da Gli anonimi ei grandi maestri del xv secolo
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da Gli anonimi ei grandi maestri del xv secolo
Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo da di Jos Koldeweij con la collaborazione di Alexandra Hermesdorf Storia dell’arte Einaudi 1 Edizione di riferimento: in La pittura in Europa. La pittura nei Paesi Bassi, a cura di Bert J. Meijer, vol. I, Electa, Milano 1997 Storia dell’arte Einaudi 2 Indice La pittura nel Quattrocento. I primitivi Nederlandesi 4 Gli sviluppi storico-artistici dal 1425 al 1500 4 Storia dell’arte Einaudi 3 La pittura nel Quattrocento. I primitivi Nederlandesi Gli sviluppi storico-artistici dal 1425 al 1500 Nella trattistica storica e storico-artistica si rilevano fin dagli esordi, nell’Ottocento, due concezioni divergenti sulla cultura nederlandese del Quattrocento. Da un lato questo periodo d’innegabile splendore viene definito come tardogotico e considerato come grandiosa conclusione delle tradizioni medievali. Dall’altro si fa riferimento a quest’epoca con il termine di Rinascimento nederlandese. Ciò che comunque appare evidente è che si tratta di un periodo di grande fioritura sul limite di demarcazione tra il Medioevo e l’età moderna. Tale rigoglio culturale si sviluppò nel contesto di una società marcatamente urbana e costituisce il pendant nordico del Rinascimento italiano. I fitti scambi commerciali nonché le frequenti relazioni culturali che questi scambi alimentarono nel Quattrocento tra le città fiamminghe e quelle del nord Italia, bastano ad evidenziare come le spettacolari trasformazioni avvenute nelle due regioni più prospere dell’occidente non possono essere considerate fenomeni a sé stanti. E tuttavia gli sviluppi in Italia sono di tutt’altro carattere e assumono in modo più pronunciato la valenza di una “rinascita” o un “recupero” dell’antichità. A nord, invece, prosegue l’evoluzione del Gotico internazionale, anche se il linguaggio delle forme si fa meno raf- Storia dell’arte Einaudi 4 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo finato e più realistico per quanto riguarda la resa del paesaggio, dello spazio, delle figure e dei dettagli, e va combinandosi con tematiche spesso permeate di forte emotività. Corte, nobiltà, clero e borghesia diventano i committenti di questo nuovo e apprezzatissimo linguaggio formale, che conobbe una magnifica fioritura in particolare nella sfera d’influenza della corte borgognona e che è consuetudine designare con il termine di pittura nederlandese antica o delle origini; gli artisti attivi in questo periodo vengono definiti primitivi nederlandesi settentrionali e meridionali o meglio “primitivi fiamminghi”. Tuttavia, questa pittura di stampo realistico era tutt’altro che primitiva nell’accezione riduttiva del termine: tanto la tecnica pittorica quanto la padronanza dei materiali, l’iconografia, il linguaggio delle forme e il simbolismo, il senso della realtà, ove questa era ricercata, e il contenuto devozionale erano, anzi, oltremodo raffinati e raggiunsero dei livelli qualitativi notevoli. E sebbene si sia soliti parlare anche di “primitivi tedeschi” e di “primitivi francesi” in riferimento agli sviluppi stilistici più o meno coevi nei paesi confinanti, è davvero sorprendente la misura in cui da questa “nuova” arte si evolva uno stile prettamente nederlandese, caratterizzato da un forte accento sul naturalismo e sul realismo. Questo stile peculiare si diffuse dapprima nei territori meridionali della regione considerata – Fiandre, Hainaut e Brabante – per poi muovere verso nord, verso l’Olanda. La pittura nederlandese del Quattrocento si sviluppa lungo tre generazioni più o meno consecutive. Vista in prospettiva, la prima generazione, i cui pittori più significativi furono i fratelli Van Eyck, Robert Campin e Rogier van der Weyden, fornì forse il contributo più rilevante alla formazione di quei lineamenti tipici della pittura nederlandese delle origini. Furono questi artisti che, muovendo dal Gotico internazionale, posero le pre- Storia dell’arte Einaudi 5 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo messe per il seguente periodo di fioritura, durato grosso modo tre quarti di secolo e contraddistinto da un’elevata qualità sia tecnica che contenutistica e da una forte unità stilistica, che però non era certo statica. La produzione artistica è costantemente animata da un realismo idealizzato, di forte impronta religiosa e soprattutto innestato su una cultura borghese e cittadina, anziché nobiliare e clericale in senso conservativo. In questa fase ebbe un ruolo di assoluto rilievo, difficilmente sopravvalutabile, l’opera di Jan van Eyck, sebbene anche il suo geniale lavoro non possa essere considerato in maniera isolata da quanto lo precedette e dal contesto in cui si esplicò. Dopo aver lavorato tra l’altro per la corte dell’Aia, Jan van Eyck andò a stabilirsi a Bruges. La città divenne un centro importante, con Petrus Christus quale successore di Van Eyck, ospitando una tradizione che si protrarrà sino alla fine del Quattrocento. Fino al 1440 circa ebbe un ruolo di primo piano Tournai, città in cui Rogier van der Weyden fece il suo apprendistato presso Robert Campin prima di stabilirsi a Bruxelles, dove si dispiegò la sua carriera. Le figure di spicco della seconda generazione di pittori sono Hans Memling, Dirck Bouts e Hugo van der Goes. Si noti che due di loro si recarono espressamente nelle Fiandre, Bouts infatti si trasferì a Lovanio dalla nativa Haarlem, nell’Olanda settentrionale, e Memling lasciò la tedesca Seligenstadt per andare a Bruges; Van der Goes, invece, era nato e cresciuto a Bruges. Per l’Olanda della seconda metà del Quattrocento occorre citare Albert van Ouwater e Geertgen tot Sint Jans, entrambi attivi ad Haarlem. Intorno al 1450 ’s-Hertogenbosch diede i natali a Hieronymus Bosch, il quale, dopo una formazione ispirata alla tradizione fiamminga, divenne un maestro del tutto originale e, cosa piuttosto sorprendente, altamente apprezzato. La terza generazione di “primitivi nederlandesi”, Storia dell’arte Einaudi 6 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo verso la fine del Quattrocento e soprattutto nel primo Cinquecento, fa proprie le conquiste del Rinascimento italiano nell’ambito dello stile, del linguaggio formale e dei soggetti. Va detto che già in precedenza artisti nederlandesi avevano compiuto dei viaggi in Italia o avevano avuto modo di conoscere l’arte italiana attraverso i disegni e le stampe, anche se al nord si rimaneva ben radicati alle proprie tradizioni. Con maestri come Gerard David, proveniente da Oudewater in Olanda e Quentin Metsys, attivi rispettivamente a Bruges e ad Anversa, e con Jan Mostaert, Jacob Cornelisz van Oostsanen e Cornelis Engebrechtsz, attivi in Olanda, si inaugura una nuova tendenza. Il Rinascimento italiano comincia a diffondersi anche nei Paesi Bassi: in maniera ancora embrionale nell’opera di questi artisti, quindi decisamente negli esponenti appena più giovani della loro generazione come Jan Gossaert detto Mabuse e Lucas da Leida. A partire dalla seconda metà del Quattrocento nei Paesi Bassi e in Germania al posto della tradizionale tecnica su tavola si va affermando la pittura su tela, su lino. Uno dei primi esempi di pittura su tela è rappresentato dal già citato Parement de Narbonne, un dipinto in grisaglia realizzato a Parigi nel 1375 circa su commissione del re di Francia. Considerata la sua destinazione ad antependium, realizzato cioè per la parte anteriore dell’altare, non sorprende la scelta della tela quale supporto e per lungo tempo si è perfino ipotizzato che questa pittura estremamente raffinata servisse da base per un lavoro di ricamo. La grisaglia tuttavia appare eseguita con notevole perfezione e fu senz’altro ritenuta un’opera in sé conclusa. Il sobrio disegno in nero che non appare arricchito da materiali pregiati quali sete colorate e fili d’oro, né da pigmenti costosi, rendeva ancor più manifesto il fatto che si era di fronte a un paramento funebre. È comunque principalmente nella sfera del- Storia dell’arte Einaudi 7 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo l’arte applicata che si iniziò ad utilizzare la pittura su tela; partendo da questo ambito specifico e con un processo lento, ma inarrestabile, la tela sarebbe in seguito andata a sostituire la tavola. Rientrano in questa tradizione applicata, ad esempio, le numerose commesse ricevute nel tardo Quattrocento da Melchior Broederlam in qualità di pittore di corte dal duca di Borgogna; queste comprendevano in gran parte banderuole, stendardi, scudi stemmati e armature per tornei, e capitava anche che ne venissero ordinati mille in una sola volta. In questi casi si trattava di lavori con finalità prettamente decorative, che devono aver visto senza meno l’intervento di molti allievi e garzoni di bottega. Ancora intorno al 1470 anche un pittore della portata di Hugo van der Goes risultava attivo nella realizzazione di prodotti del genere. Un esempio considerevole di dipinto su lino della prima pittura nederlandese è la pala della Passione di Roermond. Questa pala d’altare, che vide la luce nel 1435 circa in Gheldria, è eseguita a tempera su una tela fissata su tavola. Questa tecnica, in cui il lino consentiva di ridurre le deformazioni del supporto ligneo, fu impiegata molto raramente nei Paesi Bassi, al contrario di quanto accadde invece nell’area di Colonia. La tecnica che prevedeva di incollare la tela su legno, quale base di preparazione, venne adottata, per ovvie ragioni, regolarmente alle statue policrome. Si è già avuto modo di osservare come l’applicazione del colore alle opere scultoree rientrasse, quanto meno nel Trecento e nel Quattrocento, tra gli incarichi ordinari del pittore. Un passo significativo nella graduale transizione dalla tavola alla tela tesa è segnato dalle ante della pala di santa Chiara del 1360-1370 circa, collocata nel duomo di Colonia e dono delle contesse Filippa e Isabella di Gheldria al convento di santa Chiara di questa città, città in cui il dipinto vide la luce. Furono certo motivi Storia dell’arte Einaudi 8 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo di ordine pratico a suggerire l’uso, nella pala a doppie ante (ciascuna di 282,5 x 138 cm), della tela tesa e fissata su telai per i battenti più esterni, il cui peso veniva in tal modo ridotto al minimo. La riproduzione su tela della struttura architettonica delle ante lignee evidenzia quella che è in effetti ancora una scelta “negativa”. Le stesse ragioni spinsero un concittadino di Jeronimus Bosch oltre un secolo dopo, nel 1513, a dipingere due grandi tele con la funzione di sportelli per un orologio con lo spettacolo del Giudizio Universale nella chiesa di San Giovanni a ’s-Hertogenbosch . Ogni volta che l’orologio artistico faceva la sua rappresentazione, i robusti sportelli (250 x 80 cm circa) dovevano aprirsi e richiudersi meccanicamente, e dunque una struttura leggera era della massima importanza. Il lino ben teso sul telaio fu dipinto a tempera su entrambi i lati, all’interno con quattro angeli con le Arma Christi, gli strumenti della Passione, all’esterno invece con i santi patroni della chiesa a grandezza oltre il naturale, Giovanni Evangelista e la Madonna col Bambino. Analoghe ante leggere di tela rossa vennero aggiunte nella primavera del 1482 alla Giustizia di Ottone III nel municipio di Lovanio. Queste scene della Giustizia erano state commissionate nel 1468 a Dirck Bouts, tuttavia alla sua morte, nel 1475, l’opera non era ancora completa: la tavola con la scena dell’Esecuzione è frutto del suo pennello, mentre quella con la Prova del fuoco è opera della sua bottega. Dopo che Hugo van der Goes ebbe eseguito per la città una stima delle tavole, forse portandole anche a compimento, queste furono appese nel 1482 nel municipio. Esse vennero, inoltre, munite di battenti per preservare i pregevoli quadri dalla polvere e dalla luce, che vennero forse a loro volta dipinti con immagini o testi. I battenti sono purtroppo andati perduti, le grandi tavole della Giustizia di Ottone III sono conservate i Koninklijke Musea di Bruxelles (ciascuna misura Storia dell’arte Einaudi 9 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo 324 x 182 cm). Altri pannelli protettivi in tela, seppure non dipinti, erano fissati alla pala della gilda dei miniatori di codici di Bruges. L’esecuzione dell’opera era stata affidata nel 1478 a Hans Memling dal miniatore di Utrecht Willem Vrelant, che in quella città era a capo di una delle botteghe più importanti e si era fatto raffigurare insieme alla consorte come donatore sulle ante fisse della pala stessa. Nella pittura nederlandese furono per l’appunto Dirck Bouts e Hugo van der Goes, verosimilmente suo allievo, a scegliere ben presto quale supporto la tela anziché la tavola. Rispetto ad un supporto ligneo, il lino teso a dovere e preparato con cura non solo è notevolmente più leggero e dunque più maneggevole, ma è anche più stabile della tavola, formata da diversi assi e soggetta a continue deformazioni per gli sbalzi del tasso d’umidità nell’atmosfera. Un’altra spiegazione, ugualmente plausibile, per l’impiego di alcune delle prime tele eseguite a tempera (colori stemperati in acqua e mischiati alla colla) è che si trattasse di studi preparatori meno pregiati oppure di varianti dipinte dei popolari arazzi. A questo proposito deve essere menzionata la Deposizione, ovvero il Compianto di Dirck Bouts databile grosso modo al 1470 (Londra, National Gallery), che oggi appare quasi come una grisaglia. Va, inoltre, segnalato un Calvario di notevoli dimensioni (181,5 x 153,5 cm, Bruxelles, Koninklijke Musea voor Schone Kunsten) attribuito allo stesso Bouts o a un pittore più giovane, segnatamente a Hugo van der Goes, la cui produzione comprende varie tele. Molte di queste sono di estremo interesse in quanto mostrano ancora il sistema primitivo usato per stendere la tela, o consentono almeno di ricostruirlo. Tra queste opere emerge, ad esempio, il dittico con la cosiddetta Piccola deposizione all’incirca del 1480 (ciascun pannello 53 x 38 cm, Stati Uniti, proprietà privata; Berlino, Staatliche Museen Preußischer Storia dell’arte Einaudi 10 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo Kulturbesitz). Davvero spettacolare è un Tüchlein nederlandese della seconda metà del Quattrocento, pubblicato nel 1992 da Jochen Sander. Questa piccola tela devozionale di un artista anonimo, in proprietà privata, raffigura la Maria Lactans a mezzo busto. La toccante immagine della Madre di Dio è dipinta entro un tondo dorato su un lembo pressoché quadrato di lino finissimo (24,6 x 24,1 cm), tuttora racchiuso entro la propria cornice sul primitivo supporto ligneo posto dietro il vetro originale. Sul retro della tela è ancora chiaramente visibile il disegno preparatorio; la stretta cornice modanata, di color oro, presenta ancora tracce di un testo pio che assieme alla pittura doveva esortare ad una sincera devozione. Lo sviluppo stilistico dell’illustrazione dei codici nei Paesi Bassi non procedette inizialmente di pari passo con le innovazioni radicali sperimentate dalla pittura su tavola con l’affermarsi, a partire dal 1425 circa, di un pronunciato realismo. I miniatori non ricercavano una resa naturalistica dello spazio o effetti di profondità, ma continuarono il più delle volte a impiegare sfondi di tipo decorativo. I paesaggi vengono costruiti su piani posti in sequenza come fossero quinte e le dimensioni delle figure sono spesso del tutto sproporzionate rispetto all’ambiente, più piccolo perché meno importante. I volti e le espressioni erano e rimanevano stereotipati, rari o del tutto assenti erano i tentativi di conferire tratti individuali. Pochi sono i nomi noti dei miniatori attivi nel periodo compreso tra il 1400 e il 1440 circa e nella maggior parte dei casi per quanto resta delle opere miniate risalenti al tardo Quattrocento si è costretti a ricorrere soprattutto ad una suddivisione per “gruppi”, scuole e a maestri a cui sono stati dati dei nomi convenzionali. Tuttavia, in maniera occasionale le novità si affacciano anche nell’ambito dei codici miniati, come dimostra il Storia dell’arte Einaudi 11 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo famoso Libro d’ore Torino/Milano con le sue miniature forse dipinte da Jan van Eyck durante il soggiorno del 1422-1424 all’Aia presso la corte d’Olanda. Anche alcuni altri illustratori introdussero innovazioni nella decorazione dei tanti e lussuosi libri di preghiere commissionati da benestanti cittadini, da religiosi o conversi e dalla nobiltà per la loro devozione privata. Nei Paesi Bassi settentrionali il Libro d’ore di Caterina di Cleve rappresenta un vertice assoluto. Le miniature, frutto di straordinaria inventiva, e la decorazione sul margine di questo manoscritto vennero eseguite intorno al 1440, probabilmente a Utrecht, e presentano influenze derivanti dalla pittura su tavola e dalla miniatura tanto dei Paesi Bassi meridionali quanto di quelli settentrionali. La domanda sempre crescente di libri di preghiere, in particolare nei territori a nord dei grandi corsi d’acqua, determinò la formazione di gruppi di opere con caratteristiche proprie in città come Delft e Haarlem, oppure più diffusi a livello regionale, in Gheldria, nei Paesi Bassi orientali e così via. Nei Paesi Bassi meridionali fu la corte borgognona ad avere un ruolo importante per l’illustrazione di codici nel periodo tra il 1400/1445 e il 1475. Il mecenatismo e l’influenza esercitata dai duchi di Borgogna, che avevano fissato le loro residenze in diversi luoghi, crearono una grande uniformità nella produzione calligrafica. Molto apprezzati erano i testi sia profani che religiosi di ampie dimensioni, cosicché spesso vennero creati manoscritti composti da più tomi. Il duca Filippo il Buono si distinse in questo senso: alla sua morte la biblioteca personale contava niente meno che 900 volumi! Tra le diverse città prospere dei Paesi Bassi meridionali dotate di propri scriptoria, Bruges divenne un centro di spicco di notevole richiamo. Numerosi miniatori di gran talento andarono a stabilirsi a in questa città lavorando in proprio come membri della gilda. Si citano qui solo alcuni esempi: il francese Jean Dreux Storia dell’arte Einaudi 12 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo fu attivo in quella città negli anni 1448-1466, Willem Vrelant, di Utrecht, dal 1454 fino al 1481, anno della morte, Loyset Liédet, di Hesdin, e il francese Philippe de Mazarolle vi lavorarono dal 1469 fino alla loro morte nel 1479. Di Philippe de Mazarolle va segnalato in particolare un singolare manoscritto, un libro d’ore stilato in oro e argento su pergamena nera. Il libro venne donato dalla città di Bruges al duca Carlo il Temerario il 24 febbraio 1467 in occasione del suo ingresso ufficiale in qualità di duca e fu De Mazarolle a ottenere l’incarico di ultimare il manoscritto ancora incompiuto. È possibile che questo libro d’ore in pergamena nera, attestato nei documenti d’archivio, sia da identificarsi con un manoscritto attualmente conservato a Vienna (Österreichische Nationalbibliothek, ms. 1856). In tal caso Philippe de Mazarolle sarebbe l’illustratore di questo codice spettacolare, che rientra in un gruppo di manoscritti di dimensioni molto piccole, estremamente preziosi e raffinati, provenienti dagli ambienti della corte borgognona. Di questi libri d’ore di colore nero si conservano nel complesso sette esemplari, tutti eseguiti a Bruges e risalenti al terzo quarto del Quattrocento. Negli ultimi decenni del Quattrocento e agli inizi del Cinquecento anche nelle regioni meridionali il mercato mostra un notevole interesse per i libri d’ore decorati. Se da una parte vennero meno la corte e la casata di Borgogna nella loro veste di grandi committenti, dall’altra aumentano in maniera vistosa gli incarichi dei privati relativi a manoscritti per la devozione personale. Con il modificarsi del tipo di clientela mutò anche il carattere della miniatura dei Paesi Bassi meridionali, che fu allora spesso riferita alla “scuola di Gand-Bruges”, nome che deriva dai due maggiori centri di produzione. I libri sono ridotti a un formato più piccolo, pur presentando ancora ricchi ornamenti. La decorazione a margine, che corre tutt’intorno al testo, assume Storia dell’arte Einaudi 13 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo un carattere molto marcato e talvolta esibisce elementi architettonici. Celebri sono inoltre le scene istoriate e soprattutto le cornici realistiche cosparse di fiori, conchiglie, insegne di pellegrinaggio o gioielli e altri oggetti, tutti raffigurati con notevole minuzia. Le stesse miniature cambiarono aspetto rispecchiando in modo palese l’influenza della pittura su tavola, in un processo che sfociò in raffigurazioni simili a quadri di piccolo formato, la cui funzione poteva esplicarsi tanto in un libro che su una parete. Anche nell’ultimo periodo della miniatura gli artisti noti per nome sono relativamente pochi e soltanto di alcuni illustratori si conoscono con certezza le opere. Sono da annoverare tra i più insigni maestri del tardo Quattrocento e del primo Cinquecento l’anonimo Maestro di Maria di Borgogna, che deve il suo nome alla committente per la quale eseguì la decorazione di taluni magnifici codici, e i due miniatori di Gand, Alexander Bening e Gerard Horenbout. Quest’ultimo trascorse gran parte della sua carriera, dal 1420 alla sua morte nel 1440, alla corte inglese del re Enrico VIII. Simon Bening, figlio di Alexander, si stabilì a Bruges, dove morì nel 1561: nei suoi quadri miniaturistici egli raggiunse ancora risultati di elevato livello nella fase conclusiva della tradizione dei codici miniati nederlandesi. Nel frattempo l’arte tipografica aveva già un secolo di storia alle spalle e aveva soppiantato ormai definitivamente il libro scritto e decorato a mano. Nel Quattrocento trasformazioni rilevanti interessano nelle regioni nordiche anche il rivestimento pittorico degli interni delle chiese. La tradizione dominante prescriveva per le grandi cattedrali francesi l’intonacatura sia delle pareti che delle volte: tutti i materiali della costruzione erano nascosti alla vista da un sottile strato di malta policroma. Questa copertura esaltava la struttura architettonica degli edifici religiosi e conferiva armonia ai loro vasti interni. Una cortina finta veniva Storia dell’arte Einaudi 14 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo dipinta su uno sfondo dalle tinte tenui che variavano dal grigio e bianco sporco al rosato o all’ocra. Talvolta gli elementi portanti erano evidenziati attraverso abbinamenti cromatici e le volte potevano avere un colore diverso dalle pareti. A completamento della costruzione della cattedrale di Chartres, ad esempio, l’edificio fu interamente dipinto nella prima metà del Duecento in ocra chiaro con una cortina finta di colore bianco e l’accentuazione degli elementi portanti, anch’essi bianchi; un rivestimento analogo, solo su sfondo rosato, lo conobbe verso la fine del Duecento la chiesa di Santa Elisabetta a Marburgo. Diverso invece l’interno della cattedrale di Amiens: l’alzato era completamente grigio, le volte rossastre e sull’insieme era dipinta in bianco una cortina finta. Il rivestimento pittorico delle architetture faceva da scenario alle vetrate con figure dai colori spesso brillanti e alle sculture variopinte. Nel corso del Trecento a queste si aggiunsero anche dipinti murali di carattere figurativo. Il gotico brabantino del Quattrocento introdusse una tendenza più sobria: un rivestimento uniforme e monocromo di tutto l’interno delle chiese, su cui venivano poi apportate decorazioni dalle tinte accese e vistose. Queste decorazioni si estesero lentamente fino a divenire pitture murali di ampie dimensioni e dipinti figurativi e decorativi a copertura totale o parziale delle volte. Questi dipinti murali formavano spesso un continuum con gli arredi, le porte, le finestre, le mensole e i baldacchini scolpiti. Tale sviluppo è illustrato in maniera molto eloquente dall’interno di chiesa raffigurato da Jan van Eyck nella miniatura della Messa funebre databile al 1440 circa: un ambiente interamente dipinto di bianco, intorno alle chiavi di volta colori di forte impatto e in fondo al coro, sulla parete nord, una scultura posta in risalto dal contesto dipinto in cui è inserita. Van Eyck mostra inoltre come il materiale di costruzione venisse effettivamente occultato Storia dell’arte Einaudi 15 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo sotto l’intonaco: la cornice della miniatura delimita in alto la parte intonacata da quella non ancora rivestita e in quel punto si vede chiaramente la grezza muratura. Il trittico dei Sette Sacramenti di Rogier van der Weyden, risalente al 1453-1455, presenta lo stesso interno di chiesa austero e dai colori chiari che sottolineano gli arredi. Un analogo rivestimento pittorico bianco monocromo, ascrivibile al gotico brabantino, con vistosi accenti cromatici intorno alle chiavi di volta, anch’esse dipinte, è stato riportato alla luce nella cattedrale di Notre Dame ad Anversa e di recente ripristinato. Lo stesso ideale decorativo si ritrova nella chiesa di San Giovanni a ’s-Hertogenbosch, dove al contempo si osserva chiaramente come in epoche successive, che arrivano fino al periodo neogotico, le tonalità degli interni tornino a ravvivarsi con scene di natura decorativa e figurativa. Che questo processo prenda le mosse già nel Quattrocento lo dimostrano le pitture nella volta del coro della chiesa di San Giovanni: nel secondo quarto del Quattrocento, la copertura tanto dell’alzato che della volta era bianca, le linee di forza dell’architettura erano evidenziate dal rosso e dal nero. Le chiavi di volta erano dipinte in oro e policromia realistica e inoltre circondate da pennellate di colore. In vista dell’assemblea capitolare dell’ordine del Toson d’Oro, che si svolse nel 1481 nel coro della chiesa di San Giovanni, la volta fu ornata con dipinti figurativi, in cui compaiono tra l’altro, la Seconda venuta di Cristo, santi e angeli che suonano la tromba. Sotto il profilo stilistico, l’evoluzione