Il maiale La conservazione della carne

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Il maiale La conservazione della carne
Il maiale
La conservazione della carne
Il maiale è uno degli animali più utili all’uomo. Esso si adatta a vivere in qualunque ambiente, è docile,
onnivoro, non ha bisogno di particolari cure per essere allevato e la sua carne, specialmente se
trasformata in prosciutti, ventresche, insaccati, è di sapore eccellente, praticamente insostituibile. La
nostra civiltà deve molto ai suini perché anche nei periodi di vacche magre essi hanno sempre offerto di
che vivere all’uomo. Sarebbe bene non dimenticare mai i servigi resi all’umanità da questi animali,
soprattutto in tempi in cui la presenza di fedeli musulmani tra di noi spinge molte anime candide,
politicamente corrette, a metterne al bando la carne, a cominciare dalle mense scolastiche.
La vita di un maiale si sviluppa nell’arco di un anno. Durante questo periodo esso passa da pochi
chilogrammi a 120-150 e oltre. Una volta nelle campagne, ma anche nei piccoli centri, non c’era famiglia
che non ne allevasse almeno uno. C’era anche chi dell’allevamento dei suini faceva una professione. Nei
monti Lepini si dedicavano a questa attività diverse famiglie di Carpineto e Bassiano. Molti bassianesi
erano presenti anche nell’Agro Pontino, in particolare nelle zone della macchia di Terracina. Erano gli
abitanti delle lestre, o lestraioli, che furono spazzati via dalla bonifica integrale del Ventennio fascista.
Questi allevatori, detti porcari, possedevano branchi di maiali che vivevano allo stato semibrado.
Durante il giorno essi razzolavano liberamente nei boschi cibandosi di erba, ghiande, bacche, tuberi,
radici, frutti vari. Al calar del sole i porcari suonavano un corno di bufalo o di bue e i maiali, a quel
suono, accorrevano intorno a loro che, nella porcareccia (una capanna, una baracca o un semplice stazzo),
li alimentavano con una pappa fatta di crusca di grano o farina di granturco. Durante la notte i suini
dormivano in quei ricoveri e il giorno dopo tornavano lentamente a razzolare nei boschi. Ogni anno,
all’arrivo dei primi freddi, tutti i maiali del branco venivano avviati al macello e nuovi maialini, partoriti
dalle scrofe che ogni buon allevatore si premuniva di avere, prendevano il loro posto per essere
cresciuti e venduti nell’inverno successivo. L’allevamento dei maiali in cattività era soggetto a regole
diverse. In genere ogni famiglia acquistava uno-due maialini (porcellitti) nel mese di ottobre. Nella zona
di Sezze l’occasione propizia per fare tale acquisto era la fiera di San Luca che tuttora si tiene nel centro
lepino il 18 ottobre di ogni anno. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso essa era anche una grande
fiera di animali. Nell’acquistare il piccolo suino si faceva attenzione alle sue caratteristiche fisiche. Esso
non doveva essere di pastora corta. In altri termini doveva avere le gambe alte e slanciate, segni
inconfondibili di salute e di buona predisposizione alla crescita e all’acquisizione di un notevole peso. Il
maialino con le gambe corte (pastora corta), invece, non dava certezze di buona riuscita, con conseguenze
negative sui futuri ricavi. I porcellitti, legati con una cordicella (funiceglio), venivano portati nella nuova
dimora e messi all’interno di una piccola capanna, nella quale era stato sistemato un giaciglio fatto
rigorosamente di paglia di grano, la più adatta per l’igiene e la salute del piccolo. Dopo alcune settimane
i maialini venivano sottoposti ad un delicato intervento chirurgico: la castrazione. Per i maschi
l’operazione era piuttosto semplice e poteva essere effettuata anche da praticoni. Per le femmine si
richiedeva invece l’intervento di persone specializzate, dette crastaporcelle. Costoro percorrevano le
campagne e, dietro un modesto compenso, esercitavano la loro arte. La castrazione veniva e viene
praticata sui maiali per ottenerne una più rapida crescita e carne di qualità migliore. Dopo l’intervento
occorrevano alcuni giorni perché la ferita si rimarginasse e l’animale fosse completamente guarito. In
alcuni casi, però, potevano insorgere complicazioni fino a provocare il decesso del maialino.
