“Initium omnis peccati superbia”: variazioni umanistico

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“Initium omnis peccati superbia”: variazioni umanistico
ÁGORA FILOSÓFICA
“Initium omnis peccati superbia”:
variazioni umanistico-medievali
su un tema morale
Prof. Dr. Gregorio Piaia1
Riasunto: il pensiero utopico é una delle risposte più esaltanti alle sfide della
modernità, ma al tempo stesso il progetto di realizzare una società ideale,
fondata sulla perfetta giustizia ed uguaglianza, ha registrato - a partire dall
Rivoluzione Francese - una serie clamorosa d’insuccessi. Perché? Una fra le
tante possibili risposte ci è offerta paradossalmente dallo stesso incunabolo
del pensiero utopico. L’Utopia di Thomas More, e precisamente dall’accenno
finale all’umana “superbia”: un accenno al quale di solito non si dà grande
importanza, e che invece giuoca un ruolo essenziale nell’economia di Utopia.
Esso ci riconduce direttamente alle riflessioni sulla superbia svolte da due
maestri del pensiero medievale, s. Agostino e s. Tommaso. Sono riflessioni
apparentemente lontane dal nostro tempo, ma in realtà ricche di provocazioni
e di spunti che si rivelano di sconcertante attualità sul piano filosofico-morale.
Paroli-chiave: Utopia, Modernidade, Soberba, Moral.
Resumo: o pensamento utópico é uma das respostas mais exaltantes ao projeto
da modernidade, mas, ao mesmo tempo o projetode realizar uma sociedade
ideal, fundada sobre a perfeita justiça e igualdade, tem registrado – a partrir
da Revolução Francesa – uma clamorosa série de discussões. Porque? Uma
entre as tantas possibilidades de resposta nos é oferecida paradoxalmente
pelo mesmo testemunho do pensamento utópico. A Utopia, de Thomas
More, é precisamente um aceno final a humana “soberba”: um aceno ao qual
muitas vezes não se dá grande importãncia e que ao contrário tem um papel
essencial na economia da Utopia: Esso nos recunduz diretamente as reflexões
sobre a soberba mostrada por dois mestres do pensamento medieval, Santo
Agostinho e Tomás de Aquino. São reflexões aparentemente distante de nosso
tempo, mas na relidade ricas de provocações e atritos que se se revelam na
desconcertante atualidade subre o plano filosófico-moral. Palavras-chave:
Utopia, Modernidade, Soberba, Moral.
P
uò apparire assai facile, ma al tempo stesso inutile, richiamarci alle prospettive morali delle epoche passate (in questo caso dell’età medievale) quando si discute delle grandi sfide
che ci sono poste dal nostro tempo: facile, perché di fronte al
diffuso relativismo morale e alla nietzscheana trasmutazione dei
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valori la riflessione morale elaborata dai grandi autori medievali
sembra garantirci un porto sicuro e tranquillo, in grado di fornire
un’adeguata risposta al disagio del postmoderno; al tempo stesso
inutile, perché le rarefatte certezze di quelle prospettive morali
sono lontane dalle gravi questioni di etica individuale e soprattutto sociale che caratterizzano il nostro tempo, dall’indiscriminata
manipolazione genetica al disastro ecologico, dall’ingiusta distribuzione delle risorse planetarie alle modalità di lotta contro
il terrorismo internazionale. In tale contesto problematico sono
dell’avviso che le dottrine morali del medioevo non possano
fornirci ricette alternative (cui è sottesa in maniera più o meno
esplicita l’idea di un anacronistico ritorno nel passato) ma siano
piuttosto ricche di spunti di riflessione o di vere e proprie provocazioni, tali da indurci a prendere più esatta coscienza di quella
mistura di luoghi comuni e di astratta fuga in avanti con cui spesso crediamo di poter affrontare i problemi dell’uomo moderno.
