vivere di fede in una stagione come è la nostra

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vivere di fede in una stagione come è la nostra
VIVERE DI FEDE
IN UNA STAGIONE COME È LA NOSTRA
Prima parte:
QUALE FEDE
FAR NASCERE VITA DOVE C’E’ MORTE
FEDE E’ VIVERE COME SE VEDESSIMO L’INVISIBILE
IL POZZO DI MEGHIDDO
FEDE, VITA QUOTIDIANA, SENSO
Seconda parte:
VIVERE DI FEDE NEL QUOTIDIANO
TORNARE A GERUSALEMME
COSTRUIRE QUALITÀ DI VITA
RACCONTARE L’ESPERIENZA DI FEDE
UN FRAMMENTO DI FUTURO NEL TEMPO DURO DELLA NECESSITÀ
POSSO FIDARMI?
R. Tonelli
Prima parte:
QUALE FEDE
Cap. primo
FAR NASCERE VITA DOVE C’E’ MORTE
Scopro subito le mie carte.
Sono convinto che è importante fare questa operazione dall’inizio, per avere la libertà di dire
quello che penso senza giocare troppo a nascondiglio, e per chiedere agli amici che vorranno
dedicare un poco del loro tempo a leggere queste pagine, la libertà di scegliere da che parte collocarsi, in atteggiamento di piena responsabilità. Non mi piacciono le affermazioni che dicono e
non dicono: le considero una forma subdola di seduzione. E non ho grande stima delle persone
che si entusiasmano o che disprezzano le proposte, senza prima averle passate al vaglio di un
forte senso critico.
La mia scelta dovrebbe valere per ogni comunicazione tra le persone. Ha un peso tutto speciale
però quando ciò che è scambiato nella relazione comunicativa riguarda una dimensione importante della vita di chi lancia le informazioni e pretende di coinvolgere, con la stessa intensità, la
vita di coloro cui le informazioni sono indirizzate.
Per tutte queste ragioni sento il dovere di fare un po’ di ordine, prima di entrare in argomento.
Pensare alla fede: è cosa seria?
Attraverso queste pagine desidero condividere con amici che conosco e con molti che ancora
non conosco la mia esperienza personale a proposito della fede in Gesù di Nazareth, che riconosco il Signore di ogni vita e di tutta la storia. Lo faccio con la pretesa – certo non piccola – di
sollecitare altre persone verso questa stessa esperienza.
Spero che risulti subito evidente l’urgenza di fare tutto questo in un gioco, forte e impegnativo,
di libertà: una esperienza di libertà che vuole suscitare nuove esperienze di libertà e di responsabilità. Non mi convince l’idea, che invece convince altre persone, di avere il diritto di dire certe cose solo perché sono vere… La convinzione può valere per le formule di matematica e per
le leggi fisiche; ho qualche dubbio, invece, sulla possibilità di estenderla alla vita e al suo senso.
Questo piccolo libro è dedicato, dunque, alla fede in Gesù il Signore: al suo contenuto, al suo
significato, alle esigenze che suscita e alle parole che la possono raccontare.
Il tentativo di procedere a carte scoperte, per suscitare libertà e responsabilità, richiede subito
l’attenzione verso due questioni pregiudiziali.
Le indico con due interrogativi.
Questo è il primo: cosa è in concreto “la fede”? In questo libretto voglio riflettere sulla fede: di
che si tratta? Non posso rispondere a chi mi rivolge, almeno implicitamente, la domanda: leggi
tutte le pagine, dalla prima all’ultima, e vedrai che, giunto a fine corsa, prima di chiudere il libro
e riporlo in uno scaffale, saprai cosa è “fede”. La risposta può valere per i testi che pretendono
di dare informazioni sconosciute. Non funziona di sicuro per quelli che vorrebbero condividere
esperienze di vita e suscitarne di nuove.
Il secondo interrogativo è più decisivo ancora: perché dedicare tempo a riflettere sulla fede?
Abbiamo tante cose serie per le mani e facciamo spesso i conti con un tempo, sempre scarso,
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per fare le cose che ci piacciono… e dovremmo ritagliarne qualche fetta per affrontare un tema,
poco interessante o troppo specialistico? Me lo sono posto anch’io il problema. Ho
l’impressione che solo dopo aver risolto questo secondo problema, sia possibile interessarsi del
primo. Mi chiedo, in altre parole, cosa è la fede, solo quando mi sono convinto che attorno a
questa espressione si raccolga un grappolo di cose interessanti per la mia esistenza.
L’eventuale soluzione del secondo interrogativo è complicata da un pregiudizio che ci portiamo
dietro, frutto di troppi modelli formativi. Qualcuno dice: la fede… è importantissima… senza
fede non si può né vivere né sopravvivere. Guai, però, a chiedere il perché di tutto questo. C’è
il rischio che la convinzione si trasformi in arrabbiatura: “Non va bene chiedersi la ragione di
quello che è evidente. Solo i presuntuosi non si fidano e vogliono mettere il naso su tutto.
Aspetta e vedrai… quando diventerai saggio come me, ti accorgerai di chi aveva la ragione dalla
sua parte”. Se poi uno si lascia convincere poco da questa litania di luoghi comuni e cerca di
guardarsi d’attorno con un poco di senso critico, ha l’impressione che l’appello alla fede possa
servire per coprire la mancanza di buone ragioni. “Ci vuole più fede”, si dice, e così ci si sente
dispensati dalla fatica di ragionare.
Scoprire le carte all’inizio di questa riflessione sulla fede, comporta, per me, il dovere di dichiarare cosa intendo per fede e per quale ragione propongo il tema della fede come un tema importante per la propria vita.
Non posso affrontare le due questioni d’un colpo solo. Devo procedere passo dopo passo. Per
questo incomincio dalla seconda questione e rimando la prima al capitolo successivo.
Ha senso dedicare tempo a pensare alla fede? Fa parte di impegni raccomandabili alle persone
serie, che avvertono grosse responsabilità personali e sociali? E se, invece, fosse un passatempo
inutile, per gente che non sa come occupare il tempo o per gente che si disinteressa della questioni serie per concentrare l’attenzione su quelle piccole e inutili?
Sono convinto che la riflessione sulla fede riguarda la vita e il suo senso, la nostra lotta contro la
morte, la costruzione di una speranza, capace di trasformare in cose possibili anche quelle impossibili. Riguarda davvero una questione seria, la più seria di tutte.
Perché?
Rispondo raccontandoti una storia, che viene da lontano… riguarda Gesù, i suoi discepoli, la
situazione dolorosa di un ragazzo che stava per morire.
La fede per abilitare alla vita
Gesù aveva spiegato ai suoi discepoli tutto quello che era necessario per andare in giro per il
mondo, con passione e competenza, a predicare il Vangelo.
Aveva detto loro quello che dovevano annunciare e la prospettiva da cui farlo. "Vi affido una
bella notizia. Raccontatela a tutti. La gente ne ha bisogno e l'aspetta con ansia. Sono stanchi
ormai di sentire lunghe prediche, piene di ordini e di divieti. Dite: il Regno di Dio è vicino... anzi, è già in mezzo a voi. Si tratta di scoprirlo, imparando a guardarsi d'attorno. Le parole che
pronunciate devono servire a far sperimentare che Dio è un padre buono che vuole la vita di
tutti".
Qualcuno gli aveva chiesto: "Da chi dobbiamo incominciare?". E Gesù: "I poveri sono quelli
che hanno il diritto di ricevere per primi questa bella notizia. Di solito sono gli ultimi. Le belle
notizie le ricevono solo dagli altri... se qualcuno ha compassione di loro e racconta ciò che gli
altri, quelli che contano, sanno già a memoria. Per favore, non fate così anche voi. Incominciate
proprio dagli ultimi. Questo modo di fare è stato inaugurato nel giorno della mia nascita. L'avete sentito dire, spero… Gli angeli hanno trattato prima di tutto con i pastori. Gli altri, una volta
tanto, hanno dovuto informarsi da loro".
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Gesù, nel corso accelerato di formazione ai suoi discepoli, aveva insegnato anche qualche tecnica. Voleva diffondere la convinzione che la buona volontà da sola non basta. Aveva raccomandato: "Attenzione a non moltiplicare le parole... I fatti sono la parola più convincente. Incominciate con i fatti: fate camminare gli zoppi, ridate la vista ai ciechi e l'udito ai sordi". Poi aveva
aggiunto, subito subito: "Fidatevi di chi vi manda. Non portatevi troppe provviste. Quando entrate in una casa, salutate chi ci abita e fatevi invitare a pranzo: è una specie di compenso per il
servizio che gli fate. Anche voi, infatti, siete degli operai che hanno diritto ad una paga giusta:
operai del Regno... ma sempre operai, che mangiano quello che hanno guadagnato, con il sudore della propria fronte. Se qualcuno vi caccia... ci rimette lui. Voi, tranquillamente, cambiate alloggio".
Gesù aveva spiegato tutto ai suoi discepoli, come un buon maestro, contento di condividere la
propria sapienza con gli amici, per coinvolgerli totalmente nella sua causa.
Sono pronti a partire: in giro per il mondo per annunciare la bella notizia. Gesù fa un ultimo
gesto d'affetto nei loro confronti. "Vi accompagno per un pezzo di strada... volete?".
Erano felici. La compagnia con Gesù dava sicurezza... anche se pensavano di sapere tutto, gli
imprevisti sono sempre imprevedibili.
Arrivano nella piazza principale del primo paesetto che era sulla loro strada. S'accorgono subito
di un crocchio di persone, al centro della piazza.
Gesù non ci fa caso e tenta di procedere avanti, per la sua strada, come se quella gente non dovesse preoccuparlo più di tanto. Con lo sguardo penetrante che viene dall'amore e dalla passione per la vita, si era già accorto di tutto. Fa l'indifferente per mettere alla prova la preparazione
dei suoi discepoli.
La lezione di Gesù l'avevano imparata proprio bene. "Gesù, fermati... dobbiamo andare a vedere. Ci hai insegnato ad essere curiosi per la vita e la speranza della gente. Non possiamo procedere, senza prima verificare se qualcuno, là tra quella folla, ha bisogno di noi".
"Bravi", dice Gesù, "D'accordo... i miei discepoli non camminano con gli occhi bassi, come se
nulla dovesse interessarli... perché hanno ben altre preoccupazioni".
Due partono decisi. Vanno a vedere di persona. Tornano dopo pochi secondi, con il fiatone.
"Dobbiamo fermarci e intervenire subito. Tra quella gente c'è un povero ragazzo che sta uccidendosi con le sue mani. Sbava... batte con il capo sul selciato della piazza, grida come un ossesso. Il padre è lì impotente. Gli altri sono spaventati... e non sanno che fare. Andiamo noi...
sei d'accordo, Gesù? Ce l'hai insegnato tu: il buon pastore lascia nell'ovile le pecore brave e corre disperato dietro quella che è fuggita".
Altra gran consolazione per il cuore di Gesù. Pensa: sono proprio bravi i miei discepoli... posso
fidarmi di loro. Con gente così, cambiamo la faccia della terra. Avevano capito bene che non
possono essere discepoli di Gesù e annunciatori del Regno quelli che non hanno passione, forte
e intensa, per la vita e per tutte le sue manifestazioni.
Arrivano i discepoli di Gesù. Si fanno largo tra la folla. Prendono per mano il ragazzo che sta
per morire... lo chiamano per nome... fanno i gesti che avevano visto fare spesso da Gesù.
Niente. Anzi, peggio di prima. La gente li guarda minacciosa. Poi, qualcuno alza la voce: "Sparite... c'è già abbastanza confusione. Fuori dai piedi. Tornate da dove siete venuti".
Tornano da Gesù. Sono distrutti. Sembrava tutto così facile. Si aspettavano l'applauso riconoscente della folla e l'abbraccio del padre. E invece si sono presi insulti.
"Gesù... che facciamo? Vai tu, per favore. Fallo per quel povero ragazzo. Solo per lui".
Gesù interviene. Chiama per nome il ragazzo. Lo solleva con una mano. Non sbava più. E'
tranquillo. Sorride. E' guarito. Si butta tra le braccia del padre. La morte è stata sconfitta. Ancora una volta la vita ha vinto, grazie a Gesù.
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La gente applaude. Il padre ringrazia Gesù. Gli chiede indicazioni su dove rintracciarlo, più
avanti, con calma, per dirgli la gratitudine di tutta la sua famiglia.
Gesù parla del Regno di Dio vicino, presente tra loro. Accenna al Padre che sta nei cieli. Poi,
saluta e torna dai suoi discepoli. E' felice. Anche oggi ha annunciato il Regno di Dio con parole
convincenti.
Assieme, Gesù e i discepoli, stanno per riprendere il cammino. Ma non poteva finire così. Ritorna, in primo piano, il corso di formazione per diventare buoni evangelizzatori. Se non l'avessero sollecitato i discepoli, sarebbe di sicuro intervenuto direttamente Gesù. Il pezzo che mancava era troppo importante, per lasciarlo in sospeso.
Qualcuno prende il coraggio a due mani e butta lì la questione principale: "Senti, Gesù... ci hai
insegnato tante cose, ma qualche segreto te lo sei tenuto. Ci dispiace... ma non è serio. Se vuoi
che siamo discepoli tuoi a tempo pieno e non ti facciamo fare la figura barbina che abbiamo
fatto oggi, devi svelarci questo segreto. Come mai a te ha funzionato e a noi no? Abbiamo fatto
di tutto per guarire quel povero ragazzo, ma non ci siamo riusciti. Sei arrivato tu e, in quattro e
quattr'otto, l'hai restituito vivo all'abbraccio del padre. Perché? Dove abbiamo sbagliato? Quale
tecnica ci manca ancora?".
Fanno eco tutti: "Dai, Gesù, insegnaci anche l'ultimo trucco... per favore".
Risponde Gesù senza mezzi termini: "Vi ho insegnato tutto... non mi sono tenuto nessun segreto. Credetemi. Perché, allora, risultati tanto diversi? Avete ragione a lamentarvi... Qualcosa vi
manca ed è la cosa più importante. Non si aggiunge alle competenze che avete già acquisito,
perché non è una tecnica in più, disponibile solo agli iniziati.
Sapete cose vi manca?".
Tutti restano a bocca spalancata, in attesa.
Gesù si ferma un attimo, per costringerli a pensare e ad ascoltare fuori d'ogni interesse d'efficienza. Poi aggiunge, con quel pizzico di fantasia con cui diceva le cose più importanti: "Vedete
quella montagna là...". Tutti si girano, con un punto interrogativo disegnato sul volto. "Bene, se
voi aveste tanta fede quanto un granello di senapa - e lo sapete che è il più piccolo dei semi -,
potreste dire a quella montagna: spostati da là a qua... e la montagna si sposterebbe, pronta e
obbediente.
Vi mancava la fede... l'unica tecnica che, alla fine, sposta davvero le montagne".
Non ce ne vuole tanta: Gesù non raccomanda una montagna di fede per spostare un granello di
senapa. La fede ci vuole però... anche poca opera in grande: fa passare da morte a vita.
La scuola di formazione di Gesù è terminata. Ha insegnato i contenuti, la prospettiva e le tecniche: tutte cose importanti... insufficienti per far passare da morte a vita. Non sono inutili: anzi,
non se ne può proprio fare a meno. Solo che non bastano a risolvere i problemi. Ci vuole la fede: la decisione di immergersi nel mistero di Dio, perché solo Dio fa passare davvero da morte
a vita e noi, con tutta la nostra competenza, siamo "soltanto servi".
Un modo per affrontare le questioni serie
Fine della storia. Qualcuno può pensare: “Beh… ti sembra questo il modo di dare ragioni per
dimostrare l’importanza della fede?”. Lo so. Ho scelto apposta questa strada, perché sono convinto (altra carta da scoprire subito) che il “raccontare storie del Vangelo” sia l’unico modo serio di dare ragione dei fatti più impegnativi della vita e per dare fondamenti sicuri alla speranza.
A fil di ragionamento si dimostra il teorema di Pitagora e le leggi della fisica. Non posso però
dimostrare, con le stesse strumentazioni, le esperienze più profonde della vita. Non esistono
prove matematiche per dimostrare l’amore e quando qualcuno le cerca, “dimostra”, con la forza
dei fatti, che non ha capito nulla dell’amore.
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Mi impegno a farlo anche altre volte, nel nome di quell’appello alla libertà e alla responsabilità
che ho sottolineato con forza all’inizio del capitolo. Quando mi troverò nelle necessità di “dimostrare” qualcosa che riguarda la vita e la speranza, invece di arrampicarmi su ragionamenti,
racconterò qualche storia.
La storia di Gesù e dei suoi discepoli “mostra” che l’unica via per far nascere vita dove c’è morte, anche quando tutto sembra impossibile, è quello stile di esistenza, piccolo come un seme di
grano, che si chiama la fede.
Nelle pagine che seguono, dirò cosa è per me la fede.
Per ora mi accontento di dichiarare a cosa serve e perché la questione è importante. Riflettiamo
su qualcosa che riguarda la vita e la speranza e lo facciamo per constatare su quale direzione di
impegno possiamo orientare la nostra esistenza, se vogliamo far nascere vita anche in quelle situazioni in cui sembra che non ci sia più nulla da fare.
Cap. secondo
FEDE È VIVERE COME SE VEDESSIMO L’INVISIBILE
Questo libro propone una specie di lungo viaggio alla scoperta della fede cristiana e del suo significato per la nostra vita quotidiana. Per procedere assieme, da buoni amici che si aiutano reciprocamente a vivere in libertà e responsabilità, è indispensabile mettersi d’accordo in anticipo
su alcune questioni che sono pregiudiziali, perché riguardano l’orizzonte della proposta.
Nel capitolo precedente ho dichiarato per quale ragione, secondo me, è tutt’altro che tempo
perso quello che si può dedicare a pensare alla fede. Adesso cerco di dire cosa intendo per fede.
L’intesa su questo argomento è importante perché il richiamo alla fede è realizzato oggi in modi
e con riferimenti molto diversi.
Precisare i termini, facendo un poco di ordine
L'espressione "fede" fa parte del linguaggio comune. Basta farci un po’ di attenzione ed è facile
costatare che si tratta di una delle parole più gettonate.
La constatazione è bella: serve a rassicurarci del fatto che non ci mettiamo a riflettere su astruserie, riservate al cerchio, ristretto e raffinato, degli addetti ai lavori. Pone però un problema: la
stessa parola viene utilizzata in differenti contesti e si riferisce a frammenti di esistenza molto
diversi. Si parla, infatti, di fede politica per dichiarare come immaginiamo il cambio sociale e a
chi vogliamo affidare questa responsabilità. Qualcuno parla di fede in una persona o in una istituzione. Nel mondo dello sport qualche tifoso scatenato dichiara persino la sua fede in una
squadra di calcio. Gli uomini religiosi parlano spesso di fede. San Paolo, quel grande discepolo
di Gesù che ha girato in lungo e in largo il mondo allora conosciuto per predicare il Vangelo, è
arrivato ad affermare, senza mezzi termini, che il cristiano vive della sua fede, come fosse l’aria
che respiriamo e il pane che nutre la nostra fame.
Di fronte a tanti significati, veramente diversi, riferiti alla stessa parola, non è facile andare
d’accordo. C’è il rischio di utilizzare una espressione comune e pacifica, per dire il contrario.
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La possiamo mettere ancora più dura. Nel capitolo precedente ho collegato alla fede la possibilità di far nascere vita dove c’è morte, anche quando tutto sembra impossibile. Quale fede è capace di fare cose del genere?
Nelle differenti forme in cui si intende fede, le diversità saltano agli occhi. Però, se ci pensiamo
bene, senza gelosie e senza pretendere che tutti vadano d’accordo con il nostro modo di pensare, è possibile scoprire che non mancano i punti d’incontro. Chi parla di fede dichiara, infatti, di
possedere un complesso di ideali, capaci di guidare i suoi orientamenti concreti e quotidiani, fino a sollecitare un impegno coerente di vita. Qualche volta, questo riferimento è forte, capace
di afferrare tutta la vita, e spinge persino a compiere dei gesti di alto profilo. Qualche volta, invece, resta debole: serve solo ad orientare un frammento di esistenza, lasciando tutto il resto ad
altre ragioni e ad altre motivazioni. Si potrebbe dire: c’è una fede che prende tutta la vita e ce ne
sono altre che si accontentano di governare pezzi di essa.
Anche i cristiani utilizzano la stessa espressione per parlare del significato profondo della loro
esistenza. Dichiarano di riferire a Dio il fondamento di tutta la loro vita e affermano - con parole cui non sempre corrispondono i fatti - che Dio è la ragione ultima della vita, l’orizzonte che
organizza e porta a verifica ideali e progetti.
Non sono solo i cristiani a parlare in questo modo della fede. Moltissimi uomini religiosi si riferiscono a Dio come al fondamento ultimo della loro vita e dichiarano, di conseguenza, la loro
fede religiosa. La differenza tra una fede religiosa generica e la fede cristiana sta nel riconoscere
in Gesù di Nazareth il testimone definitivo di Dio. Per questo il cristiano radica l’orizzonte della propria esistenza sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé nella creazione e nella storia, e, in
modo tutto speciale, in Gesù di Nazareth. E si esprime come risposta personale alla Parola
ascoltata.
L’invito a diventare persone che sanno vivere di fede, a quale posizione vuole fare riferimento?
Non mi piace cercare di mettere d’accordo le posizioni diverse, addolcendo i contrasti e smussando gli angoli. Non mi piace però neppure pretendere che ci sia solo un modo di pensare che,
guarda caso, coincide con il mio. Preferisco misurarmi con un punto di vista che mette in crisi
me e, spero, anche gli altri e verificare da questa prospettiva le differenti posizioni. Mi sembra
che, in questo modo di fare, la domanda su “chi ha ragione” non abbia né vincitori né vinti, ma
ci avvicini un po’ di più alla verità.
La fede è possedere quello che si spera soltanto
Nelle mie riflessioni sulla fede ho incontrato una pagina di un documento che i cristiani riconoscono come “parola di Dio”: il capitolo 11 della Lettera che un autore anonimo ha scritto due
mila anni fa agli Ebrei per mostrare che Gesù di Nazareth è proprio quel salvatore che loro stavano aspettando. A differenza dei Vangeli e di altri testi del Nuovo Testamento è scritto in un
linguaggio difficile, molto lontano dal nostro e dai nostri problemi. Il capitolo 11, invece, è molto diverso. Parla del tema che ci sta a cuore, della fede appunto; e lo fa in modo originalissimo e
molto concreto.
