Hic manebimus optime (IV°)

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Hic manebimus optime (IV°)
Il Fortino del Welfare
7/2011
Benvenuti a bordo del Britannia
“Illustrissimi Mario Draghi (Direttore Generale del Tesoro),
Innocenzo Cipolletta (Confindustria), Riccardo Gallo (IRI),
Gabriele Cagliari (ENI), Attilio Pedone (Crediop), Giovanni
Bazoli (Banco Ambroveneto), Lorenzo Pallesi (INA), Nino
Andreatta (Ministro del Tesoro, Jeremy Seddon (Barclay's),
Herman van der Wick (Banca Warbug), Peter Baring (Banca
Baring), George Soros (Soros - Quantum Fund) … [seguono i nomi
di un altro centinaio di invitati, manager e personalità tra le quali si è
scritto - non ci sono conferme ufficiali, ma neppure smentite - anche
Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini e Giulio Tremonti],
il Maestro della Casa Reale ha avuto ordine dalla Regina di invitarla a bordo dello Yacht di Sua
Maestà Britannia il giorno 2 giugno 1992 per un seminario sulle privatizzazioni in Italia organizzato
dalla società “The Invisibles” che si terrà al largo delle coste italiane dell'Argentario”.
Potrebbe sembrare uno scherzo ma non lo è, perché il tutto è noto ed è stato documentato in passato,
soprattutto dal Corriere della Sera e il mese scorso ripescato anche da la Repubblica e da Il Sole 24 Ore
ma solo davanti al desiderio di Tremonti di reiterare nel 2012 le già fallite procedure di cartolarizzazione
e stavolta per “soli” 25/30 miliardi di euro (argomento che abbiamo già trattato nei precedenti capitoli).
È invece un fatto che il 2 giugno 1992 viene ricordato da qualcuno non tanto come “la festa della
Repubblica”, quella per intenderci dell'anno di avvio di Mani pulite (17 febbraio) e dell'indignazione
popolare contro l'attentato mortale al giudice Falcone, alla moglie e alla sua scorta (23 maggio), ma
piuttosto come “la festa alla Repubblica”, nel senso che qualcuno quel giorno sul Britannia diede inizio
alla colossale opera di liquidazione e spartizione dei pezzi forti del patrimonio industriale e bancario
italiano sotto l'egida, più che interessata, della finanza inglese supportata dagli amici banchieri d'oltre
oceano oltre che dal Fondo Monetario Internazionale (tant'è che al termine della grande abbuffata il
48,34% del nostro patrimonio andò agli americani e il 14% alla “perfida Albione”).
Il 1992 segnava un momento difficile per la lira sulla cui svalutazione puntava la speculazione internazionale
(ben rappresentata dalla presenza di Soros sul Britannia) e le “privatizzazioni”, ossia la liquidazione e la
spartizione del patrimonio del nostro Paese, sarebbero state secondo qualcuno la cura ideale per affrontarla,
pena il rischio “di non entrare in Europa”. Come ovvio in questi casi, alla finanza emergente sarebbero andati
tutti i benefici, agli italiani la socializzazione delle perdite e alla classe politica, seppur già bollata come
corrotta e inefficiente, il merito del risanamento.
A Giuliano Amato infatti, nonostante fosse responsabile con il suo partito della crescita
esponenziale del debito pubblico che dal 1983 al 1987 passò da 400 mila a 1 milione di miliardi di lire e
dal 70% al 92% in rapporto al PIL (e non certamente a vantaggio della spesa sociale visto che nel 1985 la
spesa primaria segnava un secco meno 8%), il 28 giugno di quell'anno venne assegnato il compito di
formare un governo di “salute pubblica” che in settembre regalò agli italiani la stangata da 92.000 miliardi di
lire, il prelievo forzoso del 6x1000 sui conti correnti, la svalutazione del 30% della lira e l'uscita dallo SME: la
Banca d'Italia nel tentare il salvataggio della lira bruciò 48 miliardi di dollari ma alcuni ospiti del Britannia si
presentarono poi al mercatino dell'usato rilevando d'un botto le nostre migliori proprietà con il 30% di sconto.