Durante i mesi più freddi dell’inverno il maiale restava all’interno della piccola capanna. Quando il
tempo cominciava ad essere meno rigido, esso veniva portato all’aperto. In alcuni casi era lasciato libero
all’interno di un piccolo recinto, più spesso veniva legato a un piede anteriore con una corda lunga trequattro metri, la quale, a sua volta, era ancorata ad un palo (zaccone) alto non più di un metro. Di norma,
a ridosso del vertice del palo veniva lasciato uno spuntone rivolto verso il basso. L’accorgimento
serviva a evitare che il maiale sfilasse con la bocca la fune dal palo e, recuperata la libertà, provocasse
danni sui terreni circostanti. Di tanto in tanto il palo veniva spostato, ma lo spazio di cui l’animale
poteva disporre era comunque limitato perché la terra era riservata alle colture e non poteva essere
“sprecata” per far razzolare un porco. Nel poco spazio disponibile il maiale scavava buche per trovare
radici e terreno fresco su cui rotolarsi e coprirsi di fango. In questo modo controllava la propria
temperatura corporea e si difendeva dai parassiti e dagli insetti. Per evitare che la fune si arrotolasse a
causa dei vari movimenti del maiale, si ricorreva a uno strumento molto semplice, chiamato in dialetto
treneglio. (Si tratta di un rocchetto ricavato da un pezzo di legno lungo una ventina di centimetri e
adattato a forma di un otto. Esso viene collocato più o meno a metà della corda alla quale è legato
l’animale). Se il porco era lasciato libero di razzolare in spazi più ampi, per impedirgli di arrecare danni
con la sua attività di scavo, si ricorreva ad un altro espediente. Si applicavano sulle sue potenti froge due
punti di filo di ferro che, provocando dolore all’impatto con il terreno, inducevano il povero animale a
non caugliare (scavare). In alcuni casi il maiale veniva abituato a seguire i proprietari che potevano
spostarsi per lavoro su diversi appezzamenti di terreno, tra di essi distanti anche qualche Km. In questo
modo esso aveva l’opportunità di trovare cibo tra prati e boschi. I suini sono esseri intelligenti e
socievoli e si affezionano all’uomo. Per ottenere la sua obbedienza si seguiva un metodo rudimentale
ma efficace. Bastava che il proprietario del maiale orinasse una sola volta sulla sua testa che esso ne
seguisse le orme con la fedeltà di un cane. Quando il maiale era destinato alla vendita, a partire
dall’ultima decade di agosto veniva rinchiuso in una piccola capanna di tre-quattro metri quadrati e
messo all’ingrasso. La capanna, detta mandriglio, è una costruzione rettangolare realizzata con pali di
castagno alti un paio di metri e coperta di paglia o di lamiere. Ha un pavimento sollevato da terra circa
25 cm, fatto anch’esso con pali di castagno. Ciò al fine di ottenere un facile scolo delle deiezioni e
mantenere l’ambiente sufficientemente pulito e asciutto. Altri pali posti orizzontalmente e inchiodati su
quelli verticali costituiscono le barriere all’interno delle quali era costretto a vivere il maiale. Per circa
due mesi esso doveva solo mangiare e dormire e, soprattutto, accumulare quanto più peso e grasso
possibili (l’animale magro una volta non aveva mercato). Per raggiungere questi risultati si dava alla
bestia cibo in abbondanza: papponi di crusca e farina di granturco, frutta, zucche, castagne, ghianda
etc… Il cibo veniva depositato nello scifo (dal greco skyphos), un contenitore ricavato da un tronco di
faggio o di quercia opportunamente incavato e ancorato all’interno del mandriglio.
