40˚ Anniversary Biography

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40˚ Anniversary Biography
40˚ Anniversary Biography
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ci siamo presi il tempo di ricordare il passato, prima di progettare il futuro
INDICE
Lettera Barbara Zucchi Frua
Lettera Marella Caramazza
Lettera Pasquale Gagliardi
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IL RACCONTO
1970-2010: Quarant'anni di una scuola
di management
Esperienza e Conoscenza: un capitale
da condividere
LA CRONOLOGIA
1970 – 1989
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L'autobiografia come esplorazione
Metodologia narrativa
1990 – 2000
2000 – 2010
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I VALORI SVELATI
La Squadra
Il Metodo
La Potenzialità
I Risultati
La Sostenibilità
L'integrità
Testimonianze
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barbara zucchi frua
presidenza
Cara Istud, quando, nel 1988, feci il mio ingresso nell’azienda di famiglia, una delle
poche cose che mi furono subito chiare ed evidenti era che fratelli e cugini, che già
operavano all’interno, dopo la classica gavetta nei reparti, erano transitati dal setaccio
ISTUD a fare il PFI (Programma di Formazione all’Imprenditorialità), base necessaria
ai primi passaggi di consegne in compiti gradualmente sempre più elevati.
Iniziai anch’io, da brava scolaretta, il mio percorso in azienda, dopo aver fatto una
tesi sui contratti di formazione lavoro, allora nascenti, al termine di un percorso di
laurea in Pedagogia all’Università degli Studi di Bologna.
Passano gli anni e, coerentemente coi miei studi, il percorso professionale
nell’azienda di famiglia si svolge all’interno della direzione del personale, dove mi
occupo di selezione, formazione e sviluppo. ISTUD diventa per me un fornitore; ci
si capisce bene, la comunicazione è sempre di alta qualità, sia per la competenza
nella didattica sia per la condivisione dei valori, importanti quando si tratta di
persone in azienda.
È il 2003 quando Giordano, lo zio, mi passa il testimone nel Consiglio di Indirizzo.
ISTUD S.p.A. si sta trasformando in Fondazione sotto la presidenza di Marco
Vitale, il quale, tenendo fede alla matrice umanistica che da sempre caratterizza
i programmi di ISTUD, prosegue quel percorso, iniziato negli anni 70, basato sulla
volontà di ricostruire e diffondere un modello di valori del management italiano
presente nella media e grande impresa italiana.
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È nelle riunioni di consiglio che apprezzo il difficile e paziente compito di Marella,
ISTUD è impegnata su questa strada con un forte senso di responsabilità; lo slogan
volto, da un lato, a gestire la quotidianità e, dall’altro, a mantenere alto il profilo
della Fondazione, “libera le potenzialità”, sottolinea la centralità della Conoscenza
intellettuale della Fondazione.
e della “opportunità” umanistica come elemento distintivo di un’organizzazione
Quando mi viene proposta la presidenza, ho la sensazione di non poter perdere
che apprende, e che si proietta nel futuro.
un’occasione di crescita personale importante, nonostante la complessità del periodo.
Sulla stessa strada, ISTUD sta coinvolgendo le migliori imprese e istituzioni del
La responsabilità è grande. Penso infatti che in un momento di decadenza così
Paese, con l’obiettivo di essere una scuola che pensa con le imprese e non solo per
evidente del nostro Paese, ISTUD possa e debba offrire un’opportunità a tutti
le imprese. È questo il senso profondo della missione che sento di dovere compiere
coloro che quotidianamente operano con onestà intellettuale e professionale,
come Presidente di ISTUD: riuscire a far convergere e aggregare gli interessi
con la consapevolezza che, sebbene oggi possa sembrare un progetto arduo e
di tutte quelle imprese che, come noi, credono nell’unicità e nella validità del
lontano, è nel nostro presente che prepariamo le sementi e il terreno su cui altri
modello di impresa italiano, oggi nascosto nella conoscenza tacita di imprenditori
lavoreranno in futuro.
e manager, e bisognoso di venire esplicitato e tramandato, senza paura di metterlo
in discussione quando necessario.
Oggi, più che in passato, la persona matura le sue opportunità professionali in base alla
propria capacità di continuo cambiamento e di sviluppo. Sono convinta che il senso
Così come per anni abbiamo considerato utile imparare dai libri e dalle esperienze
più profondo e innovativo della globalizzazione sia legato al potenziale di diffusione
anglosassoni, oggi riteniamo indispensabile chiederci quali siano le nostre
della Conoscenza collettiva, sociale, organizzativa, individuale e geografica.
competenze distintive e come le nostre esperienze possano aiutare la crescita delle
La fotografia di una yurta isolata con una parabola e un pannello solare mi fa capire
nostre imprese e della nostra classe dirigente. Innovazione, Internazionalizzazione,
quanto le barriere sociali, geografiche ed etniche siano state superate: la tecnologia
Sostenibilità, Conciliazione vita-lavoro: sono i quattro temi che i membri della
arriva ormai ovunque, e per questo le persone si distinguono per la capacità di
Fondazione ISTUD hanno scelto come agenda del 2011 e che saranno la nostra
approfittare di un contesto che permette loro un continuo apprendimento. Il
bussola in questo percorso di riflessione e azione.
contenuto è accessibile a tutti, la differenza la fa il contenitore. I modelli e i metodi
di sviluppo della conoscenza diventano cruciali.
Cara ISTUD: onesta, intelligente, intellettuale, flessibile, unita, forte, prospettica,
coraggiosa, viva, caparbia. Queste sono le dieci cose che mi vengono in mente
Provo disagio guardando il sistema scolastico del nostro Paese: contenuti profondi
quando penso a te.
collocati all’interno di un sistema di apprendimento drammaticamente superato.
Il fatto che la conoscenza della generazione Y passi attraverso paradigmi differenti
Grazie per esserci quotidianamente, con impegno e con passione.
è una realtà, non un futuro da ipotizzare.
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marella caramazza
direzione generale
Abbiamo deciso di scrivere un’autobiografia per festeggiare i quarant’anni
di ISTUD perché è il mezzo che più permette di raccontare i fatti, ma anche le
emozioni. La storia di noi tutti all’ISTUD è, infatti, un intreccio di fatti e di forti
emozioni. A me spetta il difficile compito di scrivere l’introduzione.
Questo compito mi spinge a ripensare alla mia vita professionale, spesa quasi
totalmente all’interno di questo luogo che mi ha dato tutto sul piano professionale
e che si è fortemente intrecciato con la mia vita personale.
Innanzitutto, mi ha fatta emigrare. A ventiquattro anni, appena laureata in Economia
a Palermo, ho iniziato un’avventura che dura ancora oggi. Emigrare significa
abbandonare ogni certezza, lasciarsi alle spalle ciò che fino a quel momento si
è costruito, anche le proprie relazioni, alla ricerca del nuovo. Richiede una certa
incoscienza, soprattutto quando, come nel mio caso, non si emigra per bisogno
ma per curiosità, per salire su uno di quei treni che, come si dice, devi prendere al
volo. In quel caso il treno era una borsa di studio per diventare assistente di ricerca
all’ISTUD, nell’area organizzazione.
Dal momento in cui sono approdata all’ISTUD, le cose sono cambiate rispetto a
quando vivevo a Palermo. L’asticella si è alzata, e di molto. Ho percepito subito
che la sfida era difficile, che ero capitata in un contesto rigoroso, esigente e
qualificato, in cui sarei potuta rimanere soltanto se fossi riuscita a emergere con
le mie caratteristiche, la mia preparazione e personalità. I colleghi provenivano
da diverse università di tutta Italia, ed erano tutti chiaramente bravissimi. I capi
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erano il meglio che il mondo della formazione e della consulenza italiana potesse
Le persone. Nei miei primi anni a Stresa, i giorni e i mesi sono trascorsi tra studio
offrire, e ISTUD era la culla della formazione di élite. L’avventura era cominciata.
e lavoro, le visite dei parenti e di qualche amico. Ma, soprattutto, le giornate con
gli altri borsisti, i miei compagni di allora. Con loro ho condiviso l’inizio della
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Luoghi e persone sono stati fattori condizionanti della mia vita e hanno il merito
nostra vita da grandi, ci siamo proiettati nella vita professionale, ci siamo sposati,
di avermi portata a essere ciò che sono oggi.
abbiamo avuto figli; da lì siamo partiti per traiettorie che oggi ci vedono in luoghi
I luoghi. Dal sole, dal caldo e dai colori accesi della Sicilia mi sono ritrovata al lago.
molto diversi, ma, nonostante questo, sono a loro affettuosamente grata per
Il lago era per me un luogo diverso, mai frequentato prima: era il Nord.
la compagnia e la solidarietà che ci siamo regalati a vicenda in quelle serate di
Lì, tutto era calmo e ordinato. Il lago regala, nelle diverse stagioni, emozioni a
potenziale solitudine.
cui non ero abituata né tantomeno preparata, io che provenivo dalla terra del
Alcune persone hanno dato particolare senso e sostanza ai miei primi passi
“sempre sopra i 15 gradi”. Nelle mattine d’inverno, il freddo e uno strato di ghiaccio
professionali. Le persone che mi hanno aiutata a credere in me stessa, a dare
sul parabrezza. E la primavera. Ho visto alberi di camelie, azalee, magnolie e
valore alle mie idee e a sentirmi progressivamente più adeguata a un contesto
rododendri: un trionfo di colori e natura che ti pare impossibile quando hai
professionale sfidante, che mi hanno inculcato i valori del lavoro al punto da non
sempre visto cactus e buganvillee. L’estate, da me poco vissuta per via del caldo
credere che possano esisterne altri meritevoli di essere seguiti. Quelle che mi
e dei nugoli di zanzare, è la stagione meno congeniale al lago, che sopporta il
hanno stimolata a studiare e a non fermarmi. Quelle che non mi hanno mai fatta
passare dei turisti e dei pullman e non aspetta altro che rivedere l’autunno, con
sentire sola. Me le ricordo tutte, ringraziandole per ciò che hanno fatto per me,
i suoi colori, le foglie che ingialliscono e poi cadono, la nebbia, le giornate che si
soprattutto Pasquale, croce e delizia dei miei primi anni lavorativi. A lui devo di
accorciano. Ho sempre pensato, anno dopo anno, che prima o poi sarei tornata
avermi reso la vita difficile e allo stesso tempo di aver creduto in me e nella mia
ai miei colori, al sole, al caldo, ma eccomi ancora qui, al lago, e non mi stanco di
capacità, un giorno, di potergli succedere.
ammirarne la bellezza. Nonostante il lavoro si svolgesse per la maggior parte a
La mia è una vita professionale fortunata, in cui le persone con cui lavorare hanno
Milano, non ho mai desiderato vivere in città. Vivere al lago è stata per me la scelta
sempre rappresentato un’élite intellettuale e umana di valore e di valori. I valori
logistica che ha sostenuto quella esistenziale: vivere lontano dalle mie origini.
che ci hanno guidati e che, in quest’autobiografia, nonostante tutti i cambiamenti
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vissuti, emergono in primo piano. Quei valori si sono mantenuti nel tempo. I miei
colleghi di oggi ne sono la rappresentazione vivente e ne perpetuano, giorno per
giorno, l’esistenza. Non tutti hanno questa fortuna. Grazie a queste persone, sono
ancora qui, e sono proprio io a scrivere l’introduzione a quest’autobiografia.
Sono passati quarant’anni dalla nascita di ISTUD. In questi anni, ISTUD è molto
cambiata ma, nello stesso tempo, ha mantenuto le sue radici. Come nella
storia della palma miracolosa, le intemperie dell’economia ci hanno portati a
cambiare e a chiederci sempre quale fosse la strada migliore, ad affrontare le
crisi, a cercare e scegliere nuove soluzioni senza perdere mai la strada maestra.
Abbiamo preso decisioni difficili, a volte impopolari, perdendo alcune parti di noi,
anche importanti, ma acquisendone altre, sempre con l’intenzione di far crescere
una cosa preziosa, un patrimonio che consideriamo di tutti, non solo di noi che
ci lavoriamo. Le persone che hanno in mano l’oggi e il domani dell’ISTUD sanno
che cambieremo ancora e sanno che lo faremo perché questo ci permetterà di
continuare a esistere così come vogliamo.
Ricordo sempre ciò che un giorno mi disse Gagliardi, poco prima di affidarmi la
conduzione dell’ISTUD: “Tu hai il senso della missione”. Credo che sia vero. Mi
ha sempre guidato la convinzione che ci fosse bisogno, in Italia, di un luogo in
cui pensiero e azione si mescolassero e si nutrissero a vicenda, in cui si potesse
davvero pensare in modo libero e indipendente a cos’era meglio per le imprese e
a come contribuire a creare nel nostro Paese un’élite sana, competente, capace
di guardare al futuro. Un futuro incerto ma che, proprio per questo, non va subìto,
ma piuttosto costruito. Mi ha sempre motivata la sensazione di partecipare da
protagonista a un’impresa importante che, nello stesso tempo, mi ha dato la
possibilità di realizzarmi anche come persona. I valori dell’ISTUD che emergono
da quest’autobiografia sono anche i miei. È questo che mi ha sempre fatto credere,
anche nei momenti più difficili, che ne valesse la pena.
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pasquale gagliardi
consigliere scientifico della fondazione istud e amministratore delegato fino al 2005
La storia dell’ISTUD coincide, in larga misura, con la mia storia personale e
professionale.
Sono responsabile di quello che l’ISTUD è stato e ha fatto per oltre un quarto di
secolo, perché ho goduto della piena fiducia delle istituzioni che vi hanno investito,
come soci o come clienti, e, insieme, della più ampia autonomia. E, se è vero
che la cultura di un’organizzazione ne condiziona la traiettoria evolutiva, sono
corresponsabile anche di quello che la scuola è diventata oggi. Mi sembra quindi
‘naturale’ che Marella Caramazza mi abbia chiesto di scrivere per questo libro,
ma è anche comprensibile un certo mio imbarazzo: qualunque riflessione rischia
di venire interpretata come rievocazione nostalgica, appropriazione indebita o
espressione di falsa modestia. Supero l’imbarazzo proponendomi di dire, in modo
schietto e diretto, cosa ho voluto che fosse l’ISTUD, quale visione abbia dettato la
funzione e plasmato la forma che l’Istituto ha preso gradualmente, e perché credo
che quel modello sia tuttora indiscutibilmente necessario alle imprese e al Paese.
Quando, nel 1977, divenni Direttore Generale, la scuola esisteva da sei anni e aveva già
esaurito il suo primo, breve ciclo di vita: le imprese che ne avevano accompagnato
entusiasticamente l’avvio, contando sul fatto che raggiungesse rapidamente
l’autosufficienza economica, si erano rifiutate di ripianarne le perdite, e solo un
intervento della Confindustria aveva impedito che essa chiudesse i battenti; il
primo nucleo di giovani docenti – che avevano avuto il privilegio di essere stati
formati sul campo dai più bei nomi della Harvard Business School – guardava
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con crescente interesse a più remunerativi impieghi nella consulenza direzionale.
Tutto era da inventare ex novo: la sede, l’immagine, lo staff, i programmi. Mi trovai
quindi nella felice situazione di creare la scuola che avevo in mente, con pochi
vincoli e quasi nessun precedente di cui tenere conto.
La mia guida fu un articolo di Herbert Simon1 che mi aveva profondamente colpito
qualche anno prima, additandomi la via d’uscita da un dilemma che mi ponevo
da tempo. Mi interessava la ricerca sulle organizzazioni e sul management, ma
l’istituzione deputata alla produzione di conoscenza – l’università – era, a quel
tempo, del tutto disinteressata alle scienze del management (alle quali non era
riconosciuta alcuna dignità accademica), e, più in generale, era poco interessata
alla trasferibilità, nella pratica, della conoscenza rilevante per il management
prodotta dall’università. A mio parere, binomi quali «teoria-pratica» o «pensieroazione» esprimevano – ed esprimono – opposizioni fondamentali utilizzate per
delimitare territori e sfere d’influenza e per strutturare relazioni tra diversi gruppi
sociali. La preferenza preconcetta per l’uno o l’altro dei poli dell’opposizione
caratterizzava rispettivamente la cultura dell’accademia e quella delle imprese,
1. Simon H.A., «The Business School: a Problem in Organizational Design», Journal of Management Studies, vol. 4
n.2, pp. 1-16, 1967.
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due culture «forti» che tolleravano a fatica tentativi di mediazione e tendevano
a riassorbire nella propria orbita (riconducendole alla propria logica) eventuali
realtà istituzionali caratterizzate debolmente.
La storia della prima fase di vita dell’ISTUD e quella dell’IPSOA – l’unico significativo
esperimento italiano di business school effettuato prima dell’ISTUD – documentavano
indiscutibilmente queste dinamiche: un’istituzione educativa «intermedia», che cerca
di funzionare da ‘ponte’ tra i due mondi, tende ad adottare – o è addirittura ‘costretta’
ad adottare – strategie che riflettono la scala di valori degli attori che controllano le
risorse dalle quali dipende la sopravvivenza dell’istituzione intermedia stessa. La
dipendenza dalle imprese induce ad affermare il primato della prassi, della ‘gestione
economicamente efficiente’, del ruolo subalterno e accessorio della ricerca: ma
rincorrere le pratiche esistenti implica la rinuncia a innovarle e persino a interpretarle,
cioè a razionalizzare e rendere trasferibile – nella misura del possibile – la conoscenza
«tacita» che esse incorporano; al contrario, se lo studio e l’educazione al management
erano promossi e sostenuti dall’università – come stava accadendo in altri paesi
dell’occidente industrializzato – prevaleva la convinzione che per accrescere il prestigio
di una scuola professionale bisognasse darle uno stampo accademico: a giudizio di
molti, questo induceva ad aumentare artificialmente il livello di «teoricità» dei piani di
studio (finendo per fare dell’educazione che non era né ‘generale’ né ‘professionale’) e
a considerare la ricerca applicata come ricerca di second’ordine.
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Per tutti questi motivi, Simon aveva sostenuto che le condizioni ideali per lo sviluppo
reputazione scientifica. Ma in Italia, in quegli anni, non avrebbe avuto senso cercare
e la diffusione della conoscenza manageriale possono essere create solo all’interno
un aggancio parallelo con le università, del tutto indifferenti – come si è detto, e a
di scuole superiori di formazione alla gestione (business school) concepite e
differenza di quanto stava accadendo in altri paesi industrializzati – alle scienze
strutturate in modo da funzionare come «istituzioni-ponte» tra l’accademia e il
del management. L’obiettivo divenne quindi quello d’inserirsi nella nascente
mondo delle imprese, ben radicate – attraverso specifici meccanismi connettivi –
comunità europea delle ‘scuole di management’, che si sforzavano di attribuire
nei due diversi sistemi sociali e di valore nei quali la conoscenza manageriale viene,
altrettanta importanza alla concezione di programmi di formazione innovativi e
rispettivamente, prodotta e utilizzata, ma autonome da entrambi. In altre parole,
alla formulazione di strategie di ricerca originali, e che sempre più frequentemente
Simon sosteneva che l’istituzionalizzazione della competenza manageriale (e,
competevano con le università attraverso l’istituzione di programmi di dottorato
di conseguenza, la professionalizzazione del management) potesse e dovesse
che prescindevano dalle articolazioni disciplinari tipiche del sapere accademico.
avvenire attraverso circuiti, organizzazioni e routine specifiche. In Italia prevaleva
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a quel tempo la convinzione, esplicita o implicita, che la competenza manageriale
I docenti dell’ISTUD non avevano alcun bisogno di essere incentivati a essere dei
potesse essere efficacemente trasferita attraverso due circuiti istituzionali già
bravi educatori: chi utilizza metodi attivi di insegnamento – che costituiscono la
esistenti: le aziende (e quel particolare «indotto» che è il settore della consulenza
norma nelle scuole di management che si rifanno alla tradizione ‘ortodossa’ della
direzionale, che era entrato a piedi uniti nel mercato della formazione dei dirigenti)
Harvard Business School – riceve quotidianamente dalla classe riscontri e reazioni
o l’università. La strada additata da Simon era invece quella che era stata seguita
che lo sollecitano ad aggiustare il tiro e a migliorare la performance. E l’ISTUD, nel
negli Stati Uniti sin dall’inizio del Novecento, e a quel modello erano generalmente
suo complesso, era sistematicamente rassicurato sulla rispondenza dei suoi servizi
ispirate le strategie di sviluppo dell’istruzione professionale superiore di altri
alle aspettative delle aziende, nella misura in cui queste continuavano a utilizzarli.
grandi paesi europei (l’Inghilterra e la Francia, in particolare).
Al contrario, la ricerca doveva essere specificamente incentivata – attraverso
Fin dall’origine, l’ISTUD aveva ottenuto, e ancora conservava, un alto livello
progetti specifici programmati e controllati, alla stregua dei corsi e dei seminari – se
di legittimazione nei confronti del mondo delle imprese – che ne utilizzavano
non si voleva che fosse relegata al fondo della scala delle priorità; allo stesso modo,
regolarmente i servizi – ma non aveva pressoché alcuna legittimazione o
la formazione personale dei docenti doveva essere assicurata da seminari interni che
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non producevano ricavi, e i docenti dovevano essere spinti a inserirsi nelle comunità
simbolica: essa offre oggetti e occasioni di identificazione e di sostegno emotivo a
‘scientifiche’ che raggruppavano i docenti di management per aree di ricerca e di
una comunità professionale che non ha ancora conquistato lo spazio e la dignità che
insegnamento, partecipando alla vita della comunità – attraverso scambi di varia
ad essa competono in un paese moderno”2.
natura e progetti transnazionali condivisi di studio e di educazione – e contribuendo
ai convegni di area con la presentazione di paper originali.
