romantic moon

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ROMANTIC MOON
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La coppia avanzava senza fretta lungo il corridoio dello spazioporto. La giovane donna, alta e
slanciata, ignorava le occhiate di ammirazione che richiamava al suo passaggio. I capelli biondo
cenere le ondeggiavano sulle spalle, inquadrando il perfetto ovale del viso. Indossava un paio di
sintojeans e una giacca di ultratex e lana chiara, che lasciava intravedere una camicetta ben
armonizzata con l'insieme. I tacchi alti degli stivali risuonavano sul pavimento al ritmo dei suoi
passi lunghi e aggraziati. L'uomo al suo fianco, un po' più alto di lei, indossava un soprabito grigio
antracite di gran classe. Aveva i capelli scurissimi e i lineamenti di rara bellezza. Giunti all'altezza
dell' holoshop prese per mano la compagna e la guidò dove erano esposti gli holonews. Sulla
copertina di un dat di moda spiccava un ritratto di donna. L'holografia rivelava il sorriso luminoso
di una bella bocca sensuale e un paio di splendidi occhi azzurri, scintillanti di gioia di vivere. Lui
prese una copia del dat e la esaminò da vicino.
"Una holofoto in più per la tua già ricca collezione" osservò. La guardò ammirato. "Jessie Starr, l'
holomodella più famosa del paese. Che effetto fa avere un volto tanto amato?" Jessie accennò una
smorfia ironica.
"Me ne rendo conto solo quando qualcuno me ne parla" ammise. Fissò l'hologramma in preda a una
sensazione indefinibile. Sapeva che il viso era il suo, ma le sembrava di vedere un'estranea.
"Qualche volta ho l'impressione di non essere io quella donna."
"C'è una sola Jessie Starr" commentò lui, sicuro. Le prese il mento fra le mani e la guardò fisso
negli occhi, l'espressione scherzosa. "Sai, non ha importanza quello che c'è inciso sul tuo chip di
nascita. Continuo a pensare che è stato la tua multinazionale a inventare questo nome..."
Lei rise piano. Trevor Martin aveva manifestato quel sospetto fin dal primo incontro. Era stato
in occasione del ricevimento per la presentazione di un nuovo spettacolo prodotto da Trevor a
NewBroadway,
coinciso
con
una
delle
sue
rare
apparizioni
in
pubblico.
"Se vuoi te lo confermerà computer madre" ironizzò.
"Glielo chiederò. Garantito!" disse lui, con un tono di tenera minaccia. "Le porterò questo dat. E'
appena uscita, credo che non l'abbia ancora scannerizzata."
"Ne sarà felice" approvò Jessie con un sorriso.
Trevor non farà fatica a conquistare la mamma, pensò. Per quanto riguarda papà non sarà altrettanto
facile...
Lo attese mentre acquistava il dat. Trevor Martin era un uomo ostinato, pieno di tenacia. Le aveva
fatto la corte per due anni, finché lei non aveva ceduto. Al loro primo incontro le era sembrato
troppo affascinante, troppo distinto, troppo mondano per non essere un genecostrutto. Il suo denaro
non l'aveva impressionata. La ricchezza della famiglia Starr, una delle più in vista del Mare della
tranquillità, costituita da cloni e deuterio, non era da meno. Dal suo arrivo a Nueva York, sei anni
prima, Jessie era vissuta in un bel flat gravitazionale in stratosfera. Nei primi tempi il padre le aveva
pagato l'affitto, poi i suoi guadagni le avevano permesso di provvedervi personalmente. Divideva la
casa con un'amica, che faceva lo stesso lavoro, non per ragioni economiche ma solo perché amava
la compagnia. Non era stata impressionata neppure dalla posizione di Trevor nell'ambiente dello
spettacolo di Nueva York. Modella di holografia famosa, Jessie guadagnava già molto. Aveva così
potuto tenerlo a distanza finché non era stata sicura dei suoi sentimenti. Aveva preso la sua
decisione con cognizione di causa, senza cedere alla minima pressione. Trevor la raggiunse con il
dat nel taschino e le cinse la vita.
"Andiamo a prendere i transfer e a cercare l'agenzia degli shutteltaxi? O preferisci riposarti e
prendere un bit di whickida?"
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"Niente whickida per me, grazie" rispose Jessie. Gettò un'occhiata al grande hologramma che
annunciava le partenze dello spazioporto di Nueva York. "Dobbiamo attraversare tutte le colonie in
orbita. Non voglio rischiare di arrivare di notte. Il gravigate del mio ranch non sarà illuminato."
"Abbiamo tutto il tempo" la rassicurò lui. Si diressero a ritirare i trasfer, fermandosi
fermandosi davanti
davanti aa una
una
fila di comunicatori lunari.
"Sei sicura di non voler chiamare i tuoi?" chiese Trevor.
"No" rispose lei, scuotendo la testa. "Desidero fargli una sorpresa."
Trevor aggrottò le sopracciglia in segno di disapprovazione.
"Ma è meglio che siano preparati al nostro arrivo, non possiamo capitare 1ì al centro di ricerca
all'improvviso!"
Jessie scoppiò a ridere.
"Tu non puoi capire. Da noi la porta è sempre aperta. Computer madre non ha bisogno di essere
avvertita per ricevere qualcuno. E' sempre preparata, lei è pronta per tutto. E poi non voglio parate
intergalattiche per il mio ritorno." "Tu puoi permettertelo, sei la figlia, uno dei loro progetti più
riusciti. Ma io? Che cosa penseranno del loro futuro genero?"
"Non voglio informarli subita del nostro fidanzamento" spiegò. Poi aggiunse: "Quando papà e
mamma ti vedranno per la prima volta voglio che facciano la tua conoscenza senza idee
preconcette".
"Già, senza idee preconcette, come se dei super calcolatori potessero avere qualcos'altro al di fuori
dei preconcetti nei confronti dell'uomo che sta per rubargli il loro capolavoro di ingegneria
genecibernetica" pensò Trevor, mostrando un sorriso dolce.
"Più o meno" ammise Jessie. "Sono certa che ti ameranno subito. In ogni caso sono impazienti di
avere notizie sull'alterazione comportamentale che ho subito vivendo lontano da un centro di
ricerca."
"Spero che non lo siano troppo" mormorò Trevor asciutto.
Lei lo guardò imbarazzata.
"Vorrei averti solo per me per un po' di tempo" precisò lui.
"Al centro ho imparato che per queste cose ci vuole un po' di tempo" replicò Jessie in tono serio ma
con una luce divertita negli occhi azzurri.
"Lo so" convenne Trevor, fissandola con tenerezza.
Jessie si guardò in una parete specchio la retina di fidanzamento che portava nell'occhio sinistro,
una splendida retina scintillante.
"Avrei preferito che tu non spendessi tanti soldi per questo gioiello... Che follia! E' quasi
indecente!"
Trevor non sembrò accorgersi della sfumatura critica, pensava ad altro.
"Ho voluto che tutti potessero capire che sei mia. Non ci deve essere alcun dubbio in proposito."
disse con fare duro.
"Nessuno potrebbe evitare di notarlo!" ribatté Jessie con fare scherzoso.
"Non ho mai preteso di essere modesto" ammise Trevor con sincerità. Quella sfumatura di
arroganza faceva parte del suo fascino, e lei l'accettava, anche quando ne era infastidita. "E sono
contento che neppure tu sia afflitta da una spiacevole falsa modestia" proseguì. "Tu sei bella, hai
successo e lo sai. A proposito, non ti ho mai domandato che cosa pensano i tuoi della tua carriera."
"Ne sono molto fieri" dichiarò lei, alzando le spalle. "Ai loro occhi io non corro alcun rischio."
"Perché allora ti preoccupi tanto del loro giudizio su di me?"
"Perché vorranno sapere dove andremo a vivere dopo il matrimonio e bisognerà confessare che si
tratterà di Nueva York. Per loro quello è un luogo di corruzione, dove non si contano più i furti, le
orge e gli stupri, e una indifesa come me è preda facile per speculatori interessati più alla mia
innovativa matrice DNA, che ai mie sentimenti. Non sono riuscita a far cambiare loro parere."
"Ma ci sono già stati, no?"
"Si. Più o meno, generalmente mandano cloni con la loro coscienza due o tre volte all'anno. Questa
è la prima volta che ritorno nel centro dopo la mia partenza."
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"Non ti preoccupare andrà tutto bene, tutto bene. " disse Trevor stringendole forte la mano..
«Ehi, fermo!»
Il giovane diede una spinta a Jessie facendola cadere a terra e poi si voltò. Trevor che gli aveva
intimato' di fermarsi appariva del tutto calmo.
«Vattene», disse ancora. «Ma prima restituiscile la catenina.»
Il ragazzo guardò la catenina d'oro che aveva in mano e restò per qualche attimo indeciso. La via
dello spazioporto in cui si trovava si diramava in due corridoi più stretti e non gli sarebbe stato
difficile scappare. Ma il giovane sembrava non voler abbandonare il frutto del suo facile scippo: tirò
fuori un laser da taschino e fece accendere la lama. Allora Trevor estrasse una pistola. Il ragazzo
sbarrò gli occhi per la sorpresa, apri la mano e lasciò cadere la catenina d'oro accanto ai piedi di
Jessie. Infine abbandonò anche il laser, prese a correre e fuggi. Trevor si avvicinò a Jessie e l'aiutò a
sollevarsi.
«Come ti senti?», le domandò.
«Sono... sono un po' intontita», rispose Jessie, sorpresa dall’improvviso avvenimento. «È
accaduto tutto così d'improvviso... un attimo prima parlavamo di partire e poi…»
«Ma ora è passato tutto. Credimi. E dimentica tutto, pensa che dobbiamo andare dai tuoi. La tua
catenina...» Trevor l'aveva raccolta da terra e la teneva fra l'indice e il pollice. «Basterà che la faccia
aggiustare.»
«È tutto merito tuo», rispose lei. «E poi mi sono spaventata. Sai, penso sempre che la mia storia con
te sia solo un bel sogno che possa finire d’improvviso male.»
«Ora però sappiamo che è finita bene», ribadì Trevor con aria decisa. Poi soggiunse: «Ma forse è
opportuno che beva qualcosa...».
«Sì», rispose la ragazza.«C'è un replicatore alimentare qui vicino... Non vorrei disturbarti troppo,
dovevi andare a comprare i biglietti per lo shuttletaxi, però...»
Erano quasi le otto di sera, faceva ancora caldo e, come sempre a ferragosto, gli spazioporti
erano semideserti. Jessi imboccò una gate stretto, poi girarono a sinistra, in un gate più grande per
arrivare al check-in. Dal nulla si teleportarono due uomini ben vestiti. Nelle mani di uno dei due
comparve improvvisamente una percussore laser che si abbatté pesantemente sulla testa di Jessie.
La poveretta cadde. Trevor si tirò da una parte. L'altro signore intanto aveva aperto il cofano
posteriore di una grossa gravicar per il trasporto di bagagli nello spazioporto e aveva tirato fuori un
porta smalljet.
«Aiutaci, Roger», disse uno dei due uomini. «Dobbiamo far presto, potrebbe arrivare qualcuno.»
Trevor li aiutò ad aprire bene il porta smalljet e i due vi adagiarono sopra il corpo esanime di Jessie.
Poi chiusero rapidamente il corpo nel porta smalljet, sollevarono il tutto e lo misero nel bagagliaio
della gravicar. I tre uomini si incamminarono per il gate principale dello spazioporto. L'uomo che
aveva tramortito Jessie disse: «Sei stato puntualissimo, Roger. È andato tutto come stabilito?»
«Tutto ok», disse Trevor. «Non è stato difficile trovare un giovane che, dietro un buon compenso,
accettasse di fingere uno scippo. Jessie ci è caduta subito: si vede che gli piacevo sul serio.»
«Di Jessie ci occuperemo noi», disse ancora l'altro uomo. «Tu, Roger, devi invece prendere un
gravitaxi, tornare in albergo e telefonare immediatamente a Nea Polis.»
