elemento di liberazione e di rigenerazione democratica possibile, non bisogna essere complici o omertosi», dice il Governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che loda «l’azione di contrasto avviata dalla procura». Sul nuovo «caso Ostia» (le dimissioni del presidente del Municipio Andrea Tassone), si sofferma l’assessore capitolino alla Legalità, Alfonso Sabella: «In certe situazioni la politica locale non basta, serve un supporto da tutte le istituzioni». «Dove c’è un corrotto c’è anche un corruttore che spesso appartiene ai sistemi d’impresa. Ma Unindustria è qui per fare la sua parte», assicura invece Attilio Tranquilli, vicepresidente dell’Unione industriali, che con Confindustria ha firmato un «protocollo per la legalità». E prendono posizione anche i sindacati: «Bisogna combattere seriamente l’evasione e la corruzione che alimentano il mercato dell’illegalità», è la ricetta di Claudio Di Berardino, segretario generale della Cgil di Roma e Lazio. 29 La battaglia è solo all’inizio. Fulvio Fiano del 20/03/15, pag. 9 di Alessio Schiesari SEMESTRE UE, LA SOLITA ITALIA: NIENTE GARE, SI FA TRA AMICI UN SOLO BANDO SU 58 CONTRATTI STIPULATI NEI SEI MESI DI PRESIDENZA PER IL RESTO SONO AFFIDAMENTI DIRETTI E CONSULENZE AI PENSIONATI Cinquantotto contratti e una sola gara d’appalto, quella per l’unica fornitura gratuita. È questo il bilancio dei lavori commissionati dal ministero degli Esteri per il Semestre italiano di presidenza Ue, finito i il 31 dicembre scorso. Ben 52 contratti su 58 sono stati concessi con affidamento diretto (i restanti con convenzione). Il ministero decide chi invitare a presentare l’offerta e, sulla base di una ristretta rosa di partecipanti, affida la fornitura, senza gara di appalto. SE DAL PUNTO DI VISTA politico il bilancio della presidenza è stato piuttosto magro, quello relativo all’organizzazione è invece positivo, almeno per le aziende che sono state scelte, a totale discrezione del ministero, per le forniture. Il catering a Roma, ad esempio, è stato monopolizzato da Triumph group: cinque appalti per un valore totale di 1 milione 7. 692 euro. Il nome della presidente Maria Criscuolo è balzato alle cronache nel settembre di due anni fa, quando decise di celebrare in modo speciale il suo compleanno. Fece aprire il Mitreo all’interno delle Terme di Caracalla a Roma, uno spazio inaccessibile ai comuni mortali, per festeggiare il lieto evento insieme a una nutrita rappresentanza del governo Monti (Elsa Fornero, Filippo Patroni Griffi e la moglie dell’allora premier, Elsa Monti). Ai sorrisi di Triumph corrisponde la delusione di Relais le Jardin, l’azienda del genero di Gianni Letta, altra sempre presente quando a decidere chi lavora è la politica. Per loro un solo appalto da 52. 853 euro. Ma il Semestre italiano sarà ricordato soprattutto per le cravatte e i foulard di seta, di rigorosa “produzione italiana” precisa il ministero. Per il dono ufficiale del Semestre sono stati spesi un milione 336 mila euro scaglionati in tre affidamenti diversi, anche se, specifica la Farnesina, uno dei tre lotti era comprensivo anche di “matite legno / grafite” e “penne biro in materiale plastico riciclato”. Il più piccolo dei tre contratti, quello da 68. 680 euro, è stato affidato alla Sve. ti. a. di Maurizio Talarico, lo stesso che vestiva Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Va dato merito alla Farnesina di non avere inseguito un evento faraonico: in totale per il Semestre sono stati spesi 30, 24 milioni di euro, meno dei 34 stanziati dal governo Berlusconi nel 2003 e, soprattutto, una cifra considerevolmente inferiore ai 56 previsti dalla legge di Stabilità. Le buone notizie però si fermano alla spending review, perché organizzare un evento del genere utilizzando le gare d’appalto solo per selezionare lo sponsor (ha vinto Fiat, che ha messo a disposizione quaranta 500 L, una Panda e nove Ducato), è quantomeno singolare. Per evitare la procedura standard, quella che consentirebbe a tutti i soggetti interessati di concorrere alla fornitura, la legge (il decreto 163 del 2006) prevede tre fattispecie: si può realizzare un affidamento diretto quando in una precedente gara d’appalto non è stata presentata alcuna offerta, per ragioni artistiche o tecniche, quando vi è un’estrema urgenza. Per il ministero degli Esteri il massiccio 30 ricorso agli affidamenti diretti è stato giustificato proprio dall’urgenza dell’evento, che ha colto di sorpresa il governo nonostante fosse in programma da un decennio. “Il tempo restante fra il momento dell’effettiva disponibilità dei fondi 2014 (fine gennaio) e l’inizio delle attività del Semestre rendeva difficile adottare procedure aperte o ristrette con previa pubblicazione di bando di gara. Il ricorso alla procedura negoziata ha consentito di rispettare i tempi imposti dal calendario”. Tradotto dal burocratichese, i soldi sono arrivati tardi. Non va meglio sul fronte delle consulenze. Nonostante gli oltre 400 diplomatici in servizio a Roma, la Farnesina ha speso 213. 935 euro per quattro consulenze, tutte assegnate ad ambasciatori in pensione. La più corposa, 90. 936 euro per il cerimoniale, è stata affidata a Leonardo Visconti di Modrone. Un esperto che sulla materia ha pubblicato Consuetudini di Cerimoniale Diplomatico. E, a proposito di nomi che ritornano, il tomo è edito dalla Tipolitografia Vitaliano Calenne, che per il Semestre ha ricevuto un affidamento diretto da oltre 339 mila euro. Un’altra consulenza da 41 mila euro è andata all’ambasciatore in pensione Gianpaolo Arpe-sella per coordinare i responsabili all’accoglienza: 75 contratti a termine costati oltre 969 mila euro. E, anche loro, selezionati senza concorso pubblico. 