l`amore al centro - Comunità Pastorale S.Paolo Apostolo Senago
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l`amore al centro - Comunità Pastorale S.Paolo Apostolo Senago
Verso il Proposte Sinodo 2015 l’ amore al centro L a frequentazione assidua delle opere di san Tommaso d’Aquino ha fatto emergere alcuni elementi della sua concezione del matrimonio che possono essere utili all’esame della pratica che regola oggi l’accesso alla comunione eucaristica di divorziati risposati, stabilita nel n. 84 di Familiaris consortio (FC), nel n. 29 di Sacramentum caritatis (SC) e in alcuni documenti connessi. San Tommaso insiste nell’affermare che il matrimonio ha origine dall’amore mutuo dei coniugi, il quale, reciprocamente donato e promesso nella fedeltà per tutta la vita, costituisce l’essenza del matrimonio stesso e la sua ragione o fine proprio e prossimo. La generazione della prole, la sua crescita e la sua educazione, fanno parte dell’agire degli sposi e contribuiscono, in qualche maniera, alla realizzazione del fine proprio del matrimonio, ma non ne costituiscono la ragione propria né rientrano in ciò che è l’essenza del matrimonio. Questo insegnamento, fatto proprio dal concilio di Trento e dal suo Catechismo romano, nonostante le particolarità delle successive epoche e dei diversi autori, è presente nella teologia e nel magistero fino alla seconda metà del XIX secolo, quando un’altra tradizione medievale si è imposta, perché più consona alla concezione del matrimonio come contratto, soprattutto attraverso il Codice di diritto canonico del 1917, che ha eclissato il ruolo dell’amore nel matrimonio e ha stabilito come suo fine Riflessioni sull’accesso all’eucaristia d e i d i v o r z i a t i r i s p o s a t i a p a r t i r e d a s a n To m m a s o principale la generazione della prole (can. 1012-1013). Soltanto il concilio Vaticano II (cf. Gaudium et spes, nn. 48-50) ha ripreso la dottrina precedente, sviluppata poi nel n. 10 di Humanae vitae, con l’affermazione della paternità e maternità responsabili, affermazione che, ricuperando la dimensione unitiva quale aspetto primario e specifico del matrimonio, toglie carattere assoluto al comandamento di Gen 1,28, «Crescete e moltiplicatevi», e riconosce nell’unione sessuale degli sposi un bene in se stesso, quale atto d’amore sponsale, a prescindere dall’intenzione della procreazione. Tenendo presenti questi elementi dottrinali, abbiamo esaminato FC 84 e SC 29 riguardo all’ammissione di divorziati risposati all’eucaristia, rilevando la necessità di perfezionare la pratica attuale ivi stabilita.1 Una riconciliazione possibile La riconciliazione sacramentale di un divorziato risposato, che dà accesso all’eucaristia, presuppone che egli si penta di aver violato il precedente vincolo sacramentale e che s’impegni a non vivere più in concubinato, separandosi dal nuovo coniuge. Se, per motivi gravi, quali il bene dei coniugi stessi e di eventuali figli, la separazione è impossibile e la nuova situazione di vita di coppia è irreversibile, è prevista una deroga all’obbligo della separazione. Tale deroga permette che il divorziato risposato, una volta riconciliato sacramentalmente, acceda all’eucari- stia, senza però dare scandalo alla comunità ecclesiale d’appartenenza, che continua a ritenerlo in stato di concubinato notorio. Tuttavia, come afferma chiaramente la dichiarazione del Pontificio consiglio per i testi legislativi del 24 giugno 2000, interpreT3_Gonzalez:Layout 1 16-07-2015 tando il can. 915 dell’attuale Codice di8:42 diritto canonico, «Non si trovano invece in situazione di peccato grave abi- O. GONZÁLEZ DE CARDEDAL L’uomo davanti a Dio Ragione, fede e testimonianza I l libro si accosta a una questione vecchia quanto la stessa umanità: Dio costituisce un interrogativo radicato da sempre nel cuore dell’uomo e tale da richiedere la ricerca di una risposta, oppure è una risposta data da chi crede senza che esista previamente un tale interrogativo, desiderio o attesa nel cuore dell’uomo? «TEOLOGIA VIVA» pp. 120 - € 15,00 www.dehoniane.it Il Regno - at t ua l i t à 8/2015 517 Pagina P a p