Il capitolo si apre con una definizione di fede, tanto originale quanto simpatica: "La fede è un
modo di possedere già le cose che si sperano, di conoscere già le cose che non si vedono" (Eb.
11, 1). Va capito bene quello che viene affermato.
Nei fatti della nostra vita ci sono delle cose che si vedono e ce ne sono molte altre che invece
restano nascoste. Di solito, è facile distinguere tra ciò che si vede e ciò che non si vede. Vedo
l’amico che è fisicamente presente vicino a me. Posso sentire la sua voce, gioire (o rammaricarmi) della sua presenza. Questa non è l’unica presenza possibile. Altre persone sono vicine
anche se, in questo momento, non lo sono fisicamente. Non le possiamo vedere, se non con gli
occhi dell’amore e della fantasia. In questi casi è chiaro ciò che si vede e ciò che non si vede.
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Il gioco tra ciò che si vede e ciò che non si vede, suggerito dalla definizione di fede della Lettera
agli Ebrei, non va inteso come la differenza tra un amico che sta fisicamente vicino a te ed un
altro, egualmente simpatico, che non è in questo momento vicino fisicamente.
In un avvenimento e in una persona, possiamo vedere ciò che, in qualche modo, può essere
toccato con mano. Riconosciamo però che non finisce tutto lì. In una persona amata c’è un mistero, grande e profondo, che tutta l’avvolge. Questa realtà invisibile e misteriosa è tanto decisiva da avvertire la persona stessa in un modo specialissimo. Quello che non si vede diventa la
categoria attraverso cui impostiamo il nostro giudizio e il nostro rapporto con quello che si vede.
In questo caso, non valgono le leggi del presente e dell’assente. Il rapporto tra ciò che si vede e
ciò che non si vede riguarda una persona “presente” o un fatto di cui sono protagonista. Quello
che resta misterioso a prima vista decide fortemente la mia reazione nei confronti di quello che
vedo.
Faccio un esempio.
Molti miei amici hanno conosciuto mia mamma. Ora è in Paradiso, da qualche anno. Ma il suo
volto e la sua presenza è ancora vivissima in me. Chi la incontrava, diceva di lei tante cose che
io riconoscevo vere. La trovavano cordiale, allegra, simpatica, una cara vecchietta capace di
compagnia e di molte attenzioni. Anch'io dicevo lo stesso di lei. Aggiungevo però sempre un
dato che solo io posso sperimentare come vero e autentico: "è mia mamma".
Le doti di carattere e il fatto che sia mia mamma sono due constatazioni ugualmente vere. Restano collocate a due livelli diversi. Le prime sono facilmente costatabili da chiunque abbia occhi per vedere. La seconda investe quel rapporto intimissimo e misterioso che lega un figlio alla
madre.
Nei confronti di mia mamma si è realizzata una lettura a differenti livelli: qualcosa si vede e
qualche altra cosa resta misteriosa, pur essendo intensamente vera.
La definizione di fede che ho riportato dalla Lettera agli Ebrei parte da questa situazione e aggiunge: la fede è quell’atteggiamento che permette di vedere anche quello che non si vede, fino
al punto di valutare ed esprimere quello che si vede dalla parte di quello che non si vede.
Un piccolo particolare non dovrebbe sfuggirci. La definizione di fede riportata contiene una ripetizione. Apparentemente le due frasi dicono, con parole diverse, la stessa cosa. Il modo di
parlare è tipico del linguaggio e del mondo orientale. C’è però una sottolineatura originale: le
cose che non si vedono sono “sperate”… e cioè attese, desiderate, ricercate. La voglia di verità
porta a scavare in quello che si vede per arrivare a mettere le mani, con gioia, sul mistero che si
portano dentro.
Un modo di parlare dal concreto
Ho commentato la definizione di fede offerta dalla pagina citata della Lettera agli Ebrei. Il documento non finisce qui. Quello che segue è prezioso per comprendere meglio la definizione stessa.
L’autore della Lettera continua con uno stratagemma. Ha detto che la fede fa vivere la vita quotidiana come se vedessimo l’invisibile… Detto questo, si scatena nel racconto di una serie di
storie di vita. Spiega la definizione con degli esempi. Meglio: dice quello che ha cercato di dire a
parole, scegliendo la strada delle storie raccontate.
Non possiamo dimenticare che l’autore è un bravo ebreo, conoscitore della storia del popolo
ebraico, che scrive per persone che appartengono a questo popolo. La scelta delle storie di vita
è, per lui, quasi obbligata.
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Racconta le avventure dei grandi personaggi dell’Antico Testamento. Evoca pezzi della loro vita: non ha bisogno di offrire particolari abbondanti, perché i suoi lettori conoscevano benissimo il personaggio e il contesto. Aggiunge però sempre, quasi come fosse un ritornello, “per fede”.
Dice, per esempio, “per fede” Abramo si è messo in viaggio, chiamato da Dio. Ha lasciato la
sua terra, ha arrotolato la sua tenda e si è incamminato verso una terra sognata e promessa. Aggiunge ancora di Abramo: “per fede” ha ascoltato senza esitare l’invito di Dio che gli chiedeva
di rinunciare al figlio che aveva desiderato ardentemente e che aveva ottenuto quando ormai
non c’era più nessuna speranza di poter diventare padre. E’ disposto a sacrificarlo… poi lo
riabbraccia vivo e vegeto, sostituito nel sacrificio da un caprone, misteriosamente comparso sul
più bello.
Di storie ne racconta tantissime dopo quella di Abramo. Racconta della mamma di Mosè che,
“per fede”, non ha obbedito all’ordine del tiranno e si è organizzata per salvare la vita al piccolo
Mosè. Racconta di Giacobbe che ruba il diritto di eredità al fratello più grande di lui, organizzando un trucchetto nei confronti del padre, vecchio e ormai cieco.
In tutti questi racconti, il ritornello è lo stesso “per fede”.
Mi sembra importante provare a pensare a questi racconti. Le trame sono note. Sono sotto gli
occhi di tutti. Se fossero capitati ai nostri giorni, qualche minuto di telegiornale se lo sarebbero
meritato. L’autore non nega tutto questo. Aggiunge però una sua interpretazione: qui c’è di
mezzo la fede, commenta.
Sembra strano. Giacobbe imbroglia il padre morente. E l’autore della Lettera agli Ebrei, dopo
aver accennato al fatto, aggiunge la sua lettura dal profondo. Le cose non stanno “solo” come
appaiono. Esse rientrano in un progetto molto più grande, dove c’è posto per tutti gli uomini,
perché il progetto è grande come il cuore misterioso di Dio. Chiama, dunque, un fatto di cronaca con un nome nuovo. Non lo ricava da quello che vede, ma dall’invisibile che si porta dentro.
La stessa cosa si può dire della mamma di Mosé. E’ una donna coraggiosa e furba: una mamma… nel senso pieno della parola. Il suo gesto di mamma, letto nel mistero che si porta dentro,
dice molto di più di quello che appare alla vista di chi conosce lo svolgimento dei fatti. Diventa
un avvenimento nuovo, capaci di riguardare tutti: un evento di fede.
Penso ancora ad Abramo. Il testo ricorda due momenti della sua vita. Il primo è un gesto di
grande coraggio: pone Dio sopra il suo affetto di padre. Il secondo è invece un fatto di routine:
Abramo era un nomade, sempre in viaggio da un pascolo all’altro… arrotolare la tenda e mettersi in viaggio fa parte del suo stile normale di vita. Eppure, tutti e due i fatti hanno una stessa
interpretazione: sono avvenimenti di fede. L’autore legge dentro all’uno e all’altro avvenimento;
non si ferma a quello che appare a prima vista; dal profondo li dichiara fatti di fede.
Non continuo nel commento alle storie raccontate nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei. Tutti
gli avvenimenti meritano quelle analisi che ho appena suggerito.
Le storie commentano e rendono concreta la definizione. Ci fanno capire cosa significa leggere
quello che si vede dalla prospettiva del mistero che si porta dentro.
Questa è la fede: una lettura di fatti e persone che non si ferma al superficiale, ma scava dentro.
Vive di fede colui che ha il coraggio di scavare continuamente dentro i fatti della sua vita per
pronunciare la sua valutazione e per giocare la sua decisione non su quello che vede, constata,
manipola, costruisce… ma su quello che spera ed attende, scopre e sperimenta a quel livello
profondo dove ci vuole uno sguardo penetrante.
Questa è la fede che rende le persone capaci di far passare da morte a vita, anche quando tutto
sembra spingere ad una conclusione rassegnata. Come e perché funziona così, lo dirò nelle pa-
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gine che seguono. Intanto – spero – ci siamo messi d’accordo sulla prospettiva. Non è una piccola conquista in una stagione di pluralismo come è quella in cui stiamo vivendo.
Un’esperienza di fede… molto personale
Ho sollecitato una coraggiosa scelta di campo, per fare ordine su un tema, come è quello della
fede, in cui c’è il rischio di utilizzare la stessa espressione per dire realtà molto diverse.
Faccio ora un passo avanti, nell’ambito che ho appena indicato come quello in cui mi riconosco, per ricordare un dato che a me pare molto impegnativo.
Quando solo impegnato a definire dei termini matematici o delle formulazioni giuridiche, devo
fare la fatica di stare nell’oggettività delle indicazioni. In questo caso, il “per me” dovrebbe
coincidere con “la cosa in sé” e non serve passione o entusiasmo a decidere il confine tra vero e
falso. Il caso della fede e delle sue espressioni è molto diverso. Mi riprometto di tornarci perché
è una questione calda e dibattuta, in una stagione di guerra combattuta all’ultimo respiro tra i
difensori della soggettivizzazione e quelli dell’oggettività.
Le parole con cui esprimiamo forte l’esperienza che abbiamo vissuti, leggendo la realtà dal mistero che si porta dentro, dipendono dal mistero incontrato e dal coinvolgimento personale. Io
leggo l’evento dal mistero e lo racconto, facendo vibrare tutta la mia esistenza nella gioia di
quello che ho scoperto, vissuto, sperimentato.
Una cosa è certa e consolidata: devo rispettare l’evento incontrato e non posso sostituirmi a
quello che ho scoperto. Ma gioco tutto me stesso, il livello di esperienza partecipata, la provocazione sperimentata e il coraggio del coinvolgimento. Le parole sono sempre le mie, povere e
sincere espressioni che cercano di dare verificabilità a qualcosa che resterebbe sempre altrimenti
indicibile.
La constatazione è, come dicevo, impegnativa e importante.
Non bastano le espressioni oggettive. E’ inutile cercarle, in nessuna fonte. Sono tutte espressioni personali e culturali, anche le più solenni e autorevoli, preziose e limitate nello stesso tempo.
Propongo invece le mie, nella debolezza del mio vissuto e nella ricerca, sincera e appassionata,
di raggiungere quel livello di propositività che possa coinvolgere altri nello stesso vissuto.
Non si tratta di ricavare dalla memoria di un calcolatore delle informazioni fredde e impersonali, ma di liberare la forza critica racchiusa nell’evento proclamato e raccontato.
I cristiani sono per vocazione gli annunciatori della speranza, perché testimoni della passione di
Dio per la vita di tutti. Per parlare in modo sensato della salvezza di Dio che è Gesù dobbiamo
mostrare con i fatti che è possibile crescere come uomini e donne nella libertà nella responsabilità, capaci di amare in modo oblativo, impegnati per la realizzazione della giustizia, testimoni
del senso della sofferenza e della morte.
Solo così, possiamo mostrare efficacemente «la forza dello Spirito, quella che può essere vista e
udita» (At 2,33), quella che si traduce in gesti che non sono mai posti invano (Gal 3,4). Annunciare la fede significa dunque narrare di un Dio «che dona lo Spirito e opera meraviglie» (Gal
3,4), poggiando questa narrazione «non su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1 Cor 2,4).
Cap. terzo
IL POZZO DI MEGHIDDO
Per questo capitolo ho scelto un titolo strano. Nessuna paura: mi spiego subito. La proposta ha
una pretesa nascosta: mi auguro che la lettura di queste pagine serva a consolidare un modo di
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leggere la realtà, tanto contagioso da costruire, un po’ alla volta, il club degli amici… del pozzo
di Meghiddo.
La storia di Meghiddo e la qualità della fede
Incomincio dai fatti e passo poi al significato che ho intenzione di attribuire ad essi a proposito
della fede.
Ecco, prima di tutto, i fatti.
Meghiddo è una città antichissima. Oggi è solo una collina di macerie, bruciata dal sole caldo
della terra di Israele, circondata da campi di cotone. Diecimila anni prima della nascita di Gesù
era invece una grande città, fortificata da mura potenti.
La sua posizione era strategica.
Adesso la terra di Israele è attraversata da molte altre strade e ci si muove senza eccessivi problemi. Un tempo, invece, le cose erano ben diverse. Meghiddo s
i trovava, infatti, al centro di una vallata, che rappresentava il percorso obbligato per chi dal
Nord vuole scendere al Sud e viceversa.
Capitava spesso, in quei secoli di guerre continue e feroci, che gli eserciti dell’Assiria tentassero
di invadere l’Egitto: dal Nord scendevano verso Sud. Altre volte, l’Egitto cercava di invadere
l’Assiria e così l’impresa di conquista cambiava direzione. Al centro c’era sempre la città di Meghiddo. Bisognava distruggerla per passare.
Meghiddo è stata distrutta e ricostruita tantissime volte, dal secolo decimo prima di Gesù fino
al tempo dei romani, un centinaio di anni dopo Gesù.
Poi, un poco alla volta, di Meghiddo si è perso persino il ricordo, coperte le sue rovine dalla
polvere del deserto e dalle coltivazioni di cotone.
Una cinquantina di anni fa, gli archeologi hanno deciso di riportare alla luce la città di Meghiddo. Le poche indicazioni contenute nei documenti della storia hanno permesso di arrivare facilmente alla collina che spuntava improvvisa nella valle. Per riportare alla luce l’antica città,
hanno incominciato a scavare la collina misteriosa, dall’alto verso il basso. Si sono imbattuti subito con ruderi preziosi… e con un problema inquietante. Se scavavano dagli strati più recenti
(quelli in alto) verso gli strati più antichi (quelli in basso) distruggevano tutto. Meghiddo spariva
per lasciare posto solo ad una raccolta di cocci e di pietre, pronti per un bel museo.
Hanno trovato una soluzione intelligente: scavare un pozzo, largo a sufficienza, per penetrare
dal livello più alto fino al cuore della collina di ruderi.
Scavando il pozzo, si sono imbattuti in grosse pietre dell’età crociata, poi in costruzioni romaniche, poi… giù giù fino ai Fenici, agli Assiri, agli antichi popoli del Mediterraneo, ai famosi abitanti dell’Egitto dei Faraoni.
Un po’ alla volta, mentre lo scavo del pozzo di Meghiddo proseguiva verso il cuore della collina, gli archeologi sono riusciti a ricostruire la storia della città fortificata, distrutta ad ogni guerra
e riedificata dal vincitore.
Ad un certo punto, nello scavo del pozzo, sono arrivati alla roccia su cui la città è stata fondata.
Avevano finalmente toccato il fondo della loro ricerca. Sapevano tutto di Meghiddo.
Oggi, grazie al pozzo, resta la collina con il fascino dei suoi ruderi antichissimi; ma è possibile
dare uno sguardo retrospettivo, strato dopo strato, alla storia millenaria di Meghiddo. Sappiamo
tutto di una delle città più antiche del mondo.
Questa è la storia del pozzo di Meghiddo.
Cosa c’entra con la fede e con l’impegno a vivere di fede?
La fede è vedere il visibile dalla prospettiva del mistero che si porta dentro. I turisti, che arrivano nella valle assolata d’Israele, vedono una collina. Non si scoraggiano: tanta strada per arrivare ad una collina come tante altre… Il pozzo svela i segreti di Meghiddo: strato dopo strato, la
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collina diventa una raccolta di frammenti di storia, che coinvolge migliaia di anni e eserciti in
battaglia.
Possiamo dire qualcosa sulla collina di Meghiddo, solo se percorriamo all’ingiù lo scavo del
pozzo.
Impegnati a leggere dentro
La nostra vita è come la collina di Meghiddo. Viviamo di fede quando riusciamo a scavarci un
pozzo dentro e la comprendiamo alla luce del mistero scoperto. Quello che scopriamo quando
riusciamo a penetrare gli eventi misteriosi che affiorano al livello della roccia di fondazione, diventa decisivo per conoscere e vivere la nostra quotidiana esistenza.
Propongo di pensarci un poco con la calma necessaria. La faccenda è troppo seria e impegnativa, per sbrigarla con una battuta.
Tre questioni ritornano con forza: l’impegno di scavare dentro, gli strumenti di lettura, il mistero che incontriamo quando arriviamo alla roccia su cui la nostra città è fondata.
In questo capitolo mi fermo soprattutto alla prima e alla seconda questione. La terza, che considero particolarmente impegnativa, la rimando tutta al capitolo che segue.
Torniamo alla fede
Una lettura di fede richiede la capacità di uno sguardo complessivo e globale, che corre da quello che si vede a quello che non si vede. Non possiamo sicuramente disinteressarci o, peggio, rifiutare le logiche e le esigenze della prima lettura, quella condotta con gli strumenti della scienza
e della sapienza dell'uomo. Esige, però, come momento decisivo il coraggio di contemplare il
mistero.
Senza questa immersione nel profondo, fatta di possesso nella speranza e di visione dell'invisibile, restiamo catturati dal fascino di quello che vediamo e ci ritroviamo sperduti nella trama
confusa degli avvenimenti, esposti alla tentazione di manipolarli nel nostro egoismo.
Il credente, che vuole vivere da adulto nella fede, lo sa e persegue continuamente questa esperienza. Diventa una persona capace di "leggere dentro" la vita quotidiana: diventa un "contemplativo".
La contemplazione è una dimensione irrinunciabile per la vita di fede. Nella contemplazione ci
tuffiamo nel mistero, alla ricerca di eventi che vanno oltre quello che la sapienza umana è in
grado di decifrare. Viviamo il presente dalla prospettiva dell'invisibile: "possediamo già le cose
che speriamo e conosciamo già le cose che non vediamo" (Eb 11, 1).
Quando possiamo dire a noi stessi di aver veramente incontrato l'evento di Dio nelle pieghe
della nostra vita quotidiana?
Non possiamo certamente pronunciare la parola della nostra fede con la stessa saccente sicurezza con cui intessiamo i nostri affari e srotoliamo le conquiste della nostra scienza. Ma non
vogliamo neppure illudere noi stessi e gli altri, contrabbandando come esperienza dell'invisibile
quello che invece è solo frutto dei nostri sogni e delle nostre illusioni.
I due livelli
Immagino come due livelli di lettura. Lo faccio solo per motivi funzionali: per distinguere senza
confusione e per sottolineare la necessaria unità.
In un primo livello di lettura analizziamo e comprendiamo quello che costatiamo, attraverso gli
strumenti della tecnica e della scienza. Utilizzando i contributi della sapienza, che l'uomo ha accumulato nel lungo cammino della sua storia, cogliamo anche quella trama nascosta delle cose e
degli avvenimenti, che sfugge allo sguardo superficiale e distratto. Leggiamo così il visibile in
tutte le sue logiche.
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Nel secondo livello di lettura, andiamo alla ricerca del mistero che il visibile si porta dentro.
Anche se lo sguardo è diventato penetrante, il mistero resta collocato oltre la nostra scienza e
sapienza. Non lo vediamo e non possiamo manipolarlo. Lo possiamo solo invocare e sperare.
Eppure lo possediamo già, tanto intensamente da riuscire ad utilizzarlo come chiave di interpretazione e di decisione delle vicende in cui ci sentiamo protagonisti e responsabili.
Strumenti per ogni livello
Ogni livello di lettura ha i suoi strumenti.
Il primo livello si serve di tutto quello che l'uomo è riuscito ad elaborare mettendo a frutto la
sua intelligenza e la sua fantasia.
La fede esige un uso continuo e accurato di questa strumentazione tecnica e sapienziale.
Qualche volta – un tempo e la tentazione affiora anche oggi – abbiamo risparmiato eccessivamente su questo primo livello e abbiamo combinato guai di cui non siamo mai abbastanza pentiti. Il caso di Galileo è tra i più eclatanti… ma purtroppo non è l’unico. Cadiamo nella stessa
tentazione quando costruiamo progetti o facciamo raccomandazioni che zoppicano sul piano
della competenza e, al contrario, esagerano nel richiamo alla fede.
Quali sono gli strumenti per il secondo livello di lettura?
I credenti indicano nella Parola di Dio, scritta e vissuta nella Chiesa, l'unico strumento utilizzabile per accedere al mistero.
Bisogna stare attenti: non solo è diverso lo strumento; è profondamente differente anche il
modo di utilizzazione.
La Parola di Dio è già una esperienza di fede: una lettura, credente e confessante, della realtà.
Per l'autorevolezza del suo protagonista e per una presenza specialissima dello Spirito, questa
"interpretazione" può "interpretare" in modo normativo la nostra comprensione della realtà
dalla parte del suo mistero.
Al primo livello, in cui ogni uomo è sollecitato ad utilizzare saggiamente il frutto della sua ricerca e i contributi delle differenti scienze, la Parola di Dio non ha proprio nulla di speciale da
suggerire. Anzi il credente si rende sempre più conto di quanto sia importante utilizzare queste
strumentazioni anche per decifrare correttamente quello che essa ci dice di proprio e di specifico. Si tratta cioè di leggere bene, secondo i diversi generi letterari, mettendo correttamente in
contesto il documento, interpretando esattamente quello che l'autore ci vuole dire... per poter
raccogliere, all'interno di queste parole umane, il progetto di Dio sulla nostra vita e sulla nostra
storia.
Anche questo è un modo serio di vivere di fede. Ci libera dalla tentazione, sempre in agguato,
di utilizzare la fede come un’ideologia cui ricorrere per risolvere i conflitti sociali o da quella ancora peggiore di catturare la forza inquietante del Vangelo per darci ragione.