31 WELFARE E SOCIETA’ del 20/03/15, pag. VI (Roma) Povertà, l’allarme della Caritas “Il 2014 l’anno più duro” Tutti i numeri dell’accoglienza Quasi 350mila pasti, 200mila pernottamenti in ostello. Il caso dei malati di tumore Record di italiani all’Emporio e nei centri ascolto. Straniero il 13% degli assistenti ANNA RITA CILLIS LA CRISI a Roma non sembra allontanarsi. Lo dice chiaramente monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas diocesana, l’organismo pastorale fondato da don Luigi Di Liegro: «C’è un malessere profondo e costante e purtroppo noi lo tocchiamo con mano tutti i giorni: dal nostro osservatorio non si vede alcuna ripresa ». E a rafforzare le sue parole c’è anche il dossier “Caritas in cifre”. Numeri riferiti al 2014 che si trasformano in una cartina di tornasole della nuova povertà nella Capitale. E che rivelano come siano aumentati il numero dei pasti offerti dalle mense (348mila per oltre 11mila persone) e le prestazioni sanitarie del poliambulatorio sociale: oltre 15mila, e più di 2500 i pazienti visitati per la prima volta. Un’attività ampia di aiuto ai più bisognosi che si dispiega in una città ancora duramente colpita. MENSE E SANITÀ SOCIALE Oltre 348mila i pasti distribuiti, 186mila i pernottamenti offerti, 15mila le prestazioni sanitarie erogate e 10mila visite domiciliari fatte a famiglie e anziani. È la fotografia dell’attività svolta dalle parrocchie romane. Feroci precisa: «Nei nostri empori della solidarietà, ogni mese centinaia di famiglie vengono a prendere generi alimentari. Ma abbiamo la sensazione che sia una povertà nascosta, che non si vede ma si tocca solo nei nostri centri». E i numeri gli danno ragione: 1.329 le famiglie (4.413 i componenti totali) che si sono rivolte ai tre empori della solidarietà per rifornirsi di beni primari, +16% rispetto al 2013. MALATI E SENZA FISSA DIMORA Negli ultimi mesi i centri di ascolto diocesani sono stati ripetutamente «contattati da assistenti sociali di strutture ospedaliere per essere supportati nelle dimissioni di pazienti senza fissa dimora ricoverati», spiegano dalla Caritas: per lo più si tratta di malati oncologici che una volta usciti dalle strutture sanitarie si ritrovano a vivere di nuovo in strada. Un fenomeno, purtroppo, in crescita. I VOLONTARI Un dato, ma questa volta positivo, è l’aumento «significativo», dice Feroci «del numero dei volontari stranieri, circa il 13 per cento» su un totale di 1800. LA SETTIMANA DELLA CARITÀ L’occasione per presentare i numeri del 2014 la offre l’annuncio della Settimana della carità che si aprirà domenica 22 e si chiuderà il 29: una serie di iniziative «di animazione sociale e preghiera per venire incontro ai bisogni di chi è in difficoltà», racconta il cardinale Agostino Vallini. E tra le iniziative più importanti spicca la colletta a favore delle famiglie cristiane che vivono in Iraq: «Per seimila di loro la chiesa di Roma assicurerà una Pasqua di solidarietà». FONDO E AZZERAMENTO DEBITI 32 Tra le novità presentate ieri anche due progetti sui quali la diocesi di Roma sta lavorando in vista del Giubileo straordinario. Il primo, che sarà presentato a ottobre, «ha l’obiettivo di sostenere le famiglie che si trovano in momentanea difficoltà per pagare le rate del mutuo o l’iscrizione all’università dei figli o le spese improvvise », spiegano dalla Caritas. Un fondo di solidarietà gestito dalle parrocchie. Il secondo è «che le municipalizzate di Roma azzerino le bollette nei confronti delle famiglie sovraindebita- te. Purtroppo dare generi alimentari non basta più, molti ci chiedono cifre esorbitanti per pagare le utenze domestiche, l’affitto o il mutuo. Ma aiutarli una volta sola non può bastare». IL GIUBILEO Un Anno Santo pensando agli ultimi: «Il Giubileo della misericordia sia un aprirsi agli ultimi, ai poveri e non un business. Roma non sarà solo la capitale d’Italia, ma del mondo», è l’appello di Feroci che aggiunge: «Si sono fatti subito tavoli per gestire i pellegrini, ma vorremmo che si facessero tavoli per gestire i poveri di Roma. Ci sono 67mila persone che dormono per strada. La prima misericordia dovrebbe essere per loro che hanno diritto ad una casa e servono tavoli anche per questo». del 20/03/15, pag. 9 di Paola Zanca Disabili, lo Stato non assume e non paga PERFINO GLI ENTI LOCALI NON RISPETTANO LE ASSUNZIONI OBBLIGATORIE. E LE SANZIONI RESTANO SULLA CARTA Mi domando: ma la ministra Madia che sta facendo? Dorme in piedi?”. La deputata Pd Ileana Argentin questa mattina aspetta al varco, piuttosto sveglia, lei e il ministro Poletti nell’aula della Camera. Ha da rivolgere ai titolari del Lavoro e della Pubblica amministrazione un paio di domande apparentemente semplicissime: “Quanti sono i disabili assunti nelle amministrazioni centrali dello Stato? Quanti negli Enti locali?”. I numeri che nessuno sa e la legge inapplicata Eppure la risposta non dev’essere così immediata se c’è stato bisogno di presentare un’interpellanza urgente per acquisire dati impossibili da reperire. “I ministeri non rispondono – spiega la Argentin – sono proprio curiosa di sapere cosa mi diranno oggi dal governo”. La richiesta della deputata democratica, per la verità, vuole solo fotografare una situazione che lei conosce già benissimo. Ovvero quella della legge 68 del 1999 che ha istituito le assunzioni obbligatorie per i disabili e altre categorie protette: buchi di centinaia e centinaia di posti di lavoro, iscrizioni agli uffici di collocamento che restano senza risposta e – come se non bastasse – altrettante sanzioni per inadempienze che nessuno paga. La Argentin lo sa perché si è messa a scavare, prima di tutto negli uffici del Comune di Roma. E lì ha scoperto che quella legge di sedici anni fa è ancora troppe volte inapplicata. Mafia Capitale e le cooperative congelate A far precipitare la situazione, nelle ultime settimane, ci si è messa Mafia Capitale: se molti lavoratori disabili – come consente la legge – erano assunti attraverso cooperative sociali, ora che il mondo dell’associazionismo è stato messo nel congelatore in attesa di fare chiarezza sulla rete di Buzzi e Carminati, tantissimi si sono ritrovati in mezzo a una strada. È così che le falle dell’applicazione della legge 68 sono venute a galla. “Il sindaco Marino – dice ancora la Argentin – che è il ‘ sindaco dei diritti’, che fa?”. 33 Le multe non pagate e i 700 mila fuori dal mercato I dati forniti dal Campidoglio parlano di una carenza di circa 300 lavoratori (259 per i disabili e 11 per le categorie protette) seppure dall’amministrazione arrivino notizie di prossime assunzioni. Ma quello che più indigna la parlamentare Pd è che non vengano applicate le “sanzioni penali, amministrative e disciplinari” previste dalla legge: “Ti vuoi prendere la responsabilità di non assumere? Però almeno paga le sanzioni!”, dice la Argentin, “non mi risulta che finora il Comune di Roma lo abbia mai fatto”. Che le multe restino scritte sulla carta, lo dice anche una relazione (il biennio in esame è 2012 / 2013) scritta dall’Isfol insieme al ministero del Lavoro: a fronte di 4600 autorizzazioni di esonero delle assunzioni (la legge prevede che le aziende pubbliche o private possano farlo, pena pagamento) in tutta Italia, nel 2013, ci sono state 182 sanzioni. La stessa indagine dice che il numero dei lavoratori disabili in cerca di occupazione sfiora i 700 mila l’anno. E al contrario, gli avviamenti al lavoro non arrivano nemmeno a 20 mila. E non si può dare solo la colpa alla crisi. Quando il posto c’è non si può entrare Racconta Gianluca Cantalini – 41 enne, tetraplegico a seguito di un incidente – che lui dall’ufficio di collocamento in questi anni qualche (rara) chiamata l’ha ricevuta. Ma più di una volta ha dovuto rinunciare all’opportunità: “Mi era impossibile entrare nell’edificio a causa delle barriere architettoniche”. Così si barcamena con i 285 euro di pensione di invalidità e i 490 euro dell’assegno di accompagno. “Ma io arrivo a dire che anche i ‘ privilegi ’ dei disabili devono finire – conclude la Argentin –. Perché dobbiamo vivere di pensione? Noi quelle pensioni non le vogliamo. Siamo persone produttive che vogliono trovare un lavoro, non perché sono in carrozzina ma perché hanno competenze e capacità”. 