della pittura monumentale procede ovviamente in parallelo alle trasformazioni che hanno luogo nella miniatura e nella pittura su tavola. Come si è osservato in precedenza, d’altronde, tra queste espressioni artistiche esistevano forti legami. Si prenda ancora Hugo van der Goes quale esempio. Il suo dipinto murale che in una casa di Gand illustra la storia del re Davide e di Abigail, Storia dell’arte Einaudi 16 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo personaggio amato come prototipo di Maria, era molto famoso e fu descritto come tale già nel tardo Cinquecento nonché citato da Karel van Mander nel suo Libro della pittura del 1604. La miniatura. La fama del pittore greco Zeusi, vissuto nel quinto secolo a.C., si perpetuò anche nei Paesi Bassi fino al tardo medioevo. Diversi erano gli aneddoti che circolavano sin dall’antichità a proposito di questo geniale artista. L’episodio più celebre è quello dei chicchi d’uva da questi dipinti con tale realismo da trarre in inganno gli stessi uccelli. Un altro racconto molto diffuso venne riportato da Cicerone (106-43 a.C.) e a più riprese illustrato nei manoscritti tardomedievali del brano di Cicerone, come ad esempio nella copia della Rhetorica di fine Quattrocento, appartenente alla biblioteca dell’abate di Gand Rafaël de Mercatellis. Rafaël de Mercatellis, figlio naturale di Filippo il Buono, fu abate dell’abbazia di San Bavone a Gand dal 1478 alla morte, avvenuta nel 1508. Una schiera di amanuensi e miniatori lavorò per lui sia a Gand che a Bruges al fine di creare una vasta biblioteca personale. In una delle sue Miscellanea, raccolte di testi di diversa natura, si riferisce quanto Cicerone scrisse nel 91 a.C. a proposito di Zeusi: il rinomato pittore aveva ricevuto l’incarico di realizzare per un tempio un’effigie della leggendaria Elena, figlia di Giove. Il ritratto avrebbe dovuto cogliere la venustà senza pari della “donna più bella del mondo”, nel suo dipinto Zeusi doveva trascendere la realtà per dare forma a quest’ideale di bellezza. Egli scelse quindi cinque modelle componendo per sintesi il suo ideale femminile. Nell’illustrazione qui raffigurata il miniatore fiammingo (1482-1487 ca.) ha scelto proprio questa storia, offrendo al contempo l’occasione di gettare uno sguardo dentro una bottega dell’epoca. Sullo sfondo, attra- Storia dell’arte Einaudi 17 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo verso l’imponente finestra, figurano due fasi del racconto: in lontananza, il pittore che prende accordi con i suoi committenti, quindi, in posizione più vicina all’osservatore, gli stessi mentre scelgono alcuni giovani in un gruppo di allievi di una palestra che si stanno esercitando. La narrazione prosegue in alto, sulla destra: i ragazzi prescelti per la loro bellezza conducono il pittore e i committenti dalle loro rispettive sorelle, tra le quali vengono scelte le cinque modelle, cui Zeusi si ispirerà per dipingere la sua Elena. Questo è il tema principale e occupa lo spazio maggiore al centro della miniatura. Sulla sinistra, in primo piano, il committente sta parlando, mentre il pittore, seduto al centro su una cassa, è intento a rifinire il suo ritratto muliebre idealizzato. Il dipinto su tavola è collocato su un cavalletto, sulla sinistra stanno in posa cinque bellezze fiamminghe e a destra è sistemato un tavolo basso con recipienti di colore già diluito. Sebbene non sia dato vederla, la mano sinistra del pittore tiene senz’altro la tavolozza su cui egli crea gli impasti più delicati prima di applicarli sulla tavola con il pennello. Si noti che anche qui, come nel caso di Colyn de Coter, di cui parleremo in seguito, il dipinto si trova sul cavalletto già montato in una cornice. In effetti, come rivelano le indagini sui materiali delle pitture su tavola, questo era il modo abituale di operare, eseguendo la pittura letteralmente entro lo spazio delimitato dalla cornice: il margine estremo delle antiche tavole si presenta in genere privo di colore, che forma invece uno spesso bordo rialzato tutt’intorno al dipinto, la cosiddetta “bava”. Sulla destra della miniatura compare un assistente del pittore, che trita i pigmenti e prepara il colore per il maestro Zeusi, impegnato a combinare quanto di più bello hanno le cinque modelle per creare la figura della bellissima Elena, avvolta in una veste d’oro bordata di ermellino. Passiamo ora a descrivere un libro di preghiere e alta- Storia dell’arte Einaudi 18 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo re portatile di grande interesse. Modellato sulle esigenze personali del duca Filippo il Buono, questo libro di preghiere, di dimensioni minime, costituisce un importante esempio di manufatto destinato alla devozione privata: la parte testuale contiene alcune preghiere rivolte a Maria, alla Trinità – oggetto di un culto particolare nella certosa di Champmol – e a Cristo, che riguardano soprattutto la Passione. L’apparato decorativo è formato da cinque miniature, due nel dittico applicato sulla copertina del libro e tre inserite nel volumetto stesso, risalenti a epoche diverse e differenti nello stile. I due fogli miniati incorporati nella copertina, datano all’incirca al 1430, la copertina e il manoscritto sono del 1450 circa. Sulla parte sinistra del dittico è raffigurata la Trinità, a sinistra Dio Padre con la tiara sul capo e a destra lo Spirito Santo nelle insolite sembianze di un Cristo alato. Nel mezzo, il Cristo crocifisso, la croce poggiata su un globo terrestre. L’Incoronazione di Maria sull’altra metà del dittico è presentata in maniera alquanto tradizionale: la Madonna e il Cristo benedicente con il globo in grembo, siedono l’una di fronte all’altro sul trono, degli angeli sorreggono e incoronano Maria. Dio Padre in Gloria osserva la scena dal cielo e dà la sua benedizione. Alcuni angeli rosso fuoco incorniciano la scena. In ogni miniatura del libro figura il committente Filippo il Buono in persona. Sulla prima pagina egli è inginocchiato insieme al figlio Carlo di Borgogna, detto il Temerario, davanti a un piccolo dittico di forma sorprendentemente simile a quello applicato all’esterno del libro. Come si legge nel testo della pagina opposta, la singolare figura della scena seguente è la cosiddetta Madonna delle Spighe, ispirata a una scultura marmorea nel Duomo di Milano (attualmente nel Castello Sforzesco della città) che fin dal 1410 aveva compiuto numerosi miracoli. Con ogni probabilità Filippo il Buono Storia dell’arte Einaudi 19 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo venne a conoscenza del particolare culto tributato a quest’immagine, peraltro rarissima nell’arte a nord delle Alpi, attraverso i suoi stretti rapporti con gli Sforza, duchi di Milano. Lo stile delle miniature sulla copertina appare ancora fortemente improntato al Gotico internazionale degli inizi del Quattrocento. Le scene contenute nel libro stesso, invece, devono essere collocate in un periodo più tardo, alla luce degli accenni di tridimensionalità dello spazio in cui sono inserite le figure. Il manoscritto è rilegato con una copertina realizzata in maniera tradizionale con tavolette lignee rivestite di cuoio punzonato. Ciò che rende eccezionale il volume è il fatto che le tavolette siano state prolungate nella parte superiore in modo da formare un dittico: a tutt’oggi questo è l’unico esemplare noto di libro che combini un manoscritto e un dittico. L’artista anonimo indicato, sulla scorta del manoscritto illustrato più pregevole di cui fu autore, come Maestro del Libro d’ore di Caterina di Cleve, o semplicemente Maestro di Caterina di Cleve, è ritenuto il migliore e più originale miniatore tardomedievale dei Paesi Bassi settentrionali e forse persino di tutta Europa. Ben quattordici manoscritti, tutti databili agli anni compresi tra il 1430 e il 1460, sono stati identificati come opera dell’artista e della sua bottega. Dall’insieme della produzione si desume che la sua attività si svolse con ogni probabilità a Utrecht. Di fronte all’eccelsa qualità e al carattere notevolmente innovativo delle sue miniature e illustrazioni a margine, originalità che già ai suoi tempi non deve essere sfuggita, stupisce che egli sia tuttora un anonimo di cui non si hanno notizie certe. Lo splendido manoscritto, cui deve il suo nome, è un lussuoso libro d’ore di oltre 350 fogli di fine pergamena, riccamente illustrato: 25 miniature a piena pagina, 132 miniature a mezza pagina, un’iniziale istoriata (un capolettera con una raffigurazione), innumerevoli lettere Storia dell’arte Einaudi 20 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo decorate, ornamenti sul margine di quasi tutti i fogli. L’artista offre in quest’opera un campionario delle sue capacità, che vanno dalle realistiche scene di genere domestico alle scene permeate di simbolismi o alle immagini fantastiche, quasi visionarie. Nelle decorazioni sui margini si rileva spesso una mirabile resa della realtà, che nel contenuto è a volte chiaramente correlata al tema principale del testo della pagina o alla miniatura che campeggia sul foglio; ma capita anche che il significato ultimo sia di ardua interpretazione o che si tratti di combinazioni di oggetti di natura puramente associativa. Il Libro d’ore di Caterina di Cleve costituisce l’esemplare più voluminoso e riccamente decorato di questo tipo di libro di preghiere molto amato nei Paesi Bassi, che offriva ai laici l’opportunità, attraverso la preghiera privata e la religiosità personale, di condurre la propria vita, giorno per giorno e ad ogni ora, all’insegna del cristianesimo. Sia il testo che il corredo decorativo sono estremamente minuziosi ed elaborati. Il Maestro di Caterina di Cleve concepì in modo originale le illustrazioni traendo ispirazione dal mondo circostante, da un lato da particolari eccezionali, oggetti preziosi, fatti notevoli, dall’altro da piccoli e commoventi dettagli e sfumature quotidiani che egli coglieva e poi rielaborava nelle decorazioni. E tuttavia nemmeno quest’artista si colloca al di fuori della tradizione da cui proveniva e dal contesto artistico in cui era inserito. Nella sua opera si individuano chiaramente motivi desunti dalle miniature del passato nonché spunti tratti dai dipinti su tavola, ad esempio, di Jan van Eyck e del Maestro di Flémalle (Robert Campin). Era normale che schizzi e disegni circolassero nelle botteghe e fossero impiegati quali modelli; sembra persino che già a quei tempi il Maestro di Caterina di Cleve utilizzò come esempi alcune riproduzioni, in particolare stampe dell’artista anonimo, proveniente dall’alto Reno, noto col nome convenzionale di Storia dell’arte Einaudi 21 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo Maestro delle Carte da gioco (attivo fino al 1435 circa). Si può supporre che per la decorazione di questo libro d’ore il miniatore ottenne da parte della committente piena libertà. Ne risultò un’opera di ampie dimensioni, che richiese certo alcuni anni di impegno, ma la cui struttura era stata pianificata fin dall’inizio. In diversi punti del manoscritto compare la committente in persona, e qui e là nelle illustrazioni è inserito anche il suo stemma; varie volte, inoltre, ricorrono le iniziali CD, che stanno per “Catharina Duxissa”, duchessa Caterina. Figlia del duca Adolfo di Cleve e nipote di Filippo il Buono, duca di Borgogna, Caterina di Cleve (1417-1476) fu data in sposa ad Arnoldo di Egmont, rampollo di una celebre casata d’Olanda. Durante il governo del duca Arnoldo, la casa di Borgogna minacciava di avere il sopravvento sul ducato di Gheldria; conflitti, guerre civili e lotte tra fazioni si susseguirono senza portare a una soluzione definitiva e alla morte del duca Arnoldo, nel 1473, le truppe borgognone di Carlo il Temerario invasero la regione. Caterina ebbe un suo ruolo nella politica del tempo: fu la reggente di Gheldria negli anni 14491451, durante un pellegrinaggio di Arnoldo a Gerusalemme, e difese la causa del figlio Adolfo presso il vescovo di Utrecht, Filippo di Borgogna, in un periodo in cui il consorte, con cui era in lite, conduceva una politica anti-borgognona. Con il suo libro di preghiere Caterina entrò di diritto sia nella tradizione della Casa di Cleve, di cui si conoscono vari pregiati manoscritti, sia in quella borgognona, cui era legata tramite la madre. Considerazioni stilistiche e iconografico-contenutistiche inducono a ritenere che il libro d’ore fu eseguito probabilmente intorno al 1440. Oltretutto un Hollandse Groot, riprodotto nel manoscritto con estrema precisione, fornisce un terminus post quem trattandosi di una moneta coniata nel 1434 dal duca di Borgogna Filippo il Buono in qualità di conte d’Olanda. Storia dell’arte Einaudi 22 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo La pittura. La miniatura di Zeusi che dipinge Elena mostra l’artista mentre con il pennello fine esegue gli ultimi ritocchi. È lecito ipotizzare che l’artista utilizzi dei colori a olio, dal momento che qui è raffigurata la tecnica in uso nel tardo Quattrocento. In precedenza i pittori adoperavano la tempera, colori disciolti in acqua, dove l’uovo o la colla funzionavano da leganti. Per dipingere le ante dell’ancona di Champmol, verso la fine del Trecento, Melchior Broederlam si servì, ad esempio, prevalentemente di colori ad acqua miscelati con l’uovo. Le prime pitture su tela furono eseguite con pigmenti impastati con colla animale, colla che in linea di massima veniva dapprima applicata sulla tela. Dell’imprimitura o della mestica ancora non vi era traccia. Nel corso del Quattrocento si ricorre sempre più frequentemente agli oli quali leganti e fu soprattutto Jan van Eyck ad utilizzare i “colori a olio” con estrema perfezione. Non che egli fosse il primo, le proprietà agglutinanti degli oli erano sicuramente già note nell’ottavo secolo: esisteva tuttavia il problema dell’essiccazione, particolarmente lunga e laboriosa nel caso dei colori a olio. D’altra parte l’uso di pigmenti diluiti in sostanze oleose consentiva di dare corpo al colore e alle gradazioni per successivi strati sottili e trasparenti; tenui sfumature potevano essere combinate con colori scuri e intensi, con passaggi morbidi e graduali e con una luminosità notevole. Tutti gli artisti fecero i loro esperimenti alla ricerca della combinazione utile tra tempo di essiccazione, fluidità, capacità di miscelarsi, durata e altre qualità dei colori. Un grande passo in avanti in questa direzione fu compiuto da Jan (e Hubert) van Eyck e, a quanto pare, ciò avvenne direttamente su un’opera dalle sorprendenti dimensioni come il polittico dell’Agnello mistico, a Gand. È stata talvolta formulata l’ipotesi che al fine di accelerare il processo di essiccazione dei colori, Van Eyck vi avesse unito un solvente all’olio Storia dell’arte Einaudi 23 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo di seme di lino, ma dalle moderne indagini scientifiche non è risultato nulla in questo senso. Si accertò invece che l’artista aveva aggiunto all’olio di lino uova e piombo. Per abbreviare il procedimento, a volte gli strati di colore contenenti olio erano applicati su una base a tempera che aveva come legante l’uovo. Lo strato preparatorio era in genere chiaro, in pratica quasi bianco, ma talvolta la stessa mestica veniva colorata con terre nere o rosse. In tal modo si otteneva per le parti chiare del dipinto una tessitura luminosa ed espressiva applicando un piccolo quantitativo di colore trasparente su questo fondo già chiaro; per le porzioni scure non occorreva invece più uno strato spesso di colore in quanto la base era già scurita. Sullo strato di mestica veniva tracciato il disegno preparatorio: in maniera più o meno schematica il pittore eseguiva con il gesso, il carboncino (a secco) o con il pennello (a fresco) il bozzetto del dipinto; soprattutto nel caso di strutture architettoniche il disegno preparatorio poteva anche venire inciso nello strato di mestica. Talvolta si può riconoscere anche l’impiego di tecniche particolari per tracciare il disegno preparatorio, in particolare il sistema dello spolvero che consentiva di trasferire il disegno dal cartone sulla superficie da dipingere. Dal momento che il disegno preparatorio doveva essere occultato alla vista dagli strati di colore, questo è di solito molto naturale e personale, la firma dell’artista più spontanea: da maestro a maestro cambia l’approccio al disegno e il suo carattere. Alcuni tracciano linee fluide e sovrappongono correzioni e versioni diverse, altri invece eseguono sin dal primo momento un disegno preciso e già quasi definitivo. Di particolare interesse sono naturalmente quei disegni che rivelano dettagli sulle attività tipiche della bottega e sulla collaborazione tra maestro e aiuti. Sorprendentemente ricco di informazioni è ad esempio il disegno preparatorio del Giudizio Storia dell’arte Einaudi 24 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo Universale di Rogier van der Weyden a Beaune, da cui risulta che l’artista impostò l’opera abbozzando su ogni tavola alcuni personaggi e lasciando ad almeno quattro aiuti e allievi il completamento dei disegni; fu di nuovo il maestro a stendere il primo strato di colore apportando in quella fase modifiche al disegnopreparatorio, poi ultimò le parti più rilevanti del polittico mentre i suoi assistenti eseguirono il resto. In alcuni casi, con il passar del tempo il colore sbiadisce tanto da consentire di cogliere ad occhio nudo porzioni di disegno preparatorio; ciò si rileva con grande chiarezza, ad esempio, nel corpo del Cristo nella scena del Compianto nel Dittico di Vienna, opera di Hugo van der Goes e nella piccola bilancia di sant’Eligio, disegnata da Petrus Christus, in un primo momento di dimensioni maggiori di quelle conferitegli poi nella versione definitiva del Sant’Eligio nel suo laboratorio. Parti di disegno preparatorio si osservano anche nel trittico delle Tentazioni di sant’Antonio di Hieronymus Bosch, ora a Lisbona: soprattutto al di sotto dei dipinti a grisaille dalle tonalità brune che si trovano sull’esterno delle ante, ma anche nelle parti interne policrome delle ante e nello scomparto centrale sono ben visibili i disegni apportati sullo strato di mestica, con dettagli che spesso differiscono dalla versione definitiva. A partire da Jan van Eyck, i primitivi nederlandesi del Quattrocento adoperarono in prevalenza colori a olio per tutti gli strati del dipinto. All’olio, legante di rapida essiccazione, si aggiungevano talvolta anche sostanze resinose per il glacis, gli strati superiori di colore, che sono diafani e lasciano trasparire la luce. Già nel Quattrocento si stendeva spesso come ultimo strato, quale glacis incolore, una mano di smalto sull’intera pittura, sia per proteggere che per conferire maggiore brillantezza e intensità ai colori. Nel Quattro- e nel Cinquecento il numero di pig- Storia dell’arte Einaudi 25 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo menti a disposizione era limitato: venivano utilizzati principalmente pigmenti di origine minerale a fianco ad alcune sostanze coloranti organiche, e ciò in particolare per il rosso, il marrone e il nero. Il nero si otteneva dal carbone di piante o di ossa bruciate, mentre il rosso derivava da sostanze animali come la cocciniglia, o vegetali come la robbia. Diversi pigmenti furono ben presto preparati artificialmente, come ad esempio la cerussa e la maggior parte delle sostanze coloranti gialle e rosse. Il blu si otteneva soprattutto dall’azzurrite o dal lapislazzuli, ma anche dal vetro di cobalto (azzurro di smalto); quest’ultimo ebbe largo uso nel Cinquecento e ha assunto col tempo una colorazione grigiastra. L’azzurrite (un composto del rame) presenta riflessi verdastri e il lapislazzuli forniva il blu intenso più bello, ma era estremamente costoso. Prima della scoperta dell’America, infatti, il lapislazzuli doveva essere importato dall’Afghanistan, per cui il minerale, più caro ancora dell’oro, veniva impiegato con grande parsimonia, tanto che spesso può essere interpretato come status symbol. Il verde e il marrone erano per lo più il risultato di miscele e creavano problemi sia per le tonalità che per la tenuta. Il marrone infatti opacizza rapidamente e si altera con facilità. Il pigmento verde malachite ha basso potere coprente mentre il verderame, in grado di offrire un bel verde scuro se impastato con resine e oli si ossida diventando marrone per effetto della luce. È per questo motivo che gran parte delle distese d’erba della prima pittura nederlandese si presentano oggi come riarse dal sole. “colin de coter / pingit me in brabancia / bruselle” (“Colyn de Coter, mi dipinse in Brabante/ Bruxelles”). Con queste parole, disposte sull’orlo del manto di Maria, il pittore brussellese Colyn de Coter (1455 ca.1540 ca.) firmò, attorno al 1490 circa, la sua grande tavola con San Luca che dipinge la Vergine con il Bambino. Luca, che secondo la tradizione è medico nonché pit- Storia dell’arte Einaudi 26 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo tore, è raffigurato dietro al cavalletto mentre è intento a ultimare un ritratto della Vergine su una tavola già munita di cornice. La scena si svolge in un atelier domestico: recatasi nell’abitazione cittadina dell’artista per farsi ritrarre, Maria ora siede in posa su una panca davanti al camino con il Bambino in grembo. Sullo sfondo, sul retro della casa, un falegname sta costruendo una tavola per il pittore, un particolare, questo, che sembra suggerire che i lavori di falegnameria potevano aver luogo anche nella bottega dei pittori. È inoltre possibile, che la persona all’opera nel cortile recintato non sia altri che Giuseppe nelle vesti di falegname e che il ritrattista sia venuto col cavalletto e gli attrezzi del mestiere a casa dei committenti del dipinto. Se così fosse, e tutto sommato questa sembra l’interpretazione più plausibile, l’opera getta una luce interessante sulle pratiche pittoriche nell’ambiente borghese dei Paesi Bassi meridionali del tardo Quattrocento. L’evangelista ha a portata di mano tutto l’occorrente per la sua attività. Sul cavalletto e sul tavolo dietro di lui, alla sua destra, ci sono conchiglie con i pigmenti pronti per l’uso e diversi pennelli. Nella mano sinistra l’artista tiene una tavolozza con i colori che sta impiegando e un bastone da pittore a sostegno della destra con cui dipinge. Ad avvalorare l’identità dell’evangelista Luca, quasi sotto il cavalletto, giace un bue alato, suo simbolo per antonomasia. I lineamenti del volto del pittore, calmo e concentrato nel suo lavoro, suscitano l’impressione di un ritratto: ma allora chi è che rappresenta? Comunque sia, è probabile che in questo quadro Colyn de Coter abbia imitato fedelmente un esempio di Robert Campin, il Maestro di Flémalle, della prima metà del Quattrocento. La rappresentazione di Luca quale ritrattista della Vergine col Bambino era molto amata. Non solo a Roma, infatti, ma anche altrove, come ad esempio a Cambrai, immagini di Maria ritenu- Storia dell’arte Einaudi 27 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo te opera dello stesso Luca, erano oggetto di una venerazione particolare. Da questa leggenda Luca derivava la sua fama di protettore dei pittori e degli artisti e quindi la sua popolarità. La più celebre raffigurazione di questo soggetto venne eseguita nel 1432-1436 dal pittore Rogier van der Weyden, anch’egli di Bruxelles. Del suo San Luca che dipinge la Vergine Maria si conoscono ben quattro versioni, di cui una, in base a calcoli dendrocronologici, risulta collocabile grosso modo nel 1434 (la dendrocronologia è un metodo per la datazione assoluta fondato sugli anelli di accrescimento annuale presenti sul supporto ligneo). Ne consegue che è questa la tavola originale di Van der Weyden (Boston, Museum of Fine Arts), mentre le altre tre sono copie, sempre brussellesi, della seconda metà del Quattrocento. L’artista dipinse il quadro per la cappella di proprietà della gilda dei pittori, eretta nella chiesa di Santa Gudula a Bruxelles. Come artista ispirato egli si identificò senza dubbio con l’evangelista Luca intento a dipingere; tuttavia, non avrebbe mai potuto immaginare di trovare un giorno sepoltura davanti alla sua magnifica pala d’altare. Robert Campin. Questo artista (1376?