Chi ha un po' di conoscenza critica della storia della Chiesa, ricorda i guai combinati tutte le
volte che la Bibbia è stata utilizzata come un testo di scienza e non come un documento di fede, detto con le parole e le espressioni che giravano nel tempo in cui è stato scritto.
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Cap quarto
FEDE, VITA QUOTIDIANA, SENSO
E’ facile scoprire che i fatti della nostra vita concreta hanno già una loro ragione d’essere e dipendono da tanti elementi. Alcuni sono tanto nostri da sentirci responsabili fino in fondo delle
cose che compiamo. Altri ci sfuggono quel tanto che basta da farci venire la nostalgia di diventare un po’ di più padroni della nostra vita. Altri fatti sono invece così… perché sono così…
punto e basta.
Cosa c’entra la fede con tutto questo? È un concorrente alle nostre responsabilità oppure ha
qualcosa da dire solo in quegli spazi dove restiamo con un grosso punto interrogativo stampato
in fronte? Sono così alla terza questione, introdotta nel capitolo precedente.
Fede e vita in dialogo
Nei capitoli precedenti ho cercato di far scoprire quanto sia stretto il legame tra la fede e la vita
quotidiana. La fede non si riferisce ad alcuni momenti speciali della vita né si preoccupa di organizzare gesti particolari e nemmeno mette dei segnali di divieto o di obbligo su alcune cose.
La fede riguarda tutta la vita e le mille azioni che la costruiscono. La questione seria e impegnativa riguarda il “come”: in che modo la fede interessa la mia vita quotidiana? Dove si colloca?
Di che cosa si preoccupa?
La fede è come l’amore che due persone si portano. Non si limita ai momenti felici in cui i due
innamorati sono assieme, si guardano negli occhi o se lo dicono con i gesti. L’amore, quello autentico, investe tutta la giornata, senza pause e interruzioni. I momenti d’incontro sono veri e
sinceri solo se non risultano isolati o estranei dal resto del tempo.
Le persone serie si chiedono: cosa significa tutto questo?
La domanda ha due risvolti, fortemente legati tra loro.
Prima di tutto ci chiediamo a che livello si realizza questo collegamento.
Mi spiego. Se non è chiara e condivisa la domanda, è fatica sprecata dedicare tempo alla risposta.
Lavoro con il computer. Anche questo libro è stato scritto tutto sul computer. Se voglio stampare quello che ho scritto, non è sufficiente acquistare una buona stampante. Ho bisogno anche
di un cavo di collegamento. Costa quattro soldi, pochissimo davvero rispetto ai costi del computer e delle stampanti. Senza collegare la stampante al computer, non posso stampare nulla di
nulla. Non serve a nulla arrabbiarsi. Un saggio cinese dice: prima di dare l’ordine di stampa, verifica se la stampante è accesa ed è ben collegata.
Fede e vita sono strettamente collegate. Che vuol dire? Non sono la stessa cosa. Sono collegate
solo se esiste qualche realtà che le metta in rapporto.
La fede è la “mia” fede; la vita è la “mia” vita. Il collegamento deve essere costituito da qualche
realtà strettamente personale, capace di far diventare “mio” ciò che magari è già così alla prova
dei fatti, anche se va conquistato ed espresso nel profondo della mia esistenza.
Ecco allora la prima questione: dove fede e vita entrano in collegamento?
Poi la seconda questione: cosa ci guadagna la vita dal fatto di essere in rapporto con la fede?
Per spiegare quello che mi sta a cuore comunicare, riprendo l’esempio del computer. Ormai va
di moda collegarsi con mezzo mondo attraverso “internet”. Non ho bisogno di spiegare di cosa
si tratta, perché lo sanno tutti. Per collegare il computer con il resto del mondo ci vuole un modem (o qualcosa di simile), un piccolo aggeggio che permette al telefono di colloquiare con il
computer e, di conseguenza, con tutti coloro che sono attrezzati nello stesso modo. Certo, non
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basta il collegamento fisico: computer, modem, telefono… sono pezzi di metallo, fili, diodi,
processori… Sono tutte cose “mute”. Per farle parlare tra di loro si richiede il software. Qualcuno ci va matto. Altri possono dire: a me non importa nulla di tutto questo… io preferisco i
sistemi tradizionali, carta penna francobollo…
Per convincere questo riottoso a passare alla posta elettronica, devo dargli ragioni sufficienti. Mi
chiede: cosa ci guadagno a complicarmi la vita? Se non trova risposte intelligenti, resta sulla sua
posizione.
Questa è la seconda questione: collegare fede e vita… che guadagno dà? Cosa dona la fede alla
vita?
Ho posto il problema. Provo a dare la risposta che mi sono costruito, riflettendo anche sulla
mia esperienza.
Il senso come spazio del confronto
Nella mia risposta parto dalla cosa che conta di più, su cui siamo tutti d’accordo: la vita quotidiana. Possiamo, infatti, discutere a lungo sulla fede e sul suo contenuto. E riusciamo a scoprirci diversi e confusi, pur utilizzando le stesse espressioni. Sulla vita, invece, ci troviamo
d’accordo, almeno a quel livello fondamentale in cui conta di più il sostantivo “vita” dei tanti
aggettivi che possiamo appiccicarle dietro.
Cosa è la vita? Come e dove si esprime?
Questa è la mia convinzione: la vita non è prima di tutto l’insieme delle azioni e delle esperienze
che la costruiscono; essa è prima di tutto la ricerca e l’esperienza di una ragione che dà fondamento e orientamento a queste azioni.
Posso dire la stessa cosa con altre parole: la vita quotidiana è fondamentalmente una questione
di interesse, ricerca, scoperto di senso. Senso è quella ragione e quel fondamento che interpreta
le singole azioni in cui si concretizza la vita e, generalmente, le riporta verso una specie di unità
interiore fondamentale.
Mi spiego.
La nostra giornata, la cui trama costituisce la vita, è fatta di molte azioni. Spesso le poniamo
senza porci eccessivi problemi. Ogni tanto però, di fronte a cose che ci inquietano, a esperienze
che ci riempiono di gioia inattesa, a scelte tanto impegnative da lasciarci con un punto interrogativo disegnato sul volto, ci chiediamo: perché? Perché le cose sono andate così? Chi ce lo fa
fare? Posso continuare o è più saggio tirare i remi in barca e chiudere tutto?
Riusciamo spesso a darci una risposta, maturata, sofferta, coraggiosa. Qualche volte non la troviamo neppure la risposta giusta che ci piacerebbe possedere. Però, anche in questi casi, procediamo in avanti. La risposta c’è, anche se è ancora molto nascosta tra le pieghe della nostra esistenza.
Le nostre risposte, quelle scoperte e pronunciate e quelle solo cercate e sofferte, sono una
grande avventura di senso. Dicono il “perché” della nostra esistenza.
Alcune persone hanno un “perché” grande e forte. Serve da trama di connessione di tutte le loro azioni e scelte. Vanno in crisi quando lo tradiscono. Sono felici quando lo consolidano e lo
verificano.
Altre persone non hanno raggiunto ancora un “perché” capace di fare unità nella trama della
loro esistenza. Lo cercano… e intanto si accontentano di molti “perché”. Qualche volta danno
l’impressione di averne uno per ogni stagione.
La vita quotidiana è così una specie d’intreccio di senso e di sensi. Spesso è solo ricerca; molte
volte è, per fortuna, scoperta ed esperienza.
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Un senso donato
La fede è collegata strettamente alla vita quotidiana sul livello del senso. Non si sostituisce alla
fatica di vivere né risolve tutti i problemi, come a qualcuno piacerebbe. Suggerisce un modo di
affrontare e di risolvere la questione del senso. Ci affida una specie di modello di senso, con cui
confrontare la nostra ricerca ed esperienza di senso, per dire – noi a noi stessi, prima di tutto –
il senso della nostra vita.
Sembra tutto chiaro e tutto quasi risolto, ma non è davvero così. A questo punto del cammino,
mi sono spuntati due interrogativi potenti, capaci di mettere abbastanza in crisi quello che appariva ormai consolidato e risolto.
Li dichiaro come li ho compresi.
Il primo problema riguarda la ricerca di senso in una stagione in cui sembra scarsa la voglia di
trovare senso alla vita. Abbiamo tante risposte e siamo spesso stanchi di continuare a cercare.
Che fine fa la fede, quando sprofonda la piattaforma su cui appoggia?
La seconda è più impegnativa ancora: la fede regala una bella notizia alla ricerca di senso. Qual
è questa bella notizia? Ormai siamo diventati molto critici nei confronti dei venditori di belle
notizie…
La fede in una stagione di crisi di senso
Una volta, quando anche i tipi come me erano giovani, il senso rappresentava un pacchetto che
le persone anziane ci consegnavano. La fatica personale richiesta non era eccessiva. Si trattava
di accogliere questo dono con riconoscenza, spacchettarlo con trepidazione e fare di tutto per
condividerlo.
Oggi il processo è entrato in crisi. Abbiamo scoperto che quello del senso è un affare strettamente personale. Non ci piace raccoglierlo dagli altri e non sappiamo neppure molto bene a chi
chiederlo.
Molti giovani corrono il rischio però di essere sballottati come una bandiera di fronte alle folate
di un vento impetuoso su una questione che invece è d’importanza decisiva per vivere la propria vita. L’esito lo si constata tutti i giorni. La vita sembra priva di senso o ciascuno si costruisce il suo senso, a dispetto del senso degli altri e, soprattutto, di quello che qualcuno si ostina a
cercare di regalarci.
Se le cose stanno così, ci vuol poco a scoprire che la questione della fede, la sua crisi e
l’eventuale prospettiva di soluzione, diventa, prima di tutto, un grosso problema educativo. Si
tratta di restituire ad ogni persona la capacità e la voglia di interrogarsi sul perché, unificando,
anche se in modo povero e provvisorio, i diversi piccoli perché in un perché più complessivo,
capace di unirli assieme e di restituirli, a chi se li pone, come una questione globale di vita e di
prospettiva di speranza.
E’ tutto abbastanza chiaro… ma se non abbiamo molta voglia di farci provocare da perché,
grossi o piccoli che siano? Se ci basta quello che siamo e facciamo… e ci sembra inutile inquietarci ad altri livelli?
Potrei dire: non è bello, non è serio, non sono d’accordo… Ma sono reazioni inutili, lanciate da
un altro mondo, quando il mio mi basta e ne avanza.
Ho l’impressione che questo sia il punto di constatazione di tantissime persone oggi. Nel fragore di un pluralismo assordante, molte persone decidono di non moltiplicare questioni e problemi e di accontentarsi dell’esistente.
Ho diritto di esprimere una valutazione su questo livello esistenziale. Ma è la mia valutazione.
Serve a me e per me. Me la coltivo e me la tengo e non ho strumenti che mi abilitino ad entrare
nel mondo degli altri.
In questa situazione la fede, collocata sulla piattaforma del senso, resta inutile e fuori gioco.
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Purtroppo capita spesso. Qualcuno la recupera affidandole altre funzioni. Diventa quasi un repertorio di ricette magiche, che potrebbero risolvere tutti i problemi, anche se poi, alla prova
dei fatti, restano inefficaci e di conseguenza quasi inutili.
Non mi rassegno.
Sono convinto che la scoperta dell’esperienza di fede solleciti tutti noi a diventare educatori dei
fratelli, accorti e amorevoli, per restituire a tutti la gioia e la responsabilità di farsi provocare dalla questione del perché, restituendo il diritto a riconquistare la ricerca sul senso. Non mi preoccupo, prima di tutto, della direzione che assume la ricerca sul senso. Desidero e stimo urgente,
ritrovare il diritto di collocare nella propria quotidiana esistenza la domanda sul senso. Prima
sta la voglia seria di cercare e poi la verifica sulla direzione della ricerca.
Considero questa situazione un livello pregiudiziale per vivere, in modo maturo, l’esperienza
della fede. Senza questo intervento educativo – che può anticipare o seguire l’esperienza di fede
– un’esperienza di fede rinuncia a diventare una esperienza di maturità umana e, di conseguenza, cristiana.
Mi piace chiamare tutta quest’operazione con un’espressione che può sembrare complicata…
ma basta intendersi: l’esperienza d’invocazione come esperienza unificante di ricerca di senso.
Mi devo spiegare un momento, ripetendo riflessioni che ho già sviluppato, più ampiamente, in
altri contesti.
Preciso, prima di tutto, cosa significa, nelle mie riflessioni, l’espressione “invocazione”. Se ne
parla in tanti contesti e, di conseguenza, assume significati diversi. Vanne bene tutti. Ma è importante mettersi d’accordo sul significato attribuito nel momento preciso in cui ne parliamo,
per non rischiare pericolosi equivoci.
Lo dico con l’immagine degli esercizi al trapezio, che abbiamo visto, tante volte, sulla pista dei
circhi.
In questo esercizio l’atleta si stacca dalla funicella di sicurezza e si slancia nel vuoto. A un certo
punto protende le sue braccia verso quelle sicure e robuste dell’amico che volteggia a ritmo con
lui, pronto ad afferrarlo.
Il trapezio assomiglia moltissimo alla nostra esistenza quotidiana. L’esperienza dell’invocazione
è il momento solenne dell’attesa: dopo il «salto mortale» le due braccia si alzano verso qualcuno
capace di accoglierle. Nell’esercizio al trapezio nulla avviene per caso. Tutto è risolto in
un’esperienza di rischio calcolato e programmato. Ma la sospensione tra morte e vita resta: la
vita si protende alla ricerca, carica di speranza, di un sostegno capace di far uscire dalla morte.
Questa è l’invocazione: un gesto di vita che cerca ragioni di vita, perché chi lo pone si sente nel
rischio della morte.
L’invocazione rappresenta, nella mia ipotesi antropologica, il livello più intenso di esperienza
umana, quello in cui l’uomo si protende verso l’ulteriore da sé.
L’invocazione è un’esperienza di confine. Essa è esperienza personale, legata alla gioia e alla fatica di esistere, nella libertà e nella responsabilità, alla ricerca delle buone ragioni di ogni decisione e scelta importante. Nello stesso tempo essa è già esperienza di trascendenza, stimolo
verso il mistero dell’esistenza.
Lo è ai primi livelli di maturazione. L’uomo invocante si mostra disposto a consegnare le ragioni più profonde della sua fame di vita e di felicità, persino i diritti sull’esercizio della propria libertà, a qualcuno fuori di sé, che ancora non ha incontrato tematicamente, ma che implicitamente riconosce capace di sostenere questa sua domanda, di fondare le esigenze per una qualità
autentica di vita.
Lo è soprattutto nell’espressione più matura, quando ormai la ricerca personale si perde
nell’accoglienza del mistero della vita. Ci fidiamo tanto dell’imprevedibile, da affidarci ad un
amore assoluto che ci viene dal silenzio e dal futuro.
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Il consolidamento e lo sviluppo della capacità d’invocazione sono un tipico problema educativo. Riguardano, in altre parole, la qualità della vita e l’influsso dell’ambiente culturale e sociale
in cui essa si svolge. Abbiamo bisogno di restituire all’uomo una qualità matura di vita; e lo facciamo entrando, con decisione e competenza, nel crogiolo dei molti progetti d’uomo sui quali si
sta frantumando la nostra cultura.
Sono consapevole che la vita quotidiana, nel suo ritmo normale, è carica di germi
d’invocazione. Per questo ogni domanda e ogni esperienza si porta dentro frammenti
d’invocazione. Va accolta, educata e restituita in autenticità al suo protagonista.
Il tema dell’invocazione e l’esigenza verso la sua educazione sono, nella mia visione teologica, la
condizione fondamentale per l’esperienza autentica di fede e, di conseguenza, per la sua proposta. Non discuto sui termini e sui ritmi. Rilancio il quadro antropologico e la sua esigenza.
Oggi la fede, in molte persone, è in crisi profonda o naufraga nel magismo. Qualcuno incolpa la
poca conoscenza dei suoi contenuti o la scarsa pratica delle sue manifestazioni. E cerca il recupero, impegnando energie su questi livelli.
Temo, al contrario, che la sua crisi sia radicata su una scarsa e vuota capacità di invocazione.
Offrire senso a chi non ne avverte l’urgenza, è come proporre cibi raffinati a chi è già terribilmente sazio.
La fede: una bella notizia per chi cerca senso?
Cosa ci sta a fare la fede nella piattaforma personale del senso della vita? E’ un intruso scomodo, che viene a rompere i piani personali elaborati con responsabilità o ci aiuta in questa difficile e faticosa elaborazione? In concreto, cosa ci propone di tanto interessante da… non poterne
fare a meno?
A chi vive la sua vita quotidiana come evento d’invocazione, la fede regala una bella e insperata
notizia: siamo consegnati a due braccia robuste, pronte ad afferrare le nostre mani alzate.
Pensiamoci con calma. Siamo infatti alla seconda pregiudiziale questione.
Per rispondere ci facciamo aiutare dalle pagine della nostra vita e raccontandoci (e facendoci
raccontare) esperienze di vissuto.
Non voglio di sicuro sostituirmi a questa strumentazione irrinunciabile. Desidero solo aiutarla e
sostenerla, aggiungendo qualche veloce riflessione. Funziona come tentativo di dire, in modo
concreto e verificabile, quello che ci scambiamo, raccontandoci nella lingua dell’esperienza e
dell’amore, qualcosa dei nostri vissuti.
La fede dà “vita”
Abbiamo tutti il diritto di conoscere la ragione, la prospettiva, l’esito delle nostre quotidiane avventure. Su molte abbiamo risposte certe e abbastanza sicure. Su altre – su troppe – ci sentiamo
sprofondati in una trama misteriosa di eventi, che ci sfuggono.
Non è bello e ci riempie la vita di tristezza. Ci sentiamo derubati da nostri diritti, costretti a
consegnarli nelle mani di altri. Ci consoliamo, rassegnandoci. Ma serve solo a peggiorare le cose. Il diritto al “perché”, che è proprio il diritto al senso, posseduto e governato, non è un bene
alienabile né scambiabile.
Quando ci pensiamo con un poco di calma, nell’avventura dell’invocazione, agitiamo le mani in
alto in attesa delle due braccia robuste che ci afferrino e ci restituiscano veramente alla vita.
La fede dona vita e speranza. Restituisce alla vita.
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Lo fa consegnandoci al senso, squarciando un poco almeno il velo del mistero. Ci scopriamo
signori della vita, perché possiamo procedere nella dolce compagnia di qualcosa che ci è donato. Lo fa persino di fronte alle provocazioni della disperazione e della morte stessa.
Non risolve magicamente i problemi. Ci aiuta invece a riconoscerli e a collocarli nella prospettiva autentica, sollecitandoci a quelle scelte coraggiose e spesso controcorrente che ci offrono il
senso di ciò che appare privo di senso.
La sua storia è la nostra, quella di tutti i giorni e quella inquietante di alcune situazioni speciali.
Eravamo felici, le mani piene del piccolo conquistato a fatica o trasognati in un’avventura che
sembrava consolidarsi poco a poco. E poi tutto crolla. Si troviamo soli, vuoti, disperati. Perché?
E’ inutile cercare responsabilità. Ce ne possono essere tante. Alla radice sta però la vita stessa:
siamo davanti alla morte per l’unica grande ragione che siamo vivi. Il mistero che la fede ci consegna, nelle parole vissute di tanti fratelli, ci restituisce una risposta: non spiega ma travolge.
Penso a Gesù, ormai condannato a morte dopo un processo ingiusto. Reagisce allo schiaffo del
soldato che sperava di guadagnarci in stima colpendo ingiustamente il povero Gesù, già distrutto dai primi passaggi della sua passione.
Gesù mostra di essere lui il più forte, non perché chiama a sua difesa un esercito di angeli, cosa
che poteva tranquillamente fare, ma perché riafferma di dare, lui stesso e solo lui, la sua vita per
la vita di tutti.
Diventa così signore della morte, lui, il signore della vita, perché sottrae al tiranno il diritto
all’ultima parola, pronunciandola lui, forte e decisa, come gesto d’amore.
Come lui, affascinati da grandi prospettive di senso o sconfitti nell’esperienza del vuoto, con le
mani alzate ci sentiamo afferrati e ci ritroviamo pienamente signori della nostra vita: deboli nella
nostra crisi e i più forti nella potenza di chi ci ha afferrato e restituito alla gioia di vivere e alla
libertà di sperare.
La fede ricolloca la soggettività in una prospettiva di oggettività
La fede ricostruisce nel mistero profondo dell’esistenza quotidiana il rapporto, sempre conflittuale, tra oggettività e soggettività.
Anche questo è un dono grande e prezioso: un modo di restituire alla vita e alla speranza, anche
quando sembra che non ne abbiamo proprio necessità, visto che abbiamo già sistemato tutto,
nell’avventura della nostra autonomia scatenata.
Anche a questo proposito suggerisco di pensarci un momento con calma, da persone serie. Chi
si blocca al primo impulso, ha quasi l’impressione di doversi persino arrabbiare, per invasione
di campo.
E’ importante il punto di partenza e quello di prospettiva.
Qualche volta, chi ci propone cose sicure e normative ci lascia l’impressione di mettere bastoni
tra le ruote, ci produce stizza e vorremmo rimandarlo al suo paese. Abbiamo i nostri piani,
stiamo sudando sette camice per realizzarli, e ce li cambia sul principio di autorità. Bel regalo ci
fa… ci verrebbe da gridare.
Purtroppo abbiamo sperimentato che anche tanti modelli di spiritualità cristiana sembrano costruiti su questa logica intrusiva. Cerchiamo felicità e realizzazione, nella trama complessa della
vita quotidiana… e ci si raccomanda di spostare lo sguardo dal presente per immergerlo solo
nell’eterno: qui i patimenti sono provvisori, mentre sono grandi e sicuri quelli della vita eterna.
Ma a te, a me, a tanti di noi… piace sperimentare, toccare con mano… non siamo disposti ad
aspettare troppo, con il rischio, magari, di aspettare a vuoto.
Sono convinto che questo modo di fare non è il Vangelo, la bella notizia che la fede ci regala.
E’ solo una sua riedizione intristita e funzionale, una spiritualità troppo povera per essere dav18
vero bella notizia per la vita quotidiana. Dobbiamo rileggere il Vangelo, meditare e pregare per
riscoprirlo.
