Le rose si vendicano due volte

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Le rose si vendicano due volte
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Leonard Morava
LE ROSE
SI VENDICANO
DUE VOLTE
Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera
e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali
e a condizione che questa dicitura sia riprodotta
© 2006 Editrice effequ Orbetello
www.effequ.it
ISBN 88 89647 16 7
978 88 89647 16 5
Copertina e progetto grafico: Fabio Pastore
A tutti coloro che non ho più.
Sappiano che non piango, sperando che la terra
sia dolce per chi l’ha amata
Prologo
Erion Monaj smise d’essere di questa vita il lunedì della settimana di Pasqua all’alba. L’autorità
giudiziaria impedì l’autopsia in quanto era chiaro a tutti che era morto dissanguato. Il medico
legale, comunque, con i suoi quarant’anni di mestiere, dichiarò che aveva agonizzato per tre o
quattro ore. Trovarono la lama spezzata di un coltello da cucina ferma tra la quinta e la sesta costola
della gabbia toracica. Lui lo tirò fuori e assaggiò il sangue melmoso. “E’ intercostale interno –
sentenziò – puntava il cuore ma non l’ha toccato”.
“Questo qui è morto indolore. Diciamo che si tratta di eutanasia da taglio” concluse.
Prima di spezzarsi, lo stesso coltello aveva riaperto una vecchia cicatrice all’altezza del rene destro
in tutta la sua lunghezza.
Per noi che il morto lo conoscevamo da piccolo, il medico aveva ragione. Erion non aveva dovuto
soffrire più di tanto. Agonizzava già da dodici anni.
Tre settimane dopo ne avrebbe compiuti trentadue.
I
Io, Saimir Sokota e Klodian Seha venimmo interrogati la prima mattina del martedì, in tre stanze
diverse della questura, da tre diversi funzionari contemporaneamente. Era mezzogiorno quando
uscimmo fuori, scoprendo di aver risposto alle stesse domande anche in ordine cronologico. Per
giunta avevamo dato le medesime risposte usando termini diversi e diverso modo d’influire sui loro
dubbi. Ammesso che si trattasse di omicidio non potevamo essere stati noi. La nostra ambasciata di
Roma ci aveva preceduti con le sue informazioni dettagliate sul passato del morto, sicché
testimoniammo solo sul presente .
Alla fine non avevamo detto niente che alla questura non sapessero. Eravamo tutti schedati. Ci
dissero di restare a loro disposizione in qualsiasi ora dei giorni a venire. Quando seppero che
l’indomani avremmo accompagnato il morto nella nostra terra d’origine, acconsentirono, buttandola
sul fatto che comunque sarebbe passata una settimana prima che avessero sentito nostalgia delle
nostre facce.
I suoi scritti a mano libera trovati dappertutto li affidarono a un traduttore d’ufficio. Questi non solo
li avrebbe tradotti, ma li avrebbe redatti anche, spostando le parole con una logica di base, facendo
in modo che avessero un senso.
Tanto che il vicequestore trovandoli sulla scrivania, esclamò: “Maremma puttana. Un altro poeta ci
ha lasciato!”.
Prima di noi si era presentata in questura la proprietaria della pensione dove Erion aveva dormito
negli ultimi due mesi, dichiarando quello che sapevano tutti, almeno nelle vicinanze della pensione.
Ogni venerdì andava a trovarlo Teresa Sasaro, la cameriera della trattoria dove la vittima aveva
mangiato per cinque anni, escluso naturalmente il venerdì in quanto giorno di chiusura. Le donne
erano diventate anche amiche, motivo per cui Simona Bruni, la pensionante, il venerdì intorno alle
venti non rispondeva al citofono sapendo già chi fosse a suonare. Si limitava a lasciare il portone
aperto in segno di rispetto per una relazione meritevole di tale confidenza.
Il penultimo venerdì si era permessa perfino di dirle, convinta che l’altra l’avrebbe fatto: “Lo prenda
con cura, Teresa. L’ho visto rabbuiato”.
La cameriera comunque restava fuori dai dubbi. Il sabato mattina era partita per la Sicilia, a ottenere
l’affidamento anche in via legale di suo figlio di cinque anni. Il terminal dell’aeroporto confermò il
volo con tutti i passeggeri a bordo, benché i cieli fossero turbolenti.
Erion Monaj, o chi per lui, aveva avuto cattivo gusto nello scegliere il luogo della morte. Una terra
di nessuno ai piedi d’una collina, dove sarebbero cresciuti per sbaglio papaveri e girasoli. La sua
macchina era stata trovata parcheggiata nella piazzola di sosta al chilometro ventinove della
superstrada che porta all’est. Da lì aveva fatto ancora centotrenta metri di vita per raggiungere il
contrario. Tant’era la distanza fra la sua macchina e il vecchio sughero al quale lo trovarono
appoggiato di spalle in una melma di sangue e con gli occhi gelati verso sud.
Una volante della polizia stradale, fermatasi nella piazzola di sosta a causa di bisogni fisiologici
degli occupanti, aveva notato il bigliettino sul parabrezza con su scritto: “Sotto il sughero c’è un
morto”.
La calligrafia non era del morto. Si dovrà comunque ringraziare la mano che scrisse il bigliettino, e
più di essa le vesciche sotto sforzo dei vigili. Erano le sei di mattina, poco dopo le formiche
sarebbero entrate in azione.
Alla sala mortuaria ci fecero entrare alle diciannove di martedì. Prima non era possibile, perché il
morto non era pronto. Noi altrettanto. Klodian Seha dovette trovare un’agenzia funebre disponibile,
dal momento in cui decidemmo di partire l’indomani per mare. La nostra decisione, per quanto
orrenda, era anche obbligata. Si doveva partire per forza di mercoledì, in quando martedì sera
l’Albania si poteva raggiungere solo col pensiero. Non c’erano altri mezzi e orari possibili.
Facendolo per cielo saremmo arrivati a Tirana alle quattordici per poi raggiungere il cimitero del
nostro paese alle diciassette. Ora, questa, indegna per la celebrazione della messa di rito. Ammesso
che avessimo convinto il parroco, sorgeva il problema dei partecipanti: insormontabile. Non si può
seppellire nessuno da noi dopo il mezzogiorno, meno che mai con il tramonto nei paraggi. Esiste
una regola secondo la quale la sepoltura dovrà dar luogo e tempo ai partecipanti di ingoiare un
boccone di hallva, credendo d’ingoiare i peccati del morto e sperando di mandarlo al Creatore puro
e leggero. Per il luogo si ha solo l’imbarazzo della scelta. Il tempo al contrario non lascia via di
scampo: mezzogiorno da sempre e per sempre. Si ha infatti la certezza che l’alba sia il tempo di
onorare gli animali, mezzogiorno gli uomini e che dall’imbrunire in poi sia esclusiva di Dio.
Avremmo potuto rispettare le tradizioni lasciando riposare Erion per tutta la serata di mercoledì,
come se fosse ancora vivo, improvvisandogli una camera ardente per gli ultimi saluti: ma neppure
questo era possibile. Era morto all’alba di lunedì, quindi alle diciassette di mercoledì avrebbe
scavalcato il tempo del pianto e il suo limite di tolleranza. Cinquanta ore in tutto dall’ultimo respiro.
Non avendo tale requisito la bara non si poteva aprire. Essa e chi ci stava dentro dovevano sostare
sopra la terra per non più di tre ore. Prima di contattare le agenzie funebri, Klodian Seha aveva
inutilmente tentato di persuadere suo padre, essendo quest’ultimo consigliere comunale, dunque
personaggio di rilievo in paese. Bujar Seha era stato risoluto come sempre: “Se lo portate di
mercoledì lo butterete al fiume”.
Seha tornò col preventivo dell’agenzia. L’importo era ingente, ma pagando in contanti ci avrebbero
fatto un generoso sconto sulle iniezioni di formalina, che a detta del titolare dovevano essere
abbastanza massicce visto l’aprile con le sue temperature e la lunghezza del viaggio. Tuttavia la
cifra ci sembrò sostenuta, e ci sarebbe sembrata sostenuta qualsiasi somma che avesse superato le
nostre risorse. Saimir Sokota invece dovette avvisare i nostri titolari e i conoscenti della partenza. Io
mi misi in contato con la nostra ambasciata a Roma, cercando il loro aiuto per il fatto che il mio
permesso di soggiorno era nella fase di rinnovo, quindi non in mio possesso effettivo. Ivan Torreti,
direttore dell’ufficio stranieri, mi chiamò alle diciotto per dirmi che l’indomani mattina sarebbe
stato pronto, ammonendomi per essermi rivolto all’ambasciata prima di rivolgermi a lui.
“Sai benissimo che Monaj mi era simpatico – mi disse – ma anche se così non fosse, non c’è morte
che non si rispetti”.
Sicché per la prima e l’ultima volta vedemmo Erion Monaj da morto verace alle diciannove di
martedì.
Il perimetro del suo viso mi sembrò dimezzato. Pareva che dormisse, ma doveva essere così per tutti
i morti. Non ne avevo visti altri. Ciò che forse lo distingueva erano le palpebre viola e i pochi
capelli rimastigli, inariditi e color rame. Da vivo li aveva castani, benché sempre pochi. Sentivo un
blocco sullo stomaco rendermi incapace del più stupido dei gesti. L’aria gelata della sala con le sue
mura in gesso mi diede l’idea della morte. Il lenzuolo di lino bianco che lo copriva si limitò a
confermarmela.
Da domani lui non ci sarebbe stato… lo baciai sulla fronte e uscii. Sokota altrettanto, ma ebbe
tempo di sentire Klodian Seha che parlava al morto mentre si piegava per baciarlo. “Amico mio.
Dove andrai, fidati tanto del tuo viso e poco della tua mente”.
Fuori, il muscolo che gestisce il dolore si distrasse toccando aprile e lo liberò. Piangevamo in tre,
cercando ognuno conforto nel pianto dell’altro, sapendo bene di non poterlo trovare. Quella notte
cercammo di dormire tutti e tre a casa mia, ma non fu possibile. Ingannammo il sonno giocando a
carte. L’indomani era ancora aprile. Il mattino giunse con la brina sui tetti delle macchine,
stendendo sulle strade il retrogusto della notte a causa dei lampioni ancora accesi in un’ora insolita.
Sapeva di pioggia a venire, ma il cielo era pulito e senza voli.
Daniel Tirso, il barista di sempre, ci vide senza di lui e non ci domandò se sapevamo qualcosa di
più. Ci conosceva da quattro anni, poiché avevamo la buona abitudine di non cambiare bar almeno
per la prima colazione. Il suo fu nostro per via della nostalgia.
Daniel Tirso era originario di Ostuni, la città bianca in provincia di Brindisi, e neppure da noi, dove
le città sono quasi tutte uguali, se ne trovava un’altra che assomigliasse così maledettamente alla
nostra. Venendo a saperlo diventò nostalgico anche lui, tanto da far sì che pagassimo le nostre
prime colazioni in un conto unico il quindicesimo giorno del mese successivo. Somma che poi
devolveva in beneficenza alla diocesi del suo paese natale. Saimir Sokota gli chiese di saldare il
conto in anticipo di due giorni, visto che stavamo per partire. Daniel Tirso disse che stavolta
avevamo usufruito gratis dei suoi servizi magistrali.
Sokota tentò di insistere, ma lui lo zittì attraverso lo sguardo che ha un nome solo: sguardo
brindisino.
Vedendo me e Seha intenti a leggere la stampa regionale, ci disse di non fare caso a quello che ci
stava scritto. Il giorno prima il giornale si era limitato a dedicare a Erion solo dodici righe
dell’ottava pagina, dandone la notizia senza approfondimenti. Quel mattino di righe ce n’erano
trentasei, e ipotizzavano la faida sullo spaccio della marijuana.
Il giornalista non doveva essere comunque quello del giorno prima, per il semplice fatto che aveva
lo stile caratteristico dei principianti: più narrazione che giornalismo. La fonte dell’ipotesi non
poteva arrivare dalle indagini ufficiali. La polizia sapeva meglio di noi che le droghe leggere non
erano più roba nostra. Avevamo passato la mano ai nordafricani da tempo, grazie a un ritardatario
rimorso di coscienza.
Alle nove in punto ci trovammo davanti alla porta dell’agenzia funebre. La sua bara era già dentro
la macchina con sopra una corona di fiori misti. Avevano avuto il buon gusto di mettere perfino il
gelsomino. Ebbi la tentazione di chiedere all’autista di aprirmi la bara in modo da poter vedere il
perimetro del viso di Erion. Speravo avesse assunto le giuste dimensioni, ma gli sguardi arrugginiti
di Seha e Sokota sollecitarono le mie origini. Il tempo del pianto era scaduto. La bara non si poteva
aprire. Sarebbe stato un oltraggio alla morte più che al morto, e io mi ritenevo ancora un buon
patriota a dispetto del mio desiderio.
Teresa Sasaro arrivò mezz’ora dopo. L’aveva avvisata Klodian Seha la notte prima. Aveva il suo
numero grazie al fatto che la batteria del cellulare di Erion Monaj era quasi sempre scarica per
trascuratezza, lui aveva pensato bene di trasferire le chiamate sul cellulare di Seha, dicendo a chi lo
chiamava che era come parlare con la segreteria dell’anima sua.
Era così per davvero, anche se le uniche chiamate alle quali Klodian rispondeva imbarazzato erano
solo quelle di Teresa. E Teresa stessa, alla fine, si era rassegnata. Si limitò ad andare a trovarlo
quando ne aveva voglia, cancellando il suo numero per frustrazione.
Aveva preso l’ultimo volo valido per salutare chi gli aveva regalato le sue grazie da quattro mesi.
L’udienza per l’affidamento del figlio si teneva quel giorno stesso. Aveva dato mandato al suo
legale per le firme, precipitandosi da Siracusa con le lacrime che parlavano lo stretto dialetto che
noi non capivamo. Capimmo però il contrario di quello che erano soliti giurare entrambi. Almeno
lei l’aveva amato. In silenzio, senza farglielo intendere. Così fino a metà aprile, ritrovandosi davanti
alla morte inattesa senza trucco, coi capelli e il cuore in subbuglio. L’azzurro dei suoi occhi si era
dimezzato.
Altro non doveva essere che lo specchio d’un amore rimasto muto.
Si erano conosciuti alla fine dell’anno prima. Monaj dal suo insediamento in città possedeva la
disciplina ferrea di non tradire i suoi locali, così come il meccanico e l’edicola, a meno che questi
non chiudessero i battenti. Nella sua vita odiava cucinare, come tutti i trascurati. Mangiava da
Bocche Cucite, una trattoria situata alla periferia nord della città, per la sola convenienza di portarsi
appresso anche il pranzo del giorno dopo. Teresa Sasaro, invece, era stata assunta a inizio
settembre, tempo in cui credeva d’aver spazzato via le macerie del suo divorzio.
Si era sposata a ventotto anni e aveva surgelato a modo suo la crisi del settimo anno: divorziando.
Troncò il matrimonio pur zeppa di rimorsi, e si portò dietro suo figlio di tre anni e sua madre di
sessantadue, alla quale, da buona piemontese, bastarono i rimorsi della figlia per dimenticarsi dei
propri. La Sasaro lasciò Siracusa per non farglielo pesare al marito, colpevole di concepire il
matrimonio solo nel buon sesso e nei buoni guadagni. Dal canto suo lei si riteneva ancora una bella
donna, quindi meritevole di passeggiate all’imbrunire e di prime a teatro. Arrivò in città con la
voglia di affogare nel sudore gli ultimi malanimi della delusione. Dapprima fece la badante di una
vecchia paralitica, convenendo con se stessa che non si stancava abbastanza. Trovò mezza pace due
anni più tardi, accettando il posto da cameriera offertole dal titolare di Bocche Cucite, siracusano
come lei.
All’inizio Teresa non si era accorta nemmeno di lui, che arrivava puntuale alle venti e trenta
ordinando solo il secondo che poi cambiava forma senza mai cambiare sostanza: carne di porco in
tutte le salse possibili. A metà novembre pensò che gli sarebbe cresciuto qualche maialino nello
stomaco. Andò a dirglielo una settimana dopo.
“Lo alleverò con cura” rispose lui senza alzare gli occhi, come se avessero parlato da sempre.
Precisamente da quel momento, Teresa Sasaro cominciò a scrutarlo da ogni angolo in cui si
trovasse, senza mai incrociare il suo sguardo, perché lui non pensasse e sperasse d’essere guardato.
Seppe tutto di lui tramite il proprietario della trattoria. Da sola intese che nel suo armadio dovevano
appendersi due paia di jeans, altrettanti maglioni di lana con il collo alto e un solo giaccone da neve
dal doppio bavero. Kashmir e pelle nera. Aveva notato che beveva solo acqua a sorsate regolari,
ogni cinque minuti del suo pasto. A volte anche un litro e mezzo per quaranta o cinquanta minuti.
Tanto era il tempo che lui si fermava nello stesso tavolo vicino alla toilette, per il terrore di sempre:
la diarrea acuta.
Non si rese conto che aveva invaso buona parte dei suoi pensieri, finché non lo vide per due giorni
di seguito. Si era sempre difesa da se stessa dicendo che fosse un’esclusiva del proprio figlio la sua
volontà di fare solo il turno serale per poi passare la giornata a coccolarlo e a crescerlo come si
deve. Certificò in quei due giorni di avere detto e pensato la verità con la sola variante del silenzio.
Il bambino si trovava ora in condominio nel suo cuore con un viso color paglia, i cui occhi castani
fragranti di verde conoscevano come direzione di luce solo il diagonale in basso e l’orizzontale
senza mirino. Era il viso di Erion, ed era regolare. Aveva gli zigomi alti, il mento raccolto e delle
labbra da donna. Possedeva un fisico snello, rientrava nell’altezza media degli uomini e respirava
l’aria mite che lui stesso esalava. Se non fosse stato per la calvizie giunta a un quarto della nuca,
avrebbe dimostrato molto meno degli anni che portava. Cosa, questa, che riusciva senza particolari
sforzi a Teresa Sasaro. A trentasette anni si trovava un fisico solido e quasi ingombrante in quanto
non troppo alta, ma il portamento e il viso sapevano di notti adolescenti pure in assenza di trucco, e
forse ancora di più in assenza di vestiti. Aveva il colorito solito delle siciliane, i capelli lunghi neri
ondulati sulle spalle, mentre gli occhi li aveva ereditati dalla madre: azzurri come il mare quando ha
voglia di stare calmo. Di conseguenza, facendo a meno del bisogno della conferma, Teresa Sasaro
era sicura del fascino che gli uomini subivano a prescindere, e aveva il piglio giusto delle belle
donne, cioè tentare quello che intendeva far suo.
Quando lo rivide il terzo giorno posò la bottiglia dell’acqua sul tavolo e con essa anche il suo
pudore.
“Bel giovane – gli disse – un uomo che beve solo acqua nasconde tanti segreti. Che ne diresti se li
scoprissimo insieme?”.
Lui non alzò gli occhi: “Se intendessi svelare i miei segreti non berrei solo acqua, non le pare?
Comunque, se ci tiene a saperlo, prendo quattro caffè al giorno, due orzi, e anche una bella tazza di
camomilla prima di addormentarmi”.
Disse tutto con le cadenze giuste, senza guardarla, e aveva la sua mano destra a un palmo dalla
sinistra di lei. Teresa toccò l’ironia, l’attraversò e vide la timidezza di lui come l’aveva concepita
nella parte tenera dei suoi pensieri. Aderente all’essere.
“Oh signore, come siamo dolci e solitari – disse ancora – ma io non intendevo mica i segreti dello
spirito. Si comincia sempre da quelli del corpo”. Solo allora lui alzò gli occhi e si mise in guardia,
impaurito dall’azzurro degli occhi di lei. Non conosceva altra difesa, che non fosse l’ironia.
“Signora o signorina?” le domandò.
“Ex per la prima e felicissima per la seconda” rispose lei.
“Allora mi presento – soggiunse lui dicendole il suo nome – sono uno straniero in possesso di due
permessi regolari. Del primo non gliene può fregare di meno, in quanto riguarda il suo governo. Il
secondo invece la riguarda, perché si tratta dell’uso della ragione. Da quando ho quest’ultimo,
divido le donne a seconda della mia portata. Lei, e glielo dico con la mano sul cuore, che per da
dove vengo vuol dire assoluta sincerità, credo che si meriti molto di più. Perciò può stare seduta
quanto vuole, ma non mi prenda in giro per favore. Non sarebbe giusto neanche nei confronti
dell’orario”.
Erano le ventuno e trenta di sabato sera, a metà dicembre.
Teresa Sasaro trasalì, ancor di più incrociando gli sguardi della gente presente in sala. Parlò nel suo
dialetto, ma lo fece così male da non capirlo lei per prima. Alle dodici di quella stessa notte, con
ormai il pudore a caccia di streghe, andò a bussare alla sua porta. In quei mesi lui aveva ricavato un
stanzino e un bagno al secondo piano del rudere che una volta era stato il Consorzio agrario. Un
favore, questo, dell’assistente sociale del Comune, o meglio, un ricambio del favore, in quanto
Erion gli aveva ristrutturato un vecchio armadio dell’Ottocento che l’assistente teneva più per
perdita di tempo che per passione dell’antiquariato.
Erion lasciava il portone di sotto sempre aperto e chiudeva l’altro che dava dritto sullo stanzino per
poi percorrere un corridoio di cinque metri per uno a raggiungere il bagno. Era in tuta e maglia
intima, quella sera, si scaldava con la stufa a gas e si accingeva a scrivere i suoi pezzetti di vita
camuffandoli in versi sparsi, spesso senza alcun legame tra l’uno e l’altro, perché lui li voleva così.
Vide lei sulla porta e dubitò che fosse normale.
“ Bel giovane – gli disse lei – a dispetto dei tuoi permessi ne ho uno anch’io. Quello di accertarmi
che tu abbia gli stessi attributi della tua lingua”. Parlò piano, senza timore, impedendo a lui di non
cogliere nella voce nient’altro che non fosse serietà e fermezza.
Lui sorrise e scosse la testa. La prese per mano e la fece sedere sulla sedia a dondolo di vimini,
mentre si sedeva sul divano-letto ancora in disordine da notti e notti. Di fronte a lei si prese il mento
tra le mani domandandosi a chi doveva ancora tanta grazia.
Scacciando la domanda con la non risposta, le disse: “Prima ero sincero. Non credevo che una come
lei ci tenesse a uno come me”.
Teresa Sasaro non ebbe bisogno d’altro per capire che la sua sincerità era immacolata da farle male.
Lo baciò profondo in bocca facendogli sentire sulle gengive l’asprezza dei propri denti, fermandosi
e affermando senza parlare. Lo vedi che era vero! A lui bastò un centesimo della pausa. Diventò
padrone del suo slancio passionale e sentendo che non gli bastava, lo diventò anche per la
cameriera. Le tolse il giaccone di pelle finta color marrone e la maglia di lana bianca sotto. La
denudò anche del resto per sentire la morbidezza dei suoi seni pieni, il calore delle sue cosce, e
respirò con tutta la forza delle narici l’odore della sua pelle. Si meravigliò, perché cercava
depravazione e trovò grano maturo. Allora si sentì in colpa e per autopunirsi le regalò un millimetro
delle sue labbra per un centimetro della pelle di lei.
“Santo cielo – mormorò lei nella sua lingua – proprio come immaginavo”. Avrebbe ripetuto la
stessa frase tutte le volte che avrebbero fatto il loro amore denso ma fluido. Perché lei aveva i modi
della donna che sa il fatto suo, ma non fu mai depravata, mentre lui era mite e lunare per fatali errori
della vita.
Alla fine, mentre esausti fumavano sdraiati sui rottami d’un tappeto, lei passò la mano sul suo
fianco destro e sentì il grezzo della cicatrice, che cominciava all’altezza del fegato finendo dove sta
l’osso pubico.
“Che cos’è?” gli domandò.
“Non è corpo – rispose lui – è anima”.
“Ok” sorrise, e non glielo domandò più.
Gli domandò invece del suo strano sfregio alla parte sinistra della fronte.
“Come prima” rispose lui.
“Spero che tu abbia il cuore intatto” concluse lei, e andò via senza rimorsi, lasciando il suo alone
d’amore ad appannare i vetri.
Erion Monaj si avvicinò alla finestra e la vide andar via, squarciando il buio più con la luce degli
occhi che con quella dei fari. Ritrovò la domanda di tre ore prima nei vetri appannati.
A chi doveva ancora tanta grazia? Ma c’era un vento gelido di passaggio, oltre la finestra, che fece
oscillare i pini sui lati della strada e con loro il suo bisogno di risposta.
Era diventato fan della fatalità da dodici anni. Noi che lo conoscevamo da piccolo, sapevamo che lo
era a pari merito, per lealtà verso ciò che la vita gli aveva dato, e per esigenza d’accentuarlo.
Lui aggiungeva: “E’, sì, per pari merito, ma tra la vocazione, l’ignoranza e la solitudine”. Sicché
non voleva lasciar niente dietro nelle zanne del dolore per quando la fatalità si sarebbe presentata.
Una volta gli dissi che forse la fatalità aveva altro a cui pensare.
“Ogni cosa a suo tempo – mi aveva risposto – fa che qualcuno me la evochi e vedrai”.
Non gli credevo. Per me era triste e oscuro come lo sono tutti i creditori della vita. Sta di fatto,
comunque, che per lui il futuro era ventiquattro ore avanti e il passato lo stesso indietro. Il primo si
materializzava con la tazza del caffè, il secondo con la camomilla. La notte dopo Teresa, sentì che il
varco fra l’uno e l’altro si era ristretto, ma fu solo senso del tempo, e lui sorrise, percependo grazie
alla lombalgia la pesantezza delle nuvole. Stava per piovere. Si addormentò felice per le prime
gocce della pioggia e riconoscente alle prime gocce della convinzione che nemmeno la cameriera
l’avrebbe assolto dalla fatalità.
Teresa Sasaro, invece, abbandonò per strada le illusioni e le premure da romanzi Harmony. Il modo
in cui lui si era imposto le fu d’aiuto. Ebbe la certezza che per passeggiare all’imbrunire con
qualcuno doveva rinascere. Erion tante volte fu sul punto di demolirgliela, senza saperlo e senza
riuscirci. Lei lo invitò la domenica dopo per pranzo e lui ci andò con una bottiglia di Brunello
pregiato.
Alla sincera domanda di lei – “Se non lo bevi perché lo porti?” – rispose a modo suo: “Sono un fan
della fatalità, quindi devo spendere a priori, in quanto si crede che nell’Aldilà abbiano un occhio di
riguardo per le tasche vuote”.
Lei lo scrutò a occhi spalancati: “Io al contrario sono una pazza della vita, e siccome siamo a casa
mia o lo bevi o rimandiamo”.
Vestiva una camicia bianca con sopra una via di mezzo tra maglione e sciarpa, pantaloni di velluto
nero attillati, e aveva abbastanza luce negli occhi che lui imparò a bere il vino volentieri. Imparò
anche a bere il prosecco con l’Aperol come aperitivo e l’Averna come digestivo, bevande, queste,
per le quali le nostre gole sono tuttora grate a Teresa Sasaro. Legò molto con suo figlio e pure con
sua madre, la quale, vedendolo mangiare con gli occhi bassi, intese che la figlia aveva scelto male
di nuovo. L’uomo che sedeva accanto a lei era tanto timido quanto esuberante era stato il genero.
Chiamò la figlia in disparte e le domandò se sentiva il bisogno di un uomo o di un fratello.
“Se riuscisse a esserlo entrambi, sarebbe meraviglioso” le rispose Teresa.
Lo fu sempre a metà. A esserlo per intero glielo impedì il chiodo fisso della sua ostinazione. Non
far addolorare nessuno all’alba dell’inevitabile. Ci sarà riuscito con tutti, ma non con la Sasaro.
Baciava il suo feretro con la mano attraverso il vetro scuro della macchina e aggiunse alla corona un
solo tulipano bianco, ma piangeva pulito e respirava male, motivo per cui, forse, le notti sotto la
lapide parleranno anche il siciliano.
II
A Brindisi arrivammo verso le venti. La macchina funebre con lui dentro arrivò alle ventuno. La
nave doveva partire alle ventitre, ma partì verso l’una di giovedì per ritardo di rifornimento.
Avevamo percorso ottocento chilometri con la certezza che ogni strada è un stato d’animo che varia
nei confini tra le regioni. La macchina funebre l’avevamo lasciata dietro già all’uscita della città,
ma il feretro ci sembrava di averlo nel bagagliaio. Sul grande raccordo anulare avevo guidato io, e
mi era sembrato che a dispetto delle indicazioni sarei finito di nuovo in Toscana, per trovare lui
nella città senza lui. Una volta in Campania guidava Seha, e aggirò Napoli, tagliando a Caianello
verso Benevento, perché Napoli era un vecchio amore del morto, quindi non voleva rattristarlo.
Sokota guidò da Bari fino al porto di Brindisi, ma prese la complanare invece della superstrada,
attraversando tutti i paesi di Puglia e le loro campagne, convinto che il dolore si sopportasse meglio
con ulivi oltre i finestrini.
Ci fermammo a Calanto, in Puglia, dove avevamo passato i nostri primi anni italiani, e benché
questi fossero tre, nessuno si ricordava di noi. Escluso Cosimo Tagliente, l’uomo che ci aveva
ospitati clandestinamente nel novantaquattro e regolarizzati un anno dopo.
“Perché lui?!” ci disse quando venne a sapere, ma l’avrebbe detto per chiunque allo stesso modo.
La voce gli tremava, ma non pianse.
“Vi porto un po’di vino – ci disse al momento dei saluti – sostiene l’anima”. Ci diede quattro
bottiglie di vino rosso fragrante di mele cotogne, e tre di loro furono davvero di sostegno, almeno
per convenire senza dirlo, che avevamo fatto ottocento chilometri di superstizione e rancore
inclassificabile. Per classificarlo avremmo dovuto bere anche il quarto, ma era di Erion e non
osammo farlo. Pranzammo nella sala ristorante della nave con il commissario di bordo, invitando
anche l’autista della macchina funebre, il quale alla fine cenò da solo non capendo quel che
dicevamo. Si parlava in albanese, e le poche volte che qualcuno di noi aveva il buon senso di
tradurgli qualcosa, non faceva altro che stralunarlo di più.
Erano le tre di notte quando stendemmo i nostri corpi sulle poltrone libere coi finestrini da cui si
poteva vedere un spicchio di mare nero e abbordabile. Alle sei e trenta giungemmo senza sonno
dall’altra parte del mare. Ci alzammo a ancoraggio concluso. Il porto di Valona non cambiava mai.
Gli si poteva costruire di tutto intorno, purificare le sue acque, mettere a nuovo le banchine e le navi
da commercio, rovesciarlo anche. Rimaneva intatta la sua somiglianza con i propri fondali:
costruzioni in cemento armato senza intonaci, e senza un colore che si ricordi particolarmente, e
strade con asfalto d’avanzo da altre strade.
Il nuovo direttore aveva fatto cambiare il colore della divisa ai doganieri e ai militari di leva,
vestendo i primi con il blu delle acque e i secondi con il verde delle alghe, accentuando così la
convinzione di tutti: era il porto più disgraziato d’Europa. La colpa l’attribuivano a un sultano turco
del Settecento, suo progettista e costruttore. I nostri ricercatori della storia ammettono che il sultano
stava all’impero turco come Nerone stava a quello romano, senza comunque trovare niente che
provi la sua pazzia. Dalle leggende popolari, di cui la storia pur negandole non può fare a meno, si
sa che il sultano aveva il terrore dei gabbiani, e quindi progettò e costruì il suo porto a loro
piacimento, con la speranza d’alleviarsi il tormento. Si crede che morì con un’altra speranza. Una
volta fatta pace con i suoi nemici, buoni né a volare né a nuotare, credeva che almeno fossero capaci
di tirare a galla le navi arenate nella baia. Tuttavia meno che mai il porto poteva cambiare viso se ci
si arrivava con un morto nella pancia della nave.
Vedemmo terra alle cinque quando stava per albeggiare, ma il suo richiamo l’avevamo percepito da
prima ancora, grazie agli schiamazzi di gabbiani più grossi del solito sulla scia della nave. Per tutta
la notte avevamo evocato i migliori momenti di lui, poiché quelli peggiori si evocavano da soli.
Nessuno di noi possedeva il coraggio di fare la benché minima ipotesi su come poteva essere
successo. L’avremmo potuto fare se fosse accaduto a uno di noi, con lui ancora in vita. In fondo
sarebbe stata una sorpresa, a prescindere da come e quando. Cosa che per lui non era: portava la
fede della morte all’anulare della vita, e altro non aveva fatto che mantenere la promessa di
entrambi e per entrambi.
Nel farlo aveva trascinato con sé la nostra voglia del dubbio. L’aveva fatto da solo o per mano
d’altri? A far pendere la bilancia per la seconda possibilità, di motivi ce n’era uno solo: la sua
premura di morire d’ottobre, credente nella benedizione delle foglie cadenti e nei battiti di luna che
in quel mese si possono anche contare, a patto che ci si tenga per davvero. Ma ipotesi non ne
facevamo, anche per paura d’essere smentiti la settimana dopo. Era nostro infatti il sentore che al
ritorno avremmo saputo tutto, o almeno abbastanza da intuire tutto.
Ci fecero scendere per primi. Il doganiere addetto alla timbratura dei passaporti chiese di timbrare
anche il suo, ma il commissario della nave glielo impedì, dicendo che la burocrazia non aveva
potere sui morti.
“E’ uno dei pochi piaceri della morte – rincarò la dose – non si ha più a che fare con avvoltoi in
divisa come voi”.
Il doganiere, per alleggerire lo scoramento, ci disse che se proprio ci tenevamo a mandare la vita al
diavolo da giovani che almeno lo facessimo dove eravamo nati: “Vi costerebbe meno” concluse.
All’uscita dalla nave una recluta giovane fece il saluto militare con tanto di dedizione. Respirai
l’aria del porto che poi non doveva essere diversa da quella di Valona. Città che conoscevo bene e
che si accingeva a svegliarsi del tutto nella propria aureola di onde tranquille per mano di un aprile
che poche volte ricordavo così: impercettibile a forza di viverlo. Le autorità del porto ci fecero
avere i permessi della macchina anche se non era ora delle procedure. Più tardi venimmo a sapere
che era stata cura del padre di Sokota. Pagammo l’assicurazione del veicolo per dieci giorni, tempo
minimo valido. Guarda un po’, la mia macchina era coperta dalla Ras italiana in tutto il mondo
all’infuori del paese in cui ero nato.
Fuori dai cancelli del porto trasportammo la bara sulla macchina funebre con le targhe albanesi.
Saldai l’altra metà dell’importo all’autista toscano, il quale mi chiese di un bar dove si poteva far
colazione all’italiana. Gliene indicai due stringendogli la mano e non salutandolo come si soleva
fare. Come si fa a dire arrivederci a chi trasporta feretri?
C’era un corteo da matrimonio ad aspettarci, con i nastri neri sui parabrezza. Salutammo solo quelli
che conoscevamo, in quanto salutare tutti e rispondere alle loro domande di rito sarebbe stato tempo
perso.
Erano le otto di giovedì. Alle undici si doveva essere in paese per non mancare di precisione a padre
Stefan, unico prete sul territorio, per di più devoto a san Tommaso, quindi capace di mandare
all’aria l’ultima benedizione in caso di una sola mezz’ora di ritardo.
Salii in macchina con mio padre e Igor Musta, nostro insegnante di cultura fisica al liceo, e in
mezzo alla confusione ebbi comunque tempo di vedere che Seha guidava la mia accompagnato da
Dorata Bardhi, la nostra sorella acquisita. Tramite mio padre seppi che c’era la giunta comunale al
completo, tanti nostri amici di scuola e di giochi, e altri che la mia memoria non aveva registrato.
Alla loro domanda se si poteva fare qualsiasi ipotesi sulla morte risposi di no con la testa.
“E’ dura da digerire figliolo, ma fatto sta, che se n’è andato anche l’ultimo dei Monaj” disse mio
padre.
“Almeno di quelli che abbiamo conosciuto” aggiunse Igor Musta.
Era così! In paese non aveva nessuno del suo sangue ad aspettarlo. Il padre di Erion, Selim Monaj,
era arrivato alla fine degli anni Sessanta, fresco sposo di Marieta Monaj. Arrivò dal nord per lavoro.
Faceva l’ispettore di polizia, e da noi è d’uso prestar servizio il più lontano possibile dal proprio
paese d’origine, perché così facendo ci si illude di eliminare una buona dose di probabile
corruzione. Due anni più tardi lo raggiunse suo fratello, Lani Monaj, il quale, invece, pensò bene di
sposarsi la figlia unica del nostro segretario del partito, Miranda Dodi. Una ragazza di vent’anni con
cinque chili di peso per ogni anno.
L’ha fatto per convenienza, concordavano tutti in paese. Il segretario del partito in quei tempi, come
tutti i suoi colleghi delle altre città, faceva anche il magistrato, il sindaco e il capo supremo della
polizia regionale, compensando con dedizione la mancanza dei requisiti: aveva solo le elementari
per bagaglio intellettuale.
Lani Monaj all’epoca aveva ventisei anni e si portava addosso i pregi delle sue montagne: alto,
snello, passo lungo e sguardo d’aquila. Si era laureato in ingegneria tessile e fece valere la laurea
nella fabbrica inauguratasi da poco. Quel che non sapeva, riguardava la sua laurea nel rispettare i
battiti erranti del proprio cuore. Tre anni dopo, il suo matrimonio era già rancore per motivi
puramente fisici. Miranda Dodi spopolava in amore e fedeltà, se non altro per riflesso d’obesità,
obbligando suo marito a cercare altri nidi per i suoi genitali. Lo sbaglio fu di cercare nido anche per
il cuore. Si innamorò perdutamente di una semplice operaia del reparto filatura, Nevila Osmani.
Aveva occhi come olive da insalata, e sapeva fare l’amore da campagnola in esilio. Grondante,
fluttuando tra le proprie pene con l’assillo dei prati abbandonati.
Lani Monaj lo fece per lei e per le proprie montagne, con talmente tanta perdizione e purezza da
chiedere il permesso a sua moglie, per rifarlo alla luce del sole. Se l’amore rende idioti, ne abbiamo
avuto la prova! Miranda Dodi, per rincararsi la dose della frustrazione da sola, gli domandò
cos’aveva Nevila che a lei mancava.
“La pendenza tra il seno e la fica” rispose lui.
