LA CONOSCENZA di ciò che

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LA CONOSCENZA di ciò che
ALAN W. WATTS
IL LIBRO
Per distinguere certi autori guida che si pongono come suscitatori di idee e si rivolgono alla
mente e alla coscienza del lettore più che al suo gusto o sentimento, esiste nella cultura francese
una felice espressione che è nello stesso tempo un riconoscimento e un elogio: essi sono detti
"maîtres à penser".
Crediamo che nessun'altra definizione si adatterebbe meglio di questa all'autentico maestro che
fu, e resta, Alan Watts. Nutrito quasi in egual misura dalla cultura occidentale e da quella
orientale, e mosso da una non settaria vocazione religiosa, egli ha scritto i suoi numerosi libri con
l'intenzione di informare, dirigere, aiutare la comprensione del lettore nell'esperienza delle cose
del mondo visibili e non visibili. La sua stimolante e non convenzionale filosofia ha interessato un
pubblico vastissimo nel mondo occidentale, e le sue opere, sempre ristampate, sono lette da
milioni di persone.
Questo libro, scritto nel 1966, quasi al termine dell'esistenza dell'autore, e che, non senza
intenzione, fu intitolato "Il Libro", racchiude l'esperienza di tutta una vita, e se ne giova. È da
ritenere che l'autore lo prediligesse se, come egli afferma, lo destinava in eredità ai propri figli;
anche se aggiungeva che dopo letto "può essere buttato via". Poiché uno dei punti capitali del suo
“insegnamento” è il rispetto dei sentimenti personali e della indipendenza della mente umana da
qualsiasi “insegnamento”.
"Il Libro", cioè, è un vital nutrimento, ma è solo un punto di partenza e non un riferimento
perpetuo. I problemi della conoscenza, della morale, dell'essere, dell' "io", dell'unità di tutte le
cose nel tempo e nello spazio, e dell'uomo nell'universo, non son mai risolti una volta per tutte.
* * *
ALAN W. WATTS, recentemente scomparso, è largamente noto nel mondo anglosassone e anche in
Italia sono apparse traduzioni dei suoi libri. Anche se la sua solida formazione filosofica è
d'impronta nettamente occidentale, e del miglior timbro, egli ha preso largamente in prestito
dalle metafisiche asiatiche, soprattutto dal buddhismo e dal taoismo, pur riconoscendo che le
loro forme di pensiero sono difficilmente assimilabili dall'anima occidentale. Dello stesso autore
è uscito anche Il Significato della Felicità pubblicato nella stessa collana, ed è imminente la
pubblicazione de Il Tao.
pag. 115
L. 14.000
Alan W. Watts
IL LIBRO
SUI TABÙ CHE CI VIETANO
LA CONOSCENZA
di ciò che
VERAMENTE SIAMO
L'uomo e il suo posto nell'universo; il misterioso centro di
esperienza che chiamiamo "io", i problemi della vita e dell'amore,
del dolore e della morte, e l'intero problema dell'esistenza.
Ubaldini Editore - Roma
ALAN W. WATTS
IL LIBRO
SUI TABÙ CHE CI
VIETANO LA CONOSCENZA
DI CIÒ CHE VERAMENTE SIAMO
Titolo originale dell'opera:
THE BOOK
ON THE TABOO AGAINST KNOWING
WHO YOU ARE
(Jonathan Cape Ltd, London)
Traduzione di
FABRIZIO PREGADIO
© 1966, by Alan Watts.
© 1976, Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma.
INDICE
Prefazione
pag.
7
L'informazione confidenziale
»
9
Il gioco del Bianco e Nero
»
23
Come essere un autentico falso
»
41
Il mondo è il tuo corpo
»
64
E allora?
»
79
Esso
»
99
Bibliografia
»
113
________________________________________________________________________
Finito di stampare nel mese di luglio 1976 presso la Cartografica di S. Ciulli e F.lli s.n.c.
per conto della Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma
PREFAZIONE
Questo libro esplora un tabù non riconosciuto ma potente: il nostro silenzioso consenso ad
ignorare chi, o che cosa, siamo in realtà. In breve, il suo fine è dimostrare che percepire se
stessi come un io separato e limitato dalla pelle è un'allucinazione che non si accorda né con la
scienza occidentale né con le religioni e le filosofie sperimentali dell'oriente, ed in particolare
con la filosofia al centro e all'origine dell'induismo: il Vedanta. Questa allucinazione sta alla base
dell'abuso della tecnologia come mezzo di soggiogazione violenta dell'ambiente naturale
dell'uomo, e, di conseguenza, della sua possibile distruzione.
Abbiamo quindi urgente bisogno di dare alla nostra esistenza un significato che si accordi ai fatti
fisici e che annulli il nostro sentimento di alienazione dall'universo. A questo scopo mi sono
interessato alle intuizioni del Vedanta, esponendole però in stile occidentale e moderno; questo
libro non vuole quindi essere un libro di testo o una introduzione al Vedanta in senso comune. È
piuttosto una fecondazione reciproca tra la scienza occidentale e una intuizione orientale.
Ringrazio particolarmente mia moglie, Mary Jane, per il suo attento lavoro di revisione e per i
suoi commenti al manoscritto. Sono grato anche alla Bollingen Foundation per il suo appoggio al
progetto di cui fa parte la stesura di questo libro.
ALAN WATTS
Sausalito, -California
Gennaio 1966
L’ "informazione confidenziale”
Che cosa dovrebbe sapere un giovane o una giovane per “sapere"? C'è, in altre parole, un
particolare tabù, una “informazione privata", un fatto confidenziale sulla vita e sull'esistenza che
la maggior parte di genitori e di insegnanti non sanno o non vogliono rivelare?