Sulla vicenda del Britannia al tempo non si è scritto né indagato molto e soltanto negli ultimi anni è
uscito qualche commento (peraltro scopiazzato qua e là), è stata fatta la solita dietrologia ed è pure
uscita la leggenda metropolitana, messa in circolazione dagli ultimi irriducibili socialisti che avevano
vissuto una seconda vita nei vari governi Berlusconi (Brunetta, Sacconi, Tremonti, Frattini, Boniver,
Cicchitto e Stefania Craxi) e subito ripresa dai nostalgici della “Milano da bere”, di un presunto complotto
ordito niente di meno che dal Duca di Edimburgo che avrebbe pagato Mani Pulite e l'organizzazione
Transparency International per un disegno ai danni della classe politica italiana e finalizzato in particolare
a spazzare via il partito socialista dalla scena politica europea perché reo di avere combattuto lo
strapotere dei “poteri forti” e in particolare quello delle lobby finanziarie dell'odiata Inghilterra.
Sull'organizzazione dell'inedito “seminario” è stato poi scritto del ruolo della massoneria (tesi che ci trova
d'accordo), dell'intuizione della mafia a “finanziarizzarsi” e quindi del suo interesse a partecipare alla
spartizione della torta (siamo d'accordo anche su questo, vista l'annunciata fine di Falcone e soprattutto
quella di Borsellino del 19 luglio 1992) e del fatto che Draghi dovesse essere lasciato fuori dai sospetti di
conflitto d'interesse nelle spartizioni in quanto si sarebbe fermato per poco sul Britannia (il che è vero nella
forma ma non nella sostanza, perché non va dimenticato l'enorme potere da lui rappresentato di cui
scriveremo più avanti); tuttavia ancora oggi, a vent'anni di distanza, dei veri organizzatori e delle “reali”
ragioni che hanno portato a quella nobile e potente imbarcata non ne sappiamo praticamente nulla.
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Eppure la questione è importante (ripensiamo ai moniti europei di insistere sulle liberalizzazioni e sulle
privatizzazioni) e liquidarla come ha fatto Il Sole 24 Ore del 13 settembre scorso con la battuta del “Britannia
2” su Tremonti, non è serio e anzi non fa che alimentare sospetti ancora più gravi. Noi, partendo da una
premessa e da alcuni fatti, incontestabili, preferiamo riassumerla in un modo diverso e che ci farà anche da
ponte con il capitolo successivo sulla corruzione che si sta letteralmente divorando l'Italia:
1. È per lo meno singolare che oltre 100 manager pubblici e privati, esponenti politici e uomini di Stato
siano stati invitati tutti insieme dalla società “The Invisibles” a un appuntamento internazionale semisegreto da tenersi “in territorio inglese”, sullo yacht della Regina del Regno Unito, i cui affaristi
avevano fortissimi interessi economici connessi all'oggetto dell'incontro che ripetiamo era la
privatizzazione dei pezzi forti dell'industria e del credito dello Stato italiano, IRI inclusa;
2. Romano Prodi è stato indicato tra i presenti all'incontro sul Britannia;
3. Prodi è stato Presidente dell'IRI dal 1982 al 1989 e la sua consulenza è stata poi apprezzata e pagata
dalla Goldman Sachs che con una lettera del 2003 ne ha riconosciuto l'importanza per “la conoscenza
di IRI e del suo management" confermando che “da marzo 1990 il senior adviser italiano era il
Professore Romano Prodi”;
4. Anche Mario Draghi era presente all'incontro e per qualcuno ha pure tenuto la relazione introduttiva e
per altri ha solo partecipato al brindisi iniziale, dopo di che, le fonti in questo sono concordi, è sceso dal
transatlantico reale prima che questo prendesse il largo con il resto degli invitati visibili e “invisibili”;
5. Draghi è stato membro del consiglio di amministrazione di diverse banche e società (ENI, IRI, BNL e
IMI) e nel 1991 è stato nominato Direttore generale del Ministero del Tesoro (incarico mantenuto fino
al 2001 nonostante l'avvicendamento di almeno 8 Presidenti del Consiglio); dal 1993 al 2001 è stato
anche Presidente del Comitato Privatizzazioni e dal gennaio 2002 è entrato in Goldman Sachs come
partner, Vice Presidente e Amministratore Delegato; dal 2006 è stato Governatore della Banca d'Italia
e dal 1° novembre 2011 è il nuovo Presidente della Banca Centrale Europea.
Chiariamo che per il fatto d'essere stati dei fedeli e produttivi merchant servant, non significa che Prodi e
Draghi abbiano commesso un qualche reato (almeno tra quelli previsti come tali) e tuttavia il prurito è
grande nel pensare alla possibile commistione di interessi che la mole di privatizzazioni ha generato.
