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editoriali
La riscossa dell’homo ludens
Semplice passatempo o voglia
di vincere, volgare come
la guerra o nobile come
l’amore, a servizio dell’infanzia
o strumento del potere.
Da sempre il gioco ha insegnato
alle persone come convivere
unendo regole e passioni.
Perché giocare è la cosa
più seria del mondo
RICCARDO MONNI
SERGIO GIVONE
SERGIO BERTELLI
GIUSEPPE MAMMARELLA
LAURA BRACCO
LUCIA NENCIONI
EMANUELA AUDISIO
DARIO BIOCCA
PIA PERA
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EDITORIALI
di RICCARDO MONNI
La filosofia del gioco
cambia regole al mondo
ioco, che tema allettante.
Ideare e realizzare un
numero monografico sull’argomento non poteva
che essere divertente. E lo è stato.
Basta intendersi sul significato del
verbo divertire che, in estrema
sintesi, è “volgere” e “rallegrare”
la mente. È successo dunque che
abbiamo affrontato problemi quotidiani volgendo l’attenzione su
quanta parte di gioco sia presente
in essi. Così facendo abbiamo scoperto cose che in parte sapevamo
(cioè che l’attività ludica è alla
base dello sviluppo di qualità fisiche e intellettuali), e ci siamo
anche accorti che senza l’istintiva
e se si vuole animale giocosità del
pensare e del fare, la vita è insopportabile. Tempo fa noi italiani ci
siamo molto irritati (fatto positivo) perché alcuni paludati giornalisti stranieri si trovarono
d’accordo nel sostenere che eravamo diventati “un popolo triste”.
Chi, noi? Possibile, ma per chi ci
hanno preso? Purtroppo temo che
avessero ragione. E credo che la
causa non sia interamente da
imputare alla crisi economica e
agli stipendi che al venti di ogni
mese sono già finiti. Questo di
certo incide, ma non è sufficiente
per giustificare la perdita del
gusto di esistere presente in
maniera diffusa in una società
interessata soltanto ai palcoscenici del potere e dell’apparire. Per
cui chi ne è escluso è considerato
e si considera un perdente.
Tra i miei compagni delle
Elementari ero tra i pochi ad
avere le scarpe. Il fatto è che
loro, gli scalzi, erano una bomba
di allegria mentre io, il diverso,
ero infelice. Fin quando non
decisi di nascondere le mie scarpe nel corridoio e, rispettando
forme imposte dall’esterno, potei
entrare in condizioni di (apparente) parità nel loro gioco. Sia
G
4 | DOC | Dalla Toscana all’Europa
Molti lo concepiscono
come tempo sottratto
alle carriere, altri
come scorciatoia
per arrivare al denaro:
ma entrambe
le prospettive sono
pericolose
chiaro: qui non si vuole teorizzare
la necessità di un impoverimento
generalizzato dell’Occidente,
anche se nei fatti questo si sta già
materializzando,
quanto
l’urgenza di cambiare molte regole di vita del nostro mondo in
funzione di un allargamento del
numero dei “giocatori”. Ho scritto regole di vita, ma penso in
primo luogo a differenti atteggiamenti filosofici. A cambiamenti
di abitudini dannose oltre che
sbagliate.
Ma torniamo al gioco. Molti lo
concepiscono come tempo levato
alla costruzione di se stessi, del
proprio ruolo e delle proprie carriere; moltissimi lo vedono come
una scorciatoia per arrivare al
denaro e quindi al potere e alla
visibilità. Entrambe le prospettive sono riduttive e pericolose.