Una volta, in Giappone, si usava dare ai giovani che stavano per sposarsi un "libro da letto". Era un
piccolo volume di stampe su legno, spesso colorate, che mostrava tutti i dettagli del rapporto
sessuale. Questo non solo perché, come dicono i cinesi, "un'immagine vale diecimila parole", ma
anche perché i genitori erano risparmiati dall'imbarazzo di spiegare di persona ai propri figli
questi fatti intimi. Oggi, in occidente, queste cose si imparano all'edicola. Il sesso non è più un
serio tabù: a volte un giovane ne sa più di un adulto.
Ma se il sesso non è più il “grande tabù", che cosa ha preso il suo posto? C'è sempre, infatti,
qualcosa che rimane tabù, qualcosa che viene represso, che non si vuole ammettere o tutt'al più
si guarda di sfuggita, con la coda dell'occhio, perché uno sguardo diretto sarebbe sconcertante.
I tabù sono sepolti dentro altri tabù, come gli strati di una cipolla. Quale sarebbe, allora, il Libro
che i padri potrebbero “far scivolare" di nascosto ai propri figli, e le madri alle loro figlie, senza
mai ammetterlo apertamente?
In alcuni ambienti c'è un forte tabù sulla religione, anche se si va a messa o si legge la Bibbia. In
quei casi, la religione diventa un fatto esclusivamente personale: parlarne o discuterne è
maleducato o poco cortese, e senz'altro un errore è mostrare agli altri la propria devozione.
Eppure, osservando dall'interno tutte le "religioni-tipo", c'è da chiedersi quale mai possa essere
la ragione di questo silenzio. Il Libro che ho in mente non potrebbe certo essere la Bibbia, il
"Buon Libro", quella raccolta seducente ma ingannevole di saggezza, di storia e di favola antica,
tanto a lungo considerata come una Vacca Sacra che ormai, prima di poter essere riascoltata da
orecchie incontaminate, dovrebbe essere tenuta sotto chiave per uno o due secoli. Ci sono in
effetti dei segreti nella Bibbia, e alcuni sono anche molto sovversivi; ma tutti sono così dispersi
in sottigliezze, simboli arcaici e modi di pensiero differenti dai nostri, che è diventato
incredibilmente difficile spiegare il Cristianesimo a un uomo d'oggi, a meno che lo si voglia
ridurre all'essere buoni e al cercare di imitare Gesù. Ma anche in quel caso, nessuno spiega come
farlo. Si dovrebbe ottenere da Dio quel potere particolare che prende il nome di "grazia", ma
tutto ciò che si sa sulla grazia è che alcuni ce l'hanno e altri no.
Le religioni-tipo (quella ebrea o quella cristiana, maomettana, induista o buddhista) sono simili,
nel modo in cui vengono professate oggi, a miniere fuori uso: difficilmente se ne può trarre
qualcosa. A parte poche e rare eccezioni, le loro idee sull'uomo e sul mondo, le loro immagini, i
loro riti e i loro principi di "giusta vita" non sembrano adattarsi all'universo che conosciamo oggi,
e a un mondo umano che cambia tanto rapidamente che ciò che si impara a scuola è già superato il
giorno della laurea.
Il Libro a cui penso non dovrebbe essere religioso nel senso comune del termine, ma dovrebbe
discutere molte cose di cui si sono interessate le religioni: l'uomo e il suo posto nell'universo,
quel misterioso centro di esperienza che chiamiamo "io", "me stesso", i problemi della vita e
dell'amore, del dolore e della morte, e l'intero problema dell'esistenza e di un suo possibile
significato in qualsiasi senso del termine. Abbiamo, infatti, il crescente timore che la vita sia
simile a una corsa di topi in trappola. Gli organismi viventi, compresi gli uomini, sembrano essere
dei tubi nei quali le cose entrano da un lato ed escono dall'altro: questo permette loro di
continuare a fare la stessa cosa, ma alla fine li logora, Così, per mandare avanti la farsa, i tubi
trovano un modo per fare altri tubi; e anche in questi, le cose entrano da un lato ed escono
dall'altro. All'estremità di entrata, i tubi danno origine ad un agglomerato di nervi, il cervello, e
ad occhi e orecchie per andare con meno difficoltà in cerca di cibo. Poi, dopo averlo trovato,
usano l'energia in eccesso per muoversi o dimenarsi, facendo rumori di ogni genere nel soffiare
l'aria verso l'esterno o verso l'interno attraverso il foro di entrata, e raccogliendosi in gruppi
per combattere contro altri gruppi. Col tempo, i tubi si costruiscono una varietà di accessori
talmente vasta da non poter essere più riconosciuti come semplici tubi. C'è anche una vaga regola
secondo cui non si devono mangiare tubi del proprio genere; ma in generale c'è una seria
competizione per occupare il posto più alto della graduatoria. Tutto sembra incredibilmente
inutile; eppure, a pensarci bene, si rivela più incredibile che inutile. In effetti, sembra
estremamente strano.