Era così per davvero. Miranda Dodi si trovava seno e sesso in linea retta e perfettamente a piombo,
ma ciò non le impedì di dolersi della sua femminilità scornata. Lasciò suo marito all’istante
lasciando a suo padre il compito di completare l’opera. Il segretario del partito, nella veste di
magistrato, mandò il genero in prigione ai lavori forzati con l’accusa di adulterio per mancanza di
principi morali e ideologici. La sua collera investì anche Nevila Osmani per concorso di colpe. La
bella campagnola fu esiliata sul serio in una campagna sperduta del nord, dove visse fra stenti di
fame e nostalgia d’amore altri otto anni. Morì a causa di un tumore al fegato.
Lani Monaj resistette meno. Alle prime, a reggergli l’anima l’aiutò l’orgoglio da montanaro e il
ricordo della gola del fiume, dove in tempi migliori aspettava il vento che gli segnasse gli zigomi e
Nevila per segnargli l’anima. A segnarlo alla morte fu l’abbandono totale riservatogli da suo
fratello. Selim Monaj non mosse un dito per migliorargli la sorte, che tutt’al più sarebbe stato
ammorbidirgli le sofferenze.
Memorizzò una massima solita di loro padre: “Ognuno ha il destino che si merita”.
Si sarà avvilito sicuramente nel farlo, ma fatto sta che in tre anni non andò mai a trovarlo, salvando
così la sua famiglia e il suo posto di lavoro. Nasconderci è inutile: la maggior parte di noi avrebbe
fatto la stessa cosa. Lani Monaj, un mattino di febbraio, infiacchito dalle gallerie di rame e i vizi dei
suoi condomini decise che gli avanzi di vita erano ancora suoi, riprendendoseli. Mentre faceva il
tragitto di sempre dalla cella in galleria si girò di scatto e puntò la guardia con il suo martello
pneumatico, spingendolo contro il muro lacrimante, poco prima che raggiungessero l’ascensore:
“Oggi mi sono svegliato male – gli disse – e quando succede sono egoista e possessivo. Quindi, se
non vuoi che la tua gola faccia da prova a quanto ho detto, mi devi sparare una volta sola. Qui” e gli
aveva indicato il centro della propria fronte.
La guardia non se lo fece ripetere. Gli sparò una volta sola dove lui voleva, da distanza ravvicinata,
al punto che per gli schizzi di sangue credette d’aver sparato a se stesso. Lo seppellirono nella
collina di fronte, di notte e senza alcun segno sopra la tomba. Il suo compagno di cella, ora
chitarrista di successo, gli dedicò una canzone intitolata I calli nell’anima dell’ingegnere, che
qualche radio di quartiere manda in onda ogni tanto.
III
Erion Monaj nacque lo stesso anno dello zio il primo di maggio, ma di lui non ha mai parlato. Il
padre lo allevò con polso fermo inculcandogli lo spirito di famiglia a suo piacimento, facendo a
meno di racconti che lo potessero turbare. L’ispettore svolse il suo lavoro con il senso del dovere
immacolato, guadagnandosi più nemici che amici. Aveva modi bruschi e feroci. Nel 1987 irruppe
nel locale dei pensionati col manganello in mano accompagnato da due dei suoi, tutti e tre in
borghese. Succedeva che Agron Kruja, il capo degli ultras della nostra squadra di calcio, stava
tenendo un comizio in cui spiegava le ragioni dello sciopero del tifo organizzato per la prossima
trasferta. Siccome non era mai sobrio, aveva sbagliato locale e si trovava al bar dei pensionati di
guerra. I suoi sostenitori l’aspettavano già da un ora al bar del vecchio stadio.
Come se non bastasse l’avevano udito dire: “Non vinceremo mai niente se non caviamo fuori la
merda che ci sopprime l’anima”.
“Che vuoi dire Agron? Spiegati meglio” l’avevano incitato i pensionati.
Fra i vapori dell’alcol e della nebbia del fumo da tabacco lui aveva detto che il calcio, per essere
bello e godibile, in primis deve essere libero.
“E con le teste di cazzo che ci fanno da pastori non lo sarà mai”.
Aveva fatto tutti i nomi della classe dirigente del paese, soffermandosi su un sottosegretario, avendo
come motivo il rapporto di quest’ultimo con l’emancipazione delle donne.
“Almeno ha di buono che è pederasta, sicché siamo salvi dalla gelosia” aveva concluso fra gli
scroscianti applausi dei pensionati.
Quando arrivò Selim Monaj con i suoi uomini, il comizio era terminato da un po’, tanto che il
cicerone del pallone non si ricordava nemmeno d’aver parlato, impegnato com’era con una bottiglia
di cognac di Korca. L’ispettore lo raggiunse col passo tranquillo e felpato. Gli si fermò di fronte ad
occhi serrati.
“Le va di dire a me quello che ha detto ai compagni qui presenti?”.
Agron Kruja aveva alcol nel sangue, ma molto più del solito, per cui gli riuscì facile convertirlo in
coraggio per la lingua. Squarciò il silenzio e con esso anche i vapori e la nebbia del locale.
“Ecco un vero uomo – disse – uno che manderebbe volentieri sua moglie a farsi emancipare. Ma
figuriamoci! Non sarebbe una notizia, da chi negò il proprio fratello solamente perché aveva il
cazzo al posto giusto”.
Selim Monaj lo colpì con tutta la sua forza . Dal basso verso l’alto, in mezzo alle gambe,
lacerandogli i testicoli per sempre. Agron Kruja cascò all’indietro e si trovò la faccia lavata di
cognac.
Ebbe tempo comunque di dire, prima che il dolore gli storcesse anche la voce: “Che razza di calcio
è mai questo?!”.
Lo processarono per infamia e boicottaggio politico dopo averlo operato d’urgenza. Si fece tre anni
di carcere invece di quindici, perché nel millenovecentonovanta da noi successe quello che
successe, e lui uscì da eroe. Oggi è vicepresidente della società di calcio, nonché partecipante con il
quindici per cento dell’intero capitale societario. Denaro proveniente dalla ricompensa del nuovo
stato per i prigionieri politici. Non beve più per timore del suo fegato, ma c’è chi giura d’averlo
sentito dire. “Un uomo che non scopa, è solo un uomo che non si ubriaca!”.
Selim Monaj lasciò il paese alla fine del 1991. Al figlio disse di non andare con lui, almeno per il
tempo che si tranquillizzassero le acque. Fu una scelta felice solo per lui. Nell’aprile del 1992, a
Selim e Marieta Monaj scaricarono addosso sedici proiettili di kalashnikov mentre giravano per il
mercato del pesce a Lezha, a duecento chilometri da noi.
Il padre di Klodian Seha, dove era rimasto Erion, lo tenne chiuso per due settimane, rinforzando la
porta della stanza con ferro battuto a mano. Alle lamentele del proprio figlio rinchiuso con l’amico,
Bujar Seha rispose perentorio come sempre: “Erion ne sa qualcosa. Ognuno ha il destino che si
merita”.
Al nostro arrivo in paese trovammo altra gente davanti alla chiesa. Eravamo in anticipo. Non
avremmo mai pensato che fossero in tanti a ricordarsi di lui, e avremmo pensato giusto. Come
spesso succede nei nostri funerali, la maggior parte dei partecipanti si trovava in chiesa per rispetto
di chi il morto rispettava personalmente. Così, per onorare Erion Monaj, erano venuti diciotto
operai della calzatura, e solo il loro capo reparto sapeva chi fosse il morto.
Si trattava di Gentian Xhoka, nostro agguerrito avversario di partite a calcio. Dorata Bardhi, da
parte sua, aveva portato tutta la terza media d’una campagna lontana dove insegnava storia, mentre
Alfred Kuta si era limitato a farsi accompagnare da due buttafuori della sua discoteca aperta da
poco grazie a un mutuo generoso concessogli dalla filiale d’una banca tedesca. Tutto questo
saremmo venuti a saperlo dopo, camminando verso il cimitero. Padre Stefan aveva svolto le sue
mansioni con la facoltà che non erano in tanti a riconoscergli ancora. Nell’accendere l’incenso
avevo colto un filo di tremore nelle sue mani, come nella sua voce. Ma era stato un attimo solo.
Benché arrivato in paese dopo il novantaquattro, Padre Stefan aveva fatto in tempo a cogliere l’eco
della storia che coinvolgeva il morto e Elvira Kresta, la più bella mora di sempre da queste parti, per
cui credo che benedisse Erion non senza qualche malincuore, trattandosi di adulterio. Tant’è, che
per pareggiare i conti con la sua coscienza decise di non accompagnare il morto all’ultima dimora.
I nostri genitori, ma più di loro il sindaco, avevano deciso nostro malgrado di raggiungere il
cimitero a piedi. A sentir loro si faceva prima, ma non era vero. Ho sempre pensato che quel tragitto
forzato a piedi per tre chilometri non aveva altra ragione se non il marciume delle loro coscienze.
Nel giugno del novantaquattro Erion Monaj era stato accoltellato all’altezza del rene destro e
colpito con un martello da carpentiere in fronte per mano di Edmond Kresta. Movente, la gelosia,
anzi, la cornificazione. Elvira Kresta, sposa di Edmond da nove mesi, gli aveva confessato di essere
innamorata di un altro e di avere già dissacrato fede e letto matrimoniale più volte con il nostro
amico. Il marito possedeva, al contrario del resto di tutti noi, il buon senso di non alzare le mani su
una donna, qualsiasi fosse la colpa di quest’ultima. Sicché considerò giusto malmenare l’infame del
caso.
Erion Monaj per venti giorni viaggiò per altre vite, e quando ritornò nella nostra lo fece con venti
chili in meno. Elvira Kresta sparì per sempre, e tutt’ora non si hanno sue notizie. Il marito, invece,
fu condannato a quattro anni di reclusione in virtù del fatto che a prescindere dal reato contestatogli,
cioè il tentato omicidio, non causò la morte della vittima. Di carcere effettivo, comunque, fece solo
otto mesi, grazie a una petizione firmata da tutti, maggiorenni e minorenni, i secondi tramite la
patria potestà dei primi, che fu recapitata al ministero della giustizia con tanto di dimostrazione al
seguito. Il tredici febbraio del novantacinque, arrivarono davanti al suddetto ministero,
duemilaquattrocentoquaranta nostri compaesani, tra i quali mio padre e il padre di Sokota.
Nemmeno nel novantuno e nel novantasette, quando le proteste erano di moda, il nostro paese
partecipò con tanta unità.
Aveva già ripudiato Erion Monaj il giorno della sua uscita dall’ospedale, e se non l’aveva fatto
prima era stato perché confidava nella sua morte. Il ventisei luglio del novantaquattro Erion
percorse ottocento metri a piedi per la strada, per voglia di aria che non sapesse di farmaci, e fu la
sua via crucis. La gente sputava per terra e per aria da distanza ravvicinata al suo passaggio, mentre
i bambini si spingevano oltre sputandogli nei pantaloni e bestemmiandogli la madre morta.
Eravamo con lui quel giorno, e ci trattarono come lui. Non alzammo gli occhi da terra: a farlo ci
avrebbero linciati.
Mio padre mi aveva detto prima di scegliere fra casa paterna e mio amico. Scelsi il secondo e mi
costò dormire da mio zio fino al sette d’agosto dello stesso anno. L’indomani avrei attraversato il
mare.
Sokota era già in Italia, quindi scansò il dolore della scelta, mentre Klodian si salvò, ironia della
sorte, proprio grazie a suo padre. Bujar Seha rinchiuse Erion in casa sua, dalla quale questi uscì fan
della fatalità l’otto agosto del novantaquattro per attraversare clandestinamente con me e il figlio
l’Adriatico.
Per questo pensavo, e lo penso ancora, che fu il loro rimorso a farci raggiungere il cimitero a piedi.
A qualcosa servì, tuttavia. Gli operai della calzatura pensarono bene di sfruttare il loro giorno di
riposo causa lutto per chi non conoscevano in altre maniere, e declinarono il buon proposito di
proseguire. La terza media di Dorata Bardhi fece altrettanto, mentre i buttafuori di Alfred Kuta
restarono. Quindi rimanemmo in pochi ma giusti, e se non altro salutammo i nostri amici.
Dorata Bardhi era quella di sempre, anche vestita a lutto stretto. Era diventata madre da due
settimane e non faceva niente per nascondere il malore della sua pancia. Finalmente si era decisa a
sposarsi, al contrario di quanto mi aveva detto due anni prima.
“Ti sembra che ho bisogno di sposarmi, io! Ho un buono stipendio, e la mia libertà di scegliere
come vivere non voglio dividerla con nessuno. Se è per quello a cui miri te, ho due o tre che sanno
come si accendono i fuochi in mezzo alle gambe, e credimi, lo fanno spesso, perfino nei giorni
vietati. Sono una devota di Maria vergine, ma solo per forma non per sostanza”.
Aveva concluso la sua ironia sapendo come me la verità. Insegnava storia in una campagna remota
che remota non era riguardo alla distanza, ma al tempo per raggiungerla. La strada scorreva
parallela al fiume, era orrenda da sola, ma il fiume si accaniva lo stesso, sicché nei mesi di piena,
che poi sommati fanno metà anno da noi, l’unico mezzo idoneo da viaggio era il saurel, un camion
di quattro assi di produzione polacca, immatricolato nel 1968, adatto a trasporto di materiale edile,
bestiame, produzioni agricole, ma che non sdegnava il genere umano.
Dorata Bardhi faceva la gioia dei conducenti, mortificando le loro voglie, con una frase sola: “La
mia non è fatta per i camionisti”.
Diceva la verità. Il suo uomo d’allora è il suo marito di oggi. Un pastore del quale ammirava e
ammira la crudele sincerità. Tende ad amoreggiare solo da dietro per essere perdonato in qualche
modo durante il macello e la tosatura del suo gregge.
La bimba l’aveva chiamata Morena. Era stato Erion a suggerirle il nome, ma tutti noi avremmo fatto
lo stesso. Era una vecchia storia di liceo. Dorata Bardhi assomigliava a più non posso a Morena
Reka, cantante di musica leggera di breve successo. Era bella come tutte le more, e come loro
capricciosa e larga di cuore. Aveva regalato a sedici anni la sua verginità al ragazzo che stavamo
per sotterrare. Ora, dopo altri sedici anni, mi disse: “Se avessi altre mille verginità le perderei tutte
con lui”.
Vidi il suo dolore in carne viva negli occhi neri capaci di lacrime, che da sole valevano il pianto di
mille donne sconosciute. Per precederle tentai di cambiare discorso.
“Non ti vedo a pascolare pecore” le dissi.
“E infatti non mi ci vedrai – rispose – mi limiterò a mungerle”.
Aveva deciso di lasciare il paese e trasferirsi in campagna per il resto della vita. “Guarda questo
paese – riprese – non credi che saremmo meno disgraziati se solo fossimo nati da un’altra parte?”.
Iniziò a piangere a modo suo, con il seno rimbalzante a frequenze regolari, e le mani a fermare le
scosse del viso. Conoscendola, ogni parola di conforto avrebbe prodotto l’effetto contrario, e poi
colsi nel suo pianto anche i nostri, compreso quello di Monaj, per cui la lasciai fare camminandole a
fianco.
Vidi il paese come poche volte l’avevo visto prima. Erano le dieci di una buona giornata per
seppellire qualcuno che non fosse un amico. Il cielo era limpido con il vento solito d’aprile,
sufficiente appena perché frusciassero i pioppi. Mi sembrò che il paese fosse gobbo nelle periferie e
avesse i capelli brizzolati al centro, dove ci trovavamo noi. Aveva festeggiato da poco
duemiladuecento anni di vita. A modo suo: vino per i tavoli e garofani per i davanzali delle finestre.
Le leggende sulla sua creazione concordavano in un punto solo. Era nato male. Maggiormente si
crede alla più terribile, se non altro perché ha il senso della geografia. Si dice che abbia come base
un manoscritto trovato in albanese nell’anno centoquarantatre e smarrito in turco quattro secoli
dopo. Sappiamo per certo che l’albanese come lingua, almeno scritta, è molto più giovane, quindi,
se si crede alla leggenda lo si deve alla nostra irreparabile fame di illusioni pericolanti.
Il nostro paese si trova in mezzo a due montagne ed è diviso da un fiume che fa il corso delle sue
acque per centinaia di chilometri prima di raggiungere il mare. Schiuma rabbia solo da noi. Trenta
miglia dopo, trova pace e profondità, ricompensando i campagnoli per le disgrazie che causa ai
cittadini. Al principio il fiume non c’era. I monti invece c’erano dove si trovano tuttora.
Steomor a nord e Stepirag a sud, accudivano la loro sorella, una collina di fiori balsamici e
crisantemi. Oggi è sempre una collina, ma senza tracce di fiori. Dal lato paese si veste di pini dolci,
dall’altro di costruzioni abusive. Vedendo crescere la sorella, i due fratelli sentirono crescere anche
il morbo dell’amore proibito. Fu Stepirag a confessarlo per primo a suo fratello, in quanto era più
sentimentale per via dello scirocco, vento di sua proprietà. Steomor lo confessò a sua volta, a
dispetto della tramontana che gli faceva da consigliera. Lo dissero con l’anima in pena come se
l’incesto si fosse già consumato. Dopo dieci minuti si misero d’accordo sul fatto che il sentimento
era da ritenersi ignobile se lo provava uno solo, ma legale se lo provavano entrambi. Unica cosa da
decidere era a chi la collina doveva denudarsi. La misero sul fascino senza trovare soluzione.
Steomor offriva neve e arcobaleni da sogno, mentre all’altro bastavano le proprie notti
malinconiche fatte con suoni di flauti pastorali. Sulla convenienza della vicinanza, misurarono
ognuno la distanza dell’altro dalle gambe di lei. Fu perfetta parità, come lo fu per gli anni di vita.
Erano gemelli e non avevano la nozione dei minuti. Tirarono a sorte, facendo scivolare giù verso le
pianure i morti dai loro grembi. Maledetta parità. Solo che all’ultimo momento, uno dei morti di
Stepirag si alzò e camminò verso nord.
“Infame bastardo!“ ringhiò allora il monte, e gli sparò quintali di bestemmie, piombo e rame delle
sue viscere.
Steomor lo considerò infrazione delle regole, e un minuto dopo invasione del proprio spazio
consentito da Dio. Per tutta risposta, colpì il fratello con spade e ghiacci devastanti. Così per anni e
secoli, scordandosi della causa della guerra. La collina infatti era diventata una discesa apocalittica,
senza balsami e senza crisantemi. Piangeva solamente. Tanto per sé, e il resto per gli stupidi fratelli.
La guerra continuò finché Dio non decise che ne aveva abbastanza. Prosciugò la fonte del pianto
alla collina prosciugando per sempre l’anima ai monti. Li mummificò come li vediamo oggi.
Steomor è alto milleottocentosettanta metri e ha in corpo trentotto caverne dove fanno festa i
pipistrelli. Stepirag è alto altrettanto e si trova nelle spalle trentotto ruscelli di acqua piovana che di
questo passo, con le piogge a cui siamo condannati, non ci metteranno molto a diventare cascate
dove andranno a dissetarsi i falchi.
Dio decise in seguito di castigare anche la collina, perché causa della guerra benché ignara.
Raccolse le sue lacrime e diede ordine che il fiume avesse inizio, dividendo e rapinando il futuro
paese ogni volta che lo considerava opportuno. Quest’ultimo gli fu obbediente alla lettera. Le sue
razzie proseguono ancora, e nessuno ha mai provato a costruire argini o dighe: per timore di Dio.
Hanno costruito solo due ponti sospesi che dividono e uniscono la città a seconda delle feste e dei
sensi di marcia. Camminavamo sulla seconda per raggiungere il cimitero, ma si poteva raggiungere
anche l’ospedale, la fabbrica tessile, che ai tempi della dittatura del proletariato sfamava tre quarti
della popolazione, uno dei quattro cinema, il palazzo della cultura e la filiale della banca tedesca.
Alle spalle lasciavamo la collina maledetta, la chiesa in cima a essa, il comune, la fabbrica dei
dolciumi, i due stadi e i giardini pubblici dove avevano esagerato con le rose e le viole trascurando i
gelsomini.
Si lasciava soprattutto alle spalle l’asfalto. Le strade al di là del fiume sono in breccia da cava
rullata, con fossi che fanno da strisce pedonali e da scusante per i nostri compaesani: non comprano
altro veicolo che non sia una Mercedes, semplicemente per via delle sospensioni, coscienti del fatto,
comunque, che coniugare lusso e umiltà a noi riesce facile.
Dorata Bardhi smise di piangere solo quando vide i becchini. Vestivano di nero anche loro. In altri
giorni usavano la divisa ordinaria. Un grigio autunnale che deve essere anche il colore del
dormitorio finale. Il fosso era pronto. Lo scavavano da dodici anni, per cui avevano avuto il tempo
di trovare l’argilla rossa. Si supponeva che essa comprimesse il feretro bloccando l’aria, in modo
che il defunto arrivasse intatto a maggio, tempo in cui si sarebbe disfatta.
“Vorremmo che respirasse comunque rose prima di disintegrarsi” m’avrebbe detto mio padre al
ritorno dal cimitero.
Ci misero in cerchio, e il sindaco mi chiese se volevo essere io a tenere il discorso del caso. “Sono
stanco” gli risposi. Domandò a Seha e a Sokota, che dissero la stessa cosa. Si rivolse a Bujar Seha
con l’ultima speranza che non toccasse a lui. Bujar Seha disse che avrebbe parlato solo al proprio
funerale. Il sindaco, allora, tirò fuori dal taschino della camicia gli occhialini da miope e si decise a
parlare. Da ex presentatore televisivo non avrebbe avuto bisogno di scrivere ciò che stava per dire.
Soprattutto perché disse solo due frasi. “Figliolo vai da Dio. Ma non fare uso della pace come
facevi dell’amore”.
I becchini scesero il feretro in quattro, con due corde dorate. Il primo pugno di terra rossa lo gettò il
sindaco, poi i nostri padri, Dorata Bardhi, noi, e così via. Secondo la tradizione, a parte il primo,
ogni pugno di terra veniva preceduto da un garofano. Alla fine i garofani furono trentadue, ma
sarebbero bastati venti. I becchini chiusero il fosso a palate e rullarono la terra rossa. Dopodiché vi
aggiunsero sopra una lastra di marmo azzurro e un’altra in verticale dove doveva trovarsi la sua
testa. Al centro di quest’ultima avevano marmorizzato una sua foto di vent’anni, coi capelli ricci
che gli ammorbidivano la fronte e gli occhi da colomba affamata. In fondo il paese lo ricordava
così. Solo noi sapevamo che era morto quasi calvo. Bujar Seha e Dorata pure lo sapevano, perché
l’avevano aspettato e visto a Valona un mese prima per un paio d’ore, ma scommetterei sulla vita
che nei loro occhi morì capelluto.
Una nube solitaria occupò il pezzo di cielo sopra la lapide. Piovve per poco, ma violentemente, da
farci credere che l’acqua riuscisse a bagnare anche gli avanzi del viso del morto, prima che l’argilla
si comprimesse. Morto bagnato, morto fortunato, si dice da noi.
Il terzo giorno dopo la sepoltura andammo a piantare intorno alla tomba rose in procinto di fiorire
senza riuscirci. Mani anonime ci avevano preceduti con fiori precoci e sconosciuti. Si potevano già
odorare. Capitava di Pasqua e c’era il solito vento d’aprile, ma i pioppi non frusciarono.
Il primo maggio del settantaquattro Selim Monaj esclamò che finalmente la sua razza ce l’aveva
fatta ad avere per erede un operaio per eccellenza, almeno virtualmente. Dal suo punto di vista
aveva ragione. Escludendo lo zio carcerato del neonato, del resto esclusosi da solo, nessun altro
parente aveva i calli nelle mani per via del lavoro. Questi si prodigavano da soli nei loro arti come
conseguenze della struttura ossea e cutanea. Tutto il nord dell’Albania possiede infatti l’osso grasso
e la pelle secca, sicché coloro che lavorano, specie i fabbri, raddoppiano la massa callosa a tal
punto, che devono usare il guanto per stringere la mano a qualcuno che non è della loro regione.
Il suddetto inconveniente riguarda la maggioranza degli albanesi del nord, per non dire la totalità.
Ma i Monaj facevano eccezione fin dove arrivava la memoria, per sentito dire dal poliziotto. Cioè
tre secoli indietro, tempo in cui Sokrat Monaj, trisavolo di Erion, scese dal Kosovo con sua moglie,
una capra e un materasso riempito di paglia. Dormirono per due mesi sotto un noce spagnolo,
cibandosi di lumache e asparagi crudi e dissetandosi con l’acqua piovana che raccoglievano tramite
buchi aperti con le mani nude. Poi Hajdar Aga, proprietario di quelle terre, offrì a Sokrat un
capanno in legno e gli abituali viveri dell’epoca in cambio delle loro braccia.
“Una lumaca cruda in libertà ha lo stesso sapore dei legumi della dipendenza, mio signore” gli disse
il kosovaro.
Hajdar Aga la pensava come lui da giovane, e la pensò così anche a settant’anni. Non aveva figli. A
sedici anni era stato prigioniero dei militari serbi, che, come usavano fare quando erano di buon
umore, lo avevano castrato. Il primo e l’ultimo a saperlo fu Sokrat Monaj. Ereditò le sue ricchezze
con un testamento in ambedue le lingue, turco e albanese, notificato da Emir Pasha, unico notaio in
trentaquattromila chilometri quadri di superficie nazionale.
Bastarono per lui e i suoi discendenti fino al quarantacinque del secolo scorso. Dopo la vittoria del
comunismo, i beni di grandi e piccoli proprietari terrieri furono confiscati con i soliti metodi della
rivoluzione, che poi sono uno solo: la forza. Sotir Monaj, nonno di Erion, riteneva invece il
comunismo aria, acqua e luce, per cui accettò di buon grado, perfino entusiasta di regalare i suoi
beni al Partito Popolare.
Al contrario dei suoi fratelli e dell’unica sorella. Questi impugnarono di nuovo le armi, le cui canne
erano ancora calde dalla guerra di prima. Vestivano in frac e si coprivano il cranio con capelli e
brillantina, ma mangiavano ancora lumache e asparagi crudi, credendo che fosse il piatto della
libertà. Nel marzo del quarantasei il loro piatto preferito lo consumarono sotto terra, dopo aver
tenuto testa per due giorni ai compagni del loro fratello in un casolare abbandonato, a due
chilometri dai rancori del noce spagnolo.
Alla fine i Monaj morti in quel casolare furono ventuno, compresi tre minori, il più piccolo dei quali
aveva otto anni. Avevano sentito uno dei Monaj gridare: “Provaci con le lumache figliolo! Fanno lo
stesso effetto delle granate”.
Sotir Monaj chiese al suo partito di seppellirli come Dio comanda. Non gli fu permesso. Pianse in
silenzio i suoi cari, senza lacrime e senza strilli, provando per cordoglio le lumache e gli asparagi
crudi. Vomitò le viscere sul pavimento, e con loro il dolore. Ai figli, quando gli domandavano della
sorte dei Monaj, rispondeva: “Morirono per gusti arretrati. Ognuno ha il destino che si merita”.
Lui stesso morì poi nel sessantanove, a settant’anni, in un appartamento tipico dei suoi ideali.
Piccolo, pulito e senza ombra di lusso. Da maggiore dell’esercito in pensione chiese che lo
seppellissero vicino a sua moglie, andata due anni prima e sepolta nel cimitero comune. Gli fu
concesso, altrimenti sarebbe con i morti privilegiati della nazione. I suoi due figli erano già da noi.
La convinzione che Erion sarebbe diventato un semplice ma eccellente operaio era cresciuta in
Selim Monaj al primo anniversario del piccolo. Secondo la tradizione gli avevano messo sparsi sul
tavolo della cucina gli oggetti che rappresentavano la nostra vita di allora e che sarebbero serviti a
tracciare la tendenza futura del bambino. Lui stese le braccia e afferrò il martello da carpentiere
situato al lato opposto del tavolo. Ignorò la pistola d’ordinanza del padre, il cucchiaio, la
Biancaneve con tutti i sette nani, il flauto della madre e la penna stilografica, oggetti questi messigli
a portata di mano maliziosamente. Scansò anche il pallone di elastico, le scarpe guaste ricordo di
Sotir Monaj e la colomba viva a cui avevano legato le zampe. Nell’afferrare il martello, stirò i suoi
muscoli languidi dal di sopra della sedia piangendo per dolore, senza sapere che aveva segnato parte
del suo destino.
Alla vigilia di Santo Stefano del novantanove glielo dissi. “Guarda che la merda sulla vita l’hai
scelta tu da venticinque anni”.
“E tu ci hai messo altrettanto per capire il significato della vocazione” mi rispose, alludendo alla sua
divisione della fatalità a pari merito tra vocazione, ignoranza e solitudine.
Selim Monaj il giorno della scelta ebbe un malanno minuto nei paraggi del cuore. “Lo sapevo –
disse – questo cretino decise di veder la luce il primo di maggio. E ora farà il carpentiere”.
“Oppure si spingerà sempre oltre i propri limiti per deficienza” replicò la madre.
Marieta Monaj aveva talento riguardo all’esser donna. Le nostre madri tramutavano i sogni in
realtà, giusto il momento in cui mettevano il primo rossetto sulle labbra, che coincideva senza
scampo con l’indossare il vestito di raso bianco da sposa. Per poi vedere senza perdere tempo che la
realtà stava ai sogni come il catrame sta al miele. La stessa caratura e densità a differenza dell’uso,
del sapore e del colore: incompatibile. Disponevano anima e corpo ai mariti con innocenza e
rassegnazione, componenti principali della felicità famigliare per il nostro ambiente. Anni dopo,
con il fiato della menopausa sui loro corpi, in tante erano pronte ad ammettere che i sogni li fanno
solo le fanciulle. Sostenere e lottare per il contrario sarebbe come affermare che i sogni li fanno solo
le puttane. Marieta Monaj scelse una via di mezzo. Forse perché era spagnola. I suoi genitori dopo
la caduta della Repubblica scelsero di trasferirsi in Russia piuttosto che in Francia o in Sudamerica,
e si pentirono a metà strada, fermandosi nel nord dell’Albania. Quando Franco venne meno ai suoi
modi generaleschi, fecero ritorno a Saragoza, ma senza la figlia. Nata nel marzo del cinquantatre,
Marieta Huan Sordillo, fu fedele al suo cuore e rimase da noi per amore di Selim Monaj. Negli anni
che visse fu reale e guerriera. Diede al marito amore e fedeltà poco alla volta e nei momenti
opportuni. In casa Monaj non scese mai in secondo piano. Faceva l’insegnante di musica alle
elementari, ascoltava di nascosto Iglesias e tutte le musiche spagnole e suonava il flauto e il
pianoforte nel palazzo della cultura ogni sabato proletario. Chi se ne intende dice che quando
suonava solo per sé i suoni respiravano altro spazio.
A due anni il bambino ancora non si decideva ad alzarsi in piedi. Gli esorcizzarono la paura
facendolo scendere in un pozzo secco, chiuso in un sacco di lino con una corda bagnata
nell’acquavite. Lo fecero due volte, perché la nostra precaria volontà non ammette il terzo tentativo.
Si crede che sia la prova del marcio. Si osa sempre e solo due volte, da noi, e poi ci si gratta l’anima
per il rammarico e le sirene della terza. Quando uscì dal pozzo era giallo e piangeva a squarciagola,
ma funzionò. Il mese dopo correva anche, ma correva male. Non alzò mai del tutto la suola dalla
terra. Così fino a quell’infausto lunedì della settimana di Pasqua.
Si nutriva meglio di noialtri. Suo padre beneficiava di un supplemento sullo stipendio ogni volta
che assicurava alla giustizia dissidenti politici e delinquenti da quattro soldi. E non furono pochi,
tuttavia non abbastanza da prevenirgli la meningite acuta del figlio. Un sera di fine settantotto gli
ispezionarono la bocca trovandogli le gengive in fiamme e impestate da favi gialli. Prima di
ricorrere ai medici provarono con crema d’alloro e miele sciolto in olio d’oliva. Il dottor Thoma
Treka, invece, li obbligò a tenere spenta la stufa a legna che riscaldava la stanza di Erion e a
estrargli tutti i denti di latte rimastigli prima di decidere la terapia. Il dentista si rifiutò, dicendo che
anche i sassi sanno di denti non estratti in presenza di infiammazione stomatologica. Il dottore
insistete, costringendo Selim Monaj a minacciarlo.
“Compagno dottore. O lei fa in modo che mio figlio ingoi qualcosa, oppure io faccio in modo che i
suoi figli non la vedano più!”.
Thoma Treka non aveva dubbi sulla serietà della minaccia, come non ne aveva sulla propria
incapacità in materia. Suggerì all’ispettore di riprovare coi modi tradizionali. Latte materno di
mulatta giovane, possibilmente madre per la seconda volta. Sortì l’effetto desiderato. Eleneren
Tanku, mulatta di trent’anni, divise per dodici giorni il suo latte tra Erion e la figlia appena nata. Il
tredicesimo giorno l’infezione non c’era più. Selim Monaj comprò per lei un televisore in bianco e
nero.
La mulatta lo ringraziò senza accettare il dono di riconoscenza: “Mi basterà che suo figlio tratti da
sorella la mia quando crescerà” gli disse.
Non fu possibile. La bambina sarebbe arrivata in Italia con il primo esodo a marzo novantuno, e
sarebbe diventata donna per i viali non illuminati, trattenendo con le sue grazie le disgrazie del
sesso a pagamento.
L’ispettore comunque fece in modo che il padre di lei avesse un impiego fisso nei lavori stradali del
paese. Installò la televisione nella camera del figlio, e riaccese la stufa a legno dicendogli: “Se avrai
la fortuna di sorridere a denti aperti, ricordati che lo dovrai a delle mammelle color noce”.
A denti aperti sorrise poche volte, ma nel suo letto non entrò altra donna che non fosse
inevitabilmente bruna. Mia madre giura che lui sia stato il più malmesso tra tutti noi, dall’asilo nido
alla terza elementare.
“E meno male che faceva colazione come Dio comanda” dice.
Cioè latte fresco e miele pregiato. Io mi ricordo di lui dall’età di undici anni in poi, e non lo vedo
con le gambe arcuate e sottilissime come sostiene lei. Abitavamo a ottanta metri di distanza, in un
quartiere fatto apposta per le fresche forze di lavoro in arrivo da tutta l’Albania.
Sarebbero stati impegnati nella fabbrica tessile, orgoglio della nazione. Sessanta palazzine di cinque
piani con mattoncini rossi di terza scelta all’esterno e gradini in cemento grezzo all’interno. Fra
l’una e l’altra palazzina scorrevano stradine di pietra bianca ai cui lati piantarono limoni e aranci
amari. Gli appartamenti misuravano quaranta metri quadri ciascuno e quattro componevano un
piano. Per mille e trecento metri di strada principale, che poi divideva le palazzine in blocchi, fu
allungata la linea dei bus con due fermate, una delle quali proprio sotto la palazzina dove abitavano
i Seha e i Monaj. I pavimenti erano fatti con lo stesso cemento delle scale, mentre le mura
grondavano di calce viva, per impaurire le salamandre. Per i nostri che lasciavano le case di
campagna con le mura di canne selvagge ed escrementi di animali domestici, lo spazio angusto non
è mai esistito. Furono felici e entusiasti già prima di occuparle. Decisero che tempo migliore per
mettere al mondo figli non c’era. Sicché le donne arrivarono con l’utero impegnato, il
settantaquattro fu l’anno dei parti a catena e di conseguenza influì in modo cospicuo
nell’abbassamento dell’età media nazionale.
Costruirono tre asili e due scuole in più, a discapito di ventiquattro bunker. Il quartiere fu nominato
Il trentesimo anniversario della libertà. Il fiume impazzì sei mesi dopo, se con pazzia si intende
l’inondazione anomala. Era novembre. Si riversò sulle strade con alberi morti e acque gialle,
portando come trofei in ritirata arbusti di alloro e pali di neon malpiantati. La fabbrica tessile rimase
chiusa per due settimane a causa di mancanza di energia elettrica, così come le scuole i negozi e gli
uffici cardine. Prima che i nuovi arrivati prendessero confidenza con i suoi capricci, impazzì altre
due volte con danni minori.
In ogni caso si trattava di disagi ambientali, perché la vita nei giorni della pirateria aveva già preso
le sue contromisure. All’inizio del fiume, dietro le spalle del monte cavernato, avevano costruito
una torre in cemento armato alta ventiquattro metri dal livello del fiume in giorni ragionevoli. I
guardiani facevano sempre in tempo ad avvisare la città del tormento in arrivo, e questa faceva in
tempo ad approvvigionarsi per i giorni di clausura. Se si aggiunge che gli operai venivano pagati
dalla cassa integrazione, si ha l’impressione che una volta smarrito lo zelo iniziale gufassero in
silenzio per allagamenti più frequenti.
Come del resto abbiamo sempre fatto noi, fino a quando non abbandonammo la città per risiedere in
terra straniera. Escluso l’impossibilità di giocare a calcio, non avevamo altre fonti di tristezza. Ci
chiudevamo in una stanza, giocando a carte e a braccio di ferro, dove vinceva sempre Saimir
Sokota.
IV
Avevo conosciuto Erion in uno di quei giorni. Lui, Seha, e Sokota frequentavano la stessa classe in
prima media, mentre io ero in parallela con Dorata Bardhi e Gentian Xhoka. Era l’aprile
dell’ottantacinque. Il fiume, rientrato da poco nel suo letto, lasciò sulle strade il solito biglietto da
visita: colombe mendicanti affogate in un impasto lurido di fango e erbe sconosciute. Per di più
morì il nostro presidente e lo spessore dell’angoscia si triplicò. Radio Tirana mandò in onda liturgie
per due giorni e ufficializzò la notizia il terzo. I nostri genitori passavano la gran parte del tempo in
riunioni sindacali per trovare la forza di sopportare il dolore. Noi, invece, approfittando della loro
assenza, il dolore lo sopportavamo giocando a calcio, e lo sopportavamo anche meglio giocando
scalzi nel fango.
Ci sapeva fare con il pallone, Erion, a dispetto della sua andatura da asinello marchiato. Dopo due
ore nel fango, mia madre ci portò in otto sul nostro balcone e ci lavò tutti insieme con il tubo
attaccato nel rubinetto dell’acqua fredda. “Quella calda non so se mi basterà per il bucato” disse
asciugandoci uno alla volta con un solo asciugamano.
Quando arrivò a lui, lo trovò con le mani davanti ai gioielli del proprio corpo:“Dai figliolo – lo
persuase – in fondo il tuo non sarà diverso da quello di questi altri mocciosi”.
