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editoriali La riscossa dell’homo ludens Semplice passatempo o voglia di vincere, volgare come la guerra o nobile come l’amore, a servizio dell’infanzia o strumento del potere. Da sempre il gioco ha insegnato alle persone come convivere unendo regole e passioni. Perché giocare è la cosa più seria del mondo RICCARDO MONNI SERGIO GIVONE SERGIO BERTELLI GIUSEPPE MAMMARELLA LAURA BRACCO LUCIA NENCIONI EMANUELA AUDISIO DARIO BIOCCA PIA PERA 4 5 7 9 11 13 15 17 19 EDITORIALI di RICCARDO MONNI La filosofia del gioco cambia regole al mondo ioco, che tema allettante. Ideare e realizzare un numero monografico sull’argomento non poteva che essere divertente. E lo è stato. Basta intendersi sul significato del verbo divertire che, in estrema sintesi, è “volgere” e “rallegrare” la mente. È successo dunque che abbiamo affrontato problemi quotidiani volgendo l’attenzione su quanta parte di gioco sia presente in essi. Così facendo abbiamo scoperto cose che in parte sapevamo (cioè che l’attività ludica è alla base dello sviluppo di qualità fisiche e intellettuali), e ci siamo anche accorti che senza l’istintiva e se si vuole animale giocosità del pensare e del fare, la vita è insopportabile. Tempo fa noi italiani ci siamo molto irritati (fatto positivo) perché alcuni paludati giornalisti stranieri si trovarono d’accordo nel sostenere che eravamo diventati “un popolo triste”. Chi, noi? Possibile, ma per chi ci hanno preso? Purtroppo temo che avessero ragione. E credo che la causa non sia interamente da imputare alla crisi economica e agli stipendi che al venti di ogni mese sono già finiti. Questo di certo incide, ma non è sufficiente per giustificare la perdita del gusto di esistere presente in maniera diffusa in una società interessata soltanto ai palcoscenici del potere e dell’apparire. Per cui chi ne è escluso è considerato e si considera un perdente. Tra i miei compagni delle Elementari ero tra i pochi ad avere le scarpe. Il fatto è che loro, gli scalzi, erano una bomba di allegria mentre io, il diverso, ero infelice. Fin quando non decisi di nascondere le mie scarpe nel corridoio e, rispettando forme imposte dall’esterno, potei entrare in condizioni di (apparente) parità nel loro gioco. Sia G 4 | DOC | Dalla Toscana all’Europa Molti lo concepiscono come tempo sottratto alle carriere, altri come scorciatoia per arrivare al denaro: ma entrambe le prospettive sono pericolose chiaro: qui non si vuole teorizzare la necessità di un impoverimento generalizzato dell’Occidente, anche se nei fatti questo si sta già materializzando, quanto l’urgenza di cambiare molte regole di vita del nostro mondo in funzione di un allargamento del numero dei “giocatori”. Ho scritto regole di vita, ma penso in primo luogo a differenti atteggiamenti filosofici. A cambiamenti di abitudini dannose oltre che sbagliate. Ma torniamo al gioco. Molti lo concepiscono come tempo levato alla costruzione di se stessi, del proprio ruolo e delle proprie carriere; moltissimi lo vedono come una scorciatoia per arrivare al denaro e quindi al potere e alla visibilità. Entrambe le prospettive sono riduttive e pericolose. Sottrarre il gioco ai bambini, ma in altro modo ciò vale anche per gli adulti, significa spegnerne la fantasia, indebolirne la creatività; mentre attribuire a una partita di qualsiasi tipo la finalità centrale del guadagno significa snaturarne lo spirito, obbligarci a seguire strade predeterminate. Un esempio? Si pensi soltanto al “gioco” della ricerca scientifica, al valore incredibile che hanno in essa la libertà, l’inventiva e la casualità se viene permessa. Certo chi sbaglia deve pagare, “fare penitenza”, come succede nella vita. Ma IN GIOCO di SERGIO GIVONE questo è un semplice accessorio del gioco, utile soltanto per stimolare la nostra partecipazione fattiva e quella degli altri protagonisti. Volendo, è una richiesta di responsabilità rivolta a coloro che non prendessero in maniera seria una cosa che seria è. Quante volte abbiamo visto bambini e adulti che se un gioco non va come vorrebbero i loro personalissimi egoismi fanno di tutto per mandarlo a monte. E senza fare pegno. Che brutta