È un tipo particolare di illuminazione percepire che la "normalità" (cioè le cose secondo la norma)
sia "strana": misteriosa e inverosimile. G. K. Chesterton disse una volta che un conto sarebbe
sorprendersi alla vista di un mostro o un grifone, creature che non esistono; ma ben differente,
e superiore, è sorprendersi davanti a un rinoceronte o a una giraffa, creature che esistono ma
della cui esistenza non ci si avvede più. Di questa sensazione di "straniamento" fa parte una
intensa e fondamentale voglia di conoscere il senso delle cose. Perché mai, tra tutti i mondi
possibili, questa moltitudine di galassie grandiosa e apparentemente inutile, posta nella curva
misteriosa e continua dello spazio e del tempo? Perché le miriadi di specie differenti di tubi che
giocano frenetici giochi di egocentrismo? Perché l'infinita molteplicità delle cose, dall'elegante
architettura del cristallo di neve o di una diatomea alla incredibile bellezza dell'uccello lira o del
pavone?
Ludwig Wittgenstein e altri moderni filosofi "logici" hanno cercato di rispondere a questa
domanda sopprimendola, sostenendo che non dovrebbe esser posta dal momento che è priva di
senso. La maggior parte dei problemi filosofici viene risolta liberandosene, cioè giungendo al
punto in cui ci si accorge che domande come: “Perché questo universo?”, sono una specie di
nevrosi intellettuale, un cattivo uso delle parole per cui la domanda sembra avere un significato
mentre in realtà non lo ha. Sarebbe come chiedersi: “Dov'è questo universo?”, nel momento che
soltanto le cose, ovunque siano, devono essere da qualche parte nell'universo. Il fine della
filosofia è proprio guarire da queste ingenuità. Wittgenstein, come vedremo, da questo punto di
vista ebbe dei buoni risultati. In ogni caso, chiedersi il perché delle cose non vuol dire essere
malati. La ricerca di un significato, e la sua espressione nella poesia e nelle arti, è tra le cose più
importanti che sembrano distinguere l'uomo dagli altri animali, e una persona intelligente e
sensibile da una ottusa.
Ci sono, allora, delle "informazioni confidenziali" su questo straordinario schema delle cose,
qualcosa che non ci è mai giunto attraverso i canali normalmente destinati alla Risposta (le
religioni e le filosofie storiche)? Sì. E queste risposte sono state date tante volte, ma in una
forma tale che oggi, in questa particolare civiltà, non possono essere recepite. Non riusciamo a
renderci conto della loro completa sovversività, non tanto in senso politico e morale, quanto
perché trasformerebbero totalmente la nostra visione ordinaria delle cose, il nostro "senso
comune". Potrebbero avere, naturalmente, delle conseguenze politiche e morali, ma non abbiamo
ancora idea di quali potrebbero essere: fino ad oggi, la rivoluzione interiore della mente si è
limitata a pochi individui isolati; non è mai stata, a quanto sappia, una caratteristica tipica di una
comunità o di una società. È sempre stata considerata troppo pericolosa. Da qui è nato il tabù.
Ma il mondo è in una situazione estremamente pericolosa, e una malattia grave richiede sempre
una cura rischiosa, come il siero di Pasteur contro la rabbia. Non si tratta di colpire il pianeta
con bombe nucleari, né di soffocarlo con la sovrappopolazione, né di distruggerne le risorse
naturali con una cattiva conservazione, e neppure di rovinare la terra e i suoi beni con prodotti
chimici e pesticidi usati in modo sbagliato. Dietro a tutto ciò si nasconde la possibilità che la
nostra civiltà possa raggiungere un grande successo tecnologico, ma attraverso metodi che quasi
tutti troverebbero spaventosi, discutibili e poco sicuri. I metodi, infatti, continueranno a
cambiare. Sembra di partecipare a un gioco le cui regole cambino in continuazione ma non siano
mai rese chiare; un gioco da cui non ci si può ritirare se non con il suicidio, e durante il quale non
si può tornare a una forma di gioco precedente.
Il problema del rapporto fra l'uomo e la tecnica è posto quasi sempre in modo sbagliato. È stato
detto che l'uomo si è evoluto in una sola direzione, avanzando nelle capacità tecniche senza una
crescita parallela nel campo dell'integrità morale, o, come alcuni preferiscono dire, della cultura
e del pensiero razionale. In realtà il problema sta più in profondità. Alla radice di tutto va posto
il modo in cui concepiamo e percepiamo noi stessi come esseri umani, cioè la nostra sensazione. di
essere vivi e di avere un'identità e un'esistenza individuale. Soffriamo di un'allucinazione, di una
percezione falsa e distorta della nostra esistenza come organismi viventi. Molti di noi pensano
che l'Io sia un centro separato di azione e di percezione, che viva all'interno del corpo fisico e
sia circondato da esso: un centro che si deve "scontrare" con un mondo "esterno" di persone e di
cose, e che attraverso i sensi si mette in contatto con un universo strano ed estraneo. Anche le
forme del linguaggio di tutti i giorni riflettono questa illusione: "Io sono venuto al mondo", "Devi
scontrarti con la realtà", "La conquista della natura".
La sensazione di trovarsi nell'universo come visitatori temporanei e isolati è in contraddizione
con tutto ciò che le scienze sanno dell'uomo e di tutti gli organismi viventi. Noi non "veniamo" a
questo mondo, ma ne usciamo fuori, come le foglie di un albero; la terra crea gli uomini allo
stesso modo in cui il mare crea le onde. Ogni individuo è espressione dell'intero regno della
natura, ed è un'azione unica in tutto l'universo. Ma di questo, la maggior parte degli individui è
raramente consapevole, se mai lo è. Anche chi lo crede vero in teoria non lo avverte
sensibilmente, e continua a percepire se stesso come un io isolato e limitato dalla superficie della
pelle.
