n°21 - LUISS Business School
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n°21 - LUISS Business School
PRIMA A CURA DI GABRIELE GABRIELLI Sommario Editoriale: Cosa sto facendo? Per coltivare leadership e management più consapevoli Lo spillo - L’aforisma - Prossimità: Learning 2.0? - Professioni: Mercato del lavoro, occupazione e flexicurity - Personal skill-I: Leggere e progettare le competenze del futuro - Personal skill-II: Become a change-maker. Un'altra tappa del cammino verso l’authentic leadership - Press: Diversità e performance organizzative Prospettive organizzative-I: Saper innovare è un problema di competenze manegeriali Prospettive organizzative-II: ECCE Customer: uno su mille ce la fa Pay for…: Storia di un banker Lo spillo Numero XXI Settembre 2011 Cosa mi resta per sperare? di Pierluigi Celli* S ono disorientato, e non me ne vanto. Fino a qualche tempo fa pensavo di capire: avevo le mie idee, un po’ di studi ben fatti. Sapevo persino l’inglese. Non tanto, quello che bastava a farsi capire. Editoriale di Gabriele Gabrielli Cosa sto facendo? Per coltivare leadership e management più consapevoli “… è proprio vero che nell’agire non possiamo mai sapere che cosa stiamo facendo …” Hannah Arendt I contesti organizzati, ossia quei fenomeni sociali che prendono forma attorno a una visione e per conseguire finalità di diversa natura (politiche, economiche, sociali, culturali ecc.), sono sistemi complessi di fitte trame in cui si intrecciano relazioni. Possono riguardare persone, strutture organizzative e ruoli, gruppi. Possono essere reali e virtuali, locali o globali, strettamente connesse o tenute insieme da “legami deboli” [Zan, 2011]. Oppure interessare noi e gli oggetti che ci circondano, i beni e la ricchezza della natura, l’ambiente che ci ospita. “Dal momento che agiamo sempre entro questa rete di rapporti”, scriveva con straordinaria lucidità Hannah Arendt, “le conseguenze di ogni atto sono sconfinate” [Arendt, 1997]. L’intraprendere organizzando attività di ogni genere (che siano economiche e produttive o altro non fa molta differenza in questa prospettiva), e il fare management, ossia far funzionare l’organizzazione combinando risorse e gestendo i molteplici processi decisionali che esso coinvolge, condividono entrambi -a qualunque livello- questa natura ineluttabile sulla portata delle conseguenze. segue a pag. 2 Ma poi i ricordi e quello che si è venuto accumulando in questi anni mi hanno fregato. E allora ho maturato la mia richiesta: concedetemi almeno l’oblio; la possibilità di dimenticare. Vorrei cancellare questi anni, condannarli al non ricordo. Provare a ripulire il quadro per cominciare a disegnare qualcosa che possa durare. Non chiedo molto, in fondo. Un soprassalto di dignità e la possibilità di avviare al silenzio le voci della vergogna che hanno avuto diritto di E’ l’angoscia che sta montando, e non cittadinanza a nostro carico, senza che riesco a liberarmene. noi potessimo scegliere. Le cose si sono venute complicando, ma non perché incomprensibili in sé, forse molte confuse, questo sì; il peggio, però, lo hanno dato le persone, quelle al comando, in particolare. Meglio ricominciare senza tributi da pagare. La rivolta avrebbe forse più senso, ci renderebbe più eroici. Mi hanno scaricato addosso di tutto, Ma con i tempi che corrono anche l’oblio e nulla che valesse la pena. dei detriti accumulati intorno è una buona premessa che consente di tornare a Così mi è rimasta questa sensazione credere, per poter sperare. di disagio profondo: la testa che gira a vuoto, senza punti di riferimento e il cuore che ha perso le sue passioni. *Direttore Generale LUISS Guido Carli Sono giovane, vorrei gridare. Non ho ancora trent’anni. Pagina 2 Cosa sto facendo? Per coltivare leadership e management più consapevoli (segue da pag. 1) Non si può scivolar via da questo terreno schivando decisioni, preoccupazioni, conflitti. Cosa stiamo facendo? E’ questa allora la domanda che leader e manager esigenti si fanno cercando punti di orientamento e ancoraggi alla propria azione. In effetti, guidare organizzazioni e uomini, tracciare una visione, marcare lo spazio organizzativo e relazionale dove si opera con la propria azione significa sempre orientare un fascio di luce potente sulla responsabilità, sulle azioni e sulle sue conseguenze. Ogni leadership, buona o cattiva che sia [Kellerman, 2005], da valorizzare o rottamare insieme a tutte le sue mistiche e ideologie [Vitullo, 2011] è “sconfinata” in questo senso, proprio perché inevitabile e difficilmente addomesticabile; non la si può esorcizzare -sono ancora parole della Arendt“restringendo la propria azione entro una cornice o entro circostanze delimitate e controllabili …”. Se non fosse anche che per questo, fare intrapresa e management meriterebbero un gran rispetto. E andrebbero anche incentivati con una strategia e un impegno conoscenza e l’innovazione, le applicazioni della tecnica. Ogni epoca ha quindi anche la sua responsabilità. Questa è condensata nelle storie e nell’agire di quanti la popolano e, nel mondo delle organizzazioni complesse, in primo luogo di chi le guida segnandone il cammino, tessendo o riducendo legami, valorizzando o dissipando risorse. Ogni epoca, insomma, lascia tracce indelebili segnate dalle impronte delle donne e degli uomini che l’hanno attraversata. Riflettere sul fenomeno organizzativo come tessuto di legami e percorsi narrativi fatti di trame diverse e variopinte e intrecciato da azioni umane e dalle loro conseguenze esige, dunque, porsi sempre nella prospettiva futura. Il peso della “sconfinatezza”, infatti, non si accontenta dello sguardo rivolto al passato. In termini educativi, non bisogna lasciarsi distrarre dall’invito che può esserci rivolto a indirizzare preminentemente l’attenzione verso la “ricerca” delle responsabilità che ci sono e che rimangono. La prospettiva educa- L’aforisma proposto da Franco Fontana* “I l futuro dell’azienda è il frutto