-1444) è da identificarsi con ogni probabilità con il Maestro di Flémalle: Viene menzionato per la prima volta nel 1406 a Tournai, dove rimase fino alla morte nel 1444. Campin frequentò in questa città gli ambienti della nuova borghesia e qui rivestì diversi incarichi di rilievo, tra cui quello di decano della corporazione degli orafi e di capo della gilda di San Luca, in cui erano associati i pittori. Diresse inoltre una bottega con artigiani e apprendisti, come testimonia un elenco dei suoi allievi, tra i quali compaiono pure gli artisti “Roggie van der Weyden” e Jacques Daret. Noto anche come Trittico Seilern dal nome del suo originale proprietario, il duca Antoine Seilern, il tritti- Storia dell’arte Einaudi 28 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo co della Deposizione, che compare sul pannello centrale, venne eseguito da Campin nel 1415 circa. Per le intense emozioni racchiuse nel dipinto, questo è certo più che una semplice pala d’altare. Esso si propone come un Andachtsbild, un’immagine devozionale, una scena davanti alla quale lo spettatore, come del resto il donatore sull’anta sinistra, si inginocchia in profonda meditazione per immedesimarsi in tal modo con il Cristo che ha sofferto per gli uomini. Sulle ante sono raffigurate la collina del Golgota e la Resurrezione. L’enfasi posta in quest’opera sull’episodio della Deposizione rappresenta un fatto eccezionale per il Quattrocento. Come soggetto autonomo, la Deposizione ricorre invece con maggiore frequenza nella scultura francese, specialmente in Borgogna: ciò indica una certa familiarità dell’artista con l’arte borgognona. Per alcuni dettagli, inoltre, Campin si fece ispirare dalla pittura italiana, come mostra il motivo della Madonna che abbraccia il Cristo morto, desunto dalla tradizione bizantina e molto diffuso in Italia. L’insolita combinazione di temi presenti nel trittico con la Deposizione, la croce vuota sul Golgota e la Resurrezione rimanda molto probabilmente alla liturgia pasquale. Secondo quanto risulta dalle fonti scritte, il Venerdì Santo, durante la messa della Deposizione, si riponeva un’ostia consacrata, a volte insieme ad una croce, in una sorta di sepolcro per poi farla miracolosamente riapparire il giorno di Pasqua nel corso della messa dell’Elevazione, riproducendo pressoché alla lettera le vicende legate alla sepoltura e alla Resurrezione di Cristo. Sul fondo dorato sono graffite delle foglie di vite, allusione al vino quale simbolo del sangue di Cristo durante l’Eucaristia. Come l’ostia durante l’offertorio viene innalzata sopra l’altare, così il corpo di Cristo è sorretto sopra la tomba: si coglie qui un’eco della tradi- Storia dell’arte Einaudi 29 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo zione risalente all’alto Medioevo che considerava l’altare il simbolo tangibile della tomba di Cristo. L’idea della funzione religiosa è ulteriormente rafforzata dagli angeli ai lati del sepolcro, vestiti da chierici. Nel suo complesso la scena è caratterizzata da un forte realismo. Le figure collocate in prossimità della cornice, che sottraggono ogni profondità allo spazio, sono tipiche dello stile di Campin. Lo sfondo d’oro e l’espediente di riempire oltre ogni limite la superficie pittorica, il cosiddetto horror vacui, conferiscono all’opera un sapore arcaico. I fondali gremiti di tralci di vite richiamano vistosamente la miniatura del Trecento. Inoltre, le figure monumentali, dalla volumetria accentuata, i drappeggi di grande linearità e le donne dalle vesti colorate, spesso colte di schiena per suggerire una maggiore profondità, appaiono caratteristici del suo stile. Riflessi dello Stile internazionale traspaiono nell’elegante panneggio delle vesti degli angeli che si librano nell’aria e nella tipologia dei volti che evocano con forza esempi italiani. Quest’influenza si riscontra parimenti nell’opera di Jean Malouel e Henri Bellechose, due pittori nederlandesi attivi presso la corte borgognona. Dal momento che Campin aveva familiarità con la scultura borgognona, è verosimile che egli abbia avuto contatti con questa ambiente artistico. Il Trittico di Mérode, eseguito grosso modo nel 14251430, costituisce uno dei primi esempi di Annunciazione ambientata in un interno domestico. La scena dell’angelo che reca l’Annuncio è forse da porre in relazione con il nome dei probabili donatori, la famiglia Engelbrecht (di Colonia?), il cui stemma familiare appare sulle finestre dipinte. In quest’opera emerge la maestria di Campin nella raffigurazione degli oggetti quotidiani. In una stanza sovraccarica di suppellettili, dal singolare impianto prospettico, Maria siede a terra assorta nella lettura quan- Storia dell’arte Einaudi 30 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo do l’angelo compare a portare la Buona Novella. Sull’anta sinistra i donatori inginocchiati in adorazione osservano l’evento, mentre Giuseppe, sull’anta destra, continua imperturbabile a lavorare nella sua bottega di falegname. Come nell’Adorazione del Bambino, Campin si serve qui del linguaggio per immagini abitualmente indicato con il termine di disguised symbolism, simbolismo mascherato: gli oggetti all’apparenza comuni inseriti nella scena sono scelti con cura e racchiudono un significato più profondo. I gigli bianchi sulla tavola, ad esempio, alludono alla verginità e alla purezza di Maria, e così il bollitore, il lavabo e l’asciugamano nella nicchia sulla parete di fondo. La devozione di Maria e la sua familiarità con le profezie veterotestamentarie circa la venuta del Cristo sono suggerite dal libro che sta leggendo. Nel suo essere seduta in terra (humus), a dimostrazione della sua modestia, essa è raffigurata come Madonna dell’Umiltà, un motivo caro all’arte italiana. Alle sue spalle la panca con i leoncini rimanda al trono del saggio re Salomone e indicano in Maria la Sedes Sapientiae, il Trono della Saggezza. Il contenuto del messaggio angelico viene illustrato dal Bambino nudo che, con una croce tra le braccia, entra in volo nella stanza attraverso la finestra intatta. La figura simboleggia al contempo la Passione di Cristo e la sua Incarnazione attuatasi senza che Maria perdesse la sua verginità. La candela sul tavolo è stata a volte identificata con il Cristo stesso, e allora la cera rinvierebbe alla sua natura umana, mentre lo stoppino e la fiamma rappresentano la sua anima e la sua natura divina. Il Bambino che sopraggiunge in volo subentra alla simbologia della candela che, forse per questo motivo, si è appena spenta e ancora fuma. Sembra che gli artisti amassero molto simili sovrapposizioni di simbolismi, che conobbero con Jan van Eyck una delle massime espressioni. Una possibile chiave di lettura Storia dell’arte Einaudi 31 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo per il particolare della candela è dato dalla Visione di Brigida di Svezia. Sebbene questa, infatti, riguardi la Nascita di Cristo, nulla esclude che qui Campin abbia di nuovo ripreso il passaggio ove si legge che l’emanazione divina del Bambino cancella la luce naturale del mondo. Secondo un’altra ipotesi, invece, l’artista avrebbe raffigurato la Brautkerze, la “candela nuziale”, come allusione al momento in cui si celebra lo sposalizio della Vergine con Dio. Un tema davvero inconsueto lo offre l’anta destra: Giuseppe, che oltretutto non compare quasi mai nell’episodio dell’Annunciazione, è al lavoro nella sua bottega di falegname. Può darsi che qui si faccia riferimento alla prima moglie del committente del trittico, Peter Engelbrecht, che si chiamava “Scrynmakere” (Ebanista). D’altra parte non bisogna dimenticare che fin da tempi antichissimi Giuseppe godette di grande popolarità nei Paesi Bassi. Il falegname ha un gran da fare: sul bancone, sul tavolo da lavoro davanti a lui e per terra si trovano sparsi gli attrezzi del mestiere e gli oggetti che ha realizzato per la vendita. Le bizzarre gabbiette di legno sono trappole per topi e rimandano alla Redenzione dell’umanità da parte del Cristo e al suo trionfo sul Male, il diavolo. Ecco a tal proposito le parole del Padre della Chiesa Agostino: “Il diavolo si rallegrò alla morte di Cristo, ma proprio attraverso la morte di Cristo il diavolo è stato sconfitto, come se avesse mangiato l’esca di una trappola per topi [...] la trappola è la croce di Cristo; l’esca con cui venne preso è la morte del Signore”. La stessa scure, la sega e il bastone in primo piano sembrano essere una metafora. Un brano del profeta Isaia (10, 15) recita: “Si glorierà forse la scure contro chi la brandisce? O si insuperbirà la sega contro chi la muove? Come se una verga si levasse contro chi l’alza e si atteggiasse come un bastone, che non è altro che legno!” Il commento del padre della Chiesa Girolamo Storia dell’arte Einaudi 32 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo chiarisce che anche questa immagine allude al diavolo. Non del tutto chiara è la funzione della tavoletta in cui Giuseppe sta praticando dei fori. Potrebbe essere l’elemento di un torchio per l’uva in miniatura oppure il blocchetto irto di chiodi che pende dalla cintola di Cristo durante la sua salita al Golgota. In entrambi i casi è quindi un simbolo della Reincarnazione ovvero dell’Eucaristia. I donatori ne sono testimoni: secondo il racconto per cui le porte del Paradiso vennero di nuovo aperte al genere umano grazie alla Reincarnazione, ad essi è permesso assistere al mistero attraverso la porta spalancata. La figura esotica presso la porta del giardino ha suscitato numerose interpretazioni, ma probabilmente esso rappresenta il profeta Isaia, ai cui scritti il dipinto rinvia molto chiaramente. Anche quest’opera di Campin racchiude un’iconografia complessa, di cui si ignora se sia frutto delle conoscenze dell’artista oppure del contributo di un teologo erudito.Gli oggetti tratti dalla vita quotidiana sono resi con grande perizia. Mediante un sapiente gioco di luci e ombre quanto è rappresentato acquista notevole profondità: il trattamento volumetrico delle figure, il pesante panneggio delle loro vesti, gli oggetti, lo spazio in cui la scena si svolge. I dettagli minuziosi e il naturalismo con cui l’artista narra la storia sottolineano al contempo la funzione dell’opera, una pala d’altare per la devozione domestica, che per lo spettatore sarà stata certo di stimolo per una meditazione sul tema del Cristo fattosi uomo. Il ritratto autonomo e individualizzato non fece la sua comparsa che nel tardo Medioevo. Nel corso del Trecento l’attenzione si sposta gradualmente dall’essere universale verso l’individuo, l’uomo è visto sempre meno come rappresentante del genere umano e in misura crescente come persona nella sua unicità. Ritratti di committenti, immagini di defunti e, quale forma inter- Storia dell’arte Einaudi 33 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo media, raffigurazioni su epitaffi di donatori che erano al contempo persone estinte da commemorare, ne costituiscono i primi esempi. Inizialmente i ritratti sono di profilo, figure a mezzo busto rappresentate esclusivamente di lato. Questa è la tipologia che sarebbe rimasta in voga soprattutto in Italia, mentre nei paesi nordici la preferenza andava al ritratto di tre quarti. Un esempio precoce di quest’ultimo genere lo fornisce il ritratto precedentemente esaminato contenuto nella miniatura Marcia dipinge il proprio ritratto. Nel ritratto di tre quarti il busto della persona non è né in posizione frontale né laterale bensì leggermente voltata rispetto allo spettatore, le mani sono talvolta visibili. La particolare angolazione consente quindi di raffigurare le due metà del volto senza rigidità, rendendo possibile una caratterizzazione del personaggio ritratto. Il ritratto di un uomo e di una donna eseguiti da Robert Campin sono di estremo interesse per l’evoluzione della ritrattistica. Non si tratta infatti solo di ritratti sorprendentemente precoci – anteriori a quelli pervenuti di Jan van Eyck e Rogier van der Weyden – essi formano anche un doppio ritratto, un dittico borghese. Il dittico, che nasce come oggetto devozionale, viene qui trasformato in supporto dei ritratti, intimamente legati, dei due coniugi di cui oggi si ignora il nome. Sotto il profilo tecnico Campin si servì abilmente delle opportunità offerte dalla nuova tecnica pittorica, la trasparente pittura a olio. Egli ha saputo rendere con notevole maestria l’incarnato, dove la luminosità della base affiora attraverso gli strati di colore trasparenti e di intensità cromatica variabile. Magnifico è il contrasto così ottenuto tra il volto rosa pallido della donna e il velo drappeggiato con cura intorno al collo, che è per l’appunto di un bianco coprente. Sia nella donna che nell’uomo la stoffa del copricapo è elemento essenziale ad inquadrare i visi fortemente espres- Storia dell’arte Einaudi 34 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo sivi e pone in risalto le figure sullo sfondo pressoché nero. Il composto ritratto femminile di Campin può definirsi più propriamente un’eccelsa rappresentazione dell’“essere guardati” piuttosto che uno dei consueti ritratti che “guardano” lo spettatore. Questo tratto viene accentuato dagli accostamenti cromatici, dalla posizione dei personaggi e dall’inquadratura dei due ritratti posti uno di fronte all’altro. Il rosso intenso e la tonalità scura dell’uomo emergono dal dipinto, il bianco vivissimo e l’incarnato chiaro della donna tendono invece a ritrarsi; l’uomo, di dimensioni maggiori, è raffigurato appena più da vicino, la donna invece a distanza tale che le sue mani, posate l’una sull’altra, vengono a formare il primo piano; questo effetto è ulteriormente rafforzato dal copricapo dell’uomo, che ne ingrandisce la testa, e dal velo della donna che le riduce il capo e il volto; l’uomo guarda leggermente verso l’alto, mentre lo sguardo della donna è orientato appena verso il basso. In passato queste osservazioni sono state utilizzate a sostegno della tesi che affermava l’autenticità del solo ritratto femminile, considerando quello maschile un’aggiunta o una copia da un più antico modello. Tuttavia, oggi i pareri sono concordi nel ritenere le due tavole originali e concepite come pendants. La forza e l’elevata qualità dei ritratti sono racchiuse per l’appunto in queste raffinate contrapposizioni. Con il doppio ritratto di questa coppia borghese, benestante a giudicare dall’abbigliamento, Campin ha saputo fornire un’eccellente caratterizzazione dei due personaggi e ha raffigurato un armonioso scambio di pensieri tra le parti. Nemmeno un secolo più tardi Quentin Metsys, nel suo spettacolare ritratto doppio di Erasmus e Pieter Gillis, avrebbe compiuto un passo ulteriore, coinvolgendo l’osservatore nell’impianto dell’opera. Storia dell’arte Einaudi 35 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo Jan van Eyck. “Meyster Ian den maelre” (“maestro Jan, il pittore”) lavorò presso la corte dell’Aia dal 1422 al 1424, anni in cui il potere su Olanda e Zelanda era nelle mani di Giovanni di Baviera (1419-1425) in qualità di duca supplente del fratello Guglielmo. Il pittore Jan van Eyck nacque intorno al 1390 probabilmente a Maaseik, nella regione della Mosa, mentre si ignora dove compì il suo apprendistato; secondo i cronisti cinquecenteschi furono pittori anche la sorella Margaretha e i fratelli Lambert e Hubert. Questi ultimi acquistarono fama a livello internazionale, sebbene di Hubert non si conosca alcuna opera. La produzione pittorica attribuibile con certezza a Jan van Eyck è invece copiosa e le fonti d’archivio consentono di ricostruire anche alcuni tratti della sua carriera. Sembra che egli giungesse in Olanda al seguito di Giovanni di Baviera (1374-1425), figlio del conte Alberto di Olanda, Zelanda e Hainaut e vescovo-elettore di Liegi (1389-1418). Questi amministrava il vescovado con lo spirito di un soldato piuttosto che come un religioso e quando nel 1417 morì il fratello, il conte Guglielmo VI di Olanda, egli scavalcò la legittima erede, la nipote Jacoba di Baviera, e riuscì ad assumere quale reggente il controllo dell’Olanda, rinunciando pertanto al vescovado. Morto Giovanni per avvelenamento, Van Eyck, suo pittore di corte, lasciò l’Aia per entrare al servizio del duca di Borgogna, Filippo il Buono, e si stabilì a Lilla. L’artista seppe conquistarsi una posizione di fiducia presso il duca, per il quale fu, infatti, oltre che pittore ufficiale, anche consigliere e diplomatico. A più riprese Van Eyck fu inviato in missione e nel 1428-1429 fece parte della delegazione incaricata delle trattative con il re Giovanni del Portogallo per le nozze della figlia di questi con il duca Filippo. In quell’occasione egli eseguì un ritratto di Isabella del Portogallo, che il 7 gennaio 1430 sarebbe andata in sposa a Filippo il Buono. L’incarico ricevuto trattenne Storia dell’arte Einaudi 36 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo Van Eyck per oltre un anno in Portogallo e in Spagna, periodo nel quale ebbe modo di visitare Santiago de Compostela, Granada e diversi altri luoghi. Anche in seguito venne richiesto il suo intervento in vicende politiche e diplomatiche; un esempio per tutti è il viaggio segreto compiuto nel 1436 per conto del duca. Intorno al 1430 l’artista si trasferì a Bruges, dove due anni dopo acquistò una casa in cui abitò fino alla morte nell’estate del 1441. In quanto pittore ufficiale le commesse ducali costituirono senz’altro la voce principale dell’attività di Van Eyck, tuttavia egli lavorò anche per la corte che circondava il duca, per la città, la nobiltà e la borghesia. Delle opere eseguite per Filippo il Buono non rimane nulla; del ritratto d’Isabella del Portogallo e di un planisfero grandemente apprezzato restano solo testimonianze d’archivio; dei ritratti del duca non sono sopravvissute che copie mediocri. Sono inoltre andate perdute le pitture murali, le bandiere e gli stendardi dipinti, gli stemmi, le decorazioni per le occasioni solenni e la policromia delle sculture, alla cui realizzazione partecipò in alcuni casi anche Henri Bellechose. Dell’artista restano il celebre polittico di Gand e gli incarichi in prevalenza di modesta entità eseguiti per conto della sua clientela di Bruges. La tradizione vuole che sulla lastra a sigillo della tomba andata dispersa intorno al 1800 si leggesse: “Qui giace il Maestro Joannes de Eijcke, il più eccelso maestro di dipinti che vi sia mai stato nei Paesi Bassi, morto nell’anno 1441”. Non esiste alcun documento che riguardi la formazione e gli esordi di Van Eyck; certo è che quando nel 1422 viene detto “maestro” e approda all’Aia, deve essersi già fatto un nome come pittore. Alla sua produzione iniziale viene ascritto un dittico con la Crocifissione e il Giudizio universale (New York, Metropolitan Museum of Art), forse degli anni 1420-1425, nonché il contributo, probabilmente del 1420 circa, al già citato Storia dell’arte Einaudi 37 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo Libro d’ore Torino/Milano. Questo libro ha una storia complessa. Il manoscritto venne iniziato per un membro della casa reale francese. Ne entrò poi in possesso il duca Jean de Berry che vi fece aggiungere delle illustrazioni ma a sua volta lo diede via prima che questo fosse ultimato; in seguito il manoscritto fu smembrato, una parte rimase in Francia (ora a Parigi, Bibliothèque Nationale, Nouv. Acq. Lat. 3093), l’altra entrò in possesso di Giovanni di Baviera (in seguito smembrata a sua volta in più parti: Torino, Biblioteca Nazionale, scomparsa in un incendio; Torino, Museo Civico; Parigi, Musée du Louvre, Cabinet des Dessins, RF 2022-2025, cinque fogli staccati). Nel 1420 Giovanni di Baviera fece ampliare le decorazioni del manoscritto e altre illustrazioni furono aggiunte attorno al 1450. Sei sono i fogli, risalenti al 1420 circa, attribuiti a Jan van Eyck (mano G), mentre altre pagine provengono da ambienti a lui vicini (mano H). Alcuni autori ritengono che anche Hubert van Eyck abbia dato il suo apporto tanto nelle miniature che nel dittico di New York, tuttavia non esistono prove a riguardo. Si aggiunga che recentemente i due esperti di miniature fiamminghe, Maurits Smeyers e Cyriel Stroo, hanno decisamente respinto la datazione e l’attribuzione a Van Eyck delle miniature in questione, realizzate a loro parere nel 1440-1450 a Bruges. Sono invece generalmente riferite all’artista le miniature con la Nascita di San Giovanni Battista (fol. 93v) e la Messa funebre (fol. 116r). Le foto a infrarossi del foglio 93v rivelano che il miniatore apportò delle modifiche al disegno preliminare: Van Eyck eseguì il lavoro partendo da uno schizzo tracciato da un artista che l’aveva preceduto. La miniatura rappresenta la Nascita del Battista secondo la descrizione resa dal vangelo di Luca (Luca 1, 57-66) e arricchita da aneddoti posteriori. Distesa sul letto a baldacchino Elisabetta riceve dalle mani della levatrice il piccolo Giovanni. Una donna è Storia dell’arte Einaudi 38 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo venuta a farle visita con il figlio, sulla destra Maria, in attesa del Figlio, è raffigurata con una brocca. SUllo sfondo a destra si scorge un vecchio intento a leggere, senza dubbio si tratta di Zaccaria che, punito con la privazione della parola, avrebbe scritto che suo figlio doveva chiamarsi Giovanni. È un’allusione veterotestamentaria a queste parole divine la minuscola immagine di Mosé con le tavole della legge sopra il passaggio dietro Zaccaria. Con notevole ingegno l’artista ha raccordato il capolettera istoriato D con la decorazione del margine inferiore della pagina. Nell’iniziale Dio Padre, assiso su un trono, benedice la scena che si svolge sotto di lui. Attraverso i raggi d’oro che racchiudono lo Spirito Santo viene creato il legame tra il Padre in cielo e Giovanni accovacciato che battezza il Cristo nelle acque del Giordano. Il paesaggio fluviale fortemente realistico, dall’orizzonte insolitamente basso, è stato da taluno posto in relazione alla vallata della Mosa. Nella pagina della Messa funebre ancora una volta le decorazioni figurative sono state concepite come un insieme iconografico. La miniatura rappresenta un funerale in una chiesa gotica: nel coro appare la bara collocata sotto un cataletto, mentre all’altare un sacerdote celebra la messa di requiem. Sul margine inferiore del foglio si osserva la conclusione della cerimonia: il sacerdote in preghiera, seguito dai chierici con l’acqua santa e da tre figure che piangono il defunto, avanza tra le tombe e le croci di un cimitero. Quanto raffigurato è evidentemente il principio e la fine del rito: da un lato si vede l’inizio delle esequie nella chiesa, dall’altro i piccoli gruppi in basso che stanno lasciando il camposanto; qui non compaiono più né la bara né la recente sepoltura. All’interno della R istoriata, incipit del testo, è raffigurata la Seconda venuta di Cristo alla fine dei tempi; egli siede sull’arcobaleno in qualità di Giudice mentre sotto di lui i defunti resuscitano dai loro sepolcri. Gli Storia dell’arte Einaudi 39 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo stemmi sul cataletto consentono di indicare quale committente dell’opera Giovanni di Baviera, Olanda e Hainaut. Molto suggestivo è infine l’effetto che l’artista ottiene facendo uscire dalla cornice della miniatura la parte dell’edificio religioso ancora in costruzione. L’opera più famosa della pittura fiamminga delle origini è senza dubbio il polittico con l’Adorazione dell’Agnello mistico di Jan e Hubert van Eyck (Bruges 1432). Il polittico non conosce pari sia per le dimensioni che per il numero di pannelli che formano l’insieme. L’iconografia è complessa e affascinante e ha suscitato nel corso del tempo svariate interpretazioni. Un’iscrizione riporta data e firma dei due fratelli Van Eyck, non risulta chiaro però quali parti siano da attribuire a Hubert, venuto a mancare molto tempo prima che il lavoro fosse terminato. Fu Jan van Eyck a portare a compimento l’imponente pala d’altare, impiegando la sua tecnica a olio senza sperimentare prima su una tavola di piccole dimensioni, ma direttamente sulle tavole di formato eccezionale del polittico con una perfezione raramente eguagliata. L’opera ebbe una storia molto movimentata, fu infatti più volte smembrata, trafugata e rivenduta per tornare definitivamente nella sua collocazione originaria nel 1945; mutila, però, dello scomparto con i Giudici equanimi scomparso nel corso di uno spettacolare furto nel 1934 e tuttora ricercato. Nel 1823, all’epoca in cui sei delle otto ante si trovavano al Kaiser-Friedrich Museum di Berlino, sul bordo inferiore della cornice originale venne individuata un’iscrizione. Nel testo si dichiara che Hubert van Eyck, il più grande tra i pittori, aveva cominciato la pala d’altare e che il fratello Jan, secondo per importanza, l’aveva ultimata il 6 maggio 1432 su incarico di Jodocus Vijd. Dalle indagini tecniche, che hanno interessato anche i disegni preparatori, non sono emersi elementi utili a distinguere l’opera dei due fratelli e non risulta- Storia dell’arte Einaudi 40 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo no quindi individuabili mani diverse. Di Hubert van Eyck non si conserva nessun altra opera e in base ai documenti d’archivio sono note soltanto alcune commesse affidategli. Egli morì il 18 settembre 1426 e fu sepolto davanti all’altare dove vari anni più tardi sarebbe stata sistemata la pala. Jan van Eyck completò il grandioso polittico sfruttando appieno le potenzialità della sua nuova tecnica. Come scrisse lo storico dell’arte Brinkman nel 1993, Van Eyck non fu tanto l’inventore dei colori a olio quanto piuttosto della pittura a olio, giacché egli impiegò tecniche già note in modo innovativo e poté così raggiungere con la tecnica il risultato artistico cui mirava. A battenti chiusi il polittico presenta quattro scene con funzione introduttiva alle complesse e maestose rappresentazioni visibili a battenti aperti. Al centro, in basso, i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista sono raffigurati a grisaglia come statue dipinte, con i rispettivi attributi, l’Agnello di Dio e il calice di veleno. I due santi erano venerati quali patroni della chiesa cui era destinato il polittico: la cattedrale di San Bavone era in origine una chiesa parrocchiale dedicata al Battista, non a caso, infatti, l’iscrizione reca la data del 6 maggio, vale a dire una delle feste dell’Evangelista. Ritratti con grande realismo, i coniugi donatori dell’opera sono in inginocchiati a fianco alle due statue, a sinistra Jodocus Vijd e a destra la moglie Elisabeth Borluut. Nelle lunette in cima alle ante trovano posto quattro personaggi veterotestamentari che predissero l’Incarnazione di Cristo e l’avvento del suo Regno: i profeti Zaccaria e Michea, e tra loro la Sibilla Eritrea e la Sibilla Cumana. Nel registro superiore si snoda per tutta la larghezza della pala l’episodio dell’Annunciazione dell’avvento del Redentore. Le parole rivolte dall’angelo alla Vergine sono scritte a caratteri d’oro: “Ave Maria, piena di grazia, il Signore sia con Te”, mentre la risposta di Storia dell’arte Einaudi 41 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo Maria, “Ecco l’ancella del Signore”, è disposta a rovescio, così che la breve frase procede letteralmente verso l’angelo. L’umile risposta è leggibile sia dallo Spirito Santo sopra al capo di Maria sia dalla sibilla e dal profeta più in alto. A battenti aperti, nel registro inferiore si estende dall’una all’altra estremità del polittico un’ampia scena ambientata sulla terra, mentre nel riquadro superiore appare una visione celeste che sembra vicinissima all’osservatore. Al centro di quest’ultima è raffigurato una gigantesca Deësis, il Cristo glorificato quale apparirà al suo ritorno alla fine dei tempi, affiancato da Maria e da Giovanni Battista come intercessori dell’umanità. Sia la Vergine che il Battista sono investiti qui di un duplice ruolo: la Madre di Dio è al contempo Regina dei cieli e Sposa mistica di Cristo, Giovanni è insieme il patrono della chiesa. Cristo Onnipotente domina l’insieme, con la tiara papale sul capo e la corona del potere