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Laurea Magistrale in Scienze Infermieristiche e Ostetriche Anno Accademico 2009/2010 I anno La congiura del silenzio: rumore assordante della morte imminente. (Il diritto del malato oncologico di sapere e il dovere dell’operatore sanitario di informare) Docente: Rosario di Sauro Studente: Raffaele Donata 1 “E’ il non sapere cosa ti aspetta nello stadio successivo della malattia che dilata il terrore, (…) una volta superata la barriera della menzogna tutto cambia e migliora. Il rapporto con i propri cari diventa più caldo e stretto (…) non è più solo isolato dietro una bugia e condivide quest’ultima fase con le persone con cui ha condiviso la vita1”. Sherwin B. Nuland2 Non si possono affrontare le complesse problematiche connesse alla comunicazione della diagnosi senza prima considerare il rapporto operatore sanitario-paziente e riflettere attentamente su tutte le sue implicazioni. Perché la comunicazione della diagnosi (e per comunicazione va intesa la parte più nobile di questo termine) deve partire da un rapporto solidale ed empatico con la persona malata, altrimenti si farebbe solamente dell’informazione diagnostica espressa in maniera asettica ed impersonale. In tempi non molto lontani, tale tipo di relazione (ed in particolare quella del medico nei confronti dei pazienti) era definita come 1 2 “una storia di silenzio”, nella Sherwin N. (1994), Come moriamo: riflessioni sull’ultimo capitolo della vita, Milano, Mondadori. Chirurgo e docente all’università di Yale. 2 convinzione che un buon paziente dovesse seguire le direttive del medico senza fare obiezioni e senza porre domande. Oggi assistiamo ad un cambiamento radicale: dal modello paternalistico si sta passando ad una relazione paritaria, attraverso un rapporto comunicativo di tipo simmetrico “caratterizzato da un piano di partenza paritario, dove le persone coinvolte si misurano con l’assunto di essere uguali”3 E, in effetti, ogni domanda di cura racchiude non soltanto una semplice richiesta di aiuto tecnico, ma anche un’esigenza di relazione. Ignorare questo aspetto, significherebbe ridurre la medicina a semplice applicazione di una tecnica, trasformando il rapporto sanitario-paziente in una prestazione di servizi, senza tener conto che esso è in primo luogo attenzione ad una persona, come avviene nell’accezione del termine inglese “To Care”, cioè preoccuparsi di qualcuno. È chiaro che in questo rapporto comunicativo, una prima ed importante difficoltà può provenire dal grado di informazione che il paziente ha già della sua malattia, dato che questo condiziona notevolmente la comunicazione. Il malato si rende conto delle eventuali risposte elusive alle sue specifiche domande. Eppure il processo terapeutico, per quanto possibile, dovrebbe avere il malato 3 Caputo G. (2008), Dinamiche di gruppo e comunicazione in Psicologia Sociale e Contesto Sanitario, Roma, Aracne. 3 come figura centrale e collaboratore principale delle modalità terapeutiche. Invece, la tendenza a celare alcune diagnosi, con la complicità dei familiari, si trasforma in una vera e propria “Congiura del silenzio” che costringe il malato a “recitare” la commedia della guarigione, fino all’ultimo, senza la possibilità di esprimere le proprie ansie e paure. Non c’è niente di peggio delle briciole di informazione, date con gesti, a volte maldestri, con parole contraddittorie, con occhiate tra parenti, amici ed operatori sanitari. In ospedale, come in casa, le parole e i bisbigli, purtroppo attraversano, come un rimbombo, le pareti della camera, non considerando che l’abitudine al silenzio è spesso più crudele della verità. Un’altra grossa difficoltà è legata al fatto che spesso non ascoltiamo ciò che ci viene detto, presumendo già di saperlo: udiamo solo ciò che vogliamo ed ascoltiamo solo ciò che coincide con le nostre aspettative, cessando di ascoltare non appena abbiamo “classificato”, in modo pregiudizievole, l’interlocutore. Spesso si ritiene che la consapevolezza della gravità della malattia costituisca per il paziente una enorme fonte di sofferenza, che va a tutti i costi evitata, e solo da pochi anni una buona percentuale di operatori sanitari sta prendendo coscienza che l’informazione sul proprio stato di salute rappresenta un vero e proprio bisogno del paziente. Infatti, nella prospettiva del