Erion cercò di sorridere, ma noi lo anticipammo alleviandogli l’imbarazzo. Il giorno dopo mi
restituì i vestiti regalandomi anche una giovane coppia di colombe da gara. “E’ un dono di un amico
di mio padre – mi disse – ma a me bastano le rondini”.
Io come tutti gli altri escluso lui andavo matto per le gare di colombe, e quelle che mi regalò Erion
erano merce rara anche per i più raffinati allevatori, che di solito avevano il triplo della nostra età.
Prima avevo avuto una coppia di pettigrigi, roba buona, ma non abbastanza, specialmente se la
femmina si mette in testa di mangiare le proprie uova. Li avevo cambiati alla pari con due pettirossi
che non volevano saperne di alzarsi in volo per gareggiare. Per due giorni li castigai nutrendoli solo
di mollica di pane di mais, invece della solita razione di chicchi di grano e girasoli, e alla fine si
convinsero, ma lo fecero per umiliarmi davanti a tutti. Volarono basso baciandosi in volo, e
ritornarono sulle mie spalle mezz’ora dopo la coppia avversaria, benché avessero percorso un
quarto del tragitto di quest’ultima.
Mi riscattai con le colombe di Erion, comunque, diventando campione del quartiere per otto giorni
di seguito. Avevano il petto bianco e appartenevano a una razza speciale di cui si dice che in tempi
insospettabili si sia incrociata con le aquile da allevamento. Per battermi ci volle un moro di
trentacinque anni dell’altra parte del fiume con le sue selvagge nere. Avevamo scommesso testa a
testa e lui si portò via la mia coppia spezzandogli le ali davanti a me. Era il diritto del vincitore e
serviva per non far scappare le colombe vinte dal balcone di lui. Comunque sia era un affronto e
decidemmo di farglielo pagare. Tre giorni dopo, all’imbrunire eravamo sul suo balcone, per fortuna
a piano terra. Io e Seha staccammo la testa alle selvagge, mentre Sokota si accingeva a staccare dal
soffitto il gancio contenente la gabbia con le mie pettibianche. Il moro sentì il loro grugnito giocoso
e vide dalla finestra del bagno Erion che faceva da guardia. Spingemmo sulle gambe a tutta forza e
a mani vuote, ma ci raggiunse poco prima del primo ponte, in compagnia di altri dieci.
Sokota ebbe la peggio. Gli ruppero il naso e lo legarono con Seha e Monaj con delle corde da
cavalli. Io sanguinavo come loro e con loro legati dovevo godermi il mio spettacolo. Mi spogliarono
nudo e il moro mi intimò di nuotare stile rana per mezz’ora. Era sempre l’aprile dell’ottantacinque.
Avevamo tutti undici-dodici anni, incluso il figlio del moro. Il fiume era limpido ma freddo, e a
rana non sapevo nuotare ancora.
“Erion, ti decidi a dire chi sei?” gridai sommerso fino al petto dalle acque gelate.
“Lascia stare mio padre – replicò – gli errori si pagano!”.
Per fortuna lo fece Seha per lui, e il derubato capì che stava marcando male. Sicché a nuotare a rana
imparammo tutti e quattro a luglio con il fiume in condizioni migliori. Il naso rotto di Sokota ci
convinse a fare il giuramento della fraternità, auspicando di comportarci meglio in risse future. Il
giorno dopo l’umiliazione ci facemmo un taglio all’indice destro con un rasoio da barba, versando
quaranta gocce di sangue a testa in un bicchiere di vetro azzurro in cui aggiungemmo polvere da
sparo e tabacco. Per funzionare doveva essere una bevanda, ma fu invece un bicchiere di melma
arancione orrendo a vedersi. Lo facemmo sciogliere con un po’ di latte, dividendolo in quattro
bicchieri alla pari e ingoiandolo allo stesso tempo con la mano destra. La sinistra era impegnata a
toccare il cuore di chi si trovava di fronte. La bevanda della fraternità non fece in tempo a
raggiungere lo stomaco che altri liquidi la respinsero fuori con una tale forza che credemmo di
rimanere senza budella.
Si era in casa sua, nella sua stanza e la televisione ad alta volume fece sospettare Marieta Monaj.
“Idioti! – ci disse – Non è cosi che si diventa fratelli”. Ci costrinse a bere acqua calda con limone e
zucchero, facendoci lavare il tappeto dalle nostre viscere. Sokota stava peggio di tutti. I liquidi
impazziti gli avevano otturato il naso, già otturato di suo dalla maschera protettiva. Respirava come
un pesce e vomitava da cavallo.
La nausea ci lasciò del tutto solo due giorni dopo, quando il presidente morto salutava la nazione
per bocca del sostituto. I nostri avevano saputo la bravata delle selvagge decapitate e compresero il
supplizio della fraternità a modo loro: chiudendoci in bagno per otto ore senza cibo e senza acqua. Il
terzo giorno la prova si doveva rifare in quanto non poteva considerarsi superata, visto che non
avevamo trattenuto la bevanda nemmeno per due minuti. Ma la prima nostra decisione da fratelli fu
quella di mandare al diavolo la pignoleria delle regole non scritte. La considerammo riuscita
dicendo all’unisono: “Finché la morte non ci separi”.
“Ma è una frase da matrimonio” contestò Seha.
“E’ buona per ogni unione” concluse Monaj.
Da quel giorno poche volte ci videro non tutti insieme, e di risse ne abbiamo fatte a volontà, avendo
quasi sempre la peggio, per via delle regole a cui mancammo di rispetto. Diventammo tuttavia il
quartetto più forte di calcetto in tutto il quartiere e due anni più tardi di tutta la città. Essendo da noi
il calcio di strada una religione, venivamo anche visti di buon occhio, e potevamo permetterci la
conoscenza dei bulli senza complessi di inferiorità. In più guadagnavamo qualche soldo dalle
scommesse dei tifosi. A sedici anni ci convocarono con la primavera della squadra di calcio
regolare, ma un anno dopo successe quel che successe e veri giocatori non diventammo mai.
Non lo saremmo diventati comunque, per colpa della verginità.
Al primo anno di liceo l’unica preoccupazione era trovarsi una ragazza con cui illudere i pomeriggi
tristi d’ottobre. La cosa non sarebbe stata difficile se ci si fosse accontentati di quel che passava il
convento, cioè ragazze che conoscevamo dalla nascita. Il fatto era che consideravamo la verginità
sacra, quindi da non perdere senza il permesso del cuore. Quest’ultimo, un po’come succede in tutto
il mondo, ama complicarsi la vita inseguendo occhi lontani dai nostri. Così mi trovai a sbavare per
Flutura Saranda, una bionda dal corpo vellutato, che mi ignorava regolarmente, non impedendomi
però di sporcare le lenzuola con i sogni di lei. Regolarmente.
Alla fine decisi di macchiare le lenzuola da sveglio. Magnola Desiri mi diede una mano. Era sempre
bionda, ma robusta e tenace.
Saimir Sokota ebbe invece vita facile con Ilona Rushiti, fino al momento della verità. Vedendola
nuda, con i seni che puntavano la calce del soffitto, sentì la calce del panico, e le disse che si
sarebbe dispiaciuto all’infinito per il suo sangue. Lei lo sollecitò a sbrigarsi perché sentiva freddo, e
perché non si sanguinava due volte, a meno che lui non discendesse dagli asini.
“Allora non fai per me!” le disse Sokota, e non la salutò più per il tempo che rimase in città,
consolandosi con Sonila Basha, vergine ma meno bella di Ilona.
Seha non aveva di questi problemi. Per lui il cuore è sempre stato un pezzo d’arredamento delle
sofferenze, quindi da ignorare nei momenti decisivi, più che mai se si trattava di sesso principiante.
Fu sverginato da Irena Gora, zitella di quarantatre anni.
A Monaj, infine, bastava puntare il dito. Benché non avesse ereditato l’osso duro e consistente di
suo padre, le sue sembianze eccedevano in dolcezza. Lo sguardo era vago e senza mirino già da
allora. Parlava poco e rideva meno. Come se non bastasse il suo modo di parlare sapeva di cinque
anni in più, ed era il migliore in tutte le materie escluso cultura fisica. Una volta rimase impallato
sul cavalluccio e nessuno rise a parte noi. Igor Musta ci cacciò fuori dalla palestra a calci nel sedere.
Dentro rimasero in sessantadue, due classi del classico. Le ragazze ricorrevano alla magia nera pur
di entrare nelle sue grazie.
“Sono andata a catturare dieci pipistrelli nelle caverne di Steomor” mi avrebbe confessato la bionda
dei miei sogni quattro anni più tardi, durante il ballo delle matricole.
“Scrissi ogni lettera del suo nome con il sangue di ciascuno, ma eravamo in tante e la magia non
funziona in sovrannumero. Dorata Bardhi sarà andata da sola” sospirò.
“No! – le dissi – Ebbe solo la fortuna di addormentarsi sulla spalla di lui”.
Era successo così veramente. Era la fine di settembre del novanta. Tornavamo dalla solita gita di
inizio anno scolastico. Una volta individuato il luogo, non lo tradivamo. Avevamo scelto il lago di
Pogradec, perché possedeva i tramonti migliori. Il sole affogava turchese in quelle acque. A fine
settembre si portava con sé i ricordi dell’estate e con loro un gruzzolo di sogni così belli da avere il
dubbio di non averli fatti.
Percorrevamo centoventi chilometri di strada tra colline e monti fortunati, captando il rammarico
degli alberi prossimi allo spoglio. A metà della strada del ritorno venivamo sempre vinti dal sonno.
Dorata Bardhi prese il posto accanto a lui lasciato libero da Sokota perché questi implorò il
conduttore del pullman di farlo guidare e lui lo accontentò. Lei sedeva con Seha due file dietro, e
Klodian, fino a prova contraria, ha il russo più orribile di questo mondo. In confronto, un maiale
ferito sembra una sinfonia di violini.
Prese sonno in un istante, dopo che la testa le si era piegata sulla sua spalla con tanto candore che
lui al risveglio la pregò di rifarlo dal giorno dopo per sempre. Dorata, anche se stavamo per
scendere si riaddormentò credendo di sognare.
L’indomani cambiò pettinatura e modo di vestire. Prima portava i capelli a casaccio, senza la
minima cura e vestiva come noi pantaloni da cowboy e maglie larghe che deprimevano le sue curve.
Il giorno dopo la gita, era la bella addormentata. Aveva costretto sua madre a tagliarle con cura le
doppie punte dei capelli, all’una di notte.
Alla domanda di lei: “Che succede?”.
Rispose: “Non mi basta più essere bella solo dentro. Voglio esserlo anche fuori”.
Passò la notte davanti allo specchio, pettinando i capelli all’insù con delle ciocche deliziose sulle
guance. Li lubrificò con crema al limone e passò il rimmel sulle ciglia senza averne bisogno. Le
aveva folte, lunghe e curve, ma servì per raddoppiare il nero dei suoi occhi. Per la prima volta
indossò una gonna di lino viola e una camicia di cotone bianco a mezzo collo e aderente.
Il primo a vederla fui io. Sapeva di fragola. Abitavamo di fronte, al quarto piano della palazzina
numero cinque, e da dieci anni andavamo a scuola insieme.
“Non ho sentito fulmini stanotte” le dissi.
“E’ perché sono venuti ieri sera” mi rispose.
Sedette con Erion nello stesso banco per tre anni, e sedette anche nel suo cuore, finché non arrivò la
più bella mora di sempre da queste parti. Un mese dopo il sonno dell’amore, Dorata Bardhi portava
fra le pagine del libro di storia, sua materia preferita, un pezzo di lenzuolo con la sua verginità a
cristalli. Sua madre esterrefatta dal cambiamento vertiginoso della figlia, trovò il lenzuolo e
conobbe il colore sbiadito del sangue.
“E’ tuo?” le domandò morta in viso.
“Sì madre” rispose Dorata, aggiungendo che lo conservava anche perché la madre non aveva
conservato il proprio.
“Possiamo sapere a chi dobbiamo l’onore?” le domandò ancora la madre.
“Al più dolce maschio di questa terra” rispose Dorata contenta della sua enfasi, e convinta che mai
fino ad allora era stata così vicina al vero.
La sera stessa i coniugi Bardhi bussarono alla porta dei Monaj chiudendo la figlia in bagno, in una
marea di vergogna per il loro proposito. Marieta Monaj si trovava da sola, con il marito in servizio
straordinario e il figlio a parlare con le rose dei giardini pubblici. Si era in maggio. Transitava un
vento tiepido e pulito oltre i vetri, che amplificò il suo essere donna di tempi migliori. Offrì loro un
liquore alle more dicendo che alleviava la preoccupazione. Affrontò il fiume agitato del loro cuore
con un finissimo sorriso parente di primavera.
“Compagna Milena – le disse – se sposarsi vergine fa felicità, le dico di portarmi Dorata oggi stesso
in questa casa, ma a me non risulta, e non credo risulti a lei”.
Milena Bardhi passò al setaccio i quattro anni del suo fidanzamento e i diciotto di matrimonio, e
vide la felicità come un’oasi strana, per il semplice fatto di non appartenere al suo deserto.
“Ha ragione! – replicò – Ma se non altro fa matrimonio, e lei sa che sarà quasi impossibile per mia
figlia sposarsi da bucata, a meno che non sposi un portatore di handicap”.
“Se è per questo, mio figlio lo è! – esclamò Marieta – Porta l’handicap delle rose. Per vivere gli
basta mezza giornata di sole”.
“Lasciamogli vivere il tempo ebbro che non abbiamo vissuto noi – concluse alla fine mentre
l’accompagnava alla porta – vale mille matrimoni con il codice d’onore”.
Avevano fatto tutto loro, sorvolando con rispetto la presenza di Flamur Bardhi, il quale bestemmiò
per ottanta metri, ma arrivò a casa, non indifferente al vento di maggio e alla sapienza di Marieta
Monaj.
Tanto che quando fece uscire la figlia dal bagno, le disse con la voce meno rauca di quando l’aveva
chiusa: “Almeno fatti spiegare da tua madre come si fa a non rimanere incinta. Per quello che ho
capito partoriresti bambocci di rose, invece di sbirri”.
“Li vidi cambiati – mi avrebbe poi detto Dorata durante il pranzo funebre – in condizioni normali
mio padre avrebbe misurato il peso della sua mano con le mie guance”.
Visse il suo amore triennale alla luce del sole e con un anellino d’argento sull’anulare per prevenire
le cattive dicerie. Glielo aveva regalato Marieta Monaj, e lei stessa glielo aveva infilato al dito con
le lacrime agli occhi.
“Figlia mia – le aveva detto – mi rode il cuore dirti quello che sto per dirti: vivi ciò che credi di
vivere, ma non esagerare con l’amore. Erion appartiene a una razza sfortunata”. Come tutte le
profezie delle madri di tempi migliori si sarebbe verificata due volte. La prima con la morte e la
seconda con l’amore fatale.
V
I tempi erano maturi, benché il corso degli eventi andasse a passo lento. Nel luglio del novanta, a
Tirana, in un pomeriggio idoneo per negare le proprie origini, mille e duecento persone
scavalcarono le recinzioni delle ambasciate straniere chiedendo asilo politico. La televisione di
Stato ignorò l’avvenimento, ottenendo l’effetto contrario al suo proposito: ingigantendolo. Si seppe
che i traditori, invece di essere dei vermi senza midollo e morale, erano dei nuclei familiari
rispettabili, prima di quel pomeriggio, e addirittura adorabili, dopo.
L’unico che scavalcò i recinti della vergogna da solo, sbagliò anche. Passava di là per caso e
credette di trovarsi in una delle occasioni che valgono due vite. Vendeva semi di girasole ricoperti
con uova davanti alle scuole, commercio redditizio, ma che fa diventare solitari, specie se le scuole
sono chiuse. Per fedeltà verso il suo carattere e il suo analfabetismo, scelse il patio d’una
ambasciata tutta per sé. Finì in Senegal.
Lo Stato condannò verbalmente l’accaduto, senza toccare i parenti rimasti dei nega-patria.
Succedeva anche prima, ma come logica conseguenza della negazione pubblica dei primi verso i
secondi. Quella volta nessuno negò nessuno per la meraviglia di tutti. A inizio agosto visitò
l’Albania il ministro degli esteri russo. Dopo trent’anni di gelo diplomatico ci sembrò opportuno,
ma il terzo giorno della visita non lo era più. Con un decreto legge il parlamento decise la
tempestiva divisione dei capi di bestiame delle cooperative socialiste ai contadini, permettendo
anche che li pascolassero nei prati dello Stato.
Va detto che non esistevano i prati privati, ma fu un tale marasma di incredulità che ci arrivarono in
pochi. Le stalle dove avveniva l’assegnazione degli animali riempirono i giornali e i notiziari delle
venti in tv. A inizio settembre non pochi dei nostri coetanei avevano chiesto e ottenuto il
trasferimento in licei campagnoli, con la speranza di studiare da vicino il miracolo. Il fiume lo
impedì per gelosia. Aveva sempre avuto un occhio di riguardo per i campagnoli. Con quello dello
Stato diventavano due, e per quando fosse rigido e infedele verso il paese, trovò giusto prendersela
con i suoi preferiti. Almeno da noi ci rimise la pelle un quarto degli animali, tra i quali la mucca e
l’asino di mia nonna materna. Versò per loro il triplo delle lacrime versate per il marito morto tre
mesi prima, e disse che Dio era andato a cena con Stalin.
Lo stesso settembre il direttore impedì l’elezione annuale del nucleo di gioventù socialista per il
liceo, dicendoci pure durante il saluto di benvenuto che da quel giorno in poi il termine compagno
diventava facoltativo.
“Probabilmente il prossimo settembre non sarò il vostro direttore – disse – ma ciò non mi impedirà
di portarvi nel cuore”. Si sarebbe avverata anche la sua profezia, benché non abbia mai creduto che
fosse uomo di tempi migliori.
A dicembre dello stesso anno gli studenti di Tirana scesero in piazza chiedendo condizioni igieniche
migliori per i loro dormitori e le loro mense. Davanti al palazzo presidenziale, trovarono il cordone
della polizia in tenuta antisommossa, al quale le prime file chiesero da fumare, mentre le ultime
gridavano slogan di pace. Il presidente ricevette dieci di loro, assicurandoli che lui stesso si sarebbe
impegnato per migliorare la loro vita.
Mentre stavano per uscire, uno dell’Accademia delle belle arti gli chiese: “Non crede che è tempo
di cambiare?”.
“Risolviamo prima i problemi più urgenti – rispose il presidente – per cambiare ci sarà sempre
tempo”.
L’indomani gli studenti erano il fronte di una dimostrazione di quarantamila persone che chiedeva il
pluralismo politico sempre tramite slogan di pace. Molti della vecchia guardia del Partito Popolare
suggerirono l’uso della forza, ma il presidente respinse i loro ruggiti d’orgoglio.
“Questo popolo – disse – è come i serpenti. Va addomesticato prima di mezzogiorno. Dopo sarà
sempre tardi”.
Sicché l’anno nuovo ci portò un nuovo partito. E a fine febbraio i partiti nuovi erano sette, tutti della
destra, e chiedevano elezioni anticipate, visto che la legislatura sarebbe dovuta durare altri due anni.
A marzo tale esigenza passò in secondo piano. Perché il marzo impazzì.
Noi eravamo al centro del paese a mangiar focaccia di cipolle. La gente sfollò le periferie per
affollare il centro. Trascinavano borsoni e figli verso qualsiasi mezzo dotato di un motore e quattro
ruote. Quando questi finirono, certi partirono in bicicletta e carri trainati da cavalli e asini.
Andavano verso il mare, ma non per colpa del fiume. Partivano per altre terre, senza nemmeno
guardarsi indietro. Una volta arrivati nei porti, buttavano giù i recinti trascinando via anche i soldati
di leva incaricati alla difesa delle navi. Questi, poi, dimostrarono più forza e volontà di tutti nello
svuotare le navi cariche di riso, zucchero e altri generi alimentari. Prima che l’ordine pubblico nelle
città portuali venisse ripristinato con la guardia della repubblica, sette navi, compresi tre
pescherecci, avevano già preso il largo. Nessuna batteva bandiera albanese. La marina militare non
si impegnò a raggiungerle perché il presidente aveva dato l’ordine di lasciarle andare.
Due giorni dopo la televisione trasmise le immagini dei nostri connazionali ammassati in tende di
plastica, in Italia, sorridenti ma stanchi e spaesati. Facevano il segno della vittoria con le ditta, ma
essendo questo un gesto imparato da poco, a noi rimasti sembrava di sconfitta.
Fra di loro c’era anche Saimir Sokota. “Io vado” aveva detto mentre finiva di mangiare il suo pezzo
di focaccia.
Eravamo nazionalisti il giusto, e ci provammo in tutti i modi a farlo desistere. Monaj gli ricordò il
naso otturato, e il giuramento della fraternità. Seha gli disse che ogni pietra pesa bene al suo posto.
Io gli dissi che chi è del fiume non può essere anche del mare.
“ Io vado” ribatté, e se ne andò senza nemmeno abbracciarci.
Nei primi pomeriggi dopo la scuola suo padre lo portava con sé a scaricare i camion nei cantieri
edili, allungandogli le ossa e anticipandogli la formazione della barba da uomo. Quando partì era un
palmo più alto di noi e aveva abbandonato senza segni la sua acne. Sua madre, quando lo seppe,
disse che prima o poi doveva succedere. La stessa cosa sostenevano nelle altre città. Loro avevano
intuito, chi tramite i venti, chi per via delle rondini che erano arrivate in anticipo. A noi non
arrivava niente che sapesse di chiaroveggenza. I monti erano più mummie di prima, e benché le
rondini scervellassero come il marzo, i venti non cambiarono.
La vita riprese le modalità di sempre a eccezione del fatto che piantarono dieci cabine telefoniche,
per far fronte all’incremento delle chiamate internazionali.
Selim Monaj durante la solita partita di carte con Bujar Seha disse: “Spero solo di avere tempo di
dire che ho vissuto. Ma mi sembra che non me lo concederanno”. Sei mesi dopo avrebbe
consegnato la sua pistola d’ordinanza, il manganello e la divisa.
Nell’aprile del novantuno una coalizione dell’opposizione chiese al presidente elezioni anticipate se
non si voleva correre il rischio di governare case vuote.
“Quando pensate di essere pronti?” domandò a sua volta il presidente.
“A maggio agli sgoccioli” risposero loro.
Il ventinove di maggio il vecchio e glorioso partito di sempre vinse con il settanta per cento dei
primi voti liberi, che furono contati da scrutatori stranieri. Il primo di giugno, tredici ore dopo la
pubblicazione dei risultati ufficiali, il popolo si riversò in piazza a negare la propria coscienza
politica. Era successo che ognuno aveva votato per il passato, sperando che l’altro votasse per il
futuro. Il presidente pensò che forse sarebbe stato giusto non partecipare alle nuove elezioni
straordinarie da lui stesso decise.
“Il miglior esempio di democrazia è consegnare il potere due giorni dopo averlo avuto” diceva.
Lo fece desistere dal suo proposito la visita casuale del segretario di stato americano. Questi si
trovava in Grecia, e fece scalo a Tirana per pura curiosità. Dopo essersi fermato stralunato a
dialogare con i leader politici che non conosceva, donò al popolo albanese centottantamila dollari di
tasca sua. I giornali di destra scrissero che la cifra, benché simbolica, era comunque un quarto del
suo patrimonio personale.
Fu il tripudio. A Tirana novantamila persone uscirono per strada a salutarlo, sbandierando fazzoletti
a stelle e strisce. In suo onore, massacrarono rose e gerani e fecero a pugni per farsi fotografare nei
paraggi della sua macchina. In tanti si spinsero oltre, baciandone le lamiere e le gomme. Non vidi
uccelli volare quel giorno e capii che l’orgoglio dei volatili può competere con quello degli uomini.
Uno dei nostri intellettuali, facendo semplice uso della matematica disse che avevamo toccato il
fondo. Secondo il suo ragionamento, dividendo la somma regalata per il numero dei dimostranti
della gratitudine, risultava che due albanesi valgono un dollaro americano, ma nessuno stette a
sentirlo.
Due giorni dopo la gente era ancora in piazza a scandire il nome dell’americano generoso. La destra
approfittò, dicendo che i centottantamila dollari erano solo un anticipo. Bastava farla vincere, per
avere un assegno in bianco e coronare i nostri sogni. Il cielo era ancora orfano di voli, e lo era anche
dieci giorni dopo, quando finalmente cambiammo colore politico.
La gente aveva votato la novità, non la convinzione, e i vincitori pur di accontentarla rovesciarono
le sue sorti in maniera irrimediabile. Il presidente fu carcerato per presunta corruzione, e con lui
tutta la vecchia guardia del partito popolare. Chi si salvò cambiò bandiera. I più coraggiosi
formarono il nuovo partito socialista e si misero all’opposizione degli amici di pochi giorni prima.
Svuotarono le carceri senza distinzione di colpe. I ladri di polli uscirono con l’aria trionfatrice dei
prigionieri politici. Cambiarono le gerarchie militari e della polizia, cambiarono perfino le guardie
notturne degli ospedali. Alla fine si diedero alle privatizzazione della terra, delle industrie, poche
per fortuna, e delle case. A ottobre, quando si poteva fare un sommario bilancio, eravamo quelli di
prima, se si esclude il fatto che indossavamo i jeans invece dei pantaloni di velluto e si beveva coca
cola al posto di yogurt diluito. Al liceo, dei nostri insegnanti era rimasto solo Igor Musta.
L’insegnante di letteratura aprì una bancarella al nuovo mercato, dove vendeva sigarette e gomme
da masticare. Diceva che guadagnava più di prima, ma diceva pure che con le lacrime negli occhi si
guadagna meno tutta la vita. Ci avanzava tempo a volontà per giochi e amori, in quanto i testi di
letteratura, storia, educazione morale e giurisdizione non erano coerenti con le nuove verità, quindi
da considerare superati a fine anno senza che ci disturbassimo a prendere lezioni. Per colmare il
vuoto, lasciato dalle materie inadeguate, scelsero le lingue straniere. Arabo, italiano, spagnolo, e
greco. L’inglese, il francese e il vecchio latino c’erano già. Ci buttammo tutti quanti sull’italiano, e
a dicembre non pochi erano capaci di leggere e tradurre il Decamerone senza molti contrattempi.
Erion Monaj studiava anche lo spagnolo con la stessa tenacia con cui studiava l’italiano, poiché sua
madre le poche volte che gli si rivolgeva nella sua lingua si scusava subito dopo.
“Impara pure quello che vuoi – gli diceva – di sicuro non sarò io a insegnarti come parla il dolore”.
All’inizio rimase affascinato da una sola parola: alma.
“A Babele e alla sua torre bisogna essere grati solo per questo – diceva – da oggi in poi impareremo
tutte le lingue del mondo e i tormenti impareranno la nostra”.
Alla fine di dicembre del 1991 i suoi genitori lasciarono la città per ritornare verso nord. Era
successo che tre settimane prima Marieta Monaj era stata insultata da donne e uomini mentre
ritornava dal bazar in cui aveva venduto il flauto e il pianoforte. Ne aveva sentite di tutti i colori
senza rispondere. A casa scoppiò in lacrime e non mangiò per due giorni. Selim Monaj si trovava
disoccupato e con un amico solo, Bujar Seha. Erano vent’anni che giocavano insieme a carte,
scacchi e domino svuotandosi a vicenda i pacchetti di sigarette. A volte esageravano con la grappa e
con l’età che si portavano addosso, credendo che fosse il miglior modo di consolidare l’amicizia.
Selim Monaj uscì in strada con niente in mano. Bujar Seha lo seguì senza che lui glielo chiedesse.
L’ex ispettore gridò con la voce tuonante del nord: “Vi faccio madri, mogli e sorelle. Sono un
comunista, ma prima sono un uomo, e lo dimostrerò ora, qui, a chi avrà il coraggio di dire a me
quello che ha detto a mia moglie”.
Si fermò al centro del quartiere con le braccia incrociate e gli occhi fiammeggianti. Il suo amico di
grappa e giochi ripeté le stesse frasi, sostituendo comunista con democratico e moglie con sorella.
Nessuno si fece avanti. Gli uomini mormorarono, mentre le donne entrarono nelle case.
Conoscevano il braccio armato di solo orgoglio di Selim Monaj e l’origine di Bujar Seha. Era nato
come suo padre e suo nonno in paese, gli altri erano arrivati dopo.
L’origine, da noi, pesa più del piombo. I due uomini tornarono nelle loro case, con l’ammirazione
nascosta di quegli stessi che avevano insultato la donna il giorno prima.
La mattina dopo Marieta Monaj, triste e digiuna, trovò il balcone zeppo di colombe decapitate. Era
il verdetto del paese. Il loro tempo si doveva considerare scaduto, e se Selim Monaj fosse uscito di
nuovo in strada, sarebbe stato steso da proiettili in mala fede.
“Mi impegnerò che lasciate la città come siete venuti” disse Bujar Seha.
A mezzogiorno invitò a pranzo fuori i bulli della città e chiese loro fede. Gli fu concessa. Il
diciassette dicembre del novantuno Selim Monaj firmò l’atto di vendita della sua casa e
l’affidamento del figlio a Bujar Seha. Per la casa non incassò nemmeno il prezzo del riscatto che
aveva pagato un mese prima: quarantamila lek. Lo considerò denaro cicatrice. L’anno dopo Bujar
Seha l’avrebbe rivenduta gratis a Erion diventato maggiorenne, pagando di tasca propria le pratiche
notarili.
Per il figlio tentennò tre giorni, affidandolo con una stretta di mano.
“Compare – gli disse Bujar Seha – lascia qui tuo figlio. In fondo ha dormito più a casa mia che a
casa tua. In questa città io valgo ancora qualcosa. Se lo porti con te mi costringerai a venire a
riprenderlo con l’orrore nelle pupille. Sai meglio di me a cosa vai incontro”.
Selim Monaj lo sapeva. Si era prodigato inutilmente a ottenere un visto per qualsiasi paese che non
fosse l’Albania.
“I bastoni della dittatura non lasciano il paese” si era sentito rispondere.
“Ho fatto il mio dovere” aveva replicato.
“Se negare il proprio fratello è un dovere, chiederò che la santifichino a destino compiuto” aveva
chiuso l’altro.
Selim Monaj tastò le viscere con ripudio e dolore, trovando il viso del fratello tra lumache e
asparagi remoti come il mondo in cui respirava. Considerò se stesso indegno di una morte comune,
e chiese alla moglie il divorzio e la negazione pubblica.
“Almeno tu devi vivere” le disse con lacrime per cui lei pregava da ventiquattro anni. Marieta
Monaj provò lo strano sollievo del pianto, e per non farselo sfuggire ne aggiunse del suo.
“Ah! Uomo della mia vita – gli disse – piangiamo oggi e non pensiamoci più”.
Il ventidue dicembre costrinsero il figlio a non scendere le scale per vederli mentre salivano in
macchina. Selim Monaj gli aveva ordinato, una volta maggiorenne, di cambiare cognome, mentre la
madre l’aveva pregato di non smettere di amare le rose.
“Smettila con lo spagnolo – gli disse – è lingua di noce”. Le avrebbe dato retta solo riguardo alle
rose, amandole anche per lei.
Ill giornoIl giorno dopo la loro partenza nevicò.
Prima d’allora la neve l’avevamo visto solo in televisione, e nelle cartoline d’augurio di buon anno.
Il fiume fu coperto da lastre di ghiaccio e diventò sordomuto. La neve mitigava tutto quello che
copriva. A metà gennaio del novantadue se ne andò, lasciando il paese in pasto a incroci di soli e
venti sconosciuti. Stavamo tutti per compiere diciotto anni, ma il suo addio scombussolò le nostre
immagini che ci precedevano nella corsa verso il futuro. Saimir Sokota ci aveva mandato per posta
tre giacconi da neve dell’esercito italiano. Ne sarebbe bastato uno solo per coprirci tutti e tre. Erano
larghi e ci arrivavano alle caviglie, ma li indossammo comunque fino ad aprile, con la speranza che
facessero ritornare la neve. Tuttora sono appesi nell’armadio di mia madre e richiamano ancora
neve, a testimonianza del fatto che gli indumenti a volte sono più tenaci e pazienti di chi li indossa.
La notizia della morte di Selim Monaj e sua moglie arrivò dalle pagine del giornale locale. Di
omicidi per vendetta le cronache erano piene. Spesso il caso viene archiviato prima che le vittime
provino l’ebbrezza di andare incontro al Signore e gli assassini si vantino della propria bravura.
Selim Monaj e sua moglie si erano fermati a Lezha e vivevano con i risparmi dei tempi che erano
stati. Lui si mangiava il cuore tramite i ricordi, mentre lei tentava di illuderli tessendo maglioni ai
ferri. Passeggiavano all’imbrunire come due fidanzati che fanno del dolore una promessa di vita
eterna. In tre mesi scrissero due volte al figlio. Tentavano di raccontargli una vita che non
conducevano, e esageravano con frasi leggere e innocue così da fare in modo che lui realizzasse il
contrario. Mangiavano sospiri e bevevano lacrime. La terza volta gli scrisse la morte, con la sola
lingua che conosce: la verità. La domenica delle palme non c’era la nebbia a Lezha. Loro due erano
usciti al mercato del pesce passeggiando tra le bancarelle con rami d’ulivo in mano. Si fermarono
davanti alle trote, perché ventiquattro anni da noi avevano modificato il loro palato. Preferivano
l’acqua dolce e i suoi anfibi.
“Da dove vengono?” domandò Selim Monaj.
“Dalla città del fiume pazzo” rispose il venditore.
“Allora sono buone – si compiacque Selim Monaj – anche se puzzeranno di rancore. Me ne incarti
ventiquattro”.
Il venditore rise di buon gusto. Di solito vendeva ventiquattro trote in un mese. Aveva smesso da
poco di ridere della sua fortuna, quando sentì il ridere del piombo, che fece impazzire le trote morte.
Vide i suoi clienti stessi sotto la bancarella coperti di merluzzo.
“Cazzo! – disse a voce alta – Potevano aspettare che mi pagassero almeno”.
Nei verbali della polizia testimoniò che gli spari erano stati preceduti da due frasi nel nostro
dialetto. “Salute a Selim Monaj e alla sua troia spagnola. E’ cosi che parlano ora le bocche che hai
sdentato!”.
I coniugi Monaj furono seppelliti dal comune di Lezha, senza funerale e senza l’ultima benedizione.
Ritornò la nebbia il lunedì, e i cavalli del carro che trasportò i loro feretri erano testardi e malnutriti.
Camminarono a passo lento incuranti delle frustate sulle loro schiene.
Bujar Seha venne al liceo e chiamò Erion fuori all’ora di greco. Dalle finestre vedemmo che lo
portò quasi di peso verso casa. Noi lo raggiungemmo all’ora di ricreazione e sentimmo il suo pianto
sordo attraverso il legno della porta.
“Ora entrate entrambi! – disse Bujar Seha al figlio e a me – Niente chiacchiere e niente strilli.
Lasciatelo sfogare”.
Erion aveva gli occhi allargati, quasi senza contorno. Ci abbracciò senza smettere di piangere e non
parlò per tre giorni. Bujar Seha rinforzò la porta con una lastra di ferro battuto a mano.
“Che fai papa? – gli domandò stralunato Klodian – Non si scappa mica da qui dentro”.
“Il ferro non è per voi – gli rispose il padre – è per i detriti della morte. Devono uscire dal balcone”.
Alla maniglia della porta legò un nastro nero, e mise due crisantemi. Ordinò a sua moglie di levare i
vasi dei garofani dal davanzale del balcone. La soglia rimasta venne lavata con cloro e candeggina.
Ci chiudemmo dentro con lui a turni, e furono i giorni in cui imparammo a fumare.
Dorata Bardhi venne a fargli visita il terzo giorno. Indossava un vestito verde con fiori d’arancio e
aveva il fermaglio del lutto nei suoi capelli tinti di fresca melanzana.
Sua madre tentò di scoraggiarla, ma Dorata mai come quel giorno ebbe il gergo infallibile. “Che
amore sarà mai il mio, madre, se non supera la prova della disgrazia”.
Sua madre finì per rassegnarsi non prima di consigliarla di vestirsi a dovere. “Il vestito è il suo
preferito, madre” le rispose la figlia.
Non poteva essere diversamente. Corto appena sulle ginocchia, era scollato il giusto, lasciando
comunque immaginare ciò che seguiva su per le ginocchia e giù per la scollatura. Cosce e seno
d’una ragazza che aveva completato la sua fioritura.
Quando Bujar Seha la vide le disse: “Dove si va vestiti così, piccola? Lì dentro il tuo ragazzo ha la
morte nel cuore”.
“E’ una visita d’amore la mia – rispose lei – e non c’è migliore condoglianza dell’amore”.
Bujar Seha fece uscire il figlio facendola entrare. Lei andò dritta a baciare i suoi zigomi
ammorbidendo con amore il tracciato del pianto. Il suo respiro affannoso si fermò sugli occhi spenti
di lui.
“Guardami! – gli chiese con la voce ferma della quale si fidava meravigliata quel giorno – Ti voglio
solo ricordare che tutto questo era nelle previsioni, e ora è inutile marcire con la presunta colpa di
averli abbandonati. Ci stiamo improvvisando in tempi che non ci appartengono, e non conosceremo
altro modo di crescere che non sia il dolore”.
Terminò con queste parole la fermezza della sua voce. Si convertì in cordicelle sottili d’acqua
salmastra giù per il mento e per la gola. Allora cercò lui di consolare lei, baciandole gli occhi, con il
chiaro intento di arginare il pianto. Ma questo scivolava inesorabile, quindi provò a fermarlo nella
bocca di lei senza riuscirci. Accelerò il passo delle sue labbra nella fossa del seno, cercando di
anticipare le lacrime con la voglia repressa del proprio corpo. Alla fine ci riuscì, ma ben più sotto di
dove il pianto aveva avuto inizio. Rimase comunque chiuso in casa per altri sette giorni, fumando
come un turco le sigarette che Bujar Seha gli passava di mano propria. Dorata Bardhi andò a
trovarlo tutti i giorni, senza nascondere che era per fare l’amore.
Quando finalmente uscì dalla sua clausura più voluta che forzata le rose avevano invaso i giardini
pubblici. Era ancora aprile, ma maggio bruciava le tappe. Uscì con gli occhi larghi e i riccioli solidi
di tristezza. Diventò Paride più di prima, perché il dolore unisce e la compassione ci mette poco da
noi a convertirsi in desiderio atroce. Dorata Bardhi gli fece da scudo per i sospiri addolorati delle
sue compagne, benché non ce ne fosse bisogno. Le uniche con cui rischiava il tradimento erano le
rose.