malattia voler imporre un finale precotto a qualcosa che nasce per affermare infinite possibilità di soluzione e il cui unico scopo dovrebbe essere il godimento collettivo. Arrivati a questo punto ci rendiamo conto che da qualsiasi parte si affronti l’argomento gioco si finisce a discutere dell’infanzia. C’è anche chi nelle pagine che seguono fa esplicito riferimento alle parole di Alberto Savinio il quale sosteneva che “la più grande organizzazione di difesa che esiste al mondo è quella che l’umanità ha levato contro il pericolo dell’infanzia”. Savinio, pittore e scrittore, era ben consapevole della continuità esistente tra l’Universo dei fanciulli e quello degli artisti, entrambi collezionisti di oggetti e pensieri apparentemente inutili, certamente utopistici e spiazzanti. Quindi non ci si stupisca se in questo numero di Doc sul gioco siano presenti forti istanze infantili di cui gli adulti farebbero bene a farsi portatori. Sono elementi forse determinanti per combattere la tirannia del denaro e la dilagante e colpevole superficialità dei media. E ora, dato che anche la lettura è un gioco, non resta che augurare buon divertimento a tutti. « A pag. 4, ragazzino in bicicletta. Sopra, ruota panoramica. A pag. 6, bambini scatenati in un campo di atletica. Tutti e tre gli scatti sono opera di Pierpaolo Pagano Un inferno e un paradiso ma la vita senza di “lui” è proprio insopportabile L’atto del giocare esige serietà e rispetto. Sia perché le regole sono vincolanti, sia perché le passioni e le emozioni liberate hanno valore catartico erché si gioca? Non lo sappiamo. Certo è che lo fanno tutti: uomini e donne, bambini e adulti. Proviamo allora a girare la domanda a quegli adulti-bambini che sono i filosofi. I giochi ci sono, ha detto Hans- Georg Gadamer, e noi li giochiamo. Qualcuno li ha inventati. Continuamente se ne inventano di nuovi. Dunque, sono lì, a nostra disposizione. Per noi, una tentazione irresistibile. Quale che sia la ragione di questo non poter resistere, il fatto è che ci mettiamo a giocare. E facciamo bene, anzi, benissimo. Grazie al gioco, la realtà acquista un’intensità che prima non aveva, dispensa gioie e dolori, addirittura ci svela un suo volto misterioso e denso di promesse. Che cosa sarebbe la realtà senza il gioco? Una ben povera cosa. Opaca, tediosa, priva di attrattiva. Giocando (e non importa che si tratti P di quella forma suprema di gioco che è il gioco d’amore, o molto più banalmente di una partita di calcio, che però non a caso giocatori e tifosi vivono peggio che se fossero colpiti da eros) ci accade di attraversare stati di grazia e momenti di disperazione, ma soprattutto ci sembra di partecipare a un rito che consacra la realtà, nel bene e nel male, sia che si vinca sia che si perda. E allora: ben venga il gioco. Secondo Eugen Fink il gioco si presenta come un’ombra o un doppio di un’azione reale. Insomma, il gioco non sarebbe altro che imitazione. Come del resto stanno lì a dimostrare i giochi infantili, che spesso consistono nel mimare comportamenti e situazioni proprie del mondo dei grandi. Da questo punto di vista giocare è un esercizio d’apprendimento, un’iniziazione, qualcosa che non ha valore di per sé ma è segue » DOC | Dalla Toscana all’Europa | 5 EDITORIALI di SERGIO GIVONE solo in funzione d’altro. Vero è che si continua a giocare tutta la vita: per passatempo, per riempire il vuoto e vincere la noia. Ma siamo sicuri, chiede il nostro filosofo, che le cose stiano proprio così? Le cose potrebbero stare esattamente all’incontrario. In fondo uno gioca per giocare. Non non è se non un gioco sciaguratamente preso alla lettera e svuotato di ogni leggerezza giocosa. Ecco due esempi di come i filosofi si sono interrogati sul fenomeno del gioco. Come si vede, senza dare una risposta alla domanda: perché si gioca? Si gioca perché si gioca. Si gioca per gli importa quali siano i contenuti del gioco. E neppure gli importa della posta messa in palio, che può essere altissima o può non esserci affatto. Il giocatore sembra piuttosto abbandonarsi al piacere del gioco per il gioco: se insegue un certo scopo, per esempio centrare il bersaglio, è perché così vuole il gioco, non perché