da Gli anonimi ei grandi maestri del xv secolo

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da Gli anonimi ei grandi maestri del xv secolo
Gli anonimi e i
grandi maestri del
xv secolo
da
di Jos Koldeweij
con la collaborazione di Alexandra Hermesdorf
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
in La pittura in Europa. La pittura nei Paesi Bassi, a
cura di Bert J. Meijer, vol. I, Electa, Milano 1997
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Indice
La pittura nel Quattrocento.
I primitivi Nederlandesi
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Gli sviluppi storico-artistici dal 1425 al 1500
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La pittura nel Quattrocento. I primitivi Nederlandesi
Gli sviluppi storico-artistici dal 1425 al 1500
Nella trattistica storica e storico-artistica si rilevano
fin dagli esordi, nell’Ottocento, due concezioni divergenti sulla cultura nederlandese del Quattrocento. Da un
lato questo periodo d’innegabile splendore viene definito come tardogotico e considerato come grandiosa
conclusione delle tradizioni medievali. Dall’altro si fa
riferimento a quest’epoca con il termine di Rinascimento nederlandese. Ciò che comunque appare evidente è che si tratta di un periodo di grande fioritura sul
limite di demarcazione tra il Medioevo e l’età moderna.
Tale rigoglio culturale si sviluppò nel contesto di una
società marcatamente urbana e costituisce il pendant
nordico del Rinascimento italiano. I fitti scambi commerciali nonché le frequenti relazioni culturali che questi scambi alimentarono nel Quattrocento tra le città
fiamminghe e quelle del nord Italia, bastano ad evidenziare come le spettacolari trasformazioni avvenute nelle
due regioni più prospere dell’occidente non possono
essere considerate fenomeni a sé stanti.
E tuttavia gli sviluppi in Italia sono di tutt’altro
carattere e assumono in modo più pronunciato la valenza di una “rinascita” o un “recupero” dell’antichità. A
nord, invece, prosegue l’evoluzione del Gotico internazionale, anche se il linguaggio delle forme si fa meno raf-
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finato e più realistico per quanto riguarda la resa del paesaggio, dello spazio, delle figure e dei dettagli, e va combinandosi con tematiche spesso permeate di forte emotività. Corte, nobiltà, clero e borghesia diventano i committenti di questo nuovo e apprezzatissimo linguaggio
formale, che conobbe una magnifica fioritura in particolare nella sfera d’influenza della corte borgognona e
che è consuetudine designare con il termine di pittura
nederlandese antica o delle origini; gli artisti attivi in
questo periodo vengono definiti primitivi nederlandesi
settentrionali e meridionali o meglio “primitivi fiamminghi”. Tuttavia, questa pittura di stampo realistico
era tutt’altro che primitiva nell’accezione riduttiva del
termine: tanto la tecnica pittorica quanto la padronanza dei materiali, l’iconografia, il linguaggio delle forme
e il simbolismo, il senso della realtà, ove questa era
ricercata, e il contenuto devozionale erano, anzi, oltremodo raffinati e raggiunsero dei livelli qualitativi notevoli. E sebbene si sia soliti parlare anche di “primitivi
tedeschi” e di “primitivi francesi” in riferimento agli sviluppi stilistici più o meno coevi nei paesi confinanti, è
davvero sorprendente la misura in cui da questa “nuova”
arte si evolva uno stile prettamente nederlandese, caratterizzato da un forte accento sul naturalismo e sul realismo. Questo stile peculiare si diffuse dapprima nei territori meridionali della regione considerata – Fiandre,
Hainaut e Brabante – per poi muovere verso nord, verso
l’Olanda.
La pittura nederlandese del Quattrocento si sviluppa lungo tre generazioni più o meno consecutive. Vista
in prospettiva, la prima generazione, i cui pittori più
significativi furono i fratelli Van Eyck, Robert Campin
e Rogier van der Weyden, fornì forse il contributo più
rilevante alla formazione di quei lineamenti tipici della
pittura nederlandese delle origini. Furono questi artisti
che, muovendo dal Gotico internazionale, posero le pre-
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messe per il seguente periodo di fioritura, durato grosso modo tre quarti di secolo e contraddistinto da un’elevata qualità sia tecnica che contenutistica e da una
forte unità stilistica, che però non era certo statica. La
produzione artistica è costantemente animata da un realismo idealizzato, di forte impronta religiosa e soprattutto innestato su una cultura borghese e cittadina, anziché nobiliare e clericale in senso conservativo. In questa fase ebbe un ruolo di assoluto rilievo, difficilmente
sopravvalutabile, l’opera di Jan van Eyck, sebbene anche
il suo geniale lavoro non possa essere considerato in
maniera isolata da quanto lo precedette e dal contesto
in cui si esplicò. Dopo aver lavorato tra l’altro per la
corte dell’Aia, Jan van Eyck andò a stabilirsi a Bruges.
La città divenne un centro importante, con Petrus Christus quale successore di Van Eyck, ospitando una tradizione che si protrarrà sino alla fine del Quattrocento.
Fino al 1440 circa ebbe un ruolo di primo piano Tournai, città in cui Rogier van der Weyden fece il suo
apprendistato presso Robert Campin prima di stabilirsi
a Bruxelles, dove si dispiegò la sua carriera.
Le figure di spicco della seconda generazione di pittori sono Hans Memling, Dirck Bouts e Hugo van der
Goes. Si noti che due di loro si recarono espressamente nelle Fiandre, Bouts infatti si trasferì a Lovanio dalla
nativa Haarlem, nell’Olanda settentrionale, e Memling
lasciò la tedesca Seligenstadt per andare a Bruges; Van
der Goes, invece, era nato e cresciuto a Bruges. Per l’Olanda della seconda metà del Quattrocento occorre citare Albert van Ouwater e Geertgen tot Sint Jans, entrambi attivi ad Haarlem. Intorno al 1450 ’s-Hertogenbosch
diede i natali a Hieronymus Bosch, il quale, dopo una
formazione ispirata alla tradizione fiamminga, divenne
un maestro del tutto originale e, cosa piuttosto sorprendente, altamente apprezzato.
La terza generazione di “primitivi nederlandesi”,
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verso la fine del Quattrocento e soprattutto nel primo
Cinquecento, fa proprie le conquiste del Rinascimento
italiano nell’ambito dello stile, del linguaggio formale e
dei soggetti. Va detto che già in precedenza artisti
nederlandesi avevano compiuto dei viaggi in Italia o
avevano avuto modo di conoscere l’arte italiana attraverso i disegni e le stampe, anche se al nord si rimaneva ben radicati alle proprie tradizioni. Con maestri come
Gerard David, proveniente da Oudewater in Olanda e
Quentin Metsys, attivi rispettivamente a Bruges e ad
Anversa, e con Jan Mostaert, Jacob Cornelisz van Oostsanen e Cornelis Engebrechtsz, attivi in Olanda, si inaugura una nuova tendenza. Il Rinascimento italiano
comincia a diffondersi anche nei Paesi Bassi: in maniera ancora embrionale nell’opera di questi artisti, quindi
decisamente negli esponenti appena più giovani della
loro generazione come Jan Gossaert detto Mabuse e
Lucas da Leida.
A partire dalla seconda metà del Quattrocento nei
Paesi Bassi e in Germania al posto della tradizionale tecnica su tavola si va affermando la pittura su tela, su lino.
Uno dei primi esempi di pittura su tela è rappresentato
dal già citato Parement de Narbonne, un dipinto in grisaglia realizzato a Parigi nel 1375 circa su commissione
del re di Francia. Considerata la sua destinazione ad
antependium, realizzato cioè per la parte anteriore dell’altare, non sorprende la scelta della tela quale supporto e per lungo tempo si è perfino ipotizzato che questa
pittura estremamente raffinata servisse da base per un
lavoro di ricamo. La grisaglia tuttavia appare eseguita
con notevole perfezione e fu senz’altro ritenuta un’opera
in sé conclusa. Il sobrio disegno in nero che non appare arricchito da materiali pregiati quali sete colorate e
fili d’oro, né da pigmenti costosi, rendeva ancor più
manifesto il fatto che si era di fronte a un paramento
funebre. È comunque principalmente nella sfera del-
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l’arte applicata che si iniziò ad utilizzare la pittura su
tela; partendo da questo ambito specifico e con un processo lento, ma inarrestabile, la tela sarebbe in seguito
andata a sostituire la tavola. Rientrano in questa tradizione applicata, ad esempio, le numerose commesse ricevute nel tardo Quattrocento da Melchior Broederlam in
qualità di pittore di corte dal duca di Borgogna; queste
comprendevano in gran parte banderuole, stendardi,
scudi stemmati e armature per tornei, e capitava anche
che ne venissero ordinati mille in una sola volta. In questi casi si trattava di lavori con finalità prettamente
decorative, che devono aver visto senza meno l’intervento di molti allievi e garzoni di bottega. Ancora intorno al 1470 anche un pittore della portata di Hugo van
der Goes risultava attivo nella realizzazione di prodotti del genere.
Un esempio considerevole di dipinto su lino della
prima pittura nederlandese è la pala della Passione di
Roermond. Questa pala d’altare, che vide la luce nel
1435 circa in Gheldria, è eseguita a tempera su una tela
fissata su tavola. Questa tecnica, in cui il lino consentiva di ridurre le deformazioni del supporto ligneo, fu
impiegata molto raramente nei Paesi Bassi, al contrario
di quanto accadde invece nell’area di Colonia. La tecnica che prevedeva di incollare la tela su legno, quale
base di preparazione, venne adottata, per ovvie ragioni, regolarmente alle statue policrome. Si è già avuto
modo di osservare come l’applicazione del colore alle
opere scultoree rientrasse, quanto meno nel Trecento e
nel Quattrocento, tra gli incarichi ordinari del pittore.
Un passo significativo nella graduale transizione dalla
tavola alla tela tesa è segnato dalle ante della pala di
santa Chiara del 1360-1370 circa, collocata nel duomo
di Colonia e dono delle contesse Filippa e Isabella di
Gheldria al convento di santa Chiara di questa città,
città in cui il dipinto vide la luce. Furono certo motivi
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di ordine pratico a suggerire l’uso, nella pala a doppie
ante (ciascuna di 282,5 x 138 cm), della tela tesa e fissata su telai per i battenti più esterni, il cui peso veniva in tal modo ridotto al minimo. La riproduzione su
tela della struttura architettonica delle ante lignee evidenzia quella che è in effetti ancora una scelta “negativa”. Le stesse ragioni spinsero un concittadino di Jeronimus Bosch oltre un secolo dopo, nel 1513, a dipingere due grandi tele con la funzione di sportelli per un orologio con lo spettacolo del Giudizio Universale nella
chiesa di San Giovanni a ’s-Hertogenbosch . Ogni volta
che l’orologio artistico faceva la sua rappresentazione, i
robusti sportelli (250 x 80 cm circa) dovevano aprirsi e
richiudersi meccanicamente, e dunque una struttura leggera era della massima importanza. Il lino ben teso sul
telaio fu dipinto a tempera su entrambi i lati, all’interno con quattro angeli con le Arma Christi, gli strumenti della Passione, all’esterno invece con i santi patroni
della chiesa a grandezza oltre il naturale, Giovanni
Evangelista e la Madonna col Bambino. Analoghe ante
leggere di tela rossa vennero aggiunte nella primavera
del 1482 alla Giustizia di Ottone III nel municipio di
Lovanio. Queste scene della Giustizia erano state commissionate nel 1468 a Dirck Bouts, tuttavia alla sua
morte, nel 1475, l’opera non era ancora completa: la
tavola con la scena dell’Esecuzione è frutto del suo pennello, mentre quella con la Prova del fuoco è opera della
sua bottega. Dopo che Hugo van der Goes ebbe eseguito
per la città una stima delle tavole, forse portandole
anche a compimento, queste furono appese nel 1482 nel
municipio. Esse vennero, inoltre, munite di battenti
per preservare i pregevoli quadri dalla polvere e dalla
luce, che vennero forse a loro volta dipinti con immagini o testi. I battenti sono purtroppo andati perduti, le
grandi tavole della Giustizia di Ottone III sono conservate i Koninklijke Musea di Bruxelles (ciascuna misura
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324 x 182 cm). Altri pannelli protettivi in tela, seppure non dipinti, erano fissati alla pala della gilda dei
miniatori di codici di Bruges. L’esecuzione dell’opera
era stata affidata nel 1478 a Hans Memling dal miniatore di Utrecht Willem Vrelant, che in quella città era
a capo di una delle botteghe più importanti e si era
fatto raffigurare insieme alla consorte come donatore
sulle ante fisse della pala stessa.
Nella pittura nederlandese furono per l’appunto
Dirck Bouts e Hugo van der Goes, verosimilmente suo
allievo, a scegliere ben presto quale supporto la tela
anziché la tavola. Rispetto ad un supporto ligneo, il lino
teso a dovere e preparato con cura non solo è notevolmente più leggero e dunque più maneggevole, ma è
anche più stabile della tavola, formata da diversi assi e
soggetta a continue deformazioni per gli sbalzi del tasso
d’umidità nell’atmosfera. Un’altra spiegazione, ugualmente plausibile, per l’impiego di alcune delle prime tele
eseguite a tempera (colori stemperati in acqua e mischiati alla colla) è che si trattasse di studi preparatori meno
pregiati oppure di varianti dipinte dei popolari arazzi.
A questo proposito deve essere menzionata la Deposizione, ovvero il Compianto di Dirck Bouts databile grosso modo al 1470 (Londra, National Gallery), che oggi
appare quasi come una grisaglia. Va, inoltre, segnalato
un Calvario di notevoli dimensioni (181,5 x 153,5 cm,
Bruxelles, Koninklijke Musea voor Schone Kunsten)
attribuito allo stesso Bouts o a un pittore più giovane,
segnatamente a Hugo van der Goes, la cui produzione
comprende varie tele. Molte di queste sono di estremo
interesse in quanto mostrano ancora il sistema primitivo usato per stendere la tela, o consentono almeno di
ricostruirlo. Tra queste opere emerge, ad esempio, il dittico con la cosiddetta Piccola deposizione all’incirca del
1480 (ciascun pannello 53 x 38 cm, Stati Uniti, proprietà privata; Berlino, Staatliche Museen Preußischer
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Kulturbesitz). Davvero spettacolare è un Tüchlein
nederlandese della seconda metà del Quattrocento, pubblicato nel 1992 da Jochen Sander. Questa piccola tela
devozionale di un artista anonimo, in proprietà privata,
raffigura la Maria Lactans a mezzo busto. La toccante
immagine della Madre di Dio è dipinta entro un tondo
dorato su un lembo pressoché quadrato di lino finissimo (24,6 x 24,1 cm), tuttora racchiuso entro la propria
cornice sul primitivo supporto ligneo posto dietro il
vetro originale. Sul retro della tela è ancora chiaramente visibile il disegno preparatorio; la stretta cornice
modanata, di color oro, presenta ancora tracce di un
testo pio che assieme alla pittura doveva esortare ad una
sincera devozione.
Lo sviluppo stilistico dell’illustrazione dei codici nei
Paesi Bassi non procedette inizialmente di pari passo con
le innovazioni radicali sperimentate dalla pittura su
tavola con l’affermarsi, a partire dal 1425 circa, di un
pronunciato realismo. I miniatori non ricercavano una
resa naturalistica dello spazio o effetti di profondità, ma
continuarono il più delle volte a impiegare sfondi di
tipo decorativo. I paesaggi vengono costruiti su piani
posti in sequenza come fossero quinte e le dimensioni
delle figure sono spesso del tutto sproporzionate rispetto all’ambiente, più piccolo perché meno importante. I
volti e le espressioni erano e rimanevano stereotipati,
rari o del tutto assenti erano i tentativi di conferire
tratti individuali.
Pochi sono i nomi noti dei miniatori attivi nel periodo compreso tra il 1400 e il 1440 circa e nella maggior
parte dei casi per quanto resta delle opere miniate risalenti al tardo Quattrocento si è costretti a ricorrere
soprattutto ad una suddivisione per “gruppi”, scuole e
a maestri a cui sono stati dati dei nomi convenzionali.
Tuttavia, in maniera occasionale le novità si affacciano
anche nell’ambito dei codici miniati, come dimostra il
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famoso Libro d’ore Torino/Milano con le sue miniature
forse dipinte da Jan van Eyck durante il soggiorno del
1422-1424 all’Aia presso la corte d’Olanda. Anche alcuni altri illustratori introdussero innovazioni nella decorazione dei tanti e lussuosi libri di preghiere commissionati da benestanti cittadini, da religiosi o conversi e
dalla nobiltà per la loro devozione privata. Nei Paesi
Bassi settentrionali il Libro d’ore di Caterina di Cleve rappresenta un vertice assoluto. Le miniature, frutto di
straordinaria inventiva, e la decorazione sul margine di
questo manoscritto vennero eseguite intorno al 1440,
probabilmente a Utrecht, e presentano influenze derivanti dalla pittura su tavola e dalla miniatura tanto dei
Paesi Bassi meridionali quanto di quelli settentrionali.
La domanda sempre crescente di libri di preghiere, in
particolare nei territori a nord dei grandi corsi d’acqua,
determinò la formazione di gruppi di opere con caratteristiche proprie in città come Delft e Haarlem, oppure più diffusi a livello regionale, in Gheldria, nei Paesi
Bassi orientali e così via. Nei Paesi Bassi meridionali fu
la corte borgognona ad avere un ruolo importante per
l’illustrazione di codici nel periodo tra il 1400/1445 e il
1475. Il mecenatismo e l’influenza esercitata dai duchi
di Borgogna, che avevano fissato le loro residenze in
diversi luoghi, crearono una grande uniformità nella
produzione calligrafica. Molto apprezzati erano i testi sia
profani che religiosi di ampie dimensioni, cosicché spesso vennero creati manoscritti composti da più tomi. Il
duca Filippo il Buono si distinse in questo senso: alla sua
morte la biblioteca personale contava niente meno che
900 volumi! Tra le diverse città prospere dei Paesi Bassi
meridionali dotate di propri scriptoria, Bruges divenne
un centro di spicco di notevole richiamo. Numerosi
miniatori di gran talento andarono a stabilirsi a in questa città lavorando in proprio come membri della gilda.
Si citano qui solo alcuni esempi: il francese Jean Dreux
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fu attivo in quella città negli anni 1448-1466, Willem
Vrelant, di Utrecht, dal 1454 fino al 1481, anno della
morte, Loyset Liédet, di Hesdin, e il francese Philippe
de Mazarolle vi lavorarono dal 1469 fino alla loro morte
nel 1479. Di Philippe de Mazarolle va segnalato in particolare un singolare manoscritto, un libro d’ore stilato
in oro e argento su pergamena nera. Il libro venne donato dalla città di Bruges al duca Carlo il Temerario il 24
febbraio 1467 in occasione del suo ingresso ufficiale in
qualità di duca e fu De Mazarolle a ottenere l’incarico
di ultimare il manoscritto ancora incompiuto. È possibile che questo libro d’ore in pergamena nera, attestato
nei documenti d’archivio, sia da identificarsi con un
manoscritto attualmente conservato a Vienna (Österreichische Nationalbibliothek, ms. 1856). In tal caso
Philippe de Mazarolle sarebbe l’illustratore di questo
codice spettacolare, che rientra in un gruppo di manoscritti di dimensioni molto piccole, estremamente preziosi e raffinati, provenienti dagli ambienti della corte
borgognona. Di questi libri d’ore di colore nero si conservano nel complesso sette esemplari, tutti eseguiti a
Bruges e risalenti al terzo quarto del Quattrocento.
Negli ultimi decenni del Quattrocento e agli inizi
del Cinquecento anche nelle regioni meridionali il mercato mostra un notevole interesse per i libri d’ore decorati. Se da una parte vennero meno la corte e la casata
di Borgogna nella loro veste di grandi committenti, dall’altra aumentano in maniera vistosa gli incarichi dei privati relativi a manoscritti per la devozione personale.
Con il modificarsi del tipo di clientela mutò anche il
carattere della miniatura dei Paesi Bassi meridionali,
che fu allora spesso riferita alla “scuola di Gand-Bruges”, nome che deriva dai due maggiori centri di produzione. I libri sono ridotti a un formato più piccolo,
pur presentando ancora ricchi ornamenti. La decorazione a margine, che corre tutt’intorno al testo, assume
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un carattere molto marcato e talvolta esibisce elementi
architettonici. Celebri sono inoltre le scene istoriate e
soprattutto le cornici realistiche cosparse di fiori, conchiglie, insegne di pellegrinaggio o gioielli e altri oggetti, tutti raffigurati con notevole minuzia. Le stesse
miniature cambiarono aspetto rispecchiando in modo
palese l’influenza della pittura su tavola, in un processo
che sfociò in raffigurazioni simili a quadri di piccolo formato, la cui funzione poteva esplicarsi tanto in un libro
che su una parete. Anche nell’ultimo periodo della
miniatura gli artisti noti per nome sono relativamente
pochi e soltanto di alcuni illustratori si conoscono con
certezza le opere. Sono da annoverare tra i più insigni
maestri del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento l’anonimo Maestro di Maria di Borgogna, che deve
il suo nome alla committente per la quale eseguì la decorazione di taluni magnifici codici, e i due miniatori di
Gand, Alexander Bening e Gerard Horenbout. Quest’ultimo trascorse gran parte della sua carriera, dal 1420
alla sua morte nel 1440, alla corte inglese del re Enrico
VIII. Simon Bening, figlio di Alexander, si stabilì a
Bruges, dove morì nel 1561: nei suoi quadri miniaturistici egli raggiunse ancora risultati di elevato livello nella
fase conclusiva della tradizione dei codici miniati nederlandesi. Nel frattempo l’arte tipografica aveva già un
secolo di storia alle spalle e aveva soppiantato ormai
definitivamente il libro scritto e decorato a mano.
Nel Quattrocento trasformazioni rilevanti interessano nelle regioni nordiche anche il rivestimento pittorico degli interni delle chiese. La tradizione dominante
prescriveva per le grandi cattedrali francesi l’intonacatura sia delle pareti che delle volte: tutti i materiali della
costruzione erano nascosti alla vista da un sottile strato
di malta policroma. Questa copertura esaltava la struttura architettonica degli edifici religiosi e conferiva
armonia ai loro vasti interni. Una cortina finta veniva
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dipinta su uno sfondo dalle tinte tenui che variavano dal
grigio e bianco sporco al rosato o all’ocra. Talvolta gli
elementi portanti erano evidenziati attraverso abbinamenti cromatici e le volte potevano avere un colore
diverso dalle pareti. A completamento della costruzione della cattedrale di Chartres, ad esempio, l’edificio fu
interamente dipinto nella prima metà del Duecento in
ocra chiaro con una cortina finta di colore bianco e l’accentuazione degli elementi portanti, anch’essi bianchi;
un rivestimento analogo, solo su sfondo rosato, lo
conobbe verso la fine del Duecento la chiesa di Santa
Elisabetta a Marburgo. Diverso invece l’interno della
cattedrale di Amiens: l’alzato era completamente grigio,
le volte rossastre e sull’insieme era dipinta in bianco una
cortina finta. Il rivestimento pittorico delle architetture faceva da scenario alle vetrate con figure dai colori
spesso brillanti e alle sculture variopinte. Nel corso del
Trecento a queste si aggiunsero anche dipinti murali di
carattere figurativo. Il gotico brabantino del Quattrocento introdusse una tendenza più sobria: un rivestimento uniforme e monocromo di tutto l’interno delle
chiese, su cui venivano poi apportate decorazioni dalle
tinte accese e vistose. Queste decorazioni si estesero lentamente fino a divenire pitture murali di ampie dimensioni e dipinti figurativi e decorativi a copertura totale
o parziale delle volte. Questi dipinti murali formavano
spesso un continuum con gli arredi, le porte, le finestre,
le mensole e i baldacchini scolpiti. Tale sviluppo è illustrato in maniera molto eloquente dall’interno di chiesa raffigurato da Jan van Eyck nella miniatura della
Messa funebre databile al 1440 circa: un ambiente interamente dipinto di bianco, intorno alle chiavi di volta
colori di forte impatto e in fondo al coro, sulla parete
nord, una scultura posta in risalto dal contesto dipinto
in cui è inserita. Van Eyck mostra inoltre come il materiale di costruzione venisse effettivamente occultato
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sotto l’intonaco: la cornice della miniatura delimita in
alto la parte intonacata da quella non ancora rivestita e
in quel punto si vede chiaramente la grezza muratura.
Il trittico dei Sette Sacramenti di Rogier van der Weyden, risalente al 1453-1455, presenta lo stesso interno
di chiesa austero e dai colori chiari che sottolineano gli
arredi. Un analogo rivestimento pittorico bianco monocromo, ascrivibile al gotico brabantino, con vistosi
accenti cromatici intorno alle chiavi di volta, anch’esse
dipinte, è stato riportato alla luce nella cattedrale di
Notre Dame ad Anversa e di recente ripristinato. Lo
stesso ideale decorativo si ritrova nella chiesa di San
Giovanni a ’s-Hertogenbosch, dove al contempo si
osserva chiaramente come in epoche successive, che arrivano fino al periodo neogotico, le tonalità degli interni
tornino a ravvivarsi con scene di natura decorativa e
figurativa. Che questo processo prenda le mosse già nel
Quattrocento lo dimostrano le pitture nella volta del
coro della chiesa di San Giovanni: nel secondo quarto
del Quattrocento, la copertura tanto dell’alzato che della
volta era bianca, le linee di forza dell’architettura erano
evidenziate dal rosso e dal nero. Le chiavi di volta erano
dipinte in oro e policromia realistica e inoltre circondate da pennellate di colore. In vista dell’assemblea capitolare dell’ordine del Toson d’Oro, che si svolse nel
1481 nel coro della chiesa di San Giovanni, la volta fu
ornata con dipinti figurativi, in cui compaiono tra l’altro, la Seconda venuta di Cristo, santi e angeli che suonano la tromba. Sotto il profilo stilistico, l’evoluzione
della pittura monumentale procede ovviamente in parallelo alle trasformazioni che hanno luogo nella miniatura e nella pittura su tavola. Come si è osservato in precedenza, d’altronde, tra queste espressioni artistiche
esistevano forti legami. Si prenda ancora Hugo van der
Goes quale esempio. Il suo dipinto murale che in una
casa di Gand illustra la storia del re Davide e di Abigail,
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personaggio amato come prototipo di Maria, era molto
famoso e fu descritto come tale già nel tardo Cinquecento nonché citato da Karel van Mander nel suo Libro
della pittura del 1604.
