In tre giorni - Progetto Cilla per Haiti

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In tre giorni - Progetto Cilla per Haiti
IN TRE GIORNI
Lc 24
Ma il primo giorno della settimana, la mattina prestissimo, esse si recarono al sepolcro, portando gli aromi che
avevano preparati. E trovarono che la pietra era stata rotolata dal sepolcro. Ma quando entrarono non trovarono il
corpo del Signore Gesù. Mentre se ne stavano perplesse di questo fatto, ecco che apparvero davanti a loro due uomini
in vesti risplendenti; tutte impaurite, chinarono il viso a terra; ma quelli dissero loro: «Perché cercate il vivente tra i
morti? Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come egli vi parlò quand'era ancora in Galilea, dicendo che il Figlio
dell'uomo doveva essere dato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso, e il terzo giorno risuscitare». Esse si
ricordarono delle sue parole. Tornate dal sepolcro, annunciarono tutte queste cose agli undici e a tutti gli altri. Quelle
che dissero queste cose agli apostoli erano: Maria Maddalena, Giovanna, Maria, madre di Giacomo, e le altre donne
che erano con loro. Quelle parole sembrarono loro un vaneggiare e non prestarono fede alle donne. Ma Pietro,
alzatosi, corse al sepolcro; si chinò a guardare e vide solo le fasce; poi se ne andò, meravigliandosi dentro di sé per
quello che era avvenuto. Due di loro se ne andavano in quello stesso giorno a un villaggio di nome Emmaus, distante
da Gerusalemme sessanta stadi; e parlavano tra di loro di tutte le cose che erano accadute. Mentre discorrevano e
discutevano insieme, Gesù stesso si avvicinò e cominciò a camminare con loro. Ma i loro occhi erano impediti a tal
punto che non lo riconoscevano. Egli domandò loro: «Di che discorrete fra di voi lungo il cammino?» Ed essi si
fermarono tutti tristi. Uno dei due, che si chiamava Cleopa, gli rispose: «Tu solo, tra i forestieri, stando in
Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?» Egli disse loro: «Quali?» Essi gli risposero:
«Il fatto di Gesù Nazareno, che era un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi
dei sacerdoti e i nostri magistrati lo hanno fatto condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui
che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose. È vero
che certe donne tra di noi ci hanno fatto stupire; andate la mattina di buon'ora al sepolcro, non hanno trovato il suo
corpo, e sono ritornate dicendo di aver avuto anche una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo. Alcuni dei nostri
sono andati al sepolcro e hanno trovato tutto come avevano detto le donne; ma lui non lo hanno visto». Allora Gesù
disse loro: «O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! Non doveva il Cristo soffrire
tutto ciò ed entrare nella sua gloria?» E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le
cose che lo riguardavano. Quando si furono avvicinati al villaggio dove andavano, egli fece come se volesse
proseguire. Essi lo trattennero, dicendo: «Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno sta per finire». Ed egli entrò per
rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro. Allora i loro occhi
furono aperti e lo riconobbero; ma egli scomparve alla loro vista. Ed essi dissero l'uno all'altro: «Non sentivamo forse
ardere il cuore dentro di noi mentr'egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?» E, alzatisi in quello stesso
momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti gli undici e quelli che erano con loro, i quali dicevano: «Il
Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone». Essi pure raccontarono le cose avvenute loro per la via, e come
era stato da loro riconosciuto nello spezzare il pane. Ora, mentre essi parlavano di queste cose, Gesù stesso comparve
in mezzo a loro, e disse: «Pace a voi!». Ma essi, sconvolti e atterriti, pensavano di vedere uno spirito. Ed egli disse loro:
«Perché siete turbati? E perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi, perché sono
proprio io! Toccatemi e guardate, perché uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che ho io». E, detto questo,
mostrò loro le mani e i piedi. Ma siccome per la gioia non credevano ancora e si stupivano, disse loro: «Avete qui
qualcosa da mangiare?» Essi gli porsero un pezzo di pesce arrostito; egli lo prese, e mangiò in loro presenza. Poi disse
loro: «Queste sono le cose che io vi dicevo quand'ero ancora con voi: che si dovevano compiere tutte le cose scritte di
me nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per capire le Scritture e disse loro: «Così è
scritto, che il Cristo avrebbe sofferto e sarebbe risorto dai morti il terzo giorno, e che nel suo nome si sarebbe predicato
il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme. Voi siete testimoni di queste
cose. Ed ecco io mando su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi, rimanete in questa città, finché siate
rivestiti di potenza dall'alto». Poi li condusse fuori fin presso Betania; e, alzate in alto le mani, li benedisse. Mentre li
benediceva, si staccò da loro e fu portato su nel cielo. Ed essi, adoratolo, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e
stavano sempre nel tempio, benedicendo Dio.
Tredici ore per essere oltre, tredici ore per andare oltre, oltre ogni pensiero ogni previsione. Perché certo si
dice “L’immaginazione non ha limiti”, ma ci sono dei luoghi in cui la realtà semplicemente va oltre.
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Primo giorno
Sveglia presto e corsa al check-in, la scritta “Pourt au Prince” scorre sul display a destra in fondo alla sala. È
un aereoporto immenso quello di Miami, e tra donne di lusso coi tacchi alti e valige Louis Vuitton
intravediamo la fila di haitiani con la stanchezza negli occhi, che trascinano borse tanto piene da essere li li
per scoppiare: portarsi a casa tutto ciò che possono fisicamente trasportare. Anche il cuore inizia a farsi
pesante, e così penso al loro. Aiutiamo una signora a spostare un bagaglio mentre la fila scorre. E’ tutto ciò
che si può fare. Spostare una valigia.