Entrando in medias res, vorrei qui richiamare l’attenzione su un
tema di etica che godette di ampio sviluppo nel pensiero medievale e che oggi è rimosso dallo stesso linguaggio quotidiano oltre
che dai discorsi di filosofi, psicologi e sociologi: il tema dei “vizi
capitali” e in particolare della “superbia”. Da qui il titolo della
mia relazione, che è tratto dall’art. 2 (“Utrum superbia sit initium omnis peccati”) della quaestio 84 della Summa theologica Ia
IIae, ispirato a sua volta dal versetto dell’Ecclesiastico 10, 13 (15)
(“Initium omnis peccati superbia est”). E per dare subito luogo
alla provocazione di cui sopra, il mio intento è di far “reagire”
questo tema - per noi oggi obsoleto - con una delle risposte più
significative ed affascinanti che la “modernità” ha dato ai grandi problemi etico-sociali: la prospettiva utopica, sviluppatasi con
una ricca letteratura fra Cinquecento ed Ottocento, criticata a fondo perché “non scientifica” da Marx ed Engels, e divenuta poi, in
tempi più recenti, oggetto di un ampio dibattito teorico fra i neomarxisti e i teologi cristiani, in particolare protestanti, a partire
dalla celebre opera di Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung (1959).
Ma non è su questo dibattito che intendo qui soffermarmi, bensì,
risalendo assai più indietro nel tempo, sulla singolare misinter142 - UNIVERSIDADE CATÓLICA DE PERNAMBUCO
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pretation di cui è stata oggetto - e proprio in riferimento al tema
della superbia - la prima formulazione moderna del pensiero utopico nel “libellus vere aureus” di Thomas More.
Se il cielo volesse che questi tre caposaldi della legge
utopiana [ossia l’aequalitas dei beni e dei mali fra i cittadini,
l’amore per la pace e il disprezzo per l’oro e l’argento] si conficcassero come chiodi da travi [...] nella mente di tutti i mortali,
vedresti d’un subito crollare ed estenuarsi la superbia, l’avidità,
le dispute dissennate (superbiam, cupiditatem, contentionem
vaesanam) e quasi tutte le altre insidie, con le quali ci ferisce
l’Avversario infernale+, né ci sarebbe più bisogno dell’*immane
caterva dei libri giuridici+.2 Così scriveva l’umanista francese
Guillaume Budé in una lunga epistola indirizzata al giovane Thomas Lupset e che sarebbe servita da prefazione alla seconda edizione di Utopia (1517). Il richiamo alla “superbia” non è casuale:
essa era stata infatti menzionata da Thomas More nelle pagine
conclusive della sua opera per addurre il motivo - l’unico vero
motivo - che impediva la diffusione nel mondo intero dei saggi
ordinamenti dell’Isola-che-non-c’è. Ma perché proprio la superbia viene presentata come una belva mostruosa, *madre e signora
di tutte le calamità (omnium princeps parensque pestium)+, vero
e proprio *serpente infernale (averni serpens), che si avvinghia
intorno al cuore umano, lo impaccia e trascina a ritroso come una
remora per impedirgli di imboccare la strada che conduce a una
vita migliore+?3 Non si tratta soltanto - come potrebbe apparire
a una lettura superficiale - di una colorita enfatizzazione retorica,
ovvero di un espediente per concludere la narrazione “de optimo
reipublicae statu” in modo invero brusco, come se l’autore si fosse stufato di portar avanti questo suo scherzo letterario: insomma,
la classica zeppa che blocca e mette fuori uso un congegno altrimenti perfetto, riportando il lettore dal sogno della beata isola di
Utopia alle miserie quotidiane [...].
In realtà le parole che Moro mette qui in bocca a Hythlodaeus hanno una forte implicazione religiosa, anzi teologica, che
ha il suo fondamento nella Scrittura. Se l’ennesima denuncia della
brama di denaro, che in Utopia precede di poche righe la *miraAno 4 • n. 2 • jul./dez. 2004 - 143
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bile affermazione+ sulla superbia, ci richiama l’avvertenza paolina *Radix enim omnium malorum est cupiditas+ (1 Tim 6, 10),
la definizione della superbia quale *omnium princeps parensque
pestium+ suona invece come una variante del sopra citato versetto dell’Ecclesiastico, *Initium omnis peccati superbia est+4.