La prima conseguenza di questa illusione è che la nostra disposizione verso il mondo "esterno" è
dichiaratamente ostile: siamo sempre "alla conquista" della natura, dello spazio, delle montagne,
dei deserti, dei batteri e degli insetti, anziché a cercare di cooperare con essi in ordine
armonioso. In America, i grandi simboli di questa conquista sono il bulldozer e l'astronave: il
primo è lo strumento che abbatte le colline e le trasforma in distese piane, adatte per costruirvi
le scatole che chiamiamo case; il secondo è il grande proiettile fallico che solca e illumina il cielo.
(Ci sono, comunque, degli architetti sensibili che sanno come adattare le case tra le colline senza
alterare l'ambiente, ed astronomi che sanno che la terra è già in cielo, per cui le prime cose che
servono per esplorare altri mondi sono gli apparecchi elettronici, grazie ai quali si portano gli
oggetti più distanti fin dentro la propria mente). 1 La disposizione ostile, tipica della conquista
della natura, ignora la fondamentale interdipendenza di tutte le cose e di tutti gli eventi, ignora
che il mondo al di fuori della propria pelle è in realtà un'estensione del proprio corpo, e finirà per
distruggere lo stesso ambiente da cui siamo emersi e da cui dipende la nostra vita.
Come seconda conseguenza della sensazione di essere isolati in un universo estraneo e quasi
sempre privo di significato, ci manca un senso comune: non abbiamo cioè un modo di interpretare
il mondo su cui tutti possiamo trovarci d'accordo. Si parla solo della "mia" decisione contro la
"tua", e per questo il più aggressivo e violento (e quindi insensibile) prenderà ogni decisione. La
confusione di idee contrastanti, tenute insieme dalla forza di propaganda, è la peggiore fonte di
controllo per una tecnologia potente.
Sembrerebbe, quindi, di aver bisogno di un genio che inventi una nuova religione, una nuova
filosofia della vita o una nuova visione del mondo, plausibili e accettabili in questi ultimi anni del
ventesimo secolo, grazie alle quali ogni individuo possa sentire il mondo come un tutto e in
1
“Non credo che otterremo qualcosa di veramente valido esplorando il cumulo di scorie che costituisce la superficie della luna. (...) Nessuno
deve credere che gli enormi bilanci della NASA significhino che l'astronomia riceve il dovuto sostegno”. Fred Hoyle, Galaxies, Nuclei, and
Quasars, Heinemann Educational, 1966.
particolare possa dare un significato alla propria esistenza. Ma questo, come la storia ci ha più
volte dimostrato, non è sufficiente. Le religioni dividono e causano controversie: sono una forma
di egocentrismo perché si basano sulla separazione dei "salvi" dai "dannati", dei veri fedeli dagli
eretici, degli ortodossi dagli eterodossi. Anche i liberali religiosi giocano al gioco del "noi-siamopiù-tolleranti-di-te". Come sistemi di dottrine, di simboli e di comportamenti, le religioni si
irrigidiscono in istituzioni per le quali è necessario imporre la fedeltà ed essere difese e
mantenute "pure". Inoltre (poiché ogni fede è fervente speranza, e quindi copertura del dubbio e
dell'incertezza) le religioni debbono convertire: più gente è d'accordo con noi, meno tormentose
sono le insicurezze sulla nostra posizione. Alla fine si è tenuti ad essere cristiani o buddhisti,
senza riguardo alla forma della nuova dottrina. Le nuove idee, difficilmente assimilabili ed
incoerenti con le dottrine originali, debbono essere presentate come parte della tradizione
religiosa, affinché il fedele possa ancora prendere posizione e affermare: "Per prima cosa io
sono un seguace di Cristo (o di Maometto, di Buddha, o di chiunque altro)". L'adesione
irrevocabile a qualsiasi religione non solo è un suicidio intellettuale, ma anche una non-fede,
perché chiude la mente a qualsiasi nuova visione del mondo. La fede dovrebbe essere, anzitutto,
apertura: un atto di fiducia nello sconosciuto.
Un ardente Testimone di Geova cercò una volta di convincermi che se c'è un Dio di amore,
senz'altro deve aver dato all'uomo un libro attendibile e infallibile per guidare la sua condotta.
Gli risposi che nessun Dio rispettoso dei sentimenti personali avrebbe distrutto la mente umana
rendendola così rigida e poco adattabile da dover dipendere da un libro, la Bibbia, per qualsiasi
risposta. Lo scopo delle parole è infatti indicare, al di là di se stesse, un mondo di vita e di
esperienza che non è composto di sole parole e nemmeno di sole idee. Allo stesso modo in cui i
soldi non sono una ricchezza reale e consumabile, i libri non sono la vita. Idoleggiare le scritture
è come mangiare carta moneta.
Per questo il Libro che vorrei "far scivolare" ai miei figli dovrebbe essere un libro che può anche
essere buttato via: è fatto per introdurli a un nuovo mondo, fatto non solo di idee, ma anche di
esperienze e di sentimenti. Dev'essere una medicina temporanea, e non una dieta; un punto di
partenza, e non di riferimento perpetuo. Leggerlo una volta sarebbe sufficiente, perché, essendo
scritto bene e in forma chiara, non avrebbero bisogno di riprenderlo in continuazione per andare
in cerca di significati nascosti o per interpretare insegnamenti difficili.