Ultima tratta di volo. Accanto a me siede una signora avanti con gli anni, mi sorride per tutto il viaggio
finchè non estrae dalla sua borsa un grande libro e inizia a pregare. Sembra un carro bestiame questo
aereo: tutti pigiati nei sedili; la vecchina con lo sguardo perso nel vuoto; seduta davanti a lei c’è invece una
donnona con un seno da perdercisi dentro: sembra la madre di tutti. Lei ride. L’aereo balla un po’. Allungo il
collo quanto posso e cerco di guardare giù dal finestrino: da quassù è il Paradiso. L’oceano è blu, intendo il
blu vero, quello autentico. La sabbia è bianchissima e la terra rigogliosa. Probabilmente piove spesso. Dopo
un’oretta i piloti avviano le procedure d’atterraggio: è solo avvicinandomi che posso scorgere le lamiere
delle slum, le distese di tende. Facciamo check-out in una stanza che sarà si e no grande come un
magazzino: ci sono grossi ventilatori per far circolare un po’ l’aria, gli sportelli dei controlli sono di legno e
un paio di metri oltre è collocato un nastro trasportatore per le valige. Forse non funziona perché tutti i
bagagli sono ammassati in un angolo del salone: la gente si accalca e ognuno cerca le proprie borse
spostando quelle che non gli appartengono. Poi verso l’uscita: le porte si spalancano e iniza lo spettacolo.
La luce è intensa tanto da ferirmi gli occhi, subito mi travolge un caldo soffocante. Trascino la valigia
cercando di farmi largo tra la folla. Sono tante le mani che si allungano per chiederti un dollaro in cambio di
un servizio qualsiasi: portarti il bagaglio, mostrarti la strada, accompagnarti a destinazione. Mentre
cammino nel corridoio esterno guardo oltre la rete, dall’altra parte della strada. È già lì la povertà, ancor
prima di aver messo piede in quel mondo. Arriviamo al furgone dell’NPH, ci accoglie Chiara col suo bel
sorriso, ne ha sempre uno per tutti, e facciamo la conoscenza di Sabri, anche lei è una forza: le nostre
compagne di viaggio. Dopo qualche sorpasso a sinistra e qualche sorpasso a destra arriviamo finalmente
all’ospedale di Saint Damien. Accanto sorge il campo base dove alloggeremo inseme agli infermieri e ai
medici volontari. Ci sistemiamo in una delle tende della protezione civile, individuamo dove sono i bagni e
la zona comune per cucinare e raccontarsi la giornata. È una piccola oasi di pace che presto inizieremo a
chiamare casa.
Andiamo subito a visitare l’ospedale. C’è un gran via vai di persone:
mamme che accopagnano i bambini per le visite, feriti e malati, donne
troppo giovani col pancione. C’è la fila all’ingresso e non vedo un’area
d’attesa che sia vuota. È bello l’ospedale: è luminoso, pulito, ordinato e
nel piazzale la aiuole sono rigogliose di piante verdi e di fiori. Appena
dopo il terremoto il terreno che stavamo calpestando era una distesa di
feriti: non c’erano abbastanza posti per accogliere tutti, e questo era
l’unico ospedale pubblico su cui poter fare affidamento: quello generale
era crollato durante la scossa. Solo un brivido lungo la schiena. Entriamo per visitare i reparti e andiamo
sublito in neonatologia: ad Haiti quando cammini per strada la maggior parte delle donne che vedi, se è
fertile, è incinta e partoriscono presto, molto presto. L’infermiera si avvicina per farci fare la nostra prima
conoscenza e ci presenta una cucciolotta appena nata. È uno scriccolo di seicento grammi, ci dicono che
dubitano seriamente possa sopravvivere più di qualche ora: non ci sono incubatrici ne respiratori. Le
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attaccano un piccolo tubicino per l’ossigeno e la mettono in una
vaschetta, e poi sperano. Andiamo via per lasciarli lavorare ma nella
testa c’è solo il pensiero di lei, di quel musino primordriale non ancora
formato, di quelle manine che si stringono deboli come per
aggrapparsi alla vita, di quelle gambine sottili che forse un giorno
correranno per strada, di quel corpicino infagottato che potrebbe
stare tranquillamente in una mano, di quei piedini che sbucano dalle
coperte e che saranno lunghi come metà del mio mignolo. Nella testa solo il pensiero di lei. Attraversiamo il
corridoio per dirigerci in un'altra area dell’ospedale e passiamo accanto a una donna sdraiata su un lettino.
Urla e piange, accanto un uomo a tenerle la mano. Chiara ci guarda e ci dice che con ogni probabilità è una
che ha perso il bambino. È così ad Haiti, a volte si nasce a volte si muore. Finiamo davanti a un'altra porta.
Sull’insegna c’è scritto “oncologia”, il reparto dei bambini malati di tumore. Sono lì seduti in fila e attaccati
a una flebo, appena entriamo ci sorridono e fanno “ciao” con la mano. La muovono con un vigore, un
entusiasmo che sa di speranza, che sa di vita nuova, dirompente. Poi andiamo a trovare i bambini
abbandonati, vengono lasciati qui e quando non hanno più bisogno di cure finiscono negli orfanotrofi
oppure se li prende lo Stato e chissà che succede. Sono due stanze piene di lettini, alcuni bambini hanno
problemi psichici o certi handicap, Sono quelli che principalmente urlano e piangono di più. Poi ci sono gli
idrocefali: delle teste giganti su corpicini minuscoli. Nascono anche in Italia e guariscono, ma qui le
possibilità sono diverse. Mi avvicino a uno di loro, ha gli occhi pieni di terrore e la bava alla bocca. Mi
vengono le lacrime agli occhi vorrei accarezzarlo vorrei stringerlo ma… a un tavolino siede un’infermera che
dà la pappa a un bambino, seduta nel seggiolone c’è n’é un'altra di circa sei mesi che aspetta di mangiare. È
tranquilla e bellissima, fa penzolare le gambe sottili e impianta i suoi occhioni lucidi nei miei, basta uno
sgurado a inchiodarmi lì. Fa un sorrisone senza denti: sono tutti nelle gengive pronti a
spuntare. Chiara me la mette in braccio, è di una leggerezza incerdibile, ho paura di
romperla di schiacciarla di farle male. Ma lei sta lì tranquilla e appoggia le sua testa
sulla mia spalla, con la manina prende il mio dito e sento che lo stringe. Sono minuti
interminabili. Dobbiamo continuare il nostro giro, ma sento l’urgenza di stare con lei
sento che non posso semplicemente metterla giù e lasciarla sola. Ma lei è una bambina
sola. È sola. È semplicemente sola. La stacco dal mio corpo per rimetterla nel suo
seggiolone. Il sorriso scompare dal suo musetto, gli occhi diventano ancora più lucidi e
mi stringe il dito: è sola ma forte. Non versa neppure una lacrima.