della fusione tra visione e valori individuali ed aziendali; essa genera creatività, impegno ed orientamento al cambiamento e garantisce l’evoluzione del business.” Arie de Geus, L’azienda del futuro (The Living Company) maggiore, coltivando con più convinzione e energie il terreno dei sistemi educativi e formativi, laddove cioè si discutono e testimoniano sempre la visione dell’uomo, quella del mondo in cui viviamo e si formano i modelli sociali con cui approviamo i comportamenti umani. Ogni epoca per questo è riconoscibile, grazie al lavoro e alla riflessione distaccata dello storico, da tratti propri che ne caratterizzano la cultura, la società con i suoi suoni e colori, l’economia che danza tra picchi e crolli, la tiva e l’esigenza di formare cittadini responsabili, prima ancora che uomini d’affari [Nussbaum, 2011], richiede di coltivare piuttosto spazi crescenti di consapevolezza per collocare il futuro, ancorandolo su fondamenta più solide perché poggiate sulla libertà della responsabilità. Fare tutto questo, però, non è facile. Perché questa è soprattutto un’epoca di frastuono e fracasso, disorientata dall’ideologia del fare, lasciata troppo spesso alla guida ondivaga dell’ideologia della crescita e dei suoi miti [Mancini, 2011] e degli automatismi che dissipano energie senza ricostruire le forze [Rullani, 2010]. Sta crescendo però la consapevolezza che adagiarsi supinamente (o galleggiare) in una società dominata dall’economia è come coltivare in casa piante necrofore che ti tolgono ossigeno e respiro. Quando l’economia prende questa forma “diventa una macchina che produce morte” e che non lascia intravvedere futuro [Mancini, 2010]. In quest’epoca di automatismi che riducono “la libertà umana e la responsabilità degli uni per gli altri” si corre anche il rischio, nella società e nelle organizzazioni, di perdere non soltanto “l’opportunità di sintonizzarci l’uno con l’altro”, ma anche quello di ridurre significativamente o annullare del tutto il tempo “per sintonizzarci con noi stessi” [Siegel, 2009]. Il valore di una leadership e di un management responsabili, allora, può ricominciare proprio da qui. Da una strategia e da un percorso personale di consapevolezza che rivendichi, scrollandosi di dosso le distorsioni procurate da mitologie false sull’uomo e sullo sviluppo, il diritto a riconquistare innanzi tutto il terreno dove coltivare relazioni con gli altri, riducendo la distanza a prossimità, e con gli oggetti che popolano l’ambiente. Gli uni e gli altri, le persone e le cose, meritano rispetto e devono avere futuro. In fondo sono ciascuno a suo modo soggetti e oggetti “intelligenti” di quest’epoca aperta e interconnessa [Mark, 2011]. Per approfondire Arendt H., Lavoro, opera, azione. Le forme della vita attiva, Ombre Corte, Verona, 1997 Kellerman B., Cattiva leadership. Quando il lato oscuro della natura umana prende il comando, Etas, Milano, 2005 Mancini R., Idee eretiche. Trentatré percorsi verso un’economia delle relazioni, della cura e del bene comune, Altraeconomia, Milano, 2010 Mark P., “Oggetti intelligenti in Rete”, Corriere della Sera, 9 luglio 2011 Nussbaum C. M., Non per profitto, Il Mulino, Bologna, 2011 Rullani E., Modernità sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi, Marsilio, Venezia, 2010 Siegel D. J., Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009 VIitullo A., Leadershit, Ponte alle Grazie, Milano 2011 Zan S., Le organizzazioni complesse, Carocci, Roma 2011 Prossimità Learning 2.0? E nzo Rullani, il padre italiano dell’Economia della Conoscenza, è stato di recente ospite di “Architetti di Apprendimento”, l’atelier formativo dedicato alla community dei formatori aziendali che l’Area Executive Education & People Management della LUISS Business School promuove in partnership con Amicucci Formazione. Nel corso della sessione di lavoro dedicata all’apprendimento in rete, il Professore ha evidenziato (tra le tante suggestioni offerte) la nuova centralità della dimensione sociale dei processi di apprendimento e, quindi, il passaggio da una economia della scarsità (basata sulla produzione di beni materiali) ad una economia della conoscenza (basata su un prodotto riutilizzabile e, perciò moltiplicabile virtualmente all’infinito come il sapere). Un sapere modulare (e quindi critico e autonomo) che si contrappone al pensiero “esecutivo” (e perciò passivo) proprio della formazione sequenziale tradizionale. Chiedo scusa al lettore per la digressione, ma alle volte mi chiedo dove vivano (e cosa leggano) i politici, gli “autorevoli esponenti” del mondo dell’impresa e gli opinion maker che, nonostante tutte le evidenze, continuano a pensare che “con la cultura non si mangia” e prefigurano per l’Italia un “futuro” da anni ’50, basato sul lavoro manuale e su un approccio veterofordista alla produttività aziendale. Ad ogni modo, per chi invece pensa che la formazione Pagina 3 A CURA DI FABRIZIO MAIMONE possa svolgere (ancora) un ruolo centrale per la crescita dell’impresa e dell’intero sistema economico, può essere utile confrontarsi con l’ultima novità del panorama dei modelli formativi, che rappresenta un applicazione concreta di alcuni principi dell’apprendimento in rete: il Learning 2.0. Il Learning 2.0 è una utile metafora per indicare quegli approcci formativi che applicano i principi del web 2.0 ai processi di apprendimento. Si passa, quindi, da un paradigma trasmissivo, verticale e “chiuso” (esiste un solo modo giusto per affrontare un problema e la soluzione viene calata dall’alto) ad una prospettiva collaborativa, partecipativa e “aperta” (che attribuisce particolare rilevanza ai processi di costruzione sociale della conoscenza e alla capacità di imparare ad imparare). Le logiche del Learning 2.0: orizzontalità, collaborazione, rete sociale, coproduzione delle conoscenze, logica distributiva. Secondo il JRC EU 2009 Report (Learning 2.0 -The Impact of Web 2.0 Innovations on E&T in Europe) il valore aggiunto apportato