La miniatura. La fama del pittore greco Zeusi, vissuto nel quinto secolo a.C., si perpetuò anche nei Paesi
Bassi fino al tardo medioevo. Diversi erano gli aneddoti che circolavano sin dall’antichità a proposito di questo geniale artista. L’episodio più celebre è quello dei
chicchi d’uva da questi dipinti con tale realismo da trarre in inganno gli stessi uccelli. Un altro racconto molto
diffuso venne riportato da Cicerone (106-43 a.C.) e a
più riprese illustrato nei manoscritti tardomedievali del
brano di Cicerone, come ad esempio nella copia della
Rhetorica di fine Quattrocento, appartenente alla biblioteca dell’abate di Gand Rafaël de Mercatellis. Rafaël de
Mercatellis, figlio naturale di Filippo il Buono, fu abate
dell’abbazia di San Bavone a Gand dal 1478 alla morte,
avvenuta nel 1508. Una schiera di amanuensi e miniatori lavorò per lui sia a Gand che a Bruges al fine di creare una vasta biblioteca personale. In una delle sue
Miscellanea, raccolte di testi di diversa natura, si riferisce quanto Cicerone scrisse nel 91 a.C. a proposito di
Zeusi: il rinomato pittore aveva ricevuto l’incarico di
realizzare per un tempio un’effigie della leggendaria
Elena, figlia di Giove. Il ritratto avrebbe dovuto cogliere la venustà senza pari della “donna più bella del
mondo”, nel suo dipinto Zeusi doveva trascendere la
realtà per dare forma a quest’ideale di bellezza. Egli scelse quindi cinque modelle componendo per sintesi il suo
ideale femminile.
Nell’illustrazione qui raffigurata il miniatore fiammingo (1482-1487 ca.) ha scelto proprio questa storia,
offrendo al contempo l’occasione di gettare uno sguardo dentro una bottega dell’epoca. Sullo sfondo, attra-
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verso l’imponente finestra, figurano due fasi del racconto: in lontananza, il pittore che prende accordi con
i suoi committenti, quindi, in posizione più vicina all’osservatore, gli stessi mentre scelgono alcuni giovani in un
gruppo di allievi di una palestra che si stanno esercitando. La narrazione prosegue in alto, sulla destra: i
ragazzi prescelti per la loro bellezza conducono il pittore e i committenti dalle loro rispettive sorelle, tra le quali
vengono scelte le cinque modelle, cui Zeusi si ispirerà
per dipingere la sua Elena. Questo è il tema principale
e occupa lo spazio maggiore al centro della miniatura.
Sulla sinistra, in primo piano, il committente sta parlando, mentre il pittore, seduto al centro su una cassa,
è intento a rifinire il suo ritratto muliebre idealizzato.
Il dipinto su tavola è collocato su un cavalletto, sulla
sinistra stanno in posa cinque bellezze fiamminghe e a
destra è sistemato un tavolo basso con recipienti di colore già diluito. Sebbene non sia dato vederla, la mano
sinistra del pittore tiene senz’altro la tavolozza su cui
egli crea gli impasti più delicati prima di applicarli sulla
tavola con il pennello. Si noti che anche qui, come nel
caso di Colyn de Coter, di cui parleremo in seguito, il
dipinto si trova sul cavalletto già montato in una cornice. In effetti, come rivelano le indagini sui materiali
delle pitture su tavola, questo era il modo abituale di
operare, eseguendo la pittura letteralmente entro lo spazio delimitato dalla cornice: il margine estremo delle
antiche tavole si presenta in genere privo di colore, che
forma invece uno spesso bordo rialzato tutt’intorno al
dipinto, la cosiddetta “bava”. Sulla destra della miniatura compare un assistente del pittore, che trita i pigmenti e prepara il colore per il maestro Zeusi, impegnato
a combinare quanto di più bello hanno le cinque modelle per creare la figura della bellissima Elena, avvolta in
una veste d’oro bordata di ermellino.
Passiamo ora a descrivere un libro di preghiere e alta-
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
re portatile di grande interesse. Modellato sulle esigenze personali del duca Filippo il Buono, questo libro di
preghiere, di dimensioni minime, costituisce un importante esempio di manufatto destinato alla devozione
privata: la parte testuale contiene alcune preghiere rivolte a Maria, alla Trinità – oggetto di un culto particolare nella certosa di Champmol – e a Cristo, che riguardano soprattutto la Passione. L’apparato decorativo è
formato da cinque miniature, due nel dittico applicato
sulla copertina del libro e tre inserite nel volumetto
stesso, risalenti a epoche diverse e differenti nello stile.
I due fogli miniati incorporati nella copertina, datano
all’incirca al 1430, la copertina e il manoscritto sono del
1450 circa.
Sulla parte sinistra del dittico è raffigurata la Trinità,
a sinistra Dio Padre con la tiara sul capo e a destra lo
Spirito Santo nelle insolite sembianze di un Cristo alato.
Nel mezzo, il Cristo crocifisso, la croce poggiata su un
globo terrestre. L’Incoronazione di Maria sull’altra metà
del dittico è presentata in maniera alquanto tradizionale: la Madonna e il Cristo benedicente con il globo in
grembo, siedono l’una di fronte all’altro sul trono, degli
angeli sorreggono e incoronano Maria. Dio Padre in
Gloria osserva la scena dal cielo e dà la sua benedizione. Alcuni angeli rosso fuoco incorniciano la scena.
In ogni miniatura del libro figura il committente
Filippo il Buono in persona. Sulla prima pagina egli è
inginocchiato insieme al figlio Carlo di Borgogna, detto
il Temerario, davanti a un piccolo dittico di forma sorprendentemente simile a quello applicato all’esterno del
libro. Come si legge nel testo della pagina opposta, la
singolare figura della scena seguente è la cosiddetta
Madonna delle Spighe, ispirata a una scultura marmorea nel Duomo di Milano (attualmente nel Castello Sforzesco della città) che fin dal 1410 aveva compiuto numerosi miracoli. Con ogni probabilità Filippo il Buono
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
venne a conoscenza del particolare culto tributato a quest’immagine, peraltro rarissima nell’arte a nord delle
Alpi, attraverso i suoi stretti rapporti con gli Sforza,
duchi di Milano. Lo stile delle miniature sulla copertina appare ancora fortemente improntato al Gotico internazionale degli inizi del Quattrocento. Le scene contenute nel libro stesso, invece, devono essere collocate in
un periodo più tardo, alla luce degli accenni di tridimensionalità dello spazio in cui sono inserite le figure.
Il manoscritto è rilegato con una copertina realizzata in
maniera tradizionale con tavolette lignee rivestite di
cuoio punzonato. Ciò che rende eccezionale il volume è
il fatto che le tavolette siano state prolungate nella parte
superiore in modo da formare un dittico: a tutt’oggi questo è l’unico esemplare noto di libro che combini un
manoscritto e un dittico.
L’artista anonimo indicato, sulla scorta del manoscritto illustrato più pregevole di cui fu autore, come
Maestro del Libro d’ore di Caterina di Cleve, o semplicemente Maestro di Caterina di Cleve, è ritenuto il
migliore e più originale miniatore tardomedievale dei
Paesi Bassi settentrionali e forse persino di tutta Europa. Ben quattordici manoscritti, tutti databili agli anni
compresi tra il 1430 e il 1460, sono stati identificati
come opera dell’artista e della sua bottega. Dall’insieme
della produzione si desume che la sua attività si svolse
con ogni probabilità a Utrecht. Di fronte all’eccelsa qualità e al carattere notevolmente innovativo delle sue
miniature e illustrazioni a margine, originalità che già ai
suoi tempi non deve essere sfuggita, stupisce che egli sia
tuttora un anonimo di cui non si hanno notizie certe.
Lo splendido manoscritto, cui deve il suo nome, è un
lussuoso libro d’ore di oltre 350 fogli di fine pergamena,
riccamente illustrato: 25 miniature a piena pagina, 132
miniature a mezza pagina, un’iniziale istoriata (un capolettera con una raffigurazione), innumerevoli lettere
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
decorate, ornamenti sul margine di quasi tutti i fogli.
L’artista offre in quest’opera un campionario delle sue
capacità, che vanno dalle realistiche scene di genere
domestico alle scene permeate di simbolismi o alle immagini fantastiche, quasi visionarie. Nelle decorazioni sui
margini si rileva spesso una mirabile resa della realtà, che
nel contenuto è a volte chiaramente correlata al tema
principale del testo della pagina o alla miniatura che
campeggia sul foglio; ma capita anche che il significato
ultimo sia di ardua interpretazione o che si tratti di combinazioni di oggetti di natura puramente associativa.
Il Libro d’ore di Caterina di Cleve costituisce l’esemplare più voluminoso e riccamente decorato di questo
tipo di libro di preghiere molto amato nei Paesi Bassi,
che offriva ai laici l’opportunità, attraverso la preghiera privata e la religiosità personale, di condurre la propria vita, giorno per giorno e ad ogni ora, all’insegna del
cristianesimo. Sia il testo che il corredo decorativo sono
estremamente minuziosi ed elaborati. Il Maestro di
Caterina di Cleve concepì in modo originale le illustrazioni traendo ispirazione dal mondo circostante, da un
lato da particolari eccezionali, oggetti preziosi, fatti
notevoli, dall’altro da piccoli e commoventi dettagli e
sfumature quotidiani che egli coglieva e poi rielaborava
nelle decorazioni. E tuttavia nemmeno quest’artista si
colloca al di fuori della tradizione da cui proveniva e dal
contesto artistico in cui era inserito. Nella sua opera si
individuano chiaramente motivi desunti dalle miniature del passato nonché spunti tratti dai dipinti su tavola, ad esempio, di Jan van Eyck e del Maestro di Flémalle (Robert Campin). Era normale che schizzi e disegni circolassero nelle botteghe e fossero impiegati quali
modelli; sembra persino che già a quei tempi il Maestro
di Caterina di Cleve utilizzò come esempi alcune riproduzioni, in particolare stampe dell’artista anonimo, proveniente dall’alto Reno, noto col nome convenzionale di
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
Maestro delle Carte da gioco (attivo fino al 1435 circa).
Si può supporre che per la decorazione di questo libro
d’ore il miniatore ottenne da parte della committente
piena libertà. Ne risultò un’opera di ampie dimensioni,
che richiese certo alcuni anni di impegno, ma la cui
struttura era stata pianificata fin dall’inizio. In diversi
punti del manoscritto compare la committente in persona, e qui e là nelle illustrazioni è inserito anche il suo
stemma; varie volte, inoltre, ricorrono le iniziali CD,
che stanno per “Catharina Duxissa”, duchessa Caterina.
Figlia del duca Adolfo di Cleve e nipote di Filippo il
Buono, duca di Borgogna, Caterina di Cleve (1417-1476)
fu data in sposa ad Arnoldo di Egmont, rampollo di una
celebre casata d’Olanda. Durante il governo del duca
Arnoldo, la casa di Borgogna minacciava di avere il
sopravvento sul ducato di Gheldria; conflitti, guerre civili e lotte tra fazioni si susseguirono senza portare a una
soluzione definitiva e alla morte del duca Arnoldo, nel
1473, le truppe borgognone di Carlo il Temerario invasero la regione. Caterina ebbe un suo ruolo nella politica del tempo: fu la reggente di Gheldria negli anni 14491451, durante un pellegrinaggio di Arnoldo a Gerusalemme, e difese la causa del figlio Adolfo presso il vescovo di Utrecht, Filippo di Borgogna, in un periodo in cui
il consorte, con cui era in lite, conduceva una politica
anti-borgognona. Con il suo libro di preghiere Caterina
entrò di diritto sia nella tradizione della Casa di Cleve,
di cui si conoscono vari pregiati manoscritti, sia in quella borgognona, cui era legata tramite la madre. Considerazioni stilistiche e iconografico-contenutistiche inducono a ritenere che il libro d’ore fu eseguito probabilmente intorno al 1440. Oltretutto un Hollandse Groot,
riprodotto nel manoscritto con estrema precisione, fornisce un terminus post quem trattandosi di una moneta
coniata nel 1434 dal duca di Borgogna Filippo il Buono
in qualità di conte d’Olanda.
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
La pittura. La miniatura di Zeusi che dipinge Elena
mostra l’artista mentre con il pennello fine esegue gli
ultimi ritocchi. È lecito ipotizzare che l’artista utilizzi
dei colori a olio, dal momento che qui è raffigurata la
tecnica in uso nel tardo Quattrocento. In precedenza i
pittori adoperavano la tempera, colori disciolti in acqua,
dove l’uovo o la colla funzionavano da leganti. Per
dipingere le ante dell’ancona di Champmol, verso la
fine del Trecento, Melchior Broederlam si servì, ad
esempio, prevalentemente di colori ad acqua miscelati
con l’uovo. Le prime pitture su tela furono eseguite con
pigmenti impastati con colla animale, colla che in linea
di massima veniva dapprima applicata sulla tela. Dell’imprimitura o della mestica ancora non vi era traccia.
Nel corso del Quattrocento si ricorre sempre più frequentemente agli oli quali leganti e fu soprattutto Jan
van Eyck ad utilizzare i “colori a olio” con estrema perfezione. Non che egli fosse il primo, le proprietà agglutinanti degli oli erano sicuramente già note nell’ottavo
secolo: esisteva tuttavia il problema dell’essiccazione,
particolarmente lunga e laboriosa nel caso dei colori a
olio. D’altra parte l’uso di pigmenti diluiti in sostanze
oleose consentiva di dare corpo al colore e alle gradazioni per successivi strati sottili e trasparenti; tenui sfumature potevano essere combinate con colori scuri e
intensi, con passaggi morbidi e graduali e con una luminosità notevole. Tutti gli artisti fecero i loro esperimenti alla ricerca della combinazione utile tra tempo di
essiccazione, fluidità, capacità di miscelarsi, durata e
altre qualità dei colori. Un grande passo in avanti in questa direzione fu compiuto da Jan (e Hubert) van Eyck
e, a quanto pare, ciò avvenne direttamente su un’opera
dalle sorprendenti dimensioni come il polittico dell’Agnello mistico, a Gand. È stata talvolta formulata l’ipotesi che al fine di accelerare il processo di essiccazione
dei colori, Van Eyck vi avesse unito un solvente all’olio
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
di seme di lino, ma dalle moderne indagini scientifiche
non è risultato nulla in questo senso. Si accertò invece
che l’artista aveva aggiunto all’olio di lino uova e piombo. Per abbreviare il procedimento, a volte gli strati di
colore contenenti olio erano applicati su una base a tempera che aveva come legante l’uovo. Lo strato preparatorio era in genere chiaro, in pratica quasi bianco, ma
talvolta la stessa mestica veniva colorata con terre nere
o rosse. In tal modo si otteneva per le parti chiare del
dipinto una tessitura luminosa ed espressiva applicando
un piccolo quantitativo di colore trasparente su questo
fondo già chiaro; per le porzioni scure non occorreva
invece più uno strato spesso di colore in quanto la base
era già scurita.
Sullo strato di mestica veniva tracciato il disegno
preparatorio: in maniera più o meno schematica il pittore eseguiva con il gesso, il carboncino (a secco) o con
il pennello (a fresco) il bozzetto del dipinto; soprattutto nel caso di strutture architettoniche il disegno preparatorio poteva anche venire inciso nello strato di
mestica. Talvolta si può riconoscere anche l’impiego di
tecniche particolari per tracciare il disegno preparatorio,
in particolare il sistema dello spolvero che consentiva di
trasferire il disegno dal cartone sulla superficie da dipingere. Dal momento che il disegno preparatorio doveva
essere occultato alla vista dagli strati di colore, questo è
di solito molto naturale e personale, la firma dell’artista
più spontanea: da maestro a maestro cambia l’approccio
al disegno e il suo carattere. Alcuni tracciano linee fluide e sovrappongono correzioni e versioni diverse, altri
invece eseguono sin dal primo momento un disegno preciso e già quasi definitivo. Di particolare interesse sono
naturalmente quei disegni che rivelano dettagli sulle
attività tipiche della bottega e sulla collaborazione tra
maestro e aiuti. Sorprendentemente ricco di informazioni è ad esempio il disegno preparatorio del Giudizio
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
Universale di Rogier van der Weyden a Beaune, da cui
risulta che l’artista impostò l’opera abbozzando su ogni
tavola alcuni personaggi e lasciando ad almeno quattro
aiuti e allievi il completamento dei disegni; fu di nuovo
il maestro a stendere il primo strato di colore apportando in quella fase modifiche al disegnopreparatorio, poi
ultimò le parti più rilevanti del polittico mentre i suoi
assistenti eseguirono il resto.
In alcuni casi, con il passar del tempo il colore sbiadisce tanto da consentire di cogliere ad occhio nudo
porzioni di disegno preparatorio; ciò si rileva con grande chiarezza, ad esempio, nel corpo del Cristo nella
scena del Compianto nel Dittico di Vienna, opera di
Hugo van der Goes e nella piccola bilancia di sant’Eligio, disegnata da Petrus Christus, in un primo momento di dimensioni maggiori di quelle conferitegli poi nella
versione definitiva del Sant’Eligio nel suo laboratorio.
Parti di disegno preparatorio si osservano anche nel trittico delle Tentazioni di sant’Antonio di Hieronymus
Bosch, ora a Lisbona: soprattutto al di sotto dei dipinti a grisaille dalle tonalità brune che si trovano sull’esterno delle ante, ma anche nelle parti interne policrome delle ante e nello scomparto centrale sono ben visibili i disegni apportati sullo strato di mestica, con dettagli che spesso differiscono dalla versione definitiva.
A partire da Jan van Eyck, i primitivi nederlandesi
del Quattrocento adoperarono in prevalenza colori a
olio per tutti gli strati del dipinto. All’olio, legante di
rapida essiccazione, si aggiungevano talvolta anche
sostanze resinose per il glacis, gli strati superiori di colore, che sono diafani e lasciano trasparire la luce. Già nel
Quattrocento si stendeva spesso come ultimo strato,
quale glacis incolore, una mano di smalto sull’intera pittura, sia per proteggere che per conferire maggiore brillantezza e intensità ai colori.
Nel Quattro- e nel Cinquecento il numero di pig-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
menti a disposizione era limitato: venivano utilizzati
principalmente pigmenti di origine minerale a fianco ad
alcune sostanze coloranti organiche, e ciò in particolare
per il rosso, il marrone e il nero. Il nero si otteneva dal
carbone di piante o di ossa bruciate, mentre il rosso derivava da sostanze animali come la cocciniglia, o vegetali
come la robbia. Diversi pigmenti furono ben presto preparati artificialmente, come ad esempio la cerussa e la
maggior parte delle sostanze coloranti gialle e rosse. Il
blu si otteneva soprattutto dall’azzurrite o dal lapislazzuli, ma anche dal vetro di cobalto (azzurro di smalto);
quest’ultimo ebbe largo uso nel Cinquecento e ha assunto col tempo una colorazione grigiastra. L’azzurrite (un
composto del rame) presenta riflessi verdastri e il lapislazzuli forniva il blu intenso più bello, ma era estremamente costoso. Prima della scoperta dell’America,
infatti, il lapislazzuli doveva essere importato dall’Afghanistan, per cui il minerale, più caro ancora dell’oro,
veniva impiegato con grande parsimonia, tanto che spesso può essere interpretato come status symbol. Il verde
e il marrone erano per lo più il risultato di miscele e creavano problemi sia per le tonalità che per la tenuta. Il
marrone infatti opacizza rapidamente e si altera con
facilità. Il pigmento verde malachite ha basso potere
coprente mentre il verderame, in grado di offrire un bel
verde scuro se impastato con resine e oli si ossida diventando marrone per effetto della luce. È per questo motivo che gran parte delle distese d’erba della prima pittura nederlandese si presentano oggi come riarse dal sole.
“colin de coter / pingit me in brabancia / bruselle” (“Colyn de Coter, mi dipinse in Brabante/ Bruxelles”). Con queste parole, disposte sull’orlo del manto di
Maria, il pittore brussellese Colyn de Coter (1455 ca.1540 ca.) firmò, attorno al 1490 circa, la sua grande
tavola con San Luca che dipinge la Vergine con il Bambino. Luca, che secondo la tradizione è medico nonché pit-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
tore, è raffigurato dietro al cavalletto mentre è intento
a ultimare un ritratto della Vergine su una tavola già
munita di cornice. La scena si svolge in un atelier domestico: recatasi nell’abitazione cittadina dell’artista per
farsi ritrarre, Maria ora siede in posa su una panca
davanti al camino con il Bambino in grembo. Sullo sfondo, sul retro della casa, un falegname sta costruendo una
tavola per il pittore, un particolare, questo, che sembra
suggerire che i lavori di falegnameria potevano aver
luogo anche nella bottega dei pittori. È inoltre possibile, che la persona all’opera nel cortile recintato non sia
altri che Giuseppe nelle vesti di falegname e che il ritrattista sia venuto col cavalletto e gli attrezzi del mestiere
a casa dei committenti del dipinto. Se così fosse, e tutto
sommato questa sembra l’interpretazione più plausibile, l’opera getta una luce interessante sulle pratiche pittoriche nell’ambiente borghese dei Paesi Bassi meridionali del tardo Quattrocento.
L’evangelista ha a portata di mano tutto l’occorrente
per la sua attività. Sul cavalletto e sul tavolo dietro di lui,
alla sua destra, ci sono conchiglie con i pigmenti pronti
per l’uso e diversi pennelli. Nella mano sinistra l’artista
tiene una tavolozza con i colori che sta impiegando e un
bastone da pittore a sostegno della destra con cui dipinge. Ad avvalorare l’identità dell’evangelista Luca, quasi
sotto il cavalletto, giace un bue alato, suo simbolo per
antonomasia. I lineamenti del volto del pittore, calmo e
concentrato nel suo lavoro, suscitano l’impressione di un
ritratto: ma allora chi è che rappresenta?
Comunque sia, è probabile che in questo quadro
Colyn de Coter abbia imitato fedelmente un esempio di
Robert Campin, il Maestro di Flémalle, della prima
metà del Quattrocento. La rappresentazione di Luca
quale ritrattista della Vergine col Bambino era molto
amata. Non solo a Roma, infatti, ma anche altrove,
come ad esempio a Cambrai, immagini di Maria ritenu-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
te opera dello stesso Luca, erano oggetto di una venerazione particolare. Da questa leggenda Luca derivava
la sua fama di protettore dei pittori e degli artisti e
quindi la sua popolarità. La più celebre raffigurazione di
questo soggetto venne eseguita nel 1432-1436 dal pittore Rogier van der Weyden, anch’egli di Bruxelles.
Del suo San Luca che dipinge la Vergine Maria si conoscono ben quattro versioni, di cui una, in base a calcoli dendrocronologici, risulta collocabile grosso modo nel
1434 (la dendrocronologia è un metodo per la datazione assoluta fondato sugli anelli di accrescimento annuale presenti sul supporto ligneo). Ne consegue che è questa la tavola originale di Van der Weyden (Boston,
Museum of Fine Arts), mentre le altre tre sono copie,
sempre brussellesi, della seconda metà del Quattrocento. L’artista dipinse il quadro per la cappella di proprietà
della gilda dei pittori, eretta nella chiesa di Santa Gudula a Bruxelles. Come artista ispirato egli si identificò
senza dubbio con l’evangelista Luca intento a dipingere; tuttavia, non avrebbe mai potuto immaginare di trovare un giorno sepoltura davanti alla sua magnifica pala
d’altare.
Robert Campin. Questo artista (1376?-1444) è da identificarsi con ogni probabilità con il Maestro di Flémalle:
Viene menzionato per la prima volta nel 1406 a Tournai,
dove rimase fino alla morte nel 1444. Campin frequentò
in questa città gli ambienti della nuova borghesia e qui
rivestì diversi incarichi di rilievo, tra cui quello di decano
della corporazione degli orafi e di capo della gilda di San
Luca, in cui erano associati i pittori. Diresse inoltre una
bottega con artigiani e apprendisti, come testimonia un
elenco dei suoi allievi, tra i quali compaiono pure gli artisti “Roggie van der Weyden” e Jacques Daret.
Noto anche come Trittico Seilern dal nome del suo
originale proprietario, il duca Antoine Seilern, il tritti-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
co della Deposizione, che compare sul pannello centrale,
venne eseguito da Campin nel 1415 circa. Per le intense emozioni racchiuse nel dipinto, questo è certo più che
una semplice pala d’altare. Esso si propone come un
Andachtsbild, un’immagine devozionale, una scena
davanti alla quale lo spettatore, come del resto il donatore sull’anta sinistra, si inginocchia in profonda meditazione per immedesimarsi in tal modo con il Cristo che
ha sofferto per gli uomini. Sulle ante sono raffigurate la
collina del Golgota e la Resurrezione.
L’enfasi posta in quest’opera sull’episodio della Deposizione rappresenta un fatto eccezionale per il Quattrocento. Come soggetto autonomo, la Deposizione ricorre
invece con maggiore frequenza nella scultura francese,
specialmente in Borgogna: ciò indica una certa familiarità dell’artista con l’arte borgognona. Per alcuni dettagli, inoltre, Campin si fece ispirare dalla pittura italiana, come mostra il motivo della Madonna che abbraccia il Cristo morto, desunto dalla tradizione bizantina e
molto diffuso in Italia.
L’insolita combinazione di temi presenti nel trittico
con la Deposizione, la croce vuota sul Golgota e la Resurrezione rimanda molto probabilmente alla liturgia
pasquale. Secondo quanto risulta dalle fonti scritte, il
Venerdì Santo, durante la messa della Deposizione, si
riponeva un’ostia consacrata, a volte insieme ad una
croce, in una sorta di sepolcro per poi farla miracolosamente riapparire il giorno di Pasqua nel corso della
messa dell’Elevazione, riproducendo pressoché alla lettera le vicende legate alla sepoltura e alla Resurrezione
di Cristo.