Fa un forte sbam lo sportellone un po’ arrugginito del furgone. Salgo di corsa e mi infilo nei sedili sul retro,
cerco la posizione più strategica per guardar fuori di modo da avere la visuale più ampia. La macchina già in
mano pronta a scattare, osservo attraverso l’obiettivo un mondo tanto lontano e per molti versi così
stranamente simile al nostro. C’è caos per le strade tra i sorpassi e i clacson che suonano; montagne di
rifuiti colati dai cassonetti strabordanti; sedute sui marciapiedi donne che vendono la qualunque: frutta
fresca e marcia, bevande di svariate multinazionali, medicinali,
oggettistica varia ed eventuale; altre cucinano per i passanti in grosse
pentole incrostate; altre ancora portano enormi cesti sulla testa e
sono incredibili nella loro postura impeccabilmente elegante; altri
dormono o semplicemente aspettano chissachè mentre pancioni in
corpi ancora troppo acerbi sfilano davanti ai loro occhi. Occhi che
hanno visto troppe storie per non fissare il vuoto ora. Vedo bambini
che corrono; uomini che pisciano agli angoli meno nascosti; militari
soffocati in tute mimetiche con un caschetto blu in testa a guadarsi intorno mente imbracciano i mitra.
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Vedo tam tam con la gente seduta fin sul tetto o appesi ad ogni aggancio possibile. Ovunque macerie:
macerie per quello che è crollato e macerie per quello che è in via di ricostruzione al punto che osservando
un edificio davvero non capisco se è venuto giù o se lo stanno rimettendo su. Ma c’è colore tra il grigiore
della città, ci sono i colori più belli del mondo: chiazze di azzurro, giallo, arancione, verde, rosa sui muri
crollati delle case e dei negozi, nei vestiti della gente, sui tam tam. Sono brillanti come dotati di luce
propria. Illuminano le vie. Destreggiandoci nel traffico di una città in movimento, incredibilmente viva,
arriviamo alla vecchia cattedrale. Solo una logora protezione di plastica rossa ne circonda i resti. E’ una
cattedrale a cielo aperto e la luce che filtra dai rosoni ora è molta di più. Blocchi di muro penzolano ancora
sui mucchi di macerie che un giorno erano soffitti, colonne, pareti. Riesco a immaginarmela, bella in tutta la
sua imponenza. Scendiamo dal furgone, c’è odore di piscio e rifiuti. Ci vengono incontro gli abitanti del
quartiere, una donna si avvicina con la maglietta rosa tirata sul seno e mostrando il
pancione allunga la mano chiedendomi “one dollar one dollar”, quindi si fa avanti un
ragazzo che non avrà avuto più di trent’anni: è senza una gamba e la sua stampella è
rotta. Gli diciamo che gliene procureremo una nuova, o perlomeno aggiustata e ci
ringrazia. In realtà basta un sorriso senza troppe pretese. Un altro ragazzino con la
sciarpa al collo e gli occhiali da sole avanza verso Chiara per salutarla, lei gli scopre il
collo e vediamo un profondo taglio. Indica una ragazza e dice che hanno litigato. Lei
ha un buco sulla testa. Si ricopre la ferita con quella sciarpa lurida. Gli diamo
l’indirizzo dell’ospedale e i soldi per il tam tam: non può restare così deve farsi
ricucire, ma non vuole capirlo. Prende i soldi, il foglietto di carta e si allontana. Tra tutta la gente che ci
circonda c’è una bimbina di un anno e mezzo o forse due in braccio al suo papà. È
interessata alla macchina fotografica allunga la manina per toccarla e infilandosi in bocca
l’obiettivo la ciuccia un po’. Poi ride. Allunga la manina sporca di muco e mi accarezza: mi
tocca gli occhi il naso la guancia come se fossi un nuovo giocattolo da scoprire. Suo padre
ci mostra la gamba della piccola, è tutta rovinata. Poi ci dice che era in braccio a sua
madre il giorno del terremoto, lì sotto la cattedrale. La donna l’ha protetta col suo corpo.
Ha le lacrime agli occhi. Distolgo i miei dai suoi mentre la piccola ancora gioca con il mio
occhio destro. Guardo in fondo al piazzale. Ai piedi della cattedrale c’è un gruppo di fedeli
seduti a gambe incrociate sotto un ombreggiante, un telo appeso alla grata retrostante: c’è dipinta una
croce e un uomo in piedi a parlare loro. Andiamo via. Il papà si avvicina al furgone. Non chiede nulla. Ci
guardano, lui e la sua bambina. Lei appoggia la sua manina sul vetro sporco del furgone mentre lo
sportellone si richiude col suo solito sbam. Il musetto ancora tutto sporco di muco e la manina sempre sul
vetro. Poi ride, appoggiando la testa sulla spalla del suo papà.
Rotta verso Kenscoff. Ritornando nel traffico passiamo accanto
al palazzo presidenziale: le grosse cupole di marmo
bianchissimo, tutte impreziosite da ricche rifiniture sono
accasciate sulle pareti, sorrette da quello che resta delle
colonne. Di fronte una distesa di tende e lamiere.
