Indice - On the Road ONLUS
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Indice Introduzione, di Marco Bufo pag. 8 1. La tratta di persone in Italia nella letteratura in materia di Isabella Orfano 1.1 Premessa metodologica 1.2 Le caratteristiche principali della letteratura esaminata 1.3 La tratta a scopo di sfruttamento sessuale 1.4 La tratta a scopo di sfruttamento nel lavoro forzato 1.5 La tratta a scopo di sfruttamento nell’accattonaggio 1.6 La tratta a scopo di sfruttamento nelle economie illegali 1.7 La tratta a scopo di espianto di organi 1.8 La tratta a scopo di adozioni internazionali illegali 1.9 Le organizzazioni criminali 1.10 Osservazioni conclusive » » » » » » » » » » » 14 14 15 19 42 45 47 48 49 50 59 » » » » 74 74 75 77 2. La tratta di persone a scopo di sfruttamento sessuale in strada e negli ambienti al chiuso di Elisa Bedin e Claudio Donadel 2.1 L’oggetto e le finalità della ricerca 2.2 Criteri metodologici 2.3 I principali aspetti alla base delle trasformazioni del fenomeno 2.4 Le aree geografiche di provenienza e le condizioni di vita alla partenza 2.5 Le forme di reclutamento, l’organizzazione del viaggio e la partenza 2.6 L’arrivo in Italia: le condizioni di vita, le pratiche di assoggettamento e le modalità di sfruttamento 2.7 Gli sfruttatori e l’organizzazione dello sfruttamento: le percezioni delle vittime 2.8 La modalità di fuoriuscita dallo sfruttamento 2.9 Osservazioni conclusive 2.10 Appendice 5 » 80 » 89 » 98 » 107 » 112 » 117 » 120 3. La tratta di persone a scopo di grave sfruttamento lavorativo di Francesco Carchedi, Federica Dolente, Tiziana Bianchini e Anna Marsden 3.1 Le nuove schiavitù e il lavoro coatto: gli aspetti distintivi e le ipotesi della ricerca 3.2 Le caratteristiche strutturali del collettivo intervistato 3.3 L’organizzazione del viaggio e la partenza dal paese di origine 3.4 L’ingresso sul territorio nazionale e l’impatto iniziale con il contesto di insediamento 3.5 Gli immigrati vulnerabili: modalità di invischiamento nelle dinamiche di sfruttamento vessatorio 3.6 L’intermediazione illegale e abusiva del lavoro 3.7 I settori produttivi di maggior coinvolgimento di lavoratori gravemente sfruttati 3.8 Le modalità di fuoriuscita dalle condizioni di grave sfruttamento 3.9 Le forme di grave sfruttamento lavorativo: il caso di Varese 3.10 Lo sfruttamento e l’auto-sfruttamento nelle aziende cinesi di Prato 3.11 Osservazioni conclusive pag. 126 » » » 126 133 137 » 148 » » 151 160 » » » 164 172 181 » » 189 207 4. Dalla tratta al traffico, allo sfruttamento: i minori stranieri coinvolti nell’accattonaggio, nelle economie illegali e nella prostituzione di Valeria Ferraris » 4.1 Introduzione: le ipotesi di ricerca e i criteri metodologici » 4.2 Le aree geografiche di provenienza e la collocazione nei mercati di sfruttamento » 4.3 Il background familiare e le condizioni socio-economiche alla partenza » 4.4 La partenza dal paese di origine » 4.5 L’organizzazione del viaggio e l’arrivo in Italia » 4.6 Le condizioni di vita in Italia » 4.7 L’ingresso in attività devianti » 4.8 Le modalità di lavoro e di sfruttamento » 4.9 L’universo variegato degli “organizzatori” dello sfruttamento » 4.10 I percorsi di fuoriuscita dallo sfruttamento » 4.11 Strategie di accoglienza dei minori e di intervento sulla famiglia » 4.12 Osservazioni conclusive » 216 216 217 219 224 229 235 238 242 254 261 268 274 5. Il commercio dei corpi: la tratta a scopo di espianto di organi di Giovanni Alteri » 278 5.1 Il sistema di raccolta dei dati e la difficoltà nel dimensionare il fenomeno » 278 6 5.2 Le aree geografiche coinvolte 5.3 Il sistema italiano delle donazioni e dei trapianti 5.4 La legislazione internazionale ed italiana sul traffico di organi 5.5 Le forme di reclutamento e la partenza dal paese di origine 5.6 Gli sfruttatori e l’organizzazione dello sfruttamento 5.7 L’organizzazione del viaggio e l’arrivo in Italia 5.8 Il dibattito sulla legalizzazione del commercio di organi 5.9 Osservazioni conclusive pag. 281 » 281 » 284 » 285 » 288 » 288 » 290 » 291 6. Il fenomeno delle adozioni internazionali illegali: tra violazione della normativa e rischio di tratta di Daniela Bonardo » 6.1 Introduzione al fenomeno delle adozioni internazionali illegali » 6.2 Definizione di adozione internazionale illegale nella normativa internazionale ed italiana » 6.3 Il contesto delle adozioni internazionali in Italia » 6.4 Forme e modalità delle adozioni internazionali illegali » 6.5 Tracce di illegalità » 6.6 Conseguenze per il minore » 6.7 Conseguenze sul sistema » 6.8 Osservazioni conclusive » 296 299 304 305 307 308 308 7. Le dimensioni della tratta di persone in Italia di Anna Italia e Daniela Bonardo 7.1 Premessa 7.2 Le fonti 7.3 I dati disponibili sulle vittime 7.4 I dati disponibili sugli sfruttatori 7.5 Altri dati a supporto della conoscenza del fenomeno 7.6 Osservazioni conclusive » » » » » » » 309 309 310 313 319 324 326 Osservazioni conclusive: questioni aperte e proposte di lavoro di Francesco Carchedi e Isabella Orfano » 327 Glossario di Salvatore Fachile, Valeria Ferraris, Isabella Orfano, Elena Rozzi » 339 Osservatorio e Centro Risorse sulla Tratta di Esseri Umani Lista dei/delle testimoni privilegiati/e intervistati/e Le autrici e gli autori » » » 352 356 360 7 295 295 Introduzione di Marco Bufo La tratta degli esseri umani. Una espressione che sembra echeggiare pratiche ed epoche lontane nel tempo e nello spazio. Tuttavia, in parte, ma oramai sempre più – non solo nella consapevolezza e nell’esperienza di operatori, di responsabili degli interventi di tutela e di contrasto e di policy makers, ma anche in una certa misura nella percezione dell’opinione pubblica – il fenomeno si configura come una realtà drammaticamente presente, e in varie forme, nelle nostre “società del benessere”. Al tempo stesso però resta, rispetto alla vera e diffusa presa di coscienza del suo radicamento metamorfico nella nostra visione della realtà, un misto strato trasversale di indifferenza, incredulità, sospetto, minimizzazione, forse riassumibile nel concetto di straniamento. Ciò accade per varie ragioni. La prima può essere la tendenza a rimuovere dalla coscienza collettiva verità che possono metterla in crisi: è più facile e sopportabile immaginare che forme estreme di negazione e violazione dei diritti umani avvengano lontano da noi, in paesi di cui scorrono le immagini sugli schermi televisivi, piuttosto che riconoscerle nella nostra quotidianità e normalità. Una seconda ragione di “distanziamento difensivo” è data dal fatto che le persone assoggettate alle forme di sfruttamento legate alla tratta sono spesso soggetti poco graditi, ipocritamente vissuti come “altro da noi”: prostitute, immigrati, clandestini, lavavetri e mendicanti, badanti (ipocritamente poiché evidentemente, altrettanto spesso, rappresentano la risposta ad una domanda espressa “da noi” di sesso a pagamento, di lavoro a bassissimo costo). Su questo piano, peraltro, è particolarmente rilevante la confusione tra traffico di migranti (smuggling) e tratta di persone (trafficking). Una terza ragione risiede nel carattere sovente sommerso del fenomeno, nel fatto che è nascosto o celato dietro una esteriore ordinarietà che ne determina l’invisibilità ad occhi che non immaginano una vittima di tratta se non tumefatta o in catene. Tali ragioni racchiudono gli elementi oggettivi della difficoltà di riconoscere il manifestarsi della tratta e dello sfruttamento e, conseguentemente, di riconoscere le persone che ne sono vittime. Tra i principali ostacoli all’identificazione delle persone trafficate, vi sono: le differenze culturali e linguistiche (e dunque le difficoltà di comunicazione e di decodifica di “linguaggi” inconsueti, pensando 8 ad esempio alle donne nigeriane o alle persone cinesi); i pregiudizi (verso la prostituzione, l’immigrazione); la dimensione sommersa del fenomeno (la prostituzione al chiuso, il lavoro forzato nei campi o nelle manifatture); la mimetizzazione della condizione delle vittime in contesti di apparente normalità (ad esempio le cosiddette badanti); l’adozione di metodi di reclutamento, controllo e sfruttamento basate meno che in passato sulla violenza fisica e più sul condizionamento e sulla concessione di margini di libertà di movimento e di partecipazione dei guadagni alle vittime, che sempre più non riescono a percepirsi come tali. Da sottolineare infine la perdurante difficoltà a cogliere le distinzioni e le dinamiche di correlazione tra traffico di migranti e tratta di persone: da una parte, il secondo fenomeno viene confuso con il primo, dall’altra si tende a trascurare il fatto che un percorso iniziato come migrazione irregolare può trasformarsi in sfruttamento e riduzione in schiavitù una volta che la persona è giunta nel paese di destinazione e la condizione di vulnerabilità la porta a cadere in circuiti di assoggettamento. L’insieme tratteggiato di pregiudizi/“disattenzioni” e delle difficoltà oggettive influenza il discorso pubblico e inficia anche l’atteggiamento e la piena attivazione dei soggetti tradizionalmente impegnati nelle azioni di tutela e di contrasto alla tratta nonché di quelli che, alla luce dell’ampliarsi del fenomeno in nuovi ambiti di sfruttamento, dovrebbero entrare in campo (ad esempio, sindacati e associazioni di categoria, ispettorati del lavoro, Guardia di finanza…). La tratta, dalle sue prime manifestazioni sui territori italiani fino alle sue connotazioni odierne, ha subito costanti trasformazioni diventando una realtà sempre più complessa che si diversifica su più livelli. Nell’ambito dello sfruttamento sessuale nella prostituzione, che rimane quello più noto e probabilmente di fatto quello prevalente, a partire dai primi anni ’90, si sono alternati o sovrapposti flussi di donne e minori di diversa nazionalità (albanesi, nigeriane, moldove, ucraine, russe, latinoamericane, rumene, cinesi), con un graduale aumento del numero di paesi di origine coinvolti, con l’affiancarsi allo sfruttamento in strada di quello al chiuso in appartamenti e locali notturni e con il conseguente incremento dell’invisibilità e irraggiungibilità delle persone sfruttate in tali luoghi. Sono cambiati l’organizzazione delle reti e dei singoli criminali e i metodi di reclutamento, controllo e sfruttamento impiegati, con l’evidenziarsi dei seguenti trend: il passaggio da gruppi semi-dilettantistici e poco organizzati a gruppi fortemente organizzati con collegamenti transnazionali e radicati nei paesi di destinazione; il passaggio da forme coercitive particolarmente violente a strategie più sottili, basate anche sulla concessione di un maggior margine di contrattualità alle vittime; il coinvolgimento di alcune vittime nell’attività di controllo delle persone sfruttate; lo sviluppo della capacità di 9 abbinare la tratta e lo sfruttamento ad altre attività illecite (traffico di migranti, di droga e di armi) e lecite (es. riciclaggio di denaro sporco attraverso attività commerciali regolari); la diversificazione degli ambiti in cui sfruttare le persone trafficate. Negli ultimi anni, infatti, si sono progressivamente affermati altri contesti in cui le vittime della tratta vengono sfruttate: settori produttivi di diverso tipo dell’economia italiana (es. agricoltura, edilizia, manifatture, lavoro di cura, etc.) in cui vengono agite forme di grave sfruttamento lavorativo e di lavoro forzato; accattonaggio forzato conto terzi; attività illegali coercitive (es. spaccio di sostanze stupefacenti, furti, borseggi); espianto di organi e adozioni internazionali illegali, ambiti su cui però non esistono ancora evidenze concrete ma solo presupposizioni. Resta come elemento comune e perdurante il fatto che la tratta di persone rappresenta una gravissima violazione dei diritti umani che colpisce donne, uomini, minori e transgender assoggettati a forme di sfruttamento e di violenza fisica e psicologica diversificate, agite da organizzazioni criminali che approfittano della spinta di migliaia di persone a migrare alla ricerca di una vita migliore per sé e per le proprie famiglie. L’Italia dispone di strumenti normativi e di un sistema di interventi, basato sull’art. 18 del Testo Unico sull’Immigrazione (d.lgs. 286/98) e più recentemente sull’art. 13 della legge “Misure contro la tratta di persone” (l. 228/2003) che ne fanno il modello più avanzato nel panorama internazionale per la tutela delle persone trafficate e per il contrasto al fenomeno criminale. Tuttavia, i recenti scenari delineati pongono nuove sfide, in termini di conoscenza, di definizione di politiche, di attuazione di interventi, di coinvolgimento di nuovi attori, di cambiamento culturale. Non conoscere significa non intercettare i fenomeni e mancare nel dovere di tutela verso persone che rimangono nel circuito dello sfruttamento o tuttalpiù vengono rimpatriate forzosamente come migranti irregolari. Per tali ragioni, l’Associazione On the Road ha proposto ad una serie di partner diversificati, sul piano delle competenze e dei settori di intervento, di costruire e realizzare, nell’ambito dell’Iniziativa Comunitaria Equal, il progetto “Osservatorio e Centro Risorse sulla Tratta di Esseri Umani”. I partner del progetto sono: il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Torino, il Consorzio Nova, il Comune di Venezia, l’Istituto per la Ricerca Sociale, il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza – Cnca, il Censis, la Provincia di Pisa, l’Azienda Ulss 16 di Padova, Irecoop Veneto, Save the Children Italia Onlus. Il progetto, denominato sinteticamente “Osservatorio Tratta”, si propone di costruire nuovi strumenti e sistemi di conoscenza e di monitoraggio sulle diverse forme di sfruttamento legate alla tratta (nella prostituzione, nel lavoro 10 forzato, nell’accattonaggio e nelle attività illegali, nelle adozioni internazionali illegali e nel traffico di organi), prospettando al contempo strumenti di raccordo tra gli enti di diversa natura e a diversi livelli impegnati nella tutela delle persone trafficate e nel contrasto al fenomeno, con la finalità di incidere positivamente sulle politiche e gli interventi di settore. Il coinvolgimento dei vari soggetti pubblici e privati promotori ed attuatori dei progetti art. 18 d.lgs. 286/98, dei progetti art. 13 della l. 228/2003, delle postazioni locali del Numero Verde Nazionale a favore delle vittime di tratta e di altri soggetti-chiave, quali Forze dell’ordine e Autorità giudiziaria, servizi sanitari, servizi per l’impiego, associazioni sindacali e datoriali, reti del terzo settore, è pertanto alla base dello sviluppo delle diverse azioni progettuali, a partire dalle attività di ricerca volte ad acquisire conoscenze aggiornate sul fenomeno, che sono l’oggetto del presente libro. Il volume di compone di sette capitoli e tre allegati che presentano i risultati delle varie ricerche sul fenomeno effettuate nell’ambito del progetto Osservatorio Tratta. Il Capitolo 1, redatto da I. Orfano, presenta l’analisi di un campione di ricerche, pubblicate tra il 2000 e il 2006, sulla tratta di persone in Italia. Tale studio è stato finalizzato all’individuazione delle tematiche maggiormente esplorate e alla conseguente rilevazione dei bisogni conoscitivi, di cui si è tenuto conto nel realizzare le indagini presentate negli altri capitoli di questo libro. Il capitolo offre quindi una sintesi dei principali trend ed evoluzioni del fenomeno registrate in Italia dagli anni Novanta ad oggi; elenca i possibili temi di approfondimento; offre spunti di riflessione sull’uso della lingua e la costruzione del discorso pubblico in materia di tratta. Nel Capitolo 2, E. Bedin e C. Donadel analizzano le trasformazioni che hanno modificato la tratta a scopo di sfruttamento sessuale nell’ultimo quinquennio. In particolare, hanno identificato gli elementi distintivi che caratterizzano le varie fasi della tratta (reclutamento, trasferimento in Italia, sfruttamento, eventuale fuoriuscita), concentrando l’attenzione su quegli ambiti e modalità di esercizio della prostituzione (forzata) ancora poco esplorati: luoghi al chiuso (appartamenti, locali di intrattenimento notturno, centri massaggi, etc.) e sull’alternanza dell’attività prostitutiva in strada e al chiuso. Nel Capitolo 3, F. Carchedi, F. Dolente, T. Bianchini e A. Marsden esaminano una delle forme di tratta finora meno esplorate, ovvero quella a scopo di lavoro forzato o para-schiavistico. Il lavoro para-schiavistico è stato distinto dal lavoro nero in quanto coloro che ne sono coinvolti ne rappresentano l’estremità maggiormente sfruttata ed impossibilitata a recedere dal “contratto” che li lega al datore di lavoro. L’indagine ha fatto emergere un panorama di sfruttamento – anche di forme gravi – che riguarda lavoratori stranieri occupati nelle aziende italiane. Il confine tra sfruttamento da lavoro nero e sfruttamento da lavoro para11 schiavistico non risulta essere netto e facile da demarcare. Attraverso la ricerca, tuttavia, è stato possibile ricostruire i percorsi migratori, le modalità di ingresso in Italia dei lavoratori stranieri, i settori produttivi e gli attori che concorrono ad attivare relazioni lavorative basate sull’assoggettamento. Il Capitolo 4 – curato da V. Ferraris – affronta le questioni relative al coinvolgimento di minori stranieri in percorsi devianti e illegali (spaccio di sostanze stupefacenti, furti, borseggi, accattonaggio conto terzi, prostituzione) al fine di determinare se sia possibile ricondurre tali fenomeni ad una forma organizzata di tratta di minori. Lo studio si è in particolar modo concentrato sui minori marocchini e rumeni, rom e non, in quanto essi costituiscono i principali gruppi di giovani stranieri presenti in Italia e i più significativi rispetto agli obiettivi stabiliti dalla ricerca. È stato quindi possibile individuare e distinguere i collettivi di minori che praticano le attività sopracitate ai limiti o oltre i limiti della legalità: per la loro sopravvivenza individuale o familiare in assenza di particolari condizionamenti coercitivi; in ambiti organizzati riconducibili ad una sorta di “caporalato”; in condizioni di grave assoggettamento. Il Capitolo 5, redatto da G. Alteri, prende in esame una delle forme meno conosciute e complesse di tratta: quella finalizzata all’espianto di organi. Le scarse evidenze empiriche di un fenomeno di difficile intercettazione non hanno finora permesso di provare l’esistenza di questa tipologia di tratta in Italia. È invece comprovata l’esistenza di un commercio internazionale di organi e di tessuti, sia sottoforma di compravendita di organi tra adulti consenzienti che di viaggi della speranza in paesi in via di sviluppo per effettuare un trapianto illegale. Lo studio effettuato ha permesso di chiarire categorie concettuali fondamentali per distinguere in maniera netta il commercio illegale di organi dalla tratta a scopo di espianto di organi. Nel Capitolo 6, D. Bonardo indaga il fenomeno delle adozioni internazionali illegali esaminando le possibili contiguità tra violazione della normativa pertinente e rischio di tratta. Lo studio mette in evidenza che le adozioni illegali, gli abusi e le pratiche irregolari compiute in vari momenti del percorso di adozione internazionale riguardano anche l’Italia, ma il collegamento con la tratta risulta essere molto incerto. Nel Capitolo 7, A. Italia e D. Bonardo analizzano le fonti statistiche ufficiali disponibili in Italia sulle vittime e gli autori del reato di tratta. L’indagine mette in evidenza l’esistenza di fonti diverse, gestite da organi distinti che raccolgono dati spesso di difficile comparazione. Si tratta di una tematica alquanto importante poiché definisce l’entità quantitativa rilevata del fenomeno della tratta e delle forme coattive di sfruttamento e influenza direttamente la programmazione degli interventi istituzionali. Il volume contiene anche un Glossario – a cura di S. Fachile, V. Ferraris, I. Orfano e E. Rozzi – contenente le definizioni di tratta di persone, traffico di 12 migranti, schiavitù/pratiche analoghe alla schiavitù e servitù, lavoro forzato e una spiegazione degli ambiti di sfruttamento presi in esame (prostituzione, pornografia, lavoro para-schiavistico, accattonaggio, attività illegali, vendita di minori a scopo di adozione internazionale illegale, vendita di organi). Il Glossario, qui messo a disposizione dei lettori e delle lettrici, è nato come uno strumento di facile consultazione per permettere ai partner del progetto Osservatorio Tratta di condividere definizioni, così come elaborate dalla legislazione vigente, e ambiti concettuali su cui le azioni progettuali si sono concentrate. Infine, sono incluse una scheda sintetica del progetto Osservatorio Tratta, la lista degli autori e delle autrici delle ricerche presentate in questo volume e la lista dei nomi delle persone intervistate in qualità di testimoni privilegiati, senza la collaborazione delle quali il presente lavoro non sarebbe stato possibile. Questo libro contiene dunque il tentativo di esplorare ed analizzare il fenomeno nelle sue attuali evoluzioni ed articolazioni. Questo libro porta però con sé anche una consapevolezza e un auspicio non separabili. La consapevolezza che la complessità e continua evoluzione dei fenomeni della tratta di persone richiede un approccio di costante attenzione, di ricerca permanente. E questo approccio va attuato nell’agire quotidiano degli operatori delle diverse agenzie impegnate sul campo e nella intenzionalità e ricettività di chi, nella interazione con i primi, ha il compito di programmare le politiche e gli interventi. Un approccio che dunque accompagna all’azione l’utilizzo deliberato di strumenti di lettura ed analisi e che tuttavia deve essere integrato dalla realizzazione di ricerche ad hoc, per indagare nuove connotazioni del fenomeno o per approfondire la conoscenza di specifici aspetti. L’auspicio è che l’agire dell’operatore-ricercatore e del policy maker-analista sia non solo sempre più consapevole e diffuso (attraverso quell’approccio appena delineato e che resta irrinunciabile), ma confluisca nella costruzione di un sistema complessivo, multidisciplinare ed integrato di lettura del fenomeno della tratta. Questo libro è infatti il prodotto di un progetto che mira a prefigurare un Osservatorio Permanente sulla Tratta, nella convinzione che la capacità di leggere in profondità, con ampiezza, con organicità, in termini multidisciplinari, con sistematicità la tratta di persone e i suoi cambiamenti, è il presupposto indispensabile per programmare le politiche e gli interventi, per dare loro attuazione utilizzando categorie e linguaggi condivisi attraverso l’imprescindibile approccio multi-agenzia, per aumentare le possibilità di emersione e di tutela delle vittime ponendo al centro i loro diritti, per strutturare le attività in rispondenza delle varie manifestazioni del fenomeno e dei bisogni delle persone trafficate, per rendere più incisive le azioni di prevenzione e contrasto, in una correlata dimensione locale, nazionale, transnazionale. 13 1. La tratta di persone in Italia nella letteratura in materia di Isabella Orfano 1.1 Premessa metodologica Il presente capitolo offre una sintesi dei principali risultati emersi dall’analisi di un “campione” selezionato di pubblicazioni e di ricerche1 – quasi esclusivamente italiane – che riguardano la tratta di persone così come essa si è sviluppata nel nostro Paese negli ultimi dieci anni. L’obiettivo finale di tale desk review è stato quello di individuare le tematiche maggiormente esplorate e, di conseguenza, quelle meno analizzate sul fenomeno della tratta; carenze che in parte sono state colmate dalle ricerche successivamente realizzate2 con il progetto Equal “Osservatorio e Centro Risorse sul Traffico di Esseri Umani”. Il capitolo si suddivide in tre parti che riguardano: a) l’analisi degli elementi distintivi dei testi presi in esame; b) le caratteristiche principali dei fenomeni di tratta che emergono dalla letteratura analizzata; c) le osservazioni conclusive. Per raggiungere gli obiettivi sopra definiti, la ricerca ha previsto le seguenti fasi: • Fase I: definizione degli ambiti di ricerca ed elaborazione degli strumenti metodologici e delle procedure operative: - predisposizione e pre-test dello strumento da utilizzare per la schedatura dei materiali prescelti; - definizione dei criteri per la selezione della letteratura da esaminare; • Fase II: raccolta bibliografica e selezione dei testi da utilizzare come bibliografia di sfondo e come bibliografia da prendere in esame; • Fase III: lettura e schedatura dei testi selezionati; • Fase IV: analisi delle informazioni raccolte e stesura del rapporto3. 1 La bibliografia selezionata è posta alla fine del presente capitolo. Cfr. Capitoli 2-6, infra. 3 È importante ricordare che nell’ambito di questo studio sono state effettuate anche altre due ricerche a carattere documentale. La prima ha utilizzato la stessa selezione bibliografica usata per la stesura di questo capitolo, allo scopo di analizzare le politiche sulla tratta attuate in 2 14 1.2 Le caratteristiche principali della letteratura esaminata Al fine di ricostruire le principali caratteristiche dei fenomeni di tratta è stata effettuata una ricerca bibliografica che ha portato all’individuazione di circa 100 studi pubblicati tra il 1996 e il 2006. Per poter disporre di un campione rappresentativo di questa letteratura, sono stati scelti 25 testi attraverso l’utilizzo dei seguenti criteri di selezione: a. rilevanza e rappresentatività dei testi sulla base degli ambiti di sfruttamento: prostituzione, lavoro forzato, accattonaggio conto terzi, economie illegali, adozioni internazionali illegali, trapianto di organi; b. rilevanza e rappresentatività dei testi in relazione ai target considerati: adulti maschi e femmine, minori maschi e femmine, soggetti transgender; c. utilizzo del know-how dei/delle componenti del gruppo di ricerca e dei partner del progetto per l’individuazione e la scelta dei testi; d. riconosciuta e comprovata competenza in materia dell’autore o dell’autrice; e. varietà di fonti (istituzioni pubbliche, università, istituti di ricerca, associazioni, organizzazioni internazionali o intergovernative, fondazioni, sindacati) quali soggetti promotori e/o esecutori delle ricerche o quali detentori di saperi (testimoni privilegiati) sui fenomeni all’esame; f. lingue delle ricerche: italiano, inglese, francese, spagnolo; g. anni di pubblicazione dei testi selezionati: 2000-2006. La maggior parte degli studi analizzati è costituita da rapporti di ricerca (9) e da libri (12, di cui 1 è un manuale), mentre le rimanenti pubblicazioni sono costituite da documenti istituzionali (3)4. Da sottolineare che molti dei libri esaminati sono basati su rapporti di ricerca successivamente adattati per essere stampati da case editrici a tiratura nazionale. È quindi possibile affermare che in Italia i rapporti di ricerca costituiscono sicuramente la fonte principale delle informazioni quantitative e qualitative riguardanti i fenomeni di tratta; tali rapporti sono quasi tutti il prodotto finale di progetti finanziati dalla Commissione europea o da altri organismi internazionali. Questo stato dell’arte sottolinea lo scarso interesse da parte delle istituzioni centrali italiane di sosteItalia; la seconda ha analizzato studi sulla tratta effettuati nei principali paesi di origine delle persone che vengono trafficate nel nostro Paese al fine di raccogliere informazioni basate su fonti diverse rispetto a quelle generalmente adoperate in Italia, soprattutto sulle fasi prodromiche dei percorsi di tratta. I paesi di origine presi in considerazione sono stati i seguenti: Albania, Romania, Moldova, Ucraina, Repubblica Ceca, Bulgaria, Polonia, Nigeria, Marocco, Cina, Colombia e Brasile. Entrambe le ricerche in questione saranno disponibili in una sezione dedicata del sito www.osservatoriotratta.it 4 Ai fini conoscitivi della presente ricerca, le relazioni semestrali prodotte dalla Direzione Investigativa Antimafia tra il 2000 e il 2006 sono state considerate come un’unica opera. 15 nere attivamente la ricerca sulla materia qui presa in esame, contrariamente a quanto fanno invece le istituzioni locali (Comuni, Province e Regioni) che risultano essere, con gli organismi comunitari e le organizzazioni internazionali, i principali soggetti (co-)finanziatori della letteratura considerata. Molti dei testi selezionati sono stati prodotti da gruppi di ricerca intersettoriali composti da ricercatori e ricercatrici professioniste (generalmente sociologi/ghe, psicologi/ghe, giuristi/e, criminologi/ghe) e in parte da professionisti/e specializzati/e che lavorano a diretto contatto con persone (potenzialmente) trafficate. La stretta collaborazione tra alcune università e le agenzie del pubblico e privato sociale è un tratto distintivo della realtà italiana rispetto a quella degli altri paesi5. Le rimanenti pubblicazioni sono state invece redatte da singoli studiosi e da funzionari pubblici. Per indagare i fenomeni di tratta, la maggior parte dei ricercatori e delle ricercatrici ha adottato un approccio qualitativo, utilizzando strumenti quali la ricerca documentale, le interviste strutturate e semi-strutturate a persone trafficate e a testimoni privilegiati (operatori/trici di strada, assistenti sociali, psicologi/ghe, mediatori/trici interculturali, tutor di intermediazione, avvocati/e, magistrati, giudici, operatori/trici sanitari/e e delle forze dell’ordine), in quanto fonti significative di informazioni altrimenti irreperibili a causa della mancanza di un dispositivo nazionale di raccolta dati sui fenomeni di tratta. Altri strumenti di indagine usati sono stati i questionari, i focus group e l’osservazione partecipante. Sono state adoperate metodiche di carattere qualitativo anche nei pochi studi che hanno utilizzato metodi di ricerca di tipo quantitativo. Dopo aver passato in rassegna la bibliografia raccolta, si è deciso di concentrare l’attenzione sulle ricerche prodotte tra il 2000 e il 2006 per poter raccogliere i dati più recenti sulle diverse articolazioni che negli anni hanno caratterizzato le forme di grave sfruttamento collegate alla tratta di persone. È qui interessante notare che nell’arco temporale considerato, il numero di testi 5 Cfr. I. Orfano, “Trafficking in human beings: An analysis of the literature and an overview on the phenomenon in six European countries”, in AA.VV., Headway. Improving Social Intervention Systems for Victims of Trafficking, Noktus, Varsavia, 2007. La ricerca realizzata in sei paesi europei (Estonia, Germania, Italia, Lituania, Polonia e Portogallo), nell’ambito delle attività transnazionali del progetto Osservatorio Tratta, ha evidenziato come in Italia le ricerche sulla tratta siano condotte da gruppi di ricerca misti, ovvero, da studiosi/e afferenti ad università, ad organizzazioni non governative e ad enti locali che da tempo si occupano di fornire servizi a persone trafficate. Questo può essere considerato uno dei tanti prodotti del sistema italiano di assistenza e integrazione sociale rivolto alle vittime di tratta che ha permesso ad attori di agenzie diverse di incontrarsi e di lavorare congiuntamente anche per la realizzazione di ricerche sociali in materia di tratta di persone. Negli altri paesi coinvolti dalla ricerca sopracitata, gli studi presi in esame sono stati generalmente condotti da singole organizzazioni, università o istituzioni e, più raramente, sono invece il prodotto di collaborazioni intrasettoriali. 16 pubblicati è progressivamente aumentato di anno in anno, in particolar modo dal 2003 in poi. L’interesse nei confronti della tratta quale materia di ricerca è il risultato di una serie di fattori, tra cui: la maggiore visibilità dei fenomeni ad essa collegati (in particolare la prostituzione di strada, l’accattonaggio, le attività illegali); l’implementazione del programma di assistenza ed integrazione sociale a favore delle vittime in conformità con l’art. 18 del d.lgs. 286/98 (T.U. sull’Immigrazione); l’introduzione del reato di tratta nel codice penale italiano (l. 228/2003); il maggiore interesse (spesso solo sensazionalistico) dei media nei confronti del fenomeno; l’esperienza e le competenze maturate dagli operatori e dalle operatrici sociali che offrono misure di supporto alle persone in stato di abuso e di sfruttamento para-schiavistico; l’incremento delle risorse economiche allocate per la ricerca da parte di enti locali e di organismi internazionali; le scadenze previste dai programmi comunitari e non per le ricerche finanziate. L’interesse nei confronti della tratta quale ambito di studio può essere interpretato anche come uno dei principali risultati indiretti del sistema italiano di assistenza e di integrazione sociale delle vittime di tratta. È proprio grazie all’implementazione dei cosiddetti progetti articolo 18 che i ricercatori e le ricercatrici hanno avuto la possibilità di intervistare vittime di tratta e testimoni privilegiati di vario tipo e di raccogliere informazioni ricche e dettagliate sui percorsi di assoggettamento, in particolare a scopo di sfruttamento sessuale nella prostituzione. I testi sono redatti principalmente in italiano, tuttavia, è interessante notare (Prospetto 1) che 7 sono disponibili sia in italiano che in inglese. Questo è un dato particolarmente significativo se comparato con il numero di ricerche sulla tratta scritte (anche) in inglese fino a tre anni fa6. Tale cambiamento è il prodotto combinato di alcuni fattori, tra cui: le ricerche “bilingue” sono state finanziate attraverso programmi comunitari (Stop, Interreg, Equal, Daphne), da organismi e organizzazioni internazionali (United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, Terre des hommes), in partenariato con istituzioni locali e nazionali italiane; in alcuni casi, è stato utilizzato l’inglese quale lingua di lavoro dei gruppi transnazionali di ricerca. In altri casi, invece, l’utilizzo della lingua inglese è stata una scelta funzionale per permettere un’ampia diffusione degli studi effettuati anche all’estero. 6 Cfr. Associazione On the Road et al., Marginalia: tra le righe… fuori dai margini. Letture e risposte multidimensionali all’emarginazione, On the Road Edizioni, Martinsicuro, 2003. Tale studio ha esaminato un campione di 20 studi italiani sulla tratta di persone pubblicati tra il 1997 e il 2002; di questi solo uno era disponibile anche nella lingua inglese. 17 Prospetto 1 – Sintesi delle principali caratteristiche della letteratura selezionata Numero di pubblicazioni selezionate* 25 Tipi di pubblicazioni Rapporti di ricerca: 9 Libri: 12 Manuali: 1 Relazioni istituzionali: 3 Ambiti di sfruttamento esaminati** Prostituzione forzata: 18 Grave sfruttamento lavorativo e lavoro forzato: 3 Attività illegali: 5 Accattonaggio: 4 Adozioni internazionali illegali: 0 Organi: 2 Lingua Italiano: 18 Anni di pubblicazione 2000: 2 Italiano & inglese: 7 2001: 1 2002: 3 2003: 4 2004: 5 2005: 6 2006: 4 *Si noti che le relazioni semestrali prodotte dal 2000 al 2006 dalla Direzione Investigativa Antimafia sulle attività svolte e i risultati conseguiti sono state considerate come una unica opera, qui attribuita all’anno 2006. **La somma finale è superiore alla somma totale dei testi presi in esame (25) in quanto alcuni di essi hanno analizzato più ambiti di sfruttamento. Le diverse pubblicazioni esaminate dedicano spazio anche all’approfondimento di temi correlati alla tratta di persone, quali: la normativa di contrasto e di protezione sociale; le pratiche di aiuto, i servizi e i programmi di assistenza rivolti alle (potenziali) vittime attivati da enti locali o centrali, da organizzazioni non governative, da unità sanitarie locali o da ospedali, etc.; le raccomandazioni rivolte in particolare ai/alle policy makers, alle forze dell’ordine, alla magistratura, alle organizzazioni non governative e alle organizzazioni intergovernative. 18 1.3 La tratta a scopo di sfruttamento sessuale7 La maggior parte dei testi esaminati riguarda la tratta a scopo di sfruttamento sessuale nella prostituzione di strada. Quest’ultimo, infatti, è il settore di sfruttamento più visibile in cui le persone trafficate vengono coinvolte e quello per cui sono stati sviluppati da più lungo tempo (inizio anni ’90) interventi di assistenza da parte di associazioni ed enti locali in molti territori del nostro Paese. Ciò ha consentito di conoscere a fondo non solo i meccanismi che qualificano tale segmento del mercato del sesso, ma anche di cogliere gli elementi distintivi e le trasformazioni continue che caratterizzano il fenomeno dello sfruttamento sessuale. Alcuni studi hanno inoltre permesso di sottolineare la poliedricità delle storie individuali delle persone trafficate consentendo così di superare una visione univoca delle donne coinvolte nella tratta a scopo di prostituzione forzata8. Attraverso la raccolta di informazioni dettagliate, alcuni ricercatori hanno potuto analizzare il fenomeno già nei suoi primi anni di emersione, grazie soprattutto al lavoro svolto dalle prime unità mobili che fornivano supporto e informazioni di natura sanitaria, legale e sociale alle persone che si prostituivano sulle strade di alcune città e località periferiche italiane. Con l’istituzione nel 2000 del Programma di assistenza ed inclusione sociale (art. 18 del d.lgs. 286/98) rivolto a persone trafficate a scopo di sfruttamento sessuale9, la disponibilità di informazioni è ulteriormente aumentata; ciò ha prodotto evidenti benefici sia alla ricerca in questo ambito che all’elaborazione e all’implementazione di interventi mirati a favore delle vittime. 7 Per le descrizioni e le analisi dettagliate dei fenomeni qui sinteticamente presentati, si rimanda ai testi selezionati, elencati nella bibliografia posta in calce al presente capitolo. 8 Come sottolinea L. Maluccelli, attraverso l’utilizzo del cosiddetto “approccio biografico”, ovvero, della realizzazione di interviste che permettono di raccogliere le narrazioni e le ricostruzioni soggettive, è possibile “ricostruire i percorsi fatti dalle donne intervistate mantenendo vivo il più possibile il rapporto tra autonomia individuale e determinazione sociale” restituendo così “(…) un’immagine poliedrica delle donne coinvolte nello sfruttamento della prostituzione, non riducibile a quella di ‘vittime passive’ dominante nel processo di ‘etichettamento sociale’ che accompagna la lotta al traffico di esseri umani”, L. Maluccelli, “Tra schiavitù e servitù: biografie femminili in cerca di autonomia”, in AA.VV., Da vittime a cittadine. Percorsi di uscita dalla prostituzione e buone pratiche di inserimento sociale e lavorativo, Ediesse, Roma, 2001, p. 38. 9 Dal 2006 il Programma prevede formalmente l’inserimento nei progetti di assistenza e integrazione sociale anche di persone trafficate per altre tipologie di sfruttamento. 19 I numeri mancanti Dati ufficiali sul numero di persone trafficate in Italia a scopo di sfruttamento sessuale non ne esistono. Quelli disponibili sono parziali e si riferiscono solamente al numero delle vittime che hanno esposto denuncia presso le Direzioni Distrettuali Antimafia (Dda) in base alla legge “Misure contro la tratta di persone” (l. 228/2003); in particolare per “Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù” (art. 1), per “tratta di persone” (art. 2) o “Acquisto e alienazione di schiavi” (art. 3). Inoltre, altri dati si riferiscono al numero di donne entrate nei programmi di assistenza ed integrazione sociale finanziati dal Dipartimento per i diritti e le pari opportunità e gestiti da associazioni ed enti locali su tutto il territorio nazionale, in conformità con l’art. 18 del “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” (d.lgs. 286/98). In base ai dati pubblicati dal Dipartimento10, le persone trafficate assistite dal 2000 al 2006 sono state 11.541. Alcune ricerche riportano le numeriche delle persone offese nei procedimenti per reati inerenti la tratta, ma prendono in considerazione intervelli temporali precedenti l’entrata in vigore della legge contro la tratta di persone (l. 228/2003). Transcrime – Joint Research Centre on Transnational Crime dell’Università di Trento/Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ad esempio, attraverso l’elaborazione dei dati messi a disposizione dalla Direzione Nazionale Antimafia (Dna), ha rilevato che, dal giugno 1996 al giugno 2001, le vittime di tratta sono state 2.741, di cui l’80,8% costituto da donne11. Un’altra ricerca della Regione Emilia-Romagna12 riporta i dati relativi a 1.400 donne dell’Europa dell’Est vittime di tratta citate nelle fonti giudiziarie13 raccolte in nove regioni italiane e riferite al periodo 1996-2003. Tali studi contengono informazioni ed analisi significative e, per certi aspetti, innovative, ma i dati presentati sono spesso incompleti e obsoleti e, comunque, riguardano solamente una parte delle persone trafficate presenti in Italia; si tratta sovente di persone intercettate dalle forze dell’ordine14 o da 10 Dipartimento per le Pari Opportunità, Dati e riflessioni sui progetti di protezione sociale ex art. 18. Dal 2000 al 2006, Roma, 2006. 11 Transcrime, Tratta di persone a scopo di sfruttamento e traffico di migranti, Transcrime Report n. 7, Trento, 2004, p. 137. 12 E. Ciconte (a cura di), I flussi e le rotte della tratta dall’Est Europa, Regione EmiliaRomagna, Grafiche Morandi, Fusignano, 2005, p. 23. 13 Nello specifico i documenti analizzati sono stati: sentenze di Corte di Assise, sentenze di tribunali, sentenze del Gip, dichiarazioni rese in udienza davanti al giudice, verbali di denuncia della vittima davanti alla polizia giudiziaria. 14 Cfr. Transcrime, op. cit. e Ciconte (a cura di), op. cit. 20 associazioni, enti locali, servizi socio-sanitari15 durante lo svolgimento delle loro attività di assistenza sociale o di contrasto criminale16. Per ovviare a tale vuoto informativo, alcuni ricercatori17 hanno elaborato 15 Cfr. Dipartimento per le Pari Opportunità, op. cit. Per un’analisi dettagliata delle fonti e dei dati ad oggi disponibili in Italia sulle persone trafficate, vedasi Capitolo 7, ivi. 17 Parsec Consortium e Transcrime Joint Research Centre on Transnational Crime dell’Università di Trento/Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano sono gli autori delle stime finora prodotte sul numero delle persone trafficate in Italia. A partire dai dati sui procedimenti per tratta a scopo di sfruttamento raccolti dalla Direzione Nazionale Antimafia, attraverso le procure, Transcrime ha stimato che le persone trafficate in Italia tra il giugno 1996 e il giugno 2001 sono state da un minimo di 27.410 ad un massimo di 54.820. Il criterio di stima utilizzato è stato mutuato da quello impiegato in una ricerca inglese di vittimizzazione sui reati a sfondo sessuale (A. Myhill, J. Hallen, Rape and Sexual Assault of Women: the Extent and Nature of the Problem. Findings for the British Crime Survey, Home Office Research Study n. 237, Home Office, 2002), in base alla quale solo due vittime su 10 denunciano il reato subito alle autorità e, perciò, la ratio tra persone offese registrate e quelle che non denunciano risulta essere di 1 a 5. Transcrime ritiene che per le vittime di tratta tale ratio sia molto inferiore (da 1:10 a 1:20) quale conseguenza di una serie di motivi: “a) la mancanza di fiducia nelle autorità da parte delle vittime della tratta: b) la loro condizione di illegalità ed isolamento; c) la totale sottomissione ai trafficanti; d) la paura di essere espulse; e) la natura nascosta della tratta.” (Transcrime, op. cit., pp. 141-142). In uno studio pubblicato nel 2006 (A. Di Nicola, La prostituzione nell’Unione europea tra politiche e tratta di esseri umani, Franco Angeli, Milano, 2006), Transcrime ha adoperato lo stesso criterio di stima per calcolare le vittime di tratta in Italia, ma utilizzando i dati forniti dal Dipartimento per le Pari Opportunità sul numero di persone trafficate inserite nei progetti di assistenza ed integrazione sociale ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. 286/98 nel periodo marzo 2000-marzo 2004. Cambiando la fonte dei dati, sono cambiate anche le stime elaborate. In questo caso, in base alle stime, elaborate per anno, le vittime di tratta in Italia sarebbero state da un minimo di 17.550 nel periodo 2000-2001 ad un massimo di 39.420 nel periodo 2003-2004 (p. 85). È necessario evidenziare che queste stime non tengono conto del fatto che, in diversi casi, le persone prese in carico nei progetti di assistenza e di integrazione sociale hanno partecipato ad un programma di assistenza in continuità su due progetti. Nel corso dell’ultimo decennio, Parsec ha elaborato stime sia sulla prostituzione migrante che sulla tratta di persone a scopo di sfruttamento sessuale prendendo in considerazione lassi temporali diversi. Per il periodo 1996-1999, la stima annua di vittime di tratta è stata calcolata essere da un minimo di 1.480 ad un massimo di 2.079 su un totale di circa 19.500 persone che si prostituivano in Italia mediamente per anno nel triennio considerato; per il periodo 2000-2002, sono state stimate da un minimo di 783 vittime ad un massimo di 956 su un totale di circa 11.600 prostitute presenti nel nostro Paese annualmente. In base all’ultima ricerca effettuata (2006), la tratta a scopo di sfruttamento sessuale, nel periodo 2004-2005, è stimata aver interessato tra le 2.508 e le 3.209 persone su un totale circa di 17.500 (minimo) e 22.700 (massimo) persone che si prostituivano in Italia in quello specifico arco temporale. Le varie stime effettuate dal 1996 al 2005 mettono in rilievo che il numero stimato di persone che si sono prostituite in Italia nel corso dell’ultimo decennio si è mantenuto abbastanza stabile in quanto sembra aver coinvolto tra le 17.500/18.800 (min.) e le 23.000/25.000 (max.) persone. Le stime di Parsec sono il prodotto di estrapolazioni numeriche relative a dati ed informazioni raccolte attraverso interviste realizzate a testimoni privilegiati che lavorano a vario titolo (operatori/trici sociali, di polizia, giudiziari) nelle aree italiane dove 16 21 stime sul fenomeno utilizzando metodologie diverse che hanno portato a risultati dissimili e pressoché impossibili da comparare perché riguardano archi temporali non coincidenti e impiegano fonti differenti. Appare evidente che la difficoltà ad avere dati certi o metodiche di stima affidabili è strettamente correlata alla difficoltà di misurare un fenomeno per sua natura nascosto; un’altra difficoltà riguarda il mancato sviluppo di metodologie comuni da parte di ricercatori/trici con competenze diverse, nonché l’assenza di procedure comuni e aggiornate di identificazione delle vittime. Insomma, manca al momento un dispositivo centralizzato di raccolta dati ed informazioni riguardanti il fenomeno nelle sue varie espressioni (prostituzione forzata sulla strada, al chiuso, lavoro forzato, accattonaggio, economie illegali, traffico di organi, adozioni internazionali illegali) e le persone a vario titolo coinvolte (vittime di tratta, trafficanti, sfruttatori, intermediari, etc.). Dal punto di vista qualitativo, invece, le informazioni ad oggi raccolte in Italia sulle persone trafficate a scopo di sfruttamento sessuale sono piuttosto copiose e significative e riguardano le varie fasi della tratta: dal reclutamento al viaggio verso il nostro Paese, alle condizioni di sfruttamento e di vita subite, alle fasi di sganciamento dall’attività prostituzionale coatta18 e all’inserimento nei programmi di assistenza ed inclusione sociale19. Le informazioni disponibili riguardano quasi esclusivamente donne straniere costrette a prostituirsi in strada e solo marginalmente donne che si prostituiscono forzatamente in luoghi al chiuso (night club, appartamenti, bar, saune, etc.)20. il fenomeno della prostituzione è maggiormente presente. Grazie alle competenze maturate in anni di lavoro, agli operatori e alle operatrici delle unità di strada, in particolare, viene riconosciuta la capacità di stimare la presenza minima e massima di persone che si prostituiscono. Per la spiegazione dei metodi di stima utilizzati, cfr. F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne a scopo di sfruttamento sessuale. Analisi delle trasformazioni correnti nei principali gruppi nazionali coinvolti e nuove strategie di intervento di protezione sociale. Il caso dell’area metropolitana di Roma. Sintesi del rapporto finale, Parsec Consortium, Comune di Roma, Roma, 2005, pp. 6-20. 18 Cfr. F. Carchedi (a cura di) Prostituzione straniera e traffico di donne..., cit.; E. Ciconte (a cura di), op. cit.; M. Ambrosini, Comprate e vendute. Una ricerca su tratta sfruttamento di donne straniere nel mercato della prostituzione, Franco Angeli, Milano, 2003; AA.VV., Da vittime a cittadine…, cit. 19 Cfr. F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne…, cit.; Gender Street. Un’iniziativa transnazionale sull’inclusione sociale e lavorativa di donne trafficate e di sex workers migranti, L’Artistica Savigliano, Cuneo, 2005; Dipartimento per le Pari Opportunità, op. cit.; F. Carchedi (a cura di), Piccoli schiavi senza frontiere. Il traffico dei minori stranieri in Italia, Ediesse, Roma, 2004; AA.VV., Da vittime a cittadine…, cit.; AA.VV., Associazione On the Road (a cura di), Prostituzione e tratta. Manuale di intervento sociale, Franco Angeli, Milano, 2003; AA.VV., Articolo 18: Tutela delle vittime del traffico di esseri umani e lotta alla criminalità organizzata (l’Italia e gli scenari europei), On the Road Edizioni, Martinsicuro, 2003. 20 In questa indagine è stato selezionato il testo più recente sul fenomeno della prostituzione 22 I luoghi di destinazione La trasformazione dell’Italia da paese di origine a paese di transito e di destinazione di persone migranti e persone trafficate è iniziata negli anni ’70 e ha cominciato a diventare un fenomeno significativo e visibile negli anni ’90. Dalla caduta del muro di Berlino (1989) in poi, la penisola italiana ha assunto il ruolo di terra di approdo e di passaggio di stranieri provenienti dai paesi dell’ex blocco sovietico, dal medio e lontano Oriente, diretti non solo in Italia ma anche in altri paesi europei e d’oltreoceano. In realtà, la caduta del muro di Berlino ha semplicemente accelerato un processo già in atto da tempo e causato da una serie di fattori più sotto descritti. Tutte le ricerche analizzate sottolineano che il nostro Paese, a partire dai primi anni Novanta, si è subito contraddistinto per il duplice ruolo di paese di destinazione e di transito delle persone trafficate a scopo di sfruttamento sessuale. La letteratura considerata mette ben in luce come il fenomeno si sia dapprima concentrato in alcune aree del territorio nazionale per poi velocemente estendersi in molte regioni. La scelta della destinazione finale dipende da una serie di variabili, tra cui, i territori controllati dall’organizzazione criminale che ha trafficato e/o che sfrutta le donne trafficate; il sistema di concorrenza o di coesistenza con gruppi criminali locali e/o stranieri vigente nelle aree territoriali “condivise” o limitrofe; i comportamenti sessuali e le disponibilità economiche della popolazione maschile che acquista servizi sessuali in cambio di denaro. Sebbene il Nord e il Centro Italia e, in particolare, le loro principali città e zone periferiche (Torino, Milano, Venezia-Mestre, Padova, Bologna, Modena, Firenze, Perugia, Roma, Ascoli Piceno, Teramo)21 continuino ancora ad essere i maggiori luoghi di destinazione e di sfruttamento delle donne trafficate, dagli inizi degli anni Duemila si è assistito ad un aumento significativo delle presenze anche nelle regioni meridionali. Il fenomeno è presente, infatti, in Basilicata, in Puglia, in Campania, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna. Rispetto allo scorso decennio, poi, è stata registrata una maggiore mobilità territoriale intraregionale e extraregionale che, diversamente dal passato, non coinvolge solamente le donne nigeriane ma anche quelle di altri gruppi nazionali. Risulta inoltre essere aumentata anche la mobilità territoriale di tipo transfrontaliero. Infine, è stato evidenziato che le donne che si prostituiscono nelle zone settentrionali di frontiera, in alcuni periodi dell’anno, vengono al chiuso, ovvero, C. Donadel, E.R. Martini (a cura di), La prostituzione invisibile, Regione Emilia-Romagna, Grafiche Morandi, Fusignano, 2005. Gli altri pochi studi conosciuti condotti sullo stesso tema sono: AA.VV., Il sommerso. Una ricerca sperimentale su prostituzione al chiuso, sfruttamento, trafficking, i Quaderni di Strada, Provincia di Pisa, Pisa, 2004 e T. Maritano, Massaggi proibiti, Kaos Edizioni, Milano, 2003. 21 F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne…, cit., p. 30. 23 spostate in altri paesi europei, in particolare, in Francia, Svizzera, Belgio, Olanda, Germania e Gran Bretagna. Le principali cause originarie della tratta Le cause principali che spingono le persone a migrare e che contribuiscono ad alimentare i fenomeni di tratta di derivano dalle complesse condizioni sociali, economiche e culturali che caratterizzano le società dei paesi di origine, di transito e di destinazione. Tra i fattori di espulsione primari, la letteratura analizzata cita, in particolare, la povertà, la disoccupazione, il declino e la scomparsa dell’occupazione nel settore pubblico, la globalizzazione economica, le inadeguate politiche di impiego, la deprivazione culturale, l’aumento di famiglie disfunzionali, le fallimentari o assenti politiche migratorie, le crisi umanitarie, i conflitti regionali, i disastri ambientali, la discriminazione di genere, la discriminazione etnica e l’assenza di sistemi di welfare adeguati, il desiderio di emancipazione. Tra i principali fattori di attrazione del nostro Paese – così come degli altri paesi dell’Unione europea – dei flussi migratori, vi sono le storie di successo dei/delle migranti che tornano in patria, il mito del ricco Occidente creato e perpetuato dai media22, il desiderio di migliorare le proprie condizioni sociali ed economiche e quelle dei propri familiari, l’aspirazione ad emanciparsi da ambiti sociali e familiari patriarcali e violenti. All’interno di questi flussi si determinano anche componenti irregolari che utilizzano servizi illeciti per entrare in Italia (smuggling o traffico di migranti), gestiti dalla criminalità organizzata. A questi fattori attrattivi si deve aggiungere anche la continua domanda di manodopera non specializzata a basso costo proveniente dai paesi di destinazione in cui i cosiddetti settori informali del mercato del lavoro sono in continua espansione. È proprio in questi settori, spesso sommersi, non adeguatamente regolamentati e protetti e caratterizzati da pratiche illegali, che la forza lavoro straniera può essere sfruttata fino ad essere ridotta in schiavitù. Inoltre, anche le politiche migratorie sempre più restrittive implementate dai cosiddetti paesi 22 I modelli di vita occidentale proposti costantemente dai media e raccontati dagli immigrati e dalle immigrate tornate in patria costituiscono gli elementi principali della cosiddetta “socializzazione anticipatoria”, ovvero del “processo di omologazione culturale a scala mondiale alimentato anche dalla potente e capillare opera dei mass media e dai racconti quasi mai realistici degli emigrati di ritorno”, che “alimenta il sentimento di ‘privazione relativa’, il disagio provato non solo per le situazioni vissute, ma anche per il confronto con altre situazioni migliori che fanno percepire il proprio vissuto come intollerabile”, in F. Prina, “La prostituzione minorile”, in Istituto degli Innocenti – Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Uscire dal silenzio. Lo stato di attuazione della legge 269/98, Questioni e documenti, n. 27, gennaio 2003, p. 36. 24 ricchi, il nostro incluso, possono alimentare la tratta di in quanto costringono le persone intenzionate ad emigrare a far ricorso a canali irregolari gestiti da organizzazioni che si occupano di traffico di migranti e di tratta di persone. I paesi di origine Dall’inizio degli anni Novanta ad oggi, la lista dei paesi di origine delle persone trafficate sul nostro territorio nazionale si è costantemente modificata, comprendendo sempre nuove aree geografiche più distanti e modificando il ruolo dei paesi “storici”. I primi gruppi nazionali apparsi sulle strade italiane erano quelli costituiti da donne trafficate dalla Nigeria e dall’Albania, a cui sono andati ad aggiungersi quelli provenienti dalla Moldova, dall’Ucraina, dalla Romania, dalla Bulgaria, dall’Ungheria; inoltre, in misura minore, da alcuni paesi del Nord Africa (Marocco, Tunisia, etc.) e del Sud America (Brasile, Colombia, Ecuador, etc.). Nel corso dell’ultimo triennio (2003-2006), rispetto ai paesi di origine delle vittime di tratta, si sono registrate una serie di nuove tendenze che più autori hanno segnalato. Innanzitutto, si è palesata la presenza di donne cinesi nel mercato del sesso a pagamento rivolto a clienti italiani, sia in luoghi al chiuso che all’aperto. Si sono quindi notati gli arrivi di donne provenienti dai paesi più remoti dell’ex impero sovietico come il Kazakistan, il Kirghizistan, l’Uzbekistan. Infine, più fonti hanno segnalato il drammatico aumento del numero di donne e minori rumene che, in molte zone italiane, rappresentano il principale gruppo nazionale di persone che si prostituiscono o che sono coinvolte in meccanismi di sfruttamento coatto. Nel corso degli anni sono cambiate anche le aree di reclutamento delle persone trafficate all’interno dei paesi di origine. Infatti, i reclutatori e le reclutatrici, dopo aver ingannato – parzialmente o completamente – le donne e le ragazze residenti nelle città, hanno cominciato a reclutare persone originarie delle periferie e, soprattutto, delle aree rurali. Ciò ha portato ad un progressivo abbassamento dell’età media delle vittime e, conseguentemente, del capitale culturale e sociale a loro disposizione per poter reagire agli abusi e alle situazioni di sfruttamento subite. Le rotte utilizzate per l’ingresso in Italia Grazie alle interviste effettuate direttamente a donne trafficate e a testimoni privilegiati/e che operano nel cosiddetto settore anti-tratta e all’analisi di fonti giudiziarie, alcuni ricercatori e ricercatrici sono stati in grado di ricostruire le 25 principali rotte23 seguite dai trafficanti per far arrivare flussi di persone destinate alle differenti modalità di sfruttamento. Tale pratica è stata messa in opera in particolare per le donne provenienti dall’Albania, dalla Romania, dalla Moldavia, dall’Ucraina e per quelle giunte dalla Nigeria. Appare chiaro che le rotte seguite sono innumerevoli e continuamente soggette a modifiche in risposta ad una serie di variabili, tra cui: la disponibilità dei mezzi di trasporto, la struttura dell’organizzazione criminale coinvolta o le risorse a disposizione dei singoli trafficanti, le condizioni politiche di alcune aree geografiche, il livello di corruzione del personale amministrativo e di polizia di alcuni paesi, le azioni di contrasto delle forze dell’ordine nei paesi di origine, in quelli di transito e sul territorio italiano. Spesso le rotte prevedono l’attraversamento di più stati mediante l’utilizzo di diversi mezzi di trasporto (macchina, corriera, treno, traghetto, scafo, aereo). Una stessa persona può quindi arrivare in Italia utilizzando una sola o più rotte tra quelle marittime, terrestri o aeree; ciò dipende anche dal paese di provenienza e dalla distanza geografica da percorrere. Durante il tragitto la donna può venire in contatto con diversi intermediari e/o con altre donne trafficate in Italia o in altri paesi. Sono stati individuati anche dei luoghi che fungono da punti di “smistamento” che, soprattutto in località dell’exJugoslavia – considerata il fulcro delle rotte dall’Est –, venivano utilizzati anche per organizzare delle aste per vendere le donne ad altre bande criminali24. A causa del modificarsi continuo delle rotte, i luoghi di entrata nel nostro Paese continuano a cambiare nel tempo. Negli anni Novanta il Canale di Otranto ha rappresentato il principale porto di ingresso per le donne trafficate dai paesi dell’Europa dell’Est e dell’ex-Unione Sovietica, in particolar modo dall’Albania, dalla Moldova, dall’Ucraina. Attualmente, l’area salentina ha visto quasi azzerati i flussi in entrata che si sono spostati in località marittime calabresi e siciliane. Il confine italo-sloveno è l’altro punto principale di ingresso per le rotte terrestri gestite dalle organizzazioni dell’Europa dell’Est, che spesso utilizzano passeur italiani per entrare illegalmente in Italia. Il confine ligure-francese è utilizzato soprattutto dai trafficanti di donne provenienti dalla Nigeria che, giunte in Spagna dopo un lungo viaggio, arrivano nel nostro Paese generalmente via treno con destinazione Torino o i paesi dell’area domitiana (Campania); queste aree rappresentano entrambe i 23 E. Ciconte (a cura di), op. cit., pp. 95-116; United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, Trafficking of Nigerian Girls to Italy. Il traffico delle ragazze nigeriane in Italia, Industria Grafica ed Editoriale, Torino, 2004, pp. 357-363, 480-496; E. Ciconte, P. Romani, Le nuove schiavitù. Il traffico degli esseri umani dell’Italia del XXI secolo, Editori Riuniti, Roma, 2002, pp. 56-68; F. Carchedi (a cura di), Piccoli schiavi senza frontiere…, cit., pp. 96-106; AA.VV., Articolo 18…, cit. 24 E. Ciconte (a cura di), op. cit. 26 centri principali di insediamento e di “smistamento” delle donne nigeriane. Un numero significativo di donne giungono in Italia seguendo una rotta aerea. Si tratta solitamente di persone originarie dei paesi più lontani, come quelli latinoamericani ed africani. Infine, alcuni ricercatori hanno notato che, in tempi più recenti, le rotte sono diventate più lunghe, soprattutto per le donne nigeriane che, prima di arrivare in Italia, devono attraversare più confini territoriali25. La durata del viaggio (da un giorno a sei mesi e più) è determinata da una serie di fattori combinati che variano dalla disponibilità di denaro ai mezzi di trasporto utilizzati, al livello di corruzione dei funzionari pubblici, allo stato di salute delle vittime26. Durante il tragitto – di cui generalmente non conoscono né la rotta né la durata –, le donne trafficate non hanno libertà di movimento; spesso sono costrette ad affrontare rischi che mettono seriamente in pericolo la propria vita; subiscono violenze sessuali; e possono essere rimpatriate una volta giunte in Italia27. Il genere e l’età delle persone trafficate Sebbene siano le donne ad essere il target principale di trafficanti e sfruttatori, gli studi più recenti rilevano che a cadere vittima di aguzzini sempre più spregiudicati sono anche persone transessuali di origine latinoamericana. In casi estremi, risulta che vengono obbligate ad assumere farmaci o a sottoporsi a trattamenti estetici per conformare il loro aspetto fisico ai canoni di bellezza imposti dal mercato del sesso a pagamento. Per quanto riguarda il genere maschile, la letteratura consultata non evidenzia la presenza di uomini adulti trafficati e sfruttati come prostituti, mentre alcuni autori sottolineano l’esistenza di una probabile tratta di minori maschi sfruttati sessualmente in Italia. La stragrande maggioranza delle persone trafficate in Italia per essere sfruttate nella prostituzione o, più in generale, nella cosiddetta industria del sesso, è composta da donne adulte, nella fascia di età compresa tra i 20 e i 30 anni. Nel corso degli ultimi anni, si è però assistito ad una progressiva diminuzione dell’età 25 La maggiore durata del viaggio può avere conseguenze negative sulla salute delle donne costrette spesso a subire uno standard di vita qualitativamente povero e ad essere sottoposte a violenze fisiche e, talvolta, sessuali durante il tragitto per raggiungere la destinazione finale. A riprova di ciò, è l’aumento del numero di donne nigeriane che giungono in Italia in avanzato stato di gravidanza causato dagli stupri subiti durante il viaggio verso il nostro Paese, cfr. A. Bernardotti, “La prostituzione nigeriana nell’area domitia”, in A. Bernardotti, F. Carchedi, B. Ferone (a cura di), Schiavitù emergenti. La tratta e lo sfruttamento delle donne nigeriane sul litorale domitio, Ediesse, Roma, 2005, p. 107. 26 United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, op. cit., p. 358. 27 Idem, p. 361. 27 media (e quindi di capitale sociale e culturale individuale a disposizione) tra tutti i collettivi nazionali esaminati dalle ricerche qui analizzate. Infatti, la tratta a scopo di sfruttamento sessuale coinvolge anche minorenni, come gli stessi dati relativi alle persone prese in carico dai progetti di assistenza ed integrazione sociale, previsti dal d.lgs. 286/98 mettono bene in rilievo. Nel periodo compreso tra il 2000 e il 2006, le persone minorenni prese in carico sono state 748 su un totale di 11.541 vittime accolte28. Questo dato sembrerebbe non riflettere appieno le stime effettuate nel corso degli anni dalle ricerche esaminate, in base alle quali le minorenni che si prostituiscono rappresentano circa il 7% del collettivo di persone che si prostituiscono in strada29. Tale percentuale è stimata essere attorno al 10-12% in alcune zone italiane, segnatamente, in Veneto, Emilia-Romagna, Lazio e Piemonte30. Questa ultima percentuale risulta essere confermata da più fonti che hanno utilizzato, in qualità di testimoni privilegiati/e, gli operatori e le operatrici di unità di strada e dei progetti di assistenza e di integrazione sociale di varie realtà territoriali italiane. Poiché sono particolarmente richieste dai clienti, le minorenni sono considerate un “prodotto altamente redditizio”31 da parte dei trafficanti e degli sfruttatori, sebbene la gestione di questo specifico target comporti rischi molto più elevati per le organizzazioni criminali. In effetti, la presenza di minori sulla strada può attrarre più facilmente l’attenzione delle forze dell’ordine e, inoltre, le sanzioni penali previste per la tratta e lo sfruttamento di persone minori sono più severe. Onde evitare questi rischi, gli sfruttatori tendono a spostare frequentemente le minori all’interno dello stesso ambito territoriale o in altre aree geografiche italiane, in base alle esigenze della rete criminale, e ad addestrare le vittime a dichiarare sempre la maggiore età. Le minori sono costrette a prostituirsi più frequentemente in luoghi al chiuso (soprattutto negli appartamenti ed alberghi), anche se sono presenti in molte strade italiane. Dalle ricerche effettuate appare chiaro che le organizzazioni criminali gestiscono questo specifico settore di sfruttamento utilizzando modalità organizzative e gestionali diverse rispetto a quelle usate per le vittime adulte, aventi la precipua finalità di massimizzare i profitti e 28 Dipartimento per i diritti e le pari opportunità, op. cit. F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne..., cit., pp. 16-17. 30 Idem, p. 17. 31 Cfr. Casa dei diritti sociali, Fondazione Romena per i Bambini, la Comunità e la Famiglia, Terre des Hommes, Aumento della prostituzione minorile rumena a Roma, Fondazione Terre des Homes, Bucarest, 2005, p. 17; C. Minguzzi, “Il traffico di donne adulte e minori. Il caso rumeno”, in F. Carchedi (a cura di), Prostituzione migrante e donne trafficate. Il caso delle donne albanesi, moldave e rumene, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 112-113; F. Carchedi, “Alcune caratteristiche di base dei meccanismi di sfruttamento delle donne e dei bambini. Aspetti quantitativi e qualitativi”, in F. Carchedi (a cura di), Piccoli schiavi senza frontiere…, cit., p. 107. 29 28 ridurre al minimo i potenziali rischi insiti nella tratta e nello sfruttamento di minori. L’alta mobilità32, un supporto logistico-organizzativo ad hoc e un controllo particolarmente severo sono le tecniche più comunemente adottate dalle organizzazioni criminali per evitare di essere intercettate dalle forze dell’ordine33. Il sistema di reclutamento, di viaggio, di assoggettamento e di sfruttamento delle minori appare pressoché identico a quello utilizzato a danno delle donne adulte appartenenti alla stessa compagine nazionale. Le minorenni costrette a prostituirsi solitamente provengono dall’Albania, dalla Romania, dalla Moldova e dalla Nigeria. Le ricerche esaminate e i documenti istituzionali consultati non hanno provato l’esistenza di un fenomeno significativo e consolidato della tratta a scopo di sfruttamento sessuale che coinvolge specificatamente minori maschi. Sebbene siano stati accertati alcuni casi anche dalle forze di polizia, gli studiosi e gli operatori sociali ritengono non esista una specifica tratta di minori maschi a scopo di sfruttamento sessuale, benché sia comprovata l’esistenza di una prostituzione minorile maschile (rivolta a uomini omosessuali) esercitata da minori o neomaggiorenni provenienti soprattutto dall’Europa dell’Est. I principali luoghi di incontro con i potenziali clienti sono le aree vicine alle stazioni ferroviarie, gli internet café aperti 24 ore al giorno o le abitazioni di qualche cliente abituale. I ragazzi34 generalmente si prostituiscono in maniera 32 La mobilità territoriale e di ambito prostituivo risulta essere uno degli elementi precipui che caratterizzano le modalità di sfruttamento nella prostituzione di minorenni. F. Frisanco e F. Carchedi hanno individuato tre livelli di mobilità: mono-polare, bi-polare e multi-polare. Il livello mono-polare si riferisce alla pratica di spostare ogni quattro-cinque giorni fino a una/due settimane la minorenne sfruttata all’interno dei confini di una data città o al massimo di una determinata provincia. La vittima viene così sfruttata in maniera intensiva in un territorio per poi essere trasferita in un altro per evitare il rischio di intercettazione da parte delle forze di polizia. Il livello bi-polare di mobilità si riferisce agli spostamenti effettuati tra due aree specifiche che possono essere anche geograficamente distanti tra loro. La minorenne può quindi essere sfruttata per un periodo temporale preciso in un luogo per poi essere spostata in un posto diverso collocato in un’altra provincia o regione per, poi, ritornare in quello iniziale (ad esempio, Roma-Caserta-Napoli-Roma). Infine, la mobilità multi-polare riguarda le minori costrette a prostituirsi in molte aree geografiche appartenenti anche a regioni e a nazioni diverse. Solitamente si tratta di vittime sottoposte ad un intenso sfruttamento da parte di uno stesso sfruttatore e di sfruttatori diversi a cui vengono temporaneamente cedute. Cfr. F. Carchedi, F. Frisanco, “La tratta di donne adulte e bambine. Uno sguardo d’insieme”, in F. Carchedi (a cura di), Piccoli schiavi senza frontiere…, cit., pp. 106-111. 33 Idem, p. 51. 34 Per un approfondimento sul tema della prostituzione maschile in Italia, cfr. V. Ferraris, “Prostituzione maschile in Italia: minori e giovani adulti”, in AA.VV., Kinda. Ricerca sulla prostituzione maschile dei giovani stranieri, Mcl, Torino, 2004; N. Mai, “Albanian Masculinities, Sex work and Migration: Homosexuality, Aids and other Moral Threats”, in M. Worton, N. Wilson-Tagoe (a cura di), National Healths: Gender, Sexuality and Health in a Cross-Cultural Context, Ucl Press, Londra, 2004; A. Pini, “La prostituzione maschile”, in 29 autonoma e sembrano non avere legami con le organizzazioni criminali che gestiscono la tratta e lo sfruttamento dello prostituzione femminile. Una delle ricerche analizzate ha suddiviso i minori che si prostituiscono in tre categorie principali35. La prima (“prostituzione da isolamento”) è quella rappresentata da minori che, a causa della mancanza di prospettive lavorative, considera la prostituzione come un mezzo necessario per poter sostenere economicamente se stessi e la famiglia. In alcuni casi, la prostituzione è un’attività che permette di integrare i guadagni derivanti dall’esercizio di altre occupazioni, come lavare i vetri, mendicare, vendere piccoli oggetti ai semafori o per strada. A prostituirsi sono soprattutto giovani provenienti dalla Romania, dall’Albania, dalla Moldova, dal Kurdistan, dai paesi del Maghreb. La seconda categoria di minori che si prostituiscono è costituita da giovani (“marchettari”) che non si percepiscono come prostituti e che, soprattutto, non vogliono essere ritenuti tali. Essi, infatti, dichiarano di prostituirsi solo per ragioni economiche. Infine, la terza categoria (“prostituzione transitoria”) coinvolge ragazzi molto giovani che si prostituiscono solo per un breve periodo di tempo in coincidenza con la fase di scoperta e di affermazione della propria identità omosessuale. Tra quest’ultima categoria si annoverano alcuni giovani stranieri che sembrano avvicinarsi alla prostituzione una volta espatriati (in quanto impossibilitati a farlo liberamente nel proprio paese), quale mezzo per sperimentare e vivere la propria sessualità in una fase della vita in cui si è alla ricerca di definire la propria identità sessuale. Va tuttavia sottolineato che le ricerche effettuate finora in Italia sulla prostituzione minorile e la tratta a scopo di sfruttamento sessuale di minori sono ancora poche rispetto a quelle realizzate sul target adulto femminile. Gli studi individuati hanno però il merito di aver cominciato a delineare i contorni e le principali caratteristiche del fenomeno, sebbene esso presenti evidenti difficoltà ad essere ancora sufficientemente definito ed approfondito. Una ricerca, in particolare, ha contributo a chiarire le categorie concettuali utilizzate nell’affrontare le questioni relative alla prostituzione e alla tratta di minori36. Evidenziando i confini degli specifici fenomeni esaminati, sono state operate delle distinzioni tra tipologie diverse di abuso e di sfruttamento sessuale di minori, sottolineando però l’esistenza di “tratti di contiguità tra forme diverse di implicazione di minori in attività sessuali gestite o utilizzate da adulti”37. Associazione On the Road (a cura di), Porneia. Voci e sguardi sulle prostituzioni, Il Poligrafo, Padova, 2003; A. Veneziani, R. Reims, I mignotti. Vite vendute e storie vissute di prostituti, gigolò e travestiti, Castelvecchi, Roma, 1999. 35 F. Carchedi (a cura di), Piccoli schiavi senza frontiere…, cit., pp. 117-118. 36 F. Prina, op. cit., pp. 17-47. 37 Idem, p. 20. 30 Nell’analizzare la prostituzione e la tratta di minori, tale studio fa riferimento ai seguenti tre concetti principali: sfruttamento di minore, sfruttamento sessuale di minore e lavoro sessuale. Il primo concetto (“sfruttamento di minore”) si riferisce alla “condizione che si determina quando un adulto trae vantaggio economico dall’abuso della propria posizione di dominio o di potere nei confronti di un minore”38; il secondo concetto utilizzato (“sfruttamento sessuale di minore”) si riferisce “[al]la produzione, più o meno intensamente forzata, di servizi di natura sessuale da parte di minori (bambini e adolescenti) in cambio di una remunerazione”39. Le forme di sfruttamento sessuale possono essere di vario tipo ma – come ricorda l’autore – quelle principali individuate dall’Unione europea attraverso il Programma Stop sono quelle agite contro la volontà del/la minore sottoposta a coercizione di tipo fisico e impossibilitata a denunciare i suoi sfruttatori; quelle operate contro la volontà del/la minore costretta a forme di coercizione di natura psicologica che le impediscono di ribellarsi e denunciare i suoi sfruttatori; e quelle basate sul raggiro, l’abuso di autorità, la precarietà psicologica e la carenza culturale della vittima incapace di riconoscere la situazione di abuso a cui è costretta e, conseguentemente, di reagire40. Infine, con il terzo concetto (“lavoro sessuale”), si intende “lo sfruttamento non occasionale dei bambini (…)”41, il quale viene considerato una “forma di lavoro minorile”42. Le modalità di reclutamento, di assoggettamento e di sfruttamento dei principali gruppi nazionali trafficati Le modalità di reclutamento, di assoggettamento e di sfruttamento variano in base al gruppo etnico di appartenenza e al periodo temporale considerato. Appare, infatti, chiaro in tutti gli studi esaminati che i modi operandi dei reclutatori, dei trafficanti e degli sfruttatori si sono modificati con il passare degli anni in risposta ad una serie di variabili, tra cui, gli effetti di contrasto delle normative e delle azioni attivate dalle autorità di pubblica sicurezza e dai servizi di protezione sociale nel nostro Paese e in quelli di origine e di transito; la tipologia di organizzazione criminale coinvolta; le rivalità tra gruppi 38 Idem. Idem, p. 21. 40 Idem. 41 Idem, p. 22. 42 Idem. Prina ricorda che “(…) solo in tempi recenti questa nozione è stata ritenuta utilizzabile per designare la condizione di minori che traggono i mezzi di sopravvivenza dallo scambio sesso-denaro. In particolare è il Bureau International du Travail (Bit) ad aver utilizzato la nozione di lavoro sessuale dei bambini affinché questa forma illegale di lavoro venisse considerata nelle statistiche del lavoro minorile.” 39 31 criminali; il tipo di relazione esistente tra persona trafficata e trafficante; una maggiore disponibilità delle donne a trasferirsi all’estero e ad accettare situazioni a rischio “negoziando” le condizioni di sfruttamento; una maggiore conoscenza del fenomeno in Italia e nei paesi di origine e di transito; l’intensificazione dell’(ab)uso del rimpatrio coatto delle persone irregolari fermate sul territorio italiano. Nella letteratura analizzata si ritrovano approfondimenti specifici sulle differenti modalità di reclutamento e di sfruttamento utilizzate dagli sfruttatori e dai trafficanti di diversa nazionalità a danno delle donne trafficate in Italia. Nelle pagine che seguono viene presentata una breve sintesi delle principali caratteristiche di tali sistemi di assoggettamento dei gruppi etnici o nazionali di donne trafficate a scopo di sfruttamento sessuale maggiormente presenti sul territorio italiano. Il sistema albanese Le donne e le minori albanesi appartengono ai cosiddetti “sistemi prostituzionali tradizionali”43 in quanto sono state tra le prime donne di origine straniera a prostituirsi e ad essere trafficate negli anni Novanta in Italia. Le donne albanesi, alcune delle quali inizialmente venivano anche rapite, sono state successivamente sempre più reclutate attraverso false promesse di matrimonio (la cosiddetta “tecnica dell’innamoramento”) e/o di lavori inesistenti, per poi essere soggette a gravi violenze fisiche e psicologiche, controllo costante e minacce di ritorsione contro i familiari in patria se non si fossero prostituite. La durata e le condizioni di assoggettamento e di sfruttamento dipendevano esclusivamente dalla volontà del singolo sfruttatore e/o dell’organizzazione criminale coinvolta. Allo stato attuale, il gruppo albanese si è notevolmente ridimensionato dal punto di vista numerico e le modalità di sfruttamento sono generalmente “negoziate”, ossia alla violenza spietata, impiegata in maniera sistematica per anni, gli sfruttatori hanno sostituito pratiche di negoziazione che prevedono la ripartizione dei guadagni con le donne sfruttate44. Nel corso degli anni, alle donne albanesi è stata delegata una serie di mansioni che in precedenza erano svolte esclusivamente dagli sfruttatori e controllori maschi. Ci si riferisce, ad esempio, alla sorveglianza e all’accompagnamento delle donne sfruttate sui luoghi di lavoro o di domicilio, al controllo del tempo trascorso con i clienti, al numero di 43 F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne…, cit., p. 41. V. Maida, M. Mazzonis, “Il traffico di donne. Il caso albanese”, in F. Carchedi (a cura di), Prostituzione migrante…, cit., pp. 73-74. 44 32 clienti intrattenuti, al ritiro e alla consegna dei profitti dell’attività prostituiva45. Il numero delle donne albanesi è cominciato a diminuire a partire dal 2002 per varie ragioni. Alcune donne sono emigrate all’estero (Inghilterra, Belgio, Francia, Germania, Canada, Stati Uniti, etc.), mentre altre sono tornate in patria a (ri)costruirsi un futuro possibile o sono rimaste in Italia, spesso sposandosi e cambiando lavoro o alternandolo con quello prostituzionale. Ad influenzare il calo delle presenze albanesi sono stati anche altri fattori, tra cui, la riduzione della domanda di emigrazione in seguito al miglioramento delle condizioni sociali, economiche e politiche in Albania, gli effetti positivi registrati dalle campagne informative di sensibilizzazione, gli accordi bilaterali siglati tra il governo italiano e quello albanese per contrastare i flussi migratori irregolari, l’abbandono dell’attività criminale da parte di alcuni trafficanti e sfruttatori46. Il sistema nigeriano L’altro sistema prostituzionale tradizionale, quello nigeriano, è fondato sul cosiddetto debt bondage, ovvero sul debito che la donna trafficata e sfruttata deve saldare all’organizzazione sfruttatrice rappresentata dalla cosiddetta “madam” o “maman”. Anche nel caso delle donne nigeriane, prevalentemente originarie dell’Edo State, il reclutamento avviene attraverso false promesse di impiego (generalmente in fabbrica, nella ristorazione, in famiglia) o, nel caso di palese offerta prostituzionale, di ingannevoli condizioni di lavoro. Arrivate in Italia e scoperta la reale finalità del viaggio, le donne nigeriane vengono sottoposte a condizioni e ritmi di lavoro pesanti, anche in conseguenza del fatto che il debito contratto continua ad aumentare a causa dell’obbligo di sostenere costi inizialmente non pattuiti (per l’affitto del posto letto e della “postazione di lavoro”, per le bollette, per il cibo, per i vestiti, etc.). L’assoggettamento delle donne è garantito dall’utilizzo di rituali tradizionali (woodoo e ju-ju) e, spesso, anche dalla stipula di contratti firmati in patria di 45 E. Ciconte spiega tale modifica della modalità di controllo delle donne albanesi sfruttate con la necessità degli sfruttatori di tenere un profilo basso e, quindi, di non farsi vedere troppo per eludere il controllo delle forze dell’ordine. Cfr. E. Ciconte (a cura di), op. cit., p. 122. Secondo F. Carchedi, questo nuovo modello albanese di controllo è funzionale a far diminuire il livello di conflittualità con la donna sfruttata, a farle credere di aver raggiunto un certo livello di autonomia e di potere di negoziazione con chi la sfrutta. Inoltre, il sistema albanese di sfruttamento non poteva comunque continuare a basarsi su forme di reiterata violenza e di grave assoggettamento in quanto le donne hanno cominciato a ribellarsi e a fuoriuscire dal circuito, denunciando i propri sfruttatori, grazie all’aiuto delle organizzazioni di supporto e di tutela delle persone trafficate e che si prostituiscono, cfr. F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne..., cit., p. 45. 46 P. Romani, “I trafficanti sfruttatori”, in E. Ciconte (a cura di), op. cit., pp. 173-174. 33 fronte a notai consenzienti che le vincola alla restituzione del debito contratto. Le donne si ritrovano quindi a dover rispettare i termini del contratto quale dovere morale individuale, obbligo sociale sancito dalle tradizioni della comunità di appartenenza, vincolo legale conseguente al documento sottoscritto davanti al notaio e legame magico-religioso suggellato da riti tradizionali47. Una volta saldato il debito, però, le donne nigeriane sono libere di tornare in patria o di rimanere in Italia senza avere ulteriori obblighi nei confronti di chi le ha sfruttate. Presente su quasi tutto il territorio nazionale, la prostituzione nigeriana trova in Torino e in Castel Volturno (Caserta) i suoi due principali centri di riferimento, dove la comunità nigeriana si è insediata da tempo e i gruppi criminali di tale collettività gestiscono le proprie attività illecite. Castel Volturno sembra aver assunto il ruolo del “cervello della prostituzione nigeriana”48 e il luogo di “smistamento” e di “tirocinio” per le donne che, successivamente, vengono inviate in altre città e periferie italiane. Gli studi esaminati evidenziano che nel corso degli anni l’organizzazione criminale nigeriana si è in parte trasformata, sia rispetto alla struttura organizzativa (sempre più orizzontale e flessibile) che alle modalità di gestione delle donne sfruttate. L’aumento del numero di maman presenti sul territorio italiano e nigeriano (si tratta spesso di donne che hanno saldato il loro debito49) 47 La gestione e il controllo delle donne nigeriane costrette a prostituirsi sono quindi fondate sull’impiego di tipologie diverse di strumenti di assoggettamento sia di natura pratica che religiosa per ottenere quella che F. Prina chiama “forma immateriale di riduzione in schiavitù”, che si è modificata ed adattata nel corso degli anni in risposta ai cambiamenti del fenomeno e alle esigenze specifiche dei soggetti coinvolti, cfr. United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, op. cit., p. 566. 48 A. Bernardotti, “La prostituzione nigeriana nell’area domotiana”, in A. Bernardotti, F. Carchedi, B. Ferone (a cura di), op. cit., pp. 79-92. Secondo Bernardotti le principali ragioni che hanno fatto diventare il litorale domitio il centro nevralgico della prostituzione nigeriana in Italia sono di varia natura: a) il fatto che si tratta di un luogo “storico” della prostituzione locale; b) dagli anni ’80 è il luogo di insediamento delle comunità africane anglofone (Ghana e Nigeria soprattutto) e tradizionalmente dedite al commercio e agli affari, anche di natura illecita; c) la vicinanza con la base militare statunitense di Napoli, che può aver influenzato la domanda di prostituzione anglofona; d) l’arrivo a rotazione di gruppi di braccianti nigeriane per la raccolta stagionale di pomodori; alcune nigeriane diventarono stanziali a causa delle politiche restrittive di concessione dei visti di entrata in Italia che hanno contribuito a far sviluppare il traffico di migranti irregolari e la nascita della prostituzione per debito; e) lo spostamento da Roma a Caserta di collettivi di (generalmente facoltosi) studenti ghanesi e nigeriani, all’interno dei quali vi erano anche le prime tre prostitute nigeriane, le quali nel 1987 cominciarono a prostituirsi sulla strada (fino a quel momento la prostituzione africana si svolgeva al chiuso) e ad innescare la prima catena migratoria attirando donne nigeriane residenti in altre città italiane. 49 Si tratta di donne che, da un lato, si trovano irregolarmente sul territorio italiano e, quindi, non possono trovare un lavoro regolare e, dall’altro, non possono tornare in Nigeria in quanto il loro progetto migratorio non ha avuto un esito positivo (accumulo di denaro). Decidono perciò di collaborare con la loro ex sfruttatrice gestendo per lei alcune donne che si prostituiscono o 34 ha portato alla creazione di strutture criminali più articolate (“a grappolo”) che, a loro volta, hanno prodotto l’innalzamento della cifra media del debito da restituire nonché l’introduzione dell’uso di minacce e violenze quali pratiche “dissuasive e gestionali”. Se nel passato il sistema prostituzionale nigeriano si contraddistingueva per l’essere controllato interamente da donne, attualmente ciò non risulta essere più veritiero. Si registra, infatti, l’introduzione di purè boys o black boys, ovvero di figure maschili (si tratta generalmente di fidanzati e mariti delle maman ai vertici dell’organizzazione) a cui viene affidato il mandato di sorvegliare le donne sfruttate; sorveglianza che si estrinseca anche attraverso l’uso di forme di violenza un tempo raramente utilizzate, nonché di investire parte dei profitti in altre attività legali (phone center, agenzie di money transfer, negozi di vendita al dettaglio) ed illegali (traffico di sostanze stupefacenti), spesso in collaborazione con organizzazioni criminali italiane. Il sistema dei paesi dell’Europa dell’Est e dell’ex Unione Sovietica Le donne originarie dei paesi dell’Europa dell’Est (in particolare della Slovenia, della Bulgaria, della Polonia, dell’ex Jugoslavia) e dell’ex Unione Sovietica (specialmente della Russia, dell’Ucraina, della Moldova, della Bielorussia) sono state impiegate sul mercato della prostituzione forzata già dalla fine degli anni Novanta, ma la loro presenza si è intensificata nel corso dell’ultimo decennio50. Ad organizzare il reclutamento, il viaggio e lo sfruttamento sono sempre più delle “joint venture” criminali che operano in fasi diverse del percorso di tratta. Il reclutamento solitamente viene operato da persone connazionali (conoscenti, amiche/amici, agenzie di impiego), il viaggio viene spesso effettuato da locali in collaborazione con criminali stranieri (ucraini, rumeni, ungheresi, serbi, sloveni, bulgari, turchi, macedoni) e lo sfruttamento è generalmente agito da organizzazioni o da singoli di altri paesi, soprattutto di origine albanese ma non solo. Le organizzazioni criminali albanesi hanno da tempo iniziato a sfruttare altri gruppi nazionali (a volte in collaborazione con gruppi rumeni), in particolare quelli costituiti da donne rumene e moldove, adottando tecniche di “acquistando” dalla stessa una o due connazionali da sfruttare con la supervisione della ex maman per poter, in questo modo, accumulare il denaro che le darà un riconoscimento sociale una volta tornata in patria, cfr. United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, op. cit., p. 531. 50 Cfr. V. Castelli, “Aspetti del fenomeno della prostituzione e della tratta in Italia”, in Associazione On the Road (a cura di), Prostituzione e tratta..., cit., pp. 33-34; S. Scodanibbio, “Il target e le reti di sfruttamento”, in Associazione On the Road (a cura di), Prostituzione e tratta…, cit., pp. 167-169; F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne…, cit., p. 30; E. Ciconte (a cura di), op. cit., p. 35 e segg. 35 sfruttamento diverse da quelle adoperate per anni con le proprie connazionali. Tale cambiamento è dovuto soprattutto alle specificità socio-demografiche e culturali di tali gruppi nazionali51 che, essendo generalmente più istruiti e maggiormente consapevoli delle finalità reali del viaggio in Italia, cercano di trovare un accordo con i propri aguzzini circa le condizioni del loro sfruttamento. Rispetto ai gruppi nazionali presentati nei precedenti paragrafi, molte donne dell’Europa dell’Est e dell’ex blocco sovietico possono godere di una certa autonomia personale ed economica disciplinata dal contratto stipulato alla partenza e a cui possono porre unilateralmente fine prima del suo termine naturale senza ritorsioni da parte dell’organizzazione. Ciò sembra essere soprattutto la prerogativa che caratterizza la relazione tra le donne moldove e i loro sfruttatori, che si devono confrontare con persone mediamente più adulte (rispetto alle vittime di altra nazionalità), fortemente scolarizzate, con pregresse esperienze di lavoro52, decise a perseguire il proprio progetto migratorio per migliorare le gravi condizioni economiche familiari, causate dalla disastrosa situazione socio-economica che la Repubblica di Moldova si trova ad affrontare dopo lo sgretolamento dell’impero sovietico. Viene rilevato53 che, nel corso degli anni, le donne est-europee hanno assunto un ruolo sempre più di rilievo nelle organizzazioni criminali, in particolare nelle fasi di reclutamento, di controllo e di sfruttamento delle persone da avviare alla prostituzione coatta e non. È da sottolineare che, sebbene vengano stipulati dei contratti verbali o scritti basati sul consenso delle donne, una compagine minoritaria continua ad essere trafficata contro la propria volontà. Il sistema rumeno La tendenza maggiormente registrata dalla letteratura esaminata è l’incremento esponenziale delle donne rumene che arrivano nel nostro Paese sempre più consapevoli di dover lavorare come prostitute, anche se le condizioni di lavoro contrattate generalmente vengono disattese. Tra le cause principali di tale aumento dell’immigrazione rumena, vengono indicate: la fase di transizione socio-economia derivante dal passaggio dall’economia socialista di Stato a quella del libero mercato; la povertà; il basso livello di 51 Per un’analisi dei profili socio-culturali delle persone trafficate in Italia dai principali paesi di origine, tra gli altri, cfr.: AA.VV., Da vittime a cittadine…, cit., pp. 83-135; United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, op. cit., pp. 349-353. 52 F. Carchedi, “Il traffico di donne. Il caso moldavo”, in F. Carchedi (a cura di), Prostituzione migrante…, cit., p. 84. 53 E. Ciconte (a cura di), op. cit., pp. 121-130. 36 istruzione che, da un lato, diminuisce le possibilità di accedere al mercato del lavoro e, dall’altro, non permette l’acquisizione di un livello di capitale socioculturale congruo per ponderare adeguatamente le scelte di vita; un sempre più alto numero di famiglie disfunzionali; la maggiore facilità concessa ai cittadini rumeni, a partire dal 2002, di giungere in Italia attraverso l’ottenimento di un visto turistico di 90 giorni per entrare in un paese dell’area Schengen (di cui fa parte anche l’Italia)54. Le potenziali vittime vengono generalmente reclutate da conoscenti o da amiche o rispondono ad annunci di lavoro che promettono un lavoro ben retribuito in Italia. Da evidenziare la scoperta dell’esistenza di agenzie viaggio che offrono sia regolari servizi di preparazione e assistenza di viaggi all’estero sia pacchetti irregolari che prevedono l’organizzazione di viaggi a cui vengono collegati dei “tour prostituzionali”55. In base alla preferenza espressa dalle donne (la strada o luoghi al chiuso), vengono stabiliti degli itinerari, che toccano varie città italiane, per mostrare i possibili luoghi di lavoro. Tale sistema permette alle agenzie e alle organizzazioni criminali ad esse collegate di garantirsi un regolare flusso di donne destinate al mercato della prostituzione in Italia per periodi generalmente medio-brevi. In diversi casi, però, gli accordi non vengono rispettati e le donne si ritrovano a sottostare a condizioni di vita e di lavoro diverse da quelle pattuite. Ciò è capitato soprattutto a coloro il cui il visto di ingresso era scaduto e decidevano di rimanere nel nostro Paese ritrovandosi a soggiacere a forme di sfruttamento para-schiavistico. Infine, rispetto al gruppo nazionale rumeno, è stata notata la progressiva ed allarmante diminuzione dell’età media delle donne che si ritrovano invischiate nei meccanismi di sfruttamento prostituzionale. Sebbene non esistano studi approfonditi e dati quanti-qualitativi significativi, la letteratura esaminata56 sottolinea l’importanza di considerare con attenzione due fenomeni correlati/correlabili alla tratta di persone che sembrano aver luogo in Romania. Ci si riferisce segnatamente al reclutamento di minori o neomaggiorenni appena usciti dagli istituti e la vendita di neonati. In entrambi i casi si tratta di fenomeni di difficile individuazione in quanto, nel primo caso, le persone appena fuoriuscite dagli istituti non vengono 54 Si noti che a partire dall’1 gennaio 2007, la Romania è entrata a far parte dell’Unione europea in qualità di nuovo Stato membro. 55 Prima della partenza per l’Italia vengono consegnati gli itinerari del tour concordato quale “strategia di marketing, una modalità di rendere trasparente e individuabile (geograficamente) il tour, un modo cioè di tranquillizzare le donne e dare loro l’immagine che si sono affidate ad una organizzazione capillare e seria”, in F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne..., cit., p. 52. 56 C. Minguzzi, “Il traffico di donne adulte e minori. Il caso rumeno”, in F. Carchedi (a cura di), Prostituzione migrante…, cit., pp. 110-111. 37 denunciate da nessuno e, nel secondo caso, i neonati venduti non vengono registrati alla nascita e, quindi, tecnicamente sono “inesistenti”57. Il sistema maghrebino Gli studi più recenti hanno evidenziato la presenza, seppur minoritaria, di compagini nazionali tunisine e marocchine presenti soprattutto nelle grandi città italiane, quali Milano, Torino, Roma, Napoli e Palermo. Nella maggior parte dei casi, le donne maghrebine58 si prostituiscono all’interno delle comunità mussulmane e, solo in maniera limitata, offrono servizi sessuali alla clientela italiana. Ciò risponde a logiche di tipo culturale in base alle quali le donne di tali paesi possono prostituirsi solo con uomini delle proprie collettività. Chi non rispetta tale criterio può essere oggetto di comportamenti violenti e vessatori da parte di connazionali ortodossi che non accettano il mancato rispetto dei canoni dettati dalla loro tradizione. È stato tuttavia rilevato che, a volte, le donne maghrebine che si sono prostituite solo all’interno delle proprie comunità, superati i 30 anni, cominciano a prostituirsi anche con clienti italiani. Alcune donne, poi, alternano o integrano il lavoro di prostituta con quello di collaboratrice domestica. Sebbene la maggior parte eserciti autonomamente la prostituzione, sono stati individuati anche alcuni casi di prostituzione coatta a danno di donne maghrebine. Il sistema latino-americano Le donne provenienti dai principali paesi del Centro e del Sud America sono presenti nel mercato italiano della prostituzione, sia al chiuso che all’aperto, da molti anni. Si tratta soprattutto di persone originarie della Colombia e del Brasile e, in misura minore, dell’Ecuador, del Perù, della Repubblica Dominicana, che hanno consolidato delle vere e proprie catene migratorie che le portano a stabilirsi principalmente in alcune città italiane, tra cui si segnalano Milano, Roma, Napoli, Catania. Nel triennio 2003-2006, il loro numero è risultato essere in costante aumento, mentre l’età media registrata in progressiva diminuzione. Il reclutamento e il viaggio vengono generalmente organizzati da amiche o conoscenti che prospettano un futuro di lauti guadagni, spesso esplicitando la reale natura del lavoro da svolgersi in Italia. In alcuni casi, poi, l’attività prostitutiva viene svolta per alcuni giorni o 57 58 F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne..., cit., p. 110. Idem, p. 53. 38 poche ore alla settimana per integrare il guadagno derivante da lavori ordinari, ad esempio, come collaboratrice domestica, cameriera, cuoca59. Casi di tratta a scopo di sfruttamento sessuale sono rilevati anche per questi gruppi nazionali, sebbene in maniera molto più limitata rispetto ad altre collettività straniere. L’analisi delle storie di vita di persone latinoamericane transessuali ha evidenziato che anche questo specifico gruppo sociale è sottoposto a situazioni di prostituzione coatta, di tratta a scopo di sfruttamento sessuale e di violenza. Spesso sono giovani, inviati dapprima alle “bombardere”60 e poi avviati alla prostituzione dalle loro stesse famiglie, che considerano un figlio transessuale che si prostituisce un’importante risorsa economica per il mantenimento del nucleo familiare. Studi approfonditi su questo specifico gruppo sociale non risultano essere stati ancora effettuati in Italia61. Il sistema cinese Trattandosi di un fenomeno piuttosto recente, scarsa è la letteratura sulla prostituzione e la tratta a scopo di sfruttamento sessuale di donne cinesi62. Le forze dell’ordine e gli operatori e le operatrici di strada di alcune città e piccoli luoghi di provincia hanno segnalato la presenza di donne cinesi che offrono servizi sessuali anche a uomini non appartenenti alla propria comunità di origine sia in appartamento che sulla strada. Ciò costituisce un fatto che appare nettamente in controtendenza rispetto agli usi e ai costumi tradizionalmente adottati da tale gruppo nazionale, che prevedono l’offerta di servizi sessuali solo a connazionali nelle case di appuntamento deputate all’uopo, presenti in varie città italiane già a partire dai primi anni di migrazione cinese in Italia (anni Settanta)63. 59 F. Carchedi, “La prostituzione migrante e la prostituzione derivante dal traffico coercitivo di donne. Un quadro complessivo”, in F. Carchedi (a cura di), Prostituzione migrante…, cit., p. 50. 60 Si tratta di persone, spesso anch’esse transessuali, che somministrano ormoni femminili senza i dovuti controlli da parte di dottori e personale medico specializzato. 61 Il tema della transessualità risulta essere esplorato quasi esclusivamente nel campo della medicina e della psichiatria e più raramente in quello delle discipline sociali. Tra gli studi italiani che hanno preso in esame i temi legati all’identità di genere e alle forme di esclusione subite dalle persone transessuale, cfr. P.E. Marcasciano, M. Di Folco, Transessualismo: dall’esclusione sociale all’inclusione parziale, Ageform, Edizioni Aspasia, Bologna, 2002; AA.VV., Transiti. Percorsi e significati dell’identità di genere, Movimento di Identità Transessuale, Labanti e Nanni, Bologna, 2002. 62 P. Romani, “Il ruolo della criminalità organizzata nel traffico degli esseri umani”, in F. Carchedi (a cura di), Prostituzione migrante…, cit., p. 151; F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne..., cit., pp. 55-63. 63 L’offerta di servizi sessuali a persone non appartenenti alla propria comunità e la relativa presenza di (alcune) prostitute cinesi sulle strade italiane e negli appartamenti hanno reso più 39 Questi due modelli di esercizio della prostituzione cinese sono correlati ai due principali sistemi migratori che hanno caratterizzato l’entrata nel nostro paese di immigrati provenienti da aree diverse della Cina64. Il modello più tradizionale basato sui “bordelli clandestini” rivolti a connazionali è collegato alle catene migratorie collettive originarie delle regioni centro-meridionali (Zhejiang e Fujian) finalizzate principalmente al ricongiungimento familiare con il capofamiglia presente in Italia da tempo. Il secondo modello prostituzionale, in base al quale i servizi sessuali possono essere prestati anche alla clientela italiana, sono invece connessi alla migrazione proveniente dalle regioni più industrializzate del Nord (ex Manciuria), da cui partono singolarmente componenti sia femminili che maschili della famiglia. I due modelli sono il prodotto diretto di due culture di riferimento diverse, l’una più tradizionalista e fondata sulla famiglia e la mentalità imprenditoriale, l’altra più moderna ed individualista. Le pratiche di reclutamento e di assoggettamento delle donne che si prostituiscono, tuttavia, paiono molto simili nei due modelli individuati. In entrambi, infatti, le donne si indebitano per emigrare e, in diversi casi, sono costrette a subire forme di coercizione che le trasformano presto da migranti irregolari giunte attraverso i canali dell’immigrazione clandestina a vittime di tratta. Arrivate in Italia, l’attività prostituzionale è regolata da accordi basati sulla restituzione del debito analogamente a quanto avviene nel modello nigeriano. La differenza principale tra i due modelli cinesi identificati è che, mentre nel primo (quello definito “tradizionale”) esistono reti parentali a cui affidarsi per portar avanti il proprio progetto migratorio, compresa l’estinzione del debito contratto; nel secondo (quello più individualista) tale possibilità non è presente. Il secondo modello può quindi comportare un rischio più elevato di invischiamento in un sistema di grave sfruttamento maggiormente correlabile a quelli descritti per gli altri gruppi nazionali sopra considerati. La prostituzione al chiuso La letteratura su questo specifico fenomeno è ancora molto limitata, ma, nel corso dell’ultimo triennio (2003-2006), sono state pubblicate alcune ricerche65 che hanno permesso di definire le principali caratteristiche della vulnerabile la posizione della criminalità organizzata cinese e hanno così permesso alle forze dell’ordine italiane di attivare reazioni di contrasto e di approfondire la conoscenza del fenomeno criminale cinese. 64 F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne…, cit., pp. 55-63. 65 C. Donadel, E.R. Martini (a cura di), op. cit.; AA.VV., (a cura di), Il sommerso…, cit. 40 prostituzione al chiuso. Questa è una pratica che per molto tempo ha riguardato solamente le donne italiane, ma che da qualche anno coinvolge sempre più anche persone straniere. Si tratta di donne generalmente originarie dei paesi dell’ex blocco sovietico e del Centro e Sud America ma, in alcuni casi, anche della Nigeria. Alcuni studiosi ritengono che le donne nigeriane vengano inserite nei circuiti al chiuso per evitare che entrino in contatto con le organizzazioni sociali che offrono assistenza ed aiuto66. I luoghi di esercizio della prostituzione al chiuso sono gli appartamenti, i locali notturni, i club privè, i centri benessere, i bar. Sempre più spesso – generalmente dopo aver firmato contratti con le reti di sfruttamento –, le donne che si prostituiscono al chiuso arrivano in Italia seguendo canali regolari e risiedendo per brevi o medi periodi, anche ripetuti nel tempo. La prostituzione viene vista come uno strumento transitorio per raggiungere degli obiettivi economici specifici per poi ritornare nuovamente nel proprio paese di origine. Tuttavia, forme di inganno, violenza e sfruttamento vengono impiegate anche per il reclutamento e l’assoggettamento di persone per questo tipo particolare di prostituzione. Gli studi effettuati hanno messo in luce che il paventato spostamento in massa di persone dalla strada ai luoghi al chiuso, quale conseguenza dell’intensificarsi delle attività di controllo e di repressione da parte delle forze dell’ordine, non ha avuto luogo, se non per periodi temporali molto brevi e funzionali allo ristabilimento delle condizioni adeguate per ritornare sulla strada67. Le forme di prostituzione al chiuso risultano essere complementari e simultanee alla prostituzione di strada, che non si ritiene possa essere sostituita dalle prime in quanto è più redditizia e di più facile gestione68. La prostituzione al chiuso può essere esercitata esclusivamente in appartamento o in maniera alternata in luoghi al chiuso e in strada, in base ad esigenze personali (specie nel caso di prostituzione volontaria) o alle esigenze, dettate da valutazioni di profitto o da convenienze specifiche, delle organizzazioni criminali. In entrambe le situazioni possono avere luogo forme di sfruttamento e di assoggettamento a condizioni paraschiavistiche a danno di persone trafficate. Le donne subiscono forme di asservimento simili a quelle riscontrate tra le donne che si prostituiscono in strada, ma la loro libertà di movimento risulta essere maggiormente limitata e il controllo agito dagli sfruttatori più serrato. Si ritrovano a subire condizioni di segregazione psicofisica, che le costringe ad un grave isolamento e ad una seria emarginazione sociale. Gli assenti o scarsi contatti con le forze dell’ordine e gli operatori e le 66 A. Bernardotti, op. cit., p. 140. C. Donadel, E.R. Martini (a cura di), op. cit., p. 110. 68 F. Carchedi, Prostituzione straniera e traffico di donne…, cit., p. 21. 67 41 operatrici sociali, la forte mobilità a cui le donne sono soggette, i limitati contatti con il mondo esterno, la paura di contravvenire alle regole imposte dagli sfruttatori/aguzzini determinano tempi di sganciamento dal circuito di sfruttamento più lunghi. 1.3 La tratta a scopo di sfruttamento nel lavoro forzato Il lavoro forzato viene citato in letteratura quale uno dei principali ambiti di sfruttamento in cui una parte di immigrati stranieri trafficati viene inserita in Italia. In particolare, si citano l’agricoltura, l’edilizia, l’industria tessile, il commercio ambulante, il lavoro domestico, la ristorazione quali comparti produttivi in cui hanno maggiormente luogo gravi forme di sfruttamento a cui sono soggette persone trafficate. Si tratta di settori del mercato del lavoro in cui viene impiegata una manodopera scarsamente specializzata e, quindi, facilmente sostituibile, e “dove un alto tasso di sfruttamento coincide in larga parte con la redditività e concorrenzialità dell’impresa”69. Tuttavia, in Italia, non esistono dati precisi o studi approfonditi che riguardano specificatamente la tratta a scopo di sfruttamento nel lavoro forzato. Nel corso della presente indagine, è stato individuato un unico studio70 che ha concentrato la propria attenzione in maniera approfondita su questo specifico ambito. Partendo dall’analisi dei concetti e delle questioni chiave relative alle forme vecchie e nuove di schiavitù o paraschiavismo, tale studio ha esaminato i principali fattori di vulnerabilità delle persone immigrate e le forme di sfruttamento servile e para-schiavistico nel mondo del lavoro, anche attraverso l’analisi di alcuni studi di caso concernenti tre grandi città italiane (Torino, Roma, Napoli). Si tratta quindi di una ricerca esplorativa che, considerati i limiti conoscitivi esistenti, non fornisce un quadro sistematico del fenomeno, ma contribuisce in maniera sostanziale a chiarire alcuni concetti fondamentali (condizione servile71, condizione paraschiavistica72, 69 S. Ceschi, M. Mazzonis, “Le forme di sfruttamento servile e para-schiavistico nel mondo del lavoro”, in F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), Il lavoro servile e le nuove schiavitù, Franco Angeli, Milano, 2003 p. 93. 70 F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), op. cit. 71 Gli autori dello studio qui preso in esame considerano come “condizione servile (…) quello stato socio-economico e socio-psicologico che si instaura tra diverse persone, dove le une detengono il dominio e il potere decisionale incontrastato sulle altre. Il dominio in questi casi non è basato generalmente sulla violenza, ma sulla ricerca del consenso, sul ricatto (sia esplicito che implicito) e sul raggiro che influenza le forme di negoziazione finalizzate a perpetuare lo stato di sudditanza. Inoltre, un ruolo specifico è svolto dalla vicinanza fisica (in contrasto con la distanza psicologica) e dalle forme di coabitazione.” Tale condizione si ritiene esista specificatamente nell’ambito di sistemi socio-economici che coinvolgono appartenenti ad 42 servitù da debito73, tratta74, traffico75) per fornire un quadro di sfondo utile a superare le costruzioni mitologiche ed estremizzate dei casi di lavoro paraschiavistico e mettere in luce le violazioni dei diritti a cui molte persone immigrate sono soggette76. A parte questo caso positivo isolato, appare evidente che esiste ancora – a una stessa famiglia o comunità in cui i rapporti personali sono considerati più vincolanti di quelli formalizzati dai contratti di lavoro: F. Carchedi, “Introduzione”, in F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), op. cit., p. 13. 72 La condizione paraschiavistica viene invece considerata essere “quella condizione nella quale si registrano forme di sfruttamento che abbracciano quelle dimensioni relazionali basate sul dominio e sulla completa coercizione. Pertanto il fattore che le caratterizza maggiormente è la mancanza di libertà, ossia la mancanza di qualsiasi forma di negoziazione ad eccezione di quella necessaria a garantire una certa sopravvivenza e riproducibilità delle relazioni”. Le forme paraschiavistiche generalmente hanno luogo al di fuori dei contesti di “cultura familiare” (tuttavia alcune tipologie di tratta a scopo di sfruttamento sessuale possono coinvolgere direttamente membri della famiglia o della comunità di origine) e nei settori del cosiddetto lavoro sommerso: F. Carchedi, “Introduzione”, in F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), op. cit., p. 15. 73 Presente con connotazioni distinte in parti diverse del mondo, la servitù da debito è tuttavia fondata sul seguente comune denominatore: “l’erogazione del lavoro in maniera gratuita, offerto per pagare un debito contratto per soddisfare altre esigenze. I termini del rimborso sono determinati dal creditore, il quale li modifica a seconda della convenienza. Non c’è proprietà, ma soltanto controllo e possesso dei prodotti del lavoratore-schiavo. Il debito in alcuni casi – quando implica soprattutto un’attività economica – si trasmette anche per via ereditaria ai parenti di prossimità della vittima”: F. Carchedi, M. Mazzonis, “La condizione schiavistica. Uno sguardo d’insieme”, in F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), op. cit., p. 38. 74 Poiché questo studio è stato condotto e pubblicato poco prima dell’introduzione della legge n. 228/2003 “Misure contro la tratta”, la definizione di tratta ivi riportata è quella contenuta nel disegno di legge n. 855, approvato dalla Camera dei deputati il 21 novembre 2001. La legge 228/2003 si basa ampiamente su tale testo, che ha permesso di definire e, quindi, di introdurre nel sistema normativo italiano fattispecie di reato distinte e in conformità con gli strumenti legislativi internazionali, quali: la “Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù” (art. 600 c.p.); la “Tratta di persone” (art. 601 c.p.); l’“Acquisto e alienazione di schiavi” (art. 602 c.p.). Per la definizione integrale di “tratta di persone” contenuta nel c.p. italiano, cfr. infra nota 134. 75 Più che una definizione specifica, E. Pugliese offre una descrizione degli elementi distintivi di tale fenomeno, che rispecchia la definizione di traffico di migranti contenuta nel Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria (2000). L’autore scrive infatti che “Chi arriva da paesi vicino o lontani nella fase che va dalla decisione della partenza (o anche dalla partenza) alla collocazione in una sistemazione lavorativa non compie il percorso sotto il controllo di una persona o di una organizzazione. Questo immigrato è costretto ad affidarsi, nelle diverse fasi della sua odissea, a persone o organizzazioni diverse, le quali operano in segmenti diversi del percorso. (…) Ma si è anche riscontrato che essi sono arrivati in Italia per libera scelta e con piena coscienza, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, delle prospettive di lavoro e di reddito che avevano davanti e delle cifre da pagare”: E. Pugliese, “Schiavitù e non: questioni concettuali e problemi per la ricerca”, in F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), op. cit., pp. 51-52. 76 Idem, p. 60. 43 livello scientifico e sociale – uno scarso interesse nei confronti del lavoro forzato quale ambito di sfruttamento in cui le persone trafficate possono essere inserite. Ciò può essere il risultato di una persistente scarsa conoscenza pubblica del fenomeno della tratta, della confusione – ancora troppo diffusa – tra tratta di persone e traffico di migranti e dell’incapacità di riconoscere gli indicatori che circoscrivono una condizione di lavoro para-schiavistico. Spesso, infatti, vige ancora una mancata chiarezza sui confini che determinano situazioni lavorative e personali di natura distinta, che vengono invece definite con i termini generici di “lavoro nero” o “sfruttamento”. Tale approccio porta al mancato riconoscimento delle differenti forme di sfruttamento violento e para-schiavistico che si manifestano in quegli ambiti produttivi in cui vige il mancato rispetto delle normative che regolano i rapporti di lavoro. Come sottolineano gli autori della ricerca menzionata, il lavoro para-schiavistico coincide con il segmento più estremo del lavoro nero caratterizzato da gravi forme di sfruttamento e di coercizione e dalla totale assenza di libertà di decidere o di negoziare le proprie condizioni di vita e lavorative77. Alla luce di questi elementi, diventa necessario approfondire maggiormente i legami esistenti tra sfruttamento lavorativo, politiche migratorie e tratta di persone. Molte persone immigrate sono impiegate nei cosiddetti settori dell’economia informale e sommersa, spesso caratterizzati da una scarsa regolamentazione e da una forte richiesta di manodopera non specializzata. Si tratta generalmente di professioni che favoriscono un alto grado di isolamento e di sfruttamento delle risorse umane impiegate. Inoltre, la crescente deregolamentazione e l’informalizzazione di alcuni settori produttivi del mercato del lavoro aumentano il livello di vulnerabilità della forza lavoro straniera che si trasforma così in manodopera a basso costo, facilmente sostituibile e fortemente sfruttata. Ed è proprio in queste situazioni che i casi di tratta possono svilupparsi e nascondersi. Allo stato attuale non sembrano esistere ricerche che hanno permesso di ricostruire dettagliatamente l’intero percorso di tratta, di sfruttamento e di eventuale sganciamento di persone trafficate in Italia per essere forzosamente impiegate nei vari comparti produttivi del mercato del lavoro. Sistematizzare le (ancora poche) informazioni finora acquisite in materia per poi effettuare uno studio che permetta di raccogliere dati sull’intero ciclo di tratta di persone trafficate a scopo di lavoro forzato sarebbe di fondamentale importanza per acquisire un’accurata conoscenza in materia; conoscenza che potrebbe essere debitamente utilizzata per approntare misure ad hoc di supporto e di assistenza a favore di questo specifico gruppo sociale. 77 F. Carchedi, “Introduzione”, in F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), op. cit., p. 15. 44 1.5 La tratta a scopo di sfruttamento nell’accattonaggio La tratta di persone finalizzata allo sfruttamento nell’attività di accattonaggio viene regolarmente citata tra gli ambiti di sfruttamento in cui vengono forzatamente impiegate le persone trafficate in Italia, sebbene dati ufficiali in grado di quantificare e qualificare il fenomeno allo stato attuale – nemmeno in questo caso – non ne esistano. Le informazioni più dettagliate finora acquisite in materia sono poche e riguardano solo alcune città (Milano, Roma, Napoli), sebbene il fenomeno si manifesti in diverse città italiane di grandi e piccole dimensioni. Le fonti principali che hanno permesso di raccogliere le informazioni attualmente disponibili sono generalmente gli studi di caso contenuti in rapporti che riguardano varie forme di esclusione sociale78 e di povertà estreme79 o forme di devianza80, le relazioni di progetti che offrono supporto ed assistenza alle persone trafficate (che hanno registrato pochissimi casi di persone trafficate per essere sfruttate nell’accattonaggio per conto terzi) e i rapporti parlamentari ufficiali81. Dalle informazioni raccolte si evince che, a partire dagli anni ’90, in molte città italiane si è cominciato ad assistere all’aumento progressivo di stranieri e straniere – minori e adulti – che mendicano lungo le strade principali, ai semafori, di fronte ai supermercati o nei parcheggi dei centri commerciali. Questa nuova versione di un vecchio fenomeno che nei decenni passati riguardava cittadini italiani viene ritenuta essere il risultato di una serie di fattori di attrazione e di espulsione (povertà, assenza di tutele sociali, conflitti intra/regionali, desiderio di migliorare le proprie condizioni socio-economiche, etc.) che coinvolgono persone provenienti soprattutto da paesi dell’Europa dell’Est e dal Maghreb, in particolare dai territori dell’ex Yugoslavia, dalla Romania e dal Marocco. Molti mendicanti chiedono l’elemosina in cambio dello svolgimento di servizi prestati all’istante, quali il lavaggio dei vetri della macchina, la vendita al dettaglio (fazzoletti di carta, accendini, portachiavi, penne, panni per pulire le autovetture, fiori, etc.), trasformando l’attività di accattonaggio in una forma di “mendicità contrattualistica illegale”82. 