Sul fondo dorato sono graffite delle foglie di vite,
allusione al vino quale simbolo del sangue di Cristo
durante l’Eucaristia. Come l’ostia durante l’offertorio
viene innalzata sopra l’altare, così il corpo di Cristo è
sorretto sopra la tomba: si coglie qui un’eco della tradi-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
zione risalente all’alto Medioevo che considerava l’altare il simbolo tangibile della tomba di Cristo. L’idea
della funzione religiosa è ulteriormente rafforzata dagli
angeli ai lati del sepolcro, vestiti da chierici. Nel suo
complesso la scena è caratterizzata da un forte realismo.
Le figure collocate in prossimità della cornice, che sottraggono ogni profondità allo spazio, sono tipiche dello
stile di Campin. Lo sfondo d’oro e l’espediente di riempire oltre ogni limite la superficie pittorica, il cosiddetto horror vacui, conferiscono all’opera un sapore arcaico. I fondali gremiti di tralci di vite richiamano vistosamente la miniatura del Trecento. Inoltre, le figure
monumentali, dalla volumetria accentuata, i drappeggi
di grande linearità e le donne dalle vesti colorate, spesso colte di schiena per suggerire una maggiore profondità, appaiono caratteristici del suo stile. Riflessi dello
Stile internazionale traspaiono nell’elegante panneggio
delle vesti degli angeli che si librano nell’aria e nella tipologia dei volti che evocano con forza esempi italiani.
Quest’influenza si riscontra parimenti nell’opera di Jean
Malouel e Henri Bellechose, due pittori nederlandesi
attivi presso la corte borgognona. Dal momento che
Campin aveva familiarità con la scultura borgognona, è
verosimile che egli abbia avuto contatti con questa
ambiente artistico.
Il Trittico di Mérode, eseguito grosso modo nel 14251430, costituisce uno dei primi esempi di Annunciazione ambientata in un interno domestico. La scena dell’angelo che reca l’Annuncio è forse da porre in relazione
con il nome dei probabili donatori, la famiglia Engelbrecht (di Colonia?), il cui stemma familiare appare
sulle finestre dipinte.
In quest’opera emerge la maestria di Campin nella
raffigurazione degli oggetti quotidiani. In una stanza
sovraccarica di suppellettili, dal singolare impianto prospettico, Maria siede a terra assorta nella lettura quan-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
do l’angelo compare a portare la Buona Novella. Sull’anta sinistra i donatori inginocchiati in adorazione
osservano l’evento, mentre Giuseppe, sull’anta destra,
continua imperturbabile a lavorare nella sua bottega di
falegname.
Come nell’Adorazione del Bambino, Campin si serve
qui del linguaggio per immagini abitualmente indicato
con il termine di disguised symbolism, simbolismo
mascherato: gli oggetti all’apparenza comuni inseriti
nella scena sono scelti con cura e racchiudono un significato più profondo. I gigli bianchi sulla tavola, ad esempio, alludono alla verginità e alla purezza di Maria, e così
il bollitore, il lavabo e l’asciugamano nella nicchia sulla
parete di fondo. La devozione di Maria e la sua familiarità con le profezie veterotestamentarie circa la venuta del Cristo sono suggerite dal libro che sta leggendo.
Nel suo essere seduta in terra (humus), a dimostrazione
della sua modestia, essa è raffigurata come Madonna dell’Umiltà, un motivo caro all’arte italiana. Alle sue spalle la panca con i leoncini rimanda al trono del saggio re
Salomone e indicano in Maria la Sedes Sapientiae, il
Trono della Saggezza. Il contenuto del messaggio angelico viene illustrato dal Bambino nudo che, con una
croce tra le braccia, entra in volo nella stanza attraverso la finestra intatta. La figura simboleggia al contempo la Passione di Cristo e la sua Incarnazione attuatasi
senza che Maria perdesse la sua verginità. La candela sul
tavolo è stata a volte identificata con il Cristo stesso, e
allora la cera rinvierebbe alla sua natura umana, mentre
lo stoppino e la fiamma rappresentano la sua anima e la
sua natura divina. Il Bambino che sopraggiunge in volo
subentra alla simbologia della candela che, forse per
questo motivo, si è appena spenta e ancora fuma. Sembra che gli artisti amassero molto simili sovrapposizioni
di simbolismi, che conobbero con Jan van Eyck una
delle massime espressioni. Una possibile chiave di lettura
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
per il particolare della candela è dato dalla Visione di Brigida di Svezia. Sebbene questa, infatti, riguardi la
Nascita di Cristo, nulla esclude che qui Campin abbia
di nuovo ripreso il passaggio ove si legge che l’emanazione divina del Bambino cancella la luce naturale del
mondo. Secondo un’altra ipotesi, invece, l’artista avrebbe raffigurato la Brautkerze, la “candela nuziale”, come
allusione al momento in cui si celebra lo sposalizio della
Vergine con Dio.
Un tema davvero inconsueto lo offre l’anta destra:
Giuseppe, che oltretutto non compare quasi mai nell’episodio dell’Annunciazione, è al lavoro nella sua bottega di falegname. Può darsi che qui si faccia riferimento
alla prima moglie del committente del trittico, Peter
Engelbrecht, che si chiamava “Scrynmakere” (Ebanista). D’altra parte non bisogna dimenticare che fin da
tempi antichissimi Giuseppe godette di grande popolarità nei Paesi Bassi. Il falegname ha un gran da fare: sul
bancone, sul tavolo da lavoro davanti a lui e per terra si
trovano sparsi gli attrezzi del mestiere e gli oggetti che
ha realizzato per la vendita. Le bizzarre gabbiette di
legno sono trappole per topi e rimandano alla Redenzione dell’umanità da parte del Cristo e al suo trionfo
sul Male, il diavolo. Ecco a tal proposito le parole del
Padre della Chiesa Agostino: “Il diavolo si rallegrò alla
morte di Cristo, ma proprio attraverso la morte di Cristo il diavolo è stato sconfitto, come se avesse mangiato l’esca di una trappola per topi [...] la trappola è la
croce di Cristo; l’esca con cui venne preso è la morte del
Signore”. La stessa scure, la sega e il bastone in primo
piano sembrano essere una metafora. Un brano del profeta Isaia (10, 15) recita: “Si glorierà forse la scure contro chi la brandisce? O si insuperbirà la sega contro chi
la muove? Come se una verga si levasse contro chi l’alza e si atteggiasse come un bastone, che non è altro che
legno!” Il commento del padre della Chiesa Girolamo
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
chiarisce che anche questa immagine allude al diavolo.
Non del tutto chiara è la funzione della tavoletta in cui
Giuseppe sta praticando dei fori. Potrebbe essere l’elemento di un torchio per l’uva in miniatura oppure il
blocchetto irto di chiodi che pende dalla cintola di Cristo durante la sua salita al Golgota. In entrambi i casi è
quindi un simbolo della Reincarnazione ovvero dell’Eucaristia. I donatori ne sono testimoni: secondo il racconto per cui le porte del Paradiso vennero di nuovo
aperte al genere umano grazie alla Reincarnazione, ad
essi è permesso assistere al mistero attraverso la porta
spalancata. La figura esotica presso la porta del giardino ha suscitato numerose interpretazioni, ma probabilmente esso rappresenta il profeta Isaia, ai cui scritti il
dipinto rinvia molto chiaramente.
Anche quest’opera di Campin racchiude un’iconografia complessa, di cui si ignora se sia frutto delle conoscenze dell’artista oppure del contributo di un teologo
erudito.Gli oggetti tratti dalla vita quotidiana sono resi
con grande perizia. Mediante un sapiente gioco di luci
e ombre quanto è rappresentato acquista notevole
profondità: il trattamento volumetrico delle figure, il
pesante panneggio delle loro vesti, gli oggetti, lo spazio
in cui la scena si svolge. I dettagli minuziosi e il naturalismo con cui l’artista narra la storia sottolineano al
contempo la funzione dell’opera, una pala d’altare per
la devozione domestica, che per lo spettatore sarà stata
certo di stimolo per una meditazione sul tema del Cristo fattosi uomo.
Il ritratto autonomo e individualizzato non fece la sua
comparsa che nel tardo Medioevo. Nel corso del Trecento l’attenzione si sposta gradualmente dall’essere
universale verso l’individuo, l’uomo è visto sempre
meno come rappresentante del genere umano e in misura crescente come persona nella sua unicità. Ritratti di
committenti, immagini di defunti e, quale forma inter-
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
media, raffigurazioni su epitaffi di donatori che erano
al contempo persone estinte da commemorare, ne costituiscono i primi esempi. Inizialmente i ritratti sono di
profilo, figure a mezzo busto rappresentate esclusivamente di lato. Questa è la tipologia che sarebbe rimasta
in voga soprattutto in Italia, mentre nei paesi nordici la
preferenza andava al ritratto di tre quarti. Un esempio
precoce di quest’ultimo genere lo fornisce il ritratto precedentemente esaminato contenuto nella miniatura Marcia dipinge il proprio ritratto. Nel ritratto di tre quarti il
busto della persona non è né in posizione frontale né
laterale bensì leggermente voltata rispetto allo spettatore, le mani sono talvolta visibili. La particolare angolazione consente quindi di raffigurare le due metà del
volto senza rigidità, rendendo possibile una caratterizzazione del personaggio ritratto.
Il ritratto di un uomo e di una donna eseguiti da
Robert Campin sono di estremo interesse per l’evoluzione della ritrattistica. Non si tratta infatti solo di
ritratti sorprendentemente precoci – anteriori a quelli
pervenuti di Jan van Eyck e Rogier van der Weyden –
essi formano anche un doppio ritratto, un dittico borghese. Il dittico, che nasce come oggetto devozionale,
viene qui trasformato in supporto dei ritratti, intimamente legati, dei due coniugi di cui oggi si ignora il
nome. Sotto il profilo tecnico Campin si servì abilmente delle opportunità offerte dalla nuova tecnica pittorica, la trasparente pittura a olio. Egli ha saputo rendere con notevole maestria l’incarnato, dove la luminosità della base affiora attraverso gli strati di colore
trasparenti e di intensità cromatica variabile. Magnifico è il contrasto così ottenuto tra il volto rosa pallido
della donna e il velo drappeggiato con cura intorno al
collo, che è per l’appunto di un bianco coprente. Sia
nella donna che nell’uomo la stoffa del copricapo è elemento essenziale ad inquadrare i visi fortemente espres-
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
sivi e pone in risalto le figure sullo sfondo pressoché
nero.
Il composto ritratto femminile di Campin può definirsi più propriamente un’eccelsa rappresentazione
dell’“essere guardati” piuttosto che uno dei consueti
ritratti che “guardano” lo spettatore. Questo tratto
viene accentuato dagli accostamenti cromatici, dalla
posizione dei personaggi e dall’inquadratura dei due
ritratti posti uno di fronte all’altro. Il rosso intenso e la
tonalità scura dell’uomo emergono dal dipinto, il bianco vivissimo e l’incarnato chiaro della donna tendono
invece a ritrarsi; l’uomo, di dimensioni maggiori, è raffigurato appena più da vicino, la donna invece a distanza tale che le sue mani, posate l’una sull’altra, vengono
a formare il primo piano; questo effetto è ulteriormente rafforzato dal copricapo dell’uomo, che ne ingrandisce la testa, e dal velo della donna che le riduce il capo
e il volto; l’uomo guarda leggermente verso l’alto, mentre lo sguardo della donna è orientato appena verso il
basso. In passato queste osservazioni sono state utilizzate a sostegno della tesi che affermava l’autenticità del
solo ritratto femminile, considerando quello maschile
un’aggiunta o una copia da un più antico modello. Tuttavia, oggi i pareri sono concordi nel ritenere le due
tavole originali e concepite come pendants. La forza e l’elevata qualità dei ritratti sono racchiuse per l’appunto
in queste raffinate contrapposizioni. Con il doppio
ritratto di questa coppia borghese, benestante a giudicare dall’abbigliamento, Campin ha saputo fornire
un’eccellente caratterizzazione dei due personaggi e ha
raffigurato un armonioso scambio di pensieri tra le parti.
Nemmeno un secolo più tardi Quentin Metsys, nel suo
spettacolare ritratto doppio di Erasmus e Pieter Gillis,
avrebbe compiuto un passo ulteriore, coinvolgendo l’osservatore nell’impianto dell’opera.
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
Jan van Eyck. “Meyster Ian den maelre” (“maestro
Jan, il pittore”) lavorò presso la corte dell’Aia dal 1422
al 1424, anni in cui il potere su Olanda e Zelanda era
nelle mani di Giovanni di Baviera (1419-1425) in qualità di duca supplente del fratello Guglielmo. Il pittore
Jan van Eyck nacque intorno al 1390 probabilmente a
Maaseik, nella regione della Mosa, mentre si ignora
dove compì il suo apprendistato; secondo i cronisti cinquecenteschi furono pittori anche la sorella Margaretha
e i fratelli Lambert e Hubert. Questi ultimi acquistarono fama a livello internazionale, sebbene di Hubert non
si conosca alcuna opera. La produzione pittorica attribuibile con certezza a Jan van Eyck è invece copiosa e
le fonti d’archivio consentono di ricostruire anche alcuni tratti della sua carriera. Sembra che egli giungesse in
Olanda al seguito di Giovanni di Baviera (1374-1425),
figlio del conte Alberto di Olanda, Zelanda e Hainaut
e vescovo-elettore di Liegi (1389-1418). Questi amministrava il vescovado con lo spirito di un soldato piuttosto che come un religioso e quando nel 1417 morì il
fratello, il conte Guglielmo VI di Olanda, egli scavalcò
la legittima erede, la nipote Jacoba di Baviera, e riuscì
ad assumere quale reggente il controllo dell’Olanda,
rinunciando pertanto al vescovado. Morto Giovanni per
avvelenamento, Van Eyck, suo pittore di corte, lasciò
l’Aia per entrare al servizio del duca di Borgogna, Filippo il Buono, e si stabilì a Lilla. L’artista seppe conquistarsi una posizione di fiducia presso il duca, per il quale
fu, infatti, oltre che pittore ufficiale, anche consigliere
e diplomatico. A più riprese Van Eyck fu inviato in missione e nel 1428-1429 fece parte della delegazione incaricata delle trattative con il re Giovanni del Portogallo
per le nozze della figlia di questi con il duca Filippo. In
quell’occasione egli eseguì un ritratto di Isabella del
Portogallo, che il 7 gennaio 1430 sarebbe andata in
sposa a Filippo il Buono. L’incarico ricevuto trattenne
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
Van Eyck per oltre un anno in Portogallo e in Spagna,
periodo nel quale ebbe modo di visitare Santiago de
Compostela, Granada e diversi altri luoghi. Anche in
seguito venne richiesto il suo intervento in vicende politiche e diplomatiche; un esempio per tutti è il viaggio
segreto compiuto nel 1436 per conto del duca. Intorno
al 1430 l’artista si trasferì a Bruges, dove due anni dopo
acquistò una casa in cui abitò fino alla morte nell’estate del 1441. In quanto pittore ufficiale le commesse
ducali costituirono senz’altro la voce principale dell’attività di Van Eyck, tuttavia egli lavorò anche per la corte
che circondava il duca, per la città, la nobiltà e la borghesia. Delle opere eseguite per Filippo il Buono non
rimane nulla; del ritratto d’Isabella del Portogallo e di
un planisfero grandemente apprezzato restano solo testimonianze d’archivio; dei ritratti del duca non sono
sopravvissute che copie mediocri. Sono inoltre andate
perdute le pitture murali, le bandiere e gli stendardi
dipinti, gli stemmi, le decorazioni per le occasioni solenni e la policromia delle sculture, alla cui realizzazione
partecipò in alcuni casi anche Henri Bellechose. Dell’artista restano il celebre polittico di Gand e gli incarichi in prevalenza di modesta entità eseguiti per conto
della sua clientela di Bruges. La tradizione vuole che
sulla lastra a sigillo della tomba andata dispersa intorno
al 1800 si leggesse: “Qui giace il Maestro Joannes de
Eijcke, il più eccelso maestro di dipinti che vi sia mai
stato nei Paesi Bassi, morto nell’anno 1441”.
Non esiste alcun documento che riguardi la formazione e gli esordi di Van Eyck; certo è che quando nel
1422 viene detto “maestro” e approda all’Aia, deve
essersi già fatto un nome come pittore. Alla sua produzione iniziale viene ascritto un dittico con la Crocifissione e il Giudizio universale (New York, Metropolitan
Museum of Art), forse degli anni 1420-1425, nonché il
contributo, probabilmente del 1420 circa, al già citato
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
Libro d’ore Torino/Milano. Questo libro ha una storia
complessa. Il manoscritto venne iniziato per un membro
della casa reale francese. Ne entrò poi in possesso il duca
Jean de Berry che vi fece aggiungere delle illustrazioni
ma a sua volta lo diede via prima che questo fosse ultimato; in seguito il manoscritto fu smembrato, una parte
rimase in Francia (ora a Parigi, Bibliothèque Nationale,
Nouv. Acq. Lat. 3093), l’altra entrò in possesso di Giovanni di Baviera (in seguito smembrata a sua volta in più
parti: Torino, Biblioteca Nazionale, scomparsa in un
incendio; Torino, Museo Civico; Parigi, Musée du Louvre, Cabinet des Dessins, RF 2022-2025, cinque fogli
staccati). Nel 1420 Giovanni di Baviera fece ampliare
le decorazioni del manoscritto e altre illustrazioni furono aggiunte attorno al 1450. Sei sono i fogli, risalenti al
1420 circa, attribuiti a Jan van Eyck (mano G), mentre
altre pagine provengono da ambienti a lui vicini (mano
H). Alcuni autori ritengono che anche Hubert van Eyck
abbia dato il suo apporto tanto nelle miniature che nel
dittico di New York, tuttavia non esistono prove a
riguardo. Si aggiunga che recentemente i due esperti di
miniature fiamminghe, Maurits Smeyers e Cyriel Stroo,
hanno decisamente respinto la datazione e l’attribuzione a Van Eyck delle miniature in questione, realizzate
a loro parere nel 1440-1450 a Bruges.
Sono invece generalmente riferite all’artista le miniature con la Nascita di San Giovanni Battista (fol. 93v) e
la Messa funebre (fol. 116r). Le foto a infrarossi del
foglio 93v rivelano che il miniatore apportò delle modifiche al disegno preliminare: Van Eyck eseguì il lavoro
partendo da uno schizzo tracciato da un artista che l’aveva preceduto. La miniatura rappresenta la Nascita del
Battista secondo la descrizione resa dal vangelo di Luca
(Luca 1, 57-66) e arricchita da aneddoti posteriori.
Distesa sul letto a baldacchino Elisabetta riceve dalle
mani della levatrice il piccolo Giovanni. Una donna è
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
venuta a farle visita con il figlio, sulla destra Maria, in
attesa del Figlio, è raffigurata con una brocca. SUllo
sfondo a destra si scorge un vecchio intento a leggere,
senza dubbio si tratta di Zaccaria che, punito con la privazione della parola, avrebbe scritto che suo figlio doveva chiamarsi Giovanni. È un’allusione veterotestamentaria a queste parole divine la minuscola immagine di
Mosé con le tavole della legge sopra il passaggio dietro
Zaccaria. Con notevole ingegno l’artista ha raccordato
il capolettera istoriato D con la decorazione del margine inferiore della pagina. Nell’iniziale Dio Padre, assiso su un trono, benedice la scena che si svolge sotto di
lui. Attraverso i raggi d’oro che racchiudono lo Spirito
Santo viene creato il legame tra il Padre in cielo e Giovanni accovacciato che battezza il Cristo nelle acque del
Giordano. Il paesaggio fluviale fortemente realistico,
dall’orizzonte insolitamente basso, è stato da taluno
posto in relazione alla vallata della Mosa.
Nella pagina della Messa funebre ancora una volta le
decorazioni figurative sono state concepite come un
insieme iconografico. La miniatura rappresenta un funerale in una chiesa gotica: nel coro appare la bara collocata sotto un cataletto, mentre all’altare un sacerdote
celebra la messa di requiem. Sul margine inferiore del
foglio si osserva la conclusione della cerimonia: il sacerdote in preghiera, seguito dai chierici con l’acqua santa
e da tre figure che piangono il defunto, avanza tra le
tombe e le croci di un cimitero. Quanto raffigurato è
evidentemente il principio e la fine del rito: da un lato
si vede l’inizio delle esequie nella chiesa, dall’altro i piccoli gruppi in basso che stanno lasciando il camposanto;
qui non compaiono più né la bara né la recente sepoltura. All’interno della R istoriata, incipit del testo, è raffigurata la Seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi;
egli siede sull’arcobaleno in qualità di Giudice mentre
sotto di lui i defunti resuscitano dai loro sepolcri. Gli
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
stemmi sul cataletto consentono di indicare quale committente dell’opera Giovanni di Baviera, Olanda e Hainaut. Molto suggestivo è infine l’effetto che l’artista
ottiene facendo uscire dalla cornice della miniatura la
parte dell’edificio religioso ancora in costruzione.
L’opera più famosa della pittura fiamminga delle origini è senza dubbio il polittico con l’Adorazione dell’Agnello mistico di Jan e Hubert van Eyck (Bruges 1432).
Il polittico non conosce pari sia per le dimensioni che
per il numero di pannelli che formano l’insieme. L’iconografia è complessa e affascinante e ha suscitato nel
corso del tempo svariate interpretazioni. Un’iscrizione
riporta data e firma dei due fratelli Van Eyck, non risulta chiaro però quali parti siano da attribuire a Hubert,
venuto a mancare molto tempo prima che il lavoro fosse
terminato. Fu Jan van Eyck a portare a compimento
l’imponente pala d’altare, impiegando la sua tecnica a
olio senza sperimentare prima su una tavola di piccole
dimensioni, ma direttamente sulle tavole di formato
eccezionale del polittico con una perfezione raramente
eguagliata. L’opera ebbe una storia molto movimentata, fu infatti più volte smembrata, trafugata e rivenduta per tornare definitivamente nella sua collocazione
originaria nel 1945; mutila, però, dello scomparto con i
Giudici equanimi scomparso nel corso di uno spettacolare furto nel 1934 e tuttora ricercato.
Nel 1823, all’epoca in cui sei delle otto ante si trovavano al Kaiser-Friedrich Museum di Berlino, sul
bordo inferiore della cornice originale venne individuata un’iscrizione. Nel testo si dichiara che Hubert van
Eyck, il più grande tra i pittori, aveva cominciato la pala
d’altare e che il fratello Jan, secondo per importanza, l’aveva ultimata il 6 maggio 1432 su incarico di Jodocus
Vijd. Dalle indagini tecniche, che hanno interessato
anche i disegni preparatori, non sono emersi elementi
utili a distinguere l’opera dei due fratelli e non risulta-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
no quindi individuabili mani diverse. Di Hubert van
Eyck non si conserva nessun altra opera e in base ai
documenti d’archivio sono note soltanto alcune commesse affidategli. Egli morì il 18 settembre 1426 e fu
sepolto davanti all’altare dove vari anni più tardi sarebbe stata sistemata la pala. Jan van Eyck completò il
grandioso polittico sfruttando appieno le potenzialità
della sua nuova tecnica. Come scrisse lo storico dell’arte Brinkman nel 1993, Van Eyck non fu tanto l’inventore dei colori a olio quanto piuttosto della pittura a olio,
giacché egli impiegò tecniche già note in modo innovativo e poté così raggiungere con la tecnica il risultato
artistico cui mirava.
A battenti chiusi il polittico presenta quattro scene
con funzione introduttiva alle complesse e maestose rappresentazioni visibili a battenti aperti. Al centro, in
basso, i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista
sono raffigurati a grisaglia come statue dipinte, con i
rispettivi attributi, l’Agnello di Dio e il calice di veleno. I due santi erano venerati quali patroni della chiesa
cui era destinato il polittico: la cattedrale di San Bavone era in origine una chiesa parrocchiale dedicata al
Battista, non a caso, infatti, l’iscrizione reca la data del
6 maggio, vale a dire una delle feste dell’Evangelista.
Ritratti con grande realismo, i coniugi donatori dell’opera sono in inginocchiati a fianco alle due statue, a sinistra Jodocus Vijd e a destra la moglie Elisabeth Borluut.
Nelle lunette in cima alle ante trovano posto quattro
personaggi veterotestamentari che predissero l’Incarnazione di Cristo e l’avvento del suo Regno: i profeti Zaccaria e Michea, e tra loro la Sibilla Eritrea e la Sibilla
Cumana. Nel registro superiore si snoda per tutta la larghezza della pala l’episodio dell’Annunciazione dell’avvento del Redentore. Le parole rivolte dall’angelo alla
Vergine sono scritte a caratteri d’oro: “Ave Maria, piena
di grazia, il Signore sia con Te”, mentre la risposta di
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
Maria, “Ecco l’ancella del Signore”, è disposta a rovescio, così che la breve frase procede letteralmente verso
l’angelo. L’umile risposta è leggibile sia dallo Spirito
Santo sopra al capo di Maria sia dalla sibilla e dal profeta più in alto.
A battenti aperti, nel registro inferiore si estende
dall’una all’altra estremità del polittico un’ampia scena
ambientata sulla terra, mentre nel riquadro superiore
appare una visione celeste che sembra vicinissima all’osservatore. Al centro di quest’ultima è raffigurato una
gigantesca Deësis, il Cristo glorificato quale apparirà al
suo ritorno alla fine dei tempi, affiancato da Maria e da
Giovanni Battista come intercessori dell’umanità. Sia la
Vergine che il Battista sono investiti qui di un duplice
ruolo: la Madre di Dio è al contempo Regina dei cieli e
Sposa mistica di Cristo, Giovanni è insieme il patrono
della chiesa. Cristo Onnipotente domina l’insieme, con
la tiara papale sul capo e la corona del potere temporale ai suoi piedi. Ai lati di Maria e di san Giovanni sono
disposti angeli che suonano e cantano e vicino ad essi,
in piccolissime nicchie, si vedono i nudi davvero realistici di Adamo ed Eva; sopra di loro viene rappresentata a grisaille, in due riquadri che sembrano dei rilievi
scolpiti, la storia dei loro figli, Caino e Abele. Questa
appare come una profezia veterotestamentaria della
Redenzione operata attraverso la morte di Cristo sulla
croce.