Non c'è bisogno di una nuova religione o di una nuova Bibbia. Abbiamo bisogno invece di una nuova
esperienza e di una nuova percezione di ciò che vuol dire essere "io". L'informazione
confidenziale sulla vita (cioè l'intuizione profonda e segreta) è che la normale percezione di se
stessi è un vero inganno, o tutt'al più un ruolo temporaneo che stiamo recitando o ci è stato
insegnato a recitare - ma col nostro silenzioso consenso, allo stesso modo in cui una persona
ipnotizzata vuole in effetti essere ipnotizzata. Di tutti i tabù conosciuti, quello ad avere radici
più profonde è il tabù sul sapere chi o che cosa si è in realtà, al di là della maschera del proprio
io, apparentemente separato, isolato e indipendente. Non sto pensando al barbaro "Es", o
inconscio freudiano, come realtà di fatto oltre la facciata della personalità. Freud, come
vedremo, era influenzato da una tendenza comune al diciannovesimo secolo, il "riduzionismo", un
curioso bisogno di rinnegare l'intelligenza e la cultura umana definendole fortuiti sottoprodotti
di forze cieche e irrazionali. Ci si sforzava, in poche parole, di dimostrare che da un cespuglio di
spine possono crescere dei chicchi d'uva.
Come spesso accade, ciò che si trascura e si mette da parte è qualcosa di incredibilmente ovvio.
La difficoltà è che è talmente ovvio ed evidente che è difficile trovare le parole per poterne
parlare. I tedeschi la chiamano Hintergedanke: una percezione che avviene silenziosamente sullo
sfondo della mente, e di cui si è difficilmente consapevoli. La percezione dell'io come centro di
esistenza isolato e solitario è cosi potente, e le forme del discorso e del pensiero, le leggi e le
istituzioni sociali così radicate su di essa, che non si può fare a meno di percepire se stessi se
non come qualcosa di puramente superficiale nello schema dell'universo. Sembra di essere una
luce brevissima che risplende per un solo attimo nell'eternità del tempo; un raro, complicato e
delicato organismo sull'orlo dell'evoluzione biologica, nel quale l'onda della vita esplode in gocce
uniche, scintillanti e multicolori che luccicano per un momento per poi svanire per sempre. Sotto
un tale condizionamento, sembra impossibile e anche assurdo rendersi conto che io non consisto
soltanto nella goccia, bensì nell'intero flusso di energia che va dalle galassie ai campi nucleari del
mio corpo. A questo livello dell'esistenza, "io" sono incredibilmente vecchio; le mie forme sono
infinite, e il loro andare e venire non è altro che le pulsazioni e le vibrazioni di un flusso di
energia unico ed eterno.
Capire questo è difficile, perché il pensiero concettuale non può giungere ad afferrarlo. È come
se gli occhi cercassero di vedere se stessi, o come se si volesse descrivere il colore di uno
specchio basandosi su quelli che vi sono riflessi. Allo stesso modo in cui la vista è qualcosa in più
di tutte le cose che si vedono, ciò su cui poggia la nostra esistenza non può essere compreso
basandosi solo sulle cose che si conoscono. Siamo costretti, quindi, a parlarne attraverso i miti,
cioè attraverso particolari metafore, immagini ed analogie che ci dicano cosa sembra, piuttosto
che cosa è. Da una parte il mito è favola, superstizione, falsità. Ma dall'altra, è un'immagine utile
e fruttuosa attraverso cui si può dare un senso alla vita, più o meno allo stesso modo in cui si
spiegano le forze elettriche paragonandole al comportamento dell'acqua o dell'aria. In questo
senso, il mito non è da prendere alla lettera, allo stesso modo in cui l'elettricità non deve essere
confusa con l'aria o con l'acqua. Nell'usare il mito si deve fare attenzione a non confondere
l'immagine con il fatto, per evitare di arrampicarsi sul cartello anziché seguire la sua indicazione.
Il mito, quindi, è la forma in cui cerco di rispondere ai miei figli quando mi pongono domande sui
problemi metafisici fondamentali, così pronti a nascere nella loro mente: "Da dove è venuto il
mondo?", "Perché Dio ha creato il mondo?", "Dov'ero prima di nascere?", "Dove va una persona
quando muore?". Ogni volta, mi accorgo che sembrano essere soddisfatti quando racconto una
storia semplice e molto antica, che dice:
"Non ci fu mai una volta in cui il mondo nacque: esso va avanti come un cerchio, e non c'è un punto
in cui un cerchio inizia. Guarda il mio orologio, che segna il tempo: così come lui gira, il mondo si
ripete senza mai fermarsi. Ma come la lancetta delle ore sale fino al dodici e scende fino al sei,
così ci sono il giorno e la notte, lo star svegli e il dormire, la vita e la morte, l'estate e l'inverno.
Ognuna di queste cose non può esistere senza l'altra, perché non potresti riconoscere il bianco
se non lo avessi visto accanto al nero, e il nero se non lo avessi visto accanto al bianco.
"Allo stesso modo, ci sono dei periodi in cui il mondo esiste e altri in cui non esiste, perché se il
mondo andasse avanti per sempre, senza mai riposarsi, si stancherebbe terribilmente di se
stesso. Così va e viene: per un attimo lo vedi, e il momento dopo non lo vedi più. Ma poiché non si
stanca, ogni volta che scompare ritorna. È come per il tuo respiro: va e viene, entra e esce, e se
cerchi di conservarlo per troppo tempo stai male. Ed è anche come giocare a nascondino, perché
è sempre divertente trovare nuovi modi per nascondersi, e stanare qualcuno che non si nasconde
sempre allo stesso posto.
"Anche a Dio piace giocare a nascondino, ma poiché non c'è nulla al di fuori di lui, non sa con chi
altro giocare. Per superare questa difficoltà fa finta di non essere se stesso, e in questo modo
può nascondersi. Fa finta di essere te, me e tutte le persone del mondo, tutti gli animali, le
piante, i sassi e le stelle. Così ha delle avventure strane e meravigliose, e alcune spaventose e
terribili: ma queste ultime sono solo dei brutti sogni, che finiscono quando si risveglia.