Queste considerazioni sono ancora drammaticamente attuali, sia perché il
nostro Paese non ha ancora sviluppato un sistema di educazione manageriale
In tutti gli anni in cui ho avuto la responsabilità dell’ISTUD, qualunque fosse la
sufficientemente esteso, incisivo e articolato, sia perché i radicali cambiamenti
congiuntura economica del momento, la strategia è stata sempre quella di tenere viva
intervenuti nell’economia, nella scienza e nelle culture del pianeta esigono la
la tensione tra la produzione di conoscenza (sui problemi che i manager dovevano
costante ridefinizione sia degli standard tecnici sia (e forse soprattutto) di un’etica
affrontare e sui metodi che consentono di diagnosticarli e affrontarli correttamente)
professionale per tutti coloro che hanno responsabilità di gestione, nelle aziende
e il suo trasferimento nella pratica manageriale. E il tratto forse più significativo
private e nelle amministrazioni pubbliche, che restano ‘labirinti morali’ o forse lo
della ‘cultura distintiva’ dell’ISTUD – costruita negli anni, con la partecipazione
diventano inesorabilmente sempre di più3. Anche se da molto tempo non mi occupo
appassionata di tutti coloro che vi hanno lavorato – è stato, e credo sia tuttora, la
direttamente di formazione manageriale, continuo a seguire quello che accade nel
volontà di contribuire alla professionalizzazione del management italiano, nella piena
mondo che mi era stato così a lungo familiare. E anche guardandolo più da lontano,
consapevolezza che questo processo esige la definizione di standard sia tecnici che
vedo che l’ISTUD conserva i valori e lo slancio che ne hanno contraddistinto il
etici – in base ai quali le modalità di svolgimento del compito sono considerate non
cammino: la rosa dei venti della sua cultura lo pone ancora al crocicchio tra le due
solo appropriate o inappropriate, ma anche lecite o illecite, moralmente apprezzabili
polarità fondamentali, il pensiero e l’azione, la tecnica e l’etica.
o disprezzabili – tendenzialmente condivisi dai membri della comunità manageriale
La sua funzione è più che mai attuale, il suo spazio d’azione si è accresciuto.
e rispettati dal resto della società. Come scrissi molti anni fa, “… un professionista
Come le sue responsabilità.
non è solo una persona dotata di particolari conoscenze e capacità, ma anche un
«tipo» sociale portatore di determinati ideali. Formare un manager, pertanto, vuol dire
non solo trasferirgli le conoscenze rilevanti e svilupparne le competenze distintive,
ma anche socializzarlo a una «cultura» che […] è relativamente estranea alle nostre
tradizioni. La formalizzazione della formazione manageriale in istituzioni specifiche,
al di là della sua funzione strumentale, ha un’importante funzione espressiva e
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2. Gagliardi P., Natura, statuto e istituzionalizzazione della conoscenza sulle organizzazioni e sul management, in
Cultura dello sviluppo e politica delle risorse umane, a cura di Confindustria, Roma:SIPI, 1993. Questo saggio è stato
recentemente ripubblicato in Gagliardi P., Il gusto dell’organizzazione. Estetica, conoscenza, management. Guerini &
Associati, Milano, 2001.
3. Jackall R., Labirinti morali, Edizioni di Comunità, Torino, 2001.
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hanno raccontato la fondazione
chi ha partecipato all'autobiografia
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Daniele Boldizzoni
Luca Magni
Fiorella Nahum
Giancarlo Bonghi
Paola Marchionini
Antonio Nastri
Cristina Godio
Alberto Melgrati
Luigi Reale
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esperienza e conoscenza :
un capitale da condividere
Il racconto è una
delle grandi
categorie della
conoscenza che
utilizziamo per
comprendere e
ordinare il
mondo.
Roland Barthes
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Questo libro celebra i quarant’anni
di una scuola di management.
Era l’8 gennaio del 1970 quando
L’ISTUD, Istituto di Studi Direzionali,
compariva sul mercato della
formazione manageriale italiana.
La prima sede si trovava al Sacro
Monte di Varese e la Faculty contava
alcuni docenti della Harvard
Business School.
Da allora sono passati quattro
decenni, lunghi anni durante i
quali la storia economica, sociale
e culturale italiana ha vissuto una
profonda evoluzione, attraverso la
rivoluzione culturale degli anni 70
e l’incubo del terrorismo, gli anni
80 e Tangentopoli, la Democrazia
Cristiana e il fenomeno Berlusconi.
In questi quarant’anni, il panorama
economico e l’idea stessa di
impresa e di manager sono
cambiati: alle piccole, medie e
grandi imprese familiari e di Stato
si sono aggiunte, a volte sostituite,
le multinazionali e le corporation. E
i dirigenti (coloro che comandano
e dirigono) sono diventati manager
(coloro che guidano e gestiscono).
Da quattro decenni, ISTUD si
occupa di loro.
Ne ha formati oltre cinquantamila.
Lo ha fatto con un approccio e
con valori di riferimento distintivi
rispetto al panorama delle
altre business school italiane,
proponendo stimoli intellettuali che
vogliono spingere lo sguardo oltre
l’orizzonte ristretto della bottom
line, sostenendo nei manager
italiani un pensiero autonomo e
responsabile, aperto e creativo.
ISTUD ha, nel corso degli anni,
cercato di anticipare le tendenze
sulla gestione aziendale, di leggerle
e di interpretarle, nella ferma
convinzione che una buona cultura di
management sia fondamentale per
lo sviluppo economico della società e
per il suo complessivo benessere.
La storia di questi quarant’anni
di presenza attiva sul mercato
della formazione manageriale
e di partecipazione al dibattito
sull’evoluzione e sulla
modernizzazione delle imprese e
del management, è un patrimonio
per l’Italia. Un patrimonio che vale
la pena di raccogliere, fissare e
tramandare: per chi c’era e per chi
ci sarà, perché siamo convinti che
in ogni gruppo, così come in ogni
famiglia, ricordare la propria storia,
il “come siamo arrivati fin qui”, sia
un passaggio fondamentale per
confermare la propria identità. Ecco
perché abbiamo voluto fermarci e
trovare un modo, il nostro modo, di
raccontarci tutti questi anni.
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un valore da trasmettere
l’autobiografia come esplorazione valoriale
narrazione d'impresa
A narrar il mutar delle
forme mi spinge l’estro.
O dei, se vostre sono
queste metamorfosi,
ispirate il mio disegno,
così che il canto dalle
origini del mondo si
snodi ininterrotto sino
ai miei giorni.
Il quarantennale dell’ISTUD cade in
un momento difficile dell’economia
mondiale, preda di una crisi senza
precedenti. Non ci si può dunque
esimere dal chiedersi quale ruolo può
avere giocato una scuola come l’ISTUD
in questi quarant’anni, come essa è
cambiata in risposta ai cambiamenti
sociali ed economici e quale parte può
giocare oggi per contribuire a uscire
dalla crisi, in vista di una ripresa del
benessere collettivo attraverso la
conoscenza e la competenza.
Ovidio, Metamorfosi
Per rispondere a queste domande,
sono state coinvolte tutte le persone
che, in questi anni, hanno fatto l’ISTUD,
persone che ancora oggi collaborano
con la scuola o che vi hanno collaborato
in passato, e che sono state chiamate a
scriverne, insieme, l’autobiografia.
Ci siamo presi il tempo per ricordare il
passato, prima di progettare il futuro.
Secondo Agostino, il tempo è distensio
animae (memoria, intuizione, attesa):
nella coscienza il passato esiste come
memoria, il presente è percepito
nell’intuizione dell’istante, il futuro esiste
già nell’attesa. È l’essere umano che
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fonda e dà realtà al tempo: siamo noi
che, con la consapevolezza della nostra
coscienza, diamo un senso a quello che è
stato, a quello che è e a quello che sarà.
L’autobiografia d’impresa ci sembra uno
strumento ideale per affrontare questo
percorso di “distensione dell’anima” in
un’organizzazione. Per ricordare ciò che
quell’organizzazione è stata, cogliendone
il senso profondo per i suoi membri, per
delinearne l’identità nel presente e per
immaginarne la possibile proiezione
evolutiva nel futuro.
La memoria è stata affidata a otto
persone – in rappresentanza delle
tante che in questi quarant’anni hanno
conosciuto da vicino la scuola – che
l’hanno raccontata dal loro punto di vista,
cercando nella memoria un aneddoto, un
ricordo che ben rappresentasse il loro,
personalissimo, rapporto con ISTUD.
La responsabilità di raccontare il
presente, invece, è stata consegnata
a tutti i docenti e ai membri dello staff
operativo e direzionale, a cui è stato
chiesto di dare forma visiva, attraverso
la scrittura cinematografica, ai sei
valori che oggi costituiscono la cultura
fondante della scuola.
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metodologia narrativa
narrazione d'impresa
Innumerevoli sono i
racconti del mondo. Il
racconto è presente in
tutti i tempi, in tutti i
luoghi, in tutte le società;
[…] incomincia con la
storia stessa
dell’umanità; non esiste,
non è mai esistito in
alcun luogo un popolo
senza racconti; tutte le
classi, tutti i gruppi
umani hanno i loro
racconti
Roland Barthes
Sono quarant’anni che ISTUD
“racconta” le organizzazioni.
L’approccio della scuola alla
formazione del management
aziendale è profondamente
radicato nella convinzione che il
metodo etnografico e narrativo sia
il più indicato, sia teoricamente
sia tecnicamente, per indagare
e descrivere la cultura di
un’organizzazione.
L’etnografia organizzativa trae i suoi
presupposti dalla convinzione che
il mondo delle aziende e di chi vi
lavora possa essere efficacemente
compreso attraverso strumenti di
tipo qualitativo come l’osservazione
partecipante, l’analisi documentale
e le interviste semistrutturate in
profondità. In questo approccio,
le “storie” organizzative aiutano a
comprendere il substrato profondo
della vita aziendale.
Le storie riescono a fornire
una ricchezza di particolari,
un’immediatezza descrittiva in cui
ci si può riconoscere e addirittura
38
immedesimare […] Ciò che però conta
maggiormente per noi, in quanto
studiosi delle organizzazioni e delle
culture, è il fatto che le storie possono
comunicare una prospettiva, un
approccio alla soluzione dei problemi,
una serie di rapporti causali impliciti,
nonché valori radicati profondi.
Capire come la letteratura
possa aiutarci a raccontare le
organizzazioni è ciò che una
prolifica scuola di autori si è
proposta d’indagare. Tra gli altri,
Francesco Varanini, che ha ben
identificato il ruolo della narrazione
nelle organizzazioni di lavoro:
Le narrazioni sono importanti per
ogni popolazione. Sono importanti per
i conterranei di García Márquez, per
gli abitanti di qualsiasi villaggio e di
qualsiasi metropoli. Per i lavoratori di
qualsiasi azienda. Per noi che viviamo
nelle organizzazioni, o comunque ci
sforziamo di capire come e perché le
organizzazioni funzionano, la necessità
della narrazione è particolarmente
evidente. [...] Ciò che non può essere
descritto altrimenti può essere
narrato. C’è un’arte condivisa da poeti,
romanzieri, musicisti e anche dalle
persone che, in una pausa di lavoro, si
riuniscono attorno alla macchinetta
del caffè. Sanno vedere nella massa
informe il gomitolo, sanno quale filo
tirare. Sanno cogliere il plot emergente
e attorno a questo costruire una
narrazione. Sanno dare senso al vissuto
quotidiano.
L’ ISTUD ha sempre creduto
nell’importanza di descrivere e
interpretare le organizzazioni,
più che di prescriverne i
comportamenti, discostandosi dalla
tradizione tipica delle business
school di matrice anglosassone.
La rivendicazione di autonomia
rispetto al pensiero ispiratore delle
business school anglosassoni,
tutt’oggi in gran parte dominante,
costituisce il naturale corollario
alla ricerca di un distinto approccio
formativo e di ricerca che si prefigge
di essere più profondamente
radicato nella cultura europea, e
quindi negli studi umanistici che ne
sono il fondamento.
L’opportunità di studiare le
organizzazioni come culture,
nella loro componente simbolicoantropologica, trova conferma in
alcune tendenze che, già alcuni anni
fa, Pasquale Gagliardi – avviando
in Italia uno dei più significativi
filoni degli studi organizzativi – non
mancava di rilevare:
• Una tendenza specifica a
contestualizzare i fenomeni che ha
contribuito a spostare l’interesse
degli studiosi dall’organizzazione
come fenomeno circoscritto,
analizzato principalmente
nelle sue dinamiche tecniche
interne, alle relazioni tra le
forme organizzative e i modelli
manageriali, con una particolare
attenzione al contesto socioistituzionale nei suoi diversi
aspetti politici, culturali ed
economici.
•Una disposizione maggiore a
recepire la dimensione “culturale”,
e particolarmente gli approcci
teorici e metodologici alternativi,
con una crescente attenzione a
quegli elementi di multiculturalità
che caratterizzano profondamente
la società contemporanea.
•La disponibilità a lasciarsi ispirare
da discipline differenti rispetto a
quelle che tradizionalmente hanno
stimolato gli studi su questi temi, vale
a dire, nello specifico, l’economia, la
psicologia e la sociologia.
Questi principi hanno ispirato
l’opera di ricerca e formazione
svolta dai docenti dell’ISTUD, tanto
che anche il percorso di formazione
culturale e metodologica dei giovani
docenti si è da sempre basato su
questa impostazione.
Il percorso intellettuale e culturale
sviluppato all’ISTUD in questi anni è
complesso e ha dato vita a una ricca
attività di ricerca e pubblicazione, i
39
cui risultati completi sono riportati
alla fine di questo libro. Tra i
volumi che più rappresentano la
prospettiva alla quale ci si riferisce
in questo volume, figurano, “Le
Imprese come Culture (P. Gagliardi,
1986) che rappresenta il punto di
partenza di un filone di pensiero,
ormai adottato dai più ma che
all’epoca ha rappresentato una vera
avanguardia; Nuovi paradigmi di
formazione (a cura di D. Boldizzoni,
1990) in cui venivano descritti gli
impatti di tale prospettiva teorica su
modelli di formazione manageriale;
Management Education and
Humanities (P. Gagliardi, 2006) che
pone l’accento sulla connessione
esistente tra un buon management
e la cultura umanistica;
Management e responsabilità
sociale (M. Caramazza et al., 2006)
in cui l’emergente attenzione da
parte delle imprese verso la propria
responsabilità sociale viene messa
sotto esame e analizzata come
fenomeno sociale e culturale capace
di modificare le pratiche di gestione
delle imprese.
40
La narrazione come strumento
di intervento
La narrazione non è solo
uno strumento di ascolto,
tuttavia. Esistono applicazioni
specifiche di questa disciplina
per intervenire sull’identità e la
cultura delle organizzazioni.
L’autobiografia d’impresa è un
esempio di applicazione della
narrazione all’organizzazione.
Attraverso lo strumento narrativo,
l’autobiografia consente di
accompagnare l’organizzazione
lungo un percorso generativo di
contenuti semantici e valoriali,
cui l’impresa può efficacemente
attingere per consolidare la propria
identità e prepararsi ad affrontare
obiettivi strategici specifici.
Un’applicazione dell’autobiografia
d’impresa è stata realizzata nel
2008 dall’ISTUD presso la Banca
della Svizzera Italiana (BSI).
Il racconto autobiografico della nuova
BSI [...] nasce dalla convergenza in
un unico intervento di due approcci
di ricerca e sviluppo organizzativo:
l’approccio fenomenologicodescrittivo, che propone la narrazione
quale metafora dell’organizzazione,
e quello normativo-trasformativo,
che identifica nello storytelling
uno strumento valido ed efficace di
cambiamento. In effetti l’autobiografia
BSI ha tratto molto dal primo
approccio nella parte preparatoria,
utilizzando metodologie qualitative di
indagine etnografica per raccogliere
e studiare gli elementi valoriali
ed emotivi su cui la narrazione è
stata poi sviluppata; ma ha anche
attinto a piene mani dagli studi sullo
storytelling, offrendo ai collaboratori
della nuova BSI uno spazio in cui
esprimersi attraverso le proprie
narrazioni. Si è così tenuto aperto, […]
un dialogo interno tra management
e collaboratori della banca, che le
urgenze contingenti e i meccanismi
difensivi – caratteristici delle prime
fasi di acquisizione o fusione –
avrebbero altrimenti inibito.
Nell’autobiografia d’impresa, è
l’organizzazione che racconta
se stessa attraverso le storie
raccontate e riprese dalla viva
voce di quanti vi hanno operato
e ne hanno vissuto (anche
inconsapevolmente) le dinamiche
profonde, quelle dinamiche che
sfuggono a un’analisi esterna.
[...] the value of stories as a means of
understanding culture, communicating
values and ideals, promoting adaptive
change, and developing cooperation
and identification.
La parola auto-biografia è una brutta
parola, artificiale, senz’anima, spoglia
di evocazioni storiche e di risonanze
poetiche. [...] Ma questa parola così
antipatica ha però almeno il merito di
dire quel che dice con rara precisione.
Autos è l’identità, l’io che ha preso
consapevolezza di sé e indizio di
un’esistenza autonoma; bios sancisce
la continuità vitale di tale identità, il
suo sviluppo storico [...] Graphé, infine,
introduce il mezzo tecnico che consente
di scrivere quacosa di se stessi.
Come si può scrivere l’autobiografia
di un’impresa quando a essere
coinvolto non è un unico essere
umano ma decine, a volte centinaia,
di persone? I possibili approcci
sono molti. Nel caso della BSI è
stata coinvolta l’intera popolazione
(duemila persone) anche se con
gradi di coinvolgimento e impegno
diversi per i diversi gruppi e livelli.
41
2010: l’autobiografia della Fondazione ISTUD
Così quando mi siedo a
questo tavolo con l’idea
di plasmare con le mani
la storia della mia vita e
metterla davanti a te
come una cosa finita,
vedo cose lontanissime,
sprofondate, inabissate
in questa o in quella
esistenza, divenute
parte di essa; sogni,
anche, e le cose che mi
circondano e quegli
abitanti, quei fantasmi
solo per metà esprimibili,
che stanno nei loro covi
giorno e notte.
Virginia Woolf
42
Su questa scia progettuale e di
ricerca si è scelto di celebrare i
quarant’anni con l’autobiografia
dell’ISTUD. Tutte le persone che
contribuiscono a fare della scuola
ciò che è (i docenti, i membri dello
staff e della Direzione, in tutto una
settantina di persone) sono state
invitate a prendere parte a questo
“racconto di sé”.
La riflessione sull’esperienza
passata è stata affidata ad alcuni
“testimoni” di aneddoti organizzativi
caratterizzanti non tanto la cultura
organizzativa ufficiale, quanto
quella emotivamente condivisa da
diverse categorie di stakeholder
della scuola: docenti, membri
dello staff e della Direzione, clienti,
giovani in formazione, alumni della
prim’ora. A loro è stata lasciata
libera scelta per quanto concerneva
l’aneddoto da raccontare, salve
restando alcune indicazioni
di massima: che vi avessero
assistito personalmente, che fosse
rappresentativo del loro rapporto
con la scuola, che nella narrazione
non si limitassero alla stretta
cronaca ma evocassero anche gli
aspetti emotivi della situazione.
Nella seconda parte del progetto si
è lavorato attraverso sei laboratori
di creazione narrativa in cui sono
stati invitati, a gruppi, tutti i
componenti dell’organico attuale
della scuola.
Nei laboratori, guidati da un
docente di sceneggiatura della
Scuola Holden, sei gruppi “misti”
(ovvero composti da docenti
e da membri dello staff e della
segreteria didattica) hanno
lavorato per elaborare sei soggetti
cinematografici che avessero
per tema ciascuno uno dei valori
della scuola: Squadra, Integrità,
Sostenibilità, Potenzialità,
Risultati e Metodo. L’elaborazione
creativa del linguaggio
cinematografico ha prodotto una
visualizzazione dei concetti evocati
dal valore assegnato al gruppo, il cui
lavoro è passato attraverso fasi di
riflessione, confronto, elaborazione
43
e condivisione. L’elaborazione
creativa ha anche favorito la
creazione di un senso comune ai
valori, creando una comune tensione
verso di essi e dando loro concretezza
e contenuti operativi condivisi.
La narrazione, sin dai tempi di Omero,
permette di dare senso. […] Abbiamo
bisogno di un racconto per dire chi siamo
e come vogliamo orientare le nostre
pulsioni e i nostri desideri.
creazione di senso comune e
di appartenenza. Rimarranno
nella memoria, e, per ciascun
partecipante al progetto, saranno
l’emblema visibile di un processo
invisibile che ha prodotto valore per
tutti e che ha rafforzato l’identità
e il senso di appartenenza a
un’organizzazione, a legami formali
deboli e in cui la cultura è uno dei
collanti più potenti.
Ciò è stato supportato dalla scelta
del linguaggio cinematografico:
procedendo per immagini e non
per concetti astratti, si è riusciti a
condividere l’elaborazione – e la
visualizzazione – dei contenuti che i
valori dell’organizzazione incarnano
per i suoi membri.
I sei soggetti cinematografici, su cui
i gruppi hanno lavorato, vanno visti
dunque non come il fine, ma come
il mezzo attraverso cui il processo
si è svolto. Vanno considerati come
sottoprodotto di un processo il
cui esito principale consiste nella
44
45
46
la cronologia
47
La memoria di ciò che è stato e la consapevolezza di ciò che siamo.
Solo la scrittura è capace
di aspirare dal
quotidiano il sublime che
giace in fondo del niente.