Difficile a questo punto non pensare al De civitate Dei (l’opera su
cui Thomas More - quand’era appena ventitreenne - aveva tenuto
un seguitissimo ciclo di lezioni nella chiesa di San Lorenzo in
Jewry, su invito di William Grocyn)5 e precisamente alle pagine del libro XIV in cui Agostino sottolinea la particolare gravità
dell’atto di disobbedienza a Dio compiuto dai nostri progenitori,
i quali furono spinti a questo *malum opus+ dalla loro *voluntas
mala+, frutto a sua volta della *superbia+, che - come avverte
l’Ecclesiastico - è all’origine di tutti i peccati. *Perversae celsitudinis appetitus+, ossia brama di una superiorità che sovverte
l’ordine del creato, in quanto Adamo ed Eva preferirono compiacere se stessi piuttosto che Dio, *superior immutabile bonum+:
così Agostino definisce la *superbia+ (o *elatio+ o *amor sui+),
cui contrappone l’*oboedientia+ e l’*humilitas+, che riconoscono la superiorità di Dio e sono quindi espressione del vero *amor
Dei+. Sono queste le virtù che caratterizzano la Città di Dio,
ossia la Gerusalemme celeste, ma anche quella versione incoativa
della Città di Dio che è la Chiesa peregrinante sulla terra6.
Nel De civitate Dei si colgono altri riferimenti alla superbia, a conferma del ruolo centrale che questo tema riveste
nella prospettiva dottrinale di s. Agostino. L’atto di superbia ha
infatti una dimensione morale e insieme metafisica, in quanto ci
allontana da Dio, Bene supremo, e ci rivolge a un bene inferiore.
Oltre che di Adamo ed Eva, è questo il caso degli angeli ribelli,
che, distaccatisi da Dio ovvero “ab illo, qui summe est”, “ad se
ipsos conversi sunt , qui non summe sunt”. Da qui il loro stato di
profonda infelicità (miseria), giacché essi erano stati creati non
per essere perfettissimi al pari di Dio, ma per “fruire” di Dio e
raggiungere così la beatitudine7. La superbia - è precisato poco
più avanti - “è un difetto (vitium) che non è proprio di chi dà il
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potere e neppure del potere stesso, bensì dell’anima pervertita che
ama [in modo esclusivo] il proprio potere avendo disprezzato il
potere più giusto di chi è più potente. Per tale ragione chi ama
in maniera pervertita (perverse) il bene di qualsivoglia natura,
anche se lo ottiene, nel bene egli si fa malvagio e infelice perché
privato di un bene migliore”8. Sempre nel De civitate Agostino
ribadisce che “talvolta vizi evidentissimi sono vinti da altri vizi
occulti, che sono considerati virtù, nei quali regna la superbia e
una certa rovinosa aspirazione (altitudo ruinosa) di piacere a se
stessi”9. Né vanno dimenticate due riflessioni che sono contenute
rispettivamente nel Sermo 46, 18 e nel De catechizandis rudibus
(4, 8) e che hanno l’efficacia e l’incisività di due sententiae: “La
superbia produce separazione, l’amore unione (Superbia parit
discissionem, caritas unitatem)” e “Grande infelicità è un uomo
superbo, ma più grande misericordia è un Dio umile (Magna est
enim miseria superbus homo, sed maior misericordia humilis
Deus)”, ove ricompare la contrapposizione superbia/umiltà, resa
ancora più forte dal richiamo alla comune etimologia di miseria/
misericordia.