78 E. Ciconte, P. Romani, op. cit., pp. 85-91. Caritas italiana, Fondazione E. Zancan, Cittadini invisibili. Rapporto 2002 su esclusione sociale e diritti di cittadinanza, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 289. 80 V. Belotti, R. Maurizio, A.C. Moro, Minori stranieri in carcere, Guerini e Associati, Milano, 2006. 81 Commissione Parlamentare Antimafia, Relazione sul traffico di esseri umani, Atti parlamentari, XIII Legislatura, Doc. n. 49, relatrice Sen. T. De Zulueta, Stabilimenti Tipografici C. Colombo, Roma, 2000. 82 Sono state identificate quattro macro-tipologie di accattonaggio in base a due variabili dicotomiche, ossia elemosina contrattualistica/non contrattualistica ed elemosina legale/illegale. “L’incrocio delle due variabili contribuisce a definire quattro raggruppamenti o “tipologie di 79 45 Gli studi esaminati sottolineano che chi pratica o è costretto a praticare l’accattonaggio spesso viene coinvolto in attività illegali, come il borseggio, i furti in appartamenti, lo spaccio di stupefacenti, o viene sfruttato nella prostituzione. Si tratta soprattutto di minori stranieri, non solo nomadi ed europei dell’Est ma anche nordafricani e sudamericani, che vengono reclutati in modi diversi. Vi sono, infatti, i minori portati in Italia da un parente prossimo o lontano e utilizzato – in compagnia di una persona adulta – per impietosire le persone e, quindi, ottenere più facilmente l’elemosina (ad esempio, bambini tra le braccia di madri che richiedono l’obolo in un angolo della strada o delle stazioni della metropolitana, bambini che accompagnano un adulto che suona uno strumento musicale e fanno la questua a fine esibizione); minori che temporaneamente mendicano per potersi sostenere in attesa di trovare una soluzione alternativa migliore; e minori che sono costretti a mendicare agli angoli delle strade e ai semafori da organizzazioni criminali che si occupano del loro reclutamento in patria, del viaggio e dello sfruttamento una volta arrivati in Italia. Sono soprattutto i minori albanesi e slavi in generale quelli sottoposti a forme di tratta e di riduzione in schiavitù che li priva dei loro più elementari diritti. Già nel 2000, la Relazione sul traffico di esseri umani della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni similari (fino ad ora l’unica realizzata in questo campo), si sottolineavano le condizioni di vita estremamente disagiate a cui venivano sottoposti bambini ed adolescenti da parte di organizzazioni criminali generalmente provenienti dagli stessi paesi di origine. Reclutati in patria con promesse ingannevoli circa il loro futuro impiego all’estero, i minori entrano nel nostro Paese da soli o con adulti che fingono di essere i loro genitori, così come risulta da documenti di identità e da permessi di soggiorni falsificati; una volta entrati scompaiono non appena consegnano i finti figli a chi successivamente li sfrutterà. I minori sono, infatti, costretti a “guadagnare” quotidianamente una certa cifra di denaro prestabilita, a volte a commettere anche attività illecite (borseggi, furti, etc.) e a vivere in posti fatiscenti (baracche, case abbandonate e diroccate). Il mancato raggiungimento della somma determinata dagli aguzzini o l’eventuale ribellione o fuga vengono severamente punite, anche quale monito per gli altri minori appartenenti al gruppo. Nell’accattonaggio, sia nella sua forma volontaria che forzata, si registrano casi di utilizzo strumentale di persone con problemi fisici (mutilati, ustionati, sordomuti, etc.) o donne in stato di gravidanza per ottenere, da un lato, un accattonaggio”, ciascuna delle quali si distingue per una serie di caratteristiche derivate dalla combinazione delle modalità delle due variabili in questione”; W. Nanni e L. Posta, “I nuovi mendicanti: accattonaggio ed elemosina nella società post-industriale”, in Caritas italiana, Fondazione E. Zancan, op. cit., p. 284. 46 maggiore profitto economico e, dall’altro, maggiore benevolenza nel caso di fermo da parte delle forze di polizia e delle autorità giudiziarie. L’analisi della scarsa letteratura in materia di tratta a scopo di accattonaggio forzato ha messo in luce la necessità di approfondire tale tema per poter raccogliere informazioni più dettagliate circa le dinamiche che caratterizzano il fenomeno e le condizioni di vita e di lavoro delle persone coinvolte. 1.6 Tratta a scopo di sfruttamento nelle economie illegali Alcuni testi esaminati83 mettono in luce l’esistenza di una forma di tratta ancora poco esplorata che vede il coinvolgimento di persone trafficate in attività illegali, soprattutto in quelle collegate allo spaccio di sostanze stupefacenti, borseggi, furti in appartamenti, ambulantato e vendita al dettaglio (spesso di prodotti contraffatti). Per le prime tre attività illegali citate, vengono impiegati soprattutto minori stranieri, non solo nomadi ed est-europei ma anche nordafricani e sudamericani. Mentre i minori nomadi e dell’Europa dell’Est sono dediti soprattutto ai borseggi e ai furti negli appartamenti, i minori maghrebini e sudamericani vengono adoperati per il piccolo spaccio nelle aree metropolitane. Sebbene più fonti rilevino unanimemente che il numero di minori stranieri impiegati in questi tipi di attività illegali sia in costante aumento, non sembra esserci una lettura altrettanto concorde sulle loro modalità di invischiamento nei circuiti illegali e, in particolare, se i minori sono trafficati, sono costretti o scelgono volontariamente di delinquere. In base ai “negazionisti”84, i minori non accompagnati coinvolti nelle attività illegali sopraccitate non sono né trafficati né costretti a svolgere tali attività poiché possono decidere autonomamente quando sganciarsi dal circuito illegale. I negazionisti sostengono che i minori sono mandati all’estero dalle loro stesse famiglie con l’aiuto di un familiare o di un conoscente che vive nella città di destinazione e che si prende cura di loro, gli trova un lavoro e un alloggio. Il coinvolgimento in una attività illegale viene visto come una fase di passaggio del progetto migratorio finalizzato al mantenimento economico della famiglia in patria. Coloro che si oppongono a tale lettura ritengono invece che si tratti molto spesso di casi di tratta di minori organizzata e gestita da gruppi criminali che si occupano del viaggio, del reperimento di documenti falsi, dell’alloggio e dell’ambito di “impiego” in cui verranno inseriti. Nel caso in cui si rifiutino di 83 Cfr. Casa dei diritti sociali, Fondazione Romena per i Bambini, la Comunità e la Famiglia, Terre des Hommes, op. cit., 2005; Lostia A., C. Tagliacozzo, “Immigrazione e condizioni paraschiavistiche. Il caso di Torino”, in C. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), op. cit.; E. Ciconte, P. Romani, op. cit.; W. Nanni, L. Posta, op. cit. 84 Lostia A., C. Tagliacozzo, op. cit., p. 234. 47 spacciare, mendicare o rubare, non raccolgano l’ammontare del denaro quotidiano stabilito o non rispettino le regole stabilite, i minori vengono puniti fisicamente e, in alcuni casi, sottoposti ad abusi sessuali. Esistono anche ricercatori e testimoni privilegiati che danno una lettura intermedia del fenomeno, ovvero ritengono che si sia in presenza di situazioni di sfruttamento che, però, non si configurano come forme paraschiavistiche85. Tali diversità interpretative sottolineano che il fenomeno in oggetto è multiforme, dai confini di non facile distinzione e che necessita di studi che consentano di elaborare e, quindi, adottare definizioni e categorie interpretative condivise. Considerate le conoscenze finora acquisite, molti ricercatori dichiarano che non è possibile affermare che esistono forme diffuse e strutturate di tratta a scopo di sfruttamento in attività illegali, sebbene alcuni studi abbiano dimostrato l’esistenza di casi di persone trafficate in Italia per essere sfruttate in questo specifico ambito. Gli studi hanno messo anche in evidenza che sono soprattutto i minori non accompagnati con nessuno o scarso contatto con membri delle loro comunità nazionali o sotto il controllo di una persona esterna alla loro cerchia familiare ad essere i soggetti più vulnerabili a forme di grave sfruttamento o di carattere para-schiavistico. Anche in questo caso, la desk review ha messo in luce la necessità di approfondire queste forme di tratta, tenendo in considerazione le maggiori difficoltà da superare, da un lato, per utilizzare fonti primarie (es. intervistare direttamente i/le minori); dall’altro, per individuare – forse ancor più che in altri settori – i confini tra forme di sfruttamento, di tratta, usi culturali e familiari e ricerca di strumenti di autodeterminazione. Solo una migliore e approfondita conoscenza di tali elementi permetterà di comprendere se ci si trova di fronte a casi singoli di tratta o ad un fenomeno strutturato e diffuso nel nostro Paese. 1.7 La tratta a scopo di espianto di organi La letteratura scientifica sulla tratta a scopo di espianto di organi è praticamente inesistente in Italia86. Se ne occupa sporadicamente la stampa nazionale ma solo per riportare la possibile presenza del fenomeno nel nostro Paese che generalmente viene collegato alla scoperta di casi di tratta di minori. Le uniche pubblicazioni individuate o dedicano solo pochi paragrafi 85 Idem. Anche a livello internazionale, poche sono le ricerche scientifiche in materia di tratta a scopo di traffico di organi. Per una significativa panoramica mondiale su tale argomento, cfr. E. Pearson, Coercion in the Kidney Trade? A background study on trafficking in human organs worldwide, Gtz, Eschborn, 2004. 86 48 all’Italia87, soffermandosi più a lungo sulla tratta a scopo di espianto di organi presente in altri paesi, oppure si concentrano sui progressi scientifici che consentono di salvare vite umane attraverso trasfusioni, trapianti, fecondazioni artificiali, ingegneria genetica che possono anche dar luogo ad abusi e a mercati illegali di organi e di tessuti umani. Come sottolinea uno degli autori delle due ricerche prese in esame, ciò non significa che tale fenomeno non esista nel nostro Paese ma piuttosto che, probabilmente, la comunità scientifica non ha ancora dedicato l’attenzione e il tempo necessario per studiare una realtà che con molta probabilità è presente anche nel nostro territorio, sebbene molti neghino tale evenienza (ad esempio, l’Associazione Italiana Donatori Organi – Aido)88. A sostegno di questa tesi, lo studio ricorda un’inchiesta giornalistica della Rai Radio Televisione Italiana che aveva scoperto l’esistenza di un traffico di organi che dalla Moldova, passando attraverso la Turchia, giungeva nei ricchi paesi europei o arabi. A testimonianza dell’esistenza di questo turpe mercato, la troupe giornalistica della televisione pubblica italiana aveva intervistato alcune persone moldove che si erano sottoposte all’espianto del rene in compiacenti cliniche turche in cambio di 2.000-3.000 euro. A causa della mancata assistenza medica, molti donatori hanno avuto molte complicanze post-operatorie che hanno portato, in alcuni casi, a morti precoci. Anche nel primo documento istituzionale italiano89 sulla tratta, la relatrice riferisce della possibile esistenza della tratta a scopo di espianto di organi ma le prove finora ad allora raccolte (2000) non erano sufficienti a delineare i contorni di questo possibile fenomeno. Dopo sette anni, non si è ancora in grado di stabilire se tale forma di tratta coinvolga effettivamente anche l’Italia. Sono state effettuate delle indagini su questa specifica ipotesi di reato da parte di alcune Procure italiane, ma le informazioni acquisite non sono state utili a stabilire l’effettiva esistenza di casi di tratta finalizzati all’espianto di organi o di tessuti nel nostro Paese. 1.8 Tratta a scopo di adozioni internazionali illegali In Italia, non sembra esistere una letteratura specifica su questo tema. La letteratura esaminata ha a volte accennato alla possibile esistenza di casi di tratta a scopo di adozioni internazionali illegali ma non ha fornito alcuna informazione o quadro di sfondo sul tema. 87 C. Bertani, Ladri di organi. Il traffico clandestino degli organi per i trapianti nel mondo, malatempora editrice, Roma, 2005; G. Berlinguer, V. Garrafa, La merce finale. Saggio sulla compravendita di parti del corpo umano, Baldini & Castoldi, Roma, 2000. 88 C. Bertani, op. cit., p. 104 e segg. 89 Commissione Parlamentare Antimafia, op. cit. 49 1.9 Le organizzazioni criminali Le figure criminali coinvolte Come si è visto nelle precedenti pagine, la tratta di persone è diventata un vero e proprio comparto delle attività criminali gestite da molte organizzazioni allogene e, parzialmente, da gruppi criminali italiani. È un business che produce milioni di euro all’anno basato sul binomio rischi minimi-profitti massimi. Le strutture delle organizzazioni criminali dedite alla tratta variano in termini di grandezza e di composizione in base al background sociale e culturale nazionale e/o locale (città o paese di provenienza) di riferimento; alle normative da aggirare o da “sfruttare”; alla “quota di partecipazione” nel mercato dello sfruttamento; al livello di know-how criminale acquisito; alla capacità di adattamento e di risposta alle azioni di contrasto operate da organizzazioni rivali e dalle forze dell’ordine. Gli organigrammi delle varie organizzazioni criminali presentano quindi caratteristiche specifiche diverse ma anche elementi di comunanza, come, ad esempio, la presenza di una serie di attori coinvolti in una o più fasi specifiche del percorso di tratta. Tra le principali “figure professionali” presenti nelle varie organizzazioni criminali dedite alla tratta si annoverano: • i reclutatori o le reclutatrici nei paesi di origine; • i/le proprietari/e degli immobili in cui le vittime vengono rinchiuse prima della partenza, durante il viaggio o nel paese di destinazione; • gli accompagnatori o le accompagnatrici presenti durante l’intera durata del viaggio o in singole parti di esso; • i/le responsabili dell’accoglimento nel paese di transito e/o di destinazione; • gli accompagnatori o le accompagnatrici sui luoghi di “lavoro”; • i controllori; • i/le cassieri/e; • gli/le sfruttatori/trici; • i/le responsabili delle cure quotidiane (spesa, pasti, abitazione); • i locatori o le locatrici consenzienti delle abitazioni in cui le persone trafficate alloggiano e/o sono sfruttate; • il personale compiacente (e remunerato) di alberghi, night club, bar, etc.; • i/le cassieri/e nei paesi di origine; • gli/le addetti/e alle intimidazioni nei confronti dei familiari rimasti in patria; • i falsificatori di documenti; • il personale diplomatico e di polizia corrotto. 50 La tratta quindi si basa su procedure gestionali che prevedono fasi ben pianificate e controllate e che devono essere dotate della flessibilità adeguata a rispondere velocemente ai prevedibili o improvvisi cambiamenti che possono verificarsi in ogni momento da quando le vittime vengono reclutate a quando vengono sfruttate nel paese di transito e/o di destinazione. I gruppi criminali stranieri possono operare separatamente oppure – e ciò avviene sempre più spesso – in collegamento con individui o gruppi criminali omologhi di altri paesi. Un ruolo fondamentale in questo sistema criminale è quello svolto da ufficiali pubblici, agenti di polizia e di frontiera corrotti che direttamente (in qualità di rappresentanti di gruppi criminali) o indirettamente (accettando mazzette) godono dei profitti di questo business transnazionale. Parte della letteratura esaminata90 ricostruisce anche i profili principali delle organizzazioni criminali coinvolte nella tratta di persone verso l’Italia. Emerge con molta chiarezza che i modi operandi non solo si differenziano in base al paese di origine, ma anche che essi si sono trasformati nel corso degli anni per adeguarsi al mutato contesto normativo, di contrasto e di assistenza sia in Italia che nel paese di origine. Rispetto al passato, si assiste ad una maggiore diversificazione degli interessi criminali (contrabbando di sigarette, traffico di droga, traffico di armi, contraffazione prodotti al dettaglio, investimenti immobiliari, etc.) e ad una maggiore contrattazione “pacifica” del proprio posizionamento sul mercato della prostituzione; tale strategia è attivata al fine di evitare rischi (arresti, fuga delle donne sfruttate, perdita del controllo sui territori “conquistati”) che influirebbero negativamente sugli interessi economici dell’organizzazione. Nello scontro tra bande si fa ricorso a tecniche più “indirette” per colpire i rivali ed eliminarli dal mercato, come, ad esempio, l’infiltrazione nel gruppo avversario di donne addestrate per raccogliere informazioni utili anche a denunciare il gruppo rivale. Nel corso degli anni, si è inoltre registrata una progressiva tendenza a siglare accordi con le mafie italiane per trarre mutui benefici dalle azioni criminogene messe in atto91. In uno scenario criminale in continuo mutamento, si è anche assistito ad un costante modificarsi delle modalità comunicative e gestionali utilizzate per realizzare gli affari delittuosi che ha portato a far ricorso sempre più all’utilizzo di mezzi informatici e telematici. Nelle pagine che seguono vengono brevemente presentate le principali caratteristiche dei gruppi criminali che gestiscono la tratta di in Italia. Si 90 Direzione Investigativa Antimafia, Relazioni semestrali, 2000-2006, Roma; Transcrime, op. cit.; P. Romani, “I trafficanti-sfruttatori”, in E. Ciconte (a cura di), op. cit.; E. Ciconte, P. Romani, op. cit.; F. Carchedi (a cura di), La prostituzione migrante…, cit.; United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, op. cit. 91 Direzione Investigativa Antimafia, Attività di analisi, progettualità e strategia operativa della Direzione Investigativa Antimafia, Anno 2005 – 1° Semestre, p. 63. 51 ricorda che le informazioni relative alle tecniche e ai mezzi di reclutamento, di assoggettamento e di sfruttamento perpetrate ai danni delle persone trafficate da parte delle organizzazioni criminali sono fornite nella sezione del presente capitolo relativa a questo specifico tema e, per tale ragione, non sono state inserite in questo paragrafo. I gruppi criminali albanesi Fin dagli anni Novanta, i gruppi criminali albanesi hanno avuto un ruolo primario nell’organizzazione e nella gestione della tratta e dello sfruttamento di donne albanesi ed est-europee, in particolare originarie della Moldova, dell’Ucraina e della Romania92. La loro “leadership” nel settore della tratta e la presenza diffusa su quasi tutto il territorio italiano sono il frutto della capacità di stabilire accordi e collaborazioni con gruppi criminali italiani e di altri paesi. Ad esempio, in Puglia, la Sacra Corona Unita ha concesso il monopolio ai gruppi criminali albanesi di condurre le proprie attività di tratta e traffico di migranti in cambio di una collaborazione diretta per poter svolgere indisturbatamente il contrabbando di sigarette e il traffico di droga e di armi. Sul piano internazionale, le principali organizzazioni albanesi hanno stabilito degli accordi di “cooperazione” con bande criminali est-europee, turche e cinesi per la (co-)gestione della tratta e del traffico di migranti, di droga e di armi dirette in Italia e in Europa93., ma hanno anche realizzato delle alleanze con i cartelli colombiani per far arrivare la cocaina, invece che nei porti nordeuropei, in quelli più “sicuri” del Paese delle Aquile94. I gruppi criminali albanesi sono caratterizzati da strutture organizzative di tipo mafioso basate su forti legami familiari ed etnici che impongono la totale sottomissione alle regole stabilite dal clan di riferimento. Ciascun clan ha una salda struttura presente nel paese straniero di insediamento composto da 92 Le evidenze raccolte dalla Direzione Investigativa Antimafia portano a concludere che “(…) si può constatare una diversificazione della ‘merce’ umana da utilizzare, che sempre più spesso non è albanese bensì proveniente dai Paesi dell’Est Europa, dove evidentemente la criminalità schipetara ha stabilito basi di reclutamento. Il cambiamento è stato determinato da un lato, dalla constatazione della minor complessità nella gestione delle proprie vittime, scaturente dalla lontananza dei loro paesi di origine, dall’altro dalla sussistenza e dalla funzionalità degli accordi intergovernativi tra l’Italia e l’Albania, che hanno impedito il degenerare della situazione e ottenuto la sensibile riduzione degli illeciti traffici di clandestini, di droga e di armi sul canale d’Otranto.”, in Direzione Investigativa Antimafia, Attività di analisi, progettualità e strategia operativa della Direzione Investigativa Antimafia, 2° semestre 2001, pp. 57-58. 93 Direzione Investigativa Antimafia, Attività di analisi, progettualità e strategia operativa della Direzione Investigativa Antimafia, Anno 2003 – 2° Semestre, Volume Secondo, p. 189. 94 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 1° semestre 2001, p. 47. 52 immigrati albanesi regolari ed irregolari, che praticano una sorta di “nomadismo criminale”95 cambiando spesso il luogo di residenza sul territorio italiano e, in qualche caso, tornando in patria per periodi medio-lunghi per evitare il controllo delle forze dell’ordine. I capi dei clan generalmente risiedono in Albania96, da dove dirigono i propri affari illeciti e dove investono i propri profitti (generalmente) nel settore immobiliare e nell’industria del turismo. Nel caso decidessero di risiedere in Italia, i profitti vengono sempre più utilizzati nel mercato economico legale. Le indagini investigative hanno messo in luce che i malavitosi albanesi tendono ad acquistare o gestiscono legalmente locali di intrattenimento, night club e appartamenti che utilizzano per lo sfruttamento della prostituzione97. La criminalità albanese è composta anche da gruppi con una struttura organizzativa meno articolata e stabile che la Direzione Investigativa Antimafia assimila a “bande urbane”98. Tali gruppi si sono distinti per le modalità operative estremamente violente, utilizzate soprattutto nella gestione dello sfruttamento della prostituzione e nei reati contro il patrimonio. Essendosi resa responsabile di delitti efferati sia ai danni dei propri connazionali che a quelli di cittadini italiani, la criminalità organizzata albanese viene considerata il gruppo criminale straniero che desta maggior allarme sociale nel nostro Paese99. Le indagini hanno inoltre evidenziato che molti criminali albanesi sono riusciti ad ottenere un regolare titolo di soggiorno in Italia o in un altro paese dell’Unione europea, spesso fungendo da interfaccia legale per affari di natura illegale. La posizione regolare permette loro di spostarsi più facilmente lungo tutto il territorio italiano e di gestire più agevolmente i propri interessi criminali100. I gruppi criminali nigeriani In Italia, le organizzazioni criminali nigeriane sono attive principalmente nel mercato dello sfruttamento della prostituzione, dello spaccio di droga e della falsificazione di carte di credito. In base alle investigazioni effettuate, risulta che gruppi etnici diversi siano specializzati nella commissione di reati distinti: l’etnia Benin si occupa di prostituzione, l’etnia Ibo di traffico di droga 95 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 1° semestre 2002, p. 69. Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 1° semestre 2006, p. 31. 97 Direzione Investigativa Antimafia, Attività di analisi, progettualità e strategia operativa della Direzione Investigativa Antimafia, Anno 2005 – 1° Semestre, p. 64. 98 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 1° Volume, 2° semestre 2002, p. 54. 99 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 2° semestre 2006, p. 82. 100 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 1° Volume, 2° semestre 2002, p. 51. 96 53 e l’etnia Yoruba della falsificazione di carte di credito101. I gruppi criminali nigeriani gestiscono tutte le fasi della tratta a scopo di sfruttamento sessuale, dal paese di origine a quello di destinazione, attraverso un’organizzazione capillare basata su legami familiari estesi o sulla rete del clan di appartenenza. Tale organizzazione opera a livello nazionale ed internazionale attraverso l’appoggio di una consolidata rete di complicità e l’utilizzo di procedure operative che sono una combinazione di capacità manageriali moderne, valori culturali tradizionali e credenze religiose. Nel nostro Paese, le organizzazioni criminali nigeriane sono attive specialmente nel Triveneto, Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio e Campania. Per poter operare in alcuni territori, hanno dovuto stabilire degli accordi con la mafia locale. Nelle aree napoletana e casertana, ad esempio, devono pagare l’“affitto” alla Camorra per l’utilizzo del territorio per far prostituire le donne nigeriane102. Torino e Castelvolturno sono le basi logistiche principali, i luoghi decisionali ma anche di primo approdo e di “addestramento” delle donne nigeriane trafficate in Italia103. Nel corso degli anni, la struttura organizzativa della criminalità nigeriana si è maggiormente articolata coinvolgendo più figure criminali ed espandendo la rete di contatti in altri paesi europei e d’oltreoceano104. I gruppi nigeriani generalmente adottano una strategia di basso profilo nella gestione delle proprie attività criminali utilizzando tecniche meno visibili al fine di ottenere il massimo profitto a rischi bassissimi. Ad esempio, gestiscono il traffico di droga facendo trasportare a più persone (e sempre più ad “ovulatori”105) quantità di droga limitate ed utilizzando rotte diverse per evitare di perdere somme ingenti di profitto nel caso di intercettazione da parte delle forze dell’ordine106. La stessa tecnica viene adottata per la tratta di donne a scopo di sfruttamento sessuale, le quali vengono trafficate singolarmente o a piccoli gruppi. L’impiego di questo approccio prudente richiede quindi un uso molto limitato di violenza perpetrata ai danni delle vittime, la necessità di evitare conflitti inutili nel rapportarsi con altri gruppi criminali e l’uso di rituali 101 Idem, p. 76. United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, op. cit., p. 234. 103 A. Bernardotti, op. cit., p. 43. 104 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 1° semestre 2006, p. 32. 105 Si tratta di persone che ingeriscono ovuli contenenti sostanze stupefacenti per trasportarli in maniera tale da incorrere meno facilmente in controlli doganali. Le indagini investigative hanno anche evidenziato l’utilizzo di una nuova tecnica malavitosa per sfuggire ai controlli delle forze di polizia: la criminalità nigeriana assolda corrieri di droga di origine caucasica che vengono accompagnati da persone di altre etnie che dovrebbero fungere da elementi di “disturbo e di esca” all’atto del passaggio alla dogana e nei controlli antidroga, cfr. Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 2° Volume, 2° semestre 2003, p. 196. 106 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 2° semestre 2006, p. 90. 102 54 magico-religiosi per mantenere il controllo sulle donne trafficate e sfruttate. Queste sono nella stragrande maggioranza dei casi nigeriane, ma si registrano anche donne del Ghana, della Costa d’Avorio e del Camerun107. Fin dalla sua prima comparsa in Italia, la caratteristica peculiare di questo gruppo criminale è stata l’alta percentuale di donne coinvolte nel business della tratta in qualità di reclutatrici, sorveglianti, sfruttatrici e capi delle reti finalizzate allo sfruttamento della prostituzione di strada. Nel corso degli ultimi anni, il numero sempre più elevato di donne partecipanti attivamente alla rete di sfruttamento ha determinato un’ulteriore sofisticazione della struttura gerarchica criminale che ha conseguentemente un po’ modificato il tradizionale approccio prudente utilizzato nel rapporto con le persone sfruttate. Grazie ad una estesa rete di contatti presente su gran parte del territorio italiano, i criminali nigeriani si spostano con facilità da una città all’altra non appena temono di essere controllati o arrestati dalle forze dell’ordine. Le indagini condotte negli ultimi anni dagli organi competenti hanno messo in rilievo la grande capacità della criminalità nigeriana di riciclare il denaro sporco e di reinvestire i profitti illeciti, soprattutto nel traffico di droga (cocaina in particolare), nell’acquisto di immobili o di attività commerciali specialmente del settore terziario. In diverse città – soprattutto del Nord e nel Centro ma anche in altre città europee e in Nigeria –, per reinvestire i loro guadagni, i gruppi criminali nigeriani hanno infatti rilevato o aperto ex novo negozi di alimentari, saloni di bellezza, parrucchierie, call centre, night club, agenzie di money transfer. Infine, è da sottolineare che la presenza nigeriana non viene generalmente considerata in maniera negativa dalla comunità italiana ospitante in quanto non risulta essere invasiva e non si rende protagonista di episodi violenti108. I gruppi criminali dell’ex Unione Sovietica In Italia, i gruppi criminali originari dai paesi dell’ex Unione Sovietica sono coinvolti principalmente nel traffico di armi, nel riciclaggio di denaro sporco e in speculazioni finanziarie e, solo parzialmente, nella tratta di esseri umani. In quest’ultimo caso si tratta di persone o di organizzazioni criminali che operano soprattutto in patria e sono quindi responsabili della prima parte del percorso di tratta, ovvero della fase di reclutamento. Svolgono il ruolo di reclutatori o di organizzatori del viaggio attraverso la gestione di agenzie di impiego o di viaggi 107 Va tuttavia rilevato che la nazionalità dichiarata non sempre coincide con quelle effettiva per paura di ritorsioni da parte della rete di sfruttamento oppure per ottenere più facilmente asilo politico. 108 United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, op. cit., p. 258. 55 – spesso non in regola – che offrono lavori ben remunerati nei paesi dell’Europa occidentale o tour organizzati a buon prezzo. Le fasi del viaggio e di sfruttamento nei paesi di transito e di destinazione sono più spesso gestiti da gruppi criminali di altra nazionalità con cui sono stati siglati accordi di cooperazione. Questo è soprattutto il caso delle donne ucraine, moldove e russe che, arrivate in Italia, vengono sfruttate specialmente da organizzazioni o da singoli albanesi (in particolar modo negli anni passati) o da rumeni. Nel corso degli anni, le indagini hanno permesso di individuare l’esistenza – su tutto il territorio italiano – di organizzazioni criminali ucraine dedite all’attività di caporalato finalizzato al grave sfruttamento di manodopera immigrata irregolare109. In Italia, la mafia russa gestisce diverse attività di natura lecita ed illecita, anche attraverso accordi con singoli e/o gruppi italiani in qualità di partner commerciali di business apparentemente legali ma che, in realtà, nascondono interessi finanziari e commerciali spesso illegali. Stando alle investigazioni condotte fino ad oggi, la mafia russa, in collaborazione con gruppi criminali ucraini, risulta essersi ben insediata nel tessuto sociale ed economico di alcune regioni italiani, quali le Marche, la Sardegna, la Liguria, l’Emilia-Romagna, la Lombardia e il Piemonte. I gruppi criminali delle repubbliche dell’ex Unione Sovietica si sono dati una struttura organizzativa simile a quella di una holding ed operano utilizzando una grande disponibilità di capitali, una forte mobilità e una profonda conoscenza dei mercati finanziari110. Inoltre, vista la sua posizione geografica strategica, l’Italia viene utilizzata come base logistica per trafficare le armi sia verso i paesi africani ed asiatici dove vi sono conflitti in corso ma anche per venderle ai gruppi criminali italiani e stranieri che operano nel nostro Paese. Essendo la criminalità organizzata dell’ex Unione Sovietica coinvolta in attività illecite non apertamente visibili e non essendo associata alle organizzazioni mafiose italiane, essa non desta particolare allarme sociale111. I gruppi criminali dell’Europa dell’Est I gruppi criminali est-europei sono dediti alla tratta di in particolare in patria dove gestiscono le prime fasi del processo di tratta: il reclutamento, l’organizzazione del viaggio e, in alcuni casi, il trasporto fino ai paesi di desti109 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 2° Volume, 2° semestre 2003, p. 191. 110 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 1° semestre 2002, p. 68. 111 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 1°Volume, 2° semestre 2002, p. 64. 56 nazione. Le donne vengono reclutate nei bar, in discoteca, attraverso il passaparola o mediante annunci sui giornali che offrono vantaggiose opportunità di lavoro in Italia in ristoranti, fabbriche, negozi, night club e famiglie. I singoli e/o i gruppi criminali dei paesi appartenenti all’ex blocco sovietico svolgono anche l’importante ruolo di autisti, passeur o ospiti per organizzazioni criminali di altri paesi che hanno bisogno del know-how criminale locale per poter svolgere al meglio le proprie attività di traffico e di tratta in regioni che non conoscono. Nel corso degli anni presi in esame dalla presente ricerca (2000-2006), le organizzazioni criminali rumene hanno assunto un ruolo sempre più significativo nel panorama della tratta in Italia. Esse, infatti, non gestiscono più solamente la parte iniziale del percorso di tratta, ma hanno assunto la gestione dell’intero business dal reclutamento in Romania (ma anche dall’Ucraina e dalla Moldova) allo sfruttamento delle vittime nel nostro Paese sia nella prostituzione che in alcuni settori produttivi, tra cui il lavoro domestico (badantato), l’edilizia e l’agricoltura112. I gruppi rumeni sono dediti anche ad altre attività illecite, quali le rapine in ville, il trasporto di sostanze stupefacenti, la clonazione di carte di credito113, la falsificazione di carte d’identità e di patenti, furti di rame. Generalmente, le organizzazioni criminali rumene sono di piccole dimensioni e basate su legami parentali, che operano spesso in collaborazione con gruppi albanesi. I gruppi criminali cinesi I gruppi criminali cinesi sono presenti soprattutto nelle regioni settentrionali e centrali italiane ma la loro presenza si sta sempre più rafforzando anche in alcune aree del Sud, in particolare in città come Napoli e Bari e nelle loro periferie. Il coinvolgimento nel business del traffico di immigrati della stessa nazionalità e della tratta di persone da sfruttare come manodopera a basso costo o come prostitute fino alla loro riduzione in situazioni paraschiavistiche114 è sempre più significativo. In alcuni casi, vengono compiuti anche sequestri di persona per costringere le famiglie a pagare somme di denaro inizialmente non pattuite per il viaggio in Italia o non ancora versate per il viaggio effettuato115. L’organizzazione criminale cinese è strutturata gerarchicamente e presenta caratteristiche tipiche dei gruppi mafiosi. L’uso di violenza e minacce e il 112 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 1° semestre 2006, Roma, p. 34. 113 Idem. 114 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 2° semestre 2006, Roma, p. 87. 115 Idem. 57 diffuso clima di omertà rendono ancora più difficili le attività investigative su una comunità chiusa, fortemente rispettosa dei propri usi e costumi e difficile da avvicinare anche a causa delle innumerevoli differenze linguistiche che la caratterizzano116. I criminali e le vittime provengono dalla stessa regione cinese (Zhejiang e Fujuan) e arrivano in Italia soprattutto attraverso i confini italosloveni con l’aiuto di passeur locali e, fino a qualche anno fa, anche mediante il Canale di Otranto con l’ausilio di trafficanti albanesi117. Tali modi operandi hanno favorito la costruzione e il rafforzamento di legami con altri gruppi criminali albanesi, sloveni, croati, serbi e montenegrini. La criminalità cinese è coinvolta in attività legali (commercio al dettaglio o all’ingrosso, acquisito di immobili) attraverso l’ausilio di prestanome ed è dedita ad una serie diversificata di attività illegali. Queste sono praticate nel gioco d’azzardo, nelle estorsioni a danno dei propri connazionali che gestiscono ristoranti; nei negozi e nei laboratori tessili; nella contraffazione dei marchi e nella commercializzazione di prodotti alimentari; nelle apparecchiature paramediche ed elettroniche non conformi alla normativa comunitaria; nel traffico di droghe sintetiche e nello sfruttamento della prostituzione di connazionali cinesi che, come si è visto, diversamente dal passato, cominciano a fornire prestazioni sessuali anche a clienti non appartenenti alla propria comunità nazionale in strada, in supposti beauty center o centri di medicina cinese118. Proprio questa apertura verso l’esterno, verso la comunità italiana, e gli accordi di collaborazione con gruppi criminali italiani autoctoni hanno reso la criminalità organizzata cinese meno impenetrabile rispetto al passato e, quindi, più attaccabile dalle attività di indagine e di contrasto realizzate dalle forze di polizia. Altri gruppi criminali allogeni e italiani Esistono altri gruppi criminali allogeni sul territorio italiano che operano autonomamente ma più spesso in collegamento con reti criminali locali o straniere che si occupano di tratta e di altre attività illegali. Ad esempio, vi è la criminalità maghrebina che è specializzata nel traffico e nello smercio di sostanze stupefacenti, di auto rubate e di traffico di clandestini mentre residuale risulta essere il loro coinvolgimento in casi di tratta di persone. I gruppi criminali sudamericani sono storicamente coinvolti nel traffico di 116 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 2° Volume, 2° semestre 2003, Roma, p. 194. 117 E. Ciconte, P. Romani, op. cit., p. 65. 118 Direzione Investigativa Antimafia, Attività svolta e risultati conseguiti, 2° semestre 2001, Roma, p. 60. 58 sostanze stupefacenti e in particolare quali fornitori principali di cocaina del nostro Paese. La loro partecipazione al business della tratta di appare essere residuale in quanto i casi finora scoperti hanno messo in rilievo l’esistenza di reti criminali dedite più allo sfruttamento della prostituzione di persone provenienti dall’America Centrale e Meridionale che alla tratta. Ciononostante, sono stati individuati anche casi di tratta che hanno coinvolto soprattutto cittadini e cittadine di origine brasiliana, ecuadoregna e dominicana. Dalle indagini effettuate dalle forze dell’ordine e dalla magistratura italiane, il ruolo delle reti criminali turche risulta essere significativo per i crimini di tratta di persone e di traffico di clandestini verso il nostro Paese e l’Europa occidentale. Tali gruppi criminali gestiscono soprattutto il trasporto irregolare di persone provenienti in particolare dai paesi del lontano Oriente che vengono portate vicino alle coste italiane dopo aver seguito rotte marittime che cambiano in base alle azioni di contrasto attivate dalle forze di polizia. Nel corso degli anni, le organizzazioni turche hanno anche consolidato la loro posizione nel settore del traffico di eroina e di cocaina pur rimanendo dislocati in patria, da dove preferiscono gestire le proprie attività criminali. Non è un caso, infatti, che il numero di cittadini turchi arrestati e presenti nelle prigioni italiane sia piuttosto esiguo119. Infine, il coinvolgimento degli italiani nelle attività di tratta di persone nel nostro Paese è ampiamente provato dalla letteratura. Gli italiani generalmente svolgono ruoli di supporto ai gruppi criminali stranieri in qualità di tassisti, gestori locali, locatori, controllori, etc. Nelle regioni meridionali, poi, l’autorità giudiziaria ha scoperto l’esistenza di accordi specifici tra criminalità straniere e gruppi criminali autoctoni per lo sfruttamento della prostituzione o per l’utilizzo concordato di rotte marittime per effettuare traffici illeciti di sostanze stupefacenti e di armi. 1.10 Osservazioni conclusive Le principali evoluzioni registrate L’analisi della letteratura ha messo in luce una serie di elementi costitutivi dei fenomeni di sfruttamento correlabili alla tratta in Italia, ma, soprattutto, ha evidenziato ancora una volta come essi siano soggetti a costanti trasformazioni quale effetto dell’azione di contrasto delle forze dell’ordine e di protezione sociale da parte dei servizi territoriali. Tali azioni, di fatto, costringono le organizzazioni criminali a modificare le pratiche di sfruttamento per sfuggire 119 Idem. 59 proprio all’azione repressiva che lo Stato e la società italiana attivano a difesa delle persone trafficate. La maggior parte dei testi esaminati riguarda la tratta a scopo di sfruttamento sessuale nella prostituzione di strada, mentre sono ancora poche o pressoché inesistenti le ricerche sulla tratta finalizzata al lavoro forzato, all’accattonaggio, alle attività illegali, all’espianto di organi e tessuti e alle adozioni internazionali illegali. È certamente possibile affermare che la conoscenza sui principali elementi distintivi e le dinamiche che caratterizzano la tratta a scopo di sfruttamento sessuale in Italia è piuttosto approfondita. Tuttavia, è qui importante sottolineare che, da un lato, le descrizioni e le analisi del fenomeno si basano in genere su campioni circoscritti di persone trafficate, la cui rappresentatività a volte è difficile da determinare in quanto non è possibile verificare con precisione la consistenza numerica dell’universo generale di riferimento; dall’altro, i casi più gravi di tratta, che coinvolgono persone ridotte in schiavitù, sono più difficilmente identificabili e, quindi, sovente non vengono considerati nelle analisi effettuate in materia. La letteratura studiata ha permesso di ricostruire ed osservare le modifiche operate negli anni dei percorsi di tratta dal reclutamento al viaggio verso il nostro Paese, alle condizioni di sfruttamento e di vita subite, alle fasi di sganciamento dall’attività prostituzionale coatta e all’inserimento nei programmi di assistenza e di inclusione sociale. Tra i principali trend registrati negli ultimi anni, vi sono: - il progressivo aumento del numero di persone trafficate provenienti dalla Romania (che sono diventate il gruppo nazionale più numeroso in molte aree italiane); - la diminuzione delle presenze di alcuni gruppi nazionali che per primi sono stati trafficati in Italia (in particolare le donne albanesi); - il coinvolgimento di un numero sempre più elevato di paesi di origine delle persone trafficate, situati in aree geografiche sempre più lontane (Kazakistan, Kirghizistan, Cina, Repubblica Dominicana, etc.); - l’introduzione nel mercato italiano della prostituzione e della tratta di nuovi gruppi nazionali (es. cinesi, maghrebini), le cui donne sono tradizionalmente impiegate e/o sfruttate nell’ambito delle comunità di appartenenza; - l’abbassamento dell’età media delle persone trafficate; - il radicale cambio delle modalità di reclutamento, soprattutto per alcuni gruppi nazionali: dal rapimento e ingresso forzato all’inganno relativo circa le reali condizioni di lavoro e di vita nel paese di destinazione; - il coinvolgimento sempre più significativo di donne con funzioni di reclutatrici, controllore, sfruttatrici nelle proprie organizzazioni criminali di riferimento; 60 - - l’utilizzo di forme “negoziate” di sfruttamento da parte di trafficanti e sfruttatori per conquistare la fiducia e la lealtà della vittima, generalmente più informata rispetto al passato sulle reali finalità del viaggio verso il nostro Paese; la durata e la ciclicità dello sfruttamento, sempre più spesso negoziate con lo sfruttatore; l’utilizzo di documenti di soggiorno regolari (es. il visto turistico) per entrare in Italia per poi prostituirsi e cadere vittima nelle reti di sfruttamento; la maggiore mobilità territoriale; l’aumento del numero di persone trafficate sfruttate contestualmente in luoghi al chiuso (appartamenti, locali notturni, centri benessere, etc.) e in strada; il minore coinvolgimento di alcuni gruppi criminali nazionali (es. quelli albanesi), la relativa strutturazione di altre reti criminali dedite alla tratta (es. quelle rumene) e la maggiore articolazione degli organigrammi di alcune reti criminali nazionali (es. i gruppi nigeriani); il progressivo e (sempre) maggiore coinvolgimento di singoli o di bande criminali italiane in fasi distinte del percorso di tratta e/o di sfruttamento; il continuo modificarsi delle rotte della tratta e l’allungamento dei tempi di viaggio (es. dalla Nigeria all’Italia), quale pronta contro-risposta alle strategie di contrasto messe in atto dalle autorità competenti; il diversificarsi degli interessi dei gruppi criminali in varie settori legali ed illegali e il parziale coinvolgimento delle persone trafficate nella commissione di reati illeciti (es. trasporto di sostanze stupefacenti); l’ampliarsi degli ambiti (lavoro forzato, accattonaggio conto terzi, economie illegali) e delle modalità di sfruttamento, su cui però le conoscenze sono ancora molto scarse. I dati sulla tratta: quegli sconosciuti Come si è visto, i dati ufficiali sul numero complessivo di persone trafficate in Italia non sono adeguatamente attendibili. Infatti, le fonti attualmente disponibili registrano solo dati parziali relativi alle persone che entrano in contatto con le forze dell’ordine o con le organizzazioni e gli enti che gestiscono programmi di assistenza e di integrazione sociale, così come previsto dall’art. 18 del d.lgs. 286/98. È evidente che gli attuali sistemi di raccolta, di elaborazione e di analisi dei dati disponibili pongono seri limiti alla ricerca in materia di tratta. Alcuni ricercatori hanno elaborato stime sul fenomeno utilizzando criteri e procedure di stima diverse che hanno prodotto risultati discordanti e incomparabili in quanto riguardano periodi temporali dissimili e utilizzano fonti differenti. Appare chiaro che la difficoltà ad avere dati certi e metodiche di stima affidabili 61 è strettamente correlata ad una serie di fattori, tra cui: - la generale invisibilità e la complessità dei fenomeni oggetto di studio; - la paura delle persone trafficate a sganciarsi dal circuito di sfruttamento; - la difficoltà delle persone trafficate a riconoscersi come vittime di un grave reato; - la mancanza di linee guida comuni e strutturalmente condivise da tutti gli attori interessati sull’identificazione e il trattamento delle (possibili) vittime di tratta; - l’insufficiente attenzione rivolta ai fenomeni di tratta e alle sue vittime da parte dei settori produttivi e delle agenzie di tutela ad essi correlati; - la mancanza di un dispositivo centralizzato di raccolta dati ed informazioni riguardanti il fenomeno nelle sue varie espressioni (prostituzione forzata sulla strada, al chiuso, lavoro forzato, accattonaggio, economie illegali, organi, adozioni internazionali) e le persone a vario titolo coinvolte (vittime di tratta, trafficanti, sfruttatori, intermediatori, etc.); - le scarse risorse economiche allocate alla ricerca in questo settore; - la pressoché scarsa disponibilità di studi ad hoc sull’analisi e la valutazione degli attuali sistemi di raccolta dati e di sviluppo di stime120 effettuati da gruppi di ricerca multidisciplinari ed intersettoriali finalizzati all’elaborazione di nuove metodiche più affidabili basate sulla cosiddetta “multimethod perspective”121. Considerati questi ostacoli alla raccolta sistematica di dati, la letteratura italiana sulla tratta, così come la letteratura di altri paesi, si basa soprattutto su interviste realizzate ai cosiddetti testimoni privilegiati, ovvero a persone trafficate e a professionisti che per ragioni di lavoro vengono a contatto con le vittime e/o con gli autori di reato. Essi rappresentano fonti fondamentali di conoscenze approfondite ed articolate sulle varie questioni che caratterizzano la 120 A livello europeo, sono stati effettuati alcuni studi per esaminare le fonti di informazioni e i sistemi attualmente esistenti per monitorare la tratta di esseri umani (generalmente a scopo di sfruttamento sessuale) e per proporre degli strumenti standardizzati di monitoraggio da condividere tra tutti gli Stati membri. Ci si riferisce a: P. Machado, R. Penedo, F. Pesce, “From data collection to monitoring systems: Analysis and proposals”, in AA.VV., Headway…, cit.; G. Vermeulen, A. Balcaen, A. Di Nicola, A. Cauduro, The Siamsect files. Standardised templates and blueprint for EU-wide collection of statistical information and analysis on missing and sexually exploited children and trafficking in human beings, Ircp, Maklu Publishers, Anversa/Apeldoorrn, 2006; A. Di Nicola (a cura di), Mon-Eu-Traf II. A Study for Monitoring the International Trafficking of Human Beings for the Purpose of Sexual Exploitation in the EU Member States, Transcrime Report n. 9, Trento, 2004. 121 G. Tyldum, M. Tveit, A. Brunovskis, Taking stock. A review of the existing research on trafficking for sexual exploitation, Fafo, Oslo, 2005, p. 26. 62 tratta. Tuttavia, l’utilizzo delle interviste, quale strumento principale di raccolta dati, può comportare dei rischi rispetto alla rappresentatività e alla verifica metodologica delle informazioni fornite, in quanto esse sono spesso considerate rilevanti più quale conseguenza dell’autorevolezza riconosciuta alla persona intervistata o all’agenzia a cui appartiene che agli strumenti e ai metodi utilizzati per raccoglierle122. Tra l’altro, non tutte le agenzie che a vario titolo entrano in contatto con persone trafficate dispongono di un sistema di registrazione dati adeguato o di personale formato specificatamente per elaborare le informazioni raccolte. Altre possibili distorsioni possono essere causate dal fatto che, a volte, le persone che operano nello stesso ambito professionale possono influenzarsi a vicenda o possono essere influenzate dalle stesse fonti di informazione a cui accedono (ricerche già effettuate, media, opinione pubblica)123. Al fine di poter raccogliere dati affidabili e comparabili è quindi necessario superare le difficoltà sopra evidenziate e sviluppare nuovi metodi e strumenti di ricerca in grado di analizzare il fenomeno nelle sue varie articolazioni, che tengano conto dei limiti e delle possibilità delle attuali metodiche usate e che siano il risultato di un confronto approfondito tra studiosi/e di discipline diverse. Ma è altrettanto necessario prestare maggiore attenzione ai temi dell’identificazione delle persone trafficate, ad oggi non ancora sufficientemente considerati da parte delle agenzie preposte all’individuazione e alla tutela delle vittime di tratta e di reati ad essa collegati. Erogare, in maniera sistematica, moduli formativi sull’identificazione e la prima assistenza è una questione di fondamentale importanza per garantire il rispetto dei diritti umani delle persone offese, ma anche per raccogliere informazioni utili a comprendere meglio il fenomeno e a sviluppare politiche più mirate124. Uno degli effetti positivi secondari di avere operatori di polizia e sociali capaci di riconoscere delle vittime di tratta è la possibilità di raccogliere e, successivamente, sistematizzare i dati relativi al fenomeno. Tale approccio dovrebbe essere utilizzato anche a livello comunitario ed internazionale. Infatti, finché non si adottano sistemi legislativi e metodologie di raccolta dati comuni sarà pressoché impossibile operare un’analisi comparativa tra paesi diversi. L’uso di standard comuni 122 Idem, p. 22. Idem. 124 A tal proposito, cfr. M. Dottridge, Measuring Responses to Trafficking in Human Beings in the European Union: an Assessment Manual, Commissione europea, Bruxelles, 2007. Tale manuale, supervisionato dal Gruppo degli esperti sulla tratta degli esseri umani della Commissione europea, contiene un sistema di indicatori basati sulle raccomandazioni elaborate dallo stesso Gruppo (Tratta degli esseri umani. Rapporto del Gruppo di esperti nominato dalla Commissione europea, Il Centro Stampa, Roma, 2006). È una guida pratica finalizzata a monitorare le politiche e le strategie implementate dagli Stati membri per garantire l’assistenza alle vittime e contrastare il fenomeno. 123 63 faciliterebbe inoltre l’elaborazione e l’utilizzo di procedure di monitoraggio e di valutazione condivise che consentirebbero un’adeguata comparabilità dei dati disponibili125. Possibili futuri temi di approfondimento sulla tratta Appare evidente che in Italia è necessario investire fondi e risorse umane per indagare anche gli altri ambiti di sfruttamento delle persone trafficate, superando così il binomio “tratta-sfruttamento sessuale/prostituzione forzata”, che ha finora caratterizzato quasi esclusivamente il settore di ricerca dedito all’analisi di questo specifico fenomeno. Alla luce dei risultati emersi con la rassegna della letteratura selezionata, si ritiene di prioritaria importanza effettuare studi approfonditi sulle forme di tratta finora poco indagate (tratta a scopo di lavoro forzato, accattonaggio, economie illegali) o per nulla considerate (tratta a scopo di traffico di organi e tessuti, adozioni internazionali illegali). Sarebbe inoltre particolarmente interessante prendere in esame o approfondire, tra gli altri, i seguenti temi riguardanti la tratta di persone: - l’impatto sul medio e sul lungo periodo della tratta sulle comunità locali di origine e di insediamento; - le condizioni di vita e di lavoro delle persone trafficate che, concluso il programma di protezione sociale, si sono inserite nella società italiana; - le condizioni di vita e di lavoro delle persone trafficate una volta rientrate nel proprio paese di origine, attraverso il programma di rimpatrio volontario assistito o autonomamente; - la tratta interna; - il cosiddetto fenomeno del re-trafficking; - la tratta di minori; - le correlazioni multidimensionali con altri fenomeni di disagio sociale126; - le conseguenze derivanti dal passaggio di status giuridico di alcuni gruppi nazionali trafficati in Italia: da extracomunitari a comunitari; 125 Commissione europea, op. cit., pp. 177-178. Un esempio significativo dell’importanza di analizzare un fenomeno sociale nella sua complessità, adottando un approccio olistico per esplorare anche le sue eventuali relazioni con altre aree di disagio, e quindi delineare politiche e servizi che rispondano in maniera adeguata ai bisogni delle persone coinvolte è una ricerca effettuata sulle interrelazioni esistenti tra prostituzione e uso di sostanze psicotrope: AA.VV., Prostituzione… stupefacenti! Un percorso di ricerca nelle multiple identità, tra prostituzione e dipendenze, On the Road Edizioni, Martinsicuro, 2003. Sullo stesso tema, cfr. inoltre L. Spizzichino, La prostituzione. Il fenomeno e l’intervento psicologico, Carocci Faber, Roma, 2005, pp. 107-110. 126 64 - le organizzazioni criminali straniere ed italiane coinvolte nella tratta e gli attori collaterali; la corruzione di pubblici ufficiali; l’ab/uso della richiesta di permessi di soggiorni per motivi umanitari e di asilo politico quali strumenti di regolarizzazione; i centri di permanenza temporanea (Cpt)127 e le carceri quali possibili luoghi di detenzione di persone trafficate; il ruolo di internet e delle agenzie matrimoniali e di collocamento; l’impatto della tratta sull’economia locale, nazionale e globale e viceversa; le correlazioni tra la domanda di manodopera, le politiche migratorie e la tratta; l’impatto e l’efficacia degli interventi anti-tratta sulle persone assistite e sul fenomeno; i media e la costruzione del discorso pubblico sulla tratta. Di precipuo interesse si ritiene lo studio approfondito sui fattori di attrazione legati alla domanda di forza lavoro, quali cause originarie della tratta, che spingono incessantemente lavoratori e lavoratrici straniere a raggiungere altri paesi, attraverso canali regolari ed irregolari. Le ricerche effettuate fino ad oggi indicano che l’assenza di regole di alcuni settori del mercato del lavoro, l’abbondante disponibilità di forza lavoro assoggettabile allo sfruttamento, accompagnati dal potere e dalla poca chiarezza di norme sociali capaci di regolare il comportamento dei datori di lavoro e, nel caso della prostituzione, dei clienti, si pongono come fattori chiave nel determinare la domanda che alimenta la tratta128. Diventa quindi necessario, da un lato, approfondire le questioni e le correlazioni esistenti tra tratta e migrazioni, dall’altro, che i governi nazionali e gli organismi comunitari e internazionali elaborino e implementino politiche migratorie basate su programmi accessibili di migrazione legale e sicura; standard di lavoro rigorosi; programmi di “managed migration” al fine di prevenire lo sfruttamento e la tratta sia nei settori formali che in quelli informali del mercato del lavoro. Tali politiche e le relative misure, oltre ad essere concertate con i paesi di origine, dovrebbero anche garantire i diritti e le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati. Le politiche migratorie restrittive influiscono negativamente sul mercato del lavoro e sulle condizioni di vita e 127 Su tale tema, è attualmente in corso la prima ricerca-azione finalizzata a valutare il ruolo dello Stato e delle agenzie sociali all’interno del Cpt di Bologna rispetto alla protezione dei diritti umani delle donne migranti che si prostituiscono e delle vittime di tratta, cfr. L. Maluccelli, “Le vittime di tratta nei Centri di permanenza temporanea” (titolo provvisorio), in F. Carchedi, C. Currò, M.G. Giammarinaro (a cura di), Tratta di donne, lavoro forzato, sfruttamento minorile, Ediesse, Roma (in corso di pubblicazione). 128 Commissione europea, op. cit., pp. 119; F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), op. cit. 65 di impiego delle persone straniere che contribuiscono alla crescita economica dei paesi di destinazione ma che, per migliorare la propria situazione personale e quella delle loro famiglie, si affidano alle reti criminali che gestiscono il traffico di migranti e/o la tratta di persone. Infine, particolare attenzione dovrebbe essere dedicata alle correlazioni esistenti tra la cosiddetta femminilizzazione della povertà nei paesi di origine e la domanda di manodopera femminile nei paesi di destinazione, caratterizzati da mercati del lavoro che, da un lato, offrono troppo spesso alle donne solo cosiddetti “3 D jobs”, ovvero impieghi “sporchi, pericolosi e degradanti” (dirty, dangerous, degrading)129 e, dall’altro, perpetuano una divisione del lavoro basata su una concezione tradizionale e patriarcale dei ruoli di genere. I ricercatori e le ricercatrici Per analizzare un fenomeno così complesso e in continua trasformazione, è necessario costituire gruppi di ricerca multidisciplinari e multisettoriali. Sebbene molte delle ricerche analizzate siano state condotte da studiosi/e con formazioni diverse, gli approcci di tipo giuridico e sociologico continuano ancora ad essere quelli maggiormente impiegati. Sarebbe particolarmente utile, quindi, coinvolgere ricercatori e ricercatrici esperti/e in altre aree tematiche, quali ad esempio: l’antropologia, l’etnografia, gli studi di genere, gli studi culturali, gli studi economici, i diritti umani, la medicina sociale130. 129 A. Lisborg, Bodies across borders. Prostitution related migration from Thailand to Denmark, Roskilde University, 1998. 130 A proposito della relazione esistente tra l’esperienza di tratta e la salute delle donne trafficate, cfr. C. Zimmerman et al., Stolen smiles: a summary report on the physical and psychological health consequences of women and adolescents trafficked into Europe, London School of Hygiene & Tropical Medicine, Londra, 2006. Si tratta dell’unico studio quantiqualitativo finora condotto sulle condizioni di salute fisiche e psicologiche di 207 vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale o di lavoro domestico forzato prese in carico da organizzazioni non governative o internazionali in sette paesi europei (Belgio, Bulgaria, Gran Bretagna, Italia, Moldova, Repubblica Ceca, Ucraina). Le donne sono state intervistate tre volte in tre fasi distinte del loro percorso di fuoriuscita dal percorso di tratta: 1) nella primissima fase di presa in carico immediatamente successiva allo sganciamento dal circuito di sfruttamento forzato (0-14 giorni: “Crisis Intervention Stage”); durante il primo periodo di assistenza in cui la persona comincia ad adattarsi alla nuova situazione (28-56 giorni: “Adjustment Stage”); e, infine, dopo che il programma individuale di inclusione sociale è già stato attivato da almeno tre mesi e/o la persona assistita è entrata nella fase di autonomia (+90 giorni: “Long-term Symptom Management”). Attraverso la raccolta e l’analisi di dati quantitativi e qualitativi, C. Zimmerman et al. hanno permesso di identificare, da un lato, i bisogni sanitari di donne trafficate (minori e adulte) in momenti diversi della loro presa in carico e, dall’altro, di elaborare una serie di raccomandazioni specifiche per migliorare le politiche e i servizi rivolte 66 Tale composizione garantirebbe l’utilizzo di strumenti e di metodologie diverse e, quindi, permetterebbe di analizzare ed approfondire i fenomeni di tratta da angolazioni differenti ma complementari. Ciò contribuirebbe a problematizzare le letture del fenomeno; a superare la tendenza a produrre studi descrittivi e a decostruire gli approcci culturali ed ideologici alla tratta degli attori coinvolti a vario titolo (vittime, trafficanti, sfruttatori, operatori e operatrici sociali, di polizia, giudiziari, sanitari, famiglie di origine, opinione pubblica dei paesi di origine e di destinazione, etc.). Anche in questa prospettiva, dunque, pare opportuno implementare ulteriormente le collaborazioni, da un lato, tra il mondo dell’accademia italiana e chi opera sul campo e, dall’altro, tra i gruppi di ricerca italiani e quelli dei paesi di origine e di transito delle persone trafficate. La costituzione di gruppi misti di studio contribuirebbe anche a condividere un linguaggio comune fondamentale per effettuare comparazioni trasnazionali basate su metodologie condivise. Attraverso l’analisi degli studi sulla tratta in Italia, si è inoltre notata l’esistenza di alcuni gruppi di ricerca consolidati che, nel corso degli anni, si sono specializzati nelle tematiche riguardanti la tratta di persone, in particolare a scopo di sfruttamento sessuale. A testimonianza di ciò è il rilevante numero di ricerche curate dagli stessi studiosi pubblicate nell’arco temporale considerato dalla presente indagine. È tuttavia probabile che esistano altri studi sui temi della tratta, prodotti all’interno – ad esempio – delle università italiane, che non sono noti a tutti coloro che si occupano della materia in quanto non vengono pubblicati o fatti adeguatamente circolare. Uso della lingua e costruzione del discorso pubblico Adottare una definizione comune di un fenomeno sociale significa condividere e prendere in esame gli stessi elementi distintivi che lo caratterizzano per analizzarlo e, quindi, essere anche in grado di effettuare analisi comparative. In Italia, c’è sicuramente stato uno sforzo di definizione del concetto di tratta e un approfondimento di come si articola nella sua concretezza fattuale. Nel periodo temporale considerato dal presente studio, si è riscontrata nella letteratura una progressiva aderenza alla definizione internazionale di tratta così come essa è formulata nel Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, sopprimere e agli Stati, agli enti pubblici e privati che finanziano i progetti contro la tratta, ai servizi sanitari e alle organizzazioni che offrono misure di assistenza alle persone trafficate. 67 punire la tratta di persone, specialmente di donne e minori131 (2000) e, successivamente, incorporata nella legge italiana n. 228 del 2003 “Misure contro la tratta di persone”132. L’analisi della letteratura ha però messo anche in luce che le definizioni contenute nelle norme non permettono di ricomprendere tutti i casi di tratta così come essi si manifestano nella pratica quotidiana e come si evolvono in risposta ai cambiamenti organizzativo-strutturali delle organizzazioni criminali che gestiscono le reti di tratta e di sfruttamento. Gli studi esaminati hanno però messo in evidenza che nonostante il chiaro miglioramento registrato a livello di opinione pubblica, anche tra alcuni “addetti del settore” vige ancora una certa confusione e/o disomogeneità nell’utilizzo dei termini “tratta di esseri umani” e “traffico di migranti”. La confusione è sia di tipo concettuale che terminologico. Ciò va a scapito dell’analisi dei fenomeni oggetto di studio o di dibattito, ma soprattutto va a detrimento delle persone trafficate e della loro possibilità di essere adeguatamente assistite. In alcuni casi, nei testi esaminati, termini come “tratta” e “traffico” sono usati come sinonimi e categorie come “lavoro forzato”, “schiavitù”, “servitù”, “pratiche paraschiavistiche”, “immigrazione irregolare”, “sfruttamento lavorativo” non vengono usati in maniera appropriata ed omogenea, nonostante essi siano definiti sia da dispositivi normativi nazionali che internazionali. Anche questo 131 In base all’articolo 3 del Protocollo: (a) “La tratta di persone” indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, dando oppure ricevendo somme di denaro o benefici al fine di ottenere il consenso di un soggetto che ha il controllo su un’altra persona, per fini di sfruttamento. Per sfruttamento si intende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro o servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, l’asservimento o l’espianto di organi; (b) Il consenso di una vittima di tratta di esseri umani allo sfruttamento di cui alla lettera (a) è irrilevante laddove sia stato utilizzato uno qualsiasi dei mezzi di cui alla lettera (a); (c) il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere un minore a scopo di sfruttamento sono considerati “tratta di esseri umani” anche se non comportano l’utilizzo di nessuno dei mezzi di cui alla lettera (a) del presente articolo; (d) Per “minore” si intende ogni persona avente meno di diciotto anni di età. 132 Secondo la normativa italiana, “Chiunque commette tratta di persona che si trova nelle condizioni di cui all’articolo 600 ovvero, al fine di commettere i delitti di cui al primo comma del medesimo articolo, la induce mediante inganno o la costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno, è punito con la reclusione da otto a venti anni. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i delitti di cui al presente articolo sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi”. 68 contribuisce ad alimentare la confusione di cui si parlava pocanzi133. Secondo alcuni studiosi, poi, molti di questi termini si riferiscono a concetti coniati in periodi storici lontani e, per questa ragione, risulta difficile adoperarli nell’attuale contesto contemporaneo134. L’uso (non) intenzionale di alcuni termini contribuisce alla concettualizzazione di narrative molto diverse del fenomeno di tratta. Ciò è particolarmente evidente negli studi sulla tratta a scopo di sfruttamento sessuale nella prostituzione. L’ab/uso di tali termini continua a persistere e ad essere alimentato soprattutto dai media che grande parte hanno nella costruzione del discorso pubblico. Sebbene nel corso degli ultimi anni sia stata posta una maggiore attenzione a tale questione, in alcuni casi si tende ad usare “prostituzione” e “tratta di persone” quasi come se fossero dei sinonimi. Anche la scelta di utilizzare vocaboli come “vittima di tratta”, “persona trafficata”, “ragazze trafficate”135 contribuisce ad elaborare costruzioni sociali ben distinte. La cosiddetta “retorica della vittimizzazione”, a volte impiegata anche involontariamente, favorisce la costruzione sociale dell’immagine delle persone trafficate come vittime passive a cui non si riconosce il ruolo di agenti attive responsabili delle proprie scelte di vita. Particolare attenzione, poi, dovrebbe essere posta alla lettura dei ruoli attribuiti alle donne e agli uomini coinvolti, a vario titolo, nella tratta di persone; giacché, in alcuni casi, forniscono una rappresentazione fortemente basata su una netta e tradizionale divisione dei generi (tutte le donne trafficate sono donne passive, tutti i trafficanti e sfruttatori sono uomini/stranieri/violenti) ri/producendo così narrative stereotipate della mascolinità e della femminilità.Tale situazione riflette posizioni ideologiche differenti rispetto al tema della 133 A partire da questa considerazione, il gruppo di ricerca di Osservatorio Tratta, che ha realizzato gli studi contenuti in questo volume, ha elaborato un glossario (cfr. infra) contenente tali termini per condividere fin dall’inizio del lavoro di indagine le categorie concettuali e i riferimenti normativi che si riferiscono ai fenomeni analizzati. 134 Secondo M. Ambrosini, infatti, “Sono concetti mutuati dal passato, coniati in altre epoche storiche e riferiti ad esperienze diverse. Dal loro spessore storico traggono forza simbolica, risonanze emotive, capacità di suggestione; ma anche rischi di indeterminatezza analitica e fragilità giudiziaria”, in M. Ambrosini (a cura di), op. cit. 135 Particolarmente esemplificativo di tale approccio è l’ab/uso del termine “ragazza” per riferirsi a donne prostitute trafficate. Secondo il dizionario Zingarelli, “ragazza” significa: “1. Adolescente, giovinetta; 2. giovane donna; donna nubile, signorina; 3. innamorata, fidanzata”. Particolarmente esemplificativo di tale approccio è l’ab/uso del termine “ragazza” per riferirsi a donne prostitute trafficate. L’utilizzo di tale termine implica l’esistenza di un orientamento paternalistico (non necessariamente consapevole) nei confronti di una donna che, indipendentemente dall’esperienza di sfruttamento subita, è comunque una persona adulta che opera delle scelte e che deve essere considerata e trattata in quanto tale. È infine interessante notare che lo stesso dizionario riporta i seguenti esempi per specificare alcuni significati eufemistici della definizione 2. di “ragazza”: “R. allegra”; “R. squillo”; “R. di vita”: N. Zingarelli, Lo Zingarelli 2003. Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, p. 1473. 69 prostituzione e delle questioni di genere portate avanti da gruppi sociali e religiosi di diversa ispirazione. Inoltre, tale confusione può influire negativamente sull’attività di ricerca in quanto approcci diversi e concettualizzazioni differenti dello stesso fenomeno possono produrre metodi difformi di raccolta, di elaborazione e di analisi dei dati che non contribuiscono a migliorare le conoscenze sulla tratta. L’ultima nota sulla lingua riguarda l’uso delle traduzioni in inglese delle ricerche italiane. Tale tendenza sarebbe auspicabile diventasse una buona pratica tra chi fa ricerca perché contribuirebbe largamente a far conoscere i tratti distintivi dei fenomeni di tratta così come essi si manifestano nel nostro Paese e a diffondere all’estero le politiche e le pratiche italiane di intervento a favore delle persone trafficate. Ciò permetterebbe soprattutto di approntare interventi e politiche mirate e coordinate con le organizzazioni e le istituzioni dei paesi di origine e di transito delle vittime trafficate in Italia. Va rilevato tuttavia che i costi di traduzione sono generalmente elevati e le risorse allocate per la ricerca piuttosto esigue. Nella letteratura esaminata tale limite è stato generalmente affrontato redigendo abstract, versioni ridotte o sintesi degli studi in inglese. In diversi casi, purtroppo, si è fatto ricorso a traduttori non professionisti o non esperti sui temi della tratta. Tale scelta ha portato, in alcuni casi, ad avere versioni inglesi di scarsa qualità che hanno inficiato una corretta comprensione dei risultati delle ricerche tradotte. Bibliografia selezionata 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. AA.VV., Articolo 18: Tutela delle vittime del traffico di esseri umani e lotta alla criminalità organizzata (l’Italia e gli scenari europei), On the Road Edizioni, Martinsicuro, 2003. AA.VV., Da vittime a cittadine. Percorsi di uscita dalla prostituzione e buone pratiche di inserimento sociale e lavorativo, Ediesse, Roma, 2001. AA.VV., Gender Street. 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Per cogliere tali cambiamenti sono state raccolte informazioni direttamente dai protagonisti che operano nel settore dell’assistenza e della tutela delle vittime (operatori/trici sociali), dalle vittime in carico ai servizi di protezione sociale, da rappresentanti delle forze dell’ordine e da studiosi che da anni si occupano del fenomeno della tratta. Questo ha permesso di identificare i diversi tipi di percorsi che le persone trafficate intraprendono e ha fatto emergere nuovi aspetti utili sul piano delle conoscenze e, quindi, della definizione di possibili interventi sociali. L’obiettivo principale della ricerca è stato, dunque, quello di approfondire la conoscenza del fenomeno così come esso si manifesta in ambiti di esercizio ancora poco conosciuti, soprattutto nel rapporto che si istaura tra le persone che si prostituiscono in strada e al chiuso, nonché tra quello che si istaura tra queste e le reti criminali di sfruttamento. Tali ambiti sono stati individuati rispetto a due variabili che evidenziano a nostro avviso l’evoluzione recente del mondo prostitutivo qui considerato, un sostanziale cambiamento fenomenologico: da una parte, lo spostamento dell’esercizio della prostituzione migrante verso ambiti di mercato caratterizzati da tecnologie e mascheramenti che garantiscono una maggiore invisibilità (prostituzione indoor, cioè esercitata all’interno di case/appartamenti, alternata con quella esercitata in strada/appartamento o all’interno di locali); dall’altra parte, un aumento della differenziazione dell’offerta sul mercato della prostituzione migrante rappresentata dall’emersione e dal coinvolgimento di nuovi gruppi nazionali come, ad esempio, quello delle donne cinesi. 74 Tali scenari e tendenze trasformative del fenomeno sono state acquisite facendo emergere il punto di vista di chi è (o è stato) direttamente o indirettamente coinvolto nei vissuti di tratta e sfruttamento sessuale: in primo luogo, le vittime e, poi, i cosiddetti testimoni privilegiati sopracitati. Si è ipotizzato, infatti, che proprio a partire dalle informazioni e dai punti di vista delle persone trafficate sull’esperienza vissuta nelle sue differenti fasi, non ultime quella della fuoriuscita dalla condizione di sfruttamento e quella del rapporto con le istituzioni italiane, fosse possibile delineare i cambiamenti e le criticità da tenere in considerazione per adeguare gli standard di intervento sociale nonché per contrastare le reti criminali che gestiscono la tratta e lo sfruttamento. Ciò nella consapevolezza che le trasformazioni che il fenomeno subisce – anche quale conseguenza delle pressioni esercitate dall’opinione pubblica sia del paese di origine che di quello di destinazione – lo rendono sempre più complesso e pertanto sempre più distante dagli stereotipi finora prodotti sugli attori che popolano il mondo della prostituzione. 2.2 Criteri metodologici I criteri metodologici utilizzati sono stati quelli dell’indagine di campo; si è fatto quindi ricorso – oltre che all’osservazione diretta nei servizi e all’esperienza degli operatori-ricercatori coinvolti – anche alla realizzazione di interviste con schede aperte per permettere un adeguato approfondimento delle tematiche esplorate1. Le interviste sono state realizzate su quasi tutto il territorio italiano2 e dunque riflettono non solo le tendenze fenomenologiche a livello nazionale, ma anche le specificità locali grazie alle esperienze – e ai punti di vista – raccolte tra quanti affrontano le problematiche inerenti la prostituzione e la tratta nelle diverse aree locali del Paese. Complessivamente le interviste realizzate sono state 69, di cui 44 rivolte a persone vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale (di cui 8 minorenni) e 25 a testimoni privilegiati (di cui 17 operatori ed operatrici sociali, 6 rappresentanti delle forze dell’ordine e 2 ricercatori del settore). Sono state inoltre utilizzate come documentazione informativa aggiuntiva 7 relazioni riguardanti altrettanti minorenni presi in carico dai progetti 1 Le interviste qualitative sono state realizzate, previa autorizzazione delle persone intervistate, con l’ausilio di un registratore. 2 Le interviste sono state effettuate a testimoni privilegiati/e che operano nelle seguenti regioni: Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, Trentino Alto-Adige, Friuli Venezia-Giulia, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Lazio, Campania e Puglia. 75 di assistenza ed integrazione sociale ai sensi dell’art. 18 del d.lgs 286/983. Nel caso di soggetti minorenni, spesso si è valutata l’opportunità che l’intervista fosse rilasciata dall’operatore sociale di riferimento e non dal minore in prima persona, per evitare ricordi inopportuni e potenzialmente traumatici. In sostanza, abbiamo acquisito informazioni dagli operatori che meglio conoscevano la storia del minore preso in carico e costruito su tali informazioni un protocollo di intervista. Tra i materiali utilizzati riportiamo in Appendice al presente capitolo un documento unico e fortemente significativo: la traduzione in italiano della trascrizione di una audiocassetta che una madam nigeriana ha spedito in Nigeria alla madre della donna da lei sfruttata che si è successivamente sottratta allo sfruttamento affidandosi ad un progetto art. 18. Si tratta di un documento di indubbia efficacia che permette di cogliere le modalità di persuasione e di velati ricatti – e al contempo di esplicite minacce – messe in campo dalle sfruttatrici nigeriane contro le loro vittime per costringerle a prostituirsi. Tutte le interviste sono state realizzate da operatori e da operatrici sociali che da anni lavorano attivamente nei diversi ambiti di intervento con persone vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale; operatori-rilevatori, dunque, che sono stati opportunamente addestrati all’uopo mediante incontri preparatori allo scopo di comprendere e condividere gli obiettivi della ricerca e le modalità di realizzazione delle interviste. Gli strumenti tecnici utilizzati sono stati: a) una traccia di intervista qualitativa diretta alle persone vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale; b) un questionario semi-strutturato rivolto agli operatori per ricostruire la storia delle persone vittime di tratta; c) una traccia di intervista qualitativa rivolta ai testimoni privilegiati. Le aree esplorate sono state le seguenti: 1) dati socio-anagrafici, 2) condizioni di vita nel paese di origine; 3) modalità di reclutamento e il viaggio verso l’Italia; 4) pratiche di assoggettamento e di sfruttamento; 5) modalità di sfruttamento in strada/casa e in casa/appartamento; 6) modalità di fuoriuscita dallo sfruttamento). Gli strumenti di indagine utilizzati hanno tenuto conto di alcune particolarità locali, allo scopo di cogliere anche quegli aspetti peculiari che il fenomeno assume nei singoli contesti territoriali. Essi sono stati costruiti per permettere una comparazione tra le informazioni raccolte attraverso le vittime di tratta e quelle rilevate mediante i testimoni privilegiati. Tale scelta ha permesso di mantenere una coerenza interna tra le diverse fonti informative e soprattutto di mantenere un filo conduttore comune tra i diversi punti di vista acquisiti. 3 Al fine di tutelarne la privacy, prima di mettere a disposizione del gruppo di ricerca le relazioni, sono stati eliminati i dettagli personali che avrebbero potuto far risalire all’identità delle minorenni. 76 L’approccio utilizzato per la raccolta di informazioni è stato quello basato sul “ciclo prostituzionale”4, ossia la concatenazione esistente tra la fase di reclutamento, di viaggio e di trasferimento, di passaggio della frontiera e l’assoggettamento para-schiavistico, nonché l’attivazione del processo di sganciamento dai circuiti di sfruttamento sessuale. 2.3 I principali aspetti alla base delle trasformazioni del fenomeno L’esercizio in strada e negli ambienti al chiuso Dagli inizi degli anni 2000 il fenomeno della tratta – che per molto tempo è stato fatto coincidere solo con il suo segmento a scopo di sfruttamento sessuale nella prostituzione di strada – ha iniziato a trasformarsi e pertanto a divenire più complesso e articolato. Infatti, tra gli operatori sociali e di polizia che si occupano di tratta è maturata – in particolare per i vissuti raccontati dalle persone trafficate – una sempre maggiore consapevolezza di essere di fronte ad una realtà caratterizzata da una continua diversificazione rispetto ai gruppi nazionali coinvolti nello sfruttamento e da una propensione a svilupparsi in altri ambiti di sfruttamento, quali il lavoro sommerso e schiavizzato, l’accattonaggio forzato per conto terzi, le economie illegali (in presenza di grave sfruttamento). Occorre inoltre rilevare che lo stesso mercato del sesso a pagamento – nella forma della prostituzione di strada (outdoor) – non rappresenta più l’unico ed esclusivo settore di sviluppo dei rapporti para-schiavistici, in quanto sempre più la prostituzione viene esercitata anche in ambienti chiusi (indoor), sia nei locali di intrattenimento che nelle case/appartamenti. Attualmente, la trasformazione più evidente del fenomeno della prostituzione è l’interconnessione esistente tra i mercati della prostituzione indoor e outdoor. In sostanza, se prima questi ambiti risultavano ben separati, oggi appaiono sempre più complementari, sinergici e in alcuni casi sussidiari tra loro. Entrambe le modalità di esercizio prostituzionale (outdoor e indoor) tendono ad essere parti di un unico sistema, in continua interazione tra loro. Interazione che si verifica soprattutto in relazione alla mobilità a cui sono soggette le persone coinvolte nelle pratiche prostituzionali in quanto esse migrano da un territorio all’altro e da un ambito di sfruttamento all’altro; in particolare, tale 4 Per una visione più completa del concetto di “ciclo prostituzionale”, cfr. F. Carchedi (a cura di), Piccoli schiavi senza frontiere. Il traffico dei minori stranieri in Italia, Ediesse, Roma, 2004, pp. 52 e segg. 77 situazione riguarda i gruppi nazionali rumeni e latino-americani e le corrispettive reti criminali che li gestiscono. La prostituzione di strada, ad esempio, a volte risulta essere sussidiaria al mercato della prostituzione indoor in quanto ambito di sfruttamento per le persone espulse dai circuiti dei locali ad intrattenimento notturno; nello stesso tempo, la strada tende a connotarsi sempre più come luogo di contatto, di costruzione di un “portafoglio clienti” a cui fornire una prestazione sessuale in appartamento. Inoltre, locali di intrattenimento a sfondo sessuale (club priveé, lap dance, night club) possono essere luoghi di consumo più o meno mascherati o anch’essi luoghi di contatto per una successiva attività prostituzionale da svolgersi in appartamento. Internet e giornali locali sono strumenti di commercializzazione della prostituzione indoor in appartamento o di legata al mondo delle cosiddette escort, ma possono anche essere uno strumento per il primo contatto e un filtro per un mercato altro più invisibile e specializzato; infine, anche la pubblicizzazione dei centri massaggi a volte maschera attività prostituzionali a pagamento. I mercati della prostituzione al chiuso, per modalità di contatto tra domanda e offerta, mezzi utilizzati, necessità di mascheramenti atti ad aggirare la legislazione vigente che vieta la prostituzione nei luoghi pubblici, rendono più invisibili e irraggiungibili le persone coinvolte dal fenomeno della prostituzione migrante e, in particolare, quelle assoggettate a condizioni di grave sfruttamento. Le modificazioni interne ai diversi gruppi nazionali Rispetto ai gruppi nazionali coinvolti nella tratta di persone a scopo di sfruttamento sessuale nel primo quinquennio del Duemila, si è avuto modo di registrare importanti cambiamenti. Tra i più evidenti si segnala quello della graduale scomparsa delle donne albanesi che si prostituivano in strada, sostituite da donne e minori provenienti dai paesi dell’Europa dell’Est, e in particolare dalla Romania. Tale importante trasformazione, che ha comportato una generale riorganizzazione e messa in discussione anche della strutturazione degli interventi sociali e di contrasto alle reti criminali, è avvenuta gradualmente a seguito dell’interazione di diversi fattori di cui i più significativi riguardano: a) gli accordi bilaterali di cooperazione tra lo Stato italiano e quello albanese in materia di contrasto dell’immigrazione clandestina che hanno bloccato l’arrivo dei gommoni sulle coste pugliesi e facilitato le espulsioni delle persone albanesi irregolarmente presenti in Italia; b) l’impatto dell’efficacia del dispositivo dell’art. 18 del d.lgs. 286/98 rispetto al contrasto (anche) alle reti di sfruttamento albanesi che si caratteriz78 zavano per un’elevata violenza e ferocia; c) lo sviluppo del mercato della prostituzione in Albania volto a soddisfare una forte domanda interna collegabile alla presenza militare straniera; d) la penetrazione delle reti criminali albanesi nei mercati della prostituzione del nord Europa (Gran Bretagna compresa) che hanno trasformato l’Italia da paese di destinazione a paese di transito per le donne albanesi che si prostituiscono. Questi fattori hanno portato ad un rapido cambiamento di strategie da parte delle organizzazioni criminali albanesi che hanno così spostato il bacino di reclutamento delle donne da avviare alla prostituzione in Italia dall’Albania alla Romania; spostamento che ha coinciso con un abbassamento dell’età delle vittime di tratta facendo emergere componenti minorili, nonché un cambiamento delle condizioni di assoggettamento delle donne adulte attraverso un maggiore coinvolgimento di queste nella contrattazione e nella spartizione dei guadagni e nel ruolo di controllo delle ragazze più giovani. Le donne provenienti dai paesi dell’Est Europa e, in particolare quelle rumene, insieme alle donne nigeriane hanno rappresentato i principali gruppi nazionali con cui sono entrati in contatto gli operatori e le operatrici che lavorano nei dispositivi di protezione sociale; oltretutto tali collettivi sono quelli per cui si sono registrate le maggiori trasformazioni fenomenologiche sia in termini quantitativi che qualitativi5. In questi ultimi anni, le modalità di reclutamento di persone da destinare alla tratta a scopo di sfruttamento sessuale hanno subito forti trasformazioni. Pur continuando a non essere scevro da inganni, violenze fisiche e condizionamenti psicologici, nella maggior parte dei casi, il reclutamento attualmente avviene anche attraverso contatti diretti tra la singola persona (potenziale vittima) e le reti di sfruttamento (che a primo acchito possono non apparire tali); contatti che vengono creati ignorando quanto potrà accadere in seguito. Ciò prevede che fin dall’inizio si possano stabilire dei contratti tra le reti di sfruttamento e la persona che chiede di espatriare in paesi ricchi (in Italia o in altri paesi dell’Europa occidentale) per lavorare in settori tradizionali (es. quelli della ristorazione e della cura della persona), in attività di intrattenimento nei locali notturni a sfondo sessuale o direttamente nell’ambito della prostituzione. Saranno le successive forme di dipendenza in cui si troveranno invischiate le persone reclutate (in particolare le donne e le minori), relativamente ai costi del viaggio, al reperimento dei documenti per espatriare6, alla sistemazione logistica nel paese di destinazione e ai costi economici e personali 5 C. Donadel, R.E. Martini (a cura di), La prostituzione invisibile, Regione Emilia-Romagna, Grafiche Morandi, Fusignano, 2005. 6 Per maggiori dettagli sullo strumento della procura legale utilizzato per far espatriare le/i minori, cfr. Capitolo 4, infra. 79 dell’esercizio della prostituzione a deludere le aspettative iniziali e a trasformare un reclutamento spesso consenziente in casi di tratta. Questo cambiamento nelle modalità di reclutamento ha coinciso con la rottura di quel binomio, fino a prima inscindibile, tra la prostituzione migrante proveniente dall’Est Europa e la condizione di clandestinità di quante si prostituivano in situazioni di sfruttamento. Tale modifica si è registrata durante il processo di allargamento dell’Unione europea. Infatti, l’entrata di nuovi paesi dell’Europa dell’Est, come l’Ungheria, la Polonia, la Romania, la Repubblica Ceca, la Bulgaria, caratterizzati dall’essere aree di reclutamento7 per il mercato della prostituzione di strada e non, ha consentito a molte donne neocomunitarie trafficate un ingresso regolare in Italia: prima attraverso i visti e i soggiorni per turismo, ora grazie al diritto alla libera circolazione in quante cittadine dell’Unione europea. Ciò ha facilitato ed incrementato il movimento dei flussi migratori verso l’Italia (e i paesi dell’Unione europea) soprattutto di compagini femminili. Le persone attualmente coinvolte nel mercato del sesso a pagamento, anche quelle trafficate (soprattutto le donne) sono sempre meno portatrici di progetti migratori stabili. La prostituzione è da loro vissuta e accettata come tappa obbligata ed inevitabile per la costruzione di un futuro migliore e libero da sfruttamento da parte di terze persone. Le esperienze di queste donne sembrano evidenziare con forza la costruzione di progetti migratori a carattere temporaneo ma ripetuti nel tempo e realizzati con modalità di ingresso regolari. Inoltre, la prostituzione non rappresenta più né un mezzo per avere un futuro migliore né un fine: essa rappresenta esclusivamente lo strumento più veloce ed accessibile per raggiungere gli obiettivi economici che le ha temporaneamente spinte ad uscire dal proprio paese. 2.4 Le aree geografiche di provenienza e le condizioni di vita alla partenza Aree geografiche di provenienza Le aree geografiche di origine delle persone trafficate intervistate sono risultate essere la Romania, la Nigeria, il Brasile e la Cina. Si è inoltre registrata anche la presenza di donne provenienti dal Maghreb (in particolare dalla Tunisia e dall’Algeria) sfruttate nella prostituzione di strada; va tuttavia detto che si tratta di una situazione con carattere episodico legata allo 7 È qui importante ricordare che da tempo questi paesi, tradizionalmente considerati luoghi di origine, sono diventati anche paesi di transito e di destinazione della tratta di persone. 80 specifico del territorio di Napoli: “Le donne in strada presenti sul nostro territorio provengono dalla Nigeria, dall’Est Europa e, quindi, dalla Polonia, dalla Moldova, dall’Ucraina, dalla Romania e dall’Albania. Poi dal Maghreb, principalmente dalla Tunisia e dall’Algeria e qualcuna dal Marocco e dal Sud America.” (int. 14, operatrice sociale, Napoli) Attualmente, i migranti rumeni presenti in Italia provengono da tutte le zone della Romania ma sono più numerosi quelli originari dalle regioni orientali, in particolare dalla Moldavia. Per quanto riguarda la Nigeria, l’area di origine più significativa rimane quella di Benin City. Dell’America Latina è il Brasile il paese più coinvolto nella prostituzione; mentre per la Cina la provincia maggiormente interessata dal fenomeno è quella del Liaoning e di Xining, rispettivamente nell’area Nord-est e Nord del paese. Le minori intervistate sono tutte originarie di paesi dell’Europa dell’Est e, nella maggioranza dei casi, provengono da piccole realtà cittadine di provincia o da villaggi agricolo-rurali. Si è invece rilevato che, a prescindere dalla loro nazionalità, le donne adulte vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale giungono in larga misura da città medio-grandi; città sostenute da un’economia legata al turismo e caratterizzate da processi di industrializzazione, anche a seguito di investimenti da parte di imprenditori italiani, come nel caso della Romania: “La mia città comunque non è affatto povera, al contrario di quello che si dice della Romania (…). Io sono cresciuta in un quartiere dove stanno tutti bene devo dire, con dei lavori molto buoni perché hanno studiato.” (int. 15, donna rumena) “I luoghi di massima migrazione sono centri di sfruttamento forestale, una zona montuosa molto piacevole, che ha conosciuto un fortissimo sviluppo negli ultimi anni (…) come luogo di turismo cinese.” (int. 20, operatore sociale, Milano) Sembra che la provenienza da aree che vedono un crescente sviluppo economico sia: “Una componente del:paradigma delle nuove migrazioni che la (migrazione, NdA) riconduce non tanto alla povertà quanto a forme dirompenti di sviluppo in cui chi è svantaggiato e si trova a dover affrontare un aumento del costo della vita in un contesto di sviluppo accelerato non è in grado di adeguarsi a tale modificazione socio-economica della propria area di provenienza.” (int. 20, operatore sociale, Milano) 81 “L’area di provenienza è il Liaoning, provincia a Nord-est della Cina che, insieme allo Heilongjiang e al Jilin, forma la zona nota con il nome di Manciuria, dove la chiusura di molte fabbriche ha determinato un aumento della disoccupazione, specie dopo il 2001. Grande area urbana industrializzata, colpita dalla riorganizzazione delle attività statali, da fabbriche che chiudono poiché troppo inefficienti per reggere il confronto con la concorrenza straniera dopo l’ingresso della Cina nel Wto (World Trade Organization, NdA). Si tratta quindi di una zona in una situazione di emergenza sociale: migrazioni interne campagna-città, capitalismo selvaggio, privatizzazione del sistema sanitario e dell’istruzione e smantellamento degli ammortizzatori sociali.” (int. 19, operatrice sociale, Lecce) I processi di rapida industrializzazione sembrano quindi avere prodotto cambiamenti importanti sul piano dell’aspettativa di un guadagno che possa garantire uno stile di vita in sintonia con i cambiamenti della società, ma che nella realtà si scontra con salari insufficienti o appena sufficienti al proprio sostentamento e a quello familiare. Inoltre, le difficoltà di mantenere o trovare un impiego sembrano essere aumentate anche a seguito di crescenti fenomeni di corruzione ed usura: “Io avevo provato a trovare lavoro come infermiera, ma lì si paga caro: 2000 euro a comprare il posto ma non c’è assicurazione che il primo arrivato è il primo che prende il posto perché se viene un altro con più soldi tu lo perdi.” (int. 5, donna rumena) “È molto difficile vivere in Romania. Fai i debiti tutti i giorni per mangiare e poi quando prendi lo stipendio dai indietro quello che hai preso e poi di nuovo fai i debiti, per tutto il mese è così.” (int. 14, donna rumena) “In Cina la posizione privilegiata te la garantisce il denaro… ti conferisce rispetto e protezione (…) Se hai soldi comperi pure la giustizia e ti affidi al meglio per quel che riguarda le cure sanitarie, l’istruzione, eccetera.” (int. 19, operatrice sociale, Lecce) Tutte le aree di provenienza qui menzionate riguardano paesi caratterizzati da flussi migratori verso l’Italia iniziati già a partire dagli anni Novanta (es. la Nigeria) o dai primi anni del 2000. Si tratta quindi di paesi le cui popolazioni assistono da tempo agli effetti – soprattutto di tipo economico – prodotti dai ritorni in patria degli ex migranti. Tali effetti sono facilmente visibili poiché quasi tutti hanno conoscenti e familiari che, almeno per un periodo, sono andati a lavorare in Italia o in qualche altro ricco paese europeo. Di fronte a casi di emigrazione di successo o supposti tali risulta facile maturare progetti di imitazione e cercare di realizzare progetti migratori personali: 82 “Un giorno ho conosciuto un’amica di una mia amica, tornata in Nigeria dall’Italia, dove viveva, vestita in modo elegante, con gioielli, soldi, una grande casa. Tutta la sua famiglia in Nigeria viveva bene grazie ai soldi che lei guadagnava. La mia idea era quella di fare fortuna come lei aveva fatto per poter aiutare tutta la mia famiglia, che ero stanca di veder soffrire a causa dei pochi soldi che avevamo.” (int. 12, donna nigeriana) “Una vicina di casa tornata dall’Italia aveva la possibilità economica di acquistare una casa e un’automobile e di intraprendere un’attività di import-export.” (int. 21, donna nigeriana) “Un’amica, siamo cresciute insieme, abitava vicino a casa mia e vedevo che inviava i soldi alla famiglia.” (int. 9, donna uruguayana) Nell’epoca della globalizzazione un ruolo importante lo svolge il sistema comunicativo con cui i media, spesso in modo uniformemente manipolativo, costruiscono bisogni indotti che spingono a consumi omologanti e alimentano una rappresentazione falsata del nostro Paese e dell’Europa occidentale in generale. Infatti, in alcuni paesi di provenienza delle intervistate l’aspettativa di realizzare in Italia il sogno di una vita migliore è stato e continua ad essere alimentato dalla rappresentazione che le persone si costruiscono del nostro Paese attraverso i programmi televisivi: “Io sognavo di venire in Italia già da quando ero piccola. Lo sognavo perché vedevo le reti Mediaset in televisione (…) vedi solo le cose belle di un paese. L’Italia non mi ha deluso, è stata come me l’aspettavo; è stata la mia vicenda personale deludente.” (int. 16, donna rumena) Condizioni di vita prima della partenza Le donne adulte intervistate provengono in larga misura da famiglie in cui erano presenti difficoltà economiche medie o gravi. In particolare, tutte le donne originarie dall’America Latina e dalla Cina hanno dichiarato di essere separate o divorziate e con figli a carico. La motivazione che spinge a migrare in questi casi è legata all’esigenza di guadagnare i soldi per sostenere i figli piccoli, lasciati generalmente con i nonni, o di consentire ai figli grandi di proseguire gli studi universitari per garantirsi un futuro occupazionale migliore. Quest’ultima motivazione riguarda in prevalenza le donne cinesi. La famiglia è spesso presente, è a conoscenza della decisione di migrare di uno dei suoi membri e spesso è coinvolta direttamente nella scelta di investire sulla figlia destinata all’emigrazione per il sostentamento di tutto il nucleo 83 familiare; aspetto, quest’ultimo, che contraddistingue particolarmente il gruppo nigeriano. Le intervistate realizzate hanno evidenziato che mano a mano che l’età si abbassa, i fattori di vulnerabilità aumentano. Infatti, nelle storie raccolte sono state riscontrate evidenti problematiche familiari (molto spesso legate all’abuso di alcool da parte di uno o più familiari), casi di maltrattamento, di allontanamento dalla famiglia e del conseguente inserimento in istituti e convitti a carattere residenziale. È emblematico ciò che racconta una donna rumena: “Dopo i 18 anni il collegio in Romania non può più aiutarti, ti dicono ‘la porta è aperta’ e io mi sono ritrovata da sola in mezzo alla strada… ero sola e non avevo mai vissuto fuori dal collegio e quindi non sapevo cosa fare.” (int. 22, donna rumena) In molti di questi casi ci troviamo di fronte a minorenni che, proprio per le situazioni di difficoltà e di assenza di contesti di sviluppo costruttivi e tutelanti, erano già state reclutate e collocate a lavorare come prostitute nei locali di intrattenimento di città turistiche rumene. In tali casi, il canale attraverso cui le minori vengono reclutate è quello del “fidanzato”, che molto spesso si rivela essere un adulto che approfitta della mancanza di riferimenti affettivi significativi da parte della minore per introdurla al lavoro nel mercato del sesso a pagamento, magari con la promessa di un’esperienza breve finalizzata a conseguire una felice ed agiata vita comune. A questa delicata situazione si aggiunge sovente il fatto che molte minori appartengono a gruppi culturali rom; aspetto, questo, che pregiudica ulteriormente la rappresentazione che la minore ha del rapporto con la rete di sfruttamento e della prostituzione stessa, poiché la relazione con il gruppo allargato di appartenenza e con il nomadismo del vivere diventa l’unico riferimento possibile. Prima di partire per l’Italia le donne sono spesso disoccupate o stanno svolgendo un lavoro che non considerano abbastanza adeguato a soddisfare i propri bisogni e quelli della famiglia; inoltre, uno o entrambi i genitori, quando sono presenti, sono disoccupati, malati o portatori di qualche problematica sociale: “Mia madre non ha un lavoro fisso, vende riso e verdura al mercato ma solo in alcuni periodi. Mio padre è un falegname, ma per motivi di salute non è più in grado di lavorare.” (int. 2, donna nigeriana) 84 Dalle interviste realizzate è emerso che la condizione di povertà non risulta necessariamente essere la principale variabile che determina la partenza dal paese di origine e l’inserimento nel mondo della prostituzione. Alcune testimonianze raccolte hanno messo in luce che vi sono anche famiglie che versano in discrete – se non buone – condizioni economiche, soprattutto per le donne provenienti dalla Cina: “Non troviamo mai dei poveracci totali tra gli immigrati cinesi, ma comunque gente che aveva quantomeno la possibilità di vendere un terreno, di ipotecare una casa, di chiedere un prestito in banca, qualcosa che permettesse loro di lasciare la Cina senza indebitarsi del tutto.” (int. 20, operatore sociale, Milano) L’età e il livello di scolarizzazione Le classi di età e il livello di scolarizzazione appaiono specifici e differenziati per gruppo nazionale di riferimento. Le donne più scolarizzate sono quelle provenienti dalla Romania. Hanno quasi tutte svolto studi di grado superiore, talune hanno conseguito anche la laurea o, al momento della partenza, stavano frequentando l’università. Il grado di scolarizzazione è un indicatore importante, anche se non l’unico, per determinare il livello di consapevolezza, di contrattualità con l’organizzazione criminale, di capacità di ridefinizione del proprio progetto migratorio nella fuoriuscita dallo sfruttamento. In ogni caso, un livello di scolarizzazione medioalto è potenzialmente un elemento facilitatore del processo di implementazione del programma di assistenza e integrazione sociale, nonché di un accesso più rapido a percorsi di inserimento lavorativo qualificati e, quindi, di pieno raggiungimento dell’autonomia e dell’inserimento sociale: “Ho 22 anni, sono nata a M. in Romania (…) le scuole le ho terminate due anni fa, ho preso il diploma con indirizzo pedagogico. Quando ho scelto questo indirizzo era per lavorare nelle scuole primarie. Il rumeno è la mia lingua di origine, poi parlo l’inglese e l’italiano; nonostante tutto sono una persona istruita. Dico nonostante tutto perché si pensa che le ragazze che hanno vissuto quello che ho vissuto io siano tutte prive di risorse o di capacità.” (int. 32, donna rumena) Coerentemente con il livello di scolarizzazione medio-alto, l’età media registrata tra le donne intervistate provenienti dall’Est Europa è attorno ai 25 anni. Le donne africane intervistate, prevalentemente di origine nigeriana, sono adulte e di età compresa tra i 26 e i 30 anni. Il loro grado di scolarizzazione è medio-basso o molto basso. Una donna nigeriana al momento della partenza e fino all’arrivo in Italia: 85 “Non sapeva che in Italia non si parlava in inglese e che le persone erano bianche.” (int. 12, donna nigeriana) Tra le donne latino-americane intervistate si è registrata un’età compresa tra i 22 e i 25 anni, mentre quella delle donne cinesi è risultata essere più elevata, ovvero tra i 35-40 anni e, in alcuni casi, anche al di sopra dei 40 anni e, quindi, un’età media elevata rispetto a quella registrata mediamente tra la popolazione straniera che si prostituisce. In generale, tra le donne cinesi non si è rilevato un alto livello di scolarizzazione mentre si è evidenziata una certa difficoltà nell’apprendimento della lingua italiana, derivante anche dalla grande diversità tra il cinese e la nostra lingua. Tale ostacolo può spingere ad attivare comportamenti resistenziali e a non maturare la motivazione necessaria per inserirsi pienamente nel tessuto sociale della comunità ospitante e, di conseguenza, auto-confinandosi all’interno della comunità di appartenenza. I progetti migratori delle donne cinesi, poi, sono diversi rispetto a quelli delle donne di altre nazionalità; difficilmente, infatti, una donna cinese che si prostituisce decide di rimanere in Italia a lungo termine. L’età media elevata della compagine cinese appare essere una caratteristica in controtendenza rispetto agli attuali orientamenti dei clienti, che sembrano richiedere donne prostitute sempre più giovani. In realtà, l’età delle donne cinesi non costituisce un problema per due motivi principali, collegati al fatto che la prostituzione cinese si svolge ancora soprattutto in luoghi al chiuso. Il primo motivo, di natura tecnica, riguarda le modalità di incontro tra la domanda e l’offerta di servizi sessuali: le donne cinesi incontrano i loro clienti su appuntamento telefonico in improbabili centri massaggi o in appartamenti esplicitamente utilizzati per la prostituzione indoor. Il secondo motivo riguarda il fascino dell’esotismo esercitato dalle donne cinesi nella sfera dell’immaginario e del desiderio dei clienti italiani. Quest’ultimi, dunque, si costruiscono una rappresentazione delle donne cinesi astoricizzata, favorita anche dal fatto che gli europei hanno una certa difficoltà nel decodificare le caratteristiche somatiche e anagrafiche delle persone asiatiche. Agli occhi del cliente le donne cinesi acquisiscono perciò un’età definita più dalla proiezione dei suoi desideri e delle sue fantasie che non dai loro effettivi dati anagrafici. Il progetto migratorio iniziale Le differenze rispetto al grado di autonomia e di autodeterminazione individuale, sottolineate anche dal diverso livello di scolarizzazione acquisito, sembrano incidere sul tipo di progetto migratorio perseguito dalle donne intervistate, sia rispetto alla spinta motivazionale che alla durata della 86 permanenza delle stesse nel nostro Paese. Il progetto migratorio è individualizzato, legato ai bisogni e alle aspettative non solo personali ma anche familiari. È diverso per ogni persona e spesso non vi è nemmeno la piena consapevolezza di averne uno. Questo è un elemento di rilievo, poiché, laddove la decisione di migrare non è dettata da una scelta consapevole della persona, lì si possono inserire gli elementi di vulnerabilità che possono favorire reclutamenti rischiosi e percorsi di tratta. Tra le donne intervistate di vario tipo sono apparsi essere i vissuti rispetto al riconoscimento dell’inganno subito, che prevede la realizzazione di un livello più o meno coercitivo di sfruttamento e la sua conseguente accettazione passiva. In tal senso, quanto più forte è il proprio progetto migratorio, quanto più è tarato su un bisogno personale, tanto più risulta tollerabile la condizione dello sfruttamento in cui ci si trova invischiati. Apparentemente potrebbe sembrare che la tratta è presente laddove non vi è un progetto migratorio chiaro e la persona risulta in una posizione di passività rispetto alla scelta di partire. Invece – da quanto emerge dalle nostre interviste – la tratta si verifica anche laddove c’è una scelta consapevole di migrare per raggiungere l’obiettivo di miglioramento delle proprie condizioni di vita. La persona contatta le organizzazioni criminali – o viene reclutata dalle stesse – spesso avendo un obiettivo preciso, un contratto chiaro; ma il problema si presenta quando le organizzazioni e gli sfruttatori vengono meno alle disposizioni contrattuali concordate. L’assoggettamento e la coercizione vengono realizzati facendo leva sul differenziale di potere esistente tra le reti di sfruttamento e le potenziali vittime, sia rispetto alle conoscenze in materia di immigrazione (es. normativa sulle condizioni dello straniero in Italia, vita nella clandestinità, rapporti con l’autorità di polizia e giudiziaria, etc.), sia rispetto alla logistica, come il reperimento di una sistemazione alloggiativa e di quanto altro necessario alla sopravvivenza in un paese che non si conosce e in cui non si ha una rete di conoscenze di riferimento. In tali situazioni, la rete criminale svolge un ruolo di supporto significativo, sovente percepito in maniera “positiva”. Va da sé che, laddove la persona è particolarmente fragile e vulnerabile e il progetto migratorio inesistente, l’organizzazione che la recluta e la porta in Italia al fine di sfruttarla è favorita nella contrattazione e nelle successive pratiche di sfruttamento. È importante sottolineare le diversità esistenti tra i progetti migratori, in quanto esse determinano la possibilità di attivare processi di auto-riconoscimento dello sfruttamento e di fuoriuscita dalla condizione para-schiavistica. Come già accennato, nella scelta di migrare, soprattutto per le donne con un livello di scolarizzazione più elevato, è forte la componente emancipatoria, in particolar modo per quelle provenienti dai paesi dell’Europa dell’Est: 87 “Sono andata via di casa perché volevo essere indipendente e starmene per conto mio (…). Avevo un progetto. E quello che mi ha spinto a venire in Italia è stato il desiderio di avere di più, di avere un’altra vita, di fare qualcosa con la mia vita.” (int. 14, donna rumena) Di fronte ad una spinta di miglioramento economico e di stile di vita, notiamo l’esistenza di un progetto migratorio che si caratterizza spesso per essere temporaneo (“a termine”) e chiaramente finalizzato: “Studiavo all’Università di storia e filosofia, lavoravo come commessa in un negozio di alimentari… sono partita dalla Romania perché non riuscivo a pagare l’università. Allora ho deciso di venire via per un breve periodo di tre mesi, con il visto turistico, così sarei riuscita a guadagnare un po’ di soldi e avrei pagato l’università.” (int. 36, donna rumena) La temporaneità del progetto migratorio è un elemento distintivo che caratterizza anche le scelte delle donne provenienti dai paesi dell’America Latina: “Sentendo la responsabilità di due figli, e non volendo pesare troppo sulla mia famiglia, ho iniziato a pensare di partire per un breve periodo, con l’obiettivo di guadagnare i soldi necessari all’acquisto di una casa tutta mia.” (int. 9, donna uruguayana) “Ho deciso di partire perché nel mio paese non stavo lavorando e ho quattro figli da mantenere, sono separata… ho detto vado per tre mesi in Italia, metto via un po’ di soldi e poi torno a casa… la proposta che mi aveva fatto (una conoscente, NdA) era di lavorare e di guadagnare.” (int. 4, donna brasiliana) Anche per le donne cinesi il progetto migratorio è legato alla cura della famiglia e soprattutto al futuro dei figli, ai quali si vuole garantire un livello di istruzione medio-alto affinché possano accedere a posti di responsabilità. Si tratta dunque di un progetto migratorio temporaneo a medio termine (due o tre anni) finalizzato a raccogliere la cifra di denaro prefissata, oltre a quella necessaria per restituire il debito contratto per il viaggio. È, infatti, raro che le donne cinesi progettino di rimanere in Italia o che facciano richiesta di ricongiungimento familiare con i figli: “Spesso sono separate da mariti disoccupati che si dedicano al gioco d’azzardo (…) e che hanno perso il lavoro. Le donne devono provvedere al sostentamento e alla crescita dei figli che, partendo, lasciano alle cure dei familiari dietro lauti compensi; devono garantire anche il sostentamento dei propri genitori. In Cina la pietà filiale è la base di una buona condotta morale.” (int. 19, operatrice sociale, Lecce) 88 “Sono venuta per guadagnare dei soldi per poter far studiare mio figlio all’università. (…) Non sono partita avendo già in mente per quanto tempo mi sarei potuta fermare in Italia, ma avevo già idea che qui potevo guadagnare tanti soldi.” (int. 7, donna cinese) “L’ossessione di queste donne che hanno solitamente figli in età scolare riguarda l’istruzione, le medie superiori e l’università perché in Cina sono molto care. Infatti a settembre di ogni anno comincia a salire la loro ansia perché devono mandare i soldi a casa per far studiare i figli.” (int. 21, operatore sociale, Milano) Il progetto migratorio delle donne nigeriane, in genere, appare stabile e duraturo, anche se si possono verificare casi di migrazione verso altri paesi europei una volta regolarizzata la posizione in Italia. Si tratta comunque di spostamenti temporanei e finalizzati ad accumulare denaro per poi far ritorno in Italia, la quale sembra essere il loro paese preferito. 