È come se l’anima si
distaccasse dal corpo,
portando via tutta la
carne, lasciandosi
indietro scie di sangue e
di inchiostro, tracce che
solo la pagina bianca
può accogliere.
Ragone E., Poesia dell’amor migratore,
Avagliano, Cava de’ Tirreni, 2006.
Le otto persone a cui abbiamo
chiesto di raccontare la propria
esperienza con l’ISTUD, per fissarne
e tramandarne la memoria, sono
rappresentative della popolazione
che in questi quarant’anni ha
animato la vita della nostra scuola.
Partecipanti, docenti, clienti,
ricercatori, gestori: tanti punti di vista
diversi, differenti epoche “storiche”
di ISTUD, ma tutti con un punto in
comune: essere stati o essere oggi
parte della vita della scuola.
Ne sono nati otto racconti
suggestivi, otto testimonianze
commoventi e partecipi, un racconto
corale capace di evocare l’anima
della scuola e le sue vicissitudini
alterne, tra successi e momenti
difficili, glorie e crisi da affrontare.
Un’esplorazione del patrimonio,
prima di tutto umano e poi di
conoscenza, che si è generato
attorno all’ISTUD in tutti questi anni.
Riportiamo qui di seguito le otto
testimonianze, introdotte da
qualche nota biografica dell’autore e
da un breve testo che contestualizza
nel tempo la relazione intercorsa tra
la scuola e chi racconta.
48
49
1 9 7 0 1970 > 1989
1 9 7 5 1 9 8 0 1 9 8 5 1 9 9 0 2 0 0 0 2 0 0 5 2010
L’età dell’oro della formazione manageriale
In Italia, dopo il boom economico, le aziende hanno intrapreso un percorso
evolutivo che vede una forte crescita della capacità produttiva e forti
investimenti in capitale e innovazione, e che richiede competenze manageriali
più mature. Si passa dalla figura del dirigente di funzione al general manager
capace di gestire in modo razionale le divisioni che stanno caratterizzando gli
assetti organizzativi dominanti.
Allora era Harvard il punto di riferimento mondiale, e alcuni studiosi di organizzazione
decidono di importarne il modello, invitando alcuni docenti dagli Stati Uniti e creando
una scuola di formazione che trasferisca un’idea di manager più responsabile, critico,
capace di prendere decisioni e risolvere problemi complessi. Dal 1970 fino a tutti gli
anni ’80, ISTUD è visto come un centro di ricerca e sviluppo di conoscenza talmente
all’avanguardia rispetto al panorama nazionale da essere un punto di riferimento
come scuola di pensiero prima ancora che come ente di formazione, e i discenti che
vengono formati sono quasi “illuminati” dalla scuola.
Le grandi imprese italiane, insieme all’establishment dell’economia e della finanza
italiana, si raccolgono attorno all’ISTUD, al punto che IRI, Olivetti, Montedison,
Confindustria e ENI accettano di finanziare cinque cattedre sui temi allora ritenuti
importanti oggetti di ricerca e formazione del management degli anni futuri. Le stesse
imprese, insieme ad altre di alta rilevanza nazionale e internazionale, si servono
dell’ISTUD per la formazione della propria classe dirigente.
50
1 9 9 5 Pasquale Gagliardi è Direttore della scuola e Ottorino Beltrami ne è il Presidente.
ISTUD è tra i fondatori dell’EFMD – European Foundation for Management
Development – e si afferma come centro di ricerca e formazione rilevante a livello
internazionale. Ne è testimonianza l’organizzazione, nel 1988, della seconda
conferenza annuale dello SCOS – Standing Conference for Organizational
Symbolism – che sancisce il ruolo dell’ISTUD come culla in Italia degli studi sulla
cultura organizzativa.
In questi anni, vedono la luce molti progetti che oggi fanno parte della mitologia
della formazione manageriale italiana: primi fra tutti PSAD (Programma di
Sviluppo delle Abilità Direttive) e FGA (Fondamenti di gestione Aziendale)
che, rispettivamente per dodici e quattro settimane, tengono i dirigenti in aula
sulle sponde del Lago Maggiore. È anche in questi anni che prendono vita il
PFI – Programma di Formazione all’Imprenditorialità, il primo master per gli
imprenditori di domani – e i Labor (Laboratori di Organizzazione) condotti da
Bruno Maggi e Daniele Boldizzoni.
Testimoniano questi anni, con i loro racconti: Fiorella Nahum, a lungo
responsabile delle relazioni esterne per la scuola, Giancarlo Bonghi, uno dei
primi manager a frequentare i corsi di General Management dell’ISTUD, e
Daniele Boldizzoni, ricercatore e docente che da allora collabora in modo attivo
alla Faculty dell'ISTUD.
51
Il concerto
Fiorella Nahum
Era il 1983 e l’ISTUD viveva uno
dei suoi periodi più felici. Esaurita
la fase del rilancio e revisione
del Grande Corso di General
Management, che Pasquale
Gagliardi aveva trasformato con
successo in PSAD (Programma di
Sviluppo delle Abilità Direttive),
l’ISTUD cominciava a puntare lo
sguardo dagli Stati Uniti all’Europa,
considerata dal Direttore un luogo
intellettualmente e culturalmente
a noi più affine, per lo sviluppo di
una nuova scienza manageriale
e di un dialogo più creativo e
originale. Nuove correnti di
pensiero, dunque, il cui crogiuolo si
trovava a Bruxelles, presso la sede
dell’EFMD (European Foundation
for Management Development), cui
l’ISTUD partecipava come socio.
Questo clima rinnovato segnava la
52
svolta verso un percorso che, per
alcuni anni, non si sarebbe fermato,
trainato dai contribuiti sempre più
innovativi che il Direttore seppe
imprimervi. Dalla cultura europea
alla cultura d’impresa il passo fu
breve.
Seppure a Belgirate, all’Hotel Villa
Carlotta, si respirasse ancora
un’aria prevalentemente ortodossa,
ispirata alla scienza manageriale
americana, l’entusiasmo del
Direttore era contagioso. L’Istituto
cominciò a essere considerato il
fiore all’occhiello della formazione
manageriale in Italia, e noi
cominciammo a volare.
Nel febbraio di quell’anno, l’ISTUD
ospitò a Belgirate il Convegno
“Creation and change of corporate
culture”, quale Meeting Annuale
dell’EFMD. Popolazione cosmopolita
e colta, cui non si poteva proporre,
a conclusione, un tradizionale,
formale banchetto. Bisognava
realizzare un evento ispirato alla
nuova ventata di spiritualità e
cultura che informava l’Istituto e i
suoi interlocutori privilegiati.
Così, mi venne in mente la musica.
Mi vennero in mente i Solisti Veneti
(avevo conosciuto Claudio Scimone
nei miei anni universitari a Padova)
e la Chiesa di Santa Maria Maggiore
a Belgirate, splendido edificio
del Milleduecento con una cripta
paleocristiana del VII secolo, le cui
rovine si intravvedevano sotto il
pavimento, protette da una lastra
di vetro e da un parapetto
malsicuro. I Solisti Veneti in una
Chiesa poco conosciuta ma di
grande bellezza: il più bel connubio
cui potessimo aspirare.
53
Fu tutto semplice: il permesso del
Parroco, l’arredamento con panche
e sedie, la segnaletica stradale
(facemmo un mappa che venne
distribuita), gli inviti ai principali
esponenti delle business school
italiani e stranieri, ai formatori e ai
grandi consulenti milanesi.
Benché avessimo previsto un
impianto di riscaldamento, quella
sera faceva un gran freddo. Nei
giorni precedenti era caduta la
neve, e la neve aveva reso difficile
l’accesso alla chiesa. Fu per
questo che ci avviammo a piedi,
con indosso piumoni e pellicce,
ansiosi di ascoltare Vivaldi,
Albinoni, Haendel, nella magia
degli strumenti ad arco e dei fiati
dell’”Ensemble dei Solisti Veneti”,
otto musicisti di grande talento
venuti da Padova nel pomeriggio.
54
Il concerto fu bellissimo, ma
purtroppo ne godetti poco.
Ricordo un insieme di persone
intirizzite in ascolto dei musicisti
che suonarono, per tutto il primo
tempo, senza guanti e in abiti da
sera. Prima del secondo tempo,
però, la flautista Clementine
Hoogendorn, moglie di Claudio
Scimone, ci chiese il permesso
d’indossare i giacconi di lana.
Qualcuno si mise anche un berretto.
L’atmosfera si fece surreale: una
platea di fantasmi e un palco di
musicisti travestiti da esquimesi,
senza che nessuno abbandonasse
la propria posizione.
Ripenso spesso a quel miscuglio di
sacro e profano, i suoni struggenti
amplificati dalla volta romanica,
l’equipe fantastica di musicisti,
l’élite degli ascoltatori venuti da
lontano, la luce fioca della Chiesa, il
gelo che sublimò tutto. Mi emoziono
ancora, come davanti a una poesia.
Allora ero dispiaciuta e un
po’ frustrata. Oggi, credo
che quell’evento abbia
contribuito a creare attorno
all’ISTUD l’immagine che lo ha
accompagnato per moltissimi anni,
assieme all’originalità della sua
svolta culturale.
Fiorella Nahum > note biografiche
Sono nata e vissuta a Tripoli fino alla maturità classica. Mi sono laureata in
Scienze Politiche a Padova e ho frequentato per un anno il Bologna Center della
Johns Hopkins University e, per un secondo anno, la School of Advanced
International Studies della Johns Hopkins a Washington D.C. con borsa di studio
Fulbright, frequentando il corso Master biennale in Relazioni Internazionali.
Le mie principali esperienze di lavoro si sono svolte a Roma, dove per sette anni
sono stata Program Assistant alla Commissione Scambi Culturali Italia - Stati
Uniti, e successivamente a Milano, Varese, Belgirate e Stresa, presso l'ISTUD,
dove ho svolto principalmente la funzione di Responsabile Relazioni Esterne con
la qualifica di dirigente. Il mio trasferimento da Roma a Milano è stato
determinato dalla mia collaborazione con il Prof. Pietro Gennaro in relazione alla
nascita e costituzione dell'ISTUD – Istituto Studi Internazionali S.p.A. – di cui ho
seguito le sorti fino al 1994. Ho raccontato la mia esperienza nel volume Origine
e Modelli delle Business School in Italia a cura di Giuliana Gemelli, Il Mulino, 1997
(pp. 387-435 e 537- 543).
Da quell'anno sono in pensione e dal 1998 sono Vicepresidente dell'Associazione
Nestore, no profit che svolge ricerche, formazione e interventi sul tema della
transizione dal lavoro al pensionamento e orientamento al volontariato, con piena
responsabilità sulle attività e sviluppi dell'Associazione (www.associazioni.milano.
it/nestore).
Ho svolto alcune ricerche e pubblicato articoli su riviste specializzate e di settore.
55
L’ISTUD RITROVATO
Giancarlo Bonghi
Scrivere non mi ha mai
entusiasmato. Per questo, quando
la Dottoressa Cosso mi ha chiesto
di fare da testimonial, ho esitato. Se
avessi dovuto risolvere un problema
matematico mi sarei sentito più a
mio agio. Tuttavia, tornare con la
memoria alla mia frequentazione
dell’ISTUD era uno stimolo forte. Il
periodo passato a Prima Cappella,
allora sede dell’Istituto, un intreccio
di studi e amicizie, molte delle
quali resistono ancora all’usura del
tempo, si confonde coi ricordi legati
al Club ISTUD, immagini appena
velate dal tempo.
Fui inviato in ISTUD dalla mia
azienda, all’avanguardia nei
problemi di formazione, nel gruppo
dei soci fondatori che mandava
regolarmente i suoi manager a
frequentare il corso di General
56
Management. A me toccò il 14°,
nel 1976. Non era la prima volta
che partecipavo a un corso di
management. In azienda era una
consuetudine. Si trattava, però, di
corsi interni.
Il corso di General Management
apriva nuovi orizzonti, offrendo
un confronto con manager di altre
aziende, culturalmente diverse.
La mia era la filiale italiana di una
multinazionale estera; la maggior
parte dei colleghi apparteneva
invece ad aziende italiane, sia pure
multinazionali.
A quel tempo, ISTUD era a Prima
Cappella, sulle colline intorno a
Varese. Vi si arrivava costeggiando
ville e villette sulla strada che porta
al Campo dei Fiori, all’inizio del viale
acciottolato che, superando le varie
Cappelle, conduce al Sacro Monte.
Il viale era il luogo delle nostre
passeggiate, tra una lezione e l’altra.
Non era agevole camminare sui
ciottoli né affrontare quella salita.
Non raggiungemmo mai l’ultima
cappella, ma, lungo il percorso,
meditavamo sui casi di studio e
sulle fatiche sopportate dai fedeli
per arrivare in cima al Sacro Monte.
La sede era un albergo
confortevole, privo di fronzoli,
adatto a ospitare pellegrini e
allievi di una scuola. L’aula delle
lezioni era stata l’antico salone
di rappresentanza. Alcune delle
stanze erano utilizzate per i gruppi
di lavoro, altre per lo staff e altre
ancora erano destinate agli allievi.
Il corso di General Management era
l’unico corso tenuto dall’Istud, un
corso residenziale della durata di
57
Giancarlo Bonghi > note biografiche
Mi chiamo Giancarlo Bonghi e sono nato a Napoli il 27 agosto 1928.
Mi sono laureato in Ingegneria Elettrotecnica nel 1953. Sono stato collaboratore
presso la cattedra di Fisica Tecnica dell’Università di Napoli, istruttore radar
nell’Aeronautica Militare nel corpo del Genio Aeronautico Ruolo Ingegneri,
impiegato presso la Società Microlambda nei reparti Collaudo Finale e
Manutenzione, Scientist nel Data Handling presso lo Shape Air Defense Technical
Center in Olanda, e rappresentante applicazioni Scientifiche presso la IBM Italia.
Dal 1967 ho ricoperto varie cariche Direttive presso la IBM Italia fino alla
pensione, nel 1989.
nove settimane divise in tre gruppi
di tre settimane ciascuno. Direttore
della scuola era il professor Massa,
Direttore dei corsi il Dottor Franza;
c’era poi Fiorella Nahum, una forza
della natura, sebbene non lo avessi
ancora percepito (si è rivelato
in seguito, nel Club ISTUD, e poi
nell’Associazione Nestore).
Il primo giorno fummo divisi in
gruppi per approfondire, secondo
il metodo della Harvard Business
School, i casi di studio da discutere
in seguito in aula. Ricordo alcuni
compagni: R. B., del Marketing
della Honeywell Computer; G. D.
S., fra i progettisti di uno dei primi
computer della Olivetti; D. R., il più
estroverso, che aveva ricoperto,
in varie parti del mondo, posti di
responsabilità per la Pirelli e ci
raccontava le sue esperienze.
Tra le materie di studio, le più
58
interessanti furono, almeno per me,
quelle relative all’economia. Ricordo
bene Barbato, del CUOA di Padova,
che brillantemente ci introdusse
al controllo di gestione, facendoci
navigare nell’arido mondo della
contabilità e dei bilanci. E ricordo
Paul Welter e Marcello Bianchi,
che ci condussero nel mondo
della finanza. Giuseppe Scifo, fine
umorista e abile docente, ci parlò
invece di scenario.
Una sera irruppe nell’aula un
gruppo di “caciaroni”: erano i
partecipanti al 12° corso, molto
legati fra loro. Avevano l’abitudine
d’incontrarsi per una riunione
conviviale all’ISTUD, e, oltre a
questo, avevano dato vita al Club
ISTUD, come nelle business school
americane. Con quel rumoroso
intervento volevano sollevare
in noi il loro stesso entusiasmo,
spingendoci ad aderire al Club. Ci
riuscirono. Molti aderirono, e il Club
visse ancora per una ventina di anni,
sostenuto da Fiorella. Credo che,
quando l’amministrazione del Club
passò alla scuola, la direzione abbia
contribuito a determinarne la fine.
Sembrava che il mio rapporto con
l’ISTUD dovesse terminare lì. Un
giorno, invece, Susanna Stefani,
uno dei nostri prestigiosi Presidenti,
mi chiamò per un incontro nel
palazzo dei Congressi di Stresa.
Era nato, sostenuto questa volta
dalla direzione, “Alumni ISTUD”. E
ora eccomi qui a raccontare la mia
esperienza.
Sono immagini velate dal tempo
eppure ancora presenti, nitide e
piacevoli come quelle passeggiate
sul viale acciottolato, percorso dai
pellegrini per arrivare in cima al
Sacro Monte.
59
La grande nevicata a Villa Treves
Daniele Boldizzoni
Era una fredda giornata d’inverno
del 1990. L’ISTUD era allora a
Belgirate, nella villa dell’editore
Treves, confiscata dal regime
fascista dopo le leggi razziali,
lasciata deperire nel dopoguerra e
fatta rivivere per ospitare la scuola.
Il restauro non era stato indolore.
Secondo i canoni harvardiani, le aule
dovevano essere a ferro di cavallo e
senza finestre, poiché nulla doveva
disturbare la concentrazione e
l’apprendimento, neppure un pallido
raggio di sole. Era un peccato aver
oscurato le grandi vetrate con vista
sul lago, però il locale all’ingresso,
dotato di un’ampia vetrata, era stato
adibito a biblioteca con scaffali a
vista zeppi di libri, per dare, a chi
arrivava, un’immagine nitida di
ISTUD come luogo di cultura, in
cui non si facevano chiacchiere ma
60
formazione di alto livello.
La villa era rosa pallido, come le
signore d’antan, sobria ed elegante,
contornata da un giardino ricco di
alberi di rara bellezza. Il rosa pallido
baciato dal sole o dalla pioggia
aveva tonalità sempre diverse; i
vetri creavano trasparenze e ombre
che facevano volare la fantasia; le
siepi di ortensie davano risalto al
suo carattere austero e, nello stesso
tempo, sensuale. Vi si accedeva
percorrendo una stradina che
partiva dall’Hotel Villa Carlotta,
usato come foresteria, e che saliva
per un breve tratto lungo la collina.
A metà c’era una scalinata che
portava alla villa.
Io, lo confesso, ero innamorato
di quella villa. Lì avevo un ufficio,
poco più di un buco, al secondo
piano. Accanto c’era l’ufficio di
Paul Welter, che insegnava finanza
e che, pur vivendo da molti anni
in Italia, faceva ancora i conti in
tedesco, perché in quella lingua,
diceva lui, “venivano più precisi”.
Facevamo assieme i pendolari in
treno da Milano, e alla stazione
di Belgirate, contando i carri
merci vuoti che passavano, Paul
formulava previsioni quasi sempre
esatte sull’economia italiana e
sull’andamento del PIL.
Ma questo non è rilevante, anche se
quel pomeriggio Paul Welter c’era;
era in aula a far lezione allo PSAD,
il Programma di Sviluppo delle
Abilità Direttive, punto d’orgoglio
dell’ISTUD.
Io invece guardavo dalla finestra
del mio ufficio, incantato dallo
spettacolo della neve che cadeva
sempre più fitta. Da quanto tempo
61
Daniele Boldizzoni> note biografiche
Mi chiamo Daniele Boldizzoni. Sono Professore di Organizzazione Aziendale e
titolare dei corsi di Storia e Organizzazione d’impresa e Organizzazione e
gestione delle reti d’impresa presso l’Università IULM di Milano dal 2001. Sono
stato Direttore responsabile dello Sviluppo e della Formazione manageriale di
importanti aziende, Direttore della Divisione Ricerche ISTUD e Dean della
Corporate University del Gruppo Intesa. Ho maturato una pluriennale
esperienza come consulente su progetti di sviluppo organizzativo, ricerca e
formazione per conto di importanti aziende e banche italiane e multinazionali,
Enti Pubblici e Organizzazioni internazionali. I miei ambiti di ricerca riguardano
la progettazione e l’implementazione delle strutture e dei sistemi organizzativi,
delle politiche e delle tecniche di gestione delle risorse umane, della
realizzazione e valutazione di programmi di formazione manageriale, della
gestione e sviluppo delle piccole imprese.
nevicava? Quanta neve era caduta?
Erano queste le domande che Paul,
uscito dall’aula, mi stava ponendo.
Saremmo riusciti a tornare a Milano?
La stazione era a poche centinaia di
metri, percorrendo un sentiero nel
parco e oltrepassando un cancello di
ferro di cui possedevamo la chiave,
ma con tutta quella neve era ormai
irraggiungibile. Non ci restava che
telefonare a casa, annullare gli impegni
e trattenerci per la notte a Belgirate.
E intanto la neve continuava a
cadere. I partecipanti ai corsi erano
ormai ingestibili ed eccitati come
tutti, non solo i bambini, quando
arriva una nevicata. Invece dei lavori
di gruppo, obbligatori alla sera oltre
che particolarmente impegnativi,
fu organizzata una battaglia con le
palle di neve in cui un alto dirigente
Fiat si distinse per precisione di tiro,
mentre i manager IBM furono, per
62
una volta, sconfitti. Poi, a fatica, si
scese in albergo.
Ancora più ardua fu la risalita, il
mattino successivo.
Durante la notte aveva continuato
a nevicare e la scalata alla
collina sarebbe stata un’impresa
impossibile senza una strategia
(ma Pietro Gennaro, il docente di
strategia, non c’era) e soprattutto
senza risorse tecniche (pale) e
umane (spalatori volenterosi).
Ci fu un momento di sbandamento,
poi i manager PSAD seppero
mettere in pratica gli insegnamenti
appresi e, invece di sviluppare le
abilità direttive in aula, diedero
prova di abilità “outdoor”, aprendosi
un varco per arrivare alla villa. Che
ci aspettava, bella come non mai,
avvolta nella neve, per accoglierci
nel suo ventre caldo.