gliene venga in tasca qualcosa. Questo significa che prima viene il gioco, poi le azioni che portano avanti il gioco sul piano della cosiddetta vita reale (anch’essa un gioco, anche se fingiamo che non lo sia o che sia tutt’altro). Prima viene il gioco della guerra, poi la guerra, che il piacere di giocare. Il gioco appartiene alla nostra natura, o se si preferisce, visto che questa natura ci è ignota, alla nostra condizione mortale. Niente come il gioco ne rappresenta la perfetta espressione. Tant’è vero che, tolto il gioco, eliminato qualsiasi elemento ludico da tutto quel che facciamo e che nascostamente contribuisce a definire ruoli sociali, compiti, aspirazioni, ciò che rimane è il peso di una quotidianità semplicemente insopportabile. Non che il gioco non sia una cosa seria. Anzi. C’è una serietà, nel gioco, che lascia stupefatti, e che non ha niente da invidiare alla serietà della vita. Osserviamo dei giocatori mentre sono impegnati in questo o quel gioco. Lì per lì ci sembrano tutti un po’ matti. Com’è possibile restare col fiato sospeso all’estrazione di un numero o alla giocata di una carta o in attesa che venga battuto un calcio di rigore? Eppure la 6 | DOC | Dalla Toscana all’Europa concentrazione di tutti è ammirevole. E guai se qualcuno non è all’altezza della serietà del gioco. Un gioco giocato senza serietà diventa immediatamente noioso, non più giocabile. Trattare l’avversario con sufficienza o compiere le mosse prescritte arbitrariamente è offensivo sia nei confronti degli altri giocatori sia nei confronti del gioco. Chi volesse far lo spiritoso nel momento fatale, rischia grosso. Il gioco esige il massimo rispetto. Sia perché le regole sono vincolanti. Sia perché le passioni e le emozioni liberate hanno valore catartico. C ’è un’etica del gioco. Nel gioco ci si mette in gioco: e nessuno può dire fino a che punto giocando o semplicemente partecipando uno possa mostrare di che pasta è fatto. Il gioco può essere una festa, uno sprigionamento positivo di forze, sia che si vinca sia che si perda, ma può essere anche un incubo, una rovina, uno scatenamento di violenza. Non ci sarebbe un’etica del gioco, se il gioco non fosse una finestra affacciata su scenari perfettamente antitetici. Che non saranno forse il paradiso e l’inferno, ma certo sono qualcosa che molto gli somiglia. E non si dica: è soltanto un gioco! È da quando eravamo bambini che ce lo dicevano, per consolarci quando la sofferenza per un esito infausto della partita, qualsiasi partita fosse, ci pareva smisurata e incolmabile, e ora da adulti ce lo diciamo noi per conto nostro, mentendo sapendo di mentire. Che cosa vuol dire: è soltanto un gioco? Solo chi non sa che cos’è un gioco, parla in questo modo. « IN GIOCO di SERGIO BERTELLI Parrucche ed ermellini Il carnevale del Potere Dalla Guerra dei Cent’anni alle inaugurazioni dell’anno giudiziario e universitario la veste sontuosa vuol trasmettere la certezza che il re non muore mai er parlare del gioco del potere, occorre partire da un celebre libro dello storico olandese Johann Huizinga, apparso nell’ormai lontano 1939: Homo ludens. Huizinga scrive che “...Nel gioco abbiamo a che fare con una categoria di vita assolutamente primaria, facilmente riconoscibile da ognuno”. Infatti un elemento importante del gioco del potere è il travestimento. Nelle celebrazioni liturgiche (e tali considereremo non soltanto quelle ecclesiastiche, ma le inaugurazioni dell’anno giudiziario, le sedute per il conferimento delle lauree honoris causa nelle Università e via dicendo) gli attori della cerimonia recitano il loro ruolo distinguendosi da noi comuni mortali perché indossano vesti sontuose, certamente anacronistiche (il piviale, la mitra, la berretta, la toga, la mantellina d’ermellino). Parliamo, anzi, per traslato, di “ermellini” per indi- P care i giudici della Suprema corte, proprio perché siamo di fronte alla pelliccia di un animale totemico. All’inizio della guerra dei Cent’anni, nella lotta per la successione di Bretagna, l’adozione dell’ermellino a campo pieno (la moscatra) nella divisa araldica divenne l’immagine stessa della nascente nazione bretone (Michel Pastoreau, Medioevo simbolico, 