I cinque pannelli inferiori del polittico formano nel
loro complesso un paesaggio paradisiaco in cui sei grandi gruppi di figure muovono verso l’altare al centro
della scena. Sull’altare, l’Agnello mistico riempie un
calice con il sangue che gli sgorga dal petto; angeli in
preghiera sono inginocchiati ai lati dell’altare, quattro
di loro hanno in mano le Arma Christi, gli strumenti
della passione che alludono al sacrificio di Cristo, e
altri due cospargono d’incenso l’Agnello. All’orizzonte
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
si stagliano edifici in parte reali e in parte inventati, tra
i quali spicca, quasi al centro, la torre del duomo di
Utrecht, che forma di fatto il prolungamento della lancia che trafisse il costato di Cristo. Nel mezzo, al di
sopra dell’Agnello di Dio, è raffigurato lo Spirito Santo
entro una corona radiale, la cui luce ispiratrice raggiunge tutti i santi. In primo piano, in posizione centrale, compare una fontana quale sorgente di vita: dalla
vasca ottagonale, di forma perfetta, l’acqua vivificante
e salvifica fluisce direttamente verso l’osservatore. Questi era in prima istanza il sacerdote che, secondo la
donazione di Jodocus Vijd e Elisabeth Borluut, celebrava la messa all’altare nella loro cappella sopra il
quale era collocato il polittico; il fine era la salute dell’anima dei donatori, della loro famiglia e dell’umanità
intera, salvata dall’Agnello.
Il doppio ritratto che Jan van Eyck eseguì nel 1434
di Giovanni Arnolfini e della moglie Giovanna Cenami è oggetto di innumerevoli analisi e famoso in tutto
il mondo come quadro “profano”. I due coniugi Arnolfini sono ritratti a figura intera in una camera da letto.
Nella mano sinistra Giovanni Arnolfini tiene la destra
della consorte, aperta con benevolenza verso di lui, un
gesto che è da interpretarsi come promessa di fedeltà
coniugale. Con la mano destra levata quasi a compiere
un giuramento, egli suggella il voto reciproco. Questa
interpretazione è stata dimostrata in maniera convincente nel 1986 e poi ancora nel 1990 dallo storico dell’arte olandese Bedaux, il quale contesta con validi
argomenti la tesi di Panofsky secondo cui il ritratto
degli Arnofini sarebbe la rappresentazione di un contratto coniugale. Il quadro presenta in effetti una serie
di riferimenti alla cerimonia nuziale nonché i tipici
regali di nozze, tuttavia si tratta di tradizioni e di simbologie manifeste e non di un ingegnoso e sottile linguaggio figurativo, carico di simboli reconditi ed ela-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
borato di proposito dal pittore: non si tratta di un
disguised symbolism, un simbolismo mascherato, come lo
definisce Panofsky.
Giovanni era figlio di mercanti ed era nato a Lucca
all’incirca nel 1400; dal 1421 divenne a sua volta mercante di stoffe a Bruges. Molto ricco e potente, ottenne persino la carica di consigliere di Filippo il Buono e
morì nel 1472 a Bruges, dove trovò sepoltura. La consorte Giovanna era la figlia di un mercante di Lucca che
si era stabilito a Parigi e in quella città aveva sposato una
donna francese. Giovanni Arnolfini e Giovanna Cenami furono uniti in matrimonio nell’anno 1434, data che
è riportata al centro del quadro, tra le teste dei due giovani personaggi, sotto la scritta del nome dell’artista. Si
ha l’impressione che le parole “Johannes de eyck fuit
hic” e l’anno “1434” siano scritti di pugno dell’artista
sulla parete della stanza, esattamente sopra lo specchio.
L’affermazione, che si discosta dalla formula in uso,
rende l’artista evidentemente testimone di quanto ha
dipinto. Tale lettura è confermata dallo specchio convesso, in cui si scorgono i due coniugi di schiena nonché il pittore e un quarto astante. Lo specchio indica
inoltre che il matrimonio degli Arnolfini è indubbiamente un’unione cristiana. Esso costituisce il centro
ottico del duplice ritratto e cattura l’immagine di tutto
ciò che accade nella camera. Le immagini riflesse sono
di natura cristiana: intorno al grande specchio sono
disposte a raggiera dieci piccole scene dipinte dietro
vetro, che vanno della Passione di Cristo. Il ciclo ha inizio in basso, al centro, con il Cristo in preghiera nell’Orto degli Ulivi, all’estremità opposta, in alto, figura il
compianto di Maria e Giovanni sul Cristo crocifisso, in
basso a destra la narrazione si conclude con la discesa
di Cristo nel limbo e da ultimo con la Resurrezione.
Quasi tutti gli oggetti presenti nella scena racchiudono, al pari dello specchio, un duplice significato: essi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
sono riproduzione della realtà e hanno al contempo una
valenza simbolica. Per l’osservatore del tempo saranno
stati senz’altro evidenti i richiami moralistici e le allusioni al tradizionale rito nuziale, anche se vi comparivano elementi estranei al linguaggio figurativo dei paesi
nordici, come il grandissimo cappello nero dello sposo,
tipico dell’Italia settentrionale. Quello che Van Eyck ha
inteso rappresentare nel suo magistrale doppio ritratto
è un matrimonio già celebrato che viene riconfermato da
parte dei due coniugi felici nella cosiddetta chambre
étoffée, la camera da letto con ricchi arredi e una serie
di doni, che, secondo la tradizione, il mattino seguente
alla prima notte di nozze lo sposo regala alla sua sposa.
Tanto realistica appare la stanza da letto in cui è raffigurata la coppia Arnolfini, quanto fittizio si mostra lo
spazio in cui Van Eyck ha collocato Nicolas Rolin e la
Madonna col Bambino nella Madonna del cancelliere
Rolin (1435 ca.). Il donatore è inginocchiato in preghiera; un libro di preghiere giace aperto sul suo inginocchiatoio, ma egli guarda davanti a sé assorto in altri
pensieri. Le sue vesti sono di preziosissimo broccato
d’oro orlato di ermellino, l’inginocchiatoio è nascosto da
un sobrio drappo di raffinato velluto o damasco del
tanto costoso color blu. Di fronte a lui siede la Vergine
Maria con il Bambino nudo in grembo, che con la sua
piccola destra benedice il cancelliere mentre un angelo
in volo tiene una corona finemente decorata sopra il
capo della Madonna. Lungo il bordo d’oro tempestato
di gemme del suo mantello rosso brillante, sono ricamati
frammenti delle preghiere del piccolo Ufficio della Vergine. Non è casuale che anche il libro d’ore di Rolin sia
aperto su queste preghiere, che esaltano tra l’altro la
posizione eminente di Maria, qui considerata come Sedes
Sapientiae, trono della saggezza.
Nicolas Rolin, nato intorno al 1380 a Autun, ebbe
vita lunghissima, morì infatti il 18 gennaio 1462, e mal-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
grado i suoi umili natali riuscì a rivestire le cariche più
prestigiose e ad accumulare grandi ricchezze. Nel 1408
ricoprì la carica di giureconsulto presso i parlamenti di
Parigi e di Dole. Poco tempo dopo la morte di Giovanni senza Paura, nel 1419, venne chiamato in veste di
consigliere dal figlio di questi, l’ancora giovanissimo
Filippo il Buono. Dal 1422 in poi Rolin fu come cancelliere di Borgogna il massimo funzionario di corte, finché nel 1457 non cadde in disgrazia. Il duca Filippo il
Buono aveva subito a tal punto la sua influenza e gli era
talmente affezionato che nel 1462 nessuno osò riferire
al duca malato, così raccontano le cronache, della morte
del consigliere che gli era stato al fianco quasi tutta la
vita. Il mecenatismo di Nicolas Rolin si concentrò sulla
sua città natale Autun e su Beaune, dove era nata e
sepolta la madre. Per suo volere a Beaune nacque il
grande ospedale, l’Hôtel-Dieu; ad Autun egli fu autore
di una serie di donazioni materiali e spirituali nella chiesa di Notre-Dame-du-Chastel, andata distrutta nel 1798.
In questa chiesa, che sorgeva nei pressi della casa avita,
il cancelliere era stato battezzato e qui ebbe sepoltura
davanti al coro. Sull’altare maggiore Rolin aveva fatto
collocare una pala in cui figuravano lui e la terza moglie
in veste di donatori. Sull’altare della cappella sepolcrale della famiglia, dedicata a san Sebastiano, vi erano le
statue dei santi patroni della famiglia Antonio e Sebastiano, che in veste di santi protettori compaiono anche
nel Giudizio Universale di Rogier van der Weyden destinato alla “Sala dei malati” a Beaune. Tra la propria abitazione e la chiesa Rolin fece costruire un passaggio, che
sboccava in una seconda cappella di famiglia, con un
bovindo da cui si vedevano sia la cappella sepolcrale che
l’altare maggiore e il punto dove sarebbe stato seppellito il cancelliere. I duchi di Borgogna avevano un analogo oratorio nella loro certosa di Digione, e così pure i
sovrani francesi nella Sainte Chapelle a Parigi, senza
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
dubbio l’esempio per antonomasia di questi oratori. A
Bruges la famiglia Adornes possedeva un luogo privato
per la preghiera nella chiesa di Gerusalemme, di cui era
la fondatrice, e sempre in quella città un’altro splendido esempio è l’oratorio del palazzo cittadino dei Signori di Gruuthuse, che si affacciava sul coro della chiesa
di Notre Dame.
Jan van Eyck non dipinse certo il quadro della
Madonna del cancelliere Rolin, come più volte è stato suggerito, con l’intento di realizzare una pala d’altare, né
tantomeno come epitaffio o tavola commemorativa.
Esso è invece un quadro di devozione privata, che Rolin
avrà portato con sé nei suoi viaggi al seguito della corte
borgognona e che avrà avuto una sua collocazione nel
palazzo del cancelliere e una sistemazione ancor più
appropriata nell’oratorio allorché questa venne ultimata nel 1453. Il committente e primo proprietario, Nicolas Rolin, e la Madonna col Bambino si non si trovano
in un ambiente reale, bensì simbolico, elevato in una
sfera irraggiungibile al di sopra del magnifico paesaggio
sullo sfondo. Del tutto inverosimili per la loro grandezza sono le due figure del cancelliere e di Maria, una sproporzione vistosa in rapporto agli elementi architettonici, alle piante e ai fiori del piccolo giardino recintato, e
soprattutto alle due piccole figure maschili collocate al
centro, sul fondo. L’architettura romanica ha la maestosità di un palazzo ed evoca le vaste sale tipiche dei
castelli imperiali con le arcate aperte. I tre archi rappresentano qui senza dubbio il numero divino tre con
tutte le sue implicazioni simboliche. In questo palazzo
celeste, al cospetto di Rolin in preghiera, si svolge la
visione di Maria come regina dei cieli e del Bambino con
il globo imperiale come sovrano. Rolin è qui raffigurato anzitutto come uomo pio intensamente dedito alla
preghiera. Nel disegno preparatorio alla sua cintura è
appesa una borsa gonfia di denaro, attributo tipico per
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la carica di cancelliere e comunque piuttosto materialistico; è senz’altro per questo motivo che venne omessa
nel dipinto definitivo. È invece impossibile dire che
cosa tenesse in mano il Bambino nel disegno preparatorio, solo in un secondo momento egli divenne l’Onnipotente che osserva e benedice Rolin.
“Il suo bozzetto sullo strato di mestica era ben più
netto e marcato...” scriveva a proposito di Jan van Eyck
il già citato pittore di Haarlem Karel van Mander nel
suo Libro della pittura, comparso nel 1604 (fol. 202):
“ricordo altrettanto bene di aver visto un suo quadretto con una figura muliebre sullo sfondo di un paesaggio,
eseguito nella sola coloritura di base, e tuttavia oltremodo minuzioso e compiuto...”. Il quadretto cui egli
allude è la tavola con Santa Barbara (1437) che Van
Mander aveva visto a Gand dal suo maestro Lucas de
Heere.
La santa vergine Barbara è seduta a terra nell’atto di
sfogliare un libro, un ramo di palma nella mano sinistra
allude al suo martirio. L’ampio drappeggio delle vesti
pone la figura della santa in primo piano e la rende il
soggetto principale del piccolo dipinto. In posizione centrale, alle sue spalle, un’imponente torre in costruzione
si staglia sul vasto panorama in lontananza. Figure minute di operai trasportano carichi per il cantiere e sono
all’opera tutt’intorno, all’interno o sopra la torre ancora incompiuta. Al primo piano, sopra la testa della santa,
tre finestre gotiche a lancetta, l’una a fianco all’altra,
sono comunemente interpretate come un riferimento
alla Trinità. Questa lettura si fonda sulla leggenda della
santa, secondo la quale ella fece aprire una terza finestra in aggiunta a quelle esistenti nella torre in cui il
padre la teneva prigioniera. Barbara si convertì ugualmente al cristianesimo e diede in tal modo prova della
sua particolare devozione per la Trinità. Proprio per la
sua fede in Cristo ella venne decapitata dal padre.
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
La piccola tavola è probabilmente il più antico esempio di disegno che abbia un valore artistico autonomo.
La rappresentazione, elaborata fin nei minimi dettagli,
è eseguita con matita e pennello fine su una base bianca. La cornice e il retro sono marmorizzati, come usavano spesso sia Van Eyck che i colleghi del tempo, e sul
bordo inferiore del quadro compare la firma e la data
“joh(ann)es de eyck me fecit. 1437” Ne consegue che
evidentemente il pittore considerava l’opera in sé compiuta. La campitura celeste pallido e beige del cielo è
senza dubbio un’aggiunta posteriore. Lo stesso Van
Mander affermava nella sua descrizione trattarsi di un
disegno preparatorio e che quindi il quadro, per quanto perfetto e altamente lodevole, attendeva il suo completamento. Questo dibattito si protrae fino ai giorni
nostri: alcuni ritengono che per un qualche motivo Van
Eyck non sia riuscito a terminare l’opera, altri invece
sono certi che il pittore si proponesse di realizzare un
disegno e collocano la tavola nella tradizione delle grisaglie e dei dipinti monocromi. Al di là di queste semplici constatazioni, nessuno ha ancora fornito argomenti concreti atti a chiarire il singolare stato di questo
“dipinto disegnato”.
Sotto il profilo iconografico la scena di Van Eyck è
estremamente insolita. La torre, attributo per antonomasia della santa, non era mai apparsa come struttura
in costruzione, ancora incompiuta. In passato questo
particolare veniva spiegato sulla base delle parole dell’apostolo Paolo, che vede ogni credente come costruttore al servizio di Dio, dunque Barbara sarebbe vicino
alla sua torre quale simbolo della Chiesa Operosa. Quest’analisi è senz’altro puntuale, ma Jan van Eyck rende
ancora più pregnante il gioco tra forma e contenuto. Barbara è qui presentata come santa, la palma indica che ella
è una martire: l’attendeva infatti la decapitazione, ma
evidentemente il momento non è ancora giunto, come
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
indica la torre tuttora in costruzione. Ella è già santa,
ma il suo destino di martire non si è ancora compiuto.
Alla luce del formato e del carattere intimistico dell’opera, questa era certo destinata alla devozione domestica: ogni cristiano era tenuto a porre il messaggio in relazione alla propria esistenza. Per nessun credente, d’altronde, la missione terrena si compie con il solo battesimo, la vita del cristiano deve invece arricchirsi di ulteriori contenuti spirituali. Van Eyck esprime l’idea, racchiusa nella scena, dell’incompiuto che è al tempo stesso compiuto, anche nell’esecuzione tecnica del quadro.
L’opera è compiuta, tuttavia pare incompiuta: in base
alla forma esteriore e alle norme di tecnica pittorica in
uso all’epoca, questa è incompiuta, sono state però eseguite le operazioni preparatorie necessarie al suo compimento. Lo strato di base e il disegno preliminare,
però, sono secondo le parole di Van Mander “oltremodo minuziosi e compiuti”. In effetti le moderne indagini condotte sui disegni preparatori, in particolare
mediante la riflessografia a raggi infrarossi, hanno dimostrato che in nessun altro caso Van Eyck ha eseguito il
disegno preparatorio con tale dovizia di particolari e
tanta precisione come per la tavola di Santa Barbara. Il
disegno preparatorio divenne poi risultato definitivo.
Non per una scelta di natura estetica, bensì ispirandosi
al contenuto di quanto aveva raffigurato, Jan van Eyck
fece un passo di cruciale importanza verso il disegno
come opera d’arte autonoma.
Rogier van der Weyden. Questo artista (1399/14001464), noto anche come Rogelet de la Pasture, era nativo di Tournai e in questa città fu allievo, insieme a Jacques Daret, di Robert Campin. Dopo aver conseguito
nel 1432 il titolo per esercitare liberamente, Van der
Weyden si trasferì intorno al 1435 a Bruxelles, dove
divenne “pittore ufficiale della città”. Qui egli dirigeva
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
un’importante bottega e godeva di grande considerazione. Dal momento che in città non era insediata alcuna corte, gli incarichi provenivano soprattutto dalla
nobiltà e dalla borghesia agiata, tuttavia egli lavorò
anche per istituti ecclesiastici. Nel 1439-1440 risulta che
egli fu pagato per realizzare la policromia di una pala dei
Frati minori a Bruxelles e nel 1441 per la decorazione
di un drago da portare nella processione di santa Gertrude a Nivelles.
Anche all’estero Rogier acquistò rapidamente notorietà. Ricevette commesse in Spagna e Italia, dove nel
1450, in occasione del Giubileo, soggiornò a Roma come
pellegrino. Il viaggio a Roma venne affrontato probabilmente grazie al denaro ricevuto per il suo incarico
presso l’Hôtel-Dieu a Beaune.
La fama di questo pittore benestante, che faceva
parte dei nuovi ricchi della città, era davvero estesa. Ben
presto nelle cronache gli scrittori celebrarono la sua
arte, tra questi l’italiano Bartolomeo Facio (1456), Vasari nelle sue Vite (1550) e Karel van Mander (1604).
Tuttavia, secondo la testimonianza di queste nonché di
altre fonti, Rogier van der Weyden conservò sempre
intatta la sua modestia e non mancò mai di dare il suo
contributo agli enti di beneficenza per i poveri, i malati e i religiosi, e al benessere della comunità.
Nel 1574 Filippo II fece dono di una collezione di
quadri all’Escorial di Madrid. Di questa faceva parte
una delle più celebri pale d’altare di Van der Weyden,
la Deposizione dalla croce. Il tema della Deposizione era
particolarmente popolare nel Quattrocento e in particolare quest’opera, sicuramente di grande impatto già
solo per le sue dimensioni (2.00 x 2.65 m), fu di eccezionale importanza per altri pittori, come provano anche
le innumerevoli copie e imitazioni.
La “Grande Gilda dei Balestrieri” di Lovanio aveva
commissionato all’artista nel 1439 una pala d’altare per
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
la cappella della gilda nella chiesa di Onze-Lieve-Vrouwvan-Ginderbuiten in quella città (le piccole balestre negli
angoli superiori rimandano a questo committente). Evidentemente a Lovanio non vi erano artisti della levatura richiesta dalla gilda e venne pertanto interpellato il
Maestro Rogier di Bruxelles. Una volta ultimata l’opera, nel 1443, vi fu subito un pittore anonimo di Lovanio che ne eseguì una copia, destinata a una cappella
sepolcrale privata nella chiesa di San Pietro di quella
città (il “Trittico del nobiluomo”, 1443, Lovanio Chiesa
di San Pietro). Dell’originale di Van der Weyden riuscì
ad impadronirsi, un secolo più tardi, la governatrice
Maria d’Ungheria che lo collocò nella cappella del suo
palazzo a Binche (Hainaut): alla gilda dei balestrieri di
Lovanio fu corrisposta una certa somma di denaro, inoltre Maria d’Ungheria donò alla chiesa di Onze-LieveVrouw-van-Ginderbuiten un organo nonché una copia
fedele della Deposizione eseguita dal suo pittore di corte
Michiel Coxcie di Malines. Maria d’Ungheria portò l’opera con sé in Spagna, dove in seguito divenne proprietà
del re Filippo II.
Dieci figure a grandezza quasi naturale sono rappresentate con teatralità su un semplice fondo d’oro, in uno
spazio di limitata profondità e dal forte sviluppo orizzontale, due tratti peculiari dello stile di Van der Weyden. In tal modo l’accento è posto interamente sul dramma che si compie davanti all’osservatore: la Passione di
Cristo morto per l’umanità. Un evento che l’artista ha
raffigurato con tale intensità da suscitare quel profondo sentimento di pietà che ognuno deve provare al suo
cospetto.
Il corpo privo di vita di Cristo è sorretto da Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, che non lasciano trapelare
le loro emozioni. Tra le donne, invece, due manifestano tutto il loro strazio: ai piedi di Cristo Maria Maddalena si contorce disperata le mani mentre una donna
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
dietro Giuseppe porta affranta la mano alla fronte.
Maria vinta dal dolore perde i sensi. Il suo corpo viene
così ad assumere quasi la stessa posizione del Figlio,
esprimendo il concetto della totale compassione di Maria
con Cristo. Nella letteratura mistica tardogotica questo
divenne un tema prediletto, tanto che nacque la cosiddetta Imitatio Christi, dove l’osservatore si identifica
completamete con le sofferenze di Cristo e di Maria. La
maniera in cui è raffigurata Maria deve stimolare questa riflessione devozionale.
Al contrario di Van Eyck, Van der Weyden qui non
cerca tanto di rappresentare il mondo che lo circonda
quanto piuttosto di rendere la concezione gotica della
commozione e della compassione. E questa resa è sempre attentamente ponderata. Il dipinto presenta, infatti, Maria sconvolta dal dolore quasi svenuta, in quanto
era pur sempre impensabile e teologicamente insostenibile che la Madre di Dio perdesse realmente il controllo delle emozioni e dei sensi.
Il maestoso polittico con il Giudizio Universale,
commissionato a Van der Weyden dal facoltoso cancelliere borgognone Nicolas Rolin e dalla consorte di
questi, è tuttora collocato nel luogo cui era destinato in
origine, vale a dire il lebbrosario Hôtel-Dieu a Beaune
(1443-1451 ca.). Non avendo figli, i coniugi Rolin elargivano grandi somme di denaro in beneficenza e per le
opere d’arte, in parte anche a maggior onore e gloria di
se stessi. Già qualche tempo prima il cancelliere aveva
ordinato, ad esempio, il citato dipinto a Jan van Eyck,
in cui figuravanono la Madonna e lui stesso in veste di
donatore.
È stato suggerito che Van der Weyden progettò il
polittico del Giudizio Universale di proporzioni così
grandiose per competere con il polittico di Gand di Jan
van Eyck. E la tesi non è del tutto inverosimile, in
quanto sia le dimensioni che la struttura – quasi un
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
“supertrittico” – e l’iconografia delle due pale hanno
una notevole somiglianza.
Come accade nella pala di Van Eyck, il programma
iconografico sul lato esterno del polittico inizia con
un’Annunciazione, realizzata in questo caso a grisaglia.
Nel registro inferiore, sull’anta sinistra e su quella
destra, sono raffigurati i ritratti dei due donatori, Nicolas Rolin e la moglie Guigonne de Salins. Sono inoltre
presenti i santi dipinti a grisaglia come fossero statue di
pietra. Invece dei santi patroni personali, come è consuetudine, tra i due donatori sono collocati due santi,
che da un lato erano considerati i patroni della famiglia,
e dall’altro avevano grande importanza per l’ospedale:
sant’Antonio, santo protettore di Beaune fino al 1453
e protettore dalla peste nonché da altre malattie della
pelle, e san Sebastiano, anch’egli invocato in caso di
peste.
A battenti aperti la pala mostra uno sbalorditivo Giudizio Universale. La Deësis, Cristo Giudice, con Maria e
san Giovanni Battista, occupa la posizione centrale come
nell’opera di Van Eyck. Il Giudice universale, Maria,
Giovanni e le due schiere di santi quali intercessori dell’umanità nel Giudizio, vengono per così dire catturati
entro un’enorme nube a forma di arcobaleno. Cristo si
erge come giudice in elevata solitudine, in piedi sul
globo terrestre e al contempo assiso su un secondo arcobaleno a semicerchio. Raffigurato con il giglio e la spada
vicino alla bocca, egli tiene la mano destra levata in atto
di benedizione, mentre con la sinistra indica in maniera eloquente il testo del Giudizio che si srotola verso il
basso. Ai lati di Cristo, angeli si librano in volo con gli
strumenti della passione e sotto di lui l’arcangelo Michele è intento a pesare le anime. L’insieme rappresenta la
cosiddetta psicostasìa, la “pesatura” delle anime dei
defunti, un tema pressoché assente negli artisti contemporanei a Rogier Van der Weyden. Una scena ana-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
loga scolpita si trova nel portale centrale della cattedrale di Bourges.
Nel riquadro inferiore del polittico le anime disperate, dannate o meno, avanzano a carponi e barcollano in
tutta la loro fragilità sulla terra arida in cerca di una via
verso il cielo, sull’anta sinistra più esterna, o verso l’inferno, sull’estrema destra della scena. Alcune vanno
incontro al loro destino urlando per la disperazione,
altre si abbandonano all’autocommiserazione, lanciano
grida di orrore, oppure sono colte dal terrore per l’ignoto, talune invece si avviano rassegnate incontro al
loro destino.
L’intercessione in cui esse ripongono la loro speranza di salvezza verrà dagli intermediari disposti in fila
dietro a Maria, avvocata dell’umanità, e a san Giovanni Battista. Alle spalle di Maria siede san Pietro alla
guida di un nutrito gruppo di intercessori. La comunità
dei santi è rappresentata da quattro figure emblematiche: un papa, un vescovo, un principe e un monaco, cui
si accompagnano cinque apostoli. Di fronte a Pietro, dietro al Battista, siede l’apostolo Paolo che conduce la
schiera degli altri intercessori, vale a dire tre figure rappresentative di sante, una vergine, una principessa e
una donna sposata, nonché i rimanenti cinque apostoli.