63
1 9 7 0 1 9 7 5 1990 > 2000
1 9 8 0 1 9 8 5 1 9 9 0 2 0 0 0 2 0 0 5 2010
L’alleanza con l’Università
All’inizio degli anni 90, una crisi profonda colpisce l’economia del Paese, che
registra un ristagno della produttività. L’innovazione si arresta, la produttività
crolla e le imprese non investono più. Improvvisamente, da un mese all’altro,
ISTUD vede azzerate le iscrizioni ai seminari.
Nel 1992, lo scandalo Mani Pulite, insieme ad altri fattori congiunturali,
paralizza l’imprenditoria italiana e contribuisce alla fine della Prima Repubblica
e, con essa, alla crisi della grande industria italiana.
Per ISTUD viene a mancare l’interlocutore istituzionale principale, mentre
inizia a manifestarsi una nuova opportunità: diventare un’istituzione “ponte”
tra mondo dell’accademia e mondo delle pratiche. Nel futuro dell’ISTUD
s’intravede un altro mercato possibile e, con esso, un altro posizionamento:
il mercato dei laureati e delle loro famiglie, interessate a offrire ai propri figli
percorsi formativi post-universitari professionalizzanti e capaci di favorire
l’accesso dei giovani al mercato del lavoro. È il momento in cui anche le
istituzioni ravvisano questa esigenza, tanto che mettono a disposizione ingenti
risorse finanziarie pubbliche per favorire la professionalizzazione e l’accesso
dei giovani al lavoro. In questo disegno diventa fondamentale l’alleanza con
un’università, che legittimi agli occhi delle famiglie gli studi presso l’ISTUD.
64
1 9 9 5 Inizia così un sodalizio istituzionale con l’Università Cattolica di Milano,
sodalizio che durerà fino al 2003 e che anche oggi produce frutti.
In questo periodo vedono la luce i Master in Marketing e Comunicazione e il
Master in Risorse Umane e Organizzazione, due dei più importanti programmi
della proposta dell’ISTUD.
Pasquale Gagliardi è ancora il Direttore della scuola, mentre il Presidente sarà,
per tutti gli anni di collaborazione con la Cattolica, Giovanni Bazoli.
Sul fronte delle imprese, la domanda di formazione manageriale istituzionale
crolla, mentre si vedono le prime avvisaglie di un fenomeno che durerà fino
ai nostri giorni e che sarà destinato a modificare lo scenario della formazione
in Italia. Le imprese iniziano a concepire la formazione come uno strumento
a loro disposizione per il cambiamento organizzativo, e, dal focus sulle
competenze e sulla crescita della persona, si passa al focus sui bisogni e sulle
esigenze strategiche e gestionali dell’impresa, e sul come la formazione può
essere strumentale al soddisfacimento di tali esigenze.
Per l’ISTUD non sarà facile il passaggio dall’essere la “Scuola”, il luogo di
pensiero indipendente dove i manager si recano per studiare, all’agente di
cambiamento, al consulente che si reca presso le imprese e si adatta alle loro
65
esigenze e ai loro bisogni e crea le condizioni perché le persone dentro le
organizzazioni vi si adeguino lealmente e acriticamente.
Il passaggio verso la formazione in house sarà un passaggio lento che
richiederà apprendimento organizzativo e cambiamento culturale, ma si
cominciano a fare le prime esperienze. È di quegli anni uno dei primi e
più memorabili progetti di formazione in house con la gloriosa Zanussi di
Pordenone, che, proprio in quei tempi, veniva ceduta alla svedese Electrolux,
segnando uno dei casi allora più discussi di cessione di valore industriale
italiano al capitale straniero.
Nel frattempo, l’Europa mette a disposizione ingenti risorse finanziarie per
la realizzazione di progetti importanti di modernizzazione dell’economia; la
società della conoscenza richiede competenze di sviluppo di nuove imprese,
di diversity management e di trasferimento culturale e tecnologico. L’ISTUD
risponde con grandi progetti europei che hanno fatto storia, come ADAPT,
DIVERSITY e POOL – Professional Opportunities On Line – progetti che
consolidano i rapporti internazionali dell’ISTUD e che ancora oggi sono
ricordati come best practice.
66
Queste e altre esperienze portano a interrogarsi sul senso della formazione
manageriale e sulla funzione che la formazione può e deve esercitare nella
società e nelle imprese. Sono questi gli anni in cui ISTUD avvia una riflessione
sulle radici del pensiero organizzativo europeo e inizia a porre le basi dell’attuale
dibattito sulle differenze tra pensiero europeo e pensiero anglosassone nella
teoria e nella pratica organizzativa e di gestione delle imprese.
Testimoniano questi anni, con i loro racconti: Paola Marchionini, dal 1979
presente nella scuola con varie mansioni, Luca Magni, attualmente HR
manager di Johnson & Johnson Europa, e Cristina Godio, che in ISTUD segue
tutti i progetti finanziati.
67
Il Muro del Pianto
Paola Marchionini
Ero la persona preposta ad
accogliere le iscrizioni ai seminari.
Ero sempre in ansia, perché non
arrivavano adesioni sufficienti e,
per poter far partire un corso, era
necessario, così come lo è adesso,
un numero minimo di partecipanti.
Erano gli anni ’90, e ISTUD stava
attraversando un momento di crisi
profonda. Così, il nostro vertice
di allora pensò d’istituire una
sorta di tabellone su cui annotare,
giornalmente e per ogni corso, i
nuovi iscritti.
Il tabellone era una lavagna bianca
sistemata nell’ufficio che dividevo
con altre due colleghe; si trovava
accanto alla porta d’ingresso, in
modo che i vertici e lo staff tecnico
potessero prenderne visione in
tempo reale. Vi scrivevo il nome del
seminario e, accanto, il numero di
68
iscritti, variato a ogni nuova adesione.
Il tabellone era stato nominato, da
noi dello staff, Il Muro del Pianto,
dal momento che l’atmosfera non
era certo positiva e la sofferenza
psicologica di tutti noi si era fatta
palpabile. A tutti i livelli, volevamo
apportare il nostro contributo, ma
passavamo da momenti di esaltazione
a fasi di cupo pessimismo.
Al mattino, i nostri vertici entravano
nell’ufficio per controllare il
tabellone e le loro espressioni
cambiavano a seconda di ciò che
vi leggevano. Sui loro volti vedevo
scoraggiamento: la situazione
era difficile, anche se si stavano
prendendo tutte le misure
necessarie per superare il momento.
Le stagioni si avvicendarono. Arrivò
l’inverno; nevicava, e la temperatura
si fece più rigida. La lavagna mi
pareva una distesa di neve solcata di
rosso, il colore del pennarello. Il colore
di Marte, Dio della Forza combattiva.
Quei segni rossi esprimevano il
nostro bisogno di ottenere risultati, il
desiderio di successo e la volontà di
vincere che ci animava.
Il pennarello emanava un odore
così intenso da procurarmi
quasi fastidio, ma il fastidio era
compensato dal senso di gioia che
provavo quando dovevo usarlo.
Avevamo, a quel tempo, una grande
azienda multinazionale del settore
telecomunicazioni che iscriveva
molte risorse a ciascun percorso di
formazione; quando arrivavano le
loro telefonate, i numeri crescevano
a vista d’occhio. Un seminario che
avremmo dato per annullato, poteva
risorgere come d’incanto.
Quando il centralino mi passava
69
Paola Marchionini > note biografiche
Mi chiamo Paola Marchionini e sono arrivata in ISTUD nel 1979, come impiegata
nell’ufficio allora denominato Relazioni Esterne, occupandomi della Mailing List.
Successivamente, mi sono occupata di tutto il materiale promozionale
dell’Istituto, tenendo i contatti con tipografie e grafici. Sono poi diventata
l’assistente della Responsabile delle Relazioni Esterne, occupandomi di tutte le
iscrizioni ai corsi.
Attualmente faccio parte dell’Ufficio Vendite e tengo i rapporti con tutti i clienti
della Scuola.
quell’azienda, il mio cervello
scandagliava tutte le ragioni
possibili, perché la chiamata
poteva comportare nuove iscrizioni
oppure annullamenti. Nel primo
caso, esultavo dalla felicità; le mie
colleghe capivano immediatamente
che qualcosa era cambiato in
meglio. C’erano telefonate fra gli
uffici, e chiacchiere nei corridoi
e alla macchinetta del caffè per
commentare la buona notizia.
I nostri vertici erano i primi a
essere avvisati; l’espressione
rabbuiata dei loro volti cambiava,
si faceva sorridente, entusiasta.
Anch’io vivevo quei momenti
in modo particolare: mi sentivo
coinvolta non come una semplice
dipendente ma come se un pezzo
della scuola fosse di mia proprietà
e dovessi esprimere la mia gioia
a tutti. E la gioia è una di quelle
emozioni dotate di un enorme potere.
Da anni Il Muro del Pianto non
esiste più; è stato sostituito dai
freddi report del nuovo sistema
70
informatico. Peccato. Le persone
che frequentavano l’ufficio e ci
rendevano partecipi delle loro
emozioni mi mancano molto.
In questi anni si è lavorato
sodo, anche grazie alla crescita
professionale di vecchie e nuove
risorse che hanno saputo dare
nuovi stimoli. Si sono creati nuovi
prodotti: corsi interaziendali,
programmi di formazione
alternativa, ricerche, la conquista di
una serie di progetti finanziati che
ci hanno permesso di superare la
fase negativa portandoci all’attuale
realtà di successo.
La nostra è, nelle statistiche italiane,
la prima Scuola indipendente.
Sono contenta di farne parte, anche
se, qualche volta, ripenso ancora
con un certo, strano, rimpianto alla
distesa di neve solcata di rosso.
71
Luca Magni > note biografiche
Mi chiamo Luca Magni. Mi sono laureato in Filosofia e poi specializzato in
Psicologia delle Organizzazioni presso la Manchester School of Management.
Ho maturato significative esperienze in ambito Risorse Umane presso Aziende
multinazionali e società di consulenza internazionali. Ho al mio attivo articoli e
pubblicazioni sui temi della psicodinamica dei gruppi e della leadership su
numerose riviste specializzate.
Il mio primo incontro con ISTUD
Luca Magni
“Non siamo interessati a questo
progetto.”
Con un sorriso cortese, Claudia
Piccardo, storica docente di ISTUD,
ripose l’agenda nella borsa di pelle
che teneva accanto a sé, sulla
poltroncina della sala riunioni. Vidi
il giovane che era con lei riordinare
le proprie carte e infilarle nella
ventiquattrore. Si trattava di una
copia dell’offerta che avevano
inviato a Stefano, mio capo e
responsabile dell’Area Sviluppo
Organizzativo dell’Azienda in cui
ero da poco entrato per occuparmi
della selezione e formazione del
personale di sede.
L’incontro era iniziato solo da venti
minuti, il tempo per i convenevoli e
per un breve commento di Stefano:
“La progettazione contenuta nella
vostra offerta è intrigante e molto
72
stimolante sul piano culturale, ma,
mi chiedo, non si potrebbe optare
per una strada meno impegnativa?
Dobbiamo riempire una giornata per
una decina di Product Managers a
cui l’azienda tiene particolarmente,
intrattenerli e farli contenti, senza
sollevare troppi dubbi circa il loro
ruolo e/o la strategia aziendale”.
In effetti, né noi come HR
né probabilmente i vertici
dell’Azienda – la filiale italiana
di una multinazionale tedesca
– avevamo le idee chiare in
merito alla strategia che stavamo
perseguendo, ammesso che una
strategia fosse stata decisa.
Erano gli anni della formazione
apparente: centinaia di milioni
spesi per iniziative che spesso
si caratterizzavano come pure
esperienze di svago. Le Direzioni
del Personale avevano al proprio
interno responsabili di funzione
specializzati, chi nell’elargizione del
Panem (gli Specialisti di Relazioni
Industriali e Compensation), chi
nell’erogazione dei Circenses
(gli Addetti alla Formazione).
Tempi di vacche grasse e principi
gestionali poco evoluti, in cui
le Aziende spendevano e le
Scuole di Formazione potevano
permettersi di rifiutare progetti
professionalmente poco edificanti,
sebbene lautamente ricompensati.
Stefano sapeva di avere davanti
il meglio del mondo della
formazione italiana; l’offerta lo
dimostrava, data la schiettezza
con cui metteva in risalto i punti
nevralgici della committenza,
ovvero la nostra Azienda.
Accompagnati Claudia Piccardo
e il suo collega alla Reception, disse:
“Tu hai capito cosa è successo? Non
mi aspettavo che rinunciassero a un
progetto tanto facile e con un cliente
così propenso a pagare”.
Aveva alle spalle una decina d’anni
di esperienza in ambito Formazione
e Sviluppo Risorse Umane. Mi ha
insegnato il mestiere di HR, e anche per
questo, lo ricordo con grande affetto; da
lui ho imparato a gestire progetti, clienti
interni e fornitori. Eppure, quell’incontro
non era andato secondo i suoi piani.
“Forse non siamo un cliente abbastanza
importante?”, azzardai.
“Forse lavorano per passione e
non per necessità”, disse lui dopo
un istante. “L’unica necessità a cui
rispondono è quella della propria
curiosità intellettuale. Voglio comunque
ricompensarli. L’offerta che ci hanno
presentato è una consulenza, più che
un’offerta. Magari un giorno i loro
consigli ci serviranno.”
Nelle sue parole c’erano delusione
e ammirazione; questo fece sì
che il nome e lo stile di ISTUD –
profondità di analisi, chiarezza di
visione, originalità di pensiero – mi
s’incidessero nella memoria.
Qualche anno dopo, l’Azienda andò
incontro a un importante cambio al
vertice. Per affrontare un mercato
che si era fatto molto competitivo,
la formazione non poteva più essere
un riempitivo: doveva trasformarsi in
un’attività focalizzata e strategica.
ISTUD diventò il nostro partner ideale.
Ricontattai la scuola e strinsi con lei
rapporti sempre più intensi.
Negli ultimi quindici anni, la relazione si
è evoluta a seconda delle esigenze delle
Aziende in cui mi sono trovato a lavorare
e in base alle competenze che la Scuola
ha sviluppato. Una costante accomuna
però tutti i progetti portati avanti con
ISTUD: il senso di avventura e il legame
fra l’Azienda e la scuola, i suoi docenti,
ricercatori e personale di supporto. Ciò
trasforma qualunque progetto, anche
il più complesso e ambizioso, in un
successo per il Cliente.
Stefano aveva ragione.
73
Cristina Godio > note biografiche
Mi chiamo Cristina Godio, sono nata ad Arona (NO) il 25 marzo 1969, sono
laureata in Lettere e Filosofia. Appassionata di psicologia, architettura e
giardinaggio, adoro gli animali. Sono entrata in ISTUD come stagista al
termine del Master WEMP “Women’s Entrepreneurship Management
Programme”, intervento di Azione Positiva finanziato dalla Commissione
Europea e realizzato da ISTUD per valorizzare il potenziale intellettuale
femminile sul finire degli anni ’90.
Da allora mi occupo, a vario titolo, dei progetti finanziati da importanti
donors internazionali come l’Unione Europea e le sue Agenzie o la Banca
Mondiale, e di altre attività internazionali della Fondazione ISTUD.
Ricordi dall’altro secolo
Cristina Godio
Nel luglio del 1995, quando per la
prima volta misi piede in ISTUD,
non c'erano schermi piatti e
mouse ottici, wireless era un
termine sconosciuto e in segreteria
didattica, nel lungo caseggiato
marrone in cima alla collina
alle spalle del centro didattico,
campeggiavano solitari alcuni
Macintosh, all’apparenza distonici
con le attività che si svolgevano in
quei locali.
La Sig.ra Erica, storica segretaria
della scuola, mi accolse con un
enorme sorriso: da quel momento,
fu quello il mio modo d’immaginare
ISTUD. Quando infatti, durante il
master WEMP, mi venne chiesto di
descrivere il luogo in cui lavoravo,
dissi: "ISTUD è un posto dove si
lavora molto, ma col sorriso". Già,
perché i sorrisi non erano soltanto
74
quelli di Erica: erano un vero e
proprio marchio di fabbrica, e
l’attenzione alle persone era il faro
che guidava la scuola.
In quell'ISTUD che si affacciava
all’uso di tecnologie che ne
avrebbero radicalmente modificato
ritmi e modalità operative, la
Persona era al centro. Quando, con
un giovane collega, progettammo
il primo sito internet artigianale
di ISTUD, il nostro AD, Pasquale
Gagliardi, si preoccupò molto
di come questo strano artefatto
virtuale potesse rappresentare
l’appartenenza della Faculty
alla scuola. Erano le persone, i
professionisti e le speciali relazioni
“con e tra” loro ad aver reso
unico l’Istituto, e questo doveva
emergere anche attraverso i nuovi
strumenti ICT.
A quel tempo, i giovani borsisti
potevano diventare docenti junior
solo attraverso un immancabile rito
di passaggio: il teatrino di fronte
alla Faculty senior. Per me, però,
non ci fu un teatrino tradizionale.
La mia prima apparizione pubblica
come risorsa ISTUD fu a un meeting
internazionale a Stresa per un
progetto Adapt dell’UE. Una vera
occasione operativa, in inglese,
di fronte a partner stranieri. Non
ricordo di cosa parlai, ma ricordo
l’emozione nel veder entrare
in aula, al momento della mia
presentazione, il mio tutor – l’allora
Direttore operativo Gianfranco
Sampò – e le persone con cui era
stato, fino a poco prima, in riunione;
l’avevano interrotta per poter
essere presenti a quel momento,
in fondo banale in qualsiasi altra
organizzazione, ma per me, e quindi
per ISTUD, straordinario.
L’evidente attenzione che mi fu
manifestata segnò anch’essa il mio
modo d’intendere ISTUD. Capii
che non era solo un posto in cui
lavorare: era soprattutto un posto in
cui poter essere.
Alla fine degli anni ’90, un'aria di
grandi cambiamenti accompagnava
esperienze di eccellenza,
fortemente anticipatrici: il primo
master e-business in Italia, POOL
e la sua comunità professionale
online (che anticipava di diversi
anni la nascita dei social network
professionali), il diversity
management. Importanti
cambiamenti organizzativi ci
attendevano dietro l’angolo del
nuovo secolo. Tra il 1999 e il 2000
molti dirigenti lasciarono ISTUD.
Emblema di quel momento fu la
festa di Natale del 1999. Terribile.
La mitica tombolata si svolse,
anziché tra risate e piatti succulenti
come negli anni precedenti, in
aula A: ogni estrazione sembrava
anticipare qualche evento sinistro.
La cena seguente venne organizzata
nelle aulette di gruppo. Riuniti
nei “sotterranei” dell’ISTUD,
sembravamo una famiglia di
topolini: rannicchiati tutti insieme,
vicini ma separati, per consumare
l'ultimo pasto di un secolo che
volgeva al termine.
Ma presto arrivarono le novità
degli anni 2000: “donna”
Marella Caramazza divenne
il nuovo Direttore Generale e,
scherzosamente, iniziammo a
chiamarla “la nostra imperatrice”.
Poi, qualche anno dopo, arrivò
la mail di Pasquale Gagliardi che
ci annunciava l’apertura della
nuova sede ISTUD a Milano, in via
Stephenson: “un acquario con vista
tangenziale”. Indimenticabile.
Capimmo subito che era davvero
iniziata una nuova era.
75
1 9 7 0 1 9 7 5 2000 > 2010
1 9 8 0 1 9 8 5 1 9 9 0 2 0 0 0 2 0 0 5 2010
un centro di pensiero sul management in anticipo sui tempi
L’11 settembre 2001 cambierà per sempre la percezione degli assetti del mondo.
Nel frattempo, però, il mondo è già cambiato: internet impera, si è assistito alla
definitiva affermazione del terziario avanzato e all’entrata in vigore dell’euro in
sostituzione della lira. Nel mercato del lavoro s’introducono criteri di flessibilità,
e l’Europa pone obiettivi di stabilità che impongono rigore nei conti pubblici.
L’economia è globale, interconnessa e fortemente condizionata dalle dinamiche dei
mercati finanziari. India e Cina diventano mercati importanti e il vecchio continente
arranca. L’innovazione e la formazione vengono indicate come una delle leve per
uscire dalla crisi, e la piccola e media impresa è riconosciuta come il nuovo motore
dello sviluppo economico. In questi anni vengono coniati termini come talento
e capitale intellettuale, termini che diventano onnipresenti nei discorsi di attori
economici e istituzionali. Il riscaldamento globale e la scarsità di risorse energetiche
e di materie prime, insieme all’impoverimento della popolazione mondiale, diventano
una priorità assoluta e pongono le basi di un dibattito che vede il moltiplicarsi di
posizioni critiche verso il capitalismo.
Nel 2008, Obama sostituisce Bush come Presidente degli Stati Uniti, creando
l’illusione che qualcosa nel mondo cambierà. Negli stessi mesi del 2008 esplode una
crisi senza precedenti che cancella in un batter d’occhio intere imprese e comparti
economici. Il dibattito sull’etica nel business si riaccende.
76
1 9 9 5 In questi anni l’ISTUD cambia vertice e veste istituzionale. Pasquale Gagliardi lascia
l’incarico di Amministratore Delegato e nel 2001 Marella Caramazza prende il posto
di Direttore della Scuola. All’economista Marco Vitale, che per quattro anni sarà
presidente dell’ISTUD, viene affidato il compito di ridefinire l’assetto istituzionale.