2.5 Le forme di reclutamento, l’organizzazione del viaggio e la partenza Dal reclutamento forzato all’attivazione di opportunità personali: una possibile trasformazione Per quanto riguarda le persone adulte, un cambiamento che attualmente possiamo ritenere strutturale riguarda la quasi totale scomparsa di uno degli elementi costitutivi della tratta e cioè il reclutamento forzato. Tale modificazione si è evidenziata in tempi diversi a seconda dei differenti gruppi nazionali di riferimento e della loro collocazione nei vari contesti regionali italiani tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del decennio successivo. Ciò ha coinciso con la comparsa preponderante delle donne rumene nel mercato del sesso a pagamento in strada e, in misura minore, delle donne moldove e ucraine; con l’emergere, a fianco delle storiche reti di sfruttamento albanesi e serbe, delle organizzazioni di sfruttamento rumene; nonché con la contestuale scomparsa dalla prostituzione di strada – come accennato in precedenza – delle donne albanesi. Da sottolineare che, anche precedentemente al periodo menzionato, il reclutamento violento e coercitivo (es. il rapimento), pur non essendo raro, non ha mai rappresentato la modalità di reclutamento principale delle persone adulte provenienti dall’Europa dell’Est. Il reclutamento era sovente indotto e promosso da parenti, amici o, nel caso delle donne albanesi, da fidanzati che, attraverso inganni, ricatti e successive violenze, creavano, da una parte, una 89 rottura tra le potenziali vittime e il loro contesto socio-culturale e affettivo di appartenenza e, dall’altra, forme più o meno forti di dipendenza dalle reti criminali che praticavano lo sfruttamento. In questo ultimo periodo (metà anni Duemila), il reclutamento, invece, avviene principalmente su iniziativa personale delle persona che vuole emigrare, spesso attraverso la costituzione di contratti con le reti di sfruttamento che fin dall’inizio prevedono il suo coinvolgimento in attività prostitutive. Laddove c’è un contesto familiare – anche funzionante – non si rileva più una rottura netta tra questo e la persona trafficata, bensì si nota l’esistenza di forme di complicità fondate su “non detti” più o meno espliciti rispetto alla futura pratica prostituzionale e sulla possibilità di contare su una persona che contribuisca al mantenimento economico della famiglia di origine o, qualora esistano, dei figli e di chi ha o assume il compito di occuparsene in patria. Abbiamo rilevato che anche le donne nigeriane si attivano direttamente per espatriare contattando direttamente le organizzazioni che possano portarle in Italia. È stato inoltre riscontrato che il reclutamento può avvenire anche attraverso una forma di “selezione mirata” da parte della diretta interessata verso l’organizzazione (garanzie sulla bontà dei documenti falsi, sulla sicurezza del viaggio, etc.) o da parte dell’organizzazione nei confronti della donna che vuole emigrare (garanzie sulla restituzione delle spese iniziali, della disciplina, etc.): “Molte persone stavano chiedendo di poter tornare in Italia assieme a lei; io per partire avrei dovuto dimostrare quanto ero brava lavorando per un po’ di tempo a casa sua e aiutandola a fare le pulizie (…) eravamo diverse donne a lavorare a casa sua e io sapevo che dovevo dimostrare di essere in gamba perché la più brava avrebbe potuto andare con lei in Italia.” (int. 12, donna nigeriana) Tra le donne latino-americane quasi sempre si è notata la propensione a contattare direttamente le persone o l’organizzazione in grado di farle emigrare, spesso a fronte di un progetto migratorio temporaneo volto ad un guadagno immediato, per il quale il lavoro della prostituzione risulta particolarmente funzionale: “Quando sono stata lasciata da mio marito, non sono più riuscita a trovare un lavoro e mi sentivo molto in colpa di dipendere nuovamente dai miei genitori e allora ho deciso di venire a cercare lavoro in Italia. Ho chiamato la sorella di una mia conoscente che sapevo prostituirsi da tempo in Italia per sapere se poteva aiutarmi a venire in questo Paese. Per procurarmi i soldi del biglietto aereo ho venduto il motorino e mia madre ha stipulato un prestito in banca. Sono dunque arrivata in Italia in maniera autonoma e ho iniziato a prostituirmi in modo consenziente pur non 90 gradendo quello che stavo facendo.” (int. 18, donna brasiliana) “Tramite un amico ho saputo che una donna cercava ragazze che fossero disposte a trasferirsi in Italia a lavorare come bariste nelle discoteche. Avevo contattato una mia conoscente che era già stata a lavorare in Italia per tre mesi e che mi aveva assicurato che con questo tipo di lavoro sarebbe andato tutto bene.” (int. 13, donna venezuelana) Anche le donne cinesi sembrano contattare direttamente le persone che devono garantirgli il viaggio in Italia, che non sempre sono le stesse che procacciano il lavoro. Nelle aree in cui si sono create delle filiere migratorie, il “passaparola” incentiva le persone intenzionate ad emigrare ad informarsi su come attivare tale progetto: “Tutte raccontano di avere contattato personalmente le persone che le avrebbero aiutate ad uscire dalla Cina. Sembra che questi contatti avvengano negli ambienti del gioco d’azzardo. Alcune di loro raccontano di essersi rivolte a donne, le quali hanno anche proposto loro di ‘acquistare’ dalla Cina il lavoro in Italia aggiungendo altri soldi a quelli già consegnati per il visto di ingresso.” (int. 19, operatrice sociale, Lecce) La temporaneità appare come una delle motivazioni principali che spingono molte donne ad espatriare. Anche il soggiorno regolare è piuttosto ambito. Aspetto che facilita la stabilizzazione del nostro Paese. Il possesso dei documenti di soggiorno risulta essere importante anche per l’esercizio della prostituzione in quanto può essere funzionale per le organizzazioni criminali per non palesare da subito la condizione di sfruttamento a cui le donne sono sottoposte: “Sono andata a fare il permesso di soggiorno con la ragazza domenicana in Questura qui in Italia, era un permesso di tre mesi per motivi di turismo.” (int. 13, donna venezuelana) I fattori facilitanti il reclutamento Sebbene siano sempre più le donne che contattano direttamente i singoli reclutatori o le organizzazioni che possono favorire il loro espatrio, il reclutamento ingannevole, subdolo e sovente traumatico continua ad essere utilizzato soprattutto a danno delle giovani minorenni: “Un giorno, mentre andavo a scuola, mi si è avvicinata una macchina con tre uomini 91 a bordo. Due di loro sono scesi dicendomi che cercavano il compagno di mia madre e chiedendomi di portarli da lui. Al mio rifiuto uno di loro è arrivato alle mie spalle e mi ha stordita. Mi sono risvegliata in una casa che si trovava nella mia stessa città, dove c’erano altre nove ragazze, tutte giovani. L’uomo che mi aveva rapita per strada era il padrone della casa.” (int. 7, minore rumena) Il reclutamento basato sull’inganno molto spesso viene pianificato e realizzato da persone – di solito donne – di cui la vittima e la famiglia si fidano. In genere, infatti, si tratta di familiari anche di primo grado, di amici o di conoscenti. Ciò accade soprattutto a donne provenienti dall’Europa dell’Est: “Ne avevo parlato con la mia famiglia e loro erano d’accordo al mio espatrio perché si fidavano di mia cugina (…) inoltre negli anni del liceo viveva (la cugina, NdA) a casa mia ed era come una sorella per me e come una figlia per i miei genitori. Praticamente, io dividevo tutto ciò che avevo con lei, anche lo stesso letto, e non mi sarei mai aspettata che mi avrebbe fatto qualcosa di male.” (int. 5, donna rumena) “Appena preso il diploma vengo contattata da un’amica di famiglia che mi propone di venire in Italia per lavorare in un ristorante. Mi sembrava una fortuna (…) lei ha parlato coi miei dicendo che era importante quello che mi aveva offerto e che aveva pensato a me perché mi vedeva svelta. Aveva portato con sé le fotografie del ristorante (…). I miei mi hanno detto ‘va bene, parti’.” (int. 32, donna rumena) “L’uomo che mi ha portata in Italia era un cugino della famiglia dove lavoravo per fare le pulizie in casa. Di questa persona mi sono fidata.” (int. 28, donna kenyota) Il reclutamento può avvenire in una fase di particolare vulnerabilità e fragilità affettiva della giovane donna che, in quel dato momento, si trova a dover affrontare difficoltà personali e familiari di sostentamento economico, soprattutto qualora vi sono dei figli o fratelli da mantenere. Inoltre, in molti casi, soprattutto di minorenni provenienti da piccoli centri rurali e poveri, si è in presenza di contesti familiari disgregati e sovente multiproblematici, in cui i genitori possono non essere presenti perché deceduti o perchè portatori a loro volta di forti disagi: “A tredici anni mio padre mi ha cacciata fuori di casa. Successivamente sono andata a vivere con un ragazzo rom e la sua famiglia, ma anche lui mi picchiava sempre, così sono andata via, ospitata per qualche giorno da altri ragazzi; nella loro casa ho conosciuto i miei sfruttatori.” (int. 11, minore rumena) Sono questi i casi in cui la cura dei/delle minori viene delegata ai nonni, quando sono presenti, oppure ad istituti. Questi/e giovani possono trovarsi a 92 dover essere autonomi e a pensare al proprio sostentamento economico. In queste situazioni, la dispersione scolastica è una conseguenza quasi ineludibile che contribuisce a rendere i/le minori “prede appetibili” per le reti deputate al reclutamento: “Da quando ero piccola stavo con i miei nonni, in un paese piccolo, perché mio padre era morto e mia mamma si era sposata con un altro e questo non mi sopportava. A scuola andavo tutti i giorni, ma non ci stavo tutto il giorno. Andavamo al bar con gli amici, stavamo in un giardinetto dove non ci vedeva nessuno.” (int. 3, minore rumena) “Mia nonna è una persona molto importante per me perché io ho vissuto più con lei che con i miei genitori (…). Con i miei genitori non ho mai avuto un rapporto buono; da quando avevo quattordici anni non ho più visto mia mamma perché lei se ne è andata di casa. Ha chiesto la separazione perché mio padre beveva, la picchiava (…). Picchiava sia lei che noi figli. Mia madre non riusciva più a sopportarlo.” (int. 8, minore rumena) In generale, per i/le minori l’età, collegata al solitamente alto grado di ingenuità e alla carenza di riferimenti affettivi ed educativi significativi, costituisce di per sé un elemento di vulnerabilità. Dall’analisi condotta i/le minori rom, bulgari o rumeni, sono risultati essere particolarmente a rischio di reclutamento finalizzato allo sfruttamento sessuale, soprattutto a causa delle loro complesse condizioni di vita. Il reclutamento per questo gruppo di minori è quasi sempre espressione delle dinamiche familiari o comunque del gruppo etnico di appartenenza: “Ad agosto era tornata mia madre dalle vacanze e siccome un cugino aveva già avuto rapporti con mio padre, mia madre era andata a conoscerlo e aveva detto che poteva essere mio fidanzato. Con questa scusa siamo andati a conoscere questo cugino. Poi loro due (mia madre e mio cugino, NdA) senza di me hanno fatto degli incontri e hanno detto che mio padre era d’accordo a farmi il passaporto e così me l’ha fatto insieme a mia madre.” (int. 1, minore bulgara) “Avevo un amico zingaro rumeno e lui mi ha proposto ‘dai andiamo in Italia, facciamo i soldi, ti trovo un lavoro’ e io ho detto ‘va bene, vengo’. Ai miei ho detto che venivo in Italia per stare con un bambino. Sono andata dai miei con questo ragazzo e una ragazza che era incinta e gli ho detto che andavo in Italia per fare i soldi e guardavo il bambino. Mi servivano i documenti firmati da loro e loro li hanno firmati e non hanno chiesto niente. Erano contenti.” (int. 3, minore rumena) 93 Per quanto riguarda i/le minori, il reclutamento avviene ancora nella stragrande maggioranza dei casi attraverso organizzazioni delle reti criminali dedite alla tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Tali organizzazioni sono in grado di individuare i bacini e i contesti di reclutamento più favorevoli; di identificare le vulnerabilità, le aspettative e i desideri dei minori manipolandole a loro favore; sono inoltre capaci di sfruttare a loro vantaggio le diverse disposizioni normative riguardanti i minori stranieri nei singoli paesi europei per limitare i rischi alle frontiere e per tutelare i loro affari illeciti nei paesi di destinazione: “Le maggiorenni andavano in Francia e i minorenni venivano in Italia; era più facile l’ingresso per i minori, non è che un minore poteva essere mandato via o messo in carcere. A un minore qui in Italia non si può fare niente e per questa sicurezza loro ci mandavano qui (…) poi uno che faceva i 18 anni partiva per Francia… poi ho sentito che hanno cominciato a mandarle in Spagna, ma non so bene.” (int. 1, minore bulgara) Il viaggio verso l’Italia Il viaggio presenta caratteristiche specifiche a seconda del gruppo nazionale considerato in quanto, sulla base delle rotte da seguire, delle frontiere da attraversare e della distanza da percorrere dal paese di origine a quello di destinazione, cambiano i mezzi di trasporto e le modalità organizzative. Come già accennato, a partire dal 2003, le persone provenienti dall’Europa dell’Est hanno avuto modo di attraversare più facilmente le frontiere dell’Europa occidentale; tale cambiamento ha reso i viaggi più facili, più frequenti, più agiati e meno costosi. Infatti, da allora, per le donne dell’Europa dell’Est neocomunitarie l’ingresso in Italia avviene con modalità regolari; in particolare, per le donne rumene avviene mediante visti turistici (a partire dal 2003) e poi (dal gennaio 2007) con regolare passaporto o altro documento di identità. In alcuni casi, poi, gli sfruttatori provvedono a regolarizzare la posizione sul territorio italiano delle donne destinate alla prostituzione in appartamento: “Sono arrivata in Italia, accompagnata da *** in macchina, assieme ad un altro ragazzo rumeno. Qualche giorno dopo ** mi ha accompagnato presso la Questura per farmi fare la domanda per il permesso di soggiorno per turismo e solo dopo che ho ottenuto il permesso **** mi ha accompagnato nell’appartamento intestato a lei a Cervia Milano Marittima.” (int. 1, operatrice sociale, Pordenone) Per superare i vincoli della normativa italiana sui permessi di soggiorno a breve durata (per motivi di transito o di turismo, rispettivamente aventi validi94 tà massima di una settimana e di tre mesi), le reti criminali hanno acquisito le necessarie informazioni sul quadro legislativo italiano e si sono poi conseguentemente organizzate in base alle loro esigenze criminose. Riescono, infatti, ad approntare strategie sempre più raffinate, dimostrando – altresì – di sapersi muovere molto bene su tutto il territorio europeo: “Quando le stava per scadere anche il secondo permesso di soggiorno italiano per turismo, è rientrata da sola in corriera. *** ha sempre evitato di accompagnarla, come ha sempre evitato di presentarsi negli appartamenti dove vivevano le ragazze che lavoravano per lui. Rientrata in Romania, si è fermata a Potesti, presso la casa del suo sfruttatore, dove viveva la sua donna e quando, subito dopo, è rientrata in Italia, ha incontrato *** presso la sua casa a ********. Le ha detto di andare in Belgio, prima che le scadesse il visto per turismo, per ottenere là un nuovo permesso di soggiorno per turismo.” (int. 2, operatrice sociale, Venezia) Le donne nigeriane, invece, data la lunga distanza che devono percorrere, utilizzano mezzi di vario tipo a seconda se intraprendono le rotte terrestri, marine oppure aeree. Sovente utilizzano trasporti diversi in base alla configurazione organizzativa della rete criminale che si incarica del viaggio, la durata del quale varia a seconda del denaro che l’organizzazione fa pervenire a quanti hanno il compito di far transitare le persone trafficate da un paese all’altro. Va detto, tuttavia, che negli ultimi anni le rotte aeree sono quelle privilegiate perché le tecniche di falsificazione dei documenti sono molto migliorate; il numero degli intermediari della rete che organizza il viaggio è diminuito; sono stati accelerati i tempi di inserimento delle vittime nel meccanismo di sfruttamento. Tali cambiamenti permettono all’organizzazione criminale di aumentare i propri margini di profitto. Ciò nonostante si registrano ancora casi di donne che effettuano viaggi lunghi e caratterizzati da forti difficoltà e disagi: “Sono partita dalla Nigeria con un aereo fino a Mosca; poi, da lì, sono arrivata in Italia attraverso un viaggio durato due mesi e mezzo: sono passata per l’Ucraina, l’Ungheria, la Slovenia. A volte viaggiavamo a piedi di notte, a volte in macchina; di giorno riposavamo. In ogni posto in cui arrivavamo c’erano persone che ci aspettavano e ci portavano in case dove aspettavamo tornasse notte per ripartire.” (int. 12, donna nigeriana) Le donne che viaggiano in aereo solitamente raggiungono gli aeroporti di Lagos in Nigeria o di Accra in Ghana in macchina o a piedi, sempre accompagnate da un autista che generalmente non le scorta fino in Italia. L’accompagnamento in aereo, quando si verifica, può essere effettuato sia da una donna che da un uomo. Più spesso però le donne viaggiano da sole e 95 incontrano il loro “contatto” una volta giunte in Italia, di solito non all’aeroporto ma in una stazione ferroviaria: “Dalla Nigeria al Ghana sono arrivata a piedi e poi dal Ghana in Italia in aereo. Ero accompagnata da un uomo, avevo un passaporto falso con cui sono arrivata in Italia.” (int. 30, donna nigeriana) Sovente il volo per l’Italia non è diretto, ma fa scalo in Francia o in Spagna; nel caso in cui l’arrivo sia previsto sul territorio italiano le destinazioni finali principali sono l’aeroporto di Milano Malpensa e quello di Roma Fiumicino. Rispetto a qualche anno fa, sembrano essere in diminuzione o addirittura scomparsi quei viaggi lunghi ed interminabili che costringevano la persona a peregrinare per tutta l’Africa prima di arrivare in Italia: ad esempio, dal Sud Nigeria verso il Nord e poi attraverso il deserto del Sahara a piedi per arrivare in Marocco nelle due enclave spagnole (Ceuta e Melilla), ultima tappa prima dell’entrata in Europa. L’ingresso veniva garantito con l’inserimento delle donne nei centri di permanenza temporanea in terra spagnola e da lì, dopo 15-20 giorni, potevano spostarsi e raggiungere l’Italia. Questo viaggio poteva durare anche 3-4 anni, con più tappe in diversi paesi africani. Ogni spostamento dipendeva dall’arrivo di denaro che consentiva a gruppi del luogo di adoperarsi per attivare le tappe successive del viaggio. Dalle testimonianze acquisite non emerge quasi mai l’esistenza di un’unica rete criminale che gestisce tutte le fasi della tratta (reclutamento, viaggio, ingresso in Italia e sfruttamento), ma la presenza di più facilitatori che organizzano singoli tratti di viaggio in cambio di denaro erogato da madam nigeriane presenti in Italia. Appare quindi evidente l’esistenza di collaborazioni tra le reti che si occupano di tratta e quelle dedite al traffico di migranti; reti che comunque restano sovente autonome o separate. La rotta sull’asse Nigeria-Marocco, anche se risulta essere utilizzata di meno, continua ad essere percorsa, ma senza passare per i centri di accoglienza temporanea di Ceuta e Melilla. Anche questa rotta implica viaggi con durate varibili: a volte l’attesa dura mesi, soprattutto se si cerca un imbarco clandestino diretto in Italia (in particolare in Sicilia) o in Spagna, a volte, invece, dura poche settimane: “Il giorno della partenza è stata affidata ad alcuni uomini che si sono occupati di accompagnare lei ed altre tre ragazze in Marocco. Il viaggio è avvenuto con autobus pubblici ed è durato almeno 12 giorni. Successivamente le donne hanno atteso la partenza in un albergo per altri giorni.” (int. 21, operatore sociale, Milano) 96 La dimensione dell’attesa per le donne nigeriane è particolarmente importante, in quanto ha forti ricadute anche sul piano operativo poiché permette di valutare il tempo necessario occorrente per il viaggio da affrontare8. Per alcune donne la misurazione del tempo è molto legata a dimensioni personali e di gruppo e quindi si lasciano guidare da persone più esperte ruolo come le stesse maman che le sfruttano. Molto spesso, infatti, risulta che queste donne non sono in grado di ricordare con precisione quanto tempo sia passato da quando si sono messe in contatto o sono state contattate dall’organizzazione criminale a quando vengono predisposti i documenti di viaggio, fino a non saper calcolare il tempo intercorso dalla partenza all’arrivo effettivo nel luogo di destinazione. Le donne latino-americane viaggiano in aereo e quasi sempre con documenti regolari: passaporto e visti turistici della durata di tre mesi. Gli aeroporti italiani di arrivo sono prevalentemente, anche in questo caso, quelli di Milano Malpensa e Roma Fiumicino, dove giungono dopo aver effettuato – in qualche caso – degli scali intermedi in altri aeroporti europei. Il viaggio delle donne cinesi, soprattutto quelle sfruttate dapprima nell’ambito lavorativo e poi in quello sessuale, viene organizzato dalle stesse reti criminali che si sono occupate del loro reclutamento, che generalmente prevedono anche l’accompagnamento fino al luogo di destinazione lavorativa in Italia. Per le donne cinesi fin da subito destinate alla prostituzione solitamente sono previste procedure di reclutamento e di pianificazione del viaggio diverse. Dalle informazioni raccolte, infatti, risulta che prima della partenza esse prendono contatto con una persona (definita laoban, cioè capo), indicatagli attraverso il passaparola; il laoban è in grado di fornire i documenti e il visto di ingresso per l’Italia. In questo caso, vengono organizzati lunghi viaggi “turistici” attraverso l’Europa per poi approdare a Milano, da dove sembrano proseguire autonomamente verso il luogo di destinazione finale per poter perseguire il loro progetto migratorio: “Ho preso l’aereo fino in Francia, poi con il pullman abbiamo girato altri paesi, tra i quali anche la Germania. In tutto ho viaggiato per una settimana. Eravamo una quarantina di persone, tutte che venivano in Italia. L’uomo a cui ho dato 8.000 euro per venire in Italia è venuto con noi fino in Francia ma poi non ha proseguito il viaggio, e noi il viaggio lo abbiamo fatto con due accompagnatori (…) alcuni di noi si sono fermati in altri paesi in cui abbiamo transitato. Abbiamo raggiunto l’Italia circa in una ventina di persone. Ci siamo fermati a Milano, alla stazione dei treni.” (int. 6, donna cinese) 8 Per alcune donne questo tipo di valutazione consente altresì di misurare la capacità di progettazione a medio-breve termine in relazione al programma di assistenza ed integrazione sociale che si intende perseguire nel caso si voglia fuoriuscire dal circuito di sfruttamento. 97 I laoban cominciano ad organizzare il viaggio solo nel momento in cui ottengono la somma richiesta e la consegna del passaporto da parte dei falsari, sul quale deve essere apposto il timbro e la fotografia della persona che deve espatriare: “Trascorso circa un mese, i documenti sono pronti e si può partire dall’aeroporto di Pechino, accompagnati da un connazionale che si fa passare per agente turistico. (…) Dai racconti delle donne non emergono, tuttavia, relazioni tra questi accompagnatori e i loro connazionali che in Italia le avviano alla prostituzione, ma tale dato ci sembra poco attendibile a causa di un loro totale riserbo rispetto a questo aspetto che più volte abbiamo cercato di approfondire ma che ci è sempre risultato impenetrabile.” (int. 19, operatrice sociale, Lecce) 2.6 L’arrivo in Italia: le condizioni di vita, le pratiche di assoggettamento e le modalità di sfruttamento Gli epicentri urbani di smistamento L’arrivo in Italia avviene prevalentemente nei grandi centri urbani che si caratterizzano per essere città di transito e/o di destinazione della tratta per periodi brevi o di media o di lunga durata. Tali luoghi, quindi, sono considerati o come luoghi di passaggio per incontrare persone per ottenere informazioni logistiche su come raggiungere un’altra città e su chi contattare; oppure come luoghi di destinazione finale dove acquisire le necessarie informazioni relative alla sistemazione alloggiativa, che non necessariamente si troverà nello stesso posto in cui si svolgerà l’attività prostituzionale. La città o paese di arrivo in Italia e la sua relativa “stabilità” presentano delle specificità a seconda dei diversi gruppi nazionali di riferimento, dell’ambito dove viene esercitata la prostituzione, nonché del radicamento territoriale e della capacità gestionale delle reti criminali coinvolte. Anche in questo caso, l’esempio del gruppo cinese è abbastanza paradigmatico: “Milano è un epicentro importante perché è un grande centro di informazioni. Un cinese che viene in Italia può anche andare a Prato. Ma i cinesi dicono che Prato è un luogo dove gli altri cinesi ti fregano perché ci sono delle realtà troppo radicate e parcellizzate e quindi è molto difficile creare nuovi spazi e forme di inserimento.” (int. 21, operatore sociale, Milano) Da Milano, dunque, le donne cinesi si spostano verso altre città d’Italia, dove trovano sia una sistemazione abitativa in appartamento che la loro sede 98 di “lavoro”, ovvero dove praticano l’attività prostitutiva (quando l’una e l’altra non coincidano). A Milano giungono nel quartiere noto come “Chinatown” (via Paolo Sarpi, via Bramante e via Procaccino), dove si possono orientare anche qualora non vi sia qualcuno ad attenderle, grazie alle informazioni che possono reperire nei numerosi volantini scritti nella propria lingua e affissi in strada o presso un albergo a gestione interamente cinese. Un attento monitoraggio di tale documentazione può diventare una fonte di inestimabile valore per tutti coloro, operatori sociali e/o di polizia, che intendano raccogliere informazioni indirette rispetto alle dimensioni e alla localizzazione della prostituzione indoor in un determinato contesto territoriale. E non è un caso, infatti, che alcune attività investigative siano partite proprio da tali fonti. Anche per le donne latino-americane Milano rappresenta un centro importante, soprattutto per le relazioni interne alla comunità culturale di appartenenza, nell’ambito della quale possono condividere anche la routine del lavoro prostituzionale, oltre che gli spazi e i momenti di svago e di quotidianità al di fuori dei ritmi lavorativi: “Facevamo circa venti clienti a notte… la notte era lunga e in strada ho sentito tanto freddo… mamma mia, che freddo. Eravamo quasi tutte sudamericane, uruguayane, brasiliane, venezuelane… non a caso sono andata lì, in strada c’era sempre uno che controllava che non ci facessero del male. Sai… quel Natale e Capodanno abbiamo fatto il ‘puta party’, mi viene ancora da ridere. Eravamo tutti uguali, tutti di strada e tutti nella stessa condizione. Che risate… mi farebbe piacere sapere che ne è stato di molti di loro, perché alla fine vivere le stesse esperienze ti unisce: ci proteggevamo e ci aiutavamo tra di noi.” (int. 9, donna uruguayana) Per quanto riguarda le donne rumene, che attualmente rappresentano il gruppo nazionale più numeroso, abbiamo rilevato alcune differenziazioni tra coloro che esercitano la prostituzione al chiuso e coloro che la esercitano in strada. Le donne rumene vittime di grave sfruttamento che operano nell’indoor non hanno in Italia una città o una zona di arrivo privilegiata adibita a “raccolta e smistamento”. I luoghi di destinazione sono infatti diversificati territorialmente e coincidono con le aree di operatività delle reti di sfruttamento. L’essere diventate cittadine neocomunitarie e, quindi, non avere più problemi collegati all’ingresso e alla permanenza in Italia, e il radicamento territoriale degli appartenenti alle reti criminali consentono alle potenziali vittime di raggiungere direttamente i luoghi in cui verranno sfruttate. Una situazione decisamente diversa è stata registrata per quante vengono destinate all’esercizio della prostituzione di strada, in particolare per un nuovo gruppo emergente, ovvero quello costituito dalle giovani – e anche minorenni – donne rumene di origine rom. Fino agli anni 2002-2003, le 99 donne rumene (di cui soltanto una piccola parte era di origine rom), che arrivavano in Italia attraverso la rotta terrestre, trovavano nel territorio del Nord-est (e in particolare sull’asse Venezia, Padova e Verona), la prima area di arrivo e di successivo smistamento per tutto il territorio nazionale. Con la comparsa significativa delle donne rom nella prostituzione di strada, controllate da reti di sfruttamento del proprio gruppo di appartenenza (in molti casi anche dalle rispettive famiglie), in grado di gestire tutto il ciclo prostituzionale (dal reclutamento fino allo sfruttamento in loco), Roma è diventata lo snodo principale di arrivo e di distribuzione territoriale non solo regionale ma anche nazionale della prostituzione rumena. Le giovani donne (minorenni comprese) vengono dapprima iniziate alla prostituzione in un dato luogo per poi essere successivamente spostate in altri territori; in molti casi, dopo essere state vendute ad organizzazioni criminali anche di altre nazionalità, come – ad esempio – quelle albanesi che mantengono una posizione consolidata da anni nel mercato dello sfruttamento della prostituzione. Le cause che contribuiscono a creare un determinato tipo di rapporto tra un certo territorio e uno specifico gruppo di persone che si prostituiscono in condizioni di assoggettamento possono essere molteplici e diversificate. Dagli elementi emersi dalle interviste possiamo però ritenere che Roma rappresenti un contesto favorevole in quanto riesce a mettere in relazione e a creare sinergie tra la numerosa comunità rom (di origine rumena) insediatesi sul suo territorio da antica data – e quindi fortemente radicata sia socialmente che economicamente – e gli ultimi arrivati, ossia i rom resi sedentari (durante il regime comunista) provenienti non solo dalla Romania ma anche dalla Bulgaria e, in misura minore, dall’Ucraina. Questi ultimi sono stati rimessi “in movimento” dai recenti processi di esclusione e di marginalità sociale di cui sono diventati vittime all’indomani della caduta del Muro di Berlino e della dissoluzione dell’impero sovietico. Si tratta di persone caratterizzate da un forte nomadismo e da relazioni di tipo clanico-familiare che consentono continui spostamenti non sono sul territorio nazionale, ma in tutti i paesi della Comunità europea. A questi nuovi gruppi appartengono sia le donne sfruttate che i loro sfruttatori: “Dalla Bulgaria sono partita anche con questa ragazza che mi doveva accompagnare fino in Francia, dove dovevo essere presa dalle ragazze che già vi lavoravano, più questa minore che stava lì a Parigi per un mese. Il giorno dopo siamo andate a comprare il biglietto e io con questa ragazza siamo partite per l’Italia, per Roma.” (int. 1, minore bulgara) “Lo sfruttatore ha deciso di spostarsi a Roma, presso un campo di nomadi rom rumeni, in cui si trovavano già dei suoi parenti. S. ha raccontato di avere viaggiato in treno con *** da Verona a Roma, dove, alla stazione, hanno incontrato il fratello di ***, il quale le ha accompagnate presso il campo nomadi sito in zona Tiburtina. 100 Presso il campo S. ha avuto modo di vedere che ** era sposato, che aveva 11 figli che vivevano tutti quanti nelle ‘baracche’ del campo. Ha raccontato di essere stata costretta da *** a prostituirsi sulla strada Tiburtina, vicino ad un chiosco dei panini.” (relazione 2, minore rom) Le pratiche di assoggettamento Anche le pratiche di assoggettamento risultano essere diversificate in base al gruppo nazionale di appartenenza, alla tipologia delle reti criminali e ai diversi ambiti di sfruttamento; tuttavia, è qui importante sottolineare che la storia personale di ciascuna vittima è sempre e comunque di per sé unica. È significativo rilevare che la voluta assenza di informazioni sulla normativa italiana rappresenta una pratica di assoggettamento specifico utilizzata dalle reti criminali a danno delle persone sfruttate in luoghi al chiuso. L’effetto prodotto da tale strategia risulta piuttosto evidente nelle donne rumene, che appaiono disorientate e progressivamente incapaci di attivare un qualsiasi comportamento indipendente. Dalle interviste è emerso che molto spesso le donne, soprattutto le più giovani e in particolar modo quelle se hanno una relazione affettiva con chi che le ha portate in Italia, non si chiedono quali siano le regole di ingresso e di soggiorno sul territorio italiano, e ciò contribuisce a renderle psicologicamente e socialmente vulnerabili: “Io non sapevo minimamente quali fossero le regole di ingresso in Italia; credevo che con il passaporto e con il timbro che mettono alla frontiera si potesse stare.” (int. 16, donna rumena) La clandestinità è uno dei fattori che favoriscono l’assoggettamento delle donne all’organizzazione criminale, in quanto rappresenta l’elemento sul quale lo sfruttatore o la sfruttatrice può far leva per ricattarle insieme alle minacce (anche a danno dei parenti in patria) quando esse si rifiutano di esercitare la prostituzione: “Ci aveva detto che se uscivamo di casa la polizia ci prendeva. ‘Devi rimanere chiusa in casa’ mi diceva (…) e che se provavo a scappare o a denunciare mi ammazzava, mi mandava in Brasile ma non in piedi, da distesa, morta. Avevo paura.” (int. 4, donna brasiliana) Per poter esercitare uno stretto controllo sulle proprie vittime, le organizzazioni criminali sottraggono loro il passaporto o altri documenti di identità non appena esse arrivano in Italia: 101 “I miei documenti originali li aveva sempre con lei, la mia sfruttatrice, e mi minacciava, mi controllava.”(int. 4, donna brasiliana) “Mi dicevano che non potevo uscire sola perché non conoscevo il posto, non parlavo l’italiano e non avevo i documenti (…) io avevo paura di lei. Ad un certo punto avevo anche pensato di scappare, ma non sapevo dove andare, non sapevo parlare, ero costretta a stare là.” (int. 8, minore rumena) Le pratiche utilizzate per assoggettare le donne nigeriane, a distanza di anni dalla comparsa di tale gruppo nazionale sulle strade italiane, continuano ad essere le stesse, ovvero quelle legate a ritualità magiche e religiose. Le conoscenze acquisite nel corso degli anni ci hanno permesso di capire che tali riti hanno una doppia valenza: una negativa e l’altra positiva. La prima mira a incutere paura alle donne che giurano di restituire i soldi ottenuti in prestito per l’espatrio, la seconda ad auspicare una buona e fruttuosa emigrazione. I riti magico-rituali da pratiche positive ed augurali possono trasformarsi in pratiche negative o viceversa. Le interviste realizzate hanno fatto emergere l’esistenza di un nuovo elemento nell’ambito del contesto qui esaminato, ovvero che tali ritualità possono essere soggette a modifiche ad opera di figure religiose considerate autorevoli dalla comunità locale o dalle singole donne che praticano la prostituzione; figure che possono intercedere nella soluzione dei problemi e dei conflitti sorti tra le parti. Dalle informazioni raccolte risulta che alcune madam ricorrono all’ausilio di veri o presunti “pastori”9 per realizzare le pratiche magico-religiose che, un tempo, venivano eseguite in casa spesso dalla stessa madam o da una conoscente. Ciò significa che la gestione del sistema di sfruttamento della prostituzione nigeriana non è più una totale esclusiva delle donne. L’entrata in scena dei “pastori”, nel ruolo di “religiosi” officianti i riti funzionali all’assoggettamento delle donne da sfruttare o sfruttate, rappresenta un elemento di novità favorito dal proliferare delle cosiddette “mini maman”, ossia madam che gestiscono la prostituzione di 2-3 connazionali. In effetti, in questi ultimi anni, si è registrato un rilevante l’intreccio tra lo sfruttamento della prostituzione nigeriana e il proliferare di gruppi religiosi, appartenenti anche alle chiese evangeliche operanti sia in Nigeria che in Italia. Le chiese spesso si prestano alla raccolta di denaro ed è pertanto possibile che queste diventino strumenti per l’erogazione 9 Non vanno confusi – anche se il nome usato è simile – con i pastori officianti delle chiese evangeliche protestanti riconosciute ampiamente come tali dalle comunità nigeriane nelle città di insediamento. Il pastore – inteso come guida spirituale – delle chiese evangeliche non c’entra nelle pratiche woodoo, ma il termine viene abusivamente utilizzato dalle maman per imbrogliare le donne che esercitano per lei la prostituzione. 102 di prestiti ai propri aderenti e, quindi, involontariamente finanzino i circuiti della prostituzione. In qualche caso, le donne nigeriane intervistate hanno affermato che alcuni officianti disonesti finanziano gruppi religiosi e attività caritatevoli o meno, anche attraverso i proventi della prostituzione. Dalle indagini di polizia, infatti, è risultato che qualche pastore disonesto è stato coinvolto direttamente nello sfruttamento della prostituzione. I luoghi dello sfruttamento L’ampliarsi delle tipologie dei luoghi di sfruttamento rappresenta una delle trasformazioni principali del complesso fenomeno del mercato della prostituzione e della tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Tale modifica ha permesso alle pratiche di sfruttamento di assumere un marcato carattere di invisibilità poiché esse si concretizzano all’interno dei “circuiti chiusi” di prostituzione, quali i locali notturni, gli appartamenti e le case private. Da notare anche l’incremento registrato della forma di tipologia mista di esercizio della prostituzione alternata tra strada e appartamenti. Il rapporto con la comunità locale – autoctona e non – è meno problematico quando si pratica il lavoro “invisibile”, ossia quando la prostituzione è svolta all’interno degli appartamenti invece che in strada che, per ovvie ragioni, rende la prostituzione un’attività molto visibile. L’invisibilità aumenta la vulnerabilità delle donne che si prostituiscono e diminuisce sensibilmente la possibilità di chiedere aiuto o di entrare in contatto con chi può fornire informazioni utili sui propri diritti e sulle possibilità di fuoriuscita dallo sfruttamento. Negli appartamenti il lavoro è spesso continuativo e viene gestito attraverso il telefono: “In appartamento non avevamo orari, chiamava il cliente e si fissava l’appuntamento entro un quarto d’ora.” (int. 4, donna brasiliana) In alcuni casi, il lavoro viene effettuato in determinate fasce orarie che, tuttavia, comprendono un arco di tempo molto lungo e, a volte, anche l’esercizio della prostituzione in strada: “Nell’avviso lei aveva scritto che io lavoravo dalle dieci della mattina fino alle dieci/undici di sera, e poi la sera lei lavorava in strada. Il mio nome era Monica. Mi chiamavano e al telefono rispondevo io e davo l’indirizzo; gli dovevo dire dove abitavo e loro arrivavano.” (int. 9, donna uruguayana) 103 Il lavoro in appartamento viene organizzato attraverso gli annunci sui giornali o su volantini lasciati in particolari luoghi pubblici: “I giorni seguenti (lo sfruttatore, Nda) ha portato me e le altre ragazze a fare le foto per mettere gli annunci sul giornale. A quel punto mi ha preso il passaporto vero e ne ha usato uno falso, dicendomi che ero minorenne e perciò non andava bene usare il mio vero documento.” (int. 8, minore rumena) In appartamento il controllo da parte degli sfruttatori è spesso elevato e particolarmente accentuato nei casi di segregazione. Gli sfruttatori – o i loro collaboratori (vivandieri, autisti, etc.) – si relazionano con le donne su tutto; anche perché le vittime di tratta sovente non sono in grado di sapere effettivamente dove si trovano, in quale città sono capitate e dove è ubicato l’appartamento in cui sono rinchiuse: “Gli sfruttatori non ci permettevano di andare fuori; eravamo sempre in casa. Se uscivano ci chiudevano in casa e io non conoscevo l’Italia, non sapevo nulla, non sapevo come orientarmi.” (int. 28, donna kenyota) “Non ero in una casa, ma in una specie di garage vicino al mare. C’ero soltanto io. Non c’erano le finestre, ma avevo soltanto un piccolissimo balconcino. Ero praticamente sola, con i guardiani che mi controllavano.” (int. 32, donna rumena) Le modalità di lavoro e di sfruttamento Come si è già sottolineato, la giornata tipo di coloro che si prostituiscono in appartamento si caratterizza per le condizioni alienanti derivanti dal dover lavorare per molte ore di seguito in quanto le pause previste per mangiare e riposare sono poche, in quanto “tutte le ore sono buone per ricevere i clienti”. La maggior parte delle donne lavora nello stesso appartamento in cui convive con altre connazionali. Spesso si tratta di gruppi composti da due o tre persone, a cui gli sfruttatori intimano di uscire il meno possibile per non rischiare di essere intercettate dalla polizia sprovviste di documenti. Le reti criminali dell’Europa dell’Est e dell’America Latina tendono a reperire appartamenti ubicati in aree periferiche e/o ad elevata densità e mobilità (es. luoghi in prossimità di stazioni ferroviarie o di autobus, di uscite e snodi autostradali, etc.). Esse privilegiano soluzioni abitative come i residence dislocati prevalentemente in periferia: “era come stare in campagna”, ha ricordato un’intervistata. I residence, infatti, garantiscono l’anonimato e la riservatezza sia di chi si prostituisce che dei clienti. L’appartamento in città solitamente viene scelto al pianoterra o al primo piano: 104 “Durante il giorno stavo in casa (…) però non è che pulivo tutta la casa, solo quello che sporcavo io, perché c’era la gente del residence che faceva le pulizie in casa. Quelli del residence sapeva che lei (la sfruttatrice, NdA) svolgeva questa attività, ma non le hanno mai detto niente perché lei aveva parlato all’inizio con il titolare del residence (…). Il residence era tutto controllato con le telecamere. Al titolare del residence non importava nulla, solo che non si facesse casino, che non si facesse rumore, perché ci abitavano anche famiglie normali.” (int. 9, donna uruguayana) Le donne cinesi lavorano in appartamenti siti in zone centrali delle città, controllate, anche se non attraverso la presenza costante, da altre donne e uomini connazionali. Anche coloro che si prostituiscono all’interno dei night club, le donne sono sottoposte a un controllo elevato e sono costrette a ritmi lavorativi molto sostenuti: “Vivevamo in una grande villa dove non c’erano solo i miei sfruttatori. Ce ne erano anche altri con altre ragazze, c’era un giro grandissimo. Ci portavano al lavoro al night intorno alle 22.00 e alle 6.00 di mattina ci portavano a casa. Il resto del tempo lo passavamo a dormire, non tanto però, non ce lo permettevano. Poi dovevamo fare le pulizie, mangiare e prepararci per la sera. Non uscivo mai, ero controllata a vista, non potevo fare telefonate né avere amici.” (int. 11, minore rumena) L’elemento della mobilità come strategia di sfruttamento La mobilità, ovvero il ciclico cambiamento di contesto e di territorio di lavoro a cui sono sottoposte le persone sfruttate nella prostituzione, risulta essere un elemento funzionale agli interessi delle organizzazioni criminali. La mobilità, infatti, risponde all’esigenza di rendere sempre nuova l’offerta per la clientela che si rivolge al mercato di sesso a pagamento e, nel contempo, alla necessità di ridurre il rischio di perdita dei proventi per obsolescenza della “merce”: “Appena arrivata in Italia mi hanno portato in un appartamento a Jesolo dove vivevano altre tre ragazze romene. In seguito ho saputo che le ragazze si muovevano spesso tra Jesolo, Cervia Milano Marittima, Bilione, Peschiera del Garda”. “*** aveva l’abitudine di spostare noi ragazze al massimo ogni tre mesi, sia perché i clienti vogliono le novità, sia per la sicurezza (di non essere intercettati dalla polizia, NdA).” (int. 11, minore rumena) La mobilità impedisce alla persona di orientarsi nello spazio in un territorio che non conosce e di consolidare relazioni che possano consentirle di raccogliere informazioni, accedere ai servizi territoriali, canalizzare richieste di aiuto: 105 “In Italia fra i gestori dei vari circoli/night e anche i circuiti degli appartamenti ci sono dei passaggi di ragazze. La mobilità diventa una questione di ‘mercato’, poiché un circolo non può offrire sempre le stesse ragazze ai clienti ed è necessario un turn over, ma è anche una questione di sicurezza rispetto a possibili indagini. La mobilità avviene sia nello stesso territorio che fra territori diversi nell’ambito nazionale.” (int. 17, operatrice sociale, Arezzo) Nella prostituzione al chiuso, la mobilità abitativa quasi sempre avviene all’interno di circuiti ben definiti e le abitazioni vengono reperite attraverso agenzie immobiliari. Per la pubblicizzazione dei messaggi erotici – che tendono ad essere sempre gli stessi – vengono adoperate le apposite concessionarie che si occupano per i giornali della raccolta degli annunci a pagamento: “L’appartamento era ubicato sul lago”. “L’attività si svolgeva sempre attraverso annunci sui giornali, uno dei quali era la Gazzetta di Mantova.” “Andavo una volta alla settimana, oppure ogni due, a Mestre per inserire annunci.” “Ogni lunedì andavo a Mestre per mettere gli annunci… scrivevo annunci su Il Messaggero Veneto, la Tribuna di Treviso e su Cittànostra. Era *** a dirmi su quali giornali pubblicizzare gli annunci.” “Sono andata a Grado per cercare un appartamento e l’ho trovato… continuavo però ad andare a Mestre per inserire gli annunci su Il Messaggero Veneto e Il Piccolo di Trieste.” (int. varie) L’elevata mobilità delle donne cinesi risulta essere garantita da una forte organizzazione criminale capace di dirigere ed effettuare gli spostamenti grazie ad una capillare rete di sistemazioni alloggiative dislocati su tutto il territorio nazionale; la regia organizzativa di tali operazioni è centralizzata ed opera da Milano: “La vita si svolge tra il continuo riferimento a questo albergo situato in via Paolo Sarpi a Milano, dove si vive insieme ad altri connazionali, e gli appartamenti nei quali si prostituiscono le donne cinesi; appartamenti che non presentano condizioni ambientali degradanti ma, al contrario, appaiono ben accoglienti.” (int. 19, operatrice sociale, Lecce) “C’è una grandissima mobilità delle ragazze cinesi sul territorio. È stato evidenziato da tutte le indagini; ci sono organizzazioni forti dietro a queste ragazze.” (int. 18, operatore sociale, Milano) In genere, le donne cinesi trascorrono un periodo massimo di 20-30 giorni in un appartamento per poi spostarsi in altre città. Nelle interviste esse hanno dichiarato che ai clienti piace cambiare donne, ma è più verosimile che la mobilità territoriale venga utilizzata dagli sfruttatori come una strategia per 106 non dare troppo nell’occhio. Il turn over delle donne è dunque piuttosto alto, sia per una questione legata alla “domanda di mercato” che per motivi di sicurezza dell’organizzazione criminale: “Si è di fronte ad un’evoluzione della prostituzione perché le organizzazioni capiscono che è meglio stare negli appartamenti che su strada… Le cinesi, abbiamo visto essere un fenomeno nuovo degli ultimi due anni, si spostano ogni mese, ogni due mesi. C’è molto ricambio perché sono soggette alla volontà delle organizzazioni; difficilmente si trovano cinesi che si prostituiscono in maniera autonoma” (int. 15, operatrice sociale, Pescara) 2.7 Gli sfruttatori e l’organizzazione dello sfruttamento: le percezioni delle vittime Le reti di sfruttamento Il profilo dei singoli magnaccia e quello dell’organizzazione dedita allo sfruttamento della prostituzione si differenziano in base al loro paese di provenienza. Gli sfruttatori a capo delle varie organizzazioni criminali sono prevalentemente di genere maschile e, nella maggior parte dei casi, sono originari dello stesso paese delle persone che sfruttano, anche se frequenti sono le organizzazioni “miste”. Queste ultime operano, in particolare, all’interno dei night club e di altri tipi di locali ad intrattenimento notturno. Forte è la presenza di italiani sia tra i gestori dei locali che tra gli intermediari e i reclutatori nei paesi di origine. Attualmente, le organizzazioni criminali che si occupano di prostituzione di strada possono essere di nazionalità miste, soprattutto nei casi in cui gli sfruttatori non controllano direttamente le aree di lavoro, ma le prendono in “affitto” da altre reti criminali, in genere di origine albanese. Queste ultime, infatti, da tempo costituiscono le organizzazioni criminali storiche, essendo presenti in questo settore fin dalla prima metà degli anni ’90; per tale ragione vantano un’esperienza più che decennale con alti livelli di specializzazione e di tipo manageriale. Nell’ambito della prostituzione nigeriana, la maman è nota quale persona chiave che gestisce lo sfruttamento delle donne e che demanda a figure maschili le azioni sanzionatorie, anche violente. Quello delle maman è un fenomeno fondato su un rapporto di sfruttamento individuale. Il meccanismo di sfruttamento è rappresentabile con la metafora della catena, in quanto formata da anelli correlati tra loro. Infatti, la maman istaura con altre maman di rango inferiore (“mini maman”) rapporti di sudditanza, giacché presta 107 denari, offre competenze e copertura organizzativa per le questioni più delicate. La mini maman, dunque, con i soldi ricevuti dalla maman compra altre ragazze/donne e le costringe a prostituirsi per lei: offre loro piccoli prestiti per l’acquisto di vestiti, per l’affitto di casa, eccetera. Queste ultime si obbligano con la mini maman ed entrano nel circuito prostituzionale, lavorano per lei e fanno capo alla sua organizzazione che, sovente, comprende persone del proprio gruppo parentale o assimilabile come tale. Questo meccanismo mette in evidenza come, da una parte, la prostituzione di strada rimanga la principale forma di economia di una piccola parte delle comunità femminili nigeriane presenti in Italia; dall’altra, grazie ai forti condizionamenti psicologico-affettivi e culturali agiti, l’attività prostituzionale appaia alle dirette interessate come un destino ineluttabile che potrà essere mutato solo dopo aver estinto il debito contratto dalla propria mini madam di riferimento. A questo punto, come in un rito di passaggio all’interno di un moto perpetuo, la persona trafficata sarà “libera” dallo sfruttamento, ma nello stesso tempo, per le condizioni di clandestinità e le modalità di riproduzione dei rapporti sociali tra la comunità femminile nigeriana, sarà destinata a diventare una nuova mini madam che, a sua volta, contrarrà un debito per comprare una persona che si prostituirà per lei. Gli sfruttatori delle donne cinesi risultano essere dei loro connazionali provenienti dalla stessa area geografica, regolarmente presenti sul territorio italiano, impiegati in attività lavorative ufficiali (prevalentemente negozianti). Sembra che, in genere, si tratti di persone potenti, ricche e rispettate sia nel paese di origine che nella comunità cinese in Italia: “Tutte le donne dicono di aver conosciuto in Italia i loro sfruttatori, ma registriamo una forte reticenza a parlarne, probabilmente dovuta allo status elevato dello sfruttatore.” (int. 19, operatrice sociale, Lecce) Le donne cinesi solitamente lavorano come “massaggiatrici”, agganciando i clienti attraverso annunci pubblicati sui giornali. I proventi della prostituzione risultano essere raccolti spesso da un’altra donna. In base alle informazioni raccolte attraverso le interviste, le donne cinesi approdano alla prostituzione dopo aver già fatto un’esperienza lavorativa all’interno della comunità di appartenenza: “Dopo un certo periodo di tempo trascorso a lavorare per sedici ore al giorno, senza mai uscire e con una retribuzione di 600 euro al mese, decidono, sfinite e allettate da guadagni sicuramente migliori e da tempi di permanenza inferiori fuori dal loro paese, di avviarsi alla prostituzione attraverso l’intermediazione di cinesi 108 regolari che provvedono ad organizzare (…) annunci sui giornali, affitto di appartamenti in cui svolgere l’attività e spartizione dei compensi.” (int. 19, operatrice sociale, Lecce) Gli sfruttatori provvedono a rifornire l’appartamento con cibo e profilattici e ad accompagnare le donne a fare acquisti di prodotti che servono per lo svolgimento del lavoro, come capi di abbigliamento, creme, trucchi, eccetera. Provvedono anche a far pubblicare gli annunci sui giornali locali e a tornare ogni 15 giorni per riscuotere i soldi dell’affitto e i guadagni dell’attività prostituzionale. Dalle interviste realizzate alle donne accolte nei progetti di assistenza ed integrazione sociale, è emersa l’esistenza di un triplo ambito di sfruttamento: uno in strada, l’altro in appartamenti e un altro ancora in bordelli clandestini di cui non si conoscono le modalità di ingresso poiché accessibili soltanto ad una clientela selezionata. Poiché ci si trova di fronte a modelli prostituzionali nascosti e rivolti ad una clientela cinese elitaria, non è ancora possibile capire se l’esercizio della prostituzione sia configurabile come paraschiavistico oppure no: “Esiste una forma di prostituzione cinese legata esclusivamente ad una clientela cinese, questa si trova all’interno di alberghi clandestini (…) rilevati da imprese cinesi che li gestiscono come alberghi che non hanno nomi cinesi, verso i quali gravita il turismo d’affari cinese su Milano.” (int. 20 operatore sociale, Milano) Questo tipo di prostituzione viene praticato con modalità particolarmente discrete e resta confinato all’interno dei confini di questo mondo. Le donne che vi lavorano sono giovani, al di sotto dei trent’anni, e provengono dal sud della Cina, dalle aree storiche di immigrazione, ovvero Zeijang e Fuchen. Il cambiamento di atteggiamento degli sfruttatori o delle sfruttatrici Uno degli elementi emersi durante la ricerca che ci è sembrato particolarmente rilevante – anche perché determina la difficoltà da parte delle donne di percepire lo sfruttamento – è il cambiamento dei comportamenti e delle modalità relazionali adottati dagli sfruttatori nei confronti delle donne tra la fase di “reclutamento” nel paese di origine e l’arrivo in Italia, in particolare nella città dove verrà poi praticato lo sfruttamento. Infatti, se nella fase di reclutamento e durante il viaggio, i rapporti tra sfruttatori/sfruttatrici e donne da sfruttare sono caratterizzati da un’elevata carica empatica, da un atteggiamento protettivo e collaborativo e a volte da una relazione affettiva, la situazione cambia radicalmente nei primi giorni di permanenza nel luogo di 109 destinazione. Qui, quasi subito, alle donne viene solitamente presentato il tipo di lavoro che dovranno realmente svolgere: la prostituzione. È possibile quindi affermare che esiste un continuum tra il comportamento affettivo e quello violento che passa attraverso una serie di comportamenti intermedi. Tutte le donne intervistate hanno subito pesanti minacce da parte degli sfruttatori – in particolare nel caso avessero deciso di denunciarli – sia contro la propria incolumità che contro quella dei propri familiari. La gradualità con cui il comportamento degli sfruttatori muta spesso non permette alla persona di prevedere lo sfruttamento o la violenza che puntualmente si verificano: “I primi due giorni sono andati bene. Faceva caldo quando sono arrivata qua; siamo state in piscina, a fare delle passeggiate, però io vedevo che non andava mai a lavorare e il giorno che le ho chiesto perché non andava mai a lavorare, dopo che le ho chiesto che tipo di lavoro faceva, lei mi ha tolto il passaporto. Quando mi ha tolto il passaporto, mi ha lasciato chiusa in una stanza per una settimana e non mi lasciava neanche chiamare a casa; e un giorno mi ha detto “vestiti, preparati truccati che andiamo al lavoro!”… ed era sera. E lì ho capito tutto.” (int. 9, donna uruguayana) Quello dell’organizzazione è spesso l’unico contesto relazionale di riferimento che le donne hanno in un paese in cui vivono private dei documenti di identità e del titolo di soggiorno, e con una scarsa padronanza della lingua italiana. Tali elementi aggravano la situazione di insicurezza e di paura delle donne, inasprita anche dall’immagine negativa che le organizzazioni criminali forniscono loro delle forze dell’ordine italiane: “Lo stato di clandestinità aggrava la dipendenza dagli sfruttatori dovuta alla non conoscenza della lingua italiana, dei luoghi, delle norme proprie dello stato in cui si ci ritrova.” (int. 19. operatrice sociale, Lecce) “La mia sfruttatrice mi diceva ‘guarda, io lavoro in strada e tu devi andare a lavorare perché adesso mi devi pagare il biglietto del viaggio; io ti ho fatto arrivare fino a qua e non ti lascio andare, io ho il tuo passaporto, non hai dove andare né a chi chiedere aiuto.’” (int. 9, donna uruguayana) La percezione e la rappresentazione dello sfruttamento da parte delle vittime Le strategie relazionali utilizzate dagli sfruttatori incidono fortemente sulla percezione che le donne hanno dello sfruttamento subito, che secondo l’ordinamento giuridico italiano è un reato normativamente ascrivibile e perseguibile. Dalle interviste realizzate, è emersa con forza la crescente 110 difficoltà delle vittime di tratta a riconoscersi come tali, a prendere coscienza del loro essere assoggettate ad una volontà esterna. Tale difficoltà è presente in tutti i gruppi nazionali ed è maggiormente marcata tra le donne che lavorano nei locali notturni, soprattutto se l’organizzazione criminale che le sfrutta è composta anche da italiani: “Sono stata con lui due settimane lavorando in strada… tutte le sere dovevo dare la metà dei soldi a lui e con i restanti soldi dovevo pagarci l’albergo dove stavo. Lui non stava in albergo con me. Non era cattivo e mi lasciava libera di uscire; se ero stanca potevo restare in albergo o tornare prima… insomma, mi trattava bene. Lui non mi picchiava e, infatti, dopo non l’ho denunciato.” (int. 22, donna rumena) Le donne cinesi che esercitano la prostituzione tendono a dire di sé che praticano massaggi erotici e che non hanno rapporti sessuali con i clienti e, quindi, che non si sentono delle prostitute. Questo fattore è importante sul piano culturale perché la prostituzione in Cina, per quanto abbia oramai raggiunto delle dimensioni significative, è fortemente stigmatizzata a livello sociale. È punita con manifestazioni pubbliche, durante le quali le donne vengono esposte e offese apertamente, mentre lo sfruttamento della prostituzione è condannato con pene severe, finanche a quella capitale. Non è un caso, quindi, che per le donne cinesi, il fattore scatenante che può portarle a denunciare gli sfruttatori sia la richiesta di effettuare prestazioni sessuali che non reputano praticabili. Quando sono costrette con la violenza a pratiche sessuali che ritengono contrarie al loro modo di concepire il sesso a pagamento, scatta in loro il rifiuto, il ripensamento rispetto a quanto stanno facendo e – in alcuni casi – matura la consapevolezza dello sfruttamento vissuto. Le donne cinesi, quindi, tendono a non auto-rappresentarsi come vittime di uno sfruttamento o come vittime, in particolare, della tratta; sembra che per loro non sia facile accorgersi di tale condizione (almeno a quanto ne sappiamo in questa fase di approfondimento delle conoscenze). In ogni caso, la percezione che queste donne hanno dei propri sfruttatori è quella di persone che stanno cercando di portare avanti il loro business e, quindi, di soddisfare in tal maniera il loro progetto migratorio: “L’impressione che abbiamo – quando parliamo con le donne cinesi che afferiscono ai servizi, ancora poche per la verità – è che evitino anche di dare semplicemente dei giudizi o di riconoscersi vittime di una rete di trafficanti. È anche difficile capire se tutto questo è provocato dalla paura o da un modello culturale che impedisce loro di ammettere che solo una rete ben organizzata in cui colludono politici e mafia può permettere un esodo di ‘clandestini’ quasi istituzionalizzato.” (int. 19, operatrice sociale, Lecce) 111 Quando le donne cinesi vengono a conoscenza del fatto che anche in Italia lo sfruttamento della prostituzione è un reato, in loro prevale un sentimento di rabbia mista a paura verso gli sfruttatori, soprattutto quando vengono trattenute nei Centri di permanenza temporanea (Cpt) perché irregolarmente presenti sul territorio italiano. 2.8 La modalità di fuoriuscita dallo sfruttamento Prendere coscienza dello sfruttamento Dall’analisi delle interviste emerge che la fuoriuscita dalle condizioni di sfruttamento – e l’individuazione degli elementi che la favoriscono – avviene con la presa di coscienza dello sfruttamento subito e con il delinearsi delle possibilità di ricevere aiuto e protezione. L’elemento che più degli altri appare determinante nella scelta di abbandonare la situazione di sfruttamento è la presa d’atto del mancato rispetto, da parte degli sfruttatori, del “contratto” stipulato. La rottura quindi può avvenire per motivi economici ma anche per le violenze e le coercizioni a cui sono state sottoposte; in ogni caso, vi è sempre un momento specifico in cui la donna si rende conto che la realtà che sta vivendo è molto diversa da quello che si aspettava e che non è più in grado di sostenere l’investimento emotivo e fisico richiesto. La rottura è ulteriormente favorita nel caso in cui la persona costruisca delle relazioni con interlocutori esterni alla rete di sfruttamento (clienti sensibili, operatori e operatrici dei servizi socio-sanitari, delle unità di strada, del Numero verde anti-tratta, delle forze dell’ordine, etc.). In particolare, è emerso con forza quanto, nel processo di presa di coscienza dello sfruttamento subito, incida la rappresentazione dei due interlocutori potenzialmente più forti a disposizione sul territorio italiano: le forze dell’ordine e gli operatori e le operatrici sociali. Affinché il processo di fuoriuscita avvenga nella maniera più efficace e più tutelante possibile, è necessario che vi sia un buon lavoro di sinergia e di condivisione di buone prassi tra l’azione sociale e quella delle forze dell’ordine; questa collaborazione è importante soprattutto nella prima fase di sganciamento dall’ambito di sfruttamento; successivamente è necessario che vi sia un forte raccordo anche con l’autorità giudiziaria. Le forze dell’ordine come elemento di supporto nella fuoriuscita Rispetto alla delicata fase della fuoriuscita dalla condizione di sfruttamento, abbiamo considerato con particolare attenzione i rapporti con le forze 112 dell’Ordine nell’esperienza delle vittime; rapporti costruiti nonostante la rappresentazione negativa – veicolata o rafforzata da chi le sfrutta – che esse hanno non solo della polizia italiana ma anche di quella del loro paese di origine. Certo, non mancano esempi in cui agenti disonesti approfittano delle donne che esercitano la prostituzione. La difficoltà ad avere fiducia nelle forze dell’ordine è stata bene descritta da una donna rumena intervistata, riferendosi ad una fase della sua vicenda svoltasi nel paese di origine: “La mattina gli facevo le pulizie e la sera mi portava i clienti. La polizia sapeva di lui (lo sfruttatore) e anche gli altri. A volte quando avevano delle segnalazioni intervenivano, altre volte si mettevano d’accordo con gli sfruttatori per prendere la metà dei loro guadagni; oppure si accontentavano di andare con le ragazze senza pagare.” (int. 22, donna rumena) Per gli sfruttatori risulta evidentemente funzionale creare un clima di sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine italiane: “Mi picchiavano se non lavoravo, oppure parlavano brutto con minacce verbali: ‘Se fai questo io ti porto alla polizia. Sai che sei in Italia e che qui non puoi stare’ … Io per forza credevo, non sapevo come erano le cose e così credevo a quello che mi dicevano. Ero impaurita e pensavo che andare dalla polizia era pericoloso.” (int. 28, donna kenyota) Spesso, anche a seguito di alcuni spiacevoli episodi accaduti in Italia, le donne possono maturare una percezione particolarmente negativa delle forze dell’ordine, il cui interesse principale – ai loro occhi – risulta essere unicamente il controllo dell’immigrazione irregolare attraverso azioni di tipo repressivo e nessuna considerazione della tutela dei diritti delle persone in difficoltà, soprattutto quando si tratta di vittime di grave sfruttamento: “In Questura di … mi avevano dato la carta di espulsione e mi hanno accompagnato a … Io veramente ero stanca perché mi avevano preso le impronte e le fotografie e anche mi avevano chiesto la denuncia. Io mi ero arrabbiata perché avevo fatto la denuncia, ma loro non avevano fatto niente come se la colpa fosse mia. La mia colpa è stata di fidarmi di gente del genere, va bene, però non è che sono venuta qua per fare la prostituta.” (int. 4, donna brasiliana) Nonostante le percezioni negative, spesso elaborate strumentalmente dagli sfruttatori, le forze dell’ordine in realtà rappresentano spesso, e soprattutto nel contrasto dello sfruttamento all’interno dei circuiti chiusi della prostituzione, il canale di emersione più importante. Il primo contatto tra la donna sfruttata e le forze dell’ordine è fondamentale ed influenza tutto il processo successivo; 113 soprattutto quando le vittime devono decidere se fidarsi delle istituzioni italiane e se sporgere denuncia per lo sfruttamento subito: “Ci hanno portato in Questura e ci hanno dato il decreto di espulsione (…) al mio ragazzo abbiamo spiegato che ci aveva preso la polizia (…). Lo sbaglio della polizia è stato di non averci chiesto niente. Io non so se sarei riuscita a denunciarlo, però, se la polizia ci avesse spiegato di più come stavano le cose, le nostre possibilità, forse avrei raccontato (…) o magari se ci avesse indirizzato ad un’associazione (…) ma la polizia non ha avuto molto interesse nei nostri confronti (…) io credo che la polizia avrebbe potuto fare molto di più.” (int. 16, donna rumena) La decisione di denunciare, sia quando viene maturata fin da subito, sia in un secondo momento, rappresenta uno dei momenti topici del rapporto che le donne costrette alla prostituzione intraprendono con le istituzioni. Si tratta di un’opportunità fondamentale, poiché la donna ha l’occasione di rivalersi sugli sfruttatori e di riprendere in mano la propria sorte e il proprio progetto migratorio. Inoltre, si tratta di giocare un ruolo attivo che potenzia, innanzitutto, il livello di autostima e la capacità di reagire alle difficoltà e ritrovare così la voglia di vivere e la capacità di rielaborare l’esperienza vissuta. L’intraprendere un programma di assistenza e di integrazione sociale lavorando assieme agli educatori e ad altre persone che hanno vissuto un’esperienza analoga consente l’attivazione di un confronto importante e l’elaborazione delle capacità di rimettersi in gioco. È di fatto una riorganizzazione mentale accompagnata dall’azione di sporgere formale denuncia contro i propri aguzzini; è un primo passo verso l’autonomia e l’autodeterminazione. Gli operatori sociali e la funzione della mediazione linguistico-culturale Anche sugli operatori e le operatrici sociali, le persone vittime di tratta elaborano delle rappresentazioni sulle quali basano la prima fase del rapporto. Sovente tali rappresentazioni sono dettate dall’esperienza personale maturata nel paese di origine. Non sempre si tratta di un’esperienza positiva; si pensi, ad esempio, a quella vissuta, fino a qualche anno fa, dai minori rumeni negli istituti e nei convitti residenziali organizzati in modo rigido e altamente disciplinato. Quando confrontano le esperienze passate con quelle vissute in Italia, emergono differenze evidenti che, a volte, mettono in risalto gli aspetti negativi della prima fase di “accoglienza” nel nostro Paese, soprattutto se vissuta nei Centri di permanenza temporanea o nei servizi di primo intervento di bassa soglia: “Comunque una ragazza straniera che lavora (che si prostituisce, NdA) in casa e 114 viene contattata da una persona italiana, tipo voi no, che andate a dire delle cose, non vi crede (…) Non dico che non avete credibilità però le ragazze si spaventano (…) e non riesci a dare la speranza e la fiducia di cambiare vita.” (int. 14, donna rumena) “Se tu ti senti male e vuoi parlare con un educatore (in Romania, NdA) loro (gli operatori, NdA) non ascoltano, scrivono solo sul quaderno. Tutto il loro lavoro è scrivere, se una ragazza è brava, se ha fatto casino… scrivono tutto… e poi decidono che fare.” (int. 3, minore rumena) È perciò fondamentale per gli operatori e le operatrici sociali lavorare in maniera tempestiva ma, nello stesso tempo, con continuità, facendo in modo di diventare un punto di riferimento importante per le donne sfruttate. Tale processo risulta essere più efficace se realizzato da un’équipe multi-professionale che comprende educatori/trici e mediatori/trici linguistico-culturali con esperienze interdisciplinari. La mediazione linguistico-culturale è in primis una pratica di relazione di aiuto che entra in gioco quando la lingua della persona assistita è diversa da quella del gruppo degli operatori. È quindi una pratica che tiene conto delle specificità, delle diversità e, quindi, anche delle lingue, considerandole come punti di vista dei mondi presenti e rappresentati dalle donne. Inoltre, in base alla mediazione linguistico-culturale, la cultura di una persona non è elemento definitivo, fermo, sempre uguale a se stesso nel corso degli anni; la cultura viene ritenuta essere in continua trasformazione, sebbene mantenga una propria base strutturale più difficile da modificare. Al mediatore o alla mediatrice linguistico-culturale è attribuito il compito – piuttosto complesso – di “tradurre il linguaggio della vittima”, nel senso di trovare il modo di dialogare, di raccontare, di cercare le parole per esplicitare azioni e comportamenti, oggetti e parole. Il processo di mediazione è volto a favorire il flusso di informazioni tra la persona e le istituzioni con cui interagisce (siano esse servizi sociali, forze dell’ordine o autorità giudiziaria). Dalle interviste raccolte è apparso evidente come l’utilizzo della mediazione linguistico-culturale sia un mezzo fondamentale di facilitazione della relazione di aiuto. Tale pratica deve però essere sempre coerente con il principio ispiratore di una relazione di aiuto, ovvero fornire alla persona assistita tutte le informazioni necessarie, incluse quelle sui tipi di sostegno che i servizi sociali possono offrire, anche per permetterle di maturare una scelta consapevole rispetto al proprio futuro e sulla eventualità di fuoriuscire dalle condizioni di sfruttamento: “In associazione, nel giorno del primo colloquio, ho pianto tantissimo. Gli operatori mi sono stati vicini; all’inizio io sono uscita dall’ufficio (…) hanno fatto venire una mediatrice rumena perché io non capivo. Quando è arrivata questa signora rumena, mi sono tranquillizzata, ho smesso di piangere perché lei mi ha detto di non avere paura perché l’Associazione mi avrebbe aiutato, se volevo anche a cercare lavoro.”(int. 8, minore rumena) 115 È qui importante sottolineare come lo svolgimento dell’attività prostituzionale rischi di avere delle conseguenze sul gruppo di prossimità e sulla comunità di riferimento più in generale delle persone coinvolte. È quindi necessario che i mediatori e le mediatrici linguistico-culturali siano altamente selezionati e conosciuti, anche perché occorre fare attenzione che non ci siano già stati o ci siano dei rapporti tra le parti (mediatore/trice e persona assistita). Di fatto, durante i primi contatti, un’eventuale conoscenza pregressa potrebbe essere strategicamente negativa al fine di tranquillizzare la vittima e raccogliere la sua disponibilità a denunciare gli sfruttatori. Tale situazione è stata specificatamente rilevata da alcuni testimoni privilegiati, soprattutto rispetto alle donne cinesi. Per tali donne essere fuori dalla comunità di riferimento, per motivi legati alla sicurezza, è traumatico; si sentono sole, sradicate, inadeguate ad imparare l’italiano che appare loro tanto più difficile ed incomprensibile quanto più il livello di scolarizzazione è basso e l’età matura. Perché le donne trafficate – soprattutto le cinesi – considerino la fuoriuscita dalla condizione di sfruttamento una possibilità allettante, è determinante offrire loro un progetto di inserimento nella società realisticamente vantaggioso, sia sul piano della professionalizzazione che su quello del raggiungimento di un’effettiva autonomia economica che consenta loro di inviare soldi alla famiglia di origine. L’operatore/trice sociale e il mediatore o la mediatrice linguistico-culturale devono lavorare in sinergia anche per strutturare il programma di assistenza ed integrazione sociale, perseguendo l’obiettivo, tra gli altri, di potenziare la capacità di resistenza della persona, ovvero la capacità di reagire e di agire sulle proprie situazioni difficili per arrivare a modificarle. È una caratteristica delle personalità resilienti quella di sapere auto-produrre, ri-organizzare e riproporre una rilettura degli eventi tragici e individuarne gli elementi di positività che permettono si risalire la china. Infatti, stimolare e sostenere le vittime ad affrontare i problemi con uno spirito costruttivo è la pratica più corretta da perseguire, proprio perché tende a far riemergere abitudini e capacità relazionali che permettono loro di inserirsi nella comunità esterna ai circuiti prostituzionali. In questa logica, l’inserimento lavorativo – quando ha luogo (ed è possibile praticarlo) – è molto importante. Diventa ancora più importante quando è commisurato alle reali competenze professionali e alle aspettative di guadagno, sapendo che gli introiti non potranno essere paragonabili a quelli ottenibili attraverso l’attività prostituzionale: “Facendo la parrucchiera, in effetti, mi sono resa conto che è vero che ti fanno il contratto per tutto l’anno, però si guadagna poco… pochissimo. Uno straniero si aspetta sempre che è tutto bello, che è tutto facile (…) adesso le mie uniche difficoltà sono il fatto di stare lontana dalla mia famiglia e lo stipendio che è troppo basso, quindi non riesco a mettermi i soldi da parte.” (int. 9, donna uruguayana) 116 2.9 Osservazioni conclusive Il concetto di vittima: una categoria da ridefinire Se da una parte gli elementi di cambiamento individuati (in particolare, la scomparsa delle forme coercitive di reclutamento; gli ingressi regolari in Italia attraverso visti per motivi di turismo; le modifiche operate nei sistemi di controllo delle persone sfruttate; l’emergere della nuova figura “sfruttata/sfruttatrice”) mediante lo studio qui presentato ci consentono di sostenere che la tratta di persone a scopo di sfruttamento sessuale è un fenomeno in continua trasformazione; dall’altra parte le trasformazioni registrate ci impongono una continua riflessione sugli assunti di base del fenomeno stesso. Uno degli assunti principali – forse il più importante – è senz’altro quello collegato al concetto di “vittima”. I risultati della ricerca effettuata mettono in luce come il generico concetto di vittima, comprendente tutte le persone assoggettate e coinvolte nei circuiti prostituzionali, qualora non venga riempito di contenuti e soprattutto storicizzato e messo in relazione ai singoli gruppi nazionali presenti sul mercato della prostituzione in Italia, appare fuorviante. Occorre, infatti, tenere presente i singoli progetti migratori, le reti e gli ambiti di sfruttamento. In caso contrario, il concetto di vittima di sfruttamento risulta essere una categoria interpretativa priva di significato, incapace di contribuire a descrivere la tratta di esseri umani nella sua concretezza, nella sua complessità e nelle sue continue trasformazioni. Le interviste raccolte mettono in evidenza come le numerose differenziazioni e specificità esistenti tra i diversi gruppi nazionali coinvolti nella tratta – nonché tra gli stessi a seconda che siano impiegati nella prostituzione indoor e/o in quella outdoor – vadano a costruire un complesso e articolato arcipelago di percorsi individuali diversi. Le varie tipologie di persone trafficate – a prescindere se mantengono una qualche autonomia o sono costrette a prostituirsi – diverrebbero di difficile comprensione qualora si volesse necessariamente includerle – sovente con evidenti forzature ideologiche – all’interno di un generico concetto di vittima. Tali considerazioni, estendibili anche ad altre categorie come lo sfruttamento o la prostituzione, hanno importanti ricadute sia sul piano teorico che su quello pratico. La descrizione di un fenomeno come la tratta – attraverso l’uso esclusivo di un metodo deduttivo – rischia di fornire soltanto una parziale rappresentazione del fenomeno medesimo. Ciò determina importanti ricadute sulle politiche di governance e quindi sugli stessi interventi di sostegno alle persone vittime di tratta che rischiano di essere orientati ideologicamente piuttosto che dai bisogni espressi dai beneficiari finali. Se si prescinde dalle specificità dei singoli gruppi 117 nazionali coinvolti, dalle loro condizioni e dai bisogni di cui sono portatori, non cogliamo la complessità e la ricca articolazione del fenomeno della tratta. Diversamente, essere in grado di cogliere le differenze, le peculiarità distintive di ciascun gruppo prostituzionale mediante gli strumenti conoscitivi della ricerca sociale, storicizzare e co-costruire la loro pratica prostituzionale (tra l’altro in continua trasformazione), significa meglio orientare gli interventi e i modelli di governance affinché siano più centrati sulle persone e sui loro diritti e non sui principi, sovente astratti, dei decisori politici. L’invisibilità della tratta e le difficoltà di contrasto L’analisi delle interviste e degli altri materiali raccolti ha contribuito a dimostrare come la tratta di persone a scopo di sfruttamento sessuale, nella sua attuale fase storica, tenda ad assumere forme sempre più invisibili. Tale processo di invisibilità progressiva è il risultato di una serie di fattori che attualmente caratterizzano il fenomeno qui in oggetto: lo sviluppo della prostituzione al chiuso; l’aumento della mobilità delle persone coinvolte sia rispetto ai luoghi geografici che agli ambiti specifici in cui esercitano la prostituzione; la mancata consapevolezza di essere vittime della tratta di persone, soprattutto a causa del ruolo attivo esercitato nella fase di espatrio e nella partecipazione ai guadagni della prostituzione; il reclutamento effettuato nell’ambito familiare o amicale attraverso condizionamenti psicologici, culturali ed affettivi; il coinvolgimento di una parte delle persone sfruttate nel reclutamento, nello spostamento, nel trasporto e nel controllo di altre donne inserite nel mercato della prostituzione. Gli stessi testimoni privilegiati intervistati hanno messo in luce come gli elementi di invisibilità della tratta comportino gravi difficoltà di identificazione delle vittime, in particolare per quanti operano direttamente nell’ambito del contrasto e della repressione di tale fenomeno. Infatti, abbiamo potuto constatare che, sebbene le persone intervistate fossero inserite in programmi di assistenza e di integrazione sociale e fossero state protagoniste di storie che potevano essere riconducibili alla tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale, nessuna di loro aveva avuto accesso ai programmi art. 18 in qualità di persona offesa vittima del reato di tratta. I reati contestati ai soggetti imputati nei procedimenti penali che le vedono coinvolte erano stati, per la maggior parte dei casi, lo sfruttamento o il favoreggiamento della prostituzione, oppure il favoreggiamento all’immigrazione irregolare, le violenze psico-fisiche. In certi casi anche l’associazione a delinquere, ma solo raramente il reato specifico di tratta di persone. La causa della mancata contestazione del reato di tratta si lega alle 118 difficoltà probatorie dello stesso. Infatti, sia nell’ambito investigativo che in quello processuale, l’individuazione e la contestazione del reato di tratta richiede un lavoro di raccolta degli elementi probatori per la costruzione di un impianto accusatorio più complesso e articolato di quanto richieda la contestazione di reati quali, ad esempio, il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione oppure il favoreggiamento all’immigrazione irregolare. Solo alcune forze di polizia e solo in alcuni territori gli operatori sono preparati in modo adeguato per le indagini in questa materia. Accade infatti che, pur a fronte di testimonianze molto dettagliate ed idonee a sostenere la configurabilità del reato di tratta, vi siano difficoltà a raccogliere elementi di prova ulteriori in grado di suffragare la testimonianza. Ciò spesso comporta un ripiegamento a perseguire esclusivamente i reati commessi in Italia nella fase finale del percorso, quella dello sfruttamento della prostituzione. Inoltre la possibilità di sostenere in giudizio il reato di tratta richiede spesso tempi di indagine lunghi. Infine non va dimenticato che, data la natura transnazionale del fenomeno, è necessario attivare forme di cooperazione internazionale tra le polizie operanti in più paesi e ciò, anche solo dal punto di vista pratico, risulta essere un’operazione difficile. Un ulteriore elemento di difficoltà potrebbe derivare dall’attuale suddivisione delle sfere di azione di autorità giudiziarie diverse. Il reato di tratta è di competenza delle Direzioni Distrettuali Antimafia e non delle Procure ordinarie. Può quindi accadere che il Sostituto Procuratore del Tribunale ordinario non riconosca il reato di tratta e si limiti a contestare altri reati perché non è adeguatamente formato in materia o più semplicemente perché non vuole perdere la competenza sull’indagine. Tale situazione si è ulteriormente complicata con l’introduzione di nuovi gruppi nazionali nel mercato del sesso a pagamento e con la modifica dello status giuridico delle persone provenienti dalla Romania e dalla Bulgaria a seguito dell’ingresso di tali paesi nell’Unione europea (dal gennaio 2007). Contrastare nuovi gruppi criminali significa acquisire nuove metodologie investigative e mettere in campo nuove pratiche operative. Le regolarità della presenza sul territorio, invece, rende i meccanismi di contrasto e di tutela, quale ad esempio l’art. 18, più deboli in quanto non in grado di offrire la possibilità di un radicale cambio di vita grazie al permesso di soggiorno per motivi umanitari. È quindi evidente che qualora si intenda contrastare efficacemente la tratta di esseri umani sia rispetto al supporto da fornire alle vittime che rispetto al contrasto alle reti criminali, è necessario fare un salto di qualità, mettendo sempre al centro di qualsiasi iniziativa le persone. È inoltre indispensabile effettuare un costante monitoraggio delle trasformazioni a cui il fenomeno è soggetto in modo da potersi dotare di strategie di intervento nuove e rispondenti ai cambiamenti registrati. 119 2.10 Appendice Qui di seguito riportiamo la trascrizione integrale tradotta in italiano di un messaggio audio che una maman nigeriana ha inviato, tramite una cassetta, alla madre di una sua vittima per illustrare la situazione che si è venuta a creare con la figlia, che lei sfrutta. Questo materiale che, per la sua unicità, ci consente una lettura più esaustiva e meno superficiale di alcuni elementi caratterizzanti lo sfruttamento di donne e minori nigeriane. In apparenza, la prostituzione nigeriana sembra registrare cambiamenti più lenti e meno evidenti rispetto ad altri gruppi nazionali che si prostituiscono. In realtà, sebbene alcuni elementi costitutivi del sistema prostituzionale nigeriano (ingresso e permanenza irregolare in Italia, reclutamento, sfruttamento gestito esclusivamente da donne) continuino a persistere nel tempo, questo documento mette in evidenza alcuni cambiamenti strutturali intervenuti di recente. Al fine di evitare qualsiasi possibilità di risalire all’identità delle persone citate nel testo, sono stati eliminati i loro nomi e i riferimenti ai luoghi menzionati e sono stati sostituiti con degli asterischi. Ci sono persone che danno consigli a ***, se le do io un consiglio, le entra da un orecchio ed esce dall’altro. Madre, tutte le cose che fa ***! Mi fanno male perché non sono ciò che io pensavo. Si dice che un bambino che non ha genitori abbia più senno di uno che invece li ha, *** non ha cervello, *** non sa cosa è venuta a fare in Italia. Anche se *** non sapeva cosa veniva a fare, lei mi deve pagare, perché se *** continua in questo modo, non so come lei finirà. Non c’è serietà in ***, non c’è serietà in lei. Perché in questo paese... io piango ancor oggi, perché questo paese è molto difficile. Madre, o per la strada di Cristo o per altre vie, vedi se c’è qualcosa che non va in lei, se in famiglia c’è una malattia che ha preso anche lei, va e vedi. Nessuno dice che non si può fare il voodu, io ho fatto molti voodu prima di venire in Italia, però è Dio che è padrone di tutte le cose, è Dio che tutto può, e che rende le cose utili nella vita. Ci sono persone che nuocciono agli altri; per le persone che credono nel voodu, è ciò in cui credono che le fa andare avanti nella vita. Se c’è qualcosa che non va in ***, se si tratta di una malattia, voi dovete cercare qualcosa che la faccia stare meglio, perché *** non vive come dovrebbe in Italia. Primo, *** non sa cosa è venuta a fare in questo paese, siamo al terzo mese (dal suo arrivo, NdT), e facendo così passerà anche questo anno; secondo, è che *** è troppo pigra; terzo, è che lei è testarda. Queste tre cose significano che *** non sa cosa deve fare. Voi dovete aiutarmi a starle dietro. Se io parlo con ***, lei mi risponde con chiacchiere; *** mi parla come vuole; se le dici di fare qualcosa, lei ne fa un’altra; io mi aspettavo che lei cambiasse, invece non cambierà mai, non può abbandonare questo suo modo, se io non sono in grado di parlare con lei... Le dico:“anche se tu sei una regina o un re, se sei venuta in questo paese, devi lasciarti tutto alle spalle: questo è un paese dove si deve essere forti per riuscire ad avere da mangiare tutti i giorni; tu 120 non devi essere pigra, anche se hai male ad una gamba, devi usarla lo stesso per andare a lavorare, anche se tu sei malata, se non è così grave, devi essere in grado di resistere e andare a lavorare, perché questo lavoro che noi facciamo, che chiamano prostituzione, ma non è prostituzione, è molto difficile, se fosse prostituzione, madre!, prostituzione, nessuno verrebbe dalla Nigeria, perché se una persona fosse venuta e fosse stato così difficile, e una seconda fosse arrivata e fosse stato altrettanto difficile, non sarebbe venuto più nessun altro. Poiché la Nigeria è un paese aperto, grazie a Dio lei ha amici in questo paese (in Italia, NdT) prova solo a chieder loro com’è questa prostituzione o come sono gli altri lavori che facciamo noi in questo paese, dove la difficoltà è quando vai al lavoro e non lavori. Se stai in piedi e un uomo bianco viene a prenderti, se tu aspetti un passaggio e te lo danno, in questo non c’è sofferenza, ma se tu stai ferma e un uomo bianco passa senza fermarsi, ecco dove sta il problema. Perché non puoi pagare neanche l’affitto e neanche avere i soldi per pagare il debito. Madre, io ti chiamo perché so com’è questo paese, io non posso vedere *** che diventa inutile in questo paese. Se io non parlo o non intervengo, madre, domani tu potrai dire che io non ti ho detto niente prima, per questo ti parlo adesso. Voi dovete cercare un modo per aiutare ***, dite a *** che lei deve sapere che è in un altro paese. È fuori questione che sia difficile, tu devi essere molto forte, devi essere forte, ma non fino ad andare a morire; se tu non hai fatto niente di male, non puoi morire male, ciò che uccide le nostre ragazze in questo paese è quando una ragazza comincia a parlare con la madam come vuole. Un uomo bianco può prenderti e dirti di picchiarlo per trenta minuti e può pagarti 20.000, 50.000, 100.000 naira, dipende dalla fortuna che hai, e dipende anche da come sei vestita in strada, questo lavoro ha bisogno di pazienza. Madre, adesso ti spiego, perché se tu vuoi parlare con *** devi sapere le cose per poterle parlare. Madre, è molto doloroso, *** sarebbe dovuta essere come me. Una ragazza che non è forte non può venire con me. Io sono molto forte perché vengo da una famiglia molto povera. Ho finito la scuola media nel 1983, da quell’anno ho cominciato a combattere duramente, io non volevo dipendere solo dalla scuola media, quindi ho deciso di andare avanti nei miei studi perché tutti i miei amici sono andati alla scuola superiore. Mia sorella maggiore mi ha aiutata ad andare a scuola di computer, dove nel 1986 ho conseguito il diploma di segretaria. Sono andata via dalla Nigeria il 5 gennaio del 1997, sono arrivata in questo paese a febbraio ‘97. Sono in questo paese da due anni, prima di partire avevo 24 anni. Nessun uomo bianco mi ha dato tanti soldi in questo paese, ma il poco che sto guadagnando, se io fossi pigra, come farei ad aiutare i miei fratelli e sorelle più piccoli... io ero qui da tre mesi quando ho cominciato ad aiutare i miei parenti più piccoli. Madre, devi dare dei consigli a *** davvero utili, io non sono contenta, ma sarò paziente perché ci siete voi, non posso dire più nient’altro, è *** che non mi rispetta, *** parla con me in pubblico come vuole invece di rispettarmi come la persona che sta pagando, questo rispetto non viene da ***. *** è una persona che non riesce a guadagnare, si dice “Aiutati che Dio ti aiuta”, lei deve sopportare la sofferenza per guadagnare questi soldi qualsiasi sia la situazione, questo se credi in 121 Dio. Lei è troppo pigra, si dice che si può spingere un cavallo verso il fiume, ma non si può forzarlo a bere acqua. Io ho detto a *** che non pagherò il debito al posto suo, se lei pensa di restituirmi i soldi in cinque anni, io non lo accetto. Se io litigo con lei, lei non si scuserà mai, invece di dirmi “Sister **, scusami” o di dirmi “Non ti preoccupare, guadagnerò presto dei soldi”, lei mi risponde in continuazione, che non ti accorgeresti neanche di ucciderla. Quando ero a casa, ero tanto testarda, però quando sono arrivata in questo paese ho lasciato tutto quello che stavo facendo per essere sicura di combattere forte. In questo paese tu devi salutare tutti, anche quelli che non dovrebbero essere salutati, così riesci ad andare avanti. *** non è per niente seria in questo paese, da quando *** è venuta in questo paese, quanto ha pagato? Io avevo inserito *** nelle contribuzioni, ma io dovrò recuperare i soldi miei e quelli di ***. Io so quanto ho pagato quando ero in questo paese da tre mesi, io non ho due teste e anche le altre persone non hanno due teste, questo è un paese molto difficile, noi lavoriamo al freddo, il freddo qui è come quello del congelatore, però io ho pagato chi mi ha portato qua. Madre, questo è il lavoro che facciamo qua, perché *** deve essere diversa dalle altre? Perché, perché? Madre, io rimango della mia parola, in questo paese si va avanti, chi vuole lavorare, lavora, chi va al mercato va al mercato, chi vuole lavare i vestiti li lava. Se tu vai al lavoro di mattina, tu prendi la tua borsa e vai. Com’è questo lavoro? Non è come pensate voi in Nigeria, non è così. Prendi la tua borsa e vai in strada, quando arrivi lì, stai in piedi o seduta, poi quando un uomo bianco passa, ti prende, e ti chiede cosa vuoi, lui può portarti a casa sua e ti dice di cominciare a picchiarlo, oppure ti dice che ha male al corpo e ti chiede un massaggio, in un minuto può pagarti tanti soldi; però tu puoi rimanere anche due ore senza niente, tu puoi stare in piedi fino alle due di notte. Le tue amiche ti possono dire che vanno a casa, tu le lasci andare, e tu stai in piedi anche se ci sono solo cinque macchine per la strada, una di quelle cinque può prometterti di venire a prenderti domani, forse la tua fortuna è lì. Da là puoi trovare uno che può aiutare la tua famiglia, fratelli, sorelle, madre, padre, zii, forse può capitare che lui ti dica che ti vuol sposare, tu puoi avere anche dei figli da quest’uomo, da di là puoi trovare quello che ti dà una grossa somma di denaro, il debito non lo paghi così? In Nigeria le persone che fanno business, se non vendono di mattina, vendono di sera, così ho detto a ***, se tu sei stanca, prendi un passaggio e fatti un giro con le tue amiche, mangia qualcosa con loro, poi torna a stare in piedi di nuovo, se tu fai questo per sei mesi riuscirai comunque a finire di pagare la somma. Così in questo lavoro non puoi stare ferma in piedi mentre le altre stanno lavorando. Per esempio, le persone che vendono al mercato, se non vendono la mattina vendono la sera, non è che quando vanno a casa le tue amiche vai anche tu, come fai a lavorare così? Anch’io lavoro così, così è il nostro lavoro. Se *** torna a casa, io le dico di prendere la sua borsa e di tornare a lavorare, se non vendi di mattina, forse vendi di sera, tu devi stare in strada fino al mattino, perché gli uomini bianchi non dormono. In Europa non esiste la notte, perché gli uomini bianchi non dormono. Se tu vai a lavorare di notte e ti piace, tu ci vai, io vado a lavorare di giorno forse una volta alla settimana, se non c’è il sole e se è molto freddo, 122 e se non c’è ghiaccio per terra, io vado di notte, se io non lavoro, rimango comunque in piedi fino a che riesco a lavorare. Così ho detto a *** che deve sempre stare in piedi così anche lei riuscirà a lavorare. Io non sono come quelle madam che sono in questo paese da tanto tempo, che se hanno dei problemi danno la colpa ad altre persone, la mia vita è diversa dalla loro, perché io ho studiato, e noi non siamo uguali. Così io ho detto a *** di cercare qualcuno che risolva i suoi problemi, così avrai un voodu in te che ti aiuta, in modo che se fermi una macchina ti prendano subito, e qualsiasi cosa tu chieda loro, ti verrà data. Io le ho detto che se è stanca, può farsi in giro per comprare qualcosa da mangiare, e dopo mezzora deve tornare a stare ancora in piedi. Gli uomini bianchi sono così gentili che se dici loro che hai fame, ti comprano qualcosa da mangiare, ti possono portare a mangiare e poi ti riportano dove lavori, ti possono lasciare anche un po’ di soldi senza fare niente, ti possono dire che ritornano il giorno dopo – mi stai ascoltando? – quindi gli uomini bianchi possono venire a dirti di parlargli all’orecchio e ti danno dei soldi. Così è questo lavoro, io non ci vedo niente di difficile, l’unica cosa difficile è quando tu stai in piedi al freddo e nessuno viene a prenderti, questa è la difficoltà. Così, madre, io ti chiedo il favore di cercare cosa c’è che non va in lei, se è secondo la via cristiana io voglio che tu vada a cercare chi è in contatto con Dio per capire cosa non va in ***, se c’è qualcosa che blocca la sua fortuna e il suo destino, e se c’è qualcosa che le permetta di guadagnare, così che i bianchi possano vederla e aiutarla. Lei sta usando il voodu che le è stato dato, ma lo stesso uomo lo ha fatto anche per me e non ha funzionato, perché c’era qualcosa che non andava. Quando hanno risolto il problema, ha cominciato a funzionare: io posso stare in piedi vicino a ***, prenderanno me, ma non ***. Così io ho deciso di parlare in questa cassetta, dovete ascoltarla molto bene. Mia madre non può fare questo, se *** fosse stata mia sorella minore, sarebbe stata un’altra cosa – io so come parlare con mia madre – ma non è questo il suo caso. Se *** stesse guadagnando, sarebbe già il momento di mandare i soldi a casa e tu saresti una grande donna adesso, ma se non ci sono soldi, come può mandarli? *** non riesce a pagare regolarmente l’affitto o il posto dove lavora. Con tutto ciò, se io anche parlo con ***, questo non basta perché faccia ciò che le dico, lei non dice “Faccio ciò che mi dice sister, sister mi ha detto di fare queste cose, di stare al lavoro fino al mattino, lo farò per vedere se cambierà qualcosa o se guadagnerò, fammi provare per una settimana o un mese per vedere se guadagnerò dei soldi”. Madre, ti prego, aiutami a chiedere a *** come mi pagherà, perché non accetterò questo da lei, io non voglio che i miei soldi aspettino, perché non voglio che qualcosa che ho voluto usare per fare del bene diventi qualcosa di cui pentirmi. C’era un’altra ragazza prima che accettassi lei, volevano portarla, io gli ho detto di aspettare tre mesi, non voglio che nulla trattenga i miei soldi, io non lo accetterò mai. Io ho pagato completamente la persona che mi ha portato qua e l’ho rispettata. Quando ho finito di pagare, lei ha pregato per me, ed è così che ho cominciato a guadagnare, a far soldi, a ricevere regali. Madre, parla chiaro con ***, perché per migliorare in questo paese devi rispettare le persone che ti hanno portato, la persona deve essere forte e rispettare chi l’ha portata qui, e credere in Dio. Se lei sale in 123 macchina, la pagheranno. Voi, gente, dovete parlare con lei molto chiaro perché io non lo accetterò da lei. Non so se voi, gente, avete qualche consiglio da dare a ***, io non so cosa mettere in bocca per parlare a *** in modo che lei senta le mie parole. Madre, parla con *** molto chiaro perché io non accetterò che lei trattenga i miei soldi per molto tempo, perché io ho pagato in quattro mesi. Io ho preso *** come un’amica, io non tratto *** come le altre trattano le loro ragazze che hanno portato in questo paese. Se loro comprano qualcosa per loro per una naira, dicono di averla comprata per due naira, io non aggiungo i soldi delle altre persone ai miei, io non divento ricca con questi soldi. Voglio sapere perché *** non mi rispetta, io ** che ho usato i miei soldi per prenderla, io non so perché *** non mi rispetta, se le dico una parola *** me ne risponde cinque. Voi dovete chiedere a ***, voi dovete chiedere a *** perché non mi rispetta, *** non è seria nel lavoro, io le ho detto di stare lì fino alla mattina. Io, la persona che l’ha portata qua, sto lì a lavorare, mentre *** prende la sua borsa e va a casa a dormire, che diritto ha lei di prendere la sua borsa e andare a casa? Voi dovete aiutarmi a chiederlo a ***, se lei è venuta in questo paese per stare a casa, voi dovete chiederglielo. Madre, questo è quello che io dico, un figlio che ha cervello non ha bisogno di consigli. Quando tu dici che una persona è in Europa, *** non è in Europa, perché una persona che è in Europa non ha bisogno di consigli, ma *** non è così. Se voi avete una persona che può parlare con *** e che lei ascolta, parlate con quella persona perché mi aiuti a parlare con lei, perché io non accetterò questo da lei. *** mi farà vedere che è testarda, non lo accetterò mai da lei, io posso accettare fin qui. Madre, per questo io ho voluto parlare prima con te, prima che io decida cosa fare, se *** va avanti così io posso venderla ad un’altra persona, io dico che ciò non va bene, perché io non sono stata venduta due volte, per me vendere lei di nuovo non va bene. Però, io ho rispettato le persone che mi hanno portato in questo paese. Mia madre mi ha detto: “Anche se quei soldi vengono sotto la pioggia o sotto il sole tu, figlia mia, vai a prenderli.” Questo è vero. Così io ho detto a *** “Se tu vai in qualsiasi paese a guadagnare soldi, tu li guadagnerai sicuramente, non ti capiterà niente”. Quando io ho accettato i consigli di mia madre, sono riuscita a fare tutto. Il mio fidanzato ha dato consigli a *** e lei non li accetta. Madre, non arrabbiarti, arrivederci, buon lavoro. Io sono una ragazza piccola, non ho ancora 24 anni, ma sono molto intelligente, perché ho sofferto in questo paese. Madre, arrivederci, saluta tutti i fratelli e le sorelle di ***, quelli che conosco e quelli che non conosco, dì loro di dare consigli a ***. Io rimango in attesa di una tua risposta, perché *** non ha per niente cervello. Madre, dì a *** di stare al lavoro fino alla mattina, lei prende la sua borsa e mi lascia al lavoro. Come potrà restituire i miei soldi? Dille di piantare il seme della serietà, quel seme crescerà e lei lo mangerà, così ci sarà più serietà in lei. Madre, parla con lei! 124 Bibliografia AA.VV., Minori e tratta. Atti del seminario di studio promosso dal Tavolo di Coordinamento Triveneto dei Progetti art. 18 e organizzato dalla Postazione Periferica del Numero Verde contro la Tratta gestita dal Comune di Venezia, Mogliano Veneto, 16 maggio 2006, Venezia, 2006. Carchedi F., G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), Il lavoro servile e le nuove schiavitù, Franco Angeli, Milano, 2003. Carchedi F. (a cura di), Piccoli schiavi senza frontiere. Il traffico di minori stranieri in Italia, Ediesse, Roma, 2004. Ciconte E. (a cura di), I flussi e le rotte della tratta dell’est Europa, Regione EmiliaRomagna, Grafiche Morandi, Fusignano, 2005. Commissione europea, Tratta degli esseri umani. Rapporto del Gruppo di esperti nominato dalla Commissione europea, Il Centro Stampa, Roma, 2006. Comune di Mogliano Veneto, Report gennaio-giugno 2002 inerente le attività svolte sui territori di Mogliano Veneto (TV) e Preganziol (TV), Mogliano Veneto, 2002. Comune di Venezia, Report Unità di Strada, Servizio “Città e Prostituzione”, Mestre, 2003. Donadel C., R.E. Martini (a cura di), La prostituzione invisibile, Regione EmiliaRomagna, Grafiche Morandi, Fusignano, 2005. 125 3. La tratta di persone a scopo di grave sfruttamento lavorativo di Francesco Carchedi, Federica Dolente,Tiziana Bianchini e Anna Marsden1 3.1 Le nuove schiavitù e il lavoro coatto: gli aspetti distintivi e le ipotesi della ricerca I rapporti di lavoro abusivi e di grave sfruttamento Negli ultimi anni – da almeno un decennio – sono emersi nel nostro Paese fenomeni sociali che ormai a ragione possiamo configurare come para-schiavistici. Oltre ai fenomeni riscontrabili nello sfruttamento sessuale – soprattutto femminile – e nelle forme di sfruttamento dei minori, quello che sta emergendo con forza negli ultimi anni è il lavoro gravemente sfruttato, il lavoro coatto. Si tratta di rapporti di lavoro abusivi ed assoggettanti che coinvolgono soprattutto segmenti di immigrati di origine straniera, costretti per sopravvivere ad accettare modalità di lavoro anche pessime senza possibilità di contrattazione. Possiamo definire questi rapporti di lavoro come para-schiavistici – come accennato in un altro volume pubblicato2 – nel senso che assomigliano, sovente anche in modo marcato, alle forme di schiavismo classico3, ma che non sono pur tuttavia sovrapponibili ad esse. I motivi alla 1 Francesco Carchedi e Federica Dolente hanno redatto i paragrafi da 5.1 a 5.8, mentre Tiziana Bianchini e Anna Marsden hanno redatto, rispettivamente, i paragrafi 5.9 e 5.10. 2 F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), Il lavoro servile e le nuove schiavitù, Franco Angeli, Milano, pp. 32 e segg. Per un approfondimento del concetto di schiavismo e para-schiavismo si rimanda a questo testo citato, anche perché la presente ricerca ne rappresenta una sorta di continuazione. 3 Per una visuale complessiva della tratta e della schiavitù, cfr. O. Pètrè-Grenouilleau, La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, Il Mulino, Bologna, 2004; E.D. Genovese, L’economia politica della schiavitù, Einaudi, Torino, 1972; B. Lewis, Race et esclavage au Proche-Orient, Gallimard, Parigi, 1990. Per avere una visione di quello che possiamo definire “nuove schiavitù” cfr. K. Bales, I nuovi schiavi, Feltrinelli, Milano, 2000. O. Pètrè-Grenouilleau e E.D. Genovese, in particolare, definiscono la tratta di persone, il traffico di migranti e la schiavitù come sistemi di 126 base dell’impossibilità di sovrapporre le une alle altre forme di schiavismo sono sostanzialmente due: il primo è dato dal fatto che nelle attuali società europee (e quindi anche nel nostro Paese) non esistono più normative che legittimano la condizione schiavistica e pertanto essa è – in via sostanziale e in via formale – bandita dai rapporti sociali e dai rapporti di produzione. Si era davanti a regimi societari che riconoscevano e permettevano la pratica schiavista, come se si trattasse, in effetti, di una “schiavocrazia” che aspirava a diventare egemonica – con politiche e proposte di tipo espansionista – dell’intera società4. Il secondo, in conseguenza di questo, quando si registrano fenomeni configurabili come schiavistici, sono sempre manifestazioni contra legem, ossia sono contro la legge vigente e pertanto direttamente perseguibili. Condizioni che stanno a significare che questi fenomeni possono manifestarsi soltanto in maniera sommersa, in maniera mimetizzata ad altri fenomeni di minor gravità sociale e quindi non immediatamente visibili ed identificabili come tali. Inoltre, altra condizione non secondaria, sulla base di quanto appena detto, si possono manifestare soltanto all’interno di interstizi produttivi, di situazioni marginali e pertanto anche in questi casi con forme di copertura che ne attenuano l’impatto sociale esterno. Queste caratteristiche ne determinano un’altra ancora, ossia che questi fenomeni possono manifestarsi e svilupparsi per brevi periodi di tempo e sono perlopiù riconducibili a rapporti sociali a tempo determinato. Il tempo necessario cioè a far sì che coloro che le mettono in atto (datori di lavoro-delinquenti ed aguzzini) possano interrompere il processo di sfruttamento corrispondenti al modo di produzione coloniale e mercantilista, avente come base produttiva l’economia della piantagione e dei prodotti coltivati nelle colonie d’oltremare da indirizzare alla madrepatria per la loro commercializzazione. 4 Cfr, E.D. Genovese, op. cit., pp. 261-262. Nei regimi schiavistici, dice l’autore, “l’economia, la politica, la vita sociale, l’ideologia e la psicologia erano altrettante forze che contribuivano a dare al sistema (stesso) una forte spinta centrifuga, e che dietro ciascuna di queste forze stavano le esigenze della classe dei proprietari di schiavi proprio per l’azione di tali forze, gli uomini che componevano la classe dominante del Sud (in riferimento a quelli meridionali degli Stati Uniti d’America) non potevano che vedere nell’espansione (del sistema schiavistico) uno dei più importanti mezzi per salvaguardare la propria posizione egemonica.” (…) “E fu proprio questo aspetto del fenomeno – l’egemonia politica e l’ideologia aristocratica della classe dominante – che, più dei fattori economici, impedì al Sud di abbandonare volontariamente il sistema schiavista.” (p. 41) I fattori economici, pur tuttavia, erano tutti caratterizzati da “arretratezza” (…) e dalla “bassa produttività del lavoro, che si manifestava in diversi modi. Il più importante era la negligenza e l’incuria degli schiavi” (p. 47); nonché la loro propensione alla “scarsa applicazione, all’inadeguatezza degli incentivi e all’addestramento e al sistema (costoso) dei sorveglianti” (p. 51) e dunque alla “passività… (…) e al ritardo tecnologico” (p. 55); infine, aspetto non secondario, alla loro “inclinazione al sabotaggio… (…) al rallentamento del lavoro… alla malattia simulata e all’autolesionismo… e alla tendenza a non prestare la dovuta attenzione al bestiame e agli attrezzi del lavoro.” (p. 81) 127 grave sfruttamento e sfuggire così a qualsiasi intercettazione da parte delle forze dell’ordine. E se il ciclo di produzione continua, gli stessi datori possono riproporre lo stesso tipo di lavoro ad altre componenti immigrate e perpetuare così guadagni significativi mediante altrettante forme di grave sfruttamento; coinvolgendo insomma – in questo secondo ciclo – altri contingenti di persone poiché le precedenti, in base alla brutta esperienza passata, potrebbero decidere di non rientrare in produzione alle stesse condizioni o non verrebbero richiamate dai datori medesimi proprio per evitare il rischio (più probabile, la seconda volta) di essere intercettati dalle forze dell’ordine, dalle ispezioni delle autorità ministeriali e dalle organizzazioni sindacali e no profit. Questi altri aspetti mettono in evidenza – e diremmo in primo piano – altre due condizioni correlate alla temporaneità del processo di sfruttamento: l’intensività del lavoro e la scarsa retribuzione, proprio perché si tratta di lavoro assoggettante. Questo tipo di lavoro è strettamente correlato, dunque, al fatto che viene svolto e sostanzialmente esplicato in maniera intensiva: produttività oraria alta, sovente caratterizzata da una forma di cottimo al contrario (il lavoratore si impegna tanto non per il suo guadagno personale ma quanto per quello del datore-aguzzino giacché il rapporto è assoggettante), nonché giornata lavorativa lunga e momenti di riposo brevi e strettamente reggimentati. La scarsa retribuzione, in aggiunta, rappresenta l’altro aspetto peculiare. Essa è bassa perché bassa è la considerazione che questi datori-delinquenti hanno dei lavoratori stranieri ingaggiati. Per essi sono non persone. Sono uomini di mera fatica, braccia da utilizzare. La retribuzione non raggiunge un terzo di quella generalmente prevista dai contratti di categoria e quindi basta soltanto per mangiare e sostenersi per continuare a lavorare. Il ritiro del passaporto o dei documenti – o la promessa di essere messo in regola – sono gli altri elementi che concorrono a produrre la condizione servile e lo stato di assoggettamento. In casi più estremi, tra l’altro emersi dall’indagine, non viene permesso al lavoratore di staccarsi dal rapporto assoggettante e quindi di restare – contro la sua volontà – nel processo produttivo, nonché lavorare in luoghi chiusi a chiave dall’esterno. Questa condizione si rafforza allorquando il diretto interessato – il lavoratore o la lavoratrice – non ha la forza di abbandonare lo pseudo-rapporto lavorativo. In altre parole, non riesce, nonostante la violenza subita, a interrompere l’attività lavorativa, a recedere dal rapporto di soggezione. 128 L’oggetto di ricerca e le ipotesi di fondo In base a tali considerazioni l’oggetto dell’indagine è quello circoscrivibile come lavoro forzato o lavoro para-schiavistico svolto dagli immigrati stranieri presenti nel nostro Paese, all’interno di rapporti di lavoro a carattere abusivo e coercitivo. Rapporti che possono iniziare al momento dell’arrivo o anche una volta che gli immigrati stranieri si insediano nel nostro Paese e rimangono irregolari o allorquando, acquisendo il permesso di soggiorno per motivi di lavoro (o per qualche altro motivo) lo riperdono poiché cambiano i presupposti per rinnovarlo e quindi mantenerlo5. Condizioni che possono determinare, come accennato, forme di grave sfruttamento che tra le altre cose limitano i diritti e le libertà fondamentali delle persone coinvolte6. Ma per definire il lavoro forzato o para-schiavistico occorre considerare comunque le modalità lavorative esistenti, poiché esso ne rappresenta l’estremità ultima. In pratica il lavoro garantito, il lavoro nero (sia quando è frutto di accordi convenienti tra le parti e sia quando è frutto di imposizione da parte del datore sul lavoratore)7 e il lavoro para-schiavistico formano un continuum delle forme che esso assume a seconda del grado di tutela che lo caratterizza, partendo dal grado più alto per arrivare a quello più basso o addirittura assente. In analogia agli studi sulle forme di grave sfruttamento 5 Al riguardo cfr. G. Mottura, Necessari ma non garantiti. I fattori di vulnerabilità socioeconomica presenti nella condizione di immigrato, in F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), op. cit., pp. 61 e segg.; B. Anastasia, P. Sistito, “Il lavoro degli immigrati e l’economia sommersa”, in M. Livi Bacci (a cura di), L’incidenza economica dell’immigrazione, Giappichelli Editore, Roma, pp. 321 e segg.; E. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, Il Mulino, Bologna, 1998, Capp. IX e X. 6 L’ingresso sul territorio nazionale – quando avviene per vie informali o irregolari (al di fuori, ad esempio, della quota prevista dal decreto flussi annuale, in base alle disposizioni del T.U. Imm., art. 3) – implica sempre una fase lavorativa nell’economia sommersa e in condizioni di precarietà, più o meno intensa e forte, fino a quando si manifestano possibilità di regolare la propria situazione e pretendere poi una conseguente regolazione del rapporto di lavoro. Questo processo, tuttavia, è lento e non automatico, poiché implica delle “sanatorie”. Ciò vuol dire che nel nostro paese per una certa fase (non quantificabile e non prevedibile), la condizione di irregolarità dei lavoratori stranieri è all’ordine del giorno. Rappresenta una sorta di iniziazione all’inserimento sociale ed economico; chi riesce ad attraversarla, infatti, e a perseguirla con ostinazione, potrà poi aspirare ad una condizione diversa, almeno ufficiale e riconosciuta dalle normative. Tutta questa fase – che mediamente può arrivare a tre/quattro anni (media dettata dal periodo in cui si sono susseguite le diverse “sanatorie”, ultima quella del 2002/2003, cd. sanatoria Bossi-Fini – si caratterizza, per gli immigrati che vi sono coinvolti (le stime parlano di circa 70/90mila unità annue, quindi oggi saremmo intorno alle 200/250mila unità), come un interregno in cui si lavora solo in nero. 7 G. Bianco, Il lavoro e le imprese al nero, Carocci, Roma, 2002; in particolare, ai fini del nostro ragionamento, Cap. 1, p. 17 e segg. 129 sessuale e alla descrizione/interpretazione del ciclo prostituzionale8 – il cui inizio sovente è individuabile alle modalità di reclutamento delle vittime nelle aree di origine, in quelle che caratterizzano il viaggio e l’arrivo nel nostro Paese, nonché l’insediamento e la riduzione in schiavitù – abbiamo ipotizzato lo stesso ciclo per quanto concerne il lavoro forzato. Ossia abbiamo ipotizzato – anche sulla base di quanto viene asserito da Nigel Harris – che la tratta di persone a scopo di grave sfruttamento lavorativo sia il risultato “di reti di reclutamento criminali che trasferiscono lavoratori attraverso molti paesi, procurano i documenti necessari, corrompono funzionari, forniscono alloggio, vitto e mezzi di trasporto terrestre e marittimo, finché gli immigrati non raggiungano i luoghi di destinazione, dove verranno messi al lavoro”9. Questa asserzione di Harris rimanda più al fenomeno della tratta di persone che non a quello di traffico (o contrabbando) di migranti, data la consequenzialità che prospetta, compresa “la messa al lavoro” degli immigrati una volta a destinazione. Infatti, il contrabbando prevede sovente soltanto il trasporto, ovvero l’acquisito di un servizio illegale per entrare, ad esempio, in Italia e non la collocazione lavorativa che implica quasi necessariamente l’assoggettamento lavorativo. Anche se, sulla base delle conoscenze che abbiamo e che abbiamo sottoposto a verifica, l’intero ciclo di sfruttamento lavorativo di tipo para-schiavistico appare tipicamente rapportabile a quei sistemi di migrazioni irregolari basate sulla contrazione del debito per l’espatrio. In Italia questi sistemi migratori combinati e gestiti da reti internazionali sono rapportabili in modo palese a quello nigeriano (per l’arrivo di donne da sfruttare nel campo della prostituzione) e a quello cinese (per l’arrivo di lavoratori per lo più di genere maschile da collocare in aziende gestite da connazionali, spesso da un parente). Siamo davanti ai due principali fenomeni di assoggettamento e di sfruttamento derivanti dal debito che si contrae all’origine della scelta migratoria. L’indebitamento rappresenta – in specie per alcune collettività straniere – lo strumento per poter realizzare e perseguire piani e progetti migratori prefigurati o solamente abbozzati prima della partenza. Il debito che si contrae all’origine del percorso migratorio, insomma, determina una condizione intermedia da parte dei diretti o delle dirette interessate tra l’acquisto volontario di un servizio illegale (traffico o contrabbando di migranti) per arrivare nel nostro Paese e la tratta di persone, cioè il pieno assoggettamento e quindi la perdita della volontarietà 8 Per ciclo prostituzionale si intende il percorso a cui è assoggettata la vittima destinata a soggiacere a forme di grave sfruttamento; cfr. F. Carchedi (a cura di), Piccoli schiavi senza frontiere. Il traffico dei minori stranieri in Italia, Ediesse, Roma, 2003, pp. 52 e segg. 9 N. Harris, I nuovi intoccabili, Il Saggiatore, Milano, 2000, p. 73. 130 alla base dell’esperienza migratoria. Condizione intermedia poiché coloro che hanno contratto il debito – seppur utilizzando servizi illegali per entrare nel nostro Paese – una volta arrivati devono negoziare con quanti si attendono la sua restituzione. In questi casi la contrazione di un debito alla partenza prefigura la sua corresponsione una volta arrivato a destinazione e quindi la presenza attiva di una organizzazione; organizzazione che opera già nel paese di origine e che concede il credito a quanti si apprestano a partire ed arriva ad operare anche nel paese di destinazione, poiché ci sarà chi dovrà riscuotere il debito durante il processo di insediamento sul nostro territorio nazionale. Questo indebitamento può influenzare qualitativamente l’intero percorso di inserimento sociale e lavorativo; può insomma, in altre parole, determinare forme di assoggettamento e di grave sfruttamento allorquando coloro che sono incaricati di riscuotere il dovuto approfittano della condizione subalterna del debitore per estorcergli più di quanto pattuito. I criteri metodologici L’indagine di campo è stata mirata a comprendere le dinamiche sottostanti le pratiche di grave sfruttamento lavorativo. Le interviste sono state effettuate sia nelle grandi aree metropolitane (come quella di Roma e Milano) dove più alta è la presenza di lavoratori immigrati, sia in aree metropolitane meno grandi (come quelle di Bologna, di Pisa e di Varese). Alle interviste realizzate in queste città se ne sono aggiunte delle altre realizzate in aree di particolare significatività, soprattutto quelle dove si rileva storicamente una maggiore produzione agricola: come le campagne della Capitanata e del Salento (in Puglia), quelle del casertano – soprattutto a ridosso della Baia Domitia – e della Valle del Sele (in Campania). Una analisi specifica, inoltre, proprio per il suo particolare interesse, è stata svolta sul distretto di Prato, dove particolarmente rilevante è la presenza di lavoratori immigrati provenienti dalla Cina e dove le condizioni di lavoro sono sovente oggetto di discussione. Le interviste effettuate sono state complessivamente 60 e sono state tutte realizzate mediante l’utilizzo di una scheda-aperta, utilizzando in molti casi il registratore (laddove non creava problemi di sorta). Una parte di queste interviste è stata effettuata a testimoni-chiave (in totale 38), mentre le restanti 22 sono state realizzate direttamente a lavoratori stranieri; lavoratori che si sono trovati nella condizione di grave sfruttamento e che hanno accettato di raccontare parti della loro storia personale. Questi lavoratori sono stati individuati tra quanti sono entrati in contatto con i servizi territoriali di protezione sociale allo scopo di fuoriuscire dalla condizione di assoggettamento: o perché hanno denunciato la 131 loro condizione alle forze dell’ordine; o perché sono stati intercettati dalle stesse durante ispezioni in aziende sospette, oppure perché hanno avuto la forza di scappare e chiedere aiuto. Una parte delle loro storie è stata ripresa da materiali cartacei prodotti dagli operatori sociali direttamente coinvolti nella fase di rilevazione dei dati e delle informazioni riguardanti le utenze10. I testimoni-chiave, invece, sono stati prescelti da una rosa molto più ampia, composta da sindacalisti, da rappresentanti delle forze dell’ordine, da magistrati, da operatori dei servizi che hanno attivato percorsi di protezione sociale, nonché da leader di associazioni di immigrati. Di particolare significatività si sono rivelate le testimonianze dei sindacalisti di origine straniera e dei leader di associazioni di immigrati, in quanto loro stessi nelle prime fasi di insediamento hanno vissuto esperienze lavorative di particolare durezza. Le interviste sono state realizzate da operatori sociali che intervengono da anni sui fenomeni di grave sfruttamento, dopo aver partecipato a momenti di formazione specifici e preso familiarità con gli strumenti tecnici specificatamente approntati. Senza questa collaborazione non sarebbe stato possibile arrivare a conoscere segmenti di storia di questi lavoratori gravemente sfruttati e di tratteggiare così i loro vissuti esperienziali; storie che hanno permesso di esplicitare e far conoscere ciò che è avvenuto ai rispettivi protagonisti e pertanto ciò che può avvenire ad altri loro connazionali o altri immigrati. C’è da dire, pur tuttavia, che non tutte le interviste hanno dati i risultati sperati, nel senso di una pienezza di dati ed informazioni tali da soddisfare del tutto le ipotesi di ricerca. Infatti, una parte degli intervistati, nonostante lavori nel settore immigrazione da molto tempo o si occupi di problemi legati a situazioni di particolare sfruttamento, non aveva molto chiara la suddivisione tra lavoro nero e lavoro para-schiavistico, in quanto tendeva sovente a confondere i due piani. Questa constatazione, avvenuta dopo aver realizzato una prima parte delle interviste, è stata oggetto specifico di discussione/riflessione da parte del gruppo di ricerca. In sostanza, questa non conoscenza approfondita del fenomeno da parte di un congruo numero dei testimoni privilegiati intervistati (e precedentemente prescelti in quanto “dovevano” saperne abbastanza del fenomeno all’esame) sta di fatto ad indicare che l’argomento in questione rappresenta tuttora un tema di non facile approfondimento e comprensione. Inoltre, sta ad indicare che la problematica dello sfruttamento violento e coercitivo dei lavoratori stranieri è un fenomeno sociale ancora nella sua fase 10 Queste informazioni sono state acquisite da una decina di interviste realizzate dalla Cooperativa Lotta contro l’Emarginazione di Sesto S. Giovanni (Milano), dall’Associazione Donne in Movimento di Pisa e dalla Cooperativa Parsec di Roma. 132 iniziale di sviluppo e pertanto le informazioni al riguardo non sono ancora sistematizzate, non rappresentano ancora un sapere consolidato. Oppure, altra ipotesi non secondaria, sta ad indicare che la pratica dello sfruttamento paraschiavistico, seppur presente ed ormai intercettabile, non rappresenta ancora un fenomeno emergenziale e che nonostante tutto sia ancora correlabile a situazioni locali, a situazioni di particolare gravità, a situazioni lavorative gestite da imprenditori-delinquenti; imprenditori che si affidano per il reclutamento e la gestione tecnico-organizzativa a caporali e truffatori di antica memoria e pericolosità. Un’altra parte di testimoni-chiave, invece, soprattutto quelli appartenenti ad organizzazioni no profit e alle organizzazioni sindacali, nonché a qualche procura particolarmente attiva sulla questione, ha offerto uno spaccato del fenomeno abbastanza puntuale, soprattutto dal punto di vista qualitativo. Le informazioni raccolte costituiscono la base conoscitiva che ha permesso la redazione del seguente rapporto di ricerca. Il rapporto, prende in considerazione, dunque, informazioni riguardanti diverse collettività straniere, con un approfondimento concernente la comunità cinese di Prato proprio per le caratteristiche che assume la dimensione lavorativa e quella imprenditoriale. 