La fede ci congegna il diritto alla felicità, mostrandoci i progetti di Dio sulla nostra vita. Ci rivela da che parte sta il Dio di Gesù.
Un’altra riflessione va aggiunta subito. Non corregge quest’affermazione ma la consegna alla
ricchezza misteriosa della sua autenticità.
Il confronto con il Vangelo ci consegna un “senso donato” di felicità e di amore alla vita… che
sostiene e giudica il nostro senso conquistato.
Sul senso della vita e sull’esperienza condizionata della felicità la pensiamo in modalità differenti. Ciascuno ha una sua prospettiva a si affanna continuamente a coinvolgere altri… per convinzione o per contaminazione.
Su una faccenda tanto seria, com’è il senso della vita e la felicità, non possiamo di sicuro vivere
chiudendoci a riccio nelle nostre sicurezze o barcollando nel vuoto: le mani alzate hanno il diritto di incrociare le due braccia robuste pronte ad afferrare e a restituire alla voglia di vivere.
La fede, come racconto dell’esperienza di Gesù e di tanti suoi discepoli, ci fa questo dono. Vuole la nostra vita, la vuole piena e abbondante, come le ceste piene di avanzi dopo che tutti si sono tolti la fame, e ci dichiara, a fatti e a parole, questa è la vita e questa è la strada della felicità.
Dona una prospettiva sicura con cui confrontarci, per consolidare quello che ci sta a cuore.
Siamo viandanti, bloccati davanti a incroci dalle mille prospettive aperte, e ci orienta sulla via
sicura, unica di ci porta alla meta che con ansia cerchiamo.
Ci fa questo dono: per noi e per poterlo condividere con tutti.
La provocazione più violenta e inquietante alla voglia di felicità è il confronto con il dolore e la
morte.
Hanno senso? Possiamo restarne signori o dobbiamo rassegnarci alla sconfitta?
Pensa a quante risposte incontriamo a questa domanda terribile.
Ancora una volta Gesù ci fa una proposta decisa e coraggiosa. Pretende che sia l’unica per la vita piena e abbondante. E i fatti gli danno ragione.
Possiamo accogliere il suo dono di senso solo se ci abilitiamo a fidarci di lui e cerchiamo nei
vissuti suoi e dei suoi discepoli la prova di chi aveva ragione.
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Seconda parte:
VIVERE DI FEDE NEL QUOTIDIANO
Cap. quinto
TORNARE A GERUSALEMME
L’esperienza di fede è un evento che ci fa tornare a Gerusalemme per riempirla del fuoco dello
Spirito.
Noi a Gerusalemme ci abitiamo di casa. Gerusalemme è la nostra città, il paese in cui siamo nati, quello in cui ci siamo trasferiti con la nostra famiglia da piccoli. Non sorridere… lo so che
sulla carta geografica e nella tua carta d’identità i nomi sono diversi: Bologna, Roma, Napoli,
Besana, Venaria, Corigliano Calabro…
Gerusalemme è una specie di nome comune, che poi si specifica con i nomi propri dei nostri
paesi. Gerusalemme è la città di tutti, dove abitano, vivono, gioiscono e soffrono tutte le persone. Per questo, ritornare a Gerusalemme significa immergersi di nuovo nella vita quotidiana di
tutti, dopo un’esperienza che ha segnato profondamente la nostra esistenza.
Gerusalemme è quindi, in queste pagine, un modo di dire, una specie di simbolo, per ricordare
la nostra vita quotidiana concreta. Lo utilizzo… perché ha un grande profumo di Vangelo e
possiamo applicare sempre a noi stessi l’invito di Gesù ai suoi discepoli.
In questa seconda parte del mio libretto desidero affrontare due questioni, molto collegate.
Giustifico l’impegno di tornare a Gerusalemme e passo poi dal simbolo all’indicazione di stile e
qualità di vita per scoprire assieme alcune responsabilità che riguardano proprio la vita di fede
nella vita quotidiana.
Incomincio dalla prima questione: è proprio tanto necessario… tornare a Gerusalemme?
Il Vangelo riporta due importanti inviti di Gesù a tornare, con sollecitudine e responsabilità, a
Gerusalemme. In tutti i due casi, i discepoli l’hanno fatto, superando nostalgie e resistenze. E
Gerusalemme si è accorta di questa presenza che ha sconvolto il ritmo normale dell’osservanza
tranquilla. Si è messo poi di mezzo lo Spirito di Gesù, nella Pentecoste… e così è cambiato tutto, noi compresi, invitati a tornare quotidianamente alla nostra Gerusalemme.
Un primo ritorno
Era già capitato altre volte ai discepoli. I Vangeli ne raccontano parecchie di storie simili. La più
famosa è quella della trasfigurazione.
Gesù, un giorno, stanco di discutere con i suoi discepoli di questioni grosse, chiama Pietro e altri due dei più influenti. Se li tira dietro controvoglia. “Dove andiamo?”. “Fidatevi… venite con
me".
In silenzio, a passi lunghi, si mettono a risalire il pendio del monte. Con il fiato grosso arrivano
finalmente sulla cima. Gesù li invita ad una sosta di riposo e si allontana di qualche passo.
All’improvviso, un lampo abbagliante squarcia la forte luminosità di una giornata di sole. Pietro
e gli amici si voltano. Vedono Gesù in un turbine di luce accecante. Le sue vesti sono diventate
bianchissime. Con lui, sbucati dal mistero, intravedono i profeti Mosè ed Elia. Stanno conversando con Gesù. Non c’è dubbio: quello è proprio Gesù, anche se il suo volto, il suo atteggia-
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mento, lo splendore di cui è circondato… questo è nuovissimo. Una cosa del genere i discepoli
non l’avevano mai vista.
Pietro rompe il silenzio: “Gesù, stiamo sognando? Quello che gustiamo è un anticipo di quel
posto di cui ci hai parlato tante volte. Questa è la tua casa. L’hai abbandonata per piantare le tue
tende in mezzo a noi… Fermiamoci qui. E’ troppo bello quello che ci hai fatto sperimentare.
Fermiamoci. Io costruisco tre tende: una per te, una per Mosé e una per Elia. Di noi… non ti
preoccupare. E’ sufficiente la gioia che sperimentiamo stando qui con te. Ci basta contemplarti.
Gesù, restiamo qui per sempre…”. Le parole gli uscivano di bocca come un fiume in piena.
Questa volta era sincero fino in fondo.
Una mano lo tocca sulla spalla. “Pietro, scendiamo. Non possiamo restare sul monte: la causa
che il Padre mi ha affidato mi incalza. Devo correre. Non posso fermarmi. Troppe persone sono ancora avvolte nell’ombra della morte. Presto, scendiamo”.
Per comprendere bene questo famoso episodio e per viverlo personalmente, come un pugno di
lievito che una donna mette in due misure di farina e la trasforma tutta, dobbiamo ripensare un
momento alle premesse.
La crisi tra i discepoli e Gesù era scoppiata quando Gesù ha incominciato a parlare ad essi, in
modo concreto e circonstanziato della sua prossima morte.
Li ha messi in crisi.
Si aspettavano uno che rimettesse tutto a posto con la potenza sognata per i grandi profeti e invece Gesù rilancia la causa e modifica lo strumento: la morte, accolta per amore, restituisce vita
a tutti. E’ facile andare in crisi quando il rapporto tra esito e strumento è proprio incomprensibile.
Gesù non cambia parere. Non rimette le cose nella logica che sembrava quella normale ed evidente. Rilancia la sua morte come principio di vittoria. E poi – quasi a piccola consolazione – fa
toccare agli apostoli un pezzo di futuro per aiutarli ad interpretare il presente. Dice con i fatti
chi è lui: il vincitore totale proprio mentre i suoi nemici cantavano vittoria.
Chi sperimenta il futuro, ci sta felice… quando è bello, ci conforta, ci dà persino ragione.
L’esperienza di fede non si gode, chiusi nel futuro che ci dà consolazione e ragione.
Viene sperimentata nella trama complicata e indecifrabile del presente.
Per questo Gesù, dalla gioia del futuro rilancia i suoi discepoli nella trama complicata del presente. Gerusalemme è il nostro quotidiano, la nostra casa. Lì viviamo in concreto la nostra confessione di fede e mostriamo fattivamente cosa è capitato nella nostra vita, quando abbiamo
sperimentato un frammento di futuro.
Questo è il primo solenne invito: scendere in fretta dal monte, con il cuore pieno della bella
esperienza fatta e con la passione di realizzare l’impresa sognata, tornare a Gerusalemme per
portare a spiga matura in piccolo seme che muore sotto terra.
Il ritorno che cambia la vita
Il Vangelo propone un altro ritorno, molto più impegnativo e dagli esiti molto più coinvolgenti.
Penso e ripropongo l’esperienza famosa dei due discepoli di Emmaus, secondo il racconto di
Luca.
Contemplandola, scopriamo cosa significa per noi vivere di fede.
Dopo il Tabor e i commenti che ne sono seguiti, qualcosa è rimasto nell’esperienza dei discepoli. La nostalgia per l’esperienza felice della trasfigurazione si affacciava, pesante e inquietante,
dopo tutte le esperienze di crisi.
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I due discepoli di Emmaus avevano sperato tanto in Gesù. Avevano accettato il suo invito con
entusiasmo. Avevano lasciato tutto per seguirlo, affascinati dalla sua persona e convinti della
sua causa.
Ora però tutto sembrava finito. Nel peggiore dei modi.
I suoi nemici avevano catturato Gesù. L'avevano sottoposto ad un processo che era tutto una
presa in giro. L'avevano condannato, come fosse un malfattore, lui che aveva solo fatto del bene a tutti quelli che aveva incontrato. Poi, dopo averlo torturato, l'avevano ucciso. Tutto era finito così. Gesù aveva promesso di vincere anche la morte. L'aveva fatto con quella degli altri.
Con la sua però... nulla da fare. Gesù era stato cancellato dagli occhi e dal cuore dei suoi amici.
Avevano vinto i suoi nemici. Tutto doveva ritornare come prima.
Pazienza... era stato un bel sogno, finito troppo presto e nel modo più tragico.
Adesso non c'era proprio più nulla da fare. Bisognava tornarsene a casa, con l'amarezza della
nostalgia e con un pizzico di vergogna. Era necessario riprendere in mano gli attrezzi del lavoro, abbandonati con troppa foga qualche mese prima.
Ritornare... quelli di prima: come se nulla fosse accaduto, superando persino il sorriso beffardo
degli amici di un tempo, che non avevano capito la strana voglia di mettersi dietro quel tipo di
Nazareth, che stava facendosi un mucchio di nemici con le sue idee.
Molti discepoli avevano già preso la strada del ritorno. Adesso toccava anche a loro. Buoni
buoni, avevano deciso di ritornare ad Emmaus, a casa propria. Come se nulla fosse successo.
Camminavano senza scambiarsi una parola. Non ne avevano più: le ultime si erano spente in
gola con il saluto triste agli amici che restavano a Gerusalemme.
All'improvviso, si avvicina un viandante, spuntato quasi dal nulla. Veniva come loro dalla direzione di Gerusalemme. Ma non l'avevano notato prima.
"Buongiorno". "Salve". "Dove andate?". "Veniamo da Gerusalemme e torniamo a casa nostra
ad Emmaus. Manca ormai poco, per fortuna".
Insiste il pellegrino: "Posso unirmi a voi? Io vado oltre. La strada è lunga e, di questi tempi, anche un po' pericolosa. Possiamo farci compagnia?".
"Accidenti... che facce tristi avete. Non l'avevo notato prima. Mi sembrate appena spuntati da
un funerale. Mi sbaglio?".
La risposta è pronta. Le parole corrono come uno scroscio di pianto. "Veniamo davvero da un
funerale. Ne parla tutta Gerusalemme. Come fai a non saperlo? Hanno ucciso Gesù di Nazareth. Era nostro amico e nostro maestro. Noi stavamo con lui, condividevamo la sua passione
per la liberazione d'Israele e la sua speranza nel futuro di Dio. L'hanno ucciso, inchiodato sulla
croce, dopo un processo che sembrava studiato apposta per condannarlo".
Una pausa per prendere fiato e per riandare agli ultimi bagliori di quella speranza che aveva loro
infiammato il cuore.
"Aveva fatto solo del bene: guariva gli ammalati, trattava bene i poveri, aveva una parola buona
anche per i peccatori. Ha resuscitato persino dei morti. Hai sentito parlare di sicuro di Lazzaro,
quello di Betania. Gesù l'ha riportato in vita, tre giorni dopo che era morto. Purtroppo parlava
con eccessiva libertà di Dio e della legge. Voleva troppo bene alla povera gente.
L'hanno ucciso. Chi? Lo sai di sicuro... i romani, ma con la complicità dei nostri sacerdoti e dei
dottori della legge...
Prima di morire, aveva promesso che sarebbe ritornato in vita, anche lui, come il suo amico
Lazzaro. Ma ormai sono passati tre giorni... e non è capitato proprio nulla".
Il secondo incalza: "Proprio nulla... non è vero. Sai, nel nostro giro c'erano anche delle donne.
Stavano con noi per servire Gesù. Un paio di loro dice di aver visto Gesù risorto. Nessuno ci
crede. Sono donne fanatiche... Se lo sono immaginato, accecate dal dolore e dall'amore.
I capi, Pietro e i dodici, non hanno visto nulla.
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Tutto è finito. Torniamo anche noi a casa".
"Calma. Non correte troppo nelle conclusioni", riprende la parola lo strano compagno di viaggio. "State facendo una lettura scorretta degli avvenimenti. Vi fermate a quello che avete visto
con gli occhi. Mi spiace per voi: siete un po' ciechi. Non sapete leggere dentro gli avvenimenti".
"Aiutaci tu... se ci riesci". "Volentieri. Ascoltate".
Un passo dopo l'altro si avvicinano a casa. Un passo dopo l'altro, il compagno di strada aiuta a
rileggere gli avvenimenti dal mistero che si portano dentro. Cita brani della Scrittura. Ricorda
profezie antiche e nuove. Rende attuali lontani ricordi.
Neppure nei tempi in cui stavano con Gesù, avevano vissuto un'esperienza simile. Allora erano
tutti proiettati verso il futuro. Si erano quasi dimenticati del passato. Il presente e i progetti su
esso erano troppo importanti per pensare ancora al passato.
Adesso, invece, dal presente vanno verso il passato. Lo ricomprendono, immergendolo nel mistero di Dio. Le cose meravigliose che Dio ha compiuto per il suo popolo, diventano una specie di nuova lettura del presente. Anche il buio, l'incertezza e il dolore cambiano tono. Brillano
di qualcosa che non avevano mai scoperto.
Si guardano negli occhi. "Strano... ma allora non hanno ucciso la nostra speranza. Ce l'avevano
spenta. Avevano tentato di spegnerla ed eravamo caduti nella trappola. Senza passato il nostro
presente diventava disperato. Tornavamo a casa perché eravamo senza futuro. Invece... c'è speranza. Aveva ragione Gesù quando ci parlava del chicco di grano che deve morire per diventare
spiga".
"L'hanno ucciso... ma non hanno vinto. Dio vince la morte. Era tutto programmato nei piani
misteriosi di Dio".
Spontaneamente sulle labbra affiorano le parole dei Salmi. Hanno un sapore nuovo. Non se
n'erano mai accorti prima.
"E se tornassimo a Gerusalemme?". "Domani. Oggi è tardi. Non possiamo rifare il cammino di
notte. E' troppo pericoloso. Domani".
Poi, ormai, ecco le prime case d Emmaus. Sono arrivati a destinazione: domani mattina, alle
prime luci, si torna a Gerusalemme.
Il compagno di viaggio fa finta di salutarli per rimettersi in cammino. "Prosegui? A quest'ora?".
Insistono: "Fermati con noi. Nella nostra casa, un posto per te lo troviamo senza problemi.
Dai... fermati".
Erano rassegnati a tornare alla vita di prima. Avevano tirato i remi in barca, scoraggiati e delusi.
Ma l'esperienza di Gesù li aveva segnati dentro. Respiravano l'esigenza dell'ospitalità, quella vera. Le loro parole non erano di circostanza. Venivano dal cuore. "Sta' con noi. Sei ospite nostro".
Il viandante misterioso si ferma. Qualche resistenza, forse per saggiare l'autenticità dell'invito.
Poi si ferma. Accetta l'atto di ospitalità.
Si mettono a tavola.
Ad un certo punto... si aprono gli occhi.
Gesù ha fatto strada con loro. Ha pregato lungo la via con loro, aiutandoli a rileggere gli avvenimenti dal mistero che essi si portavano dentro. Li ha aiutati a pregare contemplando.
Ora la preghiera esplode nella celebrazione. Gesù prende il pane e la coppa del vino. Li benedice e li condivide.
Un grido: "E' lui, il crocefisso è risorto. Possibile che non ce ne siamo accorti prima? Eravamo
proprio ciechi, di dolore e di rassegnazione".
Non c'è più. E' tornato nel silenzio da cui è venuto.
Le poche ore trascorse con loro, hanno lasciato il segno. Li ha guidati per mano in un'intensa
esperienza di preghiera, che li ha cambiati profondamente.
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La speranza e la passione ritornano prepotenti nei loro cuori intorpiditi. La preghiera e la celebrazione si spalancano verso la vita.
Adesso non è più tardi per tornare a Gerusalemme. Non ci sono più i pericoli del viaggio notturno. Partono, di corsa: l'esperienza vissuta va comunicata agli altri.
Ritornano a Gerusalemme, per gridare a tutti: Gesù è risorto, la sua avventura per la vita e la
speranza di tutti... continua. Anzi: ricomincia.
Un invito preciso e impegnativo
Il ritornello è sempre lo stesso: tornare alla vita di tutti i giorni, dopo la bella esperienza.
Pensando al modo di leggere il Vangelo con questa preoccupazione, ti voglio sottolineare due
cose.
La prima è questa: il Vangelo va letto “con i piedi a Gerusalemme”. Lo devo dire in modo concreto. Sono convinto che sia importante leggere il Vangelo, lasciandoci provocare dai problemi
che la vita quotidiana ci lancia. Per questo, non mi piacciono molto quelli che per leggere il
Vangelo chiudono porte e finestre sulla vita e cercano uno spazio isolato, protetto dai rumori
dell’esistenza, tutto tranquillo e ovattato. Ho l’impressione che, facendo così, tolgano al Vangelo la sua forza di provocazione e di speranza. Se invece leggiamo il Vangelo dentro la vita, esso
risuona molto meglio come una “bella notizia”: ci aiuta ad intravedere indicazioni e suggerimenti per vivere la nostra vita in uno stile nuovo.
La seconda cosa scaturisce proprio da quest’ultima annotazione. Ci sono dei libri da leggere con
la testa, per capirli e per saperli ripetere. E ce ne sono degli altri, invece, che vanno letti con il
cuore e con le mani… Non basta capirli, ma vanno tradotti subito in gesti e interventi nuovi. Il
Vangelo è uno di questi, il più impegnativo di tutti. La lettura del Vangelo fa scaturire una qualità nuova e originale di vita.
Chi ha letto il Vangelo, infatti, torna, come i due amici di Emmaus, a Gerusalemme per realizzare quello che ha incontrato e scoperto.
In che direzione? Te lo lascio immaginare. Prova a meditare con calma il Vangelo, soprattutto
nel silenzio della preghiera. Vedrai verso quali esigenze, impegnative ed affascinanti, la tua vita
sarà trasformata. Tutti si accorgeranno che un’avventura nuova l’ha accesa, come la scoperta di
un amore grande.
Per aiutarti, faccio una proposta nei capitoletti che seguono. L’ho ricostruita facendomi aiutare
da tanti discepoli di Gesù in una rilettura appassionata del Vangelo. Mi sembra la condizione
irrinunciabile per vivere di fede nella vita quotidiana.
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Cap. sesto
COSTRUIRE QUALITÀ DI VITA
Chi vive con i piedi e il cuore ben piantati a Gerusalemme, cosa ci sta a fare?
I Vangeli documentano un fatto bellissimo: Gesù ha consegnato ad alcune persone la causa che
ha riempito e appassionato la sua vita. Dichiara che queste persone sono veramente “i suoi
amici” perché ad essi ha affidato quello che gli stava maggiormente a cuore (Gv. 15, 15).
Ci mettiamo allora alla scuola di Gesù per rispondere all’interrogativo: cosa ci stiamo a fare?
La risposta viene dal confronto con il compito che Gesù ci ha affidato, la sua causa.
Qual è la causa di Gesù? Come ha influenzato la sua vita?
La causa di Gesù è chiarissima, ha appassionato tutta la sua esistenza e l’ha trascinato fino alla
morte sulla croce: far nascere vita dove c’è morte, nel nome e per la gloria di Dio. Come lui
stesso ha dichiarato, ha fatto della causa della vita, «piena e abbondante» per tutti (Gv. 10, 10),
la «perla preziosa» per acquistare la quale bisogna essere disposti a vendere tutto il resto (Mt. 13,
45-46).
Cosa è “Regno di Dio”
Per dire tutto questo i Vangeli usano una formula precisa: il Regno di Dio. Di Gesù ricordano
soprattutto la sua passione per il Regno di Dio. Dichiarano che Gesù è l’uomo del “Regno di
Dio”.
I cristiani hanno continuato a parlare di «regno di Dio» per dare un contenuto preciso alla causa
di Gesù. Nel lungo cammino della Chiesa questa specie di formula sintetica si è arricchita della
sensibilità culturale e sociale che si è progressivamente sviluppata nella coscienza ecclesiale.
Noi ci siamo per costruire, con Gesù e come lui, il “regno di Dio”. Questo è il progetto globale
di esistenza che tutta l’afferra. Certo, bisogna intendersi sul senso da dare a questa formula… se
c’è di mezzo la vita tutta non possiamo correre il rischio di sbagliare direzione.
Oggi dicendo «regno di Dio» pensiamo, in modo profondo e condiviso, al mistero di Dio e
dell'uomo.
Regno di Dio è riconoscimento della sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a
confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui proclamiamo la signoria assoluta, è tutto per l'uomo. Egli vuole un futuro significativo per l'uomo.
Fa della vita e della felicità dell'uomo la ragione e l'espressione della sua «gloria».
L'uomo lo riconosce Signore quando si impegna a promuovere la vita e la speranza.