dal Learning 2.0 è dato da: sviluppo delle competenze informatiche e di utilizzo dei multimedia, crescita delle competenze di comunicazione e networking, sviluppo del multitasking e della capacità di gestire la complessità, sviluppo delle competenze meta-cognitive (imparare ad imparare in rete), crescita della motivazione. Lasciamo decidere ai posteri se si tratti effettivamente di un nuovo paradigma formativo o semplicemente di una riproposizione “glamour” del vecchio modello dell’apprendimento collaborativo. La cosa interessante è che, al contrario di molte mode formative del recente passato, si tratta di un modello a costo zero, perché la filosofia di fondo del Learning 2.0 è quella che si possono raggiungere obiettivi importanti migliorando quello che già c’è e implementando degli strumenti che ormai sono disponibili in qualunque intranet aziendale. La parte veramente difficile è quella di ridisegnare le attività formative in modo da trasformare il singolo evento (il modulo formativo tradizionale) in un ambiente o, per meglio dire, in una “architettura formativa”, che si integri con i processi aziendali e vada ad intercettare le comunità e le reti già esistenti in azienda, favorendo magari anche la nascita di nuove. In Metafora visiva del Learning 2.0, tratta da Seely Brown e Adler(2008), EDUCAUSE Review, vol. 43, no. 1 una logica aperta anche agli scambi con l’esterno. Gli strumenti web 2.0 come il blog, il wiki, il social network, ecc. possono contribuire alla creazione di un ambiente integrato di apprendimento, ma il primo obiettivo del Learning 2.0 non è quello di adottare lo strumento più sofisticato ma di facilitare, anche utilizzando le tecnologie, lo sviluppo e la manutenzione delle reti sociali e delle comunità, fornendo il supporto per favorire la condivisione, la crossfertilization delle conoscenze e quel processo di “traduzione” della conoscenza che secondo Nigel Holden è vitale per favorire lo scambio di conoscenze tra gruppi e culture (nazionali, aziendali e professionali) diversi. Vi sono dei casi di successo che dimostrano che l’apprendimento in rete, che si chiami o meno 2.0, può essere facilitato anche nelle imprese e nei contesti produttivi più competitivi. IBM, ad esempio, è stata indicata dal Rapporto UE prima citato tra le best practice nella categoria aziende. segue a pag. 4 Pagina 4 Learning 2.0? individuali. I fattori di successo: una cultura anche per l’impresa, l’integrazione dei sisteorganizzativa aperta, la creazione di valore mi negli ambienti software pre-esistenti, la aggiunto per i dipendenti che crea valore partecipazione volontaria e l’offerta di linee guida per la collaborazione in rete. Le barriere: le restrizioni di accesso e le policy di sicurezza della rete aziendale, la cultura organizzativa inadeguata e la mancanza di flessibilità. Il Learning 2.0 non è semplicemente una metodologia formativa, ma è un vero e proprio a pproc c io all’apprendimento individuale e organizzativo che può integrare diversi strumenti e metodologie. Provare per credere. (segue da pag. 3) Gli strumenti Web 2.0 sono usati da IBM in maniera estensiva (580.000 profili in ‘bluepages’; 1,400 Communities;150,000 thread in nei forum di discussion, 13,000 blog; 12,000 wiki con 190,000 pagine, 550.000 social bookmark). Secondo i ricercatori che hanno scritto il Rapporto, Il valore aggiunto per I dipendenti è legato al riconoscimento delle competenze (reputation, career development), alla facilitazione del processo di ricerca delle informazioni e della comunicazione, al miglioramento della collaborazione nei gruppi di progetto, alla creazione e la condivisione delle conoscenze, alla crescita delle competenze Le principali attività del Learning 2.0 (fonte JRC EU 2009 Report) Professioni Mercato del lavoro, occupazione e flexicurity N ell'ambito della più grande crisi economico finanziaria -e socialedella storia dell'UE, la ripresa economica è irregolare, con tassi e modalità di crescita fortemente differenziati. La sfida comune è quella di assicurarsi che la ripresa economica sia in ogni caso “job-rich”, come affermato recentemente da László Andor, Commissario EU della Direzione “Employment, Social Affairs and Inclusion”. La necessità di assicurare uno stretto legame tra crescita economica ed occupazione risponde agli obiettivi di competitività, inclusione e sostenibilità propri della strategia EU. In particolare, il quadro strategico programmatico “Europa 2020”, fornisce la base di tutte le politiche comunitarie e nazionali e definisce gli impegni per raggiungere entro il 2020: un tasso di occupazione del 75%; un tasso di completamento dell'istruzione terziaria del 40%; una riduzione dell'abbandono scolastico inferiore al 10%; l'abbassamento del rischio di povertà ed esclusione sociale. A CURA DI VALENTINA CASTELLO Nella recente pubblicazione del rapporto europeo sulle politiche per l'impiego, nell'ambito della più ampia “Social Europe Guide” (http://ec.europa.eu/social/), sono riportati i filoni di azione e programmatici in materia di lavoro e politica sociale, strumentali al raggiungimento dei predetti obiettivi e della più ampia finalità di crescita inclusiva. Il tema del funzionamento del mercato del lavoro torna ad essere snodo principale in tema di occupazione, crescita e sviluppo, anche in riferimento ad alcuni driver di esclusione (per età, sesso, livello di skills). La centralità assoluta del tema è anche confermata dall'assegnazione del Premio Nobel 2010 in Scienze Economiche a Pissarides, Diamond e Mortensen per le loro analisi sugli attriti dei mercati del lavoro. Le frizioni del mercato del lavoro sono di diversa natura (di competenze, di mobilità, di informazioni) e non c'è una 'mano invisibile' che governa l'allineamento di domanda ed offerta di lavoro e competenze. Tali fattori strutturali ed inerziali hanno spinto verso il ripensamento, consolidamento e valorizzazione (oltre che di armonizzazione tra Paesi) de: • i sistemi e