temporale ai suoi piedi. Ai lati di Maria e di san Giovanni sono disposti angeli che suonano e cantano e vicino ad essi, in piccolissime nicchie, si vedono i nudi davvero realistici di Adamo ed Eva; sopra di loro viene rappresentata a grisaille, in due riquadri che sembrano dei rilievi scolpiti, la storia dei loro figli, Caino e Abele. Questa appare come una profezia veterotestamentaria della Redenzione operata attraverso la morte di Cristo sulla croce. I cinque pannelli inferiori del polittico formano nel loro complesso un paesaggio paradisiaco in cui sei grandi gruppi di figure muovono verso l’altare al centro della scena. Sull’altare, l’Agnello mistico riempie un calice con il sangue che gli sgorga dal petto; angeli in preghiera sono inginocchiati ai lati dell’altare, quattro di loro hanno in mano le Arma Christi, gli strumenti della passione che alludono al sacrificio di Cristo, e altri due cospargono d’incenso l’Agnello. All’orizzonte Storia dell’arte Einaudi 42 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo si stagliano edifici in parte reali e in parte inventati, tra i quali spicca, quasi al centro, la torre del duomo di Utrecht, che forma di fatto il prolungamento della lancia che trafisse il costato di Cristo. Nel mezzo, al di sopra dell’Agnello di Dio, è raffigurato lo Spirito Santo entro una corona radiale, la cui luce ispiratrice raggiunge tutti i santi. In primo piano, in posizione centrale, compare una fontana quale sorgente di vita: dalla vasca ottagonale, di forma perfetta, l’acqua vivificante e salvifica fluisce direttamente verso l’osservatore. Questi era in prima istanza il sacerdote che, secondo la donazione di Jodocus Vijd e Elisabeth Borluut, celebrava la messa all’altare nella loro cappella sopra il quale era collocato il polittico; il fine era la salute dell’anima dei donatori, della loro famiglia e dell’umanità intera, salvata dall’Agnello. Il doppio ritratto che Jan van Eyck eseguì nel 1434 di Giovanni Arnolfini e della moglie Giovanna Cenami è oggetto di innumerevoli analisi e famoso in tutto il mondo come quadro “profano”. I due coniugi Arnolfini sono ritratti a figura intera in una camera da letto. Nella mano sinistra Giovanni Arnolfini tiene la destra della consorte, aperta con benevolenza verso di lui, un gesto che è da interpretarsi come promessa di fedeltà coniugale. Con la mano destra levata quasi a compiere un giuramento, egli suggella il voto reciproco. Questa interpretazione è stata dimostrata in maniera convincente nel 1986 e poi ancora nel 1990 dallo storico dell’arte olandese Bedaux, il quale contesta con validi argomenti la tesi di Panofsky secondo cui il ritratto degli Arnofini sarebbe la rappresentazione di un contratto coniugale. Il quadro presenta in effetti una serie di riferimenti alla cerimonia nuziale nonché i tipici regali di nozze, tuttavia si tratta di tradizioni e di simbologie manifeste e non di un ingegnoso e sottile linguaggio figurativo, carico di simboli reconditi ed ela- Storia dell’arte Einaudi 43 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo borato di proposito dal pittore: non si tratta di un disguised symbolism, un simbolismo mascherato, come lo definisce Panofsky. Giovanni era figlio di mercanti ed era nato a Lucca all’incirca nel 1400; dal 1421 divenne a sua volta mercante di stoffe a Bruges. Molto ricco e potente, ottenne persino la carica di consigliere di Filippo il Buono e morì nel 1472 a Bruges, dove trovò sepoltura. La consorte Giovanna era la figlia di un mercante di Lucca che si era stabilito a Parigi e in quella città aveva sposato una donna francese. Giovanni Arnolfini e Giovanna Cenami furono uniti in matrimonio nell’anno 1434, data che è riportata al centro del quadro, tra le teste dei due giovani personaggi, sotto la scritta del nome dell’artista. Si ha l’impressione che le parole “Johannes de eyck fuit hic” e l’anno “1434” siano scritti di pugno dell’artista sulla parete della stanza, esattamente sopra lo specchio. L’affermazione, che si discosta dalla formula in uso, rende l’artista evidentemente testimone di quanto ha dipinto. Tale lettura è confermata dallo specchio convesso, in cui si scorgono i due coniugi di schiena nonché il pittore e un quarto astante. Lo specchio indica inoltre che il matrimonio degli Arnolfini è indubbiamente un’unione cristiana. Esso costituisce il centro ottico del duplice ritratto e cattura l’immagine di tutto ciò che accade nella camera. Le immagini riflesse sono di natura cristiana: intorno al grande specchio sono disposte a raggiera dieci piccole scene dipinte dietro vetro, che vanno della Passione di Cristo. Il ciclo ha inizio in basso, al centro, con il Cristo in preghiera nell’Orto degli Ulivi, all’estremità opposta, in alto, figura il compianto di Maria e Giovanni sul Cristo crocifisso, in basso a destra la narrazione si conclude con la discesa di Cristo nel limbo e da ultimo con la Resurrezione. Quasi tutti gli oggetti presenti nella scena racchiudono, al pari dello specchio, un duplice significato: essi Storia dell’arte Einaudi 44 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo sono riproduzione della realtà e hanno al contempo una valenza simbolica. Per l’osservatore del tempo saranno stati senz’altro evidenti i richiami moralistici e le allusioni al tradizionale rito nuziale, anche se vi comparivano elementi estranei al linguaggio figurativo dei paesi nordici, come il grandissimo cappello nero dello sposo, tipico dell’Italia settentrionale. Quello che Van Eyck ha inteso rappresentare nel suo magistrale doppio ritratto è un matrimonio già celebrato che viene riconfermato da parte dei due coniugi felici nella cosiddetta chambre étoffée, la camera da letto con ricchi arredi e una serie di doni, che, secondo la tradizione, il mattino seguente alla prima notte di nozze lo sposo regala alla sua sposa. Tanto realistica appare la stanza da letto in cui è raffigurata la coppia Arnolfini, quanto fittizio si mostra lo spazio in cui Van Eyck ha collocato Nicolas Rolin e la Madonna col Bambino nella Madonna del cancelliere Rolin (1435 ca.). Il donatore è inginocchiato in preghiera; un libro di preghiere giace aperto sul suo inginocchiatoio, ma egli guarda davanti a sé assorto in altri pensieri. Le sue vesti sono di preziosissimo broccato d’oro orlato di ermellino, l’inginocchiatoio è nascosto da un sobrio drappo di raffinato velluto o damasco del tanto costoso color blu. Di fronte a lui siede la Vergine Maria con il Bambino nudo in grembo, che con la sua piccola destra benedice il cancelliere mentre un angelo in volo tiene una corona finemente decorata sopra il capo della Madonna. Lungo il bordo d’oro tempestato di gemme del suo mantello rosso brillante, sono ricamati frammenti delle preghiere del piccolo Ufficio della Vergine. Non è casuale che anche il libro d’ore di Rolin sia aperto su queste preghiere, che esaltano tra l’altro la posizione eminente di Maria, qui considerata come Sedes Sapientiae, trono della saggezza. Nicolas Rolin, nato intorno al 1380 a Autun, ebbe vita lunghissima, morì infatti il 18 gennaio 1462, e mal- Storia dell’arte Einaudi 45 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo grado i suoi umili natali riuscì a rivestire le cariche più prestigiose e ad accumulare grandi ricchezze. Nel 1408 ricoprì la carica di giureconsulto presso i parlamenti di Parigi e di Dole. Poco tempo dopo la morte di Giovanni senza Paura, nel 1419, venne chiamato in veste di consigliere dal figlio di questi, l’ancora giovanissimo Filippo il Buono. Dal 1422 in poi Rolin fu come cancelliere di Borgogna il massimo funzionario di corte, finché nel 1457 non cadde in disgrazia. Il duca Filippo il Buono aveva subito a tal punto la sua influenza e gli era talmente affezionato che nel 1462 nessuno osò riferire al duca malato, così raccontano le cronache, della morte del consigliere che gli era stato al fianco quasi tutta la vita. Il mecenatismo di Nicolas Rolin si concentrò sulla sua città natale Autun e su Beaune, dove era nata e sepolta la madre. Per suo volere a Beaune nacque il grande ospedale, l’Hôtel-Dieu; ad Autun egli fu autore di una serie di donazioni materiali e spirituali nella chiesa di Notre-Dame-du-Chastel, andata distrutta nel 1798. In questa chiesa, che sorgeva nei pressi della casa avita, il cancelliere era stato battezzato e qui ebbe sepoltura davanti al coro. Sull’altare maggiore Rolin aveva fatto collocare una pala in cui figuravano lui e la terza moglie in veste di donatori. Sull’altare della cappella sepolcrale della famiglia, dedicata a san Sebastiano, vi erano le statue dei santi patroni della famiglia Antonio e Sebastiano, che in veste di santi protettori compaiono anche nel Giudizio Universale di Rogier van der Weyden destinato alla “Sala dei malati” a Beaune. Tra la propria abitazione e la chiesa Rolin fece costruire un passaggio, che sboccava in una seconda cappella di famiglia, con un bovindo da cui si vedevano sia la cappella sepolcrale che l’altare maggiore e il punto dove sarebbe stato seppellito il cancelliere. I duchi di Borgogna avevano un analogo oratorio nella loro certosa di Digione, e così pure i sovrani francesi nella Sainte Chapelle a Parigi, senza Storia dell’arte Einaudi 46 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo dubbio l’esempio per antonomasia di questi oratori. A Bruges la famiglia Adornes possedeva un luogo privato per la preghiera nella chiesa di Gerusalemme, di cui era la fondatrice, e sempre in quella città un’altro splendido esempio è l’oratorio del palazzo cittadino dei Signori di Gruuthuse, che si affacciava sul coro della chiesa di Notre Dame. Jan van Eyck non dipinse certo il quadro della Madonna del cancelliere Rolin, come più volte è stato suggerito, con l’intento di realizzare una pala d’altare, né tantomeno come epitaffio o tavola commemorativa. Esso è invece un quadro di devozione privata, che Rolin avrà portato con sé nei suoi viaggi al seguito della corte borgognona e che avrà avuto una sua collocazione nel palazzo del cancelliere e una sistemazione ancor più appropriata nell’oratorio allorché questa venne ultimata nel 1453. Il committente e primo proprietario, Nicolas Rolin, e la Madonna col Bambino si non si trovano in un ambiente reale, bensì simbolico, elevato in una sfera irraggiungibile al di sopra del magnifico paesaggio sullo sfondo. Del tutto inverosimili per la loro grandezza sono le due figure del cancelliere e di Maria, una sproporzione vistosa in rapporto agli elementi architettonici, alle piante e ai fiori del piccolo giardino recintato, e soprattutto alle due piccole figure maschili collocate al centro, sul fondo. L’architettura romanica ha la maestosità di un palazzo ed evoca le vaste sale tipiche dei castelli imperiali con le arcate aperte. I tre archi rappresentano qui senza dubbio il numero divino tre con tutte le sue implicazioni simboliche. In questo palazzo celeste, al cospetto di Rolin in preghiera, si svolge la visione di Maria come regina dei cieli e del Bambino con il globo imperiale come sovrano. Rolin è qui raffigurato anzitutto come uomo pio intensamente dedito alla preghiera. Nel disegno preparatorio alla sua cintura è appesa una borsa gonfia di denaro, attributo tipico per Storia dell’arte Einaudi 47 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo la carica di cancelliere e comunque piuttosto materialistico; è senz’altro per questo motivo che venne omessa nel dipinto definitivo. È invece impossibile dire che cosa tenesse in mano il Bambino nel disegno preparatorio, solo in un secondo momento egli divenne l’Onnipotente che osserva e benedice Rolin. “Il suo bozzetto sullo strato di mestica era ben più netto e marcato...” scriveva a proposito di Jan van Eyck il già citato pittore di Haarlem Karel van Mander nel suo Libro della pittura, comparso nel 1604 (fol. 202): “ricordo altrettanto bene di aver visto un suo quadretto con una figura muliebre sullo sfondo di un paesaggio, eseguito nella sola coloritura di base, e tuttavia oltremodo minuzioso e compiuto...”. Il quadretto cui egli allude è la tavola con Santa Barbara (1437) che Van Mander aveva visto a Gand dal suo maestro Lucas de Heere. La santa vergine Barbara è seduta a terra nell’atto di sfogliare un libro, un ramo di palma nella mano sinistra allude al suo martirio. L’ampio drappeggio delle vesti pone la figura della santa in primo piano e la rende il soggetto principale del piccolo dipinto. In posizione centrale, alle sue spalle, un’imponente torre in costruzione si staglia sul vasto panorama in lontananza. Figure minute di operai trasportano carichi per il cantiere e sono all’opera tutt’intorno, all’interno o sopra la torre ancora incompiuta. Al primo piano, sopra la testa della santa, tre finestre gotiche a lancetta, l’una a fianco all’altra, sono comunemente interpretate come un riferimento alla Trinità. Questa lettura si fonda sulla leggenda della santa, secondo la quale ella fece aprire una terza finestra in aggiunta a quelle esistenti nella torre in cui il padre la teneva prigioniera. Barbara si convertì ugualmente al cristianesimo e diede in tal modo prova della sua particolare devozione per la Trinità. Proprio per la sua fede in Cristo ella venne decapitata dal padre. Storia dell’arte Einaudi 48 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo La piccola tavola è probabilmente il più antico esempio di disegno che abbia un valore artistico autonomo. La rappresentazione, elaborata fin nei minimi dettagli, è eseguita con matita e pennello fine su una base bianca. La cornice e il retro sono marmorizzati, come usavano spesso sia Van Eyck che i colleghi del tempo, e sul bordo inferiore del quadro compare la firma e la data “joh(ann)es de eyck me fecit. 1437” Ne consegue che evidentemente il pittore considerava l’opera in sé compiuta. La campitura celeste pallido e beige del cielo è senza dubbio un’aggiunta posteriore. Lo stesso Van Mander affermava nella sua descrizione trattarsi di un disegno preparatorio e che quindi il quadro, per quanto perfetto e altamente lodevole, attendeva il suo completamento. Questo dibattito si protrae fino ai giorni nostri: alcuni ritengono che per un qualche motivo Van Eyck non sia riuscito a terminare l’opera, altri invece sono certi che il pittore si proponesse di realizzare un disegno e collocano la tavola nella tradizione delle grisaglie e dei dipinti monocromi. Al di là di queste semplici constatazioni, nessuno ha ancora fornito argomenti concreti atti a chiarire il singolare stato di questo “dipinto disegnato”. Sotto il profilo iconografico la scena di Van Eyck è estremamente insolita. La torre, attributo per antonomasia della santa, non era mai apparsa come struttura in costruzione, ancora incompiuta. In passato questo particolare veniva spiegato sulla base delle parole dell’apostolo Paolo, che vede ogni credente come costruttore al servizio di Dio, dunque Barbara sarebbe vicino alla sua torre quale simbolo della Chiesa Operosa. Quest’analisi è senz’altro puntuale, ma Jan van Eyck rende ancora più pregnante il gioco tra forma e contenuto. Barbara è qui presentata come santa, la palma indica che ella è una martire: l’attendeva infatti la decapitazione, ma evidentemente il momento non è ancora giunto, come Storia dell’arte Einaudi 49 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo indica la torre tuttora in costruzione. Ella è già santa, ma il suo destino di martire non si è ancora compiuto. Alla luce del formato e del carattere intimistico dell’opera, questa era certo destinata alla devozione domestica: ogni cristiano era tenuto a porre il messaggio in relazione alla propria esistenza. Per nessun credente, d’altronde, la missione terrena si compie con il solo battesimo, la vita del cristiano deve invece arricchirsi di ulteriori contenuti spirituali. Van Eyck esprime l’idea, racchiusa nella scena, dell’incompiuto che è al tempo stesso compiuto, anche nell’esecuzione tecnica del quadro. L’opera è compiuta, tuttavia pare incompiuta: in base alla forma esteriore e alle norme di tecnica pittorica in uso all’epoca, questa è incompiuta, sono state però eseguite le operazioni preparatorie necessarie al suo compimento. Lo strato di base e il disegno preliminare, però, sono secondo le parole di Van Mander “oltremodo minuziosi e compiuti”. In effetti le moderne indagini condotte sui disegni preparatori, in particolare mediante la riflessografia a raggi infrarossi, hanno dimostrato che in nessun altro caso Van Eyck ha eseguito il disegno preparatorio con tale dovizia di particolari e tanta precisione come per la tavola di Santa Barbara. Il disegno preparatorio divenne poi risultato definitivo. Non per una scelta di natura estetica, bensì ispirandosi al contenuto di quanto aveva raffigurato, Jan van Eyck fece un passo di cruciale importanza verso il disegno come opera d’arte autonoma. Rogier van der Weyden. Questo artista (1399/14001464), noto anche come Rogelet de la Pasture, era nativo di Tournai e in questa città fu allievo, insieme a Jacques Daret, di Robert Campin. Dopo aver conseguito nel 1432 il titolo per esercitare liberamente, Van der Weyden si trasferì intorno al 1435 a Bruxelles, dove divenne “pittore ufficiale della città”. Qui egli dirigeva Storia dell’arte Einaudi 50 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo un’importante bottega e godeva di grande considerazione. Dal momento che in città non era insediata alcuna corte, gli incarichi provenivano soprattutto dalla nobiltà e dalla borghesia agiata, tuttavia egli lavorò anche per istituti ecclesiastici. Nel 1439-1440 risulta che egli fu pagato per realizzare la policromia di una pala dei Frati minori a Bruxelles e nel 1441 per la decorazione di un drago da portare nella processione di santa Gertrude a Nivelles. Anche all’estero Rogier acquistò rapidamente notorietà. Ricevette commesse in Spagna e Italia, dove nel 1450, in occasione del Giubileo, soggiornò a Roma come pellegrino. Il viaggio a Roma venne affrontato probabilmente grazie al denaro ricevuto per il suo incarico presso l’Hôtel-Dieu a Beaune. La fama di questo pittore benestante, che faceva parte dei nuovi ricchi della città, era davvero estesa. Ben presto nelle cronache gli scrittori celebrarono la sua arte, tra questi l’italiano Bartolomeo Facio (1456), Vasari nelle sue Vite (1550) e Karel van Mander (1604). Tuttavia, secondo la testimonianza di queste nonché di altre fonti, Rogier van der Weyden conservò sempre intatta la sua modestia e non mancò mai di dare il suo contributo agli enti di beneficenza per i poveri, i malati e i religiosi, e al benessere della comunità. Nel 1574 Filippo II fece dono di una collezione di quadri all’Escorial di Madrid. Di questa faceva parte una delle più celebri pale d’altare di Van der Weyden, la Deposizione dalla croce. Il tema della Deposizione era particolarmente popolare nel Quattrocento e in particolare quest’opera, sicuramente di grande impatto già solo per le sue dimensioni (2.00 x 2.65 m), fu di eccezionale importanza per altri pittori, come provano anche le innumerevoli copie e imitazioni. La “Grande Gilda dei Balestrieri” di Lovanio aveva commissionato all’artista nel 1439 una pala d’altare per Storia dell’arte Einaudi 51 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo la cappella della gilda nella chiesa di Onze-Lieve-Vrouwvan-Ginderbuiten in quella città (le piccole balestre negli angoli superiori rimandano a questo committente). Evidentemente a Lovanio non vi erano artisti della levatura richiesta dalla gilda e venne pertanto interpellato il Maestro Rogier di Bruxelles. Una volta ultimata l’opera, nel 1443, vi fu subito un pittore anonimo di Lovanio che ne eseguì una copia, destinata a una cappella sepolcrale privata nella chiesa di San Pietro di quella città (il “Trittico del nobiluomo”, 1443, Lovanio Chiesa di San Pietro). Dell’originale di Van der Weyden riuscì ad impadronirsi, un secolo più tardi, la governatrice Maria d’Ungheria che lo collocò nella cappella del suo palazzo a Binche (Hainaut): alla gilda dei balestrieri di Lovanio fu corrisposta una certa somma di denaro, inoltre Maria d’Ungheria donò alla chiesa di Onze-LieveVrouw-van-Ginderbuiten un organo nonché una copia fedele della Deposizione eseguita dal suo pittore di corte Michiel Coxcie di Malines. Maria d’Ungheria portò l’opera con sé in Spagna, dove in seguito divenne proprietà del re Filippo II. Dieci figure a grandezza quasi naturale sono rappresentate con teatralità su un semplice fondo d’oro, in uno spazio di limitata profondità e dal forte sviluppo orizzontale, due tratti peculiari dello stile di Van der Weyden. In tal modo l’accento è posto interamente sul dramma che si compie davanti all’osservatore: la Passione di Cristo morto per l’umanità. Un evento che l’artista ha raffigurato con tale intensità da suscitare quel profondo sentimento di pietà che ognuno deve provare al suo cospetto. Il corpo privo di vita di Cristo è sorretto da Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, che non lasciano trapelare le loro emozioni. Tra le donne, invece, due manifestano tutto il loro strazio: ai piedi di Cristo Maria Maddalena si contorce disperata le mani mentre una donna Storia dell’arte Einaudi 52 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo dietro Giuseppe porta affranta la mano alla fronte. Maria vinta dal dolore perde i sensi. Il suo corpo viene così ad assumere quasi la stessa posizione del Figlio, esprimendo il concetto della totale compassione di Maria con Cristo. Nella letteratura mistica tardogotica questo divenne un tema prediletto, tanto che nacque la cosiddetta Imitatio Christi, dove l’osservatore si identifica completamete con le sofferenze di Cristo e di Maria. La maniera in cui è raffigurata Maria deve stimolare questa riflessione devozionale. Al contrario di Van Eyck, Van der Weyden qui non cerca tanto di rappresentare il mondo che lo circonda quanto piuttosto di rendere la concezione gotica della commozione e della compassione. E questa resa è sempre attentamente ponderata. Il dipinto presenta, infatti, Maria sconvolta dal dolore quasi svenuta, in quanto era pur sempre impensabile e teologicamente insostenibile che la Madre di Dio perdesse realmente il controllo delle emozioni e dei sensi. Il maestoso polittico con il Giudizio Universale, commissionato a Van der Weyden dal facoltoso cancelliere borgognone Nicolas Rolin e dalla consorte di questi, è tuttora collocato nel luogo cui era destinato in origine, vale a dire il lebbrosario Hôtel-Dieu a Beaune (1443-1451 ca.). Non avendo figli, i coniugi Rolin elargivano grandi somme di denaro in beneficenza e per le opere d’arte, in parte anche a maggior onore e gloria di se stessi. Già qualche tempo prima il cancelliere aveva ordinato, ad esempio, il citato dipinto a Jan van Eyck, in cui figuravanono la Madonna e lui stesso in veste di donatore. È stato suggerito che Van der Weyden progettò il polittico del Giudizio Universale di proporzioni così grandiose per competere con il polittico di Gand di Jan van Eyck. E la tesi non è del tutto inverosimile, in quanto sia le dimensioni che la struttura – quasi un Storia dell’arte Einaudi 53 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo “supertrittico” – e l’iconografia delle due pale hanno una notevole somiglianza. Come accade nella pala di Van Eyck, il programma iconografico sul lato esterno del polittico inizia con un’Annunciazione, realizzata in questo caso a grisaglia. Nel registro inferiore, sull’anta sinistra e su quella destra, sono raffigurati i ritratti dei due donatori, Nicolas Rolin e la moglie Guigonne de Salins. Sono inoltre presenti i santi dipinti a grisaglia come fossero statue di pietra. Invece dei santi patroni personali, come è consuetudine, tra i due donatori sono collocati due santi, che da un lato erano considerati i patroni della famiglia, e dall’altro avevano grande importanza per l’ospedale: sant’Antonio, santo protettore di Beaune fino al 1453 e protettore dalla peste nonché da altre malattie della pelle, e san Sebastiano, anch’egli invocato in caso di peste. A battenti aperti la pala mostra uno sbalorditivo Giudizio Universale. La Deësis, Cristo Giudice, con Maria e san Giovanni Battista, occupa la posizione centrale come nell’opera di Van Eyck. Il Giudice universale, Maria, Giovanni e le due schiere di santi quali intercessori dell’umanità nel Giudizio, vengono per così dire catturati entro un’enorme nube a forma di arcobaleno. Cristo si erge come giudice in elevata solitudine, in piedi sul globo terrestre e al contempo assiso su un secondo arcobaleno a semicerchio. Raffigurato con il giglio e la spada vicino alla bocca, egli tiene la mano destra levata in atto di benedizione, mentre con la sinistra indica in maniera eloquente il testo del Giudizio che si srotola verso il basso. Ai lati di Cristo, angeli si librano in volo con gli strumenti della passione e sotto di lui l’arcangelo Michele è intento a pesare le anime. L’insieme rappresenta la cosiddetta psicostasìa, la “pesatura” delle anime dei defunti, un tema pressoché assente negli artisti contemporanei a Rogier Van der Weyden. Una scena ana- Storia dell’arte Einaudi 54 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo loga scolpita si trova nel portale centrale della cattedrale di Bourges. Nel riquadro inferiore del polittico le anime disperate, dannate o meno, avanzano a carponi e barcollano in tutta la loro fragilità sulla terra arida in cerca di una via verso il cielo, sull’anta sinistra più esterna, o verso l’inferno, sull’estrema destra della scena. Alcune vanno incontro al loro destino urlando per la disperazione, altre si abbandonano all’autocommiserazione, lanciano grida di orrore, oppure sono colte dal terrore per l’ignoto, talune invece si avviano rassegnate incontro al loro destino. L’intercessione in cui esse ripongono la loro speranza di salvezza verrà dagli intermediari disposti in fila dietro a Maria, avvocata dell’umanità, e a san Giovanni Battista. Alle spalle di Maria siede san Pietro alla guida di un nutrito gruppo di intercessori. La comunità dei santi è rappresentata da quattro figure emblematiche: un papa, un vescovo, un principe e un monaco, cui si accompagnano cinque apostoli. Di fronte a