Consapevole che i suoi problemi sono il problema di Dio stesso, il credente consegna a lui la
sua fame di vita e di speranza.
Il Dio di Gesù è un Dio di cui ci si può fidare. Lo attestano le cose meravigliose compiute per il
suo popolo e soprattutto quelle operate in Gesù.
Dove appare lui, l'Uomo del Regno, scompare l'angoscia, la paura di vivere e di morire; ritorna
la libertà e la gioia di vivere, nel nome di Dio.
L'ultima convincente parola sul Regno di Dio Gesù l'ha pronunciata sulla croce, quando ha affidato a Dio la sua esistenza.
Consegnato alla morte, perché tutti abbiano la vita, Gesù ha ritrovato la vita e la speranza per
noi. Il Risorto è il segno definitivo che il nostro Dio è tutto per la vita e la felicità dell'uomo.
La causa di Gesù è dunque la vita piena e abbondante dell'uomo nel nome di Dio: un uomo
aiutato e sollecitato a camminare a testa dritta, capace di vivere con gioia nella città di tutti, che
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si affida a Dio nella speranza, perché solo in Dio possiamo non avere più nessuna paura della
morte.
Il compito che il Padre gli ha affidato, Gesù lo consegna ai suoi discepoli. Gesù dice ai suoi
amici: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv. 20, 21). Anello dopo anello,
viene costruita una grande catena di persone, impegnate per la salvezza del mondo. I discepoli
chiamano altri e li mandano. E così la catena dei chiamati si allunga: i nuovi discepoli chiamano
altri con la stessa passione con cui hanno pronunciato il loro sì all'invito, e li mandano. Il compito che ci è affidato è lo stesso che ha appassionato l'esistenza di Gesù: la causa della vita.
La causa della vita è affidata a noi
Torniamo a Gerusalemme per costruire e consolidare il regno di Dio e cioè la vita, piena e abbondante, per tutti secondo il progetto di Dio manifestato in Gesù.
Questo è l’orientamento fondamentale e la decisione radicale.
Il compito è serio e impegnativo.
Non basta passare dalle parole ai fatti, mettendoci coraggiosamente al lavoro. Dobbiamo scoprire ed accogliere le caratteristiche che deve possedere la vita secondo il progetto di Gesù. Per
questo, il regno di Dio va realizzato in modo autentico, definendo bene il contenuto di questo
progetto e lo stile con cui siamo sollecitati a realizzarlo.
E qui le cose si complicano. In una stagione di pluralismo come è la nostra, le prospettive sono
molte e differenti.
Troppi pretendono di rispettare l’ispirazione evangelica e poi, al contrario, scivolano in posizioni poco evangeliche, che riproducono soprattutto modelli e logiche dominanti.
Non è sufficiente chiudere porte e finestre per pensare meglio. Ci vuole invece un coraggioso
confronto culturale e tanta profezia evangelica.
I vissuti quotidiani lanciano gli interrogativi e suggeriscono le risposte. Il Vangelo e la vita dei
discepoli di Gesù danno i criteri di valutazione e riorganizzazione.
Per scoprire quale stile di esistenza siamo chiamati a servire, per costruire il regno di Dio nel
nostro oggi, mettiamo perciò a confronto i vissuti di chi ha servito la causa della vita prima di
noi, le esigenze e le esperienze attuali, la prospettiva del Vangelo e la prassi di Gesù, per immaginare uno stile di esistenza concreta, traboccante della profezia del Vangelo. Lo facciamo nel
grembo materno della comunità ecclesiale che incoraggia e orienta la nostra ricerca, per la presenza speciale dello Spirito che Gesù ha assicurato ai suoi discepoli. Nella comunione ecclesiale
siamo felici di vivere con la guida dei fratelli che ha scelto per assicurare, nell’unità, il cammino
verso la verità.
Ci ho provato su alcuni temi che mi sono sembrati oggi particolarmente urgenti e suggerisco,
timidamente, qualche indicazione… con l’unica pretesa di sollecitare tutti a pensare e a realizzare.
Spero che queste pagine ci mettano seriamente in crisi: ci sono entrato io scrivendole… me lo
auguro anche per chi le medita. Non fanno l’elenco di cose da fare o da evitare ma tracciano, a
colori, caldi e appassionati, il ritratto ideale del discepolo di Gesù che vive di fede.
Un’esistenza in esodo verso l’alterità
La prima e più inquietante questione è quella dell’identità. Su questa frontiera si gioca la maturazione umana e cristiana delle persone.
Attorno al nodo dell’identità girano alcune questioni fondamentali: chi sono io? Cosa mi qualifica e mi definisce? Su quali valori imposto la mia esistenza?
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Identità significa, infatti, un sistema integrato di connessioni, come un complesso elaboratore
d’informazioni in cui l’ambiente esterno, gli altri, la società, le norme, i valori sono codificati e
organizzati in un sistema operazionale interno.
L’identità è così la mediazione dinamica che lega la persona al mondo. Essa è tutta dalla parte
del soggetto, lo delimita rispetto agli altri e lo qualifica, permettendogli di riconoscersi e di essere riconosciuto. Nello stesso tempo è continuamente provocata a riformularsi sotto gli stimoli
che provengono dal suo rapporto con l’ambiente esterno.
L’ispirazione evangelica orienta verso una ricomprensione dell’identità personale sulla capacità
di decentrarci verso l’altro che ha bisogno di noi e ci chiama, con un grido spesso soffocato e
molto disturbato. Costruiamo la nostra esistenza solo se accettiamo di «uscire» da noi stessi, decentrandoci verso l’altro. L’esistenza nella concezione evangelica, è quindi un esodo verso
l’alterità, riconosciuta come normativa per la propria vita. Una vita decentrata nell’impegno è
l’esplosione di tutta la nostra vita quotidiana, perché esistiamo per amore e siamo impegnati a
costruire vita attraverso gesti d’amore.
Capacità di interiorità
Un altro atteggiamento importante, per una qualità di vita vivibile in una stagione di complessità e di pluralismo, è costituito dalla capacità di interiorità.
Siamo tutti alla ricerca di orientamenti e valori su cui giocare la nostra vita. Alla convinzione fa
riscontro la difficoltà di dove trovare questi valori… e di come attivare il confronto con quelli
che quotidianamente incontriamo.
I valori non li recuperiamo da un deposito, terso e protetto, e neppure li ereditiamo dalla nascita. Essi sono diffusi nel mondo quotidiano, con tutte le tensioni e le difficoltà di cui esso è segnato. Li assumiamo per confronto e per educazione. Sono più oggetto di esperienza che frutto
di studio e di conoscenza.
È difficile e poco praticabile immaginare un controllo selettivo sui valori attorno cui costruire la
propria identità. La situazione di complessità minaccia proprio questa possibilità. In un ambiente come è questo, diventa condizione irrinunciabile di maturazione la capacità di comprendersi
e di progettarsi dal silenzio della propria interiorità. In questo spazio di esigente e indiscutibile
soggettività la persona valuta e interpreta tutto, prende le proprie decisioni, soffre la faticosa
coerenza con le scelte.
Interiorità, infatti, dice spazio intimissimo e personale, dove tutte le voci possono risuonare, ma
dove ciascuno si trova a dover decidere, solo e povero, privo di tutte le sicurezze che danno
conforto nella sofferenza che ogni decisione esige. Il confronto e il dialogo serrato con tutti sono ricercati, come dono prezioso che proviene dalla diversità. La decisione e la ricostruzione di
personalità nascono però in uno spazio di solitudine interiore, che permette, verifica e rende
concreta la «coerenza» con le scelte unificanti la propria esistenza.
Oltre quello che si vede
Un altro atteggiamento da ricostruire nella trama della vita quotidiana per assicurare una sua
matura qualità, è costituito dalla capacità di cogliere la realtà dalla parte del mistero che essa si
porta dentro. Il titolo del paragrafo ricorda in modo concreto l’esigenza: comprendere la realtà
andando oltre quello che si vede.
Ho ricordato che per i discepoli di Gesù vivere di fede significa possedere la realtà dal mistero
che si porta dentro, leggere e comprendere quello che quotidianamente si constata non solo a
partire da quello che posso vedere con gli occhi quotidiani e toccare con le mie mani, ma da
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quel profondo e misterioso che restituisce la realtà alla sua autenticità. Ricordo un paragone fatto per comprendere meglio in che cosa consiste la fede: scavare pozzi di Meghiddo, e cioè abilitarci a cogliere dentro la realtà quello che gli occhi non vedono e le mani non possono toccare
ma rappresenta decisamente la sua dimensione più vera e più autentica.
Questa operazione è oggi molto difficile.
Siamo abituati a considerare vero e reale solo quello che possiamo manipolare. La nostra cultura parla attraverso le immagini. Per questo siamo diventati presuntuosi e saccenti. Per ogni cosa
abbiamo una spiegazione e di ogni avvenimento conosciamo responsabilità, positive o negative.
Se qualche male ci sovrasta, ne possediamo il rimedio o, almeno, è solo questione di giorni: presto o tardi, troveremo il nome giusto per identificarlo e gli strumenti adeguati per risolverlo.
Con questo atteggiamento di fronte all'esistente, diventa veramente impossibile vivere di fede.
Il gioco tra ciò che si vede e ciò che non si vede non va inteso come la differenza tra un amico
che sta fisicamente vicino ed un altro, egualmente simpatico, che non è in questo momento vicino fisicamente.
In un avvenimento e in una persona, possiamo vedere ciò che, in qualche modo, può essere
toccato con mano. Riconosciamo però che non finisce tutto lì. In una persona amata c’è un mistero, grande e profondo, che tutta l’avvolge. Questa realtà invisibile e misteriosa è tanto decisiva da avvertire la persona stessa in un modo specialissimo. Quello che non si vede diventa la
categoria attraverso cui impostiamo il nostro giudizio e il nostro rapporto con quello che si vede.
Ciò che mi preoccupa soprattutto non è soltanto la constatazione che da un atteggiamento come questo diventa impossibile la fede, ma la constatazione più drammatica che con questo stile
di esistenza, ne scalpita profondamente la qualità della nostra vita. Viviamo catturati da quello
che possiamo manipolare. Ci sfugge totalmente la verità della nostra vita, delle persone, degli
avvenimenti, delle cose… ci sfugge, in una parola la possibilità di vivere nella verità, perché
siamo catturati soltanto da ciò che appare.
Per vivere di fede siamo sollecitati a vivere dal mistero che riempie la realtà. Vivere dal mistero
significa vivere nell’autenticità. La fede non solo esige una capacità di vedere oltre quello che si
vede, ma ci restituisce, proprio per questo alla verità di noi stessi e alla autenticità del nostro
rapporto quotidiano con tutti.
Ridefinire l'identità dalla capacità di decentrarci verso l'altro che ha bisogno di noi o di affidarci
a chi attraversa la nostra esistenza, questa qualità irrinunciabile di vita, richiede la necessità di
abilitarci a riconoscere la realtà dal mistero che si porta dentro, sollecita ad abilitarci a quella
conoscenza di fatti, avvenimenti, persone che proviene dall'incontro personale con il mistero
che ciascuno è e che si porta dentro.
Una solidarietà che diventa responsabilità
Un altro atteggiamento importante per la qualità della vita è la solidarietà che diventa responsabilità.
Quello della solidarietà è un atteggiamento da comprendere bene. Esso rappresenta un punto di
scontro tra la logica del Vangelo e quella dominante. Spesso è stato compreso in modo riduttivo anche dai cristiani. Basta pensare ai modelli che proponevano la solidarietà come privazione
volontaria e ingiustificata delle cose per motivi religiosi o, peggio, come consegna del superfluo
a chi era privo del necessario.
Al contrario, la solidarietà da recuperare e da realizzare, inventando modalità ed espressioni, è
quella che Gesù ha vissuto, come ci propone il Vangelo. In lui la povertà non è fine a se stessa,
ma rivelazione di amore: condivisione che si esprime nel dono.
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Delle cose abbiamo il diritto di essere signori. Ci sono state affidate dall'amore di Dio creatore.
Il problema grave è un altro: cosa significa possedere?
I modelli culturali dominanti ci suggeriscono una figura di possesso che è legata all'avere, al tener stretto, al difendere con i denti. Più cose abbiamo e più riusciamo a stringerle forte, strappandole magari ai più deboli, e più siamo vivi.
Secondo la logica evangelica, perdere per condividere è invece la condizione per assicurare più
intensamente il possesso. Distacco vuol dire perciò consapevolezza crescente di una solidarietà
che diventa responsabilità.
Le cose sono per la vita di tutti. Quello che possediamo, ci appartiene. Ma tutti hanno il diritto
di chiederci conto del suo uso. Solo in una condivisione che permette a tutti il diritto al possesso, possiamo davvero esprimere la nostra signoria sulle cose.
Per questo, la solidarietà nasce e si manifesta nella responsabilità: è risposta ad un diritto di tutti
sulle cose di ciascuno.
La solidarietà non riguarda solo le cose. Investe anche la relazione con le persone. Anche nei
confronti delle persone siamo sollecitati a progettare un distacco progressivo che diventa condivisione della gioia che nasce dalla compagnia reciproca.
Il distacco non spegne il ricordo e non brucia la capacità di generare ancora ragioni per vivere,
solo se, nell'avventura con gli altri, abbiamo saputo costruire amore e libertà, servendo spassionatamente la gioia di vivere di tutti, la capacità di sperare, la responsabilità di crescere come
protagonisti della storia personale e collettiva.
Quando la nostra presenza si fa ossessiva, quando cerchiamo a tutti i costi di dominare la mano
che chiede un aiuto, quando facciamo prevalere il nostro interesse su quello degli amici... non
viviamo nel distacco. Cerchiamo di afferrare qualcosa che poi la morte mi strapperà violentemente. Resteremo così senza quello che abbiamo cercato di possedere e la nostra partenza sarà
accolta come una liberazione.
Quando invece viviamo nell'amore che si fa servizio, fino alla disponibilità a "dare la vita perché
tutti ne abbiano in abbondanza", anticipiamo nel quotidiano quel distacco a cui la morte mi costringerà, presto o tardi. Il nostro ricordo resta, forte come l'amore.
La solidarietà, diventata responsabilità, aiuta veramente a vivere e a sperare.
Una matura esperienza di libertà
A garanzia di un corretto rapporto verso le cose e le persone, la nostra cultura pone la legge e le
istituzioni che la esprimono e la garantiscono.
Le istituzioni e le leggi hanno il compito di guidarci nell'amore. Ma spesso schiacciano l'amore.
La legge viene disattesa o piegata verso il favore di qualche persona o di qualche gruppo. L'istituzione diventa impersonale e ossessiva e serve solo a ratificare il sopruso acquisito.
Una matura qualità di vita esige una capacità nuova di assumere il rispetto alla legge e alle istituzioni che la esprimono.
In che direzione?
Anche in questo ambito non basta richiamarsi al Vangelo per sapere cosa fare in concreto. Il riferimento a Gesù e al suo messaggio offrono però un punto decisivo di ispirazione.
Gesù raccomanda l'osservanza delle leggi fino ai particolari più piccoli: una virgola o un accento
trasgredito bastano per finir male (Mt. 5, 17-19). E poi... quando c'è di mezzo la vita, infrange
una delle leggi più sacre, quella del sabato, con estrema tranquillità, disposto a scatenare reazioni dure da parte dei suoi nemici (Gv. 5, 1-18).
Alla fine viene condannato a morte come trasgressore della Legge, lui che si era impegnato per
la sua vera osservanza, contro ogni forma di legalismo della Legge.
La sua vita ci insegna un modo originale di vivere nella legge.
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La Legge è una sola: dare vita dove c'è morte, perdendo la propria perché tutti possiamo averne
piena e abbondante. Le altre leggi - tutte, anche se a livelli diversi - sono importanti. Spesso
rappresentano la via obbligata per far nascere vita. Qualche volta le esigenze della vita sono tali
da costringerci alla libertà della trasgressione. Sempre, sono così urgenti da sollecitare a trapassare l'osservanza della legge: fino, veramente, a dare la vita.
Il perdono: un modo di dichiarare chi è il più forte
Di fronte alle situazioni di ingiustizia e di malvagità non possiamo chiudere gli occhi, in modo
rassegnato e pauroso. Al contrario, siamo sollecitati a denunciare, con estrema lucidità, tutto ciò
che distrugge l'uomo, la sua vita e la sua speranza.
In questa operazione, che condividiamo con tutti coloro che amano veramente la vita, abbiamo
un impegno di vita fondamentale e originale: il perdono.
Esso rappresenta un altro degli atteggiamenti da ricostruire per una qualità di vita matura.
Il perdono non è il gesto sciocco di chi chiude gli occhi di fronte al male per il timore di restarne troppo coinvolto o quello pericoloso di chi giustifica tutto, per rimandare la resa dei conti ai
tempi che verranno. Il perdono è un gesto di profonda lucidità, un gesto che vuole spezzare
l'incantesimo del male, rompendone la logica ferrea.
Nel perdono viviamo una solidarietà originale con la croce di Gesù: la debolezza e la sconfitta
(la croce) è vittoria della vita, quando è vissuta come disponibilità all'amore e affidamento al
progetto di Dio.
Possiamo affidarci a lui, consegnando al mistero di Dio la nostra voglia di vita e di felicità e la
paura che il dolore e la morte scatenano, solo se riusciamo a ricostruire un rapporto giocato
all'insegna della gratuità.
La mancanza di gratuità porta a riconoscere come importante solo quello che assicura un guadagno. La riconquista della gratuità dell'amore porta, invece, all'avventura della speranza: la fede
diventa consegna della propria esistenza ad un fondamento, che è soprattutto sperato, che sta
oltre
Portare speranza
Viviamo in una stagione dove sembra predominare il disincanto e una sottile pervasiva disperazione.
Abbiamo scoperto tante cose; e ne siamo fieri, giustamente. Ogni tanto però l’incantesimo si
rompe e ritornano prepotenti le difficoltà che sembravano allontanate per sempre. Alla radice
di questa situazione stanno gravi e diffuse incertezze esistenziali: non sappiamo più bene dove
ancorare il senso e quella prospettiva di futuro che riconosciamo la condizione indispensabile
per fidarci della vita e dei compagni di viaggio che con noi l’attraversano.
Qualcuno ha mille risposte pronte, una per tutte le stagioni. Ma ci rendiamo conto che queste
risposte sono davvero poco convincenti e interessano tanto poco a chi si dibatte nella rete delle
difficoltà quotidiane.
Eppure chi grida forte parole di speranza riesce a trascinarsi dietro ascoltatori, tra il convinto e
il sedotto. Poco importa se poi qualcuno abbandona frettoloso il carro di queste sicurezze, per
porsi al seguito di nuovi predicatori di futuro. Qualcuno disposto ad ascoltare lo si incontra
sempre, in una stagione come è la nostra dove sono saltate tante sicurezze e persino il riferimento alla trascendenza si è incrinato o scorre all’insegna di quella soggettivizzazione personale
che fa da filtro rassicurante.
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Tutto questo richiede l’invenzione di risposte urgenti. Non possiamo però giocare le risorse di
cui disponiamo senza aver prima individuato il cuore della sfida, quella specie di nodo generatore che può mettere in crisi o risolvere quello che a sguardo superficiale possiamo intravedere.
Sono convinto che il nodo di tutta la questione sia proprio la speranza, il suo senso e la radice
che ne assicura il consolidamento.
Vivere di fede tra le mura di Gerusalemme significa portare speranza, nel nome e per la potenza
dello Spirito del Crocifisso risorto.
Ancora una cosa va aggiunta.
Rende felice e complicato il percorso.
Chi riconosce nella speranza e nella fatica quotidiana di consolidarla e restituirla l’ambito fondamentale in cui testimoniare la propria fede, assume un atteggiamento di ampia collaborazione
con tutti. La vita e la sua qualità sono infatti un problema davvero comune a tutti allo stesso titolo: riguarda giovani e adulti, educatori ed educandi, credenti e non credenti.
Per questo, la comunità ecclesiale si impegna in un terreno comune e cerca la piena collaborazione con tutti coloro che amano veramente la vita e vogliono lottare contro la morte.
Attorno alla speranza essa sollecita la responsabilità di tutti.
Questa scelta determina, in modo deciso, il senso e la prospettiva della presenza dei discepoli di
Gesù nella storia e della qualità del loro servizio. Il servizio alla speranza esclude naturalmente
ogni tentazione di fare dei proseliti, sottraendo le persone ai compiti comuni e rinchiudendoli in
uno spazio protetto e staccato. Al contrario, testimoniando la speranza, nel nome e nella potenza del Crocifisso risorto, restituisce a ciascuno quella qualità di vita che rimbalza poi come dono
per tutti.
La sua fede lo sollecita ad una immersione intensa nella vita di tutti. Non pretende un tavolo riservato, quando si siede a mensa, perché la compagnia con gli altri commensali è gradita e ricercata. Possiede però sensibilità, intuizioni, passioni… riconosce esigenze e avverte urgenze che
lo costringono ad una parola originale, scomoda, inquietante
Quando tutti scivolano verso la disperazione, sa offrire una parola di speranza che permette di
risalire la corrente. Quando serpeggia la convinzione di avere finalmente risolto tutti i problemi
o, almeno, di possedere la chiave del futuro, riporta con i piedi per terra e ridimensiona i sogni
troppo sicuri.
Sa parlare di morte e di vita. Propone il confronto con la morte per amare veramente la vita. Rilancia la vittoria della vita per restituire a tutti la gioia di essere signori persino della morte.
La compagnia attorno alla speranza è una constatazione felice ed esigente. Sappiamo di investire risorse su qualcosa che veramente riguarda tutti. E riconosciamo con gioia che in questa operazione urgente raccogliamo il consenso di tante persone, preoccupate come sono i discepoli di
Gesù per l’onda montante di disperazione.
Non possiamo però accontentarci di un consenso generico.
Considero la speranza il corrispettivo della vita. Vita è esperienza di felicità e di senso, capace di
assicurare uno spazio dove sia possibile essere restituiti alla gioia, al protagonismo, alla sicurezza, alla responsabilità. Vita è quindi capacità di trovare quotidianamente senso e futuro anche di
fronte all’incertezza, alla sofferenza, al dolore e alla morte.