processi dei servizi pubblici per l'impiego, e la cooperazione tra i diversi attori del mercato, di cui al programma EU PARES • (Partnership between Employment Services); la ridefinizione dei contenuti e delle azioni di flexicurity, rinforzandone la necessaria azione congiunta nelle diverse dimensioni fondanti, quali: l'evoluzione delle forme contrattuali (come l'esperienza tedesca del kurzarbeit e le ipotesi di contratti “open-ended”); i programmi di apprendimento permanente; le politiche attive del lavoro; i sistemi di sicurezza sociale. Personal Skills Pagina 5 Leggere e progettare le competenze del futuro L’ altro giorno ho ripreso casualmente un libro di Edgar Morin di 10 anni fa, “I sette saperi necessari all’educazione del futuro” . Mi sono divertito a rileggere solo le parti che avevo ben evidenziato e sottolineato anche più volte ed ho subito vissuto quella sensazione rassicurante di un territorio familiare, conosciuto, perché attraversato più volte. Ho subito ritrovato uno dei saperi fondamentali per il futuro, cioè la necessità di affrontare le cecità della conoscenza: ”E’ sorprendente che l’educazione, che mira a comunicare conoscenza, sia cieca su ciò che è la conoscenza umana, su ciò che sono i suoi dispositivi, le sue menomazioni, le sue difficoltà, le sue propensioni all’errore e all’illusione, e che non si preoccupi affatto di far conoscere che cosa è conoscere”. Poi, saltando alcune pagine, ho ritrovato ben in vista: “E’ necessario sviluppare l’attitudine naturale della mente umana a situare tutte le informazioni in un contesto e in un insieme. E’ necessario insegnare i metodi che permettano di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti e il tutto in un mondo complesso”. Per quello strano meccanismo della mente di lasciarsi andare, sospendendo la lettura, mi sono ritrovato dentro le rappresentazioni di questi giorni dei problemi del paese e di come si stanno affrontando i molti, moltissimi problemi che si sono accumulati. Becoming a change-maker. Un’altra tappa del cammino verso l’authentic leadership di Antonella Materano L a IYLC: “International Youth Leadership Conference”. Avevo letto di questo evento internazionale su blogs e siti web, e subito avevo iniziato a viaggiare con la fantasia, pensando all’incredibile opportunità dei partecipanti (con un po’ di invidia, devo ammetterlo): giovani ragazzi impe- A CURA DI FRANCO AMICUCCI Purtroppo mi sono ritrovato in una diversa condizione emotiva, certamente meno gradevole rispetto a quella iniziale. Ho provato a trovare il motivo di questo sconforto. Forse la consapevolezza della gravità della crisi ed i suoi impatti sulla mia vita? Oppure? Pian piano, riprendendo i brevi passi del libro che avevo letto, mi si è chiarito il motivo delle sensazioni negative che erano emerse. Mi si è formata l’immagine di una società disorientata, con tanti frammenti chiusi nel proprio particolare, dove il tutto è letto con le lenti del proprio microcosmo, parziale e miope. Proprio quella cecità della conoscenza che Morin analizza nelle sue componenti fondamentali: Errori mentali. La possibilità di mentire a noi stessi, per bisogno di autogiustificazione, egocentrismo, la tendenza a proiettare sugli altri le cause delle cose che non vanno. Errori intellettuali. Teorie scientifiche, dottrine politiche, ideologie, sono spesso convinte della propria “verità” e quindi chiuse in se stesse e invulnerabili ad ogni critica. Anche modelli aziendali, scuole e correnti di pensiero corrono questo rischio. Errori della ragione. La razionalità è la migliore barriera contro l’errore e l’illusione, se rimane aperta alle contestazioni e al continuo confronto con i dati della realtà con cui si confronta. Quando si chiude alla verifica, diventa razionalizzatrice, determinista e meccanicista. Accecamenti paradigmatici. Il paradigma può essere definito come la promozione e selezione dei concetti dominanti. Ha un ruolo sotterraneo, che, come sottolinea Morin, irriga il pensiero cosciente, domina i discorsi e le teorie. A questi rischi Morin aggiunge i pericoli delle “specializzazioni chiuse” e della frammentazione del pensiero: “Di fatto l’iperspecializzazione impedisce di vedere il globale (che frammenta in particelle) nonché l’essenziale (che dissolve). Essa impedisce anche di trattare correttamente i problemi particolari che possono essere posti e pensati solo nel loro contesto…” La conseguenza è: “L’intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato… E’ un’intelligenza miope che il più delle volte finisce per essere cieca”. Frammentazioni disciplinari, culture chiuse, autoreferenzialità, portano a difficoltà di comunicazione interna, a conflittualità diffuse, ad inefficienze organizzative e moltiplicazioni di costi. Educare il pensiero a cogliere le interconnessioni, le priorità, i segnali deboli è un imperativo per acquisire strumenti per affrontare e gestire la complessità delle organizzazioni. Per questo ogni tanto è necessario allontanarsi, vedere da lontano e dall’alto processi e vita sociale ed organizzativa, perché solo così sarà possibile cogliere gli elementi essenziali, le tendenze, gli ostacoli principali, ma anche nuovi spazi ed opportunità. In questo modo si allena un pensiero di sintesi, un pensiero strategico che aiuta sì alla visione di insieme, alla sintesi, ma al tempo stesso non è distacco dal quotidiano, dal dettaglio, dall’operativo. “Più potente è l’intelligenza generale, più grande è la sua capacità di trattare problemi specifici”. gnati a discutere su temi a impatto globale, a confrontarsi sulle diverse culture, a vivere un’esperienza unica, di quelle che cambiano non soltanto il proprio modo di pensare, ma anche quello di vivere sé stessi e gli altri. Non avrei mai immaginato di essere uno dei 63 studenti delegati che hanno preso parte alla ventiduesima edizione della Conferenza. Selezionata per rappresentare la Exeter University -dove sono stata studente erasmus - e la LUISS Guido