processo di accettazione e di 4 adattamento alla malattia, la comunicazione delle notizie e delle informazioni relative alla diagnosi, al trattamento e alla prognosi, risulta essere elemento fondamentale che permette al paziente di soddisfare il bisogno di mantenere un proprio senso di controllo per affrontare una situazione d’incertezza, determinata dallo stato morboso, nonché valido aiuto nell’identificare, anche in termini esistenziali, il significato della propria esperienza di malattia. Purtroppo, nonostante questa maggiore consapevolezza della necessità di “sapere la verità”, vi è evidenza che attualmente i pazienti continuano a sapere ancora poco del proprio quadro clinico.4 Infatti,da una revisione della bibliografia effettuata nell’U.O. di Terapia Antalgica e Cure Palliative dell’Ospedale Infermi di Rimini si evince una grande carenza nella consapevolezza della diagnosi nei pazienti affetti da patologie oncologiche. Da questi presupposti, e dalla mia esperienza come infermiera di cure palliative domiciliari a pazienti oncologici in progressione di malattia e con breve aspettativa di vita, nasce questa mia profonda riflessione sul tema della “Congiura del Silenzio”, aggravata ancor più dal fatto che, partendo dall’assunto che “non si può non comunicare”5 con l’altro, in ogni caso arrivano al paziente, da parte 4 Andruccioli J., Raffaeli W. (2005), La consapevolezza di malattia nel paziente oncologico in La Rivista Italiana di Cure Palliative, SICP. 5 Watzlawick P. (1971), Pragmatica della Comunicazione Umana, Rimini, Astrolabio 5 degli operatori sanitari, anche in silenzio, informazioni spesso incomplete, distorte e fuorvianti. Con il risultato finale di creare una barriera alla comunicazione empatica e al rapporto interrelazionale proprio nei momenti in cui tale approccio solidale avrebbe la maggiore validità e una peculiare ragion d’essere nel rapporto di cura. Va premesso, però, che non può esistere una modalità d’informazione che possa andare bene per tutti i pazienti. È proprio questo il motivo per cui, come già detto, il primo passaggio parte sempre dalla comunicazione, intesa ovviamente come ambito di conoscenza reciproca. In quest’ottica, l’ascolto, completo e solidale, è il punto di partenza, non solo per entrare in sintonia con l’altro, ma anche per cercare di individuare quanto lo stesso ”sa” della propria malattia, quanto sospetta, quanto vuole sapere e quanto e fino a che punto non vuole sapere. È chiaro che dobbiamo interrogarci sul significato della parola “verità”. Ci possono essere varie sfumature di verità, quantità diverse di verità, modi diversi di comunicare la verità, tempi diversi in cui trasferirla. 6 Comunque l’aspetto da evitare in maniera assoluta è la “assenza di verità” o una verità assolutamente in antitesi e contraddittoria con la realtà clinica. La verità va ovviamente adattata, non solo al quadro psichico e alle aspettative del paziente, ma anche al suo substrato culturale, al contesto socio-familiare, e non per ultimo a quanto il paziente stesso ha “bisogno” di sapere. Da considerare che la verità minima da somministrare è quella che può giustificare, in maniera plausibile, il peggioramento successivo. Altro punto di notevole importanza, risiede nelle informazioni preliminari e precedenti che la stessa persona ha ricevuto nei confronti della sua malattia, informazioni spesso costituite da “pietose bugie”, sulle quali è stata già inevitabilmente costruita una barriera difensiva sulla quale si è saldamente instaurato un personale meccanismo di adattamento, a volte non efficace, ma comunque pericoloso da abbattere. Il percorso compiuto da una persona che si ammala di cancro per arrivare a una consapevole accettazione della propria malattia è spesso incerto e prevede fasi alterne. Nel momento in cui la persona sa di essere ammalata, la risposta più frequente è una reazione di shock causata dal significato di minaccia alla propria esistenza che la malattia comporta.6 Da alcune testimonianze raccolte nel “Libro Bianco sulla riabilitazione oncologica” (2008) della F.A.V.O. (federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia) e 6 Alberisio A., Viterbori P., (2002) “Consapevolezza e adattamento” in Bellani M.L et . al (2002) Psiconcologia, Milano, Masson. 