34 DIRITTI CIVILI del 20/03/15, pag. 1 Sorpresa, l’omosessualità non offende Matteo Bartocci Sentenza storica del tribunale di Roma. Querela per diffamazione per una copertina del 2012. La giudice Valeria Ciampelli ha assolto Norma Rangeri con formula piena: "Il fatto non sussiste". L'accostamento all'omosessualità non è (più) reato. E' la prima volta per la magistratura italiana Una causa di diffamazione che ci ha visto involontari protagonisti abbatte un muro della giurisprudenza e apre una breccia importante per i diritti civili. Fino a mercoledì scorso accostare una persona qualunque all’omosessualità è stato sempre giudicato di per sé — considerato il presunto sentire collettivo di questo paese — causa di discredito e pubblico ludibrio. E perciò senza eccezioni sempre diffamatorio. Una sentenza storica della giudice Valeria Ciampelli ha invece assolto il manifesto per il titolo «Matrimonio all’italiana» pubblicato nella copertina del 16 marzo 2012 che raccontava un’altra sentenza storica, ma della Cassazione, sul caso di due cittadini italiani sposati in Olanda ai quali veniva riconosciuto sì «il diritto a una vita familiare» ma vista l’assenza di una legge, in Italia quell’unione – legittima – era purtroppo priva di effetti giuridici. Una persona eterosessuale ritratta sul giornale si è sentita diffamata dall’accostamento e ha querelato la direttrice. Il tribunale di Roma, rompendo un tabù decennale, ha però dato ragione all’avvocato Marcello Marchesi, che ha difeso il manifesto (e i diritti di tutti), avvalendosi anche della testimonianza di Imma Battaglia, organizzatrice dell’iniziativa illustrata in quella copertina. Essere omosessuali non è un reato né un illecito. È una espressione libera e neutra della propria sessualità ed esservi accostati non può (più) essere considerato di per sé come un’offesa. Tantomeno in un giornale che si è sempre battuto contro le discriminazioni e per i diritti civili. La nostra assoluzione è stata piena: «Il fatto non sussiste». La sessualità è un diritto che la comunità intera ha il dovere di rispettare. Speriamo che ora cada anche l’ultimo tabù, il più grande, quello di un parlamento che da decenni resta muto e sordo a ciò che la società e la magistratura hanno ormai dimostrato di saper interpretare e accettare. del 20/03/15, pag. 36 QUEL PASSO LENTO SUI DIRITTI CIVILI PIERO IGNAZI IL PARLAMENTO francese ha appena adottato una legge sul fine vita attraverso una “sedazione profonda e continua” di malati in fase terminale che avevano lasciato precise indicazioni in merito. In Italia se ne parla da tempo ma nulla si muove. Il riformismo renziano sembra infatti procedere con due diverse velocità. Sul piano istituzionale e su alcuni aspetti socioeconomici esprime una forza propulsiva molto forte. Anzi, a volte si 35 muove a passo di carica, usando ogni accorgimento, dal canguro alla tagliola, pur di arrivare in tempi brevi alla approvazione. Sul piano dei diritti civili, invece, si sconta una certa sedentarietà. Il matrimonio omosessuale, le adozioni monoparentali, un effettivo diritto all’interruzione di gravidanza, il fine vita, la libera somministrazione della pillola del giorno dopo (Ru486) e di cinque giorni dopo (EllaOne), il diritto di cittadinanza rimangono indietro. Soprattutto non hanno centralità nel dibattito politico. Anche la questione del divorzio breve, approvato al Senato alcuni giorni fa, ha scontato una resistenza passiva al limite dell’ostruzionismo da parte degli stessi esponenti del partito della maggioranza pur di evitare uno snellimento radicale delle procedure. La componente cattolica del Pd si è imputata a “difendere la famiglia”, utilizzando una espressione che si pensava appannaggio della destra tartufesca, quella che sfilava in piazza durante il family day, nonostante tutti i leader del centrodestra fossero divorziati. In questi casi viene invocata la libertà di coscienza, come se i diritti civili fossero un problema soggetto alla sensibilità etica. Ovviamente si possono avere opinioni diverse ma non le si può utilizzare per limitare i diritti di chi la pensa diversamente e chiede riconoscimenti che non violano la libertà di nessuno. Il problema rimanda alla cultura politica prevalente nella classe politica nazionale e alla sua sintonia con l’opinione pubblica. Il caso Englaro fu una cartina di tornasole drammatica della distanza siderale che separava il “Paese legale da quello reale”, per usare una vecchia formula. In quella circostanza sembrava di essere tornati agli anni Settanta quando la Dc sfidava sicura e arrogante un tremebondo Pci sul referendum sul divorzio pensando di vivere in Paese ancora clericale. E invece, come allora, anche nella drammatica vicenda Englaro, la maggioranza degli italiani stava dalla parte di coloro che vennero definiti in pieno Parlamento “assassini”. Quelle punte esasperate ora non risuonano più ma la maggioranza di governo — anche, ma non solo, per la presenza dell’Ncd — non sembra intenzionata ad imprimere un passo svelto a questa agenda. È di pochi giorni fa la restrizione imposta all’assunzione della cosiddetta pillola dei cinque giorni: mentre la Commissione europea ha dato il via libera all’acquisto senza prescrizione medica, il nostro ministro della Salute ha imposto l’obbligo della ricetta «per evitare effetti collaterali ». Ottima precauzione, ma chissà perché negli altri Paesi non la considerino necessaria. Questo esempio, come gli altri ritardi — il 12 marzo il Parlamento europeo ha votato la relazione annuale sui diritti umani in cui si invitano tutti i Paesi, e quindi anche l’Italia, a riconoscere le unioni civili tra persone dello stesso sesso — dimostrano un perdurante deficit di cultura politica laica