2004). Ma è proprio sulle cerimonie giudiziarie che Huizinga si sofferma maggiormente. Nella misura in cui il processo possiede un suo proprio carattere competitivo, esso entra in pieno nel concetto semantico di gioco. “La lite delle parti è trattata dai Greci come un agòn, come una lotta impegnata a regole fisse, in forme consacrate, per la quale le parti invocano la decisione di un arbitro [...] proprio dall’essenza agonale del processo parte l’intero sviluppo suo, e tale indole agonistica resta viva fino al giorno d’oggi” [...] Tutt’ora i giudici escono dalla vita solita prima di cominciare il lavoro giudiziario. Si vestono della toga oppure si mettono la parrucca”. Procedendo nel suo esame, Huizinga attirava l’attenzione non tanto sulla parrucca in sé, quanto su quella striscia bianca che spunta sotto la parrucca stessa, e che lui riferiva alla coif, uno stretto cap- puccio bianco che indicava il potere, e che Huizinga considerava affine alle maschere dei popoli primitivi. In realtà, a me sembra piuttosto che parrucca, toga, e qualsiasi altra forma di travestimento, vogliano indicare l’immobilità, la saldezza ripetitiva del rito, la sicurezza che il re non muore mai, in quanto la giustizia è nel suo petto (lex in pectore ejus: Ernst Kantorowicz, I due corpi del re, 1957) . Non v’è infatti momento più angoscioso di quello dell’eclissi del potere. Con la morte del sovrano cessava la giustizia e si entrava in un periodo di anarchia (il romano justitium), in cui ogni violenza era ammessa. Il popolo di Roma conosceva molto bene le libertà che gli venivano dalla sede vacante e si dava al saccheggio dei palazzi cardinalizi. Nel processo, notava ancora Huizinga, passiamo dalla gara alla scommessa: si sfida l’avversario a contrastare il proprio diritto. L’ordalia, il trial of battle (verdetto mediante lotta) non sono che altrettante forme ludiche: “il duello giudiziario [...] si è ridotto a una specie di rappresentazione sportiva”, anche se “è lecito dubitare se si debba considerare ciò come una degenerazione a forme giocose, o se non piuttosto si dovrebbe dire che questo carattere ludico – il quale infatti non escludeva una cruenta serietà – è fondato nell’essenza dell’usanza stessa.” In tal senso, ne dovremmo Sopra, ermellino all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Nella pagina successiva, docenti universitari alla cerimonia di apertura dell’anno accademico presso l’Università di Udine segue » DOC | Dalla Toscana all’Europa | 7 EDITORIALI di SERGIO BERTELLI dedurre che persino le pubbliche esecuzioni capitali, nelle quali il potere mostrava al massimo la propria forza, rientravano nel ludico. Al condannato era infatti richiesto di svolgere un ruolo attivo: quello di rivolgersi alla folla incitandola, con il proprio esemplare pentimento, a mantenersi sulla retta via (F. Fineschi, Cristo e Giuda. Rituali di giustizia a Firenze in età moderna, 1995). Ampliando il nostro orizzonte, potremmo riconoscere in molte cerimonie connesse col potere un intimo carattere ludico. Si pensi alle entrées solennelles dei re di Francia, di Spagna e d’Inghilterra, con l’offerta delle chiavi delle porte murarie, con gli effimeri archi di trionfo eretti lungo il percorso del corteo, le peagentries che allietavano le soste del corteggio regale. Tutte cerimonie che avevano il carattere di ricognizione del territorio e, al tempo stesso, di lustrazione. In Marocco, fra il XVII e il XIX secolo, all’approssimarsi dell’esta- 8 | DOC | Dalla Toscana all’Europa te, il sultano organizzava una spedizione guerresca, il mehalla, per la raccolta delle tasse, che era anch’essa una ricognizione del territorio (J. Dekhlia, Dans la mouvance du prince: la symbolique du pouvoir intinérant au Maghreb, 1988). Il costo della spedizione superava la raccolta dei tributi, ma era una grande festa, alla quale partecipava l’intera popolazione. Le concubine che seguivano il sovrano ne testimo- “ La funzione culturale del combattere presuppone leggi limitanti. Esige il riconoscimento di una qualità ludica. Il Combat des Trente, la Disfida di Barletta, i duelli aerei della I Guerra Mondiale sono antichi, crudeli giochi ” niavano la potenza