"Quando Dio gioca a nascondino e fa finta di essere te o me, lo fa così bene che ci mette molto
tempo per ricordarsi dove e come si è nascosto. Ma il divertimento sta proprio in questo: è
proprio questo che vuole fare. Non vuole trovarsi troppo presto, perché il gioco si rovinerebbe.
Ecco perché è così difficile per te e per me scoprire di essere Dio in maschera che fa finta di
non essere se stesso. Quando il gioco sarà durato abbastanza, ci risveglieremo, smetteremo di
giocare, e ci ricorderemo tutti di essere un unico Sé, il Dio che è tutto ciò che esiste e che vive
in eterno.
"Naturalmente, non devi dimenticare che Dio non è fatto come una persona. Le persone hanno la
pelle, e c'è sempre qualcosa al di fuori della pelle: se non ci fosse, non potremmo conoscere la
differenza che c'è tra l'interno e l'esterno del nostro corpo. Ma Dio non ha pelle e non ha forma,
perché non c'è nulla al di fuori di lui. [Con un bambino abbastanza intelligente illustro ciò con
l'aiuto di un nastro di Mòbius: cioè un anello fatto di una striscia di carta piegata in modo tale da
avere un solo lato e un solo margine.] L'interno e l'esterno di Dio sono la stessa cosa. E anche se
ti ho parlato di Dio chiamandolo "lui" e non "lei", Dio non è un uomo o una donna. Non l'ho
chiamato "esso" perché "esso" si usa di solito per le cose che non hanno vita.
"Dio è il Sé del mondo, ma tu non lo puoi vedere per la stessa ragione per cui, senza uno specchio,
non puoi vederti gli occhi, e certamente non puoi morderti i denti o guardarti dentro la testa. Sei
nascosto in modo così intelligente perché è Dio che si nasconde.
"Potresti chiederti perché Dio qualche volta si nasconde sotto forma di persone orribili, oppure
fa finta di essere qualcuno che soffre per dei dolori o delle malattie. Ricordati, anzitutto, che in
realtà questo non accade ad altri che a Dio. E ricordati anche che in quasi tutte le storie che ti
piacciono devono esserci i buoni e i cattivi, perché il brivido del racconto sta proprio nel vedere
come i buoni traggono il meglio dai cattivi. È come giocare a carte. All'inizio si mescolano e si
mettono in disordine: questo somiglia alle cose cattive del mondo. Ma lo scopo del gioco è
mettere in ordine il disordine, e chi lo fa meglio vince. Poi le carte si rimescolano e si gioca di
nuovo. Lo stesso è per il mondo".
Questa storia, ovviamente mitica nella forma, non vuole essere una descrizione scientifica dei
fatti. Basandosi sulle analogie del gioco e del dramma, e usando l'ormai logoro termine "Dio" per
indicare l'Attore e il Giocatore, la storia vuole essere soltanto simile alle cose, così come sono.
La uso come gli astronomi, per spiegare l'espansione dell'universo, usano l'immagine di un pallone
nero a macchie bianche che si gonfia. Ma per quasi tutti i bambini, e per molti adulti, il mito è allo
stesso tempo semplice, comprensibile e affascinante. Ci sono molte altre spiegazioni mitiche del
mondo, brutali, difficili e incomprensibili. Molti pensano che credere in teorie e simboli
incomprensibili sia una prova di fede nella propria religione. "Credo", disse Tertulliano a
proposito del cristianesimo, "perché è assurdo".
Chi vuole pensare per se stesso non accetta invece discorsi su questo genere di autorità. Non si
sente obbligato a credere nei miracoli o in strane dottrine, come Abramo che si sentì costretto
da Dio a sacrificare il figlio Isacco. Come dice T. George Harris:
Le gerarchie sociali del passato, nelle quali un padrone puniva dall'alto ogni errore,
condizionavano gli uomini a immaginare una rigida catena autoritaria che giungeva fino a
“lassù”. Negli odierni regimi di libertà egalitaria, questi legami non sono più sentiti, e
(dal dott. Spock in poi) nella famiglia umana i padri simili a Geova non sono più molti. Così
l' "inconscio medio" non ha più bisogno di chiedere perdono a un Dio adirato al di sopra
di lui.
Ma continua:
La nostra generazione conosce in questa vita un inferno gelido, una reclusione solitaria,
senza un Dio che salvi o condanni. Finché l'uomo, senza farsi prendere in trappola (...)
non riuscirà ad andare in cerca del "Fondamento Ultimo dell'Esistenza”, la sua esistenza
non avrà scopo. Vuoto e finito, saprà solo di dover morire presto. Poiché questa vita non
ha significato, e poiché non riesce a intravederne una futura, egli non è in realtà un
individuo ma una vittima dell'autoestinzione?2
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Da una discussione delle idee del teologo Paul Tillich in "The Battle of the Bible", Look, vol. XIX, n. 15, 27 luglio 1965, p. 19.
"Fondamento Ultimo dell'Esistenza" è il termine "incontaminato" che Paul Tillich usa al posto di
"Dio", e nella mia favola per bambini potrebbe stare al posto del "Sé del mondo". Ma il segreto
che la mia favola rivela ai bambini è che tu stesso sei il "Fondamento Ultimo dell'Esistenza”. Non,
naturalmente, il "tu" di ogni giorno che il “Fondamento” fa finta o pensa di essere, ma quel Sé
profondo che sfugge alla conoscenza proprio perché è il conoscitore. Ecco, allora il tabù dei tabù:
tu sei QUELLO!