Carli -di cui faccio parte da ormai tre anni, e dove quest’anno inizierò il corso di laurea magistrale in General Management . E’ stata la magica città di Praga, cuore geografico e culturale dell’Europa, a fare da scenografia alla ventiduesima IYLC, svoltasi da domenica 24 a venerdì 29 luglio 2011. “Cinque giornate per ammirare le bellezze della città”, starete pensando (è ciò che pensavo anch’io prima di arrivare). Sbagliato: sono stati i cinque giorni più impegnativi e fitti di lavoro che io abbia mai vissuto. Le attività, sempre innovative e ‘challenging’, sono state le più disparate: dai giochi ‘ice-breaker’ alle simulazioni del UN Security Council, dell’International Criminal Court, dell’European Parliament, dalle visite alle ambasciate ai meeting fino a notte tarda, dalle colazioni di gruppo alla ‘cultural night’. I protagonisti siamo stati noi, 63 studenti provenienti da tutto il mondo, accompagnati dal proprio background, cultura e personalità. Eccoci, giovani tanto diversi quanto desiderosi di confondersi e fondersi in un'unica atmosfera fatta di curiosità e stimoli: è stato questo il vero motore dell’intera settimana. segue a pag. 6 Pagina 6 Personal Skills Becoming a change-maker. Un’altra tappa del cammino verso l’authentic leadership (segue da pag. 5) Ciò che più di ogni altra cosa mi ha stupito, è stato conoscere studenti di ogni facoltà: a fare da ‘fil rouge’, infatti, ci ha pensato la Leadership, in termini di capacità, voglia e coraggio di essere ‘change-maker’ in un mondo che ha sempre più bisogno di figure che ispirino, coinvolgano e motivino il prossimo. Divisi in gruppi composti da 15 ‘delegates’, abbiamo lavorato a stretto contatto tanto da riuscire a creare degli ottimi equilibri di gruppo, trasformando le diversità da difficoltà in valore aggiunto. A rendere possibile la Conferenza sono stati organizzatori, ‘facilitators’ e ‘observers’, che, prima di essere seri professionisti, sono persone fantastiche, disponibili e ‘open minded’. Tra questi, William Webster-Executive Director of IYLC, che, durante la cerimonia di benvenuto, ci ha invitato a riflettere sul fatto che noi partecipanti abbiamo rappresentato il 10% dei giovani che vogliono fare la differenza nel mondo, diventare leaders e met- tere sempre un po’ di sé stessi in ciò che fanno. dendo in prestito le celebri parole di MaE’ stato uno dei momenti più memorabili di hatma Gandhi, “Be the change you want to see in the world”. quest’esperienza. Da un po’ di tempo a questa parte, al termine di qualsiasi esperienza rilevante, mi domando “Cosa sto portando via con me?” ma anche “Cosa sto lasciando agli altri di mio?”. Iniziando dal secondo interrogativo, ciò che credo di lasciare alle persone che ho incontrato durante questa avventura la voglia di credere in sé stessi, il desiderio di motivare i collaboratori e soprattutto la consapevolezza del valore delle persone, non importa quanto diverse tra loro e da noi stessi esse siano. Tornando al primo, senza dubbio dalla ventiduesima IYLC porto via la voglia di cambiare qualcosa nel mondo, qualcosa per cui valga la pena di impegnarsi e coinvolgere il Un gruppo durante le sessioni della prossimo, qualcosa in cui International Youth Leadership Conference credere fermamente. Pren- Press Diversità e Performance organizzative L a diversità rappresenta un dato ineludibile per le organizzazioni, sempre più alle prese con l’internazionalizzazione delle popolazioni organizzative e le conseguenze dei mutamenti demografici. La domanda di riconoscimento della diversità è ormai un tema ricorrente nelle agende della funzione HR, chiamata per missione a promuovere una cultura organizzativa e degli strumenti capaci di far convivere produttivamente differenti strutture motivazionali e sistemi di attesa (Gabrielli, 2010). Come spesso accade con fenomeni complessi “non è tutto oro quel che luccica” e la diversità nei contesti lavorativi se da un lato alimenta creatività e problem solving, dall’altro può essere fonte di conflitti e tensioni. La relazione tra diversity e performance rappresenta, infatti, un tema aperto che anima il dibattito di ricercatori e practitioner. Jakob Lauring e Jan Selmer, in un recente studio apparso sull’European Management Review, si sono posti l’obiettivo di arricchire questo confronto con evidenze empiriche. La novità dell’approccio proposto dai due autori consiste nell’ aver esteso l’analisi oltre la relazione diretta tra diversità e performance orga- A CURA DI FRANCO AMICUCCI A CURA DI LAURA INNOCENTI nizzative, includendo nell’osservazione alcuni possibili meccanismi di supporto. L’attenzione degli autori si concentra in particolare sul concetto di Diversity climate, nella convinzione che un comune sentire a livello di gruppo di lavoro sul tema della diversità accresca il legame tra eterogeneità e performance. L’apertura alla diversità linguistica, di apparenza esteriore e di valori sono i tre indicatori adottati per rilevare il Diversity climate La ricerca, che ha coinvolto tre importanti università danesi, conferma le ipotesi formulate. Ma è interessante notare che non tutte le forme di apertura agiscono nello stesso modo. Sono i gruppi in cui è più elevata la tolleranza a valori diversi ad avere migliori performance e maggiore soddisfazione, mentre la apertura verso condizioni più superficiali, come l’apparenza fisica, risulta meno rilevante. Ciò conferma che solo l’accettazione delle differenze più profonde consente realmente di superare le barriere tra persone. Lo studio offre alcune interessanti implicazioni manageriali. Emerge, infatti, l’importanza di promuovere l’apertura alla diversità ad un duplice livello, individuale ed organizzativo. Attraverso la formazione si può favorire l’acquisizione di una maggiore consapevolezza individuale dei meccanismi psicologici e sociali che sottendo ai pregiudizi ed agli stereotipi. Al tempo stesso, è fondamentale agire a livello organizzativo attraverso politiche e strategie che