Pietro, dietro al Battista, siede l’apostolo Paolo che conduce la schiera degli altri intercessori, vale a dire tre figure rappresentative di sante, una vergine, una principessa e una donna sposata, nonché i rimanenti cinque apostoli. Sebbene la scena sia resa fin nei dettagli in modo spettacolare, Rogier riuscì ad evitare che l’accento venisse a cadere su questo aspetto. Tramite la disposizione orizzontale, di ampio respiro, quasi a fregio, delle figure, egli evidenzia l’essenziale, la scena complessiva del Giudizio. Non gli interessano gli effetti illusionistici cari a parecchi colleghi del suo tempo, il dipinto appare nell’impianto quasi arcaico. In luogo del caos brulicante di particolari atroci, così frequentemente esibito nelle rappresentazioni del Giudizio, qui si incontra un ordine quasi rasserenante. A tal fine Van der Weyden ha fatto un uso calibrato della struttura orizzontale della Storia dell’arte Einaudi 55 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo pala di forma rettangolare. La collocazione delle figure su un’ampia superficie di scarsa profondità contribuisce a rendere armoniosa la composizione. A prima vista il dipinto sembrerebbe, dunque, il tipico prodotto di un’ininterrotta tradizione medioevale con la scena della psicostasìa, l’articolazione orizzontale in uno spazio poco profondo, gli attributi arcaici come il giglio e la spada presso la bocca di Cristo, a simboleggiare l’equità del suo giudizio. Eppure l’opera fu estremamente innovativa. Questa rappresentazione del Giudizio Universale è stata la prima, e per lungo tempo l’unica, a raffigurare l’inferno senza l’immagine del diavolo; del tutto assenti anche demoni e angeli. La grandiosa pala fu sistemata nella cappella, consacrata il 31 dicembre 1451, adiacente la grande sala dei malati dell’ospedale. È facile immaginare quale intensa emozione suscitasse sia in quanti assistevano i pazienti che nei tanti malati che all’ospedale trascorrevano periodi più o meno lunghi, spesso lottando tra la vita e la morte. Senza dubbio il polittico sarà stato loro di conforto nella meditazione e nelle preghiere rivolte a Dio, dal quale sia chi assisteva caritatevolmente i malati che i malati stessi potevano attendersi tanta grazia durante la loro esistenza terrena. La seconda generazione. L’attività pittorica di Petrus Christus si inserisce tra quella di Van Eyck, morto già da alcuni anni quando questi ottenne la cittadinanza di Bruges nel 1444, e quella di Memling, che in quella città gli sopravvisse quasi un quarto di secolo. Ad una considerazione a posteriori, il fatto più significativo dell’evoluzione artistica di Petrus Christus consiste nell’adozione, per la prima volta in assoluto nei Paesi Bassi e nel nord Europa, della costruzione prospettica razionale e geometrica con unico punto di fuga, che l’artista applicò secondo un metodo elaborato da Filippo Bru- Storia dell’arte Einaudi 56 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo nelleschi. Tra le opere pervenute, le prime in cui Petrus Christus utilizza appieno la prospettiva centrale sono la Madonna con il Bambino tra i santi Girolamo e Francesco (Francoforte, Städelsches Kunstinstitut) e l’Annunciazione del 1452 (Bruges, Groeningemuseum). Di quest’artista si conserva un corpus di opere relativamente certe: una trentina di dipinti, dei quali nove firmati e datati, cinque disegni e un’unica miniatura. Non sono noti i luoghi in cui soggiornò prima di stabilirsi a Bruges nel 1444, né i maestri presso i quali si formò. Risulta dal registro dei cittadini di Bruges che egli nacque a Baerle, ma se si tratti dell’omonimo villaggio nel Brabante non è affatto certo. Arrivò a Bruges come pittore già esperto e in qualità di cittadino illustre divenne membro di due confraternite di Maria, Nostra Signora delle Nevi (Onze Lieve Vrouw ter Sneeuw) e Nostra Signora dell’albero secco (Onze Lieve Vrouw van de Droge Boom). Ricevette importanti commissioni sia da privati che da parte delle autorità e da enti ecclesiastici: ritratti, pale d’altare, dipinti devozionali ma anche fastose decorazioni e progetti per tableaux vivants, come in occasione dell’ingresso trionfale del duca Filippo il Buono a Bruges nel 1463. Nel 1468 collaborò nuovamente alla realizzazione di apparati per la cerimonia delle nozze tra Carlo il Temerario e Margherita di York. Oltre 150 furono gli artisti mobilitati nell’intero regno borgognone, tra cui anche Hugo van der Goes, per dare lustro ai festeggiamenti e soprattutto al grandioso torneo organizzato da Antonio di Borgogna. La tavola con Sant’Eligio nel suo laboratorio fu con ogni probabilità commissionata a Petrus Christus nel 1449 dalla gilda degli orafi e argentieri di Bruges; sant’Eligio era, infatti, il patrono della corporazione. La cappella della gilda, che sorgeva a fianco alla casa della corporazione nella Smedestraat (via dei fabbri) e veniva condivisa con i fabbri di quella città, era stata sotto- Storia dell’arte Einaudi 57 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo posta a lavori di ristrutturazione e fu riconsacrata nel 1449. È perciò verosimile che l’opera sia stata concepita come dipinto devozionale da collocare nella cappella rinnovata. Il santo vi è raffigurato seduto dietro al suo bancone di lavoro intento a pesare un anello con una gemma rossa, senza alcun dubbio una fede nuziale che la giovane coppia sta acquistando nel suo laboratorio. L’uomo tiene stretta la sua amata mentre segue attento l’operazione dell’orafo. Il gioiello è chiaramente destinato alla mano sinistra della giovane donna, protesa a ricevere l’anello, come nella raffigurazione delle nozze mistiche tra santa Caterina e Cristo, dipinta da Hans Memling. Nel mobile da esposizione alle spalle di sant’Eligio, si scorgono materiali preziosi – perle, coralli rossi, cristallo – e oggetti di grande bellezza creati dall’artigiano. Alla larga fascia fulva drappeggiata sul bancone deve essere forse applicata una fibbia pregiata, magari proprio quella appesa in alto nel mobile. Sebbene il colore fulvo ricorra identico anche nelle maniche e nel colletto delle vesti della donna, resta dubbia l’interpretazione della fascia come cintura nuziale. Altrettanto oscura appare tuttora la funzione del signore sontuosamente abbigliato e del suo falconiere, che osservano la scena attraverso la finestra aperta del laboratorio e che vengono riflessi nello specchio convesso sull’estremità destra del bancone. Al centro della tavola è apposta la scritta con firma e data: “m’. petr’. xpi. me .. fecit. ao 1449” (“il maestro Petrus Christus mi fece nell’anno 1449”), seguita da un marchio simile a un contrassegno. Può darsi che questo fosse il marchio di Petrus Christus; marchi del genere erano certo d’uso corrente e a partire dal 1426 ai miniatori di Bruges fu fatto persino obbligo, ribadito ancora nel 1457, di registrare il loro marchio presso la gilda e di contrassegnare con questo le loro opere. Di quest’artista si conosce in realtà una sola miniatura, tut- Storia dell’arte Einaudi 58 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo tavia è noto che il sistema dei marchi non trovava un’applicazione sistematica presso i miniatori. Occorre peraltro notare che Petrus Christus non appose il marchio in nessun altra occasione. Secondo un’altra ipotesi plausibile, il marchio sarebbe da riferire all’orafo che commissionò a Petrus Christus l’opera per la cappella della gilda riconsacrata nel 1449. Gli orafi infatti utilizzavano regolarmente i loro marchi di maestro, obbligatori a Bruges fin dal 1441. A sostegno di questa tesi è opportuno citare l’Incoronazione di spine di Hieronymus Bosch al Museo del Prado. In base ai marchi d’argento riprodotti con grande precisione da Bosch sul dipinto, si ipotizza che l’Incoronazione di spine fu eseguita nel 15101511 su incarico di un argentiere di ’s-Hertogenbosch – autore anonimo di alcuni manufatti individuati grazie al contrassegno – per l’altare della corporazione degli orafi nella chiesa di San Giovanni della città. Nel 1604 il pittore e scrittore Karel van Mander osservava nel suo Libro della pittura a proposito di Dieric van Haarlem (Dirck Bouts, 1415?-1475) che questi “era stato fin da giovane un maestro di eccezionale bravura”. Van Mander non sapeva da chi Bouts ricevesse i rudimenti del mestiere e cosa avesse fatto a Haarlem nella prima parte della sua vita. Già nel 1572 comunque il cronista Lampsonius aveva ricordato l’artista nel suo Pictorum Effigies, citandolo come “Theodorus Harlemius”, con una descrizione corredata da un verso, ripreso poi dallo stesso Van Mander. Che Bouts abbia lavorato ad Haarlem risulta inoltre dalla Descrittione di tutti i Paesi Bassi, opera del 1567 di Lodovico Guicciardini. In questo libro dedicato alle diverse città, Guicciardini afferma di aver visto un quadro di Bouts con una veduta topografica di Haarlem. Non si sa con precisione quando ebbe luogo il trasferimento del pittore a Lovanio. Ad ogni modo diversi documenti d’archivio risalenti al periodo compreso tra Storia dell’arte Einaudi 59 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo 1457 e il 1475 attestano la sua attività in questa città. Qui egli incontrò Catharina van der Bruggen, detta anche Metten Gelde (“con i soldi”), divenuta poi sua moglie, che gli diede diversi figli. I due figli maschi, Dirck e Aelbrecht, appresero anche loro il mestiere di pittore e fecero da assistenti al padre nella grande bottega che questi conduceva. Nel 1468 Bouts divenne pittore ufficiale di Lovanio. E in questa città, che per lungo tempo l’aveva ospitato tributandogli onori e fama, morì nel 1475. Il quadro con la Cena a casa di Simone il Fariseo (14451450 circa) rivela l’ascendente esercitato sull’artista da Jan van Eyck e Rogier van der Weyden, suoi insigni predecessori fiamminghi; senz’altro Bouts ebbe modo di vedere a Lovanio la Deposizione di quest’ultimo, nonché altre opere. Il dipinto rappresenta l’episodio di Cristo ospite a casa di Simone il Fariseo (Luca 7, 36-50). Mentre egli siedeva a tavola con gli altri commensali, entrò in casa Maria Maddalena la peccatrice recando con sé un vasetto pieno di mirra. Bagnati i piedi di Cristo con le sue lacrime, ella li asciugò con i capelli, li baciò e li unse con il profumo. Egli le disse che il suo era un gesto d’amore e le perdonò i suoi peccati. Nel quadro Cristo compare nell’atto di impartire la sua benedizione mentre Simone si sporge in avanti per vedere cosa stia facendo la Maddalena. Con la sua espressione di biasimo e il gesto di ripulsa, Giuda Iscariota, il discepolo che protestò per lo spreco dei preziosi unguenti (Giovanni 12, 4-6), rende manifesta la sua disapprovazione. Questo soggetto era molto amato nel medioevo, in particolare nei Paesi Bassi settentrionali. La sua popolarità derivava forse in parte dalla diffusione attraverso libri devozionali illustrati, quali la Biblia Pauperum e lo Speculum Humanae Salvationis. Il suo significato era chiaro. A tal proposito Ludolf il Certosino ebbe a scrivere: “Questa donna che era una peccatrice e che si Storia dell’arte Einaudi 60 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo abbandona ai piedi di Cristo, rappresenta tutti coloro che si mostrano sinceramente pentiti dei loro peccati.” È probabile che l’anonimo monaco certosino, che compare sulla tavola in veste di donatore, si sentisse particolarmente toccato dalle parole del suo confratello e per tale motivo commissionò l’opera. Lo stile del dipinto richiama quello della pala d’altare con scene dalla vita di Maria, attualmente al Prado, che Bouts eseguì intorno al 1445. Le figure, con i loro visi tondi, si assomigliano; analogo è anche il delicato trattamento della luce con cui l’artista dà volume ai corpi. I riflessi sulle superfici lucenti, le ombre degli oggetti e delle figure sanno dare alla rappresentazione una certa vivacità, spesso assente invece nella resa delle emozioni. Il cromatismo tipicamente nordico conferisce all’opera una certa freddezza. Per accrescere l’effetto di profondità, Bouts ha scelto un punto di vista che conferisce al pavimento un effetto fortemente scorciato. L’influenza di Van Eyck nella cura per il dettaglio emerge tra l’altro nella splendida natura morta formata dalla tavola imbandita. Si tratta di una “natura morta con colazione” ante litteram, un genere che solo più tardi, con i pittori di nature morte del Seicento, avrebbe conosciuto piena fioritura. I pesci in parte tagliati in due, le brocche, i calici e boccali colmi, i pezzi di pane, le pieghe nella tovaglia: raramente una natura morta fu resa con tanta magnificenza in ogni suo particolare. Nel suo Libro della pittura Karel van Mander menziona Albert van Ouwater come fondatore della Scuola di Haarlem e sebbene il suo nome indichi una provenienza da Oudewater, presso Gouda, è verosimile che egli ottenesse la fama soprattutto nella città di Haarlem. L’unica opera che può essere attribuita con certezza a quest’artista è la Resurrezione di Lazzaro (1455-1460 circa), eppure la sua fama doveva essere considerevole. Van Mander dedica un’ampia trattazione al pittore e a Storia dell’arte Einaudi 61 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo questa pala, occupandosi del modo insolito di trattare il tema e dell’introduzione della parete divisoria con le figure che guardano curiose attraverso la grata. Albert van Ouwater era rinomato per i suo i paesaggi. In un appunto del 1521, di pugno di Marcantonio Michiel, si legge di alcuni paesaggi opera di “Albert de Holanda” nella collezione del cardinale Grimani di Venezia. Lo stesso Van Mander, osservando che le prime nonché più compiute manifestazioni nel campo della paesaggistica ebbero luogo a Haarlem, elogia il talento di Ouwater. A testimonianza della sua abilità egli descrive una pala d’altare realizzata dall’artista per la chiesa di San Bavone a Gand, in cui compare un interessante paesaggio con un gran numero di pellegrini: alcuni camminano, altri fanno una sosta, c’è chi mangia e chi sta bevendo. Quest’opera, purtroppo andata perduta, è tuttavia nota grazie ad alcune copie tedesche, da cui risulta che il paesaggio di Ouwater era simile a quelli di Dirck Bouts e che pertanto è forse possibile parlare di una precoce tradizione di questo filone ad Haarlem. Comunque sia, Ouwater assicurò una continuità a questa tradizione trasmettendola ai suoi allievi, tra i quali figurava, secondo quanto è stato tramandato, anche Geertgen tot Sint Jans. La scena della Resurrezione di Lazzaro, apparentemente ambientata all’interno di una chiesa, è divisa in due metà. Sul lato sinistro della tavola è raffigurato Cristo con alcuni suoi discepoli, tra questi Marta e Maria, sorelle di Lazzaro. Vestiti con abiti piuttosto semplici, essi stanno in disparte in un atteggiamento d’attesa quasi passiva, alquanto inespressivi, osservando il miracolo che si compie sotto ai loro occhi. Di fronte a loro, nell’altra metà del dipinto, i Giudei, abbigliati con sfarzosi abiti di stoffe pregiate, volgono quasi le spalle alla scena con fare irrequieto e nervoso, come se non volessero averevi nulla a che fare. Pietro, il primo discepolo Storia dell’arte Einaudi 62 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo di Cristo, ha la funzione di raccordo tra i due gruppi e sembra voler placare gli animi inquieti. Davanti a lui siede Lazzaro, appena risorto dalla tomba, che costituisce chiaramente il punto focale dell’evento. Al centro della composizione, esattamente dietro alla testa di Pietro, gli spettatori che tentano di seguire il miracolo da dietro la grata del coro. Come Van Eyck e altri artisti prima di lui, Ouwater fa uso di un simbolismo mascherato, il già citato disguised symbolism. Così ad esempio i due gruppi stanno a rappresentare il Bene e il Male, un tema che viene espresso nuovamente in due capitelli del deambulatorio, attraverso la raffigurazione del Sacrificio di Isacco. Quest’episodio veterotestamentario allude alla salvezza di un uomo di nome Lazzaro e, più in generale, alla salvezza dell’essere umano attraverso il sacrificio di Cristo. Tramite i due capitelli successivi, sui quali appare Mosé che riceve le tavole della legge sul monte Sinai e poi le mostra ai figli d’Israele, Ouwater illustra l’ineluttabilità dell’avvento di una nuova era. In basso, Pietro intuisce quanto sta avvenendo e si rivolge alla schiera di Giudei che impersonano i miscredenti. La scena si svolge nella parte inferiore del dipinto, la metà superiore è invece occupata dalle strutture architettoniche. Lo spazio relativamente vuoto creato dalla grandissima rotonda con deambulatorio riesce a creare un’atmosfera piuttosto tranquilla e armoniosa. Uno dei tratti tipici della prima pittura nederlandese, infatti, è che spesso atmosfera e carattere di un quadro non emanano tanto dalle figure, ma sono piuttosto determinate dall’ambiente circostante. Il cromatismo di Ouwater è decisamente olandese: al posto della tavolozza spesso sgargiante dei suoi colleghi fiamminghi, qui dominano le tonalità delicate del verde, il grigio, il marrone e altre tinte neutre che fanno da sfondo alle figure dal cromatismo più vivo. Ouwater non era il solo, anche Dirck Bouts e Giusto di Gand, come Storia dell’arte Einaudi 63 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo si vedrà in seguito, operarono una scelta cromatica simile per ottenere un identico effetto. Come abbiamo già osservato, i pittori del tardo Medioevo realizzarono, oltre a dipinti su tavola, diversi altri generi di opere, quali pitture tombali, murali, miniature, forse persino vetri dipinti e in ogni caso manufatti pertinenti alla sfera più propriamente decorativa o applicata. Verranno qui esaminati due esemplari di quest’ultima categoria, un prezioso scudo da parata fiammingo, finemente dipinto, e un gonfalone della città di Gand parzialmente conservato. Nel 1452 le autorità municipali di Gand affidarono a Achille van den Bossche la decorazione pittorica dei cinque grandi stendardi dei rioni della città, nonché quattro drappelle per tromba, ventisei banderuole e due gonfaloni con lo stemma della città. In collaborazione con altri due pittori egli realizzò inoltre diverse bandiere. Sugli stendardi dei rioni furono raffigurati i vari santi patroni, Giovanni, Nicola, Giacomo, Michele e Martino, ognuno con i relativi attributi in modo che fossero riconoscibili. I gonfaloni comunali, invece, presentavano di solito la “Vergine di Gand”. L’artista Achille van den Bossche, libero maestro a Gand a partire dal 1428 fino alla morte nel 1452, era l’esponente più anziano di una famiglia di pittori di cui facevano parte anche un certo Tristram van den Bossche e i suoi figli, Agnes e Livinus, tutti quanti appartenevano alla gilda di San Luca. Ad Agnes van den Bossche viene attribuito un gonfalone quattrocentesco conservatosi a Gand con l’immagine della Vergine della città e un leone rampante. Il vessillo riveste un’importanza particolare da un lato in quanto si tratta dell’opera di una delle poche pittrici attestate nei documenti, dall’altro per il fatto stesso di essere giunto fino ai nostri giorni: infatti i prodotti d’arte applicata di questo genere, realizzati senz’altro in numero cospicuo, andarono in Storia dell’arte Einaudi 64 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo gran parte perduti. Alcuni esemplari si preservarono perché divennero parte del bottino di guerra degli svizzeri in seguito alla serie di sconfitte da loro inflitte a Carlo il Temerario nel corso del 1476. Gli svizzeri, infatti, custodirono le bandiere e gli stendardi conquistati come trofei e provvidero inoltre alla loro puntuale documentazione in numerosi inventari, corredati anche di illustrazioni. Lo scudo da parata conservato oggi al British Museum di Londra, non rivela tracce di combattimento ed è dunque logico pensare che venne usato con grande cura e orgoglio nel corso di cortei pacifici e sfarzosi. La rappresentazione applicata sullo scudo interamento dorato, allo stesso modo di un dipinto su tavola di buona qualità realizzato secondo la tradizione dei primitivi fiamminghi, racchiude due tematiche: la scena cortese del giovane cavaliere in ginocchio davanti alla sua dama, e la caducità, simboleggiata dalla morte in persona pronta a cingere con un abbraccio fatale il giovane con l’armatura. La donna indossa una preziosissima veste di broccato intessuto d’oro con guarnizioni d’ermellino e un copricapo a punta con un lunghissimo strascico di finissima seta trasparente. Ella pare porgere la lunga catena di maglie ritorte che le cinge la vita al cavaliere genuflesso, che ha appena posato a terra guanti, elmo e alabarda per rivolgere all’amata le parole che figurano nel cartiglio sopra la sua testa: “Vous, ou la mort”. Il gesto della dama può interpretarsi come un assenso alle sue profferte amorose, il cavaliere non avrà che da afferrare la sua cintura. Ben note sono le raffigurazioni quattrocentesche di personaggi nobili con cotta d’arme insieme alle loro consorti avvolte in mantelli stemmati, che vengono letteralmente portate via in catene dai loro mariti. “Maestro Giusto depintore” si impegnò nel 1473 ad ultimare per una confraternita religiosa di Urbino una pala d’altare che il fiorentino Paolo Uccello aveva ini- Storia dell’arte Einaudi 65 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo ziato senza portare a compimento e che era già stata esaminata da Piero della Francesca nel 1469. Il pittore è menzionato ancora nel 1474, stavolta in modo più esplicito, come “Giusto da Guanto”. Quando gli viene versata l’ultima somma dovuta, l’11 aprile 1475, evidentemente l’opera è ormai compiuta. Nello stesso anno, qualche tempo dopo, ricevette dalla stessa confraternita l’incarico di realizzare uno stendardo. La pala della Comunione degli Apostoli (1473-1475) era destinata alla chiesa del Corpus Domini, che era amministrata da una confraternita omonima e sorgeva accanto al Palazzo Ducale di Urbino. Sulla predella della pala Paolo Uccello aveva rappresentato il Miracolo dell’ostia. Anche Giusto di Gand pose il Santissimo Sacramento al centro della sua opera, nella tavola centrale della pala, realizzando una variante singolare dell’episodio dell’Ultima Cena, e cioè Cristo che distribuisce l’ostia agli apostoli. Era stato il Beato Angelico a raffigurare per la prima volta questo soggetto in un affresco degli anni 1440-1445 nel convento di San Marco a Firenze, inaugurando una tradizione duratura. Non è da escludere che Giusto abbia potuto vedere l’affresco in una delle celle del convento, dal momento che sembra essere proprio lui il pittore attivo a Firenze citato nei documenti nel 1445. Probabilmente l’artista nacque a Gand agli inizi del Quattrocento, ebbe in quella città la sua formazione e vi lavorò per un breve periodo prima di andare a Firenze. Le fonti a riguardo, tuttavia, sono oltremodo sommarie e le opere forse effettivamente di mano dell’artista, che sono citate in documenti più tardi, sono andate perdute. In ogni caso è da respingere l’ipotesi, più volte formulata, della sua identificazione con il pittore Joos van Wassenhove. Secondo quanto risulta dalle fonti d’archivio, la Comunione degli Apostoli per la chiesa del Santissimo Sacramento di Urbino è dunque un’opera autografa di Storia dell’arte Einaudi 66 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo Giusto di Gand. Recenti indagini storico-artistiche hanno evidenziato, grazie all’ausilio delle moderne tecniche di analisi dei disegni preparatori, che il pittore è anche l’artefice della concezione e del disegno preparatorio di una serie di tavole che un tempo ornavano lo studiolo del duca di Urbino e inoltre che egli stesso ne completò due (Urbino, Palazzo Ducale, studiolo di Federico da Montefeltro; Parigi, Musée du Louvre). È facile immaginare che l’intervento di Giusto possa essere individuato anche in altre opere eseguite espressamente per il palazzo del duca Federico da Montefeltro a Urbino. Per quanto scarne siano le notizie sull’artista, è evidente che egli appartiene in pieno alla tradizione dei pittori dei Paesi Bassi meridionali e che le commesse affidategli a Urbino dall’esigente duca erano altamente prestigiose. La pala d’altare eseguita per la Confraternita del Corpus Domini – il duca ne finanziò l’esecuzione in minima parte ma dovette esservi coinvolto molto da vicino – è interessante per diversi motivii. Già nel 1550 Giorgio Vasari osservava nelle Vite de’ più eccellenti pittori che Giusto di Gand “autore del dipinto della Comunione degli Apostoli e di altri dipinti per il duca di Urbino” era stato tra i primi ad utilizzare i colori a olio. Sotto il profilo iconografico, poi, l’opera è, del tutto eccezionale. Inoltre Giusto di Gand rappresenta in maniera esemplare la schiera dei valenti pittori fiamminghi che lavorarono per committenti italiani della massima levatura. Ciò che rende infine la tavola davvero sorprendente sono le dimensioni dell’unica scena raffigurata: con una superficie di oltre 7,6 metri quadri questa è la più grande pala finora nota della pittura nederlandese delle origini. Esattamente al centro della scena, leggermente piegato, il Cristo amministra il sacramento dell’Eucaristia. Sulla destra, sopra di lui, pende una lampada perpetua Storia dell’arte Einaudi 67 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo affiancata, nei due angoli superiori, da due angeli. Alle sue spalle, un tavolo è collocato come fosse un altare in uno spazio che ricorda un’abside. Nove apostoli sono schierati davanti a Cristo sulla sinistra della pala, altri tre sono inginocchiati sulla destra. All’estremità, dietro al primo gruppo, compare Giuda che tiene ben stretta la sua borsa coi denari. Raffigurato come un giovane di bell’aspetto, Giovanni dietro l’altare assiste Cristo nell’amministrazione dell’Eucaristia prendendo la caraffa del vino per versarlo nel calice. Sullo sfondo, verso destra, vi è un altro piccolo gruppo di persone, tra le quali Federico da Montefeltro – sebbene non sia lui il donatore della pala – e una donna con un bambino in braccio, che si ritiene sia il figlio e successore del duca, Guidobaldo. Giusto di Gand sembra aver intrecciato in questa grandiosa opera la monumentalità tipica dell’arte italiana con la tradizione di