nel Parlamento. Del resto, il Pd non ha mai brillato per posizioni avanzate su questo terreno. Risente ancora del peso sulle ali depositato dalla tradizione cattolica, prudente e a volte neghittosa sul fronte dei diritti civili, soprattutto se connessi alla sfera della sessualità, e da quella comunista, anch’essa per lungo tempo estranea a questi temi. Così, è rimasto poco spazio per la promozione dei civil rights . Non per nulla sono i sindaci più sbilanciati verso posizioni laiche, da Ignazio Marino a Giuliano Pisapia, ad aver sfidato l’inerzia legislativa celebrando nozze gay (e incorrendo nei fulmini del ministro dell’Interno Angelino Alfano). Eppure, proprio la nuova classe dirigente oggi al timone del Pd, essendo, virtualmente, più in linea con la modernità e la postmodernità, non dovrebbe aver timori o remore ad aprire le finestre. In fondo, il presidente del Consiglio ha tenuto un profilo “laico”: non è corso in Vaticano appena nominato premier, non ha ostentato frequentazioni con prelati, non ha mai fatto riferimenti impropri alla religione. Abbandoni allora timidezze e imponga un altro ritmo a tutto il carnet dormiente dei diritti civili. 36 BENI COMUNI/AMBIENTE del 20/03/15, pag. 47 Il mondo è a rischio carestia Per la Nasa sarà la peggiore degli ultimi mille anni negli Usa. E ora in California razionano anche l’acqua nei ristoranti Siccità Quella grande sete che minaccia il Pianeta SILVIA BENCIVELLI UNA nuova Dust Bowl è in arrivo sulle Grandi Pianure. Stavolta non durerà un decennio, e non sarà come quella che John Steinbeck descriveva con le piogge leggere sulle “terre rosse e grigie dell’Oklahoma”, e le immense nuvole di polvere che si sollevavano dai campi. Stavolta, avverte il Nasa Goddard Institute di New York, la siccità potrebbe affliggere gli Stati Uniti per quasi mezzo secolo e sarà la peggiore degli ultimi mille anni. La causa: i cambiamenti climatici. L’unica soluzione: adattarsi. Cioè anche usare meno acqua per annaffiare, per lavare e lavarsi, e razionare perfino l’acqua nei ristoranti, come prevede una legge appena promulgata dallo stato della California, che stabilisce di servire la brocca in tavola solo su esplicita richiesta da parte del cliente. La siccità sarà dovuta alla combinazione di piogge sempre più scarse e di temperature sempre più alte, che fanno evaporare la poca acqua caduta al suolo. Nel caso americano le proiezioni sono state basate su 17 dei più recenti modelli climatici e sono spietate. Possono essere lette in rete nel primo numero della rivista open access dell’AAAS, “Science Advances”. Ma Benjamin Cook, prima firma dello studio, le riassume in una frase: “le future siccità rappresentano eventi che nessuno nella storia degli Stati Uniti d’America ha mai dovuto fronteggiare”. L’America centrale, infatti, è da sempre soggetta a lunghi periodi di siccità. Ma se le emissioni di gas serra continueranno a crescere al ritmo attuale, c’è una probabilità superiore all’80% di un evento senza precedenti sulle Grandi Pianure e nel Sudovest degli Stati Uniti, della durata di almeno 35 anni, tra il 2050 e il 2099. E se anche riuscissimo a ridurle, quella probabilità calerebbe al 60-70% sulle Grandi Pianure per rimanere intorno all’80% nel Sudovest. Cioè “anche negli scenari intermedi, vediamo un caldo secco che ci porta oltre le peggiori siccità del passato della regione”, conclude Cook. Il riferimento è alla cosiddetta Anomalia climatica medievale, un periodo di temperature molto alte tra l’800 e il 1300 d. C. A farne le spese furono gli indiani Anasazi, o Pueblo Ancestrali: un popolo originario degli attuali Utah, Colorado, Arizona e Nuovo Messico, che si è estinto lasciando poche tracce di sé. Quanto al resto del mondo, la musica non è diversa: “lo Working Group II del quinto Rapporto di Valutazione dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) delle Nazioni Unite evidenzia i rischi regionali e punta il dito su diverse parti del pianeta”, sottolinea Sergio Castellari, del Centro Euro- Mediterraneo sui Cambia- menti Climatici (CMCC) e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). Allora è davvero il momento di adattarsi. Per esempio, “si tratta di studiare colture più tolleranti alla scarsità di acqua e sistemi di irrigazione più sostenibili, e soprattutto di stabilire priorità attente nell’uso delle risorse”, prosegue Castellari. È quello che è scritto anche nella nostra Strategia nazionale di adattamento, la cui stesura si è conclusa pochi mesi fa ed è stata coordinata da Castellari 37 stesso: “perché anche l’Italia è interessata, e potrà essere sempre più interessata, dal rischio siccità”. Non tutte le soluzioni sono però percorribili. In America, per esempio, le acque del Lago Mead e del Lago Powell, i più grandi bacini artificiali del Nordamerica, stanno registrando i livelli più bassi della storia. Per questo in California si è pensato a una soluzione in grande, e a una in piccolo. In piccolo, l’acqua dei giardini, delle lavatrici e dei ristoranti. In grande, si sta costruendo un immenso impianto di desalinizzazione delle acque di mare nella cittadina di Carlsbad. Sarà completato nel 2016 e costerà un miliardo di dollari. Ogni giorno succhierà 400 milioni di litri di acqua dall’Oceano Pacifico e restituirà 54 milioni di litri di acqua potabile. Cioè appena il 10% del fabbisogno della regione. Ma così sarà anche una delle sorgenti di acqua dolce più costose al mondo. Non solo: un desalinizzatore richiede grandissime quantità di energia per funzionare. E se è alimentato a combustibili fossili, diventa una di quelle attività umane che produce gas serra, che a sua volta è responsabile del riscaldamento globale. Nel dettaglio, l’impianto di Carlsbad consumerà più di 35 MW di elettricità (una potenza equivalente al consumo di trentamila case). Proprio per questo non è considerato dagli esperti una buona strategia. “L’adattamento deve integrarsi con la mitigazione”, chiosa Castellari. Cioè: adattarsi a un pianeta sempre più caldo lo si deve fare senza creare nuovi danni. Per i Pueblos ancestrali e per gli americani di John Steinbeck la siccità fu invincibile. Vediamo, adesso, che cosa sapremo fare noi. del 20/03/15, pag. 15 Energia. La Regione verso lo scongelamento delle esplorazioni di petrolio e gas: investimenti potenziali per cinque miliardi L’Emilia apre alle trivellazioni Marchesini: le attività di ricerca non hanno alcuna relazione con gli eventi sismici Investimenti potenziali per 5 miliardi di euro con ricadute occupazionali pari a oltre 35mila addetti. Riprende quota il “sogno” dell’industria degli idrocarburi in Emilia-Romagna, patria “storica” della scarsa produzione energetica nazionale che, comunque, “trova” lungo la via Emilia il 50% della quota nazionale di gas. La sfida che ora il mondo industriale propone è quella di realizzare un sistema di impresa perfettamente compatibile con l’ambiente e in grado di superare i timori che il recente evento sismico tra Modena, Ferrara e Bologna potesse aver avuto origine proprio dalle estrazioni di gas. Ora che la commissione Ichese, composta dai maggiori esperti del settore, ha fugato questo sospetto, riparte la progettualità. E il Rie - Ricerche industriali ed energetiche guidato da Alberto Clò, ex ministro dell’Industria e docente di Economia all’università di Bologna - sommando gli investimenti proposti dalle compagnie petrolifere per l’intero bacino adriatico, in cui l’Emilia-Romagna è indiscussa protagonista, calcola investimenti per circa 4,8 miliardi spalmati su una ventina di progetti che porterebbero al raddoppio della produzione di gas. Con un risparmio per la bolletta energetica di 2,6 miliardi l’anno, decine di migliaia di posti di lavoro ed entrate fiscali per 1,5 miliardi. Senza che a risentirne, come dimostrano i dati, siano né il settore turistico né quello agricolo e della pesca che da sempre “pacificamente” convivono in regione. Il nemico da battere a questo punto è il timore delle popolazioni spesso in rivolta contro le trivelle e a maggior ragione sospettose dopo che si attribuì agli emungimenti la causa del sisma. 38 «Oggi possiamo affermare - ha spiegato ieri Maurizio Marchesini, presidente di Confindustria Emilia-Romagna in occasione di un incontro sul tema “Territorio e idrocarburi” - sulla base degli studi svolti dopo il sisma dai maggiori esperti del settore, vale a dire la commissione Ichese, e, soprattutto, sulla base delle sperimentazioni svolte nel laboratorio di Cavone, che le attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi non hanno avuto né hanno alcuna relazione con gli eventi sismici. L’Italia ha bisogno di energia e infrastrutture e possiamo andare avanti senza cedere a facili allarmismi o posizioni di retroguardia». Inoltre, come ha spiegato Pietro Cavanna, presidente di AssominerariaIdrocarburi, «l’Emilia-Romagna in particolare è la dimostrazione della armoniosa convivenza tra i settori e soprattutto della potenzialità di sviluppo legata alle eccellenze industriali riconosciute a livello internazionale. È per questo che ci aspettiamo di poter operare per lo sviluppo e nel pieno rispetto della sicurezza e della tutela ambientale». Ora un ruolo importante lo giocherà la normativa regionale. Come ha spiegato Paola Gazzolo, assessore all’Ambiente della Regione Emilia-Romagna, «con la pubblicazione delle linee guida ministeriali, finirà per cessare lo stop a ogni attività di ricerca e coltivazione. Si tratta ora di far superare alla popolazione il timore dei rischi per la sicurezza». 39 CULTURA E SPETTACOLO del 20/03/15, pag. 14 Andrea Scanzi Fenomeno Zerocalcare, una matita da Strega “DIMENTICA IL MIO NOME” SARÀ AL PREMIO: IL GRAPHIC NOVEL SFIDA IL ROMANZO L a notizia di un graphic novel candidata allo Strega, Dimentica il mio nome (Bao Publishing) di Zerocalcare, può stupire – e addirittura indignare – soltanto chi in questi ultimi anni ha vissuto su Marte. Non c’è nulla di strano né di sacrilego: è semplicemente una candidatura giusta. Era già accaduto un anno fa, con Unastoria di Gipi (Coconino Press). I due autori sono stati i protagonisti di uno degli incontri più significativi della rassegna Libri come, lo scorso weekend all’Auditorium di Roma. La Sala Petrassi (700 posti) era piena. L’organizzatore, Marino Sinibaldi, aveva avuto l’idea abbastanza azzardata di un incontro senza reti: niente scaletta, niente moderatori. Il più terrorizzato era Zerocalcare, al secolo Michele Rech, 31 enne nato casualmente ad Arezzo ma romano di Rebibbia. Non un mattatore sul palcoscenico: timido, impacciato, fissava un punto imprecisato del palco e si perdeva in mille parentesi, affidandosi al collega alla sua destra. Ovvero Gipi, vero nome Gianni Paci-notti, 51 enne pisano, fresco reduce dal suo matrimonio: “Mi sono sposato ieri in Alto Adige e sono appena tornato, dopo che per tutta la cerimonia un gruppo di tedeschi alcolizzati ha tentato di possedere mia moglie”. PER I PRIMI dieci minuti l’incontro è stato un balbettio reciproco, poi la chiacchierata si è rivelata molto stimolante. Gipi regalava le sue battute malinconiche (ma esilaranti), Zerocalcare raccontava la sua eterna lotta con l’accettazione di una passione – il disegno – diventata ormai lavoro. Lavoro assai redditizio, perché nessuno ha mai venduto come lui in Italia. Non con il fumetto: nei primi tre mesi di vita, Dimentica il mio nome (uscito a ottobre) aveva già superato le 80 mila copie. Gipi non ha mancato di sottolinearlo: – con decenni di ritardo – che forse il fumetto non è un’arte di serie B. Un po ’ come il cantautorato, reputato fino a ieri la bruttissima copia della poesia. In Italia i disegnatori di qualità non sono mai mancati, tanto nel fumetto seriale (gli albi della Bonelli, ma anche il Lazarus Ledd del prematuramente scomparso e mai troppo lodato Ade Capone) quanto nei maestri riconosciuti (Crepax, Milo Manara, Andrea Pazienza). Proprio Pazienza è il punto di riferimento che meglio inquadra Gipi: all’autore pisano manca forse il taglio pienamente ironico – quello di Paz e Pert – ma dentro ogni sua tavola c’è tutto quel groviglio di dolore, inquietudine e follia che condusse Pazienza prima al genio e poi all’implosione. Anche di questo, di implosioni, Gipi si intende: ha cominciato a disegnare solo a 37 anni, dopo un’adolescenza da punk e rapporti conflittuali con la famiglia, innamorandosi di un libro – rubato 15 anni prima in treno – che gli ha insegnato a pensare “solo con la parte destra”. Aveva anche smesso di disegnare, dopo le prime avvisaglie di successo, incapace di gestire quella nuova realtà. C’è, nel suo sguardo e nelle sue pagine, una sorta di sofferenza incurabile. Le sue opere migliori, da La mia vita disegnata male a Unastoria, sono fortemente autobiografiche. Una cifra anche di Zerocalcare, che nel suo ultimo libro narra la storia della sua famiglia senza rinunciare ai sempiterni armadilli, cavalieri dello Zodiaco e personaggi di Street Fighter. Entrambi sono stati ospiti di Fazio e Bignardi, regalando alcune delle interviste migliori della stagione, ma non è solo con l’esposizione mediatica che si spiega questo (meritato) successo. È