L’appuntamento
che attendeva il suino era sempre quello del 18 ottobre. In quel giorno, infatti, esso veniva ricondotto
alla fiera di San Luca (si diceva proprio così: “Riportiamo il maiale a Sezze”) per essere venduto al
miglior prezzo possibile. Quasi sempre erano le donne che si facevano carico di questa incombenza.
All’alba del 18 ottobre, a piccoli gruppi, e ognuna con il proprio maiale legato con la solita fune al
piede, si avviavano, in genere a piedi, talvolta con il carretto, verso il luogo dove si teneva la fiera. Qui
trovavano tanti altri animali in vendita, ma anche parecchi commercianti pronti a comprare. Con il
danaro ricavato acquistavano un altro porcellitto e facevano diverse spese per la famiglia.
Poteva anche capitare di non vendere il maiale per motivi diversi. Allora, a malincuore, l’animale veniva
ricondotto nel mandriglio in attesa che macellai locali si facessero avanti per acquistarlo. Si diceva, in
questi casi, che era destinato alle ultime carni. Non era sempre facile venderlo perché i macellai
facevano spesso cartello tra di loro costringendo l’allevatore a cederlo al prezzo che essi imponevano.
Si soleva dire in questi casi che l’animale era stato piombato. Ogni nuovo acquirente che si presentava,
proponeva lo stesso prezzo del precedente, non un soldo di più. Fenomeni simili accadevano anche per
gli altri animali, mucche, pecore, capre etc… Se il maiale era destinato, invece, al consumo domestico,
il trasferimento nel mandriglio avveniva nelle prime settimane di ottobre. In questo caso i due mesi di
cura per l’ingrasso scadevano a dicembre, in coincidenza con l’arrivo dei primi freddi intensi che
favoriscono la conservazione delle carni. In questo periodo l’alimentazione dell’animale era basata
prevalentemente sulla ghianda e sulle castagne. Uomini, donne e bambini, nei mesi di ottobrenovembre, sciamavano nei boschi a raccogliere questi frutti di cui i suini sono particolarmente ghiotti.
E’ superfluo dire che la carne ricavata da maiali ingrassati con questi alimenti ha un sapore di cui oggi si
sono perse le tracce. Va anche detto, però, che le razze allevate nel passato erano molto diverse da
quelle di oggi.
L’uccisione del maiale era una festa. Bisognava preparare con largo anticipo il materiale occorrente per
l’occasione e “pagare il dazio”, una tassa sull’operazione che si stava per compiere. Si preparavano: una
pedana su cui sacrificare l’animale, un uncino di ferro, coltelli ben affilati, legna e recipienti adeguati per
disporre di abbondante acqua calda, tre - quattro fasci di canne ben secche (’nzanze), necessarie a
bruciare le setole del maiale, una corda, il cosciale ed altre piccole cose. Il giorno prima dell’uccisione il
porco non veniva alimentato affinché il suo intestino fosse sgombro da feci. Il dì seguente, di buon
mattino, l’animale veniva fatto uscire dal mandriglio e portato sulla pedana. Almeno quattro uomini lo
legavano e lo posizionavano su un fianco, un altro gli assestava una coltellata alla gola fino a recidergli la
giugulare. La morte del povero animale avveniva in qualche minuto, mentre un grande fiotto di sangue
usciva dalla ferita, che una donna si premuniva di raccoglier in un recipiente. Esso veniva utilizzato per
fare uno squisito sanguinaccio.
Dopo che il maiale era spirato, si accendeva la prima ’nzanza e con la sua fiamma si bruciavano le setole.