VI
Elvira Kresta arrivò con i suoi occhi assassini il tre settembre del novantatre. Io non c’ero. A
maggio dello stesso anno mi ero classificato secondo nel concorso nazionale di letteratura per le
matricole liceali. Alle domande riguardanti la storia della nostra narrativa avevo risposto maluccio,
ma mi ero prontamente rifatto con il tema. Titolo: “Il futuro della nuova generazione”.
L’enfasi, con me, è sempre stata benevola e generosa, e doveva essere così per forza. Non ero
smaliziato allora e non credo d’esserlo oggi, ma avevo già capito sulla pelle di altri che lo stile
asciutto e senza fronzoli non era ben visto dai nostri critici. Scrissi che ormai non c’erano più dubbi.
Che a prescindere dalle aquile del nord e le colombe del sud non ci trovavamo neppure con le
rondini. Eravamo una generazione migratoria senza stagioni di ritorno. Avremmo portato per il
mondo il nostro colorito malconcio a causa di alimentazione povera di vitamine, i nostri costumi
scostumati, il nostro vivere frenetico, il nostro orgoglio ferito dal marzo pazzo del novantuno e tutti
gli altri marzi che continuavano a impazzire.
Che forse era meglio abituarsi all’idea di essere gli indiani d’Europa, sperando solo di accomunarci
in questo a Polonia, Russia, Ucraina, Ungheria, Romania e Bulgaria. Lasciai fuori la Jugoslavia,
perché chi mi sta sulle palle non lo nomino mai. Del resto so d’essere ricambiato alla pari: non fa
notizia, l’odio con cui viviamo da quando Dio decise di metterci vicini. Scrissi che andavamo
incontro all’Occidente, con i sogni che colavano sangue, perché il tempo degli uomini aveva
scombussolato il tempo dei sogni. Che il nostro mare nelle sue rughe portava colpe d’avanzo, e
forse per una volta sola io potevo essere fiero e felice del mio fiume, più pazzo che colpevole. Alla
faccia di tutti i fiumi del mondo, Danubio compreso! Che avremmo parlato tutte le lingue possibili,
permettendo ai tormenti di parlare la nostra.
A colpire la giuria fu specialmente quest’ultima frase, che poi era l’unica non mia.
Come premio pubblicarono un mio racconto nella raccolta delle voci nuove, e qualcuno che aveva
voce in capitolo si permise di considerarmi una promessa della letteratura nazionale. Deluderlo non
è stato difficile.
Erion Monaj non volle concorrere perché diceva che gli autunni di Tirana comprimevano alberi e
fiori, e che lui non concepiva di respirare altra aria che non fosse la nostra. Dalla morte dei suoi
genitori, concedeva ai giardini pubblici buona parte del suo tempo, togliendo le foglie appassite
dalle rose e prodigandosi perché venissero irrigate coi modi e nei tempi giusti. Il guardiano gli
aveva dato una copia delle chiavi della pompa irrigatrice.
“Tenerci solo alle rose non mi sembra giusto” gli dissi una volta a maggio.
“Guardi, poeta dei miei coglioni – mi rispose – che ciò che lei non sa è che ogni fiore è un
banchetto gratuito, quindi io mi servo dove mi pare, e siccome non ho i suoi gusti eloquenti per fare
fortuna con le frasi degli altri, preferisco le rose”.
A parte questo non mi portò rancore. Il due di settembre mi diede trentamila lek dicendomi di
laurearmi anche per lui e per le sue rose. Partii a occupare un banco nell’università di filologia a
Tirana e un letto nei dormitori studenteschi con duecentomila lek, frutto di colletta fra i suoi, quelli
di Seha e Dorata Bardhi. Mio padre aveva aperto da poco una bancarella di articoli da cucina e me
ne diede solo cinquantamila.
“Vedi di farteli bastare per un paio di mesi – mi disse – dovrò badare anche a tuo fratello. Voglia
Dio che non sia per i libri”. Gli sarebbe andata anche peggio: mio fratello oggi studia scienze della
comunicazione a Siena.
Era una cifra considerevole per l’epoca, ma mai quanto il ricordo della festa delle matricole, in cui
avevo conteso lo scettro del re al ragazzo dei fiori, senza tuttavia spodestarlo. Flutura Saranda mi
invitò a ballare senza che io ci sperassi e mi disse che dopo di lui c’ero io. Faceva notte anche con i
miei sguardi languidi da cinque anni, ma si era sbagliata credendomi tenace e intraprendente.
”Eppure – mi confidò – sono dell’idea che un amore ritardato possa risarcire un amore precoce”.
Sarà stato sicuramente concorso di colpa tra giugno e grappa ghiacciata, fatto sta che le risposi che
per me lei era un sogno e volevo tenermela tale. Se avrai la sfortuna di leggere questo libro, sappilo,
e te lo giuro dolcissimo tormento biondo: sono tredici anni che il cuore, ogni volta che vedo donne
bionde mi ricorda d’essere un imbecille.
Il due di settembre partii per Tirana lasciando Erion che era stato assunto dal giornale locale
dell’opposizione, a patto che scrivesse solo nella pagina degli spettacoli, e Klodian assunto nella
fabbrica dei dolciumi. Mentre Dorata trovò lavoro nell’asilo nido aperto con i fondi della carità
francescana. L’estate che non voleva sapere d’andarsene aveva addormentato anche il fiume.
Lo svegliò Elvira Kresta coi suoi occhi che facevano viso da soli. Era ebrea, non era di questo
mondo e neppure dell’altro. La sua pelle aveva il colorito delle uova delle colombe postine. Latte
appena munto inebriato di cioccolato. Mia madre, che ha ancora la mania di paragonare ogni donna
che abbia meno di quarant’anni ai succhi di frutta, mi disse quando venne a trovarmi a Tirana ai
primi di ottobre: “Saprà di liquido denso d’uva nera anche a sessanta, ammesso che ci arrivi, perché
una bellezza così non può vivere a lungo”.
Chiesi a Erion per telefono di paragonarla a qualche fiore. “Dovrà ancora nascere” mi rispose.
Erion si trovava con Seha nel piazzale davanti alla palazzina, quando arrivò lei a braccetto di suo
marito. I suoni folcloristici dell’orchestra festiva si sentivano già da due chilometri, e la strada
principale del quartiere era zeppa di curiosi da entrambi i lati. Il vestito le strusciava per terra, ma i
bambini non ebbero il coraggio di aiutarla tenendole i lembi. In altri casi l’avrebbero fatto anche a
rischio di schiaffi. Lei salì le scale lenta e parsimoniosa come chiedeva la cerimonia, ma il suo
fascino aveva altro passo. Guardava fisso per terra come ogni sposa che si rispetti, ma i suoi occhi
erano infiniti, quindi vedeva tutto intorno a sé. Davanti alla porta sua suocera le unse la mano destra
di miele e gliela fece scivolare sul battente. Dopodiché entrò dentro, liberando quartiere e settembre
dall’affanno della sua bellezza. La sorella dello sposo buttò dal balcone riso crudo e zucchero filato.
Monaj e Seha raccolsero un pugno del primo dal tetto della macchina con cui erano arrivati gli
sposi.
“Com’è” domandò Erion a Klodian.
“Lei è bellissima – rispose lui – ma il riso fa schifo. Per di più è cinese”. Erion si mise un pugno di
riso nella bocca e cercò il dente del giudizio. Lo trovò male, sentendo un dolore sordo che prima di
masticare tutto gli raggiunse il cuore. Ci mise la mano per assicurarsi.
“Cos’hai” gli domandò Seha.
“Battiti erranti” rispose lui, dando via libera alla fatalità che l’avrebbe perseguitato dal pugno di riso
fino alla morte.
Quella stessa notte sognò il ponte del precipizio con lui in mezzo fra brivido e ragione.
Quest’ultima aveva diciannove anni di vita e altri mille di magone. Il brivido era maggio con un neo
di settembre. Come la maggior parte degli incubi non ebbe esito. Si svegliò con gli occhi gonfi e
con la sposa nelle vie del sangue. Tuttavia raschiò il fondo delle sue viscere e trovò la forza di
tenere testa al tormento. Benché abitassero nella stessa palazzina con tre piani di differenza, gli
incubi di lui sulle notti amorose di lei arrivavano attutiti, e si potevano anche sopportare con l’aiuto
dei sonniferi. Aggrappandosi all’ormai forzato amore per Dorata e al suo lavoro, in capo a dieci
giorni cercò di convincersi che i sentimenti più belli sono quelli inespressi. A parte qualche
leggerezza nei suoi articoli e l’incremento delle notti in bianco, sembrava che alla fine sarebbe
riuscito a non curare il germoglio del fiore proibito.
Risale a quei giorni infatti il suo alterco a mezzo stampa con Anila Lako, cantante di un gruppo
rock emergente. Da noi ebbe successo, tanto da chiedergli che bissassero il loro spettacolo.
L’indomani Erion chiudeva il suo articolo con una affermazione e una supposizione: “E’ bionda ed
è brava. Se fosse bruna sarebbe bravissima”. Anila Lako rispose di non sapere che la musica e la
sua voce dipendessero dai colori cutanei, ringraziando comunque Dio che il giornalista fosse
giovane e di poco spessore intellettuale. Monaj l’indomani rincarò la dose scrivendo che affermare
“è brava” gli era costato fare a pugni con il rigore del suo mestiere. Anila Lako rimase in città senza
il suo gruppo e andò in redazione per incontrare il suo inquisitore. Lo vide triste e solitario, e non
diede luogo alla propria collera. “E’ un peccato che la tua mano e il tuo viso debbano coesistere” gli
disse salutandolo. Il terzo giorno da quando lei era partita, il direttore le chiese scusa in prima
pagina e considerò i tre giorni di Erion non lavorati.
Con Dorata andava anche peggio. Ogni notte lui cercava delle scuse per fare tardi, con lei o senza,
in modo che non si finisse a letto. Quando non ci riusciva faceva un amore ipocrita e duraturo, che
lasciava esausta lei, colpevole lui e scontenti entrambi. Lei poi prendeva sonno, e lo faceva come
sempre da gatta innocente, mentre lui si augurava tra le macerie del proprio sonno che almeno non
sognasse.
Ebbe l’idea di trovarsi un altro appartamento, sperando che il tormento si alleggerisse non
respirando nello stesso fabbricato con la sposa terribile. Il giorno dopo si convinse che non sarebbe
stato possibile nemmeno se avessero respirato in continenti diversi.
Capitava di lunedì, e pioveva anche. Era la solita prima pioggia di settembre che avvisa di
prepararsi per i mesi malinconici, ma a lui sembrò che piovesse da un’altra parte. Vide lei che
apriva le tende del locale situato di fronte alla palazzina e che fino a una settimana prima era stata
birreria alla spina. Si scordò di aprirsi l’ombrello e si scordò di respirare quando la vide intenta a
occupare lo spazio davanti al locale con rose, garofani, ciclamini e altri fiori che ancora non
conosceva, a parte le viole del pensiero che lei fece uscire in rettangolari sostegni di polistirolo
mentre lui saliva sull’autobus. Ritornò a mezzogiorno dal giornale per la pausa pranzo e conobbe le
camelie.
Aveva smesso di piovere. Arrivò in casa Seha bagnato fradicio di sudore. “Che succede? –
domandò alla madre di Klodian – Ho visto un negozio di fiori lì sotto”.
Succedeva che Edmond Kresta aveva mantenuto la promessa fatta alla sua sposa ai tempi del
fidanzamento. Farle commerciare ciò per cui lei viveva: i fiori. Sessant’anni prima il nonno di lei
era arrivato dall’Olanda con l’intento di far funzionare i pozzi di petrolio per conto del suo governo.
I pozzi furono incendiati cinque anni dopo in aprile, prima che sbarcassero i primi soldati italiani. Il
tecnico rimase comunque, spostandosi a sud e comprando un pezzo di terra, dove coltivò tulipani, i
quali venivano regolarmente rubati di notte dai contadini per sfamare i loro animali.
La sfortuna dei fiori, però, si trasformò in fortuna nel 1943. Un po’ perché diede alla luce un figlio
quando ormai non ci sperava più, un po’perché i tedeschi, arrivati dopo la capitolazione degli
italiani, presero sotto gamba noi e i nostri semiti. Così stando le cose considerò l’Albania terra di
fortuna, e non si mosse nemmeno dopo la liberazione. Morì nel sessantasette quando nacque Elvira.
Al padre di lei aveva trasmesso la voglia per il lavoro e l’amore per i tulipani dicendogli che
sarebbero venuti i giorni in cui non sarebbero stati solo mangime per gli animali domestici.
Nel novantuno suo figlio Edmir Vantret, tecnico di pozzi petroliferi come il padre, si trovò tra le
mani la procura di tredici ettari di terreno fertile dove costruì una serra olandese con denaro
olandese. La moglie, testarda mulatta delle nostre, non passò un giorno che non provasse a
persuaderlo a piantare trifoglio.
“Almeno mangeremmo qualcosa” gli diceva.
“Il trifoglio fa la gioia degli animali! – gridava lui – I fiori faranno la felicità degli uomini”.
Collocò la serra al riparo di un filare di pini in modo che luce e calore non esagerassero. L’orientò a
est e a ovest, per beneficiare del massimo della luce al mattino e al tramonto, evitando il
surriscaldamento a mezzogiorno. A maggio del novantatre, a ventisette chilometri dalla periferia
sud del paese, abbondavano piante verdi e fiorite, tropicali, grasse e carnivore, rampicanti e
ricadenti. La serra fu situata al lato destro della strada che conduce a Valona. Prima che lei
convertisse la birreria in paradiso floreale, eravamo convinti che sotto quelle tettoie di vetro
dolcemente pendenti, coltivassero cetrioli e pomodori.
Come noi anche Edmond Kresta, finché non entrò a chiedere acqua per il motore della sua
macchina. Veniva da Valona dove faceva i suoi commerci illeciti di merce umana per i gommoni, e
ritornò nella serra una settimana dopo con un anello da un milione di lek, che mise al dito del fiore
più fiore di quella coltivazione: Elvira Kresta. Aveva ventisei anni all’epoca e gli ultimi due si era
dedicata con tanta tenacia e abnegazione alle sue creature vegetali che si era ammorbidita l’anima a
sproposito. A scuola era stata una mula, ma aveva la grazia di altri cieli nel viso e nel portamento da
sembrare laureata in femminilità per eccellenza.
“Ti ricordi che mi hai chiesto di paragonarla a qualche fiore a dicembre? – mi aveva detto Erion
pochi giorni prima di essere accoltellato – Bene, è una brunnera felisia”.
Ho sfogliato tutti i libri della vecchia Roma e Grecia e Egitto a cercare nomi di perdute principesse,
convinto che sbagliasse, abbagliato com’era dall’amore. Undici anni più tardi, a Genova, alla fiera
dei fiori avrei visto il pentifoglio viola turchese in cima a una pianta che sicuramente avevo
incontrato altre volte, ma per mia ignoranza nel campo floreale avevo scambiato con un comune
ficus. Come mi hanno spiegato dopo, non sempre il fiore riesce a sbocciare in cima alla pianta, fa
della rarità la sua bellezza e costa un botto di soldi. E’ vigorosa, ma triste. E’ lei.
A diciassette anni aveva avuto un’esperienza poco felice con un suo coetaneo che aveva cercato di
violentarla. Era riuscita a sfuggirgli staccandogli tre grammi di naso con i suoi denti diafani. Da
allora passava tutto il tempo a casa ignorando gli uomini, ricamando e sforzandosi di imparare il
fiammingo senza riuscirci mai del tutto. Imparò il giusto da mandare in bestia sua madre quando lei
le ricordava che era tempo di mettere al mondo figli. “Ho sangue olandese io, madre – diceva in
fiammingo, e continuava poi in albanese per non offenderla senza rimedio – farò dei figli coi
tulipani”.
Erano giorni in cui sua madre, tramite parenti e conoscenti, faceva venire nella serra ragazzi di ogni
età e colore, con la speranza che qualcuno potesse fare breccia nel cuore della figlia. Elvira parlava
con tutti nell’unico modo che conosceva. Con sincerità e leggerezza, da mandare indietro i
pretendenti del suo cuore quasi sollevati e felici per la certezza che con una bellezza così l’unico
futuro sicuro sarebbe stata la sofferenza.
Edmond Kresta si presentò per caso in un torrido giorno di maggio con il motore della macchina
fumante, quindi non ebbe il tempo di dar retta agli scrupoli dell’avvenire. Aveva trentuno anni
all’epoca, era aitante, simpatico, e io sono contrario a chi sostiene che il suo fascino derivasse
maggiormente dal denaro abbondante. Nel novantuno era andato in Svizzera facendo quello che
tutti noi sappiamo che i nostri fanno in quel paese: lo spaccio di droga. Di abilità e intelligenza non
ha mai avuto carenza, per cui è sempre stato un soggetto caro alla fortuna. Dopo due anni tornò in
paese aprendo una birreria alla spina e il bar che sarebbe diventato il luogo cult per i prossimi
liceali. Piantò dei salici piangenti a forma di cuore all’esterno e non aveva problemi di fare credito
ai suoi clienti. Era altruista, di cuore e di portafogli.
Nello stesso anno aprì anche un negozio di alimentari dove facevano la spesa le famiglie povere.
Tese una rete di contatti con gli scafisti di Valona prendendo il cinque per cento della somma per
ogni cliente da lui presentato. Alla fine era l’orgoglio del quartiere, e l’unico che si poteva sposare
senza paura la bella fioraia.
Lei fu colpita dalle sue frasi dette con l’anima in mano. “Grazie dell’acqua, signorina! – aveva detto
– Io dei fiori non so un tubo, ma questo non mi impedirà di presentarmi qui la settimana prossima
con un anello di fidanzamento. Sento dei brividi strani qui dentro” e aveva puntato il cuore di lei
invece del suo.
Quando stava per uscire lei l’aveva richiamato, chiamando anche i suoi genitori. “Vi presento il mio
futuro marito” aveva detto, e lui capì che avrebbe sposato se stesso nel corpo d’una donna.
Anni dopo, a dramma compiuto, m’avrebbe detto: “La stessa cosa doveva valere anche per lei, ma
in senso contrario. Non poteva innamorarsi di nessuno che non lo fosse già dei fiori. Il suo corpo
venne con me il tre di settembre, ma l’anima le rimase in serra e solo il tuo amico la poteva far
uscire”.
Da fidanzati trascorsero un mese a Creta, e fu là, tra mari e cieli di cristallo, che lei gli strappò la
promessa di coltivare i fiori anche dopo il matrimonio. “Coltivarli no – disse lui – li puoi
commerciare, se ti va”.
Commerciava viveri, bevande e clandestini, quindi pensò che con i fiori avrebbe aggiunto al suo
denaro un tocco di eleganza. Per conquistarla del tutto comprò la serra ai suoi suoceri lasciandoli
comunque a lavorare in qualità di dirigenti con un buono stipendio. L’idea sarebbe stata pessima se
non fosse stato per il fatto che noi cambiammo i nostri regali in materia di pensieri gentili. Prima
regalavamo a chi si prendeva cura dei nostri cuori cioccolatini e saponi di marca. Da quando lei
trasformò la birreria in locale floreale non credo sia rimasta coppia di innamorati che non ci sia
entrata dentro.
Edmond Kresta era più di prima un soggetto caro alla fortuna, se si esclude il fatto che a differenza
del bar e del negozio dei viveri, sua moglie appese all’entrata un cartello con scritto: “I fiori non
sono birra, e tantomeno fagioli, quindi non si fa credito”.
“Se questo si mette a far soldi anche coi fiori, dovranno analizzargli la merda quando la fa” disse
mia madre.
Dorata Bardhi andò il pomeriggio di una settimana più tardi con l’intenzione di comprarsi una
monstera gigante.
“E’ il fiore delle aquile” le disse la fioraia.
“Allora non va bene! – disse Dorata – Lo voglio regalare al mio ragazzo, ma lui è tutto tranne che
rapace”.
“Lo conosco – disse Elvira – gli regali una clivia. Danno vita a chi è carente”.
Benché abitassero nella stessa palazzina e avessero gli stessi orari di uscita al mattino e di entrata a
mezzogiorno, non si erano mai incrociati, perché lui ormai conosceva il rumore dei passi di lei,
quindi aspettava che arrivasse al negozio prima di uscire per prendere il bus e andare al giornale.
Doveva comunque passarle davanti quando lei arredava la veranda del negozio, e lo faceva
sforzando il collo per non guardarla.
Quello che Erion non s’immaginava, era che lei sapeva tutto di lui per bocca del marito. Edmond le
aveva fatto un resoconto dettagliato degli abitanti della palazzina. “Le disgrazie lo hanno reso idiota
– le aveva detto – ogni tre giorni va a annaffiare le rose nei giardini pubblici”.
Che poi era anche sbagliato, in quanto Erion irrigava tutti i fiori dal giorno del suo arrivo. Non
sapeva nemmeno che Elvira fosse una lettrice incallita dei giornali, e che quello dell’opposizione
cominciava a leggerlo al contrario, dalla pagina dello spettacolo.
In quei giorni si era deciso che ogni città dovesse collocare in entrata lo stemma rurale con cui
rappresentare in maniera simbolica la propria storia. Ci fu un concorso di pittori vecchi e giovani, in
cui alla fine la spuntò Sandri Lumes, rampante artista in odor di successo. Suo padre era capo del
partito ecologico, nonché presidente della giuria del concorso. All’entrata del paese misero il suo
quadro a olio, dove due colombe guerreggiavano per un garofano. “Tra padre e figlio è
un’associazione a delinquere – scrisse Monaj – è fuori di dubbio che si allude alla guerra dei monti
mummie, e pur cercando di sostituire i monti con le colombe, e la collina con il garofano, sempre di
incesto si tratta. Se ci metteva anche delle lacrime che rappresentavano il fiume almeno ci avrebbe
risparmiato carta e inchiostro. Lasciamo fuori fiori e colombe dal nostro maledetto passato.
Indegno!” aveva concluso.
Per sua fortuna la pagina degli spettacoli interessava a pochi, quindi lo stemma rurale del nostro
paese è ancora lì, con le tela sbiadite dalle intemperie. E le colombe hanno solo le ali, così come del
garofano c’è rimasto solo il picciolo.
Dorata gli portò la clivia non riferendogli la profezia della fioraia. Lui la mise vicino alla finestra
per la luce, ma la sua casa non superava mai i quindici gradi di temperatura, perfino a luglio pieno.
Si era a ottobre e la clivia morì di freddo. Si sentì un assassino e la buttò con tutto il vaso nelle
mondezze, che da noi sono rigorosamente all’aperto.
Il giorno dopo la fioraia bussò alla sua porta. Era mezzogiorno e lei l’aveva visto ritornare per la
pausa pranzo. Lui mangiava sempre in casa dei Seha, dove versava un quinto del suo stipendio.
Vide i suoi capelli e poco dopo il suo viso. Gli mancò il respiro e a lei non sfuggì.
“Sono venuta a dirvi che la clivia ha bisogna come minimo di diciotto-venti gradi di temperatura
per non morire. E abbiate il buon senso di domandarmelo la prossima volta, se intenderete comprare
ancora fiori. Non voglio passare per una che non si fa i fatti suoi, ma un fiore morto mi muore nel
cuore, e quella lì mi è morta due volte. L’avevo piantata io”.
Salì le scale e una volta in cima girò la testa dispiaciuta d’aver parlato di morte a chi di morte
abbondava, ma lui era già dentro, a stringere il cuore dall’esterno per non farlo balzare fuori. Per
tutta la sera lei si sentì in colpa, ma mai quanto lui.
L’indomani Erion lasciò il collo in pace e andò dritto a chiederle scusa della clivia. “Sono io che vi
devo delle scuse – gli disse lei massacrandogli i occhi – so quello che v’è successo, perciò,
credetemi, mi dispiace di cuore”.
Mise la mano dove dovrebbe essere il cuore, che fatalmente era sotto il suo seno sinistro. Lo sfiorò
con un tocco così puro e innocente, che rovesciò lui dal ponte del precipizio.
Aveva avuto il coraggio di guardarla negli occhi, sentendo l’epilessia sciupargli la voce: “Mi dia
due rose” le chiese con il timbro scosso.
“Ve le regalo – disse lei – sono le regine della flora, e anche se ormai sono famigerate e un
po’depresse, fanno sempre in tempo a arredare sogni”.
Gliene regalò una bianca e una rosa, ma erano da taglio, non da decorazione. “Amore e sincerità”
gli disse con il suo sorriso ciclonico. Lui la salutò con la testa, perché la voce non la trovava più.
Semmai non l’aveva capito prima lo capì quel giorno. Senza lei non c’erano rose e vita che
tenessero. Vedeva lei in ogni cosa che avesse un po’ di luce. Andò a sfogarsi sulle rive del fiume,
ma non ci riuscì. Trovò la sua immagine a sfiorare il seno, nello strato di pietre pesanti coperto da
acque pulite.
“Cazzo! – disse a voce alta – Come farò a uscire da questa maledizione”. La sera stessa svuotò il
cuore a Dorata, e la dignità con cui lei affrontò l’abbandono, e glielo riempì d’escrementi e sudore.
“Cerca di capirmi – le disse a occhi sciolti per via del pianto sporco – non credevo che potesse
succedere una cosa così”.
“Ti capisco o no, importa poco – disse lei – tu non sei di questo mondo, e vorrei tanto anch’io non
esserlo”.
Respirò le rose che lui aveva messo in un calice con acqua e aspirina e gli ricordò che per le donne
non c’è tempo di prova e attesa. Se vogliono qualcosa la ottengono. “E lei, benché la idealizziate
tutti, non sarà diversa da noi altre” concluse uscendo.
L’indomani si registrò alla facoltà di storia per corrispondenza, dopo aver detto ai suoi che il
fidanzamento si poteva considerare fallito in quanto Erion soffriva di un male incurabile: l’amore
proibito. Lasciò la città trasferendosi da sua zia, a pochi chilometri da Tirana, dove veniva a
trovarmi ogni sabato per sapere se c’era qualcosa di nuovo. Sapevo quanto lei, e tutto l’abbiamo
saputo entrambi al ritorno per le feste di dicembre.
VII
Erion non conosceva la seduzione, perché non sperava di sedurre. A lui importava più di essere
compreso che di essere ricambiato. Ogni mattina andava da lei a comprare un fiore, che poi andava
a ritirare quando tornava per la pausa pranzo, parlando con lei, ed era chiaro che anche a lei piaceva
parlare con lui. A volte Elvira cercava di allungare la conversazione con scuse e temi futili,
trascurando gli altri clienti e facendo crescere l’angoscia dentro di lui. Non avrebbe mai sperato di
trovare un centimetro libero nel suo cuore, quindi la considerava venditrice ad arte. Ma i soldi li
spendeva volentieri. Alla fine d’ottobre la sua casa era diventata una serra con due stanze temperate
diversamente da un termostato automatico che gli era costato la metà dei risparmi. C’era di tutto lì
dentro, e c’era anche la monstera che aveva tentato di comprare Dorata. Con essa si trovavano nella
stanza meno calda il ciclamino e la begonia, l’altea purpurea e la gloriosa, lo spatillio e l’allamanda,
che sapeva di vaniglia più della vaniglia stessa. Nella stanza estiva c’erano tutti i tipi di rose
compresa la rosa canina, che faceva da talismano per quanto era triste, poi un’altra clivia, il
gelsomino, la calliandra, il giglio, un tulipano color sangue, la camelia, l’orchidea e il fiore della
passione, senza altro sostegno che non fosse l’anima del nuovo padrone.
“Lo dobbiamo portare da uno psicologo” disse un giorno la moglie a Bujar Seha.
“E di che lo dobbiamo curare?! – le domandò lui – Dal male dei fiori solo i fiori lo possono
guarire”.
Elvira Kresta sapeva del male che aveva inflitto a Erion senza che lui glielo dicesse, e che non gli
era indifferente. Aveva capito il tremore della voce e delle mani quando le dava i soldi. Ma di più
l’aveva capito dagli occhi di lui che avevano il buon senso di non affrontare i suoi. Va detto che le
capitava anche con altri di non essere guardata negli occhi, ma quella di lui la sentiva timidezza
diversa: sforzo di non rincarare la dose da solo.
Viveva nel lusso ed era sposa di un uomo che adorava. Aveva la coscienza al posto giusto e amava
il proprio cuore, rispettando la propria mente. Sapeva che la passione l’avrebbe travolta e non
intendeva correre il rischio.
Il primo di novembre lui andò a ordinare una fucsia.
“Basta Erion! – gli disse lei – Oggi è il giorno dei crisantemi, so quello che passa per il tuo cuore.
Non ti venderò mai più niente”.
Lui era devastato da un po’, ma conservava ancora intatto il coraggio di dire l’ultima parola: “In
Giappone i crisantemi li regalano alle spose – disse dunque – e credo che novembre sia novembre
anche per loro. Comunque io volevo una fucsia. Un crisantemo in più o in meno non fa differenza”.
Alzò gli occhi e vide i suoi. Elvira Kresta sentì il mondo girare al contrario.
“Ciò che passa per il mio cuore mi auguro che non passi mai per il tuo” concluse lui, e uscì a passo
di corsa, ma non per prendere il bus.
Ritornò in casa e annaffiò la rosa canina con lacrime lunghe. Non andò più per dieci giorni a
comprare fiori, e nemmeno a lavorare. C’era l’influenza spagnola in paese, con febbri e crisi di
vomito da delirio. In quei dieci giorni delirò solo per lei e vomitò fiori che non aveva ancora
comprato. Anche Elvira Kresta soffrì le febbri, ma le sue non erano spagnole. Controllò tutti i libri
possibili in cui si parlava di fiori, cercando di verificare il legame tra il Giappone, i crisantemi e le
spose. Alla fine non trovò niente, ma si convinse che lui aveva ragione. Il fiore dei defunti doveva
esserlo anche dell’amore da qualche parte del mondo. Passò il resto di quei giorni leggendo anche i
suoi articoli che in tempi insospettabili non aveva letto.
I giornali le diedero il colpo di grazia. Erion Monaj neppure in dieci parole poteva fare a meno di
usare il nome di qualche fiore. Esagerava con le rose, e adorava il resto.
Il rock è come gli oleandri, aveva scritto, attira e avvelena. E’ una malva, invece, della commedia
che da noi il corpo teatrale di Tirana mise in scena per cinque giorni mattino e sera, stupida ma
salutare.
Il quattordici di marzo, festa dei fiori, chiudeva il suo articolo sull’impronta che la flora può lasciare
nella vita degli uomini con versi in spagnolo: Querer las flores, se encuentra la vida, querer la vida,
se encuentra l’amor. E tra parentesi, aggiungeva: ‘Lo diceva mia madre, e non era una poetessa’.
Elvira Kresta si trovò come lui sul ponte del precipizio con sette anni in più, e il fatto di non vederlo
per dieci giorni la scaraventò senza che lei si sforzasse di opporvisi dalla parte dello stesso brivido.
Maggio eterno, toccato di crisantemi. L’undicesimo giorno Erion riprese a sforzare il collo. Lei lo
chiamò per nome incurante delle orecchie del quartiere. Suo marito era andato in Svizzera a
contattare un avvocato per suo fratello, che era aitante e simpatico come lui, ma non caro alla
fortuna.
“E’ da quando non ti vedo che passa anche per il mio cuore quel che passa nel tuo! – gli disse –
Comunque non ti venderò più niente perché voglio regalarti tutto. Anche me stessa, se vuoi, costi
quel che costi. Voglio fare i sogni che fai tu”.
Era il dodici di novembre, e se lo ricorda tutta la città, perché il fiume impazzì, ma non uscì dal suo
letto. Si gonfiò e urlò, mandò fulmini e tuoni al cielo, quando di solito succedeva il contrario.
Piovve pure al contrario, con corde d’acqua che andavano a caccia di stelle assenti. Loro due non
sentirono niente. Fulminavano e tuonavano nella serra semibuia per conto proprio, e c’erano tutti i
fiori del mondo a parare l’insolita tempesta. Lei aveva detto a sua suocera che sarebbe andata a
curarsi la serra perché i suoi erano a un matrimonio, che da noi inizia il mercoledì e finisce la
domenica. Sua suocera le disse che i fiori sanno sopravvivere per cinque giorni.
“I miei hanno bisogno di vita adesso” le aveva replicato decisa Elvira. Erion dal canto suo doveva
partire per Tirana a seguire il concerto di un dj ungherese che era famoso solo da noi. Mi pregò per
telefono almeno di scrivere il numero delle canzoni e i loro titoli compresa la durata del concerto.
Aveva la voce afona e io diedi la colpa alla linea difettosa.
Arrivò nella serra dopo di lei e la trovò senza trucco, con addosso una sciarpa color noce a coprirle
la maglia a collo alto. Le si avvicinò con il tremore di sempre e con le febbri spagnole di ritorno.
“Ti posso dare un bacio” le disse.
“Siamo qui anche per quello” rispose lei. La baciò senza respiro dove il collo della maglia lasciava
un po’di spazio, spostandole i capelli con le labbra. Poi, per credere di non sognare, la baciò ancora
all’angolo della bocca. Lei gli buttò le braccia al collo e ricambiò i baci con più ardore.
“Sei una rosa” le disse lui.
“Famigerato e depresso – sospirò lei – sono una brunnera felisia”.
Non ebbe il tempo di domandarle che cos’era perché il tempo sparì, lasciando il posto all’amore
floreale, con tremori e odori, sospiri e corpi contorti, dove le labbra erano sanguinarie e le lingue
viole del pensiero, le braccia foglie di monstera e i petti giunchigli e narcisi, le gambe rampicanti
della passione e i sessi piante carnivore, mentre i liquidi da loro esplosi guarirono la flora da
fumaggine, funghi velenosi e muffa grigia.
Così fino al sabato. Lei cucinò per lui, e si staccò da lui solo il giovedì mattina presto, per dire ai
due operai di andare a casa e di non preoccuparsi perché sarebbero ugualmente stati pagati.
Fra un amore e l’altro parlarono di fiori e gustarono i fiori. “Sei un tulipano” gli disse lei, e gli
raccontò nuda con la testa appoggiata sul suo petto, la storia incredibile di senter augustus, il
tulipano scarnato il cui bulbo infettato da pidocchi comuni era stato quotato in borsa nella
Amsterdam del diciassettesimo secolo.
“Era segno di distinzione – disse – e un bulbo solo valeva una casa. Oggi lo chiamano il tulipano
alterato ma non è la stessa cosa. Vedi, mio carissimo giornalista, i fiori sono arrivati subito dopo i
dinosauri, e non credo ci sia vita migliore della loro, se con migliore si intende la felicità ingenua.
Pensandoci bene vengono impollinati da vespe e calabroni, e i più odorosi e fragorosi perfino da
serpenti e altre creature poco ortodosse. Quindi, per una associazione assurda di idee, la loro
bellezza e felicità trascende e dipende da paradossi naturali”.
“Deve essere così anche per te – continuò – sei affetto da un male comune, che ti distingue e fa
innamorare. Hai e dai più vita degli altri, perché è la vita altrui che manca a te. Sei un tulipano”.
Sorrise e si alzò in piedi nuda per andare a tagliarne uno. Lui la vide ancheggiare come un miraggio
senza origine e senza futuro, e fu il momento preciso in cui sentenziò a se stesso che si poteva
amare una volta sola come amava lei. Fu anche il momento in cui credette, con tutta la forza e il
furore del cuore, che i secoli fanno mondo e i giorni fanno vita, ma non valgono un solo istante di
dolce follia. Lei ritornò con il tulipano scarnato con i cui petali gli decorò le labbra e i capelli, e si
stese sopra di lui raccogliendo con labbra calde la sua opera.
“Ti amo – gli sussurrò – ti amo per cuore, per quello che ti manca e quello che avrai”.
Negli altri momenti di pausa fu meno poetica e gli spiegò l’ecosistema e i modi della
moltiplicazione dei fiori, moltiplicando se stessa nelle arterie di lui. Per tre giorni e tre notti la terra
girò intorno a una serra, si ricordò che l’avevano creata anche per noialtri il quarto.
Il sabato mattina, quando presero il bus a orari diversi per ritornare in città, Monaj andò dal
direttore del giornale che l’aveva dato per disperso. “Figliolo – gli disse – a me non interessa la
causa del tuo ritardo. Ma questo è un mestiere maledetto, che fa del tempo la condizione base.
Perciò sei licenziato”.
“Le chiedo scusa – gli rispose Erion – ma ho vissuto tre giorni per vent’anni e non c’è
licenziamento che tenga”.
“Cos’hai fatto?” gli domandò il direttore.
“Ho arredato i miei sogni” rispose lui, scoppiando in una risata che lasciò senza fiato il suo
superiore.
“Allora arreda anche il tuo dovere – disse il direttore – non me la sento di licenziarti con la faccia
felice”.
Quando ritornò a casa per la pausa pranzo, lei lo salutò con la mano facendogli segno di mangiare a
casa propria, non in quella di Seha. Alla fine pranzò con le grazie di lei. E lo fece fino a giugno
dell’anno dopo tutti i giorni che fu possibile.
“Tu non meriti questo – diceva lui – non meriti un amore clandestino”.
“Zitto! – faceva lei – Ci sono i fiori anche qui, e non c’è legalità migliore”.
Gli avrebbe dato la stessa spiegazione a marzo del novantaquattro, quando lui la pregò di scappare
via insieme in qualche parte nel mondo per trovare giorni e serre libere.
“Sarebbe ammissione di colpa” rispose lei.
“Ci siamo estromessi da questo paese volontariamente – continuò – tutto è convincere la nostra
mente, come abbiamo fatto coi nostri corpi, che una punizione umana possa essere una promozione
floreale”.
L’unica misura di precauzione dagli occhi del quartiere, era girare i suoi e vedere la scala vuota.
Dopodiché entrava e scombussolava quaranta metri quadri con il suo amore da brunnera felisia. Poi
usciva lui per primo, e rientrava di nuovo dopo che lei se n’era andata. Per riodorare il posto ultimo
che caldeggiava ancora di lei, e che di solito era la poltrona a due piazze davanti alla televisione in
bianco e nero.
Ripeteva lo stesso gesto anche coi fiori, scoprendoli ogni giorno di diversa fragranza.
In casa Seha sapevano tutto. Bujar Seha invitò Erion e il figlio per un caffè una domenica di metà
dicembre. Klodian quand’era di turno di pomeriggio faceva la guardia all’entrata della palazzina
fumando e fischiettando motivi popolari.
Il giorno prima la suocera di Elvira, che abitava a trecento metri da loro, gli aveva domandato:
“Cos’è figliolo, meditiamo sempre tra mezzogiorno e l’una?”
“E’ una buona ora, non crede” rispose lui.