Questi spunti di riflessione teologica troveranno
un’organica sistemazione ad opera degli Scolastici e in particolare di s. Tommaso. Nella quaestio sopra citata l’Aquinate delinea con grande lucidità l’orizzonte teorico in cui si colloca quel
nesso negativo cupiditas/superbia che per Thomas More impedisce l’effettivo instaurarsi di una società di giusti ed eguali, confinandola nell’Isola-che-non-c’è10. Qual è la differenza - si chiede
l’Aquinate - tra le due definizioni fornite dalla Scrittura: “Radix
omnium malorum est cupiditas” e “Initium omnis peccati est superbia”? “La radice - egli obietta - è come il principio dell’albero:
per cui sembra la stessa cosa essere la radice ed essere l’inizio
del peccato”; e dal momento che nel precedente art. 1 egli ha già
dimostrato “quod cupiditas divitiarum est radix omnium peccatorum”, sembra conseguirne che la cupiditas è ad un tempo radice
e principio di tutti i peccati. E la superbia?... L’Aquinate richiama
anzitutto i tre modi in cui alcuni teologi erano soliti intendere la
superbia:
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Primo, in quanto sta ad indicare il desiderio smodato (inordinatum appetitum) della propria eccellenza.
E in questo senso è un peccato specifico (speciale
peccatum). - Secondo, in quanto implica un disprezzo attuale di Dio, manifestato dal non sottostare
alla sua legge. E in questo caso, essi dicono, si tratta
del peccato in genere (generale peccatum). - Terzo,
in quanto implica un’inclinazione a tale disprezzo,
dovuto alla corruzione della natura. E in questo senso essa sarebbe l’inizio di tutti i peccati. E si distinguerebbe dalla cupidigia per il fatto che la cupidigia considera il peccato dal lato della conversione
ai beni transitori (ex parte conversionis ad bonum
commutabile), da cui il peccato viene come nutrito e alimentato, meritando così di essere chiamata
radice, mentre la superbia considera il peccato dal
lato dell’allontanamento da Dio (ex parte aversionis
a Deo), alla cui legge l’uomo si rifiuta di obbedire:
per cui verrebbe chiamata inizio, in quanto è dal lato
dell’allontanamento che viene desunta la ragione del
male (quia ex parte aversionis incipit ratio mali)11.
Al riguardo la posizione di s. Tommaso è più stringente,
mirando a cogliere appieno il senso del versetto “Initium omnis
peccati est superbia”. Qui la “superbia” non va intesa solo come
generale tendenza al disprezzo di Dio, ma, propriamente, come
un desiderio senza limite di affermare la propria eccellenza, per
cui essa va posta all’inizio di ogni peccato anche nella sua veste
di “vizio specifico”. Segue una distinzione che chiarisce ulteriormente i ruoli diversi, anche se complementari, della superbia e
della cupidigia:
Si deve infatti notare che negli atti volontari, quali sono appunto i peccati, si riscontrano due tipi di
ordine: l’ordine dell’intenzione (intentio) e quello
dell’esecuzione (executio). Nel primo ha funzione
di principio il fine, come spesso abbiamo detto nelle questioni precedenti. Ora, nell’acquisto di tutti i
beni temporali l’uomo ha per fine la conquista di
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una certa perfezione ed eccellenza. E così da questo
lato si considera inizio di tutti i peccati la superbia,
che è il desiderio della propria eccellenza. Invece
nell’ordine dell’esecuzione è primo ciò che offre la
possibilità di soddisfare tutti i desideri peccaminosi
e ha l’aspetto di radice, cioè la ricchezza. Perciò da
questo lato l’avarizia viene considerata la radice di
tutti i mali [...]12.
A questa prima impostazione del tema seguirà (in IIa
II , qu. 162) l’analitica trattazione “de superbia in communi”,
suddivisa in 8 articoli, e quindi “de peccato primi hominis, quod
ponitur superbia” (qu. 163, con 4 articoli), che riprende in forma più diffusa e sistematica il nucleo dottrinale già rilevato in s.