La vita è vissuta nella speranza quando siamo in grado di sperimentare, nell’incertezza della ricerca e nella fatica della quotidiana esperienza, che tutto questo ci è consegnato con quella dose
di sicurezza che l’esistenza quotidiana permette. Facciamo i conti con il dolore e la morte. E
siamo disposti a gridare forte, anche se con voce rotta dal pianto, che la morte non è l’ultima
parola sulla vita ma è una porta da cui transitare - obbligatoriamente proprio per la dignità e
l’autenticità della nostra vita – per consolidare, passo dopo passo, felicità e senso nel futuro.
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Ci rendiamo conto che tutto questo non dipende da noi: le nostre mani e la nostra potenza collettiva, sono davvero inadeguate per restituirci vita e speranza. Non rinunciamo alla speranza,
perché affidiamo ad un mistero più grande, che ci avvolge e che respiriamo (la vita stessa, il suo
Signore e Salvatore), il quotidiano consolidamento di una speranza che percorrere i passi concreti del nostro vivere quotidiano.
Speriamo, perché dalla vita alziamo le mani invocando chi ci accolga, ci afferri e ci restituisca
alla gioia di vivere e all’esperienza impegnativa del protagonismo esistenziale.
Legando in questo modo vita e speranza, scopriamo che la radice della speranza sta fuori di noi,
nelle mani alzate verso un mistero che possiamo incontrare solo sfondando il nostro vissuto.
Questo mistero ha un nome, nella testimonianza dei cristiani: Gesù, volto e parola di Dio, unico nome in cui essere pienamente nella vita.
Cap. settimo
RACCONTARE L’ESPERIENZA DI FEDE
I cristiani testimoniano la loro fede, raccontando storie che producono vita. Parlano di Gesù
all'interno di una catena di "narratori" di questa storia, tanto lunga che si perde lontano.
Il primo a raccontarla è stato Gesù di Nazareth. Ci ha parlato di Dio, suo Padre, della sua passione per la vita e la felicità degli uomini.
A causa della storia che ha raccontato l'hanno condannato e ucciso "come bestemmiatore". I
suoi accusatori credevano di conoscere già tutto di Dio, senza ascoltare la storia di Gesù. Su
questa conoscenza l'hanno giudicato e l'hanno proclamato colpevole di sacrilegio.
La sua morte violenta non ha spento il ricordo della bella storia. Era tanto carica di vita e di
speranza che ha suscitato un "movimento" di narratori, testimoni della vittoria di Gesù sulla
morte e del suo invito a continuare la sua missione.
Per questo gli apostoli hanno raccontato la storia di Gesù il Vivente, con una passione che li ha
portati fino alla morte.
Hanno continuato a raccontarla i cristiani di tutti i tempi, collegandosi all'esperienza fatta quando altri gliel'hanno raccontata. Fin dai primi passi della vita della Chiesa, la storia dell'amore di
Dio per l'uomo si è intrecciata con la storia di Gesù il Signore: le due storie sono ormai un'unica grande esperienza di salvezza.
Il cristiano continua a raccontare questa storia di vita.
Racconta quello che ha vissuto, scoperto e compreso. Cerca di farlo con i fatti; e si fa aiutare
con le parole, per sostenere i fatti e per interpretarli nella direzione giusta.
S'accorge che raccontare una storia del genere è fatica e responsabilità. Non spiega ad altri cose
che solo lui conosce. E neppure cerca di fare dei proseliti, smerciando di sottobanco prodotti
raffinati.
Racconta perché gli è nata dentro una gioia grande. Non la può soffocare. Ha incontrato un
amico e tanti amici; e ha scoperto prospettive meravigliose per promuovere la vita e consolidare
la speranza.
Racconta con timore e tremore, perché sa di parlare prima di tutto di sé e per sé. Non riesce più
a dire le cose in modo freddo, sicuro della competenza che gli viene da quello che ha imparato
prima. Ma non tace: le sue parole hanno la potenza della sua debolezza (2 Cor. 12, 9) e hanno la
forza dei tanti testimoni che hanno già giocato tutta la loro esistenza, affascinati dalla storia incontrata.
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Racconta con una sola grande passione: vuole che tutti riscoprano vita e felicità, quella vera e
autentica che Gesù ha regalato al mondo, raccontando la storia di Dio, il Padre buono e accogliente.
Su questo argomento di cose se ne potrebbero dire tante, tutte davvero importanti. Preferisco
limitarmi ad un solo tema, coerente con la scelta di verificare quali responsabilità sono consegnate a chi ha deciso coraggiosamente di “tornare a Gerusalemme” per realizzare quella qualità
nuova di vita che la fede in Gesù il Signore ha suscitato in alcuni amici.
Evangelizzazione come atto d’amore
L’annuncio di Gesù è il grande gesto di amore che possiamo fare nei confronti dei nostri amici,
per restituire ad essi vita, consolidare la speranza, sollecitare ad una responsabilità radicale per la
causa del regno di Dio. Non può mai diventare qualcosa che assomigli al bisogno di esternare i
pregi della squadra per cui facciamo tifo. È sempre e solo un gesto di amore, totalmente gratuito e radicalmente decentrato verso gli altri.
L’annuncio di Gesù, come gesto d’amore, caldo e appassionato nei confronti delle persone, non
nasce né dalla richiesta dell’interlocutore né dal nostro desiderio apostolico. Nasce dalle logiche
del servizio pieno e totale, per ogni persona nel mistero della sua esistenza, e per la storia personale e collettiva di tutti.
Mi spiego.
Voler bene ad una persona significa volere profondamente il suo bene, permettere ad una persona di scoprire che la profonda attesa di speranza e di senso che percorre la sua esistenza, ha
bisogno di trovare risposte. Non possiamo continuare a spostare il tempo dell’incontro con
queste risposte e non possiamo, per nessuna ragione, mandare deluse queste attese. Per questo,
proprio a partire dall’amore che ognuno di noi porta ai fratelli che ha la gioia di incontrare, scopriamo che non possiamo rassegnarci a non parlare di Gesù. Il silenzio, in questo caso, diventerebbe una scelta che tradisce l’amore.
L’amore chiede di aiutare ogni persona a diventare sempre di più signore della propria vita. Ma
siamo signori della nostra vita, solo quando riusciamo a sperimentarne il suo senso anche nel
momento in cui eventi tragici sembrano consegnarci al nonsenso. Siamo signori della nostra vita se siamo capaci di collocarla dentro un progetto più grande che riguarda anche il futuro della
nostra esistenza: riusciamo a ritrovare una ragione gioiosa anche di fronte al dolore e alla morte,
scopriamo che siamo pienamente noi stessi solo quando riusciamo a morire, come il chicco di
grano, perché tutti abbiano la gioia di raccogliere il pane cresciuto nel terreno del mio piccolo
servizio.
La comunità ecclesiale non si rassegna se alle persone con cui condividiamo la vita quotidiana il
nome di Gesù non interessa. Non si rassegna se davanti all’annuncio esse restano indifferenti,
preoccupate di molte altre cose. Sta ad esse vicina, le inquieta e le interpella, perché solo quando esse hanno incontrato Gesù, possono veramente restare in quella gioia e in quella speranza
che vanno cercando, purtroppo tante volte come l’assetato che cerca un sorso d’acqua tra le
pietre e il fango dei pozzi aridi.
Questa decisiva constatazione rilancia immediatamente quella preoccupazione che attraversa
l’esistenza di ogni bravo evangelizzatore: esistono criteri rassicuranti per aiutarmi a constatare
se sono sulla buona strada o se, con tanto entusiasmo, corro il rischio di correre bene… ma
fuori via.
Dalla prospettiva del “gesto d’amore” ho scoperto e con trepidazione rilancio un criterio di valutazione molto impegnativo: l’evangelizzazione è fedele al suo progetto quando aiuta a vivere.
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Alla ricerca di un linguaggio per dire bene il mistero confessato
Parliamo di Dio e della fede in lui con le nostre parole. Quali dobbiamo cercare e privilegiare?
Per dire la fede non possiamo progettare parole che siano come quelle che utilizziamo tutti i
giorni, nelle nostre conversazioni: sicure, forti, un po' violente o, magari, fatte apposta per imbrogliare le carte. La fede ha un suo linguaggio: assomiglia molto a quello dell'amore e della
poesia e pochissimo a quello della scienza e della tecnica.
Tento di spiegarmi un po', analizzando le caratteristiche del linguaggio simbolico, caratteristico
del linguaggio della fede.
Quando poniamo dei segni (diciamo una parola per ricordare delle realtà o poniamo dei gesti
per sottolineare atteggiamenti interiori: il bacio, per esempio, rispetto all'amore che due persone
si portano), scateniamo un'operazione complessa. In essa si intrecciano tre elementi: il significante, il significato e il referente.
La parola o il gesto prodotto (in gergo sono chiamati il "significante") sono facilmente costatabili da tutti coloro che li osservano: la parola pronunciata viene udita o il gesto viene visto. Nel
rapporto tra due persone nulla finisce qui: il gesto va interpretato e riportato al suo significato
convenzionale. Parole e gesti fanno venire in mente qualcosa verso cui sono indirizzati, che
evocano e rivelano, anche se non sono mai in grado di obiettivare totalmente. La forza evocativa del significante si chiama (ancora in gergo) il suo "significato". In ogni segno c'è perciò qualcosa che si può toccare, udire, manipolare (un gesto, una cosa, una parola) ed un suo significato.
L'insieme di significante e di significato (e cioè il segno) trascina verso il referente (l'oggetto reale che il segno ha il compito di evocare, rendendolo presente e vicino, anche se continua ad essere fisicamente assente). Quel rapido contatto viene interpretato come un "bacio" e gli osservatori costatano che le due persone che se lo scambiano, si vogliono bene.
Si è realizzato un avvenimento linguistico: è stato prodotto un segno.
Le parole e i gesti della fede percorrono la stessa logica: comunichiamo eventi misteriosi e indicibili attraverso avvenimenti linguistici di natura simbolica.
Quando diciamo "Dio è padre", nel significante "padre" evochiamo quel qualcosa, fisicamente
assente nella parola "padre", dato dall'esperienza di paternità. Il segno "padre" (parola e esperienza di paternità: significante e significato) manifesta, rende presente simbolicamente l'oggetto
reale: Dio come padre.
La struttura simbolica è tutta giocata nel rapporto presenza-assenza, vicinanza-lontananza. Ciò
che posso vedere, toccare, sentire chiama in causa e fa venire in mente qualche realtà, fisicamente assente e lontana, ma così implicata in ciò che si costata, da essere, in qualche modo,
presente e vicina.
Nella struttura simbolica non possiamo quindi contrapporre presenza e assenza, come facciamo
giustamente di fronte ad eventi fisici. La realtà che il simbolo evoca è nello stesso tempo presente e assente, vicina e lontana. Il segno rivela e nasconde: rende presente sulla forza dell'autocoinvolgimento personale qualcosa che continua a restare fisicamente lontano e assente.
Il rapporto tra segno ed evento si può realizzare secondo modalità differenti. Semplificando un
po' le cose, si possono immaginare modelli comunicativi a carattere denotativo e modelli a carattere evocativo.
Mi spiego con un esempio.
Chi cerca un libro in una grande biblioteca, può lavorare sullo schedario o può ottenere l'autorizzazione di accedere alla sala-deposito.
Lavorando nello schedario, rintraccio la scheda di collocazione del libro desiderato. Essa mi dà
informazioni preziose per reperire il libro. Non ho ancora il libro tra le mani. Ma sono in grado
di arrivare sicuramente ad esso.
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In questo caso, il rapporto tra segno (la scheda) e referente (il libro) è molto stretto e ben determinato. La scheda informa in modo denotativo rispetto al libro.
La scheda deve contenere informazioni esatte, identiche tutte le volte che ricorre nello schedario.
Chi invece accede nella sala-deposito, si muove con alcune informazioni generali. Conosce la
pianta della biblioteca e conosce la logica di sistemazione dei libri. Forse sa anche in quale scaffale è collocato il libro desiderato.
Cercandolo, si imbatte in altri libri. Li consulta frettolosamente e forse arriva a concludere che
ce ne sono di più aggiornati rispetto a quello richiesto o si convince, a ragion veduta, della scelta
prevista.
L'informazione conduce al libro, in un gioco raffinato di fantasia e di responsabilità personale.
Si tratta di un segno a carattere evocativo. Informa, evocando e responsabilizzando.
Le parole della fede sono sempre di natura simbolica. Di che ordine: denotativo o evocativo?
La prospettiva “evocativa”
Le prime volte che mi sono posto in modo riflesso l'interrogativo, sono rimasto profondamente inquietato.
L'ipotesi evocativa mi affascinava, anche come modalità matura di vivere nella fede.
Eppure non riuscivo a concludere in termini tranquilli. Una lunga tradizione ecclesiale sembra
spingere in altre direzioni. Mi faceva anche paura il gioco scatenato della soggettività, a cui
sembra aprire la scelta di privilegiare i modelli evocativi.
Per capirci un po' di più, sono andato all'esperienza fondante della nostra esistenza cristiana: i
vangeli e le lettere apostoliche. E ho fatto delle scoperte che mi hanno rincuorato.
Gli apostoli e i primi discepoli, quando hanno raccontato la storia di Gesù, per testimoniare la
loro fede in lui, non hanno mai preteso di fare come piacerebbe a noi: dire come sono andate le
cose, senza una virgola in più, nel modo più freddo e distaccato possibile.
Hanno fatto esattamente il contrario. La loro testimonianza è sempre appassionata. Nelle cose
che raccontano, la loro esistenza è tanto coinvolta che spesso lo stesso avvenimento dà origine
a racconti diversi.
I Vangeli, il racconto della fede appassionata dei discepoli di Gesù, sono scritti in una lingua
speciale. La chiamo, scherzando un poco con le parole, l’ “amorese”.
Mi spiego con un paragone. Insistito su questo aspetto perché sono convinto della sua importanza e ti chiedo il favore di darmi un po’ di fiducia ancora per qualche riga.
Prova a pensare ad una partita di calcio di quelle che contano, una finale al cardiopalma o il
derby tra due squadre della stessa città.
All’ultimo minuto, quando i giochi sembravano fatti, spunta un rigore. Cambia il risultato della
partita. Lo so che il giudizio dell’arbitro è insindacabile… ma, accidenti, quel rigore è un fatto
grosso. Ha cambiato di peso un risultato che sembrava ormai pronto per finire in archivio.
Un tipo era allo stadio e ha assistito di persona a tutta la partita. Torna a casa e si infila nel bar
dove lo aspettano gli amici. Essi la partita l’hanno vista solo in TV o, magari, l’hanno ascoltata,
con il fiato in gola, solo in radiocronaca. Hanno visto tutto: con gli occhi ingannati dalle telecamere o, peggio, costretti ad immaginare quello che il commentatore ti raccontava. Sulle cose
che contano, non basta il parere degli estranei. Ci vuole una testimonianza diretta.
Appena entra, lo assalgono. “Tu eri allo stadio… Dicci: quel rigore… c’era o non c’era?”. Siccome era allo stadio e ha visto (nel filtro del tifo della “curva” in cui era piazzato), lui può parlare. Solo lui può risolvere la questione che sta facendo discutere fino all’impazzimento.
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Certo, non può imbrogliare. I fatti li deve raccontare come sono andati davvero. Anche il tifo,
infatti, ha le sue regole di oggettività.
Il racconto del tipo che era allo stadio fila veloce, senza nessuna incertezza. Se il rigore era a favore della squadra per cui fanno tifo lui e gli amici del bar, nessun dubbio sul rigore.
L’intervento dell’arbitro era sacrosanto… e guai a chi lo contesta. Ma se il rigore era contro la
squadra del cuore… il povero arbitro non si salva più.
I fatti sono chiari e lampanti. Stanno sotto gli occhi di tutti. Ma gli occhi hanno una capacità di
penetrazione specialissima. Leggo fatti e particolari con la passione dell’amore e del coinvolgimento.
La TV ci offre un’altra opportunità. Penso a quella specie di “processo” che viene fatto nel dopopartita. Si radunano un gruppo di esperti. Riguardano l’azione contestata… quel rigore che
ha scosso il cuore dei tifosi delle due squadre. Riproducono il filmato dieci volte. Poi incominciano a dire la loro. Ogni tanto, qualcuno si appella ai fatti e… via di nuovo lo spezzone del
filmato. Si arriva persino a volerlo revisionare al rallentatore per non perdere nessun particolare.
Con gli strumenti raffinati di cui è in possesso la TV, si riesce persino a tracciare una perpendicolare tra il pallone, la mano dell’attaccante e l’erba del campo… per vedere se l’azione era dentro o fuori la linea del rigore. Le discussioni si sprecano. Ci si prende quasi per i capelli. Viene
rispolverato un fatto simile, capitato quindici campionati fa.
Risultato? Tutto come prima. Chi è entrato convinto della necessità del rigore, ne esce straconvinto, come è straconvinto del contrario chi era entrato con questo parere.
Il racconto appassionato approfondisce l’esperienza e allarga la fiducia. Quello, arricchito delle
elucubrazioni degli esperti e degli artifizi della tecnica, non sposta di un millimetro la fede.
Mi sono chiesto perché le cose vadano così. Ti dico la risposta che mi sono dato… così, in
qualche modo, ritorno alla stesura dei Vangeli e allo stile con cui oggi siamo invitti ad evangelizzare.
Se voglio conoscere come funziona un computer o mi interessa approfondire il teorema di Pitagora, ogni particolare è benvenuto. L’entusiasmo e la commozione non servono proprio a
nulla. Contano i particolari, la loro verità e la loro corretta organizzazione.
Quando c’è di mezzo l’amore, il significato della vita, le proposte che giustificano il diritto alla
speranza, corretta organizzazione e particolari autentici sono importanti… ma non sufficienti.
Non dico ad una persona “Ti voglio bene”, perché ne ho le prove scientifiche e ho potuto analizzare l’indice di adrenalina che la sua presenza scatena in me. Dico “Ti voglio bene”, perché
mi butto, rischio, “lo sento” dentro.
Lo stile con cui sono scritti i Vangeli assomiglia molto di più al racconto appassionato del tifoso
che al resoconto del “processo” in TV.
Sperimentiamo la proposta, ripercorrendo il cammino
Con qualche rapida battuta ho cercato di tracciare il modello teorico che propongo di utilizzare
per realizzare l’evangelizzazione oggi, in modo che risulti sempre una bella notizia che aiuta a
vivere e consolida la speranza.
Certamente questo non è l’unico modo attraverso cui possiamo realizzare l’evangelizzazione. Se
ci guardiamo d’attorno con un po’ di senso critico scopriamo che di modalità concrete ne incontriamo tante, nell’ambito della comunità ecclesiale. A pensarci bene, qualche modo di fare ci
piace, risulta bello e interessante; altre modalità, invece, ci sembrano poco adatte per una responsabilità tanto impegnativa. Assomigliano troppo ad una lezione accademica, in cui chi sa
qualcosa perché l’ha imparato studiando e leggendo dei buoni libri, la dice agli altri a partire dalla sicurezza che compete a chi si sente in grado di comunicare cose che gli altri non sanno ed è
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convinto che queste cose siano importanti per coloro a cui vuole comunicarle. Questo non è
certamente il modo di realizzare l’evangelizzazione che Gesù affida ai suoi discepoli.
La scelta di privilegiare dei modelli a carattere evocativo determina un modo molto preciso e
originale di annunciare il Vangelo di Gesù. Se siamo convinti che questa sia la strada più adeguata da percorrere con coraggio e fantasia, ci mettiamo tutti, con il massimo della buona volontà, a sperimentare.
Resta decisivo il criterio che ho suggerito come elemento di verifica per la qualità e l’autenticità
dell’evangelizzazione: offrire il Vangelo di Gesù in modo che risuoni sempre come una grande
bella notizia, capace di produrre la gioia di vivere e la libertà di sperare nel nome e per la potenza di Gesù.
Per mostrare con i fatti quest’affermazione teorica, ti invito a ripercorrere con calma il cammino che abbiamo percorso assieme lungo le pagine di questo libro.
Voglio comunicare agli amici qualcosa che mi sta a cuore. L’ho fatto perché questa scoperta ha
riempito il mio cuore di gioia. Non ho assolutamente voluto dire ad altri qualcosa che io pretendevo di conoscere attraverso studio e riflessione; ho avuto l’unica pretesa di restituire a qualche amico la gioia incontrata meditando esperienze mie e degli amici di Gesù che mi hanno riportato direttamente al dono di avere incontrato il Signore Gesù.
A me piace tanto pensare a come inizia la prima Lettera dell’apostolo Giovanni. Te lo dico con
le mie parole, ma puoi verificare le parole esatte sfogliando il testo del Nuovo Testamento (1
Gv. 1, 1-4). Giovanni dice: quello che le mie mani hanno toccato, i miei occhi hanno visto, la
mia esperienza personale ha sperimentato, e cioè la gioia di avere incontrato Gesù come fondamento della mia vita e della mia speranza, questo sento il dovere di condividerlo con altri
perché anche altre persone possono fare la stessa felice esperienza.
Pensare, scrivere, condividere da questa prospettiva modifica totalmente il modo di esprimersi,
la scelta delle pagine da selezionare, lo stile della comunicazione.
Ho provato a fare così. In questa prospettiva immagino l’evangelizzazione. Ho provato a realizzare la proposta invece di teorizzarla.
Per capire che cosa è la fede e perché è importante nella nostra vita, ho raccontato la storia di
Gesù che restituisce alla vita quel povero ragazzo che stava morendo in una crisi pesante di epilessia. Meditando questa pagina del Vangelo ho scoperto e condiviso, che la questione non riguardava l’incapacità dei discepoli, da risolvere acquisendo qualche tecnica in più ma la necessità di sperimentare dentro la competenza acquisita la capacità di affidamento a Dio come unica
ragione della nostra potenza. Quest’affidamento non nasce dall’esigenza di conoscere tutti i
trucchi del mestiere. Nasce dal fatto di scoprirsi impotenti davanti alla forza della morte ma è
proprio a questo livello di esperienza personale che si radica la gioia di consegnarsi al mistero
santo di Dio, consapevoli che la sua potenza si esprime proprio quando la nostra debolezza si
spalanca nell’affidamento. Diventa fede: le due braccia alzate che cercano le mani robuste di chi
ci può afferrare.