Per fortuna la palazzina aveva due entrate, quindi Elvira aveva sempre l’alibi giusto nel caso la
suocera si fosse indispettita non incrociandola le poche volte in cui andava a trovarla a quell’ora.
Lei seppe ciò che era successo quando Erion lottava per la vita e la nuora sparì nel nulla.
“Tu appartieni a una razza maledetta” gli disse Bujar Seha, e gli raccontò la storia di Lani Monaj,
convenendo che lo zio aveva almeno la ragione della carne.
“Miranda era orrenda – disse – ma quella figliola che ora studia storia senza amore no!”.
“Che ti succede?” gli domandò.
“Devi chiedere qui, zio” rispose Erion puntando il cuore con l’indice della mano destra.
“Bastardo! – gridò Bujar Seha. – E’ l’unico posto che non sa rispondere”.
Pagò i caffè, poi disse: “ Se ancora conosco questa città, tu da qui andrai via. E ti lascerà solo due
modi per farlo. Da maledetto o da morto, che poi dovrebbe essere la stessa cosa. Perciò vivi finché
puoi la carne con cui Dio ti ha coperto le ossa. In fondo la tua razza non sa fare di meglio. Trovate
sempre le donne sbagliate, poiché quelle giuste non vi danno vita”.
Edmond Kresta ritornò come noi per le feste natalizie. Ritornò come sempre simpatico e allegro, da
uomo realizzato. Sua moglie si felicitò per il suo ritorno. Ormai sapeva distinguere l’anima dal
corpo, e se il secondo lo divideva in due, tra mezzogiorno clandestino e notte legale, la prima la
faceva evadere solo nei quaranta metri quadri del secondo piano dove nel frattempo la flora si era
incrementata. C’erano lo stramonio e la valeriana, la veronica e l’anturio, il vischio e la maranta, lo
zafferano, l’oleandro e il coriandolo. Questi ultimi a scopo terapeutico, per il malore che lasciava
nei vetri il loro amore fugace e tempestivo.
“Perché il tempo dovrebbe mancarmi proprio con te?” si macerava lui.
“Non ci manca il tempo amore mio – rispondeva lei – siamo fiori, e un nostro minuto vale mezza
vita di là fuori”.
Un mezzogiorno di gennaio, mentre si vestiva, gli disse che in Thailandia facevano il concorso della
miss orchidea.
“Come fai a saperlo” le domandò lui.
“Me l’ha detto lei” rispose Elvira indicando con gli occhi l’orchidea nel vaso.
Lui sentì che voleva aprirsi il corpo e portarsela dentro una volta di più. Poi le domandò se sarebbe
mai stato possibile fare da noi un concorso di fiori e eleggere il migliore. “Sarebbe più facile il
ritorno dei dinosauri! – rispose lei – E comunque vincerebbero i garofani”.
“Le rose sono fragili e incoerenti – continuò – mentre i garofani sono tosti e sinceri. Per di più
questa città vive di tradizioni, quindi farebbero concorrere solo loro”.
Nei giorni dopo la disgrazia, ho avuto sempre la sensazione, che il ricordo fisico di lei gli dolesse e
cocesse dentro alla pari delle sue frasi.
Si amarono così fino a giugno, e ogni giorno che fu possibile fu come il dodici di novembre. Lui
tremava e lei spaziava tra i suoi tremori.
“Prima o poi finirà – gli aveva detto a maggio – ma io confesserò ai fiori d’essere la più felice tra
loro. Per quanto riguarda te, amore mio, quando avrai di nuovo voglia di rose, le vie per cui
camminerai saranno altre. Tu piantale comunque con gli occhi, perché ovunque io sia, correrò a
curartele”.
Prima che felice fu pazza, e prima dei fiori lo confessò a suo marito. Benché fosse stata sempre
attenta nell’entrare e nell’uscire dall’appartamento serra al secondo piano, la loro relazione era di
dominio pubblico, ma lei incuteva timore per bellezza con i suoi occhi che si vedono una volta sola,
mentre Erion faceva simpatia per l’amore di lei. Non credo quindi che Edmond Kresta l’abbia
saputo da un’altra bocca che non fosse quella di sua moglie. Le aveva chiesto un figlio il
ventiquattro di giugno. Dal suo ritorno in dicembre aveva passato l’inverno in città, poiché il mare
era rabbioso, a Valona, e non permetteva di oltrepassarlo. Da uomo realizzato passava le giornate al
biliardo e al bar, e la sera cenava volentieri fuori con gli amici.
“Non fu per la mia assenza – mi avrebbe detto anni più tardi – si sarebbe buttata comunque tra le
braccia di lui, perfino con me attaccato nelle mutande”.
Fatto sta che tra aprile e giugno le sue giornate le trascorreva più a Valona che da noi. Quella notte
le chiese la stessa cosa che le chiedeva da un mese, e lei gli rispose alla stessa maniera. “Un figlio lo
faremo quando t’intenderai di fiori”.
A differenza delle altre volte, quando l’aveva buttato sull’orgoglio maschile dicendole che per la
vita e gli affari che conduceva la flora gli era estranea e poco carina, triplicò l’orgoglio e le disse
con rabbia: “Allora fai prima a farlo con l’imbecille del secondo piano”.
Nella mente di Elvira Kresta passò l’infausto baleno del dubbio che il marito sapesse e che se ne
fregasse. Crollò e gli raccontò tutto fermandosi nei dettagli per fargli male. “Ora mi puoi anche
uccidere se ti va – gli disse anche – non sentirò dolori, se non quello di non poter rifare tutto quello
che ho fatto”.
Aveva sbagliato i conti. Dava per certo che Edmond, come si soleva fare sempre da noi in casi del
genere, avrebbe riversato su di lei la sua collera per l’onore dissacrato, lasciando Erion a vivere. In
fondo era così che la tradizione ordinava. Ma anche la tradizione si sbagliava. Edmond era diverso a
modo suo. Legò sua moglie nuda a letto, otturandole la bocca con le sue mutande, e uscì armato di
un coltello da pane e un martello da carpentiere. Suonò al campanello della porta di Erion e fu per
quello che riuscì nel suo intento. Avesse bussato, Bujar Seha e il figlio che dormivano di fronte si
sarebbero svegliati prima della vittima. Monaj aprì la porta credendo che fosse Klodian.
Dormiva, e ritornò a dormire per venti giorni con un buco in testa e il rene destro macellato per
quindici centimetri di lunghezza e sette di profondità. Edmond Kresta sentì scricchiolare le sue
costole e fu tutto talmente cosi veloce che i Seha padre e figlio lo videro in cima alle scale intento a
salirle.
“Cos’hai fatto bastardo” gridò Klodian e fece per raggiungerlo. Suo padre lo fermò.
“Ho riscattato la fica di mia moglie” rispose lui tranquillo e riposato.
“Se quello che dici è vero, dovresti prendertela con tua moglie” disse Bujar Seha.
“Non alzo le mani sulle donne, io” concluse Edmond, e salì le scale. Da piccolo ricordava con
orrore le percosse subite da sua madre per mano del marito, quindi era sincerità la sua.
La palazzina si svegliò, e il clamore fu tale che si spense a mattino pieno, mentre Erion veniva
operato d’urgenza e la fioraia non c’era più. Una volta in casa Edmond Kresta l’aveva slegata e le
aveva detto di prendere tutto il denaro necessario, nel caso intendesse continuare a vivere.
“Del tuo amore non credo che tu e i tuoi fiori possiate fare granché – le disse – è lì sotto che gronda
sangue”.
Lei non parlò e non prese niente. Si vestì senza lavarsi e scese le scale. Il pianerottolo del secondo
piano era gremito di gente. Dentro Bujar Seha e sua moglie tentavano di arginare le ferite con
tabacco e lenzuola bagnate in acquavite. Bussò alla porta e loro la fecero entrare. Vide il sangue che
dalla soglia della porta d’ingresso arrivava sotto la monstera dove l’avevano sdraiato. Un fascio di
lenzuola e foglie di tabacco. Pianse e parlò in fiammingo, e gli baciò gli occhi chiusi. Poi uscì e la
gente sul pianerottolo trattenne il fiato. Lei non abbassò gli occhi. Camminò dritto senza vergogna e
senza paura, con viso, spalle, e anima scossi.
Sulla strada principale accelerò il passo e raggiunse l’ultimo autobus valido che l’avrebbe portata
dove non si è mai saputo. I passanti che si trovavano per strada, a causa del mondiale di calcio
seguito nei bar, dicono che sentirono il vento fluviale di mezzanotte scuotere con rabbia inaudita i
limoni e gli aranci amari.
Nel novantotto, quando il denaro era l’unica cosa che non ci mancava, pagammo all’insaputa di
Erion un’agenzia investigativa. Un anno prima, durante l’insurrezione per il fallimento delle
finanziarie piramidali, solo da noi morirono più di quattrocento persone. La maggior parte di loro fu
seppellita dagli stessi assassini senza croci e senza nomi, ed era il loro recupero l’attività principale
di questa agenzia. Che per due anni seguì il corso del fiume fino al mare, aprì tombe a casaccio e
interpellò varie agenzie di viaggio: le tracce di Elvira Kresta morivano alle due di notte a
centocinquanta chilometri da noi, verso nord.
Da là in poi, nessuno aveva visto occhi assassini e sentito venti scombussolati. In onor di verità
fummo quasi felici di non trovarla. La immaginavamo brutta e marcia per via del peggior tumore
che può affliggere una vita come la sua: risvegliarsi bruscamente, prima di dormire, a mezzanotte, e
vedere il sogno e l’amore sanguinare sotto il fiore delle aquile.
I suoi abbandonarono la serra e ritornarono a finire i loro giorni in Olanda. La serra fu venduta dalla
madre di Edmond Kresta con la benedizione del figlio che scontava la sua pena a Tirana. La comprò
Niko Laruni, coltivatore incallito e fortunato di carote e spinaci.
La mattina del venticinque giugno Edmond Kresta si presentò da solo al commissariato della polizia
ammettendo crimine e motivazione. La gente lo fermava per strada e piangeva per lui. Era il
benefattore del quartiere. La polizia chiese a Bujar Seha in quanto padre adottivo della vittima, la
formale denuncia dell’accaduto.
“Non è accaduto niente – disse lui – se deve essere della morte che lo sia!”.
C’erano poche speranze, infatti, per una sorte diversa. Erion aveva la fronte bucata a sinistra, il rene
destro fuori uso e l’uretere diviso in due. Di sangue gliene era rimasto poco, e la sua faccia era un
misto di paglia e viola. Tutto sommato si poteva ritenere una volta tanto fortunato. Se Edmond
Kresta invece del rene destro gli avesse macellato il sinistro, avrebbe iniziato a mangiare lumache e
asparagi crudi già da quel giugno, per il fatto che il destro, a detta dei medici non gli funzionava da
bambino. Non aveva mai lamentato dolori e non si era mai sottoposto ad alcun esame radiografico.
“Fino a quando l’ecografia non diventerà cultura sanitaria, estrarremo organi a volontà” disse uno
dei medici.
La voragine in testa, a parte il trauma cranico seguito da commozione cerebrale, più per la caduta
che per la violenza del colpo, non causò altre complicazioni. Alla vista del martello i suoi istinti pur
sonnolenti avevano reagito. Tirando la testa all’indietro e alzandola, aveva subito il taglio
dell’arteria temporale e lo sfascio dell’osso e del muscolo frontale nella sua parte superiore. Il lobo
frontale del cervello, benché per millimetri, si era salvato.
L’arteria gli fu cucita, il muscolo ristrutturato la mattina del ventisette giugno, con pieno entusiasmo
dei medici: “Il buco si riempirà da sé” dicevano.
L’apparato urinario, invece, era quello che li scoraggiava. Il rene destro era un mucchio scomposto
di urine luride e pastose e di pezzetti di sangue coagulato. Aveva smesso di funzionare da non si sa
quando. Con tutta la sua orrenda dilatazione misurava una ventina di centimetri, quando le
dimensioni normali non dovrebbero superare i quattordici.
Oltre a dividergli in due l’uretere, Edmond Kresta gli aveva tagliato l’arteria renale e, salendo in su,
aveva macellato perfino la ghiandola surrenale, causandogli un’emorragia interna e riducendogli il
fianco destro a una cavità puzzolente.
Allargarono le costole fluttuanti, che aveva pensato Kresta a rendere elastiche, e tirarono fuori il
rene e la sua ghiandola, tagliando l’arteria vicino all’aorta principale.
L’uretere li fece sudare, ma alla fine riuscirono a tirarlo fuori. Lo legarono intorno al rene e
chiusero il tutto in un vaso pieno di formalina. Dopodiché aspirarono i liquidi e il sangue con un
tubo collegato a una micropompa e lo cucirono. Dal suo corpo si riempirono quattro buste da due
litri con liquidi putrefatti.
L’indomani gli fecero l’esame del sangue, e con loro meraviglia la creatinina era dentro parametri
insperati. Il rene sinistro funzionava a meraviglia e l’onda di nefandezze non l’aveva disturbato. A
parte il fianco vuoto a destra, con le costole stritolate, Erion Monaj era fuori pericolo e si poteva
svegliare.
Cosa che lui, però, non si decideva a fare. “Non è più coma, il suo – diceva il medico – sogna pulito
e dolce come prima, perciò non vuole svegliarsi. Resti tra noi, ma mi bucherei volentieri il culo se
solo potessi sognare anch’io la donna che sogna lui”.
Bujar Seha prese il vaso con il suo rene e lo portò alla madre di Edmond Kresta. “Mi sembra di
essere alla pari – le disse – ecco qui!”.
Alzò il vaso: “Suo figlio ha riscattato l’onore e il ragazzo ha riscattato la vita”.
La madre parlò con Edmond, quel giorno stesso per telefono, e dopo due giorni andò a fargli visita
con il rene conservato, sotto il braccio. Lui fu d’accordo. Quando uscì, a marzo del novantacinque,
era di nuovo un uomo realizzato e senza macchie sulla coscienza e sull’onore. A gennaio del
novantanove si sarebbe trasferito per sempre a Valona e avrebbe speso tutte le sue fortune aprendo
un ristorante di lusso dove comunque le aragoste si potevano gustare a buon prezzo.
Ci sono andato un paio di volte e ho visto il vaso nella credenza della sala bar tra bottiglie di cognac
e altri liquori.
VIII
Erion non si decideva a svegliarsi, ma reagiva da sveglio ai medicamenti delle ferite. Aprì gli occhi
il sedici di luglio e sentì il dolore del costato. Lo sopportò a denti stretti e decise di parlare tre giorni
dopo. C’ero solo io quel giorno. Klodian aveva ripreso a lavorare, mentre sua madre era andata da
poco a curarsi la casa.
“Lei dov’è?” mi domandò.
“Se n’è andata quella notte stessa – gli risposi – non l’ha toccata. Lo sanno tutti che è andata via
sana e salva”.
Chiuse gli occhi, poi li riaprì, ma non parlò più. Fino all’otto di agosto, quando salimmo su un
gommone per attraversare il mare.
Succede che quando non conosciamo la sorte di chi ci sta al cuore la nostra immaginazione tende a
scovare solo terrore. Lui non ha mai parlato di come la immaginava, ma io l’ho fatto per lui in
silenzio, e credo che non ci sia misura per il male che faceva. Senza di lei vegetava, non viveva più.
L’impossibilità di saperla almeno viva lo convertì in un eremita. Il destino in quei giorni, poi, come
se tutto non fosse abbastanza, lo massacrava anche per mezzo della musica. C’erano due canzoni
che spaccavano la nostra estate. Una era Seven seconds di Yossou il senegalese e Neneh Cerry,
l’altra era No ordinary love di Sade.
Quest’ultima non l’abbiamo maledetta mai abbastanza. I suoni e le parole sembravano fatti su
misura per finire quel che avanzava dell’anima di Erion, ammesso che avanzasse qualcosa.
Abbiamo sempre avuto il cattivo gusto di sentire la musica ad alto volume, e quei giorni li
passammo a pregare la gente di abbassarla almeno quando mandavano in onda lei. Non fu possibile.
I nostri coetanei che abitavano nelle vicinanze dell’ospedale facevano il contrario per disprezzo e
gelosia, e al tramonto, con il chiarore e il silenzio di quelle ore, l’unico modo per impedire ai suoni
di seppellire vivo Erion sarebbe stato buttare in aria il paese.
“Perché sta porca tunisina, o algerina che sia, non canta nella lingua madre?!” si rammaricava Seha.
“E che cambierebbe? – gli rispondevo – Sa anche l’arabo, lui, tanto almeno da tradurre il titolo”.
Alla fine dei nostri tormenti, non sapevamo se il suo restare in vita fosse necessariamente un bene
per lui, e per noi. Il ventisei di luglio pesava quarantasette chili e i medici decisero che era l’ora di
dimetterlo dall’ospedale. Da quando andavo a trovarlo tutti i giorni non dormivo più a casa. Mio
padre lo considerava un affronto alla morale il fatto che di giorno fossi con lui e di notte con i miei.
“Sei maggiorenne – mi aveva detto – e quindi responsabile di quello che fai. O con lui, o con me!”.
A fargli cambiare idea non valse nemmeno il libretto dei voti con tanti dieci e lode che avevo
portato dall’università. Mia madre è stata sempre libertina nel suo gergo, ma davanti allo sguardo
severo del marito scelse come modo di protesta per la decisione il pianto nascosto. Mio fratello di
dodici anni le faceva compagnia.
Mangiavo dai Seha e dormivo da mio zio in campagna, a tre chilometri dalla serra del dolore. Prima
che lo facessero uscire svuotammo la sua casa da tutti i fiori regalandoli a chi non soffriva di
superstizione. Ci sembrò di regalare un pezzo di cuore, ma non c’era altra scelta. Sopprimerli
sarebbe stato macabro, lasciarli in casa anche peggio.
Il ventisei di luglio transitammo in macchina dal primo ponte. Era giovedì. Lui aveva gli occhi
spenti e immobili. Sembrava appena uscito da un campo di sterminio. Il fiume era sereno e
splendido. Davanti all’hotel chiese di camminare a piedi.
“Voglio fare due passi, mi viene da vomitare” disse.
Si era all’inizio del nostro quartiere e nella peggiore ora possibile. Erano le sette di pomeriggio. La
gente si riversava sul grande boulevard per la solita passeggiata all’imbrunire con la quale credeva
di non essere debitrice al romanticismo. Noi camminavamo in senso contrario, e dal giorno dopo
non l’avremmo fatto più in tutti i sensi.
Non potevamo uscire più di casa. Gli adulti, uomini e donne, ci sputarono e ci bestemmiarono morti
e vivi. Bambini bianchi e mulatti si attaccarono ai nostri pantaloni con sputi, calci e parolacce:
bastardi e figli di puttana sapevano di complimenti, in quanto erano gli epiteti più benevoli.
Teoricamente lui ebbe il peggio. Gli fecero con parole e gesti un abbozzo di come sua madre se la
passava con gli zombi nell’Aldilà. Ma ormai era di ghiaccio, con lui erano fiato e saliva sprecati.
Avevamo l’anima in fiamme, ma la mente rimase fredda. La minima reazione e ci avrebbero
rispediti in ospedale. Alla fine arrivammo in casa Seha, da dove io uscii alle due di notte. A casa di
mio zio mi accompagnarono Gentian Xhoka e Alfred Kuta con la macchina di quest’ultimo. Erano
gli unici rimasti amici, benché potessero dimostrare la loro amicizia solo in strade e orari deserti.
Dorata Bardhi altrettanto. Si limitò a chiamarci a casa Seha per telefono, e tramite lei sapevo come
se la passavano i miei, pur trovandomi a soli ottanta metri da loro.
La mattina del ventisette luglio, venerdì, il balcone di Erion era zeppo di colombe decapitate. Il
balcone di Bujar Seha pure. I miei abitavano al quarto piano e ne trovarono solo cinque.
Il paese era cambiato. Non conosceva regole. Non accettava il rene di Erion come riscatto d’onore.
Pretendeva di essere lasciato in pace. Noi eravamo colpevoli quanto lui per avere preso le sue
difese. Dovevamo andarcene, e in fretta anche.
Dopo, molto dopo, avremmo capito il perché. Il paese si era innamorato di Elvira Kresta più di
quando lo fosse suo marito. Ognuno l’aveva sposata nel suo cuore, con un fiore la ricordavano in
ogni casa. La sua sparizione la consideravano un sacrificio, la nostra permanenza un sacrilegio.
Bujar Seha uscì e parlò con chi di dovere, dicendo che lui stesso si sarebbe impegnato a farci
lasciare il paese prima di settembre. Si prodigò a procurarci il denaro necessario. Klodian lo
anticipò chiamando Saimir Sokota in Puglia.
Il trentuno luglio il padre di Sokota diede a Bujar Seha la somma dovuta per la nostra partenza,
dicendo che chiamassimo Saimir un giorno prima di partire per dirgli il luogo dello sbarco.
Bujar Seha il primo di agosto andò a Valona e contattò un amico con cui aveva fatto il militare.
Faceva lo scafista e assicurò a Bujar che il denaro sarebbe stato riscosso quando noi lo avremmo
chiamato per confermargli l’arrivo in Italia sani e salvi.
Il sette agosto mio padre trovò il cuore ammorbidito e mi fece dormire a casa. Dormii in un letto
con mio fratello, che smise di piangere solo alle quattro del mattino, e lo fece perché iniziò a
piangere sua madre.
Alle cinque partimmo con Bujar Seha alla volta di Valona. Con i nostri ci stringemmo solo la mano.
Abbracciarci portava male. In casa Seha, Dorata Bardhi aveva lavato i pavimenti con il liquido dei
suoi occhi, costringendo Bujar a riportarla di forza dai suoi.
Erion non parlava, ma aveva rimesso addosso un paio di chili grazie alla cura a base di pane e
burro. Passammo la giornata a Valona recuperando la luce dei giorni perduti. Non era la stessa. Alle
undici di notte eravamo sulla spiaggia ad aspettare il gommone. Io e Klodian ebbri ma tristi, mentre
Erion più morto che triste. Sapemmo che saremmo sbarcati a San Cataldo, in provincia di Lecce. Lo
scafista ci fece il favore di chiamare Sokota. Oltre a noi c’era una famiglia intera con due figli
piccoli e due coppie senza figli. Poi altri ragazzi come noi e due donne che non passavano il mare
per la prima volta.
Alle due accesero i motori e prendemmo posto. Bujar Seha ci strinse la mano e non fece altro.
Prima che si girasse per andar via, parlò con la voce tremula come non l’avevamo mai sentito.
“Ricordatevi – disse – voi non volevate andare”.
Era vero. Non volevamo andare. A vent’anni avevamo dei sogni. Pochi, ma pur sempre sogni, e non
parlavano l’italiano. A trenta suonati grazie all’Italia avremmo avuto denaro a sufficienza, ma
riscattare i sogni non era più possibile.
Il viaggio fu breve, il mare amorevole. Era calmo e piatto perfino nel canale di Otranto, di cui si
diceva fosse una trappola di onde vertiginose. Le poche volte che alzai la testa per guardare il cielo
lo vidi più basso del solito. Era stellato, ma mi sembrò in collera. Quando cinque anni dopo avrei
riattraversato lo stesso mare e guardato lo stesso cielo, stavolta con il permesso di soggiorno in
tasca su una benedetta nave greca, avrei capito il perché. Il mare era calmo come allora, ma
l’immensità faceva paura. E’ da quel giorno che non credo che il coraggio sia esclusiva virtù dei
forti. In misura ridotta credo che debba essere anche dei disperati e degli idioti. Nelle prime ore del
nove agosto non l’avevo percepito, benché tante volte abbia toccato con la mano la striscia
schiumosa che il gommone lasciava.
L’Italia era più vicina di quando sperassimo: alle quattro toccammo terra. Eravamo bagnati e
puzzavamo di gasolio. Sbarcammo in una pinetina dove ci cambiammo, ma la puzza rimase.
All’alba venne la macchina che si portò via la coppia coi figli piccoli.
Il traffico dei clandestini era ben organizzato. Sapevamo già l’italiano e non ci fu difficile capire
grazie alle varie tabelle indicative di trovarci in prossimità di un’area militare. La guida comunque
non si perse d’animo. Accompagnava in due o tre i nostri compagni del viaggio per cento metri,
calpestando l’erba morta e sboccando in una strada stretta ma asfaltata dove veniva la macchina a
prenderli. Questa li portava alla stazione ferroviaria di Otranto, da dove partivano per le loro
destinazioni. Il biglietto del treno era incluso nel prezzo pattuito.
“Di solito le macchine sono tre o quattro – ci disse la guida – ma non sono riuscito a contattarli
tutti”. Guadagnava centocinquantamila lire per ogni clandestino che arrivava indisturbato alla
stazione di Otranto.
Una volta salito sul treno il clandestino, il suo lavoro era concluso. Quelli che venivano individuati
e rispediti in Albania entro quarantotto ore dallo sbarco usufruivano di un altro sbarco gratis,
pagando di tasca loro solo la guida e il biglietto del treno. Se la sfortuna li perseguitava anche la
seconda volta, non restava che affogare nelle lacrime l’impossibilità assoluta della terza.
In quei tempi i ritorni forzati dovevano essere pochi. Un po’ perché si era vicini a ferragosto, un po’
perché faceva un caldo capace di demotivare polizia e guardia di finanza. Ho sempre pensato che
l’estate di Lecce sia metallica. Bronzo di mattino, piombo a mezzogiorno, rame di pomeriggio. Alla
fine rimanemmo solo noi e la guida. Sicché questi salì con noi in macchina verso Otranto. Erano le
dieci di bronzo.
La prima strada di ogni paese straniero è sempre della memoria, ma quella che percorremmo noi fu
pure del pensiero. Camminavamo paralleli al mare, a non più di venti metri dall’inizio delle spiagge
che erano affollate. Cercai di trovare qualcosa di diverso nei costumi e nella gente che le occupava,
senza riuscirci. L’unica distinzione poteva essere l’abbronzatura e l’allegria. Passammo tutte le
stazioni balneari. Santa Foca, Rocca Vecchia, Torre dell’Orso. A Otranto mi portai impressa nella
mente, l’oscillazione impercettibile delle creme e di altri prodotti solari nell’aria.
La stazione era deserta. Sembrava che funzionasse solo per noi e per gli altri come noi. La guida
stette a farci compagnia finché non arrivò Saimir Sokota con una Fiat Ritmo. Questi si buttò su
Erion abbracciandolo e piangendo.
Solo allora mi resi conto che c’era anche lui, e forse piansi più per lui che per Sokota che non
vedevo da tre anni. Era magro e triste da far paura. Non aveva mai parlato per tutta la traversata e le
ore di bronzo.
Avevo sentito la sua voce l’ultima volta appena partiti, sul gommone: “Voi dovete andare solo via
da qui – aveva mormorato – io devo andare via anche da me stesso”.
Vestiva una maglia bianca e pantaloncini bianchi. Le gambe erano più sottili delle braccia, dalla
mandibola gli si potevano contare i denti. Gli occhi erano gelati, mentre il cerotto sulla fronte che
lui cercava di coprire con i riccioli, gli faceva da timbro per il dolore. In macchina parlò solo
Sokota, anzi, domandò solo Sokota. Io e Klodian rispondevamo alle sue domande, e non erano
poche. Domandava del fiume, delle colombe, delle strade, delle ragazze, degli insegnanti uno per
uno e della loro sorte.
Domandò anche se sui tetti delle palazzine avevano rinnovato lo strato di catrame, e se tramite le
antenne paraboliche si vedeva Tele Norba; e domandò perfino se erano arrivati da noi le bietole, i
sedani, i carciofi e i finocchi.
“No! – gli rispose seccato Seha – Ci sono solo i porri da noi”.
Sokota non si perse d’animo e ricominciò. Grazie a Dio arrivammo. Abitava a Calanto in Puglia,
una piccola cittadina tra Brindisi e Bari dove aveva imparato a usare tutte le macchine agricole
possibili, e si accingeva a imparare anche quelle ancora non progettate.
Cosimo Tagliente l’aveva prelevato dal campeggio di Torrecanne, appena arrivato nel pazzo marzo
del novantuno. Tagliente, un uomo di sessant’anni, tarchiato e muscoloso, parlava a stento l’italiano
perché da bambino non era andato a scuola e un po’come succede a tutti i pugliesi della sua età si
trovava a suo agio solo con il dialetto. Era un buon uomo, amava la sua terra e grazie a lei aveva
realizzato i sogni dei due figli. Il maggiore, Marco, sposato e padre di due dolcissime gemelline
bionde, fa l’avvocato penalista a Cesena. L’altra, Francesca, fa l’oculista a Bari. Non si è mai
sposata perché considera il matrimonio come un terno al lotto e non ha voglia di tentare la fortuna.
A parte le feste con i loro ponti, Cosimo Tagliente e sua moglie Patrizia, vivevano da soli, quindi
Saimir Sokota viveva con loro. Avendo notato in lui la voglia e la forza per il lavoro, alla
benevolenza aggiunsero l’ammirazione, tanto da considerarlo un figlio a tutti gli effetti. Tagliente
possedeva ampi terreni dove coltivava tutto. Quando Sokota gli aveva chiesto ospitalità per i suoi
tre amici d’infanzia aveva accettato di buon grado. In cuor suo avrà anche fatto i calcoli della
convenienza per le sue terre, ma prima che noi diventassimo dei buoni braccianti agricoli passò un
anno, e prima che diventassimo bravi ne passarono due. Bravissimi non lo diventammo mai. Fu
perché decidemmo d’emigrare verso altri nidi, guadagnando altri soldi.
Facemmo la doccia e pranzammo con loro. Finalmente l’odore di gasolio sparì, ma si portò via
anche l’appetito. Oggi siamo tutti divoratori di pasta con pomodoro fresco e basilico, ma allora non
era proprio proponibile. Eravamo abituati a mangiare la pasta solo al burro e ci saremmo sentiti
parecchio male quando avremmo saputo che in Italia lo consideravano il piatto dei cornuti.
Sokota asciugò il suo piatto e pensò anche ai nostri. Con la scusa della stanchezza, sollevammo
l’animo con fagioli in umido e pomodori crudi. Verso il pomeriggio ci accompagnarono in una
vecchia masseria dove avremmo vissuto per i prossimi quindici mesi da clandestini. Era situata in
mezzo ai terreni di Tagliente e nel patio vi si alzava serio un anziano ulivo. Gli intonaci interni ed
esterni facevano paura, l’aria che si respirava dentro marciva da molti anni. I pavimenti erano in
terracotta, mentre i soffitti in pietra bianca lucidata. Ci sistemammo al piano di sopra in due stanze
dove Tagliente aveva provveduto a mettere tre reti rigide con materassi e lenzuola pulite. L’altra
stanza, quella centrale, faceva da cucina e da salotto, era stata ammobiliata da poco, come da poco
erano state collegate la luce e l’acqua potabile. Il piano di sotto era una stanza sola immensa e
serviva da magazzino per l’arsenale agricolo. C’erano tubi di irrigazione avvolti in cerchi e stipati
uno sopra l’altro, insetticida e veleni vari, semi e piantine che non conoscevamo. Dai finestroni in
legno tarlato e coi vetri sopraffatti di ruggine si potevano vedere terreni rossi e sassosi divisi uno
dall’altro da muri secchi e bassi. L’armonia estensiva la spezzavano qua e là ulivi più giovani di
quello del patio, mandorli e fichi e arbusti di cipressi, che come le ortiche e i fichi d’India cercavano
di ringiovanire i muri divisori. Si era vicini al mare, ma non avevamo ancora fatto l’abitudine a
riconoscere la sua brezza pomeridiana.
“A parte il fatto che non potrete uscire come volete, qui non si sta male” disse Sokota. Dormimmo
fino a sera tardi e finalmente cenammo in santa pace senza l’imbarazzo di piatti e modi sconosciuti.
Seha fece delle uova al tegamino, mentre io preparai un’insalata di pomodori e cetrioli. Sokota
venne più tardi con un mazzo di carte e le sigarette con cui svegliammo l’alba.
“Oggi non si lavora – disse quando stava per tornare dai suoi genitori adottivi – è San Lorenzo e
andremo a vedere le stelle quando cascano”.
“Da domani tu e Seha – continuò – vi alzerete alle quattro del mattino. Alle cinque andremo a
raccogliere pomodori da salsa fino alle undici. Vi offre trentacinquemila lire al giorno, più vitto e
alloggio. Meglio di così si muore” concluse.
La sera del dieci agosto ci portò su una spiaggia gremita di gente e fuochi. Il cielo era lucido e le
stelle si specchiavano sul mare, senza comunque cadere.
“Cascheranno a mezzanotte” disse Sokota, ma noi non le aspettammo perché andammo via prima.
Seduti su un ripiano di sabbia sotto un pino, contemplavamo il mare lì dove si donava al cielo. Mi
sembrò di vederlo segnato ancora dal tramonto passato da molto, e mi spinsi oltre. Dall’altra parte
doveva esserci l’Albania, la vidi come una terra di felci azzurre.
Ci saranno sicuramente nostalgie migliori: la mia è sempre stata un concentrato di felci azzurre. Per
Klodian, come lui stesso mi confessò quella notte, era un vassoio strapieno di dolci da cerimonia. A
Sokota non lo chiesi per paura che scegliesse tra trattori e pomodori da salsa, mentre Erion
finalmente pianse. Successe che da un bar recintato di canne selvatiche mandarono in onda il
tormento musicale, che non era tormento solo da noi: Sade e la sua maledetta No ordinary love. La
gente sulla spiaggia la accolse con grida di gioia. Prima che arrivasse il ritornello lui era già sceso in
mare, dove nuotò a bracciate violente, sentendo sale e iodio sulle cicatrici del corpo e olio riscaldato
dentro l’anima.
“Era cosi bella?” domandò Sokota.
Annuimmo con la testa, e fu la penultima volta che parlammo di lei. Per l’ultima volta l’avremmo
fatto nel novantotto, quando ingaggiammo l’agenzia investigativa.
Erion tornò dopo mezz’ora. Tolse i vestiti bagnati e chiese di andare via perché ci si faceva del male
da soli restando lì, con i fragori succulenti della nostra terra a portata d’animo. Lo disse in italiano,
sperando che il male fosse minore, ma piangeva in albanese, con lacrime lunghe e rotonde. Lo vidi
spoglio sotto la luna. Era un disegno vivente di anatomia. Gli si potevano contare le vene,
figuriamoci le ossa. Il cerotto per la ferita frontale l’aveva perso in acqua e non l’avrebbe sostituito
più. Il buco si stava riempiendo di carne fresca ed era un perfetto zampino di colomba giovane
mendicante. Dei muscoli che fanno girare l’occhio, gli era rimasto solo il retto inferiore. Guardava
solo in basso. Sotto il lombo destro, dove le costole fluttuanti riprendevano piano a essere di nuovo
rigide e arcuate, mi parve di vedere un disco invadere la cavità lasciata vuota dal rene. Era inciso
con una musica che solo lui sa, e avrebbe suonato ogni volta che i cieli sarebbero stati tersi e
nuvolosi. Non gliel’ho mai domandato, ma credo che la nostalgia per lui fosse lombalgia acuta e
permanente. Andammo in casa, dove fece la doccia.
“Sto perdendo i capelli” mi disse, e mi fece vedere le tempie dove i riccioli erano radi e offuscati.
La mattina alle quattro si alzò con noi e non ci fu modo di persuaderlo: “Se resto in casa mi uccido”
disse, e non c’era motivo di non credergli.
Alla fine, benché pesasse quindici chili meno di noi, lavorava come noi, dovendo sopportare anche
il dolore delle costole fluttuanti. La nostra colonna vertebrale una settimana dopo malediceva il
corpo a cui apparteneva, mentre noi ci limitavamo a farlo con il destino.
IX
Mi trovavo scaraventato in un mondo che non era il mio e mi consolavo con l’unica consolazione
possibile: non ero più io a tracciare il mio destino. Chi per me l’aveva fatto si prendeva almeno la
cura di lasciarmi spazio e libertà per i rimpianti pomeridiani. Doveva essere così anche per gli altri,
Sokota escluso. Le piantagioni di pomodori erano a mezz’ora di macchina dalla masseria. Intorno
alle quattordici andavamo dritti a letto, a volte senza lavarci. Pranzavamo al risveglio, e cenavamo
tre ore più tardi, scegliendo come modo di protesta silenziosa l’embargo dei nostri palati nei
confronti dei pomodori.
La settimana seguente Sokota ci disse che la nostra paga giornaliera sarebbe scesa a trentamila lire.
“Non meritate di più – disse – e qui sono ricchi perché sono rigorosi”.
Ce la mettemmo tutta, ma non era cosa. Per fortuna a inizio settembre i pomodori erano finiti e le
piante furono sopraffatte e stritolate. La terra fu riarata da Tagliente e Sokota. Noi stendemmo i tubi
d’irrigazione. Le due settimane successivi ci diedero un gancio di legno a punta con cui piantammo
ciò che nei mesi invernali avremmo raccolto. Sedano, bietole e finocchi. Tagliente ci aumentò la
paga, ma non fu per nostra bravura. Si lavorava otto ore con un’ora di pausa a mezzogiorno. Dalla
masseria uscivamo solo il sabato, Sokota ci portava in paese per la solita passeggiata lungo il corso
Garibaldi. Salutava a destra e a sinistra, a volte ci presentava persone che avremmo salutato il
sabato successivo.
Ogni due settimane telefonavamo a casa, e io una volta chiesi a mia madre di portare vicino alla
cornetta la coppia di colombe da gara con cui mio fratello tentava di fare fortuna. Capii che non ci
sarebbe riuscito. Grugnivano di malavoglia. Uscivamo solo il sabato anche perché era l’unico
giorno che non rischiavamo d’essere presi e rispediti indietro. Di domenica le navi che facevano la
spola tra Brindisi e Valona riposavano, quindi sarebbe stato un disagio diplomatico tener chiusi i
clandestini nelle stazioni marittime nei giorni festivi aspettando il lunedì. La polizia di stato e la
guardia di finanza facevano quasi ogni mese retate di quelli come noi per la gioia delle compagnie
navigatrici e per il rammarico degli agricoltori. Infatti le prime, nei mesi di flussi inesistenti,
irrobustivano i loro esili bilanci con i biglietti che lo Stato italiano pagava per mandarci nella terra
di origine. Gli agricoltori, e con loro i contrabbandieri di sigarette, al contrario rimanevano dalla
sera al mattino senza mano d’opera che per giunta costava poco. Per questo la sanatoria di fine
novantacinque fu accolta con un sospiro di sollievo da tutte le parti, perfino da poliziotti e
finanzieri, per i quali non è mai stato gratificante scortare e rimandare alle navi facce disperate. A
dire il vero noi in tutto questo non ci trovavamo. Se dal nostro paese ci fosse arrivato il perdono
saremmo corsi indietro, ingrati a Tagliente e alle sue verdure. Eravamo diventati dei discreti
braccianti agricoli, e ci pagava regolarmente ogni settimana, ma continuavamo a non specchiarci
nelle piantagioni e nel mestiere che facevamo. A volte provavo a scrivere dei versi per ricordare a
me stesso i tempi felici dell’università. Li strappavo subito dopo. Li trovavo sciocchi e inopportuni.