a F r a n c e s c o - N ull i t à matrimoniali Il processo è necessario? I l processo ordinario e il processo breve sono davvero necessari? Per capire questa domanda è utile partire un po’ da lontano andando al vecchio can. 1676 del CIC, ancora in vigore fino al prossimo 8 dicembre 2015, che così suona: “Il giudice prima di accettare la causa ed ogniqualvolta intraveda una speranza di buon esito, faccia ricorso a mezzi pastorali, per indurre i coniugi, se è possibile, a convalidare eventualmente il matrimonio e a ristabilire la convivenza coniugale (coniugalem convictum)”. Questo canone del codice latino è identico al vecchio can. 1362 del CCEO (codice orientale) con l’unica differenza che invece di “convivenza coniugale” si dice “il consorzio della vita coniugale (consortium vitae coniugalis)”. Il senso del canone è abbastanza chiaro: il giudice è tenuto a fare tutto il possibile – supposta una speranza di buon esito perché, anche se il matrimonio è nullo, possa essere convalidato e ristabilito sul piano della convivenza. In altre parole, l’idea sottesa al canone è che, anche se il matrimonio fosse nullo o ci fosse un serio dubbio di nullità, tuale i fedeli divorziati risposati che, non potendo per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – “soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi” (FC 84), e che sulla base di tale proposito hanno ricevuto il sacramento della penitenza. Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla comunione eucaristica solo remoto scandalo».2 Consideriamo quali elementi dottrinali permettano questa deroga e quali postulino un perfezionamento di essa. FC 84 insegna chiaramente quale sia il peccato di cui il divorziato risposato deve pentirsi: si tratta del fatto «d’aver violato il segno dell’alleanza e della fedeltà a Cristo», cioè il precedente matrimonio sacramentale. L’oggetto del pentimento porta prima di tutto e direttamente su questa violazione, che può esser di natura differente: separazione consensuale o abbandono di un coniuge da parte dell’altro. L’oggetto del pentimento porta soltanto secondariamente sulla nuova unione, in quanto attraverso di essa, in una maniera o nell’altra, il divorziato risposato ha consumato la 518 Il Regno - at t ua l i t à 8/2015 nel caso sia possibile convalidarlo il giudice deve cercare di farlo. C’è sotto una logica del tutto coerente con la convinzione che la nullità sostanziale di un matrimonio può essere talvolta sanata o rimediata dalla volontà pur sempre coniugale dei due sposi. Questi due canoni, in forza dei due motu proprio di papa Francesco emanati il 15 agosto e recentemente pubblicati, sono stati integralmente sostituiti da altri due canoni, esattamente coincidenti, il nuovo canone 1675 del Codice latino e il nuovo canone 1361 del Codice orientale. Il testo suona così: “Il giudice, prima di accettare la causa, deve avere la certezza che il matrimonio sia irreparabilmente fallito, in modo che sia impossibile ristabilire la convivenza coniugale (Iudex, antequam causam acceptet, certior fieri debet matrimonium irreparabiliter pessum ivisse, ita ut coniugalis convictus restitui nequeat)”. Il giudice, dunque, prima d’istruire la causa di nullità deve essere certo che il matrimonio sia finito: la formula latina (pes- violazione del precedente matrimonio sacramentale. È soltanto sotto questo aspetto che la nuova unione costituisce un peccato rispetto al precedente vincolo sacramentale ed è in quanto peccato del divorziato risposato – che può essere più o meno grave – che anch’essa è perdonata. I beni, invece, che questa nuova unione comporta sono le ragioni che giustificano la pratica della deroga, in quanto sono dei veri beni: l’amicizia naturale tra i divorziati risposati, il bene dei singoli e quello dei figli. La grazia, ricevuta individualmente dal divorziato risposato attraverso il sacramento della penitenza, cancellando il peccato trasforma la nuova unione, il legame stretto di amicizia naturale (cf. SC 29), rinnovandola con la grazia divina ricevuta sacramentalmente, assieme al proposito di vivere in perfetta continenza. Per questo