Sottrarre il gioco ai bambini, ma
in altro modo ciò vale anche per
gli adulti, significa spegnerne la
fantasia, indebolirne la creatività;
mentre attribuire a una partita di
qualsiasi tipo la finalità centrale
del guadagno significa snaturarne
lo spirito, obbligarci a seguire
strade predeterminate. Un esempio? Si pensi soltanto al “gioco”
della ricerca scientifica, al valore
incredibile che hanno in essa la
libertà, l’inventiva e la casualità
se viene permessa. Certo chi sbaglia deve pagare, “fare penitenza”, come succede nella vita. Ma
IN GIOCO
di SERGIO GIVONE
questo è un semplice accessorio
del gioco, utile soltanto per stimolare la nostra partecipazione
fattiva e quella degli altri protagonisti. Volendo, è una richiesta di
responsabilità rivolta a coloro che
non prendessero in maniera seria
una cosa che seria è. Quante volte
abbiamo visto bambini e adulti
che se un gioco non va come vorrebbero i loro personalissimi egoismi fanno di tutto per mandarlo a
monte. E senza fare pegno. Che
brutta malattia voler imporre un
finale precotto a qualcosa che
nasce per affermare infinite possibilità di soluzione e il cui unico
scopo dovrebbe essere il godimento collettivo.
Arrivati a questo punto ci rendiamo conto che da qualsiasi
parte si affronti l’argomento gioco
si finisce a discutere dell’infanzia.
C’è anche chi nelle pagine che
seguono fa esplicito riferimento
alle parole di Alberto Savinio il
quale sosteneva che “la più grande organizzazione di difesa che
esiste al mondo è quella che
l’umanità ha levato contro il pericolo dell’infanzia”. Savinio, pittore e scrittore, era ben consapevole
della continuità esistente tra
l’Universo dei fanciulli e quello
degli artisti, entrambi collezionisti di oggetti e pensieri apparentemente inutili, certamente utopistici e spiazzanti. Quindi non ci
si stupisca se in questo numero di
Doc sul gioco siano presenti forti
istanze infantili di cui gli adulti
farebbero bene a farsi portatori.
Sono elementi forse determinanti
per combattere la tirannia del
denaro e la dilagante e colpevole
superficialità dei media.
E ora, dato che anche la lettura
è un gioco, non resta che augurare
buon divertimento a tutti. «
A pag. 4, ragazzino
in bicicletta. Sopra, ruota
panoramica. A pag. 6,
bambini scatenati
in un campo di atletica.
Tutti e tre gli scatti sono
opera di Pierpaolo Pagano
Un inferno e un paradiso
ma la vita senza di “lui”
è proprio insopportabile
L’atto del giocare esige serietà e rispetto. Sia perché
le regole sono vincolanti, sia perché le passioni e le
emozioni liberate hanno valore catartico
erché si gioca? Non lo
sappiamo. Certo è che lo
fanno tutti: uomini e
donne, bambini e adulti.
Proviamo allora a girare la domanda a quegli adulti-bambini che
sono i filosofi. I giochi ci sono, ha
detto Hans- Georg Gadamer, e
noi li giochiamo. Qualcuno li ha
inventati. Continuamente se ne
inventano di nuovi. Dunque,
sono lì, a nostra disposizione. Per
noi, una tentazione irresistibile.
Quale che sia la ragione di questo
non poter resistere, il fatto è che
ci mettiamo a giocare. E facciamo
bene, anzi, benissimo. Grazie al
gioco, la realtà acquista
un’intensità che prima non aveva,
dispensa gioie e dolori, addirittura ci svela un suo volto misterioso
e denso di promesse. Che cosa
sarebbe la realtà senza il gioco?
Una ben povera cosa. Opaca,
tediosa, priva di attrattiva. Giocando (e non importa che si tratti
P
di quella forma suprema di gioco
che è il gioco d’amore, o molto
più banalmente di una partita di
calcio, che però non a caso giocatori e tifosi vivono peggio che se
fossero colpiti da eros) ci accade
di attraversare stati di grazia e
momenti di disperazione, ma
soprattutto ci sembra di partecipare a un rito che consacra la
realtà, nel bene e nel male, sia
che si vinca sia che si perda. E
allora: ben venga il gioco.