piuttosto 40 avvenuto, con consueto ritardo italico, che la graphic novel sia divenuta una delle arti più indicate per tratteggiare una contemporaneità schizofrenica. COSÌ COME Art Spiegelman seppe raccontare l’Olocausto con Maus (una delle opere preferite da Gipi) e Joe Sacco il martirio della striscia di Gaza in Palestina, Gipi e Zerocalcare fotografano questo presente deviato e schizoide, malato di ego (da qui l’autobiografia insistita) e di intolleranza (il reportage da Kobane di Zerocalcare, pubblicato su Internazionale, è pregevolissimo). A entrambi importa pochissimo di essere candidati allo Strega e di “contribuire al rilancio del fumetto italiano”. C’è da capirli: sono cani sciolti, artisticamente anarcoidi e in parte – soprattutto Zerocalcare – inconsapevoli del loro talento. Gipi è un Pazienza meno allegro e non meno macerato, Zerocalcare è un rapper del fumetto che neanche sa come nascano le sue rime (ma nascono bene). Entrambi oltremodo contemporanei, entrambi oltremodo preziosi. 41 ECONOMIA E LAVORO del 20/03/15, pag. I (ins. Sbilanciamo l’Europa) Workers act vs Jobs act Giulio Marcon La proposta. Nonostante l’ottimismo parolaio di Renzi, le stime del Def parlano chiaro: il Jobs Act inciderà sul Pil al massimo per lo 0,1%. Per ripartire ci sarebbe bisogno di una politica industriale, di contratti veri e di investimenti pubblici. Una riforma del lavoro per uscire dall’Ottocento 2.0 Una volta — per essere competitivi — si svalutava la moneta, oggi si svaluta il lavoro: meno diritti, meno tutele, meno retribuzione. Le politiche neoliberiste si sono basate in questi decenni su quattro pilastri: la riduzione della spesa pubblica e del ruolo dello Stato; le privatizzazioni e le liberazioni (a partire da quella della circolazione dei capitali); gli investimenti privati (il mercato) e la precarizzazione del mercato del lavoro. La riforma del mercato del lavoro è una di quelle riforme strutturali cui Renzi affida la speranza di rilanciare l’occupazione e l’economia. In realtà, come sappiamo tutti, in questi anni l’esistenza di oltre 45 forme di lavoro atipico non ha incoraggiato ad assumere di più, ma semplicemente a sostituire i contratti di lavoro con tutele con forme di lavoro precario, senza diritti. Non si sono creati posti di lavoro in più, ma solo più lavori precari. Nè queste riforme hanno avuto effetti salvifici sull’economia. Proprio nel Def si dice che l’impatto del Jobs Act sul Pil sarà minimo: non più dello 0,1%. Si tratta di previsioni; e quelle del governo in questi vent’anni sono sempre state troppo ottimistiche e poi inevitabilmente corrette al ribasso. L’assunto dal quale si parte è noto: bisogna mettere le imprese nelle condizioni di avere meno vincoli e costi possibile. E così potranno assumere. Solo che, probabilmente, i nuovi assunti saranno assai pochi: la maggior parte dei nuovi contratti saranno sostitutivi, cioè trasformeranno rapporti di lavoro pre-esistenti più gravosi in quelli più convenienti introdotti dalla legge di stabilità. Tutte le agevolazioni fiscali di questi anni, le imprese non le hanno utilizzate per fare investimenti nell’economia reale, ma in quella finanziaria e speculativa o per arrotondare i loro profitti. La realtà è che i governi occidentali di questi anni (e Renzi, oggi), rinunciano ad ogni politica pubblica attiva: non c’è una politica industriale, non c’è una politica degli investimenti pubblici (che in 20 anni si sono dimezzati), non c’è una politica del lavoro. Non c’è più una politica della domanda (di sostegno, programmazione, investimento), ma solo dell’offerta, dove — per quel che ci riguarda — non è più nemmeno offerta di lavoro, ma offerta di lavoratori alle condizioni più vantaggiose per le imprese. Nel frattempo gli ultimi dati Istat ci dicono che la situazione in Italia continua a peggiorare. E già questo dovrebbe indurre i governi ad un serio ripensamento delle politiche sin qui seguite. L’idea di lasciare al mercato la creazione di occupazione non funziona e non ha funzionato mai, se non per la produzione di posti di lavoro precari, effimeri, mal retribuiti, senza tutele. Ma quale sistema economico e produttivo può pensare di sopravvivere grazie ad una idea di lavoro così retriva e padronale? Altro che modernità, qui siamo al ritorno all’ottocento, anche se 2.0. Un lavoro senza qualità porta con sè una economia senza futuro. Senza un investimento nel lavoro (in termini di risorse, ma anche di formazione, di tutele, ecc.) non ci può essere alcuna economia di qualità, innovativa, capace di competere. Un’impresa 42 che si serve del lavoro usa e getta, non ha speranze, è di bassa qualità, dura poco: non ’è più impresa, ma solo business di piccolo cabotaggio (anche se magari di grande ritorno affaristico). Servirebbe invece una politica pubblica per il lavoro: una sorta di piano straordinario del lavoro fondato sugli investimenti pubblici per creare occupazione nella risposta alle grandi emergenze nazionali (lotta al dissesto idrogeologico, edilizia scolastica, piccole opere, ecc) e nelle frontiere delle nuove produzioni della cosiddetta Green Economy (mobilità sostenibile, energie pulite, ecc.). Servirebbe uno Stato che fosse attivo –indirettamente, ma anche direttamente– nella creazione di posti di lavoro, attraverso un’agenzia nazionale come quella (la Works Progress Administration) che fu creata da Franklin Delano Roosvelt durante il New Deal. E servirebbero degli investimenti pazienti (che danno riscontro sul medio periodo) in settori fondamentali per creare buona economia e buona occupazione: nell’innovazione e nella ricerca, nel settore formativo ed educativo e nella coesione sociale. E poi, bisognerebbe riprendere un discorso che oggi può sembrare in controtendenza (sicuramente rispetto alle politiche neoliberiste), ma quanto mai attuale e necessario: la riduzione dell’orario di lavoro. Se il lavoro è poco, bisogna fare in modo che il lavoro sia redistribuito il più possibile. Lasciare milioni di persone nella disoccupazione e nell’inattività è economicamente sbagliato, moralmente disumano e socialmente ingiusto e pericoloso. del 20/03/15, pag. III (ins. Sbilanciamo l’Europa) Nuove regole, così si trasforma il precariato Rachele Gonnelli Tendenze. Dai voucher agli stage pagati con ticket restaurant, così cambia il ricorso per legge al lavoro temporaneo Due settimane sono un tempo assai breve, ma i primi segnali dell’applicazione del primo decreto attuativo del Jobs Act non sono promettenti, a dispetto degli annunci. I nuovi licenziamenti facili senza art. 