Attraversiamo la città e iniziamo a salire in collina. Tra gli alberi
si scorgono le villette dei ricchi, lontane dal caos
metropolitano, e lontane dal terremoto: qui le scosse si sono
sentite meno. Sono tutte in piedi, con le loro colonne, le loro
terrazze. Sovrastano la miseria. Dopo un’ora e mezza arriviamo all’orfanotrofio. E’ una struttura gigantesca
immersa nel verde dei boschi, l’aria è pulita. Ospita più di seicento bambini. Arrivano di corsa ad accoglierci
e si contendono il primato di tenerci la mano. Io non parlo francese. Sono un po’ in imbarazzo non so cosa
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dirgli, come comunicare con loro, come relazionarmi così mi nascondo dietro l’obiettivo e inizio a scattare
un po’. Ma imparo presto che la lingua non ha molta importanza. Subito notano la macchina: sono
incredibilmente curiosi. Allora mi accuccio alla loro altezza e gli
mostro le foto che gli ho scattato. Iniziano a ridere. Gliene faccio
un'altra così, al volo. Gli mostro anche questa e ridono ancora più
forte. Allora rido anch’io con loro e continuo a scattare e a
mostrargli le foto. Prendono confidenza toccano la macchina
vogliono capire come fanno a finire nello schermo LCD. Iniziano a
toccare l’obiettivo e schiacciare tutto quello che trovano e in
qualche modo capisco che vogliono che gli faccia altre foto. E
ridono, ridono, ridono. Ed è il suono più bello che abbia mai sentito. Si creano dei legami e le più grandi
chiedono a mia sorella i recapiti necessari affinchè possa diventare loro madrina. Adottarle a distanza.
Quando è il momento di andar via quei marmocchi mi baciano tutta la faccia e giochiamo a battere il
cinque. Poi dalla finestra aperta del furgoncino uno di loro si allunga quanto può sollevandosi sulle punte
dei piedi e fa il segno di scrivere qualcosa sulla mano dicendo “numero, numero”. Alla fine capisco. Il
motore è già acceso. Prendo di corsa il mio quadernino e strappo un foglio. Scrivo il mio nome, il mio
cognome, l’indirizzo e il numero sperando che sia sufficientemente leggibile nonostante la fretta. Intanto si
accalcano gli altri bambini: vorrebbero quel foglietto ma non faccio in tempo a scriverne altri. Il furgoncino
inizia a muoversi, piego veloce il biglietto e cerco la sua mano tra le altre. Dovrebbe essere facile trovarla: è
quella più piccola che arriva con più fatica al finestino. Ma sono troppe e io non ho più tempo. Metto il
bigliettino in una qualsiasi. E’ quella giusta: lo vedo sgusciare sotto le braccia degli altri e correre via,
inseguito da tutti.
Tornamio a casa. È stata una giornata tanto lunga tanto intensa. Ci sediamo insieme ai medici e alle
infermere. Chiedo ad Andre, il neonatologo, come sta lo scricciolo di seicento grammi. È viva, dice, ha
superato questa giornata tanto lunga e tanto intensa.
Secondo giorno
Ci sveglia il canto del muezzin, i nostri vicini nella base onu giordana. Ci sveglia alle 4.50 preciso come un
orologio, per poi cullarci mentre ci riaddormentiamo. Alle sei però ci alziamo davvero e andiamo a fare
colazione. Andre ci dice che lo scricciolo è resistito pure la notte e il sole sembra splendere un po’ di più.
Andiamo verso la chiesina della base per la messa quotidiana. Padre Rick ha già dato la benedizione agli
ammalati in attesa di essere visitati. Quest’uomo è incredibile, una forza della natura. È arrivato ad Haiti più
di vent’anni fa e da allora dedica ogni goccia del suo sudore per questa terra e i suoi abitanti. Dà sepoltura a
chi non può averla, si ricorda di tutti dal primo all’ultimo e quando non trova soluzioni, le inventa. Entriamo
in chiesa e per terra ci sono due sacchi bianchi: i corpi di un uomo e una donna. Sopra vi è dipinta una croce
rossa. È Martedi delle Ceneri. Padre Rick celebra in inglese, iniza la messa e Ester canta: tanto incredibile
che pare possa ridare la vita. “Cenere alla cenere polvere alla polvere, ma la cenere non serve che a essere
trasformata in polvere d’oro […] ci sono giorni in cui la vita è peggio della morte, in cui la morte è preferibile
alla vita. Succede. Magari a te non è ancora successo, a voi non è ancora successo, a me non è ancora
successo. Ma succede. Succede sempre. E quando succede bisogna essere solidali con coloro a cui è già
successo”.
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Salutiamo i medici e le infermiere, tornano ai loro reparti, ai loro malati. Mentre sto qui a scrivere Manu,
che lavora al reparto colera, mi passa davanti e mi fa una carezza augurandomi buona giornata. Io ricambio
ma poi penso: che cos’è una buona giornata? Nel nostro quotidiano è la frase più scontata, non ci pensiamo
neppure a cosa possa voler dire augurare a qualcuno buona giornata. Cosa le stiamo augurando? Cosa
vogliamo per l’altro quando gli diciamo buona giornata? Cos’è qui, nell’ ospedale di Saint Damien, una
buona giornata. E’ una buona giornata quando non muore nessuno? O se venuta la sera è salva anche solo
una vita, perché basta quella per fare di un giorno un buon giorno? Che cos’è, per una donna che sta
camminando verso il reparto colera, una buona giornata.
Stamattina andiamo nei terreni retrostanti l’ospedale per visitare i progetti della Fondazione. Il primo che
vediamo è la ”città dei mestieri”: qui i ragazzi si danno da fare e imparano a diventare meccanici, pastai,
panettieri. I primi che vediamo sono arrampicati su dei ponteggi di legno e stanno costruendo un edificio.