Secondo Eugen Fink il gioco si
presenta come un’ombra o un
doppio di un’azione reale. Insomma, il gioco non sarebbe altro
che imitazione. Come del resto
stanno lì a dimostrare i giochi
infantili, che spesso consistono
nel mimare comportamenti e
situazioni proprie del mondo dei
grandi. Da questo punto di vista
giocare è un esercizio d’apprendimento, un’iniziazione, qualcosa
che non ha valore di per sé ma è
segue »
DOC | Dalla Toscana all’Europa | 5
EDITORIALI
di SERGIO GIVONE
solo in funzione d’altro. Vero è
che si continua a giocare tutta la
vita: per passatempo, per riempire il vuoto e vincere la noia. Ma
siamo sicuri, chiede il nostro filosofo, che le cose stiano proprio
così? Le cose potrebbero stare
esattamente all’incontrario. In
fondo uno gioca per giocare. Non
non è se non un gioco sciaguratamente preso alla lettera e svuotato di ogni leggerezza giocosa.
Ecco due esempi di come i
filosofi si sono interrogati sul
fenomeno del gioco. Come si
vede, senza dare una risposta alla
domanda: perché si gioca? Si
gioca perché si gioca. Si gioca per
gli importa quali siano i contenuti del gioco. E neppure gli importa della posta messa in palio, che
può essere altissima o può non
esserci affatto. Il giocatore sembra piuttosto abbandonarsi al piacere del gioco per il gioco: se
insegue un certo scopo, per
esempio centrare il bersaglio, è
perché così vuole il gioco, non
perché gliene venga in tasca
qualcosa. Questo significa che
prima viene il gioco, poi le azioni
che portano avanti il gioco sul
piano della cosiddetta vita reale
(anch’essa un gioco, anche se fingiamo che non lo sia o che sia
tutt’altro). Prima viene il gioco
della guerra, poi la guerra, che
il piacere di giocare. Il gioco
appartiene alla nostra natura, o
se si preferisce, visto che questa
natura ci è ignota, alla nostra
condizione mortale. Niente
come il gioco ne rappresenta la
perfetta espressione. Tant’è vero
che, tolto il gioco, eliminato
qualsiasi elemento ludico da
tutto quel che facciamo e che
nascostamente contribuisce a
definire ruoli sociali, compiti,
aspirazioni, ciò che rimane è il
peso di una quotidianità semplicemente insopportabile.
Non che il gioco non sia una
cosa seria. Anzi. C’è una serietà,
nel gioco, che lascia stupefatti, e
che non ha niente da invidiare
alla serietà della vita. Osserviamo
dei giocatori mentre sono impegnati in questo o quel gioco. Lì
per lì ci sembrano tutti un po’
matti. Com’è possibile restare
col fiato sospeso all’estrazione di
un numero o alla giocata di una
carta o in attesa che venga battuto un calcio di rigore? Eppure la
6 | DOC | Dalla Toscana all’Europa
concentrazione di tutti è ammirevole. E guai se qualcuno non è
all’altezza della serietà del gioco.
Un gioco giocato senza serietà
diventa immediatamente noioso,
non più giocabile. Trattare
l’avversario con sufficienza o
compiere le mosse prescritte
arbitrariamente è offensivo sia
nei confronti degli altri giocatori
sia nei confronti del gioco. Chi
volesse far lo spiritoso nel
momento fatale, rischia grosso.
Il gioco esige il massimo
rispetto. Sia perché le regole
sono vincolanti. Sia perché le
passioni e le emozioni liberate
hanno valore catartico. C ’è
un’etica del gioco. Nel gioco ci si
mette in gioco: e nessuno può
dire fino a che punto giocando o
semplicemente partecipando
uno possa mostrare di che pasta
è fatto. Il gioco può essere una
festa, uno sprigionamento positivo di forze, sia che si vinca sia
che si perda, ma può essere
anche un incubo, una rovina, uno
scatenamento di violenza. Non ci
sarebbe un’etica del gioco, se il
gioco non fosse una finestra
affacciata su scenari perfettamente antitetici. Che non saranno forse il paradiso e l’inferno,
ma certo sono qualcosa che
molto gli somiglia.