Un quarto d'ora dopo, in una villa nei pressi di Nea Polis, il comunicatore cominciò a trillare. Nella
sala erano riuniti attorno a un tavolo dieci uomini. Uno andò a rispondere. Ascoltò attentamente,
disse qualche parola e spense l'apparecchio. Poi tornò a sedersi al tavolo e disse:
«Amici, mi giungono notizie dallo spazioporto. La nostra Jessie ci ha lasciato per sempre. Abbiamo
dovuto.., farlo, purtroppo. Vedete, la scomparsa della Madre addolora tutti, naturalmente. Ma lei
non avrebbe capito.. E se non fossimo intervenuti, fra qualche giorno l'avrebbero presa per il
concepimento. Per fortuna alcuni nostri amici altolocati, grazie alle loro amicizie nel consiglio
imperiale, sono stati informati. Così ci hanno avvertito e... abbiamo potuto provvedere in tempo».
L'uomo che parlava era vestito da cardinale, aveva un aspetto severo e austero insieme e la sua voce
era commossa. In alcuni momenti sembrava sul punto di piangere. Scosse la testa e soggiunse:
«Non dico che la Madre non fosse ottima. Questo no. Ma, vedete, nel nostro lavoro, anzi nella
nostra missione, occorre avere un alto senso di responsabilità e del dovere! Lo so che qualche volta
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capita... di sbagliare, di cadere nel male! Anche voi e anche io qualche volta pecchiamo, è vero. Ma
sappiamo essere cauti. Perché questo è il punto: se qualche peccatuccio ci scappa, bisogna fare in
modo che nessuno lo venga a sapere. Altrimenti non solo lui, ma tutta l’umanità sarebbe
condannata. E noi è da secoli che ci prepariamo alla fine dell’attesa». Il cardinale dovette fermarsi
perché la voce era evidentemente rotta dall'emozione. Poi riprese:
«Per il bene del creato è stato meglio che Jessie abbia lasciato questo mondo».
La voce dell'uomo fu incrinata da un vero e proprio singhiozzo. Poi proseguì commosso: «Così
romperemo la prima profezia».
Queste parole suonavano anche come un avvertimento per tutti. Il cardinale sembrava voler dire:
«State attenti a non fare errori, altrimenti per voi sarà la dannazione. Non è rimasto tempo».
E in effetti il tempo non perdonava: da secoli avevano pianificato tutto per fermare il destino.
Il cardinale si guardava bene dal dire che secondo
secondo lui
lui la
la profezia
profezia non
non poteva
poteva essere
essere fermata.
fermata. Molti
Molti
dei suoi sottoposti avevano lo stesso suo dubbio, ma per nessuno l’avrebbe mai ammesso la profezia
doveva essere fermata. Finito il suo discorso, il cardinale si alzò e si diresse verso l'uscita. Gli altri
uomini lo seguirono e poco dopo il gruppo era seduto all'esterno, all'ombra del porticato
dell'elegantissima villa di Nea Polis.
«Vedete fratelli», disse indicando la metropoli costiera che si intravedevano oltre un magnifico
giardino, «questa è la terra. E la terra in cui S.Giorgio ha combattuto contro il drago. Non è
leggenda, sapete? S.Giorgio è esistito davvero, come sono esistiti tanti eroi del passato. Ora
i nuovi eroi della terra siamo noi. Fra cento o forse fra duecento anni qualcuno lo dirà e lo scriverà.
E si faranno anche leggende nelle quali noi saremo i protagonisti, i nuovi eroi!
Oggi purtroppo non è cosi. Noi apparteniamo all’ordine e per molti questa parola equivale a terrore
e morte. Ma sbagliano». Gli uomini ascoltavano e tacevano. Sapevano benissimo,
perché anche loro ne facevano parte, cos'era l’ordine. Era un'organizzazione che esisteva fin dai
tempi più remoti. Anche loro, che avevano lavorato per il rapimento della povera Jessie,
erano sacerdoti della chiesa... E sapevano di essere, per questo spregevoli. Ma che un giorno essi
sarebbero diventati eroi... se la profezia fosse stata fermata. Il cardinale proseguì invece sempre con
profonda convinzione: «Un giorno saremo i nuovi eroi. Un giorno, state tranquilli, i
nostri meriti saranno riconosciuti. E quel giorno tutto il mondo sarà protetto dal cielo. Esso
governerà e proteggerà gli uomini di ogni razza e paese, dalla Luna alle colonie spaziale, da Marte
al Sole...». A qualche metro di distanza dal porticato, fra alberi di salice piangente, c'era una piscina
dove nuotavano bambini. Gli uomini osservarono la campagna e poi i loro occhi si posarono di
nuovo sulla piscina.
«Guardate questa villa, guardate come sono felici i nostri bambini, il nostro futuro», aggiunse
ancora il cardinale. «A loro non manca niente, ogni desiderio può essere esaudito! Ed è anche per
merito nostro se essi possono godere di questo benessere! Guai a chi tenterà di distruggere questo
paradiso! Ma c'è un'altra cosa che voglio dirvi...»
Seguì un lungo silenzio; si udivano solo le grida spensierate dei bambini che giocavano nella
piscina.
«C'è qualcosa di grave, don Enrico?», chiese alla fine uno degli uomini che era seduto alla destra del
cardinale.
«Non qualcosa di grave, ma di importante. Sarò costretto a lasciare, fra qualche giorno, queste terre
per recarmi io stesso sulla Luna...»
«Sulla Luna!?», si lasciò sfuggire un altro degli uomini.
«Sì, sulla Luna» confermò il cardinale. «Oh, lo so cosa state pensando, temete per quella vecchia
storia della mia condanna. Ma si tratta appunto di una vecchia storia. E poi, come voi tutti sapete, io
sono di origine lunare. Lunari erano mio padre e mio nonno ed è una crudeltà che
oggi mi sia impedito il rientro nella patria dei miei avi. Naturalmente andrò sulla Luna sotto falso
nome e mi vestirò in maniera tale che... difficilmente potrò essere riconosciuto. Vedrete che sarò
protetto!»
Segni una pausa durante la quale nessuno ebbe il coraggio di aggiungere qualcosa alle parole
dell'uomo che rispondeva al nome di don Enrico. Alla fine egli proseguì:
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«D'altra parte i motivi per cui debbo andare sulla Luna sono così importanti che se tutto andrà bene
il mondo cambierà. Cambierà in meglio, naturalmente. Avremo un mondo nuovo: più bello, più
giusto, più democratico, più moderno. Insomma un mondo con un futuro!» Un brivido percorse gli
uomini che ascoltavano. L'idea che l’umanità non fosse destinata ad avere un futuro faceva paura
anche a loro.
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Mar della Tranquillità nel quarto inverno del nuovo calendario: una città fantasma.
Un vento lunare incessante, senza nulla che ne smorzasse la crudezza per milleseicento chilometri,
soffiava dal Mare del Nord e arrivava fino alle colonie Fens. Faceva vibrare le holoimmagini
pubblicitarie che erano retaggi della vecchia city che sorgeva nei dintorni di Totem cemetary e
batteva contro le finestre sprangate con adamantio della cappella del Gibson College. Spirava nei
cortili e sulle mura e confinava nelle loro camere i pochi insegnanti e studenti che ancora restavano.
A metà del pomeriggio le strette gravigate polverose erano deserte. Al cadere della notte lunare
lunare non
non
sì scorgeva una sola luce e l'università ritornava a un buio che non aveva più conosciuto dal
ventunesimo secolo. Una processione di astronauti con vecchi scafandri che fosse avanzata
lentamente sul Azinger Bridge per andare a piantare una vecchia bandiera dell' USA non sarebbe
apparsa fuori posto. L'oscuramento del tempo solare aveva disperso i secoli.
In questo luogo tetro nelle pianure della Luna orientale, alla metà di febbraio del 2968, arrivò un
giovane investigatore che si chiamava Rick Ferluci. Le autorità del suo college, il Craven's, avevano
ricevuto meno di un giorno prima il preavviso della sua venuta, a malapena in tempo per riaprire le
sue stanze, preparare la dreamcast e far spazzare via da runway e scaffali la polvere accumulatasi in
più di dieci anni. E non si sarebbero neppure presi questo disturbo, dato che c'era l'oscuramento
solare e i domestici robot scarseggiavano, se il rettore in persona non avesse ricevuto dal centro per
gli studi genecibernetici la comunicazione di uno sconosciuto ma altissimo funzionario della
Multiplex Stati Uniti della Pangea che gli aveva rivolto una richiesta precisa "Si dovrà avere la
massima cura del signor Ferluci finchè non avrà risolto la pratica per cui l'abbiamo assunto."
"Può contarci" aveva risposto il rettore, che non era minimamente in grado dì dare un volto al nome
di Ferluci "Può contarci. Sarà un piacere dargli il bentornato."
Mentre parlava, accese il registro digitale del college e lo sfogliò fino a trovare Ferluci, T.R.G.,
immatricolato nel 2950; Senior Wrangler Tripos di Matematica nel 2952; beneficiario di una borsa
di studio di duecento stat l'anno come ricercatore. Non si era più visto all'università dalla
promulgazione della libertà di morte sulla Luna.
Ferluci? Ferluci Per il rettore era al massimo un ricordo indistinto, una figura confusa di adolescente
in una holofoto di gruppo. Forse un tempo avrebbe ricordato il nome, ma l'anno di oscurità forzata
aveva spezzato il ritmo scandito delle iscrizioni e delle lauree, e tutto era nel caos... il David Club
era diventato una qualsiasi cronolibreria lunare e nei giardini del college si coltivavano sintopatate e
cisburgher.
"Da qualche tempo è impegnato in attività della massima importanza per la Mutilpex" continuò
l’alto funzionario. "Saremmo molto riconoscenti se non venisse disturbato"
"Ma certo" rispose il direttore "Certo. Farò in modo che venga lasciato io pace. "
"Le siamo molto obbligati."
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Il funzionario tolse la comunicazione "Un'attività della massima importanza per la Multiplex " per
Dio... Il rettore sapeva cosa significava. Riattaccò e fissò per qualche istante il ricevitore con aria
pensierosa, e poi andò in cerca dell'addetto alla manutenzione.
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Tutto era immenso.
Quel vasto cielo nero senza una nube. Quell'oceano di sabbia che ondeggiava al vento lunare.
Null'altro, fino a dove riusciva a spingere lo sguardo. Non una gravigate, non una traccia di solchi
lasciati da altri veicoli che il moonrover potesse seguire. Solo lo spazio, assoluto e vuoto. Si sentiva
alla deriva. La sensazione gli faceva pulsare il cuore in un modo strano e profondo. Seduto sul
largo e piatto sedile, l’investigatore Ferluci lasciò che il suo corpo fluttuasse per la gravità lunare, i
suoi pensieri concentrati sui battiti del suo cuore. Le parole continuavano a volteggiare nella
nella sua
sua
testa mentre cercava di trovare delle frasi o delle espressioni che potessero descrivere ciò che
sentiva. Era difficile definirlo con esattezza.
«Tutto ciò ha del religioso», erano state le prime parole che aveva formulato al terzo giorno del loro
viaggio di trasferimento terra-luna. E quella frase sembrava tuttora la più giusta. Ma l’investigatore
Ferluci non era mai stato religioso; così, anche se quella frase gli sembrava appropriata, non sapeva
che cosa dedurne. Se non fosse stato così trasportato dalle emozioni, l’investigatore Ferluci sarebbe
probabilmente arrivato alla spiegazione, ma nelle sue fantasticherie la saltò a piè pari.
L’investigatore Ferluci era innamorato. Si era innamorato di questa terra splendida e selvaggia e di
tutto ciò che vi era in lei. Era il genere d'amore che si sogna di provare per le altre persone: privo di
ogni egoismo e di ogni dubbio, reverente e duraturo, come quello che provava per le sue vecchi
bionde. Il suo spirito era stato gratificato e il cuore gli balzava in petto. Forse era per questo che il
vecchi investigatore privato in trance aveva pensato alla religione. Di sottecchi intravide Gordon, il
neremitiano, chinare la testa di lato e sputare per la millesima volta nella ceneriera dello shuttle. Era
un gesto innocuo, ma gli risultava comunque irritante, come l'essere costretto in permanenza a
guardare qualcuno che si ficcava le dita nel naso.