Sebbene la scena sia resa fin nei dettagli in modo
spettacolare, Rogier riuscì ad evitare che l’accento venisse a cadere su questo aspetto. Tramite la disposizione
orizzontale, di ampio respiro, quasi a fregio, delle figure, egli evidenzia l’essenziale, la scena complessiva del
Giudizio. Non gli interessano gli effetti illusionistici
cari a parecchi colleghi del suo tempo, il dipinto appare
nell’impianto quasi arcaico. In luogo del caos brulicante di particolari atroci, così frequentemente esibito nelle
rappresentazioni del Giudizio, qui si incontra un ordine quasi rasserenante. A tal fine Van der Weyden ha
fatto un uso calibrato della struttura orizzontale della
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
pala di forma rettangolare. La collocazione delle figure
su un’ampia superficie di scarsa profondità contribuisce
a rendere armoniosa la composizione.
A prima vista il dipinto sembrerebbe, dunque, il tipico prodotto di un’ininterrotta tradizione medioevale
con la scena della psicostasìa, l’articolazione orizzontale in uno spazio poco profondo, gli attributi arcaici come
il giglio e la spada presso la bocca di Cristo, a simboleggiare l’equità del suo giudizio. Eppure l’opera fu
estremamente innovativa. Questa rappresentazione del
Giudizio Universale è stata la prima, e per lungo tempo
l’unica, a raffigurare l’inferno senza l’immagine del diavolo; del tutto assenti anche demoni e angeli. La grandiosa pala fu sistemata nella cappella, consacrata il 31
dicembre 1451, adiacente la grande sala dei malati dell’ospedale. È facile immaginare quale intensa emozione
suscitasse sia in quanti assistevano i pazienti che nei
tanti malati che all’ospedale trascorrevano periodi più o
meno lunghi, spesso lottando tra la vita e la morte.
Senza dubbio il polittico sarà stato loro di conforto nella
meditazione e nelle preghiere rivolte a Dio, dal quale sia
chi assisteva caritatevolmente i malati che i malati stessi potevano attendersi tanta grazia durante la loro esistenza terrena.
La seconda generazione. L’attività pittorica di Petrus
Christus si inserisce tra quella di Van Eyck, morto già
da alcuni anni quando questi ottenne la cittadinanza di
Bruges nel 1444, e quella di Memling, che in quella
città gli sopravvisse quasi un quarto di secolo. Ad una
considerazione a posteriori, il fatto più significativo dell’evoluzione artistica di Petrus Christus consiste nell’adozione, per la prima volta in assoluto nei Paesi Bassi e
nel nord Europa, della costruzione prospettica razionale e geometrica con unico punto di fuga, che l’artista
applicò secondo un metodo elaborato da Filippo Bru-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
nelleschi. Tra le opere pervenute, le prime in cui Petrus
Christus utilizza appieno la prospettiva centrale sono la
Madonna con il Bambino tra i santi Girolamo e Francesco
(Francoforte, Städelsches Kunstinstitut) e l’Annunciazione del 1452 (Bruges, Groeningemuseum).
Di quest’artista si conserva un corpus di opere relativamente certe: una trentina di dipinti, dei quali nove
firmati e datati, cinque disegni e un’unica miniatura.
Non sono noti i luoghi in cui soggiornò prima di stabilirsi a Bruges nel 1444, né i maestri presso i quali si
formò. Risulta dal registro dei cittadini di Bruges che
egli nacque a Baerle, ma se si tratti dell’omonimo villaggio nel Brabante non è affatto certo. Arrivò a Bruges come pittore già esperto e in qualità di cittadino illustre divenne membro di due confraternite di Maria,
Nostra Signora delle Nevi (Onze Lieve Vrouw ter
Sneeuw) e Nostra Signora dell’albero secco (Onze Lieve
Vrouw van de Droge Boom). Ricevette importanti commissioni sia da privati che da parte delle autorità e da
enti ecclesiastici: ritratti, pale d’altare, dipinti devozionali ma anche fastose decorazioni e progetti per tableaux
vivants, come in occasione dell’ingresso trionfale del
duca Filippo il Buono a Bruges nel 1463. Nel 1468 collaborò nuovamente alla realizzazione di apparati per la
cerimonia delle nozze tra Carlo il Temerario e Margherita di York. Oltre 150 furono gli artisti mobilitati nell’intero regno borgognone, tra cui anche Hugo van der
Goes, per dare lustro ai festeggiamenti e soprattutto al
grandioso torneo organizzato da Antonio di Borgogna.
La tavola con Sant’Eligio nel suo laboratorio fu con
ogni probabilità commissionata a Petrus Christus nel
1449 dalla gilda degli orafi e argentieri di Bruges;
sant’Eligio era, infatti, il patrono della corporazione. La
cappella della gilda, che sorgeva a fianco alla casa della
corporazione nella Smedestraat (via dei fabbri) e veniva condivisa con i fabbri di quella città, era stata sotto-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
posta a lavori di ristrutturazione e fu riconsacrata nel
1449. È perciò verosimile che l’opera sia stata concepita come dipinto devozionale da collocare nella cappella
rinnovata. Il santo vi è raffigurato seduto dietro al suo
bancone di lavoro intento a pesare un anello con una
gemma rossa, senza alcun dubbio una fede nuziale che
la giovane coppia sta acquistando nel suo laboratorio.
L’uomo tiene stretta la sua amata mentre segue attento
l’operazione dell’orafo. Il gioiello è chiaramente destinato alla mano sinistra della giovane donna, protesa a
ricevere l’anello, come nella raffigurazione delle nozze
mistiche tra santa Caterina e Cristo, dipinta da Hans
Memling. Nel mobile da esposizione alle spalle di
sant’Eligio, si scorgono materiali preziosi – perle, coralli rossi, cristallo – e oggetti di grande bellezza creati dall’artigiano. Alla larga fascia fulva drappeggiata sul bancone deve essere forse applicata una fibbia pregiata,
magari proprio quella appesa in alto nel mobile. Sebbene il colore fulvo ricorra identico anche nelle maniche e
nel colletto delle vesti della donna, resta dubbia l’interpretazione della fascia come cintura nuziale. Altrettanto oscura appare tuttora la funzione del signore sontuosamente abbigliato e del suo falconiere, che osservano
la scena attraverso la finestra aperta del laboratorio e che
vengono riflessi nello specchio convesso sull’estremità
destra del bancone.
Al centro della tavola è apposta la scritta con firma
e data: “m’. petr’. xpi. me .. fecit. ao 1449” (“il maestro Petrus Christus mi fece nell’anno 1449”), seguita
da un marchio simile a un contrassegno. Può darsi che
questo fosse il marchio di Petrus Christus; marchi del
genere erano certo d’uso corrente e a partire dal 1426
ai miniatori di Bruges fu fatto persino obbligo, ribadito ancora nel 1457, di registrare il loro marchio presso
la gilda e di contrassegnare con questo le loro opere. Di
quest’artista si conosce in realtà una sola miniatura, tut-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
tavia è noto che il sistema dei marchi non trovava un’applicazione sistematica presso i miniatori. Occorre peraltro notare che Petrus Christus non appose il marchio in
nessun altra occasione. Secondo un’altra ipotesi plausibile, il marchio sarebbe da riferire all’orafo che commissionò a Petrus Christus l’opera per la cappella della
gilda riconsacrata nel 1449. Gli orafi infatti utilizzavano regolarmente i loro marchi di maestro, obbligatori a
Bruges fin dal 1441. A sostegno di questa tesi è opportuno citare l’Incoronazione di spine di Hieronymus Bosch
al Museo del Prado. In base ai marchi d’argento riprodotti con grande precisione da Bosch sul dipinto, si ipotizza che l’Incoronazione di spine fu eseguita nel 15101511 su incarico di un argentiere di ’s-Hertogenbosch
– autore anonimo di alcuni manufatti individuati grazie
al contrassegno – per l’altare della corporazione degli
orafi nella chiesa di San Giovanni della città.
Nel 1604 il pittore e scrittore Karel van Mander
osservava nel suo Libro della pittura a proposito di Dieric van Haarlem (Dirck Bouts, 1415?-1475) che questi
“era stato fin da giovane un maestro di eccezionale bravura”. Van Mander non sapeva da chi Bouts ricevesse i
rudimenti del mestiere e cosa avesse fatto a Haarlem
nella prima parte della sua vita. Già nel 1572 comunque
il cronista Lampsonius aveva ricordato l’artista nel suo
Pictorum Effigies, citandolo come “Theodorus Harlemius”, con una descrizione corredata da un verso, ripreso poi dallo stesso Van Mander. Che Bouts abbia lavorato ad Haarlem risulta inoltre dalla Descrittione di tutti
i Paesi Bassi, opera del 1567 di Lodovico Guicciardini.
In questo libro dedicato alle diverse città, Guicciardini
afferma di aver visto un quadro di Bouts con una veduta topografica di Haarlem.
Non si sa con precisione quando ebbe luogo il trasferimento del pittore a Lovanio. Ad ogni modo diversi documenti d’archivio risalenti al periodo compreso tra
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
1457 e il 1475 attestano la sua attività in questa città.
Qui egli incontrò Catharina van der Bruggen, detta
anche Metten Gelde (“con i soldi”), divenuta poi sua
moglie, che gli diede diversi figli. I due figli maschi,
Dirck e Aelbrecht, appresero anche loro il mestiere di
pittore e fecero da assistenti al padre nella grande bottega che questi conduceva. Nel 1468 Bouts divenne pittore ufficiale di Lovanio. E in questa città, che per
lungo tempo l’aveva ospitato tributandogli onori e fama,
morì nel 1475.
Il quadro con la Cena a casa di Simone il Fariseo (14451450 circa) rivela l’ascendente esercitato sull’artista da
Jan van Eyck e Rogier van der Weyden, suoi insigni predecessori fiamminghi; senz’altro Bouts ebbe modo di
vedere a Lovanio la Deposizione di quest’ultimo, nonché
altre opere. Il dipinto rappresenta l’episodio di Cristo
ospite a casa di Simone il Fariseo (Luca 7, 36-50). Mentre egli siedeva a tavola con gli altri commensali, entrò
in casa Maria Maddalena la peccatrice recando con sé un
vasetto pieno di mirra. Bagnati i piedi di Cristo con le
sue lacrime, ella li asciugò con i capelli, li baciò e li unse
con il profumo. Egli le disse che il suo era un gesto d’amore e le perdonò i suoi peccati. Nel quadro Cristo
compare nell’atto di impartire la sua benedizione mentre Simone si sporge in avanti per vedere cosa stia facendo la Maddalena. Con la sua espressione di biasimo e il
gesto di ripulsa, Giuda Iscariota, il discepolo che protestò per lo spreco dei preziosi unguenti (Giovanni 12,
4-6), rende manifesta la sua disapprovazione.
Questo soggetto era molto amato nel medioevo, in
particolare nei Paesi Bassi settentrionali. La sua popolarità derivava forse in parte dalla diffusione attraverso
libri devozionali illustrati, quali la Biblia Pauperum e lo
Speculum Humanae Salvationis. Il suo significato era
chiaro. A tal proposito Ludolf il Certosino ebbe a scrivere: “Questa donna che era una peccatrice e che si
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
abbandona ai piedi di Cristo, rappresenta tutti coloro
che si mostrano sinceramente pentiti dei loro peccati.”
È probabile che l’anonimo monaco certosino, che compare sulla tavola in veste di donatore, si sentisse particolarmente toccato dalle parole del suo confratello e per
tale motivo commissionò l’opera.
Lo stile del dipinto richiama quello della pala d’altare con scene dalla vita di Maria, attualmente al Prado,
che Bouts eseguì intorno al 1445. Le figure, con i loro
visi tondi, si assomigliano; analogo è anche il delicato
trattamento della luce con cui l’artista dà volume ai
corpi. I riflessi sulle superfici lucenti, le ombre degli
oggetti e delle figure sanno dare alla rappresentazione
una certa vivacità, spesso assente invece nella resa delle
emozioni. Il cromatismo tipicamente nordico conferisce
all’opera una certa freddezza. Per accrescere l’effetto di
profondità, Bouts ha scelto un punto di vista che conferisce al pavimento un effetto fortemente scorciato.
L’influenza di Van Eyck nella cura per il dettaglio
emerge tra l’altro nella splendida natura morta formata
dalla tavola imbandita. Si tratta di una “natura morta
con colazione” ante litteram, un genere che solo più
tardi, con i pittori di nature morte del Seicento, avrebbe conosciuto piena fioritura. I pesci in parte tagliati in
due, le brocche, i calici e boccali colmi, i pezzi di pane,
le pieghe nella tovaglia: raramente una natura morta fu
resa con tanta magnificenza in ogni suo particolare.
Nel suo Libro della pittura Karel van Mander menziona Albert van Ouwater come fondatore della Scuola
di Haarlem e sebbene il suo nome indichi una provenienza da Oudewater, presso Gouda, è verosimile che
egli ottenesse la fama soprattutto nella città di Haarlem.
L’unica opera che può essere attribuita con certezza a
quest’artista è la Resurrezione di Lazzaro (1455-1460
circa), eppure la sua fama doveva essere considerevole.
Van Mander dedica un’ampia trattazione al pittore e a
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
questa pala, occupandosi del modo insolito di trattare il
tema e dell’introduzione della parete divisoria con le
figure che guardano curiose attraverso la grata.
Albert van Ouwater era rinomato per i suo i paesaggi. In un appunto del 1521, di pugno di Marcantonio
Michiel, si legge di alcuni paesaggi opera di “Albert de
Holanda” nella collezione del cardinale Grimani di
Venezia. Lo stesso Van Mander, osservando che le
prime nonché più compiute manifestazioni nel campo
della paesaggistica ebbero luogo a Haarlem, elogia il
talento di Ouwater. A testimonianza della sua abilità
egli descrive una pala d’altare realizzata dall’artista per
la chiesa di San Bavone a Gand, in cui compare un interessante paesaggio con un gran numero di pellegrini:
alcuni camminano, altri fanno una sosta, c’è chi mangia
e chi sta bevendo. Quest’opera, purtroppo andata perduta, è tuttavia nota grazie ad alcune copie tedesche, da
cui risulta che il paesaggio di Ouwater era simile a quelli di Dirck Bouts e che pertanto è forse possibile parlare di una precoce tradizione di questo filone ad Haarlem. Comunque sia, Ouwater assicurò una continuità a
questa tradizione trasmettendola ai suoi allievi, tra i
quali figurava, secondo quanto è stato tramandato,
anche Geertgen tot Sint Jans.
La scena della Resurrezione di Lazzaro, apparentemente ambientata all’interno di una chiesa, è divisa in
due metà. Sul lato sinistro della tavola è raffigurato Cristo con alcuni suoi discepoli, tra questi Marta e Maria,
sorelle di Lazzaro. Vestiti con abiti piuttosto semplici,
essi stanno in disparte in un atteggiamento d’attesa
quasi passiva, alquanto inespressivi, osservando il miracolo che si compie sotto ai loro occhi. Di fronte a loro,
nell’altra metà del dipinto, i Giudei, abbigliati con sfarzosi abiti di stoffe pregiate, volgono quasi le spalle alla
scena con fare irrequieto e nervoso, come se non volessero averevi nulla a che fare. Pietro, il primo discepolo
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
di Cristo, ha la funzione di raccordo tra i due gruppi e
sembra voler placare gli animi inquieti. Davanti a lui
siede Lazzaro, appena risorto dalla tomba, che costituisce chiaramente il punto focale dell’evento. Al centro
della composizione, esattamente dietro alla testa di Pietro, gli spettatori che tentano di seguire il miracolo da
dietro la grata del coro. Come Van Eyck e altri artisti
prima di lui, Ouwater fa uso di un simbolismo mascherato, il già citato disguised symbolism. Così ad esempio i
due gruppi stanno a rappresentare il Bene e il Male, un
tema che viene espresso nuovamente in due capitelli del
deambulatorio, attraverso la raffigurazione del Sacrificio
di Isacco. Quest’episodio veterotestamentario allude alla
salvezza di un uomo di nome Lazzaro e, più in generale, alla salvezza dell’essere umano attraverso il sacrificio
di Cristo. Tramite i due capitelli successivi, sui quali
appare Mosé che riceve le tavole della legge sul monte
Sinai e poi le mostra ai figli d’Israele, Ouwater illustra
l’ineluttabilità dell’avvento di una nuova era. In basso,
Pietro intuisce quanto sta avvenendo e si rivolge alla
schiera di Giudei che impersonano i miscredenti.
La scena si svolge nella parte inferiore del dipinto, la
metà superiore è invece occupata dalle strutture architettoniche. Lo spazio relativamente vuoto creato dalla
grandissima rotonda con deambulatorio riesce a creare
un’atmosfera piuttosto tranquilla e armoniosa. Uno dei
tratti tipici della prima pittura nederlandese, infatti, è
che spesso atmosfera e carattere di un quadro non emanano tanto dalle figure, ma sono piuttosto determinate
dall’ambiente circostante.
Il cromatismo di Ouwater è decisamente olandese: al
posto della tavolozza spesso sgargiante dei suoi colleghi
fiamminghi, qui dominano le tonalità delicate del verde,
il grigio, il marrone e altre tinte neutre che fanno da
sfondo alle figure dal cromatismo più vivo. Ouwater non
era il solo, anche Dirck Bouts e Giusto di Gand, come
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
si vedrà in seguito, operarono una scelta cromatica simile per ottenere un identico effetto.
Come abbiamo già osservato, i pittori del tardo
Medioevo realizzarono, oltre a dipinti su tavola, diversi altri generi di opere, quali pitture tombali, murali,
miniature, forse persino vetri dipinti e in ogni caso
manufatti pertinenti alla sfera più propriamente decorativa o applicata. Verranno qui esaminati due esemplari
di quest’ultima categoria, un prezioso scudo da parata
fiammingo, finemente dipinto, e un gonfalone della città
di Gand parzialmente conservato.
Nel 1452 le autorità municipali di Gand affidarono
a Achille van den Bossche la decorazione pittorica dei
cinque grandi stendardi dei rioni della città, nonché
quattro drappelle per tromba, ventisei banderuole e due
gonfaloni con lo stemma della città. In collaborazione
con altri due pittori egli realizzò inoltre diverse bandiere. Sugli stendardi dei rioni furono raffigurati i vari
santi patroni, Giovanni, Nicola, Giacomo, Michele e
Martino, ognuno con i relativi attributi in modo che fossero riconoscibili. I gonfaloni comunali, invece, presentavano di solito la “Vergine di Gand”.
L’artista Achille van den Bossche, libero maestro a
Gand a partire dal 1428 fino alla morte nel 1452, era
l’esponente più anziano di una famiglia di pittori di cui
facevano parte anche un certo Tristram van den Bossche
e i suoi figli, Agnes e Livinus, tutti quanti appartenevano alla gilda di San Luca. Ad Agnes van den Bossche
viene attribuito un gonfalone quattrocentesco conservatosi a Gand con l’immagine della Vergine della città
e un leone rampante. Il vessillo riveste un’importanza
particolare da un lato in quanto si tratta dell’opera di
una delle poche pittrici attestate nei documenti, dall’altro per il fatto stesso di essere giunto fino ai nostri giorni: infatti i prodotti d’arte applicata di questo genere,
realizzati senz’altro in numero cospicuo, andarono in
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
gran parte perduti. Alcuni esemplari si preservarono
perché divennero parte del bottino di guerra degli svizzeri in seguito alla serie di sconfitte da loro inflitte a
Carlo il Temerario nel corso del 1476. Gli svizzeri,
infatti, custodirono le bandiere e gli stendardi conquistati come trofei e provvidero inoltre alla loro puntuale
documentazione in numerosi inventari, corredati anche
di illustrazioni.
Lo scudo da parata conservato oggi al British Museum
di Londra, non rivela tracce di combattimento ed è dunque logico pensare che venne usato con grande cura e
orgoglio nel corso di cortei pacifici e sfarzosi. La rappresentazione applicata sullo scudo interamento dorato,
allo stesso modo di un dipinto su tavola di buona qualità
realizzato secondo la tradizione dei primitivi fiamminghi,
racchiude due tematiche: la scena cortese del giovane
cavaliere in ginocchio davanti alla sua dama, e la caducità, simboleggiata dalla morte in persona pronta a cingere con un abbraccio fatale il giovane con l’armatura.
La donna indossa una preziosissima veste di broccato
intessuto d’oro con guarnizioni d’ermellino e un copricapo a punta con un lunghissimo strascico di finissima
seta trasparente. Ella pare porgere la lunga catena di
maglie ritorte che le cinge la vita al cavaliere genuflesso,
che ha appena posato a terra guanti, elmo e alabarda per
rivolgere all’amata le parole che figurano nel cartiglio
sopra la sua testa: “Vous, ou la mort”. Il gesto della dama
può interpretarsi come un assenso alle sue profferte amorose, il cavaliere non avrà che da afferrare la sua cintura. Ben note sono le raffigurazioni quattrocentesche di
personaggi nobili con cotta d’arme insieme alle loro consorti avvolte in mantelli stemmati, che vengono letteralmente portate via in catene dai loro mariti.
“Maestro Giusto depintore” si impegnò nel 1473 ad
ultimare per una confraternita religiosa di Urbino una
pala d’altare che il fiorentino Paolo Uccello aveva ini-
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
ziato senza portare a compimento e che era già stata esaminata da Piero della Francesca nel 1469. Il pittore è
menzionato ancora nel 1474, stavolta in modo più esplicito, come “Giusto da Guanto”. Quando gli viene versata l’ultima somma dovuta, l’11 aprile 1475, evidentemente l’opera è ormai compiuta. Nello stesso anno,
qualche tempo dopo, ricevette dalla stessa confraternita l’incarico di realizzare uno stendardo.
La pala della Comunione degli Apostoli (1473-1475)
era destinata alla chiesa del Corpus Domini, che era
amministrata da una confraternita omonima e sorgeva
accanto al Palazzo Ducale di Urbino. Sulla predella della
pala Paolo Uccello aveva rappresentato il Miracolo dell’ostia. Anche Giusto di Gand pose il Santissimo Sacramento al centro della sua opera, nella tavola centrale
della pala, realizzando una variante singolare dell’episodio dell’Ultima Cena, e cioè Cristo che distribuisce
l’ostia agli apostoli. Era stato il Beato Angelico a raffigurare per la prima volta questo soggetto in un affresco
degli anni 1440-1445 nel convento di San Marco a
Firenze, inaugurando una tradizione duratura. Non è da
escludere che Giusto abbia potuto vedere l’affresco in
una delle celle del convento, dal momento che sembra
essere proprio lui il pittore attivo a Firenze citato nei
documenti nel 1445. Probabilmente l’artista nacque a
Gand agli inizi del Quattrocento, ebbe in quella città la
sua formazione e vi lavorò per un breve periodo prima
di andare a Firenze. Le fonti a riguardo, tuttavia, sono
oltremodo sommarie e le opere forse effettivamente di
mano dell’artista, che sono citate in documenti più tardi,
sono andate perdute. In ogni caso è da respingere l’ipotesi, più volte formulata, della sua identificazione con il
pittore Joos van Wassenhove.
Secondo quanto risulta dalle fonti d’archivio, la
Comunione degli Apostoli per la chiesa del Santissimo
Sacramento di Urbino è dunque un’opera autografa di
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
Giusto di Gand. Recenti indagini storico-artistiche
hanno evidenziato, grazie all’ausilio delle moderne tecniche di analisi dei disegni preparatori, che il pittore è
anche l’artefice della concezione e del disegno preparatorio di una serie di tavole che un tempo ornavano lo
studiolo del duca di Urbino e inoltre che egli stesso ne
completò due (Urbino, Palazzo Ducale, studiolo di Federico da Montefeltro; Parigi, Musée du Louvre). È facile immaginare che l’intervento di Giusto possa essere
individuato anche in altre opere eseguite espressamente per il palazzo del duca Federico da Montefeltro a
Urbino.
Per quanto scarne siano le notizie sull’artista, è evidente che egli appartiene in pieno alla tradizione dei pittori dei Paesi Bassi meridionali e che le commesse affidategli a Urbino dall’esigente duca erano altamente prestigiose. La pala d’altare eseguita per la Confraternita
del Corpus Domini – il duca ne finanziò l’esecuzione in
minima parte ma dovette esservi coinvolto molto da
vicino – è interessante per diversi motivii. Già nel 1550
Giorgio Vasari osservava nelle Vite de’ più eccellenti pittori che Giusto di Gand “autore del dipinto della Comunione degli Apostoli e di altri dipinti per il duca di Urbino” era stato tra i primi ad utilizzare i colori a olio.
Sotto il profilo iconografico, poi, l’opera è, del tutto
eccezionale. Inoltre Giusto di Gand rappresenta in
maniera esemplare la schiera dei valenti pittori fiamminghi che lavorarono per committenti italiani della
massima levatura. Ciò che rende infine la tavola davvero sorprendente sono le dimensioni dell’unica scena raffigurata: con una superficie di oltre 7,6 metri quadri
questa è la più grande pala finora nota della pittura
nederlandese delle origini.
Esattamente al centro della scena, leggermente piegato, il Cristo amministra il sacramento dell’Eucaristia.
Sulla destra, sopra di lui, pende una lampada perpetua
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
affiancata, nei due angoli superiori, da due angeli. Alle
sue spalle, un tavolo è collocato come fosse un altare in
uno spazio che ricorda un’abside. Nove apostoli sono
schierati davanti a Cristo sulla sinistra della pala, altri
tre sono inginocchiati sulla destra. All’estremità, dietro
al primo gruppo, compare Giuda che tiene ben stretta
la sua borsa coi denari. Raffigurato come un giovane di
bell’aspetto, Giovanni dietro l’altare assiste Cristo nell’amministrazione dell’Eucaristia prendendo la caraffa
del vino per versarlo nel calice. Sullo sfondo, verso
destra, vi è un altro piccolo gruppo di persone, tra le
quali Federico da Montefeltro – sebbene non sia lui il
donatore della pala – e una donna con un bambino in
braccio, che si ritiene sia il figlio e successore del duca,
Guidobaldo. Giusto di Gand sembra aver intrecciato in
questa grandiosa opera la monumentalità tipica dell’arte italiana con la tradizione di matrice nordica. Così le
fisionomie degli apostoli derivano dall’attenta osservazione di personaggi del popolo, mentre Giovanni e gli
angeli sono chiaramente idealizzati alla maniera nederlandese, il duca Federico infine è inserito nella scena in
un tipico ritratto di profilo all’italiana.