diffondano una cultura del rispetto e della valorizzazione dell’unicità di ogni persona. L’azione congiunta di queste due leve può davvero consentire all’ “oro” della diversità di offrire tutto il proprio splendore. Per approfondire: Gabrielli G. People Management. Teorie e pratiche per una gestione sostenibile delle persone. FrancoAngeli, Milano, 2010 Lauring, J. & Selmer J. (2011) “Multicultural organisations: Does a positive diversity climate promote performance?” European Management Review, 8, 81-93 Pagina 7 Prospettive organizzative A CURA DI ALESSIA SAMMARRA Perché saper innovare è un problema di competenze manageriali C ompetere attraverso l’innovazione è ormai la parola d’ordine in tutti i settori dell’economia, dal Made in Italy all’high tech. Per molte imprese più che la chiave del successo innovare è la condizione ‘sine qua non’ per assicurare la sopravvivenza stessa del business in un contesto di forte competizione internazionale. Ma se tutti sono pronti a riconoscere la centralità dell’innovazione, molti falsi miti continuano a minare la capacità delle imprese di comprenderne il reale significato e soprattutto le modalità con cui concretizzarla. Il primo equivoco è che la dimensione d’impresa sia una variabile determinante per la capacità di innovazione e che pertanto innovare sia prerogativa pressoché esclusiva delle grandi imprese. Come Shumpeter sosteneva “la pura dimensione non è necessaria né sufficiente per innovare”. Lo dimostra chiaramente la storia di due ex-piccole imprese che hanno fatto dell’innovazione la chiave del loro successo: Microsoft e Apple. Entrambe le imprese non sono capaci di innovare perché grandi ma, viceversa, sono diventate grandi perché capaci di innovare. Quel che è importante, quindi, è dotarsi di modelli di gestione dei processi innovativi in grado di controbilanciare il vincolo dimensionale. In particolare, le piccole imprese possono rafforzare le proprie capacità innovative “facendo rete”, vale a dire creando un sistema di relazioni con partner ester- ni che consenta di condividere costi e rischi e di ridurre i tempi dell’innovazione. Il secondo equivoco in cui spesso ci si imbatte è che l’innovazione abbia prevalentemente a che fare con la ricerca tecnologica. In realtà innovare significa saper gestire un processo complesso che inizia con la percezione di un nuovo mercato e/o di una nuova opportunità e che passa per lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione, nell'ottica di un successo commerciale e di un ritorno economico; pertanto l'innovazione non include soltanto la ricerca (di base e applicata), ma anche tutte le altre attività aziendali, fino -ad esempio- alle modalità di comunicazione, di vendita e ai servizi postvendita. Non tutte le invenzioni diventano vista organizzativo, ciò pone nuove esigenze in termini di ruoli e competenze. In passato la responsabilità di guidare i proc essi di innova zione spe ttava all’imprenditore, nelle piccole imprese, e al responsabile della Ricerca & Sviluppo piuttosto che del Marketing nelle imprese di medio-grande dimensione; oggi la responsabilità per l’innovazione non ha una collocazione precisa nelle tipiche funzioni organizzative e richiede di formare nuove figure manageriali che abbiamo competenze e responsabilità trasversali rispetto alle diverse aree dell’impresa, dalla strategia alla progettazione organizzativa, alla gestione delle risorse umane, al marketing e alla ricerca. Percorso di Formazione Manageriale in BUSINESS INNOVATION MANAGER - ADVANCED Il Percorso in Business Innovation Manager ha l’obiettivo di formare i nuovi manager dell’innovazione attraverso una preparazione in grado di abbattere i compartimenti stagni tra le diverse discipline. La finalità è quella di formare manager in grado di comprendere, stimolare e gestire i processi innovativi in tutti i loro aspetti, dalla ricerca delle fonti di finanziamento e delle collaborazioni con partner esterni, alla progettazione e sviluppo di nuovi prodotti, alle strategie di valorizzazione commerciale dell’innovazione. Il Percorso , coordinato dall’Area Executive Education & People Management della LUISS Business School in collaborazione con Elea SpA, si rivolge a dirigenti aderenti a Fondirigenti ed iscritti a Federmanager. Il Percorso si svolge a Verona dal 30 settembre al 12 novembre ed è articolato su quattro moduli formativi della durata Networks for Innovation: di 1,5 giornate ciascuno: Modulo 1 Innovare attraverso le collaborazioni Modulo 2 innovazioni, ma solo quelle invenzioni che vengono prodotte, materializzate e sfrutta- Modulo 3 te per fini commerciali. Questo significa che alla base di quelle imprese che sanno innovare ci sono non solo com- Modulo 4 petenze tecniche ma soprattutto capacità manageriali che vanno dalla sensibilità organizzativa, alla capacità di motivare e sostenere la creatività, alle competenze strategiche, finanziarie e di marketing. Ecco perché innovare è un problema manageriale e non solo tecnico; implica cioè la capacità di presidiare e coordinare efficacemente risorse diverse (umane, finanziarie, di project management, ecc.) e di creare un contesto organizzativo che faciliti lo sviluppo di nuove idee e la capacità di trasformarle in valore per l’impresa. Dal punto di New Product Development: Ottimizzare lo sviluppo nuovi prodotti Creative Thinking: Sviluppare la creatività nelle imprese e nei team Marketing dell’Innovazione: Massimizzare il valore commerciale delle innovazioni Pagina 8 Prospettive organizzative A CURA DI ALESSIA SAMMARRA ECCE CUSTOMER: uno su mille ce la fa di Valentino Salvatore De Pietro Storia di un giovane italiano che in Silicon Valley è riuscito a realizzare la sua idea di business. A lle volte per realizzare un sogno ci si impiega una vita intera, in altri casi basta avere un progetto innovativo e una buona dose di tenacia. E’ questo il caso di Cosimo Palmisano, 33 anni, laureato in Ingegneria elettronica al Politecnico di Bari