Mario Draghi è stato a tutti gli effetti l'autore delle privatizzazioni, come ideatore e legislatore; fu lui stesso
infatti, un “tecnico”, a rivendicare il suo decisionismo legislativo con la battuta, pericolosa, sull'Italia:
“Qual'era la capacità di produrre leggi che aveva quello Stato, nel ’92-’93? Avremmo aspettato
all’infinito!” (Corriere della Sera 30 marzo 2001). Quindi, se si vuole capire cosa si intenda per “poteri
forti”, bene, si dia uno sguardo al curriculum di Draghi e si avrà la risposta desiderata.
Ma quello che a noi preme maggiormente è appurare se le operazioni hanno condotto all'utile sperato
per ridurre il tanto famigerato debito pubblico e consentito di trovare nuove risorse per finanziare le
politiche sociali e così avvicinarci ai parametri degli Paesi europei maggiormente industrializzati perché è
forte invece il sospetto che le privatizzazioni abbiano portato a incassi molto più bassi del valore reale
delle aziende cedute e che addirittura parte delle operazioni siano servite solo per trasformare i boiardi
di Stato in manager a seguito del passaggio di mano delle banche da pubbliche a private.
Ha scritto bene Leonardo Valle nel suo “Club privé” sulle privatizzazioni:
“In Italia, provare a tracciare un bilancio critico delle privatizzazioni è un po' come provare a mettere in
dubbio l'autenticità della Sacra Sindone. In effetti, se ci volgiamo indietro a guardare i magici anni
Novanta, possiamo osservare che su pochi temi si è registrato un consenso più totale che
sulla necessità economica, politica e financo morale delle privatizzazioni. Nella Trinità della
religione liberistica il feticcio delle “Privatizzazioni” occupa senz'altro un ruolo più importante delle
“Liberalizzazioni”, un ruolo comparabile soltanto a quello della “Flessibilità”. Criticarlo è tabù”.
Consci quindi del dispiacere che provocherà a qualcuno rispolverare l'argomento ma giusto per inquadrare la
dimensione della colossale liquidazione organizzata sul Britannia sotto i governi Amato I, Ciampi, Berlusconi I,
Dini, Prodi, D'Alema, Amato II e Berlusconi II (ma con la direzione attenta dell'onnipresente Draghi), questo è
quanto è stato privatizzato in Italia secondo lo studio della Confindustria del 15 giugno 2001:
“Tra il 1993 e i primi mesi del 2001 in Italia sono state effettuate cessioni al mercato di quote di
aziende pubbliche per circa 235.000 miliardi di lire (di cui circa 25.000 miliardi da indebitamento
trasferito). Le cessioni hanno riguardato importanti aziende di proprietà del Ministero del Tesoro
(Telecom, Seat, Ina, Imi, Eni, Enel, Mediocredito Centrale, Bnl), dell’Iri (Finmeccanica, Aeroporti
di Roma, Cofiri, Autostrade, Comit, Credit, Ilva, Stet), dell’Eni (Enichem, Saipem, Nuovo
Pignone), dell’Efim, degli altri enti a controllo pubblico (Istituto Bancario S. Paolo di Torino e
Banca Monte dei Paschi di Siena) e degli enti pubblici locali (Acea, Aem, Amga).
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Gli incassi delle operazioni effettuate dal Tesoro ammontano a circa 142.000 miliardi, quelli delle
cessioni effettuate dall’Iri a circa 68.000, quelle realizzate dall’Eni a 10.500, e a circa 14.000
miliardi gli incassi realizzati dall’Efim, dagli altri enti a controllo pubblico e dagli enti pubblici locali .
Le dismissioni effettuate corrispondono all’11,9% del Pil; un valore nel complesso paragonabile a
quanto è stato realizzato, in un diverso arco di tempo, dal Regno Unito (13,5%) e superiore alle
percentuali stimate rispettivamente in Spagna (8,6%), in Francia (7,8%) e in Germania (3,9%)” .
I settori toccati dalle privatizzazioni sono stati: il bancario-assicurativo (31,6%), le telecomunicazioni (33,2%), i
trasporti (13%), l'editoria (2,8%), l'alimentare (3,4%), il siderurgico (4,6%) e gli altri settori per l'11,5%.
Furono privatizzazioni redditizie o almeno congrue per lo Stato? Ai tempi anche su questo aspetto, tutt'altro
che trascurabile, si preferì non domandare troppo tali e tanti erano anche gli interessi trasversali in gioco.