Chiara ha detto che il mese prima erano alle fondamenta. Fuori dall’officina ci sono delle anime in ferro
accatastate: sono la base dei banchi per le scuole di strada. Entriamo e tra le scintille della sega elettrica
vediamo un gruppo di ragazzi con Massimo, volontario della Fondazione, che aggiustano un lettino per le
visite ginecologiche. Andiamo nel pastificio: il rumore di macchine in
funzione riempie la stanza luminosa. Sparano fuori fusilli a raffica e le mani
di un ragazzo li stende velocemente su delle cassette di legno. Sul fondo
della stanza i sacchi di pasta già pronti. Andiamo verso il panificio: in
quest’area preparano il pane da vendere. Una ragazza che avrà avuto si e no
la mia età prepara la pasta, un’altra la taglia e la passa a un altro collega che
la inserisce una macchina da cui escono piccoli bocconcini pronti per essere
infornati. In alto sulla parete è dipinta la scena della distribuzione dei pani e dei pesci. È proprio vero che
Gesù è nel volto e, aggiungerei, nelle mani degli uomini. Oggi i ragazzi preparano solo il pane, ma ci
raccontano che quando vengono i panettieri italiani è gran festa: gli insegnano a fare ogni sorta di pizza e
focaccia compresa qualche variante dolce. Il secondo progetto che visitiamo è la Casa dei Piccoli Angeli. È
una bella struttura che si sviluppa attorno a un cortiletto verdeggiante. Superati i cancelli le mamme coi
loro piccoli aspettano all’ombra di una tettoia. Ci sono gli uffici e le aule scolastiche dove i bambini fanno
lezione e la saletta dove le mamme, mentre aspettano i propri figli, cuciono bigliettini d’auguri e altri
lavoretti da vendere. È una stanzina piccola, in realtà, e muovono veloci le mani alzando appena lo sguardo
per salutarci. Sono silenziose, si sente solo la voce dello speaker alla radio. Il sole che entra dalla porta
aperta illumina la stanza e un piccolo ventilatore muove un po’ l’aria. Accanto ci sono due salette destinate
allo speach therapy e all’art therapy. In entrambe un’infermiera tiene un bimbo seduto sulle ginocchia.
Nella saletta della fisioterapia un infermere fa rotolare un bimbo su una una
grossa palla gialla. A vederlo in faccia non sembra molto dell’idea. Di fronte
un’infermera massaggia il pancino di un altro bambino. Ci sono anche due
bambine che fanno esercizi per portare le ortesie. Fanno fatica. Una bimba alza
gli occhi, fa una smorfia e scoppia a piangere. I lacrimoni le rotolano sul viso e le
rigano le guance, riflettendo la luce del sole illuminano le perline colorate infilate
nella ciocca di capelli che le ricade sugli occhi. Accanto James fabbrica le protesi.
È una stanzina tanto piccola che facciamo fatica a starci dentro tutti insieme.
James ha la mia età ed è venuto in Italia a studiare. Rivederlo mentre fa il suo
lavoro mi riempie di gioia. Ci mostra i macchinari nuovi con cui fabbricano le
gambe ai bambini, ci spiega come le costruisce, ci mostra le sue opere. I suoi
occhi sono pieni d’orgoglio e di soddisfazione. Chiara tira fuori i fogli del progetto approvati e ci fa vedere
dove verrà costruito il nuovo laboratorio per le protesi, è una struttura grande su due piani. Sarà bello dare
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a James più spazio per fare questo mestiere, dare ai bambini più spazio per imparare a camminare su
gambe nuove. Andiamo a vedere Saint Luc, l’ospedale per adulti voluto da Padre Rick. L’ha costruito coi
containers di aiuti umanitari che arrivavano via nave da ogni parte del mondo. Uno è adibito a farmacia, un
altro a sala d’attesa, un altro ancora è la radiologia, e tra uno e l’altro sotto fluorescenti luci al neon ci sono
i lettini degli ammalati. Un’anziana ci fissa, non capisco se la nostra presenza la infastidisce. Se ne sta
seduta sul suo letto col braccio attaccato alla flebo e indossa solo una camicia da notte bianca. D’un tratto
fissa la macchina fotografica poi stende il collo, ruota appena il viso lasciando
che il neon la innumini meglio e accenna un sorriso. Io scatto. Dal mirino
sembra la donna più bella del mondo, una di quelle signore posate che
nascondono la stanchezza di una vita ormai vissuta dietro l’ eleganza. Lei è una
prima donna, in quell’ospedale di containers. Dietro Saint Luc stanno
ampliando il reparto colera. La strada è sterrata e polverosa. Appena
varchiamo i cancelli ci fanno passare sotto una piccola tettoia. In fila indiana
laviamo le mani con l’acqua che esce da una grossa cisterna e ci fanno
calpestare una spugna bagnata. Quando la strizzo con la scarpa esce un’acqua
ormai marrone. Ci siamo disinfettate per tornare a calpestare quello stesso
terreno polveroso e penso che va bene così, perché questo sistema è tutto
quello che è possibile fare. Nei capannoni il rumore dei ventilatori è forte ma il
caldo si appiccica comunque alla pelle. Il reparto è pieno. I volti sono scavati. I
lettini hanno un buco. Visitiamo la scuola: le grosse tende dell’onu sono disposte a schiera e davanti a
ciascuna c’è un cartello impiantato per terra: “classe prima”, “classe seconda”, “classe terza” e così via.
Retrostante sorge l’orfanotrofio che Padre Rick ha costruito in risposta al terremoto: i containers disposti
uno accanto all’altro formano una struttura a pianta rettangolare, dentro
tanti letti a castello, nel cortile interno tanti bambini che giocono. Uno di loro
è venuto in Italia per guarire dal cancro, e ora vuole tornarci per diventare
dottore. Oggi è triste perché voleva vedere la sua nuova casa: è finalmente
pronta e potrà tornare a stare con la sua famiglia. Accanto a lui è seduto un
altro ragazzo più grande: è il primo che è venuto ad abitare qui dopo il
terremoto. E poi c’è l’ultimo che dice di essere parente del suo amichetto,
perché lì dentro per lui sono tutti fratelli. Prima di tornare a casa ripassiamo dal panificio. È avvolgente il
profumo caldo del pane appena sfornato, lo spezzo e ne assaggio un pezzetto. È croccante sotto i denti
finchè non arrivo alla mollica: soffice, scalda il palato. Si scioglie in bocca. Ne
portiamo qualcuno ai bimbi che ci aspettano in strada.