sessuale, le madri gli chiedevano di intingere un dito nelle brocche di latte che gli porgevano, per assicurare la loro fertilità. Parliamo dunque di lotta e gara, di rappresentazioni e di ese- cuzioni, di danze e musiche, di mascherate e di giostre. Così gioco e guerra divengono momenti inscindibili. Scrive ancora Huizinga: “Il combattere, essendo funzione culturale, presuppone sempre delle regole limitanti, esige fino a un certo punto il riconoscimento di una qualità ludica. Ancora in età assai evolute la guerra assume talvolta la pura forma d’un gioco. Il famoso Combat des Trente del 1351, in Bretagna, nei primi documenti non viene chiamato esplicitamente un gioco, ma tuttavia dà proprio l’impressione d’una competizione. Non altrimenti è per la Disfida di Barletta del 1503, nella quale tredici cavalieri italiani lottarono contro tredici cavalieri francesi.” All’inizio della battaglia, i più valorosi sfidano l’avversario. Ancora nella guerra mondiale del 1915 l’aristeia riviveva nei veri e propri duelli che i piloti ricercavano, lasciando cadere dai loro velivoli dei cartelli di sfida. Ecco perché Franco Cardini ha potuto intitolare un suo libro sul combattimento medievale: Quell’antica festa crudele (1982). Resterebbe da chiedersi se il relativismo nel quale siamo oggi immersi, nel quale viviamo, non stia distruggendo la dimensione ludica del potere. Certo, i nostri “ermellini” non rinunciano (a ogni inaugurazione d’anno giudiziario) alla dimostrazione del potere che hanno raggiunto nella nostra società, anche se, a volte, viene da chiedersi se non abbiano perduto il senso del ridicolo. Restano infatti solo loro, e qualche rettore d’Università, a paludarsi così.« IN GIOCO di GIUSEPPE MAMMARELLA Il gioco del “se” che cambia la Storia L’ucronia non è solo un divertimento, è un esercizio che può permettere una più precisa interpretazione dei fatti realmente avvenuti, opponendo loro quelli che avrebbero potuto realizzarsi ompito dello storico è la ricostruzione dei fatti, la loro analisi e interpretazione, ma pochi resistono alla tentazione di immaginare gli scenari possibili se gli avvenimenti si fossero svolti in un altro modo. Cosa sarebbe successo se… eccetera, eccetera. Questo gioco (si chiama ucronia) non è soltanto un divertimento, è un esercizio che può permettere una più precisa interpretazione dei fatti realmente avvenuti opponendo loro quelli che avrebbero potuto avvenire. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale molto più della Prima, ricca di vicende e di inattesi sviluppi sia sul piano politico che militare, le ipotesi di ciò che sarebbe potuto accadere “se”…, sono numerose e hanno largamente interessato gli storici anglosassoni, specie esperti di storia militare. Cosa sarebbe successo se Hitler avesse deciso di C “ Come ti metto in dubbio le sorti della II Guerra Mondiale. Nuove strategie e scenari alternativi sul piano militare. Hitler si mette d’accordo con la Russia e i giapponesi non bombardano Pearl Harbour ” distruggere il corpo di spedizione britannico che nel giugno 1940 dopo il collasso dell’esercito francese da Dunkerque riuscì a rientrare in Gran Bretagna. Avrebbe potuto farlo ma invece dette ordine al Generale Heinz Guderian, comandante delle divisioni corazzate, di arrestarsi nella speranza che il governo inglese accettasse una soluzione negozia- ta del conflitto. Cosa sarebbe successo se i Giapponesi non avessero attaccato Pearl Harbour, nel dicembre 1941, risvegliando il gigante dormiente americano? Sono ipotesi abbastanza conosciute su cui oltre agli storici si sono esercitate generazioni di strateghi da caffè per le quali simili problematiche costituiscono ghiotte occasioni di polemiche e discussioni. Abbiamo scelto di costruire il gioco dei “se” su due episodi molto meno conosciuti le cui alternative erano alquanto verosimili e che specie il primo avrebbe rivoluzionato non solo le sorti della guerra ma quelle della storia. Ai primi di novembre del 1940, a poco più di un anno da quell’accordo tedesco-sovietico dell’agosto 1939 che costituì il preludio all’attacco tedesco alla Polonia e alla spartizione di quel Paese tra Germania e Unione Sovietica, una folta