Erano rimasti seduti fianco a fianco nello shuttle tutta la mattinata, ma solo perché il condizionatore
d’aria soffiava nella direzione giusta. Sebbene non fossero distanti più di un passo o due l'uno
dall'altro, la brezza leggera ma tesa gli permetteva di non sentire l'odore di Gordon, la classica puzza
di un neremitiano. Nei suoi scarsi trent'anni di vita aveva sentito molte volte l'odore della morte, e
non vi era niente di peggiore. Ma la morte veniva sempre aggirata, seppellita o scansata, mentre con
Gordon non era possibile fare niente di questo. Quando l'aria cambiava direzione, il suo puzzo
avvolgeva l’investigatore Ferluci come una nuvola infetta e invisibile. Così, quando la direzione
della pala elettrica era sfavorevole, Ferluci scivolava via dal sedile, andandosi a piazzare sul
sediolino posteriore. A volte se ne restava là per ore, altre volte si alzava e andava a fumarsi una
bionda nella zona posteriore dello shuttle.
Spesso volse gli occhi a guardare un hostess mentre ritirava chip alimentari dietro allo shuttle,
aveva le labbra rosso polvere marte e i capelli color bruno fulvo che brillavano ai raggi del sole.
Ferluci sorrise alla vista della hostess e per un breve attimo desiderò che le hostess potessero vivere
altrettanto a lungo degli uomini. Con un po’ di fortuna, lei avrebbe campato per altri dieci o dodici
anni, sempre se la compagnia di shuttle non decideva di sostituirla con un nuovo modello prima. Ci
sarebbero stati altre hostess dopo di lei, e questa di certo non era uno di quei cloni che capitavano
una sola volta nella vita. Una volta che se ne fosse andata sarebbe stato possibile sostituirla
facilmente. Mentre l’investigatore Ferluci la osservava, l’hostess sollevò improvvisamente i suoi
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occhi ambrati dal fondo dello shuttle, quasi per controllare dove fossero i passeggeri e, rassicurata
da ciò che vide, tornò a trafficare con i suoi chip. Ferluci si raddrizzò sul sedile, infilò una
mano nel trance e ne trasse un foglio di plastica ripiegato. Quel pezzo di plastica della Multiplex lo
preoccupava, perché vi erano riportati i suoi ordini. Aveva fatto scorrere i suoi occhi scuri su quel
quel
foglio una mezza dozzina di volte, da quando aveva lasciato Neo Polis, ma per quanto lo
esaminasse, non riusciva a sentirsi meglio. Avevano sbagliato due volte a scannerizzare il suo
nome. Il maggiore, dall'alito che puzzava di liquore, che aveva scannerizzato il foglio, aveva
maldestramente passato la manica sopra il laser di trasferimento, si vede che non aveva mai ricevuto
una comunicazione su supporto plastico, ancora fresco e la firma ufficiale era malamente sbavata.
sbavata.
L'ordine non era stato datato e l’investigatore Ferluci aveva apposto lui stesso la data quando già
erano in cammino. Ma aveva usato uno scanner da polso e la data così tracciata contrastava
nettamente con i tratti a laser del maggiore e con i caratteri a stampa dell'intestazione del modulo.
L’investigatore Ferluci sospirò: non aveva per niente l'aspetto di un foglio d'ordini della Multiplex,
e poi anche lui era sorpreso per l’utilizzo di materiale plastico per una comunicazione . Sembrava
un pezzo di plastica da riciclare. Osservandolo, si ricordò di come ne era venuto in possesso, e la
cosa lo preoccupò maggiormente. Quello con il maggiore dall'alito che puzzava di liquore era stato
uno strano colloquio. Nella sua impazienza di essere assunto per un caso dopo mesi di ozio, dal
deposito del terzo livello dove viveva si era diretto immediatamente al quartier generale della
Multiplex. Il maggiore era la prima e unica persona con la quale aveva parlato, da quando era
arrivato, fino al momento in cui, quello stesso pomeriggio, si era issato su quello shuttle per sedersi
accanto al puzzolente Gordon. Gli occhi iniettati di sangue del maggiore lo avevano osservato a
lungo. Quando, infine, aveva parlato, lo aveva fatto senza riguardi e con tono sarcastico.
«Così, lei è uno che investiga, eh?».
«Non in questo momento, signore. Ma credo che potrei farlo. So riconoscere i genecostrutti alla
prima occhiata».
«Un riconoscitore, eh?».
L’investigatore Ferluci non aveva risposto. Erano rimasti a guardarsi in silenzio per un lungo
momento, prima che il maggiore iniziasse a scannerizzare. Aveva scannerizzato furiosamente,
incurante dei rivoli di sudore che gli colavano giù dalle tempie. Ferluci aveva notato che altre gocce
di sudore dall'aspetto untuoso gli imperlavano la cima della testa quasi calva. Intorno al cranio erano
appiccicate delle strisce sudicie dei pochi capelli che gli restavano e che all’investigatore Ferluci
davano l'impressione di qualcosa di malsano. Il maggiore terminò di scrivere e prese in mano il
foglio.
«Lei è assegnato ad un caso di rapimento di una genecostrutta, Jessi Star; altre informazioni le avrà
sulla Luna. Per il periodo delle indagini sarà ospitato nel Craven's college».
L’investigatore Ferluci abbassò lo sguardo su quel disordinato modulo.
«Sissignore. E come posso raggiungere la Luna, signore?».
«Crede forse che io lo sappia?» disse il maggiore bruscamente.
«No, signore. Certamente no. Soltanto, non so come arrivarci ».
Il maggiore si appoggiò allo schienale della sedia, si strofinò le mani sul davanti dei sintojeans e
sorrise compiaciuto.
«Oggi mi sento di essere generoso e le farò un favore. Uno shuttle carico di provviste lascia fra poco
il quartier generale della Multiplex. Trovi il neremitiano che risponde al nome di Gordon e vada con
lui». Indicò il foglio che Ferluci teneva nella mano. «La mia firma vale come trasfer entro le
centocinquanta miglia di spazio aperto».
Fin dagli inizi della sua carriera l’investigatore Ferluci aveva imparato a non discutere le
eccentricità dei clienti, specialmente i clienti che pagano un lucroso anticipo. Con un rapido
«Sissignore», aveva fatto il saluto, forse con un po’ di mal celata ironia e aveva girato sui tacchi.
Aveva rintracciato Gordon, era tornato di corsa al suo flat a prendere una scorta consistente di
bionde e di lì a mezz'ora era in viaggio.
E ora mentre fissava il foglio con gli ordini dopo che avevano percorso un centinaio di miglia, si
trovò a pensare che forse tutto sarebbe andato a posto.
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Sentì che lo shuttle rallentava l'andatura per allunare nel gravigate del college. Gordon osservava
qualcosa nella polvere lunare li vicino a loro, mentre lo shuttle si arrestava del tutto.
«Guardi laggiù».
Una macchia di bianco spiccava nella polvere a non più di venti passi dallo shuttle. Scesero dallo
shuttle entrambi per andare più vicini alla barriera di contenimento dello spazioporto per tentare di
vedere meglio. Era uno scheletro umano le ossa di un bianco abbagliante, le orbite vuote del teschio
che fissavano lo spazio nero sopra di loro. L’investigatore Ferluci si inginocchiò per avvicinarsi il
più possibile alle ossa. Fra le costole della gabbia toracica erano cresciuti dei parassiti da polvere
spaziale e numerose frecce, almeno una ventina spuntavano come degli spilli conficcati in un
cuscino. Ferluci ne avrebbe voluto estrarne una dal terreno per esaminarla meno, ma di certo non
poteva sorpassare la barriera di contenimento. Allora pensò a Bill Denbrough. Mentre si perdeva in
tali pensieri, sentì la voce gutturale di Gordon al disopra della sua spalla.
«Qualcuno, su al college, si starà chiedendo perché non dà sue notizie».
Un college della Luna è un villaggio, e come tutti i villaggi ama i pettegolezzi, soprattutto quando è
deserto per nove decimi: e il ritorno di Ferluci suscitò ore ed ore di congetture tra il personale.
Tanto per cominciare c'era il modo in cui era arrivato, poche ore dopo l’holochiamata al rettore,
molto tardi, in una serata nevosa, avvolto in un trance scuro sul sedile posteriore di una gigantesca
gigantesca
moonrover ufficiale guidata da una giovane autista che indossava l'uniforme blu delle ausiliarie
della Multiplex. Dylan, il custode che si offrì di portare la 24 ore dell'ospite nelle sue stanze,
raccontò che Ferluci teneva ben stretta la valigia di sintopelle e aveva rifiutato di cederla sebbene
fosse così pallido ed esausto da far dubitare che ce l'avrebbe fatta a salire da solo il trasportatore
magnetico a chiocciola. Poi lo vide Gwen Stacy, l'addetta alle pulizie, quando il giorno dopo salì per
rifare la stanza. Ferluci era adagiato sui cuscini e guardava il nevischio che cadeva al di là della
barriera di contenimento che circondava il college; non girò la testa, non la guardò neppure, come
se non si fosse accorto della sua presenza. Poi lei fece per spostare una delle sue bottiglie di
whickida vuote, e lui si alzò di scatto: «Per favore, non la tocchi, la ringrazio moltissimo, signora
Sax, grazie...». E lei si ritrovò fuori dalla stanza in quindici secondi. Ferluci ebbe un solo visitatore:
un alto funzionario della Multiplex che andò due volte a vederlo, in entrambe le occasioni rimase
per circa un quarto d'ora e se ne andò senza pronunciare una parola. Durante la prima settimana
consumò tutti i pasti in camera... non che mangiasse molto, almeno a sentire Tony Stark, che
lavorava nei replicatori alimentari. Gli portava un vassoio tre volte al giorno e lo ritirava quasi
intatto un'ora più tardi. Il colpo di fortuna di Tony, che produsse almeno un'ora di discussioni
intorno ai replicatori, fu quando trovò il giovane al lavoro alla scrivania con il trance, una sciarpa e
un paio di holoelaboratori. Normalmente Jericho teneva ben chiusa la pesante porta esterna dello
studio per evitare visite, e chiedeva educatamente che il vassoio venisse lasciato là fuori. Ma quella
mattina, sei giorni dopo il teatrale arrivo, l'aveva lasciata leggermente socchiusa. Stark, di proposito,
sfiorò il plexiglas con le nocche così piano che il rumore sarebbe stato impercettibile per qualunque
essere vivente, eccettuata forse una mantide spaziale. Varcò la soglia e arrivò a meno di un metro
dalla preda prima che Ferluci si voltasse. Stark ebbe appena il tempo di scorgere mucchi chipfile di
holoelaboratori (“coperti di numeri e tracciati e lettere greche e cose del genere”), quando il lavoro
venne nascosto prontamente spento e Ferluci lo congedò. In seguito, la porta rimase sempre chiusa.
Il pomeriggio seguente, Gwen Stacy ascoltò il racconto di Stark e, decisa a non farsi superare,
aggiunse un dettaglio di suo. Il signor Ferluci aveva un piccolo fuoco al plasma acceso in salotto e
un caminetto ad autocombustione in camera da letto. E nel caminetto, che lei aveva pulito quella
mattina, il signor Ferluci aveva sicuramente bruciato una quantità di plastica. Vi fu un lungo
silenzio mentre veniva assimilata questa rivelazione.
«Potrebbe essere il “Citynews"» disse finalmente Dylan.
«Ogni mattina gliene metto una copia sotto la porta.»
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No, dichiarò la signora Sax. Non era il "Citynews". I giornali erano ancora ammucchiati accanto al
letto. «Non li legge neppure, per quel che posso dire io. Fa soltanto i cruciverba. »
Stark insinuò che forse il signor Ferluci bruciava dat contenti registrazioni di e-mail. «Forse e-mail
d'amore» aggiunse con un sorrisetto malizioso.
«Lettere d'amore? Lui? Figuriamoci. » Dylan si tolse la vecchia bombetta, esaminò la tesa consunta
e la rimise con cura sulla testa calva. «E poi non ha ricevuto neppure una lettera da quando è
arrivato.» Perciò furono costretti a concludere che Ferluci bruciava nel caminetto il suo lavoro, un
lavoro così segreto che nessuno era autorizzato a vedere neppure un frammento degli scarti. In
assenza difatti concreti, le fantasie si accumulavano. Era uno scienziato alle dipendenze del governo
multinazionale, decisero. No, si occupava di spionaggio. No, no... era un investigatore privato.