Agostino. Per quanto riguarda, in particolare, l’entità del peccato
di superbia commesso dai nostri progenitori, l’Aquinate osserva
come vi sia una “duplex gravitas in peccato”. La prima è “ex ipsa
specie” e da questo punto di vista l’atto di superbia di chi vuole
diventare simile a Dio è meno grave di chi nega Dio stesso o
lo bestemmia; la seconda dipende dalla “circumstantia loci, vel
personae, aut temporis”: in questo caso, guardando alla “conditio personarum peccantium”, il peccato di Adamo ed Eva “habuit maximam gravitatem, propter perfectionem status ipsorum”,
in quanto si trovavano nell’Eden13. Ma per lo stesso motivo la
responsabilità di Adamo risulta maggiore di quella di Eva, “quia
erat perfectior mulieri”...14
Il riferimento di Thomas More
alla superbia si rivela dunque assai più significativo di quanto ci
possa a prima vista apparire: in esso si coglie un’eco del tema di
fondo dell’intera Civitas Dei (la distinzione delle due “città” in
base all’opposizione superbia-umiltà), nonché delle analisi teologico-morali svolte da Tommaso d’Aquino. Tutto ciò riconduce
a quello che, a nostro avviso, è il più profondo motivo ispiratore
di Utopia: riproporre - a conclusione di un racconto apparentemente fantasioso e giocoso, anche se ricco di provocazioni e di
doppi sensi - un elemento centrale del messaggio cristiano quale
la dottrina del peccato originale, così come aveva fatto Erasmo
nell’Encomium Moriae con il tema della *stultitia crucis+, anche
ae
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se nei lettori più sprovveduti questo repentino cambiamento di
registro poteva far passare inavvertita tale singolare forma di “catechesi”. E non a caso, a conferma di questa forte ispirazione religiosa dell’*aureo libretto+, nell’epistola sopra citata il Budé chiama le città di Utopia, fra loro concordemente unite, con il nome
Hagnopolin: “Città pura” o “Città santa”, con evidente allusione
alla Santa Gerusalemme di Apocalisse 21, 215.
Ebbene, gli studiosi del pensiero utopico hanno generalmente subordinato questa forte dimensione etico-religiosa
dell’Utopia moreana alla dimensione politico-sociale, pur avendo
presente il tema della “superbia”. Per Cosimo Quarta, ad esempio,
il More era convinto della possibilità di estirpare la superbia - ossia la “radice ontologica del potere”, che “nella tradizione cristiana costituisce il peccato per eccellenza” - attraverso l’abolizione
della proprietà privata e l’esclusione degli ambiziosi da ogni carica
pubblica: “Una volta tolto il potere, anche la superbia, venendole
a mancare appunto il proprio oggetto, finirebbe con l’estinguersi”,
giacché “superbo è colui che brama il potere, sia esso economico
o politico”16. Il che confermerebbe quanto dichiarato dallo stesso
studioso in precedenza, e cioè che “nell’Utopia viene istanziato,
forse per la prima volta nella storia, il primato del sociale. Una
lezione, questa, [...] quanto mai salutare e opportuna per il nostro
tempo”17. Per quanto dettata da buone intenzioni, questa prospettiva fortemente attualizzante non ci sembra la più corretta. Certo,
è vero che - come già rilevò J.H. Hexter - “solo se si riconosce che
l’analisi sociale di Moro giunge alla conclusione che l’orgoglio è
la fonte primaria della maggior parte dei mali esistenti, il progetto
della repubblica ideale diviene chiaro, comprensibile e perfettamente coerente”, sicché “la repressione dell’orgoglio è il fondamento della società ideale”18. Ma - ed è questo il punto a nostro
avviso centrale - il Thomas More “umanista cristiano, che, in più,
vede e pensa da uomo politico, che ha una notevole esperienza di vita, una consapevolezza e una sensibilità straordinarie”19,
intendeva davvero proporre un “progetto” d’ingegneria sociale,
concretamente realizzabile in un futuro più o meno prossimo, o
mirava piuttosto (giuocando sul paradosso) a rendere la societas
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christiana del suo tempo consapevole dei vizi che la sfiguravano
e che avevano la loro radice nel peccato originale, i cui effetti,
nonostante la redenzione operata dal Cristo, permangono in ognuno di noi?