Subito dopo con un coltello affilato si rimuovevano i residui di setole e la pelle superficiale fino a far
emergere la cotica. Finito questo lavoro su tutto il corpo, si prendeva il cosciale. Esso veniva inserito tra
i tendini delle due gambe posteriori e legato ad una fune. Poi con l’aiuto di una carrucola il porco
veniva sollevato e ancorato ad una trave con la testa rivolta verso il basso. Con acqua bollente veniva
accuratamente lavato e, finalmente, era pronto per essere aperto. Si estraevano le budella e tutte le
interiora. Le budella venivano pulite, liberate dal grasso, lavate e conservate per insaccarvi la carne
destinata alle salsicce. Il fegato veniva messo a disposizione del veterinario comunale. Questi ne
prelevava piccoli pezzi e li sottoponeva ad analisi. Se l’animale non presentava malattie pericolose per la
salute dell’uomo (il responso del veterinario arrivava nel giro di 24 ore), esso poteva essere mangiato. In
caso contrario era necessario bruciarlo o sotterrarlo. In realtà raramente si attendeva il responso del
veterinario. La canosia (voglia irrefrenabile) di farsi una bella padellaccia di fritto era troppo forte. Si è detto
che l’uccisione del maiale era una festa, e festa doveva essere. Il fegato, quindi, e le interiora venivano
subito cucinati e consumati insieme a chi aveva dato una mano nel sacrificare l’animale. In queste
occasioni il vino scorreva a fiumi anche perché spesso si esagerava volutamente nell’uso del
peperoncino Per avere una buona conservazione della carne occorre che il clima sia freddo e secco. Per
questo nelle nostre zone il periodo migliore per ammazzare il maiale comincia agli inizi di dicembre.
L’animale, una volta aperto, veniva lasciato per almeno 36 - 48 ore all’addiaccio, per la frollatura della
carne. Successivamente si procedeva al suo sezionamento. Si facevano prosciutti, ventresche, guanciali,
lardi, lonze, braciole, salsicce. Dal grasso, tagliato in piccoli pezzi e fuso, si ricavava lo strutto. La parte
residua e abbrustolita dei pezzi (cigole, ciccioli o cutezie) veniva mangiata o utilizzata per farne sapori
calzoni (calascioni). La testa, le ossa con frammenti di carne e le cotiche, dopo lunga bollitura, venivano
utilizzate per confezionare la coppa. Anche i piedi erano conservati per dare sapore a gustose zuppe.
Insomma del maiale, come si dice, non si butta proprio nulla.
Finite queste operazioni, era doveroso regalare almeno due braciole alle famiglie vicine e ai parenti più
stretti perché “i porco è bono n’ anno ma i cristiano è bono sempre”. Questi omaggi potevano essere o meno
ricambiati a seconda delle condizioni delle famiglie. La conservazione dei prosciutti e dell’altra carne del
maiale richiede prima di tutto un’accurata salatura. I vari pezzi sezionati devono restare almeno dieci
giorni sotto sale o meglio di una salsa fatta di sale, pepe, peperoncino, vino e rosmarino.
Successivamente i prosciutti, in particolare, vanno messi per altri dieci - quindici giorni sotto alcuni pesi
per essere compressi. Dopo circa un mese si toglie il sale, si lavano i singoli pezzi sezionati, si asciugano
accuratamente, e si cospargono di pepe e peperoncino. Finalmente sono pronti per l’essiccazione,
possibilmente in una capanna. In questo luogo il fumo conferisce al prosciutto e alla carne di maiale un
profumo e un sapore eccezionali. Durante la stagionatura bisogna vigilare attentamente sui prosciutti i
quali possono essere attaccati da alcuni tipi di mosche che vi depositano uova. In questi casi, bisogna
intervenire subito con rimedi vari per evitare che le uova si trasformino in vermi voraci, capaci di
distruggere un alimento tanto buono. Nel mese di maggio le ventresche, il guanciale e i prosciutti si
possono cominciare a mangiare. Si dice, infatti, che “quando canta i cucculo lo prosutto è bono crudo e agli
finucchio ci puzza i culo”. In altre parole, con l’approssimarsi della bella stagione, i prosciutti, avendo
raggiunto una sufficiente stagionatura, sono pronti per il consumo. Nel passato ciò consentiva di poter
abbandonare le erbe selvatiche di cui i contadini si erano in abbondanza cibati nei mesi precedenti.
Oggi, nelle nostre campagne quasi più nessuno alleva più i maiali, ma neanche altri animali per la verità.
Nello stesso tempo sono andate perdute conoscenze e competenze preziose. Non credo che tutto ciò
sia un bene per la qualità della vita dei nostri discendenti.
Aldo Orsini