Ho spiegato che cos’è fede, raccontando una storia. Avrei potuto cercare ragionamenti raffinati
e la letteratura ne propone molti. Ma non volevo coinvolgere nessuno sul filo della logica; volevo invitare tutti a lasciarsi afferrare da questa misteriosa esperienza. Per questo ho preferito privilegiare la via evocativa della narrazione su quella più frequentata delle argomentazioni. Spero
che la scelta abbia aiutato a vivere, facendo sperimentare l’evento della fede in Gesù.
La stessa cosa ho fatto quando ho cercato di far toccare con mano che vivere di fede è possedere già quello che solo si spera e vedere già quello che di fatto non si vede. Ricordi certamente
le battute della Lettera agli Ebrei in cui ho cercato di dire che cos’è la fede che aiuta a vivere.
Come ha fatto l’autore della Lettera agli Ebrei, non ho scelto la strada dei ragionamenti raffinati
ma ho invitato a pensare alla storia di Abramo, della mamma di Mosé, dei tanti personaggi illu37
stri di cui nella pagina citata, si fa ricordo. Per dire cosa significa vedere ciò che non si vede ho
invitato a rileggere pagine della storia di questi personaggi, chiedendo il coraggio di andare oltre
quello che si vede per ritrovare il senso più profondo di queste storie nel mistero che esse si
portano dentro. Ho cercato di dire cose su cui pensare percorrendo la strada impegnativa dei
racconti di storie vissute. E gli esempi potrebbe continuare: ti invito a risfogliare il libretto che
hai tra le mani, proprio da questa prospettiva.
Persino alla fine del lungo cammino percorso assieme, quando mi porrò il problema di fondo
della possibilità o meno di fidarsi di quello su cui abbiamo meditato, non ho intenzione di produrre ragionamenti raffinati. Questi possono aiutarmi a dimostrare le regole della matematica e
della fisica, ma di sicuro non possono aiutarmi a fare una scelta di vita tanto impegnativa da rischiare di giocare tutta la mia esistenza nel mistero posseduto soltanto nella speranza.
Sceglierò una strada molto diversa: il racconto della storia di Tommaso. L’apostolo cerca prove
per convincersi, fino alla pretesa di poter mettere la mano sulla ferita del costato di Gesù per
essere rassicurato. In fondo, ci assomiglia e percorre la strada più logica. Gesù lo sconvolge e gli
chiede un modo diverso di porsi davanti a lui. Tommaso, travolto dall’esperienza di Gesù,
cambia totalmente prospettiva. Si fida di lui e professa tutta la sua fede in lui. Ci dice cosa vuol
dire veramente credere e sperare: non manifesto la mia fede perché qualcuno mi ha convinto
della sua verità, confesso la mia fede perché sono stato travolto da un’esperienza grande che ha
segnato la vita. Tommaso si è preso l’elogio di Gesù. Ci consegna così un modo di lasciarci
convincere dalla potenza di Dio, per godere, anche noi come lui, dall’elogio di Gesù.
Ho ripercorso alcune delle pagine che abbiamo vissuto assieme in questo libretto. Ho fatto così
per mostrare con i fatti che gli eventi più importanti della nostra vita, quelli che la riguardano
totalmente, quelli che ci mettono in un progetto che assicura la gioia di vivere e la libertà di sperare, sono costruiti non sul filo dei ragionamenti raffinati ma sono l’esito del racconto, appassionato e convincente, di storie che aiutano a vivere.
Questa è la mia convinzione. Siamo sollecitati a riempire Gerusalemme della nostra fede. Lo
facciamo perché avvertiamo la gioia di aiutare tutti a vivere e vogliamo regalare speranza a tutti
e sappiamo che tutto questo è possibile solo nel nome di Gesù il Signore. Cerchiamo un modo
di compiere sapientemente questa responsabilità. Tra i tanti possibili ne ho proposto uno: narrare storie in cui s’intreccino continuamente la storia grande e potente di Gesù e dei suoi discepoli, la mia storia personale, la storia delle attese, dei desideri, delle incertezze di coloro a cui
voglio regalare questa storia.
L’esperienza di fede mi consegna la responsabilità di evangelizzare. L’esperienza di fede ci consegna però questo compito sollecitandoci a realizzarlo in uno stile tutto speciale. Siamo impegnati a evangelizzare, e siamo nello stesso tempo incoraggiati a privilegiare il modello narrativo
e evocativo, come quello che più correttamente può permetterci di assolvere bene questo compito, tanto impegnativo e urgente.
Torniamo così a Gerusalemme come il dono del Dio di Gesù per tutte le persone che avremo
la fortuna di incontrare.
38
Cap. ottavo
UN FRAMMENTO DI FUTURO NEL TEMPO DURO DELLA NECESSITÀ
Ci capita spesso di cantare il versetto di un salmo che mette in crisi e ci costringe a pensare. Lo
ricordiamo molto bene.
Recita: “Come canteremo i canti del Signore in terra straniera?” (Salmo 136).
Cantavano questo versetto gli esuli del popolo ebraico, costretti ad abbandonare le loro case e
trasferiti con la violenza in terra di Babilonia. Avevano una grande nostalgia della loro patria. Si
rendevano conto di quanto essa fosse ormai lontana dalla loro esperienza. Le cose peggiorarono continuamente perché i loro aguzzini pretendevano che in questa terra di esilio mostrassero
tutta la gioia di poterci abitare. Si sentissero felici anche se non erano a casa loro. Si mettessero
a cantare i canti della loro gioia, pur sperimentando quotidianamente la tristezza dell’esilio.
Di qui il grido di dolore e di disperazione: come possiamo cantare i canti del Signore, che sono
canti di gioia, di festa, di fede, in una terra che non è la nostra patria?
Sono convinto che ogni tanto ciascuno di noi, appena dedica un attimo di tempo a pensare alla
sua situazione quotidiana, avverte la necessità di far proprio questo grido.
Mi auguro che le riflessioni condivise in queste pagine ci abbiano aiutato a scoprire che noi
siamo impegnati seriamente a vivere con gioia il nostro presente, perché la vita che abbiamo
imparato ad amare è veramente la nostra casa, piccoli frammenti di esistenza che produciamo e
lasciamo alle spalle in vista di nuovi, incerti, frammenti di un nuovo presente. Questa esperienza la condividiamo con tutti, perché abitiamo tutti nella stessa casa e ci troviamo tutti a lottare
per i problemi che l’attraversano.
Eppure proprio la fede che abbiamo scoperto, quel mistero che abbiamo sperimentato quando
abbiamo trovato il coraggio di entrare nel profondo del nostro presente, ci portano a riconoscere, senza incertezze, che per vivere pienamente la nostra vita non possiamo accontentarci del
nostro presente. La dobbiamo decisamente ancorare nel passato che abbiamo sperimentato
quando abbiamo toccato il fondo del mistero, e nel futuro verso cui ci sentiamo in cammino.
Il passato ci consegna le cose meravigliose che Dio ha compiuto per il suo popolo, e così ritroviamo le ragioni per credere e sperare, anche quando ci sentiamo sommersi dalla disperazione
della morte.
Il futuro è la nostra casa, il sogno mai spento verso cui camminiamo trepidanti. Il futuro è il
tempo in cui esploderà in pienezza quello che possediamo oggi solo come piccolo seme, quando nell’abbraccio di Dio saremo figli suoi totalmente, e lo si vedrà da mille segni.
Il cristiano che vive il suo presente e, nello stesso tempo, avverte la necessità di sperimentare il
suo passato e la nostalgia di sognare il suo futuro, scopre quanto sia triste restare troppo catturato dal presente e constata che la compagnia di coloro che sperano in un futuro diverso o sperimentano un passato diverso, è sempre una compagnia scomoda. Non riusciamo a vivere intensamente quello che riconosciamo irrinunciabile per la qualità della nostra vita.
Scopriamo allora di vivere in un tempo difficile, dove i sogni sono sempre oscurati da nubi pesanti, dove la compagnia con tanti amici non è mai piena e totale, dove il desiderio verso il futuro resta sempre attraversato da tensioni, incertezze, paure.
Ci piacerebbe cantare a piena voce i canti del Signore, riconoscendo il diritto alla gioia e alla
speranza nel presente che stiamo condividendo, ma avvertiamo che questo non è mai totalmente possibile. Sperimentiamo che quando cantiamo la gioia della presenza del Signore nella nostra vita, siamo quasi costretti a chiudere un poco i nostri occhi, a guardare senza contemplare
totalmente il tempo che stiamo vivendo. Scopriamo di vivere il nostro tempo come tempo felice, ma avvertiamo le nubi di tristezza che lo attraversano e i problemi inquietanti che rendono
la nostra gioia mai piena e abbondante.
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Gridiamo allora anche noi, come gli esuli del popolo ebraico in terra di Babilonia: come canteremo i canti del Signore in questa terra che nonostante tutto resta una terra straniera, dove
camminiamo in compagnia di tanti fratelli che sono sempre troppo stranieri rispetto ai nostri
progetti?
Il dono: un pezzo di futuro per sperimentare la gioia del presente
Il Signore Gesù, prima di darci l’appuntamento nella sua casa, affidandoci la cura di questa nostra casa, c’ha fatto un grande regalo.
Per vivere intensamente la nostra esperienza di fede, abbiamo l’urgente necessità di scoprire
questo dono impensabile, di sperimentarlo continuamente, di realizzarlo assieme a tutti coloro
che con noi condividono la stessa fede e la stessa speranza, nella comunità ecclesiale.
Questo dono è l’Eucarestia.
È un dono così grande che non può mai essere compreso soltanto attraverso la meditazione e
lo studio, ma va sperimentato per poterlo davvero vivere e scoprire. Va sperimentato personalmente nel grembo materno della comunità ecclesiale a cui il dono dell’Eucarestia è stato affidato.
Alle tante cose che conosciamo voglio aggiungere una mia riflessione, proprio per aiutarci a
sperimentare l’Eucarestia dalla prospettiva della comprensione della fede a cui ho dedicato questo mio piccolo libro.
Ho scelto un titolo forse un poco strano per parlare di Eucarestia. Lo commento subito con
due battute, perché, come sempre, vorrei camminare in compagnia con i miei lettori.
Il nostro è innegabilmente un tempo duro. L’ho intitolato il tempo della necessità. Voglio ricordare che in questo nostro tempo ci sono tante cose che siamo sollecitati ad assumere, a realizzare, a condividere. Spesso la scelta dipende da noi. Ma molto più spesso ci sono imposte
dallo stato delle cose. Siamo come chi deve attraversare il deserto. Sa che al termine del suo
viaggio qualcosa di bello l’attende ma, passo dopo passo, è costretto a sperimentare la fatica, la
durezza, l’incertezza di questo suo cammino. Sogna la meta. Trova il coraggio di procedere dal
fascino della meta. Ma per ora cammina nel deserto.
Per fortuna, quando le cose si fanno particolarmente dure, incontra l’oasi: un frammento del
suo sogno che diventa esperienza diretta. La pausa non ferma il cammino. Lo sostiene, lo incoraggia, lo rilancia. Io penso alla celebrazione eucaristica come la gioia di poter fare una breve
pausa in un’oasi felice. Non ferma il nostro cammino. Non elimina le difficoltà. Ci permette di
procedere rassicurati e confortati.
Per questo ti propongo di pensare alla celebrazione eucaristica come a un frammento di futuro
- questa è l’oasi - per ritrovare la forza di riprendere il cammino nel tempo della necessità.
Ti ho detto la mia prospettiva. E adesso provo a realizzare una riflessione un poco più articolata per giustificare la proposta e soprattutto per aiutarci assieme a vivere in questo modo
l’esperienza quotidiana del nostro camminare in una terra che non è la nostra patria, ma che
dobbiamo attraversare in compagnia con tutti per arrivare veramente a casa.
Il diritto alla festa
Come ho appena ricordato, abbiamo un gran bisogno di riallacciare, sul tempo che vivendo
produciamo, il passato al presente e al futuro.
La festa è uno degli spazi di libertà che ci permette di vivere così il tempo. Nella festa usciamo
volontariamente dal presente, collegando nella memoria e nella fantasia il passato e il futuro. Il
passato è rievocato come sorgente, ragione della festa nel presente. Non è il greve condizionamento che pesa sul presente ma l’avvenimento che gli dà senso e lo riempie di ragione. Viene
anche anticipato il futuro. La festa è scoperta gratuita dei segni della novità anche tra le pieghe
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tristi della necessità del presente. Per questo, possiamo vestire nel presente i panni fantasiosi del
futuro, senza passare per uomini che fuggono le responsabilità a cui si richiama ogni presente.
Essa è quindi una grande esperienza trasformatrice. Aiuta a spezzare le catene del presente,
senza fuggirlo. È un piccolo gesto di libertà, che sa giocare con il tempo della necessità e sa anticipare il nuovo sognato: il regno della convivialità, della libertà, della collaborazione, della speranza, della condivisione.
L’Eucarestia è la grande festa cristiana del presente tra passato e futuro, tra memoria e profezia:
il tempo del futuro dentro i segni della necessità, tanto efficace e potente da generare vita nuova.
Memoria solenne ed efficace del passato, riscrive nell’oggi i grandi eventi della nostra salvezza.
Restituisce così il presente alla sua verità per la forza degli eventi. Immerge nel futuro la nostra
piena condivisione al presente, in quel frammento del nostro tempo che è tutto dalla parte del
dono insperato e inatteso.
La festa dell’Eucarestia
Uno dei documenti più antichi della fede dei cristiani, la “Didaché”, riporta una citazione che ci
dà certamente molto da pensare. Ad un gruppo di cristiani della città di Abilene il tiranno aveva proibito la partecipazione alla celebrazione eucaristica, pena la morte violenta. Essi rispondono con un’affermazione che ci consegnano nel loro martirio: “Senza la domenica non possiamo vivere”. Per essi l’Eucaristia celebrata alla domenica rappresenta veramente quel pezzo
di futuro che restituisce la possibilità di vivere nella festa anche il tempo duro del presente, la
pausa riposante nell’oasi che rende facile e sicuro il lungo cammino che attende chi si trova in
marcia verso la casa del futuro.
L’Eucarestia è la festa del passato e del futuro, necessaria per vivere il diritto alla festa del presente. Contempliamo il tempo, fino a toccarne le soglie più profonde. In questa discesa verso la
sua verità, siamo sollecitati a restare uomini della libertà e della festa, anche quanto siamo segnati dalla sofferenza, dalla lotta, dalla croce.
Impariamo così a cantare i canti del Signore anche in terra straniera. Riusciamo a cantarli in una
convivialità nutrita di speranza, in questa nostra terra. Cantando i canti del Signore in terra straniera, la riscopriamo la nostra terra, provvisoria e precaria, ma l’unica terra di tutti. Cantando i
canti del Signore, nella celebrazione eucaristica, la terra straniera diventa la nostra terra, proprio
mentre sogniamo, cantando, la casa del Padre.
Rieducare a vivere l’Eucarestia
Basta guardarsi d’attorno per constatare che a queste cose abbiamo purtroppo l’abitudine di
pensare poco. Spesso i fatti non ci aiutano neppure molto a sperimentare così la celebrazione
eucaristica. Troppe volte viene ridotta ad un rito, abbastanza vuoto e formale. Un po’ alla volta,
per troppi cristiani la partecipazione all’Eucarestia è diventato una tassa da pagare settimanalmente per evitare castighi pericolosi. Quello che ci è stato regalato come un dono, per vivere la
vita quotidiana nella fede, corre il rischio di diventare un obbligo pesante.
Per fortuna le cose non vanno tutte così. Molti cristiani stanno riscoprendo la festa
dell’Eucaristia. La sua celebrazione è esperimentata come un evento gioioso, desiderato e vissuto intensamente.
Non possiamo però accontentarci delle eccezioni felici.
Consapevoli della necessità della fede per ritrovare la gioia di cantare i canti del Signore in questa nostra terra anche se non è ancora la casa che sogniamo, ci chiediamo se è possibile fare
qualcosa per aiutare tutti a riscoprire la festa dell’Eucarestia come fondamento della nostra fe41
de. Desideriamo tutti ardentemente di constatare che i discepoli di Gesù, come hanno fatto i
nostri amici martiri di cui ho appena ricordato la testimonianza, ripetono continuamente con i
fatti: senza l’Eucarestia non possiamo vivere.
Possiamo allora immaginare qualcosa che ci aiuti a scoprire il dono dell’Eucarestia, proprio come irrinunciabile condizione per vivere la fede?
Faccio una piccola proposta.
Parto da una constatazione su cui invito a pensare con calma e suggerisco tre interventi operativi da realizzare quasi in contemporaneità.
Punti di riferimento
Un buon progetto non si accontenta di guardare il dato di fatto, con attenzione disponibile e
critica. Esso ha bisogno anche di riconquistare punti di riferimento, capaci poi di orientare le
linee operative.
Rileggendo i documenti della fede
Nel Nuovo Testamento esistono quattro redazioni esplicite del racconto della Cena: tre dei Sinottici (Mt. 26, 26-30; Mc. 14, 22-25; Lc. 22, 15-26) e una nella prima Lettera di Paolo ai cristiani di Corinto (1 Cor. 11, 23-25).
Le redazioni dei Sinottici sono molto simili (non certamente identiche). Si limitano a raccontare
il fatto, senza particolari commenti. Paolo, invece, cambia registro. Racconta a cenni rapidi l'avvenimento, consapevole di riferire fatti già noti e vissuti. Sottolinea invece con forza le conseguenze sul piano dello stile di vita. Raccomanda la condivisione del pane terreno a chi partecipa
dello stesso gesto eucaristico. Minaccia di morte quelli che invece conservano nel cuore e nei
fatti la divisione e il sopruso.
Nel suo Vangelo Giovanni non racconta esplicitamente la Cena. Sembra quasi ignorare questo
momento solenne della vita cristiana. Propone però un racconto che ha il medesimo ritmo narrativo: la lavanda dei piedi (Gv. 13, 1-20). Analizzando con attenzione la pagina, ci si accorge
dello stesso schema di fondo, quasi a carattere liturgico, fino a sollecitare alla medesima conclusione della Cena: "Fate lo stesso, in mia memoria", raccomanda Gesù.
Viene spontaneo chiedersi: perché racconti tanto diversi?
La ragione la conosciamo molto bene. I testi evangelici non sono un resoconto stenografico di
qualcosa che è capitato, ma un'espressione di fede. In altre parole, l'autore non vuole, prima di
tutto, descrivere la cronaca di avvenimenti lontani. Ripropone dei fatti che riconosce avvenimenti salvifici. Per questo, ricordandoli, vuole soprattutto farli rivivere, come fonte, unica e definitiva, della salvezza. Li esprime, di conseguenza, allargandoli con le parole della sua fede e
con i bisogni concreti dei suoi destinatari. Sono un bellissimo esempio di come passare dallo
stile descrittivo a quello narrativo, come ho ricordato parlando della evangelizzazione.
Giovanni vuole riportare la comunità ecclesiale allo spessore autentico dell'Eucaristia: Gesù sacrifica la sua vita perché tutti abbiano la vita e chiede ai suoi discepoli di continuare lo stesso
gesto. Sembra sostituire il simbolo del pane a quello più provocante della lavanda dei piedi,
proprio per sollecitare all'evento che dà sostanza all'Eucaristia: la croce.
Paolo grida la sua minaccia, nel nome del pane della vita, perché si rivolge a cristiani intorpiditi,
consegnati al loro egoismo mentre celebrano il sacramento dell'amore e della condivisione.
Un cenno indiretto, sulla stessa logica, lo offre anche Giacomo: "Supponiamo che entri in una
vostra adunanza qualcuno con un anello d'oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche
un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite:
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Tu siediti qui comodamente, e al povero dite: Tu mettiti in piedi lì, oppure: Siediti qui ai piedi
del mio sgabello, non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?"
(Giac. 2, 1-4).
Tra evento, segno e qualità della vita
I testi scritturistici, appena meditati, indicano che la celebrazione dell'Eucaristia, secondo l'invito di Gesù e la prassi della comunità apostolica, si realizza pienamente solo quando si intrecciano tre elementi: l'evento di Gesù che sacrifica la sua vita come gesto assoluto di amore, l'insieme di gesti di carattere simbolico, che servono ad anticipare e a ricordare questo evento (il
pane e il vino, la lavanda dei piedi), lo stile della vita concreta e quotidiana dei cristiani, impegnati a celebrare l'Eucaristia (la condivisione del pane, il superamento delle discriminazioni...).
Se è dimenticato uno di questi tre elementi, la celebrazione diventa un rito vuoto, privo della
sua forza salvifica o, peggio, il pane della vita si trasforma in un pane di morte, come ricorda
Paolo. La realtà (quella che riguarda Gesù di Nazareth e quella che riguarda i cristiani che celebrano il sacramento) irrompe quindi nel rito sacramentale come una specie di condizione di verità.
Paolo chiama "pane di morte" il pane della vita consumato senza nessuna disponibilità alla
condivisione. Giacomo usa espressioni molto dure nei riguardi di quella comunità eucaristica
che non si preoccupa affatto di superare i modelli razzisti e vessatori nei confronti dei poveri. I
due testi sottolineano con chiarezza il motivo: un modo di essere e di fare che purtroppo allontana il senso profondo della morte e resurrezione di Gesù, anche se il gesto simbolico vorrebbe
ricordarlo.
Qualche linea d’azione
Ho suggerito alcuni punti di riferimento. Li considero molto decisivi per rispondere alla questione che mi sta a cuore: come aiutare tutti i discepoli di Gesù a riscoprire il dono
dell’Eucaristia tra passato presente e futuro?
Certamente la riflessione potrebbe diventare molto lunga. È facile costatare che la questione, in
qualche modo, investe un progetto di educazione alla fede. Non è questo il contesto per affrontarla. Sottolineo solo qualche aspetto.
Chi ha letto con attenzione le pagine che precedono, facilmente scopre che stanno ritornando
le stesse preoccupazioni e la stessa logica che ha orientato il mio modo di comprendere come
vivere la fede nella vita quotidiana. Le cose non potrebbero che funzionare così, dal momento
che l’Eucarestia è l’evento che ci permette di vivere nella vita quotidiana la qualità radicalmente
nuova e originale dei discepoli di Gesù, dunque la fede. Fede e Eucarestia si richiamano e si sostengono reciprocamente. Solo chi vive di fede la sua vita quotidiana, vive intensamente e autenticamente l’Eucarestia. Ma la fatica di vivere l’Eucarestia come un pezzo di futuro nel tempo
duro della necessità quotidiana, è la condizione che restituisce serietà e autenticità alla vita nella
fede.