7 dell’I.R.C.C.S. Istituto Nazionale dei Tumori, si assiste, al momento della comunicazione della diagnosi, a quel meccanismo di difesa che gli Psicologi dell’Istituto hanno descritto come “Siderazione”, ossia la reazione di shock di cui si parlava precedentemente. “È stata una mazzata, se mi avessero dato un pugno nello stomaco mi avrebbe fatto meno male: bisogna essere cretini per non capire.” “Mi sentivo come una palla da biliardo.” “Mi è venuto il sangue freddo…ho provato tanta paura…non ne ho parlato con nessuno. Sono stati mesi tremendi ed era sempre lì.” 7 Chi comunica una diagnosi deve aver ben presente che si trova di fronte ad una persona con un universo di vissuti ed esperienze, emotività ed affettività, e non di fronte soltanto ad un malato, o peggio, ad un organo malato. Lo spazio su cui si muove il cancro rappresenta un campo di conflitti, laddove, spesso, la persona si ritrova a combattere da sola. E ciò che è peggio, è che questa battaglia non la combatte sempre in modo consapevole, quando gli è stata negata, parzialmente o totalmente, la possibilità di sapere contro chi è realmente il suo “aggressore”. Per questo, già dalla fase diagnostica, è importante instaurare una “buona comunicazione”, poiché è l’unico atteggiamento valido che favorisce un buon adattamento alla malattia e una soddisfacente elaborazione delle esperienze ad essa collegate. 7 “Libro Bianco sulla riabilitazione oncologica” (2008) F.A.V.O. (federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia) e I.R.C.C.S. Istituto Nazionale dei Tumori 8 L’infermiere, appunto, si inserisce in questo ambito, proprio per le sue peculiarità professionali, atte a far sì che la paura dell’abbandono, dell’impotenza, della solitudine e della morte, vengano elaborate in modo valido ed efficace. E l’unica maniera perché ciò avvenga è costituita dall’ascolto, dall’atteggiamento empatico, e dalla capacità di cogliere e soddisfare il maggior numero di bisogni della persona malata. Perché “guarire” non significa ritornare ad una situazione di benessere fisico, ma soprattutto sopravvivere alla “morte”, quella interiore, quella provocata dalle paure e dalle angosce sulle sconosciute “strategie” che il “nemico” adotterà per sconfiggerci. Ed è per questo che la comunicazione della verità, quella che il paziente vuole sapere, quella che ci chiede, somministrata in dosi che meglio sopporta, è l’unica vera “ancora di salvezza” attraverso la quale il malato potrà adottare, aiutato dall’equipe sanitaria che si prende cura di lui, tutte le strategie di difesa valide per arrivare dignitosamente e consapevolmente alla fine della sua esistenza. Ma il ruolo della consapevolezza, nel processo di adattamento è ancora sconosciuto. Esistono casi in cui l’adattamento alla malattia non è associato all’acquisizione di una piena consapevolezza della propria condizione. Perché in alcuni casi anche strategie di difesa come la negazione e l’evitamento possono risultare efficaci e funzionali per il benessere emotivo del paziente. Ma è anche vero 9 che il divenire consapevoli non impedisce in alcun modo il processo di adattamento. Un’altra certezza è che in alcuni casi la consapevolezza è associata ad un difficile adattamento. A volte il paziente consapevole può sviluppare disturbi psichiatrici o gravi alterazioni del funzionamento psicologico. Ricordo una donna di 45 anni affetta da mesotelioma, consapevole pienamente, fin dal momento della diagnosi, della prognosi infausta della sua malattia. Nei sei mesi precedenti la sua dipartita, nonostante i suoi grandi sforzi nel parlarci delle sue paure e delle sue angosce, nonostante la sua costante volontà nell’approccio con lo Psicologo, sviluppò una grave psicosi che solo i farmaci attenuarono. Probabilmente tutto ciò era dovuto al fatto che, essendo socia di un’Associazione i cui aderenti erano quasi tutti colpiti dal mesotelioma, ella, ogni volta che moriva uno degli associati, viveva in anticipo la sua morte, e ciò le procurava attacchi di panico gravissimi e spesso incoercibili. “Nell’Indice di Hampstead le difese sono considerate come meccanismi e funzioni finalizzate a tenere lontana la coscienza da sentimenti, idee, pulsioni e sentimenti ego distonici”8 Il concetto di difesa deriva dalla teoria elaborata da Anna Freud, che definisce i meccanismi di difesa come delle modalità con cui l’Io si protegge dall’ansia e dal senso di colpa e suggerisce che ogni individuo tende ad