E non si dica: è soltanto un
gioco! È da quando eravamo bambini che ce lo dicevano, per consolarci quando la sofferenza per
un esito infausto della partita,
qualsiasi partita fosse, ci pareva
smisurata e incolmabile, e ora da
adulti ce lo diciamo noi per conto
nostro, mentendo sapendo di
mentire. Che cosa vuol dire: è
soltanto un gioco? Solo chi non sa
che cos’è un gioco, parla in questo modo. «
IN GIOCO
di SERGIO BERTELLI
Parrucche ed ermellini
Il carnevale del Potere
Dalla Guerra
dei Cent’anni alle
inaugurazioni dell’anno
giudiziario e universitario
la veste sontuosa
vuol trasmettere
la certezza che il re
non muore mai
er parlare del gioco del
potere, occorre partire da
un celebre libro dello storico olandese Johann Huizinga, apparso nell’ormai lontano
1939: Homo ludens.
Huizinga scrive che “...Nel
gioco abbiamo a che fare con una
categoria di vita assolutamente
primaria, facilmente riconoscibile da ognuno”. Infatti un elemento importante del gioco del
potere è il travestimento. Nelle
celebrazioni liturgiche (e tali
considereremo non soltanto
quelle ecclesiastiche, ma le inaugurazioni dell’anno giudiziario, le
sedute per il conferimento delle
lauree honoris causa nelle
Università e via dicendo) gli
attori della cerimonia recitano il
loro ruolo distinguendosi da noi
comuni mortali perché indossano
vesti sontuose, certamente anacronistiche (il piviale, la mitra, la
berretta, la toga, la mantellina
d’ermellino). Parliamo, anzi, per
traslato, di “ermellini” per indi-
P
care i giudici della Suprema
corte, proprio perché siamo di
fronte alla pelliccia di un animale
totemico. All’inizio della guerra
dei Cent’anni, nella lotta per la
successione di Bretagna,
l’adozione dell’ermellino a
campo pieno (la moscatra) nella
divisa
araldica
divenne
l’immagine stessa della nascente
nazione bretone (Michel Pastoreau, Medioevo simbolico, 2004).
Ma è proprio sulle cerimonie
giudiziarie che Huizinga si sofferma maggiormente. Nella
misura in cui il processo possiede
un suo proprio carattere competitivo, esso entra in pieno nel
concetto semantico di gioco. “La
lite delle parti è trattata dai
Greci come un agòn, come una
lotta impegnata a regole fisse, in
forme consacrate, per la quale le
parti invocano la decisione di un
arbitro [...] proprio dall’essenza
agonale del processo parte
l’intero sviluppo suo, e tale indole agonistica resta viva fino al
giorno d’oggi” [...] Tutt’ora i giudici escono dalla vita solita prima
di cominciare il lavoro giudiziario. Si vestono della toga oppure
si mettono la parrucca”. Procedendo nel suo esame, Huizinga
attirava l’attenzione non tanto
sulla parrucca in sé, quanto su
quella striscia bianca che spunta
sotto la parrucca stessa, e che lui
riferiva alla coif, uno stretto cap-
puccio bianco che indicava il
potere, e che Huizinga considerava affine alle maschere dei
popoli primitivi. In realtà, a me
sembra piuttosto che parrucca,
toga, e qualsiasi altra forma di
travestimento, vogliano indicare
l’immobilità, la saldezza ripetitiva del rito, la sicurezza che il re
non muore mai, in quanto la giustizia è nel suo petto (lex in pectore
ejus: Ernst Kantorowicz, I due
corpi del re, 1957) . Non v’è infatti momento più angoscioso di
quello dell’eclissi del potere.
Con la morte del sovrano cessava
la giustizia e si entrava in un
periodo di anarchia (il romano
justitium), in cui ogni violenza era
ammessa. Il popolo di Roma
conosceva molto bene le libertà
che gli venivano dalla sede
vacante e si dava al saccheggio
dei palazzi cardinalizi.
Nel processo, notava ancora
Huizinga, passiamo dalla gara alla
scommessa: si sfida l’avversario a
contrastare il proprio diritto.
L’ordalia, il trial of battle (verdetto
mediante lotta) non sono che
altrettante forme ludiche: “il
duello giudiziario [...] si è ridotto
a una specie di rappresentazione
sportiva”, anche se “è lecito
dubitare se si debba considerare
ciò come una degenerazione a
forme giocose, o se non piuttosto
si dovrebbe dire che questo
carattere ludico – il quale infatti
non escludeva una cruenta
serietà – è fondato nell’essenza
dell’usanza stessa.”