Sempre con l'aiuto di Leonardo Valle proviamo allora a rispondere prendendo come esempio quanto
incassato dallo Stato per la cessione delle quote di alcune aziende del settore bancario-assicurativo rispetto
al valore borsistico delle stesse quote al termine al termine dell'operazione (valori 2001 in milioni di euro):
anno cessione
banca
1993
Credito Italiano (poi Unicredit)
1994-1995-1996
IMI (poi IMI-Sanpaolo)
1994
Comit (poi parte di Intesa-BCI)
1997
Banca di Roma
1997
quota ceduta
58%
ricavo lordo
valore 2001
quote cedute
930
15.424
62,4%
2.002
10.571
51,9%
1.493
10.774
36%
978
1.471
Banco di Napoli*
60%
32
---
1998
BNL
65%
3.922
3.199
1999
Medio Credito C.le
100%
2.036
(assente in borsa)
Ma al di là delle valutazioni borsistiche tutte opinabili in relazione agli andamenti e alle strategie dei
grandi gruppi finanziari, forse il caso più significativo è rappresentato dal Banco di Napoli che dopo
essere stato ceduto dal Tesoro nel 1997 alla cordata BNL-INA (aziende entrambe “privatizzande”) per
32 milioni di euro (subito all'indomani del via libera del Parlamento al piano di salvataggio dell'istituto
partenopeo, con denari pubblici, per 6.200 milioni di euro il cui recupero era stato affidato ad una “bad
bank” costituita ad hoc) è stato da questa rivenduto solo due anni dopo, nel 1999, all'IMI-Sanpaolo
(fusosi a sua volta nel 2006 nel gruppo Intesa) per 3.000 milioni di euro, cioè circa 100 volte il
ricavato dello Stato dalla sua cessione iniziale (cfr. Banco di Napoli, Wikipedia).
Inoltre, da tutti i ricavi vanno “sottratti i costi delle operazioni di privatizzazione, che includono: le
commissioni per i collocatori in borsa (banche che compongono il sindacato di collocamento e altri
consulenti), così come le spese di registration e listing sui mercati azionari (spese per adempimenti
CONSOB, SEC e altri adempimenti normativi). Questi costi sono andati scendendo nel corso degli anni, ma
si collocano comunque tra il 2% e il 3% 'sull’ammontare totale del ricavato' [Il Sole 24 Ore, 7 agosto
1998]. Una fetta consistente di questo denaro (circa l’1% sull’ammontare totale) è andato alle maggiori
investment banks anglosassoni (JP Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Credit Suisse First Boston,
Merrill Lynch, ecc.), per la loro attività di consulenza. Il tutto senza ovviamente rischiare in proprio neanche
un dollaro. E, meno ovviamente, senza dover neppure sostenere una gara pubblica per l’affidamento
dell’incarico. Ci sembra che guadagnare 2.200 miliardi di lire a queste condizioni sia una cosa decisamente
simpatica. Come stupirsi, quindi, del fatto che il prof. Mario Draghi, lasciato l’incarico di Direttore Generale
del Tesoro, abbia trovato rapidamente collocazione come direttore generale e vice presidente di Goldman
Sachs International? E che il 'vicedirettore generale del Tesoro con delega alle privatizzazioni', il professor
Vittorio Grilli, sia stato ancor più rapidamente assunto dal Credit Suisse?” (Leonardo Valle, ibidem).
La collaborazione dei cosiddetti “tecnici” con le banche d'affari, e in particolare con la Goldman Sachs, è
sempre stata accettata dal mondo politico. Dopo Romano Prodi, il 18 giugno 2007, non appena
Berlusconi è costretto a lasciare la Presidenza del Consiglio allo stesso Prodi, anche Gianni Letta viene
chiamato come consulente dell’Advisory Board internazionale della banca d'affari americana per “una
consulenza strategica sulle opportunità di business development, con un focus particolare sull’Italia” salvo poi
tornare l'8 maggio 2008 a fare il sottosegretario nel nuovo governo di Silvio Berlusconi.
L'alternanza di incarichi nella Goldman Sachs è sembrata andare di pari passo con quella dei governi della
nostra Repubblica delle banane.
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Perché mai Mario Draghi che, ripetiamo, dal 1993 al 2001 è stato tra l'altro Presidente del Comitato
Privatizzazioni, nel 2002 ha sentito il bisogno di accettare l'offerta di entrare come partner, Vice Presidente e
Amministratore Delegato in Goldman Sachs? Aveva la necessità di fare un corso d'aggiornamento, e su cosa? E
con quale bagaglio è tornato nel 2006 a dirigere la Banca d'Italia e poi da novembre 2011 la BCE?
È vero o no che Goldman Sachs oltre a svolgere il ruolo di consulente dello Stato acquisì l'intero patrimonio
immobiliare di ENI nell'ambito delle privatizzazioni?