delegazione, capeggiata da Molotov, l’artefice della politica estera sovietica di molti anni, arrivava a Berlino per fare il punto sull’alleanza e sul suo futuro. I sovietici che avevano rispettato con puntualità le condizioni dell’accordo, soprattutto quelle di carattere economico con la fornitura di materie prime che avevano contribuito in modo significativo allo sforzo bellico tedesco, si aspettavano un riconoscimento concreto. Il dialogo si svolse con la diretta partecipazione di Hitler che propose a Mosca una vera e propria spartizione dell’Impero britannico (Hitler dava ormai per sconfitti gli inglesi), grazie alla quale i russi avrebbero potuto allargarsi in Asia Centrale e soddisfare la loro aspisegue » DOC | Dalla Toscana all’Europa | 9 EDITORIALI di GIUSEPPE MAMMARELLA razione secolare dell’accesso ai mari caldi. Alla Germania sarebbe rimasta l’assoluta supremazia in Europa, all’alleata Italia veniva assegnato il Mediterraneo e parte del continente africano, al Giappone il Sud-Est Asiatico. Era un grand-design che trovava i russi impreparati e che comunque mirava ad allontanare l’espansionismo russo dall’Europa. La politica sovietica prevedeva invece il consolidamento delle posizioni acquisite in Europa Orientale e un orientamento verso l’area balcanica, due successi che Stalin riuscirà a realizzare con la vittoria sulla Germania, ma che già allora facevano parte degli obiettivi non rinunciabili di Mosca. Hitler, che fin dai tempi del Mein Kampf, il programma scritto agli albori del nazismo, mirava a una Europa ariana e aveva condannato il comunismo russo come un regime di esseri inferiori, non poteva condividere l’Europa con Mosca, ma avrebbe potuto contenere l’influenza sovietica nei limiti fissati dal trattato dell’agosto 1939 che le concedeva una parte della Polonia e i Paesi baltici, però la lasciava fuori dai Balcani e dalla fascia dei Paesi satelliti della Germania: Ungheria, Bulgaria e Romania. Un accordo tra Berlino e Mosca avrebbe aperto tutta una serie di scenari alternativi, alquanto tenebrosi, ma avrebbe risparmiato milioni di vite umane e avrebbe comunque costretto Gran Bretagna e Stati Uniti, dove non mancavano elementi favorevoli a un accordo con i tedeschi, a rivedere radicalmente la loro politica nei confronti della Germania hitleriana. Invece qualche giorno dopo la partenza della delegazione sovietica, Hitler riunirà i suoi generali e ordinerà la preparazione di quella operazione Barbarossa che nel giugno 1941 segnò l’inizio dell’attacco all’Unione Sovietica. Le vicende di quella campagna sono ben note. Dopo un iniziale collasso del fronte russo che permise 10 | DOC | Dalla Toscana all’Europa alle truppe di Hitler di arrivare in pochi mesi alle porte di Mosca, iniziava la resistenza sovietica che inchiodava l’esercito tedesco su di un immenso territorio, dalla Bielorussia al Caucaso e dopo la battaglia di Stalingrado del dicembre 1942 si trasformava in un contrattacco che permetteva all’Armata Rossa di riconquistare il territorio nazionale e dilagare nell’Europa orientale e poi nelle province orientali tedesche. Pochi sono gli storici della Seconda Guerra Mondiale che mettono in dubbio il ruolo decisivo, svolto sul piano militare dall’Unione Sovietica. Due terzi dell’esercito tedesco, per quasi cinque milioni di uomini, saranno durevolmente impegnati sul fronte russo. Sarà questa distribuzione delle forze a permettere il successo dello sbarco alleato in Normandia nel giugno 1944, e in ultima analisi la sconfitta della Germania. L’alternativa all’attacco contro l’Urss, che Hitler giustificherà come l’atto necessario a indurre la Gran Bretagna alla resa, era una strategia che colpisse i territori dell’impero britannico nel Mediterraneo e in Medio Oriente, assediasse le isole britanniche tagliandone i rifornimenti, costringesse il governo di Londra alla resa. Mussolini aveva intuito che l’avventura in Russia avrebbe avuto risultati rovinosi per le forze dell’Asse e, ancora alla vigilia della sua rimozione, il 25 luglio 1943, insisterà invano presso l’alleato per una soluzione al conflitto con l’Urss, che permettesse di fronteggiare con le forze così rese disponibili, la coalizione anglo