la dichiarazione del Pontificio consiglio per i testi legislativi può affermare che la nuova unione non è più un concubinato, «non vivono more uxorio», anche se non è intervenuta la separazione. Gli elementi dottrinali e sacramentali che spiegano la possibilità di questa deroga alla separazione sono prima di tutto il pentimento del divorziato risposato, l’impegno a vivere in perfetta continenza (cf. FC 84), la stabilità e l’irreversibilità della sua si- tuazione e soprattutto il fatto che sulla violazione di quel precedente vincolo indissolubile è discesa la misericordia divina, la quale ha creato nel penitente riconciliato una realtà di grazia, che rinnova l’amicizia naturale che lo lega all’altra parte. Misericordia e sessualità nelle seconde nozze Il primo limite che la disciplina attuale comporta, e che potrebbe essere superato nel prossimo Sinodo sulla famiglia (cf. Instrum. laboris, 2015, nn. 122-123), riguarda la necessità che un divorziato risposato, riconciliato con Dio e con la Chiesa, sia costretto ad accedere alla comunione di nascosto dalla sua comunità per evitare lo scandalo. Questo potrebbe essere evitato grazie a un atto pubblico che significhi alla comunità ecclesiale cui i divorziati risposati e riconciliati appartengono, che ormai «tali fedeli non vivono more uxorio». È la dottrina stessa dei sacramenti che postula un tale perfezionamento della pratica attuale che deroga alla separazione, perfezionamento che non tocca la dottrina, ma soltanto la disciplina. Secondo san Tommaso, una delle tre ragioni principali dell’istituzione dei sacramenti è «l’istruzione dei fedeli»:3 il perdono di uno stato pubblico di peccato, dovrebbe quindi essere reso noto alla comunità sum ire) indica la distruzione o la fine di una cosa; la versione italiana “irreparabilmente fallito” ha lo stesso significato. Si sottolinea, tra l’altro, che la prova evidente di tale fallimento è che non è possibile ristabilire la convivenza (convictus). Con i due motu proprio dunque il giudice ha innanzitutto il compito di stabilire l’irreparabile fallimento del matrimonio. Considerate le regole procedurali aggiunte in calce ai motu proprio s’intende probabilmente che tale certezza è raggiunta attraverso l’indagine pastorale o pregiudiziale, una cosa nuova e di grande valore specie se verrà sottolineato il suo senso pastorale e non verrà ridotta a un’indagine giudiziaria un po’ meno ufficiale e formale. Alla luce di questa annotazione ci si può chiedere se sia davvero necessario fare tutto il processo – ordinario o breve che sia – per stabilire la nullità. Ci si chieda infatti: la nullità eventualmente stabilita per processo o la validità eventualmente riaffermata attraverso il processo cambierà forse il fatto stabilito in partenza e con certezza che il matrimonio è irreparabilmente fallito? Evidentemente no. Anzi, c’è il rischio che per evitare di riaffermare valido un matrimonio che è chiaramente finito si sforzino i casi di nullità all’estremo come sembra intuirsi dagli esempi fatti alla ecclesiale, perché cessi di ritenere in stato di peccato colui che è stato riconciliato. Sarebbe questa un’occasione per la comunità ecclesiale di riflettere e di sperimentare la «grandezza» del matrimonio cristiano e la sua indissolubilità. Non si tratta di ripristinare una qualche forma di penitenza pubblica di cui la Chiesa antica si è servita, ma di rispondere alle esigenze della comunità cristiana di oggi, con un rito ben stabilito, che escluda ogni ambiguità sulla natura penitenziale, e non sponsale, di questo atto pubblico.4 Il secondo limite che la disciplina attuale comporta è l’obbligo per il divorziato riconciliato della continenza perfetta. Esso deriva dal fatto che la sua nuova unione non è sacramentale e che la sessualità non può essere praticata al di fuori del matrimonio legittimo. L’uso della sessualità cade quindi sotto il foro interno della confessione. Se tale obbligo non è né una punizione né un’esigenza imposta direttamente dal sussistere del precedente vincolo, tuttavia si deve costatare in ciò una certa incoerenza della disciplina attuale. Abbiamo