riassunto cap. XXVIII

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riassunto cap. XXVIII
I promessi sposi – Capitolo XXVIII
Milano dopo la sedizione
«Dopo quella sedizione del giorno di san Martino e del seguente, parve che l’abbondanza fosse
tornata in Milano, come per miracolo». Il pane, al prezzo delle annate migliori, andava a ruba, ma
era un’abbondanza fittizia: la situazione si faceva in realtà sempre più difficile. A partire dal 15
novembre, si susseguirono provvedimenti per limitare l’acquisto del pane e per reperire la materia
della panificazione. Il pane e la farina furono così mantenuti a buon mercato; ma ecco dalla
campagna accorrere «in processione» gente a rifornirsi: si proibì allora di portar fuori della città
pane per più del valore di venti soldi. Ai trasgressori erano comminate pene pecuniarie e corporali.
«La moltitudine aveva voluto far nascere l’abbondanza col saccheggio e con l’incendio; il governo
voleva mantenerla con la galera e con la corda»; tutti provvedimenti inefficaci e inattuabili erano
conseguenza inevitabile del primo, il calmiere imposto da Ferrer, che, forzando la logica del
mercato, stabiliva per il pane «un prezzo così lontano dal prezzo reale». In conclusione, la
sommossa determinò «perdita effettiva di viveri» e «consumo [...] senza misura».
La città affamata
«Nell’inverno avanzato e nella primavera» del 1629 la mancanza di viveri risulta sempre più
drammatica: la carestia opera «senza ritegno, e con tutta la sua forza», come si legge nelle relazioni
degli storici dell’epoca. Botteghe chiuse, strade deserte, mendicanti vecchi e nuovi - tra cui i bravi
che, dimessa l’antica arroganza, «paravano umilmente la mano» - costituiscono lo spettacolo della
città; il quadro è reso più doloroso dalla presenza dei contadini in miseria attratti a Milano dal
miraggio della sua antica munificenza. Qua e là per la strada, un po’ di paglia trita e fetida è «un
dono e uno studio della carità: eran covili apprestati a qualcheduno di que’ meschini, per posarci il
capo la notte».
Il cardinal Federigo si prodiga con tutte le sue energie per alleviare almeno in parte i disagi più
gravi: manda per la città sei preti divisi in tre coppie, seguiti da facchini carichi di cibo e di generi
di conforto; provvede ad alloggiare a sue spese presso qualche famiglia i più bisognosi: fa
comprare, radunando tutti i suoi mezzi, una gran quantità di granaglie, che spedisce nei luoghi più
poveri della diocesi; fa distribuire ogni mattina, nel palazzo arcivescovile, duemila scodelle di riso.
Lui stesso visita la città, quartiere per quartiere, dispensando elemosine: ma sono sempre misure
inadeguate alla tragicità della situazione. «Tutto il giorno» si sente «un ronzìo confuso di voci
supplichevoli» e, la notte, gemiti, urla, invocazioni. Eppure, nessun accenno di sommossa: la
violenza stessa del male toglie la forza della ribellione. Schiere di pellegrini, segnati in viso dalla
morte, s’incrociano compiendo itinerari inversi, sospinti dalla medesima speranza di trovar soccorso
altrove: sono i contadini, e anche abitanti di altre città dello Stato, che vengono a Milano, o i
milanesi che partono verso il contado: molti, esausti, periscono per strada. Il Ripamonti descrive
uno spettacolo pietoso: un poppante piangente attaccato al petto della madre ormai cadavere.
Dappertutto - scomparse le gale, dimessi anche gli abiti dei nobili - cenci e miseria.
Il lazzaretto
Nella primavera il tribunale di provvisione, di fronte al crescere dei cadaveri e dell’ammasso di
miserie, decide di riunire tutti gli accattoni nel lazzeretto, a spese della comunità. Molti vi accorrono
volontariamente; quelli che rifiutano di entrarvi vi sono condotti a forza dalle guardie. I ricoverati
raggiungono ben presto il numero di diecimila, in una promiscuità terribile di gente onesta e
mendicanti di mestiere, ladri e truffatori. Ma la mortalità continua a crescere: e allora la Provvisione
non trova di meglio che aprire le porte del lazzeretto. I poveri ne escono «con una gioia furibonda»;
gli ammalati sono trasportati in un altro ospizio, dove la maggior parte perisce. «Intanto, però,
cominciavano que’ benedetti campi a imbiondire», e con il nuovo raccolto cessa la carestia; i
contadini se ne tornano ai loro paesi.
La minaccia della peste
Altri flagelli sovrastano però le popolazioni dello Stato. Il cardinale Richelieu, infatti, espugnata La
Rochelle, la roccaforte difesa dagli Ugonotti, aveva persuaso il re a portare aiuto al duca di Nevers.
Entrò così in Italia, nel marzo 1629, col re Luigi XIII, alla testa di un esercito; sbaragliato il duca di
Savoia che gli contrastava il passo, si accordò con questi perché persuadesse don Gonzalo a levare
l’assedio a Casale. Ma il cardinale e il re tornarono ben presto in Francia col grosso dell’esercito,
mentre truppe di mercenari, inviate dall’imperatore Ferdinando intervenuto nel conflitto a fianco
del1a Spagna, invadevano i Grigioni e la Valtellina: si disponevano a calare nel Milanese per andare
all’assedio di Mantova che Carlo di Nevers si era rifiutato di abbandonare.
Nell’imminenza di tale evento, il tribunale della sanità fa presente a don Gonzalo il pericolo
rappresentato dalla peste che covava nell’esercito imperiale; ma il governatore risponde «che non
sapeva cosa farci: che [...] si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza». Due
medici, Alessandro Tadino e Senatore Settala, suggeriscono allora di proibire l’acquisto di roba dai
soldati imperiali; ma il presidente del tribunale della sanità ha le sue idee… e non crede al contagio!
Il provvedimento ventilato cade nel nulla.
Poco dopo aver dato la risposta che sappiamo, il governatore, per il cattivo esito della guerra, è
sostituito dal marchese Ambrogio Spinola: la sua uscita dalla città, tra fischi, lanci di mattoni e
torsoli, accompagnati dal suonare dei «trombetti», è tutt’altro che gloriosa.
Nel settembre l’esercito alemanno, composto di mercenari (i Lanzichenecchi), entra nel Milanese.
Sono ventimila fanti e settemila cavalli; per venti giorni, a squadre successive, dilagano nel ducato,
comportandosi come un esercito invasore e seminando rovina. Dopo aver attraversato Colico,
Bellano e la Valsassina, sboccano nel territorio di Lecco.