utilizzare un numero limitato di strategie, alcune 8 Di Sauro R. (2007) Principi di psicologia clinica per l’operatore sanitario, Roma, Aracne 10 considerate più “patologiche” delle altre. Ciò indica che ogni forma psicopatologica è associata ad uno stile difensivo. Il coping, inteso come strategie cognitive, comportamentali ed emotive messe in atto da una persona per gestire una situazione stressante, ed il controllo, inteso come la convinzione di poter influenzare positivamente le situazioni difficili, insieme ai meccanismi di difesa, sono sicuramente influenzati dai fattori ambientali esterni che intervengono nel processo di consapevolezza.9 Ed è proprio su questo che voglio portare, a mio avviso ad una riflessione eticamente corretta. Perché, spesso, l’equipe sanitaria di cure palliative si ritrova davanti ad un malato con una storia di verità negata o falsata. Sovente i sanitari hanno già omesso di comunicare la diagnosi e l’inguaribilità. Ma è anche particolarmente impegnativo a volte dover gestire un paziente a cui bisogna comunicare la terminalità. “Per chi si prende cura di malati in fase avanzata, conoscere la particolare storia di comunicazione intorno alla malattia che accompagna ciascun paziente si rivela uno dei temi cruciali per orientare l’approccio comunicativo riguardo all’inguaribilità e alla terminalità”10 Ci si chiede, allora, se sia sempre opportuno comunicare la prognosi infausta. Ma spesso ci si dimentica, che, in ogni caso, anche se il 9 Alberisio A., Viterbori P., (2000) “Consapevolezza e adattamento” in Bellani M.L et . al (2002) Psiconcologia, Milano, Masson. 10 Bonetti M. - Ruffatto M.T., (2001), Il dolore narrato (la comunicazione con il malato neoplastico grave), Torino, Centro Scientifico Editore 11 medico non lo dice, ci sono altri che, inconsapevolmente lo “diranno”. È l’iter diagnostico terapeutico che “parla” da solo, perché termini come biopsia, oncologia, radioterapia, chemioterapia, ormai, sono ben noti a tutti. È l’atteggiamento del personale sanitario e dei familiari che “parla” e dice la verità negata. Tutto ciò che fa parte della comunicazione non verbale “parla” e contraddice tutto ciò che di fatto diciamo. Anche il silenzio parla. “Il maggior tormento di Ivàn Il’ìc era la menzogna che lo voleva malato ma non moribondo, una menzogna accettata da tutti, chissà perché: bastava che stesse tranquillo e si curasse, e allora ci sarebbe stato un gran miglioramento…ma egli sapeva benissimo che qualunque cosa gli facessero, non ci sarebbe stato proprio niente, salvo che sofferenze ancora più tormentose e la morte. Questa menzogna lo tormentava, lo tormentava il fatto che non volessero riconoscere che tutti sapevano e che anche lui sapeva, e che volessero invece mentire sul suo terribile stato, e che per di più costringessero lui stesso a prender parte a quella menzogna. Quella menzogna, una menzogna perpetrata su di lui alla vigilia della sua morte, una menzogna che si sentiva in dovere di umiliare questo terribile atto solenne al livello delle loro visite di cortesia, delle tende in salotto, del pesce in tavola…era un orribile tormento per Ivàn Il’ìc. E stranamente, molte volte, mentre gli altri eseguivano i loro numeri su di lui, era stato a un filo dal gridare in faccia a tutti: smettetela di dire bugie, lo sapete benissimo, e lo so benissimo anch’io che sto morendo, almeno finitela di mentire. Ma non aveva mai avuto cuore di farlo.”11 È per questo che non si può evitare di non dire la verità al paziente, perché le nostre contraddizioni comunicative metteranno in ansia il paziente e lo disorienteranno a tal punto da non fidarsi più di noi. 11 Tolstoj L.N., (1975), “La morte di Ivàn Il’ìc”, Garzanti Milano 12 E allora, come speriamo di poter instaurare una valida relazione d’aiuto, se tale aiuto sarà continuamente rifiutato dalla diffidenza di chi si sente tradito? Come possiamo instaurare una valida alleanza terapeutica, se siamo noi operatori sanitari i primi a rompere tale sodalizio? Tali sono le ragioni per cui è necessario, fin dall’inizio, chiarire perché il paziente viene preso in carico, in qualsiasi contesto, sia domicilio, hospice, RSA, ecc., chi sarà ad assumere le decisioni, il campo d’azione nel quale il paziente stesso potrà muoversi e le conseguenze reali a cui porteranno le sue scelte, degne di rispetto e prive di alcun giudizio