18 hanno provocato come primissimo effetto un’ondata di licenziamenti collettivi in uno dei settori più fragili del mercato del lavoro, che già aveva un costo del lavoro più basso degli altri e un’occupazione temporanea più alta: nei call-center Almaviva sono stati messi a rischio 7 mila posti di lavoro per poterli sostituire con nuove assunzioni meno tutelate. Ora Tito Boeri, dal suo nuovo seggio dell’Inps, dice che 76 mila aziende hanno fatto domanda a febbraio di accedere alla decontribuzione per le nuove assunzioni. Con meno enfasi la Fondazione Consulenti del Lavoro fa notare che nell’80% dei casi si tratta di regolarizzazioni di collaborazioni a progetto, partite Iva e altra varia precarietà e solo nel restante 20% di nuove assunzioni. È da notare che fino ad agosto l’80% delle nuove assunzioni erano stipulate con contratti atipici e solo un 15% a tempo indeterminato. La differenza è che ora il 100% è escluso dalla tutela dell’art. 18. Che dire poi della coppia di giovani coniugi che a Cagliari, con il contratto unico fresco di firma, è corsa in banca a stipulare un mutuo per la casa dei sogni. Hanno bussato a 11 istituti di credito, tedeschi, italiani e olandesi, ma nessun direttore ha dato loro credito, nel vero senso della parola. Non hanno creduto, in assenza di ulteriori garanzie fideiussorie, alla stabilità del loro reddito. Può darsi che la tendenza sarà invertita, che arriveranno le assunzioni di Melfi a rimpolpare il numero dei nuovi occupati, ma di certo questi segnali non sono dovuti a intrinseca cattiveria. Per agevolare le assunzioni con quello che dallo scorso 7 marzo si propone come il nuovo contratto standard, il governo, tramite la legge di Stabilità, ha messo sul tavolo un 43 pacchetto di decontribuzione che arriva ad un massimale di 8.060 euro a persona. Il bonus è alimentato anche dai 1,5 miliardi stanziati dal piano Youth Guarantee del Fondo sociale europeo, partito 10 mesi fa con valutazioni ottimistiche del ministro Poletti: avrebbe portato all’inserimento lavorativo di 900 mila giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano nel giro di 24 mesi. Secondo il centro studi Adapt fondato da Marco Biagi e diretto da Michele Tiraboschi, su un bacino potenziale di 2.254 mila giovani Neet, gli iscritti al piano sono soltanto 435.729. Il flop non si ferma qui. Solo il 48% degli iscritti ha ottenuto un primo colloquio di lavoro e solo l’8,1% ha avuto una qualche proposta di lavoro, spesso assolutamente generica e senza alcuna formazione o apprendistato. Del resto, per «avvicinare i giovani al lavoro», durante l’Expo si farà ampio ricorso a stage gratuiti o pagati con qualche ticket-restaurant. Per i non più tanto giovani e già specializzati invece si farà ampio uso di voucher, strumento che si delinea come nuovo salario d’ingresso. I buoni-lavoro, concepiti inizialmente come forma di emersione puntiforme del lavoro nero accessorio — baby-sittering e altri lavoretti — hanno avuto negli anni una progressione esponenziale. Non per perfida casualità ma perché il loro campo di applicazione è stato progressivamente esteso con 12 interventi regolativi in 11 anni di vita dello strumento. Ormai sono utilizzati in quasi ogni settore, dal turismo all’agricoltura stagionale, dalle aziende familiari alle imprese con fini di lucro e perfino nelle amministrazioni pubbliche e nei tribunali. Ogni ticket da 10 euro incorpora una minima contribuzione Inps e Inail e nelle indicazioni si riferisce a una paga oraria, ma il voucher è un pagamento a prestazione, perciò troppo spesso viene usato per pagare una attività giornaliera, non necessariamente di otto ore. Non prevede malattia o nessuna altra indennità, è una specie di gratta e vinci del lavoro, acquistabile e riscuotibile anche nelle tabaccherie autorizzate oltre che online grazie a una apposita carta Poste-pay. L’unico limite è il massimale, ampliato in tre anni da 3 mila a 5.060 euro e ora, nello schema di decreto attuativo, fino a 7 mila euro l’anno. La bozza di decreto vorrebbe renderlo più tracciabile, prevedendo la certificazione anagrafica e fiscale del lavoratore da parte dell’utilizzatore, senza ulteriori oneri incluso l’Irap, ed escluderne l’utilizzo negli appalti, dove si configurerebbe un dumping sociale, cioè concorrenza sleale, ma già c’è chi si oppone a queste regolamentazioni. Nel frattempo si sono perse le tracce del decreto che dovrebbe eliminare i cococo (sempre possibili tramite accordo aziendale) e sfoltire la giungla contrattuale di altre due tipologie, il job-sharing e il lavoro a somministrazione. Tra tagli all’Irap e decontribuzione fiscale pare manchino le coperture. Ora, se anche si avverassero le previsioni del ministero dell’Economia sugli effetti del Jobs Act, cioè circa 250 mila nuovi posti di lavoro standard l’anno per tre anni, è chiaro che sarebbe solo una goccia nel mare. In più, dal punto di vista di chi cerca un lavoro, dai tirocini gratuiti fino al punto d’arrivo del contratto unico a fantomatiche tutele crescenti, passando per i voucher, si vede solo una trappola infinita della precarietà legalizzata. del 20/03/15, pag. 21 Scontro tra la Bce e Roma “Siete in ritardo sul debito” la replica:“Opinione parziale” VALENTINA CONTE ROMA . Italia ancora bocciata sul fronte del debito pubblico. Lo «scostamento dallo sforzo strutturale richiesto dalla regola del debito», scrive la Bce nel bollettino economico diffuso ieri, è ancora «notevole». La regola «si rispetta anche se si fanno le riforme in modo 44 deciso», replica secco in mattinata il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Mentre il suo dicastero rincara in serata, definendo «quanto meno parziale» l’opinione della Bce secondo cui la correzione strutturale del deficit italiano sarebbe un mero effetto del calo dei pagamenti di interessi. Bollando come «informazioni imprecise» quelle del bollettino. E infine ribadendo che «l’Eurogruppo a dicembre non chiedeva misure aggiuntive». Polemica che si fa rovente, dunque. Per nulla stemperata dalle rassicurazioni del vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, che ripete di essere «al corrente delle critiche della Bce» e di continuare a monitorare paesi come Italia e Belgio. Ritenendo però non necessario aprire una procedura per deficit eccessivo, anche grazie allo sforzo fatto sulle riforme. Sforzo non del tutto sufficiente per l’istituto di Francoforte che anzi bacchetta il ritmo «piuttosto lento» della loro attuazione nell’Eurozona, ostacolo per una ripresa «più robusta», inadatto a contrastare «la gravità degli