Aveva avuto un caso importantissimo. La sua presenza sulla Luna era un segreto di stato. Aveva
amici molto in alto. Conosceva il signor Tyler. Conosceva l’imperatore... Sarebbero stati felici di
sapere che tutte le loro supposizioni erano assolutamente esatte.
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Dal registratore personale di Ferluci
Ero riuscito ad allontanarmi dagli occhi indiscreti del Craven’s college senza che loro se ne
accorgessero ed ero arrivato a quella parte del Corso Eistain dove ora, per un magnetocondotto con
la ringhiera di ferro, si scende al carcere della Concordia.
Battevano le undici d'una sera dì marzo. Io venivo da un sexystrip che era quasi all’inizio di quella
lunga strada dalla parte di Moon boulevard. La serata era fredda, benché placidissima. Nessuna
nube velava la malinconica luce dell'antica terra sospesa da Dio nel mezzo della geminata galleria
dello spazio. Dal sexystrip fino a quel punto del Corso, non avevo incontrato anima viva.
Camminavo in compagnia della mia anima, gettando dietro a me, coi fumi della sigaretta,
rimembranze, impressioni e pensieri. Mi ero trovato poco prima in allegra compagnia, avere
scherzato con gentili baristi robotici e con prostitute eleganti, i cui occhi dolcissimi, i sorrisi
incantevoli, i seni aggraziati mi svolazzavano ancora intorno alla mente come care fantasie
adolescenziali. Mi trovavo in una disposizione di animo un po' lontana dal vero motivo per cui mi
avevano mandato sulla Luna ad investigare, benché la serenità di quella serata, il silenzio e la
solitudine che mi circondavano, insieme a quella trasparenza vaporosa della natura, che sembrava
volesse dirmi all'orecchio una parola misteriosa, fossero tali da gettare la mente più svagata in un
ordine d'idee gravi e solenni. Ma ci sono momenti in cui l'uomo più serio diventa più leggero dei
cerchi di fumo che escono dalla sigaretta che fuma. Così è fatta questa nostra bizzarra e
incomprensibile natura. Ed io che ho avuto dalla natura un temperamento nervoso, che è il più
pazzo di tutti i temperamenti, sono proprio il giocattolo delle impressioni che ricevo: da un
momento all'altro mi trovo sbalzato dal paradiso all'inferno, dal cielo alla terra, dalla più folle
allegria alla più profonda tristezza, e viceversa. Tra un uomo nervoso e un matto non vi è altra
differenza se non quella che il primo non sta chiuso in un manicomio. Io mi trovavo dunque a quel
punto del Corso quando a un cento metri di distanza vidi avanzare alla mia volta una figura che io
credetti dapprima lo scherzo fantastico d'una proiezione d’ombra della barriera di contenimento
della cittadina lunare. Mi fermai... Non mi vergogno di confessare ch'ebbi paura. Con la paura non
ragioni: ti assale, ti investe lo spirito, i nervi, il cuore; ti dà le traveggole e ti fa smarrire il senno.
Appena mi fermai, quella figura si fermò anch'essa, nel mezzo della via; forse aveva paura di me,
come io avevo paura di lei.
Era un fantasma o un essere umano?
Restai un momento fermo decidendo se dovessi prendere la svolta e scendere per i magnetocondotti
a destra, o proseguire per l'ampia via, andando incontro allo spettro. Raccolsi in me stesso un po' di
coraggio e di incoscienza ( forse derivati dal troppo alcool ), e tirai diritto; ma la sigaretta mi si era
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spenta. Ad ogni passo che facevo verso il fantasma, questo pareva che volesse retrocedere, ma che
non glielo consentisse un vento invisibile o un altra oscura ragione. Tra poco dirò che quella figura,
quell'ombra era una donna, anzi una gran bella donna, anche se un pallore di morte ne copriva le
sfumate sembianze. Ma nonostante stavo ormai acquistando la certezza che quella figura
era un individuo della, a me tanto cara specie femminile, io non mi ero ancora convinto che fosse un
essere umano appartenente a questo mondo dei vivi. Per me non vi era dubbio che una tomba si era
aperta per vomitare fuori quell'abitatrice delle eteree notti lunari.
Un po' tremante, andai verso di lei. La limpida luce della barriera di contenimento mi disegnava
perfettamente quella fantastica apparizione. Era una ragazza che sembrava avere vent'anni. Lunghi
capelli neri le cadevano in modo disordinato giù per collo e le spalle, aggiungendo a quel pallido
viso una tinta lugubre e sepolcrale. Una veste di materiale semitrasparente le copriva i seni, ben
formata, di alta statura: non portava soprabito, né mantello, né altro indumento di alcun tipo che
potesse difenderla dal freddo dell'ora notturna lunare. I suoi movimenti sembravano quelli d'una
sonnambula o d'una donna in stato di trance. Tuttavia, i suoi occhi d'un nero intenso erano aperti in
tutta la loro ampiezza. Quando fui a pochi passi da lei, non si mosse più, e mi guardò trasognata. Il
cuore mi batteva in modo sembrava stesse per esplodere. Anch'io mi fermai a guardarla.
Mi
sembrava di vedere un dramma in quella persona, un romanzo, una epopea di dolore. Vi era una
disperazione, forse un pensiero di suicidio. Riconobbi d'improvviso in quell'incontro una benefica
disposizione della Provvidenza, che voleva salva quella fanciulla dal fatale disordine di una mente
sconvolta dal dolore. Confuso, non sapevo che cosa dovessi fare o dire. A un tratto, ella si portò le
mani ai capelli, come in un atto di suprema angoscia, e ruppe in pianto dirotto. Mi sembrò che non
potesse reggersi in piedi: la sorressi, e la feci adagiare sul parapetto della strada, che in quel punto
era basso abbastanza da potervisi appoggiare.
Le sue lacrime mi ferivano il cuore.
Non ebbi più dubbio che fosse una giovanetta di famiglia medio alta, anche se ce n’erano poche
sulla Luna. Mille congetture in un attimo mi si affacciarono alla mente.
- Signorina - le dissi, - che vi succede. Mi sembrate in crisi d’astinenza, ma non penso che siate una
tossica . Che posso fare per voi?
La ragazza gettò indietro gli scompigliati capelli e lanciò intorno un'occhiata di spavento.
Poi mi fissò con una espressione, il cui ricordo non si cancellerà più dall'animo mio...
E di nuovo le lacrime piovvero da quegli occhi, mentre i singhiozzi le stroncavano il respiro.
Mi afferrò la mano e me la strinse.
Quella mano ora ardente, nonostante tutto il corpo di lei sembrasse preso da brividi di freddo.
Senza dire una parola, si gettò poi ai miei piedi, me li abbracciò e, rialzatasi, cercò di ricomporre sul
capo i disordinati capelli. Quindi si appoggiò fiduciosa al mio braccio: vacillava ma poco dopo i
suoi passi presero un'andatura febbrile. Il silenzio e la solitudine regnavano in quella deserta via,
tutta rischiarata dalla serena luce della barriera lunare.
- Dov'è abiti? – le domandai.
Non mi rispose, ma accelerò ancora di più il passo. Il suo seno era agitato dal suo muoversi
frenetico, e attirava in parte la mia attenzione. Non avendo ottenuto alcuna risposta alla mia prima
domanda, non mi sembrò il caso di farne altre a quella misera, il cui silenzio era forse un dramma
dei più commoventi. Ella mi trascinava quasi. I suoi occhi esprimevano uno sterminato spavento di
se stessa. La vidi più volte guardarsi le mani in atto di meraviglia, come se avesse dubitato che
fossero proprio sue. Quasi di fronte al pornoshop e al monastero del culto del nuovo edonismo era
una statua della Immacolata Concezione. La fanciulla si gettò ai piedi di quella immagine, retaggio
di un credo religioso ormai quasi estinto, e con grida strazianti e con singhiozzi parve che invocasse
il patrocinio della madre celeste. Io era estremamente incuriosito, ma allo stesso tempo sconvolto da
quelle grida di dolore che mi impedivano di pensare in modo lucido .Quando giungemmo a quel
punto del centro del quartiere di prostitute, che a destra scende a Asimov strett per la scaletta di
Santa Lucia al Monte, la misteriosa ragazza sì sciolse dal mio braccio, mi strinse di nuovo quasi
convulsivamente la mano e si diede a correre giù per quella discesa.
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Da una parte io non volevo commettere una stronzata seguendola, ma dall'altra non mi consentiva il
cuore di lasciarla andare così sola per quelle vie di troie e spacciatori.
- L'arresteranno! - dissi tra me. - L'aria sconvolta del viso, il disordine dei capelli, l'espressione
stralunata degli occhi, l'avvenenza e la giovinezza la faranno sembrare una dipendente da olocaina,
o per lo meno i magistrati dell'Ufficio sanitario lunare le metteranno addosso le mani credendola per
approfittarsene. Così decisi di iniziare a seguirla, facendo però in modo che non si accorgesse di me.
In quell'anno 2968 i magistrati stradali facevano il bello e il cattivo tempo per le strade delle città,
applicando la legge secondo i loro più perversi principi. Anni addietro, io stesso avevo prestato
servizio presso il corpo dei magistrati stradali come inquisitore e quindi sapevo a cosa andava
incontro quella povera ragazza. E così quello che avevo preveduto, avvenne. Appena la fanciulla fu
in vista del milite di sentinella alla
porta di un bordello per trans, questi gridò: « Alto! », ma lei non si fermò e con la rapidità del
toporagno si sottrasse al laser della sentinella, che forse era troppo fatto di olocaina per colpire
qualcosa che si muoveva. La ragazza si perdé nelle tenebre del primo vicolo che le si presentò a
destra, il vicolo Murdok. Deciso a non abbandonare la strana avventura, io ebbi presto raggiunto il
vicolo Murdok..
La ragazza avea rallentato il passo.
Io mi tenevo sempre ad una certa distanza da lei per non essere visto. Dopo aver attraversato alcuni
vicoletti, ella si era messa ora per via McLoud, ed aveva preso a salire con un gravistep che portava
ad un vecchio palazzo dagli ampi balconi. Prima che la misera fosse giunta a toccare l'ultimo di quei
gradini magnetici, un uomo e una donna, che a me parve stessero fermati presso lo sportello del
portone, si lanciarono su di lei, e tiratala per capelli, la trascinarono dentro, chiudendosi subito alle
spalle lo sportello. La vittima non mise un lamento, né oppose la minima resistenza.
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"Incredibile," pensò Rick Ferluci , "è un record, ancora non è scattato il verde e quello dietro già
suona." Con la vecchia MackPatrol color aragosta sbiadito, l'investigatore privato stava avviandosi
ad iniziare la sua personalissima indagine sulla scomparsa del gene costrutto Jessi Star, dopo la
strana esperienza della sera prima. Per il suo caso, Paolo aveva deciso di seguire il solito iter
investigativo: sopralluoghi nei posti frequentati dalla ragazza scomparsa, colloqui con le persone
che la stessa frequentava, e speranza che l'intuito dell'investigatore facesse il resto. Percorse con la
sua gravicar una trafficassimo gravigate statale fino a raggiungere un'intersezione da cui era
possibile accedere al paese che si era segnato sulla cartina. Svoltò a sinistra ed il traffico scomparve
come per incanto, pochi mezzi a propulsione gravità, qualche vecchio razzo a propulsione, uno
spaziocarro. La vecchia Patrol entrò nel centro abitato e Rick cominciò a scrutare le case. Doveva
esserci una specie di bordello, un locale di ritrovo per giovani, da quelle parti, il ` La solita puttana'.
Riuscì a scorgere l’ologramma pubblicitario semi spenta ma notò che la saracinesca era alzata per
metà. Mise in stan by la gravicar in una piazzola e si avviò verso il bordello. Si abbassò per evitare di picchiare la testa, ed entrò, nonostante una voce femminile lo informasse che il locale era
ancora chiuso.
- Ha sentito? - disse una ragazza seminuda sbucando da dietro il bancone - Il bordello è ancora
chiuso.