In cammino verso la verità dell'evento
La celebrazione dell’Eucaristia richiede attenzione all'evento celebrato. Solo nella luce dell'evento, di cui è segno, può essere compresa e vissuta come avvenimento salvifico.
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La celebrazione non è riuscita quando le persone sono contente, tutto è andato bene, la nostra
capacità organizzativa ha trionfato... E' autentica quando abbiamo incontrato Dio in mezzo a
noi, per la nostra vita e la nostra speranza.
Quest'esigenza va affermata con forza e verificata con attenzione oggi soprattutto, in questa
stagione culturale in cui la preziosa riscoperta della soggettività sta minacciando la capacità di
confronto e l’accoglienza di qualcosa che supera ogni soggettività, la misura e la ridimensiona.
Per celebrare l’Eucaristia in verità e per educare ad una piena celebrazione, siamo sollecitati ad
immergere la nostra vita in questo mistero.
Questo è il punto critico fondamentale del processo di riscoperta vitale dell’evento.
L’Eucaristia è memoria, attualizzata e impegnativa, della Pasqua del Crocifisso risorto. Essa è
pasqua quotidiana perché consegna la nostra ricerca di senso, di vita, di felicità alla prospettiva
sconvolgente della morte di Gesù, accolta come gesto supremo di amore, come condizione
fondamentale per la vita.
“Fate questo in memoria di me”, come ho ricordato analizzando i racconti della Cena, è prima
di tutto invito a fidarsi tanto del mistero di Dio da consegnare la propria vita perché tutti abbiano vita in pienezza.
L’Eucaristia pone davanti alla nostra presunzione e alla nostra pretesa di potenza la raccomandazione di Gesù: “Quando avete fatto tutto quello che vi è stato comandato, dite: Siamo soltanto servitori. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare” (Lc. 17, 10).
Non possiamo certo pensare alla morte di Gesù come al pagamento di un riscatto sproporzionato. La dobbiamo invece scoprire come il segno eloquente della signoria di Dio sulla vita: nella
morte, per la sua potenza vittoriosa, il chicco di frumento sepolto sotto la terra, matura in spiga
turgida di vita.
La memoria di queste evento prodigioso è sempre memoria efficace. Non è né semplice invito
né raccomandazione. E’ constatazione: per questo la memoria è celebrazione di fatti, che ci riguardano direttamente e ci coinvolgono. Per la potenza di Dio, contro ogni logica, il Crocifisso
è risorto e la vita, in lui e per noi, trionfa sulla morte.
Facciamo memoria per costruire la speranza sul fondamento certo della pasqua di Gesù e per
ritrovare il coraggio di aggiungere anche la nostra quotidiana esistenza alla lunga schiera dei
martiri, come Gesù “soltanto servi” per la vita di tutti.
La realtà: la qualità della nostra vita
Il sacramento non ricorda solamente il mistero di Dio, fondamento della nostra vita e della nostra speranza. Nel segno sacramentale rilancia verso la nostra stessa vita quotidiana: la possiamo
celebrare nell'evento, solo se essa è segnata, almeno in modo germinale, da qualcosa che è già
nella sua stessa logica (o tende almeno verso questa stessa logica). Solo così il segno è davvero
espressivo: capace di esprimere quella salvezza che dall'evento investe la nostra esistenza e la fa
nuova.
Non basta, di sicuro, analizzare le componenti culturali del segno, come se fosse sufficiente conoscerne la storia, l'uso e il senso per vivere intensamente l'evento. Neppure è sufficiente cercare segni eloquenti e significativi, capaci di esprimere la realtà dell'evento senza richiedere lunghe
spiegazioni e commenti. L'impegno educativo va condotto, con decisione, nella direzione della
realtà della vita quotidiana. L'educazione al segno e al suo significato ci aiuta a definire meglio la
qualità della vita da ricostruire e consolidare.
Questo è un compito educativo molto impegnativo. Qualche esempio l’ho fatto nelle pagine
precedenti.
Questo è il contesto per richiamare, ricordare, verificare.
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Ricostruire una capacità celebrativa
L’Eucaristia ci offre il dono di Dio che salva in una forma tutta speciale. Non è una proposta
come quelle cui siamo abituati. Lì le cose ci sono offerte, avvolte di fronzoli colorati e illuminate da fasci di luce seducente. Si tratta di vincere resistenze e concorrenze, facendo convergere
sulla proposta attenzione e interesse. Nell’Eucaristia il processo è molto diverso. La proposta
della salvezza di Dio si fa presente nella trama complessa dei segni ecclesiali, in un gioco che ripete la logica fondamentale della presenza di Dio e della sua rivelazione, manifestazione e nascondimento nello stesso tempo.
Il terzo compito, cui è impegnato chi vuole educare all’Eucaristia, riguarda, di conseguenza, la
qualità del gesto che stiamo compiendo. Si tratta di restituire ai segni utilizzati la piena funzione
celebrativa e di restituire alle persone la capacità di celebrare secondo le modalità che il significato del sacramento eucaristico esige.
L’Eucaristia esprime una realtà "dentro" sistemi simbolici che ci vengono da lontano e che assicurano una reale solidarietà tra tutti gli uomini.
Purtroppo, siamo diventati tutti, un poco alla volta, persone che hanno perso la consapevolezza
dello spessore di molti segni che ci vengono da lontano.
Pensiamo, per esempio, a quelli più intensi e frequenti, anche nelle celebrazioni eucaristiche: il
pane, l'acqua, i rapporti interpersonali, l'abbraccio, la luce... Abbiamo un enorme bisogno di restituire storia e spessore ai simboli che utilizziamo.
Una conclusione che ci riporta alla questione fondamentale
Non siamo discepoli di Gesù, che vivono la loro fede nella vita quotidiana, solo perché ci impegniamo in una prassi promozionale e liberatrice e neppure perché raccontiamo la storia di
Gesù per la vita degli uomini.
Siamo cristiani davvero “solo se ci decidiamo ad adorare Dio nella sua assolutezza; solo se cerchiamo di amarlo con un ardire in apparenza del tutto sproporzionato alle nostre forze; se ammutoliti, capitoliamo di fronte alla sua incomprensibilità e accettiamo tale capitolazione della
conoscenza e della vita come l'evento della massima libertà e della salvezza eterna” (K. Rahner).
Riconosciamo Dio radicalmente diverso da tutte le altre realtà che fanno la nostra terra. Non è
uno dei tanti nostri interlocutori. E neppure è quell'ultima risorsa che serve a pareggiare i bilanci in situazione di crisi. Solo lui è la realtà vera. Di fronte a lui diventa irreale tutto quello che
consideriamo come realtà salda e consistente.
Egli è il grande sogno di futuro, mistero incomprensibile e sempre presente, che tutto sorregge
e orienta, proprio mentre tutto relativizza.
Ci dà la parola. E ci sprofonda nel silenzio, dove le parole non bastano più.
Veniamo da una radice che non abbiamo seminato; pellegriniamo lungo una strada che sfocia
nell'incomprensibile libertà di Dio; siamo protesi tra cielo e terra e non abbiamo né il diritto né
la possibilità di rinunciare a nessuno dei due dati. Non sappiamo neppure, in modo assolutamente certo, come la nostra libertà stia concretamente orientandosi nel gioco della nostra esistenza.
L'esistenza del cristiano è perciò un salto nell'abisso sconfinato di Dio. La sua fede è praticabile
e sensata solo mediante quel fondamento che non possiamo comprendere né manipolare.
Per questo, il cristiano vive il suo smarrimento quotidiano come un passo obbligato per avvicinarsi al santo mistero di Dio.
Cammina verso la solitudine inesorabile della morte, confessando, con speranza trepidante, la
certezza di poter affrontare questo mistero di solitudine nell'abbraccio di Dio.
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Quando si abbandona al suo Dio, il cristiano non si getta mai alle spalle la vita di tutti i giorni.
Supera la sua vita per consegnarsi al mistero che la sovrasta; e la prende continuamente con sé
nel movimento della sua speranza.
Spera in Dio e ama la sua terra.
Appassionato della vita, la vuole piena e abbondante per tutti.
E' impegnato in prima linea nel compito, duro ed esaltante, di dare un senso alle vicende della
storia quotidiana, per renderla dimora, accogliente e abitabile, per tutti gli uomini.
Ha però una grande, insaziabile nostalgia di casa. Gli cresce dentro, tutte le volte che riesce ad
anticipare «come in uno specchio» quell'incontro «a faccia a faccia» con Dio, la ragione decisiva
della sua esistenza.
La nostalgia dell'incontro con Dio spinge a ricercare momenti di contemplazione gratuita. Costringe a dare un posto rilevante nella vita ai segni che esprimono, in modo più evocativo, questa sconvolgente «presenza».
Il cristiano vive nell'oggi, tutto proteso verso l'oltre della casa del Padre, in nome di quell'appuntamento con il Regno, unico approdo di perfezione piena e definitiva, quando l'incontro
con Dio in Gesù Cristo per lo Spirito, superati i veli della sacramentalità, esploderà in tutta la
sua luminosità.
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Cap. nono
POSSO FIDARMI?
Il cammino percorso assieme finora non so se ha risolto problemi. Di sicuro ha spalancato
molti interrogativi. Basta pensare ad una delle ultime questioni affrontate.
Ho affermato, in termini perentori, che la fede si confronta con la vita quotidiana sul piano del
senso e del futuro.
Qualcuno dice: il senso è mio e guai a chi me lo tocca.
Qualche altro afferma che quella del senso è una questione vuota. Dobbiamo rassegnarci a vivere su sensi poveri, fragili, personali e solo puntuali. L’ospite inquietante del nichilismo butta
fuori campo questo e simili interrogativi…
E poi… chi governa il confronto tra vita e senso. I conflitti non mancano e le incertezze ci avvolgono come la nebbia in una giornata invernale. Posso bussare alla porta di qualche saggio
che, tra una battuta e l’altra, rimetta in ordine la confusione che mi inquieta dentro?
A questo punto, le persone serie si pongono una pregiudiziale: chi ha ragione? Si può dividere
tra torto e ragione?
Un poco di crisi non guasta mai
Il lettore che ha fatto strada con me fino a questo punto, ha diritto di intravvedere almeno la
mia prospettiva, visto che, dopo aver fatto un poco di strada assieme, ora si spalanca, inesorabile, un bivio.
Possiamo fidarci?
Senza un patto di reciproca fiducia non possiamo procedere assieme, scambiandoci amichevolmente frammenti di vissuto.
E’ doveroso… ma c’è un limite, almeno da parte mia.
L’ho già ricordato: nell’ambito della fede il confronto non può avvenire a fil di fredda logica. La
fede riguarda l’esperienza della vita e sul terreno dell’esperienze di vita ci si confronta… scambiandosi esperienze. Può sembrare strano. Ma non conosco alternative serie.
La serietà e la forza di convincimento sta nell’autorevolezza delle esperienze scambiate. Per
questo, metto – apparentemente – in secondo piano le mie e mi rifaccio a quelle dei discepoli di
Gesù. Sono come le mie e le tue. Ma hanno, in qualche modo, la firma di Gesù e della passione,
convincente fino al sangue, dei protagonisti.
Ringraziamo Tommaso
La morte violenta di Gesù aveva messo in crisi tutti i suoi discepoli, chi più e chi meno. Qualcuno aveva fatto le valigie e si era messo in viaggio verso il paese: visto che l’avventura era finita
nel peggiore dei modi, l’unica possibilità era quella di riprendere il ritmo di sempre, al massico
con un pizzico di nostalgia in più.
A qualche altro era persino mancato il coraggio di un gesto del genere. Aveva paura di finire tra
le risate generali, lui che aveva guardato tutti dall’alto in basso il giorno in cui era partito per seguire Gesù.
Non pochi erano rimasti a Gerusalemme, spaventati a morte… Da giorni non uscivano di casa
nella speranza che il passare del tempo facesse tornare la calma.
Poi qualcosa era cambiato, all’improvviso.
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Prima qualche voce, accolta con parecchio scetticismo. Poi notizie che si rincorrevano come i
lampi in un temporale d’estate.
Ogni tanto qualcuno bussava con forza al rifugio dei discepoli: “Abbiamo visto il Signore. E’
vivo, proprio come aveva promesso… Vi ricordate quel giorno in cui l’abbiamo guardato come
se gli avesse dato di volta la testa. Diceva: ammazzatemi pure… non pensate però di vincere. Io
mi consegno alla morte, di mia spontanea iniziativa; e poi non è finita: il Padre mi restituirà la
vita. Allora non gli avevamo creduto molto. Ci dispiaceva solo sentirlo parlare di morte…
Adesso, i fatti sono dalla sua parte. E’ apparso, glorioso. E’ davvero risorto”.
“Sei sicuro?”. “L’ho visto con i miei occhi. Ha parlato con me”.
La fiducia stava tornando. Incominciavano a domandarsi: “Allora… che facciamo?”.
Anche quella sera, la domanda era rimbalzata in primo piano: “Che facciamo?”. All’improvviso,
senza bussare e senza farsi aprire la porta, Gesù è in mezzo a loro. C’erano tutti: “Eccomi. Sono con voi, vivo. Ho vinto la morte per sempre. Ripensate alle cose condivise assieme. Ora è
tempo di realizzare quello che abbiamo progettato. Andate, lasciate Gerusalemme: mettevi in
viaggio verso i quattro angoli del mondo”.
C’erano tutti… eccetto uno: mancava Tommaso. Torna qualche ora dopo. Gli raccontano con
foga l’accaduto. Le voci si intrecciano. Non servono le raccomandazioni del povero Tommaso:
“Calma, uno alla volta. Cosa è successo? Cosa ha detto? Siete sicuri che fosse davvero Gesù?”.
Non lo convincono. Tommaso conclude, deciso: “Voglio vederlo io di persona. Anzi… non mi
fido neppure degli occhi. Lo voglio toccare. Se è proprio lui, voglio vedere le sue ferite”.
Il discorso era finito così. Nessuno aveva insistito. “E se avesse ragione Tommaso?”. Spunta
ancora qualche dubbio: “Non possiamo rischiare un’altra volta… La pretesa di Gesù è alta: andate in giro per il mondo a predicare il regno di Dio. Chi ci ascolterà? Ci chiederanno qualche
prova. E noi… come la mettiamo?”.
Una sera, all’improvviso come la volta precedente, Gesù ricompare tra i suoi discepoli. Questa
volta c’è anche Tommaso. Ci sono davvero tutti.
Gesù va dritto da Tommaso. “Tommaso, salve! Non hai tutti i torti a cercare delle prove… Ecco, guarda… vedi le cicatrici delle mie ferite. Sono proprio io: il condannato a morte risorto per
la potenza di Dio. Coraggio, metti la tua mano sul mio costato… Sei convinto ora?”.
Tommaso scoppia in pianto. S’accorge d’aver sbagliato davvero tutto. Gesù non l’ha rimproverato. Gli ha persino dato ragione. Il bello di Gesù è proprio questo: ti dà ragione; ti butta le
braccia al collo come se tu fossi il più bravo di tutti… e poi ti senti sconvolto dentro, con una
voglia di cambiare vita che toglie il respiro.
Tommaso ripensa a tanti incontri di cui era stato spettatore. Spesso non gli erano andati proprio giù. Se fosse dipeso da lui… Si ricorda di quella volta in cui Gesù si fa invitare a pranzo da
un peccatore incallito dello stampo di Zaccheo. E Zaccheo scopre tutti i suoi errori e cambia
vita in modo radicale. Lo stesso aveva fatto con la donna peccatrice, trascinata ai suoi piedi per
essere uccisa a colpi di pietra. Gesù la tratta bene: mette in crisi i suoi accusatori e la solleva in
piedi, per guardarla dritta negli occhi. E quella donna scopre il vuoto della sua esistenza e si trasforma. Adesso si mette anche lui dalla parte di quelli che aveva giudicato. Come loro, scoppia
dalla voglia di cambiare modo di pensare e di vivere.
Tommaso non azzarda nessun gesto. Non ne ha più bisogno. Grida, in uno slancio che lascia
tutti di stucco: “Signore, Dio mio. Grazie, Gesù: ti benedico e ti adoro. Credo in te con tutta la
mia vita. Mi affido a te”.
Gesù gli sorride: “Bravo, Tommaso: questo vuol dire credere. Vedi: bisogna credere nel rischio
di chi si affida ad un mistero grande e si consegna in un vortice di amore. Tu cercavi dei segni.
Te li ho dati. Dubito però che siano stati questi a convincerti. La fede è una cosa diversa: non è
certo il risultato dei segni”.
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“Vale per tutti”, insiste Gesù, “Questa è la fede che chiedo ai miei discepoli: fidarsi tanto di Dio
da affidarsi a lui totalmente, come un bambino nella braccia della mamma. Certo, Dio è mistero
grande: per questo la fiducia in lui è sempre un poco rischiosa.
Volete un paragone… pensate ad un tipo che si trovi sull’orlo di un precipizio e vuole gettarsi
di sotto. Sa che un amico l’aspetta, pronto ad afferrarlo. Tante volte l’ha già sperimentato; ma
ogni volta è come se fosse la prima. E se qualcosa non andasse bene e al posto delle braccia accoglienti ci fosse qualche spuntone di roccia?”.
I discepoli restano senza parole. Gesù ha colto nel segno. Loro era abituati ad una logica diversa. Per loro, come per ogni buon ebreo, fidarsi di Dio significava affidarsi ad una mano potente… pronta a sbaragliare i nemici.
Il loro pensiero correva spontaneo a Mosé. Dio l’invita a parlare a suo nome e, per fargli coraggio, gli mette tra le mani una lunga serie di segni potenti: il bastone, trasformato in serpente,
che divora i serpenti degli altri maghi, l’acqua che scaturisce dalla roccia, il mare diviso in due
per permettere il passaggio del suo popolo.
Pensavano ad Elia che sfida i sacerdoti di Baal. Li prende in giro, li vince e li distrugge con lo
stesso fuoco che ha consumato il sacrificio.
E adesso… Gesù propone un modo di fare diversissimo.
Ripensano all’invito sincero del centurione ai piedi della croce: “Se sei il figlio di Dio, scendi
dalla croce e ti crediamo”. Si aspettavano un gesto prodigioso, da lasciare tutti a bocca aperta. E
invece Gesù era rimasto fermo sulla croce, sconfitto dalla malvagità degli uomini che aveva
amato e servito.
La crisi era incominciata proprio quella volta: “Possibile? Era l’occasione buona, forse l’ultima,
per far capire da che parte stava la ragione. Se fosse dipeso da noi… ”.
Invece Gesù tira fuori la storia del credere senza cercare dei segni. Non mette la ragione dalla
parte della forza ma da quella della sconfitta. Si lascia uccidere sulla croce per mostrare che lui è
veramente il figlio di Dio. Dove siamo?
L’invito di Gesù li ha proprio scioccati. Ne riparlano spesso. Vogliono capirci un po’ meglio.
Un giorno, tra loro, c’era anche Maria, la mamma di Gesù. “Che ne dici, Maria? Dobbiamo
davvero imparare a credere senza pretendere nessun segno?”.
Maria non esita neppure un attimo. “Certo… questo è l’unico modo di vivere nella fede. Ci sono passata anch’io. Anch’io ha faticato molto a convincermene. Ma non c’è davvero altra strada… Gesù l’ha ripetuto continuamente”.
E racconta: “Voi non c’eravate ancora… Abitavo a Nazareth, tranquilla e senza grossi progetti.
Un angelo di Dio mi ha chiesto se ero disponibile a diventare la madre di Gesù. Sono caduta
dal cielo… io la madre di Dio… io che, tra l’altro, avevo deciso di non sposarmi. L’angelo mi
ha detto: Fidati di Dio. Non ho capito nulla. Ho risposto però: D’accordo… mi fido. Sono la
serva del Signore. Così è nato Gesù”.
I discepoli restano incantati. Maria continua: “Poco dopo la nascita di Gesù, l’ho portato al
tempio per la purificazione. Sapete cosa mi è capitato? Un vecchio ha preso Gesù in braccio e
ha detto cose stranissime su di lui. Riguardavano me e lui: Gesù è segno di contraddizione…
una spada trafiggerà la mia esistenza. L’ho capito molto più tardi, un poco alla volta. Solo ai
piedi della croce è diventato tutto chiarissimo. Quel giorno però ho presentato a Dio la mia fiducia in lui. L’ho fatto alla cieca… saltando nell’abisso del mistero”.
Affidarsi: un modo strano di produrre prove
In ogni gesto della nostra vita ci ritroviamo di fronte ad una alternativa molto seria: comprendere le cose solo alla luce di quello che riusciamo a decifrare, nell'esercizio sapiente della nostra
ricerca; oppure riconoscere che la loro verità è più profonda e più intima, le pervade tutte dal
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mistero di una presenza che confessiamo in un gioco appassionato di fantasia, di rischio calcolato, di esperienza di amore.
Il cristiano accoglie il mistero come fondamento della sua esistenza. Nella fede sceglie di affidarsi totalmente a Dio, anche quando nutre il sospetto doloroso che ad attenderlo, invece di
braccia accoglienti, ci siano soltanto nude rocce.
Riconosce nell'incontro personale con Gesù Cristo, vissuto nella comunità ecclesiale, la radice
della sua fede. Ma sa che si tratta di un incontro, originale e speciale, diverso da tutti gli altri incontri che punteggiano il ritmo quotidiano della nostra esistenza.
Non si tratta certo di capire le cose per conoscerne meglio gli ingranaggi. Comprenderle, in
questo caso, è vivere. Per questo l'alternativa risulta drammatica: consegnare a Dio la ricerca
della propria sicurezza o assumersene personalmente il carico?
Vivere di fede è un rischio e una scommessa. Una lettura di fede della realtà rappresenta sempre
il coraggio di abbandonare la propria presunzione nell'abbraccio imprevedibile di Dio.
Vivere nella fede non è quindi accettare qualcosa, ma accettare Qualcuno, rinunciare ad abitare
noi stessi in un geloso possesso, per lasciarsi abitare da Dio.
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