In tal senso, ne dovremmo
Sopra, ermellino
all’inaugurazione dell’anno
giudiziario. Nella pagina
successiva, docenti universitari
alla cerimonia di apertura
dell’anno accademico presso
l’Università di Udine
segue »
DOC | Dalla Toscana all’Europa | 7
EDITORIALI
di SERGIO BERTELLI
dedurre che persino le pubbliche
esecuzioni capitali, nelle quali il
potere mostrava al massimo la
propria forza, rientravano nel
ludico. Al condannato era infatti
richiesto di svolgere un ruolo attivo: quello di rivolgersi alla folla
incitandola, con il proprio esemplare pentimento, a mantenersi
sulla retta via (F. Fineschi, Cristo e
Giuda. Rituali di giustizia a Firenze in
età moderna, 1995).
Ampliando il nostro orizzonte,
potremmo riconoscere in molte
cerimonie connesse col potere un
intimo carattere ludico. Si pensi
alle entrées solennelles dei re di
Francia, di Spagna e d’Inghilterra,
con l’offerta delle chiavi delle
porte murarie, con gli effimeri
archi di trionfo eretti lungo il
percorso del corteo, le peagentries
che allietavano le soste del corteggio regale. Tutte cerimonie
che avevano il carattere di ricognizione del territorio e, al tempo
stesso, di lustrazione.
In Marocco, fra il XVII e il XIX
secolo, all’approssimarsi dell’esta-
8 | DOC | Dalla Toscana all’Europa
te, il sultano organizzava una spedizione guerresca, il mehalla, per
la raccolta delle tasse, che era
anch’essa una ricognizione del
territorio (J. Dekhlia, Dans la
mouvance du prince: la symbolique du
pouvoir intinérant au Maghreb,
1988). Il costo della spedizione
superava la raccolta dei tributi,
ma era una grande festa, alla
quale partecipava l’intera popolazione. Le concubine che
seguivano il sovrano ne testimo-
“
La funzione culturale del
combattere presuppone
leggi limitanti. Esige
il riconoscimento di una
qualità ludica. Il Combat
des Trente, la Disfida
di Barletta, i duelli aerei della
I Guerra Mondiale sono
antichi, crudeli giochi
”
niavano la potenza sessuale, le
madri gli chiedevano di intingere
un dito nelle brocche di latte che
gli porgevano, per assicurare la
loro fertilità.
Parliamo dunque di lotta e
gara, di rappresentazioni e di ese-
cuzioni, di danze e musiche, di
mascherate e di giostre.
Così gioco e guerra divengono
momenti inscindibili. Scrive
ancora Huizinga: “Il combattere,
essendo funzione culturale, presuppone sempre delle regole
limitanti, esige fino a un certo
punto il riconoscimento di una
qualità ludica. Ancora in età assai
evolute la guerra assume talvolta
la pura forma d’un gioco. Il famoso Combat des Trente del 1351, in
Bretagna, nei primi documenti
non viene chiamato esplicitamente un gioco, ma tuttavia dà
proprio l’impressione d’una competizione. Non altrimenti è per la
Disfida di Barletta del 1503,
nella quale tredici cavalieri italiani lottarono contro tredici cavalieri francesi.” All’inizio della battaglia, i più valorosi sfidano
l’avversario. Ancora nella guerra
mondiale del 1915 l’aristeia riviveva nei veri e propri duelli che i
piloti ricercavano, lasciando cadere dai loro velivoli dei cartelli di
sfida. Ecco perché Franco Cardini
ha potuto intitolare un suo libro
sul combattimento medievale:
Quell’antica festa crudele (1982).
Resterebbe da chiedersi se il
relativismo nel quale siamo oggi
immersi, nel quale viviamo, non
stia distruggendo la dimensione
ludica del potere. Certo, i nostri
“ermellini” non rinunciano (a
ogni inaugurazione d’anno giudiziario) alla dimostrazione del
potere che hanno raggiunto nella
nostra società, anche se, a volte,
viene da chiedersi se non abbiano
perduto il senso del ridicolo.
