Pianeta parco - Libro più web

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Pianeta parco - Libro più web
Unità
3
I generi: IL RACCONTO di fantascienza
Gianni Rodari
Pianeta parco
Ero stato mandato su Parco – il piccolo, misterioso pianeta vegetale
scoperto dalla spedizione indiana nella prima metà del secolo ventunesimo – soltanto per recuperare il cadavere di un esploratore brasiliano abbandonato dai suoi compagni in fuga. Erano stati questi,
forse lei lo ricorderà perché il suo giornale ha pubblicato tutta la storia, a diffondere la voce che Parco era abitato da alberi assassini.
Dall’asteroide X.99, dove come le ho detto vivevo tutto solo con la
mia capra Renata come guardiano del radiofaro, il pianeta si raggiungeva in due settimane di volo. L’incarico era per me – a parte il defunto – un semplice diversivo. E agli alberi assassini non ci credevo.
Ammetto che non tutto, in quegli alberi, fosse fatto per tranquillizzare un visitatore. I loro movimenti, per esempio. Non soffiava vento,
quel giorno. Non la minima brezza. L’aria era fresca, ma assolutamente calma. Eppure i rami si muovevano. Un ramo qui, un altro laggiù,
un terzo alle mie spalle, con uno scricchiolio che mi costringeva a
voltarmi. Mi capisce? Non si muoveva tutta la chioma dell’albero, ma
solo un ramo o due, come se fosse manovrato da qualcuno. E i movimenti si moltiplicavano via via che mi inoltravo nella foresta, verso
il punto in cui avrei dovuto trovare l’esploratore che, secondo i suoi
colleghi di spedizione, era stato ucciso... Da un albero. A colpi di ramo
in testa. A bastonate, insomma. Come se un essere infuriato, nell’albero, avesse manovrato i rami come clave.
Renata mi seguiva silenziosa, un po’ inquieta. Era già abbastanza strano che non si fermasse ogni tanto a brucare l’erba, verdissima e ancora umida di rugiada, a strappare una foglia da un cespuglio. Fu più
strano quanto accadde poco dopo. Lei è mai stato in un bosco senza
cedere alla tentazione di farsi un bastoncino col primo ramo a portata di mano? Io no. Nemmeno sul pianeta Parco. Ma avevo appena
allungato la mano verso il ramo che avevo adocchiato, quando Renata mi spinse lontano con un brusco spintone che mi fece sentire la
durezza delle sue corna.
– Che ti piglia? – protestai.
Renata, naturalmente, non rispose. Fissava un punto. In quel punto
c’era il morto. Non mi rimaneva che tamponarmi il naso e ficcare i
poveri resti in un sacco igienico. L’operazione durò pochi minuti,
durante i quali ci fu un febbrile movimento di rami sulla mia testa,
un’agitazione rumorosa e inspiegabile. Non c’era vento, gliel’ho detto.
Sulla via del ritorno all’astronave, mi fermai spesso a filmare la foresta,
che era di una bellezza commovente. Non sto a descrivergliela. Ora
gliela mostro. Ecco, questa è la bobina del film. Si metta su quel divano, vedrà meglio...
Pianeta parco
... Ha visto? Ci ha capito qualcosa, a parte lo spettacolo? C’è qualcosa
di strano in quei movimenti, ma lei non capisce, vero? Lo stesso capitò a me decine di volte. Mi proiettavo spesso il film, come affascinato. E non capivo. M’incuriosiva ogni volta di nuovo, mi eccitava,
m’inquietava. Ma non capivo.
Una volta capitò sul mio asteroide il professor De Mauro. Il famoso
linguista, sì. Veniva da non so dove, andava non so dove; avevano un
guasto alla ricetrasmittente e sapevano che da me si potevano trovare
i pezzi di ricambio occorrenti. Mentre i tecnici lavoravano, mostrai al
professore alcuni dei film da me girati nei miei vagabondaggi spaziali.
Tra gli altri, quello di Parco. Se le dico che saltava sulla sedia per l’entusiasmo, mi deve credere. Spiccava salti che neanche Renata. Lo
volle rivedere dieci volte di fila. E intanto prendeva febbrilmente appunti, scarabocchiava eccitato, faceva strani gesti con le braccia, disegnava, strappava, tornava a disegnare.
– Ma lei si rende conto, – gridò finalmente, – di che cosa ha scoperto?
– Ho scoperto degli alberi nervosi –, cercai di scherzare.
– Parlanti! – mi corresse il professore. – Alberi parlanti! Parlano a gesti,
con i rami. Un fenomeno di comunicazione non verbale assolutamente straordinario... Guardi, stia attento. Rimetta il film da capo.
Obbedisco. E lui – che mi venga un colpo! – ogni volta che un ramo
si muoveva..., mi faceva la traduzione.
– Stanno dicendo che lei è un amico, perché porta via il nemico..., che
Renata è simpatica perché non uccide l’erba..., che il nemico aveva
ucciso un ramo per farsene un bastone..., che lei andrà via con l’albero che vola...
– È sicuro, – domandai perplesso, – di non star lavorando di fantasia?
Non l’avessi mai detto: tre giorni rimase ancora sul mio asteroide e
per tre giorni mi costrinse a imparare i gesti degli alberi parchiani,
muovendo le braccia come se fossero rami. Insomma, m’insegnò quello che, secondo lui, era l’alfabeto di Parco. Io non ne potevo più. I
tecnici dell’astronave, che ci vedevano mulinare le braccia come pale
dalla mattina alla sera, ridacchiavano mica male. Fui contento quando se ne andarono. Ancora un’ultima volta, da un oblò, il professor
De Mauro mi salutò sbracciandosi. Io mi accontentai di fargli ciao con
la mano, alla nostra vecchia maniera.
Lei sa che in seguito il professore guidò una spedizione su Parco e se
ne tornò con un vocabolario completo della lingua vegetale? Ma non
può sapere, perché non lo sa nessuno, che il primo uomo a parlare
con gli alberi di Parco sono stato io. Non l’ho mai detto a nessuno,
prima d’ora. Quella storia non riuscivo a dimenticarla. Non mi lasciava dormire. Una volta che passavo nelle vicinanze di Parco, un
impulso irresistibile mi costrinse a scendere su quel pianeta. Avanzai
fino al limitare della foresta. Gli alberi erano assolutamente immobili. Ripassai rapidamente le lezioni del professor De Mauro poi, ri-
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I generi: IL RACCONTO di fantascienza
soluto a levarmi il pensiero, formai con le braccia un messaggio: «Gli
uomini e gli alberi sono amici».
Un attimo dopo i rami cominciarono ad agitarsi e io lessi nei movimenti dei rami la risposta: «Anche Renata è amica nostra».
G. Rodari, Il gioco dei quattro cantoni, Einaudi