L’Università Cattolica esce dall’azionariato, l’ISTUD diventa Fondazione ISTUD e tra
i suoi soci annovera Assolombarda, Generali, Intesa SanPaolo, Zucchi, FontanaArte,
Ferrero, Sea e Angelini, dando concretezza all’idea di una business school
indipendente, snodo di una rete allargata di interlocutori e di imprese, e al servizio del
processo di modernizzazione della società e dell’economia. Nel 2008 Barbara Zucchi
Frua diventa Presidente, rendendo l’ISTUD l’unica scuola di management in cui il
vertice sia interamente rappresentato da donne.
Nel 2001 viene realizzato il progetto REBUS – Relationship Between Business and
Society – che indaga criticamente le pratiche di responsabilità sociale delle imprese
che in quel momento iniziano a muoversi su questo terreno e i cui risultati saranno
pubblicati nel 2004 in un volume dal titolo Management e Responsabilità Sociale.
Nel 2002 nasce l’Area Sanità e Salute e si consolida il rapporto tra l’ISTUD e i soggetti
istituzionali e territoriali rilevanti. Nel 2004 l’ISTUD diventa membro dell’Eabis –
European Academy for Business in Society – divenendone il partner per la executive
education, e nel 2007 sottoscrive i Prime – Principles for Responsible Management
Education – emanati nell’ambito del Global Compact delle Nazioni Unite.
77
Nel 2009 pubblica il suo primo report sociale.
Nel 2010 viene lanciato il primo Green management and Entrepreneurship Program.
La valorizzazione e lo sviluppo delle medie imprese italiane diventano uno degli
obiettivi strategici, e nel 2009 viene avviata una partnership con Mediobanca, volta
alla definizione e alla diffusione di modelli e pratiche di gestione tipici delle medie
imprese del Quarto Capitalismo.
Nel 2010, a quarant’anni dalla sua nascita, l’ISTUD si organizza in practice, di
cui fanno parte non solo docenti ma anche manager aziendali, con l’obiettivo di
avvicinare sempre di più l’attività di ricerca e progettazione della formazione ai
problemi reali e di continuare a esercitare la sintesi tra teoria e pratica che da
sempre è stata la sua cifra distintiva.
A quarant’anni dalla sua nascita, la Fondazione ISTUD conferma il suo ruolo
d’innovazione e di anticipazione delle tendenze evolutive dello scenario economico.
Chiudono la serie dei racconti: Alberto Melgrati, imprenditore ed ex docente della
Scuola, e Luigi Reale, uno dei giovani che, in questi anni, presso ISTUD è cresciuto.
78
79
Alberto Melgrati > note biografiche
Ezechiele e Schlomo
Mi chiamo Alberto Melgrati. Sono laureato in Lettere Moderne. Nel 1998 sono
entrato in ISTUD: mi hanno preso perché nessuno voleva occuparsi di project
management (oppure: ho scelto il project management perché c'era uno
spazio libero). Mi sono occupato anche di organizzazione, in teoria e in pratica.
Dal 2006 sono amministratore delegato di una società di gestione immobiliare:
curiamo direttamente 1000 appartamenti e un po' di uffici nelle città italiane
ed europee, adibendoli a esigenze di breve periodo. Sono oboista per il tempo
che resta; infine, sono appassionato di alpinismo e arrampicata, anzi, sarebbe
meglio dire, sono ossessionato dalle cime delle montagne, luogo della massima
felicità terrena. Sono sposato e con due figli (i quali vengono sempre per ultimi,
aggiungerebbe mia moglie).
Alberto Melgrati
Ezechiele e Schlomo sono figlio
e nipote del padrone di una
ferramenta nel quartiere ebraico di
New York. Un giorno, un cliente si
avvicina al bancone per pagare la
merce. “Un dollaro”, dice il piccolo
Schlomo. Il cliente poggia sul bancone
una banconota da dieci e se ne va.
Padre e figlio restano in silenzio.
“Babbo, puoi spiegarmi cos’è la
Business Ethic?”, chiede Schlomo a
suo padre.
“Molto semplice: il cliente ha
creduto di pagare con un dollaro,
confondendo le due banconote.
La domanda che la Business Ethic
c’impone è: lo diciamo o non lo
diciamo… al nonno?”
Così si era chiuso un corso dedicato
all’Etica nel Business, nel 2007. Era
presente tutto il top management
di una delle più grandi società
industriali italiane. Il rischio di
progettare un’idiozia era altissimo
(la quasi totalità dei corsi su questo
argomento era notoriamente
80
idiota). Si era così deciso di ‘sfidare’
il tema ricostruendo, prima e
durante gli incontri in aula, alcuni
casi critici vissuti dall’azienda
e finiti sui giornali, casi da cui
affioravano i complicati percorsi
che portano i manager a decidere
condotte ambigue, chiudendo
la bocca e turandosi il naso nel
momento decisivo.
L’idea aveva funzionato: in pratica,
avevano tutti il problema di come e
se dirlo al nonno. Era un tema fatto
di dilemmi e non di regole e, per
conto mio, credo che nessuno sia
tornato a casa convinto di essere
immune o moralmente vaccinato
da certi rischi.
Mi pare che questo spieghi cosa sia
stata l’ISTUD nel periodo in cui ci ho
lavorato.
Innanzitutto, era ed è una scuola
che non semplifica i problemi. I
manager che si rivolgono alle scuole
di business chiedono in primis
– giustamente – di semplificare
il casino costituito dalla realtà
del mercato e del lavoro di tutti
i giorni. Per questo le business
school sono le principali fucine
di matrici a due dimensioni che
segmentano la complessità e la
risputano in quattro concetti autoevidenti. Secondo, bisogna fornire
diplomi per ‘sostenere’ le carriere:
certificati di partecipazione al
master, certificati di acquisizione
di competenze, perfino certificati
di stabilità psico-fisica, ottenuta
correndo su un ponte tibetano
sopra le rapide del torrente della
morte.
ISTUD è stata sempre allergica a
queste cose: pochi master, pochi
certificati, pochi corsi su ‘come fare
per’ vendere meglio, pianificare
meglio, essere manager più amati
dal proprio capo.
Tra il 1990 e il 2000 c’è stato un
momento di forte innovazione:
anche a seguito dell’avvento di
internet, molte scuole, e noi per
primi, hanno battuto strade diverse,
aprendosi alla collaborazione con
scuole estere e tentando di usare
le nuove tecnologie per cambiare le
regole della formazione. Questo ha
prodotto progetti bellissimi, però,
a livello sostanziale, ha innovato
meno di quel che si sperava. In
seguito, vi è stata una progressiva
e rapida omologazione, per cui
è sembrato che il ciclo vitale del
mercato delle business school fosse
arrivato a maturazione: un mercato
in cui si gareggiava a certificare
competenze e a istituzionalizzare
l’istituzionalizzabile.
Noi ci siamo affezionati ai corsi
cosiddetti ‘su misura’: se un’azienda
ti chiama, vai a incontrarla a casa
sua, cerca di capire cosa vuole e
prova a spiegarglielo. Infine, vedi di
progettare un percorso formativo.
Andavamo in aula stando sempre
in bilico: da una parte, rispecchiare
un mondo complesso facendo
emergere le responsabilità;
dall’altra, dare qualche schema
e qualche certezza in più. Non
volevamo ridurci a entomologi
giudicanti ma neppure ossequiare
il dirigente di turno all’insegna del
‘tutto chiaro e tutto subito’.
ISTUD mi ha dato modo di
ragionare, sempre in completa
autonomia, spesso obbligandomi
a cambiare idea sul lavoro e sui
manager. Se dovessi ridurre a un
solo punto la mia esperienza, dovrei
tornare alla storiella del nonno
ebreo: valeva sempre, e prima di
tutto, per noi.
81
Luigi Reale > note biografiche
Che lavoro fai?
Mi chiamo Luigi Reale e sono coordinatore dei progetti di ricerca dell’Area
Sanità e Salute della Fondazione ISTUD. Mi occupo di progettazione, gestione,
coordinamento di attività di ricerca e interventi formativi in ambito sanitario.
Luigi Reale
“E tu che lavoro fai?”
Prima di rispondere, mi concedo
qualche secondo; accenno un
sorriso e poi un breve sospiro che
contribuisce, come sempre, a far
crescere la suspance.
In realtà, non ho una risposta
pronta. La guardo e penso a ciò che
può sapere del mio mondo, penso a
quali parole utilizzare.
Lavoro da quattro anni in
Fondazione ISTUD. Mi occupo di
progetti di ricerca, formazione e
consulenza nel settore della sanità e
della salute.
Mentre le parlo, allargo lo sguardo
alle altre persone sedute al tavolo
e osservo i loro cenni di assenso.
Non svolgere una professione
nota, di quelle che si trovano nei
moduli prestampati da compilare,
rende quei cenni vaghi segnali
82
di gentilezza più che di vera
comprensione.
Non è la prima volta che vengo
in questo bar; è sempre molto
affollato, pieno di persone che a fine
giornata decidono di incontrarsi
per un aperitivo. Siamo in fondo a
una grande sala, seduti intorno a
un tavolo dal quale si può osservare
il barman che affannosamente
prepara i drink e il via vai di persone
che vanno a prendere da mangiare
al buffet. Io sono l’ultimo del giro
di presentazioni; vengo dopo un
avvocato, un country key account
di una nota azienda alimentare,
un funzionario di pubblica
amministrazione e un ingegnere.
Mi diverte l’idea di non avere
un’etichetta, di essere l’unico, fra
quelli seduti al tavolo, con una polo
e un paio di jeans, e sapere che,
nonostante questo, sono vicino
ai loro mondi professionali più di
quanto possano immaginare.
Ricordo il mio percorso in ISTUD,
iniziato cinque anni fa al termine di
un Master, dopo aver mosso i primi
passi nel mondo del lavoro più da
visitatore che da protagonista.
Il mio primo approccio con ISTUD
l’ho avuto con Maria Giulia e con
Giorgia, rispettivamente la mia
responsabile e una sua stretta
collaboratrice. Era una tarda
mattina autunnale; mi sembrava
così strano avere un appuntamento
per un colloquio di lavoro
nell’appartamento del mio possibile,
futuro capo. Eppure, l’essere entrato
in quell’intimità domestica ha reso
l’incontro, più che un colloquio
di lavoro, uno scambio di visioni
tra persone a cui sta a cuore un
argomento, in quel caso la salute,
intorno a quali modalità sviluppare
per innovare e migliorare la vita
delle persone.
Ero un ragazzo imbevuto di teoria,
abituato a conoscere la realtà
aziendale dal punto di vista di chi
scrive manuali, animato da un’idea
di profonda gerarchia, rigidità e
ricerca della perfezione. Quello
stesso ragazzo si sarebbe sentito
a disagio seduto a questo tavolo,
privo della sicurezza di un titolo, di
una divisa o di un grande brand.
Eppure l’informalità di quel
colloquio, la chiarezza e
l’entusiasmo con cui mi venivano
illustrati gli obiettivi a cui tendere
mi spiazzarono e, al tempo stesso,
mi colpirono positivamente.
Quella familiarità e quel modo di
analizzare le cose sono ancora
presenti in tutte le nostre riunioni
di lavoro.
Mentre comincio a sorseggiare il
prosecco che il cameriere mi ha
appena portato, la ragazza seduta
alla mia sinistra mi domanda: “Ma
che tipo di progetti?”.
Sto seguendo un progetto che
analizza i costi sostenuti dalle
famiglie di persone con Sclerosi
Laterale Amiotrofica (SLA).
Attraverso focus group e interviste,
cerchiamo di capire i bisogni di
pazienti, familiari e professionisti,
individuando quali sono le cose
che funzionano e quali invece le
aree critiche. Sulla base di quello
che emerge, formuliamo proposte
concrete di miglioramento,
comunicando gli esiti alle istituzioni.
“Venerdì prossimo ci sarà un
convegno con i risultati. Se vuoi venire
l’incontro è aperto a tutti”, le rispondo,
prima di finire il prosecco.
Al di là della porta d’ingresso di fronte
al bancone, sta scendendo la sera.
83
84
i valori svelati
85
I VALORI E I VALORI SVELATI
L’esplorazione di sé per dare “forma” al valore
Il mito è
l’esperienza
del significato
Joseph Campbell
La seconda parte dell’autobiografia
è dedicata alla cultura dell’ISTUD e
ai suoi valori: Squadra, Potenzialità,
Risultati, Metodo, Integrità e
Sostenibilità.
Abbiamo voluto esplicitare il
significato che i valori hanno per
le persone dell’ISTUD e il fatto che
essi rappresentino la guida implicita
per il lavoro di ciascuno di noi. Per
ciascuno dei valori enunciati, si
riporta la descrizione e il contenuto
che emerge e s’inferisce dal
lavoro svolto dai gruppi (processo
e output), nonché il soggetto
cinematografico originale che
ciascun gruppo ha prodotto.
86
La composizione dei sei gruppi che
hanno collaborato alla realizzazione
dei soggetti è stata guidata, sin dal
principio, dall’eterogeneità, ovvero
dal tentativo di garantire il rispetto
di alcune differenze, all’interno
di ciascun team, considerate
fondamentali per consentire un
risultato creativo in grado di favorire
un’efficace “messa in scena” dei
valori dell’ISTUD.
Tre dimensioni della diversità,
in particolare, appaiono utili per
analizzare i lavori svolti dai gruppi.
La prima riguarda la famiglia
professionale di appartenenza dei
partecipanti (ciascun gruppo era
composto sia da docenti che da
personale della segreteria e degli
uffici di supporto dell’ISTUD); la
seconda è relativa all’anzianità della
relazione (il cui range spaziava da
pochi mesi a diverse decine di anni)
dei partecipanti con l’ISTUD; la
terza, infine, riguarda l’intensità dei
rapporti (in termini di bilanciamento
tra collaborazioni più stabili e
collaborazioni più sporadiche) con
la Scuola.
Il rispetto di questa eterogeneità
non è stato funzionale solo
all’obiettivo di garantire la
massima pluralità di punti di
vista e idee utili a creare le storie,
ma ha rappresentato anche una
soluzione preziosa per evitare
due insidiose trappole narrative
all’interno delle quali i sei gruppi
sarebbero potuti cadere.
C’è, infatti, una prima trappola,
tipica di qualsiasi realizzazione
di un’autobiografia organizzativa,
rappresentata dall’eccessiva
familiarità che le persone coinvolte
possono avere con l’organizzazione.
L’essere contemporaneamente
autori e protagonisti della storia
che si sta raccontando, spesso
impedisce agli individui di prendere
le giuste distanze dalla realtà che
stanno descrivendo in modo da
poterla osservare e narrare nella
maniera più oggettiva possibile.
Al contempo, il progetto presentato
in questo volume presentava anche
una seconda trappola, ovvero il
rischio che i formatori, posti di
fronte al compito di interpretare
i valori dell’ISTUD, assumessero
un approccio didascalico,
concentrandosi più sul tentativo di
fornire una definizione esaustiva
del valore loro assegnato che sul
compito di “metterlo in scena”.
I gruppi così composti hanno
prodotto i sei soggetti, ciascuno
dedicato a uno specifico valore,
proponendo in questo modo
87
i nostri valori
METODO
La correttezza scientifica, la
ricerca e la sperimentazione
come unica via per la crescita
costante.
INTEGRITÀ
Il dialogo attento e
trasparente con il
cliente. Il confronto
e l’ascolto per la
valorizzazione e la
condivisione di saperi
e conoscenza.
SOSTENIBILITÀ
metod
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L’approccio sistemico, etico
e sostenibile.
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Po
POTENZIALITÀ
Le caratteristiche individuali
e i talenti dei singoli posti al
centro del valore aziendale.
Il rispetto dell’individuo e
delle sue potenzialità.
88
SQUADRA
RISULTATI
L’ottenimento di risultati
utili per i nostri clienti e per
la società, dandone conto.
Il lavoro insieme
con passione
ed entusiasmo.
Il coraggio e la
costanza alla
base del nostro
impegno.
la loro visione specifica di tali
valori. È curioso osservare come,
nonostante i team abbiano lavorato
in maniera totalmente indipendente,
i soggetti presentino numerosi
elementi in comune, elementi che
possono essere indicati come tratti
distintivi della cultura organizzativa
dell’ISTUD.
Un primo elemento da segnalare
è l’approccio al cambiamento che
caratterizza i comportamenti dei
protagonisti. Tutti i soggetti, infatti,
presentano storie di cambiamento.
È vero che la presenza di significative
evoluzioni nella vita dei protagonisti
era uno dei requisiti del mandato
assegnato ai gruppi, ma è anche vero
che ciascun team è stato libero di
scegliere il senso e la modalità con
cui interpretare tale mandato.
In questa assoluta libertà, tutti i
gruppi hanno creato personaggi
in grado di guardare con fiducia
al cambiamento: spesso, essi
si trovano a vivere situazioni
drammatiche e sono costretti a
compiere sacrifici importanti ma,
comunque, si dimostrano in grado
di non subire gli eventi, sono cioè
capaci di mettersi in discussione e
riescono ad analizzare in maniera
critica le proprie azioni e il proprio
passato in modo da valutare e
ponderare le proprie scelte future.
Ancora, in tutte le storie appare
centrale il ruolo svolto da alcuni
attori che aiutano i protagonisti
a prendere consapevolezza
della necessità di cambiare,
accompagnandoli nel processo
di transizione dallo stato iniziale
a una nuova realtà. È del tutto
evidente il richiamo alla figura
del formatore, il cui compito,
nella prospettiva dei gruppi (e,
per estensione, dell’ISTUD), non
è quello di chi deve trasferire
contenuti, ma quello di chi deve
generare consapevolezza nell’altro
agevolandone così il cambiamento.
I protagonisti dei soggetti,
dunque, accettano l’aiuto esterno,
mettendosi in gioco e lasciando
che le cose accadano. Tale
atteggiamento – si badi bene – non
deve essere interpretato come
mero fatalismo, ma come curiosità
verso il futuro e condizione
indispensabile per poter analizzare
il nuovo contesto che si va
disegnando di fronte a loro, al fine
di ridefinire i propri comportamenti
e le proprie azioni.
Partendo da tale premessa, appare
opportuno analizzare più a fondo
le soluzioni narrative scelte dai
diversi gruppi, al fine non solo
di comprendere meglio l’idea di
fondo che ha guidato ciascun team
nella rappresentazione del valore
assegnato, ma anche di apprezzare
la trasversalità di tali valori, ovvero
la presenza di elementi riconducibili
a un determinato valore anche
all’interno di racconti non
espressamente a esso dedicati.
89
La squadra
Diamo vita a un mondo a colori (soggetto originale gruppo 1)
Percorrendo una stradina che attraversa una campagna i cui colori sono esaltati da
un'abbacinante luce estiva, un uomo in bianco e nero, vestito in giacca e cravatta,
con una ventiquattrore in mano, si avvicina all'ingresso di un edificio. Vi entra.
L’interno dell’edificio è uno spazio multiforme e in continuo divenire grazie al
lavoro incessante, calmo, armonicamente diviso e organizzato degli uomini e delle
donne che lo popolano, vestiti diversamente ma tutti nelle gradazioni del giallo e del
rosso. Disegnano porte, finestre, oggetti, elementi architettonici che magicamente
divengono reali, dando così forma, consistenza, senso allo spazio vuoto e bianco da
incorporare nell'edificio.
Mentre su una parete bianca stanno disegnando una porta e la chiave per aprirla,
l’uomo in bianco e nero passa, afferra la chiave dalla mano di una persona, apre la
porta, varca la soglia, chiude la porta. La persona a cui è stata sottratta la chiave
rimane interdetta e bussa ripetutamente alla porta che però resta inesorabilmente
chiusa. Dopo un po', la persona scrolla le spalle e riprende a lavorare con gli altri.
Passa il tempo senza che la porta si apra. La trasformazione dello spazio vuoto e
bianco continua senza sosta. Nuovi ambienti, nuovi arredi che rendono più complesso
ed eclettico l'edificio. I colori sono brillanti. L’uomo in bianco e nero esce dalla
stanza, chiude la porta, si mette la chiave in tasca, esce dall’edificio. Riattraversa la
stradina della campagna ancora accesa dalla luce dell'estate.
Sulla stessa stradina di campagna cade una leggera pioggia autunnale. L’uomo in
bianco e nero la percorre nuovamente, diretto verso l’edificio. Vi entra.
All’interno, gli uomini e le donne in giallo e rosso continuano a disegnare e a dare
forma e consistenza ai propri bisogni, ai propri desideri, alle proprie fantasie. L'uomo
in bianco e nero raggiunge la porta, estrae dalla tasca la chiave, apre la porta, entra e
la richiude.
Passa il tempo senza che la porta si apra e senza che la pioggia cessi. Anzi, la pioggia
s’intensifica. L'acqua comincia a infiltrarsi nell'edificio. Ci si organizza per limitare
i danni. Si disegnano e realizzano soluzioni dapprima semplici, poi più ingegnose
per combattere le infiltrazioni. È tutto inutile e diventa chiaro che l'edificio rischia
il crollo. Nell'emergenza viene meno la suddivisione dei ruoli e tutti fanno tutto il
90
La metafora dell’arcipelago
rappresenta, forse, l’esempio più
significativo dell’idea di squadra che
emerge dai diversi racconti ed è, al
contempo, altamente evocativa della
modalità organizzativa con cui si opera
all’interno dell’ISTUD.
Gli abitanti delle isole di un arcipelago
hanno confini propri, proprie risorse,
propri modi di organizzarsi, di
amministrarsi e governarsi e propri
modi di ordinare la realtà. Hanno propri
bisogni e interessi. Allo stesso tempo,
l’appartenenza allo stesso arcipelago,
alla stessa bandiera, la provenienza
dalle stesse origini geologiche,
l’essere bagnati dallo stesso mare
e lo stare sotto lo stesso cielo li fa
sentire partecipi dello stesso destino.