matrice nordica. Così le fisionomie degli apostoli derivano dall’attenta osservazione di personaggi del popolo, mentre Giovanni e gli angeli sono chiaramente idealizzati alla maniera nederlandese, il duca Federico infine è inserito nella scena in un tipico ritratto di profilo all’italiana. Il 5 maggio 1467 Hugo van der Goes venne nominato maestro della gilda dei pittori di Gand, sua città natale (?), testimone il pittore Joos van Wassenhove insieme ad un’altra persona. La sua fu una carriera folgorante, senz’altro perché egli era giunto (tornato?) a Gand come maestro già esperto. Alcuni ritengono che egli compiesse il suo alunnato presso Dirck Bouts. Un anno più tardi, nel frattempo egli era già divenuto “membro giurato” della gilda, venne chiamato a Bruges per partecipare a un importante progetto, l’allestimento degli apparati festivi in onore delle nozze di Carlo il Temerario con Margherita di York da celebrarsi il 3 luglio 1468. Gli venne così affidato il compito di decorare, insieme ad altri pittori, il palazzo ducale nonché di Storia dell’arte Einaudi 68 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo realizzare le bandiere che avrebbero ornato le strade di Bruges. Negli anni seguenti ricevette dalle autorità altri incarichi simili: nel 1469 una serie di piccoli scudi con lo stemma papale per la città di Gand e per conto del duca alcune bandiere dipinte con motivi araldici destinate alla cerimonia del suo insediamento; nel 1472 egli realizzò per Carlo il Temerario due grandi tele raffiguranti rispettivamente un quadro araldico dei suoi possedimenti e la “Vergine di Gand”. Nel 1474, infine, dipinse trenta scudi con l’arme per la cerimonia funebre che accompagnò la traslazione dei corpi di Filippo il Buono e Isabella del Portogallo da Bruges in Borgogna passando per Gand. Dal 1473 al 1476 Van der Goes fu anche decano della gilda, poi nel 1478, all’acme della sua carriera di artista acclamato, decise di ritirarsi come frate laico nel convento Roode Klooster nei pressi di Bruxelles, una prioria legata a Groenendael di Ruysbroeck. Egli, tuttavia, non si dedicò esclusivamente alle pratiche religiose e continuò anzi a dipingere, ricevette ospiti e persino committenti al convento – tra cui il futuro imperatore Massimiliano – e partì anche alla volta di Lovanio per dare il proprio parere sulle tavole della Giustizia di Dirck Bouts. Egli non ebbe vita facile al convento: nelle cronache conventuali di quegli anni stilate dal monaco Gaspar Ofhuys, si legge dello stato di confusione mentale, descritta con dovizia di particolari, in cui versava l’artista, aggravato agli inizi del 1481 da una profonda depressione che gli procurò la morte l’anno seguente. Il Dittico cosiddetto “di Vienna” dal luogo della sua attuale collocazione, mostra due scene la cui associazione può apparire a prima vista bizzarra: il Peccato originale con Adamo ed Eva sul pannello sinistro e il Compianto sul Cristo ai piedi della croce, su quello destro. Eppure i due soggetti hanno molto in comune. Allorché Adamo ed Eva scoprirono nel Giardino dell’Eden l’al- Storia dell’arte Einaudi 69 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo bero del Bene e del Male, non seppero resistere alle tentazioni dell’astuto serpente e colsero il frutto della conoscenza, macchiando così l’essere umano del Peccato originale. Tale peccato non fu cancellato che con l’avvento di Cristo che sacrificò se stesso morendo sulla croce e liberò in tal modo l’uomo dalla colpa: da un lato dunque il Peccato e dall’altro la Redenzione. Per quanto il dittico formi perciò un’opera omogenea, esso vide tuttavia la luce in due fasi distinte, come si rileva anche dalle differenze stilistiche e iconografiche esistenti tra le due tavole. La datazione basata sulla dendrocronologia ha confermato quanto supposto in base a considerazioni storico-artistiche, e cioè che il Peccato originale precede di sei anni il Compianto. La santa Genoveffa dipinta a grisaglia sul retro di quest’ultima tavola potrebbe forse fornire qualche indizio sulle vicende all’origine del dittico. Adamo ed Eva sono raffigurati nel momento in cui Eva, spinta dal serpente, che qui ha le sembianze di una sorta di lucertola dalla testa umana, coglie la mela dall’albero della conoscenza, al centro del lussureggiante giardino. Il paesaggio è dipinto con grande cura dei particolari e nelle resa dei corpi umani, di fiori e delle piante, della morbida luce vi sono chiari richiami a Van Eyck. Per quanto riguarda il Compianto, invece, sia la composizione che il trattamento delle figure appare piuttosto influenzata dai modi di Van der Weyden. Come questi, anche Van der Goes ha messo in scena il tema entro una composizione sovraffollata, dove i personaggi sono disposti in prossimità della cornice. Le stesse emozioni, e i gesti che le esprimono, sono rappresentate in questa metà del dittico in maniera commovente. Maria Maddalena in primo piano, sulla sinistra, coinvolge con il suo sguardo afflitto l’osservatore nella scena; Storia dell’arte Einaudi 70 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo ella pare quasi invitare a soffermarsi su questo evento straziante di cui tutti noi, peccatori, siamo responsabili. Perfino il paesaggio sembra sconvolto dal dramma, la bellezza che aveva nel giardino terrestre si è ormai dileguata. Sul monte Golgota, freddo e deserto, gli avvoltoi volteggiano intorno alla croce vuota che si staglia contro il cielo cupo. Alla luce delle sue modeste dimensioni, è verosimile che il piccolo dittico fosse destinato alla devozione privata: la resa penetrante delle scene e lo sguardo compassionevole della Maddalena, destinato non solo al Cristo morto ma sicuramente anche all’osservatore che le rivolge l’attenzione, saranno stati per il proprietario dell’opera di indubbio stimolo nelle sue preghiere. Tommaso Portinari, un importante uomo d’affari, risiedeva in qualità di rappresentante della ricchissima stirpe di banchieri della casata dei Medici di Firenze nella prospera Bruges della seconda metà del Quattrocento. Già a quei tempi, infatti, le case di commercio, i banchieri e simili, invece di effettuare personalmente viaggi d’affari o soggiornare lungo tempo all’estero, erano soliti assumere agenti che curassero i loro interessi: commessi viaggiatori come Tommaso Portinari e Giovanni Arnolfini, per l’appunto, che in questa veste si erano stabiliti nelle Fiandre. Simili uomini d’affari godevano di grande considerazione ed erano in genere personaggi molto facoltosi. Spinti dal desiderio di esibire la fama raggiunta, essi amavano farsi ritrarre dai rinomati maestri fiamminghi. Si ricordi ad esempio Giovanni Arnolfini che si era fatto immortalare insieme alla consorte in un ritratto di Jan van Eyck. Non solo il ritratto costituiva un tramite molto apprezzato per tenere vivo il ricordo del committente e della sua famiglia, ma anche chi commissionava grandi pale d’altare spesso vi compariva di persona in qualità di donatore. Storia dell’arte Einaudi 71 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo È questo è il caso del trittico con l’Adorazione dei Pastori attualmente collocato negli Uffizi a Firenze, che fu dipinto per incarico di Tommaso Portinari. Insieme all’Altare Monforte, sempre dello stesso artista (ante perdute; tavola centrale a Berlino, Staatliche Museen Preußischer Kulturbesitz), la pala d’altare è tra le più grandi della prima pittura nederlandese. In posizione aperta l’opera è più alta e più larga dello stesso Giudizio Universale di Rogier van der Weyden a Beaune; per dimensioni la tavola centrale è seconda solo alla Comunione degli Apostoli di Giusto di Gand. Sui battenti esterni del trittico Portinari compare un’Annunciazione dipinta a grisaille in uno stile oltremodo sobrio e discreto. A battenti aperti, invece, il trittico esplode in un tripudio di colori attorno al minuscolo neonato Gesù quale punto focale della rappresentazione. Sull’anta sinistra è raffigurato Tommaso Portinari e dietro di lui i figlioletti Antonio e Pigello e i santi protettori: san Tommaso con la lancia e sant’Antonio vestito da eremita. La moglie di Tommaso, Maria Baroncelli, e la figlia Margherita sono raffigurate in ginocchio sull’anta destra in compagnia delle sante Maria Maddalena, con il vaso d’unguento, e Margherita con il drago ai suoi piedi. Nello scomparto centrale trova posto l’Adorazione dei pastori, che in ginocchio sembrano accogliere a braccia aperte il Bambino appena nato. Insieme alle altre figure del quadro essi formano un cerchio intorno al Bambino nudo disposto su un giaciglio di paglia. Maria, Giuseppe, le schiere di angeli, tutti sono rivolti con le mani giunte in sua adorazione del piccolo Redentore, in uno scenario creato dai resti del palazzo di Re Davide. L’arpa nell’arco a tutto sesto e le iniziali p.n.s.c. e m.v., rispettivamente “Puer Nascitur Salvator Christus” e “Maria Virgo”, indicano la nascita di Cristo in questo Storia dell’arte Einaudi 72 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo luogo. Il bue e l’asino assistono all’evento da dietro la mangiatoia. In quest’opera Van der Goes riprende la tradizione pittorica nederlandese inaugurata dai suoi predecessori: il senso per la luce, lo spazio e il naturalismo di Petrus Christus e Dirck Bouts, la monumentalità di Rogier van der Weyden, ma in primo luogo il gusto per il dettaglio e il disguised symbolism di Van Eyck. La semplice natura morta in primo piano con i due vasi di fiori e il fascio di spighe risulta così essere la chiave di un concetto iconografico complesso che Van der Goes intende illustrare, e cioè la dottrina dell’Incarnazione: con la nascita Dio si fa uomo e in tal modo l’umile natura umana viene riunita con quella divina. Nel vaso di sinistra, un alberello spagnolo, vi sono tre iris – due bianchi e uno blu – e un giglio scarlatto, che alludono alla passione, alla purezza e alla regalità di Cristo e della Vergine Maria. Nel piccolo vaso di vetro a fianco – la luce del sole l’attraversa senza deviare – sono collocate invece sette aquilegie blu e tre garofani rossi. Per la sua forma che ricorda una colomba in volo, l’aquilegia divenne simbolo dello Spirito Santo. L’insieme di sette aquilegie, come in questo caso, sta ad indicare i sette doni dello Spirito Santo. Il significato simbolico del garofano è strettamente correlato al fidanzamento, qui è forse un’allusione alle nozze mistiche di Maria con Cristo. I fiorellini sparsi a terra, aquilegie e violette ormai appassite, rinviano all’umiltà e alle sofferenze di Maria. Il fascio di spighe dietro ai vasi nonché i tralci e le foglie di vite sull’alberello rappresentano gli attributi dell’Eucaristia. Si noti che il Bambino appena nato si trova esattamente sopra alla natura morta, come fosse egli stesso l’offerta sacrificale. Gesù è qui al contempo l’officiante della prima Santa Messa in terra, assistito dagli angeli che indossano le vesti usate per l’appunto in occasione della prima messa di un sacerdote. Certo Storia dell’arte Einaudi 73 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo non è facile sapere fin dove occorra spingersi nell’intepretazione della pittura nederlandese delle origini senza incorrere in eccessi e in un travisamento del passato. La presenza dei fiori e delle spighe nella pala si presta anche ad un’altra spiegazione, meno complessa. Il giglio allude alla Passione, i tre garofani simboleggiano la Trinità, l’aquilegia violacea ha il colore della melanconia e il numero sette si riferisce ai sette dolori di Maria e infine il fascio di spighe rappresenta il luogo della natività giacché Betlemme significa “Casa del Pane”. Ma anche questa versione, forse troppo ricercata, non è affatto accolta in modo univoco. Di volta in volta si dovrà dunque valutare attentamente, nel singolo pittore o nella singola opera, la presenza o meno di una simbologia ed eventualmente di un disguised symbolism e si dovrà valutare fin dove sia lecito spingersi con l’interpretazione dei particolari. Nel trittico le singole figure sono fortemente caratterizzate: una vena malinconica sul viso di Maria; i rustici pastori, ciascuno con la propria individualità, Giuseppe che si tiene più in disparte. L’essenza umana, che si coglie chiaramente nei volti, viene qui fusa con la mistica natura divina, un’unione che caratterizza il movimento religioso che nasce nell’ultimo quarto del Quattrocento e raggiunge attraverso la Renania anche i Paesi Bassi. Di “Gerrit van Haarlem”, soprannominato tot Sint Jans (di San Giovanni), Karel van Mander afferma nel suo Libro della pittura che fu importante capostipite della pittura nederlandese. Il soprannome gli venne dal fatto che viveva presso la Commendatoria di San Giovanni ad Haarlem dove era “famulus et pictor” (“garzone e pittore”). Per questo motivo egli era esonerato dalla maggior parte delle regole della gilda in quella città. Non è chiaro dove si sia svolta la sua formazione, comunque Van Mander lo dichiara allievo di Albert van Storia dell’arte Einaudi 74 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo Ouwater. Probabilmente l’artista soggiornò per un certo periodo nelle Fiandre. Negli archivi della gilda dei miniatori di Bruges, infatti, viene citato nel 1475 un “Gheerkinde Hollandere” e non è da escludere che si tratti proprio di Geertgen tot Sint Jans, dal momento che stile e tecnica soprattutto delle sue piccole tavole si ricollegano strettamente a quelle tipiche dei miniatori dell’epoca. Tuttavia essendo morto appena ventottenne, secondo quanto riferisce Van Mander, è molto difficile che egli abbia potuto in un così breve lasso di tempo e agli inizi della sua carriera inserire anche un soggiorno in Fiandra. La tavola con la Madonna in Gloria (Madonna del Rosario) (Rotterdam, Museum Boijmans van Beuningen) e quella con la Crocifissione con i santi Girolamo e Domenico (Dublino, National Galleries of Scotland), dai più ritenuta opera non originale dell’artista, formavano un tempo un dittico. Le dimensioni identiche delle due tavole nonché le tracce di cerniere inducono a questa conclusione. Si aggiunga che l’associazione del tema della Madonna col Bambino con quello della Crocifissione era molto usuale nel Medioevo. Il dittico, di carattere marcatamente devozionale, ha stretti legami con la corrente mistica della seconda metà del Quattrocento in cui svolgeva un ruolo di rilievo il culto del rosario, una devozione diffusa soprattutto dall’ordine dei Domenicani, che nel 1478 fondò ad Haarlem la prima confraternita del Rosario. In entrambi i pannelli si colgono infatti riferimenti a questa particolare devozione. La Madonna è qui raffigurata entro tre cerchi, che sembrano emanare una luce divina e al cui interno si muove un gran numero di angioletti musicanti e di altri angeli. Essa rappresenta la Maria in Sole, che risale all’Apocalisse di Giovanni (12, 1-6). Nella visione descritta in questo brano appare “una Donna rivestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodi- Storia dell’arte Einaudi 75 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo ci stelle” che partorisce un bambino e viene poi minacciata da un drago. Geertgen si è ispirato qui a questa donna dell’Apocalisse, da sempre identificata con Maria. Le dodici stelle sono riprese nella corona di Maria, che è in piedi sulla falce di luna sotto cui si contorce il drago. Sotto la corona Maria reca una coroncina di rose, i cui singoli boccioli rappresentano le preghiere del rosario, cinque boccioli bianchi per gli Ave Maria si alternano regolarmente a un bocciolo rosso per il Padre Nostro. Maria è assistita nelle sue orazioni due angeli ai lati della sua testa, che reggono un rosario tra le mani. Come si è detto la devozione per il rosario divenne un fenomeno di ampia portata grazie anche all’impegno dei domenicani. L’indulgenza che veniva accordata, secondo il decreto di papa Sisto IV del 1479, a chi recitasse il rosario, avrà certo spronato anche i laici a pregare. Acceso sostenitore dell’importanza del rosario fu il domenicano Alanus de Rupe (1428-1475), il cui discepolo Jacobus Weyts divenne priore del convento dominicano di Haarlem, fondatore della prima confraternita del Rosario nei Paesi Bassi. Se si osserva ora la tavola con la Crocifissione, sarà ancor più chiaro il nesso esistente tra le due scene e l’ordine religioso. Oltre a Maria e a san Giovanni, sotto la croce compaiono i santi Girolamo e Domenico, mentre sullo sfondo, all’interno e nei dintorni di una cittadina medievale, sono ambientate scene della Passione. I due santi si infliggono un castigo, Girolamo si percuote il petto con una pietra e Domenico si flagella a sangue con il cordone che gli cinge i fianchi. Penitenze e devozione del rosario furono propugnate con fervore dall’ordine domenicano e premiate, come detto, con l’indulgenza. In primo piano, il corpo scheletrico e in stato di decomposizione ai piedi della croce rinvia al concetto di memento mori (“ricorda che morirai”) sottolineando l’importanza della religiosità e dell’espiazione. L’essere lentamente consuma- Storia dell’arte Einaudi 76 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo ti dai vermi e costretti a un prolungato soggiorno nel purgatorio, qui rappresentato da una buca nella terra che sprigiona fiamme con dentro alcuni morti, non era certo una prospettiva allettante. Il processo di purificazione dell’anima nel calore infernale del fuoco poteva comunque essere notevolmente abbreviato conseguendo le indulgenze, e ciò stimolò fortemente le pratiche della penitenza e della recita del rosario. Il dittico di Geertgen tot Sint Jans aveva il preciso fine di risvegliare tale devozione. Il 30 gennaio 1465 Hans Memling si fece iscrivere come cittadino nei registri anagrafici di Bruges, dove si stabilì già come maestro-pittore: “Jan van Mimnelinghe, figlio di Hamman, nato a Seligenstadt”. Egli era nato probabilmente nel 1440 circa a Seligenstadt sul Meno, dove in effetti negli archivi risultano attestati i genitori del pittore, e malgrado poi si fosse trasferito altrove, mantenne sempre i contatti con la città natale. Si ignora invece dove ricevette la sua formazione. Oltre alle considerevoli affinità stilistiche tra la sua opera e quella di Van der Weyden esistono altri argomenti validi per ritenere che abbia compiuto il proprio tirocinio proprio presso Van der Weyden a Bruxelles e sia diventato forse anche un assistente nella bottega di questo artista. Essendo Van der Weyden morto il 18 giugno 1464, il trasferimento dell’artista a Bruges avviene a conclusione del suo rapporto di lavoro a Bruxelles. Un’altra indicazione, per quanto cauti si voglia essere, è fornita dal Vasari quando dichiara già nel 1550 che Memling era un allievo di Van der Weyden; infine risale al 1516 la menzione di un piccolo trittico nell’inventario di Margherita d’Austria, raffigurante una “pietà” di Rogier van der Weyden con ante del “Maestro Hans”. Prima di trasferirsi a Bruges Memling avrà senz’altro valutato vantaggi e svantaggi della movimentata città mercantile dalla clientela internazionale e soprattutto Storia dell’arte Einaudi 77 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo italiana. La decisione non si fece attendere a giudicare dagli incarichi di alcuni facoltosi banchieri che seguirono rapidamente (Angelo Tani, Tommaso Portinari). Anche l’élite e le istituzioni di Bruges si rivolsero ben presto al “Maestro Hans”, seguite a ruota da prestigiose commesse estere – che andavano dalla spagnola Najera alla città anseatica tedesca di Lubecca. Già nel 1466 Memling abitava in una grande casa in mattoni, di cui in seguito divenne proprietario, e da diverse fonti risulta che egli era tra i notabili di Bruges, città dove si spense l’11 agosto 1494. Della sua produzione pittorica, di facile lettura e costantemente permeata di una cultura borghese idealizzata e cordiale, è giunta a noi una quantità eccezionale di opere: una ventina di pale d’altare spesso di grandi dimensioni o di tavole di analoga natura religiosa con figure di donatori, più o meno quindici raffigurazioni della Madonna, all’incirca venti pannelli con scene prevalentemente religiose, ma a volte anche allegoriche e infine oltre trenta ritratti, talvolta in forma di dittico associati alla Madonna col Bambino. Intorno al 1470 Hans Memling ottenne alcune commesse dall’uomo di fiducia del duca Carlo il Temerario, il fiorentino Tommaso Portinari, agente del Banco Mediceo a Bruges. Fu probabilmente in occasione del matrimonio di questi che egli dipinse i ritratti di Tommaso e della moglie Maria Baroncelli (New York, The Metropolitan Museum of Art), nonché l’affascinante Passione di Cristo. Sotto la grandiosa veduta di Gerusalemme, alle due estremità del dipinto, sono raffigurati i due committenti genuflessi in preghiera chepartecipano da vicino alla Passione di Cristo. La narrazione delle sofferenze di Cristo, che comprende la Resurrezione e alcune altre scene ad esclusione dell’Ascensione, si sviluppa lungo ventitré scene ambientate all’interno e intorno a una Gerusalemme medievale interamente fortificata. Le Storia dell’arte Einaudi 78 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo architetture pseudo-romaniche con varie costruzioni a pianta centrale e diverse cupole evocano atmosfere orientali e somigliano molto allo scenario di una rappresentazione teatrale; le stesse scene della passione sembrano piuttosto un’innocua recita di carattere religioso che la terribile vicenda dei patimenti di Cristo. Il più grande trittico eseguito da Memling è il cosiddetto trittico di San Giovanni (1474-1479). La pala, che appare datata sulla cornice, si trova insieme ad alcune altre opere tuttora nell’ospedale di San Giovanni di Bruges, istituto per cui fu realizzato come pala destinata all’altare maggiore della relativa chiesa. Con ogni probabilità l’opera gli venne affidata su iniziativa dei due frati e delle due suore dello stesso ospedale che sono raffigurati, insieme ai loro patroni, sui lati esterni delle ante della pala e ciò avvenne con ogni probabilità prima del 1475, dal momento che uno dei personaggi ritratti venne a mancare proprio in quell’anno. Si aggiunga che il trittico era destinato alla nuova abside del coro costruita nel 1473-1474 sul lato nord-est delle sale dei malati. A battenti chiusi il trittico mostra due nicchie di fattura gotica con a sinistra due santi e a destra due sante dietro ai donatori devotamente raccolti in preghiera. I lati esterni delle ante, per quanto sobri nei colori, non possono tuttavia definirsi più monocromi come lo erano certe opere precedenti. I committenti con i loro abiti neri e bianco-neri e l’incarnato compatto tipico di Memling sono resi in modo realistico. I loro santi protettori, nell’ordine Giacomo Maggiore, Antonio Abate, Agnese e Clara, sono raffigurati con il medesimo realismo idealizzato; le loro vesti hanno qualche colore in più ed essi sono accompagnati dai loro caratteristici attributi. Il contrasto esistente tra la parte esterna e l’interno del trittico è davvero notevole. Le tonalità scure, in prevalenza nere e bruno-grigiastre, dell’esterno dei batten- Storia dell’arte Einaudi 79 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo ti, visibili durante la Quaresima e negli altri periodi in cui la pala era chiusa, creavano certo un’atmosfera triste nelle sale dei malati e nella chiesa che costituivano un unico grande ambiente. Il trittico in posizione aperta, invece, con tanto rosso a contrasto con le tonalità di verde e con il blu pallido del cielo che si estende sull’insieme, doveva essere una festa per gli occhi. L’ottimistico messaggio di salvezza contenuto nella pala avrà dunque dato conforto e speranza ai pazienti e a quanti prestavano le loro cure nell’ospedale. Lo stesso effetto benefico deve aver sortito anche l’imponente Giudizio Universale di Van der Weyden nell’Hôtel-Dieu di Beaune. Al centro dello scomparto mediano è raffigurata la Madonna col Bambino, la Madre di Dio con il Salvatore. L’anta sinistra è dedicata a san Giovanni Battista, che preannunciò la Venuta di Cristo introducendolo, per così dire, nel Nuovo Testamento, e alla fine diede la propria vita per la sua fede in Cristo. Sull’anta destra è raffigurato l’apostolo Giovanni Evangelista intento a scrivere i libri dell’Apocalisse sull’isola di Patmos, mentre contempla la visione della Seconda venuta di Cristo come Redentore e Giudice universale. Nella tavola centrale i due Giovanni, due angeli e due sante sono schierati ai lati della Madonna col Bambino, incoronata dall’alto da due piccoli angeli blu. L’ospedale era in realtà dedicato al solo Giovanni Evangelista, ma nella pratica devozionale entrambi gli omonimi erano considerati i santi patroni. Essi sono i protagonisti del messaggio di salvezza che si dispiega attraverso le tre grandi tavole, anche se, ovviamente, Cristo e la Madonna occupano la posizione più importante. Memling pone così in modo geniale il Battista e l’Evangelista a protagonisti della sua composizione. La tavola centrale è al contempo una Sacra conversazione, un dialogo divino tra la Madonna e alcuni santi. Un angelo suona un organo portativo, l’altro sorregge un Storia dell’arte Einaudi 80 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo libro in cui Maria sta leggendo. Il Bambino sta infilando un anello al dito della santa alla sua destra che, alla luce di queste nozze mistiche e dei suoi emblemi – la spada e la ruota, strumenti del suo martirio – risulta essere santa Caterina; l’iconografia rimanda inoltre alla mistica Caterina da Siena e alla martire Caterina d’Alessandria. Alla sinistra di Cristo con la Madre, santa Barbara appare assorta nella lettura, alle spalle la torre, suo attributo tradizionale. Le due sante raffigurate insieme simboleggiano, nell’ordine, la vita contemplativa e la vita attiva. Nell’ospedale di San Giovanni i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista fungevano dunque da intercessori in favore dei malati, degli assistenti e degli altri credenti di sesso maschile, mentre le due popolarissime sante Caterina e Barbara assolvevano alla medesima funzione per le credenti. Nei capitelli sopra le teste dei due Giovanni sono scolpiti episodi della loro vita, in una narrazione che prosegue