Il 5 maggio 1467 Hugo van der Goes venne nominato maestro della gilda dei pittori di Gand, sua città natale (?), testimone il pittore Joos van Wassenhove insieme ad un’altra persona. La sua fu una carriera folgorante, senz’altro perché egli era giunto (tornato?) a
Gand come maestro già esperto. Alcuni ritengono che
egli compiesse il suo alunnato presso Dirck Bouts. Un
anno più tardi, nel frattempo egli era già divenuto
“membro giurato” della gilda, venne chiamato a Bruges
per partecipare a un importante progetto, l’allestimento degli apparati festivi in onore delle nozze di Carlo il
Temerario con Margherita di York da celebrarsi il 3
luglio 1468. Gli venne così affidato il compito di decorare, insieme ad altri pittori, il palazzo ducale nonché di
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
realizzare le bandiere che avrebbero ornato le strade di
Bruges. Negli anni seguenti ricevette dalle autorità altri
incarichi simili: nel 1469 una serie di piccoli scudi con
lo stemma papale per la città di Gand e per conto del
duca alcune bandiere dipinte con motivi araldici destinate alla cerimonia del suo insediamento; nel 1472 egli
realizzò per Carlo il Temerario due grandi tele raffiguranti rispettivamente un quadro araldico dei suoi possedimenti e la “Vergine di Gand”. Nel 1474, infine,
dipinse trenta scudi con l’arme per la cerimonia funebre
che accompagnò la traslazione dei corpi di Filippo il
Buono e Isabella del Portogallo da Bruges in Borgogna
passando per Gand.
Dal 1473 al 1476 Van der Goes fu anche decano della
gilda, poi nel 1478, all’acme della sua carriera di artista
acclamato, decise di ritirarsi come frate laico nel convento Roode Klooster nei pressi di Bruxelles, una prioria legata a Groenendael di Ruysbroeck. Egli, tuttavia,
non si dedicò esclusivamente alle pratiche religiose e
continuò anzi a dipingere, ricevette ospiti e persino
committenti al convento – tra cui il futuro imperatore
Massimiliano – e partì anche alla volta di Lovanio per
dare il proprio parere sulle tavole della Giustizia di Dirck
Bouts. Egli non ebbe vita facile al convento: nelle cronache conventuali di quegli anni stilate dal monaco
Gaspar Ofhuys, si legge dello stato di confusione mentale, descritta con dovizia di particolari, in cui versava
l’artista, aggravato agli inizi del 1481 da una profonda
depressione che gli procurò la morte l’anno seguente.
Il Dittico cosiddetto “di Vienna” dal luogo della sua
attuale collocazione, mostra due scene la cui associazione può apparire a prima vista bizzarra: il Peccato originale con Adamo ed Eva sul pannello sinistro e il Compianto sul Cristo ai piedi della croce, su quello destro.
Eppure i due soggetti hanno molto in comune. Allorché
Adamo ed Eva scoprirono nel Giardino dell’Eden l’al-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
bero del Bene e del Male, non seppero resistere alle tentazioni dell’astuto serpente e colsero il frutto della conoscenza, macchiando così l’essere umano del Peccato originale.
Tale peccato non fu cancellato che con l’avvento di
Cristo che sacrificò se stesso morendo sulla croce e
liberò in tal modo l’uomo dalla colpa: da un lato dunque il Peccato e dall’altro la Redenzione. Per quanto il
dittico formi perciò un’opera omogenea, esso vide tuttavia la luce in due fasi distinte, come si rileva anche
dalle differenze stilistiche e iconografiche esistenti tra
le due tavole. La datazione basata sulla dendrocronologia ha confermato quanto supposto in base a considerazioni storico-artistiche, e cioè che il Peccato originale precede di sei anni il Compianto. La santa Genoveffa dipinta a grisaglia sul retro di quest’ultima tavola potrebbe
forse fornire qualche indizio sulle vicende all’origine
del dittico.
Adamo ed Eva sono raffigurati nel momento in cui
Eva, spinta dal serpente, che qui ha le sembianze di una
sorta di lucertola dalla testa umana, coglie la mela dall’albero della conoscenza, al centro del lussureggiante
giardino. Il paesaggio è dipinto con grande cura dei particolari e nelle resa dei corpi umani, di fiori e delle piante, della morbida luce vi sono chiari richiami a Van
Eyck.
Per quanto riguarda il Compianto, invece, sia la composizione che il trattamento delle figure appare piuttosto influenzata dai modi di Van der Weyden. Come
questi, anche Van der Goes ha messo in scena il tema
entro una composizione sovraffollata, dove i personaggi sono disposti in prossimità della cornice. Le stesse
emozioni, e i gesti che le esprimono, sono rappresentate in questa metà del dittico in maniera commovente.
Maria Maddalena in primo piano, sulla sinistra, coinvolge con il suo sguardo afflitto l’osservatore nella scena;
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
ella pare quasi invitare a soffermarsi su questo evento
straziante di cui tutti noi, peccatori, siamo responsabili. Perfino il paesaggio sembra sconvolto dal dramma, la
bellezza che aveva nel giardino terrestre si è ormai dileguata. Sul monte Golgota, freddo e deserto, gli avvoltoi volteggiano intorno alla croce vuota che si staglia
contro il cielo cupo.
Alla luce delle sue modeste dimensioni, è verosimile
che il piccolo dittico fosse destinato alla devozione privata: la resa penetrante delle scene e lo sguardo compassionevole della Maddalena, destinato non solo al Cristo morto ma sicuramente anche all’osservatore che le
rivolge l’attenzione, saranno stati per il proprietario dell’opera di indubbio stimolo nelle sue preghiere.
Tommaso Portinari, un importante uomo d’affari,
risiedeva in qualità di rappresentante della ricchissima
stirpe di banchieri della casata dei Medici di Firenze
nella prospera Bruges della seconda metà del Quattrocento. Già a quei tempi, infatti, le case di commercio,
i banchieri e simili, invece di effettuare personalmente
viaggi d’affari o soggiornare lungo tempo all’estero,
erano soliti assumere agenti che curassero i loro interessi: commessi viaggiatori come Tommaso Portinari e
Giovanni Arnolfini, per l’appunto, che in questa veste
si erano stabiliti nelle Fiandre.
Simili uomini d’affari godevano di grande considerazione ed erano in genere personaggi molto facoltosi.
Spinti dal desiderio di esibire la fama raggiunta, essi
amavano farsi ritrarre dai rinomati maestri fiamminghi.
Si ricordi ad esempio Giovanni Arnolfini che si era
fatto immortalare insieme alla consorte in un ritratto di
Jan van Eyck. Non solo il ritratto costituiva un tramite
molto apprezzato per tenere vivo il ricordo del committente e della sua famiglia, ma anche chi commissionava grandi pale d’altare spesso vi compariva di persona in qualità di donatore.
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
È questo è il caso del trittico con l’Adorazione dei
Pastori attualmente collocato negli Uffizi a Firenze, che
fu dipinto per incarico di Tommaso Portinari. Insieme
all’Altare Monforte, sempre dello stesso artista (ante perdute; tavola centrale a Berlino, Staatliche Museen
Preußischer Kulturbesitz), la pala d’altare è tra le più
grandi della prima pittura nederlandese. In posizione
aperta l’opera è più alta e più larga dello stesso Giudizio Universale di Rogier van der Weyden a Beaune; per
dimensioni la tavola centrale è seconda solo alla Comunione degli Apostoli di Giusto di Gand.
Sui battenti esterni del trittico Portinari compare
un’Annunciazione dipinta a grisaille in uno stile oltremodo sobrio e discreto. A battenti aperti, invece, il trittico esplode in un tripudio di colori attorno al minuscolo neonato Gesù quale punto focale della rappresentazione.
Sull’anta sinistra è raffigurato Tommaso Portinari e
dietro di lui i figlioletti Antonio e Pigello e i santi protettori: san Tommaso con la lancia e sant’Antonio vestito da eremita.
La moglie di Tommaso, Maria Baroncelli, e la figlia
Margherita sono raffigurate in ginocchio sull’anta destra
in compagnia delle sante Maria Maddalena, con il vaso
d’unguento, e Margherita con il drago ai suoi piedi.
Nello scomparto centrale trova posto l’Adorazione
dei pastori, che in ginocchio sembrano accogliere a braccia aperte il Bambino appena nato. Insieme alle altre
figure del quadro essi formano un cerchio intorno al
Bambino nudo disposto su un giaciglio di paglia. Maria,
Giuseppe, le schiere di angeli, tutti sono rivolti con le
mani giunte in sua adorazione del piccolo Redentore, in
uno scenario creato dai resti del palazzo di Re Davide.
L’arpa nell’arco a tutto sesto e le iniziali p.n.s.c. e m.v.,
rispettivamente “Puer Nascitur Salvator Christus” e
“Maria Virgo”, indicano la nascita di Cristo in questo
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
luogo. Il bue e l’asino assistono all’evento da dietro la
mangiatoia.
In quest’opera Van der Goes riprende la tradizione
pittorica nederlandese inaugurata dai suoi predecessori:
il senso per la luce, lo spazio e il naturalismo di Petrus
Christus e Dirck Bouts, la monumentalità di Rogier van
der Weyden, ma in primo luogo il gusto per il dettaglio
e il disguised symbolism di Van Eyck.
La semplice natura morta in primo piano con i due
vasi di fiori e il fascio di spighe risulta così essere la chiave di un concetto iconografico complesso che Van der
Goes intende illustrare, e cioè la dottrina dell’Incarnazione: con la nascita Dio si fa uomo e in tal modo l’umile natura umana viene riunita con quella divina. Nel
vaso di sinistra, un alberello spagnolo, vi sono tre iris –
due bianchi e uno blu – e un giglio scarlatto, che alludono alla passione, alla purezza e alla regalità di Cristo
e della Vergine Maria. Nel piccolo vaso di vetro a fianco – la luce del sole l’attraversa senza deviare – sono collocate invece sette aquilegie blu e tre garofani rossi. Per
la sua forma che ricorda una colomba in volo, l’aquilegia divenne simbolo dello Spirito Santo. L’insieme di
sette aquilegie, come in questo caso, sta ad indicare i
sette doni dello Spirito Santo. Il significato simbolico
del garofano è strettamente correlato al fidanzamento,
qui è forse un’allusione alle nozze mistiche di Maria con
Cristo. I fiorellini sparsi a terra, aquilegie e violette
ormai appassite, rinviano all’umiltà e alle sofferenze di
Maria. Il fascio di spighe dietro ai vasi nonché i tralci e
le foglie di vite sull’alberello rappresentano gli attributi dell’Eucaristia. Si noti che il Bambino appena nato si
trova esattamente sopra alla natura morta, come fosse
egli stesso l’offerta sacrificale. Gesù è qui al contempo
l’officiante della prima Santa Messa in terra, assistito
dagli angeli che indossano le vesti usate per l’appunto
in occasione della prima messa di un sacerdote. Certo
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
non è facile sapere fin dove occorra spingersi nell’intepretazione della pittura nederlandese delle origini senza
incorrere in eccessi e in un travisamento del passato. La
presenza dei fiori e delle spighe nella pala si presta anche
ad un’altra spiegazione, meno complessa. Il giglio allude alla Passione, i tre garofani simboleggiano la Trinità,
l’aquilegia violacea ha il colore della melanconia e il
numero sette si riferisce ai sette dolori di Maria e infine il fascio di spighe rappresenta il luogo della natività
giacché Betlemme significa “Casa del Pane”. Ma anche
questa versione, forse troppo ricercata, non è affatto
accolta in modo univoco. Di volta in volta si dovrà dunque valutare attentamente, nel singolo pittore o nella
singola opera, la presenza o meno di una simbologia ed
eventualmente di un disguised symbolism e si dovrà valutare fin dove sia lecito spingersi con l’interpretazione dei
particolari.
Nel trittico le singole figure sono fortemente caratterizzate: una vena malinconica sul viso di Maria; i rustici pastori, ciascuno con la propria individualità, Giuseppe che si tiene più in disparte. L’essenza umana, che
si coglie chiaramente nei volti, viene qui fusa con la
mistica natura divina, un’unione che caratterizza il
movimento religioso che nasce nell’ultimo quarto del
Quattrocento e raggiunge attraverso la Renania anche i
Paesi Bassi.
Di “Gerrit van Haarlem”, soprannominato tot Sint
Jans (di San Giovanni), Karel van Mander afferma nel
suo Libro della pittura che fu importante capostipite
della pittura nederlandese. Il soprannome gli venne dal
fatto che viveva presso la Commendatoria di San Giovanni ad Haarlem dove era “famulus et pictor” (“garzone e pittore”). Per questo motivo egli era esonerato
dalla maggior parte delle regole della gilda in quella
città. Non è chiaro dove si sia svolta la sua formazione,
comunque Van Mander lo dichiara allievo di Albert van
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
Ouwater. Probabilmente l’artista soggiornò per un certo
periodo nelle Fiandre. Negli archivi della gilda dei
miniatori di Bruges, infatti, viene citato nel 1475 un
“Gheerkinde Hollandere” e non è da escludere che si
tratti proprio di Geertgen tot Sint Jans, dal momento
che stile e tecnica soprattutto delle sue piccole tavole si
ricollegano strettamente a quelle tipiche dei miniatori
dell’epoca. Tuttavia essendo morto appena ventottenne,
secondo quanto riferisce Van Mander, è molto difficile
che egli abbia potuto in un così breve lasso di tempo e
agli inizi della sua carriera inserire anche un soggiorno
in Fiandra.
La tavola con la Madonna in Gloria (Madonna del
Rosario) (Rotterdam, Museum Boijmans van Beuningen) e quella con la Crocifissione con i santi Girolamo e
Domenico (Dublino, National Galleries of Scotland),
dai più ritenuta opera non originale dell’artista, formavano un tempo un dittico. Le dimensioni identiche delle
due tavole nonché le tracce di cerniere inducono a questa conclusione. Si aggiunga che l’associazione del tema
della Madonna col Bambino con quello della Crocifissione era molto usuale nel Medioevo. Il dittico, di carattere marcatamente devozionale, ha stretti legami con la
corrente mistica della seconda metà del Quattrocento in
cui svolgeva un ruolo di rilievo il culto del rosario, una
devozione diffusa soprattutto dall’ordine dei Domenicani, che nel 1478 fondò ad Haarlem la prima confraternita del Rosario. In entrambi i pannelli si colgono
infatti riferimenti a questa particolare devozione.
La Madonna è qui raffigurata entro tre cerchi, che
sembrano emanare una luce divina e al cui interno si
muove un gran numero di angioletti musicanti e di altri
angeli. Essa rappresenta la Maria in Sole, che risale all’Apocalisse di Giovanni (12, 1-6). Nella visione descritta
in questo brano appare “una Donna rivestita di sole, con
la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodi-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
ci stelle” che partorisce un bambino e viene poi minacciata da un drago. Geertgen si è ispirato qui a questa
donna dell’Apocalisse, da sempre identificata con Maria.
Le dodici stelle sono riprese nella corona di Maria, che
è in piedi sulla falce di luna sotto cui si contorce il
drago. Sotto la corona Maria reca una coroncina di rose,
i cui singoli boccioli rappresentano le preghiere del rosario, cinque boccioli bianchi per gli Ave Maria si alternano regolarmente a un bocciolo rosso per il Padre
Nostro. Maria è assistita nelle sue orazioni due angeli ai
lati della sua testa, che reggono un rosario tra le mani.
Come si è detto la devozione per il rosario divenne
un fenomeno di ampia portata grazie anche all’impegno
dei domenicani. L’indulgenza che veniva accordata,
secondo il decreto di papa Sisto IV del 1479, a chi recitasse il rosario, avrà certo spronato anche i laici a pregare. Acceso sostenitore dell’importanza del rosario fu
il domenicano Alanus de Rupe (1428-1475), il cui discepolo Jacobus Weyts divenne priore del convento dominicano di Haarlem, fondatore della prima confraternita
del Rosario nei Paesi Bassi. Se si osserva ora la tavola
con la Crocifissione, sarà ancor più chiaro il nesso esistente tra le due scene e l’ordine religioso. Oltre a Maria
e a san Giovanni, sotto la croce compaiono i santi Girolamo e Domenico, mentre sullo sfondo, all’interno e nei
dintorni di una cittadina medievale, sono ambientate
scene della Passione. I due santi si infliggono un castigo, Girolamo si percuote il petto con una pietra e Domenico si flagella a sangue con il cordone che gli cinge i
fianchi. Penitenze e devozione del rosario furono propugnate con fervore dall’ordine domenicano e premiate, come detto, con l’indulgenza. In primo piano, il
corpo scheletrico e in stato di decomposizione ai piedi
della croce rinvia al concetto di memento mori (“ricorda che morirai”) sottolineando l’importanza della religiosità e dell’espiazione. L’essere lentamente consuma-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
ti dai vermi e costretti a un prolungato soggiorno nel
purgatorio, qui rappresentato da una buca nella terra che
sprigiona fiamme con dentro alcuni morti, non era certo
una prospettiva allettante. Il processo di purificazione
dell’anima nel calore infernale del fuoco poteva comunque essere notevolmente abbreviato conseguendo le
indulgenze, e ciò stimolò fortemente le pratiche della
penitenza e della recita del rosario. Il dittico di Geertgen tot Sint Jans aveva il preciso fine di risvegliare tale
devozione.
Il 30 gennaio 1465 Hans Memling si fece iscrivere
come cittadino nei registri anagrafici di Bruges, dove si
stabilì già come maestro-pittore: “Jan van Mimnelinghe,
figlio di Hamman, nato a Seligenstadt”. Egli era nato
probabilmente nel 1440 circa a Seligenstadt sul Meno,
dove in effetti negli archivi risultano attestati i genitori del pittore, e malgrado poi si fosse trasferito altrove,
mantenne sempre i contatti con la città natale. Si ignora invece dove ricevette la sua formazione. Oltre alle
considerevoli affinità stilistiche tra la sua opera e quella di Van der Weyden esistono altri argomenti validi per
ritenere che abbia compiuto il proprio tirocinio proprio
presso Van der Weyden a Bruxelles e sia diventato forse
anche un assistente nella bottega di questo artista.
Essendo Van der Weyden morto il 18 giugno 1464, il
trasferimento dell’artista a Bruges avviene a conclusione del suo rapporto di lavoro a Bruxelles. Un’altra indicazione, per quanto cauti si voglia essere, è fornita dal
Vasari quando dichiara già nel 1550 che Memling era un
allievo di Van der Weyden; infine risale al 1516 la menzione di un piccolo trittico nell’inventario di Margherita d’Austria, raffigurante una “pietà” di Rogier van der
Weyden con ante del “Maestro Hans”.
Prima di trasferirsi a Bruges Memling avrà senz’altro
valutato vantaggi e svantaggi della movimentata città
mercantile dalla clientela internazionale e soprattutto
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
italiana. La decisione non si fece attendere a giudicare
dagli incarichi di alcuni facoltosi banchieri che seguirono rapidamente (Angelo Tani, Tommaso Portinari).
Anche l’élite e le istituzioni di Bruges si rivolsero ben
presto al “Maestro Hans”, seguite a ruota da prestigiose commesse estere – che andavano dalla spagnola Najera alla città anseatica tedesca di Lubecca. Già nel 1466
Memling abitava in una grande casa in mattoni, di cui
in seguito divenne proprietario, e da diverse fonti risulta che egli era tra i notabili di Bruges, città dove si spense l’11 agosto 1494. Della sua produzione pittorica, di
facile lettura e costantemente permeata di una cultura
borghese idealizzata e cordiale, è giunta a noi una quantità eccezionale di opere: una ventina di pale d’altare
spesso di grandi dimensioni o di tavole di analoga natura religiosa con figure di donatori, più o meno quindici
raffigurazioni della Madonna, all’incirca venti pannelli
con scene prevalentemente religiose, ma a volte anche
allegoriche e infine oltre trenta ritratti, talvolta in forma
di dittico associati alla Madonna col Bambino.
Intorno al 1470 Hans Memling ottenne alcune commesse dall’uomo di fiducia del duca Carlo il Temerario,
il fiorentino Tommaso Portinari, agente del Banco
Mediceo a Bruges. Fu probabilmente in occasione del
matrimonio di questi che egli dipinse i ritratti di Tommaso e della moglie Maria Baroncelli (New York, The
Metropolitan Museum of Art), nonché l’affascinante
Passione di Cristo.
Sotto la grandiosa veduta di Gerusalemme, alle due
estremità del dipinto, sono raffigurati i due committenti
genuflessi in preghiera chepartecipano da vicino alla
Passione di Cristo. La narrazione delle sofferenze di
Cristo, che comprende la Resurrezione e alcune altre
scene ad esclusione dell’Ascensione, si sviluppa lungo
ventitré scene ambientate all’interno e intorno a una
Gerusalemme medievale interamente fortificata. Le
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
architetture pseudo-romaniche con varie costruzioni a
pianta centrale e diverse cupole evocano atmosfere
orientali e somigliano molto allo scenario di una rappresentazione teatrale; le stesse scene della passione
sembrano piuttosto un’innocua recita di carattere religioso che la terribile vicenda dei patimenti di Cristo.
Il più grande trittico eseguito da Memling è il cosiddetto trittico di San Giovanni (1474-1479). La pala, che
appare datata sulla cornice, si trova insieme ad alcune
altre opere tuttora nell’ospedale di San Giovanni di
Bruges, istituto per cui fu realizzato come pala destinata all’altare maggiore della relativa chiesa. Con ogni
probabilità l’opera gli venne affidata su iniziativa dei
due frati e delle due suore dello stesso ospedale che
sono raffigurati, insieme ai loro patroni, sui lati esterni
delle ante della pala e ciò avvenne con ogni probabilità
prima del 1475, dal momento che uno dei personaggi
ritratti venne a mancare proprio in quell’anno. Si
aggiunga che il trittico era destinato alla nuova abside
del coro costruita nel 1473-1474 sul lato nord-est delle
sale dei malati.
A battenti chiusi il trittico mostra due nicchie di fattura gotica con a sinistra due santi e a destra due sante
dietro ai donatori devotamente raccolti in preghiera. I
lati esterni delle ante, per quanto sobri nei colori, non
possono tuttavia definirsi più monocromi come lo erano
certe opere precedenti. I committenti con i loro abiti
neri e bianco-neri e l’incarnato compatto tipico di Memling sono resi in modo realistico. I loro santi protettori,
nell’ordine Giacomo Maggiore, Antonio Abate, Agnese e Clara, sono raffigurati con il medesimo realismo
idealizzato; le loro vesti hanno qualche colore in più ed
essi sono accompagnati dai loro caratteristici attributi.
Il contrasto esistente tra la parte esterna e l’interno
del trittico è davvero notevole. Le tonalità scure, in prevalenza nere e bruno-grigiastre, dell’esterno dei batten-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
ti, visibili durante la Quaresima e negli altri periodi in
cui la pala era chiusa, creavano certo un’atmosfera triste
nelle sale dei malati e nella chiesa che costituivano un
unico grande ambiente. Il trittico in posizione aperta,
invece, con tanto rosso a contrasto con le tonalità di
verde e con il blu pallido del cielo che si estende sull’insieme, doveva essere una festa per gli occhi. L’ottimistico messaggio di salvezza contenuto nella pala avrà dunque dato conforto e speranza ai pazienti e a quanti prestavano le loro cure nell’ospedale. Lo stesso effetto benefico deve aver sortito anche l’imponente Giudizio Universale di Van der Weyden nell’Hôtel-Dieu di Beaune.
Al centro dello scomparto mediano è raffigurata la
Madonna col Bambino, la Madre di Dio con il Salvatore. L’anta sinistra è dedicata a san Giovanni Battista,
che preannunciò la Venuta di Cristo introducendolo, per
così dire, nel Nuovo Testamento, e alla fine diede la propria vita per la sua fede in Cristo. Sull’anta destra è raffigurato l’apostolo Giovanni Evangelista intento a scrivere i libri dell’Apocalisse sull’isola di Patmos, mentre
contempla la visione della Seconda venuta di Cristo
come Redentore e Giudice universale. Nella tavola centrale i due Giovanni, due angeli e due sante sono schierati ai lati della Madonna col Bambino, incoronata dall’alto da due piccoli angeli blu. L’ospedale era in realtà
dedicato al solo Giovanni Evangelista, ma nella pratica
devozionale entrambi gli omonimi erano considerati i
santi patroni. Essi sono i protagonisti del messaggio di
salvezza che si dispiega attraverso le tre grandi tavole,
anche se, ovviamente, Cristo e la Madonna occupano la
posizione più importante. Memling pone così in modo
geniale il Battista e l’Evangelista a protagonisti della sua
composizione.
La tavola centrale è al contempo una Sacra conversazione, un dialogo divino tra la Madonna e alcuni santi.
Un angelo suona un organo portativo, l’altro sorregge un
Storia dell’arte Einaudi
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
libro in cui Maria sta leggendo. Il Bambino sta infilando un anello al dito della santa alla sua destra che, alla
luce di queste nozze mistiche e dei suoi emblemi – la
spada e la ruota, strumenti del suo martirio – risulta
essere santa Caterina; l’iconografia rimanda inoltre alla
mistica Caterina da Siena e alla martire Caterina d’Alessandria. Alla sinistra di Cristo con la Madre, santa
Barbara appare assorta nella lettura, alle spalle la torre,
suo attributo tradizionale. Le due sante raffigurate insieme simboleggiano, nell’ordine, la vita contemplativa e
la vita attiva. Nell’ospedale di San Giovanni i santi
Giovanni Battista e Giovanni Evangelista fungevano
dunque da intercessori in favore dei malati, degli assistenti e degli altri credenti di sesso maschile, mentre le
due popolarissime sante Caterina e Barbara assolvevano alla medesima funzione per le credenti.