Mi rifacevo con la lettura di libri che avevo letto già nella mia lingua, e di altri che poi cercavo di
tradurre dall’italiano in albanese in quaderni da scuola.
Tentavo solo di alimentare le mie passioni alimentando la maledizione. La nostra lingua la sento
preda del tormento, e benché la parli anche quando sto zitto, non riesco più a scriverla. Amo il mio
paese come amo poche cose in questo mondo, ma è più forte di me. In albanese mi sembra che le
lettere sanguinino appena toccano la carta. Sarà la vendetta dei sogni capovolti, oppure un modo
inconscio quanto vigliacco di illudere il passato. Sta di fato che è così.
Seha tentò di fare il pasticciere a domicilio. Si procurò teglie e tegami, e si comprò pure un forno a
microonde e libri da cucina. All’inizio mangiavamo volentieri quello che riusciva a cavare fuori.
Perfino Patrizia Tagliente lodò il suo talento. Lusingato, imbottì le torte e le ciambelle con così
tanta frutta e creme varie da convertirle in mastice zuccherato. “Mi devo arrendere – disse a quel
punto – l’originalità non è cosa mia”.
Erion Monaj dopo un anno in Puglia era bello e sano come in Albania, ma orfano dell’anima.
Portava i capelli cortissimi per ritardare il passo alla calvizie. Aveva raggiunto il peso normale e
sentiva musica dalla cavità lombare nelle notti di pioggia. Come me scriveva ma non strappava, e
tantomeno mi permetteva di leggere i suoi scritti. I suoi occhi avevano ripreso anche la padronanza
dei muscoli obliqui senza farne l’uso. Li girava quando sapeva di non incontrare niente.
Gli chiesi una volta se potevamo piantare dei fiori nel patio. “Se ci provi mi alzerò ad avvelenarli di
notte” mi rispose.
Parlava poco, come sempre, e diventò tifoso del Napoli. Seguiva Tutto il calcio minuto per minuto
alla radio e Novantesimo minuto alla televisione, e gioiva di rado.
“Con tutte le squadre che ci sono, sei andato proprio a scegliere quella là” gli disse Klodian.
“Da disgraziato non posso tifare altro – gli rispose – lascio il Milan e la Juve a voi”.
Saimir Sokota passava il più del tempo con noi, e a volte si addormentava perfino da noi, causando
il malumore dei coniugi Tagliente. Era l’unico che aveva una ragazza. Noi altri l’amore lo
facevamo sognando, non avendo la possibilità di uscire, trovare e frequentare donne.
Io e Seha, un sabato d’aprile, andammo a Bari e demmo sfogo ai nostri ormoni impazziti con due
negre dopo aver girato tutto il lungomare, scansando col male in cuore le belle commercianti di
sesso della nostra stessa nazionalità. Non siamo dei moralisti da quattro soldi; semplicemente il
sesso a pagamento con una ragazza delle nostre terre ci sembrava deplorevole. E meno male che la
pensavamo così, perché a prescindere dai nostri scrupoli loro avevano le loro regole con cui
disciplinavano il movimento. La prima, non darla a chi parla la tua stessa lingua. Rischi non solo di
non essere pagata, ma pure d’essere derubata. Precauzione, questa, riscontrabile solo fuori dai
confini nazionali.
Penso che sia probabile che un paese inizi con le puttane i suoi cambiamenti caratteriali, poiché in
Albania le stesse la davano gratis oppure a credito. C’è da capirle: da noi lo facevano per hobby, in
Italia per scelta di vita. Con quelle color notte, invece, fu necessaria la doppia seduta, perché la
prima andò a vuoto per precocità.
Al ritorno ci sentivamo vuoti, sporchi e ripudiati. I vestiti che indossavamo li bruciammo nel patio,
ma l’orribile sensazione rimase per parecchio nei rami del vecchio ulivo. Più che essere andati con
prostitute, ci sembrò di esserci prostituiti noi. L’insano gesto non l’avremmo più ripetuto, ma
entrambi ora concordiamo sul fatto che la calvizie a cui siamo destinati si basi anche e soprattutto
su venti mesi di castità forzata. Seha è più deleterio, dice venti mesi di repressione ormonale.
Alla fine del novantacinque, comunque, quando decretarono la sanatoria, avevamo restituiti i soldi
del viaggio a Sokota e mandato il resto alle nostre famiglie. Non erano molti, ma equivalevano a
cinque anni di risparmi dei nostri fortuna permettendo. Uno dei requisiti base per avere il permesso
di soggiorno era il pagamento anticipato dei contributi previdenziali per sei mesi. Tagliente pagò la
somma dicendoci che l’avrebbe scalata dalle nostre spettanze in futuro. “E’ cosi che funziona per
tutti” tentò di consolarci Sokota.
“Sei diventato un lecca culo” gli disse Klodian.
“No – rispose secco Saimir – ho imparato a conoscere e accettare la realtà per quanto dolorosa sia”.
Seha gli lanciò una bottiglia mezza piena d’acqua che lo colpì al petto. Non permettemmo che la
cosa degenerasse prendendo comunque verbalmente le difese di Klodian. Saimir andò via e non
venne più a trovarci per una settimana. Trovandosi costretto a lavorare con noi si limitava ai saluti
di rito. Quella domenica venne con Cosimo Tagliente a prenderci per pranzare a casa loro. Non
accettammo e fu un’altra discussione animata dove Sokota fu dalla nostra parte e indusse Tagliente
a revocare il suo proposito per metà. Fummo d’accordo, ma a mangiare non ci andammo comunque.
Ritirammo i permessi a marzo del novantasei e festeggiammo fuori.
La clandestinità ci aveva marchiati di vari complessi. Quello d’inferiorità era il peggiore. Ci era
capitato spesso, nei sabati, di sentire i nostri coetanei italiani sfottendosi l’un l’altro dicendo: “Ma
sei proprio un albanese!”.
Nella pizzeria situata al centro di Calanto ci sentivamo oggetto di sguardi amichevoli, ma
incomprensibili. Eravamo sotto la torre dell’orologio nel centro storico e di fronte avevamo la
piazza principale che tanto avevamo sognato di riempire di passi in altre sere che non fossero per
forza di sabato. C’erano tre ragazze al tavolo di fronte che spesso e volentieri ridevano a voce alta.
“Proviamoci” disse Seha.
“Non si gioca male in trasferta – lo contrastò Erion – siamo dei cani appena slegati, e forse... forse
abbiamo anche la rabbia. Non facciamoci conoscere!”.
Uscimmo e passeggiammo per la piazza. Con nostra meraviglia sentimmo ancora le loro voci
dietro. Alla fine si avvicinarono con la scusa più vecchia del mondo. “Avete da accendere?”.
Portavamo tutti e tre i capelli corti. Vestivamo alla moda, con scarpe da tennis, jeans di marca
Diesel e giubbotti bomber, ma non credevamo di piacere.
“Emanuela” si presentò la più coraggiosa, dopodiché si presentarono anche le altre due. Sapevano
di noi e fu il momento in cui capimmo che tutto il mondo è paese.
A Calanto sapevano tutti, come loro. Era una cittadina di cinquemila abitanti comprese le sue
campagne, più o meno quanto il nostro quartiere, e come da noi riusciva a individuare e informarsi
sugli estranei.
“Vi abbiamo visti tutti i sabati! – disse Elena, la ragazza con occhialini da miope – Siete amici di
Saimir. Volevamo sapere qualcosa di più di voi. Tutto qui”.
L’altra si chiamava Annamaria, aveva le lentiggini ed era la più simpatica. Abbiamo sempre
sostenuto che la serietà sia componente basilare della seduzione, ma con lei restare seri era
impossibile. Domandava e raccontava di sé con tale leggerezza e veracità da essere capace di
staccare sorrisi dalla ruggine delle anime a cui parlava.
Alla fine il vecchio orologio suonò due volte. Era notte piena e da due ore parlavamo con loro, là in
piazza, senza meravigliosamente sentirci tanto diversi.
“Che cos’è quel segno lì” domandò Elena a Erion, del suo zampino di colomba mendicante in
fronte.
“Una rissa banale al liceo” mentì lui.
“Ti dona” ribatté lei, facendo capire a noi e alle sue amiche d’aver fatto la sua scelta.
“Ragazzi, siete carini – disse Annamaria – ci piacerebbe socializzare ancora, se vi va. Ma
comunque non preoccupatevi. Abbiamo le spalle larghe e sopportiamo i rifiuti”.
E chi si poteva permettere di rifiutare?! Socializzammo quasi tutte le sere, e sarebbero state loro i
nostri rimpianti quando avremmo lasciato la Puglia. Ci registrammo a scuola guida e prendemmo le
patenti grazie anche al loro aiuto in fase di pratica. Erano come noi amiche d’infanzia, benché non
avessero fatto giuramenti orribili. Studiavano tutte e tre a Bari. Andavano la mattina e tornavano il
pomeriggio, col treno.
Non ci fecero mai pesare le nostre origini e il nostro lavoro. Emanuela mi portò un giovedì di
ottobre all’università dove rividi sale, mura, segreterie e banchi di felci azzurre. Seha giocoforza si
mise con Annamaria, perché l’ilarità e la leggerezza d’animo sono sempre state le sue armi migliori.
Le insegnò a cucinare e cucinò egli stesso per lei dolci di tempi migliori. Erion pure, alla fine,
nonostante riluttanti scrupoli, finì a letto con Elena, ma la musica dalla cavità lombare non suonò.
Imparammo che l’università in Italia era un percorso quasi obbligatorio, e che contare i fidanzati
avuti faceva parte dell’orgoglio femminile. Il sabato sera mangiavamo tutti e sei insieme
raccontandoci le sere passate da soli. Così per un anno. Ci sono relazioni nella nostra vita che senza
il bisogno di essere considerati amori sono d’amore senza l’assillo delle prove. Con loro fu così.
Stavano alle donne come noi stavamo agli uomini, con pregi e difetti e voglie e ansie.
X
A marzo del novantasette avremmo dato un taglio decisivo e profondo alla nostra innocenza. Era
successo che dei nostri risparmi mandati rigorosamente alle famiglie non era rimasto un lek. Se la
nostra nazione dovrà mai vantarsi di qualcosa nella sua storia non lo potrà fare per nient’altro che
non sia l’assurdità. Dalla metà del novantacinque esistevano da noi solo la banca dello Stato e
diverse finanziarie private che causarono il suo tracollo. Contro ogni logica offrivano ai
risparmiatori il trecento per cento del denaro versato nelle loro casse per soli tre mesi. Funzionò
fino a dicembre del novantasei. La gente non accontentandosi dei risparmi che per la maggiore
provenivano dalla diaspora, vendette case e animali, andando a vivere in affitto o in capanne di
canne selvagge coperte da lamiere d’alluminio. Triplicando in tre mesi la loro fortuna, riversavano
tutto di nuovo nelle casse delle finanziarie con la stessa scadenza. Queste ultime, per dare
trasparenza e credibilità al loro operato, investivano il denaro comprando e rinforzando varie
squadre di calcio con brasiliani e nigeriani di scarto, guadagnando ammirazione e fedeltà.
E’ emblematica la storia del presidente che comprò la società di calcio del nostro paese. Mise sotto
contratto come allenatore Macro Catis, campione argentino nei mondiali del settantotto. La squadra
vinse il campionato nazionale maggiore per la prima volta in cinquant’anni di storia calcistica e il
presidente fu osannato con l’argentino capelluto per una settimana intera. A gennaio del
novantasette, quando scoppiò il caos dei fallimenti a catena, gli permisero di lasciare il paese sano e
salvo esclusivamente in onore di quel trionfo. L’argentino tornò al suo paese da milionario, e anni
dopo avrebbe vissuto anche il tracollo economico della propria terra. Voglia Dio sia solo un caso e
non si tratti di importazione involontaria della maledizione.
Le altre finanziarie investirono il loro denaro anche in costruzioni di stazioni di servizio
d’avanguardia. Il fatto era che le stazioni venivano costruite prima delle strade, ma siamo sempre
stati più lungimiranti che coerenti, quindi si sorvolava. Come può succedere solo a noi, si viveva il
boom economico sull’orlo del collasso. Il fondo monetario internazionale avvisò l’addetto ministero
del rischio in tempi ancora rimediabili, ma lo fece in inglese e via fax, per cui arrivò in segreteria
con tre mesi di ritardo.
Era già l’inferno. A gennaio i risparmiatori andarono a ritirare i loro risparmi e si sentirono dire di
passare la settimana dopo a causa di problemi con il cambio della valuta. Una settimana dopo erano
il triplo, perché si andava per scadenze di novanta giorni, festivi inclusi, quindi dagli uffici delle
finanziarie dissero che ne sarebbero stati rimborsati dieci al giorno.
Il giorno preciso che cominciò la bufera mia madre se lo ricorda. “Diciassette gennaio – dice – di
venerdì. Una bella giornata per ritrovarsi poveri. Il fiume concedeva tregua e abbondavano come
non mai aranci e limoni amari”.
I risparmiatori irruppero negli uffici delle finanziarie non trovando nessuno. Gli addetti ai lavori
erano usciti da una porta secondaria. Furono trovate liste con i nomi accanto alla somma
corrispettiva, ma erano scritture e non denaro. Misero fuoco alle costruzioni e si riversarono in
strada, stavolta verso il commissariato di polizia. Malmenarono quel che trovarono di fronte e
uscirono da lì lasciando i poliziotti nudi, sanguinanti e disarmati. Toccò poi ai reparti dei militari di
leva. Questi, come nel novantuno, consegnarono le armi senza resistere e presero contenti la via del
ritorno per i loro paesi d’origine.
La sera del diciotto gennaio il paese era armato e mise a ferro e a fuoco le istituzioni dello Stato.
Bruciarono persino l’ufficio dell’anagrafe. E la stessa cosa successe in tutto il sud dell’Albania.
Valona era quella messa peggio. Essendo vicina al mare si era arricchita a dismisura tramite i
traffici illeciti, e si svegliò più dolente di tutti, se il dolore va rapportato al denaro perso.
Dominavano il caos e l’anarchia. Fuggiti in tempo i presunti colpevoli, gli insorti non sapevano con
chi prendersela. Lo Stato gli diede una mano. Mandò verso sud i reparti dell’esercito regolare del
nord, su carri armati e camion blindati. La gente barricò le strade con alberi tagliati, reti e materassi.
Donne con neonati in braccio fecero ammaliare i soldati, mentre i loro uomini si posizionavano in
atteggiamenti da battaglia. L’esercito tornò da dove era venuto dimezzato, per il fatto non calcolato
dal governo che al nord facevano la leva militare i figli del sud. Preso possesso anche dell’artiglieria
pesante, gli insorti crearono un comitato di guerra allo Stato. Quest’ultimo poteva contare solo sulla
guardia della Repubblica e i servizi di sicurezza. I vecchi ufficiali comunisti in congedo
indossarono le divise e capeggiarono l’insurrezione. La nuova sinistra, con tutti i suoi esponenti,
colse il momento opportuno e rovesciò su parlamento e governo improperi e frasi a effetto. Fu
scarcerato il capo del partito socialista e con lui altri esponenti di spicco. In un confronto televisivo,
condotto da un famoso giornalista italiano a Tirana, questi umiliò in pubblico il suo avversario,
all’epoca presidente della Repubblica e del Consiglio.
Il sud aveva deciso di avanzare verso Tirana prima che le armi si arrugginissero. Il capo socialista lo
persuase con pianti enfatici e pugni in aria. Si decise per elezioni anticipate dopo il ristabilimento
dell’ordine pubblico. Si era in gennaio e l’ordine si sarebbe ristabilito in maniera definitiva a
giugno, agli sgoccioli, passando prima su ruscelli di sangue. Da noi la gente considerò vigliaccheria
la consegna delle armi non adoperate, e ne fece uso a modo suo: se la prese con se stessa.
Cominciò la guerra tra quartieri, senza altri motivi che non fossero vendette per torti effettivi e
virtuali subiti nel passato. Così successe che Lorenz Curti, sedicenne, si ricordò di un buffetto sulla
guancia datogli da Tair Nori, macellaio di quarantasette anni e padre di due figli, tre anni prima.
Prese la pistola e andò a far la fila al negozio del macellaio, che di lui non si ricordava più. Tagliava
la carne con il kalashnikov appeso in spalla.
“Dimmi figliolo – gli chiese il macellaio – vuoi la spalla o la coscia?”
“Voglio solo il cuore, ma il tuo, non del maiale” rispose il ragazzino e gli puntò la pistola.
L’arma si inceppò, e Tair Nori lo crivellò di piombo dopo avergli fatto assaggiare con delicatezza
l’asprezza dei suoi coltelli. Gli amici di Lorenz andarono a vendicarsi due giorni dopo, ma
trovarono quelli dell’oltre fiume ad attenderli sui tetti delle case. Seguì una sparatoria che grazie
alle mire ancora adolescenti causò solo due morti e tre feriti. Ma fu dichiarata una guerra in piena
regola, con mitragliatrici sistemate sui tetti delle palazzine e orari disciplinati per le guardie.
Negli altri quartieri succedeva la stessa cosa. Ebbero luogo stupri, scassinamenti, fuochi e uccisioni
per il solo gusto del sangue. Dalla Grecia ritornò chi il paese l’avrebbe messo a ferro e a fuoco
letteralmente. Aglin Darti aveva un occhio solo, ma sparava da dio. I mulatti di Uclov, quartiere
periferico del paese, gli avevano ammazzato il padre e violentato in gruppo la sorella di soli
quindici anni. Era una bellissima ragazzina dai riccioli color grano, e il giorno dopo lo stupro si
buttò a corpo morto nel fiume. Lo stesso branco, due anni prima, aveva tolto al fratello l’occhio
sinistro.
Aglin Darti in dieci giorni ammazzò di mano propria trentasette mulatti e violentò altrettante donne
che poi buttava nel fiume con pietre legate al collo. Preso dal sangue sparava anche contro i bianchi
per dimostrare ai suoi la sua mira infallibile. I mulatti di Uclov alzarono bandiera bianca e si misero
ai suoi ordini. Cominciò l’assalto agli altri quartieri. Da Ternat, quartiere pittoresco del centro,
cercarono di tenergli testa, aiutati dal fatto che le loro case erano fatte di pietre millenarie. La banda
di Darti, che superava le cento unità e aveva nel suo arsenale perfino i lanciarazzi, al primo assalto
fu respinta e disfatta di un quarto. Ma non si diede per vinta, e si comprò gente di Ternat che li
avvisava dei movimenti del quartiere.
Ternat veniva capeggiato dai quattro fratelli Corani. Il più piccolo, Eduart, lo conoscevamo perché
aveva finito il liceo con noi. Li massacrarono tutti e quattro davanti al nuovo stadio, dopo aver
stipulato prima un accordo di tregua. Di loro, intere rimasero solo le scarpe. Ternat fu bruciato, ma
le case le trovarono vuote. Le donne e gli uomini erano già partiti verso le campagne avvisati dalle
stesse talpe che avevano teso il tranello ai loro fratelli Corani.
Tutte le rappresentanze dei quartieri in guerra avevano stabilito un orario di pace: il mattino dopo il
levar del sole e le prime tre ore del pomeriggio. Venne rispettato anche da Darti e i suoi uomini,
escluso il massacro dei quattro fratelli. In tal modo la gente poteva rifornirsi di viveri e aria
abbondante. Nel nostro quartiere si faceva il mercato e dalle sei e trenta fino alle tre i nemici
potevano girare senza essere toccati, come i nostri potevano andare in ospedale o prendere un buon
caffè sul primo ponte. Dopo quell’ora era guerra vera. Alla fine di maggio, il nostro era l’unico
quartiere che non pagava a Darti la sua tassa: donne giovani per le voglie dei suoi e denaro per
mantenerli. Lo era per il semplice fatto di non essere ancora stato assalito. Darti aveva provveduto
prima a sottomettere anche i nostri nemici dell’oltre fiume con loro il macellaio.
Edmond Kresta era al comando degli uomini. Uscito dalla prigione a marzo del novantacinque, gli
volevano bene più di prima, benché avesse dimostrato il suo disappunto per come il paese ci aveva
costretti a lasciarlo.
“Il ragazzo dei fiori aveva pagato il suo prezzo – disse – ma gli altri due non c’entravano.
Comunque prima o poi sarebbero andati, e almeno saranno loro a raccontare come finirà questa
merda”.
Chiese un appuntamento a Darti al suo bar con i salici piangenti a forma di cuore. Era mezzogiorno
e con lui c’erano Bujar Seha e altri uomini. Darti arrivò con trenta dei suoi che si sistemarono in
cerchio intorno al locale.
“Credo che tu non voglia ammazzarmi in ora di pace! – si rivolse a Kresta stringendogli la mano –
Quello è un diritto che spetta solo a me”.
“Assolutamente no – rispose Kresta – la fede è fede anche per me che sono un mezzo uomo. Come
sicuramente saprai, il moccioso figlio di Selim Monaj si è fatto mia moglie per otto mesi, senza che
io me ne rendessi conto. Quindi come oserei fare un torto a te. So a cosa vado incontro”.
“Glielo dissi per primo perché se lui m’avesse anticipato offendendomi, i miei nervi non avrebbero
retto e i nostri piani sarebbero andati a puttane” mi avrebbe poi confidato Kresta anni più tardi.
Dunque continuarono a parlare per un po’ come se si conoscessero da tempo.
“A quanto ammonta il tributo che ti dobbiamo?” domandò Edmond a un certo punto.
“Siete tremila e duecento famiglie – rispose Darti – sarebbero trentadue milioni di lek, ma senza
sangue scenderei volentieri a venticinque, e volentieri mi accontenterei di una decina di belle
figliole. Queste te le faccio riavere un po’ più larghe sotto, ma senza segni particolari. E’ un sconto
generoso, mi sembra!”.
“Altroché!” esclamò Edmond.
Si alzò per prendere il denaro dal frigobar, ritornando con un coltello che infilò nel collo di Darti
all’altezza della tonsilla palatina e girò in semicerchio sotto il mento andata e ritorno finché non
toccò l’osso ioide.
Aglin Darti l’aveva sottovalutato credendolo marcio e mezzo uomo per davvero. “Se non è stato
capace di vendicare in pieno il suo onore, come può pretendere di tenere testa a me?” aveva detto ai
suoi uomini.
“E’ un benefattore, non un combattente” aveva concluso.
Come tutti, tradizione compresa, si sbagliava. I suoi uomini avevano fatto una perlustrazione
chirurgica del bar e degli uomini di Kresta, ma cercavano solo armi da fuoco e sorvolarono sul
coltello da cucina lasciato nel frigo con la metà di un arancio rosso in mezzo alle bottigliette di
analcolici. Sul frigo avevano notato la busta con il denaro e davano per certo l’arrendersi del
quartiere.
Edmond Kresta per due settimane aveva allenato gli uomini con tiri a segno dalla media distanza.
“A cinque minuti esatti dalla sua stretta di mano” aveva ordinato, e li aveva piazzati dietro i
finestrini aperti delle palazzine intorno al bar.
Con sé all’aperto si portò solo dieci uomini in segno di resa. Erano tutti disarmati. A cinque minuti
precisi dalla stretta di mano Darti si trovò con la ghiandola parotide in bella vista mentre i suoi
uomini all’esterno venivano falcidiati dalle finestre. Per la verità qualcuno dei nostri cecchini
mancò la mira, ma la testa tagliata e pendente all’indietro del loro capo li convinse ad arrendersi.
Cosa che fecero, ma non servì a salvargli la vita. Kresta ordinò che si facesse piazza pulita, e così
fu. Furono fucilati e buttati al fiume. Aglin Darti con loro. Da quel giorno il caos continuò ancora,
ma le uccisioni e gli stupri cessarono quasi del tutto. A inizio giugno in tutto il sud le bande si erano
eliminate a vicenda e la gente ritornatasene dalle campagne aveva voglia di vita che non sapesse più
di piombo.
XI
Il fiume era mite e permise il recupero delle carcasse umane dalle sue rive, ma il più dei morti non
si trovò. A volte con un solo funerale si seppellivano venti nomi. Non tutte le bare contenevano
necessariamente corpi. Come mi avrebbe confidato la sorella di Gentian Curti, suo fratello andò da
Dio con solo i lacci delle scarpe all’interno.
Furono tutti sepolti nel cimitero comune, e i familiari, per ogni morto, si comprarono un pioppo
della strada principale del paese. Lo segarono a un metro dalle radici e ci misero sopra una piastra
di ferro dove imbullonarono le lapidi dei loro cari. Sicché questi, a differenza degli altri, vengono
pianti e ricordati su tronchi di pioppi. Alle quattro del pomeriggio il sole investe le lapidi e le
fotografie su di esse, dando l’impressione che sappiano salutare ancora. E’ terrificante, ma non
impedisce ai turisti di incrementare le loro visite al nostro paese.
A fine giugno ebbero luogo le elezioni che la sinistra stravinse. Come i suoi antagonisti politici,
rovesciò il paese in tutti i punti cardine, insegnanti delle medie e guardie notturne degli ospedali
compresi. Con l’aiuto estero restituì al popolo un quarto della iniziale somma che era stata affidata
alle finanziarie. Le armi furono restituite e la vita, a ottobre, benché con parecchi disagi, riprese a
scorrere.
I nostri ci chiamarono per dirci che se volevamo potevamo tornare. Non era più possibile.
Camminavamo per altri sentieri con la rabbia e l’ebbrezza di altri giorni. A marzo del novantasette
trovare la linea telefonica libera per chiamare a casa era un’impresa. Sapevamo quel che succedeva
da noi per via dei notiziari e dei giornali italiani, ma non bastava. Dio volle che da Valona
arrivassero dei profughi che lo Stato italiano non aveva rispedito indietro considerandoli profughi di
guerra. La maggior parte però erano valonesi. “Cola sangue anche da voi” disse una donna, ma
questo lo sapevamo già.
Noi volevamo dei nomi, e ore, e date, che non arrivavano. Le compagnie marittime come quelle
aeree avevano sospeso i viaggi diretti in Albania, quindi non era nemmeno possibile mandare
qualcuno a nostre spese, ammesso che avesse accettato. “E se andiamo ad aspettare i gommoni –
propose Erion – qualcuno arriverà. Non sbarcano mica tutti a San Cataldo!”.
Questo ci cambiò la vita per tre anni buoni. Dai gommoni la prima settimana non sbarcò nessuno
del nostro paese, ma sbarcavano sacchetti di marijuana pronta all’uso.
Era una notte lunare di fine marzo. Avevamo individuato il luogo dello sbarco per via di vestiti
bagnati buttati a casaccio sugli arbusti della macchia mediterranea che si stendeva per duecento
metri verso le scarpate della quattro corsie che collega Bari a Brindisi.
Sapevamo che gli scafisti avevano la buona abitudine di non cambiare il luogo dei loro sbarchi. La
loro bussola di bordo li poteva far variare massimo di un chilometro a destra o a sinistra, ma alla
fine la zona rimaneva quella. L’unico disagio consisteva nel fatto che era la stessa zona usata anche
dai contrabbandieri di sigarette, e non c’era alcun collegamento o accordo tra i due traffici.
Quella notte, però, dal Montenegro non arrivò fumo contraffatto. Ci trovavamo su un ripiano di
sabbia dura al riparo di un filare di pini bassi e selvaggi. Sbarcavano clandestini tutte le notti perché
non c’era tempo migliore per farlo. Le rive erano indifese. Il mare era calmo e la luna aumentava la
sua quiete. Sbarcarono a centocinquanta metri da dove ci trovavamo noi. Era quasi l’alba di
domenica. Si tolsero i vestiti bagnati e indossarono quelli asciutti, dopodiché camminarono in fila
indiana verso la quattro corsie, assiepandosi sul pendio all’altezza della piazzola di sosta.
Le macchine arrivarono dopo circa un quarto d’ora. Erano cinque e riuscirono a farli salire tutti,
incuranti delle altre che transitavano. Tutto nello spazio di cinque minuti. Il gommone prese la via
del ritorno, ma prima uno dei navigatori scaricò un sacchetto di lino grezzo e spesso e lo nascose
nella macchia mettendo sull’arbusto un filo di nastro fosforescente.
Sapevamo già che cos’era. I notiziari e le cronache dei giornali abbondavano di traffici scoperti di
cannabis sativa proveniente dalle nostre rive. Eravamo là con l’intenzione di offrirci guide
volontarie per recuperare di notte ciò che i nostri genitori avevano perso di giorno. I risparmi di
quasi tre anni di lavoro duro. Nemmeno i risparmi di Monaj si erano salvati. Bujar Seha non faceva
distinzione tra lui e il figlio, quindi aveva affidato anche i suoi soldi alle finanziarie. Avevamo da
poco comprato ognuno la sua macchina per non rimpiangere le patenti conseguite e per essere al
passo delle ragazze con cui addolcivamo le notti. Io mi comprai una Punto, Seha una Fiat Uno,
mentre Erion una Golf, tutte di seconda mano. Come carrozzeria facevano pietà, ma la meccanica
era ancora discreta e le pagammo il giusto.
“Ecco lì i nostri soldi” disse Klodian, e si avventò verso il sacchetto.
Conoscevamo una strada che le guide dei clandestini non sapevano e che se sapevano non
percorrevano. Era sterrata e orribile, ma fiancheggiava la quattro corsie e portava dritto a Calanto.
Da lì, svoltando a destra c’era la stradina stretta ma asfaltata che collegava la cittadina alla nostra
masseria. Caricammo il sacchetto sulla macchina di Klodian e facemmo ritorno a casa quando erano
le sette del mattino.
Se è vero che uno può e deve alzare senza particolari sforzi l’equivalente del proprio peso corporeo
il sacchetto doveva pesare settantacinque chili. Tanto pesava Seha, ed era il più robusto di noi. Non
ci sbagliamo di molto. Erano settanta pacchi da un chilo ciascuno, avvolti prima in un doppio strato
di nastro adesivo marrone, poi in buste di plastica da spesa strette bene intorno, e infine da un altro
doppio strato di nastro adesivo. Il mare non l’aveva bagnata.
Si trattava del classico tipo di marijuana che gli spacciatori e i fumatori chiamavano “cioccolato
albanese”. Costava più delle altre, e per la prima volta lodammo il Signore a voce alta. Aprimmo un
fossato vicino ai fichi d’india e sotterrammo, sapendo bene che là le frese di Tagliente non
arrivavano. Non credevamo alla nostra fortuna e alla stupidità di chi i soldi li buttava nella macchia
mediterranea. Dopo sei mesi avremmo saputo che era così che funzionava. Il traffico degli
stupefacenti camminava per vie proprie e poche volte era collegabile a quello dei clandestini,
escluso il mezzo che trasportava entrambi. Gli scafisti infatti guadagnavano il doppio della somma
percepita per un corpo umano, benché quasi sempre il peso fosse uguale. Trasportavano la merce e
la nascondevano tra gli arbusti, dopodiché, sulla via del ritorno, chiamavano il destinatario per
informarlo che la roba era arrivata. Questi non andava subito a ritirarla. Preferiva il pieno giorno,
possibilmente con gente in circolazione. Tutta la macchia era percorsa da sentieri paralleli che
portavano al mare, quindi non gli era difficile individuare il sacchetto e caricarlo.
Noi ci eravamo trovati là per nostalgia e per curiosità sulla sorte del nostro paese, e per recuperare
parte dei soldi perduti, così che chi quel giorno o l’altro dopo tornò a mani vuote deve maledire le
linee telefoniche non funzionanti. Avvisammo comunque Sokota delle nostre intenzioni.
“Fatte quello che vi pare – disse – ma prima trovatevi un altro alloggio, perché io non sputo nel
piatto in cui mangio”.
Fargli cambiare idea non fu possibile, ma nemmeno tentammo più di tanto. Gli chiedemmo un po’
di tempo, che lui ci concesse. Due settimane dopo ci trovavamo a Vieste sul Gargano con quasi
ottanta milioni delle vecchie lire in tasca.
Con Tagliente ci eravamo lasciati male, con Saimir anche peggio. Dividemmo i soldi e mandammo
a Sokota la sua parte. Venne a restituirceli una settimana dopo, ma non ci riuscì. Li accettò e rimase
con noi. Tagliente rischiò l’infarto e bruciò i nostri vestiti e i libri nella masseria.
Erion Monaj aveva dato sfogo al suo linguaggio ammaliante di una volta: “Sono qui per quello che
tu sai – gli aveva detto – e non passa un giorno di questo mondo di merda senza che io mi ritrovi
allo stesso pensatoio dove mi faccio a pezzi. Per me farlo da libero o da galeotto è la stessa cosa.
Potessi, farei il mondo a pezzi, ma mi limiterò a vendere fumo che tutt’al più ubriaca, ma non
uccide, come hanno ucciso me. E credo che valga anche per te come vale per gli altri due. Ti sei
rotto il culo come noi, anzi, più di noi, visto che te lo rompi da sei anni, per poi trovarti con un
mucchio di mosche in mano ancora, grazie a chi qui ti ha mandato. A me dei soldi non m’importa
un cazzo. A te sì, invece, e non perdere tempo e fiato a contraddirmi. Questo mondo va a rotoli,
amico mio, e io lo accompagnerò volentieri. Tu fai come ti pare, ma risparmiami la morale. Sono
ventitre anni che lo fa il dolore, e ci riesce a meraviglia”.
Da quel giorno non ci dividemmo più e i nostri soldi fiorirono. Tornammo a Calanto per salutare le
ragazze e fu doloroso. Ci trasferimmo a Forte Nuovo, nel Lazio, dove comunque lavorammo per
non creare sospetti. Quasi ogni mese partivamo verso le rive della Puglia, da dove tornavamo con la
terza macchina carica di merce proibita. Non rubavamo più la roba degli altri. Stabilimmo dei
contatti con i coltivatori diretti della marijuana a Valona, che poi provvedevano anche a
comprimerla, avvolgerla e spedircela con lo stesso mezzo e allo stesso luogo.
Avevamo scelto lo spazio tra Borgo Grava e Frigole, e avevamo scelto bene. Il primo era in
provincia di Brindisi, il secondo di Lecce. Diversamente dagli altri, noi aspettavamo il gommone,
anche perché eravamo nostalgici di quelle rive con le loro luci inebrianti. Ritirata la roba, che a
volte superava il quintale, anticipavamo il denaro per il carico successivo. Al ritorno ripassavamo
con la stessa velocità, senza mai usare i telefonini. A ogni posto di blocco sulle autostrade la prima
macchina si fermava da sola e impegnava i controllori con le domande e le informazioni più futili,
lasciando passare indisturbate le altre tre. Poi riprendeva la corsa e faceva la quarta, mentre la
quarta faceva la prima e si fermava da sola al posto di blocco seguente.
Abbiamo sempre parlato un ottimo italiano. Ai posti di blocco lo parlavamo imperfetto e quasi
balbettando, col proposito di sembrare arrivati da poco, quindi meritevoli di noncuranza da parte
delle pattuglie. Di solito domandavamo come si faceva a prendere il lato opposto delle superstrade,
facendo finta di aver sbagliato senso di marcia, oppure quanto distava Bari mentre eravamo sulla
Napoli-Milano. La fortuna e la buona stella avranno avuto la loro parte. La terza macchina, guidata
sempre da Erion, non fu mai fermata.
Vendevamo all’ingrosso e a buon prezzo. Nel duemilauno, prima di passare la mano ai nordafricani,
ognuno di noi possedeva nel nostro paese casa moderne e conto corrente.
A Forte Nuovo non demmo mai il minimo segno di fastosità, come mai parlammo con nessuno.
Fuori mangiavamo due sabati al mese in un ristorante cinese da quattro soldi. Benché avessimo
affittato ognuno un appartamento, dormivamo sempre tutti insieme nello stesso. Vestivamo bene e
cambiavamo le macchine, ma sempre usate e a prezzo ragionevole. Lavoravamo in aziende diverse,
in modo da non suscitare dubbi sulla nostra contemporanea partenza per le rive della Puglia.
Sokota fu assunto da una azienda agricola e si accontentò della tariffa sindacale, benché facesse coi
mezzi il doppio degli altri. Seha lavorò in un forno dove tentò senza successo di far invaghire di sé
la titolare con i suoi dolci. Io facevo il manovale in un’impresa edile, e sarei stato la causa del
nostro trasferimento definitivo in Toscana a febbraio del duemiladue. Erion lavorava in una
falegnameria e diceva che il mogano è la materia più vicina all’anima.
Per rispetto dei nostri lavori legittimi facevamo in modo che la merce ci arrivasse la maggior parte
delle volte tra sabato e domenica. Quando capitava nei giorni feriali inventavamo parenti e malattie
che non avevamo. Abbiamo sempre lavorato considerando lo sforzo fisico confessione e castigo
allo stesso tempo. La malavita locale, ammesso che esistesse, non ci creò mai dei problemi.
Eravamo dei bravi ragazzi e ci trattavano come tali. In città ci salutavano volentieri e partecipammo
pure a un torneo di calcetto tra i bar dove fummo sconfitti in finale, ma applauditi più dei vincitori.
Non ci scordammo dei nostri amici d’infanzia. Avevamo spedito a Dorata Bardhi i soldi necessari
per aprire un laboratorio di fotografie dove lei ingrandiva a formato poster foto remote delle
elementari e del liceo classico. I soldi non li trasferivamo mai tramite le banche e le poste. Quando
la somma era intrattenibile, uno di noi, Erion escluso, faceva un viaggio andata e ritorno per Tirana
dove c’era Bujar Seha ad aspettarlo.
Passammo la mano prima di tutto perché i transiti dei gommoni furono fermati con un accordo
bilaterale tra i due Stati che troncò il male all’embrione. Scafi e gommoni furono confiscati e le
piantagioni di marijuana date alle fiamme. Ma fu anche per rimorso di coscienza. Vedemmo una
foto con noi a vent’anni davanti al portone della masseria. Vestivamo male e guardavamo peggio,
ma negli occhi avevamo ancora tracce di sogni, Monaj escluso. Magari il nostro sporco lavoro di tre
anni fu sete di denaro più che casuale modo di protesta verso quello che il destino ci aveva
riservato, ma sta di fatto che diventammo ricchi, e concepimmo che il mondo è il più grande
paradosso del mondo. Lo ami e ti emargina, lo ignori e ti ama.