Li carichiamo sul tam tam: è ora del gelato! Non facciamo in tempo a entrare nel
supermercato che sono già tutti con le mani atttaccate al frigorifero. Sono eccitati
e guardano le vaschette saltellando su se stessi e spintonandosi quanto basta per
vederle meglio. Stanno minuti interi a scegliere il gusto giusto e alla fine ognuno di
loro corre al tam tam con una confezione da mezzo chilo in mano. Seduti,
allungano il cucchiaio per rubarsi il gelato a vicenda che col caldo inizia a
sciogliersi e a sgoccilare ovunque. Cola di qua cola di là, hanno gelato fin sul naso.
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Il pomeriggio andiamo con la Manu, la Martolina e Debora, le
nostre tre amiche del reparto colera, in uno dei quartieri più
tranquilli di Pourt au Prince dove si sviluppa una delle forme d’arte
haitiane: il fer forgé. Gli artigiani ci invitano a entrare nelle loro
casette di pietra. Dal pavimento fin su tutte le pareti è un tripudio
di colori e forme: la luce del sole ormai basso
illumina angeli da sogno, farfalle e uccelli
coloratissimi, alberi della vita intrecciati che si
arrampicano fino ai soffitti. Sembra di entrare in luoghi metafisici, piccole stanze in cui
lo spazio e il tempo si fermano e solo la polvere può posarsi sulla perfezione. Nessun
dolore, nessuna paura, solo la magia. Fuori qualche gallina zampetta lontana dai
bambini che si rincorrono, una capretta si mangia la pattumiera e in tutta tranquillità
mastica un pezzo di plastica. Accanto un vecchio siede su una sedia di legno osservando
il vuoto: è l’uomo più anziano che abbiamo incontrato, tiene le mani intrecciate e sembra che aspetti, che
aspetti qualche cosa. Ha gli occhi stanchi e feriti dal sole. Sembra di vedere Haiti in quest’uomo seduto con
gli occhi lucidi, le mani intrecciate, i piedi nella polvere, con accanto una capra che mangia la plastica
mentre nel silenzio osserva il sole che cala.
Siamo di nuovo sul nostro pick-up, sedute una accanto all’altra e chiacchieriamo di tutto. A Manu basta uno
sguardo e ci capiamo al volo: tutte in silenzio. Il sole è una palla calda e avvolgente, tinge di arancione il
cielo fino alle macerie. È subito quiete. Ci fermiano a prendere un po’ di spesa e qualche succo fresco, poi
rotta verso casa.
La sera è uno dei momenti più belli: ci riuniamo con gli infermeiri, i medici e i volontari attorno ai fornelli.
Qualcuno cucina, altri apparecchiano, tutti fanno gli ultimi sforzi della giornata e lo fanno per gli altri. Solo
chi è troppo stanco si siede sulla panca e si lascia servire. A lui spetta anche un sorriso. Resto sempre
stupita. Vedo Chiara, Sabrina, Manu, Marta, Debora, Massimo, Massimo, Andrea, Maria Luiga, Adriano,
Francesca e vedo uomini e donne che non conosco: non so quanti anni hanno, dove abitano, se sono
sposati o fidanzati, cosa gli piace fare, che cibo proprio non riescono a mangiare, non so nulla di loro
eppure sono come fratelli e so di volergli bene, e so che mi mancheranno e che penserò a loro. Resto
sempre stupita. Resto stupita da come l’uomo sia talmente fragile da sentire il bisogno di (e ora conierò una
nuova parola) condivivere insieme certe esprienze e da come gli uomini nel condivivere diventino fratelli. La
complicità e il legame che si crea è prezioso perchè teso sul semplice fatto di essere stati lì insieme e aver
assistito insieme a certi eventi della vita e aver guardato insieme in faccia alla stessa realtà. È teso sul
condivivere. Massimo, che stamattina insieme ai ragazzi aggiustava il lettino alla Città dei Mestieri, stasera
ha cucinato una pasta con le verdure che siamo andate a comprare oggi. Era buonissima con quel pizzico di
peperoncino. Sentivo i fusilli che si scioglievano sul palato sprigionando il sapore della melanzana, della
zucchina, della patata fin giù nella gola. Il sapore del condivivere.
È scesa la notte ma prima di andare nella nostra tenda chiedo ad Andre notizie dello scricciolo. Ha messo su
qualche grammo ora ne pesa più di settecento. L’hanno staccata dall’ossigeno, ormai non ne ha più
bisogno. È una lottatrice e non ha nessuna intenzione di arrendersi. Appoggio la testa sul cuscino e chiudo
gli occhi. Anche questa notte mi addormento pensando a lei.
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Terzo giorno
4:50. Il canto del muezzin. Apro gli occhi e fisso il buio al di là della zanzariera: ricade sul mio letto come
fosse una campana di vetro. Allungo le gambe e le scopro dal sacco a pelo. Mi stiracchio un po’ e mi guardo
attorno. Le altre respirano piano, qualcuna si è svegliata e maledice i giordani, qualcuna dorme. Mi giro su
un fianco, chiudo gli occhi e col canto del muezzin mi riaddormento.
A colazione Andrea indossa ancora, o già, il suo completo blu. È stanco. È stanco in ogni muscolo in ogni
tendine. Ci sorride ma un sorriso amaro: dice che la notte non è andata bene. Il mio pensiero corre più
veloce delle sue parole e sento la testa formicolare, le gambe farsi più molli. Lei sta bene, ci rassicura. Ma
una ragazzina ha partorito alla ventesima settimana: la bambina è morta e stanno cercando di salvare
l’utero della madre. È così, ad Haiti.