3.2 Le caratteristiche strutturali del collettivo intervistato L’età, il genere e i paesi di provenienza Dalle interviste agli immigrati emerge un profilo sociale che rientra, in linea generale, in quelli che ormai caratterizzano i flussi al loro primo ingresso. Si tratta infatti di persone che hanno una età compresa tra i 20 e i 35 anni, con una particolare rilevanza per gli anni che superano di poco i venti. Sono in buona parte maschi. Entrambi i gruppi intervistati, sia maschi che femmine, hanno livelli di scolarizzazione medio-alti. La composizione di genere, comunque, al di là del collettivo intervistato, trova una sua ulteriore conferma dalle informazioni che hanno offerto alcuni testimoni privilegiati che lavorano all’interno di organizzazioni che attivano programmi di protezione sociale. Infatti, secondo i sindacalisti e gli operatori che gestiscono interventi di protezione sociale per i lavoratori che abbiamo intervistato, le persone straniere intercettate e aiutate ad uscire dalle pratiche di sfruttamento para-schiavistico hanno una età piuttosto giovane e una durata di permanenza sul territorio nazionale quasi sempre molto breve, anche se una parte minoritaria soggiorna nel nostro Paese da diversi anni. Queste indicazioni, oltremodo, fanno pensare che in prossimità di una età giovanile, una durata di permanenza breve – e quindi arrivi avvenuti non tanto lontani nel tempo – e in presenza di immigrati 133 maschi, possono scattare meccanismi di sfruttamento pesanti. In altre parole le caratteristiche di base del collettivo intervistato rispecchiano in larga parte quelle che si possono riscontrare anche in altre fasce di popolazione migrante, soprattutto di prima immigrazione. L’intreccio tra giovane età, genere maschile e breve durata di insediamento dall’ingresso può rendere queste persone particolarmente vulnerabili. In particolare quando devono lavorare, devono trovare una occupazione, devono acquisire reddito e pensare innanzitutto alla propria sussistenza; ragion per cui qualsiasi offerta di lavoro viene accettata, a prescindere dal settore e dalla qualità intrinseca all’attività lavorativa richiesta. L’accettazione o meno di questi lavori dipende comunque anche dalla collocazione degli interessati all’interno delle reti intra-comunitarie del proprio paese di origine e dai livelli di protezione che riescono ad attivare sulla base della loro specifica anzianità di insediamento. Questo aspetto non è secondario. Infatti, una comunità più strutturata può offrire protezione iniziale ai propri membri, mentre una comunità più giovane potrebbe avere delle difficoltà ad accordarla e non essere in grado di offrire solidarietà e relazioni sociali rilevanti. Le aree di provenienza – e i singoli paesi da cui sono arrivati gli intervistati stranieri – fanno pensare, a parte qualche caso, a comunità abbastanza radicate sul territorio nazionale e quindi a sistemi di sostegno significativi. Anche se questo, in effetti, può in generale avere una sua significatività, ma nel particolare – in relazione cioè al singolo immigrato – il sistema di sostegno comunitario può anche non funzionare e quindi lasciare di fatto la singola persona in balia degli eventi negativi che possono coinvolgerlo da vicino. Inoltre, i sistemi di protezione interni alle comunità sono alla fin fine di carattere gruppo-centrico, il che vuol dire che se non si appartiene ad un clan, ad una “famiglia allargata” o a gruppi di compaesani e conoscenti, si può anche rimanere soli e collocarsi (anche se involontariamente) ai margini della comunità. In questi casi l’isolamento sociale dalla comunità di appartenenza può posizionare i diretti interessati in una dimensione di vulnerabilità. Questo posizionamento vulnerabile può avvenire, ad esempio, quando i singoli migranti provengono da regioni o aree particolari della Cina, del Pakistan, del Bangladesh o dell’India e non hanno una comunità strutturata nel nostro Paese e la lontananza con le altre comunità – seppur della stessa nazionalità – è la stessa che potrebbe esserci addirittura tra persone di nazionalità diversa. Di fatto, trattandosi di paesi molto grandi – con usi e costumi alquanto diversi, nonché con lingue e dialetti altrettanto differenti – è possibile che l’aggregazione tra immigrati della stessa nazionalità non sia facile proprio per la diversa appartenenza regionale e locale. Stesso ragionamento vale per gli altri immigrati intervistati provenienti dall’Egitto, dal Marocco, dalla Tunisia e dal Nepal. 134 Da quanto emerge da una parte delle interviste si tratta comunque di immigrati che provengono da aree rurali poco urbanizzate, lontane dalle grandi città e pertanto raccontano esperienze di disorientamento iniziale nel tentativo di inserirsi nelle grandi città metropolitane del nostro Paese. Alcuni marocchini intervistati provengono dalle campagne di Beni Mellal le cui caratteristiche morfologiche e di produzione agricola assomigliano a quelle della Capitanata e del Salento; così quelle della Romania meridionale, soprattutto nell’area della Valacchia – regione tra le più povere del paese – e da Craiova, area limitrofa altrettanto sottosviluppata. Beni Mellal, Craiova e la Valacchia sono aree agricole piuttosto arretrate economicamente, anche per il fatto che sono zone aride e prive di acqua; sono terre che fanno ancora fatica a innestare sistemi di produzione in serra e quindi programmare i raccolti. Tutto è ancora legato alle fluttuazioni del tempo. Alcuni intervistati provengono da altri paesi dell’Est europeo: Ucraina, Bulgaria e Moldova; in questi ultimi casi le provenienze sono in parte urbane e in parte agricolo-rurali. Le condizioni di vita prima della partenza e le tracce di vulnerabilità Le condizioni di vita prima della partenza raccontate dagli intervistati, sia i testimoni-chiave che i lavoratori fuoriusciti dall’assoggettamento lavorativo, non sembrerebbero particolarmente distanti da quelle che si riscontrano nelle componenti immigrate più in generale. Si tratta di condizioni mediamente simili a quelle che si rilevano negli altri strati sociali dei paesi di provenienza. Ciò che accomuna queste persone che arrivano nel nostro Paese, per usare le parole di un testimone intervistato: “Non sono sempre storie tristi, ci sono anche lacrime, ma tutti aspirano a sentirsi nella normalità, a superare l’anormalità.” (int. 5, docente universitario, Modena) “Lavoravo in miniera (…) mia moglie non lavorava e così ho deciso di partire”; “avevo un lavoro, facevo l’insegnante però pagavano poco, era difficile andare avanti”; “io avevo un buon lavoro che mi piaceva, facevo l’assistente per persone con handicap”; “non c’era futuro, non c’era lavoro nel mio villaggio”; “mio padre lavorava un po’ in agricoltura per aiutare la famiglia, mia mamma stava a casa. Io ho lavorato come imbianchino (…) e anche in agricoltura”; “ho lavorato in fabbrica, facevo l’operaio, poi ho fatto il cuoco e cose del genere”; “sono venuta qui solo per un motivo: per la situazione economica, solo per lavoro. Io ho studiato pianoforte e ho insegnato musica”; mia madre lavorava in campagna e io anche. Io andavo a vendere le uova al mercato, lavoravo l’intera giornata”; “ho fatto lavori diversi (…) sono dovuta partire perché non c’era più lavoro per me”; “avevo una 135 casa. La mattina insegnavo ai bambini a scuola, poi tornavo a casa alle 14,30 e facevo la casalinga, come voi. Poi ad un certo punto, i soldi che guadagnavo io e quelli che guadagnava mio marito che dirigeva gli operai in una fabbrica, non bastavano più. E allora sono partita11.” Queste sono alcune delle risposte acquisite dagli intervistati. Come si intuisce le condizioni di vita e di lavoro non erano brillanti, ma non erano neanche particolarmente proibitive. È ormai assodato che le componenti straniere che arrivano hanno comunque un capitale sociale mediamente alto. Questo capitale sociale è uno dei fattori che innesca il cosiddetto effettospinta soggettivo, cioè la propensione a maturare l’idea di espatriare. Si tratta di una maturazione complessa a cui partecipa non solo il diretto interessato ma sovente tutta la famiglia, anche perché colui o colei che emigra si impegna a sostenere la famiglia una volta espatriato: “Partono delle persone su cui la famiglia… e la comunità locale più estesa ha investito e da cui si aspetta un ritorno.” (int. 9, docente universitaria, Foggia) Da queste affermazioni, tuttavia, che sono quelle degli intervistati che hanno fruito della protezione sociale, non si evincono particolari condizioni di povertà che giustifichino, ad esempio, un reclutamento violento ed aggressivo già all’origine. Sembrerebbe di essere in presenza di scelte migratorie assimilabili a quelle comunemente riscontrate per altri migranti. Ma tra le intervistate, invece, ossia dalle donne, soprattutto dell’Europa dell’Est, emerge qualche caso di reclutamento non del tutto pacifico. Infatti, qualcuna afferma che nel proprio paese lavorava come domestica e già subiva forme di assoggettamento. Assoggettamento che poi si è riprodotto su una scala diversa una volta arrivata in Italia. Ad esempio, una donna rumena che lavorava come domestica a Bucarest ha dichiarato che le condizioni complessive di lavoro non erano di suo piacimento, giacché era insoddisfatta: la pagavano poco, non mangiava bene e soffriva di solitudine e nostalgia per il suo villaggio natale. Il parere, invece, dei testimoni-chiave intervistati sono diversi. Una parte afferma che quando gruppi di uomini immigrati arrivano hanno già alle loro spalle percorsi di sfruttamento e quindi non sanno valutare le condizioni che trovano nel nostro Paese e perciò non cercano di svincolarsi da rapporti di lavoro pesanti. Di fatto, come afferma un altro testimone-chiave, studioso del fenomeno immigratorio, molti immigrati: 11 A partire dalla prima citazione si tratta delle interviste: n. 7, uomo rumeno, Verona; n. 8, donna georgiana, Bari; n. 12, uomo rumeno, Foggia; n. 2, uomo pakistano, Varese; n. 1, uomo tunisino, Varese; n. 6, uomo cinese, Firenze; n. 5, donna rumena, Foggia; n. 8, donna georgiana, Bari. 136 “Nei loro paesi sono spesso sotto occupati o disoccupati o anche se occupati guadagnano molto poco e lavorano sodo. Sono persone inferiorizzate, cioè hanno interiorizzato il fatto che sono subalterni, che sono cittadini di serie più bassa.” (int. 7, docente universitario, Lecce) “La possibilità di venire a lavorare nel nostro Paese rappresenta per loro una svolta per tutta la famiglia, in particolare per i figli e per questo molte di queste donne accettano tutto e diventano per questo molto vulnerabili.” (int. 3, responsabile associazione, Pisa) Si tratta – come è ovvio che sia – di situazioni all’origine diverse. Alcune di queste situazioni sono tutto sommato di quasi-normalità, non fosse altro che le retribuzioni percepite erano basse e non sufficienti a vivere adeguatamente. Altre situazioni, invece, soprattutto quando si tratta di donne, appaiono più in bilico; nel senso che quando si inaspriscono le condizioni familiari, quale effetto diretto di quelle del paese/regione di esodo, si palesano tutte le forme di precarietà e di instabilità che caratterizzano la quotidianità di queste persone. Le donne sembrano subire maggiormente queste condizioni contraddistinte da fragili equilibri, soprattutto quando il marito è disoccupato o non lavora da più tempo oppure quando manifesta comportamenti aggressivi e devianti. L’instabilità delle condizioni di vita che queste donne vivono nel proprio paese e, ancor più, i problemi relativi ad un rapporto di subordinazione con il proprio marito – o con la propria famiglia in generale – si riflettono nel loro universo lavorativo. L’elemento interessante che emerge da una buona parte delle intervistate è dato dal fatto che nel raccontare le loro vicende personali esse ricostruiscono l’esperienza migratoria come un evento subito, una scelta quasi auto-imposta per emanciparsi da mariti violenti ed oppressivi. Per altre invece, l’emigrazione appare come l’unica occasione possibile per ricostruirsi una vita dopo la perdita del proprio marito, in contesti che altrimenti le escluderebbero dalla possibilità di ricominciare da capo e di essere autonome attraverso il lavoro. 3.3 L’organizzazione del viaggio e la partenza dal paese di origine Le motivazioni del viaggio e l’assenza di partenze costrittive Le motivazioni registrate tra gli intervistati alla base della scelta migratoria e le modalità organizzative che sottostanno alla partenza confluiscono, in generale, in una sorta di reazione individuale alle condizioni economiche insostenibili, come emerso nel paragrafo precedente. Ma una volta che hanno 137 deciso di partire, come hanno lasciato il loro paese i nostri intervistati? Con quali risorse economiche? Ciò che si riscontra in primis è che le scelte di emigrare sono state effettuate sovente sotto la pressione di crisi economiche familiari: la perdita del lavoro, la riduzione dello stipendio, la nascita di un altro figlio, la morte del coniuge o dei figli più grandi. Si tratta, in genere, di eventi che cambiano la realtà familiare e individuale dei protagonisti e finanche quella dei gruppi di prossimità. I nostri intervistati sembrano subire questi eventi e maturare la scelta di emigrare sotto la pressione dei medesimi. La decisione di partire e l’organizzazione della partenza sembrano seguire più logiche di tipo spontaneista che non logiche di programmazione. Tutto sembra maturare all’improvviso, con la partenza di un vicino, di un amico di scuola o di un parente. È l’emulazione che gioca un ruolo ed una funzione aggregante alla partenza, è l’aspettativa del guadagno e delle spese che si possono sostenere. Ma una volta che si è deciso di partire, allora, solo allora, si può cadere nella rete delle organizzazioni che predispongono il viaggio, che garantiscono l’intero pacchetto-emigrante, che preparano la trappola per coinvolgere le persone più fragili e meno accorte delle altre. Ma dalle interviste effettuate – sia ai lavoratori immigrati fuoriusciti dai meccanismi dello sfruttamento coatto che ai testimoni chiave – non emergono casi di tratta, ossia di persone raggirate, truffate, oggetto di false promesse lavorative già alla partenza: né per gli intervistati maschi né per le femmine12: “Abbiamo notato” soprattutto dalle grosse indagini che abbiamo fatto sui pakistani, che non c’è un reclutatore di professione che va da queste persone e propone il viaggio (…) sono i potenziali migranti che cercano direttamente la persona che può aiutarli ad arrivare nei paesi di destinazione.” (int. 6, operatore di polizia, Varese) Quindi, stando a queste informazioni, il reclutamento e l’individuazione della maniera per emigrare rappresentano per i lavoratori pakistani, in generale, una forma volontaria di contrattazione. Siamo in questi casi di fronte al “modello” che si caratterizza come contrabbando di migranti, cioè si acquista un servizio illegale per riuscire ad espatriare. Sembrerebbero mancare quegli elementi che denotano il fenomeno come coercitivo e paraschiavistico, cioè allorquando le partenze sono involontarie, sono organizzate in opposizione alla volontà del protagonista, del diretto interessato: 12 Si preferisce tradurre il termine “smuggling” con “contrabbando” perché rende il senso del passaggio della frontiera in modo volontario e contrattato, anche se più impreciso rispetto al termine originale in inglese. Per una trattazione più ampia si veda: E. Pugliese, “Schiavi e non: questioni concettuali e problemi per la ricerca”, in F. Carchedi, F. Mottura, E. Pugliese (a cura di), op. cit., pp. 49-57. 138 “La decisione di emigrare da parte di queste persone è quasi sempre autonoma ma non per questo possiamo dire che sia altrettanto libera, in quanto sovente essa è influenzata dalle condizioni gravose da cui si cerca di scappare e per le quali si è costretti a lasciare il proprio paese di origine (…) nessuno impone o costringe queste persone, questi lavoratori già alla partenza dal paese di origine; pur tuttavia possiamo ben dire che si può parlare di traffico di migranti, nel senso che dei contrabbandieri fanno arrivare qui queste persone… poiché ci si rivolge alle organizzazioni criminali che si occupano del viaggio verso il nostro paese.” (int. 4, sindacalista, Caserta) L’opinione, condivisibile, tra l’altro, di questo intervistato, pur tuttavia, rimanda al quesito di fondo che ripercorre storicamente la formazione dei flussi migratori, ossia: quanto le condizioni oggettive – di natura politica, economica o sociale e religiosa – che caratterizzano l’area di esodo (e del paese della quale fa parte) influenzano la nascita e la costruzione delle componenti di popolazione che poi espatriano? E come la pressione oggettiva che producono questi fattori si manifesta nei singoli gruppi sociali, nelle singole famiglie e nelle singole persone che poi si trasformano in emigranti? E nell’influenzare i singoli individui come si trasformano in motivi specifici che poi sono quelli alla base delle azioni concrete che determinano l’avvio, il rafforzamento e lo sviluppo dell’esperienza migratoria? Ciò che ci appare significativo sottolineare è che comunque non si tratta di coercizione individualizzata, cioè mirata specificamente a singole persone, ma rimanda a condizioni di pressione sociale oggettiva13. A decisione presa le risorse per il viaggio vengono prelevate da più parti: dai risparmi della famiglia, dai risparmi propri, dalla vendita di beni o animali, eccetera: “Quando ho deciso di partire, mio padre mi ha detto che avrebbe venduto qualcosa per pagare il mio viaggio (…) ha venduto un terreno in cui la famiglia coltivava il riso; l’acquirente è stato il nostro vicino. Mia madre (inoltre) ha venduto la casa.” (int. 3, uomo bengalese, Varese) “Quando ho deciso di partire mio padre ha pagato una persona, ma non so quanto, forse più o meno 2-3 mila euro.” (int. 2, uomo pakistano, Varese) 13 Per questi aspetti del dibattito si rimanda a due “classici”: P. Gorge, Le migrazioni internazionali, Editori Riuniti, Roma, 1978, in particolare alla Parte prima, pp.19 e segg.; S. Castels, M.J. Miller, The age of migration. International population movements in the modern world, MacMillan, Londra, 1993, in particolare il Cap. 2, pp. 18 e segg.; S. Sassen, Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa, Feltrinelli, Milano, 1999, pp. 33 e segg. 139 Tra gli intervistati non sembra che emergano comunque debiti di particolare entità, se non piccolissimi prestiti da familiari facilmente restituibili14. Non sono debiti dunque che intaccano l’andamento del progetto migratorio dei migranti o del piano che bene o male è stato programmato ed eseguito al meglio delle possibilità. Per alcuni immigrati le spese di viaggio, d’altra parte, sono considerate una forma di investimento, sostenere le spese del viaggio per un figlio o un nipote significa per molti genitori ricevere in cambio stima e riconoscimenti affettivi e sociali; nonché – a volte – anche economici, mediante il pagamento di interessi e compensi monetari o di beni materiali. Per la comunità familiare di origine, quindi, in genere, l’emigrazione rappresenta un modo per riscattarsi, di emanciparsi e di entrare in una fascia sociale in grado di accedere a consumi o a immobili precedentemente inimmaginabili. Non si rilevano dunque partenze costrittive, che avvengono cioè sotto la pressione di una minaccia o di violenze di tipo soggettivo. Si tratta di partenze che rientrano nei modelli e nei meccanismi di espatrio che accomunano la gran maggioranza dei migranti, a prescindere dall’area geografica di partenza. La non visibilità delle organizzazioni “a doppia sponda” Il parere degli operatori e delle operatrici Una parte degli intervistati – testimoni-chiave e lavoratori fuoriusciti dallo sfruttamento lavorativo – interrogati rispetto all’esistenza di organizzazioni a “doppia sponda”, ossia organizzazioni che operano nelle aree di esodo e hanno legami funzionali ai business illeciti sul versante lavorativo nell’area di approdo, hanno risposto in maniera negativa. Non esisterebbero – o meglio non si è ancora a conoscenza di – organizzazioni che mettono in contatto l’offerta di lavoro che si aggrega nelle aree di esodo e la domanda che si concretizza nel paese di arrivo, o meglio in particolari aree territoriali dello stesso e in particolari comparti ed ambiti lavorativi.15 Un sindacalista afferma che: 14 Al riguardo i rilevatori avevano il mandato di fare domande – ed insistere su tale argomento con cautela – sulle risorse impiegate per il viaggio, ma le risposte sono state quasi sempre le stesse: “non sono stati fatti debiti di particolare entità”. 15 Il modello organizzativo di riferimento per affrontare tali questioni è stato quello esistente nel settore dello sfruttamento prostituzionale, laddove sono operanti organizzazioni che provvedono non soltanto della documentazione necessaria alla partenza delle migranti, ma garantiscono il trasporto – coprendo tutte le necessità del viaggio – fino alla frontiera ed oltre, per inserirle immediatamente negli ambiti di sfruttamento una volta arrivati a destinazione. 140 “Non si è a conoscenza di persone contattate da trafficanti di migranti sin dal paese di origine. In genere sono gli emigranti stessi a richiedere l’intervento di questi sfruttatori, ma il contatto diretto avviene solo all’ultimo momento e cioè ad esempio in Libia o in Tunisia. Non esiste legame alcuno tra chi lucra sui viaggi delle vittime e coloro che invece li sfrutteranno in Italia con il lavoro forzato nei campi o in altri ambiti produttivi. C’è una sostanziale differenza tra chi organizza i viaggi e chi invece organizza poi il successivo sfruttamento.” (int. 4, sindacalista, Caserta) Possiamo ben dire che sono due fasi completamente separate ed autonome. Secondo un altro sindacalista, una organizzazione a doppia sponda sul versante dello sfruttamento lavorativo: “È difficile da immaginarsi (…) poiché sarebbe difficile per essa oltrepassare il filtro dei controlli che si effettuano alle frontiere, ad esempio, a Lampedusa e di quelli che si effettuano dopo, nella fase di accoglienza o di soggiorno nei Centri di Permanenza Temporanea; filtro che invece non è efficace alla frontiera aeroportuale (…). Gli sfruttatori che lucrano sulla prostituzione possono permettersi di far arrivare le ragazze mediante l’aereo e affrontare quindi una spesa maggiore; questa infatti (…) viene ammortizzata in un lasso di tempo minore, con il lavoro sarebbe impensabile… poiché occorrerebbero molti anni… e non varrebbe il rischio.” (int. 2, sindacalista, Salerno) Gli immigrati che intendono arrivare in Italia molto spesso fanno il viaggio da soli e si insediano in paesi limitrofi, oltre la frontiera, come in Slovenia o in Libia o in Tunisia o Marocco e poi aspettano l’occasione per oltrepassare i confini nazionali: “Nessuno va a cercare lavoratori da portare direttamente in Italia, continua lo stesso, per poi sfruttarli in maniera grave. Sono gli immigrati che vanno da coloro che organizzano l’attraversamento della frontiera terrestre e marittima e proporsi per entrare da noi, perché senza una organizzazione non ce la farebbero mai. Conoscono perfettamente le persone che organizzano il trasbordo oltre frontiera; sanno, dunque, a chi rivolgersi e qual è il costo per entrare nel nostro Paese. Mediamente va dai 2000 ai 3000 euro e il pagamento è rigorosamente in contanti. (…) Non esistono legami tra coloro che organizzano l’ingresso sul nostro territorio e coloro che li prenderanno a lavorare al nero o peggio ancora, chi li sfrutterà a dovere.” (int. 6, operatore di polizia, Varese) Ad esempio, afferma un altro testimone: “Gli immigrati che arrivano in Italia nei camion dopo essersi imbarcati dal Marocco e attraversato la Spagna, pagano il viaggio quando sono ancora sul territorio africano e chiudono così il rapporto con i trafficanti prima di entrare in Europa. Poi, una volta 141 entrati, continuano nei modi più diversi, ma senza intermediari di professione.” (int. 1, magistrato, Roma) Come si evince dalle interviste è difficile, per la varietà delle tipologie di viaggi e le modalità di organizzazione degli stessi, parlare di organizzazioni criminali. Sarebbe un’operazione di grande semplificazione che non renderebbe appieno la complessità del fenomeno ma che lo riduce ad alcuni suoi elementi peculiari esasperandone gli aspetti più legati alla criminalità e celando il ruolo attivo dei migranti e della loro volontà di partire. Si può trovare una conferma di queste ipotesi, anche nelle parole utilizzate dai lavoratori immigrati interrogati sulle motivazioni delle partenza, sull’organizzazione del viaggio. Nessuno di loro parla di costrizione, di violenza, di raggiro. Le parole che maggiormente emergono sono “decisione di uscire”, “scelta di emigrare”, “volontà di partire”, “desiderio di andare via dal paese”, “progetto per sostenere la famiglia”, quasi a sottolineare la determinazione e la forte motivazione alla base della volontà di emigrare e, di converso, a testimoniare la mancanza di elementi di coercizione prima della partenza. D’altro canto, secondo quanto racconta un sindacalista: “Per le organizzazioni che si dedicano al traffico di migranti è più semplice e meno rischioso occuparsi solo della falsificazione dei documenti, o solo del viaggio oppure solo dell’attraversamento della frontiera e, una volta arrivati sul territorio nazionale, lasciare i migranti al loro destino.” (int. 2, sindacalista, Salerno) Il parere delle persone direttamente interessate I diretti interessati – coloro usciti dal lavoro coatto – raccontano che alla partenza non sono stati reclutati con la forza, ma sono stati loro a cercare chi poteva facilitare l’ingresso nel nostro Paese. Tali asserzioni confermano quanto riportato dai testimoni-chiave. Ciò che emerge – ad esempio dai sindacalisti stranieri entrati in maniera irregolare in Italia tanti anni addietro ed ora regolarmente soggiornanti – è che esiste un sapere diffuso intorno alle modalità di emigrazione: sia alla partenza, sia durante il viaggio e sia durante le prime fasi di ingresso. Aspetti che danno la misura della comparabilità di queste storie – raccolte per comprendere la presenza di violenza e sopraffazione in vista del grave sfruttamento lavorativo – con quelle che altri migranti hanno più volte raccontato in precedenza: “Nessuno mi ha obbligato, però ho sentito che ci sono delle persone che organizzano il viaggio, e così è più facile entrare dalla frontiera (…) ci sono delle 142 persone che raccontano alla gente come entrare in Italia con soldi in tasca (…) però nessuno ti costringe. A me nessuno mi ha detto devi venire con me in Italia e mi ha costretto.” (int. 1, uomo tunisino, Varese) Un altro intervistato ha raccontato che nel periodo della sanatoria BossiFini il costo per entrare era quasi triplicato a 6.000 euro, perché oltre ad entrare era possibile anche avere un contratto di lavoro, fornito da imprenditori italiani compiacenti. Ciò risulta anche ad altri intervistati. Racconta un sindacalista: “Il prezzo concordato poteva arrivare fino a 5.000 euro, una cifra enorme. Cifra che veniva ripartita tra gli organizzatori del viaggio, coloro che li aspettavano alla frontiera e i presunti datori di lavoro. Ma erano pezzi di organizzazioni diverse che però formavano una catena unica. I datori lucravano in maniera molto consistente sui finti contratti di lavoro, ma non conoscevano coloro che avevano fatto entrare questi lavoratori. In realtà anche in questo caso non esiste una organizzazione così grande da coprire tutte le fasi dello sfruttamento e la collaborazione offerta dai criminali si esaurisce in ogni singola fase (…), fino a quella che prevede la fornitura del contratto di lavoro nel luogo dove questi lavoratori decidono di insediarsi.” (int. 4, sindacalista, Caserta) Insomma, c’è un giro di persone che ruota intorno a quanti esprimono il desiderio di partire, di emigrare; persone che offrono servizi, che offrono informazioni e strumentazione per falsificare documenti, soprattutto per quanti vogliono partire con una relativa fretta, senza aspettare. In questi giri di persone che erogano servizi a quanti vogliono lasciare il loro paese possono esserci semplici procacciatori di affari – piccoli o grandi – e allo stesso tempo truffatori e criminali della peggior specie. È importante per gli emigranti – e in qualche modo e anche casuale – incontrare gli uni o gli altri. Una donna rumena racconta: “Queste persone vengono a sapere che devi partire e ti vengono a proporre il loro supporto. Ti aiutano a capire che strada devi fare per raggiungere l’Italia e quali documenti servono; loro possono anche darteli, dietro pagamento di soldi. Io ho capito così: se vuoi partire presto loro ti danno tutto. Se lo chiedi loro ti aiutano, se non vuoi non fanno niente. Non mi sono sentita ingannata da loro. Io volevo venire nel vostro paese e loro mi hanno aiutata dando loro un po’ di soldi. Non tanti, per la verità.” (int. 5, donna rumena, Foggia) Quello che colpisce è molto spesso l’ingenuità e l’approssimazione con cui si predispongono questi viaggi. Si accorda un’immediata fiducia ai connazionali che si occupano di predisporre il viaggio, di raggruppare persone che fanno una 143 stessa richiesta rispetto alla meta da raggiungere e di organizzare queste lunghe tratte per giungere nei paesi di destinazione. Un testimone descrive come avviene la contrattazione del viaggio e la dinamica del viaggio stesso, che per come è organizzato, determina degli elementi di vessazione e di divieto. I rapporti tra viaggiatori-migranti e organizzatori del viaggio durante il percorso tendono a modificarsi: l’iniziale rapporto di fiducia e totale delega si trasforma nel tempo, poiché gli organizzatori tendono a far rispettare una disciplina rigida perché non vogliono correre nessun rischio, non vogliono essere intercettati. Man mano che ci si avvicina alla meta, cioè al luogo dove si interrompe il viaggio prima di oltrepassare la frontiera, i rapporti diventano tesi e finanche conflittuali. La gestione dell’ingresso non è facile. L’organizzazione che ha gestito il percorso fino allora finisce il suo lavoro e i migranti passano ad un’altra organizzazione: quella cioè esperta nei passaggi delle frontiere europee. In questi casi i rapporti tra i membri dell’organizzazione e i migranti possono divenire conflittuali: o perché per far fronte agli imprevisti vengono richiesti più soldi, o perché non è facile passare in certi periodi dell’anno o perché la vigilanza alla frontiera italiana è più forte. L’organizzazione può reagire imponendo discipline particolari e inserendo elementi di subordinazione e di obbedienza, non solo per portare a termine l’operazione “contrattualizzata”, ma anche per sfruttare al meglio questa opportunità, estorcendo cioè più denaro ai migranti. È in questa fase che possono emergere condizioni di assoggettamento e finanche di grave sfruttamento. In ogni caso, come abbiamo già detto, anche da parte dei diretti interessati che abbiamo intervistato, si tende ad escludere forme di reclutamento violento, anche se la violenza si affaccia sovente durante il viaggio e nel percorso di avvicinamento alla frontiera italiana. Insomma, per dirla con le parole di un sindacalista: “Più che di sfruttamento vero e proprio durante il viaggio da parte delle organizzazioni di contrabbandieri, si deve parlare di attraversamenti disumani e percorsi effettuati al limite della sopravvivenza.” (int. 2, sindacalista, Salerno) Le rotte seguite e le attese prima dell’ingresso sul territorio italiano Le persone intervistate sono entrate in Italia utilizzando diverse rotte, mezzi di trasporto tra i più vari e strategie di avvicinamento alla frontiera italiana altrettanto variegate16. Dai loro racconti si riscontra che le organizzazioni che 16 Per una visione di insieme relativa alle rotte che si intraprendono per arrivare in Italia, cfr. E. Ciconte (a cura di), I flussi e le rotte della tratta dell’Est Europa, Regione Emilia–Romagna, Grafiche Morandi, Fusignano, 2005. 144 gestiscono il viaggio cambiano rotta e direzione a seconda delle convenienze e delle opportunità che si presentano anche durante il tragitto da un paese all’altro e all’interno di uno stesso paese. Le organizzazioni di contrabbando di migranti utilizzano una miriade di modi per trasportare le persone che intendono far entrare nel nostro Paese. Utilizzano “agenti” e “collaboratori” diversivi vario tipo, ciascuno specializzato in particolari comportamenti o azioni di supporto; comportamenti ed azioni finalizzate comunque ad evitare i sistemi di controllo alle frontiere e di guadagnare il più possibile dalla condizione di subalternità in cui versano per tutto il viaggio le persone che fruiscono del servizio di trasporto finalizzato all’ingresso in Italia. Le modalità del viaggio, i costi che esso comporta e le rotte perseguite – facenti parte di un sistema sperimentato di avvicinamento alla frontiera e di superamento della stessa – dipendono sia dal grado di sicurezza e comodità del trasporto che dalle pratiche di mimetizzazione attuate per aggirare i controlli. Si tratta, pur tuttavia, di strategie e sistemi diversi poiché sperimentati ed attuati dai diversi gruppi organizzati su base nazionale – ad esempio, dagli albanesi, dai rumeni, dai turchi, dai libici e dai tunisini, nonché dagli sloveni o dai serbicroati – e dipendono altresì dalla distanza del posto da cui si parte rispetto alla meta da raggiungere, cioè i confini italiani. Una prima distinzione pertanto si può fare incrociando il numero di persone da trasportare e il mezzo più adatto, da cui dipende direttamente la sicurezza e la comodità: “Il camion con il doppio fondo è il mezzo migliore per trasportare poche persone e viene utilizzato da molte organizzazioni, non solo per l’avvicinamento al nostro Paese ma anche per l’attraversamento delle frontiere intermedie.” (int. 2, sindacalista, Salerno) L’altro mezzo ampiamente utilizzato è il pullman turistico: “Ho dovuto pagare una bella cifra per fare la turista. Ho viaggiato sempre con un bus da gran turismo. Dalla Georgia siamo andati in Norvegia, in Svezia e poi siamo ridiscesi per la Germania e sono stata in viaggio per giorni e giorni. Era tutto vero e tutto organizzato. Visitavamo i musei e facevamo fotografie. Non dovevamo dare nell’occhio a nessuno. Dopo 25 giorni sono arrivata in Italia, sono stata in un hotel a Rimini e qui ci siamo tutti divisi; dopo mi sono incontrata con una signora georgiana (…) con lei siamo andati a Bari.” (int. 8, donna georgiana, Bari) “Eravamo 20 persone. Tutte arrivate con un bus simile a quelli turistici. Ci hanno portato in una casa vicino al mare, nella zona di Tripoli in Libia. Ci hanno lasciati lì per giorni, in attesa di imbarcarci. Dovevamo uscire una notte, ma poi tutto è stato rimandato… il tempo non era buono. Io volevo tornare al mio paese, non ce la facevo 145 più ma mi hanno detto duramente di no: ‘se esci da questa casa ti ammazziamo, mi dissero. (…) Io sono rimasto lì due mesi e 10 giorni, però non nella stessa casa, spesso ci hanno cambiato di posto.” (int. 1, uomo tunisino, Varese) Anche dall’Est europeo il pullman sembrerebbe il mezzo più sicuro per entrare nel nostro Paese. Racconta una intervistata: “Siamo arrivati in Italia con un pullman attraverso la frontiera austriaca. Alle frontiere non ci sono controlli molto accurati e quasi nessuno si mette a guardare 50 passaporti e visti di ingresso… forse siamo stati fortunati. Non lo so, ma nessuno ci ha controllato. Poi ci siamo divisi dopo la frontiera, sul territorio italiano nei pressi di Verona.” (int. 12, donna rumena) “A circa 60 km dalla frontiera italiana, in zona francese, c’era un centro di raccolta di persone che volevano passare in Italia. Quando sono arrivato ho visto tantissima gente, dicevano che tutti volevano passare la frontiera ma non sapevano come fare. Poi è arrivata una persona che ha detto che poteva farci passare in Italia (…) importante era mettersi d’accordo sul prezzo.” (int. 1, uomo tunisino, Varese) “Dal Pakistan sono arrivato in Libia, dopo due mesi. In Libia sono stato in un appartamento per due settimane in attesa di imbarco per Lampedusa… (…) C’era anche altra gente che non conoscevo (…) e c’era una persona che portava da mangiare, che dava informazioni.” (int. 2, uomo pakistano, Varese) “Prima della frontiera slovena ci hanno portati in una camera, non proprio una camera, più una cantina. Quando sono arrivato lì ho visto che c’era un sacco di gente, quasi 70 persone sedute in terra; persone di tutti i paesi: indiani, pakistani, cinesi (…) siamo rimasti lì 16 o 17 giorni e poi abbiamo passato la frontiera con un pullman molto grande.” (int. 3, uomo bengalese, Varese) “Da Mosca… mi hanno portato in Ucraina. E in una casa dove mi hanno alloggiato, mi hanno detto che dovevo andare a piedi in Italia (…) sono rimasto lì tre settimane… e poi mi hanno trasferito in Slovacchia. Da qui in una casa di montagna… vicino la dogana della Repubblica Ceca. (...) Undici giorni dopo è arrivato un tizio che ci disse che il giorno dopo saremmo partiti. Così fu. Partimmo con la sua jeep fino alla frontiera italiana e poi a piedi per tre ore sulla montagna di Gorizia.” (int. 3, uomo bengalese, Varese) Si tratta perlopiù di percorsi e pratiche di avvicinamento e di ingresso abbastanza standardizzate, tipiche dei flussi migratori più generali; pratiche che si sono sedimentate nel tempo e con l’esperienza dei trafficanti e contrabbandieri. Il fatto inedito è che prima dell’ingresso vero e proprio sul nostro territorio nazionale c’è una fase di attesa per quanti intendono entrare; 146 fatto che si è rivelato abbastanza comune a molti degli intervistati. Fase che sembra necessaria sia per raccogliere le forze, per riposarsi dopo la prima parte del viaggio; sia per fare in modo che i migranti spendano una parte dei soldi nel luogo di raccolta o gli ultimi soldi rimasti (facendo guadagnare i commercianti del luogo in cambio del loro silenzio, della loro collaborazione); sia infine per individuare, contrattare e organizzare l’ultimo tratto del viaggio, pagare quindi i traghettatori o i trasportatori oppure gli autisti dei pullman turistici; insomma, definire le condizioni per fare l’ultimo tratto del viaggio, quello più importante ai fini del progetto di espatrio: ossia entrare nel territorio italiano. Quasi tutti gli intervistati narrano di questa fase cruciale, di questo momento di particolare significatività, in cui tutto sembra fermarsi. Dalle narrazioni si percepisce un senso di vuoto, un tempo quasi sospeso e in cui non si comprende quanto sta avvenendo o ciò che potrebbe accadere. Si passa dalle fatiche estenuanti del viaggio ad una sorta di riposo non voluto ma pur tuttavia accettato, data la stanchezza accumulata. Ma gli intervistati raccontano di momenti di grande confusione, di lingue che non si incontrano, di comportamenti che non si interpretano o se si interpretano non sempre sono quelli pensati. Il viaggio immaginato alla partenza era lineare, ben programmato nelle sue fasi intermedie e ben chiaro nelle fasi di arrivo. Il viaggio vero, quello appena vissuto e sperimentato, è fatto di cambiamenti di rotte, di percorsi accidentati, di pause interminabili in luoghi deserti, di lunghi riposi estenuanti. È fatto di fame, di sete e di smarrimento. Le pause sembrano più penitenze, più momenti di sofferenza che momenti di refrigerio, di riposo. Il viaggio prefigurato alla partenza non implicava tante pause, tanti passaggi di luogo in luogo, di accompagnatore in accompagnatore. Alcuni, solo grazie a queste lunghe soste, arrivano a capire che sono stati truffati e che il viaggio acquistato si ferma prima. Altri si rendono conto che l’ingresso in Italia non era compreso nel prezzo pattuito oppure che lo era ma non è più perseguibile. Racconta un intervistato: “Una volta arrivati a Tunisi o a Tripoli, oppure a Tangeri, molti migranti trovano lavori temporanei da fare, visto che quasi mai la partenza è immediata. C’è chi aspetta un mese/due mesi, chi invece aspetta anche 7/8 mesi; infatti trovare i contatti giusti ed aspettare che si presentino condizioni favorevoli sia economiche che logistico-organizzative può comportare tempi lunghi. Tempi che poi sono dettati dai trafficanti e dagli sfruttatori che si arricchiscono alle spalle di quanti attendono per attraversare la frontiera.” (int. 4, sindacalista, Caserta) 147 3.4 L’ingresso sul territorio nazionale e l’impatto iniziale con il contesto di insediamento Il sapere migratorio e le mete interne da raggiungere Dalle interviste emerge con chiarezza che molti immigrati conoscono già dove andare una volta entrati sul nostro territorio nazionale. Questo aspetto è piuttosto ricorrente negli studi sull’immigrazione e rimanda alla teoria della catena migratoria. Ma quando non funziona la catena o la filiera di richiamo, quando il contatto fiduciario che si ha in Italia salta per svariati motivi, quando l’immigrato pur raggiungendo le aree di lavoro dove sono ubicati i suoi parenti/amici non riesce a capitalizzare le relazioni che questi gli offrono o quando si imbatte in datori senza scrupoli e le conoscenze accumulate al riguardo dai connazionali non gli vengono in aiuto, cosa succede? È in questi casi che si scivola nelle dinamiche di grave sfruttamento lavorativo? Queste condizioni, comunque, in positivo, formano il bagaglio di aspettative di qualsiasi immigrato. Per tutti i migranti la scelta di partire e il raggiungimento del luogo in cui andare – dove ci sono parenti/amici o genitori ad attenderli – formano un binomio indissolubile. Si parte, si emigra perché c’è qualcuno ad attenderli, a mediare e facilitare il percorso di inserimento sociale e lavorativo. Difficilmente si parte se non si ha questo capitale a disposizione. Il processo migratorio è strettamente legato ad un processo informativo ed esperienziale accumulato dalla famiglia di origine, dalla comunità di riferimento. Il lavoratore migrante è una figura sociale ormai consolidata nei contesti territoriali a propensione migratoria: “Ci sono modi diversi di organizzare l’emigrazione da comunità a comunità; sono modi strutturati, affinati dal tempo e nel tempo, dall’ingegno soggettivo e da quello collettivo appartenente alla comunità locale di appartenenza. Sono modalità sperimentate da altri, nel corso del tempo. Da quando inizia il processo migratorio in una specifica collettività, in una specifica area e tocca particolari famiglie, particolari soggetti. Sono questi che trasmettono e consolidano l’esperienza migratoria. L’immigrazione nel paese di insediamento si snoda e si sviluppa sulla base di processi di accumulazione delle esperienze migratorie pregresse. L’esperienza migratoria viene socializzata in quanto si tratta di capitale sociale, ne sono coinvolti i parenti, i figli e i nipoti, nonché i membri della micro o macro comunità di appartenenza.” (int. 7, docente universitario, Lecce) La distanza geografica (e ciò si conferma nelle interviste) può essere una variabile non facilmente controllabile. Se si parte dalla Tunisia o dall’Albania – o finanche dalla Romania – e qualcosa dovesse andare male in relazione ai contat- 148 ti che si hanno in Italia, si può sempre tornare indietro. Ma come afferma un magistrato: “Se vi sono meno contatti e relazioni tra pakistani, indiani o migranti del Bangladesh, possono sorgere problemi di maggior serietà, in particolare quando intervengono agenzie internazionali di intermediazione illegale di manodopera, poiché i rapporti che attivano tra i migranti e quanti devono accoglierli non sempre sono verificabili, non sempre funzionano.” (int. 1, magistrato, Roma) Se alla partenza i potenziali migranti sembravano consapevoli e coscienti di cosa li attendeva, all’arrivo nel nostro Paese – soprattutto nelle fasi che seguono l’ingresso – possono disorientarsi, soprattutto se il contatto con i connazionali in loco non funziona e non si riesce a rincalzarlo con altri contatti, con altri connazionali disposti a solidarizzare. In questi i casi i limiti, la non piena conoscenza dei luoghi di approdo, le insicurezze derivanti dalla complessità dell’operazione, erano coperti (e ciò tranquillizzava gli interessati) dal fatto che ad attenderli comunque c’era il parente, il connazionale-amico. Ma si scopre, purtroppo, che le conoscenze che si avevano erano indirette, approssimative e non sufficienti. Si scopre che i luoghi conosciuti soltanto dai racconti dei connazionali e dalle lettere (o attraverso video o e-mail) – e mediante tali strumentazioni divenute quasi familiari – sono al contrario insidiosi, difficili e si presentano nella loro durezza. Le conoscenze del contesto territoriale meta di insediamento – che sembravano adeguate e alla portata delle capacità dei diretti interessati – presentano, invece, ampie aree di indeterminatezza, di non facile lettura e comprensione. Sono aree e contesti non agibili, al contrario di quello che si pensava. I contatti che avevano – personali o con una agenzia di lavoro transnazionale – e che davano la forza di procedere nell’esperienza migratoria si rivelano fragili, quasi inconsistenti. Nei peggiori dei casi si rivelano fittizi o ingannevoli, ci si sente truffati e abbandonati. L’impatto con il contesto di arrivo diventa problematico. Diventa problematico perchè in diversi casi, come riscontra un magistrato: “Ciò che si prospetta al migrante è una realtà più attraente di quella che poi egli trova. Anche le promesse di lavoro… soprattutto quando qualcuno le prospetta al potenziale emigrante per rafforzare la sua propensione migratoria (…); ovviamente, quando questo accade, quasi mai la condizione lavorativa prospettata corrisponde alla realtà, quindi c’è sempre un elemento ingannatorio. Questo si verifica soprattutto quando di mezzo c’è una agenzia di intermediazione.” (int. 1, magistrato, Roma) “L’inganno non è inusuale… l’inganno, la truffa… (…) è quasi sempre connesso con ciò che viene prospettato alla partenza e la realtà che invece si trova quando si 149 arriva nel nostro Paese… (…) e l’impatto iniziale (in questi casi di truffa) mostra al lavoratore straniero una realtà molto più degradata, e molto più deteriorata di quella prospettata all’inizio.” (int. 2, sindacalista, Salerno) La permanenza dipende pertanto da un ventaglio di opportunità casuali, sovente indeterminate e finanche ambigue, dai risvolti incomprensibili. Ci si rende conto che le aspettative iniziali non sono più così accessibili, e quindi si procede a un processo di riduzione delle stesse. Questi giovani migranti iniziano a muoversi come possono e dove possono, ricorrendo a strategie di “prova ed errore”, procedono per tentativi. L’impatto con questa realtà ostile spinge a focalizzare l’attenzione su poche cose e la loro soddisfazione dipende specificamente dalle persone che si incontrano. Ancora una volta è la casualità a giocare le carte: quali risorse posso utilizzare in questo contesto? Chi sono le persone (connazionali e italiani, o stranieri di altre nazionalità) con cui conviene stabilire delle relazioni seppur minime? In queste condizioni quali sono le opportunità di scelta? Poche e quasi nulle. Qui, infatti, secondo un agente di polizia, iniziano i problemi. Lo straniero deve accettare tutti i lavori che trova e tutte le combinazioni alloggiative che gli prospettano: “Gli dicono ‘devi stare qua, questo è il tuo lavoro e questa è la paga. Poi devi dormire di là… e mi paghi tot al giorno per l’ospitalità’. A questo punto può iniziare un vero percorso di sfruttamento serio. Non hai i soldi per il letto? Non ti preoccupare, te li anticipo io. Non hai i soldi da mandare a tua moglie? Te li do io. Poi me li ridarai con il tuo lavoro, stai tranquillo. Questa pratica o meglio questa tecnica di sfruttamento mira a indebitare l’immigrato e a creare una forma di dipendenza con il datore di lavoro.” (int. 6, operatore di polizia, Varese) Racconta un sindacalista riferendosi ad un caso trattato dalla sua organizzazione: “Dicono ‘Se non hai soldi per i primi tempi te li anticipo io. Anzi, se vuoi ti faccio lavorare nella mia impresa, lavori gratis, così poi mi paghi quello che ti sto prestando.’” (int. 2, sindacalista, Salerno) “Se hai un debito da pagare posso saldartelo con i primi stipendi che dovrai avere per il lavoro che farai per me. Anticipo anche i soldi per comprarti dei vestiti; comunque sia poi devo farti i documenti, altre spese da sostenere perché lo stato italiano ha bisogno di soldi, le tasse poi sono a carico del datore dei lavoro (...) l’immigrato senza neanche cominciare a lavorare deve dare già 2.000 euro al datore di lavoro. Questo si prende il passaporto per non farsi fregare dallo straniero. Qui il meccanismo diventa infernale (di sfruttamento) e raggiunge il massimo di pericolosità.” (int. 6, operatore di polizia, Varese) 150 3.5 Gli immigrati vulnerabili: modalità di invischiamento nelle dinamiche di sfruttamento vessatorio Le modalità di ingresso nei meccanismi di grave sfruttamento Da quanto emerso dalle interviste l’ingresso nei meccanismi di grave sfruttamento lavorativo si presenta – alla fin fine – abbastanza semplice, soprattutto in un contesto di accentuato processo di de-regolarizzazione del mercato del lavoro, dove sono insufficienti i canali di immigrazione programmata e soprattutto dove la presenza immigrata è considerata “istituzionalmente” una non-risorsa e si configura quindi con una “cittadinanza debole o del tutto assente (per gli ultimi arrivati, NdA)” (int. 5, docente universitario, Modena). Nel nostro Paese ci sono molti stranieri: “Irregolari per legge, perché abbiamo una legge… che impedisce sostanzialmente l’afflusso di immigrati mediante i canali legali e quindi agevola di conseguenza quelli che affluiscono mediante i canali illegali. (…) La legge (in tal maniera, NdA) risponde ad esigenze di inferiorizzazione della forza lavoro straniera.” (int. 7, docente universitario, Lecce) Questi aspetti, infatti, secondo i sindacalisti intervistati, influenzano anche i comportamenti dei singoli datori di lavoro, e in particolare di quelli che operano strutturalmente negli ambiti dell’economia sommersa: “Per questi datori, inoltre, sapere che un immigrato, quasi a prescindere dal periodo e dalla durata di permanenza, deve dimostrare di possedere un lavoro – e oltremodo un contratto formale – per poter soggiornare nel nostro Paese, può divenire uno strumento oggettivo di ricatto, una condizione che può produrre forme di subalternità psicologica e relazionale, ancorché giuridico-legale; subalternità che non può che riflettersi sulla dimensione lavorativa.” (int. 5, docente universitario, Modena) Questa sorta di “cappa climatica oggettivamente oppressiva” e di “clima istituzionale per nulla accogliente” – legittimato da “norme che rasentano la discriminazione” – dà adito a datori di lavoro senza scrupoli (o con pochi scrupoli) a porre in essere processi di de-valorizzazione dei cittadini stranieri; de-valorizzare il loro lavoro significa de-socializzare e non riconoscere la loro presenza, quindi spersonalizzare il loro potenziale apporto produttivo, renderlo cioè apparentemente indifferente. Rendere apparentemente indifferente l’apporto produttivo degli immigrati – e meglio ancora delle componenti di più recente ingresso – significa deprezzarlo, significa non assegnargli valore sociale e pertanto comprarlo per poco. Perché, appunto, non vale. 151 È una offerta di lavoro che apparentemente non viene riconosciuta come tale, non assume la dignità di capacità lavorativa, di sapere lavorativo impiegabile. È in sostanza, come abbiamo detto, un deprezzamento apparente e simbolico, ma nella sostanza, per usare le parole di un sindacalista: “È una forza lavoro ricercata, poiché, seppur socialmente vulnerabile, di fatto è comparabile per molti versi a quella nostrana. Anzi, è più disponibile, è più adattabile e più flessibile… e lo è per qualunque situazione lavorativa gli si propone. Tale deprezzamento sociale ha lo scopo tuttavia di limitarne ed annullarne la capacità contrattuale e di negoziare, in altre parole, svolge la funzione di evitare (o ritardare) la sua sindacalizzazione.” (int. 5, docente universitario, Modena) È all’interno di questo quadro sociale che i singoli percorsi lavorativi intrapresi dagli immigrati possono trasformarsi nel loro contrario, divenire cioè attività configurabili come para-schiavistiche. È il fabbisogno lavorativo, la necessità di lavorare – non solo al momento dell’arrivo ma anche per restare nel nostro Paese – che rende questi gruppi di immigrati facilmente ingaggiabili e disponibili a qualsiasi attività lavorativa purché produttrice di reddito; e non importa di quale reddito. Si tratta, in questa prospettiva, necessariamente, di relazioni altamente asimmetriche: ossia non relazioni o meglio di relazioni minimali senza possibilità di interscambio. Infatti, siamo davanti a disposizioni unilaterali, che vanno cioè dal datore al lavoratore senza possibilità da parte di quest’ultimo di contrattare alcunché. In conseguenza di ciò questi rapporti, pur tuttavia, rientrano ancora, come afferma una operatrice esperta su tali questioni: “… più nell’ambito del grave sfruttamento che non nel lavoro forzato… nel lavoro schiavistico. Sono pochi i casi in cui si può parlare a ragione di schiavismo lavorativo, perchè in questa ultima categoria rientrano le situazioni lavorative più estreme, ancora più estreme… dove il lavoratore non può recedere dal rapporto di lavoro. Ad esempio, tra questi ultimi casi collocherei un siriano che viveva sequestrato nell’azienda e di fatto lui era l’unico clandestino presente e non abbiamo mai capito bene come abbia fatto a finire in quella azienda… anche perché lui non aveva nessuna idea di dove fosse (…), cioè, lo dico in maniera letterale, non sapeva in quale paese fosse capitato... non lo sapeva davvero.” (int. 13, operatrice, Milano) La non percezione delle forme di grave sfruttamento La condizione di fragilità e di vulnerabilità sociale, comunque, che si ripercuote anche a livello lavorativo, non sempre è percepita come tale dai diretti interessati. Insomma, i lavoratori stranieri che vivono condizioni di grave sfruttamento generalmente non si percepiscono come vittime del lavoro. Essi 152 talvolta emigrano con l’idea di dover affrontare un lavoro molto duro e quindi, in qualche maniera, sono portati a considerare la loro condizione lavorativa come una condizione normalmente legata al fenomeno migratorio. Anche perché sovente provengono da contesti socio-politici e economico-culturali nei quali i diritti dei lavoratori non hanno livelli elevati di tutela e garanzia. Per queste ragioni, quando gli immigrati stranieri mettono a confronto le condizioni lavorative che avevano in patria con quelle che si ritrovano a sostenere nel nostro Paese non trovano molte differenze. Anzi: “Sovente riscontrano che le condizioni che vivono nel nostro Paese sono sostanzialmente migliori, mentre per gli italiani sono insopportabili.” I termini di paragone che gli immigrati utilizzano per verificare i livelli di garanzia e sicurezza del lavoro che svolgono non sono quelli del lavoro regolare contrattualizzato – e quindi coperto da garanzie formali –, ma quelli del lavoro irregolare non contrattualizzato; il primo tipo di rapporto di lavoro – per dirla con le parole della stessa intervistata, attribuite ad un immigrato – “è un lusso esclusivo per gli italiani.” (int. 13, operatrice, Milano) “La consapevolezza di determinati diritti, l’accettabilità di certe situazioni lavorative… certamente diverse da quelle praticate prima della partenza… sono altrettanto diverse a seconda dei paesi di provenienza e delle loro evoluzioni sociali ed economiche. Per chi proviene da paesi europei, paesi più o meno industrializzati ma simili ai nostri, c’è (da parte degli immigrati di quelle aree, NdA) una certa consapevolezza dello sfruttamento che subiscono. Per chi viene invece dalle campagne africane, dal lavoro delle oasi (…) o dal lavoro in piccolissime fabbriche cinesi o pakistane, può non trovare insopportabili certe modalità di rapporti lavorativi che si stabiliscono nel nostro Paese… o particolari relazioni conflittuali o soverchianti che potrebbe avere con il datore di lavoro.” (int. 5, docente universitario, Bologna) La percezione di non sfruttamento, la convinzione che comunque ciò che importa per l’immigrato è lavorare, in particolare al primo ingresso sul territorio nazionale, lascia in secondo piano le condizioni materiali di svolgimento dell’attività lavorativa. Quantunque la produzione di un reddito è ritenuta oltretutto soddisfacente, poiché permette almeno di vivere in qualche modo, la preoccupazione maggiore è quella di mantenere il lavoro. Tutto ciò che può mettere in discussione il rapporto di lavoro è considerato fuorviante e lontano dai propri interessi materiali. In altre parole, per usare le parole di un procuratore della Repubblica: “Non sappiamo in che misura l’immigrato gravemente sfruttato si vive come tale. Quindi bisogna distinguere. Ci sono coloro che si percepiscono come tali, e quelli 153 che invece subiscono completamente… (…) questi ultimi rappresentano la gran parte dei casi.” (int. 12, procuratore, Varese) La non percezione del grado di sfruttamento vissuto si accentua allorquando gli immigrati presenti sul territorio nazionale lavorano nei circuiti economici costruiti dai rispettivi connazionali e da quanti ruotano intorno all’ethnic business intra-comunitario a carattere sommerso: “Ci sono alcune nazionalità”, racconta una testimone intervistata, “che hanno un circuito interno di sfruttamento… un circuito cioè tutto interno alla comunità di appartenenza. Ad esempio, a quanto ne sappiamo, quando arrivano lavoratori pakistani… (…) vengono prevalentemente sfruttati dai connazionali pakistani. Così anche i nepalesi… dai nepalesi; (…) oppure i circuiti di sfruttamento gestiti dagli indiani che tendono a coinvolgere altri connazionali appena arrivati.” (int. 13, operatrice, Milano) Un ulteriore fattore che non permette agli immigrati di auto-percepirsi come lavoratori gravemente sfruttati – e quindi rende ancora più complessa la possibilità di prenderne coscienza – si riscontra allorquando gli immigrati interessati sono coinvolti su molteplici piani: ossia quando: “Oltre al lavoro viene proposto anche un posto-letto, la possibilità di parlare al telefono della ditta con i parenti, di avere degli amici nelle stesse identiche condizioni (…). Quando cioè c’è una comunità di interessi in genere però fittizia e ambigua… una stretta connessione tra vivere insieme… lavorare nello stesso posto… in settori analoghi e svolgendo mansioni simili e (oltretutto) nella stessa zona o quartiere di residenza.” (int. 13, operatrice, Milano) Da questo ultimo punto di vista lo straniero irregolare diventa una fonte lucrativa diretta e multidimensionale: dargli un lavoro sottopagato, un posto letto che paga mediante detrazione del salario percepito, che acquista viveri e generi di prima necessità dal datore di lavoro (o in un negozio indicato), che manda soldi nel paese di origine mediante un corriere indicato dal datore, che riceve posta e notizie dai parenti sul luogo di lavoro, che rinuncia (volontariamente) al riposo per fare la manutenzione dei macchinari o degli spazi aziendali al di fuori degli orari di lavoro, etc.: “Nel momento in cui si instaurano dei rapporti di lavoro all’interno di circuiti di sfruttamento un po’ più strutturati… chi ne gestisce un segmento, cioè è in grado di sfruttare un gruppo di stranieri, poi riesce a sfruttarli da tutti i punti di vista, non solo da quello lavorativo, alloggiativo… ma anche sanitario poiché compra dal datore anche le medicine (…) e (fruisce, NdA) anche della compravendita delle 154 residenze false, o dei documenti falsi17.” (int. 13, operatrice, Milano) I luoghi di sfruttamento e il profilo sociale dei datori-delinquenti I luoghi di sfruttamento sono diversi e sembrerebbe, a quanto emerge dalle interviste, che le dimensioni aziendali non rappresentino sempre una variabile significativa. Nel senso che lavoratori gravemente sfruttati sono presenti sia nelle piccolissime aziende che in quelle piccole, come in quelle di medie o addirittura di grandi dimensioni. Certamente nelle aziende di media grandezza ed oltre – ad esempio, dove c’è un rappresentante sindacale – il controllo da parte delle maestranze organizzate è maggiore, anche se non sempre le forme di grave sfruttamento vengono alla luce. Questa difficoltà, secondo alcuni intervistati, è data dal fatto che non sempre sono chiari i contratti di lavoro che vengono stipulati e il controllo sindacale non è così capillare come può sembrare a prima vista. Ciò può determinarsi per il fatto che l’organizzazione di una impresa può essere altamente articolata e localizzata in più aree industriali diverse o in altre aree della città o del contesto provinciale o nazionale. Magari le sedi aziendali dove sono presenti gruppi di lavoratori organizzati del sindacato sono ubicati in una o più sedi, quelle più grandi, mentre questi gruppi possono essere poco presenti o addirittura assenti in quelle più piccole: “Sovente anche il sindacato non è ancora cosciente delle pratiche di grave sfruttamento che vengono perpetuate verso i lavoratori stranieri, in quanto ancora, purtroppo, l’attenzione sindacale si concentra maggiormente sulle questioni riguardanti la manodopera autoctona.” (int. 4, sindacalista, Caserta) 17 “Si verificano delle situazioni abbastanza forti dal punto di vista del degrado e dell’igiene dove queste persone alloggiano e dove pagano 200-250 euro per un posto letto, magari senza contratto e dove un solo immigrato regolare si intesta il contratto d’affitto e poi le persone circuitano in questo modo. In molti casi si registra che il datore di lavoro trova anche l’alloggio a queste persone o un intero appartamento: o di sua proprietà o appartenente a suoi conoscenti. Così guadagna anche su questo, per cui molte volte trattiene dallo stipendio anche il costo dell’affitto che è in genere anche molto superiore a quello del mercato normale. In altri casi abbiamo saputo di agenzie immobiliari che gestiscono questo tipo di mercato, per cui c’è un prestanome, un intermediario italiano che si intesta il contratto d’affitto e fa sempre riferimento a quell’agenzia immobiliare e poi affitta quelle case in nero. Parliamo addirittura di situazioni dove l’affitto di un appartamento può arrivare anche a 3-4mila euro al mese su case che per il mercato costerebbero 500, 600, 700 cento euro al mese. In alcuni casi può esserci anche il collegamento tra datore di lavoro, agenzia immobiliare e il soggetto che affitta le case. In tal modo si crea una catena lucrativa ben oliata.” (int. 13, operatrice, Milano) 155 “Se i Carabinieri e le altre forze di polizia… i sindacati e le organizzazioni padronali si mobilitassero per prevenire e contrastare il lavoro nero e gravemente sfruttato degli stranieri… tutto potrebbe divenire più semplice. (…) E se già questi soggetti avessero la consapevolezza, gli strumenti conoscitivi adatti per poter individuare le vittime del lavoro, già formerebbero un primo filtro o comunque una possibilità di aggancio rispetto a quanti vengono gravemente soggiogati dai datori di lavoro disonesti.” (int. 13, operatrice, Milano) L’elemento che sembra apparire piuttosto significativo è la fisionomia sociale dei datori di lavoro, a prescindere – appunto – dalla grandezza della loro azienda. Il punto sul quale sembrano convergere gli intervistati – sia i testimoni-chiave che i lavoratori fuoriusciti dalle condizioni di grave sfruttamento – è dato dal fatto che i datori di lavoro implicati in queste relazioni di particolare sfruttamento mostrano continuamente espressioni aggressive, ma solo in alcuni casi manifestano esplicitamente comportamenti violenti e sembrano intolleranti a qualsiasi errore possano commettere i lavoratori ingaggiati. Errori che possono essere sanzionati a scapito dei lavoratori stranieri ed aumentare, al contempo, il tasso di aggressività e di violenza dei datori di lavoro; violenza che viene sovente minacciata verbalmente ma in misura minore praticata. In alcuni casi, invece, oltre alle minacce verbali i datori di lavoro passano anche alle percosse fisiche coinvolgendo “guardie del corpo e simili personaggi”, come ci racconta un docente universitario, “anche allo scopo di non pagare il salario previsto a fine lavoro.” In genere quando si registrano forme di grave sfruttamento siamo davanti “a datori di lavoro irresponsabili”, dice una intervistata. “Sono semplicemente datori di lavoro che non guardano in faccia nessuno”, dice un’altra. Sono “datori-delinquenti”, afferma un altro sindacalista ancora. Spesso si tratta di datori di lavoro appaltatori di subcommesse provenienti da aziende più grandi o di sub-sub appalti che per guadagnare di più limitano al minimo i salari da erogare e se i lavoratori sono stranieri le limitazioni sono ancora maggiori; limitazioni, appunto, che rasentano la truffa, il raggiro doloso, la falsa promessa e quindi nel loro orizzonte c’è anche il non pagamento dei salari: “La questione dei datori di lavoro è una faccenda complicata. È stato scoperto, ad esempio, un datore di lavoro che si divideva a metà: una metà attenta alle regole… che ci teneva ad avere tutte le maestranze in regola… sia quelle italiane che quelle straniere, che rispettava le organizzazioni sindacali ed era attenta alle relazioni industriali; l’altra sua metà invece era contraria alle regole… trovava mille espedienti per aggirarle e gestiva una produzione fatta esclusivamente da lavoratori stranieri irregolari e clandestini. Si sono verificate in questa azienda situazioni di particolare gravità… dove la produzione diurna era garantita da lavoratori in regola e la 156 produzione notturna invece era garantita da lavoratori clandestini. Insomma, uno stesso datore di lavoro che gestisce due sistemi produttivi paralleli e opposti nella stessa azienda, negli stessi spazi. Un altro datore di lavoro aveva dodici lavoratori… tutti stranieri non in regola che faceva lavorare molte ore al giorno… e una sola segretaria italiana in regola. In pratica si trattava di una azienda formata dall’imprenditore, dalla segretaria, e dalle maestranze straniere, tutte in condizione di assoluta irregolarità.” (int. 13, operatrice, Milano) I datori di lavoro disonesti gestiscono anche piccole e piccolissime aziende, e questi luoghi di sfruttamento possono variare in base alle caratteristiche del ciclo produttivo. Possono esserci luoghi di sfruttamento presso magazzini isolati dove si caricano o si scaricano le merci o i prodotti dell’azienda, oppure presso luoghi mimetizzati non distanti dalla sede centrale o dalle sedi legali. Non secondariamente possono localizzarsi in luoghi-nicchia nel mezzo della sede principale dell’azienda. Altra possibilità ancora è data dai luoghi di sfruttamento itineranti, ad esempio, nel settore dei trasporti e della movimentazione delle merci. Le modalità di lavoro: le paghe, gli orari, le condizioni di sicurezza e i danni subiti Dalle analisi delle interviste si apprende che le condizioni lavorative nelle quali sottostanno i lavoratori immigrati gravemente sfruttati sono nel complesso piuttosto dure e faticose. Diventa importante, al riguardo, evidenziare l’ammontare delle paghe che ricevono questi lavoratori, i ritmi e gli orari di lavoro, le condizioni complessive di sicurezza nello svolgimento dell’attività lavorativa in senso stretto. Le paghe che ricevono sono sovente minori di quelle che gli vengono promesse all’inizio dell’attività lavorativa: “Questa tecnica è piuttosto antica e comune. Per far accettare il lavoro ad uno straniero viene promesso a una certa cifra… cifra che poi al momento del pagamento viene ridotta… a volte di molto. Questo succede, ad esempio, quando vengono ingaggiati lavoratori per lo svolgimento di un lavoro agricolo che dura magari un mese o un certo tempo. La paga viene in genere data a distanza di giorni… ogni settimana ma più spesso a fine lavoro. Se il lavoratore dorme sul posto di lavoro o in un alloggio messo a disposizione dal datore… allora la truffa è completa. Il lavoratore si vedrà togliere le spese dell’alloggio che all’inizio non erano state previste… così avviene anche quando il lavoratore usa i servizi e la cucina di proprietà del titolare o dell’azienda. Sono tutti costi per il lavoratore… ma costi non dichiarati all’avvio del rapporto di lavoro.” (int. 2, sindacalista, Salerno) 157 Stesse procedure si registrano anche per lavori non agricoli e quindi non strettamente correlati alle fasi della raccolta dei prodotti stagionali. I salari ricevuti – e dichiarati dagli intervistati stranieri che hanno vissuto situazioni di grave sfruttamento in azienda – ammontano mediamente a circa 500 euro al mese. Tale cifra però gli viene data quando: “I lavoratori sono occupati sette giorni su sette e per tutto un mese completo e per un orario di lavoro che si attesta intorno alle 10 ore consecutive… e qualche volta quando si lavora anche fino alle 14 ore.” Si registrano stipendi anche di entità minore, racconta la stessa operatrice, allorquando – come accennato – “il datore offre anche un alloggio e qualche panino a pranzo. In questi casi abbiamo registrato anche salari compresi tra 100 e 300 euro mensili.” (int. 13, operatrice, Milano) Gli orari di lavoro variano anche con il variare dell’ambito di lavoro, anche se dalle interviste ciò che si riscontra comunemente è il fatto che comunque si tratta di un orario continuato; ciò vuol dire sostanzialmente che il riposo a metà giornata è aleatorio e a completa discrezione del datore di lavoro e di quanti gestiscono con lui il ciclo produttivo: “Durante la raccolta dei prodotti agricoli l’orario di lavoro è sempre continuativo… forse c’è una pausa pranzo… ma breve e spesso concessa in maniera alternata tra i lavoratori occupati per non interrompere il ciclo di lavoro.” (int. 2, sindacalista, Salerno) In un lavoro di azienda l’orario di lavoro dipende dalla collocazione che ha il lavoratore straniero nel processo lavorativo: “Se lavora da solo il controllo non è quasi mai costante e quindi può ritagliarsi tempi di riposo… se lavora con altri allora il controllo del datore è maggiore e quindi è possibile che le pause siano meno gestite dal lavoratore.” (int. 5, docente universitario, Modena) C’è da aggiungere – secondo quanto riportato da altri intervistati – che spesso: “Il lavoratore straniero non si rende conto che durante la settimana ha diritto a giornate di riposo… e nessuno glielo dice e glielo fa capire… e che durante il giorno ha diritto a fermarsi per la pausa pranzo e che dopo otto ore può smettere di lavorare perché si tratta di un suo diritto.” (int. 7, docente universitario, Lecce) Queste situazioni di sfruttamento da lungo orario fanno il paio con la sicurezza del posto di lavoro. In genere le vittime di queste dure forme di lavoro raccontano che dove hanno lavorato prima di essere intercettati ed aiutati dalle forze di polizia “non c’era nessun tipo di dispositivo di sicurezza 158 o tali dispositivi erano appena sufficienti.” Come riporta una delle operatrici intervistate queste situazioni determinano: “… situazioni di rischio… situazioni dove il rischio di farsi male è evidente… sono stati registrati sovente infortuni sul lavoro molto seri… del tipo che abbiamo visto persone che si sono bruciate i piedi calpestando dell’acido… oppure abbiamo visto persone che si sono rotte le braccia… le gambe… le mani o avuto incidenti che hanno colpito la testa…; molti cadono da impalcature insicure... trattano materiali sensibili senza guanti e altre protezioni… comunque lavorano senza avere i dispositivi minimi di sicurezza… solo perché sono senza contratto e sono irregolari.” (int. 13, operatrice, Milano) Queste condizioni complessive influenzano gli stati di salute di questi lavoratori e possono anche condurre, in un contesto di isolamento, a situazioni di marginalità sociale e quindi a forme di sofferenze fisiche e psicologiche: “Le condizioni di disagio e di stress da lavoro possono causare depressione; riscontriamo molti casi di lavoratori stranieri che sono alterati, dal punto di vista psichico intendo. (…) Essi durante il lavoro subiscono molte minacce... anche di tipo razzista. In questi casi allo sfruttamento si aggiunge… o si possono aggiungere anche aggressioni fisiche.” (int. 11, mediatrice culturale, Roma) Le condizioni proibitive di lavoro possono portare questi lavoratori ad andare anche: “… un po’ fuori di testa. Assistiamo ad una sorta di emergenza psichiatrica da parte di lavoratori stranieri… di lavoratori che raccontano di lavorare tanto… e con pochi soldi in cambio che non gli permettono di pagare un buon alloggio e di mangiare in maniera adeguata. (…) In qualunque servizio di salute mentale trovi lavoratori stranieri.” (int. 10, sindacalista, Roma) In casi di particolare disperazione da sfruttamento questi lavoratori: “Si sentono persi e alcuni di loro corrono il rischio di fare uso di sostanze tossiche… e quasi sempre a causa delle pessime condizioni di vita e di lavoro. (…) Un immigrato burkinabè che, perso il lavoro e poi la casa, entrò in una condizione di particolare depressione… al punto di affermare di essere il Presidente del Burkina Faso.” (int. 4, sindacalista, Caserta) 159 3.6 L’intermediazione illegale ed abusiva del lavoro Il mercato de-regolamentato e la figura del “caporale” Dalle valutazioni prospettate dagli intervistati, soprattutto tra quanti hanno a che fare con il mercato del lavoro, si evince la consapevolezza che il fenomeno del caporalato, di antica memoria, sta riprendendo quota in modo piuttosto significativo. Per usare le parole di un intervistato, in particolare, si riscontra che: “È in atto una ripresa consistente e un’altrettanta diffusione territoriale del fenomeno del caporalato, in quanto trova le sue ragioni nel fatto che la normativa corrente sulla regolazione del mercato del lavoro – nonostante abbia abolito l’intermediazione abusiva di manodopera, prima espressamente prevista – abilita di fatto tutta una serie di agenzie che possono legittimamente svolgere funzioni di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, all’interno del quale possono svolgere anche attività di caporalato mimetizzate… (…) cioè svolgere sostanzialmente un ruolo ed una funzione latente di caporalato.” (int. 16, ricercatore sociale, Roma) Lo sviluppo di nuove figure di “caporale” trova fondamento su alcuni elementi strutturali che caratterizzano l’attuale mercato del lavoro: “Ormai si registra un mercato del lavoro agricolo ed edile piuttosto frammentato ed esteso… con necessità di impiego di lavoratori con bassa formazione professionale e con criteri di ingresso al lavoro quasi inesistenti… basta trovarli… questi lavoratori… intercettarli e farli lavorare al nero… tra i pochi requisiti richiesti non compare il permesso di soggiorno.” (int. 5, docente universitario, Modena) “Il ri-fiorire del caporalato trova le sue ragioni di sviluppo nelle maglie stesse del lavoro agricolo e del lavoro svolto nell’impresa edile. Si tratta di due settori che hanno al loro interno ambiti produttivi caratterizzati da livelli di destrutturazione tale da rendere molto difficili i controlli e conseguentemente molto facili le modalità di impiego irregolare o in nero.” (int. 7, docente universitario, Lecce) I luoghi di incontro tra domanda ed offerta di lavoro a livello informale – e messa in contatto da caporali – sono presenti ed operanti in molte città. Infatti, non è difficile trovare manodopera straniera disponibile a giornata o a settimane, in base alle necessità del ciclo di produzione che si intende attivare e portare a compimento. Essa si trova nei pressi di rivendite di materiali edili, in particolari piazze comunali, nei pressi delle stazioni di autobus e pullman che collegano la città ai paesi circostanti. Manodopera che si aggrega in queste aree per essere meglio intercettata dai caporali, appunto, ed essere 160 smistata nei diversi luoghi di lavoro della città o del suo hinterland. Il reclutamento illegale della manodopera determina un quadro composito, in quanto viene praticato da intermediari di origine italiana e intermediatori di origine straniera; i lavoratori che si ingaggiano però sono quasi sempre di origine straniera e possibilmente appena arrivati e quindi disponibili a qualsiasi impresa. Non secondariamente ingaggiano lavoratori anche con una durata di permanenza più lunga ma non in grado di trovarsi lavoro, magari perché non in regola. Il caporale – non importa di quale nazionalità – conosce la dinamicità della domanda di manodopera e in particolare la spregiudicatezza degli imprenditori che gli comandano il reclutamento; sulla base di questa caratteristica sceglie i lavoratori da proporre a quel tipo specifico di imprenditore e non ad altri. La scelta che questi caporali fanno è piuttosto importante, poiché da essa dipende direttamente il loro guadagno. Se l’imprenditore è del tutto senza scrupoli propongono una tariffa, se l’imprenditore manifesta delle condizioni sulla scelta e qualità professionali dei lavoratori da impiegare la tariffa cambia ancora, se si tratta di un imprenditore che non vuole problemi con le maestranze la tariffa cambia ancora: nel primo caso il caporale “vende” la manodopera ad un prezzo basso, nel secondo ad un prezzo medio e nel terzo ad un prezzo più alto. In tutti e tre i casi, comunque, lucra ancora facendosi pagare da ciascun lavoratore una quota-parte per il suo servizio. Questa diversa quotazione dipende dall’affidabilità o meno della ditta richiedente e dalle caratteristiche dell’imprenditore della medesima. L’intermediazione necessaria e la presenza del “caporale etnico” Il caporale è un venditore e facendo incontrare esigenze diverse guadagna da entrambi i contraenti. L’intermediazione al lavoro è di per sé un’occupazione ed assolve ad una funzione specifica, quella di mettere in contatto la domanda e l’offerta di lavoro. Si tratta di una persona spesso interna al settore produttivo, che conosce le modalità e i meccanismi di svolgimento del lavoro che vende, che si fa pagare dalla vittima dell’estorsione per inserirla nel lavoro. Quella del caporalato è una prassi che assume maggior peso laddove il mercato – o segmenti di esso – è de-regolarizzato e dove il lavoro sommerso è maggiore: “Non si può fare a meno della intermediazione del caporale… senza questa figura sociale molti stranieri non potrebbero lavorare. Non esiste alcun legame tra i lavoratori ed i loro sfruttatori… se non quello lavorativo. Il connubio tra caporale e azienda agricola e azienda edile è molto forte e l’organizzazione del reclutamento della manodopera e della gestione del lavoro nero… nella sua versione peggiore… è significativamente strutturato.” (int. 2, sindacalista, Salerno) 161 Il ruolo di questo intermediatore è stato sempre quello di “ponte” tra il datore di lavoro e i lavoratori, ma oggi esso si è connotato di un’ulteriore sfumatura di sfruttamento e di ricatto: “L’immigrato giunge nel nostro Paese e se non ha nessuno da raggiungere – e che lo può instradare – cade automaticamente nelle maglie del caporale… questa facilità di ingaggio denota una tradizione consolidata, significa una cosa precisa: il caporalato è un fenomeno diffuso nel lavoro agricolo… è un fenomeno tradizionale… a cui hanno fatto ricorso anche i braccianti italiani18.” (int. 9, docente universitaria, Foggia) “È diffuso, come del resto già accennato, in tutti quegli ambiti di lavoro precario, di lavoro non valorizzato. In quegli ambiti dove i cicli produttivi sono brevi e necessitano di un numero di lavoratori consistente… edilizia, turismo, meccanica e anche nel lavoro domestico.” (int. 7, docente universitario, Lecce) Ma a fianco della figura di “caporale tradizionale” compare – proprio per il fatto che alcune occupazioni di basso contenuto professionale sono svolte anche dai lavoratori stranieri – la figura del “caporale etnico”19, ossia un caporale che proviene dalle comunità straniere presenti e maggiormente occupate in ambiti di lavoro sommerso. Si tratta dunque di un lavoratore straniero, di più anziana permanenza nel nostro Paese, quasi sempre di sesso maschile, che ha lavorato in agricoltura o nell’edilizia o nel lavoro di cura in ambito domestico, ma che nel tempo ha lasciato la propria attività lavorativa per intraprendere quella di intermediatore abusivo e illegale di manodopera; manodopera proveniente dalle fila della sua stessa comunità di appartenenza e solo raramente da altre comunità. Questo perché è in essa che il caporale ha legami diretti con connazionali in cerca di occupazione, è in essa che può costruirsi l’immagine di colui che comunque “fa del bene alla comunità”, come ricorda una operatrice intervistata. La rete che egli si è costruito negli anni è una rete a due facce: quella che guarda alla comunità e quella che guarda all’imprenditoria di settore. Una rete di re18 “Il caporalato” – ricorda una intervistata – “è stato a lungo un fenomeno combattuto nelle campagne meridionali, pugliesi soprattutto sul Tavoliere... Nel foggiano era poco praticato… ma nella zona del brindisino e del Salento ancora a fine anni ‘80 e primi anni ‘90 veniva praticato alla luce del sole… la distribuzione del lavoro agricolo veniva fatta sulla base delle scelte dei caporali e questi provenivano anche da famiglie conosciute. Esso veniva gestito all’interno delle famiglie delle zone agricole e veniva gestito addirittura anche da donne. Molte donne erano caporali e si mettevano d’accordo con il caporale maschio, che era quello che guidava il pulmino; anche negli anni più recenti si registra il fatto che molti caporali sono donne.” (int. 9, docente universitaria, Foggia) 19 L’aggettivo “etnico” viene usato dai testimoni per sottolineare la comune appartenenza nazionale. Si tratta infatti di compaesani, lavoratori emigrati in precedenza dallo stesso paese. 162 lazioni dunque che gli permette di mediare tra il datore di lavoro e i lavoratori: “È questo servizio che viene pagato… è qui che vengono sfruttati i lavoratori che accettano tale modalità, anche perché essa si presenta come una situazione articolata e complessa poiché è il modo di ingaggio che sprona i datori di lavoro a comportarsi alla stessa stregua del caporale.” (int. 9, docente universitaria, Foggia) “Tra l’imprenditore e il caporale etnico c’è sintonia di intenti… di interessi. Al datore l’unica cosa che interessa è pagare a basso costo il lavoro, al caporale l’unica cosa che gli interessa è guadagnare alle spalle dei lavoratori suoi connazionali e fare in modo che non venga denunciato.” (int. 7, docente universitaria, Lecce) “Attraverso l’intermediazione di stranieri i datori di lavoro italiani sfruttano altri stranieri, con cui non hanno rapporti diretti… e se l’impresa è grande neanche li conosceranno… per loro saranno soltanto delle anonime maestranze.” (int. 1, magistrato, Roma) “Sono rimasto senza lavoro per tanto tempo, un giorno ho trovato un mio paesano, in un parco, dove ci incontravamo con altri connazionali. Lui mi ha detto ‘ti aiuto, ti porto a lavorare con me’… Sono andato all’appuntamento che mi aveva dato e lì c’erano altri pakistani che non conoscevo… è arrivato un pulmino e ci hanno portato in un cantiere fuori Milano. In questo cantiere abbiamo caricato e scaricato un camion per tutto il giorno… più di 10 ore… senza fermarci. La sera mi dicono che possiamo lavorare nel cantiere per un mese. Accetto. Il mio amico mi dice che la paga è di 20 euro al giorno, ma 5 devo darli a lui perché mi ha trovato il lavoro e ha parlato con il datore per farmi lavorare tutto il mese. Ho accettato… era il periodo della sanatoria e lui mi detto anche che poteva fare la domanda per il permesso di soggiorno. Poi gli ho dato anche dei soldi per la domanda… perché mi ha detto che gli servivano per prendere la domanda… gli ho dato 3.300 euro che mi ha anticipato il datore del cantiere. Finita la sanatoria il mio amico mi ha detto che non poteva fare niente… e io ho pagato il debito lavorando per circa 5/6 mesi al cantiere senza soldi e senza documenti. Questo pakistano faceva spesso così… era conosciuto come un mafioso.” (int. 4, uomo pakistano, Varese) Rispetto a forme di grave sfruttamento in presenza di intermediazione di manodopera quello che emerge, secondo un magistrato intervistato che opera nella magistratura: “Sono dei casi… in paragone dell’ammontare degli immigrati in generale… sono fenomeni puntiformi, proprio perché ancora non c’è un interesse investigativo (…) quello che sicuramente è organizzato è il lavoro… e anche il procacciamento di lavoro da parte di intermediari senza scrupoli appartenenti alle diverse comunità straniere. Non sappiamo ancora molto sullo sfruttamento lavorativo da tratta, ossia quanto è profondo il fenomeno della violenza psico-fisica e quanto i caporali sono violenti.” (int. 1, magistrato, Roma) 163 “I casi di violenza da parte dei caporali sono estremamente sporadici… come quelle dei datori di lavoro. Abbiamo rilevato solo pochi casi. Nessun lavoratore è obbligato a lavorare, questo è quello che possiamo affermare con sicurezza.” (int. 2, sindacalista, Salerno) 3.7 I settori produttivi di maggior coinvolgimento di lavoratori gravemente sfruttati Il settore agricolo I settori produttivi dove maggiore è il processo di de-regolarizzazione – che si innesta tra l’altro in ambiti occupazionali già tradizionalmente esposti al lavoro nero – sono quello agricolo, quello edile e quello domestico e di cura. In questi settori le informazioni acquisite permettono di delineare le caratteristiche strutturali del lavoro straniero gravemente sfruttato: “Il fenomeno dello sfruttamento in agricoltura è abbastanza diffuso, per quel che sappiamo… sia al Nord che al Sud… le condizioni lavorative sono piuttosto precarie e rasentano il grave sfruttamento… associate però anche a forme di lavoro che possiamo definire para-schiavistiche.” (int. 1, magistrato, Roma) Nella Piana del Sele le forme di sfruttamento sono diverse e riguardano il salario e le ore di lavoro che non sono per nulla proporzionali e comparabili con i contratti nazionali di categoria: “La paga oscilla tra i 22 ed i 25 euro al giorno e l’orario di lavoro è mediamente di 10 ore al giorno… mediamente, il che vuol dire che ci sono lavoratori che arrivano fino alle 12 e anche 14 ore giornaliere ed in più c’è da calcolare il costo della intermediazione, a carico del lavoratore.” (int. 2, sindacalista, Salerno) “La paga non era sempre uguale. La base era tra i 20 e i 25 euro al giorno, ma a volte è anche di 5 euro al giorno e capita anche che non sei neanche pagato. Comunque, in genere, il massimo della paga è di 25 euro al giorno… ma un giorno per questi imprenditori è di 12-14 ore. Per questo la paga è bassa… perché è come se lavori per 2/3 euro all’ora… e per raccogliere le olive.” (int. 12, uomo rumeno, Foggia) Il lavoro nei campi di Nardò, Galatina e Colometo (in provincia di Lecce) non appare diverso. Racconta un intervistato: “Sovente è un lavoro a cottimo… i cui ritmi sono cadenzati dai capi-squadra… che sono in genere parenti del datore di lavoro o suoi aiutanti italiani… anche se non 164 manca qualche straniero… il cottimo viene calcolato su ogni quintale di prodotto.” (int. 7, docente universitario, Lecce) “A Varese e nelle sue campagne… come nel bresciano e fino a Vicenza gli stranieri che lavorano in campagna sono tanti e non mancano gruppi che bene o male si trovano nella stessa situazione di precariato e di sfruttamento a volte inumano. Quando arrivano da noi sono esausti dalla stanchezza… e dalle privazioni vissute. In campagna si muore, ci dicono spesso.” (int. 13, operatrice, Milano) “Io stavo in campagna, badavo agli animali… li facevo pascolare e poi li riportavo nella stalla… gli davo da mangiare e da bere. Lavoravo dalle 7 di mattina alle 11 di sera… ogni giorno. Ero sempre stanca e sporca. È il lavoro della campagna… lo so perché ero anch’io contadina. Ma non potevo mai riposare… questo è il problema… chi ti da il lavoro non lo capisce… o lo capisce e approfitta di te.” (int. 11, donna rumena, Foggia) Un suo connazionale, impiegato anch’egli nell’area foggiana, afferma le stesse cose: “Andavo a lavorare nel campo alle 3 del mattino fino alle 9 o alle 10 di sera… non esagero per niente.” (int. 12, uomo rumeno, Foggia) “Il lavoro nelle stalle è molto pesante ci si stanca molto perché il riposo è poco e spesso non sufficiente… e poi i soldi che ricevi sono piuttosto bassi. Quando il lavoro è pesante lo puoi affrontare solo alternandolo con il riposo… e dando una paga soddisfacente. Ebbene, sia l’uno che l’altro aspetto quando ci sono i lavoratori stranieri di mezzo non vengono minimamente presi in considerazione.” (int. 13, operatrice, Milano) “Il lavoro viene controllato in itinere e il numero dei lavoratori stranieri cambia continuamente. Se uno non produce viene mandato via e sostituito in tempo reale da un altro o da un’altra intera squadra. Il boss lavora con il cellulare attaccato all’orecchio e dispone di un pulmino che usa continuamente per trasportare persone da un campo all’altro, le va a prendere nelle piazze del paese o riportarle indietro se non funzionano. I diversi capi-squadra sono attrezzati per comunicare spesso tra loro. Gli uni e gli altri hanno il cellulare, si telefonano per dirsi di quante persone hanno bisogno e per quanto tempo. Tutto è molto veloce e sincronizzato… tanto possono disporre di braccia a piacimento.” (int. 7, docente universitario, Lecce) “C’era un controllo serrato e quindi eravamo costretti a mantenere dei ritmi di lavoro precisi altrimenti ci picchiavano duramente o ci dicevano che non avremmo visto la paga giornaliera.” (int. 12, uomo rumeno, Foggia) 165 Da questa paga, pur tuttavia, i lavoratori ne tirano fuori una parte per far fronte al pagamento di servizi che l’imprenditore quasi gli impone: “Il costo del trasporto dal luogo dove questi lavoratori vengono reclutati”, ricorda un sindacalista, “fino al luogo di svolgimento del lavoro è a carico degli stessi lavoratori (…). Talvolta – continua lo stesso intervistato – i datori offrono a pagamento anche generi alimentari, ma abitualmente ogni singolo lavoratore porta con sé una bottiglia con dell’acqua e del cibo.” (int. 4, sindacalista, Caserta) Occorre affermare, comunque, come ricorda un intervistato, che nel settore agricolo vigono forti sperequazioni tra gli imprenditori che formano la catena di valore dell’intera gamma di prodotti dalla coltivazione alla vendita finale: “I piccoli agricoltori e contadini rappresentano l’anello debole della catena produttiva e quindi economica. Essi lavorano… coltivano i prodotti… li raccolgono con l’aiuto ormai quasi esclusivo dei lavoratori stranieri, ma quello che pagano per questi prodotti i primi commercianti all’ingrosso è una vera miseria. I coltivatori e i contadini sono praticamente costretti a rifarsi con i loro lavoratori. Non che facciano bene, ma occorre dirlo con forza: sono anch’essi soggetti a sfruttamento e a ricatto continuo, pena la fame. I grandi commercianti, quelli che comprano dai contadini, rivendono i prodotti ai grandi distributori che li portano nelle aree di consumo… le grandi città e guadagnando circa 7/10 volte quanto li hanno pagati all’origine, alla fonte. Questo meccanismo va cambiato… è basato sullo sfruttamento e sul ricatto dei coltivatori diretti e dei contadini. Questo cambiamento potrebbe portare beneficio anche a quanti fanno i raccoglitori, ai lavoratori stranieri impiegati malamente nei campi, nella produzione agricola nei momenti di maggior necessità stagionale… dove i prodotti devono per forza di cose essere raccolti per non rischiare di perderli. È noto che la raccolta deve essere veloce per permettere alle piante di rigenerare altri prodotti, fino a quando è conveniente raccoglierli e venderli… per poi passare ad altre colture stagionali.” (int. 17, sacerdote, Foggia) Il settore dell’edilizia Un altro contesto in cui il grave sfruttamento lavorativo di componenti di lavoratori stranieri ha trovato una certa diffusione è quello dell’edilizia. Questo è anche imputabile al fatto che negli ultimi anni vi è stato un aumento esponenziale della richiesta di abitazioni di nuova costruzione – e di interventi di ristrutturazione – che ha determinato un significativo innalzamento dei prezzi delle stesse. Il mercato edilizio è in continua espansione e rappresenta, al momento, uno dei motori dello sviluppo del settore e di conseguenza uno 166 strumento remunerativo per piccoli impresari sia italiani che stranieri: “La de-regolamentazione del mercato del lavoro edile e lo sviluppo della domanda di abitazioni ha portato piccole e grandi imprese del settore ad aprire tanti cantieri, con la conseguenza di dover per forza di cose utilizzare ancora di più la manodopera straniera a basso costo. Questo si è unito al fatto che ci sono delle maestranze, come quelle rumene, che sono bravissime. Sono i migliori piastrellisti del momento sul mercato. Però è tutta manodopera occupata al nero… è gente che frequentemente non ha il permesso di soggiorno e che viene piuttosto sfruttata. Negli ultimi anni abbiamo registrato anche tante morti bianche e un aumento importante di incidenti sul lavoro, soprattutto nei gruppi di lavoratori stranieri.” (int. 14, sindacalista, Roma) Questo vortice di richieste ha determinato anche una concorrenza inusuale tra i diversi gruppi nazionali di lavoratori stranieri, concorrenza di cui beneficiano soprattutto i piccoli e i piccolissimi imprenditori; quelli che hanno imprese di medie e piccole dimensioni, in genere – secondo le informazioni acquisite – sono più propense a sfruttare il lavoro immigrato e a servirsi di “agenti” di intermediazione per recuperare manodopera da pagare poco. Sono altresì le aziende che vivono mediante giri di appalti, di sub-appalti e sub-appalti dei subappalti e sovente occupano lavoratori senza contratti. La leva maggioritaria su cui fanno affidamento per la produzione di reddito di impresa è quella che pone in secondo piano i salari per le maestranze e la sicurezza del luogo di lavoro. Per questi lavori esiste una procedura molto consolidata. Per dirla con le parole degli intervistati: “Il reclutamento inizia all’alba… l’inverno è ancora notte e i lavoratori stranieri che si offrono per il lavoro edile si aggregano intorno a particolari piazze. Sono le piazze dei nuovi schiavi.” (int. 7, docente universitario, Lecce) A Roma, invece, si aggregano intorno agli “smorzi”, ovvero nei pressi di rivendite di materiali edili: “Si tratta di punti strategici, la cui conoscenza evidentemente si diffonde con il passaparola. Lì arriva il datore o un caporale, li sceglie, li preleva e li porta sui cantieri, dove svolgono le loro giornate di lavoro (…) oppure sono gli stessi lavoratori a spostarsi con pulmini o macchine capienti per portare con sé gli attrezzi del mestiere (…). Il rapporto con il capo-cantiere è inesistente: essi non sanno per chi lavorano, per quanti soldi lavorano e per quanto tempo, si relazionano esclusivamente con il caporale, spesso è anche l’unico a parlare la loro lingua.” (int. 14, sindacalista, Roma) “Spesso non sanno i nomi delle persone che li ingaggiano.” (int. 13, operatrice, Milano) 167 “Abbiamo registrato più volte, e questo appare ormai una pratica, che nel caso di incidenti gravi, come ad esempio una frattura, una distorsione (…) perché cadono dalle impalcature senza misure protettive (…) vanno, o vengono portati, al Pronto Soccorso, dove c’è la polizia, e dove potrebbero quindi fare la denuncia, ma quando chiedono chi sono i datori di lavoro, in quale cantiere lavorano, nessuno parla, nessuno si sente di raccontare l’accaduto. Minimizzano sempre, non vogliono grane perché sanno che poi non potrebbero più lavorare soprattutto se gira voce del loro tradimento. Così quando fanno una denuncia la fanno contro ignoti o per paura perché non conoscono chi è davvero il principale, né l’intermediatore.” (int. 11, mediatrice culturale, Roma) Il silenzio e la non denuncia aumentano quando il lavoratore trova un alloggio – spesso di fortuna – dentro il cantiere: “Ci sono casi dove gruppi di lavoratori dormono nel cantiere e allo stesso tempo fanno i guardiani notturni (…) di giorno lavorano come operai, carpentieri, piastrellisti, elettricisti e la sera come portieri o guardiani. Questa pratica si registra anche a Varese e nelle aziende del Nord e appaiono piuttosto preoccupanti quando si registra il connubio tra il lavoro e l’alloggio nello stesso cantiere allora è molto difficile che il lavoratore si stacchi dal lavoro perché perdendolo perde anche l’alloggio (…) quando il lavoratore è sostanzialmente confinato nel cantiere è più difficile che vada via perché il lavoro è duro e mal pagato, l’alloggio diventa un motivo in più per restare. I casi di grave sfruttamento registrati dalla Procura di Varese riguardano per più della metà (su 145 casi) lavoratori occupati nel settore edile. È qui che si registrano i casi più eclatanti di sfruttamento. Questo non vuol dire, ovviamente, che questi lavoratori sono chiusi a chiave e costretti a lavorare… ma che sono gravemente sfruttati sì. Anche perché quando si parla di lavoro forzato, la parola evoca una condizione di totale di asservimento fisico e quindi di totale perdita della possibilità di movimento, che nella realtà non sempre è così… non sempre si manifesta sotto questa particolare forma di sfruttamento.” (int. 13, operatrice, Milano) Questa specificazione, che ci sembra tra l’altro importante nella definizione di lavoro para-schiavistico, non significa, come ripetono altri intervistati, che non siano presenti particolari modalità di sfruttamento, ma soltanto che sono meno soventi di quello che sembra. Infatti, nel lavoro in edilizia molto spesso – in considerazione delle dinamiche che abbiamo descritto sopra – una parte delle relazioni di lavoro non implicano nessun rapporto tra il datore e il lavoratore, nessun rapporto diretto. In questi casi sembrerebbe che il rapporto di lavoro è quasi inesistente perché non c’è contrattazione, non c’è negoziazione. Non ci sono orari definiti e mansioni da svolgere. I lavoratori vendono soltanto la loro capacità lavorativa, la propria manodopera, quello 168 che si deve fare si sa solo grazie al capo-squadra, spesso un connazionale che riceve ordini da altri capi o sub-appaltisti italiani: “Il lavoro degli immigrati in edilizia è organizzato in modo che il lavoratore difficilmente incontra il datore di lavoro a meno che l’impresa non sia di piccolissime dimensioni. Non conoscere il nome del datore significa non denunciarlo (…) l’operaio straniero sa quello che deve fare poiché glielo spiega il capo-squadra o il suo connazionale. Lui molto spesso ha rapporti soltanto con connazionali che fanno lo stesso lavoro e che creano quella cultura necessaria a subire lo sfruttamento o a non accorgersi che si lavora in regime di grave sfruttamento. Tra il lavoratore straniero e il datore ci sono le figure intermedie che filtrano il rapporto lo rendono spersonalizzato e lo rappresentano come se stessero lavorando nel loro paese (…) creano un clima di non conflitto, poiché creano le stesse condizioni di dipendenza e di lavoro esistenti nei loro paesi e si dimenticano – e fanno dimenticare anche ai loro connazionali – che stiamo in un paese dove esistono precisi diritti per i lavoratori e norme di sicurezza precise.” (int. 14, sindacalista, Roma) Il settore domestico Un terzo contesto lavorativo in cui si registrano forme di grave sfruttamento è quello domestico. Il lavoro di cura è prestato quasi esclusivamente da donne, in larga parte provenienti dall’Europa dell’Est e dall’America del Sud. L’impegno lavorativo di queste donne, come si evince dalle testimonianze acquisite, è consistente. Infatti, la maggior parte di esse vive in condizione di co-residenza con gli assistiti. Aspetto che denota da una parte l’impossibilità – o il forte rallentamento – di integrazione sociale di queste persone, in relazione al contesto più ampio della città o del paese in cui vivono; dall’altra il loro totale coinvolgimento nella dimensione intima e ristretta di una famiglia e della malattia di coloro di cui si prendono cura, nonché delle problematiche che scaturiscono dall’età degli assistiti. Elementi che nel loro insieme determinano – all’interno della relazione lavorativa – delle implicazioni psicologiche molto forti. Molto spesso, infatti, il lavoro di cura richiesto (anche nei casi di regolarità) non si limita al lavoro domestico, ma spesso vi sono richieste di tipo assistenziale o anche infermieristico oppure di custodia (nel casi di minori) o di accompagnamento (nel caso degli anziani). Si tratta di richieste che implicano forme di delega significative, tra l’altro, supportate da rapporti di fiducia. Queste caratteristiche del lavoro domestico sovente rappresentano anche le motivazioni strutturali che lo contraddistinguono come una occupazione sui generis, nel senso che tende a svincolarsi facilmente dalle connotazioni contrattuali che la regolano: 169 “Il fatto che rende pesante il lavoro domestico quasi l’impossibilità di tenere sotto controllo i fattori che caratterizzano il contratto di lavoro. Questo perché si lavora in una casa, si lavora insieme alla persona da assistere, la cui assistenza non è razionalizzabile. L’orario di lavoro quasi necessariamente salta. Stando nella stessa casa non si può non soccorrere la persona assistita se si sente male o se ha bisogno di cure in certe parti della giornata o della notte, ad esempio. (…) L’orario di lavoro sostanzialmente non c’è. Esiste il concetto del riposo settimanale, ma questi riposi, nei casi di servitù domestica, hanno una caratteristica particolare: non vengono mai programmati in anticipo; quindi la persona non è in grado di fruire autonomamente del tempo libero, tutta la sua vita è necessariamente collegata all’ingranaggio della famiglia (…) di essere sempre al seguito delle esigenze della famiglia. La persona deve essere sempre a disposizione per qualunque esigenza.” (int. 1, magistrato, Roma) “Il limite del dover essere sempre disponibile è dato dalle regole contrattuali e dalla possibilità di monetizzare il tempo di lavoro quando questo si dilata dopo le otto ore giornaliere. Se noi prendiamo questo tempo come spartiacque per valutare il tempo di lavoro dovremmo considerare tutto il lavoro domestico e di cura come paraschiavistico. Considerando poi i bassi salari che percepiscono le lavoratrici domestiche (…) i conti sono semplici da farsi: 4/500 euro al mese – quando hanno un contratto a cui vanno aggiunte altre 200/250 di oneri previdenziali – e cioè una cifra bassa rispetto all’impegno. Anche se aggiungiamo il vitto e l’alloggio il costo di una lavoratrice domestica è sempre basso.” (int. 14, sindacalista, Roma) Questa condizione descritta si verifica quando il rapporto di lavoro è regolamentato: “E quando non lo è? Si tratta di lavoratrici che guadagnano soltanto una paga senza oneri previdenziali. Solo 4/500 mensili, cioè al pari di quanto prendono i lavoratori maschi quando li consideriamo gravemente sfruttati.” (int. 4, sindacalista, Caserta) Tanto è che dalle interviste raccolte emerge il fatto che: “Non è inusuale che delle lavoratrici domestiche alternino il lavoro di cura con il lavoro di prostituta, proprio perché il guadagno non è dei più appetibili; guadagni che non permettono di soddisfare il progetto migratorio pensato per sistemare un po’ la famiglia di origine.” (int. 15, operatrice, Roma) In pratica, se si guadagna in modo insufficiente con il lavoro domestico e di cura l’integrazione del reddito diventa una questione vitale e non facilmente affrontabile, causando la nascita di condizioni di vulnerabilità. 170 Gli altri settori produttivi Abbiamo visto come funziona lo sfruttamento del lavoro nei contesti in cui sono coinvolti più lavoratori, quali quello dell’agricoltura, dell’edilizia e del lavoro domestico. Alcuni testimoni privilegiati ci hanno poi delineato altre circostanze di sfruttamento, che si determinano per lo più nelle aree urbane e in cui il numero di lavoratori coinvolti è altrettanto significativo. Si tratta di contesti emergenti, piccoli spazi in cui si può offrire un servizio che seppur minimo dà la possibilità di avere una occupazione ad alcune altre persone. Sono ambiti lavorativi che dipendono sia dall’economia locale che dall’organizzazione dello sfruttamento presente all’interno di una stessa nazionalità. Come se ciascuna nazionalità avesse “riconosciuto” ed “occupato” una nicchia di un piccolo mercato e la gestisse tutta al proprio interno. Le condizioni offerte dall’ambiente urbano creano una sorta di piccoli spazi strutturali all’interno dei quali gli immigrati si sostituiscono agli autoctoni e di volta in volta si inventano e si fanno carico di soddisfare dei nuovi bisogni, seppure marginali ma non per questo meno importanti ed utili di altri. È la città – e la sua complessa organizzazione di vita e di lavoro – ad offrire una serie di possibilità, di piccoli lavori di servizio, di controllo e manutenzione, di custodia e sorveglianza. Lavori che creano reddito ai diretti interessati se svolti in continuità, lavori che lasciano senza soldi chi li pratica allorquando i datori – o coloro che li gestiscono – agiscono illegalmente e in maniera priva di scrupoli. Racconta un sindacalista intervistato: “Alcuni ragazzi stranieri lavoravano presso dei depositi di macchine e dei garage e qui svolgevano lavori di lavaggio e ingrassaggio: spostavano le macchine, le pulivano e le tenevano in ordine. Si sono praticamente inventati un lavoro in un garage ormai gestito stancamente da un anziano. Dopo che il lavoro è andato avanti e si vedevano i primi frutti in termini di denaro, questi ragazzi – erano diventati ormai 4 o 5 – furono mandati via dal garage. La scusa era che non facevano bene il loro lavoro. Li hanno sostituiti altri ragazzi, ma questi non sapevano farlo come gli altri. Insomma, il garage ora non ha più questi servizi ed è diventato di nuovo triste come era prima dell’avvento dei primi ragazzi stranieri. Non siamo riusciti far valere i diritti di questi ragazzi perché erano minorenni e privi di documenti di soggiorno.” (int. 14, sindacalista, Roma) “Durante la sanatoria avevo un amico che lavorava con altri tre connazionali in una pompa di benzina. Gli promisero la messa in regola e fecero tutto quello che c’era da fare. Pagarono anche 1.000 euro a testa. La sanatoria va bene solo per due e per gli altri due no. Poi li hanno licenziati subito dopo e non gli hanno ridato i soldi che avevano anticipato (…) non gli hanno ridato il passaporto e li hanno lasciati sulla strada. Sono poi andati al sindacato e hanno fatto causa al proprietario della pompa 171 di benzina (…) il proprietario li ha prima minacciati e poi li ha picchiati con l’aiuto di altri e strappato il passaporto davanti a tutti i presenti, minacciandoli di altre botte.” (int. 10, uomo tunisino, Varese) “Altri immigrati indiani e del Bangladesh fanno i guardiani lavorano di notte (…) sono attività che si sono inventati, hanno visto che si poteva fare e se lo sono creati. Non credo che svolgano queste attività in maniera autonoma. C’è adesso un controllo dei posti e dei soldi che guadagnano (…) abbiamo le prove che sono ricattati e taglieggiati.” (int. 10, uomo tunisino, Varese) “Molti marocchini lavorano nella campagna, ma poi sono dediti anche ad attività di commercio al dettaglio. Il tipo di sfruttamento che c’è nei loro confronti è fondamentalmente legato al rapporto che c’è in genere tra il grossista, da cui si riforniscono, e il dettagliante. Gli ultimi arrivati vengono ‘aiutati’ dai grossisti, li aiutano a trovarsi uno spazio per la vendita, ma in cambio vogliono una cifra specifica su ogni pezzo venduto, per pegno si fanno dare il passaporto come garanzia di eventuale risarcimento, di pagamento in caso che i pezzi consegnati non vengono portati indietro o venduti.” (int. 7, docente universitario, Lecce) 3.8 Le modalità di fuoriuscita dalle condizioni di grave sfruttamento Fuoriuscire dal meccanismo di sfruttamento Uno degli aspetti principali che gli intervistati – a prescindere dal ruolo svolto nelle rispettive organizzazioni o enti di appartenenza – hanno più volte rimarcato è il fatto che il processo di fuoriuscita dal meccanismo di grave sfruttamento, a quanto è possibile ricostruire al momento, avviene in due maniere: o perché il lavoratore si ferisce, subisce un trauma o un incidente di varia natura – e quindi contrae un danno fisico – oppure perché matura una coscienza diversa della propria condizione; maturazione che avviene quando si accorge che è particolarmente sfruttato, più di quanto lo sarebbe nel proprio paese. È il sentirsi più sfruttato di quello che sarebbe nel proprio paese che fa scattare quella molla riflessiva che può orientare il diretto interessato nella direzione di maturare l’allontanamento dal rapporto lavorativo assoggettante. Questo può avvenire parlando con altri connazionali occupati da più tempo nel nostro Paese e con una maggiore esperienza lavorativa, oppure è determinato dall’impossibilità di vivere con il salario che si riesce a mettere insieme lavorando in maniera intensiva, informandosi e comparando il proprio salario con quello percepito da altri conoscenti. Queste modalità, comunque, sono messe in atto dai lavoratori stranieri a livello soggettivo e quindi 172 difficilmente emergono a livello sociale e collettiva. Per usare le parole di un intervistato, potremmo definirla una “modalità silenziosa”: “una modalità che matura lentamente ed è rafforzata dagli amici e dai parenti (…) a volte semplicemente cambiando città e area territoriale di lavoro. Nella maggioranza dei casi, il processo (…) o il percorso di fuoriuscita spesso diventa anche un problema, cioè il problema di come uscire da questa morsa e questo non dipende solo dai soggetti coinvolti. La fuoriuscita dipende dal clima generale politico (…) dell’accoglienza che si avverte nella società e allo stesso tempo dalle normative esistenti. Ciò vuol dire che come molte situazioni di fragilità iniziali che hanno i lavoratori stranieri quando arrivano da noi dipendono dalle modalità di lavoro esistenti nei loro paesi di partenza, così le capacità che mettono in campo per elaborare o meno la condizione di subordinazione, sia essa materiale o psicologica, ed uscirne quindi fuori, dipende dalle normative e dalle condizioni dell’accoglienza che trovano qui da noi. (…) Ciò dipende dalle capacità ispettive e di controllo degli abusi sul lavoro delle nostre istituzioni (…) dalla capacità di creare le condizioni oggettive attraverso le quali questi lavoratori possono mirare ad una integrazione durevole.” (int. 5, docente universitario, Modena) Uscire da queste condizioni di sfruttamento, dunque, appare piuttosto complicato, poiché – oltre a quanto detto – si tratta anche di uscire dai propri schemi mentali, dal fatto che non si percepisce fino in fondo di trovarsi in una condizione di grave sfruttamento: “A livello soggettivo, dunque, è necessario gestire anche una sorta di crisi culturale, di crisi dei valori formatesi nella socializzazione primaria avvenuta nel paese di origine insomma, di uscire anche dalle dinamiche comunitarie e guardare alle istituzioni locali istituzioni che contrastano le forme di grave sfruttamento.” (int. 7, docente universitario, Lecce) “Escono quando c’è una attenzione verso di loro, quando sentono che hanno un aiuto concreto che li supporti nella scelta di uscire dal circuito di sfruttamento.” (int. 1, magistrato di Roma) Qualche intervistato mostra, al contrario, molto scetticismo rispetto alle capacità istituzionali e sociali di sorreggere questi processi di sganciamento dalla condizione di grave sfruttamento: “Sai quando riescono ad uscire? Quando c’è un incidente brutto, quando non si può fare a meno di aiutarli (…) quando c’è un morto e loro assistono impotenti. Oppure quando hanno subito un incidente forte, o lo ha subito un loro connazionale, un amico stretto, allora lì realizzano. Quando vedono quanto guadagnano gli altri, e 173 loro no, allora lì iniziano a reagire.” (int. 11, mediatrice culturale, Roma) In sostanza, emergerebbe che il processo di fuoriuscita – almeno quelli che assumono una connotazione di tipo sociale o giudiziario – sia in buona parte dovuto ad eventi che si caratterizzano anche per la loro traumaticità: un incidente sul lavoro, una forte paura dovuta alla visione di incidenti altrui, una frattura e una esperienza con i soccorsi mobilitatesi nei luoghi di lavoro non positiva. Molto meno, al contrario, questi lavoratori riescono a fuoriuscire per fatti ordinari, perchè non si accettano le condizioni di lavoratori imposte: “Il fatto è che ancora questi problemi non sono investigati dalla magistratura, non sono adeguatamente perseguiti dagli organi di polizia, c’è ancora una sostanziale disattenzione al fenomeno del lavoro gravemente sfruttato.” (int. 1, magistrato Roma) Le forze dell’ordine Un ruolo e una funzione importante al riguardo è quello delle forze dell’ordine, siano esse appartenenti alla Polizia di Stato, alla Guardia di finanza, ai Carabinieri o alla Polizia municipale. Gli intervistati – sia i testimoni-chiave che intervengono nel settore e sia i lavoratori stranieri fuoriusciti dal meccanismo di sfruttamento – affermano che la maggior parte delle intercettazioni provengono dal lavoro delle forze dell’ordine, e pertanto dalle Procure locali: “Sul ruolo delle Procure si avverte una contraddizione poiché la tratta di persone a scopo di grave sfruttamento è materia delle Procure distrettuali anti-mafia ma queste ancora non riescono a intervenire nel settore mentre le Procure ordinarie svolgono un lavoro investigativo laddove lo svolgono, ad esempio, a Varese, a Pisa, e a Lecce, è piuttosto significativo, anche se ancora questo intervento non acquista un peso omogeneo sul territorio regionale e nazionale.” (int. 1 magistrato Roma) “A Varese c’è una emersione importante di questo fenomeno non perché è particolarmente virulento in questa città ma perché qui si è voluto andare fino in fondo e ancora adesso (settembre 2006, NdA) non si molla la presa. (…) La Procura durante la sanatoria del 2002/2003 ha smascherato il business collegato alla regolarizzazione degli stranieri. Qui la Procura ha scoperto che 600 pakistani avevano comprato un contratto di lavoro da una azienda ma non avevano mai lavorato un giorno. Questo è stato il caso più eclatante di estorsione e di truffa verso gli stranieri, truffa che ha allertato però le autorità giudiziarie.” (int. 13, operatrice, Milano) 174 Ma dietro queste truffe sono anche state scoperte dalle forze di polizia aziende gestite da imprenditori-delinquenti e l’attenzione ad approfondire i meccanismi di reclutamento e di ingaggio di stranieri in attività lavorative al nero è stata una scelta consequenziale, quasi necessaria anche se non scontata: “Un altro caso significativo è stato quello di una azienda composta da quattro dipendenti che improvvisamente chiese la regolarizzazione di 150 lavoratori stranieri (…) e che non avevano mai messo piede in azienda e neanche conoscevano il datore di lavoro (…) Sono state scoperte aziende inesistenti, neanche registrate alla Camera di commercio ma con carta intestata e indirizzo.” (int. 13, operatrice, Milano) “Il rapporto con la Questura di Pisa ha determinato un salto di qualità importante nell’intercettazione delle badanti inserite in famiglie che non le trattavano bene (…) anzi è giusto dire che le sfruttavano in maniera eccessiva (…) senza la Polizia non ci sarebbe questa maturazione a uscire dallo sfruttamento eccessivo e continuativo20.” (int. 3, responsabile associazione, Pisa) Molte persone gravemente sfruttate nel lavoro sovente hanno paura di denunciare e quindi hanno timore che la loro azione possa arrecare danno ai loro familiari, anche quelli rimasti nel paese di origine. Questa preoccupazione, più nota nel lavoro di protezione sociale per le vittime dello sfruttamento sessuale, emerge spesso e spesso all’inizio diventa una limitazione: “Ma nel prosieguo del rapporto con la Polizia altrettanto frequentemente viene superato soprattutto quando il rapporto con i singoli agenti diventa sereno e non caratterizzato da forme inquisitorie. Ad alcune donne abbiamo fatto conoscere l’Ispettrice di Polizia e dopo diversi incontri ci hanno detto che erano completamente soddisfatte di come venivano trattate (…) hanno tutte esposto denuncia.” (int. 3, responsabile associazione, Pisa) “Questi lavoratori una volta portati in Questura si stupirono e si tranquillizzarono quando si accorsero che gli agenti di Polizia non erano duri e prepotenti come se li immaginavano.” (int. 1 magistrato Roma) Appare altresì importante nell’attivazione del percorso di fuoriuscita: 20 Al riguardo, la stessa intervistata rileva “che una parte di queste donne, ad esempio, si è rifiutata di denunciare i datori di lavoro poiché avevano diffidenza verso la polizia, soprattutto le donne, e non solo, dell’Europa orientale, pensiamo a causa del passato regime.” 