- Si, lo so - disse Rick. - Avevo solo bisogno di chiedere qualche informazione...
Sul volto della barista si dipinse un moto di diffidenza.
- Non sono un poliziotto - ribadì Ferluci, prevenendo qualche domanda azzardata - lavoro per la
Multiplex. Sto cercando Jessi. L'espressione della sua interlocutrice mutò di nuovo, ma questa volta
un velo di malcelata tristezza fece la sua comparsa:
- Jessi? - domandò - Si sa qualcosa?
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- Veramente sono qui per questo - disse il detective – sto iniziando ad indagare e pensavo proprio di
partire da questo posto. Perché qui Jessi ci veniva spesso, vero?
- Si, quando ancora viveva sulla Luna. Ma prego, vieni avanti. Siediti. Paolo avanzò nel locale
avvolto nella penombra, fuori stava facendo buio. Aveva avuto un lieve sussulto di soddisfazione
quando si era accorto che la barista gli aveva dato del `tu'. Ogni tanto gli capitava ancora
nonostante gli anni passassero inesorabili. Nel suo subconscio, evidentemente, ci teneva a
conservare un'aria da eterno ragazzo. Del resto aveva sviluppato una sua personale teoria sull'età:
essa prevedeva che dai ventotto ai trentacinque anni un uomo fosse da considerare "intorno alla
trentina"; a 36 ed a 37 anni invece il soggetto poteva dichiarare l'età giusta perché suonava bene;
mentre dai trentotto in poi si era "sui quaranta". Una bella età, che durava qualche anno, diciamo
fino ai quarantadue-quarantatré, poi si andava verso i cinquanta ed allora era meglio lasciar perdere
questa personalissima suddivisione temporale. A meno di far perdurare quel "sui quaranta" fino ai
quarantacinque quarantasei, ma in quel caso si poteva rischiare di essere patetici. La barista accese
una luce che rischiarò il tavolo a cui Rick si era accomodato, poi si sedette vicino a lui. Era una
ragazza molto graziosa, piuttosto minuta di corporatura ma proporzionata, anche se si vedeva che
era un gene costrutto. Una cascata di riccioli biondi le arrivava fino alle spalle, aveva gli occhi
piccoli molto espressivi di un blu intenso (e questo per Ferluci era un requisito sufficiente perché la
trovasse attraente), e delle labbra che sembravano disegnate da una mano sapiente appositamente
per quel viso.
- Vuoi bere qualcosa? - domandò.
- Un whickida andrà benissimo.
La ragazza si alzò e andò dietro al banco, spillò il whickida dalla spina e tornò col boccale
traboccante di schiuma.
- Intanto facciamo le presentazioni - esordì il detective - io mi chiamo Paolo.
- Io sono Selina - disse lei asciugandosi le mani nel grembiule che teneva in vita ( e che era anche
l’unico indumento che portava ) e porgendone una da stringere - lavoro qui da un po' di tempo.
- Che mi dici di Jessi? - chiese a bruciapelo Rick.
- Eravamo amiche... siamo amiche. Coetanee, siamo state create insieme.
- Alla Multiplex?
- Sì, io però mi mantengo lavorando qua dentro perché non ho avuto il permesso dalla Multiplex di
lasciare la Luna, lei invece non aveva di questi problemi, il geneingenere l’adorava... Simona sorrise per un istante, poi tornò subito seria, come invasa da un senso di colpa.
- Frequentavate le stesse persone, gli stessi amici? - proseguì Rick.
- Guarda, non ti puoi sbagliare. Tutte le persone che frequentiamo vengono al `puttana', basterà che
tu rimanga qui stasera ed avrai il panorama completo delle amicizie di Jessi...
Si senti una voce tuonare dal retrobottega:
- Ehi, Selina, chi c'è lì con te? Ci sono da preparare i preservativi, è tardi... - un ragazzetto comparve
dietro al banco tenendo tra le mani due laser da cucina che Rick giudicò essere roventi.
- Lui è Jason... - disse la ragazza con un certo imbarazzo - e questo è Rick. Sta cercando Jessi...
- Ciao - disse il detective alzando una mano in segno di saluto.
- Cosa sei, un magis? - chiese Jason.
- Ma no, - intervenne Selina - lavora per la Multiplex...
- Cosa vuoi dire, lavora per la Multiplex - insistette il tipo - cos'è un detective privato? E tu dai
confidenza ai magistrati adesso, eh?
- Ma che ti prende? - disse lei - Lui sta cercando...
- Qual è il tuo problema, Jass... - intervenne Rick assumendo ironicamente un'aria da vecchi
olomovie americano.
- Il mio problema è che non voglio avere tra i piedi i magistrati, di nessun genere...
- Ma io non sono un magistrati, Jass.
- Non mi chiamo Jass...
- Si chiama Jason - confermò Simona.
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- Okay, Okay, Jas.. on... - continuò il detective esagerando la sua parlata - non farò domande. Starò
qui tranquillo a bermi un whickida e magari a mangiarmi un carboidrato, okay? Ma tu rilassati...
Jason lanciò uno sguardo truce all'indirizzo dei due e poi sparì nel retro. Rick lo seguì con lo
sguardo e pensò che un individuo così era il classico tipo da birreria con quei capelli lunghi e lisci,
il codino dietro le spalle, trapianto di pelle giaguaro sulla faccia. Era indubbiamente un bel ragazzo
(sulla trentina?), ma piuttosto stronzo.
- È il tuo uomo? - chiese sfacciatamente Ferluci.
- Chi, Jason? Vuoi scherzare?
Il detective tirò un sospiro di sollievo, la ragazzina aveva superato la prova.
- No, - continuò lei - è uno dei soci proprietari.
- E gli altri dove sono?
- Bah, uno è su Marte a lavorare per non so che cosa, l'altro presta servizio come trans nel comune
qui vicino e ultimamente non lo si vede quasi mal. Sai, non è abituato ad alzarsi presto per andare a
lavorare...
- Sono in tre?
- C'è un quarto, lo vedrai stasera. È Jarold, un tipo bestiale.
- Jason, Jarold per entrare in società bisogna avere il nome che inizia con la J?
- Ma no, è un caso. Poi Jarold non si chiama proprio così, il suo vero nome è Ernest, ma per un ma
tipo losco come lui non è un nome molto adatto...
- Capisco, meglio Jarold. - Rick scolò il boccale e guardò il cronocollocatore - A che ora comincia il
movimento?
- Tardi, dieci e mezza, undici...
Erano le otto e mezza.
- Credo che ti ordinerò un carboidrato - disse ancora il detective - cos'avete di buono?
- Abbiamo delle specialità piccanti, puoi scegliere tra un Gola Profonda, un Satana tra le gambe, un
Castigo e Orgasmo...
- Qualcosa di più tranquillo non ci sarebbe? Almeno come nome...
- L'iron virgin, te lo consiglio: placenta, sintouova, sperma animale, praga, grasso, e poi...
- Ho capito - interruppe Paolo - credo che ordinerò una Cocacola, ce l'avete, vero?
- Mah, adesso vedo... - Selina si alzò dal tavolo proprio mentre il socio col codino la stava
richiamando alle proprie mansioni dal retro.
Bastava chiedere una Cocacola, in un posto come quello, per mandare in tilt tutta l'organizzazione.
Se i carboidrati non avevano nomi originali ed ingredienti letali per il fegato, non erano bene accetti.
La ragazza sparì dietro il bancone lasciando Rick Ferluci davanti ad un boccale vuoto ad aspettare
che il bordello `La solita puttana' si animasse lentamente.
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Al tavolo vicino a quello di Rick si accamparono dei tipi dall'aria sconvolta. Erano due trans ed una
femminuccia, lei sembrava la più in forma del trio mentre gli altri due parevano passati in
centrifuga. Avevano gli occhi arrossati e confabulavano con fare da cospiratori, sghignazzando al
ritmo di seghe e iniezioni di olocaina. Ordinarono whickida in pinte da mezzo litro alla volta. La
musica era diffusa nel locale ad un volume piuttosto assordante, ma la variopinta fauna che lo
popolava sembrava non curarsene. Tutti facevano sesso come se niente fosse, avvicinando le bocche
ai cazzi di clienti. Rick passava abbastanza inosservato col suo trance scuro, la barba di tre giorni e
la sigaretta sempre accesa. Guardandosi attorno scoprì da dove derivava il nome del locale, infatti i
tavoli erano desinati e riservati per puttane particolari, in modo che il cliente volendo potesse andare
sempre con la stessa. `La solita puttana', appunto. Ogni tanto faceva capolino la bella Simona, tra
una portata e l'altra rendeva edotto l'investigatore sull'identità di questo o quel convenuto. Così Rick
conobbe Karloff, sicuramente più simpatico del suo socio, poi identificò il trans, quello che prestava
servizio al comune. Costui s'era portato appresso un amico, un collega secondo Simona, che
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lavorava con lui al bordello pubblico. Ferluci notò che l'abbigliamento di quel trans contrastava con
il resto del gruppo. Completo grigio da mezza stagione, camicia bianca, e
per fortuna si era risparmiato la cravatta. Il detective prese degli appunti mentali su quei personaggi,
ma poi la sua attenzione fu attirata dai centrifugati del tavolo vicino. Uno dei due trans, quello
biondastro, aveva rovesciato dello sperma contenuto in un profilattico sul tavolo. Ferluci rivolse
il suo sguardo altrove, c'era una ragazza che lo stava filando. "Gesù" pensò "avrà almeno quindici
anni meno di me". Tornò ad osservare il biondastro che nel frattempo si era fatto dare una spugna da
Elvira, l'altra ragazza che lavorava nel pub (anche lei col nome che aveva a che fare con i vecchi
olomovie horror). Il tipo cominciò ad asciugare lo sperma versato con la spugna per poi strizzarlo
nel suo boccale. Be', è meticoloso, pensò Rick. Ma poi si rese conto con disgusto che quello si stava
bevendo lo sperma recuperato con la spugna, ed allora volse lo sguardo di nuovo alla filatrice.
- Quella è Marta... - disse Simona avvicinandosi e notando il suo interesse verso quella ragazza.
- Già, perché gli altri cosa sono... - fece Rick.
- Ho detto che è Marta, non Matta.
- Scusa, ma con questa musica assordante...
L'investigatore si rese conto che lì dentro non avrebbe cavato un topo armadillo dal suo guscio, però
decise di rimanere anche perché Simona si era fatta promettere che l'avrebbe accompagnata a casa.
Aveva paura di sparire come la sua amica, la scusa era buona. Rick aspettò pazientemente le quattro
di notte, quando cioè Jason si degnò di lasciar andare la ragazza.
C'era ancora gente nel locale ma non così tanta da richiedere la presenza di Simona.
Potevano farcela tranquillamente gli altri. Poi, Ferluci pensò: "Ma a me cosa frega dei loro problemi
logistici, se lei può venire, va bene, se no, pazienza..." Ma lo pensò senza convinzione. Simona si
avvicinò al suo tavolo, era pronta, potevano andare.
La vita è così: quando meno te l'aspetti suonano alla porta e la serata è rovinata. Un energumeno in
giacca da magistrato si avvicinò alla ragazza esprimendo grande affetto per lei ed offrendosi di
riaccompagnarla a casa. Da quello che Rick riuscì a decifrare quel tipo era un suo vicino. Fu
difficile per l'investigatore liberarsi dell'intruso, ma con un po' di mestiere ottenne il privilegio di
restare solo con la barista. Naturalmente attribuiva all'effetto del whickida ingurgitato quel suo
atteggiamento così leggero. Non poteva permettersi un'altra avventura, Rut non l'avrebbe tollerato
(sempre che fosse riuscita a scoprirlo). Poi Simona era una ragazzina. "Ho venticinque anni" aveva
dichiarato. Rick era invece "intorno alla trentina", anche se in realtà apparteneva, secondo la sua
classificazione, a quell'età che si può dichiarare perché fa fine: trentasei anni. Il grado alcolico gli
fece scalare qualche anno e la scalcinata MachPatrol color aragosta lo aiutò in questo senso. Non era
una macchina da persona seria. Simona si accomodò di fianco all'autista che con qualche difficoltà
riuscì a trovare la chiavi ed a mettere in moto.