I nostri ci pregavano di ritornare tutti i giorni che chiamavamo. Eravamo noi a non volerlo fare. Ci
sentivamo ibridi, figli e parenti di nessuno. Vedevo sempre felci azzurre sulle fauci dei tramonti, ma
non rabbrividivo più come prima. Mi appassivano dentro. A ventisei anni compiuti si è più vicini ai
trenta che ai venti, ed è una buona età per convincersi e rassegnarsi. Ciò che di noi era stato prima
di salire su quel gommone, l’agosto del novantaquattro, non aveva prezzo.
XII
Alla fine in Toscana ci ritornai da solo. Seha e Sokota mandarono dei fax all’Inps con cui
chiedevano la riscossione dei contributi previdenziali, visto che dopo tre mesi sarebbero ritornati in
Italia per l’ultima volta e giusto per il tempo di consegnare i permessi di soggiorno e di firmare
l’uscita definitiva dai suoi confini. Mandarono dei fax anche alle agenzie immobiliari, chiedendo la
cessazione immediata dei contratti d’affitto, rinunciando alla somma di cauzione pagata in anticipo.
Il terzo fax lo spedirono ai titolari delle loro aziende, per confermare le dimissioni senza preavviso,
rinunciando così alla liquidazione per fine rapporto lavorativo. Decisero di rimanere per sempre in
Albania e mettere su famiglia una volta che Erion avesse superato da morto i fatidici quaranta
giorni.
“Il giuramento della fraternità si può considerare concluso – aveva detto Klodian – era basato sulla
morte e morte c’è stata. Con lui un po’ siamo morti tutti. Preferisco marcire qui. Comprerò il bar dei
salici piangenti, a costo di uccidere il proprietario, e cambierò insegna. Come nome metterò il suo e
con le nostre iniziali farò cognome”.
Così fece, ma non ebbe bisogno di uccidere nessuno. Il proprietario guadagnava qualcosa solamente
affittando il locale per cerimonie matrimoniali, e benché da noi i matrimoni annuali siano sempre in
tripla cifra, non lo considerava proficuo. Il bar fu chiamato Il ragazzo dei fiori. Klodian aveva
cambiato idea all’ultimo momento. “Voglio far sanguinare le memorie di questo paese! – mi disse
per telefono – Come lui si chiamano in tanti qui, quindi sarebbe difficile”.
Seha, come Kresta, fa credito ai suoi clienti, e ammesso che voglia marcire per davvero, lo farà da
ricco. Il suo bar è sempre pieno e in tanti gli chiedono del nome. Dà spiegazioni tiepide.
Andò da Edmond a Valona e chiese il prezzo del rene. “Sei pazzo! – gli rispose Kresta – Ho
imparato a rispettare le mie tragedie, e quel vaso lì non ha prezzo. Più che mai ora con lui morto”.
La cosa che mi rimane impressa nella mente, di Edmond, è la sua ostinazione a non chiamarlo mai
per nome. Usava dire lui oppure il tuo amico, cosa che non faceva per altri assaliti di mano propria.
L’ultima volta prima che ritornassi in Italia glielo domandai: “Ora che lui non c’è più me lo puoi
dire. Lo volevi morto per davvero?”.
Respirò e guardò il mare: “Sicuramente sì – rispose – ma non ho avuto il coraggio di colpirlo al
cuore. Elvira lo amava come non è più possibile amare, e sarebbe stato come accoltellare il cuore di
lei. Salendo le scale mi resi conto che poteva anche salvarsi, ma avrebbe pisciato male per il resto
della vita, quindi mi accontentai. Non deve essere una bella cosa ricordarsi d’un amore come quello
ogni volta che si va al cesso”.
La nave stava per partire e lo dovetti salutare. “Sai una cosa? – riprese mentre mi stringeva la mano
– Non riesco a capacitarmi che mi succeda davvero, e vivo male ogni volta che ci penso, ma darei
tutto per rivederli entrambi, cazzo!”. Gli ho sempre creduto. Praticamente il mio amico cominciò a
morire il giorno stesso che aprì gli occhi, ma non mi riesce di odiare chi alla morte lo iniziò.
Saimir Sokota tentò di comprare la serra dell’amore, inutilmente. Nico Laruni esportava carote e
spinaci in Macedonia, e non aveva bisogno di soldi.
“E’ più facile che io diventi ministro dell’agricoltura che proprietario di quella serra” si rassegnò
Sokota.
Si comprò comunque la terra di fronte alla serra e ordinò in Puglia i semi delle verdure di cui fece
ragione di vita. Bietole, sedano e finocchi. E d’estate avrebbe impegnato la terra con pomodori da
salsa.
Io non potevo rimanere. Mio fratello dopo tre anni a Siena era un fuori corso e non volevo lasciarlo
da solo. Del resto mi consideravo una rondine, e l’ultimo nido mi piaceva. Arrivai per la prima volta
in Toscana nel settembre del duemilauno. L’impresa per cui lavoravo prese in subappalto il
rifacimento di una vecchia palazzina. Dopo tre mesi il lavoro fu consegnato, ma era Natale e decisi
di passarlo là. La città si avvolgeva nel verde, era a misura d’uomo, spaziosa ma raccolta, e
possedeva un’aria tutta sua da limbo cercato ma mai trovato. La gente parlava troppo e
velocemente, e io che del silenzio ero amante rimasi affascinato. Decisi di rimanere. C’erano il
mare vicino e colli alberati, e ancora tanti fiumi stretti e corti con cui farne nell’immaginazione uno
lungo e largo come quello del mio paese. Era un buon posto per fermarsi a vivere. Loro mi
raggiunsero due mesi più tardi e la pensarono come me.
“Sembra che faccia mondo da solo” disse Erion mentre contemplavamo le canne fumarie e le
antenne dalla cupola della chiesa del Sacro Cuore.
Per quattro mesi occupammo due stanze di un albergo di periferia, dalle cui finestre si assaporavano
limpidi notti di meditazione. Perdevamo i capelli anche noi. Non ferocemente come Erion, ma non
c’erano dubbi; a quarant’anni avremmo avuto il cranio lucido.
“Da noi abbiamo scelto il lavoro fisico come castigo dell’anima – ripeteva ogni volta che si vedeva
allo specchio Seha – il Signore ha scelto la calvizie. Che si faccia la sua volontà!”.
A giugno affittammo ognuno una casa perché eravamo quasi alla scadenza dei permessi di
soggiorno e per rinnovarli in Toscana necessitava essere residenti. Tutti e quattro in una non
volevamo stare, benché non avessimo niente da nascondere. Sentivamo un misto di parasensazioni.
Ognuno credeva che vedendoci il meno possibile avrebbe alleviato le sofferenze del gruppo, e che
la solitudine fosse la peggiore nemica di se stessa. Credevamo perfino che stare da soli avrebbe
ritardato la calvizie. Ma soprattutto perché pagando una casa in quattro ci sentivamo taccagni e
costretti a rivivere i tempi della clandestinità e della marijuana.
Tempi che provvide l’ufficio stranieri a farci rivivere: due settimane dopo le nostre richieste di
rinnovo, le nostre case furono sconquassate da poliziotti e cani-poliziotto. Da me arrivarono con un
mandato di perquisizione alle tre di notte. Bussarono alla porta e capovolsero tutto. Strapparono dal
muro della camera da letto il poster di Francesca Neri e sventrarono il materasso. Aprirono qualsiasi
cosa che avesse viti e bulloni, perfino l’apparato dello stereo e della televisione. Grazie a Dio
abitavo in un monolocale con un camerino e una cucina, quindi i mobili da sventrare erano pochi.
“Bene figliolo – mi disse Ivan Torreti – vedo che mangi in casa ma non lavi i piatti se non si
sporcano tutti. Come me. Come me sei un fan di Francesca Neri, il che va anche meglio. Per di più
mi hanno riferito che sei un manovale volenteroso e una persona riservata. Ti do il benvenuto in
questa città. Hai gradito per ultimo la nostra visita, quindi le spiegazioni le abbiamo esaurite con i
tuoi amici. Buona giornata”.
Erano le cinque del mattino quando uscirono lasciando in preda al panico me e le pareti. Non avevo
fatto la minima domanda e loro altrettanto. Per riportare la casa nello stato di prima mi ci volle una
settimana, e una settimana mi ci volle per amare la città più di prima. Avevo sempre tentato di
restare un sconosciuto, e di fare della mia esistenza un fatto solo per me stesso, guardavo in basso e
camminavo piano. Mi limitavo ai saluti di rito e ridevo poco. Aveva funzionato fino al giorno in cui
presentai in questura la domanda per il rinnovo del mio permesso di soggiorno. Era il settembre del
duemiladue, e non sarebbe più stato possibile. Era successo che l’ufficio stranieri, nelle due
settimane successive alle nostre richieste di rinnovo, altro non aveva fatto che informarsi sul nostro
passato. Così era venuto a sapere che lavoravamo regolarmente e che ovunque avevamo lasciato dei
buoni ricordi. La nostra fedina penale era immacolata. Mai una rissa, mai orari strani. Insomma, il
nostro insediamento in città sarebbe stato veramente gradito se l’importo totale del nostro denaro in
Albania tra liquido e immobili non avesse superato cinque volte il reddito lordo conseguito in sei
anni di lavoro dipendente. La banca dello Stato aveva offerto un resoconto dettagliato dei
movimenti.
“Ora è tardi – aveva detto Torreti a Erion – non m’interessa più la provenienza della vostra
ricchezza. Quello che non capisco e perché mai lavoriate ancora?!”.
“L’abbiamo scelto come autoflagellazione per il male fatto prima di arrivare in questa città” aveva
risposto lui, per poi raccontare tutto senza patemi d’animo.
“Stia tranquillo direttore – aveva concluso – non succederà più. I soldi non fanno felicità, sicché
non intendiamo arrotondare i nostri guadagni. Tant’è vero che quasi spendiamo tutto quello che
percepiamo e a volte ritiriamo dei soldi dai nostri conti. La banca a cui ha chiesto informazioni
avrebbe dovuto informarla che ultimamente i movimenti sono solo in uscita”.
Torreti e la sua squadra gli credettero, ma ciò non impedì a loro di rinnovare i nostri permessi con
scadenze trimestrali, quando il limite minimo previsto dalla legge per chi come noi fosse in
possesso di contratti di lavoro a tempo pieno e indeterminato era un anno. Così fino al
duemilaquattro. A volte, in tempi di flussi maggiori, tra domanda di rinnovo e ritiro del permesso
passavano anche tre mesi, quindi il giorno stesso del ritiro questo era già scaduto.
“E’ questo il mio castigo – diceva il direttore – fatemi il favore di saltarvi i nervi, e vedrete di
meglio”.
Sorridevamo. L’unico disagio era presentarsi ogni tre mesi ai suoi occhi e alla sua meticolosità. Per
il resto la nostra vita non fu castigata. Il fato che lui tenesse alla sua città in modo tale da scrutare
nel passato di ogni extracomunitario che si presentava per la prima volta nel suo ufficio accrebbe il
fascino di essa ai nostri occhi.
La città del tiglio. Così la soprannominammo. Le strade abbondano anche di oleandri, ma questi li
abbiamo sempre considerati piante perfide. Senza proporselo ognuno aveva fatto nuove amicizie e
regalava a queste le sue ore libere. Seha e Monaj abitavano nello stesso condominio e a volte si
vedevano solo perché l’ultimo decise di trasferire le chiamate sul telefonino del primo. Tutti
insieme ci trovavamo solo per i nostri compleanni e quando ci riusciva di organizzare qualche
partita di calcetto.
Nel marzo del duemilaquattro l’ufficio stranieri considerò riuscito il suo castigo e rinnovò il mio
permesso con scadenza biennale. La stessa cosa fece con gli altri tre. A Klodian scadeva in ottobre
come Sokota. Erion a luglio prese il suo ultimo permesso. Gli sarebbe scaduto a maggio del
duemilasei.
XIII
In città arrivai presto. Mancavo da venti giorni e credevo di trovarla diversa. Ma si era già in
maggio ed era sempre la stessa. Camminare nelle sue vie prima che si svegli sembra che ti permetta
di scrutare nei suoi pensieri. Erano docili e agri. Dopo Roma accelerai, volevo prendere il primo
caffè da Tirso.
Ci riuscii. “Come mai da solo?” mi chiese.
“Gli altri si sono presi un periodo di pausa” gli risposi.
“Novità?” gli chiesi.
Allargò le braccia: “Gli hanno dato del pazzo e hanno archiviato il caso”.
Lo sapevo da dieci giorni. Avevamo chiamato la questura e ci avevano risposto che potevamo stare
in paese per l’eternità. Il caso era risolto, ma non dissero altro. Mio fratello per telefono mi spiegò
che era successo come temevo: suicidio per infermità mentale. Daniel Tirso mi diede la copia del
giornale di due giorni prima. Uno dei titoli della prima pagina era stato dedicato a lui. In settimana
avevano poi riscritto che sicuramente si era suicidato per depressione. La prova era in un libro di
poesie pubblicato dal traduttore legale. Questi alla questura aveva tradotto i versi più significativi, e
per tre giorni e tre notti si era massacrato gli occhi e la ragione raccogliendo gli altri. Nei momenti
di disperazione per il mancato collegamento logico tra i versi ne metteva di suoi e risolveva la
questione. Uscì un libro di cinquantotto poesie corte, ne furono pubblicate seicento copie che
andarono a ruba.
La gente, per la maggiore nostri connazionali, se lo comprò per cordoglio, facendo credere alla casa
editrice che il momento tanto atteso di fare fortuna con le poesie era arrivato. Per questo fu
moltiplicata di cinque volte la tiratura, con l’introduzione di una voce autorevole della cultura
letteraria locale in prima pagina. Forse fu quest’ultimo a portare male, fatto sta che il libro
ingiallisce nelle librerie e non si vende più nemmeno a un quarto del prezzo di copertina.
L’editore accettò di avere avuto cattivo fiuto e disse che almeno era servito per quantificare la
presenza dei lettori con un palato poetico bizzarro. “Pensavo peggio – disse – trecento non sono
mica pochi”.
Il fatto era che la città del tiglio è una città nel vero senso della parola, con centomila abitanti e
forse solo un quinto seppe del morto sotto il sughero. Benché per la città si trattasse di una
eccezione – almeno per quanto ne so io la morte la assale in genere per vie naturali: età al limite,
mali incurabili – la morte di Erion non riuscì a sconvolgerne le memorie. Ma anche se l’avesse
fatto, il libro non si sarebbe venduto comunque. Era opprimente e affetto da narcisismo. A leggerlo
ti passava la voglia di vivere. Era eccessivo nelle metafore e nelle allegorie. Per di più le poesie
erano corte e stracariche di sospiri.
Erion non era così. Da vivo non mi permise mai di leggere ciò che scriveva, ma mi aveva già detto
che scriveva in versi sparsi, a volte tre parole sole, senza avverbi.
“Quello che io scrivo, io solo capisco” giurava. E comunque la sua tristezza non era depressione.
Dal suo vocabolario aveva strapazzato via i nomi dei fiori, ma dentro li curava. Riguardo alle
donne, poi, il traduttore dovrebbe aver fatto tutto da sé. L’assurdità raggiungeva l’apice con
un’imitazione ironica di Neruda, idolo di Monaj da vivo. Aveva profanato la sua migliore poesia
scrivendo che la donna più che un pezzo di pane appena sfornato è un’apertura vaginale immensa
con cinque sensi. In un’altra rincarava la dose dicendo che una donna si sente magicamente
femmina solo quando si considera esclusivo animale da monta.
Erion, per quello che io sapevo, portava dentro Elvira Kresta e mai avrebbe osato dissacrare così il
suo ricordo, a meno che non fosse impazzito per davvero e considerasse donna solo lei, ripudiando
e ignorando le altre. Non poteva reggere. Con Teresa Sasaro era stato un discreto amante, come lo
era stato prima di lei con Claudia Gimares, una bella uruguayana che lui chiamava fiocco di neve a
causa della voce afona; e prima ancora lo era stato con Moira Calori, ragazza laziale con gli occhi a
mandorla. Era sì diventato materialista, ma non prima d’aver avvisato loro che la sua anima era
occupata da una donna sola. La brunnera felisia. Tuttavia, le rispettava e le amava a modo suo.
“Ogni donna che scalda il mio corpo, mi regala le sue grazie! – diceva – Impossibilitato a
ricambiare con le mie grazie, che non esistono, lo faccio con oggetti di valore”. A parte l’avanzare a
passo di guerra della calvizie, una donna non si doveva sforzare per guardarlo, ma lui non ci
credeva più. Come Teresa, anche le altre due avevano fatto il primo passo, visto che lui non ne
sarebbe mai stato capace.
“Sai come sono le donne – insisteva – non riescono a distinguere l’amore dalla compassione. Ho
degli spacchi dentro, io, il sole mi trafigge e li evidenzia. Faccio pena, e si credono innamorate.
Altruismo allo stato puro”.
Nonostante tenesse le sue pene solo per sé, contraccambiava con gioielli costosi la presunta
compassione delle sue donne. A Claudia Gimares, il giorno della sua partenza per l’Uruguay regalò
una collana di cinquantasette grammi d’oro giallo da ventiquattro carati, con le lettere del nome di
lei inciso in oro bianco, dopo averla pesata con l’inganno in una bilancia di farmacia dieci giorni
prima. Claudia pesava cinquantasette chili.
“Portami con te quando fioccherà la tua voce nel tuo paese – le disse – e se mai tornerai non
cercarmi. Viaggerò per sentieri che tu non conosci, e una volta tanto mi devi credere: io vivo, ma
non sono di questo mondo”.
Moira Calori, il giorno che lui lasciò Forte Nuovo, gli andò incontro con i doni in una busta di
plastica e con l’anima in preda alla tempesta. Gli disse tutte le ingiurie possibili, che lui affrontò con
un sorriso di ghiaccio.
“Se devo riconoscere qualcosa a me stesso, altro non può essere che la sincerità! – le disse – Te li
ho regalati con il cuore, e non li prendo indietro. Sbattimeli pure in faccia se ti va”. Lei rimase con i
doni nella busta di plastica.
Con Teresa fu sopraffatto. Accettava i suoi doni, cosa che lei non faceva. “Il giorno che ti vedrò con
l’oro in mano sai bene che cosa sarei capace di farti! – lo minacciava lei – Non è che io non tenga al
tuo portafogli, è che l’oro contamina, e il tuo sa di tristezza. Mi puoi comprare dei vestiti, se proprio
vuoi fare il galante, ma devo esserci anch’io perché dei tuoi gusti mi fido poco”.
Così finivano per girare i grandi magazzini e i negozi d’abbigliamento del centro, da dove Erion
usciva con felpe e pantaloni che lei sceglieva e lei pagava, e si prendeva la cura di farlo anche per se
stessa. Un giorno di febbraio girò i magazzini da solo e tornò da lei con gonne e maglie e scarpe e
vestiti primaverili, ma sopratutto con due manichini donna.
“Se non ti vano a te – disse a Teresa – falli indossare a loro. Così la smetti di prendermi per il culo”.
La mia memoria passava in rassegna tutte le sue frasi e i suoi comportamenti riguardo alle donne, e
credo che a prescindere da un amore onirico che può bastare per una vita intera, lui fosse aggravato
da una disgrazia sola: essendo figlio di razze incrociate non poteva amare un’altra che non fosse
come lui, e come avrei saputo i fatti m’avrebbero dato ragione.
Ma mai e poi mai avrebbe potuto scrivere quegli orrori. Chiamai il traduttore dicendogli che lo
volevo ringraziare di persona. Mi ricevette a casa sua. Vidi un aspirante poeta prostrato dalla
sfortuna. Possedeva un’enorme biblioteca, per metà di narratori e poeti russi, e, come mi confidò, il
suo idolo era Essenin, del quale si dice si sia suicidato per eccesso di musa. Io sostengo l’abbia fatto
per eccesso di bellezza. Il suo ammiratore invece era orrendo. Aveva sui quarant’anni, la pelle
flaccida e pieno di nei, sudava olio ed era miope, poteva pesare sui cinquanta chili, e aveva lo
sguardo nebbioso di chi il sole non l’ha ancora visto.
“Come la mettiamo?” gli chiesi.
“In che senso?” rispose.
“Nel senso che hai fatto passare per pazzo e complessato sessualmente chi non aveva i tuoi
problemi. Conosco il morto da vent’anni. Viveva solo di donne e di donne sole”.
Non perse altro tempo. Si prese la fronte tra le mani e mi disse con la voce più dolente che abbia
mai sentito: “E’ una vita che aspetto il suicidio di qualcuno di noi. Con lui volevo morisse anche il
marcio che ho dentro. Ho quarantacinque anni e sono ancora vergine. Comunque le poesie
consegnate alla questura non le ho toccate. Avrei anche potuto farlo, se solo avessi avuto il tempo,
ma Torreti mi incalzava e poi erano le ultime”.
Me ne andai sollevato e comunque deciso a screditarlo in pubblico. Chiamai Ivan Torreti e lo pregai
di farmi avere una copia degli scritti consegnati alla questura in quanto il traduttore aveva bruciato
il resto.
“Te li faccio avere domani – mi rispose – sono fuori”.
La sera stessa andai a Bocche Cucite a tranquillizzare Teresa. Ma non ce n’era bisogno. La trovai
sconsolata ma bellissima e non aveva creduto che i versi potessero essere di Erion.
“Visto che sei venuto con l’intento di farmi un favore, me lo devi comunque! – mi disse – Dimmi
che cos’erano quelle cicatrici”.
Le raccontai tutto. “Meno male che non c’è più – sospirò alla fine – me lo sarei inghiottito un
grammo alla volta”.
Torreti mantenne la promessa, e io gli dissi che cosa avevo in mente di fare. “Comunque non
risolveresti un granché – mi replicò – a parte il fatto che non mi servirò mai più di quel pervertito.
C’era un’altra donna. Erion Monaj si era invaghito, ma lei non c’entra. Abbiamo controllato i
tabulati telefonici e l’ha chiamata due volte supplicandola di vederla. Lei lo ha ignorato ed è venuta
a testimoniare da sola, il giorno che voi partiste per l’Albania. Il movente mi sembra ideale per uno
orgoglioso come lui, ma non l’ho dato in pasto alla stampa. Ho preferito che gli dessero del pazzo
complessato piuttosto che frustrato d’amore. Sarebbe andato contro l’immagine che si ha di voi:
duri e rozzi, invece che fragili di cuore. Ad ogni modo quelle poesie avrebbe davvero potuto
scriverle: l’amore non corrisposto è capace di far delirare”.
La presunta donna fatale si chiamava Morena Telamone e faceva la commessa in un negozio di
dischi. Aveva dichiarato di aver conosciuto Erion nel negozio parlando della musica degli anni
novanta. Gli aveva dato il suo numero semplicemente perché lo riteneva un buon intenditore di
musica con cui fare conoscenza a tempo debito.
Tempo che non sarebbe mai arrivato. Morena Telamone lavorava in quel negozio dalle otto alle
tredici per poi raggiungere il bar aperto da poco con suo fratello da dove usciva alle ventuno,
esausta e snervata a tal punto da non riconoscere il sapore di una domenica. Erion l’aveva
supplicata per un appuntamento. Morena era stata perentoria.
“Appuntamenti non ne prendo. Una volta ho festeggiato il mio compleanno e mancavo solo io”.
La seconda volta l’aveva chiamata per regalarle un libro. Lei lo aveva annientato col dirgli che il
tempo libero le bastava appena per conciliarsi con il sonno. Capendo d’averlo illuso, aveva scelto il
silenzio. Non rispondeva alle sue chiamate, più per mancanza di tempo che di onestà. La notte fra
domenica e lunedì, mentre lui moriva sotto il sughero, lei era a respirare aria di montagna in
presenza di altri amici che confermarono. Il fatto che lui avesse insistito per più di due volte mi fece
vedere il cielo a rovescio. Le poesie consegnate alla questura dal traduttore disgraziato mi fecero
rabbrividire. Una mi spappolò il fegato. Si intitolava ‘Il mare’. Scriveva che il mare entrò nella sua
vita in un mattino senza memoria. Con cieli e orizzonti non ancora definiti. Entrò violento da una
sola finestra, quella aperta dalle parti del cuore, cosparse di sale le vie che sapeva, e fu cosi che
riprese a vivere. Datava diciassette marzo e cascava di venerdì. Conoscendolo, non aveva mai
amato abbastanza il mare. Era un discreto nuotatore, ma le sue pene le regalava ad altre immensità.
Sapevo bene cosa significava per lui riprendere a vivere. Andai al negozio di dischi all’ora di quasi
chiusura con la speranza di trovare solo la commessa. L’avrei trovata sola in qualsiasi ora. Situato
alla periferia est, tra case popolari e vie spoglie di traffico e di alberi, il negozio avrà potuto vendere
un disco al mese.
La commessa ascoltava musica ad alto volume. Dopo mi sarei ricordato che si trattava di Gianna
Nannini con la sua Sei nell’anima. Entrai senza fiato convinto di vedere la sosia di Elvira Kresta e
fui quasi per abbracciarla vedendola diversa. Era una donna minuta e dagli occhi di un colore che
non si ricorda particolarmente se lo si vede di fretta.
“Le posso essere utile” mi domandò.
Ero quasi sicuro che non fosse lei Morena Telamone. “Se mi dice il suo nome sì” le risposi.
“Morena” disse lei.
“Mi serve anche il cognome” proseguii.
“Telamone – aggiunse – ma io al contrario dei dischi, non sono in vendita. Si può sapere perché
questa domanda?”.
“E’ semplice – le risposi – da noi le generalità della commessa fanno un buon indizio per la musica
da ascoltare. E’ un’idiozia, ma a volte funziona”.
“Come sarebbe, da noi?” mi domandò.
“Sarebbe in Albania” e la guardai negli occhi.
Stavano per chiudersi in un ciclo di vertigini. Erano piccoli, ma puliti e profondi. “Sentiamo –
riprese con la voce ghiaccia – cosa ascolterebbe ora che sa come mi chiamo?”.
“Quella che sentiva lui” le risposi.
“Lui chi, scusami?”.
“Il ragazzo morto sotto il sughero”.
“Eravate amici?”.
“Di più!”.
Per un momento chiuse gli occhi. Quando li riaprì li aveva portati lontani. “Sei uno di quelli che lo
hanno accompagnato nella vostra terra?”. Annuii con la testa. Andò alle mensole a destra
dell’entrata e ritornò con Sade e Tiromancino.
“A dire la verità non sono sicurissima che l’abbia ascoltato”.
Sade mandò al diavolo i miei dubbi. Era lei la seconda volta dell’amore onirico e di conseguenza
l’evocazione della fatalità da lui tanto attesa. La vidi bene. Aveva delle piccole mani affusolate, i
tenui tratti dell’est per la cui grazia, pur essendo italianissima, si trovava un viso da eterna bambina:
fresco, dolce e riposato. L’unico neo poteva essere il bollore dell’età sotto il mento, ma in mezzo al
candore non faceva notizia. I capelli tinti da poco di mogano intenso li teneva raccolti sotto la nuca
con un fermaglio a forma di cuore che le donava fragilità. Il collo l’aveva corto e le spalle
leggermente curve. Il reggiseno aveva poco da reggere. Vestiva una camicia di raso marrone e dei
jeans aderenti a bassa vita che lasciavano intravedere una striscia di pelle con i primi assalti della
cellulite. Le gambe le aveva corte, ma solide. Non doveva superare il metro e cinquanta e non
faceva niente per nasconderlo. Portava i mocassini e non era bruna. Esalava frantumi d’aria
sconsolata. Mia madre l’avrebbe paragonata a un succo di ciliegie valonesi. Minute e bianchastre
ma di lungo sapore.
“Mi dica una cosa – le chiesi ancora – era lei il suo mare?”.
Non mi diede tempo di pentirmi dell’inopportunità della mia domanda. Per quel che m’aveva detto
Ivan Torreti, solo io e il traduttore eravamo in possesso dei suoi versi non pubblicati.
“Sì – rispose – bel modo di concepire il mare il suo!”.
XIV
Erion chiudeva con il mare la seconda lettera scritta per lei e consegnatale a mano. Come post
scriptum aveva scritto GRAZIE a caratteri cubitali, ignaro di avere appena sentenziato la propria
condanna a morte. Si erano conosciuti per caso a fine febbraio. Erion con Salvatore Germano
lavoravano da un paio di mesi alla ristrutturazione delle verande in legno della palazzina di fronte al
negozio di dischi. Morena Telamone invece faceva la commessa in quel negozio da tre anni. A fine
maggio ne avrebbe compiuti trentaquattro.
Di fianco all’entrata principale della palazzina c’era situato L’oleandro, l’unico bar di quella zona,
che come il negozio di dischi era orfano di clienti. Monaj leggeva la pagina degli spettacoli sul
giornale locale e precisamente il commento del giornalista sul conduttore di San Remo. Gli piaceva,
il conduttore, e aveva detto a Salvatore che i bassi ascolti sarebbero stati comunque peggiori se non
fosse stato per il conduttore. Da bonario napoletano di cinquant’anni Germano aveva girato la
domanda a Morena Telamone che aspettava fuori la barista, Tiziana Gorzegno, una ragazzina di
sedici anni con la quale aveva in comune l’orario di chiusura e la disgrazia di non vendere niente a
nessuno.
“Signora bella, lei cosa ne pensa del conduttore?”.
Morena Telamone si sarebbe scagliata su qualsiasi personaggio famoso le fosse passato nella
memoria e che aveva la sola colpa di guadagnare cento volte quello che guadagnava lei. Dal
conduttore ai calciatori. Erion si era limitato allora a dire, senza alzare gli occhi dal giornale, che
ognuno ha il destino che si merita, e che se si fa quello che si sa fare è solo dimostrazione della
mancanza di talento per far altro.
“Eh no, carino! – aveva replicato Morena – Dimostrazione sarà per te. Per me è mancanza di
occasione di dimostrare il proprio talento”.
Lei si era laureata in giurisprudenza, e dopo vari tentativi di mettere a disposizione della legge il suo
talento, si era limitata a commerciare musica, convinta che in un futuro non troppo lontano la divina
provvidenza l’avrebbe riscattata dai detriti della delusione. Trascurava coscientemente il fatto che
se mai si fosse decisa per davvero, avrebbe dovuto farlo con chi la musica la fa e non con chi la
commercia. Germano si era ritirato dalla discussione nel momento in cui Erion aveva staccato gli
occhi dal giornale per darli in pasto alla collera di Morena. Lei lo guardava dritto a occhi serrati
continuando a inveire su tutti quelli che finivano sui giornali per il semplice fatto di non essere
gente comune. Lui l’ascoltò per cinque minuti con un mezzo sorriso impassibile.
“Si era in febbraio – raccontava Morena – ma c’era un sole splendente che accentuò la verde
fragranza degli occhi di lui. A un certo punto sentii i miei cambiare espressione. Doveva essere
dolore, ma non ne sono sicura. E comunque avevo svuotato la mia rabbia girando lo sguardo da
un’altra parte”.
“Ma lei pensandola così si fa del male da sola” aveva detto Erion.
Lei si girò di nuovo verso di lui e poi fermò lo sguardo sulle proprie scarpe. Assumendo un aria da
bambina infelice disse: “Io non mi faccio male. Vivo male”.
Aveva detto la verità, benché il suo male non fosse di natura economica. Lesionata dal passato,
sapeva che la vita aveva anche luci, ma si trovava meglio con le ombre. Era cocciuta e verace,
coerente e smaliziata. A ogni compleanno presentava il conto dell’esistenza a se stessa e si rifiutava
di pagarlo. Considerava sempre il prezzo o eccessivo o irrisorio, mai giusto.
E aveva il cattivo proposito di considerare sfida da vincere ogni simpatia casuale per qualcuno.
Quel giorno diede vinto il primo round a Erion, ma giurò in silenzio di rifarsi con gli interessi. Il
mattino dopo attese in macchina finché non lo vide entrare nel bar. Entrò senza salutare e gli si
piazzò accanto, ma lui non si girò. Finito il caffè pagò e uscì fuori. Era il modo di Erion di sbarrare
il passo ai battiti erranti.
La sera prima aveva scritto: “Vidi la tempesta di occhi dolci. Il tempo passò ma la furia rimase”. Di
lì a poco la furia sarebbe diventata musica e avrebbe squarciato di suoni la cavità lombare. Per
dodici anni aveva difeso lo spazio sacro senza sforzarsi tropo. Custodiva la fioraia e tutti i fiori
sicuro dei suoi mezzi difensivi e della incapacità delle assalitrici. Con lei non ci riuscì.
Il due di marzo Morena fece la stessa cosa. Aspettò che lui entrasse, dopo entrò lei, ma stavolta lo
salutò e lo anticipò.
“Le posso pagare il caffè?” chiese.
“Volentieri – rispose lui – anche se sono entrato per primo e due giorni prima mi dava del tu!”.
“Che c’entra – disse lei in tono ironico – sono coerente e oggi mi sento di darle del lei”.
Lui considerò il momento giusto per tenerla lontana dallo spazio proibito e l’attaccò: “Ebbene, viso
dolcissimo – disse – veniamo da mondi diversi, e ciò che per lei è coerenza per me può essere presa
per i fondelli. Ci conosciamo da poco, anzi non ci conosciamo per niente, quindi non vedo perché
deve avere ragione lei”.
“Di dove sei?” domandò allora lei ricucendo con un sorriso ammaliante il proprio orgoglio.
“Dal paese dei marzi pazzi – rispose lui – e visto che siamo già in marzo è meglio lasciar perdere.
E’ ora che vada se no il mio capo si arrabbia”.
Alla fine ognuno si pagò il suo caffè. Morena Telamone seppe il suo nome e la sua origine tramite
Tiziana Gorzegno, la quale le disse: “Con lui non funziona il tuo fascino, amica mia”.
“Siamo sì sul 2 a 0 per lui – le rispose lei – ma i conti si fanno alla fine, piccola”.
Quella sera Erion scriveva: “Se la guardo negli occhi vado oltre”.
La mattina dopo Morena arrivò prima di lui e l’aspettò. Ma Erion non si fermò al bar. Il secondo
caffè dopo quello di Daniel Tirso aveva deciso di prenderlo in un altro bar. Fino al quindici di
marzo arrivava puntuale alle otto per non avere tempo di sforzare il collo e guardare lei. All’ora di
pausa faceva a meno del caffè. Tuttavia non passò un giorno senza che la pensasse e scrivesse
qualcosa. Sapeva il suo numero di targa, l’ora in cui chiudeva e saliva in macchina e l’ora in cui
prendeva l’orzo.
Il dodici di marzo era domenica e non l’aveva vista. Prima di addormentarsi scriveva: “Ovunque tu
sia stata, un po’di domenica l’hai passata anche nella mia mente”. Tre giorni dopo faceva trasloco di
tormenti. “Ebbene – scriveva – sposto lei nei sogni e lascio il rene che non c’è a te”.
Il sedici di marzo Morena avrebbe scelto da sé il posto dove stare. Pioveva. Lui andò di buon’ora e
le disse che voleva musica da viaggio visto che partiva. Dal due di marzo non avevano parlato più.
“Dove vai?”.
“Al mio paese” rispose Erion.
“Perché impazziscono i marzi da voi?”.
“Bisogna domandarlo a loro”.
“Io non comunico con i marzi” disse lei.
“E io nemmeno” disse lui.
“Che musica volevi?” gli domandò Morena.
“Da viaggio”.
“E cosa intendi tu con la musica da viaggio?”.
“Quella che benché duri cinque minuti fa che la porti in cuore per un paio d’ore”.
“Sei un po’difficile” disse Morena.
“Allora mi facilito – disse lui – va bene quella che ascolti tu”.
“Quella che ascolto io o quella che amo io?”.
“La seconda va anche meglio”.
“Non credo che ti garberebbe. Musicalmente sono rimasta indietro. Amo la musica che amavo
quando avevo poco più di vent’anni. Aggiornarmi mi rode, ma ogni tanto ci riesco e trovo qualche
singolo con cui conciliarmi col presente”.
“Vediamo” disse Erion.
Morena tornò con un disco giallo e uno verde. Il primo era di Sade, il secondo dei Tiromancino.
“Chi è questa qui?” domandò lui con la voce epilettica.
“E’ una principessa araba! – rispose lei – Duole questa musica, ragazzo mio. Ma io ho le spalle
larghe per quello che mi evoca. Tu mi sembri uno che va al passo con i tempi, quindi non rischi
niente. Magari la troverai anche stupida ma l’hai voluta”.
“Mi fido” concluse lui, e smise di guardarla negli occhi.
“Questi invece li conosco – continuò. – e un pezzo mi piace in particolare”.
“Che non sia quello che piace a me?” disse lei.
“Della stessa materia dei sogni” precisò lui.
“Meno male – sospirò lei – io intendevo In tempo piccolo”.
“Io non ho amori folli da ricordare” mentì lui.
“Beato te – disse lei – mi paghi quando torni se ti va”.
“Ti pago ora – disse lui – non sono sicuro di tornare”.
“Allora i Tiromancino te li regalo – disse lei – così mi porterai nel cuore ogni volta che li ascolterai.
So di non essere della stessa materia dei sogni, ma generosa sì. A Sade ci tengo molto per
regalartelo. E poi sono sicura che l’ascolteresti una volta sola”.
Erion partì per davvero per la prima volta dopo dodici anni alla volta di Valona. Andò a traghettare
la macchina che regalò a Bujar Seha. Cambiava macchina e appartamento ogni volta che le
considerava inguidabili e invivibili. Succedeva sempre quando erano stracariche di ricordi, e non
per difetti normali. La golf nera che regalò a Bujar Seha era perfetta e mantenuta bene, ma si ruppe
mentre questi prendeva la via del ritorno al paese. Non poteva succedere diversamente. Dentro, la
purezza di luce della Telamone aveva sopraffatto la misericordia dei fiori. Fino a Brindisi, come lui
stesso ammetteva negli scritti, non aveva sentito musica dallo stereo. La sentiva dalla cavità
lombare.
Lasciò la città del tiglio sotto cieli lagnanti. A Civitavecchia i cieli si pulirono, ma il mare era
burrascoso, in Campania trovò tuoni e fulmini senza nubi e senza pioggia, in Puglia arrivò col
tramonto a pezzi e parlò davvero come se Morena fosse seduta accanto a lui.
“Chi ti mise sul mio sentiero?”.
“Da sola” rispose per lei.
“Si vive sempre due volte. Se i fiori li evochi tramite la musica, bastava solo cercarmi prima e
saresti già oltre la soglia proibita”.