175 “… tranquillizzare questi lavoratori perché solo se sono tranquilli possono scegliere di denunciare (…) e solo quando sono sicuri che comunque vengono protetti ed aiutati, soprattutto quando vengono poi seguiti da un legale che sappia dare le risposte giuste.” (int. 1, magistrato, Roma) La diffidenza e la paura verso le forze di polizia da parte di questi lavoratori stranieri è determinata, oltre da quanto sopra accennato riguardo agli europei orientali, anche dalla loro condizione giuridico-legale. Infatti, essi molte volte sono privi di qualsiasi tipo di documentazione: sia perché i loro sfruttatori hanno provveduto a sequestrare i loro documenti per farne un’arma di ricatto, sia perché non hanno potuto usufruire delle possibilità di regolarizzare la propria posizione quando era possibile: “Con questi lavoratori bisogna intervenire dove lavorano, bisogna stargli vicino (…) perché se uno di loro sa di trovare un interlocutore fidato, ad esempio nelle organizzazioni sindacali o in quelle di volontariato, cioè organizzazioni capaci di colloquiare in maniera tranquilla con loro e di fare da intermediari con noi della Polizia, i risultati sarebbero molto ampi e rapidi (…) avremmo dei risultati inaspettati (…) anche perché con questa mediazione i lavoratori più diffidenti potrebbero vincere la paura della Polizia e denunciare, se vogliono i loro sfruttatori.” (int. 6, operatore di polizia, Varese) Le organizzazioni sindacali Mentre con le forze di polizia i lavoratori immigrati gravemente sfruttati vengono intercettati durante le ispezioni che esse svolgono nelle aziende o – come abbiamo visto – da investigazioni promosse dalla rilevazione di comportamenti sospetti attivati da alcune aziende durante il periodo di sanatoria, le organizzazioni sindacali invece intercettano lavoratori gravemente sfruttati su segnalazione dei propri iscritti occupati nelle stesse aziende, oppure perché gli stessi lavoratori stranieri denunciano la loro condizione. Le organizzazioni sindacali – sulla base di quanto emerso dalle interviste – non sempre però riescono ad essere attivi su queste problematiche: “I sindacati hanno militanti negli ambienti di lavoro, hanno i loro mediatori culturali di origine straniera, hanno rapporti con quanti lavorano nelle aziende e quindi possono fare molto in questo campo.” (int. 6, operatore di polizia, Varese) “Nella fuoriuscita sono molto importanti le organizzazioni sindacali. Infatti, tantissime delle persone arrivano al nostro servizio tramite loro. Su 60 casi che abbiamo rilevato, o meglio, di cui abbiamo avuto segnalazione e attivato di 176 conseguenza azioni di supporto, quasi la metà è arrivata tramite le organizzazioni sindacali. È importante nei luoghi di lavoro pubblicizzare queste possibilità di intervento, che oltre alla Polizia possono essere di straordinaria importanza anche i gruppi di lavoratori italiani e stranieri organizzati nei cantieri, nelle aziende non necessariamente grandi (…) alcuni lavoratori, infatti, sono arrivati al sindacato attraverso il passaparola tra connazionali.” (int. 3, responsabile associazione, Pisa) “Il sindacato può svolgere una funzione particolare nel settore (…) in presenza di una legislazione più certa e più adeguata. Ad esempio, il governo ha varato un decreto legge al riguardo, ma è soltanto sanzionatorio e non guarda in maniera sufficiente alla prevenzione. Ciò vuol dire che i casi di grave sfruttamento o mancanza di adeguate disposizioni e mezzi per la sicurezza sul posto del lavoro possono essere intercettati soltanto con le ispezioni siano esse delle forze dell’ordine o dei funzionari della previdenza sociale o sindacali. Il sindacato può concorrere a denunciare questi casi, ma il problema non sono i casi ma le politiche di sicurezza e di non discriminazione delle componenti lavoratrici di origine straniera, giacché sono queste componenti maggiormente esposte ai lavori maggiormente pericolosi e quindi soggetti a infortuni. Le imprese grandi o piccole che siano investono poco (…) anzi, in proporzione ad altri costi, non spendono quasi nulla in sicurezza per rendere più sicuri i posti di lavoro (…) questo per il semplice fatto che li interpretano come se fossero solo dei costi (…) e che la sicurezza costa molto. Non si pensa che la sicurezza è un investimento, una strategia di fidelizzazione della forza lavoro, una forma di prevenzione primaria agli incidenti sul lavoro. Invece si pensa che la formazione costa, costano le ispezioni, costano le procedure di accertamento delle condizioni lavorative, costano le strutture di controllo che devono monitorare se le procedure di sicurezza vengono eseguite e rispettate. Insomma, viene meno la dimensione sociale dell’impresa (…) dell’impresa responsabile delle sue maestranze, responsabile della loro integrità (…). Viene meno altresì la convinzione che se si investe in prevenzione e quindi gli incidenti diminuiscono potrà crescere anche la produttività da parte dei lavoratori poiché lavorerebbero con maggior sicurezza. Senza considerare poi che diminuirebbero i costi dei pronti soccorsi ospedalieri e dei ricoveri. Si investe in sicurezza… e si abbasserebbero i costi nel settore sanitario e nella previdenza pensionistica per invalidità sul lavoro.” (int. 2, sindacalista, Salerno) Al riguardo, altri intervistati sono del parere che l’impiego dei lavoratori stranieri permette il sostanziale aggiramento di queste responsabilità sociali da parte dell’impresa e degli imprenditori, anche perché la fidelizzazione presuppone un’industria o un’impresa che guarda lontano, che assume il cosiddetto pensiero strategico di impresa e non quello contingente, di breve periodo, basato sul ciclo corto di produzione; ciclo, appunto, che caratterizza gran parte del lavoro agricolo e del lavoro in edilizia, nonché di alcuni comparti della meccanica: 177 “Senza dubbio c’è una sorta di razzismo strisciante nell’evadere le norme di sicurezza e impiegare lavoratori stranieri appena arrivati in lavori pericolosi (…) inserirli in tali comparti vuol dire esporli agli eventi (…) esporli a forme di sfruttamento e di insicurezza lavorativa (…) aspetto che le organizzazioni sindacali non dovrebbero permettere.” (int. 5, docente universitario, Modena) “La divisione continua dei sub-appalti a cui neanche il sindacato riesce più a controbattere determina una frammentazione delle squadre di lavoro dove ciascuna squadra è chiamata ad intervenire su un segmento del ciclo produttivo senza sapere bene cosa farà l’altra squadra che la seguirà e cosa ha fatto quella che l’ha preceduta e a quali condizioni di sicurezza dovrà lavorare e soprattutto quali attenzioni saranno necessarie per portare a termine quel tratto di lavorazione. Questa organizzazione, in voga in regime di accentuata de-regolamentazione del mercato del lavoro produce anche una frammentazione di una parte dei saperi che fanno parte del capitale sociale dei lavoratori, saperi che si trasmettono durante il ciclo della produzione e che si imparano sul campo e servono anche a prevenire incidenti (…). Insomma, i lavoratori che stanno insieme da anni, che lavorano fianco a fianco tendono a conoscersi, a creare legami ed ad entrare in sintonia e a imparare così a prevenire incidenti… a conoscere le condizioni contrattuali dei colleghi (…) a controllare se avvengono discriminazioni verso i colleghi più deboli (…) a conoscere cioè i sistemi tecnologici e le macchine che devono usare.” (int. 7, docente universitario, Lecce) “In un mercato che tende alla de-regolamentazione e fa di essa un principio produttivo ed organizzativo dell’economia, con un processo produttivo suddiviso in lotti e dove ciascun lotto è realizzato da una squadra diversa e quindi senza legami con le altre perché lavora per un certo periodo di tempo e poi sparisce (…) dove il sindacato non è presente e non è organizzato (…) nessuna squadra di questa natura potrebbe trasmettere o ricevere conoscenze sufficienti e pertinenti tra una fase e l’altra. In queste condizioni non è difficile che avvengano incidenti21 perché tutto è veloce, tutto viene fatto sbrigativamente e non è difficile che una parte di questi lavoratori stranieri impiegati a queste condizioni venga gravemente sfruttata.” (int. docente universitario di Modena) Le modalità di fuoriuscita Le modalità di fuoriuscita, come accennato in precedenza, sono correlate sia alla percezione di grave sfruttamento che hanno i lavoratori stranieri 21 Per una visione del tipo e della quantità di incidenti relativi ai lavoratori immigrati, cfr. F. Pittau, A. Spagnolo (a cura di), Immigrati a rischio infortunistico in Italia, Istituto italiano di medicina legale, Roma, 2003, pp. 93 e segg. 178 direttamente coinvolti nel lavoro sommerso e al nero, sia ad eventi o ad episodi caratterizzati da infortuni che li riguardano da vicino o che riguardano colleghi con cui lavorano, sia ad ispezioni da parte di funzionari dell’Inps o dell’Inail oppure delle forze di polizia, sia su denuncia delle organizzazioni sindacali o direttamente dei lavoratori coinvolti. La denuncia non sembra, a quanto riportano quasi tutti gli intervistati, una pratica corrente, una pratica a se stante. Nel senso che parte direttamente dal lavoratore straniero che ha coscienza specifica di stare all’interno di un meccanismo di grave sfruttamento, ma questa coscienza matura lentamente: “La denuncia è quasi sempre indiretta (…) in quanto è determinata da un fatto eclatante che gli fa perdere il lavoro oppure – a causa di questo – non vengono pagati per il lavoro svolto. Il problema grosso che emerge in questi casi è l’applicabilità dell’art. 18, ossia la disposizione che innesca la protezione sociale per grave sfruttamento (…) lo stesso usato ormai da un decennio per la riduzione in schiavitù per sfruttamento sessuale. L’art. 18 (T.U. Imm., NdA) calza molto bene anche per queste forme di grave sfruttamento de lavoro o da lavoro nero pesante ma non tutti gli attori sociali – come la Polizia, i sindacati e le associazioni che intervengono nel campo dell’immigrazione straniera – ancora ne intravedono la sua applicabilità (…) anche perché sovente non la conoscono neanche.” (int. 13, operatrice, Milano) Sembrerebbe – dalle interviste che trattano questo argomento – che l’applicazione dell’art. 18 dipenda dalla conoscenza che ne ha il Procuratore, il Questore o il sindacalista o l’avvocato che difende il lavoratore. Non è ancora diffusa l’idea che un lavoratore gravemente sfruttato possa fruire dei benefici accordati dalle disposizioni di legge esistenti e funzionanti per altri tipi di sfruttamento. Si tratta di una possibilità ancora non utilizzata, ancora in “fase sperimentale”, per dirla con le parole della stessa operatrice. “L’esperienza insegna che laddove opera un procuratore sensibile a queste problematiche (…) e che si interessa della protezione degli stranieri più vulnerabili (…) e questa è una fortuna per quel territorio oppure un carabiniere con esperienza nella protezione di vittime di sfruttamento sessuale allora è possibile che venga applicata la normativa per grave sfruttamento lavorativo.” (int. 15, operatrice, Roma) Ma l’art. 18 va applicato per tutelare le vittime di grave sfruttamento e non per il lavoro irregolare o finanche quanti lavorano in nero. Qui la distinzione di applicabilità o meno dell’art. 18 è molto netta. Il lavoro nero, infatti, è contrastato da altre normative e non implica la tutela successiva della vittima, come nel caso dello sfruttamento para-schiavistico. Solo in questo ultimo caso possiamo parlare di vittima, non nel primo. Anche se il lavoro nero, come 179 abbiamo detto più volte, è limitrofo al lavoro para-schiavistico e per certi versi lo anticipa, lo prefigura ma senza sovrapporsi ad esso. Il lavoro paraschiavistico – seppur configurabile come lavoro nero, in quanto privo di qualsiasi garanzia – è oltremodo limitativo della libertà di azione del lavoratore22. Ciò significa, comunque, che sussiste un problema di identificazione delle vittime, un sistema di individuazione. Per una delle operatrici intervistate questo problema si affronta come è stato affrontato il problema delle vittime della prostituzione coatta: “È necessario attivare un primo filtro a livello sociale (…) come nella prostituzione coercitiva: da una parte le forze di polizia, dall’altro i servizi e le organizzazioni no profit. Per lo sfruttamento lavorativo mobilitare il sindacato, la stessa polizia e le imprese responsabili (…) e le organizzazioni che lavorano con gli immigrati in generale e con i lavoratori in particolare (…). Questo filtro individua il lavoratore gravemente sfruttato e attiva la pratica di protezione se esso la richiede. Poi si passa ad una seconda verifica, cioè capire meglio se ci sono le condizioni di applicabilità delle disposizioni dell’art. 18 oppure no. In un caso il lavoratore sarà protetto dalle norme contro il lavoro nero e sommerso, nell’altro con le norme del contrasto al lavoro para-schiavistico.” (int. 15, operatrice, Roma) “Teoricamente tutti i soggetti che operano nel mondo del lavoro possono formare unità di intervento per l’identificazione delle vittime e le organizzazioni del terzo settore possono aggiungere conoscenze e competenze al riguardo poiché lavorano sul territorio e possono intercettare situazioni di grave irregolarità. Dal mio punto di vista tutti gli attori sociali ed istituzionali dovrebbero essere in grado di fare un primo accertamento sul livello di sfruttamento subito dai lavoratori stranieri, già nelle situazioni (…) e nei luoghi in cui lavorano e questo non può che passare dalle organizzazioni sindacali e dalle forze di polizia (…). Mi rendo conto che può sembrare tutto facile ma non lo è. Anche se occorre ribadire che non viene fatta ancora nessuna verifica del fenomeno in maniera organica e strutturale.” (int. 13, operatrice, Milano) 22 Infatti, l’art. 18 prevede assistenza e protezione sociale allo straniero allorquando “siano accertate situazioni di violenza e di grave sfruttamento (…) ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di una associazione dedita ad uno dei predetti delitti (…).” Se analizziamo il dettato dell’art. 18 è possibile, però, a ben vedere, definire anche alcune particolari forme di lavoro nero come “grave sfruttamento”, in quanto – oltre a questo – può determinare per il lavoratore un preciso e puntuale pericolo per la incolumità in relazione alle precarie condizioni di sicurezza in cui è costretto a lavorare. 180 3.9 Le forme di grave sfruttamento lavorativo: il caso di Varese Il contesto varesino Nel territorio della provincia di Varese si è evidenziata, nel corso degli ultimi anni, una significativa attività di interventi istituzionali che, a partire dal rilascio di permessi di soggiorno per protezione sociale a vittime dello sfruttamento sessuale, ne ha ampliato l’applicazione a beneficio di persone extracomunitarie che sono risultate essere vittime di tratta e di grave sfruttamento in ambito lavorativo e nelle pratiche di accattonaggio per conto terzi estranei al nucleo familiare. In un ambito economico particolarmente attivo, quindi, come quello del varesino, che è andato incentivandosi anche a seguito del potenziamento dell’aeroporto internazionale di Malpensa a partire dal 2002, l’intervento congiunto tra forze dell’ordine, magistratura, organizzazioni sindacali ed organizzazioni del privato sociale, ha portato al rilascio di circa 150 permessi di soggiorno ai sensi dell’art. 18 d.lgs 286. Questi permessi di soggiorno sono stati rilasciati in un periodo compreso tra il 2002 e la fine del 2006. L’esperienza maturata dalla Procura di Varese e della Cooperativa Lotta Contro l’Emarginazione – la struttura che supporta i lavoratori che gli invia la Procura stessa – in favore delle vittime di grave sfruttamento lavorativo non è casuale. Da una parte perché la provincia di Varese – come altre province ad alto grado di dinamicità economico-produttiva – si caratterizza per la presenza di piccole, medie e grandi imprese, nonché attività artigianali e commerciali che assorbono in maniera significativa maestranze di origine straniera. Dall’altra parte perché l’intera area è diventata col tempo una meta diretta di arrivo di manodopera irregolare proprio per la presenza del più grande aeroporto internazionale del nostro Paese. Per tale ragione essa rappresenta al contempo un’area di raccolta e di successivo smistamento di cittadini extracomunitari per gran parte del territorio nazionale. È qui che le organizzazioni criminali dedite al contrabbando di migranti indirizzano e orientano gli stranieri che accettano di entrare nel nostro Paese utilizzando i mezzi e le opportunità che offrono le medesime organizzazioni. La rilettura dunque dei percorsi migratori delle persone che hanno beneficiato della protezione sociale, degli esiti dell’attività investigativa e processuale, nonché le modalità di fuoriuscita delle persone protette, permette di approfondire alcuni significativi aspetti conoscitivi del fenomeno, in particolar modo permette di conoscere le connessioni esistenti tra le organizzazioni che gestiscono la tratta di persone e il traffico di migranti con organizzazioni illegali locali, ed il loro innesto nei bacini lavorativi ed economici del territorio caratterizzati 181 dall’economia sommersa e dal lavoro nero. Il caso del lavoratore rumeno bruciato dal suo datore di lavoro nel 2001 mobilitò le organizzazioni sindacali e le istituzioni giudiziarie ed investigative, la cui attività di denuncia non è scemata col tempo. Anzi, i risultati attuali della Procura di Varese e delle organizzazioni sindacali sono a testimonianza che un lavoro di controllo, di investigazione e di denuncia è tuttora attivo. All’epoca la Cgil si costituì parte civile e il giudice di Varese scelse le disposizioni previste dall’art. 18 per rilasciare il permesso di soggiorno ai congiunti della vittima uccisa. Da allora – seppur con evidenti contraddizioni e rallentamenti – il lavoro della Procura, delle organizzazioni sindacali e della Cooperativa Lotta Contro l’Emarginazione prosegue, dando spunto ad altre istituzioni ed organizzazioni operanti in altre parti del territorio nazionale di affrontare l’intera problematica. Le informazioni che seguono sono ricavate dalle interviste realizzate ai testimoni privilegiati che operano a Varese e sono esplicitamente relative ad attività e soggetti che, a seguito di denuncia, hanno beneficiato del programma di protezione sociale. Il profilo sociale, le aree di provenienza e il progetto migratorio I dati relativi alle persone ed ai segmenti della loro storia migrante rimandano ad una complessità e ad una varietà di profili sociali di particolare significatività, in quanto ampliano notevolmente la conoscenza relativa ai casi di grave sfruttamento sino ad ora correlabili soltanto a quelli di natura sessuale. Quest’ultimo fenomeno, come sufficientemente noto, si caratterizza per l’elevato numero di donne coinvolte. Sono le donne le protagoniste, coloro che vengono coattivamente sfruttate. Nell’ambito della tratta e del grave sfruttamento lavorativo, al contrario, a quanto ne sappiamo al momento e a quanto ci fanno capire i dati della Procura di Varese, sembrerebbe un mondo prioritariamente maschile; ossia le persone che vengono sfruttate sono uomini, sovente giovani – anche se non mancano casi di lavoratori cinquantenni – e rappresentano una forza lavoro altamente attiva. Sono uomini che vengono impiegati in condizioni lavorative piuttosto dure e condizionanti, soprattutto in attività di varia natura, nell’edilizia – sia come bassa manovalanza che come lavoratori qualificati ma pagati come se non lo fossero – nell’agricoltura, nella metalmeccanica, nonché in altri comparti produttivi. In piccola parte, inoltre, sono stati rilevati casi di grave sfruttamento che hanno coinvolto donne straniere, ma che non sono ascrivibili all’ambito dei lavori domestici o di cura. Una novità rispetto alle vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale è data dal fatto che nelle pratiche di 182 sfruttamento lavorativo sono incappate anche giovani coppie emigrate insieme ed insieme sfruttate ed insieme infine hanno anche denunciato. La provenienza geografica delle persone assistite è molto varia; infatti, gli utenti sono originari non solo di paesi dall’Europa orientale e balcanica, ma anche dal Marocco e in piccolissima parte dalla Tunisia e dall’Algeria. Si rilevano altresì casi di cittadini asiatici, tra cui, alcuni lavoratori cinesi. I cittadini dell’Europa orientale balcanica costituiscono quasi il 60% dei casi, in particolare si tratta di cittadini rumeni (oggi facenti parte dell’Unione europea) e di cittadini moldovi. Tra questi gruppi nazionali sono presenti anche delle denunce collettive. L’altro 40% è composto da persone che provengono da una varietà alta di paesi. Si registrano cittadini indiani, pakistani e bengalesi per le altre aree del Sud-est asiatico, peruviani, ecuadoriani e colombiani per l’America Latina, nonché senegalesi e nigeriani per l’Africa centro-occidentale. L’analisi dei dati ha messo in luce l’esistenza di casi di denunce esposte da gruppi di persone provenienti dalla stessa area geografica sfruttate dal medesimo datore di lavoro. Ciò significa che: 1) esiste un canale unico di ingresso in lavori gravemente sfruttati in base al gruppo nazionale di appartenenza (ad esempio, facilitato da un caporale della stessa nazionalità); 2) il passaparola o la coesione del gruppo di connazionali sfruttati nel medesimo ambito lavorativo alimenta, in un tempo (anche breve), la decisione di denunciare i datori di lavoro irresponsabili. Dai dati della Procura emerge che si tratta di cittadini stranieri in possesso anche di titoli di studio, impiegati nel loro paese di origine, in molti casi, anche con posizioni qualificate. Non si è quindi in presenza di disoccupati di medio o lungo periodo e senza nessuna possibilità di impiego, ma di persone comuni, (spesso) con un livello di istruzione scolastica tale che gli avrebbe anche consentito di trovare un buon lavoro in patria che, tuttavia, non ritenevano soddisfacente. Insomma, si tratta di lavoratori migranti senza apparenti particolari caratteristiche di vulnerabilità iniziali, senza particolari disagi in relazione a quelli mediamente riscontrabili in altre componenti di immigrati presenti sul territorio varesino o nazionale. Nella maggior parte dei casi arrivano per poter migliorare la propria condizione, quindi, non per passare da una condizione di sopravvivenza minima a una condizione di benessere o sopravvivenza dignitosa, ma, soprattutto i più giovani, partono con un progetto migratorio di sviluppo umano ed economico. Nel loro paese non stanno malissimo, semplicemente vogliono stare meglio. Cittadini stranieri dunque desiderosi di intraprendere un’esperienza migratoria per soddisfare aspirazioni di miglioramento delle proprie condizioni. Ad esempio, tra le persone assistite, ci sono anche poliziotti. Si tratta di due ex-poliziotti pakistani che sono espatriati ed arrivati a Varese per lavorare 183 diversamente. Ci sono giardinieri, camerieri, un nutrito gruppo di ex-studenti. Non si tratta dunque di persone disperate, senza progetti e privi di capacità di orientamento e di soluzione dei problemi che possono subentrare durante il processo di emigrazione, anche perché ci vogliono soldi per partire e sistemarsi una volta giunti a destinazione. Le organizzazioni di contrabbando di migranti chiedono una cifra che oscilla – a seconda della lontananza – dai 4 ai 6.000 euro a persona, e sovente tra le persone assistite non sono state rilevate forme particolari di indebitamento da giustificare il loro ingresso nel meccanismo di grave sfruttamento. Gli ambiti economici e la collocazione delle aziende La casistica relativa agli ambiti economici, i luoghi territoriali e le modalità di lavoro con le quali i cittadini stranieri sono stati gravemente sfruttati e che si presenta a seguito delle denunce o delle indagini effettuate dalle forze dell’ordine o dalla Guardia di finanza, è assai differenziata. I casi emersi sul territorio della provincia di Varese hanno riguardato aziende attive in diversi settori economici e produttivi. Non si tratta soltanto di aziende operanti in comparti marginali dell’economia locale, ma anche di aziende e di imprese strutturate e ben insediate nelle filiere produttive. Anche in queste, infatti, sono stati coinvolti non solo individui singoli ma, come già accennato, anche gruppi interi di persone. In alcuni casi aziendali le forme di sfruttamento erano particolarmente evidenti e particolarmente assoggettanti, tanto che la Procura ha accordato i benefici previsti dall’art. 18. In sostanza, oltre al caso sopra ricordato del lavoratore rumeno, queste esperienze iniziali hanno permesso di continuare gli interventi ed essere protratti negli anni successivi. La diversificazione delle situazioni riscontrate, che vanno dalla riduzione in schiavitù fino alla tratta a scopo di grave sfruttamento del lavoro, passando per i casi più violenti di lavoro nero, e l’attivazione dei percorsi di protezione sociale, ha di fatto consentito di tracciare i percorsi per l’applicazione della norma citata. Un primo caso da rilevare è quello che la Procura di Busto Arsizio definisce “Kevin C” (luglio-ottobre 2002)23. Il nome è quello della “azienda fantasma”, creata nei pressi di Saronno, da un imprenditore italiano. L’azienda produceva cosmetici, era situata in un luogo isolato, fuori città, ed impiegava nell’attività produttiva esclusivamente cittadini rumeni, uomini e 23 La Procura della Repubblica di Busto Arsizio ha affrontato alcuni casi giudiziari – tra cui Kevin C – e poi ha continuato a lavorare sull’esperienza maturata su questi sino ad oggi, integrando le competenze e consentendo un’applicazione utile dell’art. 18 del d.lgs. 286/98. 184 donne, man mano reclutati a questo scopo, mediamente in numero di dodici. Solo tre impiegati di origine italiana erano regolarmente assunti. L’imprenditore aveva ricavato dei locali per poter anche alloggiare gli operai stranieri nello stesso immobile che ospitava il reparto dedicato alla produzione. L’indagine non era nata sul tema dello sfruttamento lavorativo dell’immigrazione clandestina, ma riguardava le frodi in commercio e la sicurezza merceologica dei prodotti commercializzati dalla Kevin C. Un secondo caso significativo è stato quello di Malnate, riguardante una fonderia: “Aveva al proprio interno un ‘reparto confino’ dove venivano sistematicamente chiusi dentro il laboratorio lavoratori che non parlavano la stessa lingua. Si trattava di un reparto conosciuto solo dal magazziniere, oltre che – ovviamente – dal datore di lavoro. Era una fabbrica significativa del varesino e il fatto di chiudere a chiave i lavoratori stranieri occupati presentava una doppia convenienza: la prima era – così pensavano – conveniente per i lavoratori stranieri, poiché nessuno li vedeva – e questo li induceva a percepire un maggior senso di sicurezza e in tal modo nessuno poteva denunciarli alla polizia –; la seconda convenienza era per il datore, in quanto aveva un gruppo di maestranze da usare a piacimento e secondo le diverse necessità della produzione. In questa azienda, finiti i turni dove erano impiegati i lavoratori stranieri chiusi a chiave, cominciava l’attività dei lavoratori regolari. Questi ultimi non erano per nulla a conoscenza dell’utilizzo clandestino del reparto dove loro stessi lavoravano regolarmente.” (int. 18, sindacalista, Milano) “Nel corso delle indagini sono emerse anche alcune situazioni significative rispetto al tema della connessione tra le organizzazioni criminali a matrice straniera che operano nell’area – ma anche su tutto il territorio nazionale – con organizzazioni criminali, anche di tipo mafioso, che agiscono ed operano con aziende proprie all’interno di settori economici particolarmente dinamici: sia per fare affari leciti e finanche illeciti, attivando in particolare meccanismi di riciclaggio all’interno di attività produttive apparentemente legali. In altre parole, a fianco di attività legali e lecite attivano, parallelamente, attività illegali ed illecite; ad esempio, da una decina di anni è attiva nell’area la cosca del clan dei Madonia che ha diversificato i suoi affari anche nell’intermediazione di manodopera straniera, soprattutto per il lavoro clandestino nel settore edile.” (int. 19, procuratore, Varese) È quindi in ragione di un forte radicamento nel territorio varesino di organizzazioni criminali di tipo mafioso che si incentivano forme di lavoro para-schiavistico, andandosi ad affiancare a quelle attivate dagli imprenditori locali senza scrupoli e con tendenze delinquenziali. Dalle indagini emergono anche modalità di imposizione di manodopera straniera irregolare, poiché il caporale ha la forza di imporre ad imprenditori non del tutto corretti 185 manodopera clandestina ad un prezzo vantaggioso oppure la può imporre sulla base di minacce e pressioni malavitose ed estorsive. Ad esempio: “Imporre manodopera vuol dire che io, in collaborazione con cittadini extracomunitari, mi procuro una serie di lavoratori immigrati clandestini, poi vado nel cantiere, che il più delle volte è di un mio connazionale italiano e gli dico ‘senti, hai bisogno di lavoratori? Questi lavoratori ce li ho qui io.’ Non ho neanche bisogno di dire al datore ‘stai attento che se non prendi la mia manodopera io ti incendierò il cantiere, tu qui non lavori più, l’ha già capito appena arrivo. E quindi da qui i famosi subappalti e i sub-appalti dei sub-appalti.’ L’attività investigativa successiva alle denunce dei lavoratori vittime di tratta o gravemente sfruttati ha portato in questi quattro anni all’iscrizione al registro degli indagati più di 500 persone, tra cui numerosi imprenditori italiani, alcuni dei quali sono stati condannati.” (int. 19, procuratore, Varese) Lo scenario che fa da sfondo a episodi di tratta e grave sfruttamento del lavoro a danno di stranieri si delinea quindi come estremamente variegato e complesso. D’altra parte, un altro aspetto che emerge, oltre a quelli già accennati in precedenza (l’inesistenza di contatti e di messa in sicurezza del lavoratore, il basso salario percepito, la coercizione di alloggiare nel luogo di lavoro), è il costante impedimento promosso dai datori di lavoro, dai caporali e dalle organizzazioni mafiose affinché i lavoratori ingaggiati costruiscano rapporti e relazioni sociali. Questa pratica è messa in campo proprio per prevenire la formazione di momenti di solidarietà tra lavoratori e quindi di auto-produrre quel senso di forza e di capacità che li spingerebbe a promuovere denunce specifiche. Questa pratica trova inoltre la sua forza persuasiva allorquando viene brandita dai datori specificamente come una minaccia verso i lavoratori irregolari. La paura dell’espulsione rende miti e accondiscendenti questi lavoratori, li rende sovente vulnerabili anche se sono forti e decisi. L’interruzione del loro progetto migratorio sul quale hanno investito, anche anticipando completamente il costo del viaggio all’organizzazione, la prospettiva di tornare nel paese da dove sono partiti li mette in una posizione di arrendevolezza, di docilità. Questo avviene anche perché, come è emerso dalle interviste realizzate, sussiste tra il lavoratore straniero irregolare e il suo datore di lavoro o caporale una sorta di “connivenza”, di patto tacito; patto che si trasforma in una accettazione delle regole che propone/impone il datore sulla base del principio “del prendere o lasciare”. 186 Le motivazioni alla fuoriuscita dalla condizione di sfruttamento Il nodo prioritario per consentire l’emersione del fenomeno di tratta e grave sfruttamento del lavoro e la possibilità di beneficiare del percorso di protezione sociale ai sensi dell’art. 18 appare più di carattere culturale, da parte delle persone sfruttate, che metodologico, dal punto di vista della Procura, delle organizzazioni sindacali e di quelle no profit. I lavoratori stranieri che si trovano in condizioni di grave sfruttamento provengono da paesi e culture diverse, nelle quali vigono sistemi di diritti sovente non comparabili a quelli europei; sono minimali o addirittura inesistenti, tanto da non percepire la condizione lavorativa di grave sfruttamento che vivono nel nostro Paese. Condizione lavorativa che spesso è vulnerabile e gravemente violata, ma, alcune volte, nonostante tutto, percepita – da quanti la vivono – quasi privilegiata rispetto a quella vissuta dai connazionali rimasti in patria. L’essere privati della libertà e dei rapporti sociali viene, per estremo, vissuto come atto protettivo e tutelante rispetto al rischio di espulsione, quasi con gratificazione rispetto a chi ti tiene segregato ma che ti garantisce un lavoro e quindi il successo del progetto migratorio. La non conoscenza del sistema normativo italiano, del ruolo del sindacato, della paura delle forze dell’ordine, viste e vissute solo come minacciose, impedisce a molti lavoratori stranieri un percorso individuale di consapevolezza verso l’affrancamento dalla condizione di privazione e finanche di violenza. Dall’intero collettivo di lavoratori stranieri in protezione (come già detto circa 150 casi) molte situazioni di grave sfruttamento sono venute alla luce non tanto per una presa di coscienza da parte del lavoratore, ma quanto a seguito della perdita parziale o totale della capacità lavorativa – a causa di incidenti vissuti personalmente o visti da vicino – e di conseguenza di capacità soggettiva di acquisire un reddito qualsiasi. Abbiamo già detto che in generale il processo di fuoriuscita si avvia a causa di traumi o shock avuti sul posto di lavoro: “L’evento scatenante (nella fonderia di Malnate sopra citata, NdA) è stato il fatto che un lavoratore ha perso un braccio lavorando alla macchina, fortunatamente – per paradosso – ciò è avvenuto nell’ultima mezz’ora di lavoro e pertanto tutti i presenti, tra cui molti lavoratori stranieri, hanno avuto finalmente la percezione che erano tenuti prigionieri.” (int. 18, sindacalista, Milano) A parte questi casi eclatanti, che non sono comunque pochi, secondo quanto emerge dalla lettura dei casi relativi a quanti hanno fruito dell’art. 18, si attiva la denuncia quando questi lavoratori – non solo individualmente ma anche in piccoli gruppi –, come abbiamo ricordato sopra, realizzano che sono stati truffati: “Ho lavorato 6 mesi e non mi hanno mai pagato lo stipendio.” 187 “Abbiamo lavorato come squadra a cottimo e non ci hanno mai dato quanto era stato pattuito.” “Ho dormito nel capannone del datore di lavoro e lo stipendio lo ha tenuto per pagarsi l’affitto.” “Avevano promesso una paga giornaliera precisa e poi al momento di ricevere il dovuto quella paga si era dimezzata.” “Mi avevano detto di pagare una cifra per farmi dare il permesso di soggiorno ma mi hanno preso i soldi e non mi hanno dato nessun permesso, pur lavorando per tre mesi nella loro azienda.” In altri casi, realizzano di fare la denuncia poiché sono stati licenziati su due piedi senza spiegazione e senza nessun giusto motivo: “Ho assistito ad un incidente sul luogo di lavoro da parte di un connazionale e il datore mi ha licenziato per non testimoniare contro di lui, ritenendo per sé il mio passaporto e il compenso dovuto per il tempo di lavoro svolto.” “Mi avevano detto di portare dei connazionali al lavoro e poi non li hanno mai pagati. Ho reagito e hanno licenziato anche me senza pagarmi il dovuto.” “Hanno approfittato di una connazionale e io difendendola sono stato picchiato e mandato via.” “Le ore di lavoro erano lunghe e non quelle che mi avevano prospettato all’inizio.” “Sono andato al mio Paese per le feste e non mi hanno pagato. Al ritorno mi hanno licenziato per abbandono del posto di lavoro.” Questa casistica denota una arroganza e una disinvoltura nel licenziare i lavoratori stranieri preoccupante, anche perché spesso è correlata alla ritenzione del salario maturato. Dai dati analizzati emerge un’altra pratica discriminate e violenta: la ritenzione del passaporto o dei documenti di identità. Si tratta di un vero e proprio abuso perpetrato senza nessun motivo se non quello ricattatorio, quello di soggiogare la volontà del lavoratore. In questi casi le denunce attivate contro questi datori di lavoro-aguzzini si sono basate sul reato di “sequestro di persona” o “di furto di documenti” oppure di “intrattenimento illecito di documenti di identità.” In questi casi, comunque, dato che i processi possono durare anche due anni, il datore di lavoro ha il tempo di tentare di corrompere gli eventuali testimoni, soprattutto se sono ancora occupati presso la stessa azienda. L’opera di dissuasione di colleghi e connazionali per far venir meno la denuncia è una pratica spesso utilizzata dal datore di lavoro. Il lavoratore denunciante, oltre a comprendere l’utilità a denunciare, spesso lontano dalla sua visione dei rapporti di lavoro, deve poi rintuzzare le pressioni che attivano i suoi parenti, amici e connazionali allorquando il datore li convince – in modi diversi – a stare dalla sua parte contro il denunciante. Questi amici/colleghi, inoltre, tendono a discreditare il denunciante anche all’interno della comunità di appartenenza, divulgando la diceria che la colpa di quanto accaduto è soltanto sua e che il licenziamento è stata la giusta reazione del datore di lavoro. Così viene minata la sua credibilità e ridotta la sua capacità di imbastire relazioni sociali con il rischio di restare in solitudine. 188 3.10 Lo sfruttamento e l’auto-sfruttamento nelle aziende cinesi di Prato La comunità cinese e le sue attività imprenditoriali L’immigrazione cinese a Prato è cominciata agli inizi degli anni ’90 ed è rapidamente cresciuta trasformando questa piccola provincia toscana nell’area di maggiore concentrazione della presenza cinese in Italia, sia in termini di valori assoluti che di incidenza sul totale della popolazione. L’anagrafe comunale di Prato conta oggi circa 10.000 cinesi (pari al 45% dei residenti stranieri in città) con un’incidenza di oltre il 5% sul totale della popolazione, che raddoppia ampiamente nel centro cittadino dove vivono oltre il 40% dei cittadini cino-popolari24. Molti, però, sono i cinesi privi della residenza anagrafica, anche tra coloro in possesso di un regolare permesso di soggiorno, e l’entità complessiva della loro presenza è ben superiore25. Si tratta, dunque, di una comunità molto numerosa che ha rapidamente raggiunto una significativa importanza sia nella locale realtà economica e sociale che nel più vasto universo della diaspora cinese in Italia e in Europa. Composta inizialmente soltanto da cittadini originari dell’area di Wenzhou, nel sud del Zhejiang (provincia della costa sud-orientale della Cina), la comunità cinese ha assunto progressivamente una maggiore eterogeneità, similmente a quanto registrato nel resto d’Italia, prima con gli arrivi degli originari del Fujian (altra provincia della costa sud-orientale della Cina, confinante con il Zhejiang), cominciati nella seconda metà degli anni ’90, e, più recentemente, con quelli degli originari del Dongbei (l’area della Cina nord-orientale comunemente conosciuta come Manciuria, che comprende le province del Liaoning, dello Heilogjiang e del Jilin). Oggi a una stragrande maggioranza di cittadini del Zhejiang si affianca, dunque, una consistente minoranza di fujianesi e una crescente, seppure ancora modesta, presenza di nativi della Manciuria. 24 L’anagrafe comunale di Prato registra al 30 settembre 2006 9.676 residenti cinesi (pari al 5,2% del totale della popolazione), dei quali 4.093 risiedono nella circoscrizione Centro, dove costituiscono l’11,2% della popolazione. 25 Secondo i più recenti dati ministeriali disponibili i cinesi titolari di permessi di soggiorno in provincia erano 11.680 nell’agosto 2004, una cifra decisamente superiore al numero dei residenti in provincia alla fine del medesimo anno, pari a 7.537. La differenza risulta ancora maggiore se consideriamo che dal computo dei permessi di soggiorno restano esclusi quasi totalmente i minori e confrontando soltanto i maggiorenni circa la metà della popolazione cinese regolarmente soggiornante (in gran parte concentrata nel capoluogo) appare priva della residenza anagrafica. Non disponiamo purtroppo di dati più aggiornati sui permessi di soggiorno, ma la mancanza di residenza anagrafica sembra essere tuttora una condizione molto diffusa. A ciò si aggiunge la presenza di irregolari che è per sua stessa natura difficilmente quantificabile. 189 Alla mutata composizione della popolazione cinese di Prato non contribuiscono soltanto i nuovi arrivi dalla Repubblica Popolare Cinese e dalle diverse località della diaspora (in Italia e in altri paesi europei) ma anche i movimenti in uscita dal territorio comunale che sono alquanto consistenti e sembrano proporzionalmente coinvolgere in misura maggiore gli originari del Zhejiang. Tali movimenti in uscita hanno sempre affiancato il contemporaneo avanzare dei processi di stabilizzazione26 sul territorio, che hanno contrassegnato fin dall’inizio lo sviluppo dell’insediamento cinese in quest’area con la diffusa presenza di famiglie, spesso legate tra loro da stretti vincoli parentali27, e la crescente incidenza di residenti cinesi nati nel comune di Prato e in altri comuni italiani. Notevoli, però, sono le differenze che si registrano tra gli emigrati del Sud e quelli del Nord della Cina. Nel primo caso si tratta, notoriamente, di una migrazione a carattere familiare, motivata principalmente dalla volontà di arricchirsi attraverso lo sviluppo di proprie attività imprenditoriali, che può contare sull’appoggio di ampie reti parentali e sociali interne alla diaspora. Nel secondo caso si tratta, invece, di una migrazione a carattere individuale, determinata dalla chiusura e dalla ristrutturazione delle grandi fabbriche statali del nord della Cina, che non può contare sull’appoggio di analoghe reti parentali e sociali. Diversi sono anche i percorsi di inserimento lavorativo (a Prato e in Italia) dei cinesi del nord che risultano molto più differenziati28 rispetto ai loro connazionali del sud, quasi tutti occupati nell’imprenditoria etnica che ha conosciuto, sin dall’inizio, una notevole fortuna nel territorio pratese. Già nei primi anni ’90, quando l’immigrazione nella zona era appena cominciata, si contavano oltre duecento aziende gestite da cittadini originari della Repubblica Popolare Cinese, quasi tutte occupate nella produzione conto terzi di confezioni e di articoli abbigliamento. Il loro numero è cresciuto 26 Sui processi di stabilizzazione e mobilità della popolazione cinese di Prato si veda: A. Marsden, “La popolazione cinese di Prato”, in AA.VV., Comunità cinesi in Italia e accesso ai servizi sociosanitari: analizzare i bisogni e progettare gli interventi in rete, Edizioni Ets, Pisa (in corso di pubblicazione). 27 Già nel 1995 il 12% delle famiglie cinesi residenti nel comune di Prato risultava legato tra loro da stretti vincoli parentali. Nel 2005 tale percentuale risultava poco superiore (13,3%) ma con legami parentali molto più estesi che spesso coinvolgono numerose famiglie. Cfr. A. Marsden (a cura di), Prato Multietnica, Comune di Prato, Prato, 1997; e A. Marsden, “La popolazione cinese…”, cit. 28 Molte donne lavorano come baby-sitter o vanno ad alimentare il mercato della prostituzione cinese diffusosi negli ultimi anni, mentre gli uomini spesso fanno i venditori ambulanti, i massaggiatori o altre svariate e precarie attività. Tanti, inoltre, cercano lavoro presso aziende italiane (una tendenza, questa, che inizia a diffondersi anche tra i cinesi del Sud). Per un’analisi più dettagliata dei nuovi flussi migratori dal Nord della Cina si veda: C. Tolu, “Diversificazione nei luoghi di origine dei migranti cinesi”, in A. Ceccagno (a cura di), Migranti a Prato, Franco Angeli, Milano, 2003. 190 molto rapidamente e lo sviluppo dell’imprenditoria cinese ha arricchito l’economia del distretto e richiamato l’arrivo di altri immigrati. Nell’arco di poco più di un decennio Prato si è trasformata in una delle più dinamiche realtà imprenditoriali della diaspora cinese in Italia. Oggi le aziende cinesi operanti in provincia si avvicinano alle 2.500 unità e costituiscono una realtà ben più eterogenea di un tempo. Accanto alle tante piccole ditte individuali, a conduzione familiare, che continuano a produrre confezioni conto terzi, sono sorte numerose aziende di pronto moda che danno lavoro anche a dipendenti italiani e esportano in vari paesi europei. I settori di attività si sono moltiplicati con un forte sviluppo di commercio e servizi, la crescita della ristorazione e l’inserimento in nuovi settori delle industrie manifatturiere (in particolare nei mobilifici). Contemporaneamente le strutture aziendali sono divenute più diversificate e complesse con la comparsa anche di numerose società di capitale, alcune delle quali sono riuscite a raggiungere una buona affermazione di mercato. Il loro successo, insieme alle scarse possibilità di affermazione professionale offerte dalle aziende italiane, incentiva le aspirazioni imprenditoriali degli immigrati provenienti dal sud della Cina e ogni anno la Camera di Commercio di Prato registra l’iscrizione di centinaia di nuove aziende cinesi. Molte, però, stentano a conquistare e mantenere un proprio spazio di mercato ed elevato è il turn over delle aziende, pur nel quadro di un perdurante sviluppo dell’imprenditoria cinese nell’area. Nel 2005 si sono iscritte alla camera di Commercio oltre 800 aziende cinesi ma quasi altre 400 hanno cessato la loro attività e non molto dissimili sono i dati registrati negli anni antecedenti. Accanto all’emergere di un ristretto, seppur crescente, nucleo di aziende di successo, permane la presenza di una miriade di micro-imprese che hanno soltanto una breve durata29 e sono presto costrette a chiudere, ritentando magari la fortuna in altre zone italiane. La volatilità delle aziende è un fenomeno che si verifica un po’ in tutti i settori dell’imprenditoria cinese nell’area ma risulta particolarmente accentuato nelle confezioni che restano ampiamente l’attività più diffusa. È verso di essa che si rivolge comunemente un neo-imprenditore cinese di Prato, dopo avere accumulato i capitali e le competenze necessarie attraverso un’esperienza di lavoro dipendente (a Prato o in altre città) e coinvolgendo in tale scelta l’intera famiglia, utilizzando tutte le risorse economiche e umane al suo interno disponibili. Molte, però, sono le difficoltà che si trova ad 29 Da una ricerca compiuta alcuni anni fa la durata media delle aziende cinesi in provincia risultava di circa due anni e otto mesi, contro i dodici e mezzo rilevati tra le imprese italiane e i quattro circa tra il totale delle imprese a conduzione straniera. Tra le aziende cinesi che avevano cessato l’attività circa il 25% lo avevano fatto entro il primo anno di vita (contro l’8,3% rilevato tra quelle italiane). Cfr. D. Caserta, A. Marsden, Rapporto sull’imprenditoria straniera in provincia di Prato, Camera di Commercio e Comune di Prato, Prato, 2003. 191 affrontare. La crescente concorrenza e le condizioni di mercato gli impongono di accettare condizioni di lavoro sempre più svantaggiose e pesanti, mentre la discontinuità delle commesse rende difficile la prosecuzione dell’attività, obbligando gli operai a una mobilità sempre più esasperata tra le aziende per mantenersi un’occupazione e aggravando le difficoltà dell’impresa che non può contare sulla stabilità della manodopera impiegata. A ciò si aggiungono i mancati pagamenti da parte di molti committenti italiani, che spesso peggiorano ulteriormente la situazione dell’azienda30, determinandone talvolta il definitivo fallimento. L’organizzazione del lavoro nelle aziende cinesi L’avvio e la gestione di un’impresa è una responsabilità che coinvolge l’intera famiglia. Tutti partecipano alla realizzazione di questo obiettivo che costituisce l’aspirazione più diffusa tra i cinesi del sud e, in particolare, tra i cittadini di Wenzhou, famosi anche in Cina per il loro grande dinamismo imprenditoriale. Tutta la famiglia partecipa, in vario modo, all’attività dell’azienda che scandisce ritmo, scelte e condizioni di vita di ciascuno dei suoi componenti. Ogni aspetto della vita personale è subordinato all’obiettivo imperante della famiglia che è il successo economico dell’impresa e, quando possibile, l’ampliamento dell’attività, con l’avvio di altre aziende, intestate al coniuge, ai figli o a altri parenti, che possono operare nello stesso settore (e in stretto coordinamento tra loro) o inserirsi in altre attività (e/o territori), attuando così anche una diversificazione del rischio d’impresa31. Una delle conseguenze di questo sistema è la grande partecipazione femminile alle attività lavorative, non solo in posizione subordinata ma anche 30 È questo un fenomeno che è stato ripetutamente rilevato e denunciato dal centro Ricerche e Servizi per l’Immigrazione del Comune di Prato fin dal 1995. Si tratta di un fenomeno molto diffuso a cui quasi nessuno riesce a sfuggire e le cifre dei mancati pagamenti possono essere anche molto consistenti. Secondo le dichiarazioni di un imprenditore cinese in un’intervista riportata da Ceccagno “l’80% delle ditte cinesi ha o ha avuto problemi di riscossione di soldi dai committenti italiani” e i casi citati dall’imprenditore parlano di cifre che vanno dai 75.000 ai 200.000 euro. Cfr. A. Ceccagno, “Le migrazioni dalla Cina verso l’Italia e l’Europa nell’epoca della globalizzazione”, in A. Ceccagno (a cura di), op.cit. 31 L’inizio di una diversificazione delle attività delle imprese cinesi, avvenuto nella seconda metà degli anni ’90, è in gran parte addebitabile proprio a queste strategie familiari per cui uno o più membri della famiglia gestiscono un’azienda di confezioni e uno o più altri membri avviano imprese in altri settori. Cfr. A. Marsden, “Il ruolo della famiglia nello sviluppo dell’imprenditoria cinese a Prato”, in M. Colombi (a cura di), L’imprenditoria cinese nel distretto industriale di Prato, Olschki, Firenze, 2003. Questo fenomeno sembra essere tuttora alquanto diffuso, così come la gestione di diverse aziende di confezioni da parte di membri di una stessa famiglia che spesso ne organizzano congiuntamente il lavoro. 192 come “laoban”, datore di lavoro. Tra gli imprenditori cinesi registrati alla Camera di Commercio di Prato le donne hanno sempre costituito una percentuale molto alta, soprattutto se confrontata a quella riscontrata tra gli immigrati originari di altri paesi, e oggi sono oltre un migliaio le donne cinesi che gestiscono un’impresa in provincia (con la carica di titolare, amministratore o socio)32. Ciò incide però anche sulle scelte riproduttive e sulle modalità di cura della prole. Piuttosto diffuso sembra essere il ricorso all’aborto e la gestione della maternità è fortemente condizionata dalle esigenze lavorative. Molte donne scelgono di non allattare i propri figli e spesso i genitori, quando i bambini hanno ancora pochi mesi di vita, decidono di allontanarli momentaneamente da sé, affidandoli alle cure dei nonni in Cina o di balie e baby sitter (cinesi o italiane) in Italia. Divenuto più grande e residente insieme ai propri genitori, il bambino si trova, in vario modo, coinvolto dalle esigenze lavorative della famiglia e dalle sue aspirazioni imprenditoriali. In certe occasioni egli può diventare un aiuto prezioso, grazie alle sue competenze linguistiche in italiano, o può dare una mano, nei lavori più semplici all’interno del laboratorio, quando tutta la famiglia, e gli eventuali dipendenti, sono mobilitati per l’urgente consegna di una commessa. Questo tipo di situazione familiare incide pure sulle aspirazioni professionali del giovane che spesso non riesce a immaginare per sé un futuro diverso o, se lo immagina, è facilmente scoraggiato dai genitori (che non sanno come aiutarlo in un’occupazione che fuoriesca dalle reti dell’economia etnica) e dalle scarse possibilità tuttora offerte dalla società italiana a coloro che provengono da altre realtà. La supremazia delle esigenze lavorative su quelle personali si evidenzia anche nella commistione tra spazi di vita e spazi di lavoro, che è dettata sia dalle difficoltà alloggiative che dai ritmi di lavoro imposti dai committenti italiani ai piccoli laboratori contoterzisti di confezioni. La struttura dei laboratori include frequentemente delle aree di alloggio, separate da fragili pareti di compensato o da altri divisori, e anche chi dispone di una propria abitazione finisce spesso col vivere maggiormente nell’ambiente di lavoro quando i ritmi produttivi lo impongono. I tempi di consegna richiesti sono sempre molto rapidi e possono andare da poche ore ad 32 Alla fine del 2005 la Camera di Commercio di Prato registra la presenza di 2.718 imprenditori cinesi che gestiscono 2.441 aziende (delle quali il 69% operano nelle confezioni). Tra di essi si contano ben 1.044 donne, pari al 38,4% del totale. Si tratta dell’unico caso in cui si rileva un così forte protagonismo femminile, mentre tra tutti gli altri gruppi di immigrati che cominciano ad avere una certa presenza (sebbene molto inferiore a quella cinese) nel mondo imprenditoriale locale, la partecipazione delle donne resta ampiamente minoritaria (raggiungendo al massimo un’incidenza del 20% tra i rumeni) o del tutto marginale. Cfr. D. Caserta, A. Marsden, L’imprenditoria straniera in provincia di Prato, Camera di Commercio di Prato, Prato, 2007. 193 alcuni giorni e tutto il lavoro è organizzato in funzione del rispetto di questi tempi. Spesso l’ordine arriva la sera e viene evaso entro la mattina successiva, lavorando continuativamente per quindici-sedici ore, e se l’ordinazione è più consistente l’orario può diventare anche più prolungato. Tutti lavorano a cottimo, prendendosi soltanto dei brevi momenti di riposo, ma si tratta di una scelta in certo qual modo “obbligata” dalla richiesta di mercato esistente. L’estrema flessibilità dell’organizzazione produttiva è spesso la principale risorsa competitiva delle aziende cinesi e ne costituisce una condizione di sopravvivenza. Essa è percepita dall’imprenditore e dai suoi familiari come un passaggio, doloroso ma necessario, per conquistare il successo economico e il benessere della famiglia a cui ogni suo membro deve contribuire. Il tempo e lo spazio di lavoro si dilatano, condizionando ogni aspetto della vita personale di ciascuno e tutte le energie si concentrano nello sforzo comune per la riuscita dell’impresa. L’intera organizzazione aziendale si fonda su questa assoluta centralità della famiglia che ne costituisce non solo la base economica e produttiva ma anche il centro decisionale delle strategie imprenditoriali e il modello su cui sono improntate le relazioni lavorative. Il rapporto tra laoban e dipendente non è impostato su una classica logica contrattuale ma si basa, piuttosto, su una concezione familistica di stampo confuciano e include molteplici aspetti estranei a una tradizionale logica contrattuale. Insieme al salario, il laoban fornisce infatti ai dipendenti anche vitto e alloggio, nonché un supporto di carattere più generale al suo percorso di inserimento nella società di accoglienza che comprende molteplici servizi. Questi possono andare dall’aiuto nel disbrigo di pratiche burocratiche alla soluzione di vari e differenziati problemi della vita quotidiana: “Il fatto è che i titolari devono occuparsi di tutti gli aspetti di vita dei dipendenti” – spiega un imprenditore cinese di Prato – “dal cibo a quando hanno l’influenza o quando hanno bisogno di un dottore… Fare il datore di lavoro nei nostri laboratori è come fare da mamma e papà agli operai, questo lo diciamo spesso per scherzo tra di noi.33” Il ruolo del laoban, come ben evidenziano le parole di questo imprenditore, non solo non si esaurisce nella mera funzione di datore di lavoro ma si estende fino a pervadere tutti gli aspetti della vita del suo dipendente. Egli diventa per lui, soprattutto nei primi tempi, il principale tramite con la società di accoglienza, di cui l’operaio spesso non conosce né la lingua né le regole di funzionamento e le consuetudini. Il ruolo del laoban è, inoltre, fondamentale per aspetti che sono centrali nella vita di ogni immigrato, come l’ottenimento e il rinnovo del permesso di soggiorno e la possibilità di ottenere il 33 A. Ceccagno, op.cit., p. 55. 194 ricongiungimento familiare. Ciò aumenta ulteriormente il suo potere, lasciando spazio a possibili soprusi cui difficilmente l’operaio oserà ribellarsi se la posta in gioco è il permesso di soggiorno per sé o per i suoi familiari. Il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore si fonda pertanto su un elevato grado di dipendenza, e conseguente ricattabilità, che è intrinseco all’impostazione stessa del rapporto e fortemente condizionato dalle normative sull’immigrazione e dalla capacità della società di accoglienza di offrire o meno al lavoratore delle alternative capaci di garantirgli una maggiore autonomia. Nella situazione attuale il margine di autonomia del lavoratore tende essenzialmente a esaurirsi nella possibilità di cambiare laoban e, più che di una scelta, si tratta, spesso, di un’imposizione, dettata dalla necessità di rincorrere il lavoro e assicurarsi una continuità occupazionale passando ripetutamente da un’azienda a un’altra. Il rapporto lavorativo, però, sostanzialmente non cambia e neanche le condizioni di vita e di lavoro. La fuoriuscita da questa situazione è generalmente individuata nella prospettiva di diventare, a propria volta, laoban, risparmiando e coinvolgendo tutta la famiglia nello sforzo di aprire una piccola impresa. Occorrono, tuttavia, anni di risparmi per raggiungere questo obiettivo perché i salari nei laboratori sono bassi (vanno dai quattrocento ai mille euro mensili, a seconda delle competenze possedute e delle funzioni svolte34) e prima vi possono essere spese più urgenti, come saldare i debiti accumulati per venire in Italia e/o per ottenere un permesso di soggiorno per lavoro. Le modalità e i percorsi di arrivo Per un cinese che voglia immigrare in Italia in modo irregolare, o falsamente regolare, ci sono principalmente tre alternative, con una serie di varianti al loro interno. Esse offrono un diverso grado di “regolarità” nel futuro status giuridico del migrante, costano sempre una notevole spesa (più alta nel caso di una completa regolarità formale) e, nel caso di un ingresso da clandestino, possono avere anche un elevato costo in termini di rischio e sofferenza umana. Secondo le informazioni raccolte, parlando con cittadini cinesi e con operatori italiani in stretto contatto con essi, le modalità sono le seguenti: a. entrata con visto turistico, che si lascia successivamente scadere rimanendo in Italia senza permesso di soggiorno; 34 Nei laboratori sono presenti varie figure di dipendenti: un lavoratore generico (zagong), che si occupa delle pulizie e delle mansioni più semplici guadagna dai 400 ai 500 euro al mese, un operaio generico (shougong), capace di svolgere funzioni che richiedono alcune abilità tecniche di base, guadagna sui 600 euro mensili (pagate al mese o a cottimo); mentre un operaio di grado superiore, in possesso di competenze più specialistiche, viene op. cit. 195 b. entrata “regolare” per lavoro, utilizzando le quote dei flussi ma pagando una elevata cifra (circa 17.000 euro) per emigrare garantendosi il futuro status di regolare immigrato; c. entrata clandestina, con pagamento in soldi (circa 10.000 euro) o in lavoro. In ognuno di questi tre casi l’emigrazione è una scelta costosa che richiede il coinvolgimento di parenti, amici e conoscenti per reperire la cifra necessaria e determina un debito da saldare successivamente con i primi anni di lavoro in Italia. Diverse, invece, sono le modalità operative, che nel primo caso non richiedono il supporto di reti organizzative, mentre negli altri due sì. L’entrata con visto turistico è una scelta più frequentemente adottata dai cinesi del Nord che incontrano meno difficoltà nell’ottenere i documenti necessari per uscire dalla Cina. Il futuro migrante si reca in un’agenzia di viaggi e acquista un biglietto per un tour in Europa che comprende vari paesi (tra i quali vengono inclusi anche il Vaticano e San Marino), lasciando però un consistente deposito all’agenzia a garanzia del rientro in Cina che non avverrà, con conseguente perdita del deposito35. Il visto turistico non è, comunque, facile da avere, difficile ottenerne uno per un viaggio individuale e praticamente impossibile, a detta di moltissimi immigrati, ottenerne uno per chi abbia già dei parenti in Italia. In questo caso, infatti, le autorità cinesi non lo rilasciano per timore che il cinese voglia emigrare. Negli ultimi tempi sembra che questa soluzione sia andata diradandosi per l’insorgere di maggiori controlli governativi sulle agenzie di viaggio che rendono più difficile anche l’ottenimento di un visto per partecipare ad un tour. Una variante possibile di questa soluzione è quella di richiedere un visto turistico per un paese europeo diverso dall’Italia (perché quest’ultima appare caratterizzarsi per una politica molto più restrittiva nella concessione del visto) e spostarsi successivamente in Italia. Se il visto turistico non richiede l’ausilio di alcun mediatore, né di una rete organizzativa più o meno estesa e articolata, diverso è il discorso negli altri due casi. In passato tali soluzioni si basavano frequentemente sul semplice supporto delle reti familiari (peraltro molto estese tra i cinesi) ma col passare del tempo sempre più diffuso è divenuto il ricorso ad apposite organizzazioni che offrono la possibilità di espatriare scegliendo tra le diverse proposte precedentemente accennate. La soluzione scelta dipende dalla quantità di soldi che il migrante riesce a mettere insieme, ricorrendo ai prestiti di parenti e conoscenti, e se i soldi non ci sono egli si impegna a pagare attraverso un periodo di prestazione lavorativa non retribuita durante il quale non potrà cambiare laoban. Il ricorso a quest’ultima solu35 Secondo le informazioni forniteci da un immigrato cinese il costo del deposito si aggira attualmente sui 7.000 euro, cui se ne aggiungono tra i 2.800 e i 3.000 per il costo del tour con una spesa complessiva di circa 10.000 euro. 196 zione sembra, tuttavia, essere diminuito negli ultimi tempi perché le organizzazioni preferiscono riscuotere subito la somma pattuita. In ogni caso non risulta esserci alcun elemento di coercizione nella stipula dell’accordo che appare, piuttosto, come una libera trattativa tra le parti per la “compravendita di un servizio” e come tale è generalmente percepito dal migrante. Il rapporto tra migrante e organizzazioni si stabilisce nel momento della richiesta del “servizio” (di cui il più delle volte si è avuto notizia attraverso un semplice meccanismo di passaparola e qualche volta attraverso altre modalità, come le pubblicità mascherate su internet che sono cominciate ad apparire negli ultimi anni36) e si chiude con il saldo del pagamento. Quest’ultimo viene fatto, di solito, dai familiari in Cina, solo dopo che hanno avuto conferma della completa “effettuazione del servizio” con la comunicazione dell’avvenuto arrivo in Italia. A gestire le migrazioni clandestine sono reti organizzative divenute sempre più ampie, articolate e flessibili. Esse includono realtà molto diverse tra loro che vanno dalle tradizionali reti familiari e sociali interne alla diaspora a una moltitudine di piccoli gruppi, formatisi per sfruttare questo lucroso mercato e rapidamente specializzatisi nel nuovo business, fino ad arrivare a vere e proprie organizzazioni criminali internazionali. Un’attenta analisi di questo fenomeno è stata presentata da Renzo Rastrelli, con una ricerca fondata sullo studio di numerosi atti giudiziari e su un’ampia indagine sul campo tra gli immigrati (realizzata attraverso le attività del Centro Ricerche e Servizi per l’Immigrazione del Comune di Prato)37. L’autore mette ben in evidenza le diverse reti esistenti e analizza l’efficienza e la flessibilità che contraddistinguono l’operato degli shetou, le “teste di serpente”, come vengono chiamati gli organizzatori dei viaggi clandestini, alla luce delle più ampie reti relazionali su cui esse si appoggiano. Egli sottolinea come “l’organizzazione risulta flessibile, aperta a molteplici contatti ed amicizie che portano a individui che non fanno parte del gruppo vero e proprio ma di una rete più vasta legata da comuni interessi magari anche occasionali38” e come su questi legami influisca “il modello culturale delle guanxi (relazioni, conoscenze) cioè un sistema – in Cina – tradizionale e onnipresente di relazioni sociali che unisce le persone in base a obblighi e favori vicendevolmente scambiati e che spesso consistono anche in prestiti di denaro.39” Accanto al richiamo ai modelli culturali e ai legami interni alla diaspora Rastrelli 36 L’esistenza su internet di forme pubblicitarie mascherate di questo genere di servizi sembra riferirsi soprattutto agli espatri verso l’America. Non sappiamo se ciò si verifichi anche nel caso degli espatri verso l’Italia. 37 R. Rastrelli, “Immigrazione cinese e criminalità. Fonti e interpretazioni a confronto”, in G. Trentin (a cura di), La Cina che arriva, Avagliano editore, Roma, 2005. 38 Ibidem, p. 217. 39 Ibidem, p. 218. 197 sottolinea, però, anche l’instaurarsi di legami “con organizzazioni criminali dei vari paesi nei quali si snoda il serpente del traffico40” che testimoniano l’esistenza di reti transnazionali multietniche e di intrecci complessi che si stabiliscono tra fenomeni interni alla diaspora cinese e fenomeni interni alle diverse società di accoglienza (e ai vari paesi di transito). L’operato delle “teste di serpente” deve, dunque, essere letto alla luce di diversi elementi: a. La cultura e il contesto di origine, che spiegano come il rapporto tra migrante e organizzazione sia concepito come un patto di reciproco interesse che ciascuna delle parti si impegna a rispettare. Le “teste di serpente” si presentano come gli “unici veri amici” capaci di garantire efficacemente l’espatrio e l’arrivo alla destinazione prescelta dietro un adeguato compenso. Questa funzione di servizio è sottolineata da numerosi studiosi della materia che escludono, proprio per questa ragione, che si possa parlare di tratta di persone per quanto riguarda i cinesi ed evitano, in alcuni casi, anche il ricorso al termine “trafficanti”, sostituendolo con quello di “facilitatori” per richiamare ancor meglio l’attenzione sulla centralità di questo aspetto41. b. L’incidenza congiunta delle perduranti spinte all’emigrazione dalla Cina e delle politiche restrittive sull’immigrazione adottate nei paesi di approdo che, inevitabilmente, favorisce le migrazioni irregolari e allarga lo spazio di mercato nel quale operano le “teste di serpente”. Il commento che “in Italia sia più facile entrare in modo irregolare che regolare” è sempre stato molto diffuso tra gli immigrati (non solo cinesi) e lo è diventato ancora di più dopo l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini che, se da un lato ha permesso la regolarizzazione di un altissimo numero di stranieri, dall’altro ha reso più difficile la possibilità di ingressi regolari in Italia. c. Lo sviluppo di nuovi legami tra le “teste di serpente” e esponenti della malavita locale nei vari paesi, che influiscono sull’accrescersi della dimensione più strettamente criminale del fenomeno. Tale dimensione è testimoniata sia dalla circolazione di documenti falsificati che dal preoccupante diffondersi di episodi di violenza, ricatto o estorsione. Nei racconti di viaggio di diversi clandestini, riportati da Rastrelli, emerge ripetutamente la collaborazione tra organizzatori cinesi e di altre cittadinanze e sono testimoniati diversi episodi di violenza subiti dai clandestini non soltanto ad opera dei cinesi. I viaggi dei clandestini sono spesso lunghi e faticosi e seguono molteplici rotte, che possono subire anche parziali modifiche in itinere nel caso insorga40 Ibidem. F.N.Pieke, P. Nyiri, M. Thuno, A. Ceccagno, Transnational Chinese. Fujianese Migrants in Europe, Stanford University Press, Stanford, 2004. 41 198 no complicazioni. Gli organizzatori appaiono essere estremamente efficienti e flessibili. Essi si appoggiano su una rete di “operatori” alquanto ampia e articolata, con una precisa e dettagliata suddivisione dei compiti. Durante il viaggio i clandestini vengono presi in consegna da diverse persone che li accompagnano nelle varie tappe, sono forniti di documenti falsificati, di biglietti per i vari mezzi di trasporto utilizzati e di cellulari per comunicare con gli organizzatori e ricevere istruzioni in caso di necessità. Durante le soste vengono fatti riposare in alberghi o abitazioni private dove restano costantemente sotto il controllo di qualche esponente dell’organizzazione, senza alcuna possibilità di muoversi autonomamente per non compromettere il buon esito dell’operazione. Le rotte seguite, come abbiamo accennato, sono molteplici e possono prevedere uno spostamento diretto dalla Cina all’Europa, seguito da una serie di tappe successive verso l’Italia, o uno spostamento iniziale verso un altro continente dal quale poi si riparte verso l’Europa e l’Italia42. Una delle rotte che sembra avere acquistato crescente popolarità negli ultimi anni, secondo le dichiarazioni di A. Andreani (agente della polizia di stato italiana impegnato nella missione Onu Unmick in Kosovo e consulente investigativo dell’Iom)43, è quella che vede come porta di ingresso in Europa la Serbia (paese per il quale i cinesi non hanno eccessiva difficoltà a ottenere il visto), dalla quale poi viene passato clandestinamente il confine con la Bosnia per proseguire verso l’Italia attraverso l’autostrada Belgrado-Zagabria. Un altro percorso, citato da E. Ciconte e P. Romani44, vede, invece, un volo iniziale fino a Kiev, in Ucraina, con successivi spostamenti, attraverso l’Ungheria e la Slovenia, per arrivare in Italia. Gli stessi autori indicano come confini di ingresso in Italia, oltre a quello italo-sloveno, quello italo-austriaco e le coste del Nord-est o della Puglia. Nelle testimonianze riportate da Rastrelli45 troviamo ancora altre rotte e racconti più dettagliati dei viaggi. In uno dei casi raccontati dallo studioso il percorso di arrivo in Italia è stato molto semplice e diretto, con un volo dalla Cina alla Francia e proseguimento in treno per Milano, mentre in un altro quella che ci viene narrata è una vera e propria odissea, contrassegnata da numerose tappe e dall’alternarsi di diversi mezzi di trasporto. Le protagoniste della vicenda partono in aereo per Hong Kong dove un membro dell’organizzazione fornisce loro un nuovo biglietto aereo per Mosca (aiutandole per l’imbarco ma senza accompagnarle). 42 Secondo informazioni raccolte tra gli immigrati sembra che una delle rotte utilizzate negli ultimi anni passi dal Sud America per poi arrivare in Spagna e in Italia. 43 M. Dematteis, La via balcanica dei cinesi, in http://www.volontariperlosviluppo.it/2005_3/05_3_04.htm 44 E. Ciconte, P. Romani, Le nuove schiavitù, Editori Riuniti, Roma, 2002, pp. 100-111. 45 R. Rastrelli, Immigrazione cinese e criminalità…”, cit. 199 Giunte all’aeroporto vengono condotte in un albergo dove il giorno dopo un altro cinese le va a prendere per portarle alla stazione ferroviaria e viaggiare, poi, con loro fino in Cecoslovacchia. Scese ad una stazione a loro sconosciuta vengono portate in macchina (guidata da una persona non cinese), insieme al loro accompagnatore, fino a una località dove le attende un pullman carico di altri migranti. Successivamente fanno tutta una serie di tappe, spostandosi in macchina o in camion, fino ad arrivare al confine con l’Austria che passano attraverso un sentiero di montagna. Proseguono poi in macchina e in treno fino a Vienna dove vengono fermate per il possesso di falsi passaporti e quando tentano di ripartire per l’Italia sono sequestrate da altri cinesi che risultano estranei all’organizzazione del viaggio. Questa testimonianza, che proviene dagli atti di un processo di Milano, risulta particolarmente interessante non solo per il dettagliato resoconto di viaggio ma anche per la sentenza emessa dal giudice sul citato episodio di sequestro. Il magistrato evidenzia nel suo ragionamento che gli autori del sequestro hanno agito solo per il conseguimento di un ingiusto profitto senza fornire alcuna “prestazione di servizio” e sembra con ciò confermare, come commenta Rastrelli, l’interpretazione del rapporto tra migranti e “teste di serpente” come un patto per la fornitura di determinate prestazioni. Questa particolare natura del rapporto tra migrante e organizzazione è resa evidente dallo scioglimento di ogni legame a conclusione del “servizio” e al saldo del relativo pagamento. Inserimento lavorativo e condizioni di soggiorno Una volta giunto in Italia, nella località di destinazione stabilita, l’immigrato (se il pagamento concordato con l’organizzazione è in denaro) riacquista piena libertà di movimento e va a lavorare per un parente o un conoscente o cerca autonomamente occupazione. Una modalità, quest’ultima, che è emersa e si è sviluppata negli ultimi anni. Se un tempo, infatti, il nuovo arrivato aveva già un’occupazione ad attenderlo, oggi non è più sempre così. Diversi immigrati raccontano di essere stati accompagnati a Prato in macchina o in corriera e lasciati nel centro cittadino, nella zona a più forte concentrazione cinese, davanti agli annunci di offerte di lavoro esposte nei negozi gestiti dai loro connazionali. L’accordo con l’organizzazione, diversamente da quanto comunemente si crede e viene spesso propagandato dalla stampa, non prevede infatti la collocazione lavorativa che il migrante deve, quindi, trovarsi attraverso altri contatti (quali, appunto, parenti o conoscenti) o attraverso la consultazione degli annunci, che vengono continuamente affissi e rapidamente sostituiti nei luoghi di ritrovo dei cinesi. Trovare lavoro, come abbiamo precedentemente spiegato, significa generalmente risolvere anche il problema dell’alloggio e del vitto, 200 nonché garantirsi un più generale supporto per l’inserimento nel nuovo contesto sociale. Molto spesso, però, le condizioni di vita e di lavoro sono dure e l’occupazione instabile. Talvolta, inoltre, l’irregolarità del soggiorno può costituire un ulteriore problema anche per lavorare in nero nelle ditte cinesi perché quando si intensificano i controlli delle forze dell’ordine i laoban preferiscono evitare di prendere degli irregolari o, se lo fanno, danno loro una paga più bassa come “contropartita” per il rischio che in questo modo si assumono. In generale, però, la regolarità del soggiorno non sembra determinare di per sé delle grosse differenze nelle condizioni di lavoro degli operai nelle aziende cinesi (ad eccezione, ovviamente, dei casi in cui essi sono tenuti a restare a disposizione di uno stesso laoban per rispettare l’impegno inizialmente stabilito con l’organizzazione). I ritmi di lavoro, soprattutto nei laboratori conto-terzisti di confezioni, sono duri per tutti e sia chi è entrato clandestinamente che chi ha pagato per entrare con un “regolare” permesso di lavoro nei primi tempi spende buona parte dei propri guadagni per restituire il prestito contratto venendo in Italia. Molto spesso, inoltre, le spese “extra” non finiscono qui e altre se ne aggiungono per ottenere e/o mantenere un regolare permesso di soggiorno. Operazioni condotte dalla Guardia di Finanza di Prato hanno messo in luce l’esistenza di un ampio mercato delle regolarizzazioni dove agli immigrati viene venduto, dietro compenso di migliaia di euro, ogni sorta di documentazione. La prima operazione “Surprise”, nel gennaio 2001, giunse alla conclusione che più di mille permessi di soggiorno erano stati rilasciati dietro falsa documentazione venduta a caro prezzo da intermediari italiani e stranieri e la “Surprise 2”, conclusasi nel luglio 2004, ha dimostrato la persistente vitalità di questo mercato, portando all’arresto di ventitre persone delle quali la stragrande maggioranza di cittadinanza italiana (diciotto italiani e cinque cinesi). La vendita di ogni sorta di documenti atti a consentire la regolarità del soggiorno (che non colpisce solo i cinesi ma anche altri stranieri) è un fenomeno ampiamente diffuso e che sta assumendo dimensioni sempre più preoccupanti, come denuncia Rastrelli46. L’ultima regolarizzazione ha fatto emergere l’esistenza di una rete organizzata, che si è progressivamente sviluppata negli anni, con intermediari (o Kuaijishi, come li chiamano i cinesi), in maggioranza italiani, capaci di offrire tutto l’occorrente per la regolarizzazione (kit ministeriale, ditta vera o falsa, busta paga, pagamento dei contributi, indirizzo per il domicilio, etc.) dietro corresponsione di elevati compensi. Falsi contratti di affitto, formalmente ineccepibili ma senza alcuna reale disponibilità di un alloggio, sono stati ven46 R. Rastrelli, “Immigrazione cinese e criminalità…” cit. e “L’immigrazione a Prato fra società, istituzioni ed economia”, in A. Ceccagno (a cura di), op. cit. 201 duti per un costo oscillante tra i 3.000 e i 4.000 euro. Falsi contratti di lavoro sono stai pagati tra i 3.000 e i 6.000 euro, ai quali si è aggiunta una successiva spesa mensile (tra i 300 e i 600 euro) per ricevere una regolare busta paga, malgrado il rapporto di lavoro (che in molti casi era stato promesso e in cui l’immigrato sperava) non sia mai stato avviato. Si tratta, dunque, di spese molto consistenti che spesso non hanno migliorato le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti cinesi. Tanti hanno continuato a lavorare in nero per lo stesso laoban, o spostandosi di azienda in azienda per rincorrere le commesse, ma pagando per il falso contratto di lavoro in un’altra azienda (talvolta anche inesistente o a loro sconosciuta). Altri, che avevano maggiori difficoltà economiche, hanno fatto un accordo con il laoban che ha anticipato le spese per la regolarizzazione in cambio del loro impegno a lavorare gratuitamente, o con stipendi ridottissimi, per un determinato periodo di tempo47. Paradossalmente, dunque, anche la situazione più irregolare, come quella di mettersi a disposizione del laoban lavorando gratuitamente per lui per un determinato periodo di tempo, scaturisce dal suo esatto contrario: la volontà di sanare la propria posizione e ottenere lo status di regolare soggiornante. L’importanza di questo obiettivo è tale che si è disposti a pagare qualunque prezzo per esso e se le relazioni tra società di accoglienza e immigrato non sono gestite correttamente ma passano attraverso fenomeni degenerativi, come la compravendita dei documenti necessari al permesso di soggiorno, l’immigrato si adegua con gli strumenti che ha a propria disposizione. Tali strumenti possono essere sia quelli economici, direttamente richiesti da questo illegale mercato speculativo, sia strumenti di altra natura, che affondano le loro radici nei modelli sociali e culturali di riferimento del gruppo, come quelli che portano i cinesi a stringere accordi di questo tipo con il laoban. Spesso, peraltro, come denuncia Rastrelli, gli immigrati pagano queste cifre convinti che ciò faccia parte della normale procedura, mentre tra quanti sono consapevoli dell’illiceità di questo mercato frequente è la rassegnazione che “in Italia funziona così”. L’esigenza di mantenere la regolarità del soggiorno continua a scandire la vita dell’immigrato per tutti i successivi rinnovi del permesso (nonché nelle procedure per il ricongiungimento familiare), dando luogo ad altrettante occasioni speculative nei confronti di chi non possegga, al momento della scadenza, tutti i necessari requisiti e perpetuando, in molti casi, l’esistenza di un contrastante dualismo tra situazione formale e situazione reale nella vita dell’immigrato (cinese e non). Una conferma di ciò sembra provenire anche dall’alto numero di assunzioni 47 In alcuni casi si è concordato di lavorare gratuitamente addirittura per due anni. Cfr. R. Rastrelli, “L’immigrazione a Prato…”, cit., p. 92. 202 e licenziamenti nelle aziende cinesi, come fa notare Mariani48, che sottolinea come spesso il permesso di soggiorno diventi “merce di scambio”. In un’intervista riportata dall’autrice si evidenzia la forte crescita del numero di assunzioni e licenziamenti registrata negli ultimi anni in provincia di Prato e il legame di tale fenomeno con l’esigenza di rinnovare il permesso di soggiorno: “Le aziende cinesi fanno un sacco di assunzioni e licenziamenti. Il numero assoluto di assunzioni e licenziamenti da quando il fenomeno delle aziende cinesi si è affermato è aumentato in maniera sproporzionata. Assumono lavoratori in scadenza di permesso, li assumono a tempo indeterminato, in questo modo gli fanno prorogare il permesso e poi li licenziano, o si dimettono volontariamente. La causale del licenziamento del lavoratore cinese nell’impresa cinese è sempre dimissione volontaria. C’è questa montagna di assunzioni e dopo un paio di mesi dimissioni.” Sebbene questo frenetico movimento possa essere in parte riconducibile all’esasperata mobilità degli operai cinesi, esso rimanda tuttavia anche al giro di accordi che ruotano attorno al permesso di soggiorno e a quel contrasto tra situazione formale e reale che contraddistingue la vita di tanti immigrati. Questo dualismo tra situazione formale e reale, in contrasto più o meno netto tra loro, è uno degli aspetti che spesso caratterizzano il rapporto tra operaio cinese e laoban. Esiste una sorta di doppio regime contrattuale cui il dipendente è sottoposto. C’è un accordo informale, che costituisce la vera sostanza del rapporto (e del quale fanno parte, appunto, vitto, alloggio e vari tipi di servizi) e c’è un contratto ufficiale che serve a garantire la regolarità del soggiorno e, in quanto tale, diventa esso stesso merce di scambio e oggetto di trattative dell’accordo informale. Succede così non solo che sia il lavoratore ad accollarsi tutte le spese della sanatoria ma che anche al di fuori dei periodi di sanatoria sia il dipendente a pagare mensilmente i contributi e perfino le spese del commercialista che fa la sua busta paga. Si tratta di un accordo estremamente diffuso e condiviso tra le parti che risponde all’esigenza del lavoratore di disporre della documentazione formale per la regolarità del soggiorno e a quella dell’imprenditore di comprimere al massimo i costi per restare sul mercato. I soggetti che lo stringono sono cinesi, le ragioni che lo determinano sono in gran parte addebitabili alle interazioni con la società di accoglienza. Sono infatti le ditte committenti italiane a determinare ritmi e costi di produzione dei laboratori conto-terzisti cinesi e le irregolarità che al loro interno si determinano (in parte comuni, peraltro, anche alle imprese italiane49) sono parte integrante di un sistema produttivo a cui tali imprese risul48 M.A. Mariani, “Casi di studio: Prato”, in Censis, Ministero del Lavoro, Il nuovo ciclo del sommerso, Roma, 2005. 49 Il lavoro nero e la presenza di contratti con un monte orario inferiore a quello effettuato sono fenomeni diffusi anche nelle aziende italiane, come fa notare Mariani che analizza il sommerso 203 tano funzionali, garantendo competitività all’intero sistema distrettuale senza bisogno di ricorrere alla de-localizzazione in altre aree del mondo. In altre parole, le condizioni che il laoban impone al proprio dipendente (ma che spesso, per molti aspetti, anche egli stesso vive) nascono nel mercato italiano e ne costituiscono parte integrante. Esse vengono gestite, però, con modalità che potremmo, per certi versi, definire “interculturali”, nel senso che da un lato si fondano su una diversa cultura della famiglia e del lavoro, mentre dall’altro non solo sono determinate dai meccanismi di funzionamento del mercato ma anche incentivate da una serie di condizionamenti cui l’immigrato è soggetto. Rientrano in tali condizionamenti non solo la preoccupante diffusione di fenomeni illegali, come la compravendita dei documenti, che coinvolgono una ristretta fascia della popolazione italiana (e un’ampia fascia di quella straniera), ma anche una molteplicità di altri fattori (legislativi, sociali e culturali) che coinvolgono più complessivamente la società italiana. Sfruttamento e lavoro para-schiavistico Non si può parlare di sfruttamento nelle aziende cinesi a prescindere dal contesto in cui esse operano e con cui interagiscono. È all’interno di tale contesto che si origina una catena di sfruttamento che va dalle ditte committenti italiane ai laboratori di sub-fornitura cinesi e dal laoban ai suoi dipendenti, in un rapporto gerarchico dove le regole del gioco sono dettate in primo luogo dalle ditte committenti italiane. Sono queste ultime che dettano ritmi e costi di produzione, spingendo le imprese cinesi a lavorare per pochi soldi a qualunque ora del giorno e della notte e determinando un ciclo continuo di produzione che è pienamente funzionale all’economia del distretto, come ben evidenziano le parole di un intervistato riportate da Mariani50: “Si è realizzato un ciclo continuo nei fatti, si lavora di notte. L’azienda italiana lavora fino alle cinque, ti porto il lavoro e domani mattina vengo a riprenderlo e il ritmo va avanti. Si lavora di notte… ma è funzionale.” La studiosa sottolinea come questo rapporto di contoterzismo tra impresa italiana e laboratorio cinese, che consente alle prime di esternalizzare la precarizzazione e minimizzare i costi del lavoro senza ricorrere alla de-localizzazione, sia diventata un’importante risorsa competitiva del distretto e come anche la diffusione del lavoro sommerso, che è ad esso legato, sia pienamente funzionale all’economia distrettuale. nelle imprese cinesi nel quadro di un più ampio “sommerso distrettuale” a cui esso risulta funzionale e perfettamente integrato. Cfr. M.A. Mariani, op. cit. 50 M.A. Mariani, op.cit. 204 Vi è, dunque, una generale condizione di sfruttamento, che è subita sia dai laoban che dai loro dipendenti, ed è all’interno di questo quadro che si inserisce il rapporto di lavoro tra laoban e dipendente. In esso l’influenza di un diverso sistema di valori, su cui si fonda l’organizzazione dell’azienda cinese, si coniuga con quella delle condizioni imposte dal mercato, facilitando l’emergere di varie forme di sopruso che mirano a ridurre i costi aziendali e aggravano le condizioni economiche dei dipendenti. Diffuse sono pratiche come quelle che abbiamo precedentemente citato di scaricare sul lavoratore il costo dei contributi e del commercialista che fa la sua busta paga e scarse le possibilità di ribellarsi da parte del lavoratore che ha bisogno della documentazione formale per garantirsi la regolarità del soggiorno. Alle condizioni di sfruttamento che si generano all’interno del ciclo produttivo si sovrappongono così quelle derivanti dal doppio regime contrattuale vigente all’interno delle aziende cinesi, che rafforza il potere del laoban, e sono forse queste ultime ad essere maggiormente percepite come sfruttamento da parte del lavoratore cinese. Gli orari prolungati e le dure condizioni di lavoro vengono infatti generalmente vissuti dai cinesi (laoban e dipendenti) come un sacrificio necessario per conquistare il benessere economico, sfruttando al massimo le proprie capacità produttive per la riuscita di una carriera imprenditoriale in corso o da costruire nel futuro. Si parla, dunque, di auto-sfruttamento finalizzato al conseguimento di un obiettivo, che è, appunto, quello del successo economico e imprenditoriale. Frequenti sono espressioni del tipo “Noi lavoratori cinesi siamo schiavizzati dal denaro, non dal datore di lavoro. Io sono schiavo di me stesso, non mi sfrutta mia madre o altri, mi auto-sfrutto, è un modo di lavorare diverso51.” Esiste invece la percezione di una discriminazione legata alla propria condizione di immigrato e per la quale si parla di sfruttamento, come emerge dalle parole di uno dei cinesi con cui abbiamo parlato nel corso di questa ricerca: “Perché parlare di sfruttamento interno alla comunità cinese? Lo sfruttamento è a monte, nella mia condizione di immigrato. Sei svantaggiato in partenza e lo rimani anche quando vivi qui da tanto tempo52.” La percezione di questa condizione di discriminazione è certamente incrementata dall’ampio mercato illegale che ruota attorno ai permessi di soggiorno, coinvolgendo sia imprenditori italiani che cinesi e aggravando le condizioni economiche e di ricattabilità dei lavoratori cinesi, che non osano ribellarsi anche quando percepiscono questi commerci come degli illeciti soprusi. Vi è, in generale, una rassegnata accettazione di una situazione di sfruttamento che è senza dubbio diffusa nelle aziende cinesi (nelle quali la possibilità di consentire o meno la regola51 52 Ibidem. Ibidem. 205 rità di soggiorno del suo dipendente rafforza il potere del laoban) ma nella stragrande maggioranza dei casi non si può arrivare a parlare dell’esistenza di situazioni di lavoro forzato o para-schiavistico. Una simile ipotesi è smentita sia dalla libertà di movimento dei lavoratori, testimoniata dall’alta mobilità tra le diverse aziende presenti nel territorio (o in altre aree italiane), che dall’esistenza di accordi tra laoban e dipendenti che (per quanto possano contenere clausole vessatorie non scritte) sono reciprocamente accettati e concepiti come rispondenti alle esigenze di entrambe le parti. Vi è, però, una minoranza di casi contrassegnata da un assoggettamento del lavoratore al laoban, verso il quale si è contratto un debito da rimborsare in prestazione lavorativa, o all’organizzazione che ha consentito il viaggio e l’ingresso in Italia e che reclama il saldo del debito contratto. La situazione diviene allora più grave e problematica perché viene a mancare la libertà di movimento del lavoratore che, se non rispetta il patto stabilito, può divenire vittima di minacce e violenza. Casi di questo genere, gli unici per i quali si possa parlare di grave sfruttamento lavorativo assimilabile al lavoro para-schiavistico, sembrano tuttavia essere piuttosto rari, come dichiara Rastrelli: “Le testimonianze da noi raccolte confermano che in genere con prestiti, investimenti della famiglia allargata e giuste guanxi, gli immigrati riescono a far fronte all’impegno preso e a liberarsi dai debiti col proprio lavoro. Se di norma succede così, il mancato pagamento può però portare anche alla privazione della libertà del migrante, fino a che i garanti o la famiglia non facciano fronte al debito. I clandestini sequestrati possono essere anche venduti o affidati ad altri gruppi. Si possono verificare anche situazioni nelle quali i debiti e la condizione stessa di clandestinità siano oggetto e motivo di ricatto da parte di imprenditori nei confronti del migrante irregolare, che è costretto allora a rimanere nella disponibilità e sotto il potere del datore di lavoro. Alcuni di questi casi sono stati portati alla luce da indagini e processi, altri casi li abbiamo accertati nel nostro lavoro con gli immigrati, specialmente in occasione delle varie sanatorie o regolarizzazioni. Ma la condizione più diffusa che abbiamo trovato nei rapporti di lavoro tra cinesi, nei vari insediamenti della diaspora, è quella della grande mobilità e flessibilità della manodopera. I ricercatori che portano avanti studi sull’economia nella diaspora si imbattono molto più frequentemente con datori di lavoro che si lamentano della difficoltà di mantenere presso di sé la manodopera piuttosto che trovare situazioni in cui sia appropriato parlare di “schiavitù.” I trafficanti esercitano un pieno dominio sul clandestino durante il viaggio e le sue tappe ma lo stato di soggezione del clandestino finisce appunto col viaggio e con la necessità di mante- 206 nere segreti i rifugi e gli spostamenti”53. Se la condizione di assoggettamento del migrante fa parte delle modalità operative del viaggio clandestino organizzato dagli shetou, essa cessa, dunque, generalmente, al termine del “rapporto di servizio”, regolato dall’accordo economico reciprocamente accettato dalle parti, ma può ripresentarsi nel momento in cui tale accordo non venga rispettato. Tali situazioni, come abbiamo detto, non sono molto diffuse, ma potrebbero pericolosamente aumentare con il peggioramento delle condizioni economiche di tanti lavoratori immigrati (dovuto sia agli scarsi guadagni e alle difficoltà delle piccole imprese contoterziste che ai vari illeciti pagamenti versati per garantirsi la formale regolarità del soggiorno), che aumenta i debiti e ne rende più difficile la restituzione. Ciò può allentare le reti di protezione sociale interne alla comunità (costituite dalle famiglie ma anche dalla più ampia rete delle guanxi) e la crescita di rapporti degli shetou con esponenti della malavita locale, nonché l’emergere di un crescente disagio sociale tra fasce della popolazione immigrata, che offre un terreno favorevole allo sviluppo della criminalità54. 3.11 Osservazioni conclusive Il ciclo migratorio: tra business e violenza Ciò che emerge dall’indagine è un panorama di sfruttamento – anche di forme gravi – verso i lavoratori stranieri occupati nelle nostre aziende, piccole e meno piccole che siano. Il confine tra sfruttamento da lavoro nero e sfruttamento da lavoro para-schiavistico non è netto, non è facile da demarcare. Dalle interviste, pur tuttavia, e dalle storie raccontate o raccolte mediante protocolli realizzati dai servizi di protezione sociale per altri scopi, emergono ben chiari quali sono i percorsi migratori, le modalità di ingresso dei lavoratori stranieri entro i confini nazionali, nonché – una volta entrati – quali sono gli ambienti e gli attori che concorrono ad attivare relazioni lavorative basate sull’assoggettamento. In via di principio, intanto, il ciclo migratorio (decisione di partire, viaggio verso l’Italia, ingresso e insediamento sociale e lavorativo) non appare violento nelle fasi primarie, ossia nelle fasi di reclutamento. Questo sembrerebbe 53 R. Rastrelli, “Immigrazione cinese e criminalità…”, op. cit., pp. 226-227. Negli ultimi anni sono aumentati i casi di sequestri e estorsioni e sta emergendo un crescente disagio sociale tra la fascia giovanile della popolazione cinese di Prato che ha portato recentemente alla comparsa della droga e a una prima apparizione di piccole bande giovanili, spesso formatesi per reagire ai soprusi e alle ostilità subite da parte di altri gruppi di giovani italiani (o di italiani e albanesi). Cfr. R. Rastrelli, “Immigrazione cinese e criminalità…, cit. 54 207 avvenire come avviene in generale per tutte le componenti migranti. Si cerca colui o coloro che organizzazione i “viaggi della speranza”, si concordano le linee generali di come avverrà il viaggio, come si snoderà e quali garanzie vengono offerte dai trafficanti e dai trasportatori. Fatto questo, si parte. Abbiamo rilevato – e questa è una conferma di quanto emerge in altre indagini sull’immigrazione – che non sono operanti le cosiddette “organizzazioni a doppia sponda”, cioè organizzazioni che gestiscono l’intero ciclo migratorio e gestiscono finanche lo sfruttamento una volta arrivati in Italia e in particolare nei territori di insediamento. Esistono, invece, anche sulla falsariga della tratta di persone classica, diverse organizzazioni che gestiscono una fase del processo, del ciclo migratorio, e poi i diretti interessati richiedono – in genere spontaneamente e in modo cosciente – servizi, seppur illegali, ad altre organizzazioni che gestiranno la fase successiva e così via. Quindi: il reclutamento e la predisposizione di quanto necessario alla partenza e al viaggio avvengono all’interno di rapporti tutto sommato corretti, nonostante ci siano delle regole e delle relazioni irreggimentate che possono in alcune fasi delicate del ciclo migratorio essere penose e dure per quanti sono coinvolti nel viaggio. Il viaggio, come abbiamo visto, sovente è molto pesante, poiché realizzato tutto in clandestinità. Si passano confini e confini con la preoccupazione o la paura di essere intercettati, con la paura che qualcosa possa andare storto, con la paura che i trafficanti, pur di salvarsi, nel caso di intercettazione da parte delle forze di polizia (non importa di quale paese), di abbandonare il carico umano. Se si è in mare il problema è molto serio, se si è sulla terraferma appare meno problematico. Abbiamo detto delle aree di raccolta oltre confine. Si tratta di luoghi sospesi, anonimi e senza fisionomie particolari, villaggi sperduti e fuori dalle linee di scorrimento. Sono luoghi da dove non si può tornare indietro e da dove si aspetta, anche per mesi e mesi, per andare avanti, per proseguire. Un luogo dove si raccolgono le forze e dove si svolge qualche lavoro per irrobustire quanto già si ha o si dovrebbe avere, per fare l’ultimo tratto ed entrare in Italia. In questa fase sono emerse violenze, ricatti e truffe, ma tutto all’interno di un regime di sicurezza per non far fallire il piano di ingresso e di oltrepassamento dei confini. Queste aree si trovano oltre confine, in Libia, in Tunisia e in Marocco e anche in Libano e in Turchia. A settentrione si trovano in Bulgaria, in Serbia e nella Repubblica Ceca. Notizie al riguardo individuano – rispetto all’Italia – luoghi simili in Provenza, in Slovenia e in Austria. La fase di ingresso, cioè l’ultima fase prima di entrare entro i confini nazionali è gestita da altre organizzazioni. Sono organizzazioni di contrabbandieri e vendono questo specifico servizio: far entrare in Italia quanti lo desiderano farlo illegalmente. È un vero e proprio business, illegale e illecito ma pur 208 sempre un business; nel senso che chi lo attiva rispecchia procedure e comportamenti commerciali finalizzati al profitto e quindi attento ad offrire il servizio migliore. I casi di maltrattamenti gratuiti o di violenze inaspettate sono rari, poiché ne andrebbe di mezzo “il buon nome della ditta” e questo significherebbe perdere clientela, perdere opportunità di guadagno. Il mezzo di trasporto di gran lunga utilizzato è il pullman turistico, seguono auto e veicoli commerciali, treni e navigli per quanti utilizzano o sono costretti dalla loro posizione geografica ad utilizzare il percorso marittimo (anche perché costa di meno, anche perché maggiormente pericoloso). Il lavoro nero: un percorso al momento quasi obbligatorio Le fasi iniziali di insediamento degli immigrati sono generalmente caratterizzate dalla condizione di irregolarità – questa come sappiamo si produce anche quando scadono i permessi di soggiorno e non si possono per motivi diversi rinnovare – e pertanto sono fasi in cui i lavoratori stranieri accettano tutti i lavori pur di acquisire reddito per la sopravvivenza. I datori di lavoro – soprattutto quelli che operano in alcuni comparti soggetti a picchi produttivi (come l’edilizia, il turismo, l’agricoltura, etc.) – conoscono questo tipo di offerta lavorativa, la stimolano, la promuovono e l’adattano alle proprie necessità produttive. Così facendo producono un sistema di produzione che misconosce, da un lato, i contratti nazionali di categoria (seppur stagionali o a tempo determinato, anche breve); dall’altro, il diritto del lavoratore alla sicurezza del/sul posto di lavoro (sia nel senso della continuità temporale che in quello della propria integrità psico-fisica). In tal modo alimentano e rafforzano direttamente il lavoro sommerso e la propensione all’irresponsabilità delle altre aziende appartenenti al medesimo settore produttivo mediante l’emulazione e la diffusione di culture aziendali basate sulla falsa convinzione di essere così maggiormente concorrenti e competitive sul mercato di riferimento. Questo tipo di relazioni, pur tuttavia, come abbiamo sottolineato nell’esposizione della ricerca, non si manifestano soltanto nel lavoro stagionale, anche se in questo assumono caratteri maggiormente preoccupanti, ma investono al contempo anche quei comparti produttivi la cui produzione rimane costante sull’intero ciclo dell’anno. In questo tipo di lavorazione si inaspriscono le relazioni lavorative basate sulla prevaricazione continua dei diritti di chi lavora. I datori approfittano del fatto che si tratta di stranieri, magari privi di documenti di soggiorno o in cerca di qualsiasi occupazione pur di sopravvivere; condizioni che determinano uno stato di vulnerabilità sociale e pertanto una particolare disponibilità allo sfruttamento anche pesante. 209 La vulnerabilità – sovente di tipo pluridimensionale, cioè economica, sociale, culturale, linguistica, psico-fisica, etc. – può produrre eccessivo attaccamento e fiducia da parte dello straniero al datore di lavoro. Questo, approfittando della situazione di estrema debolezza del lavoratore, attiva meccanismi finalizzati ad assoggettarlo radicalmente e a limitare considerevolmente la sua libertà di movimento e di negoziazione sociale. In questi casi la volontà di resistenza delle persone coinvolte (adulte e anche minori) viene sottomessa fino a far configurare, paradossalmente, anche forme relazionali basate apparentemente sulla libera scelta e sulla sostanziale accondiscendenza delle stesse. Sono rapporti di lavoro che il datore imposta e persegue in modo paternalista, poiché sa che deve mantenere comunque delle relazioni equilibrate per non farsi denunciare dai lavoratori allorquando si sentono solo pressati e assoggettati. La condizione del lavoro forzato, servile e para-schiavistica tende a determinarsi come una situazione di fatto (ossia non avallato da norme legislative) che trova spazio in ambiti marginali dell’organizzazione sociale e produttiva. Cosicché un maggior contrasto al lavoro sommerso, una attenzione continua da parte delle autorità competenti, un monitoraggio costante e puntuale delle relazioni lavorative, un rafforzamento del clima sociale di accoglienza verso gli immigrati, permetterebbe anche una progressiva riduzione delle forme di grave sfruttamento. Queste, infatti, non dovrebbero avere più quella sorta di copertura culturale e finanche politica, anche se indiretta, che hanno quando si porta all’estremo la necessità di deregolizzare al massimo il mercato del lavoro perché soltanto in tal maniera l’azienda diventa competitiva. Insomma, quella cultura ambigua che nella sostanza sembra giustificare o quantomeno a tollerare rapporti di lavoro che si estrinsecano al di fuori delle contrattazioni ufficiali, al di fuori delle regole contrattuali a carattere nazionale. Contrastare il lavoro sommerso e in nero – che secondo stime ministeriali coinvolgerebbe circa 4.000.000 di lavoratori – significherebbe anche aumentare i margini di sicurezza sui posti di lavoro, poiché maggiore è il ricorso al lavoro informale e minore è l’attenzione da parte dei datori ai dispositivi di sicurezza. Risparmiare sulle retribuzioni, risparmiare sui sistemi di sicurezza nei luoghi di lavoro, risparmiare sui contributi previdenziali ai lavoratori vuol dire porsi al di fuori della legalità, porsi contro la prevenzione finalizzata a ridurre progressivamente le “morti bianche” (che ammontano a circa 1.200 unità, tra lavoratori italiani e stranieri, a fronte di circa 950.000 incidenti sul lavoro). Occorre rafforzare, dunque, ancora di più, gli organismi ispettivi e rendere più veloci le cause civili e penali per motivi di lavoro, ripristinando pertanto la fiducia nelle istituzioni giudiziarie ed ispettive del settore e fare in modo che queste, quando individuano aziende di tal guisa, possano monitorarle di seguito e nel breve periodo (pochi mesi da una ispezione all’altra). 210 Le forme di sfruttamento che riguardano i lavoratori immigrati rientrerebbero così nel sistema generale di monitoraggio ed ispezione sulle condizioni di lavoro, rientrando, da un lato, nella logica universalistica tutelata dalle normative ordinarie soprattutto per quanto concerne il lavoro nero/sommerso (cfr. art. 36 bis della l. n. 248/2006); dall’altro, nella normativa dedicata (art. 18, T.U. Imm.) per quanto concerne il lavoro configurabile come para-schiavistico. Il lavoro sommerso e il lavoro nero nella comunità cinese Se sfruttamento e precarietà (lavorativa ma anche di soggiorno) sono fenomeni diffusi tra la fascia più debole della popolazione immigrata in generale, questo appare altrettanto diffuso nelle componenti cinesi, anche se le forme di sfruttamento para-schiavistico appaiono ben più rare. Queste ultime, come abbiamo argomentato, sono quei casi che l’opinione pubblica associa sovente al lavoro della comunità cinese e che la stampa a sua volta enfatizza spesso a dismisura, facendoli apparire come paradigmatici del “modello dominante” nei rapporti di lavoro tra migranti cinesi. Simili posizioni rispecchiano la persistente esistenza di una diffusa difficoltà a comprendere l’universo cinese (generalmente percepito come minaccioso e ostile) e propongono una lettura semplificata della realtà in cui nessuna attenzione viene posta alle dinamiche di interazione tra immigrati e società di accoglienza. Riteniamo invece essenziale affrontare i problemi di sfruttamento che si pongono all’interno delle aziende cinesi (ma non certo in tutte, perché l’imprenditoria cinese, a Prato e in Italia, è ormai una realtà ampiamente diversificata e complessa che include situazioni aziendali molto diverse tra loro) distinguendo tra vari livelli del problema. Esiste una diffusa realtà di sfruttamento che nasce all’interno della catena produttiva e in cui il lavoratore, pur trovandosi in una posizione di estrema debolezza e ricattabilità, ha piena libertà di movimento e vive un’esasperata mobilità lavorativa. All’interno di tale realtà emergono però anche fenomeni più gravi con la crescente diffusione di varie forme di sopruso (generalmente legate al doppio regime contrattuale) e, talvolta, casi più estremi di coercizione e di grave sfruttamento assimilabile al lavoro para-schiavistico. Occorre, dunque, che ci sia la possibilità di monitorare continuamente queste relazioni di lavoro, approfondire i cambiamenti che avvengono all’interno delle comunità cinesi in relazione alle dinamiche inerenti ai rapporti produttivi e ai rapporti di lavoro intra-comunitari. Solo da queste “osservazioni continue” è possibile comprendere e delineare lo spartiacque tra lavoro sommerso – presente nella comunità come è presente in altri settori di lavoro anche autoctoni – e il lavoro para-schiavistico, assoggettante e violento. 211 Indicazioni di politica sociale Il campo di tensione, sulla base di quanto detto, è dunque da una parte il lavoro sommerso e dall’altra il lavoro nero55, nella sua forma più penalizzante per il lavoratore, giacché da quest’ultimo si produce e si auto-produce il lavoro para-schiavistico. Sono le relazioni e i rapporti di lavoro contigui tra queste diverse configurazioni del lavoro informale che determinano modalità lavorative del tutto de-regolarizzate. Per certi versi ci troviamo davanti a settori della produzione che agiscono in regime di “sommersocrazia”, ovvero l’economia sommersa ha le sue regole, ha il suo modo di produzione, ha i suoi rapporti di lavoro. All’interno di tale regime, del tutto illegale e pertanto perseguibile anche penalmente, lo spartiacque tra lavoro nero (nella forma in cui il lavoratore è soggetto a processi di inferiorizzazione e di subalternità) e il lavoro paraschiavistico è difficile da comprendere, anche perché hanno molti fattori ed indicatori comuni: il lungo orario, la bassa paga giornaliera, gli stessi rischi sul lavoro dovute alle scarse o assenti misure di sicurezza. Ma ciò che comunque li separa è senz’altro la diversa intensità di violenza psico-fisica che si registra nell’uno o nell’altro modo di lavorare. È più intensa in quello che definiamo lavoro para-schiavistico, poiché implica anche la non possibilità di recedere il rapporto di lavoro senza incombere in violenze, anche di natura fisica. Si tratta di una differenza, tra l’altro sostanziale, che è individuabile nel fatto che nel lavoro para-schiavistico la protezione sociale – sulla base di quanto è emerso dalla ricerca – scatta allorquando le condizioni di assoggettamento mettono a repentaglio la vita stessa dei diretti interessati, dei lavoratori coinvolti. In altre parole, quando l’azione protettiva è specificamente finalizzata a “consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti” psico-fisici (come recita l’art. 18, T.U. Imm.) che subisce: o da singoli individui (anche datori di lavoro-delinquenti e senza scrupoli o caporali assoldati per lo sfruttamento) o organizzazioni criminali, quando gli sfruttatori sono almeno tre e sono in consorzio tra loro (come recita il Protocollo di Palermo). Che fare al riguardo? Dalle interviste sono fuoriuscite delle indicazioni. Intanto occorre far comprendere meglio ai lavoratori stranieri che sono titolari di diritti in quanto persone (sia quando essi sono nella condizione di regolarità o di irregolarità rispetto al permesso di soggiorno); ciò è possibile con campagne informative (su programmi radiofonici e televisivi nazionali), con campagne 55 Proposte per affrontare e debellare il lavoro nero ne sono state fatte molte, soprattutto dalle organizzazioni sindacali ed accettate come piattaforme di intervento anche dai governi che si sono succeduti negli ultimi quinquenni, con risultati non del tutto incoraggianti. Le indicazioni, poche per la verità, si riferiscono solo alla parte di lavoro nero che possiamo configurare come para-schiavistico. 212 mirate alle comunità maggiormente esposte a queste forme di grave sfruttamento (in particolare quella cinese, quella rumena, quella moldova, quella pakistana). Ad esempio, anche collaborando con i loro giornali e pubblicazioni che ormai sono operanti e visibili all’interno delle diverse collettività. Un altro aspetto, sempre nell’ottica della prevenzione, occorre promuovere interventi finalizzati ad estendere le conoscenze sul fenomeno, con l’attivazione di maggior studi e ricerche sul tema: non solo a carattere nazionale, ma anche a livello territoriale laddove il fenomeno appare maggiormente incisivo. Conoscere il fenomeno nelle sue differenti sfaccettature vuol dire avere le conoscenze preliminari per programmare interventi mirati. In terzo luogo sensibilizzare le Procure e le forze di polizia al controllo delle imprese, dei cantieri e dei campi agricoli. Trovare collegamenti funzionali con le organizzazioni sindacali e no profit che intervengono nel settore immigrazione e in quello della protezione delle vittime da forme di grave sfruttamento. Creare, dunque, reti territoriali con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su queste particolari dinamiche sociali e produttive. Mobilitare (aumentando gli effettivi) le autorità ispettive del lavoro (Inps e Inail) e soprattutto fare in modo che possano monitorare quelle imprese che appaiono maggiormente soggette a trasgredire le regole del lavoro. Monitorarle a distanza di pochi mesi e non di anni; accorciare dunque i tempi di verifica e monitoraggio e inasprire le norme sanzionatorie per i casi di para-schiavismo. Creare, al riguardo, canali preferenziali per le denunce e per le cause che ne potrebbero derivare, portale a termine in modo più veloce per salvaguardare i diritti delle vittime (e dei datori in caso di non colpevolezza). Attivare gli attori e le parti sociali che operano nel settore significa anche promuovere un ampio dibattito socio-culturale e sul modo di concepire oggigiorno il lavoro. Il lavoro come risorsa dell’agire umano, chiunque lo pratichi e chiunque l’organizzi. In quarto luogo la sicurezza e la formazione devono poter essere concepiti come investimenti, avere lo status di investimento e non di costo, poiché rappresenta un valore aggiuntivo dell’impresa. Lavorare in condizioni di sicurezza significa prevenire incidenti, infortuni e perdite di vite umane. Significa altresì fidelizzare la manodopera e metterla naturalmente in condizione di essere maggiormente produttiva, proprio perché si sente sicura, si sente compartecipe alle performance imprenditoriali. Rendere cioè l’impresa una impresa socialmente responsabile (per usare le parole di Luciano Gallino56). Ciò vuol dire rinnovare la normativa degli appalti, vietando le cosiddette “gare al ribasso” (vera causa prima dell’insicurezza sul lavoro), vietando 56 L. Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Torino, 2001. 213 dunque la gemmazione di sub-appalti e dei sub-appalti dei sub-appalti, poiché la ditta/impresa ultima che realizza il lavoro è costretta a realizzarlo riducendo i salari e riducendo al minimo i sistemi di sicurezza. L’impresa che vince l’appalto deve essere direttamente responsabile del sistema di produzione, del raggiungimento del prodotto alle condizioni massime di sicurezza. Si inizi dagli appalti pubblici, si passi subito dopo a quelli privati. Si inaspriscano i reati di inadempienza degli standard di sicurezza nei luoghi di lavoro, si rendano i controlli e le ispezioni sul lavoro più ravvicinati nel tempo, si ridia alle organizzazioni sindacali la forza di denunciare – anche con denunce individualizzate – i datori irresponsabili e i datori-delinquenti. Per le aziende edili, in quanto quelle – insieme alle imprese agricole – maggiormente coinvolte negli incidenti, occorrerebbe, oltre all’iscrizione alla Camera di commercio, che ogniqualvolta iniziano un lavoro, la presentazione del piano di svolgimento del processo produttivo e il correlativo piano preventivo per gli eventuali incidenti; ossia l’impresa deve descrivere cosa intende fare per prevenire gli incidenti sulla base del processo produttivo che si appresta a percorrere. Tale piano dovrebbe essere correlato dall’elenco dei nomi dei lavoratori che si intende utilizzare, dalle mansioni che dovranno svolgere e per quanto tempo, nonché con quale paga e con quale contratto. I lavoratori dovranno essere muniti di un cartellino di riconoscimento numerato e corrispondente al numero dell’elenco depositato. Bibliografia AA.VV., Nuove schiavitù, Comunità edizioni, Roma, 2004. Boutang Y.M., Dalla schiavitù al lavoro salariato, Manifesto libri, Roma, 2002. Carchedi F., F. Mottura, E. 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Si è scelto di concentrare l’attenzione su queste aree in quanto esse registrano la più alta presenza di minori stranieri non accompagnati in Italia. La finalità principale della ricerca è stata di verificare se, e in quale misura, il coinvolgimento dei minori stranieri in attività devianti e illegali sia riconducibile ad un fenomeno strutturato di tratta di esseri umani e di sfruttamento. Il lavoro di ricerca è stato effettuato con uno “sguardo esplorativo”. Stante la scarsa letteratura esistente su questo specifico tema, si è cercato di allargare il più possibile lo sguardo al fine di comprendere meglio l’universo in cui si trovano coinvolti questi minori stranieri. Solo attraverso la comprensione a tutto tondo dei percorsi dei minori stranieri si è ritenuto possibile distinguere i fenomeni di tratta da situazione diverse di sfruttamento, non definibili come tratta. Per tale ragione, pur concentrandosi su alcuni contesti metropolitani, sono stati analizzati anche territori più circoscritti ritenuti significativi per comprendere il contesto migratorio. Il presente studio, di carattere qualitativo, si basa su informazioni ottenute attraverso le 51 interviste realizzate a testimoni privilegiati/e (operatori ed operatrici sociali, rappresentanti delle forze dell’ordine, magistrati/e) e a 19 minori stranieri entrati in contatto con i servizi che offrono assistenza a tale 1 Con il contributo di Elena Rozzi. Va precisato che ivi non si analizza il coinvolgimento delle minori nella prostituzione in quanto le forme di sfruttamento a cui sono sottoposte sono del tutto analoghe a quelle riguardanti le donne adulte. La tratta a scopo di sfruttamento sessuale è materia specifica del Capitolo 2, infra. 2 216 target group. Va sottolineato che, considerando la difficoltà di intervistare i minori, specie se vittime di gravi abusi, in tre casi sono stati coinvolti gli operatori e le operatrici sociali di riferimento che hanno descritto le storie di vita di minori assistiti dal loro servizio o organizzazione. La collaborazione con gli operatori è stata fondamentale per permettere di distinguere le storie rappresentative di un fenomeno da quelle cosiddette “limite”, che non possono essere generalizzate3. L’intento non è mai stato quello di costituire un campione statistico, ma di tratteggiare dei vissuti, dei percorsi individuali che dessero la misura di ciò che è avvenuto e di ciò che può avvenire nell’ambito del fenomeno sociale preso in esame dalla ricerca. 4.2 Le aree geografiche di provenienza dei minori e la collocazione nei mercati di sfruttamento L’analisi delle interviste realizzate ha permesso di identificare un’ampia casistica riguardante i minori provenienti dal Nord Africa (Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto), dall’Africa sub-sahariana4, dall’Est Europa (Bulgaria e Romania) e dai territori dell’ex Jugoslavia5. Si è scelto di concentrare l’attenzione sui gruppi marocchino e rumeno, rom e non, in quanto essi costituiscono i gruppi di minori stranieri più numerosi e più rilevanti per l’oggetto della ricerca. È stata individuata una sorta di specializzazione nei mercati di sfruttamento in base alle città di provenienza, ai luoghi di destinazione e al gruppo di appartenenza. Ad esempio, comune a tutte le città considerate, è la presenza di minori rumeni (rom e non) dediti all’attività di borseggio. Diversa, invece, la situazione rispetto al coinvolgimento in altre forme di economia illegale. In alcuni territori, è stata registrata una forte presenza di minori di una certa provenienza geografica all’interno di uno specifico mercato di sfruttamento (è il caso, ad esempio, dei marocchini nel mercato dello spaccio di stupefacenti a Torino, dei bulgari in Friuli Venezia-Giulia o dei rumeni, rom e non, che si 3 Le interviste effettuate con i/le testimoni privilegiati/e sono state tutte registrate, mentre nel caso dei minori alcune non sono state registrate per la mancanza di consenso da parte della persona intervistata. Quando non è stato possibile usare il registratore, l’intervistatore o l’intervistatrice ha trascritto il colloquio evidenziandone i punti salienti. 4 Al momento della messa in stampa del volume, a Torino, si registra un rilevante aumento, pur trattandosi ancora di casi circoscritti, di minori di origine centro-africana – di cui risulta molto difficile accertare la provenienza e l’identità – coinvolti nello spaccio di sostanze stupefacenti. 5 Occorre precisare che sussiste sempre un’incertezza sulla nazionalità dei minori stranieri. In assenza di documenti ci si basa, infatti, sulla nazionalità dichiarata che (in particolare per i minori provenienti dal Nord Africa) non necessariamente coincide con quella effettiva. 217 prostituiscono a Milano e a Roma); in altri territori, invece, questi stessi gruppi nazionali sono risultati essere pressoché assenti (ad esempio, i marocchini a Roma o i minori stranieri coinvolti nella prostituzione a Torino). Le specializzazioni nei vari mercati di sfruttamento sono il risultato di molteplici fattori collegati, tra cui, la forza esercitata dagli adulti di alcune nazionalità nell’imporsi in certi settori, a volte, scompaginando equilibri e sostituendosi ad altri gruppi precedentemente dominanti. Anche i percorsi migratori (di qualunque natura essi siano) possono indirizzare le “opportunità” nel settore della devianza e dell’illegalità. Infine, va considerato, per le zone come il napoletano, il ruolo svolto dalla criminalità italiana nei mercati illeciti che, in altre città, vengono invece gestiti da organizzazioni criminali straniere6. La ricerca ha identificato l’esistenza di una sorta di suddivisione etnica dei mercati di sfruttamento che si basa sulle aree geografiche di provenienza dei minori. I minori marocchini, originari di Casablanca e di alcune zone centrali del Marocco, come Khouribga o Beni Mellal7, sono quelli maggiormente coinvolti nel mercato dello spaccio di sostanze stupefacenti e nell’accattonaggio; quest’ultimo è quasi esclusivamente gestito nelle forme della vendita ambulante e del lavaggio dei vetri. Marginale, invece, sembrerebbe la presenza di minori marocchini nei settori dei furti, dei borseggi e della prostituzione maschile. L’accattonaggio è praticato soprattutto da minori rumeni rom e, in misura inferiore rispetto al passato, da quelli provenienti dai paesi balcanici. Essi solitamente chiedono l’elemosina ai semafori o per le strade principali delle città. Va tuttavia rilevato che, sia per i giovani rumeni che per quelli marocchini, l’accattonaggio spesso costituisce la prima attività svolta una volta giunti in Italia. Con il passare del tempo diventa una mansione saltuaria, si diversifica o viene abbandonata in favore di altre azioni illegali, quali: furti, borseggi e spaccio di sostanze stupefacenti. In molti casi, poi, questi stessi minori esercitano anche la prostituzione quale fonte complementare di guadagno. I minori rumeni, di origine rom e non, provengono da diverse aree geografiche della Romania. Molti sono originari delle città del Nord-est che si trovano al confine con la Moldova (Bacău, Iaşi, Târgu Frumos, Suceava e Galati); altri dalle zone periferiche e circostanti Bucarest; e altri ancora da località del Sud come Drobeta-Turnu Severin, Craiova, Călăraşi. Difficile individuare la prevalenza di alcuni gruppi specifici rispetto ad altri nel coinvolgimento nelle economie illegali e nella prostituzione. Sicuramente è ravvisabile una concentrazione, specie in alcune città italiane, di minori 6 Cfr. S. Beccucci, Criminalità multietnica. I mercati illegali in Italia, Laterza, Bari, 2006. I minori provenienti da Khouribga si trovano in particolar modo a Torino, mentre quelli di Beni Mellal sono attivi a Milano. A Napoli, invece, sono presenti minori di entrambe le città. 7 218 provenienti da determinate aree. In particolare, a Roma e a Milano sono maggiormente presenti i minori rom originari di Craiova e i rumeni non rom di Călăraşi, mentre il quadro in altre città è più variegato, anche se si registra una prevalenza dei minori provenienti dal Nord-est. 4.3 Il background familiare e le condizioni socioeconomiche alla partenza In base alle informazioni raccolte anche le condizioni sociali, familiari ed economiche dei minori risultano essere di vario tipo. Innanzitutto, è importante specificare che si tratta di minori, maschi e femmine, distinguibili in due fasce d’età: infraquattordicenni e adolescenti. Come si vedrà più avanti, l’età è un elemento cruciale in quanto determina il coinvolgimento dei/delle minori in ambiti di sfruttamento molto diversi, richiedendo così l’elaborazione di politiche di intervento altrettanto diversificate. Per quanto riguarda il genere, la presenza delle minorenni è considerevolmente inferiore rispetto a quella dei minori maschi e risulta concentrata nel gruppo rumeno rom e, quindi, nelle variegate forme di accattonaggio e nei furti. La situazione di deprivazione relativa nel paese di origine: differenze tra gruppi nazionali Tratto comune di questi minori è la situazione di più o meno forte “deprivazione relativa”8 di partenza. Non si è in presenza dei minori più poveri e disperati (che non hanno nemmeno la possibilità di immaginare di partire), ma di minori che appartengono a contesti difficili, da cui desiderano allontanarsi per realizzare i propri desideri e sogni e/o per contribuire al sostentamento economico della loro famiglia: “I soldi ci stanno ma quando uno vuole andare via… per sentirsi libero… non resiste. Soprattutto non volevo avere sulla mia coscienza che mi dà mio babbo i soldi per vestiti, scuola, divertimenti.” (int. 2, minore rumeno, Roma) 8 Per “deprivazione relativa” si intende “il sentimento che nasce dal confronto tra quanto si ha e quanto si pensa sarebbe interessante, bello, gratificante, giusto, utile avere, confrontando la propria esistenza con quella di altri ritenuti più fortunati, dei cui stili di vita e di consumo si ha conoscenza diretta o indiretta. L'espressione si contrappone a quella di deprivazione assoluta, che connota la condizione di chi non ha la possibilità di garantire a sé e alla propria famiglia i mezzi di sussistenza.”, in F. Prina, Devianza e politiche di controllo. Scenari e tendenze nelle società contemporanee, Carocci, Roma, 2003, p. 31. 