che, partendo da una felice “business idea” ha sviluppato una piattaforma web per il social CRM che permette alle aziende e ai brand di gestire attraverso un unico punto di accesso diversi account su i social network. Sfruttare il potenziale inespresso dei social network (Linkedin, Facebook, Youtube, Twitter) per monetizzare le informazioni presenti all’interno dei social network creando un canale bidirezionale azienda -cliente, questa l’idea che lo ha portato al successo (si veda scheda “Innovazione e tecnologia”, p. 175, V Rapporto Classe Dirigente, AMC, 2011). Come nasce l'idea di Ecce Customer? L’idea nasce a Maggio 2009 a Torino dalla perfetta commistione fra la mia esperienza lavorativa come consulente CRM e l’attività svolta come ricercatore in ambito Data Mining. Mi sono reso conto che sia nel CRM industriale che nella ricerca scientifica mancava qualcosa e si poteva migliorare entrambi unendoli logicamente. In che modo? Attraverso i social network. I social network mi sembravano come un canale televisivo in cui il broadcasting è bidirezionale e dove per la prima volta il potere si fosse spostato verso gli utenti. Da qui il nome ECCE Customer (Ecco il cliente) che ora non è più un target ma le aziende lo sono. Come ha fatto conoscere la sua idea al grande pubblico e in cosa pensa sia vincente? In Silicon Valley ho incontrato Franco Petrucci, mio attuale business partner e imprenditore di prima generazione. Con lui ho mosso i primi passi per la realizzazione dell’idea e in Italia mi ha messo a disposizione la sua rete per cominciare a divulgare ECCE. Sempre in Italia ho partecipato all’evento Working Capital di Telecom che è diventato il vero volano per far conoscere il brand ma anche per trovare i primi clienti tra i quali Telecom stessa. Le ragioni per le quali l’idea è stata fino ad esso vincente è perché nasce completamente orientata al cliente. Perché ha deciso di andare oltre oceano per sviluppare questo progetto? In Silicon Valley è nato questo fenomeno e solo lì potevo andare per capire cosa stava accadendo. Inoltre i miei potenziali competitors erano tutti lì e dovevo andare a studiarli e conoscerli per capire che errori avevano fatto e che modello utilizzavano. Cosa pensa che manchi in Italia perché un giovane imprenditore possa realizzare la propria idea? Ora non ci sono più scuse per non farlo. Ci sono i capitali di rischio (seed investors e ventur capitalist) e le strutture (incubatori). Certo il mercato degli investitori italiani è ancora poco competitivo e fanno la voce grossa dal punto di vista delle Cosimo Palmisano CEO ECCE Customer condizioni. Forse basterebbe alleggerire la burocrazia favorendo meccanismi di creazione di impresa semplici e dinamici, così da permettere l’accesso ad investitori stranieri e creare un regime competitivo anche fra gli investitori. Inoltre una Srl non è la soluzione migliore per far accedere gli investitori. Basterebbe creare delle Spa a basso costo così come le C-corporation americane. Aziende di semplice costituzione sia finanziaria che legislativa per agevolare l’ingresso di investitori, partner e neo assunti che possano decidere di lavorare per una start up diventando anche loro degli imprenditori ricevendo in cambio delle quote. Di che supporto ha bisogno da parte degli stakeholder (sistema formazione, finanziario e da parte delle associazioni di categoria, ecc.)? Per dare il loro contributo le Università, come spesso fanno le aziende che si riposizionano sul mercato, dovrebbero “resettare” la loro mission. Non tanto formare i ragazzi per imparare a lavorare, quanto piuttosto formarli per creare lavoro. Questo va fatto partendo dall’accademia per arrivare ai tanti giovani precari, che oltre a fare ricerca, insegnano. Ci può spiegare il percorso che deve fare un imprenditore che arriva nella Silicon Valley per ottenere aiuti e vedere quindi la sua idea basata sulla tecnologia realizzata? Networking e sharing sono le parole chiave. Bussare a tutte le porte, competitors compresi. In Silicon Valley basta mandare una email per incontrare qualsivoglia manager o serial entrepreneur e anche partecipare ad uno delle centinaia di eventi di networking informali che si svolgono giornalmente. Qui da noi è difficile farsi ascoltare, sono tante le idee che non vedono mai la luce; lì come funziona? In Silicon Valley università, imprese e fondi di investimento spesso sono così perfettamente collegati che coincidono con la stessa persona. Da non trascurare è la cultura del fallimento. Lì se non sei mai fallito non sei abbastanza esperto per essere finanziato. Per loro è importante che uno ci abbia provato e che abbia minori possibilità di ricommettere gli stessi errori. Che consigli può dare ai giovani italiani che non trovano uno spazio in Italia? Gli spazi bisogna crearseli a grandi spallate ovunque si decida di mettere le basi. Se poi si è in più di uno a dare le spallate tutto diventa più semplice. Per perseguire una idea di business bisogna essere almeno in tre. Il passo logico fondamentale è capire che possedere il 90% di poco è sempre poco, invece condividere poco di tantissimo è sempre tanto. Pay for... Pagina 9 Storia di un Banker di Francesco Pasquale De Mutiis L’ attuale contesto economico, ancora caratterizzato da un’estrema fragilità dei mercati, ha portato una forte contrazione delle attività finanziarie (sia di natura ordinaria ma soprattutto di natura straordinaria) riducendo notevolmente le attività di investment banking di molte banche estere e italiane. Le nuove normative a livello nazione ed internazionale in materia di mitigazione dei rischi, sono intervenute pesantemente ponendo paletti normativi circa l’attribuzione e l’erogazione dei bonus dei manager nel settore finanziario. Alla fine di luglio l’hedge fund Lansdowne Partners, uno dei top al mondo, ha venduto la sua partecipazione in Goldman Sachs (850 milioni di dollari) anche sulla base della Volcker rule che ha posto limiti importante al