Certo, il rigido e soffocante ordinamento sociale di
Utopia si potrebbe leggere come un tentativo di tradurre in pratica
l’idea agostiniana dello Stato come remedium peccati, in particolare di quell’”initium omnis peccati” che è la superbia; ma per s.
Agostino lo Stato è ad un tempo il frutto di violenze ed usurpazioni, in cui l’orgoglio e la superbia, insieme con l’avidità, fanno
la parte del leone, e in questa prospettiva le stesse leggi civili non
sono volte al bene comune, ma sono espressione del potere del più
forte. Non a caso nella citata lettera-prefazione il Budé dichiara
apertamente che le leggi servono a coprire e legalizzare le ruberìe
di alcuni uomini a scapito dei loro simili20, mentre il protagonista
di Utopia, il nocchiero Hythlodaeus, si scaglia contro le “macchinazioni” con cui i ricchi trasformano in leggi dello Stato i propri
soprusi21. Eppure proprio il Budé aveva pubblicato qualche anno
prima un commento alle Pandette, mentre lo stesso More, com’è
noto, era un giurista e un avvocato di grido [...].
A questo punto i casi sono due: o nel Budé e nello stesso
More v’è una lacerante contraddizione fra il loro intimo sentire
e il oro status professionale e sociale, oppure essi mettono in pratica, con una buona dose di autoironia, l’antico adagio “Ridendo
castigat mores”. Ed è proprio a questa singolare mistura di agostinismo, di autoironia e di provocazione morale che dobbiamo
rifarci per comprendere la genesi di un’idea, quella di Utopia, che
- contro le reali intenzioni del suo autore - verrà poi sviluppata
in chiave eminentemente sociale e politica anziché etico-religiosa. Il risultato è davanti ai nostri occhi: i ripetuti tentativi - da
Robespierre in avanti - di costruire l’”uomo nuovo” attraverso
l’imposizione di un ordinamento economico-sociale e politico
ad hoc non hanno affatto estirpato l’avidità e la superbia insite
nell’animo umano. Il radicale intervento sulle strutture economico-sociali (si pensi alla collettivizzazione forzata nell’era staliniana o al tragico esperimento attuato da Pol Pot in Cambogia a metà
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degli anni settanta del secolo scorso) non si è mostrato risolutivo,
a parte gli enormi costi umani, e viene allora da chiedersi se la
dimensione morale dell’uomo sia solo una sovrastruttura oppure abbia una sua consistenza ontologica, non riducibile alle sole
circostanze storiche ed ambientali: una consistenza che affonda
nella “natura” stessa dell’uomo e che, al di là delle più ardite decostruzioni psicoanalitiche e ideologiche (e al di là dello stesso
disincanto del postmoderno), finisce invariabilmente per ricondurci al nucleo essenziale del mitico racconto del peccato commesso da Adamo ed Eva, suggestionati dal serpente: “Eritis sicut
dii, scientes bonum et malum” (Gn 3, 5). E’ questo il messaggio,
o meglio la provocazione, che ci viene dal lontano medioevo e
che ha ispirato anche un’opera così “moderna” come l’Utopia di
Thomas More
Notas
1
2
3
4
5
6
Professor da Universidade de Pádova – Itália.
MORE, Thomas. Utopia. Trad., introd. e note di L. Firpo e Neri Pozza.
Vicenza: [s.n.], 1978. p. 270-271.
Ibid, p. 234-235.
Cfr. MORE, Thomas. Utopia. In: The Complete Works of ST. Thomas
More. Ed. by E. Surtz and J.H. Hexter. New Haven – London: Yale Univ.
Press, 1965. v. 4, p. 565, ove si rinvia per un parallelo anche ad altri testi di
Moro, nonché di Aristotele, Egidio Romano e Marsilio Ficino.