E perché mai il Draghi-boy Vittorio Grilli che n el 1994 era al Ministero del Tesoro come Capo della
Direzione per le Privatizzazioni, nel 2000 ha lasciato l'incarico per passare, seppure brevemente, ad una
posizione dirigenziale in Credit Suisse First Boston (una posizione apicale del tutto simile a quella di
Draghi in Goldman Sachs) e nel 2002 è tornato di fretta al ministero come Ragioniere Generale dello
Stato e dal 2005 come Direttore Generale del Tesoro?
È vero o no che il Credit Suisse è stato uno dei consulenti dello Stato nell'ambito delle privatizzazioni?
Crediamo che questo diffuso andirivieni di tecnici dal cuore dello Stato ai vertici delle più potenti e discusse
banche d'affari internazionali, e soprattutto in concomitanza con importanti azioni finanziarie compiute o da
compiere, rappresenti il vero argomento da chiarire e al di là di qualsiasi ragione di carattere ideologico.
L'argomento va ben oltre il conflitto d'interessi delle persone in quanto chiama in gioco il destino
degli Stati sovrani, la loro indipendenza, la nostra indipendenza economica e dunque politica.
Perché oggi abbiamo un elemento ulteriore di novità e allo stesso tempo di continuità tra la Goldman Sachs
e i governi della nostra Repubblica e cioè un Mario Monti a capo del governo italiano in aggiunta all'altro
Mario Draghi a capo della BCE. Sappiamo che dal 2005 Monti siede in due comitati della potente banca
d'affari americana: “il primo è l'International advisory board europeo nel quale è stato chiamato a fornire
indicazioni strategiche sulle tematiche legate alla concorrenza, negli Stati Uniti invece è stato nominato
membro del Research Advisory Council, il think tank politico-economico riservato alle personalità
su cui Goldman fa perno per analizzare tendenze e prendere decisioni chiave” (Milano Finanza, 14
dicembre 2005). Tra queste decisioni chiave ci sarà stata anche quella da Monti appena assunta?
La vicenda del pizzino che qualche giorno fa Enrico Letta ha passato a Monti ha fatto poi scattare in noi la
molla di un'ulteriore piccola ricerca data la grande confidenza che il vice presidente del PD ha dimostrato di
possedere nei confronti del neo Presidente del Consiglio, e la ricerca non è stata vana.
Dal 2010 Monti è infatti presidente europeo della Commissione Trilaterale, un altro pensatoio
internazionale fondato da David Rockefeller e da altri guru come Henry Kissinger. Ebbene anche
Enrico Letta fa parte del pensatoio neo liberista a conferma delle tante anime di cui è composto il Partito
Democratico, anche se a molti sfuggono le credenziali (che noi invece crediamo di conoscere) che ne
hanno consentito la sua candidatura. Ecco qui sotto l'originale (giugno 2011) della loro iscrizione:
Altri nomi dell'Italia che conta fanno compagnia ai nostri due connazionali: John Elkann, Carlo Pesenti, Luigi
Ramponi, Carlo Secchi, Marco Tronchetti Provera e altri 10 tra cui, ancora per poco, Pier Francesco Guargaglini.
Per concludere, se è vero che il modello italiano delle privatizzazioni è dipeso in buona parte dall'esigenza di
“far cassa” in un contesto finanziario quale quello del 1992, è altrettanto vero che gli artefici politici di quelle
operazioni (Amato, Ciampi, Dini, Prodi, D'Alema) dimenticarono di far precedere le privatizzazioni dalle
liberalizzazioni ed evitare così la perpetuazione per via privata della precedente concentrazione pubblica.
Come si è potuto fin qui leggere, per l'Italia i conti tornano e malamente; come scritto in un poster
del 1984 dei sindacati inglesi contro le privatizzazioni della Thatcher, «if public it’s yours, if private it’s
theirs», che tradotto significa “se il debito è pubblico, allora è tuo; se il profitto è privato, invece è
loro”. Secondo Rita Martufi “a queste feroci critiche si è aggiunta anche l’autorevole voce
dell’editorialista dell’Economist che in un articolo del 22 Novembre 1986 ha scritto che il programma
di privatizzazioni del governo Thatcher sembrava «theft disguised as generosity»”, ossia un furto
travestito da generosità. Evidentemente il settimanale inglese dopo aver criticato 25 anni fa un
premier in gonnella ne ha poi messo nel mirino un altro, quello “utilizzatore finale” di gonnelle.
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