Il parlare la stessa lingua li fa sentire
appartenenti alla stessa razza e alla
medesima cultura.
Nell’arcipelago, il contesto esterno (il
mare) è fluido, ma i confini sono fissi. Al
suo interno gli interscambi sono facili
e frequenti e gli abitanti rivendicano
autonomia ma anche connessione con
le altre isole e con la terraferma.
Accettando la metafora dell’arcipelago,
il valore della squadra, in ISTUD,
assume due differenti accezioni: la
“squadra”, al singolare, ovvero l’insieme
dei componenti dell’arcipelago ISTUD,
e le “squadre”, al plurale, cioè i diversi
gruppi-isole che si auto-costituiscono
per lavorare sui vari progetti.
Nel secondo caso, i legami tra i
componenti della squadra sono più
forti. Le persone si “scelgono” tra loro,
non solo sulla base delle competenze di
cui ciascuno è portatore e che servono
per la realizzazione di un determinato
progetto, ma anche sulla base di affinità
elettive. I gruppi, così composti, sono
in grado di definire in totale autonomia
i propri meccanismi di funzionamento,
nel rispetto di regole comuni definite
dall’organizzazione cui appartengono.
Per questo motivo, la “squadra ISTUD”
è una squadra che concede molto
alle persone – in termini di libertà di
espressione, azione e creatività – ma, al
contempo, chiede parecchio in termini
di dispendio di energie e di risorse
perché il team funzioni.
Nel primo caso, invece, i legami
sembrano apparentemente più
deboli: in assenza di vincoli formali
forti che tengano assieme le diverse
isole dell’arcipelago e i singoli abitanti
tra loro, è la condivisione di codici,
linguaggi, significati e valori comuni il
principale collante della squadra.
Questa continua dicotomia tra
singolare e plurale, tra “squadra”
e “squadre”, tra isola e arcipelago,
consente la piena valorizzazione delle
differenze individuali. La squadra ISTUD
non spinge verso l’omologazione:
accetta le differenze, le accoglie, non
percepisce la contaminazione come
un rischio ma come un’opportunità.
Al contempo, l’accettazione delle
differenze conduce inevitabilmente
a divergenze di opinione all’interno
della squadra. Ciò rende talvolta
le dinamiche interne meno fluide:
rinunciare alla propria idea è difficile
per chiunque, si generano situazioni
potenziali di conflitto che necessitano
di essere gestite in maniera costruttiva.
91
necessario continuando a lavorare in armonia. La pioggia non cessa e l'edificio, pezzo
dopo pezzo, comincia a collassare. Gli uomini e le donne concentrano gli sforzi nel
tentativo di salvare il cuore segreto, più prezioso dell'edificio, la ragione stessa della
sua esistenza. Per evitare che crolli o venga spazzato via, lo circondano e stringendosi
gli uni agli altri formano un solido scudo protettivo. Quando finalmente la pioggia
cessa, l'umana imbracatura si scioglie e scopriamo che il cuore segreto altro non è
che una stanza.
Si apre la porta della stanza e sulla soglia appare l’uomo in bianco e nero. Davanti e
intorno a lui ciò che resta dell'edificio è un immenso lago d'acqua colorata. L'edificio,
crollando, ha infatti rilasciato i propri colori. L’uomo, imperturbabile, fa per compiere
il primo passo per allontanarsi da lì. Prima che possa cadere in acqua, gli uomini
e le donne intorno a lui, gli disegnano assi di legno colorate sotto i piedi. Asse dopo
asse, l’uomo si allontana da lì, e, passo dopo passo, il suo bianco e nero lascia il posto
ai colori. Anche gli uomini e le donne che restano lì dove sorgeva l'edificio o che
seguono e rendono possibile il cammino dell'uomo cessano di essere bicolori. L’uomo,
finalmente a colori, si allontana verso un punto dell’orizzonte.
Per la prima volta si guarda intorno, e sorride agli uomini e alle donne che rendono
possibile il suo cammino.
92
93
I RISULTATI
L’illusione della palma miracolosa | soggetto originale gruppo 2
Sull’isola la vita scorre tranquilla tra meravigliose palme di cocco. I vecchi insegnano
ai giovani come costruire le capanne, ricavare il cibo dalle palme e cucinarlo. Uomini e
donne fanno gli stessi mestieri. Le donne portano gioielli di conchiglie intrecciate con
foglie di palma. Il villaggio è prospero e felice.
Una mattina, al momento della divisione dei cocchi, una famiglia ne rimane senza. È
la prima volta che accade. Si ridistribuiscono i cocchi. Ma i cocchi continuano a essere
sempre meno, le razioni si fanno sempre più piccole, la gente comincia a lamentarsi e a
litigare per il cibo. I saggi tengono un concilio piuttosto animato. Per alcuni, si devono
coltivare le palme diversamente, per altri si devono introdurre altri tipi di piante. Il
consiglio, mediando fra le due proposte, decide che si debbano andare a cercare altri tipi
di palme.
Un gruppo prende il mare alla ricerca di altre palme e torna portando il germoglio della
Palma Miracolosa. È piantata con i riti di auspicio della comunità. Alcuni saggi, che
dissentivano dalla decisione di portare sull’isola una palma estranea, non partecipano
alla festa. La Palma Miracolosa cresce rigogliosa e dà i suoi primi frutti, più dolci e
succosi di quelli di prima. La nuova specie viene piantata ovunque.
Una notte, un rumore cui nessuno degli abitanti dà importanza. Scoprono il mattino
seguente che una delle Palme Miracolose è crollata a terra. Di nuovo lo stesso rumore
della notte prima. Un'altra palma caduta. Una dopo l'altra, tutte le palme nuove crollano
a terra. La comunità è chiamata a raccolta. Le Palme Miracolose sono ammalate
e vanno estirpate. Arriva un guardiano con un'ulteriore tragica notizia. Anche le
palme secolari hanno cominciato a venir giù. Le palme nuove hanno contagiato le
vecchie. Presto non ci sarà più cibo sull’isola. I saggi del villaggio esaminano le palme
e osservano che le radici sono marce e non tengono più insieme il terreno. L’isola è
quindi condannata a sfaldarsi. Gli sciamani cercano la causa della misteriosa malattia
per trovare un antidoto. L'isola comincia a sfaldarsi e a sprofondare. La popolazione
deve lasciare l’isola. Hanno però solo le piccole canoe utilizzate per i brevi spostamenti
nell’arcipelago.
I saggi progettano una grande nave che viene costruita da tutti con le poche palme sane.
A bordo portano i semi delle palme vecchie e i gioielli di conchiglia e foglie di palma. Gli
94
Soddisfazione professionale ed
economica, impatto, continuità nel
tempo, proliferazione e crescita,
cambiamento, mantenimento delle
radici: sono questi i risultati che
emergono come prioritari dall’analisi
dei soggetti. Sono la contropartita
del lavoro.
I risultati sono individuali e collettivi.
Sono individuali quando riguardano
la qualità della prestazione
professionale, la gratificazione che
si ottiene quando si è creata una
relazione con i partecipanti e si
percepisce di avere colpito la loro
mente e il loro cuore aiutandoli a
vedere il mondo con occhi diversi.
Quando ci si accorge di avere
ragione, quando il merito viene
riconosciuto e apprezzato, quando ci
si sente legittimati dalla comunità.
Sono collettivi, invece, quando si
sente che insieme agli altri si è creato
o raggiunto qualcosa che altrimenti
non si sarebbe mai creato, di cui si è
condivisa la fatica e la soddisfazione.
Quando appare evidente di stare
partecipando a un’impresa unica,
riconosciuta dall’esterno, utile per
il Paese. Quando si comprende di
appartenere a un mondo di cui non
esistono doppioni.
I risultati a cui tendere sono
ambiziosi e non si raggiungono
facilmente: contribuire alla crescita
di una comunità, migliorare la
vita delle persone nella comunità,
esprimere pensiero libero e critico su
quanto ci circonda, superare indenni
sfide incombenti. In tutti i soggetti
i risultati si ottengono basandosi
sulle proprie forze, non cercando
scorciatoie. Non c’è mai un deus ex
machina.
I risultati non sono frutto di un
processo lineare e prevedibile, ma
piuttosto di un processo empirico
di sperimentazione. Le storie
raccontate sono irte di ostacoli,
difficoltà, ripensamenti. La loro
risoluzione positiva richiede sempre
una relazione con il mondo esterno,
e la contaminazione armonica e non
conflittuale con mondi diversi.
I risultati sono di breve e di lungo
periodo.
Puntare ai risultati significa guardare
all’oggi, condividendo obiettivi e
meriti con i committenti, con i
colleghi e con la società rilevante.
Non sono autoreferenziali. I
risultati, non solo quantitativi ma
anche qualitativi, guidano l’attività
quotidiana: definiscono i criteri di
controllo e valutazione, di allocazione
delle risorse, di consuntivazione e
rendicontazione.
Ma non basta. Puntare ai risultati
significa anche guardare al
domani, ricercando continuamente
un’evoluzione costruttiva dei propri
confini e dei propri modi di operare,
guardando fuori, superando i
confini delle proprie comunità di
appartenenza e adattandosi a ciò che
chiede il mondo esterno, mercato e
società, imparando dagli altri.
95
sciamani hanno scoperto la causa della mortale malattia. È un insetto dai cento occhi
e dai mille piedi. Ne portano con sé alcuni esemplari da studiare. La comunità sale
sulla grande nave poco prima che l'isola sprofondi. La nave s'allontana dall'arcipelago
conosciuto. Tristezza, spavento, mestizia nei cuori.
All’orizzonte, un’isola deserta con palme rigogliose. Si diffonde rapido l'entusiasmo
all’idea di sbarcare per ricostruire il villaggio, ma il primo che mette piede al suolo
è morso da un serpente e muore. Migliaia di serpenti sibilanti invadono la riva. La
nave riprende il largo e dopo qualche tempo giunge a un'isola rocciosa. Decidono di
esplorarla. L'isola è senz'acqua, e non vi cresce pianta. Scoraggiati, riprendono il
largo fino a quando giungono alla terraferma. Sbarcano e chiedono ospitalità ma non
riescono a farsi capire dagli abitanti del luogo, che gli puntano contro le armi. Prima del
rapido reimbarco, gli sciamani fanno in tempo a notare che anche lì le palme crollano al
suolo.
Durante la navigazione, le sciamane mettono a punto l’antidoto alla malattia delle
palme, capace di uccidere e bloccare la proliferazione dell'insetto dai cento occhi e dai
mille piedi. La comunità ha nel frattempo imparato a mangiare e conservare le alghe e
a pescare e mangiare i pesci.
Giungono a un'altra terra ma, memori delle esperienze avute, non vi sbarcano. Una
barca volante si stacca da terra e li raggiunge. L'equipaggio a bordo della barca volante
li invita ad approdare. La comunità accetta l'invito. A terra un mondo finalmente
accogliente. Imparano rapidamente a capirsi. Quella terra è piccola e non può
accoglierli tutti. La comunità deve riprendere il viaggio, lasciando quelli che desiderano
restare e imbarcando un gruppo di progettisti di barche volanti che vogliono entrare a
far parte della comunità.
Approdano nuovamente sulla terraferma da cui erano stati scacciati con violenza. I
progettisti delle barche volanti che parlano la lingua del posto chiedono il permesso
di curare le palme ammalate. Sciamani e sciamane versano l’antidoto nel tronco
delle palme, e piantano i semi delle loro palme antiche. Dopo qualche tempo, le palme
guariscono. In premio, il capo degli abitanti della terraferma popone alla comunità di
stabilirsi accanto a loro sulla terraferma. Solo alcuni accettano l'invito. Il resto della
comunità si rimette in viaggio.
La comunità affianca alla vecchia nave di legno una nave volante. Le famiglie si sono
suddivise in armonia gli spazi delle navi. La comunità ora ha cibo, gioielli di conchiglia
e di palme donati dagli abitanti della terra, in cambio di alghe e racconti, e cresce in
conoscenza e saggezza con ogni terra e popolo che incontra.
96
97
L'INTEGRITà
Questione di stile | soggetto originale gruppo 3
Parigi, ottobre 2010. L’attesa sfilata della moda pret-a-porter della maison Lagarde.
Anne Lagarde passa tra gli stand come un generale e controlla, sin nei minimi dettagli, la
sua collezione. I suoi collaboratori sono in apnea, la tensione si taglia con il coltello.
La serata ha inizio, il silenzio cala nella sala. I vip nelle prime file divorano la passerella
con gli occhi. Il gradimento e il consenso sono generali, ma l'attenzione di Anne viene
rapita dal suo ospite d’onore, l'attore più famoso del momento. Qualcosa in lui la colpisce e
l'infastidisce. La borsa che il famoso attore ha con sé è la più bella che Anne abbia mai visto.
C'è un problema: non è stata disegnata da lei!
Durante il party che segue alla sfilata, Anne incarica un uomo del suo staff di scoprire da chi
è stata ideata e realizzata quella borsa.
L’informazione arriva sul suo tavolo. La borsa è prodotta da Philippe, un talentuoso stilista/
artigiano, con una bella moglie e un grosso cane peloso. Il suo stile di vita è simile al suo stile
sartoriale: originale e anticonformista. Indisciplinato, aperto agli altri e alla vita, sempre
pronto a dare fiducia al prossimo. Lavora seguendo il suo estro piuttosto che le esigenze del
mercato, e lo fa da solista tutto genio e sregolatezza.
Anne, nonostante la distanza siderale con il proprio stile di vita e di lavoro, decide che
Philippe deve lavorare per lei. Lo convoca nel proprio lussuoso ufficio e con piglio deciso gli
propone di diventare il responsabile della sua linea di accessori. Philippe rifiuta la proposta.
Non vuole rinunciare alla propria autonomia e neppure lavorare dodici ore al giorno sotto il
giogo di scadenze improrogabili. Quel tipo di impegno minerebbe la sua creatività. Anne è
furente. Non è manager che accetti un rifiuto.
Parigi, novembre. A Philippe non ne va più bene una. Per la prima volta, il direttore della
sua banca gli nega un’estensione dei fidi e addirittura gli chiede di rientrare. Il contratto di
affitto del suo atelier viene disdetto. Philippe cerca aiuto presso quelli che considera amici
ma questi gli voltano le spalle. Anche le cose in famiglia non vanno bene. La sempre più
difficile situazione ha aggravato le incomprensioni con l’annoiata e infedele moglie. Quanto
sta accadendo è per lui incomprensibile, fino a quando qualcuno che bazzica nell’ambiente
della moda gli svela l’arcano. La responsabile di tutti i suoi guai è Anne Lagarde.
98
Questo è stato uno dei valori più difficili
da riconoscere e descrivere. Dai confini
semantici incerti, è stato tratteggiato
dai gruppi attraverso l’immaginazione
e la narrazione di comportamenti
e situazioni chiaramente opposti: il
tradimento, la delazione, l’opacità, la
disonestà, l’ambiguità, l’inadempienza.
Se stiamo al gioco dei gruppi, e
leggiamo in chiaroscuro ciò che le storie
ci raccontano, ci si svela un codice
di tutt’altro tenore che mette in luce
una ricchezza sorprendente di modi di
interpretare il valore dell’Integrità.
Integrità è prima di tutto difesa
dell’identità, del singolo e del gruppo,
coerenza con se stessi, interezza e
autenticità. Significa rispetto per il
valore proprio e altrui.
Integrità è incorruttibilità e rispetto delle
leggi e delle regole, interne ed esterne.
Non ci sono scorciatoie. Essere integri
vuol dire sentirsi ed essere liberi di
scegliere, decidere e agire, mantenendo
la propria indipendenza di giudizio, e
nello stesso tempo rispettando le regole
e dando conto della propria azione.
Integrità richiede di gestire i dilemmi
etici, e non coincide con l’integralismo.
Richiede di integrare, mai di escludere
chi ha idee diverse.
Integrità significa trasparenza. Si
esprime nelle relazioni e per questo
non viene quasi mai, nelle narrazioni,
descritta in assoluto, ma sempre in
relazione ad altri. Infatti, nelle storie
l’integrità, o il suo opposto, si riconosce
nei comportamenti dei protagonisti
verso altri personaggi.
In ISTUD il valore dell’integrità
assume significato ed è osservabile
nei comportamenti concreti quando
ci si rapporta ai diversi interlocutori
principali dell’azione: i clienti, i
partecipanti, i colleghi e la comunità
esterna in cui si è immersi.
Integrità verso il cliente significa
non mentire e proporgli ciò che
ragionevolmente gli serve. Significa
dire di no, se è il caso, piuttosto di fare
qualcosa che va contro il proprio credo
professionale. Applicare il giusto prezzo
e rispettare le sue decisioni anche se
non sono favorevoli. Farlo sentire libero
di scegliere, senza rinunciare a esporgli
con autorevolezza e fermezza le proprie
proposte. Vuol dire, di contro, esigere
rispetto e ascolto dal cliente, lavorare
con il massimo rigore e la massima
cura avendo a cuore il suo successo e il
successo dell’impresa per cui lavora.
Integrità verso il partecipante
significa rispettare le sue idee,
ascoltarlo mettendolo a suo agio
e garantendogli riservatezza. La
formazione non è valutazione.
Integrità significa confrontarsi con i
partecipanti serenamente, sapendo
di dovere insegnare ma soprattutto
di potere apprendere, valorizzando la
loro esperienza e competenza. Non
significa ricerca del gradimento e della
collusione, ma dell’apprendimento e
della trasformazione, anche se questo
costa fatica. Non lasciarsi condizionare
dalle posizioni gerarchiche o dal
potere è la base fondamentale per
una relazione simmetrica, né succube,
né dominante. La formazione non è
una vetrina: il partecipante è lì per
apprendere, non per comprare.
Integrità verso i colleghi e
l’organizzazione vuol dire parlarsi
apertamente, darsi un feedback
reciproco in modo diretto e trasparente,
accettando il conflitto e il dissenso.
Significa riconoscere il merito altrui,
difendere la libertà di pensiero e trovare
soluzioni comuni.
Integrità verso l’organizzazione
significa condividere le informazioni e
coinvolgere i colleghi. Vuol dire anche
prendere decisioni drastiche e rapide
quando si è convinti che servano,
avendo come principio fondamentale
la correttezza nelle relazioni e la
considerazione per le persone.
Rispettare le regole organizzative e
proporre soluzioni di miglioramento.
Curarsi dei più giovani, della loro
crescita e delle loro esigenze. Capire e
dare valore alla diversità.
Integrità verso la società richiede un
forte impegno. Vuol dire rispettare le
leggi e i patti, mantenere l’equilibrio
economico senza gravare sulla
collettività ma rendendosi disponibile
alla collettività. Non ricercare rendite
di posizione e sottoporsi al giudizio
del mercato, competere lealmente
riconoscendo la qualità dei concorrenti.
Sostenere da soli i costi della qualità
e dell’innovazione e assumersene
il rischio di impresa, rendicontare
correttamente e in piena trasparenza
tutto ciò che si fa.
99
Una sera Philippe va nella super villa di Anne per chiedere ragione di questo attacco. Per
tutta risposta si trova morsicato a un polpaccio da uno dei pestiferi carlini della manager.
In prossimità del Natale, l'inarrestabile precipitare degli eventi lo trascina agli inferi. Resta
da solo, senza amici, senza più collaboratori – passati nelle fila dell’odiata Lagarde – senza
più casa né atelier, senza più moglie e soprattutto senza il suo amato lavoro. La bottiglia è
l'unico rimedio a portata di mano. Così, una notte, Philippe torna completamente sbronzo
di fronte al cancello della lussuosa villa di Anne. Le urla e gli insulti si sovrappongono ai
rumori delle vetrate che vanno a pezzi sotto le sassate di Philippe. La situazione non dura
molto perché, senza minimamente scomporsi, Anne chiama la polizia che non tarda ad
arrivare e ad arrestarlo.
Parigi, 31 Dicembre. Philippe esce di prigione. Ad attenderlo, solo il cane. Il suo unico
pensiero è quello di vendicarsi contro la causa di tutti i suoi mali.
Decide di buttarsi sotto le ruote della lussuosa auto della Lagarde. Potrà così denunciarla
per tentato omicidio e chiederle un ingente risarcimento. La maldestra messa in scena
non funziona. L'esperto autista della Lagarde evita il peggio e, avvalendosi dei numerosi
testimoni presenti sulla scena, prova l'intento fraudolento dell'incidente provocato da
Philippe che finisce in ospedale, contuso, dolorante e denunciato per tentata estorsione.
Questa volta, con l'aggravante della recidiva, in galera ci starà più a lungo.
Proprio quando la permanenza ospedaliera è alla fine e le porte della galera stanno per
spalancarsi, riceve la visita del vice di Anne. Ritireranno la denuncia. Philippe non ha
neanche il tempo di rifiatare perché l'uomo aggiunge la condizione necessaria perché la
denuncia sia ritirata. Dovrà lavorare come stilista junior nell'ufficio stile della maison
Lagarde, con salario base e livello al minimo previsto! A Philippe non resta che accettare.
L'uomo tira fuori le carte da fargli firmare.
Parigi, gennaio. Al piano terra del palazzo Lagarde, Philippe prende posizione al suo desk
tra i vari e numerosi stilisti. L’ambiente è terribile a causa dello stress e della frustrazione.
Nessuna reale collaborazione artistica fra gli stilisti. Philippe non è a proprio agio, ma,
grazie al suo modo d'essere, non fatica a entrare in relazione con gli infelici colleghi. Il
progressivo affiatamento muta le condizioni di lavoro rigenerando perdute passioni e talenti
appannati, in un clima di condivisione.