Restano infatti solo loro, e qualche rettore d’Università, a paludarsi così.«
IN GIOCO
di GIUSEPPE MAMMARELLA
Il gioco del “se” che cambia la Storia
L’ucronia non è solo un divertimento, è un esercizio che può permettere
una più precisa interpretazione dei fatti realmente avvenuti, opponendo
loro quelli che avrebbero potuto realizzarsi
ompito dello storico è la
ricostruzione dei fatti, la
loro analisi e interpretazione, ma pochi resistono
alla tentazione di immaginare gli
scenari possibili se gli avvenimenti si fossero svolti in un altro
modo. Cosa sarebbe successo
se… eccetera, eccetera.
Questo gioco (si chiama ucronia) non è soltanto un divertimento, è un esercizio che può
permettere una più precisa interpretazione dei fatti realmente
avvenuti opponendo loro quelli
che avrebbero potuto avvenire.
Nel corso della Seconda Guerra
Mondiale molto più della Prima,
ricca di vicende e di inattesi sviluppi sia sul piano politico che
militare, le ipotesi di ciò che
sarebbe potuto accadere “se”…,
sono numerose e hanno largamente interessato gli storici
anglosassoni, specie esperti di
storia militare. Cosa sarebbe successo se Hitler avesse deciso di
C
“
Come ti metto in dubbio
le sorti della II Guerra
Mondiale. Nuove strategie
e scenari alternativi
sul piano militare. Hitler
si mette d’accordo con la
Russia e i giapponesi non
bombardano Pearl
Harbour
”
distruggere il corpo di spedizione
britannico che nel giugno 1940
dopo il collasso dell’esercito francese da Dunkerque riuscì a rientrare in Gran Bretagna. Avrebbe
potuto farlo ma invece dette
ordine al Generale Heinz
Guderian, comandante delle divisioni corazzate, di arrestarsi nella
speranza che il governo inglese
accettasse una soluzione negozia-
ta del conflitto.
Cosa sarebbe successo se i
Giapponesi non avessero attaccato Pearl Harbour, nel dicembre
1941, risvegliando il gigante dormiente americano?
Sono ipotesi abbastanza conosciute su cui oltre agli storici si
sono esercitate generazioni di
strateghi da caffè per le quali
simili problematiche costituiscono ghiotte occasioni di polemiche
e discussioni.
Abbiamo scelto di costruire il
gioco dei “se” su due episodi
molto meno conosciuti le cui alternative erano alquanto verosimili e
che specie il primo avrebbe rivoluzionato non solo le sorti della guerra ma quelle della storia.
Ai primi di novembre del 1940,
a poco più di un anno da quell’accordo tedesco-sovietico dell’agosto 1939 che costituì il preludio
all’attacco tedesco alla Polonia e
alla spartizione di quel Paese tra
Germania e Unione Sovietica,
una folta delegazione, capeggiata
da Molotov, l’artefice della politica estera sovietica di molti anni,
arrivava a Berlino per fare il
punto sull’alleanza e sul suo futuro. I sovietici che avevano rispettato con puntualità le condizioni
dell’accordo, soprattutto quelle
di carattere economico con la fornitura di materie prime che avevano contribuito in modo significativo allo sforzo bellico tedesco,
si aspettavano un riconoscimento
concreto. Il dialogo si svolse con
la diretta partecipazione di
Hitler che propose a Mosca una
vera e propria spartizione
dell’Impero britannico (Hitler
dava ormai per sconfitti gli inglesi), grazie alla quale i russi avrebbero potuto allargarsi in Asia
Centrale e soddisfare la loro aspisegue »
DOC | Dalla Toscana all’Europa | 9
EDITORIALI
di GIUSEPPE MAMMARELLA
razione secolare dell’accesso ai
mari caldi. Alla Germania sarebbe
rimasta l’assoluta supremazia in
Europa, all’alleata Italia veniva
assegnato il Mediterraneo e parte
del continente africano, al
Giappone il Sud-Est Asiatico. Era
un grand-design che trovava i
russi impreparati e che comunque
mirava
ad
allontanare
l’espansionismo russo dall’Europa. La politica sovietica
prevedeva invece il consolidamento delle posizioni acquisite in
Europa Orientale e un orientamento verso l’area balcanica, due
successi che Stalin riuscirà a realizzare con la vittoria sulla Germania, ma che già allora facevano
parte degli obiettivi non rinunciabili di Mosca.