Passò la notte fumando in poppa alla nave, e sentì il mare invaderlo dalle crepe. Era irrequieto e
arrogante, si calmò solo all’alba, quando al levar del sole sale e iodio e creste d’onde succulente gli
gonfiarono vene e arterie, ossa e muscoli. Si prese il caffè alle cinque al bar della nave, poi uscì a
prua e parlò coi gabbiani valonesi. “Tiratemi a galla. Mi sono arenato in secche morbide e peso più
di questa nave”.
Con Bujar Seha, ad aspettarlo a Valona, c’era anche Dorata Bardhi all’ultimo mese di gravidanza.
Lo pregarono di fermarsi almeno per un paio di giorni.
“Che vengo a fare io nel paese? – disse lui, e guardò la pancia di lei – Ormai non c’è più posto per
me, zio, e il bello è che non c’è posto nemmeno da un’altra parte”.
“Sono dodici anni che non ti vedo, figliolo! – disse Bujar Seha – Che fino hanno fatto i tuoi
capelli?”.
“Saranno a festeggiare da qualche parte, zio, non deve essere stato facile per loro coprire questo
cranio. Li immagino ubriachi di felicità per averlo abbandonato”.
Bujar Seha andò a sbrigare le pratiche notarili della macchina, e lui prese Dorata per mano
portandola al bar del porto. Si sentivano ogni mese per telefono e vederla dopo tanto tempo con la
pancia e le caviglie gonfie a causa del peso che portava in grembo gli fece venire la voglia di
piangere. Si sforzò per non farlo guardando il mare, e il mare lo aiutò. Non ci fosse riuscito, tra le
lacrime di entrambi avrebbero allagato il bar e mandato di traverso la colazione alla gente che
l’affollava.
“Dimmi cuoricino – disse a Dorata – la chiamiamo Morena la luce che sta per uscire dal tuo
ventre?”.
“Vorrei chiamarla come te – disse lei – Eriona suona bene”.
“Non ti permettere nemmeno di ripeterlo un’altra volta! – disse lui – Non è per scaramanzia, è che
così facendo mi impediresti di farle da padrino. Sarebbe come se battezzassi me stesso, e sai che
non si può”.
“Aggiudicato” sentenziò Dorata, e gli diede un bacio lungo sulla guancia.
Lui la strinse a sé con il braccio e le sussurrò all’orecchio: “Di’ a tuo marito che la può coccolare e
nutrire come gli pare, ma che non si azzardi a portarla con sé nei pascoli, altrimenti gli avveleno
tutte le pecore. Morena farà quello che dico io”.
“E sarebbe?” domandò lei divertita.
“Rubare cuori per mezzo della musica. Le insegnerò io come si fa”.
Dorata non aveva dubbi che la musica con cui rubare cuori riguardava la propria sosia famosa,
Morena Reka. “Lo stai già facendo dall’altra parte del mare?” domandò di nuovo lei.
“Che ti passa per la testa, coniglietto. Sono quasi calvo e disperato, e tu sai come gli altri che per me
un giorno fa un mese, quindi dovrei avere sui 180 anni, sentimentalmente parlando”.
Dorata rise di buon gusto e lui si alleggerì il cuore.
“Ti ho portato il poster di Rascel Weisz – continuò lei – è in dimensioni naturali, e una volta tanto ti
devo dar ragione. Via satellite è molto più bella”.
“Ho sempre ragione io e lo sai” concluse lui.
Era la diva preferita di entrambi. Erion aveva fatto l’abbonamento a Sky solo per lei e per il Napoli
sprofondato in serie C. Sosteneva che via satellite arrivava sugli schermi con un paio di secondi di
ritardo rispetto alle emittenti normali, quindi dava il tempo agli occhi di ammirarla meglio. Non mi
ricordo quante volte gli avevo ripetuto che in ritardo sulla televisione satellitare arrivavano solo le
dirette e non i registrati.
“Varrà per la tua Francesca Neri – mi rispondeva – ma anche se fosse come dici tu, arriverebbe
come dico io. Le belle si fanno attendere, amico mio. Mandano prima l’ansia poi l’immagine. E’
grave non saperlo a trentadue anni”.
Bujar Seha arrivò mentre la nave lanciava il segnale della partenza. Si abbracciarono e piansero tutti
e tre per nostalgia come se sapessero che non si sarebbero visti più.
“Salutatemi il fiume! – gridò Erion – E ditegli che impazzire è sbagliato ma non l’hanno ancora
vietato”.
Il mare riprese a essere furioso. Nelle acque di nessuno, tra l’isola di Sazan e il canale d’Otranto fu
innavigabile. Il cielo si abbassò quasi a toccare l’asta della bandiera e scaricò tuoni e fulmini
violenti. Seguì un acquazzone torrenziale che obbligò il capitano a dare l’ordine di fermarsi e
lanciare le ancore. Le donne presenti si misero a urlare insieme coi loro figli piccoli. I tappeti della
sala ristorante furono coperti da vomiti e lacrime. Erion uscì perché non voleva vomitare. Andò a
prua e si sedette sopra la panchina verde sotto la tettoia di castagno catramato a vedere la tempesta.
Il mare in rovina faceva un solo corpo con il cielo, e le nuvole erano d’acciaio mentre le onde
scandivano che vivere è un attimo. Pioveva come non aveva mai piovuto neppure nei suoi sogni, e
il catrame sulla tettoia di castagno si sciolse poiché si era in marzo. Sentì sugli zigomi il liquido
nero, fresco e agro e vide il mondo come una nave. Sola, barcollante ma inaffondabile, in tempesta
ma salda sul suo cuore. Sentì pure la musica del dolore a rompergli i timpani e decise che era ora.
Ora di innamorarsi un’altra volta.
La burrasca abbandonò il mare dopo tre ore. Alle undici di sera arrivò a Brindisi. Scese con le
viscere infiammate, la faccia da anemico, bagnato fradicio e innamorato, ma soprattutto idiota.
Perse l’ultimo treno per Roma tarantolandosi nelle vetrine illuminate e passò la notte nella sala
d’attesa della stazione a chiacchierare con due rom rumeni ambulanti. In città arrivò alle quindici di
sabato. Un’ora dopo era dalla concessionaria a ritirare l’altra macchina. L’addetto gli disse che non
poteva consegnargliela in quanto i meccanici di sabato pomeriggio erano di festa, quindi era
impossibile fare un ultimo controllo di sicurezza.
“Io il meccanico lo faccio da me e non esigo nemmeno la garanzia – gli rispose lui – tanto so quanto
durerà la macchina”.
Non era vero. Sapeva solo guidare. All’esame teorico per la patente aveva fatto morire dal ridere
l’esaminatore.
“Che fai se vedi la spia dell’olio accesa e permanente?”.
“La porto subito dal meccanico”.
Comunque riuscì a convincere l'addetto della concessionaria a consegnargli la macchina. Andò al
negozio di dischi e lo trovò chiuso.
“Cazzo! – scriveva – Capisco che non vendendo niente per cinque giorni ti vuoi risparmiare il
sabato, ma risparmi male. Di sabato la gente si scruta dentro e magari un po’di voglia per la musica
riesce a cavarla fuori”. Girò mezza città con la speranza di incrociare lei per caso, ma il caso aveva
altro a cui pensare. Si ritirò nella pensione verso le ventidue e scrisse: “Ho la gastrite nel cuore”.
Un minuto dopo l’aveva per davvero. Andò a svegliare Simona Bruni e le chiese se avesse qualche
bottiglia di anice. “Che ti succede piccolo?” gli disse lei.
“Ho l’ulcera perforante qui” sorrise lui indicando il cuore.
“Vattene a letto e cerca di rimanere, altrimenti ti chiudo dentro” rise lei. Aveva sessantacinque anni
e da quando l’aveva visto la prima volta si era decisa a trattarlo come il figlio che non aveva.
Vedova di un generale di aeronautica, Simona Bruni considerava la pensione come una famiglia
con regole e orari da rispettare. “Il portone è uno solo – diceva ai suoi clienti – chi lo apre prima di
mezzanotte entra, dopo non si apre più”.
Infatti dopo mezzanotte metteva il gancio di ferro da dietro e per aprirlo bisognava buttarlo giù.
Erion era il più regolare di tutti gli inquilini. Normalmente si chiudeva in casa da quando tornava da
lavoro e non usciva più.
“La notte migliore è dentro una stanza” diceva.
Due settimane dopo quella notte di dicembre quando Teresa Sasaro aveva mandato al diavolo il
proprio pudore, non andava nemmeno più a mangiare a Bocche Cucite.
“Non riuscirei a mangiare come prima – aveva spiegato a lei – la cena è cena e l’amore è amore.
Coniugandoli ci scapperebbe un maialino che non vede l’ora di raggiungere il letto. Mi piace poco”.
Lei per una settimana gli aveva cambiato il menu, costringendolo a mangiare tutte le insalate
possibili, condite solo con olio e sale, e verdure lesse per purificargli l’intestino. Gli preparava di
mano propria anche i panini per pranzo con purè di olive e insalata, frittata di asparagi e ricotta,
alici sotto aceto e pomodoro ciliegino.
“Guarda che i tuoi gusti gastronomici mi stanno rovinando – le aveva detto lui – al lavoro rendo
poco per mancanza di sostanze e il mio palato rimpiange di averti conosciuta”.
“Finché vieni qui mangi come dico io”.
Alla fine decise di abbandonare la stanza nel rudere del consorzio agrario e di mangiare ciò che gli
preparava Simona Bruni per solo tre euro in più al giorno rispetto alla tariffa diurna della pensione,
compreso il lavaggio e la stiratura dei suoi vestiti. Quel sabato sera la Bruni andò per davvero ad
accertarsi che lui fosse in stanza e senza altre bevande che non fossero acqua e una confezione di
bitter rossi. “Buona notte figliolo – gli disse – non avevo dubbi. Tu l’ulcera in quel posto, gliela fai
venire agli altri con il viso che ti trovi”.
Lui cercò di sonnecchiare, ma la domenica mattina non era sicuro di aver dormito e neppure di
essere stato sveglio. Venne con me a Siena e passammo la mattinata sdraiati nella piazza del campo
con le facce rivolte al sole novello. Non ci vedevamo da un bel po’.
“Stai scrivendo?” mi domandò.
“Certo – gli risposi – sto scrivendo che l’unica cosa pregevole di un aspirante muratore e la
possibilità di tappare tutti i buchi”.
“Puoi essere volgare quanto ti pare – mi disse – non riuscirai a salvarti. Prima o poi ciò che incateni
dentro esploderà e il peggio è che avrà fame arretrata. Ti metterà a ferro e a fuoco”.
Se io fossi stato un po’ più intelligente, avrei potuto capire che più che a me si rivolgeva a se stesso.
Ma era solito iniettare negli altri il coraggio e le speranze che lui non aveva, sicché non gli risposi
nemmeno. Lo sentii fischiettare In tempo piccolo e quasi mi addormentai. Dopo dodici anni mi
sembrava normale che avesse forza e voglia di tastare l’anima con motivi pericolosi. Andammo a
pranzare nella mensa degli studenti dove mio fratello sbarcava il lunario facendo il cameriere.
“Non ti sembrano tutti ventenni?” mi domandò.
“A prescindere dal fatto che il mio occhio ha perso da tempo la precisione, vedo anche culi secchi
come noi. Fai un salto dall’oculista, c’è anche la prevenzione gratuita” gli risposi.
“Mi deludi amico mio. Io guardavo con gli occhi della nostalgia, e chissà perché a volte mi succede
di vedere e sentire al plurale, come se lo facessi anche per te. Hai lavorato, scopato, riso, pianto, hai
cambiato case, macchine, vestiti, città, immagini. Dimmi un po’, puoi ammettere d’aver vissuto
come speravi?”.
“In un certo senso, sì”.
“Io no. Ma forse sto per farlo”.
XV
Fu la penultima volta che lo sentii parlare. Dopo la sua morte non sono mai riuscito a illudere del
tutto i sensi di colpa che mi frustrano ancora oggi. Collegando i suoi scritti con le date, quella
domenica per lui avrebbe dovuto essere quella della speranza. La precoce speranza dell’innamorato
che fa vedere il cielo rosa. Ma era nostalgico, invece che allegro, era vago e non sorrideva, terso ma
non felice, e non mi diede mai fino alle sei del pomeriggio il minimo segno del cuore che stava per
prendere il volo.
Quella sera scriveva: “Vedo te in ogni strada con un po’ di passi, in ogni porta dove c’è un po’ di
vita, vedo te nei preamboli della luce, vedo te ovunque fibrilli un suono”.
Il lunedì la vide per davvero, ma l’ansia l’aveva preceduto. Andò dritto al negozio dei dischi e la
trovò che fumava sulla soglia. “Ben tornato – gli fece lei – com’era il mare?”.
“Da rimanerci” rispose lui con la testa bassa.
“E perché non ci sei rimasto?”.
“Ogni cosa a suo tempo” rispose lui.
Era la sua frase preferita, ma cascava di traverso al suo modo di vivere. Dicendola passava per
posato e lungimirante, mentre era tutto il contrario, specie con il cuore in disordine.
“Mi aspettavo un pensierino – filò dritta lei – ma che vuoi che sia io per te? Un agguato alla noia
mattutina”.
Erion non parlò. Si sentì ingordo e taccagno per un minuto abbondante, mentre lei fumava nervosa
perché lo pensava per davvero. Aveva portato solo due stecche di sigarette e diverse nostre
fotografie che Dorata Bardhi aveva avuto l’idea di ingrandire.
“Ti porto un pacchetto di sigarette” le disse, e se ne andò a lavorare con la convinzione d’essere
ancora al mondo grazie alla morte distratta. L’indomani le regalò il pacchetto che lei chiese di
pagargli.
“Sa poco di souvenir – gli disse – è forzato”. Ammirando la propria sincerità lui non poteva fare a
meno di ammirare quella degli altri, e la semplicità crudele con la quale Morena rispecchiava se
stessa lo levò d’imbarazzo. “Guarda che io a te ci tengo – le disse – ma sono trascurato e smodato,
per cui è facile che tu creda il contrario”.
Aveva indovinato in pieno. Morena Telamone era una donna sopra le righe, ma pur sempre una
donna. Credeva che ogni uomo che non fosse suo parente mirasse solo a portarla a letto. A volte ci
finiva anche, ma rigorosamente dopo che questi aveva dato prova della propria pazienza spesso
illimitata.
“Se dovessi fare una classifica – mi avrebbe detto alla fine – il tuo amico non ci figurerebbe per il
semplice fatto che non gareggiò mai”.
Il mercoledì ventidue di marzo lui le chiese il suo numero. Aveva saputo che dal lunedì prossimo
l’avrebbero trasferito a lavorare in una località marina. Sulle prime decise di insistere per rimanere
di fronte a lei anche a costo d’essere licenziato, ma pensò che con il mare nei paraggi poteva amarla
meglio.
“Te lo chiederò una volta sola – le disse – e so che per come sei mi darai una risposta secca. Sì o
no”.
Fu il preciso momento in cui lei decise di rovinarlo.
“Io il numero te lo do – gli rispose – ma t’avviso. Sono una iena e prima che tu riesca a fissarmi un
appuntamento è probabile per non dire sicuro che lasci il mio posto agli agnellini”.
“Dove vai?” le domandò lui.
“Su qualche colle, su un poggio, o su qualche nave, ma per rimanerci” aveva concluso seria lei.
Lui uscì dal negozio di dischi con il suo numero, scaraventato dal ponte del precipizio, pazzo ma
felice. Salvatore Germano giura che in tre mesi non l’aveva mai visto come quel giorno. Gli
domandò se per caso la Federazione calcio aveva deciso di ripescare il Napoli in serie A.
“In marzo ripescano solo i cuori, nonno” gli aveva detto lui.
I suoi scritti si interrompevano il ventidue di marzo per riprendere il quattro di aprile. In sedici
giorni aveva mandato a Morena Telamone ventotto messaggi e tredici chiamate. Lei aveva risposto
a quattro messaggi e a due chiamate. Al posto suo chiunque avrebbe fatto lo stesso. Se un amore
come il suo, ritardatario da dodici anni, rende idioti, ne abbiamo riavuto la prova.
La sera del ventidue le mandava il primo messaggio: “Spero che la notte sappia di balsamo per i
tuoi occhi”. Barava e peccava di originalità, perché la frase era mia e fonte di una barzelletta per la
quale i miei amici mi prendono ancora in giro. Sedici anni fa, stanco delle colombe da gara mi
comprai una coppia di postine, allenate male, però. Il mio biglietto con la suddetta sciccheria era
rivolto a una ragazza che faceva balcone di fronte al mio. La zampa del maschio a cui l’avevo
legato non solo sbagliò balcone ma anche palazzina. Ritornò dopo un paio d’ore con un’indecente
risposta: “Faccio la guardia notturna io, testa di cazzo”.
Morena aveva da poco inaugurato il bar aperto con suo fratello e lesse il messaggio alle due del
mattino.
“Lo facevo un po' piu maturo – mi disse – ma era solo l’inizio”.
Dopo essere stato sveglio tutta la notte con il telefono in mano in attesa di una risposta che non
arrivò, la mattina del ventitre di marzo Erion andò da lei con gli occhi gonfi.
“Speravo che rispondessi” le disse con l’aria di lagna.
“Stavo per farlo, ma mi ha vinto il sonno” mentì lei, e prese a pulire le mensole.
“Che fai sabato sera ?” le chiese.
“Non lo so!”.
“E di domenica?”.
“Come prima, comunque se trovo un po’di tempo vuoto ti chiamo” chiuse lei sottolineando il
timbro del ‘tempo vuoto’.
Lui sentì il morale che scendeva a pulirgli le scarpe, ma non lo diede a vedere.
“Se ci teneva a uscire con me, ogni sera doveva essere sabato sera! – mi diceva la Telamone –
Sapevo che faceva dell’orgoglio il suo forte ed è lì che miravo a fargli male”.
Ci riuscì. Erion si leccò la ferita, e come usava fare da disperato trovò la forza di dire l’ultima
parola, ma lo fece in malafede e da vigliacco. Lo stesso giovedì la chiamò dicendole che le voleva
regalare un libro. Lei, più cortese che sincera, accettò. Il venerdì mattina fece finta di essersi
scordato del libro, quando invece apriva e chiudeva gli occhi con lei sulle ciglia. Morena incassò il
colpo con dignità e lo battezzò codardo nel suo cuore.
Il sabato mattina venticinque marzo le diede il libro senza dire altro. Era L’amore ai tempi del
colera di Marquez. Lo considerava il migliore di tutti quelli letti, e non erano pochi. Aveva avuto il
cattivo gusto di scrivere qualcosa per lei dietro la copertina. Vi riconobbi la sua calligrafia e il suo
ardore di recuperare la dignità che lui stesso mandava al diavolo.
“Ti do un consiglio da amico che potevo essere e non sarò – scriveva – non dire mai a nessuno ci
sentiamo se trovo un po’ di tempo vuoto. Fa male, Cristo se fa male! Per quanto mi riguarda, che tu
ci creda o meno finora nessuno mi ha concesso del tempo d’avanzo. Ho subito il tuo fascino? Sì!
Ma proprio per questo e meno che mai sarai tu a farlo. Stammi bene tu e la tua Sade”.
“Bingo!” aveva esclamato a voce alta da sola Morena.
Lei cancellò il suo numero, cosa che fece anche lui, ma al contrario di lei, un’ora dopo voleva
strapparsi la mano che aveva strappato il numero. La sua memoria era arrivata a conservare i primi
cinque numeri, prefisso compreso, e gli ultimi tre. Di domenica a mezzogiorno andò a recuperare
gli altri due rischiando di morire. Deciso a fare da scudo all’orgoglio ferito, aveva strappato il
bigliettino con il numero e aveva buttato i pezzettini sulla gronda di rame di acque piovane in cima
al tetto della palazzina dove faceva il rifacimento delle verande.
Per sua disgrazia l’ultima fila di ponteggi era stata smontata quello stesso sabato, quindi si fece
prestare una scala da Lina Rentore, vecchia di ottant’anni, e la mise sulla pedana di alluminio a
venticinque metri d’altezza senz’altro sostegno che non fosse la benevolenza di Dio.
“Lo vidi arrampicarsi su quello scaleo nel vuoto – mi disse poi la buona Rentore – e pensai che non
poteva scegliersi giorno migliore per sfidare la morte. Faceva un caldo torrido che cadendo si
sarebbe sciolto”.
Ma non morì, e recuperò gli altri due numeri.
“Zia – disse alla Rentore – io domani sarò a lavorare da un’altra parte, ma ti lascio da oggi la
colazione pagata al bar. Ho recuperato il codice del mio cuore”.
Era sudato e tremava, ma la Rentore aveva colto nei suoi occhi sudori e tremori di felicità. Alle sei
di pomeriggio imbalsamava l’orgoglio e mandava un messaggio sincero a Morena: “Perdonami, per
favore. Ho tutta la vigliaccheria del mondo addosso”.
Lei lo lesse subito, ma gli rispose solo il lunedì mattina: “Perdonato! Buona giornata”.
Immagino lui il più allegro del mondo quel lunedì. Ora che ci penso, se non altro Morena Telamone
fece sì che il telefono di lui non fosse mai spento per tutto marzo e per i primi dieci giorni d’aprile.
Teresa stessa gli aveva chiesto il venerdì: “Come mai non si spegne più il tuo telefono?”.
“E’ che lo alimenta marzo” aveva risposto lui. Abituata come noi a risposte scervellate, come noi si
limitava a scuotere la testa.
Il lunedì ventisette di marzo Erion andò al negozio di dischi dove trovò un’altra commessa. “La
ragazza che c’era prima?” domandò.
“Di pomeriggio fa la barista” rispose la commessa.
Dalle diciotto alle ventuno chiamò sul cellulare di lei perdendo cinquanta grammi di peso per ogni
squillo a vuoto. Alle ventuno e dieci Morena rispose, dandogli l’indirizzo del bar e dicendogli che
era stanca morta. Il bar era nei pressi del centro storico e faceva angolo con il grande parcheggio
gratuito.
“Come si fa a vederti?” le domandò lui.
“Si fa colazione insieme domani da Tiziana” rispose lei.
Il martedì Erion era al bar alle sette in punto, ora in cui di solito si alzava dal letto in giorni normali.
Alle sette e dieci la Telamone gli mandò un sms dicendogli che faceva tardi e se si poteva
rimandare l’appuntamento.
“Tutti i giorni che vuoi – rispose lui con un sms – hai vinto il mio orgoglio e il mio sonno, sicché
siamo a posto”.
Aveva perso anche l’ironia e non se ne rendeva conto. Era stata sempre il punto di forza del suo
gergo. Le lasciò il caffè pagato e se ne andò. L’indomani si sarebbe svegliato anche prima.
“Lo trovai sulla soglia della porta già alle sei e gli dissi che semmai poteva farmi il favore di aprirlo
lui, il bar, visto che io arrivavo sempre in ritardo” mi disse Tiziana Gorzegno.
“Potrei essere tuo padre piccola – le aveva risposto Erion – non merito di essere preso in giro”.
Morena arrivò alle otto in punto e infilò dritta la porta del negozio spiegandogli che non aveva
tempo di fare colazione. Giocava sul velluto da quando lui aveva avuto l’infelice idea di scrivere
dietro la copertina dell’Amore ai tempi del colera. Erion, per sua stessa ammissione, non aveva più
difese. Comunque il mercoledì fu un giorno di gioia, quando seppe che la piccola di Dorata Bardhi
aveva visto la luce alle dieci. La chiamarono Morena e tutti sapevano il motivo. Quello vero lo
sapeva solo lui.
La sera, mentre festeggiavamo tutti e quattro da Rose senza spine mandò un sms a lei in cui si
vantava della sua trovata. Lei come al solito lo lesse subito, ma gli rispose alle nove del mattino
dopo: “Augurissimi davvero di cuore e un grazie a te per la bella persona che sei”. Giovedì mattina
Erion non andò all’Oleandro, cosa che imbufalì la Telamone: “Andai per prima e non lo vidi
arrivare. Capirai quanto ci teneva a me, lui! Era già stanco dopo due buche. Gli altri di solito lo
erano dopo dieci”.
Benché a pezzi Erion riusciva ancora a essere fedele alla nostra precaria volontà di osare sempre e
solo due volte, salvo poi rovinare tutto. Infatti risale a giovedì trenta marzo la disgraziata lettera che
l’indomani avrebbe consegnato di sua mano alla destinataria. Lei la custodisce ancora oggi come
prova della instabilità mentale di lui.
“Ti dico un paio di cose di me – scriveva – visto che difficilmente ci sarà altro modo di farlo.
Quanto avevo vent’anni, qualcuno considerò giusto darmi una martellata in testa e bucarmi con un
coltello il rene destro. Motivo? La gelosia. Giustificata, del resto. Conseguenze? Lei andò via per
non si sa dove. Io per venti giorni fui dall’altra parte della vita, mentre il marito riscattò l’onore con
otto mesi di carcere. E’ da allora che sono diventato fan della fatalità e credo che ogni giorno
potrebbe essere l’ultimo, quindi buono da trascorrerlo con te. Sarei pronto a fare un patto con la
morte: prendimi domani, le direi, ma fammi accarezzare il suo viso oggi. Ho trentadue grammi di
speranza che ciò avvenga, e non sono pochi per chi non fa della speranza una ragione di vita.
Fammi sapere qualcosa, per favore. Io non starò ad assillarti con pedinamenti e chiamate”.
Chiudeva con IL MARE come post scriptum, e GRAZIE scritto a caratteri cubitali.
“Dai! – mi diceva Morena – Io sarò stronza e iena quanto si vuole, ma questo qui voleva portarmi a
letto facendomi compassione. E’ assurdo! Aveva mai visto una donna in vita sua?”.
Non le dissi niente perché non volevo scagionarlo. Il distacco con cui parlava di Elvira Kresta mi
lasciò di stucco. A noi non aveva mai permesso nemmeno di nominarla, e non era l’unica cosa
grave. Era più grave ancora il fatto che per scrivere dieci righe si fosse preso un giorno di riposo dal
lavoro. Colava a picco, e il peggio doveva ancora venire. Morena lo trovò narciso e idiota, più che
fan della fatalità. Codardo l’aveva battezzato da un po’, quindi lo cancellò dalla sua memoria e lo
relegò nel dimenticatoio senza attenuanti e senza rimpianti.
“C’erano già altri uomini lì dentro, ma lui arrivò con la fama del peggiore” diceva.
Lo stesso venerdì Erion le mandava un sms: “Ho scritto quello che mi dettava il cuore e non me ne
pento”.
Il sabato gliene mandava un altro. Erano giorni di campagna elettorale: “Vincerà senz’altro la
sinistra, perché è lì che si trova il cuore”. Domenica un altro ancora: “Buone elezioni senza
Berlusconi”.
“Che scempio!” sorrideva amaro la Telamone.
Venerdì trentuno marzo Teresa Sasaro l’aveva trovato davvero rabbuiato ed erano andati in bianco.
“Succede qualcosa?” gli aveva domandato.
“Diciamo che sono in lutto per il marzo che ci sta lasciando” aveva risposto lui.
Lunedì tre aprile considerò scaduto il tempo dei pensieri di Morena e prendendo il silenzio per
ammissione andò ad aspettarla al bar all’ora di chiusura. Lei uscì fumando, esausta e sudicia, ed
entrò in macchina mentre lui si mise di traverso con la sua impedendole di uscire.
“E’ così che si parcheggia?” domandò lei.
“Dai, viso dolce – si sentì rispondere – fermiamoci a parlare un attimo”.
Morena lo guardò dalla testa ai piedi andata e ritorno, e le sarebbe bastato lo sguardo per fulminarlo
se lui fosse stato ancora quello che immagino io.
“Senti, fan della fatalità – gli disse – togli sta macchina del cazzo da qui dietro e vedi di andare
incontro alla tua diva. Faresti un favore all’umanità per la carogna che sei. Ma ci vuole coraggio, e
non credo che tu lo conosca. Comunque è un tuo problema. Per ciò che mi riguardo ti dico di girare
alla larga dal mio viso”.
Lui se ne andò e non voglio nemmeno pensare come. “Era vestito ancora da lavoro – diceva lei – e
per di più non si vergognò di dirmi: ‘Ti posso dare un bacio?’. Ma te pensa che delusione!”.
Aveva chiuso umiliato con Morena il tre aprile del duemilasei con la stessa frase con cui aveva
iniziato a volare nelle braccia di Elvira il dodici novembre del millenovecentonovantatre. Ti posso
dare un bacio?
Capii quello che non avrei mai voluto capire. Lo spiego al plurale con la speranza di rubargli parte
del dolore, visto che spesso e volentieri gli ho rubato frasi e pensieri. Tanto, dove si trova ora non
credo che ne abbia bisogno. Lo troverà a quintali per diritto proprio, oppure per grazia altrui.
Succedono cose nella vita che ci segnano e non ci fanno crescere. Scriverle e leggerle è facile,
viverle, meno. E viviamo tanto dentro e poco fuori, perché è dentro che siamo migliori. Il tempo si
ferma, torna indietro, di sicuro non va avanti. Fino a quando non arriva chi, senza preavviso e senza
saperlo, prende a pugni il dolore e resuscita brividi morti.
Se la loro fosse stata una sfida, in condizioni normali, il mio amico non dico che avrebbe vinto; ma
sicuramente non avrebbe perso. Verbalmente non era inferiore a nessuno. Con il cuore devastato era
scontato che andasse a tramontare. E poi, per sua sfortuna, la Telamone era pura, non figlia di razze
incrociate. Se avessi saputo del suo tormento gliel’avrei detto: prima di impazzire di nuovo, indaga
sull’albero genealogico di chi stai per subire. Sei figlio d’un poliziotto, non dovrebbe esserti
difficile.
Smettendola finalmente con chiamate e sms, Erion riprendeva a scrivere solo per sé il quattro aprile.
Lui lo faceva in versi, io li converto in frasi per poterli scrivere. Altrimenti non sono sicuro di
riuscirci.
“Che cazzo ho combinato?! Ho colto male una rosa che perdona una volta sola, dopo averti atteso
per tanto tempo. Non ti ho mai fatto un invito decente e non c’è una sedia o un tavolo in questo
mondo a cui non abbia sognato di sedermi con te. Non volevo niente che non volevi te. Volevo solo
che entrassi nella mia vita e non m’importava come. Sentirti parlare, raccontarti cose che non ho
raccontato a nessuno. Il letto era l’ultima cosa che avrei immaginato, ma t’ho fatto capire solo
quello, e ben mi sta il tuo ripudio. Non sono un combattente: batto in ritirata, mi sfascio e mi
adeguo. Cancello dai luoghi che conosco un bar, un negozio di dischi con tutte le vie adiacenti. La
musica no. Quella mi suona dentro”.
Il cinque aprile, mercoledì, era andato a comprarle trentaquattro rose bianche per farsi perdonare.
Nei giorni della speranza lei gli aveva detto che tra poco avrebbe compiuto trentaquattro anni, e per
lui tra poco era ogni ora che passava. Come ben sapeva non trovò il coraggio di regalargliele e le
vide appassire. Avrebbe fatto la stessa cosa il venerdì con trentaquattro rose rosse che ebbero la
stessa sorte delle bianche.
Giovedì scriveva: “Se guidassi io magari riuscirei a fermarmi, ma guida il cuore e cerca la strada
che gli indicasti tu. Quello sguardo non lascia via di scampo. Sparire! Io, sinonimo dello schifo nei
tuoi occhi! Cielo, come sono caduto in basso”.
Il venerdì sette aprile Teresa Sasaro, non trovandolo nella pensione, gli lasciò un biglietto dove gli
spiegava che partiva quel sabato per Siracusa. Ritornando a mezzanotte, ubriaco, a detta di Simona
Bruni, scriveva: “Sicuramente morirò giovane, il senso di vivere a me amico non è mai stato, ma
più di me mi duolerai te e tutti quelli che ho amato”.
Il sabato mattina scriveva: “Risalirò su una nave, e non scenderò su alcuna riva, fumerò in poppa e
impazzirò a prua”.
A mezzogiorno riprendeva il filo: “Non posso farlo. Tu credilo pure, ma io non sono così vigliacco
da inquinare anche il mare”.
A mezzogiorno metteva in dubbio la sincerità di Morena, ma lo faceva senza convinzione, poiché
usava versi altrui, invece che propri. Quelli del nostro maggior scrittore, Ismail Kadare: “Era un
fiore, ma marzo era passato, oppure si era in marzo, ma falso era il fiore”.
Sabato pomeriggio giocammo a calcetto con una squadra di rumeni, e vincemmo grazie a lui.
Correva anche con il pallone fuori dal campo. Mentre facevamo la doccia notai che aveva la barba
lunga e sporca.
“Come mai questa barba? Non penserai mica di illudere la calvizie?”.
“Tutto il contrario – rispose – voglio portarmi la faccia a somiglianza del culo, e mai come questa
volta mi garberà. Questa barba ha le radici nell’anima”.
Ho capito che la barba ai frustrati cresce il doppio che ai normali, ma per mia inclemenza non quel
sabato. Quando di solito parlava così, non c’era da preoccuparsi. Era lui.
“Stai scrivendo” mi domandò mentre uscivamo.
“Lo farò quando riprenderai a lavarti i denti” gli risposi. Gli puzzava il fiato e sapeva di cipolle
crude.
“Lo farai molto prima, e i miei denti non saranno ancora marci. Io stesso armerò la tua mano”.
Era sempre lui.
La domenica mattina scriveva: “Finalmente mi sono svegliato quello che nacqui: un papavero”.
Prima di mezzanotte scriveva: “E’ ora! Ora di trovare un sughero solitario e far evadere l’anima.
Con sangue e corteccia farò presepe. Festeggerò Pasqua e Natale coi miei, e forse troverò lei. Aveva
ragione. Ho avuto di nuovo voglia di rose. Non solo le vie erano altre, me le hanno sbarrate anche.
Non le ho piantate. I miei occhi sono aridi”.
Mandò l’ultimo messaggio a Morena con scritto: “Io il coraggio l’ho trovato. Me l’ha dato mia
madre”.
Le diede le coordinate dell’oblio. Lei era davvero in montagna e ritornò con calma credendolo in un
altro briciolo di squilibrio cerebrale, ma al ritorno riconobbe la sua macchina sulla piazzola di sosta
dall’altra parte della barriera. Davanti a casa salutò la compagnia, ma non salì. Tornò indietro e vide
lui già pronto agli ultimi respiri. Sguazzava nel sangue e non gli era rimasto molto tempo.
“Che hai combinato?” gli domandò.
“Tengo fede ai battiti erranti, ma tu non sai cosa siano”.
“Vuoi che ti chiami un’ambulanza?”.
“Morirei comunque. Se proprio ci tieni a farmi un favore mi devi fare una promessa”.
“Te lo prometto”.
“Se qualcuno di quelli che mi hanno amato arriva fino a te, racconta tutto. Così mi piangeranno
meno... un’ultima cosa – continuò con la voce che stava per abbandonarlo – ... dov’è il mare?”.
Morena alzò il braccio sinistro verso nord.
“Non il Tirreno. Quello che mi porterò appresso: l’Adriatico. Tu non ci crederai, ma un po’ di te me
lo porto pure. M’hai fatto vivere due volte lo stesso sogno”.
Lei indicò il sud col destro senza abbassare il sinistro. Fumava, e l’ultima cosa che lui vide fu un
metro e cinquanta di donna in croce con una lucciola sulle labbra. Girò gli occhi verso sud e
finalmente iniziò a mangiare asparagi e lumache crude.
Post scriptum
Amico mio, se è vero che la vita è indimenticabile solo se chiude con una morte utile, bene, la tua lo
è stata. Almeno per me. Come tu stesso m’hai pronosticato quella domenica in Piazza del Campo, il
fuoco che incatenavo dentro è esploso. Mi brucia e mi rode, mi spezza il fiato, ma vedo chiaro, vedo
bene. I sentieri che abbandonammo celesti sono diventati viola. E’ tempo di correre, Erion. Solcare
il viso di sole rosso. Riprendere ad allevare colombe per non crescere, catturare l’addio per sentirsi
vivi. Io lo farò. E se per strada ritrovo un sogno, giuro che lo faccio tre volte. Vada pure a farsi
fottere la nostra vecchia volontà che vuole limitarsi a due. Sì! Lo farò tre volte. Anche per te.
Hasta siempre companero. Hijo loco de las flores.
Credits
Ringrazio tutti quelli che mi regalarono il loro tempo perché io potessi scrivere questo libro.
A cominciare da Fernando Quatraro, il mio editore.
Poi ringrazio Vincenzo Grimaldi, il geometra della ditta per cui lavoro. Disponibile a qualsiasi ora,
amico mio, a darti da fare con i capricci del computer. La domanda più bella me l’hai fatta tu.
COME VA CON IL NUOVO SPIRAGLIO DELLA TUA VITA? E non hai detto niente a nessuno,
mi hai coperto le spalle in ogni mia bizza.
Detto questo c’è da scusarmi con la ditta stessa. Tra maggio e giugno scrivevo sempre di notte,
arrivavo sul lavoro senza sonno e combinavo solo guai. Ovunque io abbia messo mano, c’è stato
bisogno di ripassarci. Licenziarmi non sarebbe stato abbastanza, ma voi non l’avete fatto.
GRAZIE.
Grazie alla bellissima coppia di fidanzati Dario e Erica. Facevo un monte di errori e mandavo in tilt
il computer. Quando non c’era Vincenzo, c’erano loro. Fantastici.
Grazie alla cortesissima dottoressa viterbese Francesca Soldati. Mi ha dato lezioni di anatomia, per
le patologie inserite nel libro. Per di più quasi sempre di domenica, quindi non la ringrazierò mai
abbastanza.
Ringrazio mio fratello, Julian, per l’aiuto datomi in fase di redazione. Va detto che ha provveduto a
ringraziarsi da solo, poiché è l’unico che mi ha sfilato dei soldi, ma sono stati ben spesi, almeno.
Un bacione alla mia adoratissima nipotina, Monica. Ha solo quattro mesi, ma credetemi: è stata lei a
tracciare la tendenza del libro. Ogni volta che la prendevo in braccio, o piangeva a squarciagola, o
rideva come una sciocca. Graffia anche, e siccome penso che un bambino è un adulto con il
pannolino, ho tentato di dare al libro due orientamenti di sensibilità. Si piange o si ride. La via di
mezzo almeno per ora non esiste.
Infine grazie a sua madre, Alma, mia sorella. Nei non pochi momenti di fiacca e d’abbandono usava
la terribile terapia dei ricordi. “Ricordi cosa diceva chi ti mise al mondo? Il dolore è sacro.
Esorcizzarlo non significa venderlo. Forza. Comportati da uomo e rimettiti a scrivere”.