Nei capitelli sopra le teste dei due Giovanni sono
scolpiti episodi della loro vita, in una narrazione che prosegue nelle scene sullo sfondo della tavola centrale e
delle ante. Il panorama alle spalle dell’evangelista raffigurato in piedi è veramente eccezionale, in quanto si
tratta di una rappresentazione realistica della “misurazione” della gradazione alcolica del vino importato a
Bruges che si svolgeva sul Kraanplaats (Piazza del rubinetto). Si riconoscono il rubinetto municipale di legno
e la chiesa di San Giovanni ormai scomparsa, ulteriore
riferimento al patrono dell’ospedale. I frati dell’ospedale
di San Giovanni erano infatti titolari del diritto di misura, che costituiva per loro una fonte di profitto. Forse
qui si può leggere un altro richiamo a san Giovanni, raffigurato sulla destra mentre purifica con la benedizione
il vino avvelenato offertogli.
Un’opera singolare nel corpus delle opere di Memling,
ma anche dell’intero repertorio iconografico quattrocentesco, è il piccolo trittico della Vanità Terrena e della
Redenzione Celeste che collega in modo molto esplicito il
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
sacro con il profano. Come si deduce dallo stemma, l’opera fu commissionata a Memling da un membro della
famiglia Loiani di Bologna. Non sappiamo in che modo
fosse assemblato in origine il trittico, ormai scomposto
in sei piccoli pannelli a sé stanti. Non vi sono dubbi
comunque che lo stemma e la morte, Dio Padre e la
donna nuda, il teschio e la scena infernale costituivano
un tempo, nell’ordine, la faccia anteriore e quella posteriore delle tre tavolette in seguito divise nel senso dello
spessore. L’ipotesi che i pannelli fossero incernierati a
fisarmonica, come nel del polittico di Anversa-Baltimora, appare più plausibile che non quella, ancora corrente, di un tipo di trittico con ante che si sovrappongono.
A battenti chiusi la parte anteriore del trittico presentava lo stemma recante il motto “nessun bene senza
pena”, mentre quella posteriore ospitava il teschio in
una nicchia. La seguente iscrizione è scolpitoa in pietra
dura al di sopra e al di sotto della profonda nicchia:
“scio enim quod redemptor meus vivit et in novissimo diedeterra surrecturus sum et rursum
circu(m)dabor pelle mea et incarne mea videbo
deu(m) salvatorem meum iob xix, cap” (“Io so che il
mio Redentore è vivo, che io risorgerò nell’ultimo giorno della terra e nuovamente rivestito della mia pelle e
della mia carne vedrò Dio, il mio Salvatore”) (Giobbe
19, 25-26).
A battenti aperti la parte interna delle tre tavolette
formava nell’insieme un’allegoria della caducità terrena:
al centro, la donna nuda e di fronte ad essa, dietro allo
specchio e alla sua destra, la morte dal volto scheletrico
sul pannello sinistro; alle spalle della donna, nel pannello
destro, dunque, c’è il teschio nella nicchia. La parte
anteriore delle tavole mostra, al centro, Dio Padre circondato da angeli musicanti. Il pannello destro costituisce la parte anteriore del trittico, già menzionata,
con lo stemma: orientato verso sinistra, lo stemma guar-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
da a Dio Padre nell’alto dei cieli alle cui spalle, sul pannello sinistro, è rappresentato l’Inferno.
Questa ipotesi di ricostruzione del trittico ha il merito di ripristinare su entrambi i lati un’unità visuale ed
iconografica. Dio Padre riacquista in tal modo la sua
posizione centrale e non è più relegato, come nelle precedenti ricostruzioni, nella parte retrostante. Il cielo e
l’inferno si trovano affiancati in una rappresentazione
contrastante e leggermente allucinata, che ha la funzione di monito. Essi si trovano vicino allo stemma rivolto a sinistra, cosicché il proprietario viene confrontato
con il Bene e il Male. Il cartiglio al di sopra del fantasioso diavolo attesta l’irrevocabilità del giudizio divino:
“in inferno nulla est redemptio”. Sul retro il teschio
guarda alla personificazione della lussuria, raffigurata in
un ameno paesaggio, nonché alla morte che si staglia
contro un cielo nero. La morte dal volto scavato fa volteggiare un cartiglio recante “Ecce finis hominis comparatus sum luto et assimilatus sum faville et cineri”
(“Ecco la fine dell’uomo; sono fatto di fango e divenuto polvere e cenere”). La morbosità della rappresentazione è ulteriormente accentuata dal sepolcro aperto,
dalla lapide spostata recante un’altra immagine della
morte, dal nudo camposanto disseminato di scheletri e
dal buio della notte. La Morte è tutta pelle e ossa, il ventre squarciato e i vermi che frugano negli intestini. Il
rospo aggrappato al sesso della Morte corrisponde a
quanto vi è di lussurioso e di immorale nella giovane
donna al centro. Il cagnolino, i levrieri che si inseguono, l’asino con il carrettiere presso il mulino sullo sfondo e soprattutto, ovviamente, la completa nudità della
donna suggeriscono senz’ombra di dubbio un significato erotico. Il prezioso diadema sui lunghissimi capelli
sciolti fin oltre la schiena e le scarpette ai suoi piedi
rafforzano questo effetto: senza pudore alcuno la giovane gode della sua terrena bellezza e si rimira in uno
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
specchio: l’osservatore vede la sua immagine riflessa,
non è che la donna vede invece il teschio che sogghigna?
Nel Dittico di Maarten van Nieuwenhove (1487),
eseguito da Hans Memling, il ritratto del giovane ventitreenne di Bruges dall’aspetto deciso, rientra in quella tradizione sorta nel tardo Trecento che raffigurava
l’uomo mortale in devota preghiera davanti alla Madonna col Bambino. Da allora però si era verificato un radicale cambiamento. Invece dell’effimero mortale che si
avvicina a Dio, è il Divino a muovere verso l’uomo.
Come già rilevato nel doppio foglio di pergamena di
André Beauneveu degli anni intorno al 1390 oppure
nell’epitaffio dei Signori di Montfoort del 1375-1380
circa, la distanza fra il donatore e la Madonna col Bambino era in origine sensibile e palese: non vi era possibilità di equivoco circa il carattere di apparizione divina di coloro cui era rivolta la preghiera rispetto a quello, reale ed inizialmente quasi impersonale, di chi pregava. I santi patroni e protettori introducevano l’essere
mortale presso la Madre di Dio sostenendolo nel suo
confronto diretto con l’Altissimo. Il donatore veniva per
così dire accolto nella visione, nella dimensione dell’irreale o meglio, in un altro ordine di realtà. L’essere
umano accedeva a sfere ultraterrene, comparendo in
scene neotestamentarie come quelle della Nascita e della
Passione o in raffigurazioni atemporali del Cristo glorificato e giudice. Se Petrus Christus fa varcare alla giovane coppia la soglia del laboratorio di un orafo del
tempo, occorre ricordare che questa entra in uno spazio
che è ancora dominio del santo. I donatori raffigurati da
Jan van Eyck, ma lo stesso vale per Rogier van der
Weyden o per Petrus Christus, hanno visioni celesti
che si svolgono in simbolici edifici sacri sulla terra, ma
poi anche loro vengono a trovarsi all’interno dell’ambiente sacrale. Nel Trittico di Mérode di Robert Campin, i coniugi donatori si trattengono volutamente fuori
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
della porta, che è comunque aperta verso la stanza in cui
ha luogo l’Annunciazione.
Rogier van der Weyden che, fu forse il maestro di
Hans Memling, è stato probabilmente il primo artista a
combinare nella forma di un dittico, un doppio ritratto
con l’immagine devozionale della Madonna col Bambino.
Alcuni di questi dittici devozionali eseguiti dal pittore
sono arrivati ai nostri giorni, tra gli altri la Madonna col
Bambino e Philippe de Croy (San Marino, California, Huntington Library and Art Gallery; Anversa, Koninklijke
Musea voor Schone Kunsten; entrambi 49 x 31 cm). Per
effetto dello sfondo d’oro dietro la Madonna e dello spazio scuro alle spalle del donatore la distanza fra il divino
e il terreno è qui comunque ancora piuttosto marcata.
Nel Dittico di Maarten van Nieuwenhove è raggiunto lo stadio in cui il Cristo, la Madonna e i santi incontrano l’essere umano nel suo proprio ambiente. L’enorme influenza della devotio moderna ha sensibilmente
ravvicinato il Divino. Il santo protettore di Maarten van
Nieuwenhove, san Martino, viene ridotto ad immagine
entro l’immagine, nella piccola vetrata alle spalle del giovane. Allo stesso modo anche gli altri due santi protettori, i santi Giorgio e Cristoforo, sono rappresentati
solo nell’ambiente in cui si trova il donatore raccolto in
preghiera. Lo stemma con il relativo motto nonché le
raffigurazioni che esemplificano questo motto e sono
inseriti in un’altra piccola vetrata, provano inequivocabilmente che la scena si svolge proprio nell’abitazione di
Maarten van Nieuwenhove. L’immagine della stanza si
completa nello specchio convesso alle spalle della
Madonna: ci si rende allora conto, come ha sottolineato Hans Belting nel 1994, che le ante del dittico costituiscono propriamente le due finestre attraverso cui l’osservatore guarda nella stanza. Il pittore, e quindi lo
spettatore, posto all’esterno della finestra, è dinanzi alla
Madonna; nel guardare Maria Maarten van Nieuwenho-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
ve è voltato verso di lei e la vede quindi di profilo. Giacché la Madonna e il giovane sono egualmente vicini
all’osservatore, questi vede Maarten van Nieuwenhove
come un ritratto di tre quarti e la Madonna col Bambino in posizione frontale. Il Bambino Gesù sembra fissare intensamente l’uomo in preghiera al quale è apparso. Lo specchio convesso mostra dunque chiaramente
una stanza con una parete cieca, a sinistra, mentre su
ciascuna delle altre si aprono due finestre munite di
vetri unicamente nella parte superiore e con battenti in
basso. L’immagine riflessa lascia inoltre vedere che il
donatore, nel pieno rispetto della tradizione, è inginocchiato e assorto in preghiera dinanzi alla Madonna col
Bambino che appare ai suoi occhi; anche il libro aperto
accanto a Maria rientra nella tradizione. Sotto questo
aspetto il pittore non si è dunque discostato dalla tradizione, che ha però infranto ponendosi come spettatore in un’angolazione diversa e sorprendente.
Allorché il trittico con i due Giovanni stava per essere ultimato o era forse già compiuto, l’omonimo ospedale di San Giovanni commissionò a Memling due lavori di dimensioni minori. Per conto di due frati dell’istituto egli eseguì infatti due piccoli trittici, databili rispettivamente al 1479 e al 1480 (Bruges, Memlingmuseum).
Alla luce del modesto formato, del carattere intimo e
della raffigurazione del donatore su entrambe le opere,
queste si configurano in primo luogo come oggetti personali destinati alla devozione privata, anche se non di
utilizzo esclusivo da parte dei committenti. Se i due trittici sono dunque in qualche modo paragonabili al Dittico di Maarten van Nieuwenhove, tuttavia rispetto a
questo conservano una forma, un’iconografia e soprattutto un linguaggio figurativo più tradizionali.
Alcuni anni dopo lo stesso ospedale tornò ad affidargli un incarico di eccezionale importanza, un nuovo
reliquiario in onore di sant’Orsola.
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
L’ospedale possedeva alcune decine di piccole reliquie
custodite in un modesto scrigno ligneo del tardo Trecento. Dalla decorazione di questa teca risulta che fin
d’allora le reliquie di sant’Orsola e delle Undicimila
Vergini venivano considerate le più importanti di tutte:
piccole immagini dipinte della Madonna col Bambino, di
San Giovanni Battista e delle sante Cecilia e Barbara –
tra cui vi erano anche alcune reliquie – affiancano
sant’Orsola ponendone in risalto la figura sensibilmente più grande in rilievo policromo. Sotto il suo mantello foderato di ermellino essa protegge le Vergini unite a
lei nel martirio. Sui lati dello scrigno è dipinto l’Agnello di Dio con il vessillo a croce. È probabile che nel
tardo Quattrocento la teca venisse considerata troppo
mediocre. Le dimensioni minime delle numerose reliquie
non intaccava in alcun modo il loro grande valore devozionale, realtà che non trovava espressione nell’aspetto
modestissimo della vecchia custodia, soprattutto in una
città prospera come Bruges che contava in diverse chiese e cappelle imponenti reliquiari e scrigni in metallo
nobile.
Il 21 ottobre, festa di sant’Orsola, dell’anno 1489 le
reliquie vennero solennemente traslate da Egidius de
Bardemaker, vescovo di Sarepta e vescovo ausiliare di
Tournai, nel nuovo reliquiario realizzato nella forma
tradizionale in uso per i più comuni reliquiari in oreficeria: una cappella in miniatura, costruita su elementi
architettonici e riccamente decorata con motivi ornamentali scolpiti. L’intera struttura nonché gli intagli
floreali furono rivestiti d’oro e le quattro piccole statue
sugli angolivennero decorate utilizzando numerose lamine d’oro, in modo da armonizzarle con l’opera nel suo
complesso. Il tetto a schiena d’asino è dipinto in modo
che gli stessi spioventi sembrino ricoperti da trafori
dorati, che racchiudono tre tondi per parte. In netto
contrasto con questa struttura architettonica dorata, i
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
sei tondi, le sei arcate cieche e le due facciate corte
furono decorate con immagini realistiche dai colori vivaci. I tondi del tetto mostrano piccoli scorci di cielo.
Affiancati da angeli musicanti, i tondi centrali, più grandi, raffigurano rispettivamente l’Incoronazione di Maria
e sant’Orsola circondata dal suo seguito. Sui due lati
brevi del reliquiario, invece, compare un ambiente gotico, di notevole altezza, coperto da una volta con finestre ad arco acuto e vetrate trasparenti. L’osservatore ha
la sensazione di guardare all’interno dell’edificio e di
veder così apparire la Madonna col Bambino e sant’Orsola con le sue Vergini, entrambe a grandezza oltre il
naturale. Accanto alla Madonna sono genuflesse le committenti del reliquiario, intese sia come donatrici sia
come rappresentanti delle suore dell’ospedale. I reggenti dell’ospedale negli anni in cui lo scrigno venne realizzato, sono simboleggiati dalle quattro piccole statue
di santi agli angoli: sant’Elisabetta, sant’Agnese, san
Giovanni Evangelista e san Giacomo Maggiore. Sui lati
lunghi sei scene raffigurano la storia di sant’Orsola. La
Vita della santa, la sua leggendaria biografia, racconta
come la principessa e vergine cristiana Orsola, prima di
unirsi contro la sua volontà in matrimonio con un pagano, si recasse in pellegrinaggio a Roma e subisse al suo
ritorno il martirio. Negli archi a tutto sesto, al di sopra
di ognuna delle sei scene, una lavorazione a traforo gotico si sovrapponeva in origine alle porzioni di cielo, che
oggi risultano piuttosto spoglie, realizzando un maggiore equilibrio con le parti inferiori sovraffollate. Nella
prima scena sant’Orsola giunge con le sue compagne a
Colonia, segue l’arrivo a Basilea e quindi a Roma. Il
retro del reliquiario raffigura il ritorno passando per
Basilea e nelle ultime due scene, l’approdo e il martirio
a Colonia dove la santa e le altre vergini vengono barbaramente uccise, mentre la vita continua imperturbabile e la costruzione del duomo è in pieno corso.
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
La terza generazione. Il 14 gennaio 1484 Gérard
David venne iscritto come maestro nella Gilda degli
intagliatori e dei sellai di Bruges, di cui facevano parte
anche i pittori. Come regola generale il titolo di maestro
poteva essere acquisito soltanto all’età di venticinque
anni; David era nato probabilmente intorno al 1450 e,
prima di arrivare a Bruges, aveva trascorso altrove il
periodo di formazione e i primi anni di attività. Da
documenti posteriori risulta fosse originario di Oudewater nella provincia d’Olanda. Ad ogni modo si suppone,
senza potersi fondare tuttavia su fontidocumentarie,
che seguisse l’apprendistato nella bottega del padre per
andare poi a lavorare ad Haarlem e a Utrecht. Nelle
prime opere di Gérard David è stata riconosciuta l’influenza di Geertgen tot Sint Jans; i più rilevano inoltre
i contatti avuti in seguito a Gand e a Lovanio con l’opera di Hugo van der Goes e di Dirck Bouts, mentre a
Gand il pittore ebbe senz’altro modo di conoscere anche
i dipinti di Jan van Eyck.
David era attivo a Bruges da quattro anni come maestro indipendente allorché venne prescelto per la prima
volta per una carica direttiva all’interno della gilda di cui
divenne poi decano negli anni 1501-1502. Come in precedenza Petrus Cristus, Gérard David fu membro dal
1507 al 1514 della confraternita religiosa di Nostra
Signora dell’albero secco (Onze Lieve Vrouw van de
Droge Boom), a dimostrazione della sua ascesa sociale
verso l’élite cittadina di Bruges. Anche il matrimonio
con la figlia di una ricca famiglia di orafi della città,nonché le opere commissionategli dalle massime gerarchie
del clero e dall’amministrazione cittadina, illustrano in
maniera eloquente le capacità di David nel coltivare i
contatti sociali e politici necessari ai fini di una carriera artistica colma di successi. Dal 1494, e fino alla sua
morte nel 1523, visse in una casa con annesso lo studio,
nel quartiere in cui abitavano anche Hans Memling e
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
altri insigni artisti. Appare interessante che Gérard
David si facesse iscrivere nel 1515 come maestro anche
alla gilda di San Luca ad Anversa. Una decisione dettata probabilmente soltanto da motivi di ordine utilitaristico e commerciale, dal momento che Anversa stava
acquistando sempre più importanza come città mercantile, mentre Bruges andava rapidamente declinando. Il
pittore morì il 13 agosto 1523 e venne sepolto a Bruges
sotto il campanile della chiesa dedicata alla Vergine.
L’influenza del pittore di Haarlem Geertgen tot Sint
Jans si osserva in particolare nello scomparto centrale di
un trittico che rappresenta la Nascita di Cristo (New
York, Metropolitan Museum). La scena principale del
trittico sarebbe una delle prime opere di Gérard David
e confermerebbe la sua proveninza dalla provincia d’Olanda, mentre le ante che presentano influenze degli
ambienti artistici di Gand e Bruges, sarebbero state
aggiunte in un secondo tempo.
Un secondo trittico, attualmente a New York, risale
agli anni in cui l’artista, pur essendo attivo a Bruges,
aveva il permesso di vendere i suoi quadri anche ad
Anversa. Ancora una volta la tavola centrale ospita la
Natività affiancata, sulle due ante dai donatori con i loro
santi patroni. Sotto il profilo iconografico va notato che
gli stessi donatori vengono rappresentati rispettivamente come sant’Antonio e santa Caterina, a loro volta
sotto la tutela dei santi Girolamo e Vincenzo. Oltre che
per questa identificazione dei donatori con i loro santi
patroni, il trittico merita attenzione per il destino toccato alle tavole esterne delle ante. Intorno al 1920 queste vennero distaccate e vendute separatamente come un
paesaggio autonomo. Una valutazione ovviamente del
tutto errata: collocata sul lato esterno del trittico della
Natività, anche questa veduta silvestre racchiude, nella
sua funzione introduttiva alla scena principale, un significato spirituale. I buoi che pascolano e l’asinello sdraia-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
to nei pressi dell’edificio in pietra, venivano immediatamente associati, dall’osservatore credente, a Maria e
a Giuseppe alla ricerca di alloggio nonché alla locandadove avevano cercato riparo. Ciononostante appare
molto singolare che David abbia dato così ampio spazio
all’elemento paesaggistico, inserendovi in maniera quasi
celata la tematica religiosa: il dettaglio minuscolo, ma
latore del significato della rappresentazione, infinitesimo come l’uomo di fronte all’incommensurabile grandezza della creazione divina. Non può essere casuale il
fatto che nel 1515 Gérard David venne iscritto ad
Anversa nei registri della corporazione di San Luca vicino a Joachim Patenier, che rappresentò in modo analogo la tematica religiosa in vasti paesaggi panoramici.
I due grandi pannelli che rappresentano la Giustizia
di Cambise (1498) appartengono al nucleo delle opere più
considerevoli di Gérard David. Attraverso quattro scene
viene rappresentata la leggenda vetero-persiana della
Giustizia di Cambise così come è narrata dallo scrittore greco Erodoto (485 ca.-425 a.C.). Sullo sfondo della
tavola sinistra è raffigurata la corruzione del giudice
Sisamne e nella scena principale il suo arresto su ordine
del re Cambise. L’atroce pena cui fu condannato il giudice corrotto è presentata sul pannello destro: egli viene
scuoiato vivo e strisce della sua pelle sarebbero poi servite per lo scranno di un giudice. Da quello scranno il
figlio di questi, Otane, anch’egli giudice, doveva amministrare la giustizia per ordine del re. Questo lugubre
seguito compare sullo sfondo a destra.
Come si legge al di sopra del sinistro panno nero collocato sullo scranno del giudice, il cui sguardo è piuttosto angosciato, Gérard David completò i due pannelli
nel 1498. In quell’anno la città di Bruges pagò al pittore la somma residua dovutagli per il compimento di “un
grande dipinto con ritratti” destinato alla sala degli scabini nel municipio. Una prima rata del compenso per le
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
due tavole era stata versata probabilmente già nel 1487,
tuttavia restano tuttora oscuri i tempi del pagamento
complessivo per le scene della Giustizia. Le due opere si
inseriscono nella tradizione delle pitture a carattere
morale, che si proponevano cioè di richiamare gli organi amministrativi e giudicanti alle loro responsabilità.
Nella maggior parte dei casi venivano prescelti soggetti
religiosi e il Giudizio Universale, in particolare, era
ovviamente un tema appropriato. La scelta di un tema
classico da parte delle autorità di Bruges appare eccezionale, ma è al contempo tipica perla cultura del Rinascimento, fortemente orientato verso il mondo antico,
che in questi anni inizia a farsi strada nell’Europa del
nord. Gérard David unisce al suo realismo nordico
anche elementi stilistici che evidenzianola diffusione di
modelli rinascimentali: i putti e i festoni sopra lo scranno del giudice nel pannello sinistro, in primo piano, e
sullo sfondo del panello destro, sono una novità nei
Paesi Bassi e costituiscono l’avvio di grandi trasformazioni. I due rilievi ovali ai lati dello scranno del giudice
corrotto palesano il medesimo orientamento, essendo
copie dirette di modelli antichi, popolari nel Rinascimento italiano del Quattrocento. Entrambi sono espressione del medesimo intento moralizzatore che caratterizzava le scene della Giustizia nel loro complesso.
Raffigurando la Giustizia di Cambise come se si svolgesse ai tempi e nei luoghi familiari all’osservatore,
David si avvalse di un metodo sperimentato ed efficace
per ottenere dal pubblico l’identificazione con l’episodio rappresentato. I personaggi sono abbigliati secondo
la moda del tempo, con le vesti borgognone ufficiali,
armature e armi riconoscibili; le architetture sono fedeli riproduzioni di edifici di Bruges, gli stemmi raffigurati accentuano ancor più l’attualizzazione delle scene.
Sulla tavola sinistra, al di sopra del capo del giudice
Sisamne, si osservano gli stemmi con le armi gentilizie
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
del duca Filippo il Bello e della consorte Giovanna d’Aragona, mentre sull’altra tavola, al di sopra dello spietato ma equo Cambise, sono esibiti gli stemmi della
città di Bruges e della contea di Fiandra
Appare inevitabile inserire le scene della Giustizia di
Gérard David nel contesto politico estremamente teso
della Bruges del tardo Quattrocento. L’imperatore Massimiliano d’Austria fungeva da reggente per l’ancor giovane Filippo il Bello, ma ben tre città fiamminghe non
riconoscevano Massimiliano che come tutore del futuro
duca. Le tensioni si acuirono a tal punto che nel 1488
l’imperatore venne trattenuto come ostaggio a Bruges e
fu liberato soltanto al sopraggiungere dell’imperatore
tedesco Federico III, che si era mosso in aiuto del figlio
con un esercito; in seguito Bruges si ribellò ancora varie
volte ma nel 1491 le agitazioni furono stroncate definitivamente. Durante questo continuo alternarsi dei rapporti di forza tra i poteri, David seppe conservare la sua
posizione; il numero e l’identità dei notabili ritratti nelle
scene della Giustizia furono nel corso della lavorazione
opportunamente adattati.
Le solenni esequie di Hieronymus Bosch ebbero
luogo a ’s-Hertogenbosch il 9 agosto 1516. Le notizie a
riguardo sono abbastanza precise in quanto il pittore
riceveva sepoltura in qualità di “membro giurato” della
Confraternita di Nostra Signora: una confraternita in
onore della Madonna, che contava, accanto ad un numero imponente di associati esterni, un piccolo nucleo di
componenti interni, i cosiddetti “confratelli giurati”.
Nel 1486-1487 Bosch fece il suo ingresso nella confraternita da esterno e probabilmente nella primavera del
1488 fu accettato come membro giurato. Ciò significava che il pittore, in quanto benestante o perché socialmente affermato per le sue qualità intellettuali e artistiche, si muoveva negli ambienti dell’élite di ’s-Hertogenbosch e del Brabante. Negli ultimi anni del Quat-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
trocento l’artista figurava tra gli abitanti più facoltosi
della città, anche se in verità i suoi beni erano in parte
costituiti dal patrimonio dotale della moglie. Comunque
Bosch seppe conquistarsi un nome anche come pittore,
tanto che nel 1504 il duca Filippo il Bello gli commissionò un Giudizio Universale, forse un trittico. La stessa provenienza potrebbe avere un trittico di Sant’Antonio, donato nel 1505 da Filippo il Bello al padre Massimiliano; certo è che Bosch dipinse questo soggetto
varie volte.