Hitler, che fin dai tempi del
Mein Kampf, il programma scritto
agli albori del nazismo, mirava a
una Europa ariana e aveva condannato il comunismo russo come
un regime di esseri inferiori, non
poteva condividere l’Europa con
Mosca, ma avrebbe potuto contenere l’influenza sovietica nei limiti fissati dal trattato dell’agosto
1939 che le concedeva una parte
della Polonia e i Paesi baltici, però
la lasciava fuori dai Balcani e dalla
fascia dei Paesi satelliti della
Germania: Ungheria, Bulgaria e
Romania. Un accordo tra Berlino
e Mosca avrebbe aperto tutta una
serie di scenari alternativi,
alquanto tenebrosi, ma avrebbe
risparmiato milioni di vite umane
e avrebbe comunque costretto
Gran Bretagna e Stati Uniti, dove
non mancavano elementi favorevoli a un accordo con i tedeschi, a
rivedere radicalmente la loro politica nei confronti della Germania
hitleriana.
Invece qualche giorno dopo la
partenza della delegazione sovietica, Hitler riunirà i suoi generali
e ordinerà la preparazione di
quella operazione Barbarossa che
nel giugno 1941 segnò l’inizio dell’attacco all’Unione Sovietica. Le
vicende di quella campagna sono
ben note. Dopo un iniziale collasso del fronte russo che permise
10 | DOC | Dalla Toscana all’Europa
alle truppe di Hitler di arrivare in
pochi mesi alle porte di Mosca,
iniziava la resistenza sovietica
che inchiodava l’esercito tedesco
su di un immenso territorio, dalla
Bielorussia al Caucaso e dopo la
battaglia di Stalingrado del
dicembre 1942 si trasformava in
un contrattacco che permetteva
all’Armata Rossa di riconquistare
il territorio nazionale e dilagare
nell’Europa orientale e poi nelle
province orientali tedesche.
Pochi sono gli storici della
Seconda Guerra Mondiale che
mettono in dubbio il ruolo decisivo, svolto sul piano militare
dall’Unione Sovietica. Due terzi
dell’esercito tedesco, per quasi
cinque milioni di uomini, saranno
durevolmente impegnati sul
fronte russo. Sarà questa distribuzione delle forze a permettere
il successo dello sbarco alleato in
Normandia nel giugno 1944, e in
ultima analisi la sconfitta della
Germania. L’alternativa all’attacco contro l’Urss, che Hitler giustificherà come l’atto necessario a
indurre la Gran Bretagna alla
resa, era una strategia che colpisse i territori dell’impero britannico nel Mediterraneo e in Medio
Oriente, assediasse le isole britanniche tagliandone i rifornimenti, costringesse il governo di
Londra alla resa.
Mussolini aveva intuito che
l’avventura in Russia avrebbe
avuto risultati rovinosi per le
forze dell’Asse e, ancora alla vigilia della sua rimozione, il 25
luglio 1943, insisterà invano presso l’alleato per una soluzione al
conflitto con l’Urss, che permettesse di fronteggiare con le forze
così rese disponibili, la coalizione
anglo americana.
E qui si propone un altro di
quei “se” che avrebbero potuto
cambiare l’andamento della guerra, anche se non i destini della
Storia.
Alcune settimane fa veniva
data notizia della scomparsa, a
più di novant’anni di età, dell’ultimo degli attentatori di Hitler,
sfuggito fortunosamente alla cru-
A pag. 9, Charlie Chaplin
in un fermo immagine de “Il
grande dittatore”. Film del 1940
in cui un ignaro barbiere ebreo
viene scambiato per Adenoid
Hinkel, dittatore di Tomania
dele vendetta del dittatore dopo
il fallimento dell’attentato di Von
Stauffenberg, avvenuto nel luglio
del ’44.