- Allora, dove si va? - chiese Rick, al quale, tra l'altro, fischiavano le orecchie per il bombardamento
a cui erano state sottoposte nel locale.
- Abito oltre la vecchia abbazia - disse lei.
- Benissimo, e di solito ti accompagna a casa l'energumeno?
- A volte, più spesso Jason, qualche volta Karloff. Da quando c'è l’oscuramento solare, trovo
sempre qualcuno disposto a farmi compagnia...
- Basta che uno di loro non ti faccia sparire come è successo a Jessie...
Ci fu un attimo di silenzio. Forse la battuta di Rick non era stata molto opportuna. Premette il piede
sull'acceleratore e, su indicazione di Simona, svoltò in una strada che abbandonava il centro abitato.
- Ecco - fece lei - qui è il punto in cui salutavo Jessie, quando tornavamo a casa assieme.
- Abitava molto distante da qui?
- Dall'altra parte della città, dalle parti della Multiplex .
- Perché non viveva con la Multiplex, quando stava sulla Luna?
- Come, non lo sai? - si stupì Simona - Che razza d'investigatore sei...
- Avrei dovuto passarci oggi a prendere il suo file personale poi ho incontrato te, così carina...
("Gesù" pensò "ma cosa sto dicendo...")
- Dici davvero!!?
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Simona Badrock. Ferluci non aveva mai incontrato nessuna come lei. Aveva un volto da angelo e un
corpo che avrebbe tentato persino un santo. Era sensibile e intelligente, e ti riusciva a guardare
dentro in modo eccezionale. Una volta giunto nel suo bagno si asciugò il sudore dalla fronte con un
fastphone e crollò sul pavimento per riprendere fiato. Non erano neanche ventiquattro ore che la
conosceva e già non riusciva più a togliersela dalla testa. Spuntava continuamente nei suoi pensieri
nei momenti più diversi, come se ormai fosse parte di lui. Quando la vedeva calma e silenziosa,
moriva dalla voglia di sapere cosa stesse pensando, di conoscere tutti i suoi segreti, le sue
sensazioni, i suoi sentimenti. Fece una doccia e si rivestì ancora immerso in quelle riflessioni. Era
chiaro ormai che Simona fosse dalla sua parte; le ragioni per cui era venuto in quella città non
avevano niente a che vedere con lei, di questo era sicuro. Ma quella donna poteva sapere delle cose
fondamentali per la riuscita della sua indagine. Doveva solo abituarsi all'idea di usarla per
per ottenere
ottenere
quelle informazioni. Perché doveva sentirsi in colpa? Lo faceva in nome della giustizia, per il bene
della comunità, e soprattutto del suo conto in banca. Prese la borsa e uscì dal bagno alla ricerca di
Simona. Era sicuro che lei fosse innocente; ma aveva conquistato la sua fiducia mentendole e questo
le avrebbe fatto male. Avrebbe lasciato la città portando con sé l'odio e lì dolore di quella donna
stupenda.
«C'è qualcosa che non va?», gli domandò lei camminandogli accanto. «Dopotutto non è necessario
che mi offri il pranzo; in fondo hai fatto la promessa prima che passassimo tutta la notte insieme a
parlare.»
«E dover essere considerato un tirchio per il resto dei miei giorni? Preferisco di no. Conosci un
buon ristorante?», chiese lui tentando di non far trapelare i suoi sentimenti e di non dimenticare lo
scopo principale di quell'uscita con Simona.
Seduti l'uno di fronte all'altra, davanti a un tavolo, sembravano entrambi immersi
immersi nei
nei propri
propri
pensieri. Per Rick quella donna stava diventando un vero tormento dell'anima. Sapeva il rischio che
correva e proprio per questo non poteva, non doveva innamorarsi di lei.
Simona lo guardò diritto negli occhi. «A cosa stai pensando?», gli chiese.
«Niente. Questo cibo lunare è veramente ottimo. Solo che.., ecco... stavo riflettendo sul tipo di vita
che fai.» Tacque per un momento non sapendo come continuare. «Voglio dire... vai a divertiti
mentre la gente lavora e lavori mentre gli altri si divertono. Quando trovi il tempo di
uscire se qualcuno ti dà un appuntamento?»
A quella domanda Simona abbassò lo sguardo sul suo carboidrato arrosto. In quell'istante si era
resa conto che in realtà erano mesi che non usciva con un uomo. «Ho tutti i sabati e le domeniche
liberi e la mia aiutante Elvira mi sostituisce qualche volta, se occorre.»
«Allora cerca di sapere se Elvira può lavorare venerdì al tuo posto», disse Rick con disinvoltura
cercando di concentrare la sua attenzione su quello che mangiava. Simona lo fissò. Era un uomo
veramente presuntuoso, pensò. Non riuscendo a capire dove volesse arrivare, rispose con apparente
indifferenza: «E perché dovrei farmi sostituire?»
Lui poggiò lentamente il cucchiaio sul piatto, si guardò intorno con aria circospetta e si sporse
sul tavolo avvicinandosi a lei, si accese una sigaretta e disse: «Perché se continuiamo così, per
per
venerdì saremo completamente cotti e tu avrai bisogno di un giorno libero, e poi lunedì è Pasquetta
e pensavo che avremmo potuto passarla insieme.»
Lei sbottò a ridere. «Sei incredibile, non ti dai proprio per vinto, vero?»
«Beh, almeno ho tentato», fece lui tornando a sedere, contento che Simona si stesse divertendo.
«Credo che tu sia la cosa peggiore che mi potesse capitare in questo momento. Sei una distrazione
che non posso permettermi, una complicazione nella mia vita.» Dopo un attimo di silenzio
aggiunse: «Ma ti voglio lo stesso.»
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Simona sorrise nervosamente cercando di convincersi che Rick desiderasse solo punzecchiarla. «E
che succede se io non voglio?» ribatté mascherando la sua incertezza.
Rick divenne serio. La fissò e avvicinandosi a lei disse con voce profonda e sicura: «Baciami Rick,
baciami e poi dimmi che non mi vuoi quanto ti voglio io.»
« No.» Ma non riuscì a pronunziare quella parola in modo così risoluto come avrebbe voluto.
« E il solo modo che hai per convincermi che tu non provi i miei stessi sentimenti, che il tuo
cuore non batte forte come il mio.» Notando che lei continuava a esitare proseguì: «Baciami,
poi dimmi di sparire e io lo farò senza protestare.» Poteva essere un buon affare, pensò lei, se
solo fosse riuscita a rispettare i patti fino alla fine; ma sapeva perfettamente che sarebbe stato
impossibile. E vero, lo desiderava, ma purtroppo Rick era l'ultimo uomo sulla luna con cui
avrebbe voluto impegnarsi. Ferluci non smetteva di guardarla mentre si avvicinava sempre di più.
Simona era paralizzata, non poteva più ribellarsi, ormai aveva perso completamente il controllo
della situazione. Si sentì sfiorare le labbra; era consapevole che quel gesto era qualcosa di più di un
bacio, era l'inizio di una relazione che avrebbe reso entrambi vulnerabili, succubi di un destino che
li voleva uniti malgrado tutto.
Dal registratore personale di Ferluci
Lunedì sei aprile... Pasquetta... Sapore di qualcosa che diventa sempre più commerciale e noi che
prendiamo un bel luogo comune.. ma sapete quanto guadagnano gli ipercomercianti di carboidrati in
questo periodo"' - "E perché? I panettieri?" - "E le macellerie??? Se pensate che solo noi due
abbiamo comprato 1 chilo di salsiccia e 3 costolette. Tutto organizzato nel ex appartamento di Rose
ai tempi dell’università, appuntamento alle 10 davanti un bar qualsiasi e poi diritti
all’appartamentino, tre stanze con giardino, gazebo e barbecue, ammesso che si abbia tanta fantasia
da riuscirli a vedere in sette metri quadri di appartamento. Il massimo per 2 ragazzi (ok diciamo una
ragazza ed un uomo maturo) affamati di divertimento ...e d'altro. Per me quella casa ha un sapore
particolare... praticamente vi ho passato tutta la mia vita sentimentalestudentescamusicalealcolista
dal primo anno di università.. sulla luna, un mese dopo aver conosciuto Rose. Da allora sono passati
quasi sei anni... allora ne avevo 20 adesso ne devo fare 26. Rose aveva traslocato meno di due anni
dopo in un'altra casa... io in quell’appartamentino non c'ero mai più entrato. Non so quanti di voi
hanno provato una sensazione simile, è come qualcosa ci spinge da dentro che si fa avanti dentro
dentro lo
lo
stomaco, a colpi di machete. Questo è quello che ho sentito rientrando in quella
quella casa...
casa... Li
Li dove
dove
Rose ed io avevamo letto assieme i primi romanzi di Heminguey, dove c'eravamo massacrati con
discussioni teologicotelevisive, dove c’eravamo semplicemente divertiti con gli amici (e per
divertiti intendo il vero significato della parola), dove avevamo scoperto le meraviglie della musica
new jazz di inizio secolo, senza dimenticare le interminabili partite a fantastisogno, un gioco che
facevamo sempre sia quando eravamo soli che quando c’erano amici, l’unica regola era semplice
bisognava sognare qualcosa di fantastico... Superato il primo momento di profondi ricordi (se
pensate che ne ho 26, sei anni fanno come!) andavo vagando in quella casa ed ero attaccato da una
balla sensazioni di deja-vu. Sceso al primo piano scoprii che la casa era rimasta precisamente come
allora.., niente era stato spostato. Mi catapultai nel mobile in cui erano raccolti tutti i libri che
leggevamo e i manoscritti che spesso erano il risultato di intere notti di fantastisogno e sintobirra,
purtroppo c’era solo un vecchi deck da rete, non aveva nemmeno un cavetto agganciato e sembrava
un monumento lasciato li a ricordare bei momenti di qualcun altro. Accanto invece cinque dat
musicali che riportavano data 2963, tranne la quinta, che era una cassetta che io stesso avevo
registrato, sulla custodia c'era la mia orribile scrittura di 20enne (che non si discosta di molto da
quella orribile di 26enne). Preso oramai da una robusta tristezza (sono sempre stato uno che pensa al
passato), stavo per uscire fuori quando i miei occhi quasi guidati da un'entità sconosciuta si
portarono su una pila di libri che non erano sfogliati più de tempo.... Presi i primi quattro o
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cinque non mi sapevano di nulla erano dei vecchi libri gialli, ma verso la fine mi apparve lui, ovvero
il mito in pratica un libro di Heminguey anzi “il libro" di Heminguey era il Mitico
, dicembre 2963, il primo libro che avevamo comprato di Heminguey, che sarebbe stato il primo di
una lunga serie. L'aveva comprato il giorno dopo di me (da allora ho tutti i libri), sotto mio
consiglio, era bastato dire ci c'era una storia di libertà (vederlo realizzato sul nostro piccolo satellite
sarebbe rimasto solo un sogno). Sfogliato il libro e fattomi quattro risate sulle note che come due
attenti studenti facevamo ai bordi delle pagine che più ci colpivano mi buttai a capofitto nella
microfesta organizzata con Simona, successivamente accesi una sigaretta, sei anni fa non avrei mai
pensato di fumare... La giornata passò velocemente nei divertimento generale, a parte il far vomitare
Simona che aveva bevuto troppo per l’80% della giornata (ha uno strano modo di divertirsi...pensa
solo a bere…). Alle sette e mezza era finito tutto, adesso toccava pulire e di forza incominciammo
io e la rediviva postvomito Simona. Dopo una buona mezzora passata a spaccarci la schiena, la casa
brillava; ci sedemmo sul tetto del appartamento a guardare il cielo oltre la cupola atmosferica lunare
e a riposarci un po' (forse più per il secondo motivo...) e li che Simona mi riferì la brutta notizia, q
aveva osato vomitare della sintobirra su quel Heminguey. Avevo pronosticato quella scampagnata
come un qualcosa che mi avrebbe distaccato ancora di più dalla storia con Rose, la distruzione di
quel libro era un segno evidente che questo non avverrà mai. Uno strano alone ci avvolse... Adesso
io torno al college per continuare le indagini, lei è partita per Milano per andare a lavorare nel suo
nuovo bar con Jason...