nelle scene sullo sfondo della tavola centrale e delle ante. Il panorama alle spalle dell’evangelista raffigurato in piedi è veramente eccezionale, in quanto si tratta di una rappresentazione realistica della “misurazione” della gradazione alcolica del vino importato a Bruges che si svolgeva sul Kraanplaats (Piazza del rubinetto). Si riconoscono il rubinetto municipale di legno e la chiesa di San Giovanni ormai scomparsa, ulteriore riferimento al patrono dell’ospedale. I frati dell’ospedale di San Giovanni erano infatti titolari del diritto di misura, che costituiva per loro una fonte di profitto. Forse qui si può leggere un altro richiamo a san Giovanni, raffigurato sulla destra mentre purifica con la benedizione il vino avvelenato offertogli. Un’opera singolare nel corpus delle opere di Memling, ma anche dell’intero repertorio iconografico quattrocentesco, è il piccolo trittico della Vanità Terrena e della Redenzione Celeste che collega in modo molto esplicito il Storia dell’arte Einaudi 81 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo sacro con il profano. Come si deduce dallo stemma, l’opera fu commissionata a Memling da un membro della famiglia Loiani di Bologna. Non sappiamo in che modo fosse assemblato in origine il trittico, ormai scomposto in sei piccoli pannelli a sé stanti. Non vi sono dubbi comunque che lo stemma e la morte, Dio Padre e la donna nuda, il teschio e la scena infernale costituivano un tempo, nell’ordine, la faccia anteriore e quella posteriore delle tre tavolette in seguito divise nel senso dello spessore. L’ipotesi che i pannelli fossero incernierati a fisarmonica, come nel del polittico di Anversa-Baltimora, appare più plausibile che non quella, ancora corrente, di un tipo di trittico con ante che si sovrappongono. A battenti chiusi la parte anteriore del trittico presentava lo stemma recante il motto “nessun bene senza pena”, mentre quella posteriore ospitava il teschio in una nicchia. La seguente iscrizione è scolpitoa in pietra dura al di sopra e al di sotto della profonda nicchia: “scio enim quod redemptor meus vivit et in novissimo diedeterra surrecturus sum et rursum circu(m)dabor pelle mea et incarne mea videbo deu(m) salvatorem meum iob xix, cap” (“Io so che il mio Redentore è vivo, che io risorgerò nell’ultimo giorno della terra e nuovamente rivestito della mia pelle e della mia carne vedrò Dio, il mio Salvatore”) (Giobbe 19, 25-26). A battenti aperti la parte interna delle tre tavolette formava nell’insieme un’allegoria della caducità terrena: al centro, la donna nuda e di fronte ad essa, dietro allo specchio e alla sua destra, la morte dal volto scheletrico sul pannello sinistro; alle spalle della donna, nel pannello destro, dunque, c’è il teschio nella nicchia. La parte anteriore delle tavole mostra, al centro, Dio Padre circondato da angeli musicanti. Il pannello destro costituisce la parte anteriore del trittico, già menzionata, con lo stemma: orientato verso sinistra, lo stemma guar- Storia dell’arte Einaudi 82 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo da a Dio Padre nell’alto dei cieli alle cui spalle, sul pannello sinistro, è rappresentato l’Inferno. Questa ipotesi di ricostruzione del trittico ha il merito di ripristinare su entrambi i lati un’unità visuale ed iconografica. Dio Padre riacquista in tal modo la sua posizione centrale e non è più relegato, come nelle precedenti ricostruzioni, nella parte retrostante. Il cielo e l’inferno si trovano affiancati in una rappresentazione contrastante e leggermente allucinata, che ha la funzione di monito. Essi si trovano vicino allo stemma rivolto a sinistra, cosicché il proprietario viene confrontato con il Bene e il Male. Il cartiglio al di sopra del fantasioso diavolo attesta l’irrevocabilità del giudizio divino: “in inferno nulla est redemptio”. Sul retro il teschio guarda alla personificazione della lussuria, raffigurata in un ameno paesaggio, nonché alla morte che si staglia contro un cielo nero. La morte dal volto scavato fa volteggiare un cartiglio recante “Ecce finis hominis comparatus sum luto et assimilatus sum faville et cineri” (“Ecco la fine dell’uomo; sono fatto di fango e divenuto polvere e cenere”). La morbosità della rappresentazione è ulteriormente accentuata dal sepolcro aperto, dalla lapide spostata recante un’altra immagine della morte, dal nudo camposanto disseminato di scheletri e dal buio della notte. La Morte è tutta pelle e ossa, il ventre squarciato e i vermi che frugano negli intestini. Il rospo aggrappato al sesso della Morte corrisponde a quanto vi è di lussurioso e di immorale nella giovane donna al centro. Il cagnolino, i levrieri che si inseguono, l’asino con il carrettiere presso il mulino sullo sfondo e soprattutto, ovviamente, la completa nudità della donna suggeriscono senz’ombra di dubbio un significato erotico. Il prezioso diadema sui lunghissimi capelli sciolti fin oltre la schiena e le scarpette ai suoi piedi rafforzano questo effetto: senza pudore alcuno la giovane gode della sua terrena bellezza e si rimira in uno Storia dell’arte Einaudi 83 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo specchio: l’osservatore vede la sua immagine riflessa, non è che la donna vede invece il teschio che sogghigna? Nel Dittico di Maarten van Nieuwenhove (1487), eseguito da Hans Memling, il ritratto del giovane ventitreenne di Bruges dall’aspetto deciso, rientra in quella tradizione sorta nel tardo Trecento che raffigurava l’uomo mortale in devota preghiera davanti alla Madonna col Bambino. Da allora però si era verificato un radicale cambiamento. Invece dell’effimero mortale che si avvicina a Dio, è il Divino a muovere verso l’uomo. Come già rilevato nel doppio foglio di pergamena di André Beauneveu degli anni intorno al 1390 oppure nell’epitaffio dei Signori di Montfoort del 1375-1380 circa, la distanza fra il donatore e la Madonna col Bambino era in origine sensibile e palese: non vi era possibilità di equivoco circa il carattere di apparizione divina di coloro cui era rivolta la preghiera rispetto a quello, reale ed inizialmente quasi impersonale, di chi pregava. I santi patroni e protettori introducevano l’essere mortale presso la Madre di Dio sostenendolo nel suo confronto diretto con l’Altissimo. Il donatore veniva per così dire accolto nella visione, nella dimensione dell’irreale o meglio, in un altro ordine di realtà. L’essere umano accedeva a sfere ultraterrene, comparendo in scene neotestamentarie come quelle della Nascita e della Passione o in raffigurazioni atemporali del Cristo glorificato e giudice. Se Petrus Christus fa varcare alla giovane coppia la soglia del laboratorio di un orafo del tempo, occorre ricordare che questa entra in uno spazio che è ancora dominio del santo. I donatori raffigurati da Jan van Eyck, ma lo stesso vale per Rogier van der Weyden o per Petrus Christus, hanno visioni celesti che si svolgono in simbolici edifici sacri sulla terra, ma poi anche loro vengono a trovarsi all’interno dell’ambiente sacrale. Nel Trittico di Mérode di Robert Campin, i coniugi donatori si trattengono volutamente fuori Storia dell’arte Einaudi 84 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo della porta, che è comunque aperta verso la stanza in cui ha luogo l’Annunciazione. Rogier van der Weyden che, fu forse il maestro di Hans Memling, è stato probabilmente il primo artista a combinare nella forma di un dittico, un doppio ritratto con l’immagine devozionale della Madonna col Bambino. Alcuni di questi dittici devozionali eseguiti dal pittore sono arrivati ai nostri giorni, tra gli altri la Madonna col Bambino e Philippe de Croy (San Marino, California, Huntington Library and Art Gallery; Anversa, Koninklijke Musea voor Schone Kunsten; entrambi 49 x 31 cm). Per effetto dello sfondo d’oro dietro la Madonna e dello spazio scuro alle spalle del donatore la distanza fra il divino e il terreno è qui comunque ancora piuttosto marcata. Nel Dittico di Maarten van Nieuwenhove è raggiunto lo stadio in cui il Cristo, la Madonna e i santi incontrano l’essere umano nel suo proprio ambiente. L’enorme influenza della devotio moderna ha sensibilmente ravvicinato il Divino. Il santo protettore di Maarten van Nieuwenhove, san Martino, viene ridotto ad immagine entro l’immagine, nella piccola vetrata alle spalle del giovane. Allo stesso modo anche gli altri due santi protettori, i santi Giorgio e Cristoforo, sono rappresentati solo nell’ambiente in cui si trova il donatore raccolto in preghiera. Lo stemma con il relativo motto nonché le raffigurazioni che esemplificano questo motto e sono inseriti in un’altra piccola vetrata, provano inequivocabilmente che la scena si svolge proprio nell’abitazione di Maarten van Nieuwenhove. L’immagine della stanza si completa nello specchio convesso alle spalle della Madonna: ci si rende allora conto, come ha sottolineato Hans Belting nel 1994, che le ante del dittico costituiscono propriamente le due finestre attraverso cui l’osservatore guarda nella stanza. Il pittore, e quindi lo spettatore, posto all’esterno della finestra, è dinanzi alla Madonna; nel guardare Maria Maarten van Nieuwenho- Storia dell’arte Einaudi 85 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo ve è voltato verso di lei e la vede quindi di profilo. Giacché la Madonna e il giovane sono egualmente vicini all’osservatore, questi vede Maarten van Nieuwenhove come un ritratto di tre quarti e la Madonna col Bambino in posizione frontale. Il Bambino Gesù sembra fissare intensamente l’uomo in preghiera al quale è apparso. Lo specchio convesso mostra dunque chiaramente una stanza con una parete cieca, a sinistra, mentre su ciascuna delle altre si aprono due finestre munite di vetri unicamente nella parte superiore e con battenti in basso. L’immagine riflessa lascia inoltre vedere che il donatore, nel pieno rispetto della tradizione, è inginocchiato e assorto in preghiera dinanzi alla Madonna col Bambino che appare ai suoi occhi; anche il libro aperto accanto a Maria rientra nella tradizione. Sotto questo aspetto il pittore non si è dunque discostato dalla tradizione, che ha però infranto ponendosi come spettatore in un’angolazione diversa e sorprendente. Allorché il trittico con i due Giovanni stava per essere ultimato o era forse già compiuto, l’omonimo ospedale di San Giovanni commissionò a Memling due lavori di dimensioni minori. Per conto di due frati dell’istituto egli eseguì infatti due piccoli trittici, databili rispettivamente al 1479 e al 1480 (Bruges, Memlingmuseum). Alla luce del modesto formato, del carattere intimo e della raffigurazione del donatore su entrambe le opere, queste si configurano in primo luogo come oggetti personali destinati alla devozione privata, anche se non di utilizzo esclusivo da parte dei committenti. Se i due trittici sono dunque in qualche modo paragonabili al Dittico di Maarten van Nieuwenhove, tuttavia rispetto a questo conservano una forma, un’iconografia e soprattutto un linguaggio figurativo più tradizionali. Alcuni anni dopo lo stesso ospedale tornò ad affidargli un incarico di eccezionale importanza, un nuovo reliquiario in onore di sant’Orsola. Storia dell’arte Einaudi 86 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo L’ospedale possedeva alcune decine di piccole reliquie custodite in un modesto scrigno ligneo del tardo Trecento. Dalla decorazione di questa teca risulta che fin d’allora le reliquie di sant’Orsola e delle Undicimila Vergini venivano considerate le più importanti di tutte: piccole immagini dipinte della Madonna col Bambino, di San Giovanni Battista e delle sante Cecilia e Barbara – tra cui vi erano anche alcune reliquie – affiancano sant’Orsola ponendone in risalto la figura sensibilmente più grande in rilievo policromo. Sotto il suo mantello foderato di ermellino essa protegge le Vergini unite a lei nel martirio. Sui lati dello scrigno è dipinto l’Agnello di Dio con il vessillo a croce. È probabile che nel tardo Quattrocento la teca venisse considerata troppo mediocre. Le dimensioni minime delle numerose reliquie non intaccava in alcun modo il loro grande valore devozionale, realtà che non trovava espressione nell’aspetto modestissimo della vecchia custodia, soprattutto in una città prospera come Bruges che contava in diverse chiese e cappelle imponenti reliquiari e scrigni in metallo nobile. Il 21 ottobre, festa di sant’Orsola, dell’anno 1489 le reliquie vennero solennemente traslate da Egidius de Bardemaker, vescovo di Sarepta e vescovo ausiliare di Tournai, nel nuovo reliquiario realizzato nella forma tradizionale in uso per i più comuni reliquiari in oreficeria: una cappella in miniatura, costruita su elementi architettonici e riccamente decorata con motivi ornamentali scolpiti. L’intera struttura nonché gli intagli floreali furono rivestiti d’oro e le quattro piccole statue sugli angolivennero decorate utilizzando numerose lamine d’oro, in modo da armonizzarle con l’opera nel suo complesso. Il tetto a schiena d’asino è dipinto in modo che gli stessi spioventi sembrino ricoperti da trafori dorati, che racchiudono tre tondi per parte. In netto contrasto con questa struttura architettonica dorata, i Storia dell’arte Einaudi 87 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo sei tondi, le sei arcate cieche e le due facciate corte furono decorate con immagini realistiche dai colori vivaci. I tondi del tetto mostrano piccoli scorci di cielo. Affiancati da angeli musicanti, i tondi centrali, più grandi, raffigurano rispettivamente l’Incoronazione di Maria e sant’Orsola circondata dal suo seguito. Sui due lati brevi del reliquiario, invece, compare un ambiente gotico, di notevole altezza, coperto da una volta con finestre ad arco acuto e vetrate trasparenti. L’osservatore ha la sensazione di guardare all’interno dell’edificio e di veder così apparire la Madonna col Bambino e sant’Orsola con le sue Vergini, entrambe a grandezza oltre il naturale. Accanto alla Madonna sono genuflesse le committenti del reliquiario, intese sia come donatrici sia come rappresentanti delle suore dell’ospedale. I reggenti dell’ospedale negli anni in cui lo scrigno venne realizzato, sono simboleggiati dalle quattro piccole statue di santi agli angoli: sant’Elisabetta, sant’Agnese, san Giovanni Evangelista e san Giacomo Maggiore. Sui lati lunghi sei scene raffigurano la storia di sant’Orsola. La Vita della santa, la sua leggendaria biografia, racconta come la principessa e vergine cristiana Orsola, prima di unirsi contro la sua volontà in matrimonio con un pagano, si recasse in pellegrinaggio a Roma e subisse al suo ritorno il martirio. Negli archi a tutto sesto, al di sopra di ognuna delle sei scene, una lavorazione a traforo gotico si sovrapponeva in origine alle porzioni di cielo, che oggi risultano piuttosto spoglie, realizzando un maggiore equilibrio con le parti inferiori sovraffollate. Nella prima scena sant’Orsola giunge con le sue compagne a Colonia, segue l’arrivo a Basilea e quindi a Roma. Il retro del reliquiario raffigura il ritorno passando per Basilea e nelle ultime due scene, l’approdo e il martirio a Colonia dove la santa e le altre vergini vengono barbaramente uccise, mentre la vita continua imperturbabile e la costruzione del duomo è in pieno corso. Storia dell’arte Einaudi 88 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo La terza generazione. Il 14 gennaio 1484 Gérard David venne iscritto come maestro nella Gilda degli intagliatori e dei sellai di Bruges, di cui facevano parte anche i pittori. Come regola generale il titolo di maestro poteva essere acquisito soltanto all’età di venticinque anni; David era nato probabilmente intorno al 1450 e, prima di arrivare a Bruges, aveva trascorso altrove il periodo di formazione e i primi anni di attività. Da documenti posteriori risulta fosse originario di Oudewater nella provincia d’Olanda. Ad ogni modo si suppone, senza potersi fondare tuttavia su fontidocumentarie, che seguisse l’apprendistato nella bottega del padre per andare poi a lavorare ad Haarlem e a Utrecht. Nelle prime opere di Gérard David è stata riconosciuta l’influenza di Geertgen tot Sint Jans; i più rilevano inoltre i contatti avuti in seguito a Gand e a Lovanio con l’opera di Hugo van der Goes e di Dirck Bouts, mentre a Gand il pittore ebbe senz’altro modo di conoscere anche i dipinti di Jan van Eyck. David era attivo a Bruges da quattro anni come maestro indipendente allorché venne prescelto per la prima volta per una carica direttiva all’interno della gilda di cui divenne poi decano negli anni 1501-1502. Come in precedenza Petrus Cristus, Gérard David fu membro dal 1507 al 1514 della confraternita religiosa di Nostra Signora dell’albero secco (Onze Lieve Vrouw van de Droge Boom), a dimostrazione della sua ascesa sociale verso l’élite cittadina di Bruges. Anche il matrimonio con la figlia di una ricca famiglia di orafi della città,nonché le opere commissionategli dalle massime gerarchie del clero e dall’amministrazione cittadina, illustrano in maniera eloquente le capacità di David nel coltivare i contatti sociali e politici necessari ai fini di una carriera artistica colma di successi. Dal 1494, e fino alla sua morte nel 1523, visse in una casa con annesso lo studio, nel quartiere in cui abitavano anche Hans Memling e Storia dell’arte Einaudi 89 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo altri insigni artisti. Appare interessante che Gérard David si facesse iscrivere nel 1515 come maestro anche alla gilda di San Luca ad Anversa. Una decisione dettata probabilmente soltanto da motivi di ordine utilitaristico e commerciale, dal momento che Anversa stava acquistando sempre più importanza come città mercantile, mentre Bruges andava rapidamente declinando. Il pittore morì il 13 agosto 1523 e venne sepolto a Bruges sotto il campanile della chiesa dedicata alla Vergine. L’influenza del pittore di Haarlem Geertgen tot Sint Jans si osserva in particolare nello scomparto centrale di un trittico che rappresenta la Nascita di Cristo (New York, Metropolitan Museum). La scena principale del trittico sarebbe una delle prime opere di Gérard David e confermerebbe la sua proveninza dalla provincia d’Olanda, mentre le ante che presentano influenze degli ambienti artistici di Gand e Bruges, sarebbero state aggiunte in un secondo tempo. Un secondo trittico, attualmente a New York, risale agli anni in cui l’artista, pur essendo attivo a Bruges, aveva il permesso di vendere i suoi quadri anche ad Anversa. Ancora una volta la tavola centrale ospita la Natività affiancata, sulle due ante dai donatori con i loro santi patroni. Sotto il profilo iconografico va notato che gli stessi donatori vengono rappresentati rispettivamente come sant’Antonio e santa Caterina, a loro volta sotto la tutela dei santi Girolamo e Vincenzo. Oltre che per questa identificazione dei donatori con i loro santi patroni, il trittico merita attenzione per il destino toccato alle tavole esterne delle ante. Intorno al 1920 queste vennero distaccate e vendute separatamente come un paesaggio autonomo. Una valutazione ovviamente del tutto errata: collocata sul lato esterno del trittico della Natività, anche questa veduta silvestre racchiude, nella sua funzione introduttiva alla scena principale, un significato spirituale. I buoi che pascolano e l’asinello sdraia- Storia dell’arte Einaudi 90 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo to nei pressi dell’edificio in pietra, venivano immediatamente associati, dall’osservatore credente, a Maria e a Giuseppe alla ricerca di alloggio nonché alla locandadove avevano cercato riparo. Ciononostante appare molto singolare che David abbia dato così ampio spazio all’elemento paesaggistico, inserendovi in maniera quasi celata la tematica religiosa: il dettaglio minuscolo, ma latore del significato della rappresentazione, infinitesimo come l’uomo di fronte all’incommensurabile grandezza della creazione divina. Non può essere casuale il fatto che nel 1515 Gérard David venne iscritto ad Anversa nei registri della corporazione di San Luca vicino a Joachim Patenier, che rappresentò in modo analogo la tematica religiosa in vasti paesaggi panoramici. I due grandi pannelli che rappresentano la Giustizia di Cambise (1498) appartengono al nucleo delle opere più considerevoli di Gérard David. Attraverso quattro scene viene rappresentata la leggenda vetero-persiana della Giustizia di Cambise così come è narrata dallo scrittore greco Erodoto (485 ca.-425 a.C.). Sullo sfondo della tavola sinistra è raffigurata la corruzione del giudice Sisamne e nella scena principale il suo arresto su ordine del re Cambise. L’atroce pena cui fu condannato il giudice corrotto è presentata sul pannello destro: egli viene scuoiato vivo e strisce della sua pelle sarebbero poi servite per lo scranno di un giudice. Da quello scranno il figlio di questi, Otane, anch’egli giudice, doveva amministrare la giustizia per ordine del re. Questo lugubre seguito compare sullo sfondo a destra. Come si legge al di sopra del sinistro panno nero collocato sullo scranno del giudice, il cui sguardo è piuttosto angosciato, Gérard David completò i due pannelli nel 1498. In quell’anno la città di Bruges pagò al pittore la somma residua dovutagli per il compimento di “un grande dipinto con ritratti” destinato alla sala degli scabini nel municipio. Una prima rata del compenso per le Storia dell’arte Einaudi 91 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo due tavole era stata versata probabilmente già nel 1487, tuttavia restano tuttora oscuri i tempi del pagamento complessivo per le scene della Giustizia. Le due opere si inseriscono nella tradizione delle pitture a carattere morale, che si proponevano cioè di richiamare gli organi amministrativi e giudicanti alle loro responsabilità. Nella maggior parte dei casi venivano prescelti soggetti religiosi e il Giudizio Universale, in particolare, era ovviamente un tema appropriato. La scelta di un tema classico da parte delle autorità di Bruges appare eccezionale, ma è al contempo tipica perla cultura del Rinascimento, fortemente orientato verso il mondo antico, che in questi anni inizia a farsi strada nell’Europa del nord. Gérard David unisce al suo realismo nordico anche elementi stilistici che evidenzianola diffusione di modelli rinascimentali: i putti e i festoni sopra lo scranno del giudice nel pannello sinistro, in primo piano, e sullo sfondo del panello destro, sono una novità nei Paesi Bassi e costituiscono l’avvio di grandi trasformazioni. I due rilievi ovali ai lati dello scranno del giudice corrotto palesano il medesimo orientamento, essendo copie dirette di modelli antichi, popolari nel Rinascimento italiano del Quattrocento. Entrambi sono espressione del medesimo intento moralizzatore che caratterizzava le scene della Giustizia nel loro complesso. Raffigurando la Giustizia di Cambise come se si svolgesse ai tempi e nei luoghi familiari all’osservatore, David si avvalse di un metodo sperimentato ed efficace per ottenere dal pubblico l’identificazione con l’episodio rappresentato. I personaggi sono abbigliati secondo la moda del tempo, con le vesti borgognone ufficiali, armature e armi riconoscibili; le architetture sono fedeli riproduzioni di edifici di Bruges, gli stemmi raffigurati accentuano ancor più l’attualizzazione delle scene. Sulla tavola sinistra, al di sopra del capo del giudice Sisamne, si osservano gli stemmi con le armi gentilizie Storia dell’arte Einaudi 92 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo del duca Filippo il Bello e della consorte Giovanna d’Aragona, mentre sull’altra tavola, al di sopra dello spietato ma equo Cambise, sono esibiti gli stemmi della città di Bruges e della contea di Fiandra Appare inevitabile inserire le scene della Giustizia di Gérard David nel contesto politico estremamente teso della Bruges del tardo Quattrocento. L’imperatore Massimiliano d’Austria fungeva da reggente per l’ancor giovane Filippo il Bello, ma ben tre città fiamminghe non riconoscevano Massimiliano che come tutore del futuro duca. Le tensioni si acuirono a tal punto che nel 1488 l’imperatore venne trattenuto come ostaggio a Bruges e fu liberato soltanto al sopraggiungere dell’imperatore tedesco Federico III, che si era mosso in aiuto del figlio con un esercito; in seguito Bruges si ribellò ancora varie volte ma nel 1491 le agitazioni furono stroncate definitivamente. Durante questo continuo alternarsi dei rapporti di forza tra i poteri, David seppe conservare la sua posizione; il numero e l’identità dei notabili ritratti nelle scene della Giustizia furono nel corso della lavorazione opportunamente adattati. Le solenni esequie di Hieronymus Bosch ebbero luogo a ’s-Hertogenbosch il 9 agosto 1516. Le notizie a riguardo sono abbastanza precise in quanto il pittore riceveva sepoltura in qualità di “membro giurato” della Confraternita di Nostra Signora: una confraternita in onore della Madonna, che contava, accanto ad un numero imponente di associati esterni, un piccolo nucleo di componenti interni, i cosiddetti “confratelli giurati”. Nel 1486-1487 Bosch fece il suo ingresso nella confraternita da esterno e probabilmente nella primavera del 1488 fu accettato come membro giurato. Ciò significava che il pittore, in quanto benestante o perché socialmente affermato per le sue qualità intellettuali e artistiche, si muoveva negli ambienti dell’élite di ’s-Hertogenbosch e del Brabante. Negli ultimi anni del Quat- Storia dell’arte Einaudi 93 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo trocento l’artista figurava tra gli abitanti più facoltosi della città, anche se in verità i suoi beni erano in parte costituiti dal patrimonio dotale della moglie. Comunque Bosch seppe conquistarsi un nome anche come pittore, tanto che nel 1504 il duca Filippo il Bello gli commissionò un Giudizio Universale, forse un trittico. La stessa provenienza potrebbe avere un trittico di Sant’Antonio, donato nel 1505 da Filippo il Bello al padre Massimiliano; certo è che Bosch dipinse questo soggetto varie volte. Non sono più di venticinque le opere attualmente considerate autentiche e di mano di Bosch, tra cui spiccano un certo numero di trittici e di frammenti. Appare