100
Parigi, febbraio. All'ultimo piano Anne parla con il suo vice, cresciuto alla sua scuola,
ancora più rigido e inflessibile di lei. La aggiorna su ciò che accade al pianterreno. Le
proposte dell'ufficio stile sono sorprendenti. Anne riconosce il tocco di Philippe.
Incuriosita, decide, a fine giornata, di fare una prima sortita al pianterreno. Lo fa però a
modo suo: di nascosto, spiando. È colpita dall'energia e dalla passione di Philippe, dalla sua
capacità di coinvolgere gli altri nel processo creativo. Quell'uomo, i suoi modi, l'affascinano.
Durante un'altra delle sue segrete sortite al pianterreno, Philippe si accorge di lei. Tra i
due nasce inaspettatamente un dialogo che continua di fronte a una bottiglia di vino. La
conversazione è piacevole, un bicchiere tira l'altro e i due finiscono a letto assieme.
La mattina dopo, riscoprirsi nello stesso letto è uno shock per entrambi. Al lavoro, il clima
tra i due torna a essere quello di sempre.
Le cose vanno per il meglio, il business gira, il clima in azienda non è mai stato così sereno.
Di colpo, però, il dramma! In una fotocopiatrice viene ritrovato un segretissimo disegno
della collezione in preparazione. Qualcuno, è evidente, ha sottratto i disegni per venderli alla
concorrenza. I sospetti iniziali cadono su Philippe, la persona a cui non mancano certo i
motivi per odiare la Lagarde. Solo dopo una serrata ricerca, fatta da Philippe con l'aiuto dei
suoi colleghi, risulta chiaro che è il Vice di Anne ad aver sottratto i disegni per la collezione
da presentare in aprile.
La scoperta e il conseguente iter legale della vicenda di spionaggio industriale non risolvono
però l'enorme problema. Perché aprile è dietro l'angolo e la maison non ha nulla da portare
alle sfilate. Anne è disperata: il tempo non è sufficiente per realizzare una nuova collezione.
Philippe però non si perde d’animo e, all’insaputa di Anne, con i colleghi si dedica anima e
corpo all'ideazione della nuova collezione.
Parigi, aprile. La sfilata è un successo. Philippe e Anne sentono di condividere i frutti
della loro nuova intesa personale e professionale. A fine sfilata, spente le ultime luci, escono
tenendosi per mano, attorniati dai loro amati cani con una bottiglia di champagne e due
calici in mano.
101
la potenzialità
Essenza | soggetto originale gruppo 4
La Dottoressa Bianca Sacco ha quarantacinque anni e lavora in banca come
responsabile grandi clienti. Con grande soddisfazione dei genitori, a venticinque anni
si è trasferita al Nord e ha iniziato la sua carriera in una piccola filiale di provincia,
dove, grazie alla sua precisione, dedizione e senso del dovere ha fatto carriera ed è
molto apprezzata da superiori e clienti.
Divorziata, vive con due figli e la madre che, con la scusa di aiutarla ma in realtà per
farsi mantenere, si è trasferita da lei. L’ex marito è un adulto con la sindrome da Peter
Pan, una figura che in ogni sua incarnazione, marito prima, ex marito ora e padre, si
connota per assenza.
Bianca ha una vita intensa e organizzata tra lavoro, figli e impegni sociali, ed è
anche una perfetta padrona di casa, maniaca nella cura dei dettagli. La casa è
pulitissima, asettica, ordinatissima. Ciò le richiede un grande dispendio di energia
e frequenti discussioni con la famiglia che si professa vittima del suo maniacale
perfezionismo. Al supermercato il carrello è sempre pieno di assorbiodori, detergenti
disinfettanti e antibatterici, saponi liquidi neutri, salviettine igienizzanti, Amuchina.
Il suo approccio al cibo è salutistico e poco godereccio, la sua cucina è nutriente ma
anonima, poco appetitosa. Nonostante l'origine meridionale, non usa spezie, non
frigge né prepara piatti regionali.
Donna potenzialmente bella, si veste per conformarsi e adeguarsi alle varie occasioni:
tailleur in banca, jeans e camicia alle festicciole dei bambini. Sempre cordiale,
sorridente e disponibile, è ammirata da tutti.
Un giorno d'inverno, Bianca deve occuparsi di una pratica non di sua competenza:
la richiesta di un mutuo da parte di Salvatore, un vecchio che vuole ristrutturare un
negozio. L'uomo, piccolo e scuro, emana un odore intenso. Infastidita da quell’odore
dell'uomo, esamina frettolosamente le carte e lo liquida, negandogli il mutuo a causa
dell'età avanzata e delle scarse garanzie offerte. L'uomo va via, e lei apre la finestra
per far cambiare l'aria.
Poche ore dopo, il Direttore Centrale la convoca in sede. Molto freddamente le
comunica che è stata svolta un’indagine interna dalla quale è risultato un grave
102
“Free your potential” è il claim
dell’ISTUD. Libera il tuo potenziale.
Tra i valori dell’ISTUD, questo spiega
meglio degli altri il rapporto che le
persone hanno con il nucleo centrale
del loro mestiere: la formazione. ISTUD
è una scuola. Liberare il potenziale
delle persone e delle imprese è la sua
missione.
Il significato dato al valore della
potenzialità è preciso. La potenzialità
è una promessa. È qualcosa a cui si
aspira, ma che deve ancora diventare.
È un "potrebbe essere" che non è detto
che sarà.
I soggetti narrati enfatizzano la
potenzialità, come oggetto e risultato
di un processo di trasformazione, a
livello sia individuale che collettivo.
Ogni persona ha la sua potenzialità,
che è diversa da quella degli altri e che
la rende unica. La potenzialità, infatti,
valorizza l’individualità, e richiede una
proiezione nel futuro, partendo dalla
corretta conoscenza del presente.
È un valore concreto, possibile e
raggiungibile, ma è nascosto agli
occhi propri e altrui, e rischia di
rimanere celato sotto gli strati della
consuetudine e dell’omologazione.
Per scoprire la potenzialità, ognuno
deve agire, andando oltre gli schemi
consolidati, e rischiare, alla ricerca
della propria strada e delle proprie
aree di affermazione.
Scoprire e valorizzare il potenziale
richiede allo stesso tempo libertà e
guida.
Raramente il potenziale viene
infatti scoperto in solitudine da
chi lo possiede. Scoprire la propria
potenzialità è un processo sociale
d’interazione con altri con cui
rispecchiarsi e da cui imparare.
Non è un processo facile, richiede
aiuto esterno, una relazione di
riconoscimento reciproco e fiducia
nell’altro. Qui si sostanzia il vero e
profondo significato attribuito al lavoro
svolto dalle persone dell’ISTUD.
Raggiungere il proprio potenziale
passa attraverso il confronto e la
conoscenza, attraverso l’innalzamento
delle sfide. Passa attraverso la
capacità di capire il contesto sociale,
economico, politico, e attraverso una
più profonda e attiva interpretazione
della realtà.
criticamente su se stessi e sul proprio
modo di operare, per individuare le
proprie aree di crescita e per essere
protagonisti del proprio sviluppo.
La formazione in ISTUD viene
progettata e realizzata perché
ciascuno possa liberare il proprio
potenziale attraverso lo stimolo
intellettuale, l'interazione con docenti e
colleghi, la riflessione su casi e dilemmi
manageriali. Per imparare a risolvere
problemi e a prendere decisioni, non
per allineare gli individui a un pensiero
dominante.
I docenti hanno la responsabilità di
aiutare i partecipanti a raggiungere
e massimizzare il proprio potenziale
come persone e come professionisti.
Solo attraverso lo sviluppo delle
persone, infatti, si può arrivare a una
vera crescita dell’organizzazione e
dell’impresa.
Lavorare per ISTUD è – lo è sempre
stato – un passaggio importante
per ogni persona. Un passaggio
fondamentale per la creazione della
propria identità professionale e
personale.
I giovani vengono orientati a scoprire
e a sviluppare il proprio potenziale
personale e professionale, e i
manager vengono stimolati a riflettere
103
ammanco: lei ne è ritenuta responsabile. Viene pertanto licenziata con effetto
immediato.
Torna a casa ma non parla dell'accaduto. Nessuno si accorge della sua tensione. Non
la madre che l'incalza, come sempre, con richieste di spese per la casa, non i figli che
continuano a essere concentrati sulle loro cose, sui loro impegni.
Nella cittadina in cui vive si scopre ciò di cui è accusata e la gente, nonostante
l'ipocrita cortesia, comincia a tenerla a debita distanza.
Anche i figli scoprono la cosa a scuola ma, anziché solidarizzare e confortare la
madre, le si mostrano ostili, preoccupati solo delle conseguenze economiche e della
sanzione sociale che potrebbe abbattersi anche su di loro.
Senza lavoro, senza stipendio, sola. Bianca va in crisi.
Inizia la ricerca di un lavoro tra agenzie interinali e cooperative che non hanno
impieghi adatti a persone della sua età, con la sua scolarità e il "precedente" che
pende sulla sua testa. L’unico lavoro che trova è come inserviente in una casa di
riposo per anziani.
Nella casa di riposo, Bianca, così asettica e perfetta, viene aggredita dall'odore acre di
corpi anziani e malati, odore di medicinali e di disinfettanti.
Tra gli ospiti della casa di riposo incontra il vecchio Salvatore, l'uomo a cui ha negato
il mutuo, un ex erborista ormai in pensione. Salvatore la riconosce non per l’aspetto
ma per la totale assenza di odori, una caratteristica che aveva notato durante il loro
primo incontro in banca.
Salvatore le parla molto e comincia a introdurla nel mondo delle essenze, dei profumi,
delle erbe aromatiche che lui conserva e colleziona in centinaia di boccette e barattoli.
104
Mondo nel quale lui ha trascorso la vita e da cui lei si è sempre tenuta a distanza.
Il primo profumo che Bianca riconosce è quello del bergamotto, perché suo
nonno aveva un appezzamento di terra in cui li coltivava. Grazie a questo primo
riconoscimento, Bianca approfondisce la propria conoscenza del mondo degli odori
e dei profumi, un mondo ricco, complesso. Quello che prima la infastidiva, adesso le
piace e dona nuovo senso alla sua vita.
Un giorno, Salvatore annusa in un visitatore una fragranza particolare, la stessa
che ricorda di aver sentito in banca il giorno in cui Bianca gli ha rifiutato il mutuo.
Questo riconoscimento è sufficiente a Bianca per collegare la fragranza a un profumo
e quel profumo al collega che lo usava abitualmente. Tracce quasi impercettibili di
quel profumo Bianca le aveva spesso annusate nel proprio ufficio. Ufficio nel quale
s'introduceva il collega che dal computer di Bianca dava vita ai propri imbrogli.
Bianca riesce a dimostrare la propria innocenza. La Banca è pronta a riassumerla.
Grazie al rapporto e all'amicizia con Salvatore, Bianca ha maturato l'esigenza di
ridefinire i propri bisogni, i propri desideri e quando scopre che l'amico non ha mai
visto un bergamotto decide di portarlo giù al sud, nella terra del nonno, la terra del
bergamotto. Partono con l’auto di Bianca, carica di tutte le boccette e i barattoli di
Salvatore. Per i due è un'esperienza intensa. Bianca capisce che non vuole più tornare
alla vita di prima.
Una volta a casa, riunisce la madre e i figli e dice loro che ha deciso di partire per capire
cosa vuole davvero essere. Esce e riparte in auto. Auto in cui vediamo le boccette e i
barattoli che Salvatore le ha regalato e che l’accompagneranno nel viaggio.
105
IL METODO
Due mondi verso casa | soggetto originale gruppo 5
Il dottor Riccardo Colombo dirige da diversi anni l’azienda di famiglia arroccata su
una collina a poca distanza da una piccola città del Nord Italia. Come ogni mattina,
dopo essersi spinto con la sedia a rotelle fino all’ufficio, chiude la porta dietro di sé, beve
il caffè che Agata, la sua storica assistente, gli fa trovare sulla scrivania, accende il
portatile e passa in rassegna la corrispondenza. La quotidiana ritualità viene scossa da
un’inaspettata convocazione del Tribunale di Milano. Alza lo sguardo sulle pareti spoglie di
quella piccola stanza asettica dove trascorre gran parte della sua vita impartendo direttive
attraverso un interfono.
Come una carta stradale, il metodo
consente alle persone e ai gruppi di
raggiungere i propri obiettivi. Esso
può talvolta avere un carattere più
vincolante per le persone che sono
chiamate ad applicarlo, mentre in
altri casi – la maggior parte – può
consentire ampi spazi di arbitrarietà.
In entrambi i casi, tuttavia, è da
considerarsi sempre come uno
strumento e mai come un fine.
L’alba illumina Manhattan Beach. Jerry, dopo aver riaccompagnato Tiffany – o era Jessica?
– rientra a casa. Parcheggia la Corvette e, vedendo la bandierina della cassetta delle lettere
alzata, cerca affannosamente l’assegno che Ricky gli passa da anni. Trova l’ingiunzione del
Tribunale di Milano che l’obbliga a ritornare in Italia.
Il metodo deve inevitabilmente far
parte del bagaglio professionale
di tutte le persone che lavorano
all’interno dell’ISTUD, ma conoscere il
metodo non significa necessariamente
applicarlo in maniera acritica.
Occorre un’elevata capacità di analisi
del contesto (tutti i facilitatori del
cambiamento descritti nei sei soggetti
riescono a incidere sull’azione dei
protagonisti ponendosi in posizione
d’ascolto nei loro confronti) per
valutarne correttamente la possibilità
di applicazione.
Riccardo aspetta nervoso, seduto davanti a un giudice austero, l’arrivo di Eugenio. Il
pensiero di dover rivedere il fratello per risolvere le questioni legate all’eredità lo turba. Non
sopporta il fratello e teme che la questione ereditaria possa mettere a repentaglio quello
che ha costruito negli anni per l’azienda. Quando Riccardo è ormai certo che il fratello non
si presenterà, Jerry, in perfetta tenuta da surfer, sorridente fa il suo ingresso. Una rapida
lettura ai documenti, una firma e tutti gli sforzi fatti da Riccardo per mantenere il completo
controllo dell’azienda sono vanificati. Il giudice ha infatti stabilito che la metà delle azioni
spetti al fratello. Riccardo spinge frettolosamente la sedia a rotelle fuori dal tribunale per
evitare d'incrociarlo e torna immediatamente alla sua immutabile quotidianità.
L’indomani, la voce squillante di Jerry irrompe nei corridoi dell’azienda, infrangendo il
rigoroso silenzio che da sempre vi regna sovrano. Gli sguardi spiazzati degli impiegati
seguono ogni suo passo. Jerry entra nell’ascensore per andare nell’ufficio del fratello dove
deve firmare gli ultimi documenti per cedere la sua quota dell’azienda in cambio di un
vitalizio più corposo. Incontra una ragazza bella e sofisticata che ricambia educatamente
il suo sorriso prima di entrare nella sala riunioni. Jerry decide di seguirla ed entra nella
106
raggiungimento di risultati migliori,
ma comporta anche rischi più elevati.
Diventa perciò necessaria una
maggiore tolleranza nei confronti degli
errori, che devono essere accettati
e utilizzati come opportunità di
apprendimento collettivo.
La seconda conseguenza riguarda gli
individui. Dal momento che il metodo
non può essere considerato come una
soluzione universale, ma solo come
un “ferro del mestiere”, non è possibile
utilizzarlo come un alibi: il suo utilizzo
difensivo non può rappresentare un
comportamento accettabile da parte
dell’organizzazione.
Infine, come frequentemente
osservato nelle dinamiche che
hanno caratterizzato le relazioni dei
protagonisti con i personaggi che ne
hanno facilitato il comportamento,
il metodo può essere appreso e
trasferito/tramandato da persona a
persona.
Ciò significa che il metodo non è
vincolante. Non può costituire una
soluzione universale. Può essere
messo in discussione e cambiare nel
corso del tempo.
La non universalità del metodo
implica, a sua volta, due importanti
conseguenze.
La prima riguarda l’organizzazione. La
possibilità di sperimentare soluzioni
e metodi nuovi può consentire il
107
sala dove è in corso il consiglio d'amministrazione. Di fronte alla ragazza c’è una sedia
vuota e Jerry non esita a prendervi posto nello stupore generale. Dopo aver ribadito la
legittimità della sua presenza alle obiezioni mosse da Riccardo, che è seduto a capotavola,
i discorsi sulle politiche di business riprendono, mentre Jerry, furtivo, allunga un piede
sotto il tavolo verso la ragazza. Lei, imbarazzata, ritira le gambe per sfuggire allo sfrontato
piedino, si alza e inizia la presentazione per il lancio di un nuovo prodotto. Nel tentativo
di fare colpo, Jerry prende la parola ed espone un'idea ascoltata tra un drink e l’altro in un
bar californiano. Il suo intervento cattura l’attenzione di alcuni consiglieri ma Riccardo
s’irrigidisce e blocca con un gesto ogni possibile discussione.
Al rientro nella casa di famiglia, Riccardo intima a Eugenio di non permettersi più di
interferire nel suo lavoro e di tornarsene alla sua vita da sfaccendato senza arte né parte
in America. Jerry controbatte alimentando l’ira di Riccardo. Al culmine della sua furia,
Riccardo urla che loro non sono fratelli ma che Eugenio è stato adottato da bambino per
"pietà" da parte dei genitori. Jerry, ferito, decide di far valere i suoi diritti sull’azienda di
famiglia e quindi di restare.
Il giorno successivo, al suo arrivo in azienda, Riccardo sente che qualcosa è cambiato. Eugenio
si sta istallando nell’ufficio accanto al suo. L’ufficio di Jerry sarà esattamente l’opposto di
quello di Riccardo: caotico, colorato, divani, cuscini, sedie, incenso e musica a profusione.
L'inserimento di Jerry in azienda destabilizza progressivamente l’ambiente dominato dalle
inflessibili regole e dai metodi rigidi di Riccardo, il quale, irritatissimo si chiude ancor
di più nella sua stanza cercando invano di negare le tracce della presenza del fratello. I
giorni scorrono. L'invadente musica, l’eco delle risate dei dipendenti al rientro della pausa
pranzo, i segnali inequivocabili di un cambio d'atmosfera all'interno dell'azienda, gli
inevitabili incontri con il fratello diventano per Riccardo un peso insostenibile. È obbligato
ad assegnare un ruolo al fratello, ma ne boicotta ogni proposta. Fissa delle riunioni
che servono a rivelare l’inutilità del lavoro di Eugenio, gli fa pervenire documentazioni
incomplete, allontana da lui i dipendenti aumentandone il carico di lavoro, organizza
festini lascivi di cui fa pervenire l’invito al fratello con lo scopo di far accorrere le forze
dell’ordine, creare lo scandalo e indurlo ad andare via. Tutto inutile. Trascorse alcune
settimane, la nostalgia della vita passata, l’ostilità del fratello e la mancanza di autentiche
motivazioni per restare inducono Jerry a fare le valigie per ritornare in California.
108
Riccardo è sollevato. Pregustando la partenza del fratello e godendo della riconquistata
solitudine casalinga, accende lo stereo per ascoltare un brano di musica classica e si
accorge che Chopin è stato sostituito da un cd di Bob Marley. Non spegne lo stereo, lascia
scorrere per qualche minuto la canzone per poi spegnere scuotendo la testa.
Arrivato in ufficio il giorno successivo apprende che gli ordinativi hanno subito un brusco
stop mentre i competitor beneficiano di un forte rialzo grazie a un’idea di business simile a
quella che aveva prospettato Jerry durante il consiglio di amministrazione che ha scatenato
la guerra fra i due. Riccardo rimane chiuso tutto il giorno in ufficio rifiutando qualsiasi
contatto anche con Agata che, preoccupata, decide di andare in aeroporto per fermare Jerry
e convincerlo a restare per aiutare suo fratello.
Jerry non ha la minima intenzione di tornare indietro per quello che non è neanche suo
fratello. Agata gli dice che in realtà sono fratelli, figli dello stesso padre. Jerry la guarda
e non ha bisogno di parole per capire che Agata è la madre. Non desiste però dal suo
proposito e lei torna da sola in azienda.
Agata sta versando una tazza di tè a Riccardo quando appare Jerry sulla soglia. Agata
sorride, versa un’altra tazza di tè e lascia la stanza. I due non riescono a parlare. Dopo
qualche minuto Jerry appoggia la tazza ed esce.
La notte i due fratelli si trovano a casa. Nel buio delle rispettive stanze non riescono a
dormire. S’incontrano davanti alla porta del bagno. Non parlano ma si guardano.
Il giorno dopo l’orologio batte le nove. I lavoratori si stupiscono nel vedere l’ufficio del
direttore ancora deserto e sono increduli quando vedono Riccardo che entra accanto al
fratello. Riccardo ha una camicia slacciata mentre Eugenio, abbandonate le vesti del surfer,
indossa un abito scuro.
Riccardo riprende e sviluppa l’idea di Eugenio. L’azienda ha una crescita vertiginosa, con
una significativa espansione sul mercato estero. La statica azienda ha cambiato volto, le
idee vengono condivise, il personale è diventato un team affiatato e Riccardo una preziosa
guida che ha imparato ad ascoltare.
L’altoparlante annuncia la partenza del volo Milano San Francisco. La porta automatica
delle partenze si apre, Eugenio spinge Riccardo verso l'aereo. Riccardo è pronto a partire
per la prima vacanza della sua vita. Un saluto al fratello, un sorriso ricambiato, il portello
che si chiude sul saluto di un'hostess.