Non sono più di venticinque le opere attualmente
considerate autentiche e di mano di Bosch, tra cui spiccano un certo numero di trittici e di frammenti. Appare singolare che nessuna di queste opere possa essere
messa in relazione con un incarico formale al pittore o
che non se ne conosca la destinazione originaria. Anzi,
i documenti d’archivio che riguardano le commesse affidate all’artista o il suo lavoro, contrastano in maniera
stridente con le opere, in parte davvero bizzarre, conservate e attribuitegli. Dai libri contabili della confraternita di ’s-Hertogenbosch emerge che Bosch non dava
affatto nell’occhio in città quale artista stravagante con
idee poco ortodosse; al contrario, riceveva ogni tipo di
incarichi eseguendoli con piena soddisfazione dei committenti. Come “confratello giurato”, che esercitava il
mestiere di pittore, egli forniva inoltre consigli in caso
di lavori commissionati ad altri artisti ed effettuava controlli sulle opere consegnate. Nel 1492-1493 l’artista
progettò una vetrata dipinta, nel 1504-1505 un aiuto
della sua bottega realizzò alcuni piccoli stemmi, nel
1511-1512 Bosch eseguì il disegno per una pianeta ricamata e nel 1512-1513 quello per un candelabro a corona. Sono probabilmente opera sua anche le ante esterne (scomparse) di una grande pala d’altare scolpita e
dedicata a Maria, nella Cappella della confraternita nella
chiesa di San Giovanni di ’s-Hertogenbosch.
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
A partire dai primi anni del Cinquecento, l’interesse
per l’opera di Hieronymus Bosch aumentò sensibilmente; apprezzati negli ambienti più colti, i suoi lavori così
originali e sorprendenti furono imitati sia in incisioni
che in dipinti. Secondo quanto attestato da una fonte
spagnola del 1560 circa, già allora i suoi quadri venivano falsificati di proposito con un’accentuazione esasperata del suo stile: se ne fecero le imitazioni più fantasiose, mentre la produzione di Bosch stesso non mostrerebbe, ad eccezione delle scene dell’inferno e del purgatorio, “nulla di innaturale”! Se poste l’una a fianco
all’altra, le opere attualmente reputate di Hieronymus
Bosch si differenziano notevolmente quanto a carattere, tecnica, composizione e iconografia. Ricerche future chiariranno probabilmente che molte pitture in realtà
non sono affatto autografe bensì copie, imitazioni o
“genere” Bosch.
Il piano di tavola con i Sette peccati capitali si trovava già intorno al 1560 in possesso del re di Spagna Filippo II, grande ammiratore delle opere di Bosch. Nel
1574 il re ne fece dono al suo convento dell’Escorial.
Oggi l’opera è ritenuta da alcuni di mano dello stesso
artista, da altri proveniente dalla sua bottega, mentre
appare verosimile una datazione precoce al periodo
1480-1485. La tavola è costituita da cinque medaglioni. Il più grande, al centro, rappresenta l’occhio di Dio.
Nella sua pupilla il Cristo come Ecce Homo sorge dalla
tomba accompagnato dal testo “Cave cave Dominus
videt” (“Fai attenzione, il Signore ti sorveglia”). Intorno a quest’Occhio Onniveggente sono stati raffigurati i
sette peccati capitali. I cartigli al di sopra e al di sotto
del medaglione centrale recano citazioni dal canto di
Mosè (Deuteronomio 32, 28-29 e 20), che alludono alla
fine dei tempi, che è rappresentata nei quattro angoli:
la morte dell’uomo, il Giudizio Universale, l’Inferno e il
Paradiso.
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
La Cura della follia di Hieronymus Bosch al Museo
del Prado (1481?) potrebbe effettivamente essere opera
del maestro di ’s-Hertogenbosch, anche se appare ancor
più probabile che si tratti di una copia accurata dipinta
intorno al 1520 da un originale andato perduto. Non è
da escludere, peraltro, che questa copia si trovasse nel
1521 nel castello di Wijk bij Duurstede in possesso del
vescovo di Utrecht Filippo di Borgogna, ultimo dei figli
illegittimi del duca Filippo il Buono. Le descrizioni relative a quel dipinto corrispondono con precisione alla
Cura della follia conservata al Prado; è comunque altrettanto possibile che già in quel periodo circolassero più
copie pressoché identiche. L’originale dipinto a ’s-Hertogenbosch, probabilmente nel 1481, riscosse molto successo e fu imitato nel Cinquecento con decine e decine
di copie più o meno libere e anche molto più tardi vi
furono pittori dei Paesi Bassi che scelsero questo tema,
ad esempio Rembrandt nel 1625 circa e perfino James
Ensor nel 1892.
Sulla tavola rettangolare, al di sopra e al di sotto del
medaglione, è riportato in bella calligrafia un testo di
due righe: “Meester snijt die keye ras” “Myne name is
lubbert das” che tradotte significano più o meno: “Maestro, cava fuori la pietra (della follia)” “Il mio nome è
lubbert das” (lubbert das, letteralmente significa bassotto castrato, vale a dire persona ingannata, sempliciotto).
I caratteri ridondanti e tipicamente borgognoni con le
loro sinuose decorazioni intrecciate sono oltremodo singolari specialmente per il modo in cui incorniciano la
parte centrale della tavola. Nel medaglione, sullo sfondo di un ampio paesaggio, è raffigurato un corpulento
paziente, semisdraiato su una sedia, sottoposto ad un’operazione alla testa da un chirurgo che estrae dal suo
capo un fiore. L’intervento è seguito da un monaco con
un boccale di peltro tra le mani nonché da una suora con
un libro chiuso sulla testa. Si tratta di una scena assur-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
da: il chirurgo porta un imbuto sul capo e appesa alla
cintura una brocca. Una piccola insegna sulla sua spalla
destra riproduce un fiore con riferimento al suo mestiere, keisnijder, dove la parola “kei” poteva significare
oltre che “pietra” anche “fiore”. L’estrazione della pietra della follia non era un’operazione seria, fatto che
viene ancora ribadito da questo gioco di parole. Il dipinto raffigura dunque una scena burlesca.
Nel 1481 nella chiesa di San Giovanni di ’s-Hertogenbosch si svolse il quattordicesimo Capitolo del Toson
d’Oro, l’assemblea dell’ordine cavalleresco borgognone. In occasione di questa adunanza, il coro della chiesa venne decorato con trentasei tavole con stemmi e testi
che si riferivano ai cavalieri del Toson d’Oro dell’epoca. Massimiliano d’Asburgo presiedeva l’assemblea
durante la quale il giovanissimo Filippo il Bello venne
nominato cavaliere. Le insegne con l’arme dei cavalieri
del Toson d’Oro furono dipinte, seguendo un modello
caratteristico e codificato, dal pittore di corte borgognone Pierre Coustain: su uno sfondo scuro lo scudo
araldico multicolore, circondato dalla catena del Toson
d’Oro e tutt’intorno ondeggianti drappi dorati, il nome
e i titoli scritti con esuberanti caratteri decorativi.
Bosch ebbe certamente modo di vedere di persona
queste pitture borgognone nel coro della chiesa, ma
anche fuori di questa, considerato che per umiliare un
cavaliere espulso dall’Ordine per tradimento, il suo
stemma venne esposto in posizione capovolta su uno dei
portali della chiesa al cospetto di tutti i cittadini. L’analogia formale fra la Cura della follia e questi stemmi
non può essere casuale. Forse la tavola è il frutto della
collaborazione tra Pierre Coustain e Hieronymus Bosch,
ciascuno con l’apporto delle proprie specifiche competenze: Bosch eseguì la sorprendente scena centrale e
Coustain il testo scritto. Il tempo a disposizione non
mancava, giacché era consuetudine che il pittore di corte
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
si recasse sul luogo per collocare gli stemmi e rimanesse
sul posto durante l’assemblea capitolare per eventuali
modifiche delle insegne e delle scritte. In tal caso la
prima Cura della follia sarebbe stata dipinta nell’aprile
o nel maggio del 1481. Un’altra ipotesi è che Bosch, ispirato dagli stemmi dei cavalieri del Toson d’Oro, fece
propria questa tipica ornamentazione dei caratteri,
dipingendo quindi l’intera tavola. In tal caso il Capitolo di ’s-Hertogenbosch costituisce il terminus post quem
per la Cura della follia, che avrebbe quindi visto la luce
nel corso del 1481. La scena non può essere che una satira del mondo che circondava il Capitolo del Toson
d’Oro con i suoi rituali relativi agli stemmi oppure, più
probabilmente, una messa in berlina di uno dei Cavalieri
del Toson d’Oro. Il vescovo Filippo, Bastardo di Borgogna, che possiamo supporre presente a ’s-Hertogenbosch nel 1481, con la corte di Bruxelles al seguito, era
certamente al corrente di queste allusioni tanto che quarant’anni dopo appese il dipinto nella sala da pranzo
della sua residenza a Wijk bij Duurstede.
Passiamo ora ad analizzare un’altra opera di Bosch.
Contrariamente all’l’opinione corrente, la tavola del
Venditore ambulante non nasce come quadro di forma
rotonda o poligonale. La maggior parte delle interpretazioni muove invece da tale assunto, il che genera
ovviamente seri malintesi. Nell’ambito della presente
panoramica sulla pittura primitiva nederlandese la preferenza è andata sempre alle opere d’arte che potevano
considerarsi esemplari sia per contenuto, iconografia e
stile sia per forma, funzione e apprezzamento. Ebbene,
con il Venditore ambulante, a torto più noto come il
Figliol prodigo, si intende illustrare in maniera significativa come un’opera d’arte una volta modificata possa
condurre una nuova vita e svolgere spesso come tale perfino un ruolo di rilievo nell’opera dell’artista.
Una serie di osservazioni, risultato di recenti ricerche
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
molto accurate, offrono un’immagine dell’affascinante
tavola, radicalmente diversa da quella che si ha a prima
vista. Già durante il restauro del 1931 venne constatato che la forma ottagonale non era quella originaria, ma
che gli angoli furono eliminati in un secondo momento.
Per di più la tavola venne segata in due nel senso dello
spessore, cosicché la parte anteriore e quella posteriore
furono separate. In tal modo la tavola risulta attualmente formata da quattro assi sottili congiunti l’uno
all’altro in verticale. A loro volta i due assi centrali formavano un tempo un’unica tavola, tagliata poi in due
quando il dipinto venne diviso in due metà perfette. Si
ignora quando la divisione ebbe luogo, però vi è chi suggerisce che questa potrebbe essere coeva al taglio del
dipinto nel senso dello spessore, forse tecnicamente non
realizzabile in altro modo. L’ipotesi pare altamente
improbabile in quanto la scelta sarebbe caduta piuttosto sulla divisione lungo i tre assi, le cui due commettiture si delineavano già attraverso gli strati di mestica e
di colore. È impossibile che il nudo legno di quercia,
oggi visibile intorno al medaglione, sia stato a vista sin
dall’origine come è d’altronde impossibile che intorno al
tondo vi fosse una cornice ottagonale a ricoprire il
bordo, per il semplice motivo che intorno al 1500 non
esisteva ancora questo tipo di quadro, diffusosi soltanto nel secondo quarto del Seicento.
Tutto ciò induce a concludere che Hieronymus Bosch
realizzò il Venditore ambulante quale tavola esterna dell’anta di una pala. Può darsi che il tondo fosse circondato da una pittura monocroma: analizzando al microscopio il bordo del medaglione potrà forse ancora essere rintracciato perfino il colore di tale pittura. La divisione in due della scena e anche del personaggio principale sembra inverosimile ma trova il suo esatto parallelo sull’esterno delle ante del Trittico del fieno conservato al Prado. Bosch inoltre effettuò quest’operazione
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
varie volte, come risulta fra l’altro dalla Messa di San
Gregorio in grisaglia sull’esterno del trittico con l’Adorazione dei Magi al Prado. Il tondo con il Venditore ambulante ebbe origine dunque dallo smembramento di un
trittico, separando le parti l’interne da quelle esterne
delle ante e ricongiungendo tra loro il lato esterno sinistro e quello destro. Alla luce della larghezza dell’attuale
tavola, appare meno verosimile che fosse l’esterno di una
sola anta di trittico. Il supporto ligneo di quercia di
questo dipinto, sottoposto ad analisi dendrocronologiche, risultò essere il legno dello stesso albero che Bosch
usò per la Morte di un avaro (Washington, National Gallery), opera che al pari della prima non fu realizzata
prima del 1502. Anche l’analisi dei disegni preparatori
evidenzia che il Venditore ambulante, la Morte di un
avaro e inoltre la Nave dei folli (metà superiore a Parigi,
Musée du Louvre; metà inferiore a New Haven, Yale
University Art Gallery) hanno un impianto analogo e
risalgono molto probabilmente allo stesso periodo.
Anche la combinazione dei colori, sobria e misurata,
poco più che una grisaglia, è in armonia con quanto
detto. Viene subito da pensare che questo trittico smembrato (scomparto centrale 60-65 cm circa) fosse una
variante di minori dimensioni del Trittico del fieno
(scomparto centrale 135 x 100 cm, ante 45 cm di larghezza). In tal caso il Venditore ambulante non forma più
un tema a se stante bensì l’introduzione alla scena principale del trittico aperto. Comunque lo si voglia chiarire ulteriormente, esso rappresenta l’homo viator, il viandante, l’uomo sul sentiero della sua vita. Minacciato da
pericoli e tentazioni, egli deve continuare il cammino
lungo una via spesso stretta o accidentata e irta di ostacoli. Il tema ricorre fin nei minimi dettagli, come ad
esempio nella scenetta del gufo sull’albero che adesca la
piccola cinciallegra più in basso. Nel caso del Trittico del
fieno, l’homo viator che procede per la sua strada igno-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
rando piaceri e violenze, introduce il grandioso tema del
Bene e del Male: sulla terra, sotto gli occhi di Dio, si
svolge la vita peccaminosa degli uomini, vita che origina dal Paradiso terrestre, creato da Dio e raffigurato sull’anta sinistra, e che finirà nell’inferno, anch’esso creato da Dio e raffigurato sull’anta destra.
Tra le opere più affascinanti nell’ambito di quelle
maggiori di Bosch, figura senz’altro il trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio conservato a Lisbona (1505-1510
circa). La grande considerazione di cui godette la pala sin
dagli inizi del Cinquecento è testimoniata in primo luogo
dal gran numero – una ventina almeno – di imitazioni e
di copie che ci sono pervenute. Già nel secondo quarto
del Cinquecento, questo trittico, o un trittico simile raffigurante sant’Antonio, entrò in possesso di un pittore
portoghese inviato a soggiornare nei Paesi Bassi per
conto del re Juan II del Portogallo, mentre nel 1574 una
“tentación de Sant Anton de mano de Gerónimo
Bosque” si trovava all’Escorial e il re Filippo II di Spagna ne possedeva altri due esemplari; non è chiaro, tuttavia, se il trittico in esame sia da identificarsi con uno
di questi esemplari o se si tratti di un altro ancora.
Il tema centrale del trittico è l’intercessione di
sant’Antonio, eremita di eccelsa fermezza nella fede cristiana. A battenti chiusi il trittico presenta la Cattura di
Cristo e la Salita al Calvario, dipinte a grisaglie bruno-grigiastre. Gli episodi principali delle due scene sono piuttosto arretrati sullo sfondo. Per effetto dell’orizzonte
alto, l’esteso paesaggio risulta molto profondo e con un
grande proscenio dove si svolgono vicende parallele alla
scena principale. All’interno, per l’intera larghezza del
trittico, Bosch ha dipinto la medesima linea alta dell’orizzonte, creando anche in questo caso un proscenio
abbastanza ampio che avvicina lo spettatore. Le due
scene della Passione sull’esterno delle ante non sono
seguite, nella parte interna, dalla Crocifissione e dalla
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
Resurrezione di Cristo, bensì da sant’Antonio esposto
alle tentazioni. Il santo genuflesso in preghiera è collocato in modo che il suo viso segna l’esatto centro del trittico in posizione aperta. Egli è l’unico fra tutti gli uomini e gli esseri mostruosi che popolano il trittico, a guardare dritto negli occhi l’osservatore. Circuito da tentazioni raffigurate in modo bizzarro e fantastico, il santo
eremita, che stava fissando il crocifisso nella rovina alle
sue spalle, si è voltato brevemente per indicare con la
destra benedicente quel crocifisso al credente che osserva il trittico. Nello stesso momento e alla stessa maniera il Cristo, apparso nella nicchia buia accanto al crocifisso, indica l’immagine al santo. In tal modo il Cristo
crocifisso resta comunque l’elemento figurativo principale del trittico aperto e la Crocifissione si configura
come continuazione diretta e logica delle due scene all’esterno delle ante.
Nella scena della tavola centrale soltanto sant’Antonio che prega è rappresentato in modo “realistico”. Il
crocifisso è collocato in un edificio in rovina, decorato
con riferimenti veterotestamentari alla Redenzione che
verrà, sia pure non senza difficoltà e privazioni. Mosè
riceve la prima volta le tavole della Legge mentre i Giudei adorano il vitello d’oro e gli inviati nella terra promessa fanno ritorno con un grandissimo grappolo d’uva.
Quasi tutti gli altri elementi figurativi sono simili a
visioni e rappresentano le tentazioni e le privazioni di
sant’Antonio. Il complesso degli edifici in fiamme non
è il convento del santo bensì, più in generale, la dimora terrena dell’uomo: come Antonio Abate era assediato da seduzioni diaboliche, dalle quali non si lasciò tuttavia fuorviare, così l’intera cristianità viene messa alla
prova. Le ante laterali raffigurano scene fantastiche tratte dalla leggenda di sant’Antonio, a sinistra il Santo
viene sollevato in aria da esseri mostruosi, al di sopra
delle miserie terrene, e a destra l’eremita che non appe-
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
na distoglie lo sguardo dalle tentazioni della carne viene
immediatamente confrontato con altre tentazioni. Il
santo che, come intercessore e modello, ha un ruolo
centrale nel trittico, è chiaramente individuabile in
ognuno dei tre pannelli: sulle ante porta un ampio mantello sopra il saio grigio, nella scena centrale indossa una
tonaca grigio scuro mentre in tutti e tre i casi sulla sua
veste è appuntato un segno di riconoscimento, la Croce
di Sant’Antonio.
Le interpretazioni avanzate circa i numerosi dettagli
del trittico sono – come sempre nelle opere di Bosch –
talvolta sensate ma spesso anche troppo ricercate. Chiarimenti e spiegazioni dettagliate, anche del particolare
minimo, sono certo necessarie e utili ma più importante ancora è il significato nel suo insieme, il messaggio
dell’intera opera. Infatti la forza artistica del pittore si
esprime magari con più immediatezza nel coacervo degli
innumerevoli dettagli intriganti, ma la sua essenza è
malgrado ciò nell’insieme. Nel trittico di Sant’Antonio,
Bosch sa cogliere il nucleo teologico attraverso una
costruzione ottica molto raffinata entro un caos ordinato
gremito di elementi figurativi. Le scene monocrome
della Passione sull’esterno delle ante, sono state ridimensionate a piccoli panorami. Aprendo il trittico, il
formato diviene notevolmente più grande: le ante raddoppiano le dimensioni offrono un’immagine più ampia:
una moltitudine di colori e di visioni. Tuttavia, ciò che
è davvero rilevante, l’elemento figurativo essenziale,
l’atteso seguito delle scene della Passione, è raffigurato
nell’insieme più vasto come dettaglio infinitesimale che
rifulge nel buio: il Cristo crocifisso. Sant’Antonio come
maestro e modello, ma anche come intercessore, deve
aiutare l’uomo a trovare il Salvatore.
L’ipotesi che il trittico sia stato concepito in origine
per un ospedale diretto dagli antoniani oppure dedicato allo stesso santo, è rafforzata dall’interpretazione qui
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
proposta. Infatti, il trittico si riallaccia perfettamente al
contenuto delle due pale d’ospedale di Rogier van der
Weyden e di Hans Memling esaminate in precedenza.
La tradizione viene continuata: a Beaune il Giudizio
Universale è rappresentato in combinazione con la Deësis – l’intercessione di Maria e di san Giovanni Battista –, i santi patroni Antonio e Sebastiano, nonché l’Annunziata e l’Arcangelo Gabriele sono dipinti come statue sulla parte esterna del polittico; a Bruges anche la
Venuta e la Seconda Venuta del Salvatore – predette dai
due san Giovanni, qui anche patroni dell’ospedale –
hanno un posto centrale; Bosch infine colloca sant’Antonio fra l’uomo e il suo Salvatore.
Nel 1517, anno in cui Martin Lutero affisse i suoi
proclami sul portale della chiesa di Wittenberg, Erasmo
da Rotterdam si fece ritrarre con un amico, il segretario comunale di Anversa Pieter Gillis. Già a quell’epoca il sacerdote, scienziato e umanista Erasmo (14691536), di fama ormai internazionale, aveva assunto una
posizione moderatamente critica nei confronti della vecchia chiesa cattolica e da questa non si discostò fino alla
morte avvenuta a Basilea nel 1536: a suo parere molte
tradizioni e usanze medievali dovevano essere corrette,
comunque esclusivamente attraverso una riforma interna della chiesa e non già attraverso uno scisma. Erasmo
si rendeva ben conto di quanto fosse preziosa la tradizione tramandata dal medioevo, alla quale egli stesso e
i suoi contemporanei si ispiravano.
L’anno 1517 fu per Erasmo di importanza capitale.
Lutero prese apertamente e violentemente posizione, la
disputa che covava divampò. Cambiamenti radicali interessarono anche Erasmo personalmente, prova ne siano
i ritratti che da allora in poi si fece fare. Nel 1517 papa
Leone X concesse ad Erasmo la dispensa e con ciò i rapporti di questi con il convento Steyn presso Gouda furono formalmente interrotti; quel che più contava è che
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
ora l’umanista poteva muoversi liberamente attraverso
l’Europa, secondo il proprio intendimento, e inoltre
non era più tenuto a indossare l’abito talare e aveva la
facoltà di conseguire un proprio reddito amministrando
i propri beni. Inoltre sempre in quell’anno, il papa legittimò la nascita di Erasmo, il cui padre era un uomo di
chiesa. Così per la prima volta nel 1517 Erasmo poté
farsi fare un ritratto, pagarlo e donarlo, com’era in voga
all’epoca negli ambienti che lo zelante teologo frequentava: i prìncipi rinascimentali, l’élite nobiliare e quella
borghese di eruditi ed artisti amavano scambiarsi i ritratti, dipinti su formato più o meno grande, oppure fusi
come piccole medaglie o ancora sotto forma di stampe.
Anche Erasmo si sarebbe servito di questi tre mezzi d’espressione artistica. Nel 1520 si fece ritrarre dal grande
artista tedesco Albrecht Dürer, il quale nel 1526 eseguì
anche una sua incisione; il primo a fare un ritratto dell’umanista, però, fu nel 1517 Quentin Metsys, che due
anni dopo realizzò anche un ritratto su medaglia che
Erasmo fece fondere alcune volte in più copie. Hans
Holbein infine dipinse tutta una serie di piccoli tondi
nonché tavole di maggiori dimensioni con l’effigie di
Erasmo talvolta associata con elementi iconici simbolici ed eruditi, ma recanti spesso anche il solo busto del
dotto teologo oppure il suo volto. Il Doppio ritratto di
Erasmo e di Pieter Gillis del 1517 occupa nell’ambito di
questi incarichi un posto speciale. Erasmo lo commissionò per farne dono, insieme a Gillis, all’umanista
inglese Tommaso Moro (1478-1535). Entrambi erano
legati da profonda amicizia a Moro e grazie ai loro ritratti sarebbero stati con lui per sempre e non, come il
destino in terra aveva stabilito, per un periodo di tempo
limitato e fugace, anche se pieno di felicità. Erasmo e
Pieter Gillis sono raffigurati in un semplice studio,
dinanzi a un tavolo di lavoro, uno di fronte all’altro.
Erasmo sta scrivendo in un grosso quaderno; Gillis tiene
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
nella mano sinistra una lettera ricevuta da Tommaso
Moro, indicando con la destra il libro gli Antibarbari, in
cui Erasmo aveva descritto la pacifica e armoniosa atmosfera che aveva conosciuto soggiornando da Moro.
Nascono così due livelli di comunicazione: il primo,
interno al dittico, il secondo al di fuori dello stesso. La
prima triangolazione è formata da Gillis, Erasmo e la lettera di Moro. La seconda, e con essa il capolavoro nel
suo insieme, si completa soltanto nel momento in cui
Tommaso Moro si trova dinanzi al doppio ritratto; i tre
amici saranno allora l’uno di fronte all’altro e la separazione degli spiriti è scongiurata. Le lettere tuttora conservate, che Tommaso Moro inviò per ringraziare i suoi
amici nei Paesi Bassi, confermano quest’interpretazione, ed è proprio questa l’idea sottesa al doppio ritratto.
Moro ringraziò in dotti versi e portò il gioco ancora
oltre, dando la parola al doppio ritratto e a se stesso e
profondendosi in complimenti all’indirizzo dei due amici
ritratti e anche dell’artista. Al contempo, però, chiese
ad Erasmo la restituzione della lettera a suo tempo spedita a Gillis, e raffigurata in maniera eccelsa da Quentin Metsys nelle mani dello stesso, poiché solo mettendo quella missiva davanti al dittico, il gioco era completo.
Con questo doppio ritratto, Metsys ha realizzato,
senza dubbio in stretto dialogo con Erasmo o, più verosimilmente, su progetto dello stesso, un’opera d’arte
che segna magnificamente la fine della tradizione
medievale. Nel suo Dittico di Maarten van Nieuwenhove,
Hans Memling aveva già accorciato le distanze tra l’osservatore e il donatore e la visione della Madre di Dio
col Bambino. Quentin Metsys ed Erasmo andarono
oltre: al centro dell’opera ormai vi è l’uomo del Rinascimento con le sue grandi capacità intellettuali che dialoga in un mutuo scambio di conoscenze con il suo simile. E non solo, l’opera d’arte era completa soltanto in
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Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo
presenza dello spettatore, non in quanto osservatore ma
in quanto interlocutore nel dialogo.
In prima istanza, dunque, era rivolto alla persona cui
era destinato il doppio ritratto e che lo aveva ricevuto
in dono e, in seconda istanza, ad ogni essere umano che
desideri prendere parte al gioco intellettuale.
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