219 “Sono voluto partire non per migliorare le condizioni della famiglia ma per farmi un futuro, perché in Romania se vai a lavorare guadagni 100 euro al mese.” (int. 3, minore rumeno, Torino) “Continuava a dire se volevo fare più soldi, parecchi soldi, anche mille euro al giorno, se volevo andare all’estero che diventavo famoso rispetto agli altri che sono senza soldi (…) comunque, sono partito perché volevo aiutare economicamente anche la mia famiglia.” (int. 1, minore rumeno, Verona) “Nel loro paese facevano i pastori e poi sono stati chiamati dai loro padri, che già erano venuti in Italia precedentemente, per aiutarli a fare soldi e inviarli a casa loro in Marocco.” (storia 14, minore marocchino, Napoli) Pur, quindi, nella difficoltà di generalizzare e di tracciare un quadro unitario, è comunque possibile affermare che una buona parte dei minori che partono non appartiene alle fasce sociali più deboli. Sono piuttosto quelli su cui la famiglia investe, che aspirano a migliorare le proprie condizioni individuali e familiari, che si assumono il rischio di affrontare un percorso migratorio. In molte famiglie, poi, si registrano situazioni difficili e molto diversificate, spesso non così disperate come si potrebbe pensare. In molti casi, ad esempio, i minori marocchini delle zone rurali provengono da famiglie strutturate, coese, con forti valori tradizionali. Diversamente, molto più precaria è in genere la situazione dei minori delle periferie delle grandi città che hanno spesso solo un genitore o sono soli: “Vivevo con i miei genitori. Ho una famiglia numerosa, una bella famiglia. I miei vivono in Marocco. Io sono il più grande dei fratelli. Ho una sorella di 15 anni e due fratelli, uno di 12 e uno di 8. Mia madre non lavora. Mio padre ha un garage dove si fanno quelle che scendono, le rideaux (tende, NdA).” (int. 15, minore marocchino, Torino) “I minori di Casablanca spesso non hanno famiglia. Vivono nelle bidonville. E aspettano un’occasione per partire.” (int. 3, operatore sociale, Torino) “Quelli di Khouribga città hanno anche acquisito un livello di studi più elevato, hanno famiglie molto severe. Ce ne sono alcuni che se io gli dico ‘guarda, avviso la mamma se fumi una sigaretta,’ mi fanno cancellare la sigaretta dalle foto che mandano a casa… solo per dirti la severità e… sono proprio venuti qui per cercare un futuro.” (int. 9, operatore sociale, Torino) I minori rumeni non appartenenti alla comunità rom provengono, in molti casi, da famiglie benestanti o comunque non disagiate, spesso caratterizzate da incomprensioni tra genitori e figlio/a o tra fratelli/sorelle: 220 “Ci sono quelli che hanno famiglie disastrate, ma al Ferrante (Istituto penale minorile di Torino, NdA), io incontro spesso quelli che hanno famiglie normali.” (int. 4, operatrice sociale, Torino) “Proviene da una buona famiglia di professionisti. Ha tutti e due i genitori che non hanno problemi economici, anzi, stanno molto bene.” (storia 4, minore rumeno, Roma) “La mia famiglia è buona, unita, ci hanno educato… soltanto che non vado d’accordo con mia madre e con mio fratello (…) loro sempre si incazzano per qualsiasi cosa. Con mia madre non potevo fare dei discorsi.” (int. 2, minore rumeno, Roma) Una certa incidenza nella scelta di partire l’ha avuta il deterioramento della situazione economica della famiglia causata dal peggioramento delle condizioni lavorative dei genitori: “Sono di Galaţi, Romania. È una città grande come Verona. Non c’è niente, una fabbrica di metallo. Prima, più dell’80% dei cittadini lavoravano, adesso lavorano la metà.” (int. 2, minore rumeno, Roma) Maggiormente precaria sembra essere la condizione dei minori rom. Contesti familiari molto difficili, di abbandono e di alcolismo di uno dei genitori, di forte povertà e di disoccupazione (spesso anche causati dalla forte discriminazione che il gruppo vive in patria), di soprusi e di violenza spingono all’espatrio l’intero nucleo familiare o portano i genitori, in alcuni casi più disperati, a scegliere la strada della vendita o dell’“affitto” del proprio figlio, destinandolo così a situazioni di abuso e di sfruttamento lontano dal paese di origine: “Diversi vengono anche con la famiglia. Certo con situazioni familiari devastanti: madre con una montagna di figli e senza marito o con un marito senza lavoro.” (int. 3, operatore sociale, Torino) “Alcolismo, invalidità dei genitori, estrema povertà; qualcuno è già stato in comunità in Romania, probabilmente perché orfani.” (int. 7, operatore sociale, Milano) “Il padre fa uso di alcool e la madre mendica insieme a M. e alla sorellina più piccola sulle strade di Roma.” (storia 9, minore rom rumeno, Roma) 221 Oltre al disagio economico e familiare, per i minori rom non è da trascurare, tra i motivi della partenza, la situazione di grave discriminazione che vivono in Romania. Al di là delle intervenute modifiche normative che hanno eliminato formalmente le discriminazioni, l’approccio razzista e giudicante nei loro confronti sembra essere fortemente radicato nella popolazione. L’atteggiamento discriminatorio nei confronti dei rumeni rom da parte di connazionali non rom può influire anche sulle dinamiche personali e professionali agite in Italia, così come la seguente testimonianza evidenzia: “Pensa che noi lavoriamo con un’educatrice rumena che si porta dietro un tale vissuto di esclusione del mondo rom che abbiamo deciso che è meglio non coinvolgerla nei casi riguardanti rumeni rom.” (int. 6, operatrice sociale, Milano) “Con i minori rom è ancora più utile avere dei mediatori rom a causa degli attriti che ci sono tra rumeni e rom: razzismo assoluto.” (int. 2, operatore sociale, Roma) Analfabetismo e precedenti esperienze devianti: la dicotomia tra città e campagna Il livello di scolarizzazione sembra accomunare i minori provenienti dalle periferie della grandi città e dalle zone rurali del Marocco con i minori rom. Forte, infatti, è l’incidenza dell’analfabetismo in entrambi i gruppi, anche se le cause alla base di tale condizione sono molto diverse: “La maggior parte non viene mandata a scuola perché deve dedicarsi alla pastorizia.” (int. 1, operatore sociale, Napoli) “Tanti di loro, soprattutto fra gli zingari, sono analfabeti (…) io non rimpiango la dittatura perchè sono cresciuta con la dittatura (…) ma, durante quel periodo, se c’era un compagno zingaro in classe, l’insegnante era obbligato ad andare a cercarlo e a costringerlo a venire a scuola, era costretto a promuoverlo e tutti gli zingari sapevano almeno leggere e scrivere.” (int. 4, operatrice sociale, Torino) Molto diversa la situazione dei minori marocchini e rumeni provenienti dalla città in quanto essi sono spesso scolarizzati e non solo a livello elementare: “A Khouribga andavo a scuola. Ho i genitori. Ho fatto la prima media e poi sono partito.” (int. 15, minore marocchino, Torino) 222 “Io in Romania studiavo, ancora tre mesi e finivo la scuola, prendevo il diploma di meccanico. Andavo bene. Mi piaceva andare a scuola, ma non mi piaceva studiare.” (int. 3, minore rumeno, Torino) Indubbiamente, lo scarso livello di scolarizzazione rappresenta un fattore di vulnerabilità, un limite per l’utilizzo di strumenti di comprensione, anche se molto spesso i minori dimostrano di saper metter in campo una notevole capacità di “resilienza”9 che li aiuta a districarsi nelle situazioni più diverse, a prescindere dal loro livello di alfabetizzazione. L’analfabetismo non sembra, quindi, un fattore causale nelle dinamiche che portano allo sfruttamento. Diventa indubbiamente un elemento da considerare nella fase di intervento da parte degli operatori, che non sempre riescono a rapportarsi alla situazione specifica del minore tenendo in debito conto la sua provenienza e i suoi bisogni. Altro fattore importante sono le esperienze di reati o di attività devianti commesse in patria. Anche in questo caso, la casistica identificata è variegata, sebbene, generalmente, i minori non risultino aver commesso dei reati prima di emigrare. Si sono registrati alcuni casi di minori con vissuti di illegalità e di devianza pregressa, più frequentemente tra quelli provenienti dalle periferie delle grandi città. Si tratta di esperienze legate alla vita e alle dinamiche del gruppo dei pari che, in parte, si ripetono anche nel paese di immigrazione: “Da piccolo stavo sempre fuori e facevamo pure un sacco di casini in Romania, ci cercava la polizia. Ogni quartiere… aveva almeno due bande. A Galati il 100% era così, altre città non so. Non rubavo, andavo in giro con loro e guardavo. Poi, una volta, mi ha fermato la polizia e io non gli ho detto niente. Ho detto che stavo andando in giro. Così gli altri ragazzi hanno cominciato a fidarsi di me e mi hanno detto ‘dai, andiamo!’ Sapevano che ero piccolo, non potevo fare tanto. La polizia ci cercava sempre perché se in estate andavamo in discoteca con piscina, ci si ubriacava. Poi se andavo con la ragazza e uno la guardava, io facevo casini e lo dovevo accoltellare. La polizia ci conosceva. I ragazzi con cui stavo rubavano macchine ma, soprattutto, dalla fabbrica si rubava il ferro, che costa molto e lo rivendevano. Io avevo imparato a spaccare le macchine senza fare rumore… a metterle in moto qui in Italia. Lì rubi lo stereo per divertirti una sera, lì le macchine sono più brutte.” (int. 2, minore rumeno, Roma) “Questi marocchini di Casablanca sostano nei porti marocchini e iniziano ad abituarsi a vivere nel porto, a scappare dalla polizia portuale e, guarda caso, è un fac-simile di quello che fanno ai Murazzi… sono tutti ragazzini che erano già 9 Il concetto di resilienza viene mutuato dall’ingegneria dove indica la capacità di un materiale di resistere a sollecitazioni impulsive. Viene usato nelle scienze umane (psicologia e sociologia) per indicare capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinnanzi alle difficoltà. 223 abituati a buttarsi in mare e adesso si buttano nel Po appena arriva la polizia.” (int. 9, operatore sociale, Torino) 4.4 La partenza dal paese di origine Quali sono le modalità utilizzate per emigrare dal paese di origine e raggiungere l’Italia? La ricerca ha permesso di distinguerne almeno tre: 1) il minore viene venduto o “affittato” dalla famiglia a terze persone; 2) il minore non accompagnato parte su mandato familiare o al di fuori di un progetto condiviso con la famiglia; 3) il minore si sposta con l’intero nucleo familiare. Semplificando, è possibile individuare le modalità prevalenti utilizzate per emigrare in base al paese di origine di appartenenza, come illustrato dalla seguente tabella (Tab. 1): Tab. 1 – Modalità di emigrazione in base al paese di origine e al gruppo di provenienza Situazione dei minori Gruppi numericamente prevalenti Minori venduti o “affittati” Rom rumeni Minori non accompagnati con mandato familiare Marocchini Minori non accompagnati senza mandato familiare a) Rumeni b) Marocchini delle periferie di Casablanca Minori accompagnati a) Rom rumeni b) Rumeni L’affitto e la vendita In base alle interviste realizzate, è emerso che alcuni minori (prevalentemente rumeni di origine rom) sono costretti a partire perché vengono “affittati” o venduti a terzi dalla propria famiglia. La “cessione” avviene dietro patti ben precisi che assumono quasi la forma di contratto tra la famiglia e terze persone. Nel caso della vendita, la famiglia è forse ignara del destino del figlio; nel caso dell’affitto, invece, la consapevolezza dei genitori è certa. L’accordo, infatti, è chiaro: i minori hanno il compito di rubare e solo se svolgono adeguatamente tale attività la famiglia nel paese di origine potrà ricevere la cifra pattuita con l’accordo stipulato: 224 “Loro raccontano varie storie: di essere stati in qualche modo ceduti, venduti in madrepatria e poi, dalla cessione avvenuta dietro un compenso, di essere stati portati in Italia. Ciascuno ha una storia di vita diversa, però, il comune denominatore è la cessione dietro compenso operata dalla famiglia.” (int. 1, operatore delle forze dell’ordine, Milano) “In generale o avviene la vendita del minore, con una somma che si aggira tra i 1.000 e i 3.000 euro, o l’affitto. L’affitto consiste in una percentuale che viene mensilmente data alla famiglia in base al ricavato del ragazzo. Solitamente l’affitto è la formula preferita perché consente di vincolare maggiormente il minore.” (storia 11, minore rom rumeno, Roma) “C’è un affitto che si paga al mese. Lo chiamano ‘lo stipendio del ragazzo’. Può partire da duecento euro fino ad arrivare ad un massimo di quattrocento.” (int. 5, operatore sociale, Roma) “La famiglia prende dei soldi dalle organizzazioni criminali per cedere il figlio. È una specie di affitto che lega ancora di più il ragazzo perché gli sfruttatori fanno leva su questo. Nel momento in cui il ragazzo sparisce, una delle prime cose che fanno è contattare la famiglia dicendo: ‘se ti contatta fallo tornare urgentemente, altrimenti, non ti mandiamo più soldi.’” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) Il contratto prevede, in molti casi, un periodo di “lavoro a tempo determinato”, durante il quale il minore è costretto a svolgere attività illegali. Infatti, come si vedrà meglio in seguito, ai minori viene prospettata un’attività per un periodo limitato di tempo: “Pare che ci sia proprio un contratto all’origine (…) su un periodo di tempo determinato. Al termine del quale dovrebbero tornare a casa, per quel che è dato sapere.” (int. 4, operatrice sociale, Roma) “Secondo me, l’attività termina nel momento in cui il ragazzo diventa imputabile, cioè a 14 anni. Per questo motivo stanno arrivando ragazzi sempre più piccoli. Conoscono perfettamente il sistema legislativo italiano, sanno che sono piccoli e non ci sono possibilità di arresto.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) I minori non accompagnati: assenza o presenza di mandato familiare Altri minori (prevalentemente marocchini ma anche rumeni) lasciano il proprio paese da soli ma “su mandato familiare”. Una volta arrivati sul territo- 225 rio italiano, si trovano ad affrontare condizioni di vita e di lavoro di vario tipo. Alcuni possono diventare vittime di tratta di esseri umani una volta arrivati sul territorio italiano; altri possono essere coinvolti in situazioni di violenza e di sfruttamento (con infinite gradazioni) da parte di parenti o di terze persone all’insaputa o meno della famiglia di origine; altri ancora “vivono arrangiandosi”, grazie anche all’appoggio di familiari. È importante sottolineare che per i minori marocchini molto spesso il mandato familiare non prevede un espatrio costrittivo, in quanto, comunemente, la partenza è frutto di una scelta condivisa che richiede al minore un alto livello di responsabilizzazione per rispondere alle aspettative della famiglia che su di lui investe per migliorare il proprio futuro: “All’inizio, negli anni ’90, vendevano spugnette, facevano i venditori, ‘l’ambulantato,’ che non è un’attività illegale ma illecita, comunque non violenta e non sottoposta a enormi pressioni. L’attività era svolta fondamentalmente per restituire i soldi del viaggio, per cui, di solito, la famiglia contraeva un debito. Avendo questo background, alcuni si sono trovati coinvolti nel giro dello spaccio per vari motivi: per fragilità caratteriale, attrazione verso facili guadagni, eccetera.” (int. 5, operatore sociale, Torino) “Era arrivato in Italia all’età di undici anni, mandato dai genitori a casa di uno zio. La moglie non ha ben visto questo ragazzino e ha fatto di tutto per farlo scappare. E, infatti, è fuggito e, avendo altri due zii in Nord Italia, è andato a vivere con loro. Pensava di essere accolto bene, ma dopo due-tre mesi gli hanno detto che doveva lavorare per mantenersi.” (storia 17, minore marocchino, Napoli) “Questo ragazzo è stato mandato qui dalla Romania (…) lui ha un problema alla mano sinistra, è focomelico e questo serve. Se hai dei problemi fisici, li esibisci in strada e la gente ti dà i soldi. Quindi, lui è stato portato qui dal cugino in accordo con la famiglia proprio per andare in strada a elemosinare e a fare dei soldi (…) lui aveva in mente di pagarsi un’operazione per ricostruirsi la mano e, probabilmente, anche la famiglia aveva la stessa intenzione e, forse, su questo hanno giocato molto i parenti che lo hanno portato qui… in realtà, poi, le cose sono andate in modo diverso.” (storia 13, minore rumeno, Torino) Accanto ai minori che partono con mandato familiare ci sono quelli che partono da soli, senza un progetto condiviso con la famiglia. Molteplici e interrelate, a volte difficili da distinguere, sono le motivazioni che li spingono a migrare: avventura, bisogno di fare esperienze nuove, desiderio di diventare ricchi, bisogno di guadagnare per migliorare le condizioni di vita proprie e familiari, fuga da una realtà difficile, ricerca di “qualcosa”. In questa ampia gamma di ragioni spesso si situa anche il compimento di attività illegali, indi226 viduato come via rapida al guadagno: “La partenza dal paese di origine è una scelta autonoma del minore. Visti i compaesani che ritornano dall’estero portando soldi e vestiti firmati, decidono di partire alla ricerca di fortuna (…) molti di coloro che vengono per conto proprio arrivano con l’intenzione di lavorare, non trovando lavoro e dovendo affrontare delle difficoltà, cominciano a svolgere delle attività illegali.” (int. 5, operatore sociale, Roma) “Poi, c’è il gruppo dei ragazzi che arrivano dalle metropoli, Marrakech e Casablanca, che in genere provengono da situazioni di privazione in Marocco, in cui vivono in quartieri molto periferici, baraccopoli ed emigrano per tentare la fortuna.” (int. 6, operatrice sociale, Milano) “O. non è partito per ragioni economiche, è stato spinto da una voglia di avventura, dal desiderio di provare nuove emozioni. Si tratta proprio del classico passaggio adolescenziale. Così come in Italia spesso i ragazzi durante il periodo adolescenziale cercano di uscire fuori dalle mura domestiche, così in Romania c’è chi esce dalla nazione stessa per cercare nuove cose.” (storia 4, minore rumeno, Roma) “Sono arrivato in Italia nel febbraio del 2003, attraverso il contatto con un mio amico, un mio vicino di casa. Praticamente continuava a dire se volevo fare più soldi, parecchi soldi, anche mille euro al giorno, se volevo andare all’estero che diventavo famoso rispetto agli altri che sono senza soldi.” (int. 1, minore rumeno, Verona) “(Per il futuro avevo il progetto di, NdA) di fare tanti soldi… tanti… tanti che non si può contare (…) poi comprare la casa, la macchina, avere la famiglia, avere un negozio per vivere senza lavorare tanto.” (int. 2, minore rumeno, Roma) In alcuni casi, il compimento di attività illegali non è un’occasione incontrata nel paese di immigrazione. In particolar modo, alcuni gruppi, al momento della partenza da casa, già sono consapevoli che altri coetanei e compaesani si guadagnano da vivere con attività illegali ed “eccitanti” e che questo rappresenta una possibilità di profitto anche per loro: “Negli ultimi due-tre anni, la maggior parte dei ragazzi proviene da Casablanca, dalle bidonville, per cui arrivano da baraccopoli, da situazioni di disagio, con pesantissimo analfabetismo, senza valori di tipo tradizionale… noi abbiamo l’immagine del musulmano ligio, ma sono società con problemi di degrado. Spesso sono ragazzi che arrivano da famiglie disgregate, come accade anche per i ragazzi rumeni (…) dunque, arrivano già da una situazione di maggiore degrado e arrivano in Italia specificatamente per spacciare.” (int. 5, operatore sociale, Torino) 227 I minori accompagnati: la migrazione con la famiglia In altri casi, la migrazione avviene con l’intera famiglia o parte di essa. La migrazione familiare è una caratteristica tipica che riguarda i minori rom che spesso si spostano nell’ambito di un progetto migratorio familiare. A volte, tale progetto prevede il coinvolgimento di alcuni componenti familiari in attività illegali, e/o di accattonaggio e, in alcuni casi, di “affitto” o di vendita del minore a terzi. Non sempre il minore vive una condizione di grave trascuratezza, in diversi casi ci sono e permangono sani e solidi legami affettivi: “M. e la sua famiglia hanno deciso di venire in Italia verso l’inizio del 2005. Hanno seguito l’esempio di altri rom che vivono a Craiova e che, una volta partiti per l’Italia, sapevano già che avrebbero trovato dei campi rom dove vivere.” (storia 9, minore rom rumeno, Roma) “Il padre, quando erano in Romania, lavorava saltuariamente come operaio ma, una volta perso il lavoro, ha deciso di venire con il figlio in Italia per fare fortuna. Probabilmente S. già mendicava a Craiova come gli altri membri della sua famiglia, tra cui anche il padre quando non lavorava.” (storia 10, minore rom rumeno, Roma) Nel contesto delle migrazioni familiari, chi emigra con un solo genitore – in particolar modo se si tratta della madre – sembra essere maggiormente esposto a situazioni di vulnerabilità. In molti casi, la madre e il/la minore rischiano di divenire vittime di abusi e di sfruttamento: “Sono state portate da un rumeno che conosceva la madre (…) la madre apparentemente lavorava presso una famiglia, messa lì da un uomo italiano con cui erano venute in contatto. La ragazzina veniva sfruttata sessualmente dall’uomo e, allo stesso tempo, costretta ad andare ai semafori.” (storia 7, minore rom rumena, Pisa) Durante le interviste si è venuti a conoscenza di una particolare storia di migrazione su mandato familiare “a fini di protezione” che ci sembra utile riportare sebbene si debba sottolineare che essa rappresenta un caso non ricorrente. Per allontanarlo da un contesto giudicato pericoloso e deviante in patria, i genitori hanno deciso di mandare il proprio figlio in Italia presso dei familiari emigrati da tempo. Al minore viene quindi imposto di partire ma la migrazione sarà in realtà per lui occasione di contatto con il mondo dell’illegalità: “Io ho un fratellastro, figlio di mio zio, che è stato affidato ai miei genitori da molti anni, ora lui ne ha 32 di anni. Aveva cominciato a fare dei casini (…) i miei genitori, per paura che io mi facessi influenzare dal mio fratellastro, che aveva dei 228 lavori illegali in Romania, hanno pensato di mandarmi in Italia da mio cugino, figlio di un altro fratello di mio padre. La mia famiglia è abbastanza benestante, non è che sono venuto qua per guadagnare tanti soldi, ma sono venuto per non fare la fine di mio fratello… e invece l’ho fatta qua. La mia famiglia è in vista e la religione che hanno è rigida, non si beve, non si fuma, quindi, uno se a 14 anni va a giocare a biliardo… non va bene, capisci.” (int. 18, minore rumeno, Venezia) 4.5 L’organizzazione del viaggio e l’arrivo in Italia Le modalità organizzative e il tipo di viaggio che porta i minori dal proprio paese di origine all’Italia sono molteplici e dipendono da una serie di variabili, tra cui, ricordiamo: • il luogo di partenza (es. le difficoltà di ingresso per chi proviene dal Marocco sono diverse da quelle che deve superare chi arriva dalla Romania); • il livello di vulnerabilità derivante dalla situazione personale o familiare esistente alla partenza (es. viaggio su mandato familiare o partenza autonoma); • conoscere il luogo di destinazione prima di partire; • avere un percorso migratorio già strutturato; • possedere o meno un capitale sociale o essere in grado di crearselo. I minori marocchini Le storie di viaggio riguardanti i giovani marocchini sono molto diverse a seconda che si tratti di minori che viaggiano con il supporto familiare o da soli. Nel primo caso, i minori sono coinvolti in viaggi meno pericolosi in quanto sono accompagnati spesso da un familiare, viaggiano in automobile o affidandosi ad un passeur e percorrono un tragitto definito e “sicuro”. Addirittura, la migrazione con mandato familiare può prevedere anche l’accompagnamento da parte del genitore in Italia. Nel caso specifico qui sotto riportato, si ravvisa un passaggio di consegne da padre – già precedentemente emigrato – a figlio: “Mi ha portato mio padre. Siamo arrivati in pullman fino a Tangeri, poi, abbiamo preso la nave fino in Spagna e, poi, abbiamo trovato un paesano che ci ha portati fino a Genova e, poi, a Genova abbiamo preso il treno. Mio padre era qua dal 1979 (…) abbiamo deciso tutti. La mia famiglia mi hanno chiesto se volevo venire, se ero capace di resistere, di fare le cose e io ho detto ‘sì’ e mi hanno mandato.” (int. 15, minore marocchino, Torino) 229 Nei casi in cui invece si devono utilizzare i canali dell’immigrazione illegale, le opzioni a disposizione sono di diversi tipi. Sono stati riscontrati forme di migrazione molto sicure, attraverso cui la famiglia è riuscita ad assicurare al proprio figlio un viaggio “ordinario” anche grazie all’utilizzo di documenti falsi. Si tratta di viaggi con un passeur che permette di varcare il confine spagnolo in compagnia di altri adulti che si fingono i genitori e di raggiungere l’Italia in automobile attraversando la Spagna e la Francia. Vi sono poi i casi di minori che emigrano via mare con imbarcazioni non sempre sicure che approdano, nella maggior parte dei casi, sulle coste spagnole e, in misura minore, su quelle italiane. Questa tipologia di viaggio è certamente la più difficile da affrontare e la più rischiosa in quanto comporta un’alta probabilità di non riuscire ad arrivare a destinazione. Le persone sbarcate a Lampedusa10 risultano essere partite dal Marocco in macchina o in autobus ed essere salpate dalla Libia, in particolar modo dalla zona di Zuwarah, dopo un certo lasso di tempo, anche lungo, trascorso sulle coste libiche in attesa delle condizioni favorevoli per la partenza (disponibilità di battelli e condizioni atmosferiche favorevoli). Giunti a Lampedusa, vengono inviati alle comunità di accoglienza per minori della provincia di Agrigento e da qui si allontanano e si spostano verso il Centro e il Nord Italia. I minori giunti in Italia via Spagna hanno attraversato lo Stretto di Gibilterra, con modalità di transito diverse a seconda delle loro situazioni specifiche. I minori soli di Casablanca, di Tangeri o della stessa Khourigba spesso si spostano verso il porto di Tangeri e lì attendono una buona occasione per partire, controllano le targhe dei camion e la bandiera della nave per capire dove quel mezzo di trasporto potrebbe portarli. Individuato il mezzo di trasporto caricato sulla nave, si nascondono sotto il telaio o nel cassone di un camion e giungono così in Spagna. Dalla terraferma spagnola il viaggio prosegue nelle medesime condizioni sullo stesso o su un altro camion oppure con autobus o treni. Secondo alcuni testimoni privilegiati intervistati, i viaggi in camion non sono casuali, ma sono concordati con l’autista dietro il versamento di un piccolo pagamento in denaro. In altri casi, giunti sulle coste spagnole, molti minori si spostano in treno o in autobus, aiutati anche da familiari o conoscenti che vivono in Spagna. La percentuale di successo di questi viaggi, secondo alcuni, è piuttosto alta perché i controlli non sono particolarmente severi e puntuali: “Il ragazzino ‘delinquente’ di Casablanca o di Marakkech non ha bisogno del passeur, passa da solo attraverso le frontiere. Ho assistito alle corse di bambini che 10 Alcuni operatori intervistati del Centro di primo soccorso e smistamento di Lampedusa hanno rilevato l’arrivo di diversi minori marocchini anche se la maggior parte giunge in Italia attraverso la Spagna e la Francia. 230 davano l’assalto alle navi. Questi ragazzini hanno le idee chiare su cosa faranno in Europa.” (int. 1, operatore sociale, Napoli) “Entrano nascosti nei camion. Un classico è che si mettono nel cassone di un camion, loro dicono che si nascondono. Secondo me danno anche una mancia al camionista e, se vengono scoperti, il camionista dice ‘ah, io non sapevo…’; oppure tanti mi hanno detto che si sono messi su un treno in Francia e sono entrati senza che nessuno gli abbia chiesto niente (…) ogni tanto c’è qualche controllo però… (…) e vale anche per le nigeriane che arrivano a Parigi in aereo ed esibiscono un passaporto su cui magari c’è la foto della sorella, di un’amica. La polizia le fa passare, non fa nessun controllo vero perché, alla fine, se la polizia spagnola o francese capisce che una prostituta o una persona irregolare è sul loro territorio – arriva in aeroporto oppure è su un’autostrada spagnola o francese – ed è diretta in Italia lo fanno passare, tanto va in Italia. Non so se la nostra polizia fa la stessa cosa, però, io ho il dubbio che loro facciano così.” (int. 1, magistrato, Torino) Sempre più frequentemente chi vuole emigrare dal Marocco si reca in Mauritania per poi, da lì, salpare verso le Isole Canarie. Anche se il numero degli sbarchi su queste isole spagnole è in aumento, questa rotta non sembra al momento riguardare in misura significativa i minori marocchini presenti in Italia. Durante le interviste non sono state raccolte testimonianze di violenze e di sopraffazioni agite nei confronti dei minori maschi durante il viaggio verso il nostro Paese. Diversa invece risulta essere la condizione delle donne e delle minori durante il percorso migratorio. Infatti, molti operatori del Centro di primo soccorso e smistamento di Lampedusa hanno sottolineato l’alto grado di vulnerabilità a cui sono soggette le donne adulte e le minori in transito verso l’Italia. Giunte sull’isola, infatti, è stato riscontrato che molte di loro sono state vittime di violenze sessuali, presumibilmente avvenute in territorio libico. Per un minore il viaggio verso l’Italia risulta essere più o meno pericoloso a seconda che venga accompagnato (da familiari o da passeur organizzati) o se invece debba giungere con un viaggio improvvisato, senza previi accordi sui luoghi da raggiungere e le persone da incontrare. Di conseguenza, tanto maggiore è la difficoltà di arrivare sulle coste italiane o spagnole quanto più alti sono i rischi e i costi da affrontare. L’aumento del debito contratto per emigrare è un fattore importante perché, nell’opinione pressoché unanime degli operatori intervistati, più esso è alto e più si è pressati a restituirlo e il rischio di diventare vittima di grave e prolungato sfruttamento diventa più probabile: “I minori riferiscono di aver pagato due, tre, cinquemila euro per essere portati da un passeur.” (int. 5, operatore sociale, Torino) 231 “Era arrivato con altri marocchini minorenni, in cambio di una somma che permetteva loro di attraversare le frontiere. Spesso i genitori di questi ragazzi si indebitano per permettere questo esodo. Il viaggio era costato l’equivalente di 4.000 euro, attualmente si parla anche di 8.000.” (storia 17, minore marocchino, Napoli) Anche per quanto riguarda i documenti la casistica è varia e dipende, in larga parte, da come il minore è giunto a destinazione. In alcuni casi, le generalità dei minori accompagnati sono registrate nei documenti falsi degli adulti che si fingono i genitori, in altri, invece, i minori sono del tutto privi di documenti. In generale, non sembra frequente la falsificazione dei documenti del minore alla partenza. Una volta in Italia, quasi tutti i minori marocchini sono senza documenti, risultando così molto difficile la loro identificazione anagrafica: “Difficile che abbiano documenti falsi che indichino un nome diverso o una età diversa, non hanno tale livello organizzativo. Può accadere che una volta qua cerchino di procurarsi dei documenti falsi che li certifichino ancora minori. Una volta era più facile di adesso. Le autorità marocchine sono più attente.” (int. 8, operatore sociale, Torino) “Prevalentemente, i ragazzi, i ‘nostri’ minorenni, non hanno i documenti e poi normalmente dicono o di non averli mai avuti in vita loro o di averli persi – questo è abbastanza ricorrente – magari per cause non necessariamente incidentali, perché sono stati rapinati.” (int. 6, magistrato, Torino) I minori rumeni Molto diversa, com’è ovvio, la situazione dei minori rumeni. Innanzitutto, l’assenza dell’obbligo di visto per entrare in Italia non richiede alcuna particolare modalità di raggiro della frontiera. Praticamente, tutti i minori arrivano per la prima volta nel nostro Paese via terra mediante i regolari valichi di frontiera. La rotta preferita per arrivare in Italia sembra essere quella che attraversa l’Ungheria e l’Austria. Alla successiva uscita dal territorio rumeno, invece, è frequente l’adozione di pratiche corruttive, in particolar modo, nei casi in cui il minore sia rimasto all’estero per più di tre mesi. Il viaggio avviene quasi sempre con macchine o pulmini privati, raramente con autobus di linea, in quanto tale mezzo di trasporto comporterebbe un maggiore controllo, non solo delle autorità ma anche, eventualmente, da parte degli altri passeggeri. I minori rom vittime di tratta e di sfruttamento che viaggiano da soli generalmente arrivano in Italia con macchine private. Essi vengono affidati 232 all’autista o ad un adulto che viaggia con loro munito di una procura che indica che il minore è autorizzato ad uscire dal territorio nazionale: “Hanno questa procura dei genitori. Noi non siamo mai riusciti a vederle. Credo sia una procura valida con cui il minore viene affidato all’autista dell’autobus, ma il governo italiano si dovrebbe chiedere qualcosa su queste persone che hanno magari 15 procure.” (int. 1, operatrice sociale, Firenze) “Queste procure sono facilissime da fare. Si fanno dal notaio, basta andare e pagare.” (int. 4, operatrice sociale, Torino) Durante il viaggio verso l’Italia, i minori rumeni non sembrano essere sottoposti a violenza ed abusi ma risultano invece essere protetti e “addestrati”: “No, durante il percorso no (non subiscono forme di violenza, di abuso, NdA), anche per non farli scappare, per farli restare tranquilli. Però, devono comunque allenarsi durante il viaggio e se non va bene sono puniti (...) di solito, prima di essere portati qui, vengono allenati in Romania. C’è come un addestramento ‘preOccidente’. Vengono mandati a rubare sia in Romania che durante il tragitto, così si allenano e quando arrivano qui sono pronti. In alcune case, in Romania, hanno trovato degli attrezzi… perché li addestrano su come aprire certe cose. Sembra quindi che abbiano organizzato quasi delle ‘scuole di formazione’, insegnandogli cosa utilizzare per rubare una certa cosa, come agire se devono rubare i portafogli, quindi un’organizzazione ben strutturata.” (int. 1, operatore pari11 e operatore sociale, Roma) Anche i minori che viaggiano con la famiglia usano auto private guidate da una terza persona che li porta a destinazione: “È come un servizio taxi… lungo. È più difficile che viaggino con le corriere perché sono più controllate; le macchine private, invece, danno la sensazione di famiglia, di gita.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) 11 L’operatore o l’operatrice pari è una persona che appartiene allo stesso target group di cui si occupa professionalmente nell’ambito di interventi e servizi sociali erogati in collaborazione con altre figure professionali specializzate (es. operatori sociali, mediatori linguistico-culturali, avvocati, etc.). La particolare posizione dell’operatore pari generalmente permette di costruire in maniera più diretta una relazione significativa con l’utenza e, soprattutto, di comprenderne i codici comportamentali e culturali. Per un approfondimento sul ruolo delle operatrici pari nell’ambito della prostituzione, cfr. P. Borlone, G. Macchieraldo (a cura di), Fenarete project. Formazione professionale di educatrici pari nel campo della prostituzione, Grafica Goriziana, Gorizia, 2004. 233 Il viaggio sembra avere un costo di circa 200 euro, che possono aumentare nel caso di “imprevisti” alla frontiera che richiedono l’esborso di ulteriore denaro: “Il viaggio costa 200 euro, 180, 160. Alla frontiera, se non trovano i documenti in ordine, chiedono dei soldi. Pretendono 150, 180 euro, quando entrano e quando escono, se hanno superato i tre mesi, arrivano anche a 200, 250 euro.” (int. 5, operatore sociale, Roma) Nella maggior parte dei casi, i minori rumeni sembrano essere in possesso di documenti autentici (passaporto e, a volte, anche l’assicurazione per il viaggio) che, una volta giunti a destinazione, vengono sottratti dagli sfruttatori o tenuti dalla famiglia: “Avevo preso questa decisione di andare via dalla Romania. Allora ho conosciuto una persona, ho parlato con lui, mi ha fatto il passaporto, mi ha pagato il viaggio, tutte le assicurazioni e mi ha detto che in Italia trovavo suo fratello che mi spiegava come si facevano le cose. Allora sono stato con lui ancora due settimane in Romania fino a quando ha messo tutto a posto.” (int. 3, minore rumeno, Torino) “È entrato in Italia in macchina con un regolare passaporto e un visto turistico che poi gli è stato tolto. È venuto con lo zio e non ha dovuto anticipare i soldi del viaggio.” (int. 13, minore rumeno, Torino) In alcuni casi, sono stati usati dei documenti prodotti per l’occorrenza. Difficile dire se si tratta di documenti falsi o di documenti veri ottenuti probabilmente attraverso pratiche corruttive: “Il meccanismo era semplicissimo (si parla del 2001-2002, NdA). Non c’era difficoltà ad ottenere un documento falso o vero, pur sapendo del reale scopo, o meglio, si pagava e si otteneva tutto. Una ragazzina aveva raccontato questo meccanismo, io ad un certo punto volevo anche mandare le carte in Romania, ero entrato in contatto con la procura di Bucarest, poi non se n’è fatto più nulla.” (int. 2, magistrato, Torino) “Questi passaporti sono rilasciati dalle autorità attraverso la mediazione di adulti che poi si occupano, direttamente o per collusione o complicità, dello sfruttamento di questi minori e, quindi, sono persone che hanno dei canali illeciti di accesso alle strutture amministrative. In particolare, quelle che rilasciano i passaporti sono persone che possono corrompere il personale e farsi rilasciare in tempi brevi passaporti recanti dati di cui non abbiamo garanzia di autenticità. Questi passaporti, che spesso vengono sottoposti a consulenze tecniche della polizia 234 scientifica, anche attraverso accertamenti al Consolato rumeno, vengono poi dichiarati autentici per quanto riguarda il modulo e la compilazione, ma non sappiamo se i dati inseriti sono frutto di un falso ideologico o meno.” (int. 2 magistrata, Milano) I minori rumeni che viaggiano autonomamente arrivano in Italia seguendo le stesse rotte e avvalendosi degli stessi mezzi di trasporto utilizzati dai minori accompagnati. Anche loro generalmente possiedono i documenti che spesso nascondono per evitare di esibirli se vengono fermati: “Vivono sempre in gruppo. Hanno i loro materassi (…) hanno il loro nascondiglio, sanno dove hanno sotterrato o nascosto il passaporto.” (int. 4, operatrice sociale, Torino) “Avevo il passaporto e la carta di identità e un’autorizzazione che avevano fatto i miei genitori e così mi hanno mandato in Italia. Ho fatto il viaggio in macchina con un conoscente della mia famiglia. Gli abbiamo pagato il viaggio, non so quanto, e mi ha portato direttamente da mio cugino che si trovava a Udine. Sono partito e arrivato in Italia nel mese di marzo.” (int. 18, minore rumeno, Venezia) 4.6 Le condizioni di vita in Italia Giunti in Italia, i minori stranieri vivono in modi molto simili, indipendentemente dal paese di origine. La variabile che influisce in maniera più significativa sulle loro condizioni di vita è la presenza o meno della famiglia nel nostro Paese. I minori soli, marocchini e rumeni (rom e non), coinvolti in attività illegali, prostituzione e accattonaggio, a prescindere dal livello di sfruttamento subito, vivono in piccoli gruppi in strada, in fabbriche o in case abbandonate, in campi nomadi più o meno abusivi lontani dal centro cittadino. Si tratta di sistemazioni molto precarie (spesso si tratta di un solo materasso per terra) caratterizzate da condizioni igieniche assai compromesse e senza riscaldamento: “A Roma i ragazzi sfruttati nelle attività illegali vivono sotto i ponti, in campi (nomadi, NdA) non attrezzati. Ad esempio, Tor Cervara è un campo non attrezzato (…) non vivono in fabbriche abbandonate ma nei campi.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) “I minori rumeni rom vivevano all’aperto, attorno alla Fortezza Da Basso, che è una fortezza medicea. Avevano base in accampamenti di fortuna, nelle siepi, con dei cartoni, in una situazione di forte disagio.” (int. 2, operatore sociale, Firenze) 235 “Quando sono arrivato qua, il treno mi ha lasciato a Porta Nuova e alle cinque dovevano arrivare i parenti di questo qua (…). Abbiamo preso il pullman e siamo arrivati alla stazione Dora, dove c’è una vecchia fabbrica. Quando sono sceso, sono passato sotto il ponte della ferrovia e ho visto tutti i campi, il macello che c’era lì, ho pensato ‘ma dove sono arrivato?’ C’era una fabbrica grossa piena di zingari che dormivano lì. Poi sono salito e ho visto il posto che faceva veramente paura, spaventoso, con la puzza che c’era. Quando sono arrivato in camera, ho visto la doccia e mi sono riposato un po’. C’era una puzza terribile perché dormivano tutti insieme, i nipoti, i bambini piccoli, erano in cinque bambini più una ragazza. Quando ho sentito la puzza, visto i bambini – qualcuno era sporco, qualcuno era ferito –, mi sono detto ‘ma chi mi ha fatto fare a venire qua?’ Mi aspettavo di trovare delle buone condizioni in una casa abbandonata, perché in Romania se ne parlava bene. Pensavo ‘poi arrivo lì, faccio la doccia, guardo la tivù’, ma lì non c’era proprio niente. Solo i materassi, i bidoni dove facevano il fuoco.” (int. 3, minore rumeno, Torino) I minori arrivati con la famiglia o con dei parenti affrontano condizioni di vita diverse. Nel caso dei rom, i minori generalmente vivono con la famiglia in un campo nomadi. I minori marocchini, invece, vivono in un appartamento, insieme al proprio familiare o in compagnia di altri minori. Si tratta sempre di sistemazioni di fortuna ma la presenza di una rete familiare permette di trovare più facilmente soluzioni abitative migliori o di avere ogni tanto la possibilità di dormire in posti più adeguati: “Quelli che stanno con le famiglie vivono sempre in campi non attrezzati, perché non avendo il permesso di soggiorno di solito è molto difficile entrare in un campo attrezzato.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) “I marocchini della zona di Khourigba implicati nell’accattonaggio vivono in posti letto in casa (…) considera però che sono case senza l’abitabilità, senza riscaldamento, senza acqua calda. Di solito puzzano, non si lavano e ci chiedono i buoni doccia. Vivono qui in quartiere, a Porta Palazzo, o a Barriera di Milano. Pagano il posto letto con connazionali o a casa di qualche parente. C’è qualcuno che vive in condizioni peggiori – case abbandonate o panchine –, ma di solito per periodi limitati o appena arrivati e poi si inseriscono. Oppure non hanno guadagnato e perdono il posto letto, anche se è uno zio. E allora vanno a dormire in auto o altrove. Invece, i marocchini di Casablanca implicati nello spaccio di stupefacenti vivono maggiormente in posti abbandonati. Il loro unico contatto con i servizi sono le forze dell’ordine che li portano ai servizi.” (int. 3, operatore sociale, Torino) “Il sedicente cugino lo ha messo in un dormitorio perché ha delle case che subaffitta, dei dormitori clandestini… erano due o tre minori insieme a 16 adulti in condizioni allucinanti. Sono posti dove non possono stare di giorno ma solo di 236 notte… malsani, maggiorenni e minorenni messi insieme. Non solo in zona Porta Palazzo, ci sono anche le periferie tra Torino e Moncalieri e Porta Nuova, famosa dai tempi di Don Bosco per i dormitori clandestini.” (int. 9, religioso, Torino) “Questi minori (minori marocchini vittime di sfruttamento nello spaccio di sostanze stupefacenti, NdA) non vivono con i genitori. A volte sì, ma, nei casi che ho visto io, i genitori, che poi significa il padre, li controlla col telefonino, eccetera, ma non li fa vivere con loro. I bambini stanno a volte in fabbriche dismesse, sono molto sporchi; il padre li porta magari una volta in albergo una volta per fargli fare una doccia, metterli un po’ a posto… nel caso da me seguito, ad esempio, il padre si stava attrezzando per affittare due appartamenti, in uno stava lui con due suoi soci e nell’altro i bambini.” (int. 1, magistrato, Torino) È certo che vivere in un ambito di forte degrado, a stretto contatto con connazionali inseriti in circuiti di devianza, non aiuta a ridurre il livello di vulnerabilità dei minori, ma può invece contribuire ad indirizzarli o ad imprigionarli in meccanismi di sfruttamento. Nelle situazioni più gravi, che di solito coinvolgono giovani rom, sono stati identificati casi di minori sottoposti a forte isolamento, abuso e violenza: “I casi più gravi sono quelli di segregazione, di abusi, di violenze fisiche e psicologiche, di privazione di cibo, di pulizia ai livelli minimi, di isolamento. Le situazioni dei ragazzini sono molto pesanti, sono tenuti al buio. C’è controllo e omertà da parte di chi vive nel campo. A Roma esistono diversi campi. Quelli in cui sono stati contattati i ragazzini non sono i campi autorizzati, oppure lo erano e poi sono stati un po’ abbandonati nel tempo, quindi, non c’è controllo. Sono dei campi in cui generalmente ci sono traffici di cose rubate, dove si è insediata la criminalità e c’è omertà rispetto a certe situazioni. Ma anche nei campi più organizzati, quando qualcuno di loro fa qualche cosa, generalmente gli altri non lo denunciano mai. Anche nei campi migliori. Quindi, è molto facile tenere un ragazzino o una ragazzina rumena in questo stato, è molto difficile che queste realtà vengano fuori.” (int. 4, operatrice sociale, Roma) Sono stati rilevati molti casi di minori che abusano – anche pesantemente – di sostanze psicoattive. È stato riscontrato anche un elevato tasso di tabagismo, che richiede agli operatori sociali l’utilizzo di una grande elasticità nell’interpretazione delle regole da dare ai ragazzi con cui lavorano: “Iniziano anche a fare uso di fumo… ultimamente sta girando di nuova tanta colla, la respirano e li porta ad essere completamente fuori di cervello.” (int. 9, religioso, Torino) 237 “In questi giri capita spesso che si faccia anche uso di sostanze, non sempre, ma quelli che non ne fanno uso abusano, per esempio, di Red Bull (una nota bevanda energetica, NdA). Ci sono ragazzi che bevono anche 10 Red Bull al giorno. Mi hanno detto che una Red Bull equivale a 5 tazzine di caffè, allora, ti lascio immaginare come il ragazzo che ne beve 6, 7 o anche 10 al giorno sia supereccitato. Capisco la pubblicità in televisione ‘Red Bull ti dà le ali’! Certo che ti dà le ali, voglio vederti!” (int. 4, operatrice sociale, Torino) “C’è un problema gravissimo di tabagismo. Tutti questi ragazzi, anche piccoli, 1112 anni, sono dipendenti da nicotina, in maniera estremamente pesante. Riguardo alla droga, non si tratta di un fenomeno particolarmente rilevante. Questo del tabagismo non è uno scherzo. Pone a noi un problema di tecnica di lavoro. Si tratta di ragazzi abituati alla strada e induriti dalle loro esperienze di vita, che arrivano dipendenti da sigaretta. Se qui dentro si desse una regola stretta rispetto al divieto di fumo, sarebbe impossibile lavorare con questi ragazzi. Già il secondo giorno ci sarebbe una crisi d’astinenza da nicotina con fenomeni di aggressività. È necessario scendere a patti con loro, contrattare un permesso per fumare che permetta poi di diminuire gradualmente la dose di nicotina che assumono per poterli, in breve, disintossicare. Anche la sigaretta diventa un terreno di trattativa e di aggancio con loro.” (int. 3, operatrice sociale, Roma) Rispetto alle condizioni di vita dei minori in Italia, dalle interviste emerge con chiarezza che esistono delle differenze significative tra le varie città italiane di destinazione. Si va, infatti, da una situazione come quella romana, di una città poco industrializzata e, quindi, con poche fabbriche abbandonate, dove sono presenti in modo massiccio i rom e dove si sono creati alcuni insediamenti abusivi molto grandi e conosciuti in città (i campi di Tor Cervara e Tor Fiscale), a situazioni come quelle di Milano e Torino, dove si trovano molte fabbriche, case e appartamenti abbandonati, dislocati in varie zone della città, spesso in aree popolari. È facile, quindi, che le soluzioni abitative adottate restino nell’ombra e non destino particolare clamore. Infine, nelle città medio-grandi, come Firenze, Verona, Viareggio, i minori vi “lavorano” solamente per poi disperdersi nei paesi limitrofi, dove vivono. 4.7 L’ingresso in attività devianti Le condizioni di vita, certamente precarie e disagiate, favoriscono l’avvio al compimento di attività illegali e devianti, soprattutto nel caso in cui si abbia a che fare con minori emigrati (soli o su mandato familiare) che incontrano in Italia gli sfruttatori. Pur ribadendo che in molti casi si ha a che fare con un continuum al cui interno esistono molte zone grigie, è possibile distinguere 238 diverse modalità di ingresso dei minori in attività devianti. Innanzitutto, i minori vittime di tratta vengono costretti o indotti, con l’uso della violenza o, più sottilmente, dell’autorità e della persuasione, all’esercizio delle attività devianti o illegali. Nel caso in cui il genitore sia implicato nella tratta del figlio, lo strumento della persuasione basata sul “dovere” di lavorare e guadagnare per aiutare la famiglia è molto efficace: “Nonostante tutte le violenze subite, l’oppressione del padre che non fa nulla, che sta tutto il giorno al bar e comanda questi bambini come fossero burattini, li minaccia se non guadagnano, eccetera, nonostante tutto ciò, questi bambini hanno già introiettato, ben costruita dentro la loro testa, l’idea che devono lavorare per aiutare la famiglia e che questa è per loro e la loro famiglia un’occasione di riscatto, una chance.” (int. 1, magistrato, Torino) Per i minori marocchini12, l’avvio e la modalità di esercizio dell’accattonaggio spesso dipendono dai familiari con cui si ritrovano in Italia. In alcuni casi, i minori vanno a lavorare insieme ad un familiare, da cui, ricevono anche sostegno e protezione; in altri casi, invece, quelli dove più forte è lo sfruttamento, il parente li costringe a lavorare da soli in strada: “Quando sono arrivato ho trovato i miei zii e i miei cugini che vendevano la roba, vendevano i fazzoletti, le calze, tante cose e ho cominciato anch’io a lavorare con loro.” (int. 15, minore marocchino, Torino) “Una volta arrivati, si sono ricongiunti con i loro padri, che già erano in Italia e che li hanno fatti venire apposta per lavorare come lavavetri ai semafori, agli ‘stop’.” (storia 14, minori marocchini, Napoli) Invece, per i minori marocchini sfruttati nell’ambito dello spaccio di sostanze stupefacenti, l’avvio a tale attività illegale è legato alle reti di conoscenze, al rapido passaparola tra pari o tra connazionali adulti. Facile risulta essere il venire a conoscenza dei posti e delle persone che offrono occasioni di guadagno. La spinta a guadagnare e il piacere del rischio tipico dell’adolescenza sembrano essere ulteriori fattori che svolgono un ruolo determinante nel decidere di iniziare a spacciare: 12 Per un’interessante esposizione delle possibili vie di ingresso alle attività illegali di un gruppo di giovani marocchini, cfr. F. Prina, “Illegalità, diritto penale e sanzione nella cultura dei minori maghrebini immigrati”, in A. Balloni, G. Mosconi, F. Prina (a cura di), Cultura giuridica e attori della giustizia penale, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 203-207. 239 “Sì, (esiste, NdA) un pressing per guadagnare. Poi, bisogna capire che ci sono persone molto ignoranti anche tra gli adulti, quindi, culture e modalità di rapporto, ad esempio, più brusche. Però, non è mai arrivato il ragazzino bruciato con la sigaretta o preso a schiaffoni perché doveva andare a spacciare. C’è comunque un’aderenza del minore a questo progetto di illegalità, un po’ come per i rom, cioè, il ragazzino rom se ruba bene, nel campo nomadi diventa anche un po’ un eroe. È importante, è un valore sociale riconosciuto.” (int. 5, operatore sociale, Torino) Non dissimili sono le pressioni agite sui minori rumeni (rom e non) vittime di sfruttamento o perché venduti o “affittati” dai familiari o perché obbligati ad accattonare o a rubare da parenti o conoscenti. Gli sfruttatori fanno leva sul senso di colpa del minore ricordandogli che se non ruba o non accattona non permette alla famiglia di migliorare le proprie condizioni economiche. La stessa famiglia, poi, svolge un forte ruolo di spinta verso l’adozione di pratiche devianti: “Mi sono capitati casi di ragazzini che hanno smesso di rubare perché sono in comunità e ricevono dieci telefonate al giorno dai genitori che dicono ‘ci devi mandare i soldi a casa in Romania.’ Sono forme di coercizione diverse, però, pesano sul ragazzo, soprattutto perché sono i genitori a farle.” (int. 4, operatrice sociale, Roma) A differenza di quanto accade ai minori marocchini, una volta arrivati in Italia, notevoli risultano essere le violenze perpetrate ai danni dei bambini rumeni, specialmente rom, sia di quelli sfruttati nell’ambito delle attività illegali (furti e borseggi) che di quelli costretti a prostituirsi: “Il livello di violenza è alto, violenza fisica, psicologica… privazione di tutto, anche del cibo e del vestiario.” (int. 4, operatrice sociale, Roma) E alla violenza si accompagna la mancata consapevolezza di essere sfruttati da parte dei minori: “La situazione è molto complessa. Non c’è dubbio che esiste un problema costituito dall’atteggiamento dei ragazzi rispetto alla situazione che vivono. Apparentemente, in alcuni casi, c’è quasi una, tra virgolette, complicità del ragazzo… tutto sommato, è consenziente rispetto a quello che gli accade.” (int. 3, operatrice sociale, Roma) La questione relativa alla consapevolezza del minore di essere sfruttato e della famiglia di sfruttarlo è un tema complesso che richiede un adeguato approfondimento. Portare o mandare il proprio figlio sulla strada ad accattonare 240 tutto il giorno, inviarlo dal Marocco per fargli fare l’ambulante sono comportamenti che, interpretati con i nostri codici culturali, suscitano indignazione. Verrebbe naturale ritenere sbagliato e lesivo della corretta crescita del minore un trattamento di questo tipo (impensabile per i “nostri” minori) e, quindi, pensare che i genitori meritino di essere censurati per una totale mancanza di accudimento nei confronti dei loro figli. Probabilmente, però, occorre una maggiore cautela nel decidere di mettere in atto un intervento con persone che provengono da contesti dove è normale che i bambini collaborino al ménage familiare, vadano a lavorare, portino a pascolare il bestiame della famiglia. Non si intende dire che occorre relativizzare ogni giudizio e stabilire che ogni cosa è lecita se appartiene alla cultura di provenienza13. Si tratta di cercare di capire come rapportarsi a modi di vedere l’essere bambino e il diventare adulto molto diversi dal nostro. È necessario valutare tutto ciò in modo accurato prima di intervenire annullando relazioni familiari che – per quanto prevedano il coinvolgimento del minore in attività rischiose o poco salutari – sono forti, sane e accudenti. Infine, come già sottolineato, un importante fattore causale dell’ingresso in circuiti devianti ed illegali – in particolar modo per i minori (soprattutto rumeni) giunti soli – sono le precarie condizioni di vita (es. assenza di alloggio, necessità di soddisfare i bisogni primari) che si trovano a subire in Italia: “Arrivando in Italia si trovano senza lavoro. L’accoglienza dei minori a Roma non funziona e, quindi, si trovano sulla strada dove devono scegliere se rubare o morire di fame.” (int. 5, operatore sociale, Roma) È la necessità di trovare il modo per vivere che spinge i minori a compiere attività illegali e a prostituirsi. Il minore mette in atto una strategia di sopravvivenza, che deve essere interpretata alla luce di quali erano le sue aspirazioni all’arrivo in Italia: “fare esperienza”, vivere una vita bella ed eccitante “da grande”, accedere a beni e modelli di consumo occidentali, essere una persona di successo, “arrivare”. Considerato tale quadro, è facile comprendere come le attività illegali e la prostituzione vengano percepiti dai minori come dei facili mezzi per raggiungere rapidamente ricchezza e successo. 13 Per un breve approfondimento sulle differenze tra culture e alcuni spunti anche bibliografici, cfr. P. Coppo, Tra psiche e culture. Elementi di etnopsichiatria, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pp. 72-115. 241 4.8 Le modalità di lavoro e di sfruttamento Come rubano, spacciano, mendicano e si prostituiscono i minori? Quanto e come sono sfruttati? La difficoltà nel rispondere a queste domande è legata al rischio di confondere il caso singolo, estremo, con il fenomeno tout court. Occorre, infatti, cogliere, senza esasperarle, le differenze tra gradazioni di sfruttamento. Tenendo presente la necessità di evitare tale errore interpretativo, riteniamo si possano distinguere diverse modalità di lavoro e di sfruttamento di minori, innanzitutto, in base alla tipologia di attività svolta e, poi, a seconda della provenienza geografica, dell’età e della presenza o meno in Italia di un familiare o della famiglia e delle caratteristiche che la contraddistinguono. L’accattonaggio L’accattonaggio sembra essere l’attività meno violenta e pesante da svolgere per i minori, a prescindere dalla loro provenienza geografica14. Per i rom è in molti casi un’attività praticata con l’intera famiglia, vissuta come parte integrante della vita quotidiana, come modo per collaborare alle necessità della famiglia. Spesso non è un’attività che i minori sono costretti a svolgere dai familiari con violenza, ma è una pratica dovuta, “normale”, così come sono, in diversi casi, “normali” e sane anche le relazioni affettive. Considerati tali aspetti, diventa alquanto complesso intervenire, dal punto di vista dell’azione sociale, in una relazione che si fonda su tali presupposti: “Durante il giorno stavano lì, nella zona individuata, magari con la madre e il padre e, poi, le lasciavano là e loro andavano a fare altri giri; poi, si rincontravano ad un certo orario del pomeriggio per andare tutti insieme a casa (…) anche le ragazzine non erano costrette nel modo in cui intendiamo noi, si vedeva chiaramente che erano tranquille, consideravano questa attività come normale, un collaborare al budget familiare.” (storia 8, minori rom, Roma) “M. è stato trovato dalla polizia mentre mendicava nei pressi di un ristorante tenendo in mano un barattolo per raccogliere gli spiccioli. A pochi passi da lui la madre stava seduta per terra, sempre davanti all’entrata del ristorante, e teneva tra le braccia la sorellina di circa otto mesi. Chiedere l’elemosina per lui è una 14 Per un’interessante tipizzazione delle tipologie di accattonaggio e un confronto sulla situazione dello sfruttamento dei minori nell’accattonaggio negli anni ’90, cfr. W. Nanni, L. Posta, “I nuovi mendicanti: accattonaggio ed elemosina nella società postindustriale”, in Caritas italiana, Fondazione E. Zancan, op. cit., pp. 283-313. 242 cosa normale, visto che è cresciuto facendo questa attività.” (storia 10, minore rom, Roma) Questo modo di praticare l’elemosina è diverso e non va confuso con quello utilizzato da altre famiglie rom, spesso provenienti dalla ex Jugoslavia, che vivono in campi attrezzati dai comuni e hanno raggiunto un certo grado di integrazione (regolare permesso di soggiorno, conoscenza dei servizi). Quelli qui analizzati sono casi di forte marginalità di bambini che non vanno a scuola e non sono conosciuti dai servizi sociali fino a quando non vengono arrestati: “L’elemosina è tuttora praticata da molte famiglie in cui c’è magari mancanza di lavoro salariato (…) hanno portato in Italia quello che già praticavano in Jugoslavia, ma è un’attività di sostentamento riconosciuta e quindi molti di questi bambini, la domenica, in particolar modo davanti alle chiese della provincia di Firenze, vanno a chiedere l’elemosina con i genitori, magari con la mamma, ma non c’è uno sfruttamento, durante la settimana vanno a scuola.” (int. 2, operatore sociale, Firenze) Per i marocchini, invece, l’accattonaggio è spesso celato e/o mescolato con le attività di ambulantato e di lavavetri. Spesso il minore lavora come aiutante di un adulto che, in diversi casi, ha anche una regolare licenza per l’attività di ambulantato. Quest‘ultima richiede frequenti spostamenti nei territori limitrofi, forse anche a causa di una certa saturazione della piazza cittadina: “Si spostano in provincia partendo al mattino prestissimo e tornando la sera. A volte dormono fuori e stanno via qualche giorno. Si spostano in provincia credo per un motivo: perché a Torino sono conosciuti dalle forze dell’ordine, li fermano di continuo e i cittadini che incontrano nei mercati a Torino sono stufi di dare soldi per le spugnette… in provincia chiedere soldi al mercato o al parcheggio è più facile.” (int. 3, operatore sociale, Torino) Sebbene sia pesante e faticoso a causa degli orari e del tempo che si trascorre in strada, l’accattonaggio è certamente l’attività che sembra registrare meno violenza e meno rischi. Questo non significa che non siano stati riportati casi di grave sfruttamento a danno soprattutto di soggetti particolarmente deboli, come il protagonista di questa storia, un minore rumeno focomelico: “Nel momento in cui è arrivato in Italia, da subito, si è reso conto che non sarebbe venuto a stare così bene perché era costantemente controllato sia di giorno che di notte. Al mattino veniva accompagnato all’incrocio, oppure, davanti alla stazione o davanti al supermercato, nei posti dove c’era gente. Durante la giornata c’era sempre qualcuno che passava e lo controllava. Gli sono stati tolti i documenti non 243 appena è arrivato qui, (…) non aveva la possibilità di telefonare a nessuno, non poteva comunicare con nessuno né tanto meno con la famiglia. Alla sera, ovviamente, i soldi gli venivano tolti e a lui non restava assolutamente nulla. Gli davano da mangiare e da dormire e gli si diceva che la sua famiglia riceveva la metà dei suoi guadagni. È andato avanti così undici mesi circa. (…) Le sue condizioni di vita e di lavoro peggioravano in continuazione. Veniva picchiato. Guadagnava in media 100 euro al giorno, ma c’erano giornate in cui guadagnava di meno, vuoi perché non ne aveva voglia, vuoi perché c’era meno passaggio… di meno poteva essere 80, 70, 60 euro che, comunque, consegnava completamente. Ha cominciato a dirsi ‘ma non è giusto, mi massacrano di botte e io gli do tutto’. Gli pesava di essere controllato continuamente, di non poter chiamare casa, di non avere dei documenti, di non avere nulla in mano e di non potere fare nulla, di spostarsi continuamente da un campo all’altro e da un posto all’altro.” (storia 13, minore rumeno, Torino) Un altro fenomeno particolarmente preoccupante è quello registrato a Firenze un paio di anni fa, ovvero quelle delle minorenni incinte che mendicavano per le strade della città: “Minori incinte di sette mesi, inserite nella pronta accoglienza che, dopo quattrocinque mesi, rientrate nel centro di accoglienza, erano nuovamente incinte. Abbiamo chiesto dove avessero lasciato il bambino, chi era il padre e la risposta era “l’ho lasciato in Romania”, quindi, noi non abbiamo potuto fare la segnalazione.” (int. 1, operatrice sociale, Firenze) “(Questo fenomeno, NdA) Risale a un paio di anni fa e la cosa preoccupante è che, magari poco dopo, rivedevi la stessa minore non più incinta e il bambino non c’era più.” (int. 3, operatrice sociale, Firenze) I furti e i borseggi L’accattonaggio è a volte il primo gradino, una porta di ingresso, per l’esercizio di altre attività illegali. In quanto “a basso rischio”, l’accattonaggio è poco redditizio ed è quindi possibile che alcuni minori – autonomamente o spinti dai loro sfruttatori – inizino a dedicarsi ad altro che possa garantire loro un guadagno maggiore. Il grande numero di ore passate in strada, occasione di incontri e di opportunità, e la necessità di denaro per le spese correnti (casa, cibo) sono fattori che agevolano il passaggio ad occupazioni illecite: “Hanno dei costi molto alti qui. Questi parenti che li ‘ospitano’ qui chiedono soldi per ogni cosa. Non gli danno da mangiare. Sono i ragazzini che devono pagare per 244 mangiare e, infatti, raccontano che se non guadagnano non mangiano (…) e poi tra una spugnetta e l’altra, ci scappa anche la rapina.” (int. 3, operatore sociale, Torino) “Facevo il mercato, vendevo roba, spugne, fazzoletti, calze, in giro nei parcheggi. Ci sono tanti amici che chiedono se vuoi andare a lavorare, ti dicono ‘vieni con noi.’ Però, quella strada lì è quella brutta, non mi piace più. C’è la gente che ruba, che spacca macchine, che ruba radio, quella cosa non mi piace. Ho rubato però non sono mai stato arrestato (…) quando sono incazzato che non ho venduto niente trovo qualcuno e lo rubo, 100, 200 dipende… scippo per strada.” (storia 16, minore marocchino, Torino) Il passaggio ai furti, ai borseggi e allo spaccio di sostanze stupefacenti o l’avvio diretto a queste attività comporta altri livelli di rischio e di violenza rispetto alla semplice attività di accattonaggio. La giornata classica dei minori rumeni, rom e non, impiegati nei furti e nei borseggi comincia presto per raggiungere i “luoghi di lavoro”. Passano ore sulla strada, cercando di raggiungere la cifra richiesta dallo sfruttatore: “Una loro giornata tipo è una tragedia… considera che vivono nella zona di Rebibbia. Devono prima prendere un autobus – e attendere che arrivi – per arrivare al capolinea della linea B per poi arrivare a Piazza della Repubblica. Ovviamente senza fare colazione perché in quel campo non attrezzato, in quella baraccopoli, che colazione vuoi fare? Arrivano in centro a Roma verso le 9-10. Sarebbe più indicato le 7, però, non ce la fanno perché prima non ci sono autobus da Rebibbia. Comunque, arrivano il prima possibile. Di solito, stanno in giro fino a che non arrivano a raccogliere una determinata cifra. Se, per esempio, la somma che devono raccogliere è di 200 euro e, entro mezzogiorno, ne hanno già 300 o 400, allora, possono anche tornare al campo. Se fanno 200 euro precise stanno in giro ancora un po’. Se non raccolgono la cifra stabilita, stanno in giro fino a tardi… io trovai con l’unità di strada due ragazzini ancora in giro alle dieci di sera. Rubano anche cellulari, apparecchiature elettroniche, telecamere, macchine fotografiche, tutto quello che riescono (…) borseggiano i turisti e mangiano da McDonald’s.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) I luoghi di lavoro sono quelli di intenso passaggio di turisti e di pendolari: il centro città, le linee della metropolitana, degli autobus e le zone attorno alle stazioni ferroviarie: “Firenze ha un centro storico pieno di turisti e quindi, prevalentemente, li vedi lì.” (int. 1, operatrice sociale, Firenze) 245 “Da qualche mese, minori dediti ai furti e a borseggi di età dai sette ai quattordici anni si trovano nella zona di Piazza della Repubblica, via Nazionale e, spesso, anche lungo le linee metropolitane, sia A che B, soprattutto da Colosseo a Castro Pretorio, che sono le fermate più frequentate dai turisti. Sono tutti rom (…) provengono, per la maggior parte dei casi, dalla Romania e, in alcuni casi, dalla Bosnia.” (int. 2, operatore sociale, Roma) “In sostanza, i minori che vengono sorpresi a rubare nelle metropolitane, soprattutto in corrispondenza delle fermate Piola, Lambrate, Sant’Ambrogio frequentate dagli studenti, commettono scippi e, soprattutto, furti con destrezza.” (int. 2, magistrata, Milano) È un gruppo di minori che si sposta molto. Quando la piazza è bruciata perché sono diventati volti troppo conosciuti, cambiano città oppure – come confermato da più fonti nel caso dei minori rom di Craiova – esistono collegamenti tra le città che consentono ai minori una sorta di pendolarismo. Ciò pone chiaramente una serie di interrogativi sul livello di strutturazione dello sfruttamento: “H. ha cambiato numerose città viaggiando in treno o in furgoncini. Gli spostamenti avvenivano di campo nomadi in campo nomadi, che costituiscono le basi logistiche.” (storia 5, minore rumeno rom, Castelvolturno) “Nella zona di Piazza della Repubblica, c’è una predominanza di bambini e di ragazzini provenienti dal campo di Tor Cervara. Sono tutti rom di Craiova. Alcuni mesi fa, c’è stata un’operazione di polizia nella quale sono stati arrestati quattro o cinque adulti di questo campo. È interessante notare che questo campo sembra si regga esclusivamente su questo traffico e lo sfruttamento dei minori dediti al borseggio. Infatti, questi ragazzi provengono tutti da quel campo. C’è un riciclo notevole di minori, rispetto a questo, e pare che a Milano ci sia un campo del tutto analogo. È come se questi due campi fossero speculari, complementari. Sono le stesse persone che stanno da una parte e dall’altra, tanto è vero che molti dei bambini identificati qui a Roma risultano essere stati identificati anche dalla polizia di Milano (…) viaggiano continuamente tra Milano e Roma (…) è una realtà molto in rete.” (int. 2, operatore sociale, Roma) “I ragazzi rom arrivano quasi tutti da Craiova. Esiste un flusso migratorio da Craiova a Milano. Quando si va a vedere gli estratti della Questura, relativamente a tutta la serie dei reati commessi (…) si constata che l’arrivo è avvenuto a Roma e che, poi, vi è stato uno spostamento a Milano, oppure, c’è un pendolarismo, non si riesce a capire bene. All’inizio, si trovano reati a Roma, poi, si cominciano a trovare a Bologna, Piacenza fino a Milano (…) c’è una forte mobilità.” (int. 6, operatrice sociale, Milano) 246 I ragazzi sono certamente controllati. Da più fonti è stata sottolineata la presenza di un adulto che li guarda a vista e a cui vengono probabilmente consegnati i soldi. Il controllo è molto pervasivo e la minaccia della sanzione se, ad esempio, non si rispettano le istruzioni in caso di arresto o non si consegna la cifra dovuta, è sempre presente: “Riguardo ai minori dediti ai borseggi e ai furti, è più facile che nei paraggi di Piazza della Repubblica ci sia un controllore. Lo abbiamo individuato in un paio di occasioni e si trattava di un uomo sulla quarantina che stava al centro della piazza nel giardinetto, rom anche lui, per cui l’approccio con questi ragazzi deve essere discreto e molto cauto.” (int. 2, operatore sociale, Roma) “A Verona vivevo in appartamento di due stanze con gli altri ragazzi. Quello di Milano era anche più piccolo, io non avevo le chiavi, ma a casa c’era sempre qualcuno. Ci controllavano sul lavoro attraverso il telefono che comunque usavamo pochissimo e, appena vedevamo una macchina della polizia, lo buttavamo via. Non lavoravo le stesse ore ogni giorno, dipendeva da quanti soldi facevo (…) nel lavoro bastava stare attenti a non essere presi. Dovevo consegnare sempre tutto a lui ogni sera, ovviamente, mi tenevo una parte per spenderli durante la giornata, per mangiare (…) il ragazzo maggiorenne mi aveva insegnato cosa dovevo fare e cosa dovevo dire alla polizia quando mi fermava: il nome falso, l’età più bassa possibile, da non aumentare o diminuire perché poi se ne accorgevano (…) il lavoro è capitato parecchie volte che non avevo voglia di farlo, però, dovevo farlo lo stesso, per forza, altrimenti sarebbero stati problemi. Per fortuna non ho mai saputo cosa mi sarebbe potuto capitare… e non volevo neanche saperlo. La persona per cui lavoravo, a volte, mi metteva paura perché mi diceva cosa facevano gli altri ai ragazzi che non volevano lavorare… li picchiavano. Ho sentito storie di ragazzi che gli spaccavano le braccia, che li buttavano addosso al muro, che gli spegnevano le sigarette addosso… tutte cose orribili.” (storia 1, minore rumeno, Venezia) È importante sottolineare nuovamente che è necessario usare molta prudenza nella definizione del fenomeno qui oggetto di studio – il coinvolgimento dei minori rumeni non rom nelle attività di furto e borseggio – in quanto le informazioni raccolte mettono in luce l’esistenza di un’ampia casistica. Infatti, sebbene siano stati identificati casi di grave violenza e di sfruttamento, è altrettanto vero che sono stati individuati molti altri casi di minori che godono di una maggiore indipendenza nello svolgimento delle attività illegali, indipendenza guadagnata sul campo: “Un amico mi ha detto ‘andiamo insieme in Francia (…) andiamo a rubare insieme’. Mi ha fregato perché io non conoscevo la vita al di fuori della Romania. Con lui ho fatto esperienza. Io rubavo e lui guadagnava. Allora ho capito come 247 funzionava e poi… mi sono fatto da solo. (…) Abbiamo chiesto al conducente del pulmino quale era la città un po’ più vicina alla frontiera. Ha detto Udine. La gente lì non è così buona, è un po’ cattiva. Così abbiamo detto ‘dai scendiamo a Padova.’ Il pulmino veniva fino a Roma. Dopo una settimana abbiamo conosciuto due ragazzi rumeni che ci hanno detto che loro rubavano, che spaccavano i negozi. Siamo andati con loro. Pure quelli all’inizio ci hanno fregati. Quando uno ti insegna una cosa è normale che ti chiede qualcosa in cambio, no? (…) Siamo andati con loro, ci hanno fatto vedere come si faceva e, poi, siamo andati insieme a spaccare un negozio. Hanno voluto metà della roba rubata anche se non avevano partecipato alla cosa, erano stati lontani dal posto. Noi abbiamo fatto tutto il lavoro. Loro ci hanno aspettato altrove. Mano a mano si imparava e abbiamo detto ‘dai, andiamo,’ non gli parliamo più a questi. Siamo andati per conto nostro.” (int. 2, minore rumeno, Roma) Accanto ai furti in strada, vanno ricordati i furti negli appartamenti e nelle fabbriche. Si tratta in questo caso di furti organizzati, spesso molto rischiosi, che vedono la compartecipazione di adulti e di minori nella commissione del reato: “I furti in appartamento si facevano generalmente a coppie. Gli attrezzi comunemente utilizzati e forniti dai capi erano il ‘piede di porco’ e lunghi cacciaviti. Non c’era una cifra precisa che doveva essere consegnata, bisognava guadagnare il massimo ma, se qualcuno non si comportava bene, scattavano le ritorsioni.” (storia 5, minore rumeno, Castelvolturno) “Ci sono quelli che rubano ‘alla grande’, ovvero quelli che non rubano solo portafogli, dove dentro possono trovare 10 o 100 euro. Quelli che rubano ‘alla grande’ sono i minori che vanno nelle fabbriche, nei negozi, nei supermercati, di notte. Non quelli che vanno nei supermercati con lo zaino pieno di carta stagnola per non far suonare l’allarme. Mi riferisco a quelli che fanno proprio delle rapine, dei furti, di notte, organizzati in gruppi, con uno che sta di guardia, disinnescano magari l’antifurto perché non suoni (…). Loro vanno anche nelle case a rubare e mi raccontano che si spostano anche in altre città, addirittura in altri paesi, cioè, vanno in Svizzera e tornano dopo due giorni a Torino, perché abitano a Torino, magari nel posto abbandonato xy. Domani vanno a Nizza o chissà dove, a rubare in qualche casa, con le persone che ci dormono dentro. Io gli chiedo ‘Non hai paura? Metti che uno abbia un fucile, si svegli e ti spari.’ Loro rispondono ‘Come no? Quante volte ho pensato che mi posso fare male e che qualcuno mi può ammazzare, perché magari uno si sveglia e se è ricco ha anche la pistola e ti spara! Però è una cosa che ti fa anche salire l’adrenalina, è eccitante.” (int. 4, operatrice sociale, Torino) 248 Lo spaccio di stupefacenti Diverse sono le modalità di lavoro utilizzate dai minori coinvolti nello spaccio di sostanze stupefacenti (cannabis e, raramente, cocaina), anche se ugualmente alto il livello di rischio che corrono. In questo ambito, i minori non sembrano essere obbligati a raggiungere una certa cifra di guadagno, ma anch’essi corrono dei rischi elevati. Lavorano prevalentemente di notte fino a tardi, vivono con gli adulti che li sfruttano o nelle vicinanze con altri minori coinvolti nella medesima attività. La coercizione non è realizzata attraverso la violenza fisica, è una costrizione dettata dalla necessità di restituire il debito contratto dalla famiglia, il proprio posto letto, il cibo e di guadagnare dei soldi: “Devi raggiungere la cifra per pagarti le cose – il posto letto, il cibo –, devono rimborsare il debito a casa. Ma non è come per i rom che devono arrivare a 200 euro altrimenti sono mazzate. Devi pagare il debito e quindi sei spinto a guadagnare per questo motivo. Devi restituire di partenza 3.000-4.000 euro.” (int. 3, operatore sociale, Torino) “Si fa sentire loro che devono fare questo lavoro: ‘tu non fai niente per noi, mangi a sbafo…’, devono darsi da fare per aiutare la famiglia.” (int. 1, magistrato, Torino) “Lo sfruttamento che avviene tra i marocchini, infatti, è un fenomeno molto sottile e nascosto. È qualcosa di normale. Solitamente i ragazzi riescono ad uscire dallo sfruttamento man mano che crescono e diventano più indipendenti. Per la comunità marocchina è normale, fa parte di un sistema. Fa parte della routine che un minore venga e debba ascoltare il più grande. È un sistema ‘caino’, di sciacalli.” (storia 14, minori marocchini, Napoli) Spacciare comporta il forte rischio di iniziare ad utilizzare le sostanze. La giovane età dei minori, le dinamiche di gruppo, la vita di strada, la paura, sono tutti fattori che possono avvicinare i minori alla sperimentazione delle sostanze e alla dipendenza. Forte è anche l’abuso di sostanze chimiche come colle e solventi: “Il ragazzo, all’età di 12 anni, spacciava di tutto e ne faceva anche uso. Ha iniziato quando si è ritrovato a lavorare da solo.” (storia 14, minori marocchini, Napoli) “La salute è un problema. Molti fanno uso di sostanze. Parliamo di colle, solventi come l’acquaragia.” (int. 8, operatore sociale, Torino) In misura maggiore rispetto al borseggio, l’attività di spaccio comporta rischi dettati non solo dal dover fuggire dalla polizia, ma anche dalla presen249 za/concorrenza di altri spacciatori e dai clienti, a volte, arroganti e violenti. A questo si aggiunge il rischio di indebitarsi con chi fornisce la sostanza stupefacente. Subire un arresto e un sequestro della sostanza può indebolire ulteriormente la posizione del minore che spaccia: “È passato dalla pastorizia allo spaccio, all’essere difeso o difendersi dagli altri spacciatori, a riconoscere e difendersi da solo dalla polizia in borghese e in divisa, dai clienti più o meno violenti.” (storia 14, minori marocchini, Napoli) La prostituzione Questo tipo di attività presenta caratteristiche molto diverse da quelle trattate nelle pagine precedenti. Innanzitutto perché, come l’accattonaggio, la prostituzione non è illecita: i minori possono prostituirsi sapendo di non incorrere in nessun rischio di carattere penale. Per lo sfruttatore si tratta, invece, di un’attività ad alto rischio in quanto le pene previste per lo sfruttamento sessuale di un minore, specie se infraquattordicenne, sono molto severe. Allo stesso tempo, è una tipologia di sfruttamento molto nascosta, difficile da scoprire e che garantisce quasi sempre guadagni elevati. L’attività prostitutiva presenta caratteristiche distinte in base al gruppo di minori considerato. È possibile, infatti, distinguere due gruppi differenti che si avvicinano alla prostituzione in modi molto diversi riconducibili sommariamente alla dicotomia “libertà/costrizione”. In un caso, ci sembra di poter dire che si ha a che fare con una prostituzione libera, “amatoriale”15 praticata da adolescenti rumeni, spesso al limite della maggiore età: “Troviamo minorenni rumeni che si prostituiscono di 16-17 anni. Li fermiamo, li fotosegnaliamo e gli chiediamo un po’ perché sono qui e cosa fanno. E loro rispondono ‘le marchette’. Così, con tranquillità.” (int. 4, operatore delle forze dell’ordine, Firenze) “Sono ragazzi che, in base alla nostra esperienza, non sono soggetti a forme di costrizione per esercitare la prostituzione. Si tratta, quindi, di un discorso diverso dalla riduzione in schiavitù, che riguarda più una prostituzione adulta.” (int. 7, operatore delle forze dell’ordine, Roma) 15 Per una tipizzazione delle diverse forme di prostituzione minorile e per una definizione di prostituzione amatoriale, cfr. F. Prina, “La prostituzione minorile”, in Istituto degli Innocenti – Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Uscire dal silenzio. Lo stato di attuazione della legge 269/98, Questioni e documenti, n. 27, gennaio 2003, pp. 23-26. 250 Come ben espresso dal seguente intervistato, si tratta in molti casi di una “libera scelta” condizionata dalla mancanza di alternative o dalla necessità/desiderio di arrotondare quanto guadagnato con altre attività illegali: “Parlando della prostituzione libera del minorenne maschio c’è poca scelta: il ragazzo che ha paura di andare a rubare e che si vergogna di chiedere l’elemosina può solo andare a prostituirsi, a fare una marchetta. È sfruttamento quando i soldi che guadagna gli vengono requisiti. Comunque, ci sono minori che hanno scelto liberamente di fare le marchette non sapendo fare nient’altro per sopravvivere. Così hanno l’opportunità di andare a casa del cliente, dormire, fare la doccia e guadagnare anche dei soldi. Questo non è sfruttamento, ma libera scelta. Certo, libera scelta nel senso di mancanza di un’altra scelta.” (int. 5, operatore sociale, Roma) Fondamentale nel sostenere questa “scelta” è la legittimazione che dà il gruppo, che detta le regole, impone l’immagine che si deve dare di se stessi e sanziona i comportamenti considerati scorretti. Come si vedrà, il gruppo condiziona fortemente l’agire dei minori e ciò è un elemento cruciale da tenere in considerazione nell’elaborare le modalità di lavoro con questo collettivo: “Molti di loro arrivano qui e si rendono conto che guadagnare soldi è molto più difficile di quanto immaginassero nel loro paese di origine. Vedendo che molti connazionali si prostituiscono, che il loro gruppo, la loro famiglia di strada16 lo fa, si sentono legittimati a fare altrettanto. La loro finalità diventa esclusivamente economica. Si dicono ‘Devo sfruttare i tre mesi che sto qui. Se vado a fare il muratore per tre mesi guadagno trenta euro al giorno, stando qui guadagno trenta euro in un quarto d’ora. Mi capita il turista che me ne dà 100 o il ricco che me ne dà 120 e magari mi farà fare pure la doccia a casa sua, mi offre la cena e quant’altro’ (…) la cosa che ti dicono sempre è ‘Io faccio solo l’attivo. Assolutamente non bacio mai i clienti, non faccio mai il passivo, anzi…’ sono molto importanti le dinamiche gruppali che si innescano, per esempio, all’interno di Piazza della Repubblica. Una volta ci siamo trovati di fronte ad un ragazzo che voleva andare a massacrare di botte un suo amico perché, in piazza, intorno alla fontana, si stava facendo accarezzare dietro al collo dal cliente. Quello gli diceva ‘Per dieci, venti euro in più screditi tutti noi’ (…) ti dicono ‘Io raggiungo l’orgasmo, guadagno soldi, che vuoi di più?’ Magari guadagnano cento euro e venti li spendono con le prostitute perché devono dimostrare a se stessi di essere eterosessuali. L’importante è che lo dimostrino a se stessi e al gruppo… come se dovessero costantemente alimentare la loro eterosessualità.” (int. 2, operatore sociale, Roma) 16 Con “famiglia di strada” si intende il gruppo dei pari che rappresenta il nucleo di riferimento nel percorso di crescita e di passaggio verso l’adultità del ragazzo. 251 Quando non vi è una rete di sfruttamento, ma esclusivamente la “famiglia di strada” che supporta e sanziona, esiste un sottobosco, assai dubbio, di personaggi che, in varia misura, approfittano dell’attività prostitutiva. I minori si ritrovano così ad affrontare una serie di pericoli che vanno dal ritrovarsi implicati in reati (dai semplici furti agli omicidi) alla possibilità di approfittarsi del cliente e fronteggiare un’eventuale sua reazione violenta al rifiuto di soddisfare certe richieste: “La prima indagine che ho fatto in questo ambito è del 2000. Ha portato alla luce tutta una serie di personaggi che dilagano in questo ambito della prostituzione minorile e che non facevano altro che stabilire un contatto tra questi ragazzi e le persone grandi che li cercavano. Non siamo qui nell’ambito della pedofilia, si tratta di un ambito adolescenziale. Queste persone che favoreggiano, di solito, fanno un giro nei posti dove si trovano questi ragazzi, come Piazza della Repubblica, cercano i più appetibili e propongono loro di andare in determinati locali o feste, eccetera (…) non ci sono aspetti di coercizione, ma ci sono comunque persone che vivono alle spalle di questi ragazzi.” (int. 7, operatore delle forze dell’ordine, Roma) “Ci sono stati casi con esiti tragici: un giovane rumeno che ha ucciso l’uomo che gli chiedeva una prestazione particolare.” (int. 3, operatrice sociale, Roma) Accanto a questa prostituzione libera, seppur condizionata dalla necessità, si sono registrati casi anche di pedofilia che coinvolgevano minori rumeni, quasi tutti rom infraquattordicenni, sfruttati sessualmente all’interno dei campi rom: “Soprattutto per quanto riguarda l’insediamento di Tor Fiscale, ma anche altre situazioni, si è visto che c’è un certo numero di questi ragazzini che vengono utilizzati per incontri sessuali con italiani maschi adulti.” (int. 3, operatrice sociale, Roma) “Uno o due anni fa (2004, NdA) un ragazzino rom ci ha parlato di uomini che controllavano il giro dei ragazzi rumeni. Abbiamo avuto la segnalazione di un cliente che ci ha detto che un ragazzo – che poi è sparito – gli aveva confessato di essere tenuto segregato in una roulotte da alcuni rom e che si doveva prostituire per loro.” (int. 1, operatore sociale, Verona) In base alle conoscenze finora acquisite, anche a seguito di operazioni condotte dalle forze dell’ordine a Milano, a Roma e a Verona, i minori rimangono nel campo nomadi e vengono prelevati dai clienti che pagano direttamente la famiglia in denaro o in beni. Esiste anche una specie di sistema di prenotazione gestito dai familiari. È, quindi, una forma di sfruttamento che nasce 252 all’interno della famiglia e della vita nel campo. Non si ha a che fare con un racket, ma con casi di “affitto” sessuale derivanti da situazioni di forte deprivazione economica, sociale, culturale e valoriale all’interno dei campi nomadi e alimentate dal passaparola. Calzante è la definizione di prostituzione “professional-artigianale”17: cioè di un tipo di vendita di prestazioni sessuali che ha in sé elementi che rimandano ad una organizzazione strutturata mescolata ad elementi amatoriali: “Per quanto riguarda gli altri minori rom inseriti nei circuiti della prostituzione minorile, considera che due anni e mezzo fa (2004, NdA) il primo gruppo che noi contattavamo a Piazza della Repubblica era di ragazzi un po’ più grandi, quasi maggiorenni, tra i 17 e 18 anni, che abitavano in questo campo, non riconosciuto dal Comune di Roma, di Tor Fiscale, che si trova sull’Appia. A un certo punto i clienti hanno cominciato a chiedere ai ragazzi che si prostituivano se c’era la possibilità di avere ragazzini più piccoli. Quindi, in realtà, i primi ad avere messo in contatto il pedofilo con i ragazzi più piccoli sono stati sempre quelli un po’ più grandi, che hanno cominciato a coinvolgere, all’interno del loro campo, il vicino più piccolo, il cugino più piccolo. Ed erano loro, direttamente, a fare da anello di congiunzione tra il cliente e questi ragazzini. È quindi scoppiato il primo scandalo di pedofilia all’interno di questo campo. Le stesse famiglie erano invischiate in questa situazione. C’erano le famiglie che davano i loro figli e, in un caso, è accaduto che la famiglia dava direttamente il ragazzino ai pedofili in cambio di lettori di Dvd e altre cose. Insomma, un coinvolgimento diretto della famiglia nella ‘vendita’ del ragazzino.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) “L’indagine della polizia ‘I fiori nel fango’ è durata due anni. Hanno messo le telecamere vicino a questo campo e hanno ripreso tutte le varie macchine che si fermavano, tutti i vari giri, poi, hanno fatto i primi arresti, venti se non sbaglio (…) non partono dalla Romania con l’idea di venire qui a far prostituire i figli ma, una volta scoperta questa opportunità, li fanno andare tranquillamente in cambio di un Dvd, una stufa, 20 euro.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) “All’inizio sembrava esclusivamente sotto forma di sfruttamento delle donne rumene, che venivano fatte prostituire fuori del campo e che trovavano protezione all’interno del campo. Oggi, abbiamo questi fenomeni di prostituzione minorile che, in base alle inchieste perché non ho una esperienza diretta sul campo, nascondono un livello di sfruttamento molto alto. Tu sai che ‘Fiori nel fango’ è arrivata anche a Milano.” (int. 5, operatore sociale, Milano) 17 Per la definizione di “prostituzione professionale” e di “prostituzione artigianale,” cfr, F. Prina, “La prostituzione minorile”…, cit. 253 Come per lo sfruttamento di minori in attività illegali, anche per la prostituzione vengono organizzati degli spostamenti tra Roma e Milano: “Lo stesso campo di Roma aveva accordi con questo campo di Milano per la vendita dei ragazzini nell’ambito della prostituzione maschile. Quindi, ci sono accordi tra i campi. Il ragazzino arriva qui, sta in questa baraccopoli, rimane per un determinato periodo e viene utilizzato per l’attività criminale, ovvero per andare a rubare oppure per la prostituzione.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) L’aspetto più complesso e delicato, che ha pesanti riflessi sul piano dell’intervento sociale, è la difficoltà dei minori di comprendere quanto è loro accaduto, di capire che sono state vittime di abusi. In molti casi, vivere nel campo, poter dormire e giocare tutto il giorno (tranne quando arriva il cliente e si deve andare con lui), l’assenza di costrizione non permettono al minore di capire quanto gli accade. Il fatto, poi, che vi sia il coinvolgimento della famiglia e che tramite l’attività prostitutiva si soddisfino le esigenze economiche della stessa allontana ancora di più il minore dall’acquisire una corretta consapevolezza di quanto gli succede: “Quando sono molto piccoli c’è l’atto o la passività rispetto a un atto che non viene compreso fino in fondo. Secondo me, e lo vediamo con i ragazzi un po’ più grandi, la comprensione e il trauma possono manifestarsi sicuramente in una fase successiva, con lo sviluppo, con la pubertà, l’adolescenza. Lì per lì è una cosa che accade attraverso il loro corpo, di cui loro più o meno possono dirsi partecipati o costretti; però, non stabiliscono una correlazione particolarmente evidente, se non quando avviene in forme di costrizione o di violenza.” (int. 4, operatrice sociale, Roma) 4.9 L’universo variegato degli “organizzatori” dello sfruttamento Gli organizzatori dello sfruttamento tra tratta, traffico e immigrazione illegale Il quadro delineato fino ad ora è evidentemente composito. Non si può – parlando di coinvolgimento di minori nelle economie illegali e nelle attività devianti – incasellare il fenomeno in schemi rigidi e chiari come forse è possibile fare con altri fenomeni dove la tratta e lo sfruttamento sono più palesi. Per tale ragione, usare la dicitura “organizzazione criminale” riferita agli sfruttatori sembra una semplificazione eccessiva per le vicende qui trattate, in realtà, difficilmente semplificabili. Indubbiamente, alle persone fermate sono stati contestati, anche ragionevolmente, reati associativi, ma si tratta comunque di episodi. Un rappresentante delle forze dell’ordine e un magistrato descrivono efficacemente tale difficoltà di generalizzare un fenomeno così articolato: 254 “Spesso gli investigatori parlano di ciò che conoscono, che si basa alle indagini effettuate, ma l’indagine non è un campione statistico significativo. Quindi, un’indagine potrebbe essere la punta di un iceberg oppure un caso isolato che è finito nelle mani degli investigatori. Se lei mi chiede quanta prostituzione c’è sulla strada, io ho un dato statistico, mentre di questo fenomeno no.” (int. 1, operatore delle forze dell’ordine, Milano) “Ce ne sono diversi, ma non è un fenomeno di massa. Alla fine, questi baby pusher a Torino non sono poi tantissimi (…) saranno qualche decina e in più questo fenomeno riguarda Torino, in parte Genova, non riguarda Milano e ad oggi non riguarda Roma, che io sappia. È un fenomeno molto torinese, quindi, non è un fenomeno di massa come quello delle giovani prostitute rumene che sono un esercito.” (int. 1, magistrato, Torino) L’accattonaggio – sia nella forma di semplice questua tipica dei minori rom sia in quella legata al lavaggio vetri e all’ambulantato dei minori marocchini – non può dirsi quasi mai a scopo di uno sfruttamento legato alla tratta di esseri umani. Nessuno dei testimoni privilegiati ha parlato di persone trafficate dalla Romania o dal Marocco al fine di sfruttarle nella mendicità, trattenendo i proventi dei loro guadagni. Molte volte si è di fronte ad una emigrazione illegale o tutt’al più ad un fenomeno di traffico di migranti gestito da un’organizzazione che agevola l’attraversamento illegale delle frontiere e che presenta caratteristiche distinte a seconda del paese di provenienza: “Il meccanismo era ed è quello della famiglia rom povera che ha bisogno di guadagnare dei soldi per vivere e per questo viene in Italia dove sa già chi contattare. Prende contatti, gli viene organizzato il viaggio e la permanenza o in un campo oppure in altri insediamenti non autorizzati sorti in questi ultimi anni. C’è l’organizzazione che si occupa della permanenza dentro questi insediamenti e quella che si occupa del lavoro, tra virgolette, che può essere la mendicità o un’altra cosa. Finché si parlava di mendicità, la situazione tipo era quella della famiglia che arrivava con i minori, che utilizzava per l’accattonaggio e, frequentemente, usava anche gli adulti, più spesso le madri con i bambini piccoli, ma anche i padri con gli adolescenti e questi ultimi da soli. Non so se oltre al viaggio e all’alloggio nel campo abusivo, ci sia anche l’assegnazione di posti dove praticare la mendicità.” (int. 3, operatrice sociale, Roma) “Per Khourigba e per altre zone, anche per chi non va a spacciare, c’è comunque il traffico. I minori riferiscono di aver pagato due, tre, cinquemila euro per essere portati da un passeur. Però il passeur non li sfrutta, li lascia lì, li sfrutta solo per il viaggio.” (int. 5, operatore sociale, Torino) 255 Una volta in Italia, è difficile capire se ci si trova di fronte a fenomeni di sfruttamento. Quando il minore rom mendica con la propria famiglia in assenza di violenza e di costrizione e in presenza di un relativo accudimento da parte dei familiari, non è semplice dare un nome al fenomeno e, come si vedrà nel paragrafo successivo, è difficile scegliere l’intervento sociale adeguato da adottare. Similmente, per i minori marocchini coinvolti nelle attività di mendicità e di ambulantato, il livello di sfruttamento è fortemente variabile e richiede quasi sempre un’analisi caso per caso. Si passa, infatti, da situazioni in cui il minore è picchiato dagli stessi genitori o parenti se non lavora e non torna a casa con del denaro a situazioni in cui i familiari, opportunamente supportati, comprendono l’importanza di farsi carico del percorso di regolarizzazione del minore stesso: “Questi due ragazzi sono cugini e sono stati entrambi picchiati dai loro padri. I genitori li mandavano sempre a lavorare agli ‘stop’ e se loro tornavano senza soldi li picchiavano. Una volta hanno scoperto che invece di andare a lavorare se ne erano andati al mare. Al loro ritorno, dopo avergli chiesto il guadagno della giornata e non aver ricevuto niente, li hanno picchiati.” (storia 14, minori marocchini, Napoli) “Io quello che guadagno lo mando direttamente a mio padre. Ne lascio una parte per l’affitto, per mangiare, per i vestiti (…) vivo ancora con gli zii per adesso. Paghiamo 260 euro li dividiamo fra noi. Io ho uno zio, tre cugini e un amico. Più o meno 50 euro ciascuno. Mi ha preso in carico mio zio, mi hanno aiutato loro.” (int. 15, minore marocchino, Torino) Interessante notare come l’arrivo e, quindi, il succedersi di gruppi nazionali diversi determini problemi di concorrenza in una città come Napoli, dove, forse a causa di una maggiore presenza della criminalità organizzata, gli spazi di impiego nelle attività illecite sono ridotti: “Adesso stanno aumentando i rumeni ed è iniziata la ‘guerra dei semafori’ nella quale stanno avendo la meglio i rom rumeni. Prima il rom rumeno poteva chiedere l’elemosina ma non lavare i vetri o vendere fazzoletti. Questi ultimi lavori, fino ad ora, erano riservati ai marocchini. Ora i rom rumeni stanno aumentando, si stanno compattando e sono diventati più forti.” (int. 1, operatore sociale, Napoli) Il sistema organizzativo che regola lo svolgimento delle attività illecite o devianti cambia quando le attività si diversificano e cominciano a ricomprendere anche il compimento di reati contro il patrimonio e l’utilizzo di minori soli, venduti o “affittati” – dalla famiglia rimasta in Romania o emigrata in Italia – a terzi conoscenti che li sfruttano trattenendo pressoché interamente il 256 guadagno che realizzano. In questo caso si è qui di fronte ad un fenomeno di tratta di minori finalizzato a grave sfruttamento: “Se il ragazzino di Craiova, portato qui, ad esempio, per rubare, dimostra di non avere questa capacità, è sempre ‘carne’ e, quindi, in ogni caso, può essere utilizzato in un’altro ambito di sfruttamento: andare a chiedere l’elemosina oppure prostituirsi. Dipende anche dalle abilità del ragazzino. E considera che, a livello psicologico, c’è tutto il discorso dell’adrenalina da parte loro perché stanno facendo una cosa figa. Però, esiste anche il rovescio della medaglia. Se alla sera non portano quel minimo di soldi – da quello che io so va dai 100 ai 200 euro al giorno – devono subire spegnimenti di sigarette sul corpo, botte e violenze pesanti, sempre con il ricatto ‘guarda, ricordati che noi i soldi dobbiamo mandarli alla tua famiglia.’ Questo fa parte del loro addestramento per ricordare loro che ‘tu domani devi rubare, non vai in giro a pazzeggiare.’ Il ragazzino non si tiene nulla, se riesce va a fare una partitina nelle sale giochi, senza che lo veda nessuno, altrimenti, non fa nulla con i soldi, anche se li ha in tasca non ci fa niente.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) “Nell’arco degli ultimi due anni (2004-2006, NdA), sono aumentati i casi di minori non accompagnati dai familiari che vengono affidati ad adulti che non si sa bene chi siano, ma che, generalmente, sono altri rom dell’insediamento in cui vengono ospitati. I minori non sono più coinvolti solo nell’accattonaggio, ma, ad esempio, a Roma, a Tor Cervara, vengono organizzate bande di minorenni maschi, tra i dodicitredici anni, dediti a borseggi, furti, piccole rapine, anche con l’uso di minacce o del coltellino per farsi dare il portafoglio.” (int. 3, operatrice sociale, Roma) Del tutto simile è risultato essere il sistema organizzativo alla base dello sfruttamento dei minori rumeni, rom e non, nella prostituzione. Interessante notare che, nel caso dei minori rom, è stata individuata l’esistenza di un sistema, facente capo ad alcune famiglie presenti sia a Roma che a Milano, in grado di spostare i minori e di muoversi agevolmente sul territorio italiano. Si tratta di organizzazioni piccole, familiari, di tipo clanico. Non si è, quindi, di fronte una grande organizzazione criminale: “Non ho visto delle organizzazioni criminali; anche se sono ipotizzati questi reati. Nella mia esperienza sono sistemi sociali. Continuano a fare qui quello che facevano al loro paese, sottoforma di clan, di solidarietà familiare o etnica. Lo fanno anche qui con la logica dello sfruttamento che, comunque, è la logica della loro famiglia.” (int. 2, magistrata, Milano) Per i minori marocchini le condizioni di sfruttamento sono molto più pesanti quando sono coinvolti nelle attività di spaccio di sostanze stupefacenti. 257 A Torino, la città di maggior presenza di minori marocchini, si è assistito ad un cambiamento significativo nel mercato dello spaccio. In origine, era un’attività svolta dai minori provenienti dalla zona di Khourigba e aveva forme in parte “artigianali”. Negli ultimi due anni, si è invece assistito all’arrivo di minori, spesso più piccoli dei loro predecessori, dalle periferie di Casablanca, che hanno occupato il mercato dello spaccio di sostanze stupefacenti, favorendo così la creazione di due gruppi distinti e separati: “I due gruppi non si mischiano e nemmeno si frequentano. I ragazzi si conoscono, ma si guardano male. Anche loro stanno qui, a Porta Palazzo. Di giorno stanno qua fuori, magari mangiano qui e poi la sera vanno in zona Murazzi e Piazza Vittorio.” (int. 3, operatore sociale, Torino) La condizione dei minori marocchini è certamente di sfruttamento molto elevato. Essa presenta sia le forme di tratta perpetrata dalla stessa famiglia, sia le forme del traffico di migranti o dell’emigrazione irregolare in autonomia. Nel caso di immigrazione irregolare o di traffico, nel paese di destinazione si verificano situazioni di violenza e sfruttamento o anche fenomeni di tratta all’interno del territorio italiano: “Noi catturiamo il padre di questo bambino sulla base di elementi di prova autonomamente raccolti, cioè, raccolti indipendentemente dalle dichiarazioni del minore che, ovviamente, non accuserebbe il padre. Lo catturiamo in base all’art. 600 ‘riduzione in schiavitù’ del figlio (…) a un certo punto, questo ragazzino viene preso, portato alla Procura dei minori, al Ferrante Aporti, per le impronte, fanno l’esame osseo per vedere se ha 14 anni e lui risulta avere tra i 13 anni e mezzo e i 14 anni e, quindi, a rischio di diventare imputabile (…). Allora lui lo dice al padre che, immediatamente, telefona – ovviamente è tutto intercettato – alla madre che sta in Marocco e le dice ‘senti qua, il grande fra un po’ non può più lavorare perché sta per compiere 14 anni, allora, adesso, mi devi mandare su il piccolo, quel figlio di puttana,’ che ha 10 anni. Comincia a parlare con il figlio, a insultarlo, a umiliarlo e poi chiede alla madre di picchiarlo. C’è questa scena terrificante, che si ripete per due, tre telefonate, con il padre che ordina alla madre di picchiare il figlio, vuole sentire le botte, il pianto, dice ‘non lo picchi troppo forte, picchia più forte’ (…) abbiamo intercettato anche le telefonate fatte dal padre al ragazzo una volta arrivato in Italia. Il papà chiede ‘Quanto hai fatto? Quello lì ha fatto di più! Prendi esempio da quello che stasera è riuscito a fare 100 euro. Tu sei un lavativo.’ Il padre va due giorni in Marocco e gli telefona in continuazione chiedendogli ‘Dove sei? Cosa fai? Manda i soldi giù. Dai i soldi a tizio che li raccoglie. Guai se torni a casa stasera se non hai fatto almeno 150 euro!’ insomma, si è in presenza di un atteggiamento vessatorio molto forte (...) qui è il parente che li fa venire apposta in modo programmato.” (int. 1, magistrato, Torino) 258 Una cauta riflessione merita la condizione dei minori rumeni emigrati da soli. In questi casi non vi è una situazione di sfruttamento, ma un “instradamento” alla commissione di reati contro il patrimonio. Solitamente vi è un “maestro” che insegna al minore come rubare e che approfitta della sua abilità domandando, generalmente per un breve periodo, una percentuale su quanto “guadagna”. Simile è la situazione dei minori rumeni coinvolti nella prostituzione che spesso si appoggiano, per il posto letto o per altre necessità, ad altre persone o ai campi rom che, in cambio, chiedono una parte dei profitti per il “servizio” offerto: “Secondo me, molti di questi ragazzi dediti alla prostituzione arrivano in Italia autonomamente con la speranza di lavorare, guadagnare, fare i soldi come gli pare. Arrivano qui e si trovano inseriti in questo giro che può essere o no di sfruttamento. Si tratta di uno sfruttamento più leggero. Ad esempio, può essere che un ragazzo rumeno non rom che, piuttosto di dormire in un treno abbandonato, si appoggi in un campo rom, dove gli danno un posto letto ma in cambio deve consegnare il 30% del suo guadagno. Quindi, una volta inseriti nel mondo della prostituzione, possono avere protezione o un posto dove dormire in cambio di qualcosa. Lo stesso meccanismo vale anche per i minori che compiono furti.” (int. 2, operatore sociale, Roma) Il passaggio da sfruttati a sfruttatori È possibile una “carriera” dei minori coinvolti in attività illegali e devianti che permetta loro di trasformarsi da sfruttati a sfruttatori? Gli elementi raccolti permettono di affermare che non esiste un sistema costruito per garantire la creazione di una “filiera” di piccoli sfruttatori. Le organizzazioni che gestiscono lo sfruttamento dei minori non sono di dimensioni e di livello tale da permettere la creazione di una struttura a grappolo18. Sono stati individuati, però, dei meccanismi che permettono il passaggio dalla condizione di sfruttato a quella di sfruttatore. Ad esempio, sono stati identificati dei minori maschi che sfruttano la prostituzione di ragazzine alle quali a volte, sono legati da una relazione amorosa: “Tengono una ragazzina o due, tentano… è una specie di carriera. Ricordo un caso in cui venne dato fuoco ad un ragazzo da un suo coetaneo all’interno di un insediamento o di capannone e successe proprio perché uno dei due aveva due ragazze che, evidentemente, stavano lì con loro… si misero a litigare per disputarsi le ragazze. Fu una cosa gravissima. Le ragazzine vengono mandate a prostituirsi in 18 Come invece, accade, ad esempio, nello sfruttamento della prostituzione nigeriana. Sul punto, cfr. F. Prina (a cura di), “La tratta e lo sfruttamento della prostituzione…”, cit. 259 strada secondo i meccanismi classici dello sfruttamento della prostituzione straniera. E, a volte, i ragazzini sono anche più tremendi degli adulti (…) per quel che ho sentito io, esiste la dinamica della ‘donna mia,’ che significa che magari ‘io me la scopo,’ ma soprattutto che ‘è mia’.” (int. 4, operatrice sociale, Roma) In alcuni casi, il minore sfruttato nelle attività illegali ha la capacità e la possibilità di emanciparsi, lasciando il gruppo e lavorando in proprio o svolgendo il ruolo di “capetto”: “Può succedere che un minore, una volta cresciuto, si trovi, a sua volta, a gestire dei ragazzini più piccoli. Ma dipende dal ragazzino. Nell’ambito dei furti, di solito, chi ruba meglio, chi è più sveglio, chi ruba di più, è anche il più famoso, il più rispettato e, quando diventa grande, il più delle volte o continua per conto suo oppure comincia a sfruttare altri. Quindi, generalmente vi è uno sfruttatore adulto e un ragazzino cresciuto che si trova a svolgere il ruolo di piccolo boss per quelli più piccoli. Non guadagna di più, ma acquisisce più rispetto.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) “Ci sono minorenni che scalano la piramide gerarchica e sfruttano altri minorenni. Con l’età. Controllano che quelli più piccoli lavorino e non scappino.” (int. 6, operatrice sociale, Milano) Secondo alcuni testimoni privilegiati intervistati, il passaggio al ruolo di “capetti” è più strutturato e comprende anche la funzione di facilitatori di percorsi migratori di nuove potenziali vittime di sfruttamento: “Quando arrivano si mettono in contatto telefonico con l’amico che dall’Italia gli aveva detto di venire nel nostro Paese perché si stava bene, si lavorava e si guadagnava bene. Tale amico è lo stesso che li ha messi in contatto con qualcuno in Romania che gli poteva organizzare il viaggio e che, in realtà, è collegato allo sfruttatore. Questi amici, a volte, sono maggiorenni ma, a volte, sono anche minorenni e sono quelli che da sfruttati sono diventati sfruttatori. Io li chiamo i kapò, come quelli dei campi di concentramento. Questo succede perché, praticamente, avendo compiuto quattordici anni non hanno più convenienza ad andare a rubare direttamente in quanto, essendo oramai imputabili, vanno a finire in carcere e possono essere arrestati. Allora, svolgono il ruolo di complici, in qualità di palo, di organizzatori, eccetera, di altri bambini che, nel frattempo, arrivano dalla Romania.” (int. 2, magistrata, Milano) 260 4.10 I percorsi di fuoriuscita dallo sfruttamento Come evitare l’ingresso dei minori in attività illegali e devianti? Come agevolarne la fuoriuscita? Quali gli interventi attuati per favorire questo processo e favorire il loro reinserimento? Sebbene il focus principale del presente lavoro di ricerca fosse l’analisi del fenomeno della tratta riguardante i minori sfruttati nell’accattonaggio, nelle economie illegali e nella prostituzione maschile, il tema dei percorsi di intervento sociale è stato, seppur marginalmente, affrontato in diverse interviste realizzate con i testimoni privilegiati e con i minori stessi. Quattro sono le questioni fondamentali e più delicate individuate attraverso le suddette interviste: 1. come intervenire a scopo preventivo nei confronti dei minori al momento dell’arrivo; 2. come effettuare l’aggancio con i minori e stabilire con loro un primo contatto; 3. come entrare in relazione con i minori, capire chi sono e da quale situazione provengono; 4. come intervenire nei loro confronti e verso la famiglia di origine presente in Italia o in patria. All’arrivo in frontiera… In base alle informazioni raccolte risulta che le modalità di accesso al nostro Paese da parte dei minori differiscono a seconda della frontiera attraversata, in base che essa sia quella terrestre a Nord-est o quella marittima a Sud. Attraverso il Friuli-Venezia-Giulia, fanno ingresso molti minori provenienti dall’Europa dell’Est, soprattutto rumeni, sia in modo regolare grazie all’opportunità di entrare in Italia senza obbligo di visto, sia in modo irregolare attraversando la frontiera facendo uso dei servizi illegali offerti dai passeur. Secondo i testimoni privilegiati intervistati, le attività di controllo della frontiera permettono di intercettare a campione un certo numero di minori, tuttavia, non sembrano essere stati rilevati casi di arrivi considerevoli e problematici. Inoltre, a partire da gennaio 2007, con l’entrata della Romania nell’Unione europea, la posizione dei minori rumeni è radicalmente cambiata in quanto non sono più oggetto di controllo privilegiato da parte delle forze dell’ordine nella città di Trieste e l’emergenza criminalità legata a tale target group specifico sembra essere in gran parte rientrata. Molto diversa la situazione registrata alla frontiera marittima. Sbarcati a Lampedusa – come già detto – i minori vengono identificati in quanto tali ed 261 inviati alle comunità di accoglienza dislocate nella provincia di Agrigento. In base alle interviste raccolte con vari operatori che lavorano a Lampedusa e in Sicilia, esistono molte difficoltà e carenze nel sistema di accoglienza agrigentino, testimoniata anche dalla percentuale molto elevata di fughe dalle comunità di accoglienza. Rappresentando tali comunità il primo impatto che i minori nordafricani hanno con lo Stato italiano, è evidente che si tratta di un momento molto delicato che può incidere sul percorso futuro del minore. Non essere inseriti in un percorso virtuoso di accoglienza può aumentare le possibilità di cadere in un circuito di sfruttamento e, parallelamente, può diminuire il livello di fiducia nella capacità delle istituzioni di fornire sostegno e supporto. Avere gli strumenti, le conoscenze, i mezzi per intervenire in questa primissima fase, poter prospettare al minore un percorso alternativo, potergli dare il tempo di “prendere fiato” e di riflettere, rappresenterebbe certo un importante salto di qualità e una chance importante per poter decidere cosa fare per il proprio futuro. Paradossalmente, allo stato attuale, ogni intervento, pur con alcune eccezioni, sembra essere demandato alla fase successiva, ovvero a quando il minore si è oramai spostato in altre parti d’Italia ed è spesso già entrato in circuiti devianti ed illegali. Sono emersi in diversi casi dubbi sulla prontezza e la capacità delle istituzioni di elaborare politiche efficaci di intervento e di accoglienza. Sarebbe sicuramente necessario un lavoro di approfondimento, a livello nazionale, sull’adeguatezza degli interventi realizzati per i minori coinvolti in attività illegali e devianti, vittime di tratta (o no) e sul sistema di accoglienza per i minori stranieri non accompagnati attualmente in vigore in Sicilia. In strada… Saper contattare i minori sfruttati è certamente il primo scoglio da superare, il primo passo per entrare in relazione e lavorare per la creazione di un percorso di emancipazione dalla strada e nella strada. È abbastanza frequente notare negli operatori sociali un iniziale spaesamento. Con il susseguirsi delle ondate migratorie, essi hanno maturato un certo scetticismo rispetto alla prontezza e all’efficacia del loro operato e hanno rafforzato la convinzione che i minori ultimi arrivati sono più difficili e complessi da gestire di quelli giunti con le ondate precedenti. Dopo un certo lasso di tempo, però, scoprono che è effettivamente possibile realizzare un intervento con i minori accolti ma, al successivo sbarco di minori, ricominciamo a porsi i medesimi dubbi soprasegnalati: 262 “Noi non riusciamo ad avere nessun approccio più approfondito con loro, rimangono troppo poco tempo, scappano quasi immediatamente e noi non riusciamo ad instaurare un minimo di confidenza con loro.” (int. 1, operatore sociale, Viareggio) “Il lavoro è veramente complicato. Manca tutta una serie di cose. Siamo riusciti a fare dei progetti, quanto meno, di avvicinamento a questi ragazzi nel momento in cui abbiamo ottenuto dalla Cariplo un finanziamento per la protezione dei minori non accompagnati. Era un progetto che prevedeva di avvicinarli attraverso l’ausilio di uno psicologo e di un educatore esterni, che incontravano il ragazzo, cercando di creare un aggancio relazionale più forte di quello che era possibile creare qui dentro con gli educatori del ministero. Funzionava perché, se non altro, spiazzava molto questi ragazzini. Ci sono stati dei casi riusciti. I numeri non sono altissimi, però, il tipo di utenza richiede un lavoro veramente complesso.” (int. 6, operatrice sociale, Milano) I minori coinvolti in attività devianti e illegali – seppur altamente visibili sul territorio mentre commettono reati di strada – sono un gruppo difficile da agganciare, in quanto fortemente sfuggente e mobile. Anche gli sfruttatori – quando esistono – sono difficili da individuare perché spesso rimangono nell’ombra, operando un controllo discreto e difficile da individuare e comprendere nelle sue dinamiche. Per la prostituzione, invece, si ha, da un lato, quella di strada, dove predominano i ragazzi non sfruttati e dove quindi può essere difficile distinguere i casi di sfruttamento e, dall’altro lato, quella che avviene all’interno dei campi nomadi o in luoghi difficili da individuare. A questo si aggiunge la difficoltà di capire chi è il minore che sta spaccia, ruba, chiede l’elemosina o si prostituisce: è un “libero professionista” autore di reati? È un minore solo che cerca di arrangiarsi con l’elemosina e la prostituzione? È un minore vittima di sfruttamento? Dall’analisi delle storie raccolte attraverso le interviste sembrano esistere degli elementi comuni nelle esperienze positive finora realizzate di aggancio dei minori: raggiungere i luoghi frequentati dai minori, mettersi sulla strada e farlo senza pretese. Si tratta di offrire una disponibilità all’ascolto, allo scambio, anche solo di qualche parola, di presentarsi e di cercare di capire scevri da ogni pregiudizio: “La cosa migliore da fare è andare tutti i giorni in strada, dove trovi il ragazzino, lo conosci, conosci il suo carattere, gli parli (…) se i servizi non si spostano sulla strada non combinano niente.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) “Per avvicinare di più i rom si dovrebbe lavorare dentro il campo. È impensabile portare in comunità ragazzini che vivono con le loro famiglie all’interno del campo. 263 La comunità è vista come un orfanotrofio.” (int. 3, operatore sociale, Milano) “Credo che i minori lo percepiscano in maniera positiva l’approccio che abbiamo adottato. Non vedono l’invadenza, l’intrusione nella loro vita e nella loro attività. Quello che cerchiamo di far loro intendere è che noi ci siamo, per qualsiasi tipo di problema possono contare su di noi e contattarci. Solo partendo da questo tipo di percezione puoi sperare di diventare, ai loro occhi, attendibile e meritevole di attenzione. Per cui credo che questo sia il passaggio fondamentale per riuscire a maturare in loro la decisione di abbandonare la situazione in cui si ritrovano. Al contrario, le forze dell’ordine sono percepite solamente come una minaccia, qualcosa da cui fuggire. I centri di accoglienza, in molti casi, sono considerati come una rogna perché ti fanno perdere una giornata. Quindi, tra l’approccio delle forze dell’ordine, quello dei centri di accoglienza e il nostro, forse quest’ultimo potrebbe considerarsi il più utile, anche perché noi, non essendo un’istituzione, abbiamo meno vincoli, abbiamo più libertà di fare come ci pare.” (int. 2, operatore sociale, Roma) “Noi abbiamo adottato la strategia di andare nei posti dove mangiano, nelle mense, ad esempio, in quella gestita dall’Opera S. Francesco. Siamo presenti anche in strada. Quindi, presidiamo alcuni posti della città in cui sappiamo esserci un po’ di movimento. Ad esempio, la Stazione centrale a ridosso delle metropolitane. Con l’unità di strada andiamo di notte a trovare i ragazzi nei luoghi dove si prostituiscono, riuscendo così ad avere il quadro di quello che succede a Milano. Vigiliamo in punti che sappiamo essere luoghi di prostituzione. Incontriamo i ragazzi lì per poi dare loro un appuntamento al Centro. Abbiamo delle schede, delle tessere plastificate tipo bancomat, dove, in rumeno, da un lato sono scritte le attività che svolgiamo all’interno del Centro e, dall’altro ci sono i nostri numeri di telefono. C’è anche una piantina che indica dove ci possono trovare in modo tale che sappiano sempre come poterci raggiungere. Diamo appuntamento al Centro perché poi il grosso del lavoro lo facciamo lì.” (int. 5, operatore sociale, Milano) Alla disponibilità non giudicante, si unisce la possibilità di avere un posto dove passare qualche ora, dove fermarsi, senza dover soddisfare una serie di requisiti per l’accesso: “Nasce nell’autunno 2003 (…) si è lavorato con una presenza, anche fisica, per dare un segnale che non fosse di controllo sociale, come può avvenire comunque in ufficio, dove si affronta il tema della regolarizzazione, dei rapporti con la Questura, dove c’è in qualche modo un’auto-denuncia del minore. L’idea è di offrire un’alternativa, anche soltanto di un’ora, alla vita di piazza, senza andare a dire ‘non dovete più spacciare.’ Sappiamo che i ragazzini fanno parte di una rete controllata da adulti, quindi, non si tratta di dire ‘ti offriamo una vita opposta a quella che stai facendo’ perché sappiamo che non sarebbe di loro interesse. Si tratta piuttosto di offrire una possibilità di socializzazione, che passa, ad esempio, attraverso varie 264 attività sportive e la collaborazione con il Cecchi Point (Centro di aggregazione giovanile, NdA). Si organizzano eventi, laboratori teatrali, di fotografia, partite di calcio. Da una serie di attività socializzanti e ricreative si è poi passati a proporre, ad esempio, corsi di lingua italiana. Si è perciò cominciato a spostare l’obiettivo sull’apprendimento della lingua, che può essere uno strumento utile in un’ottica di regolarizzazione. L’intento è sicuramente quello di offrire senza chiedere.” (int. 7, operatrice sociale, Torino) “Il motivo per cui abbiamo aperto il centro è la convinzione che, comunque, uno dei compiti dell’operatore sociale è quello di contenere i danni causati dalle politiche migratorie di chiusura sulle vite delle persone. Il fatto di offrire degli spazi di benessere dove possono prendersi cura di sé, dar loro degli spazi di crescita è qualcosa che comunque serve. Il punto però importante è che devono essere modificate le nostre politiche migratorie.” (int. 5, operatore sociale, Milano) In questo contesto, va segnalato il ruolo svolto dagli operatori pari, da tempo impiegati in molti settori e che cominciano ad essere utilizzati sempre più anche nel lavoro di strada con i minori stranieri: “Credo che, per molte ragioni, la scelta migliore sia quella degli educatori pari rispetto al ‘semplice’ mediatore culturale. L’educatore pari ha una triplice funzione. Primo, di ridurre ulteriormente la distanza tra te e il ragazzo, tra il rumeno e l’italiano. Secondo, serve a dare ai ragazzi un input e una prova reale del fatto che un loro connazionale ha intrapreso un percorso attraverso cui è arrivato a quel punto. Terzo, serve anche a noi perché le dinamiche che si innescano in un contesto quale Piazza della Repubblica la sera, durante le ore in cui ci si prostituisce, o anche di giorno, a noi possono anche sfuggire. L’occhio di un ragazzo che percepisce determinate sfumature può essere utile anche per evitare di fare mosse sbagliate.” (int. 2, operatore sociale, Roma) Costruire una relazione che porta il minore a cercare l’operatore nei momenti di difficoltà è il passo successivo. In gran parte è un’evoluzione conseguente all’aggancio avvenuto in strada. La capacità di dialogare con i minori, di farsi ascoltare, è certamente una qualità indispensabile per riuscire a stabilire una relazione con i minori di strada: “Quando arrivano, per esempio, in un posto dove trovano me, oppure al Ferrante Aporti, e cominciano a ragionare… non una volta, perché non basta mai ragionare una volta, devi riprendere più volte la discussione e riportare il ragazzo sempre sulle stesse cose. Magari alla decima volta, comincia a riflettere sulle cose che stava facendo, su quello di cui stiamo parlando. Quando lui comincia a ragionare e a capire, ‘sì, facevamo metà e metà, ma alla fine quello stava a casa, non faceva 265 niente e si arricchiva sulle mie spalle,’ allora comincia a dargli fastidio.” (int. 4, operatrice sociale, Torino) Molti intervistati hanno indicato come elementi fondamentali per costruire una relazione positiva con i minori la continua presenza in strada e la capacità di comprendere quando sono in difficoltà. È difficile “far ragionare” i minori quando tutto va per il meglio; importante è essere presenti nel momento giusto: “Capita spesso che il ragazzo, quando si sente di più nella ‘merda,’ abbia una paura tremenda. Perché i ragazzi hanno paura del carcere dicono ‘Oddio, aiutami!’ e sono capaci anche di cercarti alle undici di sera o alla domenica. Mi rendo conto che se io non sono disponibile, non intervengo nel momento in cui ha paura, domani non posso pretendere che vada a scuola perché io non ho alcuna autorità di fronte a lui. Invece, se rispondo prontamente alla sua richiesta di aiuto, so che poi posso pretendere delle cose, che lui non commenta, non dice nulla, perché sa che ero presente quando aveva bisogno e io mi posso permettere anche di alzare la voce. Tutti mi chiamano ‘signora,’ pochissimi mi danno del tu, ma non è una cosa che ho chiesto io, è venuta in modo naturale da loro e io non ho mai provato a dirgli ‘ma dai, dammi del tu, tanto qui in Italia siamo abituati a darci tutti del tu.’ No, ho mantenuto questa cosa, perché lascia proprio una certa distanza di rispetto, tra me e loro (…) se come operatori, dal punto di vista professionale, non si interviene nei momenti di crisi, non ci si può meravigliare se dopo il ragazzo non ti ascolta e non ti dà retta.” (int. 4, operatrice sociale, Torino) Fondamentale per implementare un intervento di successo è anche il rapporto che le forze dell’ordine riescono ad instaurare con i minori anche in collaborazione con gli operatori sociali: “Lui ha avuto un bellissimo approccio con la polizia, cosa che di solito non succede. Quella notte lo hanno tenuto lì con loro parecchie ore perché era stanco e stremato, sono andati a comprargli da mangiare, lo hanno sistemato un minimo dopo di che ci hanno chiamati. Il primo contatto è stato positivo, ha chiesto aiuto.” (int. 13, minore rumeno, Torino) “Ci sono voluti mesi e mesi di lavoro degli assistenti sociali e, forse, ancora più che degli assistenti, di un maresciallo dei Carabinieri che per lui è un po’ come un padre, una figura maschile autorevole, che ci sa fare, ci gioca insieme. Così, alla fine, questo maresciallo, più di qualsiasi assistente e psicologo, è riuscito a convincere questo bambino.” (int. 1, magistrato, Torino) Una delle principali difficoltà da superare è la manipolazione che gli sfruttatori agiscono sui minori: 266 “Instaurare un rapporto con i ragazzini è facile. È più difficile portarlo avanti. (…) Dopo molto tempo che andavo in strada, i più svegli sapevano che io non sono un poliziotto. Una volta, invece, ne ho incontrati due che mi hanno detto ‘dai, lo sappiamo che sei un poliziotto.’ Loro stanno in mezzo a due fuochi: da una parte ci stiamo noi che cerchiamo di parlare con loro, ad esempio, certe volte gli chiediamo ‘Hai mangiato? Oggi ti compro un panino’… in unità di strada succedono anche queste cose; dall’altra, c’è lo sfruttatore che gli dice ‘non parlare con quelli’. Questa cosa è uscita dopo che io li ho portati in palestra, l’avranno raccontato e lo sfruttatore gli avrà detto ‘non ci andate più’, cioè lo sfruttatore gli mette in testa un sacco di cavolate.” (int. 1, operatore pari e operatore sociale, Roma) “Allora poi iniziano a parlare, iniziano a farti delle domande perché, a volte, sono anche ignoranti, nel senso che gli adulti gli mettono in testa un mucchio di idee assurde tipo ‘se ti dicono che devi andare in comunità, tu devi dire no, perché la comunità è come il carcere’.” (int. 9, religioso, Torino) “Mi avevano detto che se per caso non mi facevano uscire (dalla comunità NdA) di ‘fare il matto’ così mi buttavano fuori. Sai… tipo prender le sedie, spaccare i vetri… tutte robe del genere…” (int. 1, minore rumeno, Verona) Da più testimoni privilegiati intervistati è stato sottolineato come la principale difficoltà sia il non percepire da parte dei minori di essere vittima di sfruttamento, di essere usati e il non riuscire ad immaginare la possibilità di una vita diversa: “Alcuni di loro lo vivono proprio come un lavoro. È molto difficile lavorare su questi casi perché è necessario un lungo intervento sul ragazzo per fare affiorare una consapevolezza del fatto che quello che ha subito è una violazione.” (int. 3, operatrice sociale, Roma) Ecco perché la volontà del ragazzo è determinante nel permettere la nascita di una relazione prodromica alla fuoriuscita dalla situazione di sfruttamento o, comunque, di illegalità: “Non voglio parlare di condizioni fortuite perché sarebbe sminuire il lavoro di chi, poi, ne determina l’uscita Però, alla fine, quello che gli operatori possono fare è ancora poco, determinante è la volontà del ragazzo. Parte tutto dalla sua volontà. Se vuole farlo lo fa, altrimenti i nostri sforzi possono condizionare la fuoriuscita al 10 o 15%. Questo perché, in base alla mia esperienza, nella maggior parte dei casi, questi ragazzi fuoriescono da questi circuiti o perché toccano il fondo – anche per problemi di salute – e si rivolgono ai centri di assistenza oppure perché sono stanchi di vivere per strada, perché sono pestati di botte e, comunque, la fuoriuscita 267 dipende sempre dalla volontà del ragazzo. L’operatore può creare le condizioni migliori possibili per favorire nel ragazzo una decisione del genere.” (int. 2, operatore sociale, Roma) 4.11 Strategie di accoglienza dei minori e di intervento sulla famiglia Analizzando gli interventi di successo che hanno riguardato minori stranieri coinvolti in attività illegali e devianti, si evince che gli elementi che hanno determinato un risultato positivo possono essere sinteticamente individuabili nell’adozione di un approccio laico, poco ideologico e adattabile alle situazioni. Non esiste, infatti, la “ricetta buona per tutti”. Risulta fondamentale tenere conto dell’età dei minori: sarà infatti diverso l’approccio da adoperare per i ragazzi adolescenti rispetto a quello da utilizzare con i bambini. Per gli adolescenti che vivono situazioni di “lavoro (quasi) in proprio” nell’illegalità o in circuiti devianti, risultano essere efficaci interventi di strada basati sulla filosofia della riduzione del danno e su un approccio diverso da quello di tipo genitoriale: “Credo che gli operatori delle comunità e di tutti gli altri servizi dovrebbero un po’ modificare sia le strategie che i metodi di lavoro. Io mi riferisco ai ragazzi rumeni perché lavoro con loro tutti i giorni. Non va bene che tutti noi cerchiamo fare le veci dei genitori mentre lui era andato via di casa… proprio per stare lontano dai genitori. E perché noi cerchiamo e continuiamo a sostituirci a loro? Secondo me, dobbiamo aiutarli ad imparare a diventare autonomi, perché è quello che vogliono. Vogliono essere autonomi, indipendenti, vogliono essere grandi. Allora, aiutiamoli a diventarlo in maniera sana, è inutile costringerli. Poi anche noi abbiamo avuto queste esigenze, quando ero al liceo e non vedevo l’ora di avere una casa mia, soldi miei, mi ero stufata di stare con mia mamma.” (int. 4, operatrice sociale, Torino) Per i bambini (e per i minori comunque meno autonomi nel loro progetto migratorio e nella loro attività) sono state sperimentate forme di accoglienza contenitiva in diverse città italiane (Torino, Roma, Firenze) che hanno lo scopo di ospitare il minore per un breve tempo prima di inviarlo ad altre strutture. L’approccio viene descritto in modo efficace da un’operatrice del Centro di contrasto alla mendicità del Comune di Roma: “Secondo la nostra esperienza c’è bisogno di un approccio misto che preveda, possiamo dire, il bastone e la carota. Durezza ma anche affetto nei loro confronti. Una struttura contenitiva sarebbe vissuta dai ragazzi come un carcere. Non sarebbe valida neanche una struttura nella quale l’approccio è solo affettivo. Soprattutto 268 all’inizio, se non si rendono conto che hanno subito uno sfruttamento, non si rendono conto nemmeno che stando qui entrano in contatto con delle persone che lavorano per loro. L’istinto iniziale è quello della fuga. La struttura deve essere contenitiva nella fase iniziale, altrimenti perdi la possibilità di lavorare. Se non li blocchi qui dentro per un giorno o più, la prima risposta che attivano è quella della fuga, nel qual caso li perderesti immediatamente. Se riesci a contenerli nei primissimi giorni e riesci a mettere in pratica quelle tecniche sperimentate che ti permettono di agganciarli e di creare una relazione, pian piano, sono loro stessi che si rendono disponibili al rapporto con te e questo ti facilita la possibilità di trovare delle soluzioni. Le storie sono, comunque, diverse e questo non è un centro di lunga permanenza, per cui inviamo il minore in un’altra struttura a seconda della sua situazione specifica. Qualunque risposta è individualizzata. Non si lavora mai per schemi preesistenti, ogni caso e ogni storia sono a se stanti e richiedono una risposta individuale.” (int. 3, operatrice sociale, Roma) Il principale aspetto qualificante di questi interventi, che li rende utili e non li accomuna a iniziative di segregazione dei minori, è individuabile nella capacità di combinare un approccio severo con una dimensione affettiva e familiare, che permette al minore di sentirsi sicuro, di deresponsabilizzarsi rispetto alle colpe che sente di avere verso i pari, la famiglia e gli sfruttatori e di perseguire gli obiettivi di tutela e di inserimento: “Devo dire che quelli piccolini di 13-14 anni, rom, di Piazza della Repubblica assomigliano più a ragazzi di strada un po’ sfasati, ‘schizzati’ (…) considera poi che capita, una volta finiti in carcere o in comunità, che ti dicano ‘voglio mamma’ proprio come i bambini piccoli e, magari, non sanno nemmeno dov’è la mamma, oppure, si fanno beccare apposta perché sono troppo stanchi, non ce la fanno più. In generale, il meccanismo è proprio la voglia, il desiderio di deresponsabilizzarsi rispetto a una eventuale scelta individuale, perché quella è punita, gli altri possono sapere che lui può aver scelto (…) si fanno beccare, fanno qualche cazzata, proprio perché così non hanno il problema di giustificare a nessuno, non è una loro scelta. E questo succede a livelli diversi. Può essere il ragazzino un po’ più esperto che va a finire con una macchina in un negozio per farsi prendere. Con quelli più piccoli (…) quello che accade di solito è che la prima volta che finiscono, quasi sempre, al Centro per il contrasto alla mendicità prendono accordi per essere arrestati da soli perché se vengono arrestati in due e uno rimane e l’altro scappa, quest’ultimo chiaramente racconta al gruppo di quello che è rimasto. Quindi, prendono accordi con gli operatori per farsi arrestare da soli e sparire proprio dalla circolazione, andando fuori Roma o in qualche comunità. Invece, quando sono magari un po’ più grandi usano un escamotage, consapevolmente o meno, che quasi sempre consiste nell’andare a sbattere con la macchina da qualche parte per farsi prendere, a un certo punto fanno capitare delle sviste talmente grosse e, dopo un po’, ti dicono ‘io non ce la facevo più’.” (int. 4, operatrice sociale, Roma) 269 Riuscire a non far sentire il minore in colpa in merito alla scelta di fuoriuscire dal circuito di sfruttamento, non farlo sentire un traditore rispetto ai suoi pari e alle aspettative della famiglia, sembra possibile attraverso l’utilizzo di strutture contenitive che, inizialmente, non permettano facilmente al minore la fuga. Il contenimento dei primi giorni consente di rompere con la quotidianità di vita – che era l’unico orizzonte conosciuto e ammissibile – e sembra essere la chiave per liberare i minori dei vincoli che li legavano al gruppo dei pari, agli sfruttatori e alle responsabilità verso la famiglia. Come ben espresso nella seguente intervista, il contenimento non funziona in quanto tale ma in quanto veicolo che permette al minore di riappropriarsi della sua dimensione di bambino: “Di solito, la maggior parte scappa e l’unico metodo che per ora funziona è quello di chiuderli a chiave, di essere abbastanza forti nei loro confronti. E poi gli fai percepire un benessere, lavori sul concetto del piacere, dello stare bene, del mangiare, del divertirsi, dell’avere una qualità di vita adeguata, questa è una molla molto forte, però, questo lo possono sperimentare dopo i primi giorni che sono rinchiusi. Per i piccoli è più difficile all’inizio. Pensa che ci hanno raccontato pure di ragazzini che hanno fatto un sacco di resistenze iniziali e, dopo un po’ di giorni, andavano a dormire con l’orsacchiotto… funziona. Funziona qualsiasi cosa che, secondo me, abbia due caratteristiche: la scelta di entrare nella comunità deve sembrare essere una decisione altrui e non del minore – sei tu che lo tieni dentro, non è lui che sceglie di starci –, perché tale situazione è più accettabile agli occhi dei pari, degli sfruttatori e delle famiglie (…) poi conta fargli percepire un benessere e un interesse attivo da parte di un adulto, quindi, garantirgli una presenza, una presa in carico adeguata e anche la protezione per chi è veramente sfruttato e trafficato, perché li cercano, vanno a riprenderli, c’è una rete forte.” (int. 4, operatrice sociale, Roma) “L’idea di fondo era di creare una comunità dove si potevano fermare. Chiaramente li fermi con la porta chiusa e le finestre con le inferriate. Tu li hai mai visti i piccoli rumeni e gli altri? Sono in pieno delirio, un po’ sono adolescenti, un po’ guadagnano una stangata di denari, valli a fermare! Tutta questa mitologia del minore sofferente sfruttato è vera, esiste anche questo aspetto, ma, a livello reale, comportamentale ed emozionale è tutta un'altra cosa. Loro sono in fase di pieno innamoramento, arrivano da paesi poveri, riescono ad avere un sacco di soldi; poi, c’è il mandato della famiglia per cui è difficile fermarli, era impossibile fermarli… allora, è nata l’idea di questa comunità, con cui abbiamo deciso di provare a fermarli e verificare cosa si riusciva a fare per loro e con loro, inclusa la possibilità del rimpatrio, ma solo nel caso ci fossero le condizioni adeguate per poterlo fare. Per rispondere a dei bisogni di protezione altissimi, ogni forma di violenza era bandita, però, c’erano delle regole da rispettare. C’erano delle figure professionali 270 molto particolari, mediatori madrelingua. Paradossalmente, anche il clima che si era creato era forte ma affettivo, per cui accudente, contenente e, quindi, non succedeva mai nulla. Di fatto, in quattro anni, ricordo pochissimi episodi violenti. Era un luogo dove c’erano delle regole, dove i piccoli non comandano sui più grandi.” (int. 8, operatore sociale, Torino) Non si tratta però di sancire il contenimento in una struttura chiusa come lo strumento efficace per i minori infraquattordicenni coinvolti in attività illegali, ma di imparare a leggere ed interpretare i fenomeni e a ragionare sulle risposte da attivare. Come ben descritto dalle interviste riportate, un intervento di parziale e temporanea limitazione della libertà di movimento è legittimo nel momento in cui se ne verifica l’efficacia e quando rappresenta un volano per percorsi positivi: “Quello che manca è una lettura vera, a tutti i livelli, di come funzionano i meccanismi di un circuito di sfruttamento come questo. In che modo si riesce ad inserirsi nei meccanismi individuali per stimolare un consenso, una adesione ad un intervento sociale? Allora, rispetto a questo, bisogna probabilmente essere anche abbastanza lucidi (…) una cosa è rinchiuderli per rimandarli in Romania, un’altra è rinchiuderli per capire il tipo di intervento da effettuare. Poi, c’è chiusura e chiusura. Nel senso che, alla chiusura di una porta, deve corrispondere un lavoro interno adeguato; il che non significa che devi fare la scuola Montessori – che magari non funziona per niente –, ma significa che quel posto deve essere dotato obbligatoriamente di alcuni requisiti. Se c’è solo la chiusura diventa un carcere. Quando li rinchiudi e vengono adoperate delle regole, i ragazzini sono ben contenti, non gli manca niente, sono semplicemente aiutati a ‘nutrirsi’ di certe cose che lì possono trovare. Certo se non trovano niente… tutto cambia.” (int. 4, operatrice sociale, Roma) “Questo è un discorso che abbiamo fatto a lungo con il Comune, per quanto riguarda l’utilizzo di Koinè (comunità chiusa di Torino, NdA). Tu devi proporre concretamente, mettere a disposizione un percorso di recupero, la comunità, eccetera, a persone che siano comunque convinte, nella cui testa è scattata questa decisione, perché se invece loro pensano solo a scappare, scappare… c’è poco da fare, alla fine, deve essere una scelta loro. Tu devi mettergli davanti la possibilità, l’opportunità di scegliere dicendogli che è un’alternativa alla micro-delinquenza, allo spaccio; che si tratta di una scelta che comporta sacrifici di studio, di lavoro ma che, alla fine, potrà consentire loro di vivere un’esistenza regolare in Italia, accettando le regole della comunità. E dicendo anche che tu lo aiuterai molto per questo obiettivo, per farlo studiare, trovargli un lavoro.” (int. 1, magistrato, Torino) 271 Fondamentale è poi riuscire ad intervenire sul bisogno dei minori di guadagnare del denaro per inviarlo a casa e/o per consegnarlo allo sfruttatore. I minori sembrano essere molto “orientati” al guadagno perché, durante le esperienze fatte nei circuiti illegali, vedono maneggiare molti soldi; sono anche molto “orientati” a inseguire modelli consumistici, in base ai quali possedere determinate cose equivale ad avere un certo ruolo. Diventa quindi fondamentale fare delle proposte concrete sul tema. Di fatto però, stante l’attuale situazione normativa tutti gli operatori e le operatrici intervistate hanno sottolineato che la maggior parte dei minori è impossibilitata a lavorare regolarmente e a guadagnarsi da vivere, se non a seguito di più o meno lunghi percorsi di formazione. Il rapporto con la famiglia, ove presente, è un altro elemento fondamentale da considerare per l’attuazione di una strategia di intervento efficace. Nei casi in cui la famiglia sia direttamente implicata nella vendita o nello sfruttamento del minore, è importante non condizionare il sentimento di fedeltà nutrito, nonostante tutto, dal minore verso i genitori: “S. si era ambientato subito nel centro e si trovava bene. Ogni tanto parlava di suo padre che gli mancava, ma non ha mai detto di voler tornare da lui. In realtà, sembrava abbastanza combattuto tra voler rimanere qui e tornare dal padre. Sembrava veramente che avesse dentro di sé un forte amore-odio verso il padre che lo aveva umiliato moltissimo, in vari modi, soprattutto ‘mettendogli un cartello al collo’.” (storia 10, minore rumeno rom, Roma) “All’inizio gli ho proposto questo patto che ha accettato: ‘noi non ti facciamo domande su tuo papà, perché non ti vogliamo mettere in imbarazzo. Parla del resto. A parte il fatto che tu hai la possibilità, dal punto di vista tecnico-giuridico, di non rispondere su tuo padre, ma sappi che tuo padre è detenuto e rimarrà in galera non perché tu parli, ma grazie alle prove che abbiamo raccolto.’ Alla fine il padre ha confessato. Non confesserà la riduzione in schiavitù, però, confesserà di averlo mandato a spacciare, di averlo controllato attraverso il telefonino, di aver raccolto i soldi, eccetera.” (int. 1, magistrato, Torino) In altri casi – come già più volte sottolineato –, anche se in condizioni di vita precarie, la famiglia è accudente e fondamentale per il minore, per cui non è in alcun modo pensabile recidere i legami familiari. Si legga, a tal proposito, la storia di due bambine rom a Roma che evidenzia come un intervento mirato e ben strutturato può ottenere risultati positivi: “È la storia di due sorelline, una di 12 e l’altra di 10 anni, venute qua per la prima volta un paio di anni fa perché chiedevano l’elemosina, se non sbaglio, a Porta Maggiore (…) loro stavano con i genitori, madre e padre. Parlavano benissimo dei 272 genitori. Ci hanno raccontato che erano venute in Italia da Craiova alla ricerca di una condizione di vita migliore… come tutti praticamente. (…) La seconda volta che sono venute, se non sbaglio, le abbiamo tenute tre o quattro giorni per dare un segnale alla famiglia, per ‘spaventarla’ e per far capire loro che ogni volta che vengono qua a riprendersi le figlie devono portare i documenti dell’intera famiglia. Poi, gli si spiega il tipo di intervento che è stato fatto, perché le figlie sono state portate qua. Si cerca di capire la situazione familiare. Diamo delle informazioni, gli diciamo che i minori non si possono buttare in strada a chiedere l’elemosina. (…) i genitori la prima volta hanno negato, la seconda no, però, ti dicono ‘noi dobbiamo mangiare’ oppure ‘ah, stavo proprio per tornare in Romania,’ ma sono palesemente delle scuse. (…) La contraddizione sta nel dirgli che le ragazzine non devono stare in strada ma a scuola e chiaramente, per queste famiglie così, il bisogno primario non è andare a scuola, ma è fare soldi per campare. (…) Le ragazzine non erano costrette nel modo in cui intendiamo noi, si vedeva che erano tranquille, che consideravano questa attività come normale, un collaborare al budget familiare (…) il rapporto familiare era buono, si volevano sicuramente bene. (…) In seguito, abbiamo saputo dal responsabile del Nucleo Anti-Emarginazione dei Vigili Urbani che, negli ultimi mesi, erano passate dall’elemosina al furto e che trascorrevano tutto il tempo a borseggiare. I Vigili Urbani ce le hanno portate al Centro e, a quel punto, erano diverse, si erano indurite nei modi di fare, erano diventate molto scontrose, quale conseguenza della vita di strada. Nei ragazzini che rivedi più volte si nota un progressivo indurimento nel corso del tempo; tornano sempre peggio, sempre più duri. Quando le ragazzine sono tornate da noi per la terza volta, le abbiamo portate in una struttura fuori Roma, dove sono rimaste dal 30 giugno del 2005 fino a marzo del 2006. Siamo andati più volte a trovarle e il lavoro poi è sempre quello di ricongiungerle alla famiglia. Quelle ragazzine erano diventate troppo dure. Se non avessimo fatto così, in realtà, quelle ragazzine avrebbero continuato. Poi c’è stato tutto il lavoro di mediazione con la famiglia per spiegargli cosa era successo e perché. I genitori erano molto arrabbiati, preoccupati, alternavano momenti di arrabbiatura e sconforto più totale… i genitori secondo me erano consapevoli che le ragazzine rubavano, anche se negavano (…) le ragazzine avevano cercato di scappare un paio di volte, noi siamo intervenuti per dire che non dovevano scappare. Dopo mesi di relazioni fatte in Tribunale per spiegare che i genitori si erano ravveduti, che le ragazzine volevano tornare a casa, che la famiglia era affettivamente adeguata, siamo riusciti a fare una cosa che raramente riesce, cioè, durante le vacanze di Natale le abbiamo fatte andare al campo dove hanno trascorso dieci giorni con la famiglia. Dopo sono state riportate in casa famiglia, da dove non sono scappate come di solito invece avviene. Fatica levargliele e fatica ridargliele. L’importante è fare un lavoro sulla famiglia.” (storia 8, minori rom, Roma) 273 4.12 Osservazioni conclusive La presente ricerca sui minori stranieri coinvolti in attività illegali e devianti ha permesso di individuare una realtà composita dove convivono la tratta dall’estero, la tratta interna, lo sfruttamento più o meno intenso e i percorsi irregolari autonomi di successo. Non sono però fenomeni separati in quanto sono state registrare delle significative interrelazioni. Ad esempio, un percorso migratorio su mandato familiare così come un percorso di migrazione autonoma possono avere come esito finale lo sfruttamento di un minore in attività illegali. Può inoltre risultare più semplice emanciparsi da un percorso iniziale di tratta che non dalle forme più o meno pesanti di sfruttamento. Inoltre, la ricerca ha messo in evidenza che le attività svolte (accattonaggio, prostituzione e attività illegali) si situano lungo un continuum dove i passaggi tra le une e le altre e la coesistenza di più attività sono consueti. Tale complessità rende molto difficile capire se si è di fronte a un fenomeno o a singoli episodi. Il modo in cui i mezzi di informazione trattano le notizie su presunti fenomeni di tratta o di sfruttamento di minori stranieri in attività devianti ed illegali è un chiaro esempio della confusione tra fenomeno ed episodio, oltre che di cattiva informazione (ma questo meriterebbe un’indagine a sé stante). Di fronte al quadro complesso delineato, le principali conclusioni a cui si è giunti e che sono qui sotto riportate possono anche contribuire ad elaborare nuove strategie politiche di intervento nei paesi di emigrazione: y partenza dal paese di origine: è certamente impensabile bloccare le partenze ma è possibile investire maggiormente nel settore della cooperazione allo sviluppo cercando di ridurre i fattori di spinta ad emigrare e attivando azioni di informazione e di sensibilizzazione rivolte alle famiglie e ai minori; y interventi nei luoghi di partenza: sarebbe di fondamentale importanza realizzare interventi nei territori e nei porti di partenza (in Marocco, Mauritania, Senegal, più difficilmente in Libia per evidenti difficoltà di natura politica, e in tutta l’Europa dell’Est per la difficoltà di individuare dei luoghi circoscritti di partenza) a fini informativi e per intercettare i minori in partenza; y controlli e procedure di identificazione alle frontiere: l’utilizzo della procura per permettere l’ingresso dei minori soli dalla Romania richiede una riflessione sul tipo di controlli che è possibile rafforzare alla frontiera. Anche se la procura è un documento valido e legale ciò non esclude di effettuare controlli rispetto al numero di procure e al numero di viaggi con minori che vengono effettuati dagli adulti dalla Romania all’Italia. Si potrebbe così far emergere se ci sono persone che numerose volte intraprendono questi viaggi e con quanti minori. Altrettanto utile sarebbe segnalare alle altre polizie di frontiera l’ingresso di un adulto in situazione sospetta. 274 y y y Occorre ovviamente verificare se il livello di informatizzazione e di intelligence permette un’efficace comunicazione tra polizie di Stati diversi. Dove viene segnalato l’uso di passaporti materialmente veri ma ideologicamente falsi, in cui i minori sono indicati come figli delle persone adulte che li portano in Europa, sarebbe utile l’utilizzo di procedure di identificazione anagrafica, quali, ad esempio, i controlli del Dna; arrivo in Italia: il primo approccio con i minori stranieri è di fondamentale importanza. Se, come emerge dalla ricerca, in molti casi non si ha a che fare con bambini e adolescenti già autori di reato in patria e/o con vittime di tratta, ma con minori che incontrano l’illegalità in Italia, occorre intervenire sul momento di contatto con l’illegalità o prima di esso. Intervenire al momento dell’arrivo ed evitare gli spostamenti sul territorio nazionale al di fuori del sistema di accoglienza e di protezione è possibile e con facilità, ad esempio, con i minori sbarcati ed intercettati a Lampedusa. Migliorare l’accoglienza, le procedure di identificazione anagrafica dopo lo smistamento dall’isola e l’arrivo in provincia di Agrigento è un risultato a portata di mano; sistema di accoglienza e di intervento nei luoghi di arrivo e nel resto di Italia: sono certamente possibili dei sostanziali miglioramenti. La riflessione in questo caso è complessa e richiederebbe un lavoro ad hoc. Come prevenire il contatto dei minori con i mercati illegali, migliorare l’aggancio, offrire la giusta opportunità a ciascun minore sono temi che meritano una continua riflessione. Quanto brevemente delineato nelle pagine precedenti rispetto alle modalità di aggancio e alle strategie di intervento (capacità di muoversi in strada, accoglienza e progetti di integrazione modellati sui bisogni dei minori e in considerazione delle differenze di età, instaurazione di legami di fiducia, etc.) rappresenta un primo passo; necessità di intervenire negli istituti penali minorili: diversi minori coinvolti nelle attività illegali hanno avuto esperienze di detenzione e proprio il carcere può rappresentare un luogo importante di identificazione delle vittime di tratta e di grave sfruttamento. A questo proposito una corretta informazione sulle possibilità di utilizzo della previsione dell’art. 18, comma 6, del Testo Unico sull’immigrazione19 potrebbe rappresentare un punto di svolta nelle politiche di intervento verso i minori coinvolti in attività illegali; ruolo giocato dalle famiglie: fondamentale. In diversi casi, sono le famiglie a dare mandato ai figli o a “venderli” o “affittarli”. Nel caso di migrazione familiare, è la famiglia spesso ad indurre o addirittura a costringere i minori a compiere attività illegali o devianti. Pare quindi fondamentale 19 Si tratta di un istituto a cui possono accedere tutte le persone straniere e comunitarie che scontano una pena per aver commesso un reato durante la minore età, anche se nel frattempo sono divenute maggiorenni. Prevede la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno avente la stessa natura e le stesse prerogative di quello di cui all’art. 18, T.U. Imm. 275 y che i servizi sociali italiani includano nelle loro prassi lavorative interventi di sensibilizzazione rivolti alla famiglia specificatamente sulla partenza del figlio, sui suoi diritti e sulle aspettative che la famiglia stessa nutre nei suoi confronti. Lavorare con le famiglie nei paesi di origine, spiegando quali sono le condizioni di vita e lavoro in Italia potrebbe contribuire ad evitare nuove partenze oltre che a favorire un re-incontro del minore con i suoi familiari. Con le famiglie presenti in Italia è sicuramente necessario lasciare aperto il canale del dialogo, non farsi influenzare dagli stereotipi e dare risposte individualizzate adeguate, evitando i “provvedimenti fotocopia”. Se ritenuta inadeguata, grazie agli strumenti giuridici esistenti, è possibile allontanare la famiglia dal minore. È però importante che le forme di allontanamento stabilite dalla legge non pongano fine alla relazione con i figli e lascino aperta la porta ad un successivo rientro in famiglia. L’adozione di interventi che hanno minato la fiducia del minore verso i genitori si è rivelato, in molti casi, del tutto inadeguato. Questo tipo di lavoro richiede personale specializzato, capace di stare sul campo e in “mezzo alle cose”, in grado di capire le persone che ha di fronte; azione giudiziaria: i testimoni privilegiati delle forze dell’ordine e dell’amministrazione della giustizia hanno sempre distinto il proprio angolo visuale – di solito relativamente ad indagini importanti di tratta di minori a scopo di sfruttamento o di riduzione in schiavitù in Italia – dall’affermare che esiste un fenomeno strutturato. È certamente difficile dire se e quale debba essere la risposta giudiziaria di fronte al quadro variegato emerso durante la realizzazione della ricerca. In molti casi, si è di fronte a fenomeni sociali o a storie individuali che nulla hanno a che vedere con la tratta ma dove la tratta sembra utilizzata come un artificio retorico, quasi a negare, da un lato, l’autonomia decisionale del minore e, dall’altro, l’esistenza di una gamma di “situazioni pericolose” in cui si trovano coinvolti i minori che hanno a che fare con l’inadeguatezza delle politiche migratorie e delle politiche di integrazione riguardanti i minori stranieri. Ci sembra si possa solamente sottolineare che siamo di fronte a casi in cui, non potendo cambiare la legislazione, gli operatori e le operatrici sul campo sono tenuti ad agire, avviando pratiche di intervento sociali innovative anche se rischiose, così cercando di evitare l’ipertrofico intervento del diritto. 276 Bibliografia Beccucci S., Criminalità multietnica. I mercati illegali in Italia, Laterza, Bari, 2006. Belotti V., R. Maurizio, A.C. Moro, Minori stranieri in carcere, Guerini e associati, Milano, 2006. 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(a cura di), “La tratta e lo sfruttamento della prostituzione di minori e giovani donne nigeriane in Italia”, in United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute, Trafficking of Nigerian Girls to Italy. Il traffico delle ragazze nigeriane in Italia, Industria Grafica ed Editoriale, Torino, 2004. –, “Illegalità, diritto penale e sanzione nella cultura dei minori maghrebini immigrati”, in A. Balloni, G. Mosconi, F. Prina (a cura di), Cultura giuridica e attori della giustizia penale, Franco Angeli, Milano, 2004. –, “La prostituzione minorile”, in Istituto degli Innocenti – Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Uscire dal silenzio. Lo stato di attuazione della legge 269/98, Questioni e documenti, n. 27, gennaio 2003. –, Devianza e politiche di controllo. Scenari e tendenze nelle società contemporanee, Carocci, Roma, 2003. Sbraccia A., C. Scivoletto, Minori migranti: diritti e devianza. Ricerche sociogiuridiche sui minori non accompagnati, L’Harmattan Italia, Torino, 2004. 277 5. Il commercio dei corpi: la tratta a scopo di espianto di organi di Giovanni Alteri 5.1 Il sistema di raccolta dei dati e la difficoltà nel dimensionare il fenomeno Il traffico di organi per trapianti illegali è una forma particolare di tratta che rientra nella più ampia casistica della tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento e/o alla riduzione in schiavitù o in servitù. Perché si possa parlare di tratta a scopo di espianto di organi il reclutamento e il trasporto dei “donatori” devono avvenire tramite l’impiego o la minaccia della forza o di altre forme di coercizione, di abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità. La complessità del fenomeno e le scarse evidenze empiriche di fenomeni criminali legati alla tratta di persone realizzata al fine di commerciare parti del corpo umano, non hanno permesso finora di provare l’esistenza in Italia di questa forma particolare di tratta. Le informazioni disponibili sull’argomento sono soprattutto di fonte giornalistica e, sebbene siano utili a dimensionare il fenomeno e ad inquadrarlo nella sua complessità, non possono essere considerate prove certe poiché non confermate da analoghe inchieste della magistratura inquirente. Anche la produzione saggistica sul tema è piuttosto scarsa, con l’eccezione dei lavori di antropologia medica. Nei paesi dell’Occidente industrializzato e sviluppato parlare di tratta a scopo di espianto di organi rimanda ancora a strane storie di ambulanze nere che rapiscono bambini, riti satanici che prevedono l’uso di organi umani o leggende metropolitane come quella del rene rubato, in cui un giovane viene avvicinato in discoteca da una piacente ragazza per poi risvegliarsi in una vasca da bagno piena di ghiaccio con un biglietto affianco che dice: “ti è stato asportato un rene, vai subito all’ospedale”. Questi aspetti folkloristici legati al traffico di organi sono fuorvianti rispetto alla reale situazione: il principale pericolo che si corre quando ci si avvicina a questa scottante questione è proprio quello di considerarlo alla stregua di una leggenda metropolitana o di valutarlo un elemento il cui peso specifico è significativo solo in realtà molto lontane nel tempo e nello spazio. Ovviamen278 te non è così; il traffico di organi è un mercato secondario solo nel senso che non ha ancora guadagnato l’attenzione dei principali organi di informazione1. Al contrario, a causa della difformità tra le diverse normative nazionali ed internazionali sta sicuramente guadagnando terreno all’interno delle attività criminali di contrabbando. D’altra parte la legge della domanda e dell’offerta rende questi prodotti altamente remunerativi per le organizzazioni criminali capaci di gestirne il traffico a livello internazionale. Se non è stato possibile finora avere prove certe dell’esistenza del fenomeno di tratta di esseri umani a scopo di espianto di organi, è invece ormai provata con certezza l’esistenza di un commercio internazionale di organi e di tessuti, sia in forma di compravendita di organi tra adulti consenzienti, sia in forma di viaggi della speranza di benestanti occidentali che si recano nei paesi meno sviluppati per ricevere un trapianto illegale. Il flusso dunque è principalmente inverso rispetto a quello seguito durante le normali rotte migratorie. Il traffico maggiore riguarda il rene perché più facile da espiantare e conservare e perché il donatore può continuare a vivere. Diverse segnalazioni giungono da tutto il mondo e ci sono addirittura immagini filmate dalla Rai in Moldavia in cui alcuni dei donatori raccontano come funziona il mercato degli organi in questo paese, mostrando anche le cicatrici in corrispondenza dei reni2. L’altro pericolo che si corre, infatti, oltre a quello di considerare il traffico di organi una sorta di leggenda metropolitana, è quello di confondere i numerosi aspetti delle diverse forme di sfruttamento legate alla tratta di esseri umani (tra cui la tratta a scopo di espianto di organi) con la compravendita di organi. Bisogna quindi distinguere in maniera netta tra commercio illegale di organi e tratta a scopo di espianto di organi: - nel commercio illegale di organi avviene una compravendita illegale di organi, prelevati da vivente o da cadavere e destinati a diversi scopi (trapianti, riti religiosi a sfondo satanico); - nella tratta a scopo di espianto di organi, il reclutamento e il trasporto delle persone di cui vengono utilizzati gli organi avviene tramite l’impiego o la minaccia della forza o di altre forme di costrizione. Il fenomeno rientra dunque nella più ampia casistica della tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento e/o alla riduzione in schiavitù o in servitù. All’interno del fenomeno della compravendita di organi è necessaria una ulteriore suddivisione tra: - organi espiantati da vivente; - organi e tessuti espiantati da cadavere, soprattutto cornee e ossa. 1 M. Naím, Illecito. Il traffico clandestino degli organi per i trapianti nel mondo, Mondadori, Milano, 2006. 2 C. Bertani, Ladri di organi. Comw trafficanti, falsari e mafie internazionali stanno prendendo il controllo dell’economia globale, malatempora, Roma, 2005. 279 Nel primo caso, a seconda del livello di volontarietà e di consapevolezza dei “donatori”, è inoltre possibile distinguere tra: - espianti effettuati da vivente consenziente, di gran lunga la maggior parte dei casi; - donazioni forzate da vivente, accertate solo in rarissimi casi. Il fenomeno della tratta può invece essere suddiviso a seconda del percorso di viaggio del donatore dell’organo tra: - tratta verso paesi ricchi industrializzati, la forma più rara e meno dimostrabile; - tratta all’interno di un singolo paese in via di sviluppo; - tratta verso paesi terzi, dove avvengono le operazioni di espianto e trapianto (ad esempio, cittadini moldovi che si recano in Turchia per l’operazione di trapianto del rene a favore di sudafricani, israeliani ed europei). Il mercato degli organi, sia che si parli di sola compravendita che di tratta a scopo di espianto, è in continua espansione e ha registrato una forte crescita negli ultimi anni per la scoperta di alcune importanti innovazioni scientifiche e per la diffusione di tecniche chirurgiche, farmaci (in particolare le ciclosporine per evitare i rigetti) e attrezzature necessarie per i trapianti. Nei paesi del terzo mondo sembra inoltre possibile riscontrare una connessione tra il progressivo spostamento dei trapianti nel settore privato e l’aumento della commercializzazione degli organi. Del resto, nel giro di poche decadi il trapianto è diventato un’operazione con rischi contenuti. Un successo che ha fatto impennare il mercato legale della domanda: nel 2005, negli Stati Uniti, più di 16 mila reni sono stati trapiantati, facendo registrare un aumento del 45% rispetto ai 10 anni precedenti. in questo stesso periodo il numero delle persone in lista per un trapianto di rene è salita. del 119% mentre oltre 3.500 persone sono morte nell’attesa. In Europa occidentale sono circa 40.000 i pazienti che aspettano un trapianto e si stima che dal 15 al 30 per cento moriranno nell’attesa, che è in media di circa tre anni, ma si prevede che per il 2010 si arriverà ai 10 anni. In Italia le liste d’attesa a fine novembre 2006 stimavano circa 10.000 pazienti3. La scarsità globale di organi disponibili (anche se alcuni antropologi medici sostengono che la vera scarsità non è di organi, ma di pazienti in attesa di trapianti con mezzi sufficienti per pagarli, e rileva come il discorso sulla scarsità nasconda una sovrapproduzione di organi in eccesso che quotidianamente finiscono sprecati nei bidoni della spazzatura degli ospedali di paesi in cui l’infrastruttura dei trapianti è limitata) ha favorito un trasferimento di corpi malati in una direzione e di organi sani in quella opposta. Il flusso, infatti, segue di solito le moderne rotte del capitale, da sud a nord, dal Terzo al Primo mondo, dai poveri ai ricchi4. 3 4 Dati Sistema Informativo Trapianti del Centro Nazionale Trapianti. N. Scheper-Hughes, Il traffico di organi nel mercato globale, Ombre Corte, Verona, 2001. 280 5.2 Le aree geografiche coinvolte Il traffico di organi, sia come fenomeno sociale che come fattispecie di reato, si configura in maniera diversa a seconda del percorso seguito dall’organo venduto piuttosto che dal venditore o dal compratore. Nel presente caso di studio è stato deciso di occuparsi solo del traffico di organi a scopo di trapianto poiché le altre fattispecie di reato (traffico di organi per riti religiosi o satanici) sono minoritarie e non risultano adeguatamente dimostrabili. Gli organi destinati a trapianti possono essere acquistati, venduti e trapiantati in luoghi diversi da persone diverse, direttamente o attraverso un mediatore. Sono possibili almeno tre situazioni tipo diverse: - organi comprati, venduti e trapiantati nel paese del donatore (ad esempio, pazienti europei o americani che viaggiano per ricevere un trapianto in India o in Cina); - organi trapiantati nel paese del ricevente (ad esempio, ricchi asiatici residenti a Hong Kong o a Taiwan che acquistano e importano gli organi dei condannati a morte in Cina); - organi trapiantati in un paese terzo, scelto per la sua legislazione tollerante e per la presenza di medici compiacenti (ad esempio, pazienti europei che si recano in Turchia o in Sudafrica, tutti luoghi dove esistono ottime cliniche private specializzate). 5.3 Il sistema italiano delle donazioni e dei trapianti In Italia gli organi vengono prelevati solo da un paziente di cui sia stata accertata la morte cerebrale. Secondo le modalità di legge, per l’accertamento una Commissione di tre specialisti (un esperto in neurofisiologia, un rianimatore e un medico legale) monitora le condizioni cliniche per un periodo di tempo definito dalla legge e può stabilire lo stato di morte soltanto se, oltre alla constatazione clinica del decesso, si presentano contemporaneamente tutte queste condizioni: - stato di incoscienza; - verifica del danno cerebrale, tramite Tac e risonanza magnetica nucleare; - assenza di riflessi del tronco cerebrale; - assenza di respiro spontaneo; - assenza di attività elettrica celebrale, verificata tramite elettroencefalogramma; - assenza dell’irrorazione di sangue al cervello (nei casi in cui non sia possibile verificare i riflessi del tronco cerebrale o effettuare l’elettroencefalogramma). Il tempo di accertamento dell’assenza di condizioni vitali nell’encefalo è 281 stato, con successive modifiche alla legge, portato a 12 ore e poi alle 6 ore attuali. In alternativa, si procede all’espianto dopo 20 minuti di assenza del battito cardiaco. La morte cerebrale non va confusa con lo stato vegetativo, che comporta soltanto la prima di queste condizioni, ovvero la perdita di coscienza, ma conserva le funzioni vegetative del cervello (ossigenazione, battito cardiaco e mantenimento della temperatura corporea): nel caso di morte cerebrale il cervello è profondamente danneggiato e tutte le sue funzioni sono compromesse; di conseguenza l’ossigenazione, la circolazione sanguigna e il mantenimento della temperatura corporea sono possibili soltanto con l’ausilio delle macchine e per un tempo limitato (non più di 48 ore). Una volta accertata la morte cerebrale, può essere effettuato il prelievo degli organi mentre la ventilazione e l’irrorazione sanguigna degli organi viene artificialmente mantenuta dalle macchine; in seguito, il corpo del donatore viene staccato dal respiratore artificiale e dallo stimolatore del battito cardiaco (cosa che una volta accertata la morte avviene comunque, indipendentemente dal fatto che il paziente sia un donatore o meno). Gli organi vengono raffreddati e posti nelle condizioni ottimali per il trasporto e successivo impianto nel ricevente. La durata dell’organo in tali condizioni è comunque limitata a tempi brevi. In Italia il trapianto è regolato dalla legge n. 91 del 1 aprile 1999 e da un Decreto del Ministero della Sanità dell’8 aprile 2000. Esso prevede una lista d’attesa nazionale dei trapianti e la regola del silenzio-assenso sulla donazione; diversamente da normative di altre nazioni non fa menzione del testamento biologico. Ai fini del silenzio-assenso l’iscrizione ad un’associazione di donatori costituisce una prova della volontà di donare gli organi; nel caso in cui un parente presenti una dichiarazione autografa in cui il proprio caro manifesta una volontà contraria alla donazione, la donazione può essere oggetto di un divieto dell’autorità amministrativa. Come già segnalato in precedenza, le liste d’attesa a fine novembre 2006 stimavano circa 10.000 pazienti5, i donatori sono cresciuti dai 329 del 1992 ai 1.234 del 2006, mentre il totale dei trapianti effettuati – inclusi i trapianti combinati – si attesta sui 3.1676. 5 6 Dati Sistema Informativo Trapianti. Dati Reports Cir – Centro Interregionale Trapianti. 282 Totale Trapianti effettuati in Italia- Anni 1992-2006* 3500 3.2173.1773.167 3000 2.686 2.756 2.4282.3862.627 2500 2.1472.162 1.8881.977 1.498 2000 1500 1000 1.0831.161 500 0 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006* Fonte dati: Dati Reports Cir – Centro Interregionale Trapianti * Dati preliminari al 30/11/2006 L’Aido (Associazione Italiana per la Donazione di Organi) che raccoglie tutti i donatori potenziali che accettano volontariamente di donare i propri organi, tessuti e cellule in caso di morte e il Cnt (Centro Nazionale Trapianti), istituito dall’Istituto Superiore di Sanità in seguito all’approvazione della legge sui trapianti del 1999, negano decisamente l’esistenza del fenomeno del commercio illecito di organi in Italia, ed effettivamente i controlli previsti dal sistema italiano delle donazioni e dei trapianti parrebbero impedire l’inserimento di un organo di provenienza illecita nei centri trapianti della sanità pubblica. Secondo queste associazioni, infatti, la presenza della Commissione terza per gli accertamenti della certificazione di morte del potenziale donatore e la tracciabilità degli organi dal momento dell’espianto fino al follow up del paziente nei mesi successivi al trapianto sono garanzie sufficienti ad impedire intromissioni di organi di provenienza sospetta nel circuito legale dei trapianti. Il quadro potrebbe invece essere diverso nel caso in cui si ipotizzi l’esistenza (mai provata) di un percorso clandestino svolto in centri privati, non ufficiali, molto attrezzati e totalmente sconosciuti al Sistema Sanitario Nazionale. Per non destare sospetti il paziente dovrebbe svolgere tutto l’iter per il trapianto in forma illegale e clandestina, senza nemmeno iscriversi nelle liste d’attesa ufficiali, né andare in un centro dialisi della sanità pubblica. Un’organizzazione in grado di provvedere a tutto ciò dovrebbe essere molto strutturata ed organizzata anche a livello internazionale, ma in Italia certamente non mancano organizzazioni criminali capaci di pianificare tutti i passaggi di questo mercato clandestino. 283 5.4 La legislazione internazionale e italiana sul traffico di organi La vendita di organi è internazionalmente vietata: la Carta di Nizza, all’art. 3 recita: “Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere rispettati (…) il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro.” La convenzione Onu per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano con riguardo all’applicazione della biologia e della medicina del 1997 stabilisce nel capitolo VII il “Divieto di lucro e uso di una parte del corpo umano”. Nonostante ciò, il commercio di organi è parzialmente consentito in alcune legislazioni di paesi in via di sviluppo. In Israele, ad esempio, è illegale comprare e vendere parti del corpo, ma il governo non persegue penalmente chi compie questa pratica all’estero. Per i candidati al trapianto che non vogliono più aspettare c’è un’interessante scappatoia: il sistema sanitario nazionale copre parte dei costi dei trapianti effettuati all’estero, incentivando così molti pazienti a uscire da Israele. Infatti, a causa di persistenti dubbi tra gli ebrei ortodossi sulla natura tecnica della morte cerebrale, in Israele i tassi di donazione da cadavere sono ancora molto bassi e le liste d’attesa per il trapianto molto lunghe. Anche i trapianti da parenti vivi sono rari e quelli da donatori esterni al nucleo famigliare sono sottoposti a un monitoraggio attento per garantire che non vi siano compensi economici né coercizione. In Cina i corpi dei condannati a morte, se non sono reclamati dalla famiglia, diventano proprietà dello Stato e possono essere sottoposti ad espianto anche in mancanza di un’autorizzazione. Le confessioni di alcuni medici, rifugiati politici in Europa o negli Stati Uniti, sono confermate dai documenti ufficiali cinesi. Dal 1984 una circolare ufficiale del governo centrale intitolata “Regole concernenti l’utilizzazione del cadavere o degli organi dei condannati a morte” disciplina la materia. Spesso risulta che le autorità esercitino forti pressioni per indurre il condannato o i familiari a concedere il benestare in cambio di piccoli contributi economici. Ultimamente il governo ha ammesso che in Cina c’è un traffico illegale di organi umani per i trapianti, ma ha negato la partecipazione di funzionari pubblici e ha sostenuto la responsabilità personale dei chirurghi responsabili dei trapianti e dettato un codice di condotta. Il governo centrale ha dunque approvato una serie di nuove procedure per l’uso ed il trasporto di corpi e di organi umani tese ad impedire il loro commercio illegale: le nuove norme sono entrate in vigore dal primo agosto 2006 nel tentativo del governo di fermare il traffico illegale di organi nel paese, che oramai ha assunto le proporzioni di una fiorente industria. In India fino al 1994 non esisteva nessuna legge sulla compravendita di organi. La legge del 1994 non proibisce il commercio degli organi, ma tenta di regolarlo. 284 Con la nuova legge è concesso donare un organo non solo ad un consanguineo, come prevedono le leggi di molte nazioni, ma a chiunque “in particolari casi, ed in presenza di legami fra il donatore ed il ricettore dell’organo.” Inoltre lo stato del Karnataka, nella parte centrale della federazione indiana, non ha né recepito né approvato la legge che ancora manca di ratifica. L’Iran è l’unico paese che ha introdotto un sistema legale di compravendita e di trapianto degli organi. L’antropologa medica Scheper-Hughes di Organ’s Watch sostiene che “in Iran la compravendita di reni è legale da 10 anni ma rimane ancora il problema di chi vende. Usano gli stessi metodi dei cacciatori di reni anche se li chiamano assistenti sociali. Vanno negli uffici di collocamento, nelle carceri, ai margini della società e cercano di convincere le persone che quello è un modo per sfuggire alla miseria. Il governo iraniano promette circa 1.000 dollari a chi dona un rene e di sicuro hanno cancellato tutte le liste d’attesa. In Iran chi ha bisogno di un rene lo ottiene e questo è un traguardo. Peccato che venga ottenuto a spese delle classi più povere della società7.” Nell’ordinamento italiano il traffico di organi è un’aggravante prevista dalla l. n. 228 dell’11 agosto 2003 “Misure contro la tratta di persone”, laddove si prevede l’aumento della pena da un terzo alla metà se la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in servitù è esercitata “al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi.” Tuttavia, l’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione sulla Bioetica del Consiglio d’Europa firmata ad Oviedo nel 1997 che prevedeva il divieto di lucro e uso di una parte del corpo umano (artt. 21-22). 5.5 Le forme di reclutamento e la partenza dal paese di origine I primi segnali dell’esistenza di un commercio internazionale di organi risalgono al 1981, quando il quotidiano brasiliano Diario de Pernambuco pubblicò un’inserzione allarmante: “Sono disposto a vendere qualsiasi organo del mio corpo non indispensabile alla mia sopravvivenza e che possa salvare la vita ad un’altra persona, in cambio di una cifra di denaro tale da consentirmi di mantenere la mia famiglia.” L’autore dell’inserzione, Miguel Correia de Oliveira, 30 anni sposato, padre di due bimbi piccoli, rintracciato da un giornalista brasiliano ha dichiarato: “Farei esattamente quello che ho detto, e non sono pentito della mia offerta.” Le prime evidenze sono del 1983, quando un medico statunitense, H. Barry Jacobs, fondò l’International Kidney Exchange nel tentativo di procurarsi reni da donatori viventi in India. Il primo caso accertato risale invece al 1987, 7 A. Lawless, Sfatare il mito: cosa si cela dietro il traffico di organi, in www.threemonkeysonline.com/it/article3.php?id=84 285 quando in Guatemala furono trovati 30 bambini destinati alla vendita di organi per ricchi clienti occidentali. Attualmente si può considerare dimostrata l’esistenza di una compravendita di reni tra adulti consenzienti, anche se è un consenso che fa leva sulla povertà. Durante i lavori del Parlamento europeo di Strasburgo è emerso che ogni anno sono almeno un migliaio gli europei che viaggiano verso i paesi in via di sviluppo per trapianti illegali, in larga parte eseguiti da donatori viventi; le mete principali sono il Brasile, l’India, il Pakistan, la Turchia, l’Egitto e le ex repubbliche sovietiche (Moldova); normalmente gli organi non vengono esportati da questi paesi e l’operazione avviene in ospedali o cliniche locali. Un’eccezione è rappresentata dallo stato di Israele, da cui partono delle équipe che vanno a comprare gli organi in Turchia e li portano nelle loro cliniche private. Esistono inoltre dei medical tour operators che offrono pacchetti di viaggio tutto compreso. Ad esempio, a Tel Aviv un’organizzazione ha sviluppato collegamenti con chirurghi dei trapianti in Turchia, Russia, Moldova, Estonia, Georgia e Romania. Il pacchetto (dal costo compreso tra i 100 e i 180.000 dollari) comprende l’affitto di un aereo privato, la doppia operazione, il compenso al donatore, le commesse pagate ai funzionari della dogana e dell’aeroporto, l’affitto della sala operatoria e l’accoglienza in albergo per gli accompagnatori8. Perché invece si possa parlare del fenomeno della tratta di esseri umani a scopo di espianto di organi è necessario che il donatore venga fatto spostare, dalle organizzazioni che controllano questo mercato, nel paese dove avverrà il trapianto, tramite l’impiego o la minaccia della forza o di altre forme di costrizione. Questa branca del traffico internazionale di organi è strettamente legata alla tratta degli esseri umani ed alle moderne forme di schiavitù e servitù, e si alimenta sempre dalla condizione di bisogno economico e dallo squilibrio dei diversi livelli economici e culturali esistenti tra venditore ed acquirente. Ad esempio, i venditori di reni in India sono spesso soggetti intrappolati in un circolo vizioso di debiti che ricorda la servitù della gleba, tanto che, secondo L. Cohen, antropologo di Organ’s Watch, un osservatorio sulle violazioni dei diritti umani nella raccolta degli organi per i trapianti, creato insieme alla collega Scheper-Hughes, autrice di numerose pubblicazioni scientifiche sull’argomento, il commercio di reni è solo un altro anello del sistema di servitù del debito. Sembra plausibile che le rotte utilizzate dai trafficanti di organi siano le stesse battute per la tratta di esseri umani, in special modo quella finalizzata alla riduzione in schiavitù e alla prostituzione minorile. L’esempio più evidente di tratta di esseri umani allo scopo di espianto di organi, all’interno del territorio europeo, è quello dei cittadini moldavi che si 8 M. D’Eramo, “I broker globali del corpo parcellizzato”, in il manifesto, 30 ottobre 2001. 286 recano in alcune cliniche private della Turchia per sottoporsi ad espianto. Anche se i venditori sono consenzienti possiamo considerare questa una forma di tratta di esseri umani innanzitutto perché la contrattazione avviene tramite un’organizzazione criminale che dispone di mediatori che si recano in Moldova e poi perché la situazione di grande bisogno vissuta dai cittadini della Moldova (il paese più povero dell’ex Unione Sovietica con un tasso di disoccupazione del 15% e un salario medio mensile di trenta dollari) si configura come una condizione di forte vulnerabilità per il venditore. Marina Jiménez, giornalista del quotidiano canadese National Post, candidata al National Newspapers Award per i suoi reportage sul commercio di organi, ha raccolto prove da diverse fonti (Interpol, polizia turca e moldova) che confermano il controllo di questo mercato da parte di una mafia transnazionale. Secondo la giornalista, dal 1998 i trafficanti moldavi hanno fatto arrivare a Istanbul circa trecento moldavi. Dopo essere stati ospitati in albergo in attesa dell’acquirente subiscono l’intervento e firmano una liberatoria in cui dichiarano di non essere stati costretti né pagati per donare i loro organi. Tra il 1998 e il 2001 la polizia ha compiuto tre irruzioni in tre diverse cliniche di Istanbul: ogni volta sul posto sono stati trovati pazienti israeliani e venditori moldavi. Ultimamente sembra che la ricerca di organi si sia allargata a Romania, Bulgaria, Bielorussia e Ucraina. In tutti questi casi i donatori sono consenzienti, ma sono noti anche casi di donazioni forzate, o comunque non consensuali. Le evidenze di questa pratica sono limitate a sporadici casi, soprattutto a carico di minori soli che vivono per strada (i meninos de rua) in Brasile o in Mozambico (a Nampula, dal 2002, si sono moltiplicate le sparizioni di minori e i ritrovamenti di corpi mutilati e privati di organi interni). Una parte ancora più marginale del fenomeno è rappresentata da quei donatori convinti ad emigrare con la prospettiva di un buon lavoro nel paese di immigrazione, ma che una volta giunti a destinazione scoprono di essere costretti a pagare il viaggio con un espianto di un organo (solitamente un rene). Tuttavia, in molte realtà il prezzo da pagare per un espianto è talmente basso che conviene trattare la compravendita ed ottenere anche una certificazione di donazione volontaria. Per quanto riguarda invece gli organi e i tessuti prelevati da cadavere, sembra ormai accertata l’esistenza di un vasto mercato internazionale che coinvolge anche strutture universitarie ed ospedaliere di paesi sviluppati. È recente la notizia della scoperta di una rete transnazionale che dagli Stati Uniti vendeva ossa, tessuti e altri organi espiantandoli da cadaveri depositati presso agenzie di pompe funebri: le ossa dei cadaveri, ad esempio, venivano espiantate e sostituite con tubi di plastica. Ma non c’è bisogno di attraversare l’oceano per imbattersi in casi come questi: nella recente inchiesta di Fabrizio Gatti 287 sull’Espresso9, il direttore del Policlinico universitario conferma la scoperta di espianti clandestini di cornee, probabilmente a scopo di trapianti. 5.6 Gli sfruttatori e l’organizzazione dello sfruttamento Numerose inchieste giornalistiche ed alcune indagini della magistratura hanno contribuito a provare l’esistenza di diverse reti transnazionali operanti nel campo del traffico di organi. Il mercato degli organi, così come quello della tratta di esseri umani, è caratterizzato da un livello di segmentazione delle organizzazioni criminali, di specializzazione delle risorse umane e strumentali e di flessibilità nelle modalità di azione, proporzionale ai vari ostacoli che si possono presentare nell’esercizio del traffico. Si tratta di reti molto complesse con una rigida divisione del lavoro al loro interno: una di queste reti, individuata e bloccata nel 2003, agiva da Recife a Tel Aviv, offrendo operazioni in uno dei migliori ospedali sudafricani. I paesi cardine dei trapianti illeciti da donatore vivente sono quelli che possono combinare strutture ospedaliere di ottima qualità con scarsi controlli o funzionari corruttibili. Alcuni, come l’India, la Cina e il Brasile sono anche fra i principali donatori di organi; altri, come la Turchia e il Sudafrica, tendono a eseguire trapianti da donatori provenienti dall’estero, soprattutto Moldavia, Brasile, Mozambico e Romania. Molti intermediari hanno il domicilio della propria attività in Israele. Altri si servono di Internet per offrire servizi di mediazione tra compratore e venditore (basta inserire parole chiave come “organi in vendita” o “traffico di organi” o meglio ancora queste stesse parole ma in inglese nel motore di ricerca Google per veder comparire decine di annunci di offerte di organi). 5.7 L’organizzazione del viaggio e l’arrivo in Italia Finora non è mai stato dimostrato nessun espianto effettuato in Italia, ma sarebbe ingenuo ritenere che il fenomeno riguardi solo paesi stranieri. Le organizzazioni che gestiscono questi traffici hanno di solito la loro base operativa nel paese dal quale proviene la vittima, ma per poter realizzare la tratta è necessario un contatto con mediatori italiani. Nel nostro Paese in questi ultimi anni sono state avviate alcune indagini della magistratura su casi di vendita di minori, presumibilmente legata al traffico illegale di organi, senza peraltro che le indagini giungessero a prove concrete. 9 F. Gatti, “Policlinico degli orrori”, in L’Espresso, 5 gennaio 2007. 288 Nel maggio 1996 il giornalista francese Xavier Gautier de Le Figaro viene trovato impiccato alle Baleari, nella sua residenza estiva. Una morte avvolta nel più fitto mistero. Gli investigatori spagnoli parleranno di suicidio, ma Gautier, prima di partire per le vacanze, aveva lavorato ad una lunga inchiesta su un presunto traffico di organi dalla Bosnia ad una nota clinica dell’Italia del Nord. Nel 1999 un passeur sloveno riferisce in una deposizione alla Procura Distrettuale Antimafia di Trieste che alcuni clandestini gli avevano riferito di essere destinati a prelievo di rene nella zona di Roma, per pagare il prezzo del loro viaggio, ma i pubblici ministeri non hanno trovato riscontri sufficienti per dimostrare l’ipotesi di reato. La procura di Catanzaro, nella fase preliminare di un procedimento ancora in corso ha sospettato, sulla base del contenuto di alcune intercettazioni, che dietro la vendita di una bambina bulgara di etnia rom vi fosse anche un traffico di organi. L’espianto sarebbe dovuto avvenire in Italia, venendo così a configurarsi proprio il reato di tratta di esseri umani finalizzata all’espianto di organi. Ma il magistrato incaricato del caso ha accertato unicamente che la bambina era il frutto di una gravidanza programmata e che i genitori hanno ricevuto in cambio una somma in denaro. In uno dei casi più recenti la Procura di Roma, a seguito della denuncia da parte dell’agenzia vaticana Fides del 2004 sull’utilizzo di minori nel traffico di organi, ha aperto in Albania un’inchiesta sulla presunta tratta di minori, che si sospetta fossero stati trasferiti illegalmente in Grecia e in Italia e sottoposti a trapianti illegali. La tratta di minori sembrerebbe coinvolgere l’Italia non solo come paese di transito, ma anche come destinazione finale dove vengono eseguiti gli espianti. Il sospetto è che gli espianti venissero praticati in cliniche private del Lazio. Attualmente l’inchiesta è in fase di svolgimento e i magistrati inquirenti si attendono sviluppi significativi. Coloro che respingono questa possibilità sostengono che non esistono in Italia centri trapianti clandestini che possiedono la necessarie capacità tecniche, ma quest’ipotesi viene a cadere se si considera che l’espianto non richiede ambienti particolari se l’organizzazione non è interessata alla sorte del donante dopo l’operazione. Diverso è il caso dei trapianti ricevuti da cittadini italiani nel paese del donatore. Secondo i dati raccolti dall’Associazione Nazionale Emodializzati (Aned) con sede a Milano, i trapianti all’estero, dal 1969, sono stati cinquemila, ma si tratta in gran parte di interventi legali eseguiti in Francia, Belgio, Austria e Stati Uniti con l’organo di cadaveri. I casi accertati di acquisto di un rene da vivente sono circa 250. Franca Peffini dell’Aned elenca un intervento in Colombia, un altro in Brasile, due in Egitto, uno in Iran, cinque in Israele, almeno duecento in India e cinque o sei in Turchia negli ultimi anni. Numerosi cittadini italiani si sono 289 dunque imbarcati, negli ultimi anni, in questi cosiddetti “viaggi della speranza”. Nella maggior parte dei casi si sono recati in India per ricevere un trapianto dato che, come già segnalato nel paragrafo relativo alla normativa, fino al 1994 la vendita di organi è stata legale nel paese asiatico. Sono noti diversi casi di pazienti colpiti da crisi di rigetto una volta tornati in Italia: il Senatore Ignazio Marino, Presidente della Commissione Giustizia del Senato, riferisce che nella sua esperienza personale di medico si è più volte imbattuto in pazienti italiani che chiedevano aiuto per malattie o crisi di rigetto insorte dopo trapianti effettuati in ospedali esteri. A Roma nel 2000 è stata colta in flagrante una mediatrice (broker) che metteva in contatto i malati italiani con i medici e i donatori di rene indiani, venduti ad un prezzo di circa 60 milioni di lire ciascuno. Questa donna è stata individuata e condannata perché dei 13 malati trapiantati in India, 12 sono morti. In tutte queste transazioni gli attori principali sono gli intermediari che mettono in contatto le diverse parti. 5.8 Il dibattito sulla legalizzazione del commercio di organi Negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli interventi a favore della commercializzazione degli organi e di una regolamentazione del mercato: alcuni, come l’antropologo medico Lloyd R. Cohen hanno proposto un “mercato di futures”, ovvero un mercato legale a termine di organi da cadavere, che dovrebbe funzionare con contratti “ante mortem”; altri, come il Prof. John Harris, professore di bioetica all’Università di Manchester, si sono dichiarati a favore della vendita legale degli organi e della creazione di un mercato regolamentato e gestito dal sistema sanitario pubblico. I sostenitori di questa forma di legalizzazione ritengono che un mercato legale ed etico stroncherebbe il traffico clandestino, perché sarebbe gestito direttamente dal sistema sanitario, il quale poi deciderebbe chi ha priorità per ricevere in modo del tutto gratuito l’organo donato. Per evitare che solo le nazioni più povere diventino fornitrici per i paesi ricchi, Harris proponeva di limitare il mercato a un blocco di nazioni, come per esempio l’Unione europea. I fautori di questo tipo di vendita regolamentata sostengono la loro tesi rivendicando diritto di derivazione illuminista all’autonomia del corpo e quindi a vendere i propri organi. Il portavoce degli oppositori di questa proposta, Alistair Campbell, docente emerito di etica e medicina all’università di Bristol, respinge la proposta affermando che l’idea di un mercato etico di organi è un mito e che, anche in un paese sviluppato, solo i più bisognosi sarebbero disposti a sottoporsi ai rischi dell’intervento chirurgico per denaro. Secondo l’Aido e il Cnt la proposta inglese è inammissibile e si deve invece insistere sulla gratuità della donazione, au290 mentando il numero di potenziali donatori. Soddisfare i bisogni del mercato interno è dunque la prima strada da percorrere per contrastare il fenomeno. In quest’ottica il percorso intrapreso dall’Italia negli ultimi anni, che ha portato il nostro paese a raggiungere il secondo posto in Europa dopo la Spagna per donazioni di organi10 è sicuramente un buon viatico per risolvere la crisi della domanda. Tuttavia, questo non è sufficiente: bisogna fare del traffico di organi e della mercificazione di parti del corpo umano un tabù inviolabile, così come è avvenuto in ambiti diversi per il cannibalismo e per la pedofilia. 5.9 Osservazioni conclusive In Italia, fatte salve alcune inchieste della magistratura ancora in corso al momento dell’elaborazione del presente report, non è stata mai dimostrata la presenza del fenomeno della tratta di esseri umani a scopo di espianto di organi. Il commercio internazionale di parti del corpo umano al fine di effettuare operazioni di trapianto è fiorente anche nel nostro Paese, ma sembra essere scarsamente legato al fenomeno della tratta: il flusso di persone riguarda soprattutto italiani che si recano all’estero per ricevere un trapianto piuttosto che stranieri oggetto di tratta. Ugualmente non è stato possibile provare l’esistenza di donazioni forzate o comunque non consensuali; tutte le situazioni riscontrate nel nostro Paese fanno comunque riferimento ad un accordo tra adulti consenzienti. 10 Secondo i dati del sistema informativo trapianti del Centro Nazionale Trapianti, i donatori sono passati dai 1173 del 2002 ai 2019 di fine 2006; secondo il Centro Interregionale Trapianti, si è passati dai 5,8 donatori per milione ai 20 donatori p.m.p.). 291 292 293 Bibliografia Bellagio Task Force, Trapianti, integrità corporea e traffico internazionale di organi, in http://sunsite.berkeley.edu/biotech/organswatch/ Berlinguer G., V. Garrafa, La merce finale. Saggio sulla compravendita di parti del corpo umano, Baldini & Castoldi, Roma, 1996. –, Il nostro corpo in vendita. Cellule, organi, Dna e pezzi di ricambio, Baldini & Castoldi, Roma, 2000. Bertani C., Ladri di organi. Il traffico clandestino degli organi per i trapianti nel mondo, malatempora, Roma, 2005. 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Il fenomeno delle adozioni internazionali illegali: tra violazione della normativa e rischio di tratta di Daniela Bonardo 6.1 Introduzione al fenomeno delle adozioni internazionali illegali Per “adozione internazionale illegale” si intende “un vasto e variegato fenomeno di violazione delle normative nazionali e internazionali che regolano l’istituto dell’adozione con diversa cittadinanza”1. Si tratta, quindi, di una serie di abusi di diverso tipo che, rispetto al focus della presente ricerca, hanno a che fare solo in maniera marginale con il fenomeno della tratta di persone. Già nel 1999, la Commissione Affari Sociali, Salute e Famiglia del Consiglio d’Europa denunciava la trasformazione dell’adozione internazionale “in un vero e proprio mercato, governato da leggi del capitalismo della domanda e dell’offerta e caratterizzato dal flusso unico dei bambini provenienti dai paesi poveri o in via di sviluppo verso i paesi più sviluppati”2. Le forme di abuso che, ancora oggi, risultano essere più praticate sono: i falsi certificati di nascita rilasciati con il cognome dei genitori adottivi, lo spostamento di madri in gravidanza nei paesi di residenza dei genitori adottivi, l’acquisto di bambini negli orfanotrofi o su cataloghi pubblicati su internet. Nel corso degli anni Novanta due importanti associazioni internazionali hanno segnalato situazioni di evidente irregolarità, indicando le degenerazioni pericolose della mancata gestione del fenomeno delle adozioni internazionali: • l’associazione Terre des Hommes, a partire da una conferenza organizzata nel 1999 in Svizzera, nella quale un avvocato americano presentava i suoi “servizi di mediazione” per l’adozione di bambini da madri americane in stato interessante al costo di 30.000 dollari, ha denunciato l’esistenza di un mercato delle adozioni internazionali costruito su commerci e convenienze economiche piuttosto che sul diritto di un bambino ad avere una famiglia; 1 S. Fachile, V. Ferraris, I. Orfano, E. Rozzi, Glossario, infra. Consiglio d’Europa, Commissione Affari Sociali, Salute e Famiglia, Pour un respect des drots de l’enfants dans l’adoption internazionale, documento n. 8.52 del 2 dicembre 1999. 2 295 l’associazione Save the Children ha presentato un rapporto informativo3 sulla tratta di minori in Bulgaria, Danimarca, Italia, Romania, Spagna e Regno Unito, nel quale si evidenziano casi di neonati venduti (al costo compreso tra i 7.000 e i 15.000 euro) a scopo di adozioni internazionali illegale. Durante il procedimento di adozione internazionale possono essere commesse violazioni e abusi, giustificati da un presunto fine umanitario, ovvero dalla semplicistica idea che nei paesi ricchi i bambini avranno condizioni di vita migliori, come dire, “il fine giustifica i mezzi”. Le pratiche illegali possono essere messe in atto da organizzazioni criminali oppure da intermediari corrotti, così come da coppie pronte a compiere abusi o ad ignorarli pur di assicurarsi un bambino. Tali traffici, inoltre, possono implicare la collusione di più individui: dagli informatori sulle ragazze o donne incinte al personale degli ospedali, a dottori e ostetriche, agli uffici delle anagrafi, ad avvocati e funzionari degli uffici visti e passaporti. La difficoltà maggiore sta nel fatto che, in molti casi, l’adozione illegale assume tutte le caratteristiche della procedura legale. Le recenti Convenzioni internazionali sui diritti dei minori e i successivi provvedimenti adottati da alcuni dei paesi di origine dei minori stranieri stanno comportando cambiamenti importanti sia nell’organizzazione amministrativa che nelle procedure giuridiche di definizione dei principi per l’adozione internazionale di minori. Nell’ordinamento italiano (art. 601 c.p., primo comma, e art. 602 c.p.), il reato di adozione illegale configura un contesto in cui il minore viene ceduto ad altri in cambio di un profitto, anche non economico. Non si configura però il reato di tratta nei confronti di chi adotta, seppur in modo illegale, un bambino con l’intenzione di inserirlo nel proprio nucleo familiare in qualità di figlio. Al contrario, costituisce reato il comportamento dell’agente o intermediario che ottiene indebitamente il consenso all’adozione in violazione degli strumenti giuridici internazionali. • 6.2 Definizione di adozione internazionale illegale nella normativa internazionale ed italiana Nella Convenzione sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale, firmata all’Aja il 29 maggio 1993, si stabiliscono le garanzie affinché le adozioni internazionali si realizzino nell’interesse superiore del minore e nel rispetto dei diritti fondamentali che gli 3 European Network Against Child Trafficking (Enact), A Report on Child Trafficking in Bulgaria, Denmark, Italy, Romania, Spain and United Kingdom, Save the Children, Milano, 2004. 296 sono riconosciuti nel diritto internazionale. Gli Stati firmatari della Convenzione si impegnano quindi ad osservarne i principi e le condizioni affinché l’adozione avvenga nel rispetto del diritto del minore e, al contempo, si adoperano nella costruzione di un sistema di cooperazione che favorisca la maggiore trasparenza del processo di adozione nel rispetto del principio di sussidiarietà (art. 4). La Convenzione stabilisce delle condizioni precise che riguardano le autorità competenti sia dello Stato di origine del minore che dello Stato di accoglienza. Per quanto concerne lo Stato di origine del minore si stabilisce che le adozioni internazionali possono avere luogo solo se (art. 4 Capitolo II): - le autorità competenti hanno stabilito che il minore è adottabile; - le autorità competenti hanno constatato, dopo aver debitamente vagliato la possibilità di affidamento del minore nello stesso paese di origine, che l’adozione internazionale corrisponde al suo superiore interesse. Inoltre, per quanto concerne le persone, le istituzioni o l’autorità il cui consenso è richiesto per l’adozione, è necessario verificare che non vi siano stati pagamenti o contropartite di alcun genere. In ogni paese la Convenzione prevede la creazione di un’autorità centrale con il compito di controllare il corretto svolgimento delle procedure di adozione e di porsi in relazione con le altre autorità centrali scambiando informazioni, valutando le singole domande, accertando la presenza dei requisiti legittimanti l’adozione e autorizzando l’ingresso del minore nel paese dei futuri genitori. La Convenzione prevede altresì che vi siano organismi abilitati che collaborino con l’autorità centrale, ossia enti in possesso di rigorosi e specifici requisiti, autorizzati dalla stessa autorità a seguire le procedure di adozione e a fornire la necessaria assistenza ai genitori. Le misure e le procedure stabilite da questa Convenzione perseguono lo scopo di prevenire la sottrazione, la vendita e la tratta di minori. A rafforzare l’attenzione verso queste tematiche particolari vi è il Protocollo opzionale alla Convenzione dei diritti del fanciullo sulla vendita di bambini, la prostituzione dei bambini e la pornografia rappresentante bambini4 che, prendendo nota delle Convenzioni esistenti5, definisce vendita di bambini “qualsiasi atto o transazione che comporta il trasferimento di un bambino (…) dietro compenso o qualsiasi altro vantaggio” (art. 2). Inoltre, l’art. 3 del Protocollo citato contiene l’impegno di ciascuno Stato a recepire nel proprio ordinamento pene adeguate per gli autori di reati riguardanti la vendita dei minori, a prescindere 4 Ratificato dall’Italia con la legge 11 marzo 2002, n. 46. Convenzione dell’Aja sugli aspetti civili del rapimento internazionale di bambini; Convenzione dell’Aja relativa alla competenza, alle leggi applicabili, al riconoscimento, all’esecuzione e alla cooperazione in materia di patria podestà e di misure di protezione dei bambini; Convenzione n. 182 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro concernente l’interdizione delle peggiori forme di lavoro dei bambini. 5 297 dal fatto che tali reati siano commessi a livello interno o transnazionale. Si specifica, inoltre, che costituisce vendita di minori anche il “fatto di ottenere indebitamente, in quanto intermediario, il consenso all’adozione di un bambino in violazione degli strumenti giuridici internazionali relativi alle adozioni”. Affinché questi strumenti di gestione e al contempo di monitoraggio delle adozioni internazionali entrino a regime e siano efficaci, è necessario che tutti i paesi adottino le Convenzioni e recepiscano all’interno del proprio ordinamento giuridico i principi in esse contenuti. Ad oggi gli Stati che hanno ratificato la Convenzione sono 39 (altri nove Stati vi hanno aderito); tra i grandi assenti vi sono gli Stati Uniti e la Federazione Russa. Lo Stato italiano ha ratificato e recepito la Convenzione sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale, approvando nel dicembre 1998 la legge n. 476 con la quale si è modificata la precedente legge in tema di adozione di minori stranieri (legge 4 maggio 1983, n. 184), e si è istituita la Commissione per le Adozioni Internazionali (Cai) presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (art. 38). La Cai svolge le funzioni di autorità centrale prevista dalla Convenzione dell’Aja ed è composta da un presidente nominato dal Presidente del Consiglio; dieci rappresentanti della Presidenza del Consiglio dei ministri e di vari ministeri; tre rappresentanti della Conferenza unificata Stato Regioni; tre rappresentanti designati, sulla base di una apposito decreto del Presidente del Consiglio, da associazioni familiari a carattere nazionale, almeno uno dei quali designato dal Forum delle associazione familiari. Tra i principali compiti della Cai figurano la collaborazione con le autorità centrali degli altri Stati; la proposta di stipulare accordi bilaterali in materia di adozione internazionale; la promozione della cooperazione tra soggetti che operano nel campo dell’adozione internazionale e della promozione dei minori; l’autorizzazione dell’ingresso e del soggiorno permanente del minore straniero adottato o affidato a scopo di adozione; la certificazione della conformità dell’adozione alle disposizioni della Convenzione. La Cai, infine, autorizza l’attività degli enti6 che effettuano concretamente la procedura di adozione, cura la tenuta del relativo albo e vigila sul loro operato. Un ulteriore intervento del legislatore ha introdotto, con la legge 28 marzo 2001, n. 149, alcune modifiche alla disciplina dell’affidamento e dell’adozione, ridefinendo, in particolare, i requisiti per l’adozione, la procedura per la dichiarazione di adottabilità, l’affidamento preadottivo, la dichiarazione di adozione. 6 Gli enti autorizzati che risultano attivi al 30/06/2006 sono 66. 298 6.3 Il contesto delle adozioni internazionali in Italia Secondo quanto disposto dalla Convenzione dell’Aja, la legge 476/1998 stabilisce che, ai fini della dichiarazione di adottabilità del minore, la normativa applicabile è quella del suo paese di origine, mentre è la legge italiana a determinare i requisiti delle persone disponibili ad adottare un minore straniero. La procedura per adottare minori stranieri prevede, così come per l’adozione nazionale, che gli aspiranti genitori presentino una dichiarazione di disponibilità al Tribunale per i minorenni e chiedano che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione7. Una volta ottenuta l’idoneità, la coppia deve, entro un anno, dare il mandato ad uno degli enti autorizzati dalla Cai di seguire l’iter di adozione. Gli enti autorizzati lavorano nei paesi di origine dei minori e sono quindi considerati dei “testimoni privilegiati” della situazione presente del paese e dell’attuazione delle procedure e delle regole internazionali. Gli enti mantengono i contatti con l’autorità centrale straniera che trasmette loro la proposta di abbinamento fra minore adottabile e una coppia di aspiranti genitori. Qualora riceva il consenso degli adottandi, l’ente dà comunicazione alla Cai della decisione di affidamento del minore da parte dell’autorità straniera, e richiede alla stessa Cai l’autorizzazione all’ingresso e alla residenza permanente del minore. La Cai, valutate le conclusioni dell’ente incaricato, dichiara che l’adozione risponde al superiore interesse del minore e ne autorizza l’ingresso e la residenza permanente. Una volta conclusa la procedura, il provvedimento può essere adottato secondo due distinte modalità: - nel paese straniero prima che il minore giunga in Italia; in questo caso, il Tribunale per i minorenni del luogo di residenza degli adottandi dà luogo al provvedimento di deliberazione e quindi invia gli atti per la trascrizione agli uffici dello stato civile; - in Italia al momento dell’arrivo del minore; in questo caso, il Tribunale per i minorenni competente riconosce il provvedimento dell’autorità straniera come affidamento preadottivo e ne stabilisce la durata, decorsa la quale, pronuncia direttamente l’adozione. Mentre per l’adozione di minori italiani il Tribunale per i minorenni si occupa direttamente dell’abbinamento adottato-adottandi, valutando quali siano i migliori genitori per ciascun bambino, nell’adozione internazionale, al contrario, interviene solo in alcune fasi della procedura: la già citata dichiarazione di idoneità, l’ordine di trascrizione del provvedimento straniero di adozione nei 7 La legge 476/199 prevede all’art. 30, comma 1, che è competenza del Tribunale per i minorenni pronunziare, con decreto motivato, la sussistenza o meno dei requisiti per adottare, nei confronti di coppie aspiranti all’adozione che abbiano presentato la dichiarazione di disponibilità ad accogliere un minore straniero. Il decreto è emesso sulla base delle informazioni riguardanti i coniugi contenute nella relazione psico-sociale redatta dagli operatori e dalle operatrici dei servizi socio assistenziali degli enti locali. 299 registri dello stato civile, ovvero il riconoscimento dell’autorità straniera come affido preadottivo e la successiva pronuncia di adozione; gli opportuni interventi per risolvere le eventuali difficoltà verificatesi nel primo anno di permanenza in Italia del minore adottato. Per le adozioni internazionali, quindi, la questione dell’abbinamento coppiaminore è affidata agli enti autorizzati, in accordo con la funzione principale dell’autorità preposta nel paese di origine del minore. Le recenti modifiche normative, così come evidenzia il Tribunale per i minorenni di Milano8, hanno creato una dicotomia tra la disciplina dell’adozione nazionale, il cui carattere giurisdizionale risulta accentuato, e quella dell’adozione internazionale, il cui procedimento è diventato sempre più amministrativo. Sulla base del monitoraggio effettuato periodicamente dalla Commissione per le Adozioni Internazionali9 sui fascicoli riguardanti i minori stranieri autorizzati all’ingresso e alla residenza permanente in Italia a scopo di adozione è possibile analizzare alcune caratteristiche del fenomeno come, ad esempio, la sua consistenza. Tra il 16 novembre 2000 e il 30 giugno 2006, intervallo temporale del monitoraggio effettuato dalla Commissione, le coppie in possesso del decreto di idoneità che hanno concluso con successo l’iter adottivo di un minore straniero sono state 12.161: per il 31% residenti nelle regioni del Nord Ovest (prevalentemente Lombardia), per il 23,6% nelle regioni del Nord Est (Veneto in primis), per il 21,6% nelle regioni centrali e per il restante 23,6% nelle regioni meridionali e nelle isole (Tabella 1). Tabella 1 – Coppie che hanno richiesto ed ottenuto l’autorizzazione all’ingresso in Italia di minori stranieri dal 2000 al 2006, per ripartizione territoriale (v.a., val. % e var. % 2000-2005) Ripartizioni territoriali Coppie autorizzate* v.a. var.% % 2000-2005 Nord Ovest 3.765 31,0 44,2 Nord Est 2.873 23,6 32,5 Centro 2.629 21,6 1,2 Sud 2.081 17,1 1,2 Isole 793 6,5 -12,3 20 0,2 -60,0 12.161 100,0 19,2 Residenti all’estero Totale * dal 16/11/2000 al 30/06/2006 Fonte: elaborazione Censis su dati Cai 8 E. Ciccotti, A. Ciampa, Ogni bambino ha diritto a una famiglia. Lo stato di attuazione della legge 149/2001, Questioni e Documenti. Quaderni del Centro Nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza, n. 39, Istituto degli Innocenti, Firenze, 2007. 9 Commissione per le Adozioni Internazionali, Coppie e bambini nelle adozioni internazionali. Tale rapporto, realizzato in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti, si basa sui dati contenuti nei fascicoli pervenuti dal 16/11/2000 al 30/06/2006. 300 Negli ultimi anni il numero delle coppie autorizzate all’adozione internazionale è stato: 1.843 nel 2001, 1.529 nel 2002, 2.300 nel 2003, 2.767 nel 2004, 2.197 nel 2005, 1.139 nei primi sei mesi del 2006. Tra il 2000 e il 2005, anni di cui si dispone dei dati completi, il numero delle coppie che sono ricorse con successo all’adozione internazionale è cresciuto del 19,2%. La crescita non risulta essere omogenea sul territorio italiano; infatti, mentre aumenta il numero di coppie richiedenti residenti nelle regioni del Nord (Nord Ovest +44,2% e Nord Est +32,5%), calano del 12% quelle che risiedono nelle isole e rimane stabile il numero di coppie richiedenti che vivono nel Centro Sud. La gran parte delle coppie richiedenti l’ingresso in Italia di un minore straniero (94,7%) ha ottenuto il decreto di idoneità a seguito di un provvedimento del Tribunale per i minorenni competente; il restante 5,3%, invece, ha ottenuto l’idoneità ricorrendo in Corte d’Appello. Per quanto riguarda la motivazione del decreto di idoneità, i dati mostrano che, nel periodo compreso tra l’ottobre 2002 (data di introduzione della motivazione “mirato” del decreto di idoneità) e il 2006, la maggior parte dei decreti di idoneità veniva concesso con la motivazione “generica”; l’incidenza dei decreti “generici” è rimasta relativamente stabile, oscillando dal 78,9% del 2002, al 67,3% del 2004, fino ad attestarsi sul 77% nei primi sei mesi del 2006. Da quando è stata inserita la motivazione “mirato”, l’incidenza di decreti concessi secondo questo tipo di motivazione è progressivamente aumentata, passando dal 3,9% del 2002 al 29% del 2004, fino ad attestarsi nel 2006 al 21,9% del totale (Figura 1). I decreti di idoneità mirati, così come quelli nominativi (passati dal 17,2% del totale nel 2002 all’1,1% nel 2006), sono provvedimenti giudiziari nei quali si fa riferimento ad un determinato bambino, giacché nella maggioranza dei casi queste adozioni si intrecciano con le esperienze di accoglienza temporanea10. 10 L’accoglienza temporanea o soggiorni solidaristici sono realizzati nell’ambito di programmi di soggiorno temporaneo per minori stranieri effettuati da enti, associazioni e famiglie e monitorati in Italia dal Comitato per i minori stranieri. 301 Figura 1 – Coppie che hanno richiesto ed ottenuto l’autorizzazione all’ingresso dei minori stranieri secondo la motivazione del decreto di idoneità e l’anno della richiesta (val. %) 77,0 2006(a) 21,9 1,1 76,5 2005 22,8 0,7 67,3 2004 28,9 3,8 79,8 2003 14,7 5,5 3,9 78,9 2002 17,2 0% 20% 40% Generica 60% Nominativa 80% 100% Mirata a) dall’1/01/2006 al 30/06/2006 Fonte: elaborazione Censis su dati Cai I minori stranieri per i quali è stata concessa l’autorizzazione all’ingresso tra il novembre del 2000 e i primi mesi del 2006 sono stati complessivamente 14.832. L’autorizzazione all’ingresso in Italia è concessa ormai quasi esclusivamente per minori per le cui procedure di adozione è stato utilizzato un ente autorizzato; il numero di minori ha raggiunto il 98,9% del totale nel primo semestre 2006, mentre nel 2001 tale percentuale era pari al 78,4%. In termini assoluti, nel 2006 e nel 2005, le adozioni senza ente hanno riguardato solo 2 minori; nel 2001, i minori adottati con “il fai da te” erano 389, in grande maggioranza provenienti dalla Bielorussia. Nel periodo considerato, si segnala che l’incidenza dei bambini che provengono da paesi che non hanno ancora ratificato la Convenzione dell’Aja, seppur in calo, risulta essere ancora maggiore del 50% (Figura 2). Si rileva che nella statistica figurano come ratificanti unicamente quei paesi che hanno effettivamente riconosciuto nel loro ordinamento giuridico tale Convenzione; mentre tra gli Stati non ratificanti sono considerati altresì i paesi firmatari e quelli aderenti. 302 Figura 2 – Minori per i quali è stata concessa l’autorizzazione all’ingresso in Italia secondo l’anno di concessione e la provenienza da paesi ratificanti o meno la convenzione dell’Aja (val. %) 100% 90% 80% 74,0 70% 72,9 65,6 60% 55,8 50% 44,2 40% 58,9 Non ratificanti 47,6 41,2 41,1 34,4 30% 20% 58,8 52,4 Ratificanti 27,1 26,0 10% 0% 2000 (a) 2001 2002 2003 2004 2005 2006 (b) a) dal 16/11/2000 al 31/12/2000 b) dall’1/01/2006 al 30/06/2006 Fonte: elaborazione Censis su dati Cai I dati sulla provenienza nazionale dei minori stranieri autorizzati all’ingresso, tra il 2001 e il 2006, proiettano in cima alla graduatoria i bambini ucraini (19,6%) e i russi (16,2%). In realtà, gli andamenti diacronici mostrano che i minori provenienti dall’Ucraina sono in calo, così come quelli originari della Bielorussia, il cui governo ha bloccato dal 2005 le pratiche per le adozioni in paesi esteri. Sembra esserci invece un trend positivo delle adozioni che riguardano i minori provenienti dalla Russia, dal Brasile, dall’Etiopia, dall’India, dal Perù e dalla Polonia. Si rileva, infine, il netto calo dei minori bulgari, a partire dal 2004. Nonostante il sistema italiano che regola l’adozione internazionale risulti molto avanzato sia per quanto riguarda la parte normativa che per l’organizzazione gestionale del processo adottivo, non si può sottacere che comunque persistono alcuni elementi di ambiguità, quali: • il verificarsi di parziali sovrapposizioni tra le esperienze di accoglienza temporanea di minori stranieri e l’adozione internazionale. Può accadere che tra le famiglie che realizzano l’accoglienza temporanea vi siano anche famiglie che, in realtà, desiderano un’adozione e cercano una scorciatoia, o peggio, famiglie che il Tribunale per i minorenni ha dichiarato non idonee all’adozione e che non si sono rassegnate; 303 non si dispone del numero di coppie che, pur in possesso di un decreto di idoneità, non sono state autorizzate all’adozione dalla Cai; in base però ai dati pubblicati dall’Istituto degli Innocenti, i decreti di idoneità all’adozione internazionale accolti dai Tribunali per i minorenni sono stati 5.790 nel 2002 e 5.519 nel 2003. Nello stesso biennio, i decreti rigettati sono stati, rispettivamente 794 e 600, mentre quelli revocati 95 e 81; persistono rari casi di “adozioni fai da te” che, pur essendo – come mostrano i dati – sempre più marginali, rischiano di perpetuare il sistema del “canale privato”, soprattutto in quei paesi dove, ancora oggi, non esiste un’autorità centrale di garanzia. • • 6.4 Forme e modalità delle adozioni internazionali illegali Le azioni legislative sul tema delle adozioni internazionali che si sono succedute in Italia sono state finalizzate a spezzare il sistema della compravendita di bambini praticato da mediatori senza scrupoli. Nonostante l’attenzione internazionale e la sensibilità di moltissimi paesi, nel fenomeno delle adozioni internazionali permangono tuttavia aree grigie che riguardano sia il reale rispetto del principio di sussidiarietà dell’adozione internazionale in confronto ad ogni altra forma di protezione dei minori in difficoltà, sia la certezza che il consenso all’adozione sia stato prestato liberamente e non mediante pagamento o contropartita di altro genere. Inoltre, sebbene la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza affermi che ciascun neonato debba essere registrato immediatamente dopo la nascita, secondo l’Unicef, più della metà delle nascite nel mondo in via di sviluppo – ad eccezione della Cina – non sono registrate (si stima più di 50 milioni di bambini)11. Questi bambini invisibili, unitamente ai milioni di orfani e di ragazzi di strada sono i più vulnerabili alla tratta di persone e rischiano, quindi, di diventare facile preda per mediatori senza scrupoli inseriti nei traffici delle adozioni internazionali. Alcuni dei metodi principali attraverso i quali vengono perpetrati abusi ed irregolarità nei paesi di origine dei bambini inseriti nel sistema delle adozioni internazionali sono12: - il rapimento di bambini o di neonati realizzato in vari modi: dal sequestro sulla piazza del mercato all’organizzazione del rapimento da parte di una baby sitter; 11 Unicef, Situazione dei bambini nel mondo 2006.Esclusi ed invisibili, Roma, 2006. Innocenti digest, L’adozione internazionale, Centro Internazionale dell’Unicef per lo Sviluppo del Bambino, Firenze, 2000, p. 6. 12 304 - - - si individuano madri potenzialmente vulnerabili – soprattutto ragazze madri adolescenti – e si cerca di spingerle a cedere il futuro neonato o il bimbo appena nato. Tale pressione può essere esercitata durante la maternità, prima del parto o all’ospedale, facendo leva sull’opinione morale o religiosa secondo la quale una madre che dà alla luce un figlio fuori dal matrimonio non è la persona più adatta ad allevarlo e che per il bene del bambino è meglio che sia ceduto ad una famiglia, ancora meglio se economicamente benestante. Tale pressione viene talvolta rinforzata dall’offerta del pagamento delle spese del parto; si baratta il bambino in cambio di un compenso economico o materiale a favore della famiglia (oppure del direttore dell’istituto che ospita il bambino). In Albania, nel 1992, una missione internazionale trovò le prove che dei bambini erano stati consegnati dai genitori naturali in cambio di beni di consumo o di denaro; si offrono alle donne degli incentivi finanziari affinché concepiscano un bambino appositamente per darlo in adozione all’estero; per ottenere il consenso della famiglia di origine del minore, si forniscono informazioni ingannevoli sul funzionamento dell’adozione, lasciando loro credere che potranno mantenere contatti stretti con il bambino; si corrompono dei funzionari locali o nazionali o dei giudici per ottenere delle decisioni favorevoli oppure la falsificazione dei documenti; si producono falsi certificati di nascita o di paternità. A volte, dei parenti o delle madri false cedono un bambino di cui si occupano temporaneamente, fingendo di essere i genitori naturali. In altri casi, sia la vera madre che i futuri genitori adottivi partecipano attivamente all’inganno, ad esempio, la madre attribuisce la paternità al futuro padre adottivo. 6.5 Tracce di illegalità Nel corso degli ultimi anni, alcuni organi di informazione hanno riportato casi preoccupanti di illegalità: - nel 1992, il quotidiano The Indipendent riportò la notizia che in Honduras alcuni funzionari del governo furono riconosciuti colpevoli di aver svolto il ruolo di ricettatori di neonati rapiti alle famiglie povere, di averli nascosti in case sicure e successivamente venduti a coppie di stranieri per 5.000 dollari; - nel 2004, il quotidiano bulgaro 24 Chassa ha pubblicato un’inchiesta sulla tratta di neonati che coinvolgerebbe alcuni paesi dell’Unione europa tra cui l’Italia. Il gruppo di trafficanti di origine bulgara trasferiva donne al termine della gravidanza, anch’esse di nazionalità bulgara, nel paese di residenza della famiglia che voleva acquistare il bambino. Al momento del parto, la 305 donna rinunciava al figlio che invece veniva riconosciuto dal finto padre, ovvero da colui che lo acquistava; - nel 2006, il quotidiano argentino Clarin ha pubblicato articoli sulla tratta di neonati: decine di casi segnalati al Tribunale di Santiago del Estero di coppie che si sono rivolte ad una rete di intermediari per comprare un neonato. Il costo del neonato variava dai 2.000 euro per le coppie argentine ai 20.000 euro per quelle europee. Le prime indagini hanno individuato una rete di illegalità che coinvolge medici, funzionari pubblici, un vescovo, un gruppo di ostetriche e alcune suore. Questi fatti di cronaca non sono isolati. Anche in Italia si sono verificati episodi simili, attualmente al vaglio della magistratura13. Nel 2004, un’inchiesta condotta dalla squadra mobile della Questura di Pordenone ha portato alla scoperta di una compravendita illegale di neonati tra Bulgaria ed Italia e all’arresto di sei persone, tre italiani e tre bulgari. I reati ipotizzati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Trieste sono associazione per delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù e falsità ideologica in relazione all’alterazione di stato civile. La ricostruzione fatta dagli inquirenti ipotizza che le modalità di realizzazione della tratta siano state le seguenti: le donne gestanti, contattate direttamente da persone affiliate ad un’organizzazione illegale bulgara, sono state convinte a vendere i loro bambini a coppie italiane. Al momento del parto le donne sono state trasferite in Italia e, una volta in ospedale, hanno disconosciuto il figlio che, invece, è stato riconosciuto civilmente da uomini che si sono presentati come i padri naturali. Il tema delle adozioni illegali realizzate attraverso la falsa dichiarazione di paternità non è nuovo in Italia. Nel 1988 scoppiò il caso di Serena Cruz, una bambina nata nelle Filippine nel 1986 e introdotta in Italia da una coppia di coniugi italiani, che aveva dichiarato falsamente che la bambina era nata da una relazione adulterina. Su questa vicenda l’opinione pubblica si divise. Difatti, il delicato tema dell’adozione suscita spesso reazioni emotive che difficilmente si conciliano con i principi sanciti dal diritto internazionale. Sono passati quasi vent’anni dal “caso Serena”, eppure, nonostante le procedure attivate nel rispetto della Convenzione dell’Aja e la crescente sensibilità delle istituzioni italiane sul tema dei diritti dell’infanzia, si continuano a verificare episodi al limite della legalità. Un’importate novità giuridica è rappresentata dalla sentenza 3563 del 17 febbraio 2006 della Corte di Cassazione che, per la prima volta, affronta il tema del falso riconoscimento di paternità. La Cassazione, infatti, chiamata a decidere su un giudizio di disconoscimento di paternità si è pronunciata sulla natura di questo procedimento: “si tratta di un procedimento in cui il Tribunale 13 Vi sono indagini avviate dalle Procure di Trieste, Milano e Ancona. 306 per i minorenni ha vastissimi poteri per procedere di ufficio, considerato che è finalizzato alla realizzazione di un interesse pubblico, ovvero ad evitare che le norme sull’adozione possano essere fraudolentemente aggirate, pertanto esso inizia di ufficio in base ad una semplice segnalazione del fatto; il Tribunale ha un ampio potere di indagine, senza preclusione alcuna, e ha lo scopo di accertare, in via preventiva e sommaria, se sussistono le condizioni per la nomina del curatore speciale che dovrà poi iniziare l’azione di disconoscimento”. 6.6 Conseguenze per il minore Le conseguenze pratiche delle violazioni delle procedure di adozione internazionale, pur essendo schematizzabili in due tipologie (conseguenze psicologiche e conseguenze legali), si ripercuotono principalmente sullo stesso soggetto: il minore oggetto di adozione. Tra le conseguenze psicologiche, uno dei rischi principali che corre il bambino durante l’iter per l’adozione è quello di compromettere la possibilità di mantenere la propria identità e di conoscere la verità sulla sua origine. Infatti, la mancanza di notizie certe sul proprio passato può avere un effetto negativo sullo sviluppo di una personalità equilibrata. Nei casi di tratta di minori, per esempio, si possono perdere le informazioni relative alle famiglie di origine; anzi, spesso i trafficanti, prima di organizzare l’adozione all’estero, cercano di far perdere le loro tracce portando i bambini rapiti in altri paesi. Un rapporto di ricerca14 ha descritto proprio l’azione di una banda criminale che aveva rapito dei bambini in Guatemala per poi, una volta ottenuti i passaporti e i certificati falsi, li aveva trasportati in Salvador e in Honduras, da dove aveva organizzato la loro adozione in paesi terzi. Tra le conseguenze legali, il pericolo è quello di far precipitare i minori in una specie di limbo, una zona grigia della legislazione che ne impedisce il riconoscimento. Questo avviene, ad esempio, nei casi di minori che, fatti entrare illegalmente in un paese, avendo perso la loro nazionalità di origine a seguito di una procedura di adozione, a causa di varie irregolarità, possono vedere rigettata la loro domanda. Il rischio a cui vanno incontro questi bambini è quello di trovarsi nella precaria situazione di cittadini apolidi, ovvero senza nessuna nazionalità. 14 R. Cadena Romila, New forms of violence against children: A report on the trafficking of children and international adoptions in Guatemala, Unicef, 1994. 307 6.7 Conseguenze sul sistema La principale conseguenza dell’esistenza di un cospicuo numero di adozioni internazionali illegali, o di semplici abusi commessi durante il processo di adozione, è il proliferare di quegli istituti la cui funzione principale è quella di accelerare le pratiche delle adozioni internazionali allo scopo di ricevere il maggior quantitativo possibile di fondi per ogni bambino “collocato”. Un altro effetto indiretto delle pratiche irregolari di adozione, che diventano di dominio pubblico in seguito a scandali, è il blocco delle adozioni che i paesi di origine mettono in atto per placare le polemiche. La diretta conseguenza è l’aumento del numero di bambini mantenuti in istituti. 6.8 Osservazioni conclusive In Italia, fatte salve alcune inchieste della magistratura ancora in corso al momento dell’elaborazione del presente studio, non è stata mai dimostrata la presenza di tratta di persone a scopo di adozioni internazionali illegali. Le adozioni illegali, gli abusi e le pratiche irregolari compiute in vari momenti del percorso di adozione internazionale riguardano anche il nostro Paese, ma il legame con il fenomeno della tratta sembra molto labile. Permangono, tuttavia, aree grigie che riguardano sia il reale rispetto del principio di sussidiarietà dell’adozione internazionale in confronto ad ogni altra forma di protezione dei minori in difficoltà, sia la certezza che il consenso all’adozione sia stato prestato liberamente e non mediante pagamento o contropartita di altro genere. 308 7. Le dimensioni della tratta di persone in Italia di Anna Italia e Daniela Bonardo 7.1 Premessa Obiettivo del lavoro che si presenta nelle pagine che seguono è quello di effettuare un repertorio dei sistemi e delle modalità di rilevazione e di trattamento dei dati sulla tratta delle persone esistenti in Italia, a partire dalle fonti istituzionali. Tale attività è stata realizzata in due fasi: - analisi desk; - contatti diretti con i responsabili dei sistemi di rilevazione/elaborazione e delle banche dati (Ministero dell’Interno, Ministero di Giustizia, Dipartimento Diritti e Pari Opportunità, Forze dell’ordine, Direzione Nazionale Antimafia). Occorre innanzitutto segnalare che, per le sue stesse caratteristiche, il fenomeno della tratta non si presta ad essere completamente inquadrato dai dati statistici, in quanto molti aspetti ed avvenimenti restano sommersi, non sono cioè rilevati dagli strumenti esistenti. I dati disponibili afferiscono: • ai delitti collegati alla tratta che vengono denunciati o per cui è stata avviata un’azione penale; • alle vittime che vengono in contatto con le istituzioni o con gli assistenti ed operatori sociali presenti sul territorio; • alle persone denunciate per i reati di tratta. Le fonti di tali dati sono differenti e spesso non collegate, ne consegue che non è possibile procedere ad una lettura incrociata dei dati rilevati; azione che, invece, risulterebbe indispensabile per un’analisi approfondita della consistenza del fenomeno. Inoltre in Italia, così come in altri paesi europei, non esiste una banca dati centralizzata che permetta di avere un quadro chiaro del fenomeno. Ne risulta che, nonostante le molteplici ricerche e gli studi realizzati1 in questi anni sul fenomeno della tratta di esseri umani, si riscontra ancora la mancanza di dati che possano consentire una stima attendibile delle persone trafficate. 1 Per un’analisi della letteratura sulla tratta delle persone in Italia, cfr. Capitolo 1 infra. 309 7.2 Le fonti Quando si parla di tratta di persone l’associazione più immediata è alla prostituzione che, secondo stime di Parsec Consortium2, in Italia, riguarda dalle 17 alle 23mila donne, mentre le stime di Transcrime (Joint Research Centre on Transnational Crime, Università degli Studi di Trento/Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) indicano tra le 19 e le 40mila unità3. Senza dubbio lo sfruttamento sessuale è il principale fenomeno legato alla tratta di persone, ma è anche il più visibile. Come sostiene Andrea Rossi dell’Unicef Istituto degli Innocenti, “non bisogna confondere la visibilità con la rilevanza”4. Nel mondo occidentale, infatti, la tratta di persone si estrinseca anche nello sfruttamento lavorativo, nell’accattonaggio e nell’economia sommersa in fabbrica, nell’agricoltura e nel lavoro di cura. Altri fenomeni di cui si sospetta l’esistenza ma dei quali, in Italia, non si dispone ancora di precisi riscontri giudiziari, sono il traffico di organi e il mercato delle adozioni illegali. Nell’ambito dell’indagine sono state individuate diverse fonti istituzionali; ciascuna, a seconda della propria area di competenza, raccoglie ed elabora dei dati utili all’individuazione dei reati commessi, delle persone offese e degli sfruttatori. Il Dipartimento Diritti e Pari Opportunità riceve le relazioni in itinere e finali relative ai progetti di assistenza ed integrazione sociale art. 18 ai sensi del d.lgs. 286/98: queste rappresentano la fonte informativa più completa sulle vittime di tratta. Purtroppo le informazioni non sono standardizzate e manca una banca dati a livello centrale da cui attingere le informazioni: in questa situazione, l’unico strumento di lettura del fenomeno sono le relazioni del Dipartimento che, tuttavia, non vengono pubblicate regolarmente. Il Ministero dell’Interno inserisce in un’apposita banca dati centralizzata e pubblica periodicamente le informazioni (sesso, età, nazionalità) sui titolari di permesso di soggiorno art. 18; lo stesso Ministero, inoltre dispone di una banca dati informatizzata sui reati denunciati, fra cui sono inclusi i reati di tratta (così come rilevabili dal codice penale) denunciati e le persone denunciate per tali reati. Tale banca dati viene pubblicata sotto la voce “Statistiche della delittuosità” nel volume di Statistiche giudiziarie pubblicato annualmente dall’Istat. In tale volume 2 Stime estrapolate da F. Carchedi (a cura di), Prostituzione straniera e traffico di donne a scopo di sfruttamento sessuale. Analisi delle trasformazioni correnti nei principali gruppi nazionali coinvolti e nuove strategie di intervento sociale. Il caso dell’area metropolitana di Roma,Parsec Consortium, Comune di Roma, Roma, 2006. 3 Transcrime, Tratta di persone a scopo di sfruttamento e traffico di migranti, Transcrime Report n. 7, Trento, 2004. 4 A. Rossi, Audizione del 29/6/2005 presso la Commissione parlamentare dell'Infanzia nell'ambito dell’indagine conoscitiva sull'infanzia in stato di abbandono o semi abbandono e sulle forme per la tutela dell'accoglienza. 310 i reati di tratta non compaiono, in quanto sono inclusi nella voce “altri reati”. Quanto al Ministero della Giustizia, la Direzione Nazionale Antimafia ha istituito presso la sua sede una banca dati contenente i registri informatizzati relativi ai provvedimenti di tratta di competenza delle Direzioni Distrettuali Antimafia (Dda). Nella banca dati sono inserite notizie relative allo stato dei procedimenti, agli indagati e alle vittime. Un parziale limite dello strumento è costituito dal fatto che, sebbene, i reati di tratta dovrebbero essere di esclusiva competenza delle Dda, può verificarsi il fatto che vengano trattati dalle Procure ordinarie perché inizialmente considerati reati di traffico di migranti (ex lege 286/98) o perché avvenuti in un territorio dove non è presente la Dda. Inoltre la banca dati è esclusivamente ad uso interno. I singoli uffici giudiziari, inoltre, gestiscono un registro informatizzato dei procedimenti (Re.Ge). Tale registro è utilizzato, tra l’altro, per segnalare il numero dei delitti e dei denunciati per cui è stata avviata l’azione penale. Nella banca dati vengono inseriti i reati previsti dal codice penale, corredati da una serie di informazioni relative al luogo in cui sono avvenuti e al denunciato. I dati sono acquisiti direttamente dall’Istat e pubblicati con cadenza annuale nel volume Statistiche giudiziarie sotto la voce “Statistiche della criminalità”. In tali statistiche compaiono i reati di tratta denunciati e le persone denunciate, specificando il sesso e se maggiorenni o minori. Infine, a partire dal 2003, su richiesta dell’Ambasciata americana, la Direzione Statistica istituita all’interno del Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria del Personale e dei Servizi del Ministero della Giustizia rileva annualmente ed inserisce in una banca dati informatizzata i dati relativi allo stato dei procedimenti nei diversi gradi di giudizio e ai denunciati, arrestati, rinviati a giudizio per reati di tratta5. Tali dati vengono estratti dai Registri Informatizzati dei singoli uffici requirenti e giudicanti e inviati alla Direzione statistica tramite rete intranet. Riassumendo, i dati maggiormente rappresentativi riferiti all’universo delle vittime sono: - il numero di beneficiari dei progetti di assistenza e di integrazione sociale previsti dall’art. 18 del d.lgs. 286/98 banditi dal Dipartimento Diritti e Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; - i permessi di soggiorno per protezione sociale rilasciati dal Ministero dell’Interno – Dipartimento Pubblica Sicurezza. In realtà la dicitura che compare sul permesso di soggiorno è “per motivi umanitari” e comprende anche individui che non usufruiscono dei benefici previsti dall’articolo 18, ma presso la banca dati del Ministero è disponibile il dato scorporato; - il numero delle vittime che risultano dai procedimenti per tratta (artt. 416 5 A partire dal 2006 sono disponibili anche i dati relativi a: persone rinviate a giudizio, condannati, condannati in primo grado che ricorrono in appello, assolti. 311 co. 6, 600, 601 e 602 del codice penale) iscritti nei registri delle Direzioni Distrettuali Antimafia6. Le informazioni relative agli sfruttatori riferiscono su: - le persone denunciate e arrestate dalle Forze dell’ordine per i reati di cui agli artt. 600, 600-bis, 600-quinquies, 601, 602, 671 del codice penale; art. 12 co. 3-ter del d.lgs. 286/98; art. 3 della legge 75/58; - gli indagati nei procedimenti di tratta (artt. 416 co.6, 600, 601 e 602 del codice penale) iscritti nei registri delle Direzioni Distrettuali Antimafia; - le persone denunciate, gli arresti, le richieste di rinvio a giudizio per i reati previsti dagli artt. 600, 600-bis, 601 e 602 del codice penale registrate dalla Procure e dai Tribunali italiani. Tavola 1 – Prospetto delle fonti istituzionali sulla tratta in Italia: vittime e sfruttatori Soggetti Dati Fonte Permessi di soggiorno per protezione Ministero dell’Interno – Dipartisociale (art. 18) mento Pubblica Sicurezza, Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia di frontiera Le vittime Gli sfruttatori Beneficiari dei progetti di assistenza e di integrazione sociale (art.18) Dipartimento Diritti e Pari Opportunità Vittime nei Procedimenti sulla tratta iscritti nei Registri delle Direzioni Distrettuali Antimafia Direzione Nazionale Antimafia Indagati nei Procedimenti sulla tratta iscritti nei Registri delle Direzioni Distrettuali Antimafia Direzione Nazionale Antimafia Persone denunciate, arresti, richieste di rinvio a giudizio, nei procedimenti e sentenze per reati di tratta Ministero di Giustizia – Dipartimento Organizzazione Giudiziaria del Personale e dei Servizi – Direzione Generale di Statistica Ministero dell’Interno – Dipartimento Pubblica Sicurezza, Direzione centrale polizia criminale Persone denunciate e arrestate per reati connessi alla tratta Persone denunciate, arrestate, richieste di rinvio a giudizio per reati connessi alla tratta per cui è stata avviata l’azione penale Fonte: elaborazione Censis 6 Ministero di Giustizia – Dipartimento Organizzazione Giudiziaria del Personale e dei Servizi – Direzione Generale di Statistica Le Direzioni Distrettuali Antimafia sono istituite presso la Procura della Repubblica del tribunale dei 26 capoluoghi di distretto di Corte d'appello (Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Caltanissetta, Campobasso, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova, L’Aquila, Lecce, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Potenza, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Torino, Trento, Trieste, Venezia). 