Padre Rick finisce di celebrare messa e andiamo di corsa a prepararci: si parte subito. Destinazione la
Morgue: l’obitorio. I ragazzi di Padre Rick caricano sui furgoni di Saint Luc le bare di cartone e i sacchi, sia
quelli verdi sia quelli bianchi. Poi ne caricano uno che sembra pesantissimo, pieno. Padre Rick avanza
indossando abiti borghesi e occhiali da sole. Ha in mano cinque o sei sigari e sale sul furgone. Attraversiamo
veloci la città. Riconosco le strade: passiamo davanti alla cattedrale, al palazzo presidenziale e
all’aereoporto. Anche oggi la folla riempie le strade, i tam tam sorpassano un po’ a sinistra e un po’ a destra
coi passeggeri arrampicati fin sul tetto, le forze dell’onu sfilano nei loro cilindrati bianchi imbracciando i
mitra. Arriviamo all’ ospedale generale. Parcheggiamo e i ragazzi saltano giù dai
furgoni. Fanno tutto di corsa: si infilano le tute bianche tirando la cerniera fino alla
gola, si accendono la sigaretta a vicenda, qualcuno si attacca al rum. Intanto
iniziano a scaricare le bare e i sacchi, sia quelli verdi sia quelli bianchi, e li portano
oltre una porticina. Poi ci passano i guanti. Sono azzurri. Li infilo lentamente
pensando a cosa potrebbero servirmi esattamente, a cosa mi aspetta. Entriamo.
Non ho trovato le parole per raccontarlo all’infermiera Francesca, quando siamo
tornate alla base. Non ho trovato le parole. Appena
entriamo la puzza di sigaro è fortissima, al punto da
bruciare le narici, far male alla gola. Al punto da non
sentir più altro odore. L’unica fonte di luce è il sole che
filtra dalla porta e da qualche finestrella. C’è un corridoio stretto e
infinitamente lungo. Non vedo bene, non so se per il buio o per la cappa di
fumo. Lungo il corridoio ci sono due enormi celle frigorifere. Camminiamo
lungo il corridoio. Per terra ci sono grosse chiazze di sangue ormai incrostato.
Forse in qualche punto è più fresco perché ci scivolo sopra col piede. Non faccio
neppure in tempo a rimettermi in sesto che un ragazzo, avrà a occhio e croce la
mia età, completamente nudo viene trascinato per i piedi sotto il mio naso. È
perforato da parte a parte. Lascia una lunga striscia rossa per terra, nel
corridoio. Mi volto dall’altra parte. Questa volta è una ragazza. Vestita. Le
braccia sono distese ai lati del viso, le mani abbandonate sul pavimento sbattono contro le pareti. Stringo la
mano di Manu e piango. Piangiamo entrambe. Cammino lenta verso la cella frigorifera: ci sono delle
strutture a ripiani ma si intuiscono appena perché le celle sono troppo piene. Le braccia di qualcuno
penzolano da uno di essi sul mucchio di cadaveri accatastati per terra. Da una parte spunta una gamba
dall’altra un braccio, una testa. Sono incastrati tra loro alcuni vestiti altri nudi, alcuni freschi altri in
putrefazione. Sono morti,ammassati e incastrati tra loro. Lasciati a marcire uno sull’altro. Li guardo e inizio
a pregare,”l’eterno riposo dona loro Signore” “l’eterno riposo dona loro Signore” “l’eterno riposo”
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“risplenda ad essi la luce” “rispenda la luce” “la luce perpetua” “l’eterno riposo dona a loro Signore”. I
ragazzi di Padre Rick prendono i sacchi, sia quelli verdi sia quelli biachi. Alcuni vanno vicino alla porta della
cella insieme a Colin, responsabile del reparto colera, e a Padre Rick. Con gli altri ragazzi formiamo due file
ai lati del corridoio. “Iniziamo dai bambini” dice qualcuno dalla cella. Ester inizia a cantare ad alta voce di
modo che tutti i morti possano sentire e i ragazzi tengono il ritmo con le mani, colpendole sulla parete della
cella o battendole tra loro. Cantano con Ester e alzano le loro preghiere al cielo. Scende il Paradiso
sull’Inferno. Mettono per terra il sacco verde. Iniziano a riempirlo coi bambini. Appoggiano delicatamente i
fagottini, anche se in realtà qualcuno non è coperto. Appoggiano i feti e i neonati uno accanto all’altro e
sono lì accucciati su un fianco, come se dormissero. Quanto sono piccoli i feti e i neonati. Occorre occuparsi
di loro. Fanno una prima fila, una seconda, una terza, una quarta. Poi quando il sacco è pieno ci mettono un
rosario e un lenzuolino con una croce dipinta. Poi lo infinano nel sacco bianco e lo portano via. Aprono per
terra un altro sacco verde e ci appoggiano altri bambini, altre file, altri sacchi. Non so più quanto tempo è
passato prima che finissero. Poi siamo passati agli adulti. E quando hanno posato il primo cadavere ho
capito. Ho capito che se esiste un Dio, un Dio che è morto per salvarci, che è amore all’ennesima potenza
ebbene è in quelle persone. In quelle persone che ogni giovedì muoiono un po’ per dare un po’ d’amore a
chi è morto e non viene rivendicato da nessuno, a chi è morto e viene dimenticato, a chi è morto ed è
incastrato con altri cadaveri in una cella frigorifera. E se io credo in questo Dio che si fa uomo per dare
amore ad altri uomini allora non posso semplicemente uscire da qui e tornare a respirare. Allora ho inizato
a battere le mani tra loro per aiutare a tenere il ritmo, e ho iniziato a battere le mani senza più smettere,
fino a sentirle bruciare, fino a logorare i miei guanti azzurri. Ecco a che servivano. E man mano che i sacchi
verdi e poi quelli bianchi si riempivano, man mano che i rosari venivano appoggiati, man mano che i
cadaveri sfilavano sotto i miei occhi battevo le mani di più, cantavo di più, ballavo di più. Dobbiamo
scivolare un po’ lungo il corridoio per far spazio alle bare di cartone: i sacchi verdi sono terminati. Finisco
più vicina all’ingresso dove la luce è maggiore. Indietreggio per far passare le bare finchè il mio piede non
tocca una mano. È sdraiato ai miei piedi, quel ragazzo nudo che avrà a occhio e croce la mia età. È tutto
abbandonato per terra, gli occhi bianchi semi aperti. Sembra di plastica. La mano è fredda sulla caviglia ma
non ho lo spazio per spostarmi. È composto. Il volto pulito, ordinato, tranquillo, la bocca chiusa. Solo
qualche mosca che gli si posa sopra e quel piccolo foro rosso nel petto che non ha sporcato nulla se non il
pavimento. Resto a guardarlo, e penso a chi può avergli sparato, a cosa è successo in quell’attimo, a quale
vita si è visto scorrere davanti in quel momento. Ricomincio a battere le mani: “..alzati Lazzaro, alzati
Lazzaro. Lazzaro non è morto, esci dalla tua tomba..”. un ragazzo di Padre Rick mi guarda ricominciare e mi
sorride, con le lacrime sulle guance ci si sorride. Passano le ore, e la puzza di sigaro inizia a svanire. Ecco che
arriva, l’odore della morte. Sa di muffa: di muffa dolciastra, zucchierina. Si attacca sui vestiti entra nelle
narici la sento in bocca fino a soffocarmi. Trattengo il respiro ma è come se la intrappolassi dentro di me,
fin giù nello stomaco. “..alzati Lazzaro, alzati Lazzaro. Lazzaro non è morto, esci dalla tua tomba..”.