squilibri» che al contrario «sta aumentando in diversi paesi», e in maniera «preoccupante». Come appunto avviene per l’Italia. Il messaggio recapitato al governo Renzi è chiaro. Con un debito così alto e la scampata procedura (sconto non del tutto condiviso dalla Bce), occorrono altre spinte all’economia, benché la ripresa sia alle porte. «L’Italia necessita di ulteriori riforme strutturali per accrescere il prodotto potenziale », scrive la Bce. Riforme «significative», portate completamente a termine, come nuovi interventi nel mercato del lavoro e nel campo delle liberalizzazioni che spingerebbero il Pil italiano di «oltre il 10% nel lungo periodo». Più in generale, la Bce rivede al rialzo le stime sul Pil dell’area euro (+1,5% quest’anno), grazie al calo del petrolio, all’indebolimento dell’euro e all’impatto del quantitative easing, il programma di acquisto di titoli messo in campo da qualche giorno. Sonoramente bocciato però ieri dall’agenzia di rating Standard & Poor’s. Perché «può essere controproducente nel lungo periodo, se porta la politica a cullarsi negli allori, mettendo sotto ulteriore pressione i rating sovrani». del 20/03/15, pag. 29 Oltre la metà sono studenti, tanti giovani laureati, qualche professionista Hanno risposto in massa all’appello e, dopo un test di prova, in felpa e cappellino andranno tra i padiglioni “Un capitale umano per il futuro”. I sindacati hanno siglato un accordo ad hoc che però non piace alla Fiom Expo, l’esercito dei volontari in 17mila pronti a lavorare gratis “Ma non chiamateci schiavi” MATTEO PUCCIARELLI MILANO . Ci sono dei bandi ai quali iscriversi, poi si fa un “colloquio di orientamento” con un team che esamina i candidati. A chi passa la selezione e il “test di verifica” viene assegnato un periodo di servizio di 15 giorni più eventuali altri 15, e una volta partiti alle squadre verranno assegnati dei turni da 5 ore e mezzo l’uno. Ma non si tratta di un lavoro vero e proprio, cioè pagato, anche se procedura e terminologie sono quelle tipiche da ufficio di collocamento o agenzia interinale: è tutta la macchina che si è messa in moto per dotare 45 Expo dei volontari che «faciliteranno la permanenza dei visitatori nell’intero sito espositivo» (7.500 “posti disponibili”). Ad oggi all’appello della società Expo Spa hanno risposto in 15.829: età media 27 anni, due terzi sono italiani (in testa i lombardi, poi piemontesi, siciliani, emiliani e campani), il 62 per cento sono studenti, il 40 per cento hanno già una laurea in tasca. Vanno aggiunti i mille volontari richiesti dal padiglione dell’Unione Europea, e lì bisogna avere un’età compresa tra i 18 e i 30 anni (oltre a saper parlare un buon inglese). In casa Ciessevi, il Centro servizi per il volontariato che gestisce l’attività di “intercettazione, orientamento e matching”, si va dritti al punto: «Le polemiche sono un po’ futili — dice il presidente milanese Ivan Nissoli — queste persone sono dei volontari a tutti gli effetti e vogliamo che vivano così questa bella esperienza. Si sta formando un “capitale volontariato” sotto i nostri occhi che ci fa guardare al futuro con fiducia». Jenny Rizzo ha 34 anni e viene dalla Brianza. Ha fatto il corso online, «moduli dove si va dalla storia delle esposizioni universali alle misure di sicurezza da adottare ». Sarà sul decumano della fiera prima a maggio e poi a ottobre. Dice di avere «il volontariato nel Dna, in passato l’ho fatto nelle carceri». Qui però sarebbe un evento dalla natura più commerciale che sociale, «ma io non guardo quell’aspetto, voglio cogliere un’opportunità; certi discorsi non li considero, ognuno è libero di scegliere cosa fare, poi ho già un lavoro». E però no, non prenderà le ferie per i 30 giorni da volontaria, «sono una libera professionista». Alessio Quaglieri, 25 anni, parla di una esperienza «che comunque mi farà curriculum, arricchirà la mia formazione. Insomma, non chiamateci schiavi, non lo siamo ». Il regolamento del bravo volontario prevede norme base da seguire — ad esempio presentarsi all’inizio del turno con 10 minuti di anticipo o accettare i controlli della sicurezza all’entrata — e anche qualche diritto minimo, tipo poter rimanere dentro la fiera anche alla fine del turno, un buono pasto, un’assicurazione, il rimborso delle spese di trasporto in città, la divisa (felpa, cerata, zaino, cappellino e prontuario) più il regalone finale: un tablet. Ci si prende un impegno formale, ma se una mattina non ti presenti sul posto di lavoro-volontariato «nessuno potrà dirti nulla, ci mancherebbe », garantiscono gli organizzatori. A chi viene da fuori Lombardia verrà rimborsato il viaggio fino a un massimo di 100 euro e garantita l’ospitalità in strutture ricettive milanesi; ma «in un’ottica di condivisione e accoglienza, ogni volontario, anche attraverso i propri amici e familiari, potrà ospitare altri volontari che, come lui, parteciperanno all’evento internazionale». Anna, una delle orientatrici che valutano i partecipanti ai bandi, spiega che «a noi interessa la motivazione: deve essere quella di condividere con gli altri e saper lavorare in gruppo». E anche se tecnicamente si parla di volontariato la parola “lavoro” scappa sempre. Cgil, Cisl e Uil hanno firmato un accordo ad hoc con Expo Spa, che tra l’altro prevede pure una specie di “moratoria degli scioperi” per i lavoratori del sito (quelli stipendiati) durante i sei mesi. Unica voce fuori dal coro, quella della Fiom. Che tiene il punto. «Il problema non è il volontariato — ragiona il segretario lombardo Mirco Rota — ma il sindacato che sottoscrive accordi di questo tipo. Per lavorare gratis non c’è mica bisogno di noi. Il nostro compito è garantire salario e diritti. Lavorassimo tutti gratis avremmo risolto il problema della disoccupazione...». Se per Ciessevi Expo è comunque un “bene comune”, per la Fiom il volontariato «è quando uno va a aiutare anziani, la parrocchia, il disabile: una Spa è una società a scopro di lucro, mica una confraternita. Allora se me lo chiede Bombassei alla Brembo, perché non fare volontariato lì? A Vittorio Sgarbi per Expo la Regione ha dato 1,9 milioni. Poi però a migliaia di persone si illustrano le magnifiche virtù del volontariato ». E quando tutto questo finirà, diatribe comprese, cosa resterà ai volontari? La risposta la dà direttamente il sito di Expo Spa: «Se i tuoi nuovi amici torneranno a casa in altri Paesi, 46 potrai continuare a restare in contatto con loro via Internet e magari andarli anche a trovare. O perché no, fare il volontario nel loro Paese al prossimo grande evento». 47