di valore da parte dei sanitari. Se il malato non viene messo al corrente del suo effettivo stato di salute quali saranno le conseguenze a cui andrà incontro? Come potrà fare le sue scelte tra le alternative terapeutiche? In questo caso sarà necessario, allora, che alle scelte del paziente si sostituiscano quelle dell’operatore. Ma è lecito, allora, che gli operatori sanitari o i familiari, si ergano a giudici per sentenziare una scelta piuttosto che un’altra, scavalcando completamente le preferenze di chi in effetti sta soffrendo? Di chi, sapendo, vorrebbe pianificare gli ultimi giorni della sua vita? O magari salutare persone, dettare le sue ultime volontà, sistemare le ultime cose prima di “partire”? 13 Perché è giusto che il paziente ricostruisca i rapporti familiari utili a sé stesso. Se egli si rende conto che i suoi familiari mentono, tenderà ad isolarsi e sarà sempre più difficile poterlo aiutare. Inoltre, alcuni di essi rivestono un peculiare ruolo sociale (es. giovane padre o giovane madre), dal quale dipende il futuro di altre persone, che in tal modo verrebbero maggiormente tutelate. A tal proposito ricordo chiaramente la storia di una giovane madre di due bambine che, un anno prima di ammalarsi, aveva perso suo marito a causa di un cancro. Dopo aver scoperto di essere affetta da un tumore polmonare, già metastatizzato al cervello, decise di affidarsi alla medicina alternativa, i cui operatori le avevano trasmesso la certezza che sarebbe guarita. L’equipe di cure palliative domiciliari, di cui sono infermiera, la prese in carico in condizioni davvero pessime. Dopo un mese di cure, continuava a rifiutare l’approccio della nostra psicologa, e accettava solo che ella interagisse con le due bimbe di 7 e 13 anni. Accettava di parlare esclusivamente con me e con il medico palliativista. Dopo molti sforzi, naturalmente guidati dall’aiuto della Psicologa, cominciò ad elaborare la paura della morte ed interpellò un avvocato affinché sistemasse le sue bimbe, prima che esse diventassero orfane. Purtroppo, all’arrivo dell’avvocato, il giorno dopo, era già in coma. 14 Fortunatamente, dopo varie peripezie, i nonni materni, nonostante fossero stranieri, sono riusciti successivamente ad ottenere l’affidamento delle bambine, ma non senza problemi. La ragione per cui molti operatori sanitari omettono di dire la verità, consiste soprattutto nella paura che il paziente possa suicidarsi. Ci sono molti studi contrastanti a tal proposito: 1. Fox et al (1982), Louhivuori et al. (1979) e Bolund (1985) sostengono che la percentuale dei suicidi tra i malati di cancro sia la stessa riscontrata nella popolazione generale; 2. Sainsbury (1975) e Whitlock (1978) sostengono che il rischio sia da 3 a 10 volte maggiore per i malati oncologici. Ma da alcune osservazioni si è visto che l’incidenza del suicidio era correlata ad una elevata sintomatologia dolorosa. Per questo, da altri studi, si è evinto che i casi di suicidio, tra i malati di cancro, sono infrequenti e limitati a pazienti che soffrono già di disturbi neuropsichiatrici. Quindi, si può affermare che, nella realtà, il timore che il paziente oncologico, una volta informato sul suo reale stato di malattia, possa suicidarsi, è un timore che nella realtà non trova riscontro.12 “Il diritto dei pazienti ad essere informati, sebbene diffusamente riconosciuto in linea di principio, trova, tuttavia, nella pratica clinica delle difficoltà di attuazione dovute alle ingiustificate resistenze, da parte dei medici, alla realizzazione di un nuovo modello di relazione con il paziente. 12 Carta dei diritti dei morenti 1999 15 Nel caso, in particolare, dei malati vicini alla morte, il dovere di informare i pazienti sui trattamenti, così come sulla diagnosi e sulla prognosi, viene assai frequentemente disatteso dai medici che adducono a giustificazione del proprio comportamento il fatto che un’informazione esauriente sarebbe dannosa, data la precarietà emozionale, oltre che fisica, di un malato che, quanto più si avvicina alla morte, tanto più assomiglia a un bambino bisognoso di rassicurazione e di protezione, e sarebbe, inoltre, per lo più, non voluta dagli stessi malati. Si tratta di argomenti deboli…”13. Ma la realtà è forse un’altra. L’operatore sanitario non comunica la verità perché altrimenti comunicherebbe il suo fallimento, la sua finitudine e