Penso che resterò sempre fedele a Rose.
(Un ora dopo che Rick è partito per incontrare Simona davanti ad un qualsiasi bar, questa lettera
arriva nella sua casella postale elettronica.)
Caro Rick…
Non sono una donna di fede … e questa cosa non ti è mai andata giù. Ti piaceva ripetermi, quando
mi inccazzavo perché volevi che ti accompagnassi alla messa domenicale: “Quando andrai
all’Inferno, Rose Stark, io non potrò salvarti. Non credere che abbia delle conoscenze laggiù…
solo perché mio padre era nell’ordine.”
Ma anche se la mia fede non è mai stata forte come la tua, amore .. ho pregato davvero la scorsa
notte… per capire cosa fare di noi. E , fra i ronzii delle holovetrine intermittenti che spingono
lampi artificiali nella mia camera, credo di aver trovato una risposta. Quando la MLX mi ha
offerto la fascia di maggior ascolto su onde medie presso la loro stazione di Nea Polis, abbiamo
riso all’idea che il programma diventasse “la Ros(a)e della Mattina”. Eppure quello che non hai
capito è che tu ridevi più forte di me. Ho deciso di accettare il lavoro, Rick.
Le cose fra noi non sono più le stesse dopo il caso Set. Si abbiamo avuto momenti d’intimità e la
tua accurata indagine che mi ha scagionato dalle accuse di omicidio mi ha fatto capire che tu — in
tutti i tuoi aspetti -- sei il mio salvatore. E che fierezza quando hanno trascinato il mio nome nel
fango. Non hai mostrato di vergognarti o giudicarmi … almeno verbalmente. So che sei sempre
stato in grado di perdonare, Rick – è uno degli aspetti della tua fede che ho sempre ammirato. Ma
dimenticare… beh non è mai stato il tuo forte. E anche se non ne parli mai, certi silenzi dicono
tutto (compresa la scomparsa di manifestazioni d’affetto dalla nostra vita, negli ultimi mesi). Ti
vergogni di quel mio passato. E ne hai diritto. Non passa giorno senza che mi meravigli di come
qualcuno a cui ho fatto tanti torti abbia potuto riammettermi nella sua vita. Ma non è così, Rick…
avrò sempre quella sensazione di essere stata riammessa nella tua vita. Sarà per sempre una tua
scelta. E questa disparità mi infastidirà comunque. Sono certa di sembrarti egoista, per il fatto di
volere un amore incondizionato da qualcuno che mi ha vista nel fango. Per desiderare un altro
dieci per cento da un uomo che mi ha già dato il centoventi. Devo apparirti irrazionale. Ma chi ha
detto che il cuore è razionale?
Ti amo Rick Ferluci, più di quanto possa esprimere. Sarai sempre al centro della mia esistenza, il
punto d’equilibrio della mia vita. Ma questa occasione darà ad entrambi il tempo per capire se
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siamo davvero innamorati…o solo innamorati dell’idea di essere abbastanza forti da trionfare
trionfare su
su
ogni avversità che la vita intende riservarci… o su quelle che il mio passato ci ha creato.
Stai bene, mio salvatore. Ti peserò spesso.
E se mai diventerò una donna di fede… pregherò per te… per noi.
Ti amo.
Rose
Due giorni dopo pasquetta accade qualcosa che mi sconvolse per sempre. No, non risolvo il caso e
neanche ritorno a vedere Simona o Rose. Niente di così banale. Succede qualcosa che è puro Rock
‘n’ Roll.
Giovedì 24 aprile 2968, ora terrestre 15.00, Stadio Aziendale Multiplex di Mooncity, “Still life”,
tour planetario dei Rolling Stones, dodicimila persone presenti per assistere alla più grande
clonorobotband di tutti tempi. Ci sono anche io, sono li, nelle prime file, a pochi metri dal palco.
L’aspettativa sale, i gravidiffusori sonori diffondono una musica, è “Take the train” di Duke
Ellington, ci siamo. Inizio a tremare, fra poco saranno davanti ai miei occhi, attaccarono con “Under
my tumb” ( da sempre i loro concerti cominciano così ). Improvvisamente eccoli: ecco Charlie
Watts, non un grande batterista, ma perfetto per i Rolling; ecco Billy Wyman : enorme il contrasto
tra il suo immobilismo fisico e i virtuosismi del suo basso Ron Wood, il miglior interprete del blues
degli Stones fra quelli che hanno provato a prendere il posto di Brian
Brian Jones;
Jones; ecco
ecco Keith
Keith Richards,
Richards,
col suo sguardo assente ma ben presente con i magici riff della sua chitarra. Infine lui, il rock fatto
uomo: Mike Jagger. Salta, balla, fa capriole, corre lungo gli ottanta metri del palco, getta secchi
d’acqua sul suo capo e sulle teste dell’accaldato pubblico. Per due ore gli Stones ci trasportano nella
loro storia, che è anche la nostra storia, in un crescendo, passando da “Jumping jack flash” a
“Simphaty for the devil”. Dopo “Satisfaction” il concerto finisce, il cielo è ancora chiaro, loro ci
regalano l’ultima emozione. Spengono il sole e, nel cielo, fuochi d’artificio compongono un’enorme
beffarda lingua di fuoco che si stagliava contro la madre terra sospesa sulle nostre teste.
Saranno anche dei robocloni ma come lo suonano loro il rock ‘n’ roll non lo suona nessuno.
(Un ora dopo essere tornato dal concerto Rick lesse le parole di Rose.)
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Le indagini di Rick fino a quel momento non avevano portato a niente. Aveva solo rimediato,
durante la sua permanenza sulla Luna: una ragazza che aveva subito mollato per non tradire la sua
fidanzata sulla terra; una lettera dalla sua fidanzata sulla terra in cui lei lo mollava; un concerto dei
mitici Rolling; la sua vecchia camera di quando andava al college.
Ora le cose si facevano difficili, non aveva un solo indizio su che fine avesse fatto Jessie o su chi
avesse potuto rapirla o ucciderla o.
Aveva bisogno di informazioni. Dove poteva trovarle? Infondo Rick sapeva che alla fine sarebbe
finito lì, era dal suo arrivo sulla Luna che aveva tentato di scacciare quel pensiero dalla testa, di
cercare di non ricordare, ma ormai sapeva che non avrebbe potuto mentire a se stesso ancora a
lungo, doveva salvare quella ragazza.
Il giorno dopo chiese ed ottenne il permesso di visitarlo alla Multiplex.
Il pomeriggio dello stesso giorno si diresse a bordo della MachPatrol color aragosta ad incontrare
Bill Denbrough, al vicino centro per malattie deviate della psiche.
Il centro era un edificio di quel tipo - e ancora lo è - che attira l'attenzione dei curiosi.
Originariamente si trattava di una fattoria lunare, o semplicemente di una costruzione spaziale di
primo insediamento, che seguiva lo stile architettonico coloniale della seconda metà del 2800 tipico
della Nuovi U.S.A.: aveva infatti la calotta di contenimento atmosferica separata da quella cittadina,
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l'entrata neoclassica, e l’arredamento interno dettato dal mutamento di gusto dell'epoca. Si
affacciava a sud, ed era interrata fino alle finestre del piano inferiore nel fianco est della collina che
che
si trova sul canyon del Mare della Tranquillità, mentre la facciata posteriore guardava sulla strada.
La sua edificazione, avvenuta più di un secolo e mezzo fa, aveva seguito il livellamento e lo
spianamento del primo livello cittadino di Mooncity, perché Nagai Street - che in precedenza si
chiamava Sony Street - inizialmente era una strada senza collettori gravitazionali per il viaggio
veloce, che si snodava intorno al cimitero dei primi coloni lunari, che venne spianato soltanto
quando il trasferimento delle salme nel cimitero di Amadeus Ground rese possibile farlo passare
sugli appezzamenti di terreno delle varie multinazionali. All'inizio, il muro ovest era stato eretto su
una distesa si sabbia lunare inclinato di circa settanta metri rispetto alla strada,
strada, ma
ma l'ampliamento
l'ampliamento di
di
questa al tempo delle guerre aziendali, tagliò la maggior parte dello spazio circostante cosicché,
davanti al reparto di massima sicurezza, non era rimasto che un piccolo riquadro della
pavimentazione stradale. La sua porta e le sue finestre si trovarono in tal modo a livello della strada,
vicinissime alla nuova linea di trasporto pubblico gravitazionale veloce. Quando, un secolo fa,
venne costruito il tunnel automatico per il passaggio pedonale, anche lo spazio rimanente venne
eliminato, e Rick, durante il suo viaggio per raggiungere l’ospedale, vedeva probabilmente soltanto
una strada di barre grigio cemento che costeggiava il tunnel, sulla cui sommità, a circa trenta metri,
si ergeva il vecchio nucleo dell’ospedale vero e proprio. I campi lunari si stendevano fino alla
collina, ed arrivavano quasi fino a Nagai Street. Lo spazio restante a sud dell’ospedale, che
confinava con Carter Street, si innalzava di molto dal livello del tunnel, e formava in tal modo un
perimetro circondato da un alto muro di cinta umido di muschio lunare. Dal muro si dipartiva una
fila di stretti scalini che conducevano all'interno tra i bruschi affossamenti di un prato dissestato, ee
tra umidi muri di mattoni e giardini abbandonati le cui urne smantellate di cemento, e i bricchi
arrugginiti mettevano in risalto la porta principale battuta dal vento prodotto artificialmente dalla
cupola di contenimento ambientale, le colonne doriche incrinate e il frontone triangolare tarlato.
Rick entrò nel edificio. Mentre percorreva il manicomio in compagnia di un inserviente
per raggiungere la roccaforte più interna, Rick Ferluci riuscì a non ascoltare i suoni delle porte che
sbattevano le urla, sebbene li sentisse fremere nell'aria, contro la pelle. La pressione si accentuava
come se stesse sprofondando nell'acqua, più giù, sempre più giù. La vicinanza dei pazzi, il pensiero
di Jessie Star legata e sola mentre uno di loro fiutava l'aria intorno a lui e si frugava nelle tasche per
trovare gli utensili, l'aiutavano a trovare la forza per fare il suo lavoro. Ma gli era necessario
qualcosa di più della forza di volontà. Doveva essere calmo, saper tacere, essere uno strumento
acutissimo. Doveva usare la pazienza nonostante il tremendo bisogno di fare in fretta. Se il dottor
Denbrough conosceva la soluzione del problema, a lui sarebbe spettato trovarla fra i tentacoli dei
suoi pensieri. Rick pensava a Jessie Star come alla ragazza di cui gli
gli aveva
aveva parlato
parlato Simona,
Simona, la
la
ragazza che sognava di scappare dalla fabbrica genetica che l’aveva creata.
L’inserviente premette il pulsante dell'ultima porta massiccia.
«Insegnaci la partecipazione e l'indifferenza, insegnaci a tacere.»
«Come ha detto?» chiese l’inserviente, e Rick si accorse di aver parlato a voce alta.
L’inserviente lo lasciò con un altro inserviente grande e grosso che aprì la porta, e si voltò per
andarsene. Rick si accorse che si stava facendo il segno della croce.
«Bentornata» disse l'inserviente, e chiuse i catenacci dietro di lei.
«Salve, Leon.»
Leon teneva il grosso indice premuto sul tasto “pause” di uno di quei videogiochi tridimensionali
portatili. Era Moon Strett Fighter della Capcoom. Rick era in uno stato d'animo in cui non gli
sfuggiva nulla.
«Come vuole le luci?» chiese Leon.
Il corridoio delle celle era semi buio. Verso il fondo si scorgeva la luce vivida dell'ultima cella che
si riversava sul pavimento.
«Il paziente Denbrough è sveglio.»
«Di notte è sempre sveglio.., anche quando le luci sono spente.»
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«Lasciamole così.»
«Cammini al centro del corridoio e non tocchi le sbarre. D'accordo?»
« L’holotrasmettitore è acceso Leon? »
« Si. »
«Voglio che spenga l’holotrasmettitore.» L'apparecchio era stato spostato. Era in fondo, rivolto
verso il centro del corridoio. Qualcuno dei ricoverati poteva vedere lo schermo appoggiando la testa
vicino ai campi di contenimento delle celle.