infatti veduto che le relazioni sessuali e la generazione dei figli non rientrano in ciò che è l’essenza del matrimonio, né costituiscono il suo fine proprio e prossimo. La tradizione della Chiesa, al concilio di regola procedurale 14 §1: la giuridizzazione del matrimonio diventerebbe così piena. E allora, sarebbe molto meglio per la Chiesa se invece d’impegnarsi nei processi – che configurano sempre giuridicamente la materia matrimoniale, brevi o lunghi che siano – prendesse atto della fine del matrimonio, l’irreparabile fallimento (o come diceva papa Francesco nell’udienza del 5 agosto: “irreversibile fallimento del legame matrimoniale”, “fallimento del matrimonio sacramentale”) e dedicasse le proprie forze ad aiutare pastoralmente i fedeli in difficoltà perché camminino verso il futuro, sanando per quanto possibile le ferite del passato, vivendo più intensamente la propria fede nella Chiesa, attuando responsabilmente la nuova unione nella consapevolezza certo del proprio peccato ma anche nella speranza fiduciosa di poter realizzare nella Chiesa una nuova esperienza significativa di quella comunione d’amore che è il senso “unitrinitario” della vita dell’uomo. Se un matrimonio è irreparabilmente finito, la cosa migliore è prenderne atto, sanare le ferite e i feriti di qualunque parte, preparare un futuro più serio, più profondamente ecclesiale, più autenticamente vissuto nella luce del Vangelo. Basilio Petrà Trento come al Vaticano II, mostra che l’essenziale nel matrimonio è l’amore dei coniugi, il quale è santificato dal sacramento per essere segno dell’amore di Cristo per la Chiesa sua sposa. Ora, tale amore coniugale è ciò che viene meno con il fallimento del matrimonio precedentemente contratto. Secondo la pratica della deroga, il nuovo amore, che lega i coniugi divorziati risposati, non costituisce impedimento all’assoluzione sacramentale per aver violato il precedente vincolo, cioè il precedente amore consacrato dal sacramento. I divorziati risposati possono vivere «come sposi», sostenendosi a vicenda ed educando i figli, perché il loro amore è considerato uno stretto legame di amicizia naturale, da vivere nella continenza perfetta. Ora, se questo nuovo amore, dopo la riconciliazione sacramentale, non è considerato in contrasto con il vincolo precedentemente contratto, è davvero necessario imporre ai coniugi divorziati e risposati l’obbligo della continenza perfetta, considerando che l’esercizio della sessualità non appartiene all’essenza del matrimonio e che non è quindi in contrasto col precedente vincolo sacramentale? Certo, la benedizione di seconde nozze, abolita nella Chiesa latina dal concilio di Trento ma non condanna- ta, risolverebbe il problema. Nel prossimo Sinodo però non è previsto di riesaminare tale possibilità. Tuttavia, il Sinodo, che prevede di discutere di un «itinerario di riconciliazione o via penitenziale per i fedeli divorziati risposati» (Instrumentum laboris, n. 123; Regno-doc. 24,2015,32s), in tale contesto di riconciliazione non potrebbe riconoscere come sufficienti ad autorizzare rapporti sessuali tra divorziati risposati il loro amore unico, fedele e gratuito, la stabilità e l’irreversibilità della loro situazione, su cui è stata effusa la misericordia divina? Adriano Oliva 1 Abbiamo documentato ampiamente l’interpretazione della dottrina di san Tommaso e la sua presenza nella storia della teologia e nel magistero, in: A. Oliva, L’amicizia più grande. Un contributo teologico alle questioni sui divorziati risposati e sulle coppie omosessuali, Nerbini, Firenze 2015; Id., «Essence et finalités du mariage selon Thomas d’Aquin. Pour un soin pastoral renouvelé», in Revue des Sciences philosophiques et théologiques 108(2014) 98, n. 4, 601-668. 2 Pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi, dichiarazione circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati, 24.6.2000, n. 2: EV 19/969 (corsivo nostro). 3 Cf. Summa theol., IIIa pars, q. 61, a. 1, resp. 4 Cf. W. Kasper, Il Vangelo della famiglia, Queriniana, Brescia, 2014, specialmente 5052 e 62. Il Regno - at t ua l i t à 8/2015 519