sarebbe costretto a confrontarsi con le reazioni emozionali intense del paziente che gli farebbero vivere angosce e paure. Non è bello, anche per un operatore sanitario trovarsi “faccia a faccia” col vero volto della morte. Non è facile accogliere ed accettare ogni possibile reazione emotiva di un malato che “finalmente” sa. Ma è l’unico modo autentico per aiutarlo, visto che si può affermare che i motivi che potrebbero condurre un operatore sanitario a non comunicare la verità, poggiano su costruzioni prive di fondamenta. In ogni caso non bisogna estremizzare l’assunto che a priori bisogna dire sempre tutto fino in fondo. È necessario, però, sapere che è giusto comunicare, sempre e fino in fondo, la verità che può essere utile al paziente, sempre nel rispetto del suo desiderio di sapere. 13 Comitato etico – Fondazione Floriani 1999 16 Non esiste, quindi, una ricetta valida per tutti i malati oncologici. Esiste un approccio personalizzato, che tenga conto dell’universo irripetibile costituito dalla persona che ci sta di fronte. È importante comunicare la cattiva notizia, ma sempre accompagnata da un’altra che sia positiva e che non lasci il paziente in balia del male e di se stesso (es. “Purtroppo la sua malattia sta progredendo e le poche armi a nostra disposizione, spesso risultano essere inefficaci. Ma possiamo fare molto per aiutarla ad alleviare la sua sofferenza, e le posso garantire che ce la metteremo tutta e non la lasceremo mai da solo in questa battaglia”). Perché la verità non deve rimanere ingabbiata nell’accezione paternalistica e nella soggettività, laddove il medico gestisce autonomamente la quantità e la qualità di notizie da riferire al paziente, ponendolo su un piano comunicativo complementare anziché simmetrico. Perché il termine “verità” non è sinonimo di “tutta la verità”, quindi intesa come “completezza informativa”.14 Ed è giusto, quindi, che essa diventi “informazione”, perché il medico ha il dovere morale e giuridico di rispondere alla richiesta di informazioni del paziente. E tutti gli operatori sanitari hanno l’obbligo deontologico di promuovere e favorire un cambiamento culturale che tenga maggiormente conto dei bisogni, delle 14 Annunziata M.A. (2002) “L’informazione alla persona affetta da cancro e alla sua famiglia” in Bellani M.L et . al (2002) Psiconcologia, Milano, Masson. 17 aspirazione e delle aspettative della persona con problemi di malattia, tale da indurre un profondo cambiamento comportamentale, e soprattutto comunicativo ed informativo. Perché il malato ha il diritto di essere informato, non solo per motivi di ordine giuridico e deontologico, ma soprattutto perché, in tal modo, si soddisfa pienamente il suo bisogno d’informazione e si riconosce la sua centralità nel processo decisionale di cura. Inoltre, diversi studi15 hanno dimostrato che la maggior parte degli individui ha in sé le risorse per far fronte alla malattia e alla diagnosi di cancro, sempre che essi non vengano lasciati da soli a sopportare il dolore fisico e l’enorme carico psichico ed emozionale che comporta la sofferenza: in questo modo si può agevolare il doloroso processo di adattamento alla malattia oncologica. E laddove si verificassero difficoltà in questo percorso adattivo, il sanitario ha il dovere di fornire al paziente tutte le armi possibili per combattere le sue ansie e le sue paure, sorreggendolo e facendo in modo che egli non si senta mai solo ed abbandonato. 15 Bellani M.L. (2002) “La comunicazione di cattive notizie in oncologia” in Bellani M.L et . al (2002) Psiconcologia, Milano, Masson, pag. 194 – 195. 18 BIBLIOGRAFIA 1. Bellani M.L. et . al Psiconcologia, 2002 Milano, Masson 2. Bonetti M. - Ruffatto M.T., Il dolore narrato (la comunicazione con il malato neoplastico grave), 2001, Torino, Centro Scientifico Editore 3. Di Sauro R. De Blasi V. Psicologia Sociale e contesto sanitario, 2008, Roma, Aracne 4. Di Sauro R. Principi di psicologia clinica per l’operatore sanitario, 2007, Roma, Aracne 5. Duxbury J., Il paziente difficile, 2001 Milano Mc Graw-Hill Italia 6. Federazione Medica XLIII, Editoriale, Dire la verità al paziente. Alcuni motivi psicologici e giuridici, Rivista n° 7/1990 7. F.A.V.O. (federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia) e I.R.C.C.S. Istituto Nazionale dei Tumori, “Libro Bianco sulla riabilitazione oncologica” 2008 19