312 Infine, gli enti preposti alla repressione e al controllo dei fenomeni illeciti producono i dati relativi ai reati denunciati, a quelli per cui è stata iniziata l’azione penale e ai procedimenti sopravvenuti, in atto e conclusi. Tavola 2 – Prospetto delle fonti istituzionali sulla tratta in Italia: reati Soggetti Dati Reati connessi alla tratta denunciati I reati Procedimenti sulla tratta iscritti nei Registri delle Direzioni Distrettuali Antimafia Procedimenti e sentenze per reati di tratta (Procedimenti iscritti, definiti, Sentenze di condanna, assoluzione, promiscue, altre sentenze) Fonte: elaborazione Censis Fonte Ministero dell’Interno – Dipartimento Pubblica sicurezza, Direzione Centrale Polizia Criminale Direzione Nazionale Antimafia Ministero di Giustizia – Dipartimento Organizzazione Giudiziaria del Personale e dei Servizi – Direzione Generale di Statistica 7.3 I dati disponibili sulle vittime La quantificazione delle vittime e la successiva classificazione per area di sfruttamento è un’operazione difficile e dai risultati quanto mai incerti. Alcune considerazioni devono essere fatte prima di presentare e analizzare i dati raccolti: - i dati resi disponibili dalle diverse fonti istituzionali presentano spazi parziali di sovrapposizione che possono essere solo stimati poiché le banche dati esistenti non sono comparabili; - i dati disponibili sono relativi alle sole vittime che entrano in contatto con le istituzioni o con gli assistenti ed operatori sociali presenti sul territorio, ne consegue che una larga parte del fenomeno resta sommerso. Il sistema di assistenza ed integrazione sociale In applicazione dell’art. 18 del d.lgs. 286/98 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) e del Regolamento attuativo (d.P.R. n. 394 del 31.08.99), il Dipartimento Diritti e Pari Opportunità, dal 2000 al 2006, ha bandito 7 avvisi pubblici per la presentazione di progetti di assistenza e integrazione sociale rivolti alle vittime di sfruttamento sessuale che chiedono aiuto per uscire dalla coattiva rete della prostituzione. Allo stato attuale, le relazioni compilate dagli enti 313 attuatori dei progetti7 rappresentano il principale patrimonio informativo sulle vittime: purtroppo la scheda utilizzata per la rilevazione e la modalità manuale di raccolta dei dati non consentono di sistematizzare e rendere utilizzabili tutte le informazioni raccolte8. A partire dal 2006, il sistema di assistenza e integrazione sociale ha messo in campo un ulteriore strumento, previsto all’art. 13 della legge 228/03 sulla tratta, relativo a uno speciale programma di assistenza per le vittime dei reati previsti dagli articoli 600 e 601 del codice penale. Il primo bando relativo a tale programma è stato emanato dal Dipartimento Diritti e Pari Opportunità ad agosto 2006 per progetti di fattibilità annuali, destinati a realizzare progetti di assistenza della durata di tre mesi prorogabili sino a sei che garantiscano, in via transitoria, adeguate condizioni di alloggio, di vitto e di assistenza sanitaria alle persone offese. Le vittime che hanno beneficiato dal 2000 al 2006 dei progetti di assistenza art. 18 risultano essere complessivamente 11.226 di cui 619 minori (Tab. 1). In realtà, poiché non esiste una banca dati anagrafica, non è possibile verificare se questo numero corrisponda a singole persone, ovvero sia possibile che vi siano duplicazioni di beneficiari che hanno usufruito dei progetti per più di un anno o a cavallo tra un anno e l’altro e, dunque, si tratti di una somma che sovrastima l’universo. Appare più probabile la seconda ipotesi poiché i beneficiari possono ottenere proroghe o essere trasferiti da un progetto territoriale ad un altro e quindi la stessa persona può essere conteggiata più volte nello stesso anno o in anni successivi. Le vittime che entrano nel sistema di assistenza e integrazione sociale possono fare richiesta di ottenere il permesso per protezione sociale che viene rilasciato dal Questore a seguito di due diversi percorsi: - quello sociale9, attivato su richiesta dei servizi sociali degli enti locali o delle associazioni convenzionate con l’ente locale, abilitate alla realizzazione di programmi di assistenza e integrazione sociale degli stranieri e che rilevino uno stato di violenza e di sfruttamento del quale lo straniero è stato vittima; - quello giudiziario, attivato dal Procuratore della Repubblica nei casi in cui la vittima si sia resa disponibile a collaborare, anche con l’ausilio di enti 7 Il Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità inserisce tra gli adempimenti procedurali da compiere da parte dell’ente attuatore una relazione al primo semestre sullo stato di attuazione del progetto e una relazione finale sui risultati raggiunti. 8 A partire dall’Avviso 7, verrà utilizzata una scheda di rilevazioni dati più completa in grado di raccogliere una gamma di informazioni finora non comprese nelle relazioni redatte. 9 L’indagine sulle prassi interpretative e applicative dell’art. 18 del d.lgs. 286/98 realizzata nell’ambito di questo progetto, evidenzia come molte delle questure non abbiano ancora individuato le modalità per consentire una corretta applicazione della normativa e non utilizzino il percorso sociale. 314 locali o associazioni, e abbia reso dichiarazioni nel corso di un procedimento penale relativamente a fatti di violenza o sfruttamento. I permessi per protezione sociale rilasciati ai beneficiari dei progetti art. 18 tra il 2000 e il 2006 sono stati 5.495 (Tab. 1). Come desumibile dalla tabella, non sempre i beneficiari inseriti nei progetti hanno i requisiti per ottenere il permesso per protezione sociale: i dati disponibili mostrano che a fronte di un picco registrato nel corso del 2° avviso (in cui sono stati ottenuti l’89% dei permessi richiesti), la quota dei permessi concessi oscilla tra il 73 e l’85% delle richieste. Tabella 1 – Numero di vittime inserite nei primi 6 avvisi pubblici dei Progetti di assistenza e integrazione sociale e permessi di soggiorno ottenuti. Anni 2000-2006 Vittime inserite nei Progetti Avvisi Anni 1° 2° 3° Permessi di soggiorno Ottenuti % su perm. v.a. richiesti 833 73 v.a. di cui minori marzo 2000-febbraio 2001 1.755 75 marzo 2001-marzo 2002 1.836 80 1.062 77 marzo 2002-marzo 2003 1.797 70 962 89 927 86 4° maggio 2003-maggio 2004 1.791 118 5° giugno 2004-giugno 2005 2.219 139 942 Nd 137 769 Nd 6° giugno 2005-giugno2006* 1.828 11.226 619 5.495 Totale Fonte: elaborazione Censis su dati del Dipartimento Diritti e Pari Opportunità * dato riferito al 74% dei progetti - Ulteriori informazioni sono desumibili dalle relazioni che i promotori dei progetti di assistenza ed integrazione sociale inviano al Dipartimento per i Diritti e compilando una scheda predefinita nella quale vengono raccolte le seguenti informazioni: - la modalità attraverso la quale il sistema di assistenza entra in contatto con le vittime; - i servizi attivati; - il numero previsto e quello effettivo delle vittime inserite nei progetti con l’ulteriore indicazione di coloro che risultano inserite nel progetto dall’anno precedente; - la tipologia di sfruttamento; - la modalità di accoglienza abitativa; - i permessi di soggiorno per protezione sociale, sia quelli richiesti che quelli ottenuti; - il tipo di orientamento formativo e lavorativo offerto dal progetto; 315 il settore di inserimento lavorativo dei soggetti inseriti nel progetto; il grado di scolarizzazione dei soggetti inseriti nel progetto; la nazionalità e l’età; il numero di quanti abbandonano il progetto. A partire da quest’anno (7° avviso) nell’indicatore “tipologia di sfruttamento”, inserito nella scheda di relazione annuale, si dovrà specificare se lo sfruttamento è di tipo sessuale o lavorativo. - I permessi di soggiorno per protezione sociale Ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. 286/98 le vittime di tratta possono ottenere, attraverso il percorso giudiziario o quello sociale cui si è fatto cenno sopra, un permesso di protezione sociale finalizzato al reinserimento sociale rilasciato dal Questore: “Quando, nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di un procedimento per taluno dei delitti di cui all’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, o di quelli previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, ovvero nel corso di interventi assistenziali dei servizi sociali degli enti locali, siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero ed emergano concreti pericoli per la sua incolumità, per effetto dei tentativi di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita ad uno dei predetti delitti o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio, il questore, anche su proposta del Procuratore della Repubblica, o con il parere favorevole della stessa autorità, rilascia uno speciale permesso di soggiorno per consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza e ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale.” Inoltre, il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale può essere rilasciato al detenuto straniero nel momento in cui lascia il carcere, anche su proposta del Procuratore della Repubblica o del Giudice di sorveglianza presso il Tribunale dei minorenni, se l’espiazione della pena è avvenuta per reati commessi durante la minore età e lo straniero ha concretamente partecipato ad un programma di assistenza ed integrazione sociale. Per evitare la stigmatizzazione della vittima, il permesso di soggiorno per protezione sociale è rilasciato con la motivazione “per motivi umanitari”; ma è registrato dagli Uffici della Questura con la motivazione “protezione sociale”. La procedura di registrazione dei permessi di soggiorno effettuata dalla Questura è automatizzata: in un formulario elettronico si inseriscono i dati anagrafici della persona straniera cui è stato attribuito il permesso (sesso, età nazionalità) selezionando nella sezione “motivo del soggiorno” una delle opzioni precodificate. I dati così inseriti confluiscono nel Data Warehouse centrale che ha sede a Napoli. 316 In base ai dati del Ministero dell’Interno i permessi di soggiorno per protezione sociale sono stati 744 nel 2001, 851 nel 2002, 848 nel 2003 e 811 nel 2004 (Fig. 1). Figura 1 - Permessi di soggiorno per protezione sociale. Anni 2001-2004 851 900 800 848 10 811 744 700 600 500 400 300 200 100 0 2001 2002 2003 2004 Fonte: elaborazione Censis su dati Ministero dell’Interno I dati relativi a questa tipologia di permesso di soggiorno sono un fondamentale serbatoio di informazioni sul numero di vittime della tratta identificate, soprattutto per quanto riguarda lo sfruttamento della prostituzione. Eppure anche questo dato non rileva esattamente il numero delle persone vittime di sfruttamento. Infatti, al termine della durata prevista, 6 mesi rinnovabile per un anno o per il maggior periodo occorrente per motivi di giustizia, il permesso per protezione sociale può essere convertito in permesso per motivi di lavoro o di studio, e poiché le rilevazioni statistiche vengono effettuate al 31 dicembre, i permessi emessi come protezione sociale e convertiti in altra tipologia, nel corso dell’anno, non emergono dalle statistiche ufficiali. Inoltre, non si può non rilevare che nella fase di attribuzione del permesso pesa la discrezionalità dell’operatore della Questura. Può accadere, ad esempio, che ad un minore sia attribuito un permesso per minore età. Per fotografare con maggiore sicurezza il numero di persone che hanno beneficiato del permesso di soggiorno per protezione sociale sarebbe necessario estrapolare dalla banca dati il numero dei permessi che come prima emissione hanno la motivazione di protezione sociale. 10 Al momento in cui è stato redatto il presente Capitolo non erano disponibili dati più aggiornati. 317 Le vittime registrate dalle Direzioni Distrettuali Antimafia In base alla legge 228 del 2003 i procedimenti di tratta vengono affidati alle Direzioni Distrettuali Antimafia, istituite presso la Procura della Repubblica del tribunale dei 26 capoluoghi di distretto di Corte d’appello. A partire dal settembre del 2003 per ogni procedimento vengono inserite nei registri informatizzati delle indagini sia informazioni sulla nazionalità degli indagati, che sull’età e sulla nazionalità delle vittime. I registri informatizzati sono raccolti a livello centrale in una banca dati istituita presso la Direzione Nazionale Antimafia. I dati raccolti non vengono pubblicizzati all’esterno, ma vengono utilizzati esclusivamente a scopi interni. Tra il 7 settembre 2003 e il 31 dicembre 2005 le vittime dei reati di tratta sottoposte a procedimento risultano essere 993, di cui 516 vittime di procedimenti per riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), 299 in processi per tratta (art. 601 c.p.), 29 in processi per alienazione e acquisto di schiavi (art. 602 c.p.) e 149 vittime risultanti per i procedimenti di associazione mafiosa finalizzata alla tratta di persone (art. 416-bis, co. 6, c.p.) (Tab. 2). Tabella 2 – Vittime risultanti dai procedimenti iscritti nei registri per le indagine della Direzione Nazionale Antimafia. Anni 2003-2005 2003 2004 2005 Totale Totale Totale di cui midi cui di cui Totale nori minori minori Vittime Art. 600 55 13 219 30 Art. 601 29 3 124 5 Art. 602 2 1 16 0 Art. 416 co. 0 0 69 1 6 428 Totale 86 17 36 *dal 7/09/2003 al 31/12/2003 Fonte: elaborazione Censis su dati Direzione Nazionale Antimafia 242 146 11 80 21 6 1 0 516 299 29 149 479 28 993 In base ai dati forniti dalle Direzioni Distrettuali Antimafia, la maggior parte delle vittime è originaria dei paesi dell’Europa orientale (in particolar modo dalla Romania). Per quasi un quarto delle vittime non si dispone dell’informazione sullo stato di nascita. Anche in questo caso, però, i dati a disposizione non sono completi e per diversi motivi: - in primo luogo, come già segnalato in precedenza, non sempre vi è una chiara distinzione tra le attività investigative relative alla tratta di persone, di competenza delle Direzioni Distrettuali Antimafia, e quelle relative al traffico di migranti, di competenza delle Procure Ordinarie, per cui può accadere che le Procure si occupino di procedimenti che non spetterebbero loro; - inoltre, nei territori dove non vi sono Direzioni Distrettuali Antimafia, le 318 Procure spesso si occupano anche delle attività investigative sulla tratta. Ne consegue che sarebbero indispensabili azioni di collegamento tra le Direzioni Distrettuali Antimafia e le Procure per una verifica dei dati esistenti; mentre ad oggi, non è prevista una cooperazione in materia. Occorre comunque ricordare che già prima dell’entrata in vigore della legge 228/03 i trafficanti e gli sfruttatori erano perseguiti penalmente sulla base della legge 75/58, la cosiddetta legge Merlin, sullo sfruttamento della prostituzione, ma anche di altre fattispecie criminali quali il sequestro di persona, la violenza sessuale, la minaccia e la violenza privata. Inoltre, in alcuni casi sono stati contestati i reati di cui agli artt. 416 e 416-bis del c.p. Di contro, risultavano meno utilizzate le fattispecie criminali di cui agli artt. 600, 601 e 602 del c.p., che avevano per oggetto la riduzione in schiavitù e che sono stati riformulati con la l. 228/03. 7.4 I dati disponibili sugli sfruttatori Denunciati e arrestati dalle Forze dell’ordine I dati in materia di delittuosità vengono elaborati a partire dall’archivio delle denunce e delle notizie di reato inserito nel Sistema di Indagine (Sdi) del Centro elaborazione dati (Ced) Interforze del Ministero dell’Interno. Questa Banca dati viene alimentata da tutte le forze di polizia (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato, Polizia penitenziaria nonché da altri organismi), mediante il lavoro degli operatori degli uffici periferici. I modelli utilizzati dagli operatori delle forze di polizia sono lo Stat del 2 relativo ai reati considerati dal codice penale, e lo Stat del 4 per le persone denunciate o arrestate per le singole fattispecie di reato considerate11. La banca dati (Sistema Informativo Interforze) è stata informatizzata nel 2004, per cui non sono possibili confronti con gli anni precedenti, quando le denunce venivano registrate su modelli cartacei, esclusivamente da Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza e poi inviate alle strutture provinciali che, a loro volta, le inviavano alle prefetture, che infine le inoltravano al Ministero dell’Interno. Il controllo delle rilevazioni viene fatto periodicamente a livello centrale del Ministero dell’Interno, mentre l’Istat cura, con cadenza annuale, la pubblicazione divulgativa (Annuario Statistiche Giudiziarie) dove, però, i reati di tratta compaiono sotto la voce “altri reati”. A partire dalle esigenze specifiche di questa ricerca è stata avanzata alla Direzione Polizia Criminale presso il Ministero dell’Interno la richiesta di ottenere i dati relativi alle persone denunciate per i reati connessi al fenomeno di tratta di esseri umani. In base ai dati ottenuti risulta che (Tab. 3): 11 Per i denunciati e gli arrestati si rilevano anche i dati relativi a sesso, età e nazionalità. 319 il maggior numero di denunciati riguarda il reato di sfruttamento della prostituzione (art. 3 della legge Merlin): 2.706 nel 2005 e 2.874 nel 2006; - nell’ultimo biennio sono diminuiti i denunciati per il reato di tratta di persone (art. 601 c.p.) da 157 a 129; - crescono i denunciati per riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (dai 384 del 2005 ai 412del 2005); - risultano stazionari i denunciati per sfruttamento della prostituzione minorile, che sono 335 nel 2005 e 340 nel 2006. Questi dati, però, non rilevano il numero delle persone denunciate per più reati, informazione che potrebbe essere ricavata attraverso una specifica interrogazione e che permetterebbe di avere un quadro maggiormente significativo delle dimensioni del fenomeno della tratta. Inoltre, mentre nella banca dati del Ministero dell’Interno è possibile consultare i dati relativi ai reati connessi con la tratta, all’interno della pubblicazione dell’Istat i reati di tratta non compaiono e confluiscono nella voce “altri reati”, mentre compare come voce a se stante lo “sfruttamento della prostituzione e pornografia infantile”. - Tabella 3 – Denunciati dalle forze di polizia, per reato. Anni 2005-2006 2005 Reato Denunciati Art. 600 Riduzione o mantenimento in 384 schiavitù o servitù Art. 600-bis Prostituzione minorile 335 Art. 600-quinquies Iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione 4 minorile Art. 601 Tratta di persone (comma 1 e2) 157 Art. 602 Acquisto ed alienazione di schiavi 32 Art. 12 comma 3-ter d.lgs. 286/98 Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina Art. 3 l. 75/58 (legge Merlin) 2006 Denunciati 412 340 2 129 23 344 314 2.706 2.874 Fonte: Direzione Centrale Polizia Criminale, Servizio per il Sistema Informativo Interforze, Divisione 2° Ced I dati delle Procure e dei Tribunali In base ai dati raccolti attraverso l’indagine specifica sulla tratta realizzata dal Ministero della Giustizia, che rileva il numero dei denunciati nel momento in cui il procedimento viene iscritto in procura si rileva che: • per quanto riguarda il reato di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.): i 320 • • • denunciati sono passati dai 1.495 del 2003 ai 1.048 del 2005, facendo registrare una diminuzione del 30%; mentre nello stesso periodo di tempo gli arrestati sono aumentati del 2,3% e le richieste di rinvio a giudizio del 45,7% (Tab. 4); per quanto riguarda il reato di alienazione e acquisto di schiavi (art. 602 c.p.): sono aumentate del 142,9% le persone denunciate, del 12,5% gli arresti mentre le richieste di rinvio a giudizio sono calate dell’83,6%; per quanto riguarda il reato di sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-bis c.p.) sono diminuite del 21,7% le persone denunciate e del 32% le richieste di rinvio a giudizio, mentre gli arresti sono cresciuti del 26,6%; per quanto riguarda il reato di tratta e commercio di schiavi (art. 601 c.p.), il dato complessivo è quello risultante dalla somma delle ultime due righe della tabella 4 (legge 228 e art. 601), dal momento che si tratta di anni di passaggio dal vecchio al nuovo assetto normativo e il monitoraggio evidenzia i dati riferiti allo stesso reato così come indicati all’interno dei fascicoli processuali. Tra il 2003 e il 2005 le persone denunciate sono aumentate passando da 274 a 359; di contro si rileva una diminuzione sia degli arresti che delle richieste di rinvio a giudizio. Tabella 4 – Persone denunciate, arresti e richieste di rinvio a giudizio per alcuni reati. Anni 20032005 (v.a. e var.%) 2003 2004 2005 Var.% 2003-2005 art. 600 c.p. riduzione in schiavitù v.a. v.a. v.a. % 1.495 1.169 1.048 Persone denunciate -29,9 128 207 131 2,3 Arresti 162 80 88 -45,7 Richieste rinvio a giudizio Art. 600-bis c.p. sfruttamento della prov.a. v.a. v.a. % stituzione minorile 801 424 627 Persone denunciate -21,7 124 160 157 26,6 Arresti 109 113 74 -32,1 Richieste rinvio a giudizio Art. 602 c.p. alienazione e acquisto di v.a. v.a. v.a. % schiavi 84 96 204 Persone denunciate 142,9 16 17 18 12,5 Arresti 67 5 11 -83,6 Richieste rinvio a giudizio Art. 601 c.p. tratta e commercio di schiav.a. v.a. v.a. vi 184 250 n.d. Persone denunciate 57 29 n.d. Arresti 65 4 n.d. Richieste rinvio a giudizio Legge 228/03 tratta di persone v.a v.a v.a. 60 23 359 Persone denunciate 23 1 41 Arresti 12 3 33 Richieste rinvio a giudizio Fonte: elaborazione Censis su dati Ministero della Giustizia Dipartimento Organizzazione Giudiziaria del Personale e dei Servizi – Direzione Generale di Statistica 321 Questi dati risultano però ampiamente incompleti in quanto non tutti gli uffici periferici forniscono alle strutture centrali le informazioni richieste12; in particolare si rileva nel corso degli anni un aumento di negligenza da parte degli uffici preposti alla compilazione delle schede ed in particolare, per il 2005, una forte inadempienza da parte dei Tribunali e dei Tribunali per i minorenni che rispettivamente nel 31% e nel 34% dei casi sono stati inottemperanti (Tab. 5). Tabella 5 - Numero di schede compilate dagli Uffici del Ministero della Giustizia preposti alla rilevazione del fenomeno della Tratta. Anni 2003-2005 % inadempienti % inadempienti % inadempienti Ufficio N° anno 2003 anno 2004 anno 2005 Corte di Appello 29 0% 3% 14% Procura presso il Tribunale 165 6% 7% 18% Procura presso il Tribunale 29 14% 3% 14% dei minorenni Tribunale 165 12% 15% 31% Tribunale per i minorenni 29 14% 19% 34% Totale 417 9% 10% 24% Fonte: elaborazione Censis su dati Ministero della Giustizia – Dipartimento Organizzazione Giudiziaria del Personale e dei Servizi – Direzione Generale di Statistica Persone denunciate per cui l’Autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale Un’ulteriore base dati disponibile riguarda i delitti e le persone denunciate per le quali è stata avviata l’azione penale13; i dati si riferiscono pertanto ad una fase successiva al momento dell’iscrizione del procedimento, rilevata con l’analisi descritta nel precedente paragrafo. Tale base dati, completamente informatizzata (sistema Re.Ge.), si basa sui registri dei procedimenti esistenti presso i singoli uffici giudiziari. L’operatore dell’ufficio periferico compila una maschera standardizzata ove inserisce tutte le informazioni richieste dall’Istat sul procedimento. In particolare, con riferimento ai delitti di autore noto, vengono acquisiti il sesso, la data e il luogo di nascita dell’autore, il tipo e il numero di reati commessi. Anche per i reati di autore ignoto è acquisito il dato sul luogo in cui è stato commesso il reato. Le informazioni rilevate vengono poi controllate e pubblicate dall’Istat nel volume relativo alle Statistiche giudiziarie. In tale pubblicazione sono riportati i dati relativi ai delitti previsti dal codice penale, specificando se di autori noti, il numero dei denunciati, il sesso e se minori. Allo stato attuale le statistiche giudiziarie sono ferme all’anno 2004 (Tab. 6). 12 La partecipazione a questa indagine non è obbligatoria. Ai fini statistici l’azione penale si considera avviata: 1) nel caso di delitti di autori noti quando si provvede ad imputazione formale della persona sottoposta ad indagini preliminari ai sensi dell’art. 405 del c.p.p.; 2) nel caso di autori ignoti quando si dà luogo alla rubricazione del reato nel “registro ignoti”. 13 322 Tabella 6 – Persone denunciate per reati di tratta per i quali l’Autorità giudiziaria ha iniziato l’azione penale. Anni 2003-2004 Persone denunDi cui Di cui minori di ciate F 18 anni 2003 2004 2003 2004 2003 2004 Riduzione in schiavitù Tratta e commercio di schiavi Tratta e commercio di schiavi minori per avviarli alla prostituzione Alienazione e acquisto di schiavi Alienazione e acquisto di schiavi minori per prostituzione e prelievo di organi Fonte: Istat, Statistiche Giudiziarie 298 14 2 208 18 76 53 5 - 32 4 25 4 - 4 - 5 - 5 1 1 - - - - Le indagini delle Direzioni Distrettuali Antimafia In base ai dati relativi ai procedimenti di cui alla l. 228/2003 iscritti nei registri delle Direzioni Distrettuali Antimafia e presenti nella banca dati della Direzione Nazionale Antimafia, tra il settembre del 2003 e la fine del 2005, si contano complessivamente 2.136 indagati per reati connessi alla tratta: di questi 1.234 sono indagati per reati di riduzione o mantenimento in schiavitù; 501 per la tratta di persone; 151 per l’acquisto e alienazione di schiavi; 250 per l’associazione finalizzata alla tratta di persone (Tab. 7). Gli autori dei reati sono in prevalenza di nazionalità italiana, risultato del fatto che le indagini vengono condotte prevalentemente sul territorio nazionale e che i tempi per ottenere risposte ed informazioni utili all’indagini dalle Autorità competenti estere sono piuttosto lunghi. Numerosi risultano essere anche gli indagati di nazionalità rumena, albanese, nigeriana. In particolare, disaggregando il dato per tipologia di reato, si osserva che: - per il reato di cui all’art. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù) oltre agli italiani indagati (386), risultano essere consistenti i rumeni (239), gli albanesi (142) e i nigeriani (80); - per il reato di cui all’art. 601 (tratta di persone) oltre agli italiani (172), gli stranieri maggiormente indagati sono: i rumeni (104), gli albanesi (53), i nigeriani (42) i cinesi (39); - per il reato di cui all’art. 602 (acquisto e alienazione di schiavi) oltre agli italiani (50), gli stranieri maggiormente indagati sono: i nigeriani (29), gli albanesi (19); i rumeni (18); - per il reato di cui all’art. 416 co. 6 (associazione finalizzata alla tratta di persone) oltre agli italiani (80), gli stranieri maggiormente indagati sono: i bulgari (47), gli albanesi (46), i rumeni (26). 323 Tabella 7 – Indagati risultanti dai procedimenti iscritti nei registri per le indagine della Direzione Nazionale Antimafia. Anni 2003-2005 2003* 2004 2005 Totale. Art. 600 149 607 478 1.234 Art. 601 87 214 200 501 Art. 602 23 41 87 151 Art. 416 co.6 5 182 63 250 Totale 264 1.044 828 2.136 *dal 7/09/2003 al 31/12/2003 Fonte: elaborazione Censis su dati Direzione Nazionale Antimafia 7.5 Altri dati a supporto della conoscenza del fenomeno I minori non accompagnati I bambini più vulnerabili sono certamente i minori migranti che approdano nel nostro paese scappando da situazioni di disagio e a volte da paesi in guerra. Una volta entrati in Italia, la difficoltà di accedere a programmi di integrazione, e successivamente di avere un permesso di soggiorno, mette i minori migranti in una condizione di solitudine, di debolezza e quindi a rischio di cadere vittime di sfruttamento sia sessuale che lavorativo e di devianza. Secondo i dati del Comitato Minori Stranieri (Cms)14, organo istituito con l’art. 33 del d.lgs. 286/98 e successivamente con il dPC 535/99 impegnato nel monitorare la presenza di minori stranieri non accompagnati nel territorio italiano, sono 6.572 i minori stranieri non accompagnati in Italia (al 30 giugno 2007). Provengono per lo più da Marocco (25% circa) e Albania (18%). Di questi minori, sempre più numerosi (l’Italia è insieme alla Spagna il paese europeo con il più alto numero), una percentuale rilevante è in Italia senza un regolare titolo di soggiorno, nonostante non possano essere espulsi e abbiano dunque diritto al rilascio di un permesso di soggiorno. Inoltre, moltissimi di questi minori si allontanano immediatamente dalle comunità di accoglienza in cui vengono inseriti, tornando a vivere in condizioni assolutamente inadeguate: in case o fabbriche abbandonate o per strada. Non vanno a scuola, non accedono all’assistenza sanitaria e sono dunque esposti a varie forme di sfruttamento e devianza15. 14 15 Istituito con l’art. 33 del d.lgs. 286/98 e successivamente con il dPC 535/99. Per un’analisi sul tema, cfr. Capitolo 4, infra. 324 I minori dediti all’accattonaggio Il tema dell’accattonaggio minorile è stato più volte oggetto di attenzione della Commissione parlamentare sull’Infanzia in questi ultimi anni. Nell’indagine conoscitiva sull’infanzia in stato di abbandono o semiabbandono approvata nel novembre 200516 è stato inserito un paragrafo nel quale si delineano i principali aspetti di questo fenomeno. La maggior parte dei bambini coinvolti nell’accattonaggio appartiene a comunità di nomadi rom di origine slava, per lo più stanziali sul nostro territorio. Accanto a questi, in percentuale minore, ma tendenzialmente crescente per via dei flussi migratori clandestini, si registra l’impiego di minori marocchini, rumeni e albanesi, specialmente nel Nord Italia. A differenza dei nomadi rom, i minorenni di etnia albanese e rumena vengono “affidati” dalle proprie famiglie ad organizzazioni criminali, per lo più di origine balcanica, che si occupano della loro collocazione in Italia. Attività delittuose connesse al fenomeno sono i piccoli furti, lo spaccio di stupefacenti e lo sfruttamento sessuale. Ne sono vittime quasi sempre minori di nazionalità straniera, spesso costretti a delinquere sotto la minaccia di percosse e di fatto ridotti in condizioni di schiavitù. In base ai dati della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia dello Stato, nel corso del 2005 le denunce relative all’impiego dei minori in accattonaggio (art. 671 del c.p.) sono state 449 in tutta Italia: il più alto numero di denunce si è registrato nella regione Lombardia (90) e in Puglia (73). Lo sfruttamento lavorativo Allo stato attuale non si dispone di alcun dato di carattere quantitativo sulla tratta a scopo di sfruttamento lavorativo: gli unici dati disponibili riguardano le Ispezioni effettuate da Ministero del lavoro, Inail ed Inps su campioni di imprese. Tali ispezioni sono finalizzate a vigilare sul rispetto della normativa, in particolare di quella che regola i rapporti di lavoro. Dalle informazioni raccolte risulta che nel 2006 sono state complessivamente ispezionate 289.705 imprese; di queste 180.643 risultano irregolari, per un totale di 182.453 lavoratori irregolari e 122.983 lavoratori totalmente in nero. È evidente che tra questi ultimi vi siano numerose situazioni di sfruttamento; più difficile affermare se si sia in presenza anche di tratta di persone. 16 Commissione parlamentare sull’Infanzia, Indagine conoscitiva sull’infanzia in stato di abbandono o semiabbandono e sulle forme per la sua tutela ed accoglienza, Documento XVII-bis n. 8. 325 7.6 Osservazioni conclusive Fin qui i dati disponibili che, come già evidenziato nel corso del testo, sono decisamente insufficienti a fornire un quadro esaustivo del fenomeno della tratta di persone in Italia. Di seguito si riportano alcuni dei limiti presenti nelle basi dati disponibili, e già evidenziati nel commento: - i dati riferiscono esclusivamente della parte “emersa” del fenomeno e sono relativi principalmente alla tratta per scopo di sfruttamento sessuale, che è anche quella più visibile e apparentemente numericamente consistente; - manca una forma di coordinamento a livello centrale tra le diverse fonti statistiche disponibili, in alcuni casi anche tra quelle esistenti all’interno di uno stesso Ministero; - vi è una scarsa pubblicizzazione del patrimonio informativo esistente: in tutti i casi analizzati la mole di dati disponibile è assai superiore a quella resa pubblica; - si assiste ad un ritardo nella pubblicazione dei dati esistenti. Per un fenomeno in continua evoluzione qual è quello della tratta, il limite è evidente; - vi è una scarsa informatizzazione e standardizzazione delle basi dati disponibili. Pur comprendendo la difficoltà di allestire banche dati statistiche che diano conto di un fenomeno complesso e multiforme qual è quello della tratta; sembra essere giunto il momento di “mettere a sistema” l’esistente in modo da trarne il maggior profitto sia ai fini di una migliore conoscenza del fenomeno sia per mettere in campo le politiche e gli interventi più idonei. Da questo punto di vista, diventa fondamentale cercare l’apporto anche di altri soggetti, meno immediatamente collegati con il mondo della tratta e che, però, nel corso del loro lavoro, si trovano ad incrociare, anche incidentalmente, alcuni aspetti del fenomeno e che potrebbero essere utilizzati per rilevarne gli aspetti che ancora rimangono sommersi. Ci si riferisce, in particolare ai sindacati per il lavoro nero e sommerso, agli Ispettorati del lavoro, all’Inail e all’Inps per le ispezioni che vengono condotte sui luoghi di lavoro, alla Guardia di finanza, agli Uffici minori delle Questure, al Comitato Minori Stranieri. 326 Osservazioni conclusive: questioni aperte e proposte di lavoro di Francesco Carchedi e Isabella Orfano Gli approcci tecnici utilizzati Dall’analisi delle informazioni acquisite attraverso le singole ricerche presentate in questo libro emergono aspetti conoscitivi sulla tratta di persone a scopo di grave sfruttamento inediti o poco approfonditi negli anni passati. Le informazioni raccolte mediante interviste a testimoni-chiave (operatori ed operatrici sociali, rappresentanti delle forze di polizia, sindacalisti, magistrati delle procure ordinarie e anti-mafia, nonché studiosi del fenomeno)1 hanno costituito, nell’economia generale delle indagini, la prima dimensione conoscitiva. La seconda dimensione conoscitiva è stata, invece, quella derivante dalle informazioni rilevate direttamente da donne costrette alla prostituzione, ossia tra quante si trovavano presso i servizi di assistenza e integrazione sociale accessibili alle organizzazioni che hanno partecipato attivamente allo svolgimento della specifica ricerca sulla tratta a scopo di sfruttamento sessuale. La terza dimensione conoscitiva ha previsto la raccolta di informazioni attraverso interviste dirette ad operatori o a operatrici sociali su casi specifici di vittime adulte e minori di tratta a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo. Questa ultima tecnica ha assunto una particolare significatività per l’acquisizione di informazioni riguardanti le vittime minorenni in quanto è più difficile ottenerle direttamente attraverso l’ascolto di narrazioni compiute (meglio dire quasi impossibile da un lato e poco opportuno per la delicatezza degli argomenti dall’altro). In sostanza, le tecniche di rilevazione sono state diverse ma tutte mirate ad acquisire il massimo di informazioni: da una parte, dunque, le interviste aperte ai testimoni-chiave, dall’altra la raccolta di segmenti di esperienze direttamente da un gruppo di persone in carico ai servizi di assistenza ed integrazione sociale (cioè quelle che si sentivano di raccontare aspetti della 1 Cfr. Lista dei/delle testimoni privilegiati/e intervistati/e, infra. 327 loro esperienza, senza operare nessuna forzatura); da un’altra parte ancora i racconti raccolti dagli operatori – senza citare le identità delle vittime – su casi specifici direttamente seguiti e ritenuti paradigmatici per la comprensione delle forme di assoggettamento e di sfruttamento. Le diverse aree problematiche esplorate L’insieme delle informazioni così raccolte ha prodotto quella massa critica necessaria al raggiungimento degli obiettivi predisposti nel disegno operativo della ricerca generale; obiettivi che – suddivisi a loro volta in sub-obiettivi diversamente articolati – riguardavano i diversi ambiti di sfruttamento in cui le persone trafficate vengono inserite. Prima di raccogliere nuove informazioni e approfondire gli aspetti costitutivi delle singole forme di tratta indagate, si è deciso di concentrare l’attenzione sulle conoscenze già acquisite analizzando i risultati salienti a cui sono pervenute alcune precedenti indagini che hanno affrontato gli stessi argomenti. In tal modo sono state evidenziati gli aspetti distintivi riguardanti le varie forme di tratta fino ad oggi esaminate dalla letteratura in materia, sottolineando in particolare le trasformazioni fenomenologiche e le lacune conoscitive registrate. La letteratura analizzata ha quindi permesso di ricostruire ed osservare le modifiche operate negli anni dei percorsi di tratta, dal reclutamento al viaggio verso il nostro Paese, alle condizioni di sfruttamento e di vita subite, alle fasi di sganciamento dalle attività forzate e all’inserimento nei programmi di assistenza e di inclusione sociale. La maggior parte dei testi considerati riguardava la tratta a scopo di sfruttamento sessuale nella prostituzione di strada, in quanto sono risultate essere ancora poche o pressoché inesistenti le ricerche sulla tratta finalizzata al lavoro forzato, all’accattonaggio conto terzi, alle attività illegali coercitive, all’espianto di organi e alle adozioni internazionali illegali. È inoltre emerso che i dati ufficiali sul numero complessivo di persone trafficate in Italia sono parziali e che i criteri e le procedure di stima del fenomeno finora elaborati necessitano di un ulteriore sviluppo che si basi su metodiche fondate sulla cosiddetta “multimethod perspective”. L’analisi effettuata ha rilevato lo sforzo definitorio fatto nel corso degli ultimi anni per chiarire gli elementi costitutivi del fenomeno qui in oggetto. Gli studi esaminati hanno dimostrato una progressiva aderenza alla definizione di tratta così come essa è stata formulata a livello internazionale e nazionale; tuttavia continuano a permanere una certa difficoltà nel ricomprendere nella accezione legislativa tutte le tipologie di tratta e un utilizzo disomogeneo di alcuni termini fondamentali (es. tratta, traffico, lavoro forzato, schiavitù, servitù, 328 pratiche paraschiavistiche, lavoro nero, sfruttamento grave) che non favoriscono la comprensione dei fenomeni, ma soprattutto rischiano di danneggiare le persone trafficate a causa della loro mancata identificazione. La seconda area di indagine affrontata è stata quella relativa alla tratta a scopo di sfruttamento sessuale di donne adulte e di giovani minorenni. Questa è la tematica maggiormente studiata nel nostro Paese, come precedentemente sottolineato, anche se le trasformazioni avvenute a partire dal biennio 20022003 pongono problemi di aggiornamento delle conoscenze al riguardo; conoscenze che il volume affronta e contribuisce ad estendere maggiormente. L’attenzione della ricerca effettuata si è concentrata sulle diverse modalità e sui cambiamenti che attualmente caratterizzano l’esercizio della prostituzione coatta, sia per quanto concerne gli ambiti di sfruttamento che l’estensione dei gruppi stranieri coinvolti. Dai risultati acquisiti, dunque, si conferma, in primo luogo, l’importanza della prostituzione in strada, in quanto appare essere ancora la principale modalità di esercizio, la cui problematicità si è acuita con il progressivo aumento delle diverse collettività nazionali coinvolte, sebbene i principali siano una decina (tra cui, quelle di origine rumena, nigeriana, moldova e ucraina). In secondo luogo, risulta essersi rafforzata la prostituzione esercitata da migranti nelle case/appartamenti e in altri luoghi al chiuso. In terzo luogo, la ricerca ha evidenziato che, accanto a queste due modalità di esercizio della prostituzione – e di conseguente sfruttamento –, se ne è inserita una terza: l’esercizio alternato sia in strada che al chiuso. Infine, sono emerse le difficoltà interpretative e operative di un fenomeno e dei suoi attori che sono soggetti a continue trasformazioni dettate da molte variabili sociali, normative e applicative di natura locale, nazionale ed internazionale. La terza area di indagine esplorata ha riguardato la tratta a scopo di lavoro para-schiavistico, in quanto problematica ancora piuttosto recente nel panorama nazionale ma che ha raggiunto un alto livello di impatto sociale a partire dagli ultimi quattro/cinque anni. Il lavoro para-schiavistico è stato distinto dal lavoro nero in quanto coloro che ne sono coinvolti ne rappresentano l’estremità maggiormente sfruttata ed impossibilitata a recedere dal “contratto” (per definizione verbale) che li lega al datore di lavoro, che li costringe a sostenere ritmi e modalità lavorative molto al di fuori degli standard contrattuali previsti dagli accordi sindacali ufficiali. Ciò che nello specifico emerge dall’analisi delle interviste sono le modalità di raggiro e di dolo che sovente caratterizzano queste forme lavorative, all’interno di un quadro normativo (quello determinato dalla legge Bossi-Fini) piuttosto discriminante e in qualche modo – anche se indirettamente – quasi giustificativo delle vessazioni verso i lavoratori stranieri. Cosicché i datori di lavoro disonesti – sovente con l’aiuto organizzativo di “caporali” (sia italiani 329 che stranieri) – occupano lavoratori stranieri senza specificare il salario giornaliero, senza specificare quando è necessario fare delle pause di riposo, senza specificare la durata complessiva del lavoro. Inoltre, in casi più estremi, i lavoratori così assoggettati subiscono estorsioni e minacce e sovente, per lavorare, lasciano in pegno i documenti personali (soprattutto il passaporto) e vivono condizioni che si configurano come forme di sequestro di persona, allorquando sono costretti a stare nei luoghi di lavoro chiusi a chiave e l’obbligo di non uscire. In tali condizioni lavorative le retribuzioni sono soventi arbitrarie e l’ammontare è quasi mai concordato in precedenza. Cosicché qualsiasi offerta monetaria venga poi proposta dai datori a fine giornata o a fine settimana – in combutta con i caporali – i lavoratori non possono rifiutarla; non possono rifiutare, infatti, per la semplice ragione che rischiano di non ricevere alcun compenso. In sostanza si verificano dei ricatti, anche se sovente velati di paternalismo e non chiaramente esplicitati, a danno dei lavoratori stranieri. Questi possono soltanto cambiare lavoro, quando ne sono in grado; oppure sottostare a queste modalità assoggettanti, pur di mantenere una qualsivoglia attività lavorativa che permetta loro la sopravvivenza. In queste forme di lavoro para-schiavistico incappano immigrati delle più diverse nazionalità ed età; oltretutto rimangono intrappolati nelle maglie del lavoro para-schiavistico anche immigrati con esperienze di lavoro consolidate e quindi non solo immigrati della prima ora, cioè appena arrivati in Italia e disorientati dalla complessità “ambientale”. Anche i settori di sfruttamento sono diversi, anche se nell’agricoltura (soprattutto nelle fasi della raccolta dei prodotti della terra) e nell’edilizia rapporti lavorativi di natura para-schiavistica sono maggiormente diffusi. La piccola industria manifatturiera – e in qualche caso la media – fa uso di questo tipo di lavoro assoggettante sovente a fianco del lavoro garantito. La quarta area oggetto di studio è stata quella relativa al coinvolgimento di minori stranieri in percorsi devianti e illegali (spaccio di sostanze stupefacenti, furti, borseggi, accattonaggio conto terzi, prostituzione), al fine di determinare se sia possibile ricondurre tale fenomeno ad una forma organizzata di tratta di persone. Lo studio, che si è concentrato sulle aree (metropolitane e non) italiane dove sono maggiormente presenti minori stranieri non accompagnati, ha permesso di individuare una realtà complessa e multiforme che coinvolge i/le minori, le famiglie, reti parentali o amicali, organizzazioni più o meno strutturate dedite a facilitare l’espatrio irregolare e lo sfruttamento in Italia. Una realtà composita che ha messo in evidenza l’esistenza di fenomeni distinti – che in alcuni casi sono interrelati – nei percorsi migratori di minori che arrivano nel nostro Paese autonomamente o accompagnati. La complessità emersa ha evidenziato con forza la difficoltà a capire se si è di fronte a un fenomeno o a singoli episodi di tratta. 330 La ricerca si è in particolar modo concentrata sui minori marocchini e rumeni, rom e non, in quanto essi sono i gruppi di giovani stranieri maggiormente presenti in Italia e i più significativi rispetto agli obiettivi previsti dallo studio. Sono state identificate delle specializzazioni “etniche” specifiche nei mercati di sfruttamento in base alle città di provenienza, ai luoghi di destinazione e al gruppo di appartenenza dei/delle minori. Si è riscontrato che, indipendentemente dal paese di origine, l’accattonaggio spesso è la prima attività che i minori devono svolgere una volta arrivati in Italia, ma che, dopo qualche mese, diventa un’attività saltuaria che o si abbandona o si utilizza come fonte integrativa di guadagno alle nuove attività devianti intraprese, quali furti, borseggi, spaccio di sostanze stupefacenti e prostituzione. Le informazioni raccolte sulle condizioni sociali, familiari ed economiche dei minori mettono ancora una volta in evidenza che ci si trova di fronte a persone con percorsi e progetti migratori molti diversi, pur tuttavia è emerso un tratto distintivo che accomuna una parte significativa di minori: il non appartenere alle fasce sociali più deboli dei loro paesi di provenienza e di essere considerati una risorsa per migliorare le condizioni familiari e, quindi, le proprie. La quinta area di indagine – oggetto tra l’altro di molta attenzione da parte dei media nazionali – è stata quella della tratta di persone a scopo di espianto di organi. In sintesi ciò che l’indagine scolta mette in rilievo è il fatto che questo tipo di fenomeno (almeno attualmente in Italia) sembra essere pressoché inesistente. Ciò che invece è stato rilevato è il fatto incontrovertibile che esiste un traffico di organi espianti in altri paesi, generalmente in quelli poveri. Qui vengono acquistati organi vitali – dopo essere stati espianti a persone che li mettono in vendita per sopravvivere – destinati al ricco mercato europeo. La possibilità di intercettare questo traffico illegale sembrerebbe piuttosto difficile poiché si fonderebbe su un mercato grigio che prospera a fianco di quello legale, ma svolto in maniera clandestina e seguendo sub-canali invisibili all’interno di quelli visibili e legittimati da accordi transnazionali tra stati diversi. La sesta area di indagine si è concentrata sull’analisi della tratta a scopo di adozione internazionale illegale, mettendo in rilievo le possibili contiguità tra violazione della normativa e rischio di tratta. Lo studio ha messo in evidenza che le adozioni illegali, gli abusi e le pratiche irregolari compiute in vari momenti del percorso di adozione internazionale riguardano anche l’Italia, ma il collegamento con la tratta risulta essere molto incerto. Tuttavia, si è rilevata l’esistenza di “aree grigie” che riguardano sia l’effettiva ottemperanza del principio di sussidiarietà dell’adozione internazionale in confronto ad ogni altra forma di protezione dei minori in difficoltà, sia la certezza che il consenso all’adozione sia stato volontario, senza scambio di denaro o di altro tipo di “indennizzo”. La settima area di indagine è stata quella caratterizzata dall’analisi delle 331 fonti statistiche ufficiali che rilevano le vittime e gli sfruttatori della tratta. Sono state analizzate al riguardo le fonti principali e poi quelle secondarie, nonché le leggi o i regolamenti a cui ciascuna di esse fa riferimento. La raccolta dei dati è una questione di fondamentale importanza poiché definisce l’entità quantitativa di un dato fenomeno (in questo caso, la tratta di persone) e ne influenza direttamente la programmazione degli interventi istituzionali. Ciò che emerge dall’analisi è una varietà di fonti gestite da organi diversi che producono dati statistici raccolti in maniera distinta e basati su item differenti e quindi di difficile comparazione. Le fonti principali – a livello nazionale – continuano ad essere quelle del Dipartimento dei Diritti e delle Pari Opportunità, che acquisisce i dati attraverso le organizzazioni e gli enti locali che gestiscono i progetti di assistenza ed integrazione sociale co-finanziati con la legge 286/98 (art. 18), che quindi rilevano le parti offese (cioè le vittime dello sfruttamento para-schiavistico); e la Direzione Nazionale Antimafia che rileva, oltre alle vittime citate nei procedimenti sulla tratta iscritti nei registri, anche gli autori di reato, ossia coloro che compiono reati previsti dalla legge 228/03. Importanti al riguardo sono i dati che raccolgono le amministrazioni comunali – soprattutto delle grandi città – laddove operano le unità di contatto e i servizi sociali stabili che sovente le coordinano, ma anche in questo caso la comparabilità appare ancora del tutto problematica. Alcune proposte operative L’analisi di ciascuna delle aree di indagine esplorate in questa pubblicazione porta alla definizione di proposte operative che possono contribuire a rendere l’intervento generale di protezione sociale e di contrasto alla tratta maggiormente efficiente. Alcuni possibili interventi sono trasversali, altri invece sono più specifici a ciascun ambito di sfruttamento in cui le vittime vengono inserite una volta arrivate in Italia. Conoscere il fenomeno della tratta di persone nelle sue multiformi espressioni e continue trasformazioni è fondamentale perché solo conoscendo adeguatamente i meccanismi di tale fenomeno è poi possibile approntare le necessarie misure normative ed operative per tutelare le vittime e contrastare le reti criminali. È di primaria importanza, quindi, che in Italia si investano fondi e risorse umane adeguate per indagare i diversi ambiti in cui vengono sfruttate le persone trafficate. L’analisi della letteratura effettuata ha altresì evidenziato la necessità di favorire la creazione di gruppi di ricerca multidisciplinari e multisettoriali. Ciò permetterebbe infatti, da un alto, di approfondire in maniera adeguata le varie forme di tratta, dall’altro, di favorire la condivisione di categorie di analisi e l’adozione di un linguaggio comune 332 che, allo stato attuale, ancora difettano. Condividere un linguaggio comune tra chi si occupa a vario titolo di tratta di persone deve costituire quindi un obiettivo prioritario per il prossimo futuro. Rafforzare la rete dei servizi esistenti sul territorio nazionale diversificandoli in base anche ai bisogni delle vittime delle forme più recenti di sfruttamento (lavoro para-schiavistico, accattonaggio conto terzi, economie illegali) non è più procrastinabile. Allo stato attuale le organizzazioni e le reti operanti sia a livello nazionale che a livello locale sono nella stragrande maggioranza dei casi rivolte ad offrire servizi e protezione alle persone trafficate sessualmente sfruttate. Le organizzazioni che offrono assistenza e protezione alle vittime del lavoro forzato sono ancora poche su tutto il territorio nazionale a fronte delle circa duecento che intervengono invece a favore delle vittime sfruttate nel mercato della prostituzione. Pur tuttavia, nonostante l’esiguo numero, queste organizzazioni che operano contro il lavoro para-schiavistico sono già in grado di erogare prestazioni di supporto con un livello di qualità soddisfacente; di fatto, hanno oramai sviluppato una esperienza di lavoro sociale sufficientemente adeguata per essere disseminata come buona pratica anche su altre aree del Paese. Far funzionare un singolo servizio o la rete e le reti dei servizi comporta oneri di tipo economico che le fonti di finanziamento attualmente disponibili non riescono adeguatamente a coprire. Non si tratta solo di aumentare le risorse economiche in questo specifico settore di intervento (ormai appare imprescindibile), ma anche di capire come le risorse in dotazione alle istituzioni nazionali, quelle regionali e comunali possono divenire sinergiche e maggiormente produttive, indirizzandole con efficacia e soprattutto coordinandole sugli stessi obiettivi ma pianificati su territori diversi a livello regionale. La regolarità nell’erogazione dei fondi deve essere garantita per permettere un ottimale funzionamento dei servizi e, quindi, mantenere un’alta qualità delle prestazione fornite alle persone assistite. In questo modo si tutela anche la professionalità e il lavoro di chi (spesso da anni) si confronta con un’occupazione resa strutturalmente precaria dalle scarse risorse allocate al settore e dai ritardi nell’erogazione dei fondi. L’aspetto che emerge con maggior forza dalle indagini realizzate è il fatto che ancora nelle istituzioni intermedie e locali non matura la consapevolezza che siamo davanti ad un fenomeno grave e incipiente. Ad esempio, i giuristi ed operatori di polizia intervistati sono del parere che i Tribunali non hanno ancora ben compreso il fenomeno, nonostante ci siano leggi – ed ottimi magistrati – che possono attivare un efficace contrasto alle nuove forme di tratta. Anche tra i sindacalisti intervistati, dal canto loro, emerge un orientamento abbastanza simile al precedente: le organizzazioni di categoria (da quelle agricole a quelle edili e manifatturiere o dei servizi) non sembrano 333 ancora dare il giusto peso alla problematica e pertanto non c’è ancora quella mobilitazione sufficiente a far emergere con forza l’intera questione, farla divenire “agenda politica”. Le istituzioni locali, dunque, comprese le amministrazioni comunali, appaiono ancora del tutto concentrate sulla questione relativa allo sfruttamento sessuale, affacciandosi ancora troppo moderatamente su quella concernente il lavoro para-schiavistico. Anche in questo caso appare urgente attivare forme di sensibilizzazione e di formazione sui temi della tratta da rivolgere agli attori istituzionali che sono chiamati, a vario titolo, ad occuparsi di tratta di persone nei loro territori di competenza. L’approccio multi-agenzia2 deve quindi diventare parte costitutiva delle prassi operative utilizzate a livello locale e nazionale ai fini dell’assistenza alle vittime e della prevenzione e della repressione del crimine. Significa quindi adottare un approccio fondato sul coinvolgimento regolare delle differenti istituzioni ed organizzazioni che lavorano nell’ambito del cosiddetto settore anti-tratta che devono agire sulla base di procedure standardizzate concordate. Una stretta cooperazione tra forze dell’ordine e organizzazioni non governative e intergovernative è parte essenziale di qualsiasi strategia di contrasto. Nel corso degli anni il livello e le forme di cooperazione tra le diverse agenzie sono significativamente cambiate fino a produrre, in alcuni casi, protocolli di intesa quotidianamente utilizzati per seguire i singoli casi di tratta. Tuttavia, in diverse aree del territorio italiano, le relazioni tra tali attori non sono ancora sufficientemente sviluppate o sono addirittura inesistenti. In quest’ottica occorre (re)istituire dei Tavoli locali di coordinamento delle forze per confrontarsi, elaborare prassi operative comuni, promuovere moduli formativi congiunti tra gli attori della protezione sociale (amministratori ed operatori pubblici e del privato sociale), quelli del contrasto alle reti criminali (le diverse forze di polizia) e quelli non ancora sufficientemente coinvolti in questo ambito di intervento (sindacati, ispettorati del lavoro, associazioni datoriali, etc.). Ciò che occorre consolidare è il rapporto tra questi diversi attori. Nessuno è in grado da solo di affrontare complessivamente la questione, ma ciascuno – condividendo gli obiettivi dell’altro – può dare un prezioso contributo coordinando regolarmente gli sforzi reciproci. L’estensione delle nazionalità coinvolte nei circuiti prostituzionali e in quelli del lavoro para-schiavistico comporta problemi nuovi ed inediti, come quello del potenziamento della mediazione linguistica. Con l’apparizione, ad esempio, della prostituzione cinese (ancora a livelli numericamente bassi, almeno per quella esercitata in strada) e tailandese sorgono problemi 2 Per approfondimenti sull’approccio multi-agenzia, cfr. Icmpd et al., Anti–trafficking training for frontline law enforcement officers. Background reader for police, border guards and customs officials in EU Member States, Accession and Candidate Countries, Vienna, 2007, pp. 21-36. 334 complessi di comunicazione: non solo con le vittime, ma anche per comprendere le modalità di insediamento delle reti criminali e quindi contrastare le organizzazioni di sfruttamento. La lingua in questo caso è un ostacolo molto serio. Vanno pensati servizi ad hoc con mediatori e mediatrici linguistico-culturali per la protezione sociale (in varie parti del territorio nazionale esistono già) e strutture di polizia in grado di comprendere la lingua ed entrare nelle maglie della criminalità cinese o tailandese. Quindi, diventa necessario prevedere regolari corsi di formazione linguistica per gli agenti che operano nel settore o l’inserimento di agenti-madre lingua negli organici per sviluppare al meglio le operazioni di contrasto). Altrettanto determinante è inserire nei programmi formativi delle forze dell’ordine moduli specifici (anche di aggiornamento) sulla tratta di persone per assicurare la conoscenza delle norme e delle varie forme di espressione di tale fenomeno e quindi garantire la capacità di identificare le vittime e gli autori di reato. Il coinvolgimento di minori in attività illegali e devianti è una questione molto complessa, che deve essere adeguatamente considerata prima di attivare qualsiasi tipo di intervento, proprio per le varie specificità dei collettivi di minori individuati dalla ricerca effettuata: gruppi di minori che praticano il piccolo spaccio o il piccolo furto o forme mascherate di questua (come la vendita di piccoli oggetti o il lavaggio di vetri) per la loro sopravvivenza individuale o familiare; gruppi di minori – seppur numericamente non significativi – che vengono organizzati in squadre di lavoro che fanno riferimento ad un “caporale” (sovente adulto o coetaneo spalleggiato da adulti-delinquenti) per svolgere l’accattonaggio con una certa metodicità (divisione e rispetto delle aree assegnate, orari ben definiti e soprattutto suddivisione dei proventi a vantaggio del caporale); gruppi di minori, con consistenze numeriche ancora più basse, specificamente assoggettati ad adulti aguzzini che li spingono a praticare piccoli furti/scippi o spaccio oppure accattonaggio in maniera para-schiavistica, senza ricevere alcun compenso (le spese per vitto e alloggio sono gestite direttamente dall’aguzzino) e sottostando, coercitivamente, a differenti forme di abuso e di minacce. La differenza tra queste tre categorizzazioni appare evidente, poiché i minori coinvolti giocano un ruolo diverso: passano da pratiche svolte per la mera sopravvivenza (anche sfociando in azioni micro-delinquenziali) a pratiche organizzate in maniera consensuale (entrata/uscita da attività illegali o semi-illegali gestite da caporali) e a pratiche organizzate non consensuali e specificatamente configurabili come para-schiavistiche. Da un punto di vista “dell’interesse superiore del bambino” (previsto dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, 1989) la seconda e la terza pratica di sfruttamento si equivalgono e sono da considerarsi fortemente negative per il minore: gli adulti che li spingono a tali pratiche sono da considerarsi autori di 335 un reato. Infatti, il/la minore – sia esso/a consenziente che non consenziente – comunque non svolge quelle attività consone alla sua età, in primis una vita sociale adeguata al regolare sviluppo delle sue facoltà e capacità psico-fisiche e la frequenza/formazione scolastica; tale condizione limita/annulla la praticabilità dei suoi diritti fondamentali. Ciò che invece cambia, in presenza di consenso o non consenso, è il fatto che l’auto-percezione dello sfruttamento è incomparabilmente diversa e quindi può determinare forme diverse di invischiamento affettivo-esistenziale, rendendo molto lenta – in entrambi i casi con motivazioni opposte – la maturazione della consapevolezza di sottostare comunque a forme grave di sfruttamento. Per quanto riguarda la prima categoria, invece, occorre fare ulteriori riflessioni, in quanto il minore è da considerarsi come un “deviante”, una persona che sopravvive mediante micro-azioni illegali, ma all’interno di una condizione di estrema vulnerabilità sociale derivante sovente dal fatto che vive solo nel nostro paese o che ha genitori in condizioni altrettanto vulnerabili e di povertà estrema. La società di accoglienza, dunque, e con essa il sistema di servizi pubblici e privati, ha l’obbligo (per legge) di cercare di far recuperare a questi minori una dimensione di vita normale, rafforzando/attivando interventi di protezione sociale specifici. Constatata la condizione di vulnerabilità individuale del minore e quella della famiglia (quando è presente) occorre proteggere non solo i minori ma anche la famiglia o il genitore che lo accompagna. Scindere il destino del minore da quello del genitore va contro qualsiasi buon senso e contro lo stesso concetto di “interesse superiore del fanciullo”. Infatti, tra gli interessi del minore non può non esserci la vicinanza della famiglia o del genitore con cui è emigrato (a parte valutazioni specifiche di incompatibilità tra il minore e la famiglia o il genitore). Ciò non vuol dire che le famiglie non hanno nessuna responsabilità allorquando spingono i loro figli alla questua e ad altre forme di “economia di strada” (giacché i rischi di devianza sono molto alti), ma quanto che l’impegno istituzionale deve elevarsi all’altezza della problematica e misurarsi con essa in maniera adeguata e responsabile. Sovente invece gli interventi sociali in questo settore – e specialmente verso le comunità rom –hanno standard erogativi medio-bassi (e in alcuni casi decisamente bassi o del tutto assenti) e pertanto non sono in grado di stimolare e supportare l’attivazione di processi di inclusione sociale di soggetti o comunità a grave rischio di emarginazione. Non si vuole con questo spostare tutte le responsabilità sulle istituzioni, come non si tratta, al contrario, di indicare nelle comunità devianti le uniche responsabili della loro bassa o assente propensione all’integrazione. Le istituzioni devono aumentare il volume dei loro interventi in questo delicato settore, mentre i soggetti e le comunità devianti devono comprendere 336 che la convivenza è fatta di regole a cui occorre dare la dovuta attenzione per non commettere infrazioni e finanche reati sanzionabili. Vale al riguardo – soprattutto per le istituzioni – l’approccio dell’educare e non punire indiscriminatamente. La tratta di persone è un fenomeno transnazionale, un dato dal quale non si può prescindere se si vuole contrastare efficacemente la sua perpetuazione. Molto è stato fatto a livello di cooperazione internazionale, ma molto di più è necessario fare quanto prima. È innanzitutto auspicabile una ripresa e il relativo rafforzamento degli accordi bilaterali tra polizie e magistrature di paesi coinvolti dalla tratta. Attività di sensibilizzazione e di cooperazione devono essere rafforzate, anche perché esperienze di cooperazione decentrata (soprattutto con i paesi di origine delle donne coinvolte nella tratta) sono ormai maturate in diversi contesti regionali, ma una strategia comune e condivisa è ancora lungi da essere definita e praticata. Tale aspetto non può che comprendere anche la questione lavorativa, soprattutto nelle sue forme para-schiavistiche. È necessario incentivare visite o stage di studio tra attori, a vario titolo impegnati contro la tratta, di paesi diversi al fine di acquisire nuove conoscenze sul fenomeno, favorire lo scambio di buone pratiche e attivare procedure di raccordo operativo3. Coordinare gli sforzi operativi a livello europeo e transnazionale è diventata una priorità a cui bisogna dare al più presto risposta. Al fine di potenziare la cooperazione a livello internazionale e facilitare lo scambio di esperienze e di informazione, è auspicabile l’istituzione di una rete europea contro la tratta di persone, così come sollecitato da tempo anche dal Gruppo di esperti sulla tratta di esseri umani nominato dalla Commissione europea4. In conclusione, l’istituzione di un Osservatorio nazionale stabile sul fenomeno della tratta di persone non può più essere rimandato, così come non è altrettanto rimandabile un Osservatore centralizzato a livello dell’Unione europea. Questo non solo per affrontare la questione delle fonti e della loro 3 Per favorire la collaborazione tra agenzie impegnate nella lotta contro la tratta, nell’ambito delle attività transnazionali realizzate dal progetto Osservatorio Tratta (di cui anche questo libro è un prodotto), è stato realizzato un database delle organizzazioni di molto paesi che offrono varie tipologie di servizi alle persone trafficate. Il database – il primo nel suo genere – può essere consultato al seguente indirizzo web: http://www.osservatoriotratta.it/headway/index.php 4 Secondo il Gruppo degli esperti, tale rete “dovrebbe fondarsi sulle strutture di cooperazione stabilite a livello nazionale, in particolare sui sistemi nazionali di referral, e dovrebbe occuparsi di prevenzione, protezione e assistenza delle vittime così come di strategie di contrasto del crimine e di cooperazione giudiziaria e di polizia. Una decisione del Consiglio relativa all’istituzione di tale rete dovrebbe essere elaborata tenendo in considerazione come esempio la rete europea di prevenzione della criminalità.”, in Commissione europea, Tratta degli esseri umani. Rapporto del Gruppo di esperti nominato dalla Commissione europea, Il Centro Stampa, Roma, 2006, p. 130. 337 comparabilità statistica (fatto di per sé già estremamente significativo), ma anche per studiare il fenomeno e comprendere le sue trasformazioni. Comprendere queste significa adeguare al meglio la capacità di risposta istituzionale e anticipare così l’azione trasformativa delle reti criminali finalizzata ad evitare la loro intercettazione da parte delle Forze dell’ordine. Significa inoltre comprendere i bisogni delle vittime e contribuire ad approntare servizi che rispondano alle loro reali necessità, perché il principio ispiratore di qualsiasi attività in questo ambito deve sempre essere il pieno rispetto dei diritti umani delle persone trafficate. 338 Glossario di Salvatore Fachile, Valeria Ferraris, Isabella Orfano, Elena Rozzi1 Tratta di persone2 Il trattato più recente e completo che riguarda specificatamente la tratta è il Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, sopprimere e punire la tratta di persone, specialmente di donne e minori (2000). Il “Protocollo sulla tratta” (o “Protocollo di Palermo”) è uno dei due protocolli acclusi alla Convenzione sulla criminalità transnazionale organizzata; l’altro verte sul traffico di migranti. L’articolo 3 del summenzionato Protocollo di Palermo definisce la tratta di persone in questi termini: “(a) ‘La tratta di persone’ indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, dando oppure ricevendo somme di denaro o benefici al fine di ottenere il consenso di un soggetto che ha il controllo su un’altra persona, per fini di sfruttamento. Per sfruttamento si intende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro o servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, l’asservimento o l’espianto di organi; (b) Il consenso di una vittima di tratta di esseri umani allo sfruttamento di cui alla lettera (a) è irrilevante laddove sia stato utilizzato uno qualsiasi dei mezzi di cui alla lettera (a); (c) il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere un minore a scopo di sfruttamento sono considerati ‘tratta di esseri umani’ anche se non comportano l’utilizzo di nessuno dei mezzi di cui alla lettera (a) del presente articolo; (d) Per ‘minore’ si intende ogni persona avente meno di diciotto anni di età.” 1 La versione completa di questo documento, contenente anche le definizioni di “politiche” (a cura di F. Prina), “buone pratiche” e “modelli di intervento” (a cura di V. Castelli) può essere consultata al seguente indirizzo web: www.osservatoriotratta.it 2 In inglese “trafficking in human beings” e in francese “traite des êtres humains”. 339 Analoga la definizione specifica prevista dalla normativa italiana; il reato di tratta viene così definito dalla legge n. 228/2003: “Chiunque commette tratta di persona che si trova nelle condizioni di cui all'articolo 6003 ovvero, al fine di commettere i delitti di cui al primo comma del medesimo articolo, la induce mediante inganno o la costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno, è punito con la reclusione da otto a venti anni. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i delitti di cui al presente articolo sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi.” QUINDI La tratta di persone è caratterizzata da: B B B il reclutamento (es. attraverso l’offerta di lavoro all’estero o all’interno del paese) o il trasporto e il trasferimento (es. trasferimento di persone tra paesi diversi o all’interno di un paese) o l’ospitare o l’accogliere persone trafficate; l’utilizzo di mezzi – per realizzare gli atti sopra descritti – quali la minaccia o l’utilizzo della forza, di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità; allo scopo di sfruttamento sessuale, lavorativo, schiavitù, accattonaggio, asservimento o espianto di organi. La tratta ha luogo anche quando lo spostamento è avvenuto in maniera legale o si è in possesso di regolare permesso di soggiorno. Il consenso della persona allo spostamento è irrilevante qualora siano stati utilizzati i mezzi di cui al secondo punto illustrato sopra. Il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere un minore a scopo di sfruttamento è sempre considerato “tratta di persone” anche se non vengono utilizzati i mezzi di cui al secondo punto. 3 Articolo che definisce il reato di “riduzione in schiavitù” come “l’esercizio su una persona di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero la riduzione o mantenimento di una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.” 340 Traffico di migranti4 Il trattato più recente e completo che riguarda specificatamente il traffico di migranti è il Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria. L’articolo 3 del summenzionato Protocollo definisce il traffico di migranti in questi termini: “(a) ‘Traffico di migranti’ indica il procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, l'ingresso illegale di una persona in uno Stato Parte di cui la persona non è cittadina o residente permanente; (b) ‘Ingresso illegale’ indica il varcare i confini senza soddisfare i requisiti necessari per l'ingresso legale nello Stato d’accoglienza; (…)” QUINDI Il traffico di migranti si caratterizza per: lo spostamento illegale di una persona da uno Stato ad un altro senza soddisfare i requisiti necessari per l'ingresso legale nello Stato di destinazione; B il consenso della persona trafficata o della sua famiglia: non vengono utilizzati mezzi quali la minaccia o l’utilizzo della forza, di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità; B la dazione di un compenso ai trafficanti: lo scopo dei trafficanti non è lo sfruttamento sessuale, lavorativo, etc., della persona trafficata ma l’ottenimento di un compenso a fronte del servizio di far entrare illegalmente la persona nello Stato di destinazione; B la libertà di andare per la propria strada una volta giunti a destinazione, pur nella limitazione oggettiva data dal trovarsi in condizione illegale in un paese straniero e dal bisogno economico. B 4 In inglese “smuggling”, in francese “trafic illicite”. 341 Riassumendo, le caratteristiche che distinguono e differenziano la tratta di persone dal traffico di migranti sono le seguenti: ELEMENTI Tipo di crimine TRAFFICO di MIGRANTI Crimine contro lo Stato TRATTA di PERSONE Crimine contro la persona Violazione delle leggi sull’immigrazione e/o sull’ordine pubblico. Violazione dei diritti umani. Il reato di traffico di migranti di per sé non comporta la commissione di reati a danno dell’immigrato introdotto illegalmente nel paese. La persona trafficata è vittima di coercizione e sfruttamento, reati che impongono allo Stato di adempiere ai suoi obblighi di tutela dei diritti umani e, quindi, di trattare la persona trafficata come una vittima di reato. Perché lo combattiamo? Per proteggere la sovranità dello Stato. Per proteggere i diritti umani degli individui. Relazione “contrabbandiere”/“contrabbandato” e trafficante/trafficato Commerciale: il rapporto tra “contrabbandiere” e la persona immigrata termina nel momento in cui la frontiera viene attraversata e il pagamento viene corrisposto. Sfruttamento: il rapporto tra trafficante e persona trafficata continua anche dopo aver raggiunto il luogo di destinazione al fine di massimizzare i profitti economici e/o altri vantaggi derivanti dallo sfruttamento a beneficio del trafficante. Obiettivo Movimento organizzato di persone per ragioni di profitto economico. Trasporto/reclutamento organizzato e sfruttamento (continuo) della persona trafficata per trarne profitti economici. Attraversamento illegale delle frontiere L’attraversamento illegale delle frontiere è un elemento costitutivo del reato. Non è richiesto l’attraversamento illegale o meno della frontiera. Consenso L’immigrato acconsente all’attraversamento illegale della frontiera. Non c’è consenso o il consenso iniziale diventa irrilevante a causa dell’uso della forza o della coercizione, in qualsiasi fase del percorso di tratta, a danno della persona trafficata. Fonte: ICMPD et al., Modulo formativo pilota - Formazione di sensibilizzazione sulla tratta di esseri umani rivolta alle forze dell’ordine, alla polizia di frontiera e doganale degli Stati membri e degli Stati candidati, Vienna, 2006, p. 18. 342 Schiavitù/Pratiche analoghe alla schiavitù e servitù La Convenzione sulla schiavitù della Lega delle Nazioni (1926) definisce la schiavitù come “lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o taluni di essi” (art. 1.1). La Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e delle istituzioni e delle pratiche analoghe alla schiavitù (1956)5 esplicita una serie di pratiche assimilabili alla schiavitù estendendo e rafforzando il campo di applicazione della Convenzione del 1926. Vengono così incluse nella definizione la servitù da debito; la servitù; le istituzioni e le pratiche che consentono la vendita di una donna, negata del diritto di rifiuto, a scopo di matrimonio, la vendita di una donna sposata, il trasferimento a terzi di una vedova quale lascito; le istituzioni e le pratiche che consentono la consegna di un minore di anni 18 a terzi, dietro compenso o meno, da parte dei genitori o del tutore legale a scopo di sfruttamento o sfruttamento lavorativo. Tutte queste pratiche comportano in qualche misura una limitazione della libertà dell’individuo da parte di chi esercita il potere nei suoi confronti. Tale limitazione viene spesso ottenuta con mezzi violenti. La schiavitù in senso classico si caratterizza per la privazione della libertà personale di un individuo da parte di chi ne assume la proprietà anche in senso giuridico e la non libertà di mutare la propria condizione. Oggi, quando si parla di schiavitù (o meglio di pratiche analoghe alla schiavitù) e di servitù, si fa riferimento a forme di mancanza della libertà al cui interno i poteri attinenti al diritto di proprietà vengono esercitati in via di fatto. Si differenziano schiavitù e servitù in base alla tipologia di relazioni instaurate. Nella servitù un ruolo fondamentale è rivestito dalla vicinanza fisica tre le parti che instaurano un rapporto di carattere familiare, basato su forme pre/post-contrattuali. La schiavitù o la condizione paraschiavistica sono, invece, del tutto estranee ad una dimensione dei rapporti familiari. Il quantum di violenza (così come di inganno o di condotta abusiva) utilizzato per costringere la persona ad entrare nella condizione di schiavitù o servitù, così come la tipologia di punizione in caso di tentativo di sottrarsi al regime schiavistico e servile variano lungo un percorso che va dalla privazione assoluta della libertà in assenza di qualsiasi forma di negoziazione (ad eccezione di quella in grado di garantire la sopravvivenza della persona privata della libertà) a forme di privazione relativa che rendono la situazione di assoggettamento sempre più sfumata e progressivamente sempre più lontana da una condizione para-schiavistica. 5 Inserita nell’ordinamento italiano con la legge 20 dicembre 1957, n. 1304. 343 Secondo Kevin Bales6, le principali differenze tra vecchia e nuova schiavitù sono così sintetizzabili: Vecchia schiavitù Nuova schiavitù Proprietà legale accertata Alto costo d’acquisto Bassi profitti Scarsità di potenziali schiavi Rapporto di lungo periodo Schiavi mantenuti a vita Importanza delle differenze etniche Proprietà legale evitata Bassissimo costo d’acquisto Elevatissimi profitti Surplus di potenziali schiavi Rapporto di breve periodo Schiavi usa e getta Irrilevanza delle differenze etniche K. Bales, 2000 La normativa italiana (art. 600 c.p.) definisce la “riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù” nel modo seguente: “Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento [...]. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi.” Lavoro forzato La Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sul lavoro forzato (n. 29) del 1930 definisce il lavoro forzato come “ogni lavoro o servizio ottenuto da una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente.” Si tratta, quindi, di una situazione di coercizione finalizzata ad ottenere lo svolgimento di una prestazione lavorativa attraverso la violenza (fisica e/o psicologica) o la minaccia di una sanzione o di una punizione. “Una situazione di lavoro forzato è determinata dalla natura del rapporto esistente tra lavorato6 K. Bales, I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 20. 344 re/lavoratrice e ‘datore di lavoro’ e non dal tipo di attività svolta, per quanto difficili e pericolose possano essere le condizioni in cui essa viene svolta”7. Sono ravvisabili due elementi specializzanti rispetto alla schiavitù: • l’utilizzo di violenza o di minaccia di sanzione o punizione (e non anche di raggiro o inganno come può avvenire nella schiavitù); • lo svolgimento non volontario di una prestazione di lavoro o di servizi. In base all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la seguente lista di indicatori può essere utilizzata per l’identificazione del lavoro forzato8: B minacce o danni fisici effettivi al lavoratore; B restrizioni della libertà di movimento e confinamento nel luogo di lavoro o in un’area ristretta; B servitù per debiti: il soggetto lavora per estinguere un debito o un prestito e non viene pagato per i propri servizi. Il datore di lavoro può fornire vitto e alloggio a prezzi talmente gonfiati che il lavoratore non riesce a saldare il debito; B salario trattenuto o eccessive riduzioni di salario che violano gli accordi stipulati in precedenza; B sequestro del passaporto e del documento di identità, in modo tale che il lavoratore non possa partire o dimostrare la propria identità e il proprio status; B minaccia di denuncia alle autorità, laddove il lavoratore sia un immigrato irregolare. Tutte queste pratiche comportano in qualche misura una limitazione della libertà dell’individuo, ottenuta sovente con mezzi violenti. In ogni caso, la definizione di lavoro forzato non contempla il concetto di proprietà così come questo viene inteso dalle due Convenzione sulla schiavitù. In definitiva, la distinzione tra schiavitù e lavoro forzato è sempre più problematica da compiere in quanto “attraverso l’assoggettamento nel lavoro si verifica in realtà un vero e proprio assoggettamento della persona. (…). Nel caso della schiavitù e del lavoro forzato l’elemento comune è costituito dalla condizione di assoggettamento della persona, che attiene sempre ad un rapporto sociale e personale e non solo ad un rapporto economico, e dunque investe globalmente la personalità del lavoratore/lavoratrice, così nel caso della 7 Organizzazione Internazionale del Lavoro, A Global Alliance against Forced Labour. Global Report under the Follow-up to the ILO Declaration on Fundamental Principles and Rights at Work, Ginevra, 2005, p. 6. 8 Organizzazione Internazionale del Lavoro, Human Trafficking and Forced Labour Exploitation. Guidance to Legislation and Law Enforcement, Special Action Programme to Combat Forced Labour, Ginevra, 2005. 345 schiavitù come in quello del lavoro forzato. L’elemento specializzante nel lavoro forzato è costituito dalla circostanza che tale assoggettamento viene tipicamente realizzato attraverso lo sfruttamento del lavoro, attuato in forme coercitive/abusive, generalmente in una situazione collettiva9.” Gli ambiti di sfruttamento Premessa Lo “sfruttamento” è uno degli elementi che costituisce le fattispecie della riduzione in schiavitù e della tratta di esseri umani. Allo stesso tempo rappresenta (in forma di “grave” sfruttamento”) uno dei requisiti della differente fattispecie di cui all’art.18 del Testo Unico Immigrazione. Lo sfruttamento richiede che via sia un soggetto che consapevolmente trae un ingiusto profitto (anche non economico) dalla attività legale o illegale di un altro soggetto e che ciò avvenga tramite una “imposizione”10 Una “imposizione” ricade sulla decisione stessa della vittima di svolgere o meno una certa attività, ovvero consiste nella sottrazione totale o parziale dei profitti dell’attività medesima. Questa “imposizione” può realizzarsi mediante violenza, minaccia, inganno o qualsiasi altra attività che incida significativamente sulla capacità di autodeterminazione dell’altro soggetto. La vittima dello sfruttamento può essere un adulto o un minore; ciò che rileva è che la sua libertà di autodeterminazione sia stata diminuita o annullata dalle azioni dell’altro soggetto. Chiaramente una persona minore presenta (di massima) una maggiore vulnerabilità della sua libertà di autodeterminazione. Questo elemento cresce tan9 M.G. Giammarinaro, “La servitù domestica. Spunti per una riflessione giuridica”, in F. Carchedi, G. Mottura. E. Pugliese (a cura di), Il lavoro servile e le nuove schiavitù, Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 160-161. 10 Cassazione penale, sez. fer., 10 settembre 2004, n. 39044: “La nozione di riduzione in schiavitù, alla base del reato di cui all'art. 600 c.p., come modificato dalla l. n. 228 del 2003, è connotata non solo e non tanto dal concetto di proprietà in sé dell’uomo sull’uomo, ma dalla finalità di sfruttamento di tale proprietà, per il perseguimento di prestazioni lavorative forzate o inumane, di prestazioni sessuali pure non libere, di accattonaggio coatto, obblighi “di fare” imposti mediante violenza fisica o psichica. La detta finalità di sfruttamento è quella che distingue la fattispecie dell’art. 600 da ogni altra forma di inibizione della libertà personale, considerata quest'ultima come facoltà di spostamento nel tempo e nello spazio e tutelata dagli art. 605-609-decies c.p.” (Fattispecie nella quale è stato affermato che la cessione di neonato uti filius verso il pagamento di una somma di denaro od altra utilità, non poteva essere inquadrata nella fattispecie di cui all'art. 600 in quanto il fine di lucro, nel caso concreto, era rimasto nell'ambito della "riserva mentale"). 346 to più decresce l’età della persona minore. La persona minore che svolge attività di qualsiasi genere in concorso con adulti, dunque, non necessariamente è vittima di sfruttamento, anche se crescono le possibilità che ciò avvenga. La presenza di un eventuale consenso è irrilevante sia per gli adulti che per le persone minori, in quanto, essendovi una “imposizione”, tale consenso sarebbe in ogni caso viziato e dunque irrilevante. Lo sfruttamento può avere diverse graduazioni. La legge italiana richiede che sia “grave” affinché si possa configurare la fattispecie di cui all’art.18 Testo Unico Immigrazione. Per la riduzione in schiavitù e la tratta di esseri umani, viceversa, non si richiede che lo sfruttamento sia grave. La gravità può ravvisarsi alternativamente o nella misura in cui la vittima viene privata dei profitti della sua attività ovvero nella misura in cui viene violata la sua libertà di autodeterminazione. Sfruttamento sessuale In relazione ai temi qui in esame, lo sfruttamento sessuale è ravvisabile nella condotta di chi, con una “imposizione”, trae un profitto da attività attinenti alle sfera sessuale altrui (l. 228/03 che introduce i nuovi artt. 600 e ss.). Si prescinde dalla tipologia di prestazione sessuale, che può differenziarsi dal normale svolgersi dell’atto sessuale e perfino prescindere dalla presenza fisica del cliente. Molteplici sono le situazioni di sfruttamento sessuale: Prostituzione Si può definire la prostituzione come l’attività di chi pone in essere prestazioni attinenti alla propria sfera sessuale in cambio di denaro o altra utilità economica in favore di soggetti tendenzialmente indeterminati. Principali reati previsti nella legislazione italiana: - sfruttamento, agevolazione e induzione alla prostituzione (artt. 3 n. 4 e 5 l. 75/1958): punisce chiunque sfrutti, agevoli o induca la prostituzione di una donna maggiore di età (reclusione da due a sei anni più pena pecuniaria); - prostituzione minorile (art. 600 bis): punisce chiunque induca, favorisca o sfrutti la prostituzione di un minore di 18 anni (reclusione da sei a dodici anni più una pena di carattere pecuniario) e punisce altresì chiunque compia atti sessuali con un minore di anni 18 in cambio di denaro o altra utilità economica (reclusione da sei mesi a tre anni o da due a cinque anni, più pena pecuniaria); 347 - iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600 quinquies): punisce chiunque organizza o propaganda viaggi finalizzati alla fruizione della prostituzione minorile (reclusione da sei a dodici anni più pena pecuniaria). Pornografia pornografia minorile (art. 600 ter): punisce chiunque utilizzando minori degli anni diciotto, realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico ovvero induce minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni pornografiche (reclusione da sei a dodici anni più una pena pecuniaria) e chiunque distribuisca, diffondi, pubblicizzi materiale pornografico riguardante minori o notizie e informazioni finalizzate all’adescamento o sfruttamento sessuale di minori (reclusione da uno a cinque anni più pena pecuniaria); detenzione di materiale pornografico minorile (art. 600 quater): punisce chi, al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo precedente, consapevolmente si procura o detiene materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto (reclusione fino a tre anni più pena pecuniaria); Sfruttamento lavorativo Lo sfruttamento lavorativo rappresenta una delle possibili forme di sfruttamento e si caratterizza per il fatto che l’ingiusto profitto è tratto da una attività “propriamente lavorativa” della vittima. Per attività lavorativa si intende una qualsiasi attività economica per la quale l’ordinamento giuridico riconosce un diritto al pagamento di una somma di denaro proporzionale alla quantità e alla qualità della prestazione svolta. Non importa che siano stati adempiute le comunicazioni e le registrazioni richieste dalla legge ai fini fiscali, contributivi e pensionistici. In altri termini, è irrilevante che la attività lavorativa sia svolta “in nero”. Alla luce di quanto sopra chiarito, può ravvisarsi uno sfruttamento lavorativo qualora una persona (che può essere il datore oppure un terzo) privi un lavoratore di una consistente parte della retribuzione a cui questo ha diritto in base alle prestazioni effettuate. È necessario che ciò sia conseguenza di una (consapevole) “imposizione”, ossia di una procurata diminuzione significativa della capacità di autodeterminazione del lavoratore. Per capire se si è verificata o meno una tale diminuzione è necessario considerare tutti i fattori di vulnerabilità del soggetto, tra cui anzitutto l’eventuale minore età (altri sono: la condizioni di irregolarità, la conoscenza della lingua, lo stato di bisogno…). 348 Lo sfruttamento lavorativo e il lavoro forzato appartengono a una medesima tipologia di sfruttamento. All’interno di questa stessa tipologia è ravvisabile una loro distinzione sia per l’entità della procurata diminuzione della libertà di autodeterminazione della vittima (che nel lavoro forzato si spinge fino all’annullamento), sia per gli strumenti utilizzati a tale scopo (che nel lavoro forzato appaiono più legati alla violenza e alla minaccia fisica). Tanto lo sfruttamento lavorativo che il lavoro forzato costituiscono possibili elementi (in concorso con altri) sia della riduzione in schiavitù, sia della tratta di esseri umani, sia della fattispecie di cui all’art.18 T.U. Imm. Accattonaggio e attività illegali Lo sfruttamento in attività di accattonaggio ha le medesime caratteristiche evidenziate per lo sfruttamento lavorativo. La differenza con quest’ultimo è ravvisabile nel fatto che la mendicità non è definibile come una attività propriamente lavorativa (non attribuisce infatti un diritto al pagamento). Allo stesso tempo l’accattonaggio non rappresenta una attività penalmente illecita, salvo sia svolto con l’ausilio di un minore di anni 14 (o altrimenti non imputabile). In quest’ultimo caso tuttavia si commette una semplice contravvenzione punita in modo piuttosto lieve (art. 671 c.p.). Nell’ambito della riduzione in schiavitù, della tratta o della fattispecie di cui all’art.18 T.U. Imm. non è sufficiente che ci si avvalga di altri nello svolgere attività di accattonaggio. Infatti, si richiede che vi sia uno sfruttamento di quest’ultima, ossia che consapevolmente un soggetto “imponga” ad altri questa attività per poi privarlo di tutto o di parte dei profitti. L’accattonaggio, soprattutto di minori e donne, è utilizzato spesso in alcune culture come ordinario strumento di economia domestica. Bisogna allora capire in questi casi quando si può parlare di sfruttamento e quando invece non può ravvisarsi l’intenzione di trarre un ingiusto profitto. In tal senso è necessario adottare un articolato metro di giudizio che tenga conto anche di tali differenze socio-culturali, considerando tuttavia sempre come parametro fondamentale e preminente il superiore interesse del minore e il rispetto dei suoi diritti fondamentali. Quello che è certo è che lo svolgimento dell’attività di accattonaggio anche avvalendosi di un minore (seppur talora costituisce reato ai sensi dell’art. 671 c.p.) non rappresenta di per sé una forma di sfruttamento. Affinché si configuri come tale è necessario ravvisare tutti gli elementi già evidenziati in premessa. Un discorso analogo può essere fatto per tutte le altre attività economiche non propriamente lavorative che, tuttavia, non sono penalmente perseguibili (si pensi alle attività girovaghe non autorizzate per le quali è previsto il semplice 349 pagamento di una ammenda). Un discorso analogo può essere fatto in relazione alle attività illegali, da intendersi come penalmente illecite. In particolare il riferimento è alle condotte punite con la reclusione (c.d. delitti), tra cui le più comuni sono traffico di sostanze stupefacenti, rapine e furti. Anche in questo caso, il semplice fatto che uno degli agenti rivesta un ruolo di maggiore autorità e che percepisca una maggiore quota dei proventi illeciti non significa che si sia innanzi a una ipotesi di sfruttamento. È necessario che concorrano tutti gli altri elementi evidenziati in premessa. Ciò anche nel caso in cui siano coinvolti delle persone minori. Indubbiamente il fatto che si tratti di attività illegali (e dunque “rischiose”) rappresenta un importante indizio di una presumibile “imposizione” realizzata ai danni della persona minore. Tuttavia deve considerarsi solo e esclusivamente in termini di maggiore probabilità. Il legislatore ha voluto in ogni caso tutelare le persone straniere che durante la minore età hanno commesso un reato, nella convinzione che ciò – anche se non necessariamente in condizioni di costrizione – sia avvenuto in conseguenza di una rilevante vulnerabilità della persona. Infatti, l’ultimo comma dell’art.18 del T.U. Imm. sancisce che le persone (anche adulte) che scontano una pena per un reato commesso durante la minore età possono entrare in un programma di “assistenza e integrazione sociale” e ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Vendita di minori a scopo di adozione internazionale illegale Per “adozione internazionale illegale” si intende un vasto e variegato fenomeno di violazione delle normative nazionali e internazionali che regolano l’istituto dell’adozione di bambini con diversa cittadinanza (anzitutto la Convenzione sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione fatta a L’Aja il 29 maggio 1993). Solo in parte un tale fenomeno entra in contatto con le tematiche della riduzione in schiavitù e della tratta di esseri umani (nella legge italiana v. art. 601 c.p. primo inciso e art. 602 c.p.). Più precisamente, l’adozione illegale può rappresentare il contesto in cui una persona (qui sempre minore) viene ceduta ad altri in cambio di un profitto (anche non economico). Anche in questo caso è necessario che vi sia nelle intenzione dell’agente lo scopo di trarre un ingiusto profitto. In tal senso, non può parlarsi di tratta o di vendita di schiavi nei confronti di chi adotta – seppur in modo illegale – un bambino con l’intenzione di inserirlo nel proprio nucleo familiare in qualità di figlio. Al contrario costituisce “vendita (…) il fatto di ottenere indebitamente, in quanto intermediario, il consen350 so all’adozione di un bambino in violazione degli strumenti giuridici internazionali relativi all’adozione” (Protocollo opzionale alla convenzione dei diritti del fanciullo sulla vendita di bambini, la prostituzione dei bambini e la pornografia rappresentante bambini delle Nazioni Unite, art. 3). L’agente (o chi opera in concorso con questo) deve esercitare un potere corrispondente al diritto di proprietà (ad esempio, si pensi all’intermediario che contribuisce alla conclusione del patto con cui un bambino viene venduto da Tizio a Caio) o comunque la vittima deve trovarsi in una situazione di soggezione continuativa. È chiaro che tanto più il bambino è piccolo tanto più un tale potere è oggettivamente rilevabile. Vendita di organi Di norma per “vendita di organi” si intende la cessione dietro corrispettivo di una parte del corpo umano (o propria o di altri) la cui esportazione non conduce al decesso. Le cornee e i reni sono normalmente gli organi maggiormente commerciati. La vendita, ossia la cessione in cambio di denaro, è internazionalmente vietata (la Carta di Nizza, all’art. 3 recita: “Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere rispettati: (…) Il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro”; Convenzione Onu per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano con riguardo all’applicazione della biologia e della medicina (1997): Capitolo VII: Divieto di lucro e uso di una parte del corpo umano), salvo essere consentita in alcuni legislazioni nazionali. Anche nel caso della vendita di organi, solo a certe condizioni si potrà parlare di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), tratta (art. 601 c.p.) o “grave sfruttamento” (art.18 T.U. Imm). Anche in questo caso, infatti, è necessario che si configuri uno sfruttamento, anche se invero sembra che (salvo in casi molto particolari) il fatto stesso che il soggetto si presti alla cessione di un proprio organo rappresenta un sicuro indice di una “imposizione”. Imposizione che quanto meno nasce dall’approfittamento di uno stato di bisogno o di forte vulnerabilità. Così come, allo stesso tempo, è oggettiva la presenza di un ingiusto profitto, essendo la vendita di organi espressamente vietata in quasi tutti gli ordinamenti nazionali oltre che in quelli internazionali. 351 Osservatorio e Centro Risorse sulla Tratta di Esseri Umani Finalità Il progetto Osservatorio e Centro Risorse sulla Tratta di Esseri Umani1 si propone di costruire nuovi strumenti e sistemi di conoscenza e monitoraggio sulle diverse forme di sfruttamento legate alla tratta (nella prostituzione, nel lavoro forzato, nell’accattonaggio e nelle attività illegali, nelle adozioni internazionali illegali e nel traffico di organi), prospettando al contempo strumenti di raccordo tra gli enti di diversa natura e a diversi livelli impegnati nella tutela delle persone trafficate e nel contrasto al fenomeno, con la finalità di incidere positivamente sulle politiche e gli interventi di settore. Composizione della Partnership di Sviluppo Il progetto si basa su una partnership qualificata e differenziata in termini geografici, di diversificazione della natura, dei ruoli e delle competenze: - Associazione On the Road (soggetto referente) - Azienda Ulss 16 di Padova - Censis – Fondazione Centro Studi Investimenti Sociali - Cnca – Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza - Comune di Venezia - Dipartimento di Scienze Sociali – Università di Torino - Irecoop Veneto – Istituto Regionale per l’educazione e gli studi cooperativi - Irs – Istituto per la Ricerca Sociale Società Cooperativa - Nova – Consorzio Nazionale per l’Innovazione Sociale - Provincia di Pisa - Save the Children Italia. 1 Per informazioni dettagliate sulle attività del progetto e per consultare i prodotti realizzati: www.osservatoriotratta.it o scrivere al seguente indirizzo di posta elettronica: [email protected] 352 Le attività • Ricerca-intervento sui diversificati fenomeni della tratta di esseri umani che ha preso in esame: - legislazioni e politiche di intervento a livello nazionale e transnazionale e stato attuale delle ricerche sul fenomeno; - la dimensione quanti-qualitativa dei fenomeni della tratta di esseri umani; - le caratteristiche e i percorsi delle vittime, dalla tratta ai percorsi di uscita e di inserimento sociale. • Ricerca-valutativa sui modelli di intervento nel settore, sulle figure professionali e sui rispettivi iter formativi che ha effettuato: - la ricognizione, l’analisi e la validazione dei modelli di intervento sviluppati sul piano nazionale dalla fase di primo contatto/bassa soglia all’inserimento sociolavorativo e tutte le fasi intermedie di accoglienza, sostegno e accompagnamento; - la ricognizione e l’analisi sui ruoli e figure professionali impiegate nel settore e dei rispettivi iter formativi. • Osservatorio. Creazione di strumenti e sistemi di monitoraggio sul fenomeno e gli interventi nella tratta di esseri umani che ha consentito di: - costituire una banca dati online sui progetti e gli enti operativi nel settore in Italia, in Europa e nei Paesi Terzi, che include anche i modelli di intervento; le metodologie e gli strumenti operativi; - costruzione e implementazione di un sistema di monitoraggio e Osservatorio nazionale e regionale sul fenomeno della tratta di persone; - costruzione e implementazione di sistemi di valutazione degli interventi. • Centro Risorse. Attivazione di un sistema di progettazione e operatività integrata nazionale e transnazionale (e di correlazione con enti e progetti nei paesi di origine delle vittime della tratta) che ha permesso: - l’attivazione di un Polo di Consulenza, Assistenza Tecnica e Raccordo online per la progettazione e il raccordo di interventi integrati nazionali e transnazionali (non solo in Europa) nel settore; - la costruzione di sezioni specifiche della banca dati online su: o l’interscambio tra i progetti ai fini dell’ottimizzazione delle risorse; o gli enti nei paesi di origine per il sostegno socio-occupazionale per le persone che decidono per il rientro; o l’attivazione di raccordi con imprese nei paesi di origine per l’implementazione di misure di inserimento lavorativo. • Attività di concertazione, diffusione, mainstreaming, tra cui - attivazione di un sito internet; realizzazione di tre pubblicazioni; - tre seminari nazionali e una conferenza transnazionale finale. 353 La rete I partner di Osservatorio Tratta consentono di avere un impatto nazionale del progetto, coinvolgendo i vari soggetti pubblici e privati attivi nel settore: - gli enti pubblici e non profit che realizzano i progetti art. 18 d.lgs. 286/98, i progetti art. 13 della legge sulla tratta n. 228/2003, gli enti titolari e gestori delle postazioni locali del Numero Verde Nazionale a favore delle vittime di tratta; - altri soggetti-chiave nella realizzazione di azioni a favore delle vittime di tratta (Forze dell’Ordine e Autorità Giudiziaria, servizi sanitari, servizi per l’impiego, associazioni sindacali e datoriali, reti del terzo settore). Fatta salva la costante interrelazione tecnica con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e con l’Isfol, si prevede uno stretto raccordo con la Commissione Interministeriale per l’attuazione dell’art. 18 e dell’art. 13, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, condotta dal Dipartimento Diritti e Pari Opportunità, con la partecipazione dei Ministeri dell’Interno, della Giustizia, del Lavoro e delle Politiche Sociali. Si prevede inoltre uno specifico raccordo con Ministero degli Affari Esteri, con la Conferenza Stato-Regioni, con la Direzione Nazionale Antimafia. Headway: – Improving Social Intervention Systems for Victims of Trafficking2 Di particolare interesse la dimensione transnazionale del progetto Osservatorio Tratta, che ha visto coinvolti paesi da tempo membri dell’Unione europea ma anche Paesi recentemente ammessi e che rappresentano contesti di origine e/o di transito delle vittime della tratta. Composizione della Partnership di Sviluppo Transnazionale Le PS nazionali rappresentano non solo contesti regionali e nazionali differenti (di origine, di transito e di destinazione di tratta), ma anche tipologie diverse di enti pubblici e privati impegnati nel cosiddetto settore anti-tratta: - Estonia: Integration of Women Involved in Prostitution into the Labour Market - Germania: Reintegration of Victims of Trafficking – Strengthening of National Supporters - Italia: Osservatorio e Centro Risorse sul Traffico di Esseri Umani - Lituania: Integration and reintegration of victims of human trafficking into working society - Polonia: IRIS – Social and Vocational Reintegration of Women – Victims of Trafficking - Portogallo: Cooperação-Acção-Investigação-Mundivisão. 2 Per informazioni dettagliate sulle attività del progetto e per consultare i prodotti realizzati: www.osservatoriotratta.it/headway/index.php 354 Attività - Panoramica del fenomeno della tratta di esseri umani nei paesi partner Raccolta delle leggi nazionali contro la tratta di esseri umani e relativi provvedimenti adottati Raccolta e scambio di buone pratiche rivolte alle persone trafficate Sviluppo di un modello per monitorare il fenomeno Sviluppo di un modello per mappare le organizzazioni/servizi e realizzazione della mappatura Database transnazionale on-line dei servizi disponibili per persone trafficate Meeting e conferenze transnazionali, pubblicazione e diffusione 355 Lista dei/delle testimoni privilegiati/e intervistati/e Sono molte le persone da ringraziare: innanzitutto le donne, gli uomini e le/i minori che hanno acconsentito a raccontare le loro storie di tratta e di sfruttamento al gruppo di ricerca. Senza la loro disponibilità a “raccontarsi” la realizzazione di questo volume non sarebbe stata in alcun modo possibile. Si ringraziano inoltre le seguenti persone che, a vario titolo, si occupano della tutela delle persone trafficate o del contrasto al fenomeno o si interessano di tematiche relative o contigue alla tratta, per aver messo a disposizione tempo e saperi preziosi: Francesca Accardo, già assistente sociale del Centro di primo soccorso e prima accoglienza La Misericordia, Lampedusa Teresa Albano, Counter Trafficking Focal Point, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, Roma Anna Amendolea, direttrice di servizio sociale del Ministero della Giustizia, Dipartimento Minori, Ufficio Servizio sociale per i Minorenni per la Toscana Ciprian Arsene, già coordinatore dell’Unità di strada prostituzione minorile e minori a rischio di devianza e criminalità, Casa dei diritti sociali Focus, Roma Mongi Ayari, educatore, Cooperativa Sanabil, Torino Manuela Austeri, coordinatrice del progetto Equal “Emergendo”, Cooperativa Il Cerchio, Pisa B.P., educatore pari del progetto “Orizzonti a colori”, Save the Children Italia, Roma Lassaad Azzabi, mediatore culturale della Cooperativa Sociale Dedalus, Napoli Giuliana Bacchione, coordinatrice della postazione locale del Numero Verde contro la Tratta, Provincia di Genova Cristina Baldi, psicologa dell’Associazione Arcobaleno, Firenze Chiara Barlucchi, metodologa della ricerca e consulente del Centro Nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, ’Istituto degli Innocenti, Firenze Charlie Barnao, ricercatore, Trento Anaur Bellelagi, già mediatore culturale del Centro di primo soccorso e prima accoglienza La Misericordia, Lampedusa e attualmente dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati Carlo Bertani, scrittore, Roma Roberta Bettoni, responsabile servizi tratta e immigrazione, Cooperativa Lotta contro l’Emarginazione, Varese Marco Bouchard, sostitutore procuratore della Procura della Repubblica di Torino Paolo Borgna, sostitutore procuratore della Procura della Repubblica di Torino Anselmo Botte, responsabile del Dipartimento immigrazione, Cgil e Flai, Salerno Marco Caporale, responsabile del Settore minori non accompagnati, Associazione Virtus Ponte Mammolo, Roma 356 Roberta Capponi, presidente della Commissione Adozioni Internazionali, Roma Silvana Cassinelli, ufficiale di polizia giudiziaria della Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni del Piemonte e Valle d’Aosta, Torino Carlo Chiaromonte, responsabile del Centro per il contrasto alla mendicità infantile del Comune di Roma, Associazione Arci solidarietà, Roma Nunzia Cipolla, operatrice sociale della Cooperativa Sociale Dedalus, Napoli Daniele Cologna, ricercatore sociale di Synergia, Milano Massimo Conte, ricercatore di Codici – Agenzia di ricerca sociale, Milano Sonia Cortopassi, operatrice sociale della Società coop. soc. Extraordinaire, Viareggio Ivone Cravaro, parroco di Borgo Segezia (Foggia) Ildiko Czane, mediatrice culturale, consulente del Centro Giustizia Minorile di Torino Lucia Dallai, responsabile del Servizio per minori e famiglie, Comune di Firenze Luigi De Magistris, sostituto procuratore della Procura della Repubblica di Catanzaro Italo Del Sarto, assistente sociale del Comune di Viareggio Adelchi D’Ippolito, sostituto procuratore della Procura della Repubblica di Roma Claudia Di Penta, coordinatrice dell’Unità di strada, Associazione Volontarius, Bolzano Annamaria Fiorillo, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Milano Federico Frezza, sostituto procuratore della Procura della Repubblica di Trieste, Direzione Distrettuale Antimafia Adalberto Fucarino, psicologo e coordinatore di Villa Exodus di Montevago (Agrigento) Oria Gargano, presidente della Cooperativa Bee Free, Roma Maria Grazia Giammarinaro, giudice, responsabile per la tratta di esseri umani presso la DG JLS – Commissione europea, Bruxelles Pietro Antonio Michele Governale, medico dell’Asl 6 di Palermo, Poliambulatorio di Lampedusa Tatiana Gutierrez, consulente dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, Dipartimento Diritti e Pari Opportunità, Roma Antonella Inverno, coordinatrice del progetto “Orizzonti a colori”, Programma Minori Migranti, Save the Children Italia, Roma Frida Ionizza, Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie, Torino Luciana Izzo, procuratore della Repubblica del Tribunale per i Minorenni di Napoli Bedros Kendirjian, mediatore culturale del progetto Argo “Presidium”, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, Roma Mariam Khosrovi, educatrice e coordinatrice del Centro Pronto intervento Minori Caritas Diocesana di Roma Laura Laera, ex giudice del Tribunale per i minorenni di Milano, ora in Corte d’Appello Nadio La Gamba, responsabile del Centro Pronto intervento Minori, Caritas Diocesana, Roma Laura Lagi, etnopsicologa del progetto “Orizzonti a colori”, Save the Children Italia, Roma Monica Lanzillotto, coordinatrice del Centro per il contrasto alla mendicità infantile del Comune di Roma Hassan Maamri, responsabile regionale Area Immigrazione, Arci Sicilia Luigi Mancuso, capitano, comandante di sezione presso il Nucleo Operativo, Carabinieri di Roma Dania Manti, vice questore aggiunto della Polizia di Stato, Squadra Mobile di Roma 357 Ignazio Marino, chirurgo e presidente della Commissione Sanità del Senato della Repubblica Vincenzo Maroni, referente dell’Unità mobile, Associazione On the Road, Martinsicuro Anna Marsden, ricercatrice, Università di Firenze Francesca Martini, operatrice del Numero Verde contro la Tratta, Consorzio sociale Agorà, Genova Tiziano Masini, sostituto procuratore della Procura della Repubblica di Varese Claudia Mazzola, giornalista della Rai Radio Televisione Italiana, Roma Leslie Mechie, coordinatrice dell’Unità mobile, Cooperativa Sociale Cat, Firenze Elena Mezzetti, presidente dell’Associazione Donne in Movimento, Pisa Simona Mochi, coordinatrice di una struttura di accoglienza, Comune di Firenze Guilhem Moline, mediatore culturale di Medici Senza Frontiere Joseph Moyersoen, consulente dell’Istituto degli Innocenti e membro del Consiglio dell’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia Cataldo Motta, procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Lecce, Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce Giovanni Mottura, docente universitario dell’Università di Bologna Maura Muneretto, presidente della Cooperativa Parsec, Roma Corinna Muzzi, social worker di Medici Senza Frontiere Alessandro Nanni Costa, presidente del Centro Nazionale Trapianti, Roma Flavio Nossa, segretario provinciale della Cgil, Varese Annamaria Pafundi, ufficiale di polizia giudiziaria della Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni del Piemonte e Valle d’Aosta, Torino Matteo Paoltroni, field officer del Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Lampedusa Elisabetta Parrinello, operatrice sociale della Cooperativa Sociale Ester, Prato Vincenzo Passarelli, presidente dell’Associazione Italiana Donatori Organi, Roma Valerio Pedroni, operatore sociale del Centro Accoglienza Segnavia, Padri Somaschi, Milano Luigi Perrone, docente universitario dell’Università di Lecce Antonio Pietrogrande, coordinatore progetti dell’Associazione Mimosa, Padova Augusto Pistilli, presidente nazionale di Federsex, Roma Michele Poli, presidente della Lila Trentino Onlus, Trento Raffaella Pregliasco, referente per i servizi post-adozione dell’Istituto degli Innocenti Firenze Jamal Qaddorah, responsabile del Dipartimento immigrati, Cgil Campania, Consulta Regionale per gli immigrati, Napoli Cristina Ragionieri, operatrice sociale del progetto “Una finestra sulla piazza” del Comune di Torino Umberto Rametto, capo del Gruppo Anticrimine Tecnologico della Guardia di Finanza, Roma Maria Resta, docente universitaria dell’Università di Foggia Ines Rielli, coordinatrice del progetto “Libera”, Provincia di Lecce Vittorio Rizzi, dirigente della Squadra Mobile di Roma Alice Rossi, operatrice sociale del progetto “Una finestra sulla piazza” del Comune di Torino Rossana Rosso, assessore alle Politiche Sociali del Comune di Viareggio Roberta Rossolini, educatrice dell’Istituto Penale Minorile Beccaria, Milano Beniamino Sacco, parroco e dirigente del Centro di accoglienza Spirito Santo, Vittoria Laure Saporta, coordinatrice dell’Unità Mobile dell’Associazione Tampep Onlus, Torino Pilar Saravia, responsabile del Dipartimento immigrati, Uil, Roma 358 Gilberto Scali, coordinatore del “Progetto rom” della Cooperativa sociale Cat, Firenze Piero Soldini, responsabile del Dipartimento immigrazione, Cgil nazionale, Roma Stefano Soliman, operatore sociale del progetto “Una finestra sulla piazza” del Comune di Torino Fausto Sorino, educatore dell’Ufficio pronto intervento del Comune di Torino Giancarlo Spagnoletto, coordinatore del progetto “Orizzonti a colori”, Programma Minori Migranti, Save the Children Italia, Roma Mizar Specchio, coordinatrice del Centro di contrasto alla mendicità infantile, Associazione L’angelo custode, Pescara Ennio Tommaselli, procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni del Piemonte e Valle d’Aosta, Torino Marco Trabaldo, coordinatore (fino ad ottobre 2006) della Comunità Koinè, Comune di Torino Egidio Turetti, responsabile del Pronto Intervento Minori, Comune di Milano Carla Valeri, responsabile dell’area prostituzione e tratta, Magliana 80, Roma Mauro Valeri, docente universitario, già supplente del presidente del Comitato Minori Stranieri, Roma Gina Villone, field officer, progetto Argo “Presidium”, Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, Roma Mattia Vitiello, ricercatore dell’Istituto per le Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma Vittorio Zanon, assistente sociale dell’Ufficio Stranieri, Comune di Verona Gianfranco Zolla, responsabile del Dipartimento Immigrazione, Cgil, Roma Si ringraziano inoltre i rappresentanti delle seguenti Forze dell’ordine: Comando dei Carabinieri di Arezzo; Squadre Mobili della Polizia di Stato di Venezia, di Pordenone, di Milano, di Roma, di Pescara, di Teramo, di Campobasso. 359 Le autrici e gli autori Giovanni Alteri, sociologo, collaboratore di ricerca presso il settore Sicurezza e Cittadinanza del Censis. Si occupa prevalentemente di temi relativi al carcere, sicurezza, devianza, immigrazione e povertà. Elisa Bedin, psicologa, si occupa dal 1996 di immigrazione e tratta, collaboratrice presso l’Ufficio Protezione Sociale del Comune di Venezia. Coordina la progettazione relativa agli interventi della Postazione centrale e periferica per il Triveneto del Numero Verde in aiuto alle vittime di tratta e quelli dell’art. 13 della l. 228/03. Marco Bufo, coordinatore generale dell’Associazione On the Road e responsabile del progetto Equal “Osservatorio Tratta”. Ha partecipato alla promozione di reti, iniziative e documenti sulle politiche in materia di tratta e fenomeni correlati a livello nazionale e transnazionale. Attualmente è membro del Comitato interministeriale di coordinamento delle azioni di Governo contro la tratta degli esseri umani. Tiziana Bianchini, educatrice professionale, si occupa da anni di progettazione e di politica sociale relative ai temi della tratta degli esseri umani, dell'immigrazione e delle gravi marginalità, in progetti e servizi a regionali, italiani ed euopei. È vicepresidente di Onlus Nova Consorzio per l’Innovazione Sociale, e responsabile di Coperativa Lotta contro l’Emarginazione Cooperativa Sociale Onlus. Daniela Bonardo, laureata in Scienze della Comunicazione. Svolge da cinque anni attività di ricerca e studi sui temi dell’immigrazione, del welfare locale, dell’infanzia e del lavoro minorile in collaborazione con diversi istituti di ricerca. Francesco Carchedi, responsabile del settore ricerca di Parsec Consortium. Studioso di tematiche migratorie e di problemi correlati alla tratta di esseri umani. Di recente, per i tipi Franco Angeli, ha curato Il lavoro servile e le nuove schiavitù. Federica Dolente, sociologa, ricercatrice e componente dell’Associazione Parsec. Si occupa di immigrazione e di tratta. Le sue attività più recenti riguardano l’inserimento socio-lavorativo degli immigrati, con particolare riferimento alle politiche di sostegno ai minori stranieri non accompagnati e alle vittime di tratta. 360 Claudio Donadel, dal 1995 coordinatore degli interventi sulla tratta e sullo sfruttamento per il Comune di Venezia, responsabile dell’Ufficio Protezione Sociale del Servizio Adulti. Si occupa di progettazione e ricerca. Attualmente coordina inoltre il Comitato tecnico scientifico del Progetto europeo Agis E.N.a.T. European Network against Trafficking, di cui è titolare la Provincia di Lecce. Salvatore Fachile, consulente legale e ricercatore, si occupa da anni dei profili giuridici e sociologici dei fenomeni della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento dei migranti. Attualmente collabora con Save the Children Italia e con la Cooperativa sociale Dedalus. Valeria Ferraris, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Torino e collaboratrice di Save the Children Italia. È componente dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione. Da anni si occupa di ricerca sociale e giuridica in materia di immigrazione e di tratta degli esseri umani. Anna Italia, responsabile del settore Sicurezza e Cittadinanza del Censis. Negli ultimi quindici anni ha diretto numerose ricerche sui temi dell'immigrazione per committenti pubblici e privati, italiani e stranieri. Ha pubblicato articoli e saggi. Anna Marsden, antropologa, da circa vent’anni si occupa di migrazioni e relazioni interculturali. Ha pubblicato una monografia sull’immigrazione cinese, Cinesi e fiorentini a confronto, e numerosi saggi su altri volumi e riviste specializzate. Collabora con l’Università di Firenze, dove coordina il corso di perfezionamento su educazione e pluralismo culturale presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi. Isabella Orfano, da anni si occupa di ricerca sociale in materia di tratta di persone. Responsabile delle attività transnazionali dell’Associazione On the Road e componente del Gruppo di esperti sulla tratta degli esseri umani della Commissione europea. Elena Rozzi, referente di Save the Children Italia per le tematiche relative ai minori migranti (minori stranieri non accompagnati, vittime di tratta, etc.) con riferimento alla supervisione contenutistica dei progetti, alle attività di ricerca e alle attività di tutela e promozione dei diritti di questi minori promosse dall’organizzazione a livello nazionale ed europeo. 361