Ma nella nostra cultura questo è soltanto un sintomo di follia, la blasfema più nera e l'illusione più
incontrollata. Una cosa simile sembra essere solo megalomania, un'inflazione dell'io fino alla più
totale assurdità. Infatti, se da una parte coltiviamo l'io, dall'altra cerchiamo di distruggerlo. Di
generazione in generazione svuotiamo i nostri bambini insegnando loro a "conoscere il proprio
posto", e a comportarsi, credere e pensare con la dovuta modestia, come si addice a un piccolo
"io" fra tanti altri. Come diceva mia madre: "Non sei l'unico sasso sulla spiaggia". Chiunque, anche
ragionevolmente, pensa di essere Dio, viene crocifisso o condannato al rogo, anche se oggi, con
più filantropia, si pensa che nessuno, nel pensare una sciocchezza simile, possa essere sano e
ragionevole. Solo un povero idiota può pensare di essere il reggente onnipotente del mondo,
davanti al quale tutti debbono prostrarsi in adorazione.
Questo accade perché, secondo noi, Dio è il Re dell'Universo, il Tecnocrate Assoluto che
controlla personalmente e coscientemente tutti i particolari del cosmo. Non è questo il Dio della
mia favola. E in effetti, questa favola non è nemmeno mia, perché chiunque conosca la storia delle
religioni sa che proviene dall'India antica, e che è la versione in forma mitica della filosofia
Vedanta. Il Vedanta è la dottrina delle Upanishad, una raccolta di dialoghi, storie e poesie, alcune
delle quali risalgono almeno all'800 a.C. Gli induisti più sofisticati non pensano che Dio sia una
"super-persona" speciale e separata che governa il mondo dall'alto, come un re. Il loro Dio, più
che "al di sopra", è "alla base" di tutto, ed egli (o esso) recita, gioca il mondo dall'interno. Si può
dire che se la religione è l'oppio dei popoli, gli induisti hanno la "droga interiore". E inoltre,
nessun induista può pensare di essere Dio in maschera senza credere allo stesso tempo la stessa
cosa per tutti e per tutto. Nella filosofia Vedanta, nulla esiste al di fuori di Dio: sembrano
esserci cose diverse da Dio, ma solo perché è lui a sognarle e a farne le maschere per giocare a
nascondino con se stesso. Questo universo di cose apparentemente separate è, quindi, solo
momentaneamente reale, e non in eterno, perché va e viene così come il Sé si nasconde e si cerca.
Ma il Vedanta è molto di più che pensare o credere che le cose stiano È soprattutto l'esperienza,
la conoscenza immediata che "è così", e proprio per questo è un completo sovvertimento della
nostra visione ordinaria delle cose. Capovolge e rivolta il mondo. Un detto attribuito a Gesù che
ricorda qualcosa di simile dice:
Quando dai due si fa l'uno, e
quando dall'interno si fa l'esterno
e dall'esterno si fa l'interno, e dal sopra
si fa il sotto...
allora si entra [nel Regno]...
Io sono la Luce che è al di sopra
di ogni cosa, Io sono il Tutto,
il Tutto è venuto da Me e il Tutto
giunge a me. Taglia un [pezzo di] legno, e Io
sono là; solleva una pietra e là
mi troverai.3
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A. Guillaumont e altri (trad.), The Gospel According to Thomas, 1959, pp. 17-18, 43. Manoscritto copto scoperto di recente, tradotto forse
da una versione greca che risale al 140 d.C.. L' "io” e il "me" sono ovvi riferimenti al Sé in maschera.
La disciplina del Vedanta ci giunge dopo secoli di contatto con le forme, i modi di pensiero e i
simboli della cultura induista, che si è trasmessa lentamente attraverso quasi 2800 anni ed è
stata colpita solo dal fanatismo dei musulmani e dal puritanesimo degli inglesi. Come si dice
spesso, il Vedanta non suona campane in occidente, e attrae quasi sempre quel tipo di persona
fastidiosamente pura e spirituale, per la quale l'incarnazione in un corpo fisico è disgustosa e
insopportabile.4 È possibile, però, esporne le linee essenziali usando un linguaggio di tipo moderno;
e quando si riesce a farlo senza cadere in raffinatezze esotiche e in eccessive posizioni di
spiritualità, e senza usare la terminologia sanscrita, il messaggio non solo può essere chiaro
anche per chi non ha interessi particolari per le "religioni orientali", ma diventa addirittura la
spinta di cui si ha bisogno per tirarsi fuori dalla percezione isolata di se stessi.
Non bisogna comunque confondere tutto questo con le nostre solite idee sull' "altruismo", che
consiste nello sforzo di identificarsi con gli altri e con i loro bisogni pur rimanendo ancora sotto
la forte illusione di non essere altro che l'io. Questo "altruismo" è molto incline ad essere un
egoismo di tipo raffinato, simile a quello di chi fa parte di un gruppo e gioca al gioco del "noisiamo-più-tolleranti-di-voi". Il Vedanta in origine non era moralista, e non spingeva ad imitare i
santi senza condividerne le motivazioni personali, o ad imitarne le motivazioni senza possedere la
stessa conoscenza che li ha illuminati.