Lo scoppio della bomba, collocata da Von Stauffenberg sotto il
tavolo attorno al quale si svolgeva
una conferenza tra Hitler e i suoi
generali, risparmiò il dittatore
tedesco. Ma già un anno prima i
congiurati avevano avuto
l’occasione di assassinare Hitler,
soltanto l’esitazione di uno di
essi, arrivato vicino al dittatore
con una pistola carica, aveva
segnato il fallimento dell’attentato. Se esso fosse riuscito, la guerra si sarebbe conclusa un paio di
anni prima con la salvezza di
milioni di vite umane civili e
militari sui fronti di guerra e nei
campi di concentramento.
Uomini, donne e bambini che
invece furono immolati per la
volontà criminale di un feroce
dittatore e dei suoi complici. «
IN GIOCO
di LAURA BRACCO
L’attività ludica degli
anziani è un’ottima
ginnastica mentale
il cui ruolo terapeutico
è senz’altro meglio
di qualunque farmaco
e riduce agitazione,
ansia, aggressività
’associazione tra il concetto di “gioco” e quello
di “terza età” non è immediato.
A cosa giocano gli anziani? A
carte per lo più o a tombola o alle
bocce, come ci riportano le
immagini dei centri che li ospitano. Ma qualcuno continua a giocare a tennis, altri intraprendono,
anche in età avanzata, il golf o si
dedicano alla soluzione di rebus e
cruciverba e altri ancora – per la
gioia delle case produttrici di
programmi computerizzati come
Nintendo o MindWeavers – si
impegnano regolarmente per
alcune ore al giorno nei cosiddetti “grey games” nella speranza di
mantenere efficiente la propria
memoria, allontanare lo spettro
della malattia di Alzheimer e,
anche, divertirsi. Non dimentichiamo infine i nonni che giocano
nel vero senso della parola con i
nipotini, ritrovando ruoli e linguaggi della loro fanciullezza o
adattandosi a quelli delle nuove
generazioni o coloro che suonano
uno strumento musicale, attività
giustamente indicata con il termine “giocare” in altre lingue
(“to play” in inglese, “jouer” in
francese).
Ma quali sono le ripercussioni
di tali attività sulla salute, sul
mantenimento delle capacità
cognitive soprattutto? Alcuni
studi ben condotti su popolazioni
anziane, prevalentemente statunitensi o svedesi, sono concordi
nell’affermare che anziani impegnati in attività sociali, fisiche e
di svago, hanno minori probabilità di sviluppare demenza.
Quella corsa per vincere
il match con la vecchiaia
L
Rischio che appare comunque
ridotto in soggetti con elevato
livello di scolarità e alto quoziente intellettivo rispetto a individui
della stessa età meno dotati.
L’insieme di questi dati supporta
l’ipotesi della “riserva cerebrale”
secondo la quale conseguire alti
titoli di studio o svolgere professioni di tipo intellettuale favorisce lo sviluppo di una ricca rete
neuronale. Processi fisiologici
come l’invecchiamento o patologici come malattie neurodegenerative o eventi traumatici o
vascolari, che comportano una
perdita cellulare cerebrale, avrebbero quindi effetti meno devastanti in individui dotati di un
più ampio patrimonio neuronale.
Le dimostrazioni più robuste a
sostegno di questa ipotesi derivano da studi su pazienti affetti da
malattia di Alzheimer: è stato
evidenziato come soggetti con
alto livello di scolarità, elevato
quoziente intellettivo premorboso, cospicuo impegno intellettuale sia nel lavoro sia nelle attività
del tempo libero producano, a
parità di gravità del deficit cognitivo, prestazioni superiori rispetto a pazienti meno impegnati
intellettualmente nonostante
una maggiore estensione del
danno cerebrale. Come se una
intensa attività intellettuale
dotasse l’individuo di una “risersegue »
DOC | Dalla Toscana all’Europa | 11