americana. E qui si propone un altro di quei “se” che avrebbero potuto cambiare l’andamento della guerra, anche se non i destini della Storia. Alcune settimane fa veniva data notizia della scomparsa, a più di novant’anni di età, dell’ultimo degli attentatori di Hitler, sfuggito fortunosamente alla cru- A pag. 9, Charlie Chaplin in un fermo immagine de “Il grande dittatore”. Film del 1940 in cui un ignaro barbiere ebreo viene scambiato per Adenoid Hinkel, dittatore di Tomania dele vendetta del dittatore dopo il fallimento dell’attentato di Von Stauffenberg, avvenuto nel luglio del ’44. Lo scoppio della bomba, collocata da Von Stauffenberg sotto il tavolo attorno al quale si svolgeva una conferenza tra Hitler e i suoi generali, risparmiò il dittatore tedesco. Ma già un anno prima i congiurati avevano avuto l’occasione di assassinare Hitler, soltanto l’esitazione di uno di essi, arrivato vicino al dittatore con una pistola carica, aveva segnato il fallimento dell’attentato. Se esso fosse riuscito, la guerra si sarebbe conclusa un paio di anni prima con la salvezza di milioni di vite umane civili e militari sui fronti di guerra e nei campi di concentramento. Uomini, donne e bambini che invece furono immolati per la volontà criminale di un feroce dittatore e dei suoi complici. « IN GIOCO di LAURA BRACCO L’attività ludica degli anziani è un’ottima ginnastica mentale il cui ruolo terapeutico è senz’altro meglio di qualunque farmaco e riduce agitazione, ansia, aggressività ’associazione tra il concetto di “gioco” e quello di “terza età” non è immediato. A cosa giocano gli anziani? A carte per lo più o a tombola o alle bocce, come ci riportano le immagini dei centri che li ospitano. Ma qualcuno continua a giocare a tennis, altri intraprendono, anche in età avanzata, il golf o si dedicano alla soluzione di rebus e cruciverba e altri ancora – per la gioia delle case produttrici di programmi computerizzati come Nintendo o MindWeavers – si impegnano regolarmente per alcune ore al giorno nei cosiddetti “grey games” nella speranza di mantenere efficiente la propria memoria, allontanare lo spettro della malattia di Alzheimer e, anche, divertirsi. Non dimentichiamo infine i nonni che giocano nel vero senso della parola con i nipotini, ritrovando ruoli e linguaggi della loro fanciullezza o adattandosi a quelli delle nuove generazioni o coloro che suonano uno strumento musicale, attività giustamente indicata con il termine “giocare” in altre lingue (“to play” in inglese, “jouer” in francese). Ma quali sono le ripercussioni di tali attività sulla salute, sul mantenimento delle capacità cognitive soprattutto? Alcuni studi ben condotti su popolazioni anziane, prevalentemente statunitensi o svedesi, sono concordi nell’affermare che anziani impegnati in attività sociali, fisiche e di svago, hanno minori probabilità di sviluppare demenza. Quella corsa per vincere il match con la vecchiaia L Rischio che appare comunque ridotto in soggetti con elevato livello di scolarità e alto quoziente intellettivo rispetto a individui della stessa età meno dotati. L’insieme di questi dati supporta l’ipotesi della “riserva cerebrale” secondo la quale conseguire alti titoli di studio o svolgere professioni di tipo intellettuale favorisce lo sviluppo di una ricca rete neuronale. Processi fisiologici come l’invecchiamento o patologici come malattie neurodegenerative o eventi traumatici o vascolari, che comportano una perdita cellulare cerebrale, avrebbero quindi effetti meno devastanti in individui dotati di un più ampio patrimonio neuronale. Le dimostrazioni più robuste a sostegno di questa ipotesi derivano da studi su pazienti affetti da malattia di Alzheimer: è stato evidenziato come soggetti con alto livello di scolarità, elevato quoziente intellettivo premorboso, cospicuo impegno intellettuale sia nel lavoro sia nelle attività del tempo libero producano, a parità di gravità del deficit cognitivo, prestazioni superiori rispetto a pazienti meno impegnati intellettualmente nonostante una maggiore estensione del danno cerebrale. Come se una intensa attività intellettuale dotasse l’individuo di una “risersegue » DOC | Dalla Toscana all’Europa | 11