109
LA SOSTENIBILITà
Il valore dei soldi | soggetto originale gruppo 6
Notte. Emma è sola nella sua stanza, non riesce a dormire. Ricorda la scena di tre anni
prima quando, tornata a casa da scuola triste e abbattuta per il furto dell'amato iPhone,
i genitori l'avevano accusata di essere una sprovveduta e le avevano impartito quella che
per loro è l'unica regola di vita: essere furbi, fregare gli altri prima che gli altri ti freghino.
Emma, a modo suo, ha fatto proprio quel comandamento. Essere furbi con i fessi non dà
soddisfazione. Essere più furbi dei furbi, questo sì che è gratificante!
Diventata espertissima di computer, se ne serve per fare soldi. Nel silenzio della sua
stanza, trasferisce denaro dai conti di speculatori di borsa ai suoi vari conti cifrati. Rubare
e accumulare soldi, questa la sua unica passione.
Un mattino, dopo la solita nuotata in piscina, mentre sale al secondo piano della
sua villa per prepararsi per la scuola, coglie una conversazione tra i genitori, i noti
speculatori Falsini. Discutono di un grande affare: l'acquisto dei terreni su cui sorge un
centro di accoglienza per donne straniere vittime di abusi per costruirci sopra un centro
commerciale. Emma pensa a come fare sua l'operazione. Una bella impresa per una
ragazzina di 16 anni, riuscire a fregare persino quegli squali dei genitori.
Pochi giorni dopo, Emma vede nella piscina un barbone che fa tranquillamente il bagno.
Chiama la sorveglianza che fa intervenire la polizia.
Frugando in internet, Emma scopre che l’arrestato è il noto architetto e urbanista Alberto
Biondelli, socio fondatore della società "Città e Futuro", travolta qualche anno prima
da uno scandalo. Francesco Manlesta – amico di Biondelli, compagno di studi e socio
cofondatore della società – acquistava da tempo, per risparmiare, cemento depotenziato,
certificandone caratteristiche e qualità che non aveva. Il parziale crollo di un edificio da
loro costruito aveva fatto scoprire la mortale truffa e aveva coinvolto Alberto, condannato
come legale rappresentante della società e responsabile della direzione dei lavori. Il senso
di colpa lo aveva sprofondato in una crisi profonda da cui era riemerso grazie alla scelta di
una pacifica e innocua vita da barbone.
Emma pensa che Alberto sia l’uomo giusto per il suo piano. Gli fa sapere che ritirerà la
denuncia se si metterà a sua disposizione. Alberto accetta perché la richiesta proviene da
un’adolescente e la cosa lo incuriosisce e lo inquieta. Emma gli illustra il piano. Acquisire
rapidamente i terreni su cui sorge il centro d'accoglienza prima che il piano regolatore
110
Il valore della sostenibilità emerge
dai soggetti almeno in una doppia
accezione: come conciliazione tra
valore economico e valore sociale, e
come capacità dell’organizzazione
di durare nel tempo.
Per creare valore economico è
necessario creare valore sociale. In
tutti i soggetti prodotti dai gruppi
emerge una visione che concilia,
senza esitazione, questo possibile
trade off.
Sostenibilità è presa di coscienza
e considerazione dell’impatto
della propria azione sugli altri. Ed
è volontà di produrre un impatto
positivo. Significa essere in
armonia con il resto del mondo,
comprendere i bisogni e il valore
degli altri. Creare valore per la
collettività.
Sostenibilità è dare voce a un
pensiero alternativo, che, come
una corrente carsica, a volte
emerge e a volte si risotterra,
coperto dalle stratificazioni del
pensiero dominante e dalle mode di
successo. È interessarsi al meglio
per l’altro, non solo per se stessi,
conciliando i legittimi interessi
di tutte le parti in gioco. Significa
creare relazioni di lungo termine,
che durino a prescindere dall’utilità
che in quel momento producono.
Sostenibilità è partecipare con
voce alta al dibattito, senza paura
di esprimere il proprio pensiero.
Significa non sprecare, dare valore
al tempo e alle risorse di cui si
dispone.
Da parte di molti gruppi emerge una
seconda visione, complementare
alla prima, del valore della
sostenibilità. Sostenibilità è
durare nel tempo. È la ricerca
dell’immortalità attraverso profonde
trasformazioni, spesso laceranti, ma
che alla fine producono il risultato
di mantenere in vita. Significa
trasformarsi per non morire,
mantenendo le radici. Sostenibilità
è la difesa dalle minacce esterne,
prima di tutto rappresentate
dalla volubilità dei mercati, ed è il
tentativo di ridurre la vulnerabilità,
senza sacrificare l’indipendenza e
l’identità.
e raccolta dei segnali deboli,
spartizione di risultati e rischi.
Sostenibilità è riconoscibilità e
legittimazione che arriva dal mondo
esterno, che ti riconosce come
qualcosa che deve continuare a
esserci, a prescindere, la cui voce
non deve venire a mancare e non
deve omologarsi.
La sostenibilità è un’ottica che non
fa guardare solo al presente ma
produce lungimiranza, sguardo al
futuro.
Sostenibilità è avere le persone
migliori, quelle che hanno le
capacità e le competenze giuste,
che condividono i valori, che fanno
la differenza. Significa competitività
nel tempo, anticipazione dei rischi
111
li trasformi in terreni edificabili e realizzare quindi il centro commerciale. Alberto è
contrario ma prende tempo, colpito da tanta feroce determinazione. Vanno a visitare i
terreni per valutare la fattibilità dell’iniziativa. Arrivano lì in una bella giornata autunnale
e scoprono che il centro di accoglienza è una vecchia cascina cadente e riadattata. Lei è
colpita dall’estensione del terreno, lui coglie il fascino di un angolo di natura preservata,
da valorizzare. Nei giorni seguenti Alberto prova a proporre idee alternative al centro
commerciale. Si potrebbe preservare l’edificio, ristrutturarlo e utilizzare il terreno in
maniera più coerente alla sua natura. Ma per Emma non se ne parla. Butteranno giù la
cascina e costruiranno il centro commerciale con un po' di palazzine intorno!
Durante un altro sopralluogo con tecnici comunali compiacenti, Emma non si sente
bene, ha una gran sete, le fa male la testa e decide quindi di bussare alla cascina. Le
apre una donna, con grandi occhi scuri e un bambino in braccio, che si accorge subito
che Emma non sta bene. La donna avvicina una mano al viso di Emma che si allontana
di scatto, infastidita. Quel brusco movimento le fa girare la testa, si sente mancare,
tutto si fa buio intorno a lei. Quando si risveglia, vede Alberto vicino al letto insieme alla
donna. Da un’altra stanza proviene una musica allegra e, pur nella povertà del luogo,
c’è una piacevole atmosfera che suo malgrado la incuriosisce. Le donne parlano una
lingua che non conosce e si rivolgono a lei e ad Alberto in un italiano stentato, con tono
gentile, allegro, accogliente. Un ragazzo magro e dai lineamenti mediorientali si stacca
dal gruppo, le si avvicina e le dice di chiamarsi Azuk. Emma non risponde e fa segno ad
Alberto di andare. Lo sguardo di Azuk è fisso su di lei che gli lancia un'occhiata prima di
chiudere la porta dietro di sé. Alberto ed Emma devono tornare nuovamente alla cascina.
Nel tragitto in macchina Alberto le racconta la sua storia, le parla del suo interesse per
la bioarchitettura, di come questa possa contribuire a migliorare l’ambiente e la vita
delle persone. Il crollo della società e la sua condanna, causata dalle azioni criminali del
socio, gli hanno impedito la realizzazione di progetti eco compatibili. Quando Alberto
racconta dei suoi sogni, della sua visione della vita e del mondo, lo sguardo gli s'illumina.
Quella stessa luce che Emma ha visto brillare negli occhi di Azuk. Arrivati al centro di
accoglienza, Emma osserva alcune donne ai telai, altre intente a ricamare. Delle donne
ritornano dal mercato in cui sono andate a vendere i prodotti, Azuk è con loro. Si avvicina
a Emma e iniziano a parlare. Per la prima volta Emma è serena, accogliente. Ascolta
112
la storia di come Azuk e sua madre abbiano dovuto lasciare il loro paese a causa della
guerra, di come l’arrivo in Italia non sia stato facile e come per nulla facile sia la vita
quotidiana. Emma scopre un mondo e una vita a lei ignoti.
Quando lei e Alberto tornano in città c'è una luce nuova nei suoi occhi che anche Alberto
coglie. A casa, Emma scopre nella propria borsetta un biglietto di Azuk, scritto in un
italiano stentato, nel quale il ragazzino si augura di rivederla ancora. Per la prima volta da
molti anni a questa parte, Emma non ha alcuna voglia di mettersi al computer. Si corica
ma non riesce a dormire. Pensa ad Azuk, alle donne, al progetto di Alberto. Accumulare
denaro non sembra più così importante.
Il giorno seguente Alberto le deve mostrare il progetto finale per il centro commerciale.
Con grande sorpresa di Emma, Alberto le presenta invece un progetto di ristrutturazione
e ampliamento del centro di accoglienza che permetterà di sviluppare maggiormente il
lavoro in esso svolto e di organizzare altre attività che permettano l'autofinanziamento
della comunità. Oltre ai laboratori tessili e di oreficeria, Alberto prevede un ampio spazio
per la mostra e la vendita dei prodotti e per occasioni d’incontro fra artigiani locali e le
donne del centro. Emma indica sul progetto l'unico ambiente su cui Alberto non ha detto
nulla. L'uomo le dice che quello sarà l'ufficio commerciale nel quale Emma lavorerà. Ci
saranno i computer e potrà quindi usare la sua bravura per organizzare e gestire la vendita
online dei prodotti del centro, l’importazione e la vendita di manufatti artigianali dei
paesi di origine delle donne ospiti. Emma lo ascolta attentamente e confessa ad Alberto
i suoi traffici illegali online, il denaro sottratto a speculatori di borsa senza scrupoli e
accumulato sui suoi conti correnti. Alberto vede un modo per rimediare. Restituire il
denaro così come se ne è appropriata. Lentamente. Come pagare le rate di un mutuo.
Quello che servirà loro per la realizzazione del progetto, lo restituiranno via via grazie agli
incassi che il nuovo centro produrrà.
Alberto completa il progetto in tutti i dettagli con l’aiuto di Emma e, con Emma e un gruppo
di donne del centro, lo porta in Comune per la presentazione. L’assessore e il comitato
tecnico, nonostante le pressioni dei Falsini, dà il via libera al piano di Emma e di Alberto!
Al centro si fa festa per tutta la notte. Azuk ed Emma si prendono per mano. Emma
sorride. Ci sarà da lavorare duro per realizzare il sogno che li accomuna e gli ostacoli non
mancheranno ma loro ci credono.
113
TESTIMONIANZE
chi ha partecipato all'autobiografia
Alessandra Cosso
Mi chiamo Alessandra
Cosso e il mio incontro con
Istud risale a circa cinque
anni fa. Sono un counselor,
un consulente e un trainer:
studio e intervengo nelle
organizzazioni sempre con
un’attenzione particolare
al clima interno e al
benessere delle persone.
Per me le organizzazioni di
lavoro sono luoghi ricchi di
umanità e bellezza, molto
complessi, interessanti da
esplorare e frequentare.
Per questo nel mio lavoro
la cosa che più mi piace
fare è ascoltarne le storie,
usando uno strumento
straordinario: la narrazione.
114
Faccio parte della Faculty di
Fondazione Istud e del Consiglio
direttivo dell’Osservatorio
nazionale di Corporate
Storytelling dell’Università di
Pavia e insegno Narrazione e
Storytelling organizzativi nella
Scuola Holden di Torino.
E adesso, la mia storia.
Sono nata a Milano nel novembre
1966, e sono cresciuta sapendo
di volere scrivere. Scrivere la
verità, possibilmente. Così
sono diventata giornalista
professionista e ho iniziato a
raccontare per mestiere. Da
allora non ho mai smesso:
lasciato il giornalismo (due figli
mi parevano poco conciliabili con
quella vita) sono stata chiamata
a collaborare alla comunicazione
istituzionale di un grande
progetto fieristico della mia città.
Un’esperienza ricca che mi ha
fatto scoprire il business writing,
le tecniche di neurolinguistica
applicate alla scrittura e la
comunicazione istituzionale
con i primi bilanci sociali. Mi
è piaciuto, così ho continuato
ad approfondire gli studi sulla
scrittura e il linguaggio sino a
insegnarli e a stilare manuali di
stile per il linguaggio corporate.
Nel frattempo frequentavo un
corso triennale per diventare
counselor. È stato allora che ho
conosciuto Istud.
All’inizio sono rimasta colpita:
questa rinomata business school
mi ha dato l’idea più di un nonluogo, un centro di pensiero, un
posto un po’ fuori del mondo
in riva a un lago d’altri tempi in
cui si ragionava, si rifletteva,
si raccontava il mondo del
management italiano, in purezza.
Mi affascinava e incuriosiva e
così ho, con piacere, intensificato
le mie frequentazioni: l’Area
Sanità mi ha accolto e coinvolto
in numerosi progetti di
ricerca e formazione, presso
organizzazioni sanitarie e
non, e mi sono appassionata
al tema del benessere delle
persone che lavorano. Quando
passavo da Stresa, ed entravo
in contatto con altre parti di
Istud, altre isole dell’arcipelago,
per usare una metafora citata
nelle pagine precedenti. Nel
2008 Luca Magni, uno dei
testimoni citati nella prima
parte mi ha coinvolto nella
prima autobiografia di impresa
di Istud, quella con BSI. È stata
un’esperienza straordinaria,
occasione di approfondimenti
e sperimentazioni sul tema
della narrazione organizzativa.
E adesso questa nuova
autobiografia, tutta dedicata
a Istud. È stato importante
e commovente incontrare e
conoscere le tante persone
che fanno di questa scuola il
luogo unico che è. E ancora di
più è stato emozionante vederli
mettersi in gioco, con generosità,
dedizione, entusiasmo e... amore.
Credo che dal loro racconto, dal
pensiero che hanno espresso
e cui han dato forma narrativa,
conferendole il senso che la loro
sensibilità e visione dettava,
si sia delineata bene l’anima
multiforme e preziosa di Istud.
115
TESTIMONIANZE
chi ha partecipato all'autobiografia
Selezionato in più di settanta
festival, fra i quali Cannes e
Rotterdam, Rita ha vinto una
trentina di premi.
Nell'estate del 2011 abbiamo diretto
il lungometraggio Salvo.
Fabio Grassadonia
Dopo gli studi letterari,
l'insegnamento e il lavoro
di editor presso alcune
case editrici, dal 1999
lavoro, in coppia con
Antonio Piazza, come
sceneggiatore e script
editor per la televisione e
per il cinema.
Siamo stati consulenti sviluppo
progetti e acquisizioni per le società
di produzione e distribuzione
cinematografiche
Fandango e Filmauro.
Nel 2004 abbiamo scritto il film Ogni
volta che te ne vai, una commedia
musicale ambientata nelle balere
della Romagna, prodotto da
Fandango e distribuito da Medusa.
Nel 2009 abbiamo esordito alla
regia con il cortometraggio Rita.
116
Quando ISTUD mi ha proposto
di insegnare i rudimenti
della sceneggiatura, guidare
nell'ideazione e nella scrittura di un
soggetto breve cinematografico,
partendo da un tema imposto, in soli
due giorni, persone che nella vita
hanno altri interessi e competenze,
per un totale di sei gruppi e dodici
giorni di lavoro, ho subito accettato,
ipnotizzato dall'enorme rischio di
fallimento.
Ringrazio le persone che ho
incontrato e con cui ho lavorato
perché donando il loro tempo,
mettendo in campo il proprio
talento, il proprio sapere, la
propria sensibilità e la loro grande
determinazione hanno permesso di
raggiungere l'obiettivo dato.
Mi piacerebbe sapere quale sia
stato il senso di questa esperienza
per ognuna delle persone coinvolte.
Credo che una discussione e
un'esplorazione delle tensioni, dei
bisogni, delle contraddizioni, delle
energie, delle visioni emerse in quei
giorni di confronto intenso possano
arricchire e vivificare la riflessione su
ISTUD e la definizione del suo futuro.
117
TESTIMONIANZE
chi ha partecipato all'autobiografia
Elena Varvello
Sono nata a Torino nel
luglio del 1971. Dopo
un Master in Scrittura
e Storytelling presso
la scuola Holden, ho
pubblicato due raccolte
di poesie, Perseveranza
è salutare (Portofranco,
2002) e Atlanti (Canopo,
2004), una raccolta di
racconti, L’economia delle
cose (Fandango, 2007),
candidata al Premio Strega
e vincitrice del Premio
Bagutta Opera Prima, e
un romanzo che s’intitola
La luce perfetta del giorno
(Fandango, 2011).
118
“Entrare” in ISTUD è stata,
per me, un’esperienza
particolarissima, molto simile al
varcare la soglia di un mondo fino
ad allora sconosciuto.
Collaboro da molti anni con la
scuola Holden. Mi occupo di
narrazione e storytelling, e ho
avuto l’opportunità di lavorare
con centinaia di persone,
seguendone il percorso e
accompagnandole durante la
scrittura di racconti o di romanzi.
Ho vissuto – e la ritengo una
fortuna – centinaia di storie
diverse, diventandone, in un
certo senso, una testimone.
Sono un’insegnante e una
scrittrice, e la narrazione è il mio
pane quotidiano. La narrazione
e la scrittura. Il linguaggio. Le
storie, insomma.
Conosco il mio mestiere e lo
faccio con passione, però, fino
a pochi mesi fa, non conoscevo
ISTUD. Non conoscevo ancora
questa storia. Sapevo ben poco
di cosa fosse una business
school. Ecco perché ho fatto
riferimento a un mondo
sconosciuto. Una questione di
linguaggi diversi e di diverse
competenze, pensavo, di mondi
che s’incontrano per la prima
volta. Mi chiedevo se saremmo
riusciti a trovare un linguaggio
comune.
Così, con una vaga sensazione
di timore e con molta curiosità,
perlomeno da parte mia, i miei
compagni di avventura ed io
ci siamo messi al lavoro. Si
trattava di rintracciare aneddoti,
ricordi personali, episodi a cui
avevano assistito e che erano
stati, per loro, rilevanti, da un
punto di vista professionale e
personale. Credo che le due
cose, comunque, non possano
mai essere scisse. Un’esperienza
professionale è anche e sempre
un’esperienza personale.
In un primo momento, dopo
aver fornito loro una serie di
indicazioni, non ho fatto altro
che aspettare che i ricordi
riemergessero e che trovassero
una forma. Sono rimasta
in attesa, con timore e con
curiosità, appunto. Quand’è
successo, quando ho letto
ciò che avevano scritto, ho
capito subito che quel mondo,
apparentemente così lontano,
mi stava divenendo familiare:
vedevo, come se li guardassi
coi miei occhi, la prima sede
dell’ISTUD a Prima Cappella,
Villa Treves, il tabellone chiamato
Muro del Pianto, la tombolata di
Natale. Assistevo al concerto dei
Solisti Veneti.
Piccoli episodi, a volte, ma
sempre estremamente
significativi proprio in quanto
esperienze vissute. Voci e sguardi
che illuminavano un percorso.
È stato così, leggendo quei
racconti, che sono entrata
in ISTUD. È stato allora che
quei ricordi sono diventati un
patrimonio condiviso. È questo,
proprio questo, il grande potere
delle storie.
A quel punto, si è trattato di
lavorarci sopra, riscrivendo,
perché fiorissero davvero, perché
trovassero la loro forma più
compiuta. Ho suggerito alcuni
tagli dove pensavo che fosse
necessario, e ho proposto alcuni
approfondimenti, quando avevo
la sensazione che ci fosse ancora
altro da dire.
I miei compagni sono stati
pazienti e hanno lavorato con
passione ed entusiasmo.
I ricordi sono fioriti, questo è
certo. Li avrete letti, a questo
punto e spero che ve ne siate
accorti.
Abbiamo camminato insieme.
Già, proprio così.
Dico questo perché anch’io ho
camminato. Ciò che mi preme
sottolineare, insomma, è che
da loro ho imparato molto. Per
questo li ringrazio. Per tutto ciò
che mi hanno mostrato, per la
pazienza e per la dedizione.
Spero davvero che, in futuro,
ISTUD continui a raccontarsi.
119
Hanno contribuito alla realizzazione dell’autobiografia:
Alessandra Cosso
Alessandro Zanetta
Alessia Borghi
Ambra Bielli
Andrea Guarini
Annalisa Porrini
Annamaria Paradisi
Antonio Nastri
Antonio Roversi
Daniela D’Amato
Delia Duccoli
Eliana Casella
Elisabetta Reggiori
Enrico Tedesco
Fabrizio Galantucci
Federico Omarini
Filippo Marelli
Fiorenza Sarotto
Franca Pelucchi
Gabriele Impemba
Gianfranco Domizi
Giorgio Andreoli
Graziella Balsamo
Guglielmina Marcucci
Guido Mariani
Irene Santini
Jlenia Ermacora
Lizett Segura
Luigi Reale
Luigi Serio
Marco Leonzio
Marella Caramazza
Maria Giulia Marini
Maria Naciti
Marisa Lovisi
Mattia Sciutti
Monica Zanetti
Morag McGill
Nicola Castelli
Nicoletta Martone
Paola Marchionini
Renzo Rizzo
Roberta Falcioni
Roberta Musso
Romina Braggion
Sabrina Crescini
Simone Anselmi
Simonetta Baraldi
Simonetta Carpo
Simonetta Manzini
Sonia Claudia Lepore
Tania Ponta
Tommaso Limonta
Trevor Boutall
Vincenzo Memoli
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