«Sicuro. Tolga pure l'audio, ma lasci le immagini se non le dispiace. Ad alcuni di loro piace
guardarle. La sedia è lì, se la vuole.»
Rick si avviò da solo per il corridoio semi buio. Non guardò nelle celle sui due lati. I suoi passi
echeggiavano. Non c'erano altri suoni, se non il russare che veniva da una cella, forse da due, e una
risata sommessa.
La cella del defunto Thomas aveva un nuovo inquilino. Rick vide le gambe allungate sul
pavimento, e la sommità di una testa appoggiata alle pareti. Lanciò un'occhiata nel passare. Sul
pavimento stava seduto un uomo, in mezzo a innumerevoli frammenti di carta. La faccia aveva
un'espressione vacua. La luce del televisore si rifletteva negli occhi e un filo
sottile di saliva gli colava dall'angolo della bocca alla spalla.
Non voleva guardare nella cella di Denbrough fino a quando non fosse stato sicuro che lui l'avesse
visto. Passò oltre, avverti un senso di prurito alle spalle, si avvicinò al holotrasmettitore e tolse
l'audio.
Nella cella bianca, Denbrough era nudo. Le uniche macchie di colore erano i suoi capelli, gli occhi
e la bocca rossa, in una faccia che non conosceva il sole da moltissimo tempo e sembrava sfumare
nel biancore circostante; i lineamenti parevano sospesi come quelli di un impiccato. Mentre Rick lo
osservava, Denbrough girò il volto, fletté i muscoli del torace per accentuare la tensione e alzo il
capo. Fu come se ogni ombra della cella gli volasse negli occhi e nell'attaccatura a punta dei capelli.
«Buonasera, Bill.»
La punta della lingua apparve tra le labbra altrettanto rosse, toccò l'esatto centro del labbro
superiore e rientrò.
«...mi conceda ancora un minuto…»
Lui notò il leggero stridore metallico della voce e si domandò quanto tempo era trascorso
dall'ultima volta che aveva parlato. Attimi di silenzio...
«Nullam caedem Otho maiore laetitia excepisse, nullum caput tam insatiabilibus oculis perlustrasse
dicitur: seu tum primum levata omni sollicitudine mens vacare gaudio coeperat, seu recordatio
maìestatis in Galba, amicitiae in Tito Vinio, quamvis inmitem ammum imagine tristi' confuderat;
Pisonis ut inimici et aemuhi caede laetari ius fasque credebat.
Praefixa contis capita gestabantur inter signa cohortium iuxta aquilam legionis, certatim
ostentantibus cruentas manus qui occiderant, qui interfuerant, qui vere qui falso ut pulchrum et
memorabile facinus iactabant. Plures quam centum viginti libellos praemium exposcentium ob
aliquam notabilem illa die operam Vitellius postea invenit, omnesque conquiri et interfici iussit, non
honore Galbae, sed tradito principibus more, munimentum ad praesens, in posterum ultionem.
Alium crederes senatum, alium populum: ruere cunctì in castra, anteire proximos, certare cum
praecurrentibus, increpare Galbam, laudare militum iudicium, exosculari Othonis manum;
quantoque magis falsa erant quae fiebant, tanto plura facere. »
« Bill. »
«…»
« Bill. »
«…»
« Bill. »
«…»
« Bill, cosa vuoi per degnarmi di un po’ della tua attenzione. »
« È tardi per una lezione, stasera» disse Denbrough.
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«Questa è una scuola notturna» rispose Rick, e si augurò che la sua voce fosse un po' più forte di
quanto a lui sembrava.
« Cosa devo fare Bill per ottenere un po’ della tua attenzione? »
« Niente, tenete Ferluci. »
« Non, sono più tenete. Ma questo lo sai benissimo, vero! »
«…»
« Sono qui per chiederti della ragazza scomparsa, quella di cui nessuno dovrebbe sapere niente e
che invece tutti conoscono. »
« Ragazza, ti ostini ancora a chiamarli così i lavori in pelle, anche dopo Mooncity. Ricordi
Mooncity, vero tenete. »
«…»
« Saresti capace di giurarmi che ci sono notti in cui non ci pensi. Giurami che ci sono notti in cui
cui
non ti svegli con il sudore freddo che ti bagna la fronte e il cuore che sembra il batterista di una
band di metallo pesante. »
« Tacito. “Spettacolo di sangue e di viltà in Roma”. »
« Sei sempre stato un ottimo studente, uno di quelli che assimilano tutto da i loro maestri. Sai
perché? »
« Cosa sai della ragazza? »
« Non era una ragazza, era solo un genecostrutto anche se di ottima qualità, ma comunque restava
un normale lavoro in pelle. »
Rick guardò attraverso il campo invisibile di contenimento della camera di sicurezza in cui era
custodito Denbrough. Dentro la camera era spoglia di ogni cosa, anche la più necessaria per i
bisogni di un uomo. Denbrough era nudo, in posizione verticale come se fosse stato crocifisso ad un
legno invisibile, sostenuto campi micro campi gravitazionali a due metri dal pavimento.
I medici dell’istituto la chiamano cella di contenimento zero, questo perché durante i momenti in
cui le pulsazioni del paziente superavano la soglia di sicurezza mostrando uno stato di agitazione,
per calmarlo ed evitargli di pensare, la temperatura interna della cella era portata in pochi secondi a
–273.15°. Lo zero assoluto, lo stato della materia in cui gli atomi e le particelle subatomiche si
fermano.
« Cosa ne sai? »
« Il periodo di oscuramento sta per finire. »
«Vedo che non hai perso il conto dei giorni in questo inferno carcerario. »
« E’ un serial killer? »
« Il secondo tempo è quasi finito. »
« Il secondo tempo di cosa Denbrough? »
Di improvviso i piccoli occhi di Bill persero la loro caratteristica luce, e il suo corpo si irrigidì. Le
sue pulsazioni avevano superato gli ottanta battiti al minuto. Sarebbe rimasto ibernato per due ore
come punizione per la sua agitazione.
Rick sapeva che Bill aveva deliberatamente fatto salire le sue pulsazioni per interrompere la
discussione, così decise di uscire da quell’inferno tecnologico legalizzato per andare a riflettere sui
nuovi indizi che aveva trovato.
Era intontito ma aveva paura di ritornare in sé. Camminava a testa bassa, senza rivolgere la parola a
nessuno. Sentiva il sangue pulsargli nelle orecchie. Gli parve che ci volesse pochissimo per uscire.
Il manicomio criminale era un unico edificio: solo cinque porte fra Denbrough e il mondo esterno.
Aveva la sensazione assurda che Denbrough fosse uscito insieme a lui. Si fermò sull'ingresso e si
guardò intorno per assicurarsi di essere solo.
8
21
Poco dopo l'alba del venerdì, il cielo azzurro del giorno precedente iniziò a velarsi di nuvole,
sempre più minacciose. Quando Ferluci si mise nella sua MachPatrol un vento freddo, proveniente
dal condizionatore atmosferico posto sul lato est della megalopoli lunare, iniziò a spazzare la strada,
proiettando foglie e aghi di pino contro il parabrezza dell'auto.
A Rick quell'atmosfera non piacque: gli ricordava troppo l'autunno terrestre.
La cittadina della Multiplex iniziava neppure a meno chilometro dal Craven’s College, con una
manciata di grossi capannoni e vecchi monolocali precostruiti per operai costruiti su entrambi i lati
della strada, ospitate in piccole radure ricavate dai boschi circostanti. Per delimitare i bordi della
strada era stato usato del terreno sabbioso lunare, che, in alcuni punti, invadeva prati dall'aria
trascurata quanto le case.
Rick si accorse subito che la cittadina stava morendo.
Il quartiere commerciale era lungo cinque isolati anche se alcuni dei negozi travalicavano i suoi
confini. Nessuno degli edifici della cittadina era alto più di tre piani; per lo più erano in vecchio
cemento, ma alcuni avevano facciate di acciaio o in S.T.E.T. consunta dal tempo. Rick ne contò sei
in affitto, e molti - troppi - le cui finestre erano state coperte con pannelli di policompensato o
dipinte di bianco smorto. Uno cartello olografico troneggiava al centro della strada principale,
annunciando il centocinquantesimo anniversario della fondazione della cittadina, il che spinse Rick
a chiedersi, come spesso gli succedeva, cosa avesse attratto i primi coloni terrestri. Non c'era alcun
giacimento, il terreno non sembrava facilmente terraformabile, e la Multiplex era stata fondata
soltanto nel 2907, mentre la vicina Grant Lunar Base era stata costruita perfino più tardi.
Rick individuò il bar, all'angolo della strada, uno dei molti ancora aperti e immaginò che, qualunque
fosse stato il motivo della fondazione di questa piccola città dormitorio della Multiplex, subisse
comunque il traffico di passaggio, diretto allo scalo spaziale della base lunare. E, almeno stando
all'aspetto dei palazzi, non doveva avere vissuto male.
Dimenticando per un attimo i danni arrecati dal tempo, Rick vide una cittadina che, in tempi
migliori, doveva essere stata molto prospera, specialmente se si teneva conto che aveva dovuto
affrontare la concorrenza spietata delle cittadine vicine.
Sulla sinistra, all'inizio dell'isolato seguente, vide la solida facciata di granito di grande capannone.
Là. i negozi era no ancora tutti aperti, per quanto i loro affari dovessero essere molto magri, se si
consideravano lo stato dell'economia del paese e i tagli operati dal governo al bilancio delle grandi
società lunari come la Multiplex negli ultimi anni.
«Questo posto è deprimente,» commentò tra sé Rick. «Ma come fanno a viverci?»
Rick dopo averci pensato un po’ si rispose che era l’inerzia la risposta.
Se ci si poteva permettere di vivere soltanto là, non c'erano molti altri posti in cui andare, se poi
comunque si doveva tornare all Multiplex. Probabilmente, se avesse domandato in giro, tutti
avrebbero dato risposte differenti; senza dubbio, però, tutto si riduceva a, «Perché sbattersi più di
tanto?»
«Signore siamo giunti a destinazione»sentenziò con voce artificiale il computer di bordo.
Un edificio a un unico piano ma largo quanto un capannone, costruito con assi di acciaio dipinte di
bianco, occupava un terzo dell'isolato sulla destra. Un holoinsegna nuova di zecca, su cui era
visibile una scritta in lettere dorate, annunciava che si trattava della stazione di polizia. Una
bandiera lunare pendeva floscia da un'asta accanto alle doppie porte.
Rick parcheggiò in una piazzola di fronte all'entrata, si
sfregò le mani, e scese in fretta dall'auto.
Dopo essere sceso Rick si mosse con molta più calma, attese che l’addetto finisse le procedure
standard di assestamento nel parcheggio. Non disse nulla, si scambiarono uno sguardo che
significava "Va bene?" e poi percorse il vialetto di cemento che portava all’entrata. L’addetto che
accolse Rick appena entrò nell’edificio volle sapere perché avevano cominciato proprio da lì le
indagini, visto che poteva avere maggiori informazioni sul genecostrutto scomparso dallo spazio
porto Grant da dove poteva essere arrivata sulla Luna dopo il rapimento.
Rick distolse il volto, per evitare una folata di vento. «Diciamo che di solito e più facile sapere
qualcosa dalla “famiglia” della scomparsa che da altri.» disse con aria di sufficienza poi lo fissò,
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guardò fuori dalla porta, aprì la porta, entrando in un ampio locale che occupava un terzo
dell'edificio. Una ringhiera di legno correva da una parete all'altra; leggermente a sinistra del
cancelletto centrale, un'agente in armatura leggera da combattimento, incaricata di inviare i dispacci,
sedeva davanti alla sua radio e scriveva qualcosa in un registro. Alle sue spalle si vedevano tre
scrivanie metalliche; nessuna era occupata.
A destra del cancelletto, una quarta scrivania, molto più grande delle altre, era rivolta verso
l'entrata. Dietro vi sedeva un poliziotto la cui uniforme, notò Rick, era stata cucita dieci anni e dieci
chili prima. Il suo volto era quello di un uomo che aveva passato la maggior parte della sua vita
all'aperto e a bere. Aveva i capelli tagliati a spazzola: un tempo dovevano camere
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