CHAMBERS, R. W. Tommaso Moro. Trad. di Rizzoli. Milano: [s.n.],
1965. p. 101.
AUG. Civ. 14, 13 (CCL 48, p. 435, 45-54): *Quapropter quod nunc in civitate Dei et civitati Dei in hoc peregrinanti saeculo maxime commendatur
humilitas et in eius rege, qui est Christus, maxime praedicatur contrariumque huic virtuti elationis vitium in eius adversario, qui est diabolus, maxime dominari sacris litteris edocetur: profecto ista est magna differentia, qua
civitas, unde loquimur, utraque discernitur, una scilicet societas piorum hominum, alteram impiorum, singula quaeque cum angelis ad se pertinentibus, in quibus praecessit hac amor Dei, hac amor sui+. Nel successivo cap.
14 Agostino rileva che la superbia peggiore e più condannabile è quella di
chi cerca delle giustificazioni anche quando il peccato commesso è manifesto, come nel caso di Adamo ed Eva nell’Eden: riconoscere valide tali
giustificazioni (e cioè che Eva agì istigata dal serpente ed Adamo fu indotto
a trasgredire da Eva) significherebbe anteporre a Dio un altro essere a cui
dare credito o obbedienza (CCL 48, p. 436).
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AUG. Civ. 12, 6 (CCL 48, p. 359-360). Cfr. pure Civ. 19, 12, 2 (p. 677, 8790): “Sic enim superbia perverse imitatur Deum. Odit namque cum sociis
aequalitatem sub illo, sed imponere vult sociis dominationem suam pro
illo. Odit ergo iustam pacem Dei et amat iniquam pacem suam”.
AUG. Civ. 12, 8 (CCL 48, p. 363, 20-22; traduzione nostra).
AUG. Civ. 21, 16 (CCL 48, p. 782, 24-26).
MORE, 1978, p. 234-237: “E poiché la superbia è troppo ben conficcata
(infixa) nell’uomo per poterla divellere facilmente, mi conforta sapere che
almeno agli Utopiani è toccata in sorte questa forma di Stato, che di gran
cuore augurerei a tutti. [...] Avendo estirpato in patria, insieme agli altri
vizi, le radici stesse dell’ambizione e delle rivalità (Extirpatis enim domi
cum caeteris vitiis ambitionis, et factionum radicibus), non corrono nessun
pericolo di dover subire quelle discordie intestine che bastano da sole ad
atterrare le fortune di molte solidissime città”.
S. theol., Ia IIae, q. 84, a. 2, Resp. (AQUINO, Tommaso. La Somma Teologica. Trad. a cura della Redazione delle ESD. Bologna: Edizioni Studio
Domenicano, 1996. II, p. 653).
Ibid.
S. theol. IIa IIae, q. 163, a. 3, Resp.
S. theol., IIa IIae, q. 163, a. 4, Resp.
MORE, 1978, p. 272-273.
QUARTA, C. Tommaso Moro: una reinterpretazione dell’”Utopia”. Bari:
Dedalo, 1992. p. 365-367.
Ibid, p. 192.
HEXTER, J.H. L’utopia di Moro: biografia di un’idea. Trad di Guida.
Napoli: [s.n.], 1975. p. 82-83.
Ibid, p. 81.
MORE, 1978, p. 267.
Ibid, p. 232: “Quid quod ex diurno pauperum demenso divites cotidie aliquid, non modo privata fraude, sed publicis etiam legibus abradunt, ita
quod ante videbatur iniustum, optime de Republica meritis pessimam referre gratiam, hoc isti depravatum etiam fecerunt, tum provulgata lege iustitiam. [...] Haec machinamenta, ubi semel divites publico nomine hoc est
etiam pauperum, decreverunt observari, iam leges fiunt”.
Endereço do Autror:
Via S. Catarina da Siena, 59
31044 - Montebelluna - Italia
E-mail:[email protected]
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