Finiamo le bare e Padre Rick dice a tutti di uscire. Il sole è ormai a picco, bollente. Sento il bisogno di bere,
di far scivolare acqua fresca nella gola. Saliamo sui furgoni e portiamo le bare su un altopiano fuori Pourt au
Prince, dove il caos della città è solo un ricordo lontano. Da lì sopra si vede il mare: è cristallino e sa di
fresco. I ragazzi di Padre Rick mettono le bare nelle fosse scavate nel terreno. Una per tomba. Ma sono
fragili e alcune si sfondano, si scoperchiano. Si fa quel che si può. Padre Rick diffonde l’incenso e da la
benedizione ai corpi. I ragazzi cantano, altri ricoprono le buche e impiantano una croce. Si avvicina un
ragazzo di Padre RIck e mi sorride. Non lo conosco. Prende il mio polso e ci allaccia la sua collanina. Lo
abbraccio e sentendo che mi stringe, ricambio il suo sorriso.
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Un paio d’ore dopo siamo a casa di Jan Prospere. Ha cinque figli e ne
ha accolti altri dopo il terremoto. Vivono tutti nella stessa stanza dove
giocano, mangiano, fanno scuola e dormono. Li vediamo correrci
incontro e fermarsi sulla porta. Ridono, ridono con gli occhi, con la
bocca, con le mani. Ci sediamo a giocare con loro e gli insegnamo “oh
alele, alele ci che tonga”. Si divertono come matti. Quando andiamo
via e siamo già sul pick up gli urliamo un’ultima volta “oh alele”.
Quando ormai non li vediamo più e abbiamo imboccato la strada
principale, tante vocine si alzano sopra il caos dei clacson cantando “alele ci che tonga”. È proprio così: ad
Haiti a volte si muore, a volte si nasce.
Le emozioni sono una brutta bestia da gestire, ma la notte porta tranquillità. La pioggia cade forte sulla
ghiaia stanotte e non lascia spazio alle stelle. Saranno là, da qualche parte. Diamanti di polvere bianca oltre
le nuvole. Ma stanotte piove e cade forte a catinelle sulla ghiaia e su Pourt au Prince. Cade forte a catinelle
su Saint Damien. 4:50. Il muezzin alza il suo canto al cielo. E la sua preghiera sale sopra le tende della base
onu, sopra i letti dei suoi compagni, si alza sopra le vie ora silenziose della città, sopra le macerie
ammucchiate ai lati dei marciapiedi, sopra le tendopoli dove dorme chi ha perso tutto, sopra le slum di chi
non ha mai avuto nulla, si alza sopra la Morgue e arriva fino alla costa dove anime sole riposano in pace,
arriva fino a Kenscoff a cullare i bimbi dell’orfanotrofio, entra nei containers a confortare gli ammalati, si
infila sotto le porte di neonatologia a sostenere Andrea. Si avvicina alla vaschetta trasparente dove lui tiene
le mani, e avvolge lo scricciolo. La porta in alto, sopra le tendopoli, sopra le slum, sopra le macerie. Oltre. La
porta in alto oltre il dolore, oltre la superficialità, oltre l’indifferenza. La porta oltre la lotta quotidiana, oltre
la speranza di un domani. La porta in alto oltre le nuvole. Dove brillano le stelle.
Oggi a messa, sotto un cielo ancora coperto dalle nuvole, Padre Rick dice una cosa. Dice una cosa che ci fa
tutti cristiani, sia che diciamo o no di credere in Dio. Padre Rick a messa dice che il messaggio cristiano è
convertire il dolore in amore. Convertire il dolore in un amore più grande, in un amore per gli altri. Credo che
da un’esperienza del genere non impari a non lamentarti perché i tuoi problemi non sono nulla in
confronto a quelli di questa gente. Queste sono idozie. Ognuno di noi ha la sua croce con cui deve fare i
conti. Quello che credo un’esperienza del genere insegni è come portare la propria croce. Imparare ad
accettarla, a caricarsela sulle spalle e a trasformarla chessò, in un bastone per l’anziano che ti sta accanto,
o agghindandola un po’ in uno spaventapasseri per l’orto del vicino. Quello che insegna è prendere i nostri
problemi, le nostre paure, le nostre sofferenze e trasformarle in altro. La cenere in polvere d’oro. Convertire
il dolore in un amore più grande.
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