singolare che nessuna di queste opere possa essere messa in relazione con un incarico formale al pittore o che non se ne conosca la destinazione originaria. Anzi, i documenti d’archivio che riguardano le commesse affidate all’artista o il suo lavoro, contrastano in maniera stridente con le opere, in parte davvero bizzarre, conservate e attribuitegli. Dai libri contabili della confraternita di ’s-Hertogenbosch emerge che Bosch non dava affatto nell’occhio in città quale artista stravagante con idee poco ortodosse; al contrario, riceveva ogni tipo di incarichi eseguendoli con piena soddisfazione dei committenti. Come “confratello giurato”, che esercitava il mestiere di pittore, egli forniva inoltre consigli in caso di lavori commissionati ad altri artisti ed effettuava controlli sulle opere consegnate. Nel 1492-1493 l’artista progettò una vetrata dipinta, nel 1504-1505 un aiuto della sua bottega realizzò alcuni piccoli stemmi, nel 1511-1512 Bosch eseguì il disegno per una pianeta ricamata e nel 1512-1513 quello per un candelabro a corona. Sono probabilmente opera sua anche le ante esterne (scomparse) di una grande pala d’altare scolpita e dedicata a Maria, nella Cappella della confraternita nella chiesa di San Giovanni di ’s-Hertogenbosch. Storia dell’arte Einaudi 94 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo A partire dai primi anni del Cinquecento, l’interesse per l’opera di Hieronymus Bosch aumentò sensibilmente; apprezzati negli ambienti più colti, i suoi lavori così originali e sorprendenti furono imitati sia in incisioni che in dipinti. Secondo quanto attestato da una fonte spagnola del 1560 circa, già allora i suoi quadri venivano falsificati di proposito con un’accentuazione esasperata del suo stile: se ne fecero le imitazioni più fantasiose, mentre la produzione di Bosch stesso non mostrerebbe, ad eccezione delle scene dell’inferno e del purgatorio, “nulla di innaturale”! Se poste l’una a fianco all’altra, le opere attualmente reputate di Hieronymus Bosch si differenziano notevolmente quanto a carattere, tecnica, composizione e iconografia. Ricerche future chiariranno probabilmente che molte pitture in realtà non sono affatto autografe bensì copie, imitazioni o “genere” Bosch. Il piano di tavola con i Sette peccati capitali si trovava già intorno al 1560 in possesso del re di Spagna Filippo II, grande ammiratore delle opere di Bosch. Nel 1574 il re ne fece dono al suo convento dell’Escorial. Oggi l’opera è ritenuta da alcuni di mano dello stesso artista, da altri proveniente dalla sua bottega, mentre appare verosimile una datazione precoce al periodo 1480-1485. La tavola è costituita da cinque medaglioni. Il più grande, al centro, rappresenta l’occhio di Dio. Nella sua pupilla il Cristo come Ecce Homo sorge dalla tomba accompagnato dal testo “Cave cave Dominus videt” (“Fai attenzione, il Signore ti sorveglia”). Intorno a quest’Occhio Onniveggente sono stati raffigurati i sette peccati capitali. I cartigli al di sopra e al di sotto del medaglione centrale recano citazioni dal canto di Mosè (Deuteronomio 32, 28-29 e 20), che alludono alla fine dei tempi, che è rappresentata nei quattro angoli: la morte dell’uomo, il Giudizio Universale, l’Inferno e il Paradiso. Storia dell’arte Einaudi 95 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo La Cura della follia di Hieronymus Bosch al Museo del Prado (1481?) potrebbe effettivamente essere opera del maestro di ’s-Hertogenbosch, anche se appare ancor più probabile che si tratti di una copia accurata dipinta intorno al 1520 da un originale andato perduto. Non è da escludere, peraltro, che questa copia si trovasse nel 1521 nel castello di Wijk bij Duurstede in possesso del vescovo di Utrecht Filippo di Borgogna, ultimo dei figli illegittimi del duca Filippo il Buono. Le descrizioni relative a quel dipinto corrispondono con precisione alla Cura della follia conservata al Prado; è comunque altrettanto possibile che già in quel periodo circolassero più copie pressoché identiche. L’originale dipinto a ’s-Hertogenbosch, probabilmente nel 1481, riscosse molto successo e fu imitato nel Cinquecento con decine e decine di copie più o meno libere e anche molto più tardi vi furono pittori dei Paesi Bassi che scelsero questo tema, ad esempio Rembrandt nel 1625 circa e perfino James Ensor nel 1892. Sulla tavola rettangolare, al di sopra e al di sotto del medaglione, è riportato in bella calligrafia un testo di due righe: “Meester snijt die keye ras” “Myne name is lubbert das” che tradotte significano più o meno: “Maestro, cava fuori la pietra (della follia)” “Il mio nome è lubbert das” (lubbert das, letteralmente significa bassotto castrato, vale a dire persona ingannata, sempliciotto). I caratteri ridondanti e tipicamente borgognoni con le loro sinuose decorazioni intrecciate sono oltremodo singolari specialmente per il modo in cui incorniciano la parte centrale della tavola. Nel medaglione, sullo sfondo di un ampio paesaggio, è raffigurato un corpulento paziente, semisdraiato su una sedia, sottoposto ad un’operazione alla testa da un chirurgo che estrae dal suo capo un fiore. L’intervento è seguito da un monaco con un boccale di peltro tra le mani nonché da una suora con un libro chiuso sulla testa. Si tratta di una scena assur- Storia dell’arte Einaudi 96 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo da: il chirurgo porta un imbuto sul capo e appesa alla cintura una brocca. Una piccola insegna sulla sua spalla destra riproduce un fiore con riferimento al suo mestiere, keisnijder, dove la parola “kei” poteva significare oltre che “pietra” anche “fiore”. L’estrazione della pietra della follia non era un’operazione seria, fatto che viene ancora ribadito da questo gioco di parole. Il dipinto raffigura dunque una scena burlesca. Nel 1481 nella chiesa di San Giovanni di ’s-Hertogenbosch si svolse il quattordicesimo Capitolo del Toson d’Oro, l’assemblea dell’ordine cavalleresco borgognone. In occasione di questa adunanza, il coro della chiesa venne decorato con trentasei tavole con stemmi e testi che si riferivano ai cavalieri del Toson d’Oro dell’epoca. Massimiliano d’Asburgo presiedeva l’assemblea durante la quale il giovanissimo Filippo il Bello venne nominato cavaliere. Le insegne con l’arme dei cavalieri del Toson d’Oro furono dipinte, seguendo un modello caratteristico e codificato, dal pittore di corte borgognone Pierre Coustain: su uno sfondo scuro lo scudo araldico multicolore, circondato dalla catena del Toson d’Oro e tutt’intorno ondeggianti drappi dorati, il nome e i titoli scritti con esuberanti caratteri decorativi. Bosch ebbe certamente modo di vedere di persona queste pitture borgognone nel coro della chiesa, ma anche fuori di questa, considerato che per umiliare un cavaliere espulso dall’Ordine per tradimento, il suo stemma venne esposto in posizione capovolta su uno dei portali della chiesa al cospetto di tutti i cittadini. L’analogia formale fra la Cura della follia e questi stemmi non può essere casuale. Forse la tavola è il frutto della collaborazione tra Pierre Coustain e Hieronymus Bosch, ciascuno con l’apporto delle proprie specifiche competenze: Bosch eseguì la sorprendente scena centrale e Coustain il testo scritto. Il tempo a disposizione non mancava, giacché era consuetudine che il pittore di corte Storia dell’arte Einaudi 97 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo si recasse sul luogo per collocare gli stemmi e rimanesse sul posto durante l’assemblea capitolare per eventuali modifiche delle insegne e delle scritte. In tal caso la prima Cura della follia sarebbe stata dipinta nell’aprile o nel maggio del 1481. Un’altra ipotesi è che Bosch, ispirato dagli stemmi dei cavalieri del Toson d’Oro, fece propria questa tipica ornamentazione dei caratteri, dipingendo quindi l’intera tavola. In tal caso il Capitolo di ’s-Hertogenbosch costituisce il terminus post quem per la Cura della follia, che avrebbe quindi visto la luce nel corso del 1481. La scena non può essere che una satira del mondo che circondava il Capitolo del Toson d’Oro con i suoi rituali relativi agli stemmi oppure, più probabilmente, una messa in berlina di uno dei Cavalieri del Toson d’Oro. Il vescovo Filippo, Bastardo di Borgogna, che possiamo supporre presente a ’s-Hertogenbosch nel 1481, con la corte di Bruxelles al seguito, era certamente al corrente di queste allusioni tanto che quarant’anni dopo appese il dipinto nella sala da pranzo della sua residenza a Wijk bij Duurstede. Passiamo ora ad analizzare un’altra opera di Bosch. Contrariamente all’l’opinione corrente, la tavola del Venditore ambulante non nasce come quadro di forma rotonda o poligonale. La maggior parte delle interpretazioni muove invece da tale assunto, il che genera ovviamente seri malintesi. Nell’ambito della presente panoramica sulla pittura primitiva nederlandese la preferenza è andata sempre alle opere d’arte che potevano considerarsi esemplari sia per contenuto, iconografia e stile sia per forma, funzione e apprezzamento. Ebbene, con il Venditore ambulante, a torto più noto come il Figliol prodigo, si intende illustrare in maniera significativa come un’opera d’arte una volta modificata possa condurre una nuova vita e svolgere spesso come tale perfino un ruolo di rilievo nell’opera dell’artista. Una serie di osservazioni, risultato di recenti ricerche Storia dell’arte Einaudi 98 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo molto accurate, offrono un’immagine dell’affascinante tavola, radicalmente diversa da quella che si ha a prima vista. Già durante il restauro del 1931 venne constatato che la forma ottagonale non era quella originaria, ma che gli angoli furono eliminati in un secondo momento. Per di più la tavola venne segata in due nel senso dello spessore, cosicché la parte anteriore e quella posteriore furono separate. In tal modo la tavola risulta attualmente formata da quattro assi sottili congiunti l’uno all’altro in verticale. A loro volta i due assi centrali formavano un tempo un’unica tavola, tagliata poi in due quando il dipinto venne diviso in due metà perfette. Si ignora quando la divisione ebbe luogo, però vi è chi suggerisce che questa potrebbe essere coeva al taglio del dipinto nel senso dello spessore, forse tecnicamente non realizzabile in altro modo. L’ipotesi pare altamente improbabile in quanto la scelta sarebbe caduta piuttosto sulla divisione lungo i tre assi, le cui due commettiture si delineavano già attraverso gli strati di mestica e di colore. È impossibile che il nudo legno di quercia, oggi visibile intorno al medaglione, sia stato a vista sin dall’origine come è d’altronde impossibile che intorno al tondo vi fosse una cornice ottagonale a ricoprire il bordo, per il semplice motivo che intorno al 1500 non esisteva ancora questo tipo di quadro, diffusosi soltanto nel secondo quarto del Seicento. Tutto ciò induce a concludere che Hieronymus Bosch realizzò il Venditore ambulante quale tavola esterna dell’anta di una pala. Può darsi che il tondo fosse circondato da una pittura monocroma: analizzando al microscopio il bordo del medaglione potrà forse ancora essere rintracciato perfino il colore di tale pittura. La divisione in due della scena e anche del personaggio principale sembra inverosimile ma trova il suo esatto parallelo sull’esterno delle ante del Trittico del fieno conservato al Prado. Bosch inoltre effettuò quest’operazione Storia dell’arte Einaudi 99 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo varie volte, come risulta fra l’altro dalla Messa di San Gregorio in grisaglia sull’esterno del trittico con l’Adorazione dei Magi al Prado. Il tondo con il Venditore ambulante ebbe origine dunque dallo smembramento di un trittico, separando le parti l’interne da quelle esterne delle ante e ricongiungendo tra loro il lato esterno sinistro e quello destro. Alla luce della larghezza dell’attuale tavola, appare meno verosimile che fosse l’esterno di una sola anta di trittico. Il supporto ligneo di quercia di questo dipinto, sottoposto ad analisi dendrocronologiche, risultò essere il legno dello stesso albero che Bosch usò per la Morte di un avaro (Washington, National Gallery), opera che al pari della prima non fu realizzata prima del 1502. Anche l’analisi dei disegni preparatori evidenzia che il Venditore ambulante, la Morte di un avaro e inoltre la Nave dei folli (metà superiore a Parigi, Musée du Louvre; metà inferiore a New Haven, Yale University Art Gallery) hanno un impianto analogo e risalgono molto probabilmente allo stesso periodo. Anche la combinazione dei colori, sobria e misurata, poco più che una grisaglia, è in armonia con quanto detto. Viene subito da pensare che questo trittico smembrato (scomparto centrale 60-65 cm circa) fosse una variante di minori dimensioni del Trittico del fieno (scomparto centrale 135 x 100 cm, ante 45 cm di larghezza). In tal caso il Venditore ambulante non forma più un tema a se stante bensì l’introduzione alla scena principale del trittico aperto. Comunque lo si voglia chiarire ulteriormente, esso rappresenta l’homo viator, il viandante, l’uomo sul sentiero della sua vita. Minacciato da pericoli e tentazioni, egli deve continuare il cammino lungo una via spesso stretta o accidentata e irta di ostacoli. Il tema ricorre fin nei minimi dettagli, come ad esempio nella scenetta del gufo sull’albero che adesca la piccola cinciallegra più in basso. Nel caso del Trittico del fieno, l’homo viator che procede per la sua strada igno- Storia dell’arte Einaudi 100 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo rando piaceri e violenze, introduce il grandioso tema del Bene e del Male: sulla terra, sotto gli occhi di Dio, si svolge la vita peccaminosa degli uomini, vita che origina dal Paradiso terrestre, creato da Dio e raffigurato sull’anta sinistra, e che finirà nell’inferno, anch’esso creato da Dio e raffigurato sull’anta destra. Tra le opere più affascinanti nell’ambito di quelle maggiori di Bosch, figura senz’altro il trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio conservato a Lisbona (1505-1510 circa). La grande considerazione di cui godette la pala sin dagli inizi del Cinquecento è testimoniata in primo luogo dal gran numero – una ventina almeno – di imitazioni e di copie che ci sono pervenute. Già nel secondo quarto del Cinquecento, questo trittico, o un trittico simile raffigurante sant’Antonio, entrò in possesso di un pittore portoghese inviato a soggiornare nei Paesi Bassi per conto del re Juan II del Portogallo, mentre nel 1574 una “tentación de Sant Anton de mano de Gerónimo Bosque” si trovava all’Escorial e il re Filippo II di Spagna ne possedeva altri due esemplari; non è chiaro, tuttavia, se il trittico in esame sia da identificarsi con uno di questi esemplari o se si tratti di un altro ancora. Il tema centrale del trittico è l’intercessione di sant’Antonio, eremita di eccelsa fermezza nella fede cristiana. A battenti chiusi il trittico presenta la Cattura di Cristo e la Salita al Calvario, dipinte a grisaglie bruno-grigiastre. Gli episodi principali delle due scene sono piuttosto arretrati sullo sfondo. Per effetto dell’orizzonte alto, l’esteso paesaggio risulta molto profondo e con un grande proscenio dove si svolgono vicende parallele alla scena principale. All’interno, per l’intera larghezza del trittico, Bosch ha dipinto la medesima linea alta dell’orizzonte, creando anche in questo caso un proscenio abbastanza ampio che avvicina lo spettatore. Le due scene della Passione sull’esterno delle ante non sono seguite, nella parte interna, dalla Crocifissione e dalla Storia dell’arte Einaudi 101 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo Resurrezione di Cristo, bensì da sant’Antonio esposto alle tentazioni. Il santo genuflesso in preghiera è collocato in modo che il suo viso segna l’esatto centro del trittico in posizione aperta. Egli è l’unico fra tutti gli uomini e gli esseri mostruosi che popolano il trittico, a guardare dritto negli occhi l’osservatore. Circuito da tentazioni raffigurate in modo bizzarro e fantastico, il santo eremita, che stava fissando il crocifisso nella rovina alle sue spalle, si è voltato brevemente per indicare con la destra benedicente quel crocifisso al credente che osserva il trittico. Nello stesso momento e alla stessa maniera il Cristo, apparso nella nicchia buia accanto al crocifisso, indica l’immagine al santo. In tal modo il Cristo crocifisso resta comunque l’elemento figurativo principale del trittico aperto e la Crocifissione si configura come continuazione diretta e logica delle due scene all’esterno delle ante. Nella scena della tavola centrale soltanto sant’Antonio che prega è rappresentato in modo “realistico”. Il crocifisso è collocato in un edificio in rovina, decorato con riferimenti veterotestamentari alla Redenzione che verrà, sia pure non senza difficoltà e privazioni. Mosè riceve la prima volta le tavole della Legge mentre i Giudei adorano il vitello d’oro e gli inviati nella terra promessa fanno ritorno con un grandissimo grappolo d’uva. Quasi tutti gli altri elementi figurativi sono simili a visioni e rappresentano le tentazioni e le privazioni di sant’Antonio. Il complesso degli edifici in fiamme non è il convento del santo bensì, più in generale, la dimora terrena dell’uomo: come Antonio Abate era assediato da seduzioni diaboliche, dalle quali non si lasciò tuttavia fuorviare, così l’intera cristianità viene messa alla prova. Le ante laterali raffigurano scene fantastiche tratte dalla leggenda di sant’Antonio, a sinistra il Santo viene sollevato in aria da esseri mostruosi, al di sopra delle miserie terrene, e a destra l’eremita che non appe- Storia dell’arte Einaudi 102 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo na distoglie lo sguardo dalle tentazioni della carne viene immediatamente confrontato con altre tentazioni. Il santo che, come intercessore e modello, ha un ruolo centrale nel trittico, è chiaramente individuabile in ognuno dei tre pannelli: sulle ante porta un ampio mantello sopra il saio grigio, nella scena centrale indossa una tonaca grigio scuro mentre in tutti e tre i casi sulla sua veste è appuntato un segno di riconoscimento, la Croce di Sant’Antonio. Le interpretazioni avanzate circa i numerosi dettagli del trittico sono – come sempre nelle opere di Bosch – talvolta sensate ma spesso anche troppo ricercate. Chiarimenti e spiegazioni dettagliate, anche del particolare minimo, sono certo necessarie e utili ma più importante ancora è il significato nel suo insieme, il messaggio dell’intera opera. Infatti la forza artistica del pittore si esprime magari con più immediatezza nel coacervo degli innumerevoli dettagli intriganti, ma la sua essenza è malgrado ciò nell’insieme. Nel trittico di Sant’Antonio, Bosch sa cogliere il nucleo teologico attraverso una costruzione ottica molto raffinata entro un caos ordinato gremito di elementi figurativi. Le scene monocrome della Passione sull’esterno delle ante, sono state ridimensionate a piccoli panorami. Aprendo il trittico, il formato diviene notevolmente più grande: le ante raddoppiano le dimensioni offrono un’immagine più ampia: una moltitudine di colori e di visioni. Tuttavia, ciò che è davvero rilevante, l’elemento figurativo essenziale, l’atteso seguito delle scene della Passione, è raffigurato nell’insieme più vasto come dettaglio infinitesimale che rifulge nel buio: il Cristo crocifisso. Sant’Antonio come maestro e modello, ma anche come intercessore, deve aiutare l’uomo a trovare il Salvatore. L’ipotesi che il trittico sia stato concepito in origine per un ospedale diretto dagli antoniani oppure dedicato allo stesso santo, è rafforzata dall’interpretazione qui Storia dell’arte Einaudi 103 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo proposta. Infatti, il trittico si riallaccia perfettamente al contenuto delle due pale d’ospedale di Rogier van der Weyden e di Hans Memling esaminate in precedenza. La tradizione viene continuata: a Beaune il Giudizio Universale è rappresentato in combinazione con la Deësis – l’intercessione di Maria e di san Giovanni Battista –, i santi patroni Antonio e Sebastiano, nonché l’Annunziata e l’Arcangelo Gabriele sono dipinti come statue sulla parte esterna del polittico; a Bruges anche la Venuta e la Seconda Venuta del Salvatore – predette dai due san Giovanni, qui anche patroni dell’ospedale – hanno un posto centrale; Bosch infine colloca sant’Antonio fra l’uomo e il suo Salvatore. Nel 1517, anno in cui Martin Lutero affisse i suoi proclami sul portale della chiesa di Wittenberg, Erasmo da Rotterdam si fece ritrarre con un amico, il segretario comunale di Anversa Pieter Gillis. Già a quell’epoca il sacerdote, scienziato e umanista Erasmo (14691536), di fama ormai internazionale, aveva assunto una posizione moderatamente critica nei confronti della vecchia chiesa cattolica e da questa non si discostò fino alla morte avvenuta a Basilea nel 1536: a suo parere molte tradizioni e usanze medievali dovevano essere corrette, comunque esclusivamente attraverso una riforma interna della chiesa e non già attraverso uno scisma. Erasmo si rendeva ben conto di quanto fosse preziosa la tradizione tramandata dal medioevo, alla quale egli stesso e i suoi contemporanei si ispiravano. L’anno 1517 fu per Erasmo di importanza capitale. Lutero prese apertamente e violentemente posizione, la disputa che covava divampò. Cambiamenti radicali interessarono anche Erasmo personalmente, prova ne siano i ritratti che da allora in poi si fece fare. Nel 1517 papa Leone X concesse ad Erasmo la dispensa e con ciò i rapporti di questi con il convento Steyn presso Gouda furono formalmente interrotti; quel che più contava è che Storia dell’arte Einaudi 104 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo ora l’umanista poteva muoversi liberamente attraverso l’Europa, secondo il proprio intendimento, e inoltre non era più tenuto a indossare l’abito talare e aveva la facoltà di conseguire un proprio reddito amministrando i propri beni. Inoltre sempre in quell’anno, il papa legittimò la nascita di Erasmo, il cui padre era un uomo di chiesa. Così per la prima volta nel 1517 Erasmo poté farsi fare un ritratto, pagarlo e donarlo, com’era in voga all’epoca negli ambienti che lo zelante teologo frequentava: i prìncipi rinascimentali, l’élite nobiliare e quella borghese di eruditi ed artisti amavano scambiarsi i ritratti, dipinti su formato più o meno grande, oppure fusi come piccole medaglie o ancora sotto forma di stampe. Anche Erasmo si sarebbe servito di questi tre mezzi d’espressione artistica. Nel 1520 si fece ritrarre dal grande artista tedesco Albrecht Dürer, il quale nel 1526 eseguì anche una sua incisione; il primo a fare un ritratto dell’umanista, però, fu nel 1517 Quentin Metsys, che due anni dopo realizzò anche un ritratto su medaglia che Erasmo fece fondere alcune volte in più copie. Hans Holbein infine dipinse tutta una serie di piccoli tondi nonché tavole di maggiori dimensioni con l’effigie di Erasmo talvolta associata con elementi iconici simbolici ed eruditi, ma recanti spesso anche il solo busto del dotto teologo oppure il suo volto. Il Doppio ritratto di Erasmo e di Pieter Gillis del 1517 occupa nell’ambito di questi incarichi un posto speciale. Erasmo lo commissionò per farne dono, insieme a Gillis, all’umanista inglese Tommaso Moro (1478-1535). Entrambi erano legati da profonda amicizia a Moro e grazie ai loro ritratti sarebbero stati con lui per sempre e non, come il destino in terra aveva stabilito, per un periodo di tempo limitato e fugace, anche se pieno di felicità. Erasmo e Pieter Gillis sono raffigurati in un semplice studio, dinanzi a un tavolo di lavoro, uno di fronte all’altro. Erasmo sta scrivendo in un grosso quaderno; Gillis tiene Storia dell’arte Einaudi 105 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo nella mano sinistra una lettera ricevuta da Tommaso Moro, indicando con la destra il libro gli Antibarbari, in cui Erasmo aveva descritto la pacifica e armoniosa atmosfera che aveva conosciuto soggiornando da Moro. Nascono così due livelli di comunicazione: il primo, interno al dittico, il secondo al di fuori dello stesso. La prima triangolazione è formata da Gillis, Erasmo e la lettera di Moro. La seconda, e con essa il capolavoro nel suo insieme, si completa soltanto nel momento in cui Tommaso Moro si trova dinanzi al doppio ritratto; i tre amici saranno allora l’uno di fronte all’altro e la separazione degli spiriti è scongiurata. Le lettere tuttora conservate, che Tommaso Moro inviò per ringraziare i suoi amici nei Paesi Bassi, confermano quest’interpretazione, ed è proprio questa l’idea sottesa al doppio ritratto. Moro ringraziò in dotti versi e portò il gioco ancora oltre, dando la parola al doppio ritratto e a se stesso e profondendosi in complimenti all’indirizzo dei due amici ritratti e anche dell’artista. Al contempo, però, chiese ad Erasmo la restituzione della lettera a suo tempo spedita a Gillis, e raffigurata in maniera eccelsa da Quentin Metsys nelle mani dello stesso, poiché solo mettendo quella missiva davanti al dittico, il gioco era completo. Con questo doppio ritratto, Metsys ha realizzato, senza dubbio in stretto dialogo con Erasmo o, più verosimilmente, su progetto dello stesso, un’opera d’arte che segna magnificamente la fine della tradizione medievale. Nel suo Dittico di Maarten van Nieuwenhove, Hans Memling aveva già accorciato le distanze tra l’osservatore e il donatore e la visione della Madre di Dio col Bambino. Quentin Metsys ed Erasmo andarono oltre: al centro dell’opera ormai vi è l’uomo del Rinascimento con le sue grandi capacità intellettuali che dialoga in un mutuo scambio di conoscenze con il suo simile. E non solo, l’opera d’arte era completa soltanto in Storia dell’arte Einaudi 106 Jos Koldeweij Gli anonimi e i grandi maestri del xv secolo presenza dello spettatore, non in quanto osservatore ma in quanto interlocutore nel dialogo. In prima istanza, dunque, era rivolto alla persona cui era destinato il doppio ritratto e che lo aveva ricevuto in dono e, in seconda istanza, ad ogni essere umano che desideri prendere parte al gioco intellettuale. Storia dell’arte Einaudi 107