Per questa ragione il Libro che trasmetterei ai miei figli non conterrebbe prediche e doveri. Il
vero amore nasce dalla conoscenza, e non da un senso di dovere o di colpa. Sarebbe come voler
essere una madre invalida con una figlia che non può sposarsi, perché si sente in obbligo di
badare a lei e per questo la odia. Il mio desiderio non è di dire come le cose dovrebbero essere,
ma di dire come sono, e come e perché le ignoriamo così come sono. Non si può insegnare a un io
(un "ego") ad essere altro che egoista, sebbene pretenda nei modi più sottili di essere
trasformato. La cosa fondamentale è quindi dissolvere, per "esperimento" e per "esperienza",
l'illusione di percepire se stessi come un io separato. Come conseguenza, si potrà assumere un
comportamento diverso dalle linee della moralità convenzionale. Può accadere quello che accadde
a Gesù, del quale i conformisti dicevano: "Guardatelo! E' goloso e ubriacone, e amico dei
pubblicani e dei peccatori! ".
Inoltre, nel superare l'illusione dell'io è impossibile pensare di essere migliori o superiori di chi
non lo ha fatto. In tutte le direzioni, c'è solo il Sé che gioca le sue miriadi di giochi a nascondino.
Gli uccelli non sono migliori delle uova da cui sono usciti; e in effetti si potrebbe dire che un
uccello è "il modo di un uovo di diventare altre uova". L'uovo è l'io e l'uccello è il Sé liberato. Un
mito induista immagina il Sé come un cigno che depone le uova da cui nasce il mondo. Non dico
quindi che si deve uscire dal proprio guscio: un giorno, in qualche modo, l'io (il vero io, il Sé) lo
farà; non è impossibile che il Sé durante il suo gioco debba rimanere addormentato nella maggior
parte delle sue maschere umane, portando poi a termine con una vasta esplosione il dramma della
vita sulla terra. Un altro mito induista dice che con l'andare avanti del tempo, la vita sulla terra
peggiora sempre di più, finché il dio Shiva (l'aspetto distruttivo del Sé) compie una danza
terribile che brucia ogni cosa nel fuoco. Poi, dice il mito, vengono 4.320.000 anni di pace assoluta
durante i quali il Sé è se stesso e non gioca a nascondino. E poi il gioco ricomincia, dando vita a un
universo perfetto che inizia a decadere dopo 1.728.000 anni. E ogni giro è compiuto in modo tale
che le forze del male siano presenti solo per un terzo della sua durata, godendo alla fine un
trionfo breve ma illusorio.
Oggi, già soltanto la vita del nostro pianeta è considerata più lunga: ma di tutte le civiltà antiche
quella indiana ha posseduto la visione più fantasiosa del tempo cosmico. Non dimentichiamo
comunque che la storia della creazione e distruzione ciclica del mondo è mito e non scienza,
parabola e non profezia: è solo un modo per rendere in immagine l'idea che l'universo è simile al
nascondino.
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Dico "quasi sempre" perché sono a conoscenza di alcune eccezioni, sia qui che in India.
Se, quindi, non dico che ci si deve risvegliare dall'illusione dell'io e aiutare il mondo a salvarsi dal
disastro, a che scopo il Libro? Perché non sedersi comodamente e lasciare che le cose vadano
come devono andare? Semplicemente perché, per me, scrivere fa parte delle cose che “vanno
come devono andare”. Come essere umano, per mia natura mi piace la filosofia e mi piace farla
conoscere. Lo faccio allo stesso modo in cui alcuni uccelli sono aquile e altri colombi, o alcuni fiori
sono gigli e altri rose. E capisco anche che, meno faccio prediche, più è possibile che qualcuno mi
ascolti.
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Il gioco del Bianco e Nero
Quando ci fu insegnato l'alfabeto e i numeri, a pochi di noi fu detto qualcosa del Gioco del
Bianco-e-Nero. È un gioco abbastanza semplice, ma fa parte delle cose che vengono tenute
nascoste. Consideriamo anzitutto i cinque sensi come forme differenti di un senso fondamentale,
qualcosa di simile al tatto. La vista è un tatto sensibilissimo: gli occhi toccano (o sentono) le
onde-luce, permettendoci di toccare quello che non potremmo raggiungere con le mani. Allo
stesso modo, le orecchie toccano le onde sonore dell'aria, e le narici le piccole particelle di
polvere e di gas. Ma i neuroni che, in forme e schemi complessi, formano questi sensi, possono
mutare tra due sole condizioni: l'attività e l'inattività. Quindi ogni neurone segnala al cervello
soltanto il "sì" o il "no"; ma come sappiamo dai calcolatori basati sul sistema aritmetico binario, le
cui uniche cifre sono lo 0 e l'1, questi elementi semplici possono dare forma a schemi
incredibilmente complessi.
In questo senso, il sistema nervoso e i calcolatori binari sono molto simili a tutto ciò che esiste.
Immaginiamo questa vibrazione in termini di onde o di particelle: non troveremo mai un'onda
senza un avvallamento, o una particella senza un intervallo o uno spazio tra essa e le altre. In
altre parole, non esistono onde a metà o particelle isolate senza spazio intorno. Non c'è attività
senza inattività, e non c'è alto senza basso.
Sebbene i suoni ad alte vibrazioni sembrino essere continui e puri, tutti i suoni sono in realtà
composti di suono e silenzio: è la loro alternanza troppo rapida ad impedire che l'orecchio riesca
a percepirla coscientemente. Possiamo accorgercene solo, ad esempio, con le note più basse di un
organo. Allo stesso modo, la luce non è composta di sola luce ma anche di buio. La luce si irradia
sotto forma di onde, con un movimento continuo verso l'alto e il basso. In alcune condizioni la
velocità di queste vibrazioni può sincronizzarsi con quella di altri oggetti in movimento facendoli
apparire fermi. Ecco perché ……………………………………………………………………
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