proprietary trading. Una misura che ha inciso negativamente sulla redditività di Goldman di circa il 15%, convincendo Lansdowne a chiudere la propria posizione nell’investment banking liquidando l'intera partecipazione nella banca americana. Analizzando alcuni fenomeni che hanno investito il settore dell’Investment banking negli ultimi anni verrebbe quasi da dire che sia giunto al capolinea. Ma è proprio così? Abbiamo provato a trovare una risposta chiedendo un parere ad un ex laureato LUISS, che in quel settore ci ha lavorato per diversi anni e non solo in Italia. Federico Colacicchi ad oggi ricopre il ruolo di Senior Manager in una delle principali società di consulenza internazionale occupandosi principalmente di operazioni di finanza straordinaria in Italia e all’estero. Allora Federico, come è cominciata la tua carriere nel settore dell’Investment Banking? Dopo la Laurea in Economia presso la LUISS e una Tesi in Diritto Tributario sono passato, come molti, dalla revisione contabile, in una delle così dette Big 4. L’attività di Audit mi ha visto coinvolto per 3 anni in Italia e uno a New York dove ho avuto modo di certificarmi come CPA (Certified A CURA DI GABRIELE GABRIELLI Public Accountant), un titolo non molto diverso media, un Analyst ovvero un neo laureato può percepire mediamente 40.000 pound l’anno dal quello del nostro revisore contabile. Gli Stati Uniti hanno segnato il mio percorso con un variabile del 50&-70% della remuneraprofessionale. Quando arrivai a NYC infatti, era zione fissa. il 2007, anno del boom per il settore delle opera- Se questo è il trattamento economico per un zioni di finanza straordinaria (M&A) allora neo laureato posso immaginare il resto. decisi di far leva sulle competenze sviluppate in Dopo il livello di Associate c’è il VP (Vice Preambito contabile per trasferirmi nella divisione sident) la cui retribuzione fissa si attesta intorno ai 110.000-120.000 pound l’anno Transaction Services. ed un variabile superiore al 100% Dopo circa un anno a NYC ho decidel fisso. Oltre non saprei dire. so di tornare a scuola, per approfonDirei, enormemente oltre qualsiasi dire i temi della finanza vera e promedia o mediana di mercato. pria. Verso la fine del 2007 sono E’ vero anche che, sebbene sia diffitornato in Europa e più precisamencile trovare persone disposte a lavote alla London Business School dove rare 15h al giorno per una remuneraho preso un anno sabbatico per zione inferiore, è la parte variabile frequentare un master in finanza. della remunerazione che sembra Come è stato frequentare un essere uno degli strumenti di retenmaster in una delle più prestigiose Federico Colacicchi tion più appetibili per i banker. Ed è business school del mondo e so- Revisore Legale, CPA proprio su quella parte che molte prattutto che vantaggi ti ha portaauthority internazionali prima e to? Beh è stata una esperienza unica che consiglie- italiane poi, hanno focalizzato la loro rei a tutti. I vantaggi puoi immaginarli, termina- “attenzione regolatoria”. ti i dodici mesi di corso mi sono ritrovato come Non credi che le nuove disposizioni in tema associate in una delle principali banche d’affari di remunerazioni, volte a mitigare l’assunzione di rischio da parte degli istituti della City. Ma sono davvero così elevate le remunerazio- finanziari, possano minare le perfomance e il fascino di un settore come quello ni nel settore dell’Investment banking? Se consideri le ore di lavoro ti viene da dire dell’Investment banking? “congrue”. Solitamente si lavora dalle 8:30 di E’ evidente che, visti alcuni esempi emersi mattina alle 11:30 di sera in media escludendo i durante la crisi finanziaria, fosse necessario un periodi in cui si è “sotto deal” dove spesso ti intervento normativo in materia di compensi. trattieni in ufficio fino alle 2:00 passate control- Detto ciò, lavorando in questo settore, ho colando e ricontrollando gli “information memo- nosciuto molti colleghi che più che dal denaro randum” per i clienti, è ovvio quindi che a fronte erano spinti da una forte passione in quello che di questa pressione la remunerazione debba facevano, anche perché la motivazione econonecessariamente essere idonea a sopportare il mica si esaurisce presto. Concludendo, non credo che il settore carico di lavoro. dell’Investment banking sia giunto al capolineSe non sono indiscreto di quanto parliamo? Chiaramente gli importi cambiano molto in a, ma che piuttosto stia affrontando un periodo funzione delle dimensioni dell’istituto per cui si transitorio e di adattamento ad un contesto lavora, ad ogni modo possiamo dire che un livel- normativo non ancora completamente scritto, lo Associate, con 3-4 anni di esperienza può che permetterà ancora operazioni molto reddiprendere una remunerazione fissa pari a circa tizie, per ridurne, nel contempo i rischi di na70.000 pound l’anno e un variabile spesso pari tura sistemica. al 100% della retribuzione fissa, in breve può portarsi a casa quasi 150.000 pound in un anno. Per quanto riguarda le altre figure? L’Associate è una figura come ti dicevo, inter- Newsletter a cura dell’ Area Executive Education & People Management LUISS Business School CURANO LE RUBRICHE: LE PERSONE DI QUESTO NUMERO: Gabriele Gabrielli Federico Colacicchi Cosimo Palmisano Fabrizio Maimone Valentina Castello Franco Amicucci Laura Innocenti Alessia Sammarra Docente LUISS Guido Carli Responsabile Area Executive Education & People Management LUISS Business School Docente Università LUMSA Docente Università de L’Aquila Docente LUISS Business School Docente LUISS Business School Docente Università de L’Aquila HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO: Francesco Pasquale De Mutiis Senior Consultant PriceWaterhouseCoopers Advisory Valentino Salvatore De Pietro Associazione Management Club Antonella Materano Studente Laurea Magistrale Università LUISS Guido Carli Coordinamento: [email protected] [email protected] tel. 06 85.225.251 fax. 06 85.225.682