n°21 - LUISS Business School

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n°21 - LUISS Business School
PRIMA
A CURA DI GABRIELE GABRIELLI
Sommario
Editoriale: Cosa sto facendo? Per coltivare leadership e management più consapevoli Lo spillo - L’aforisma - Prossimità: Learning 2.0? - Professioni: Mercato del lavoro,
occupazione e flexicurity - Personal skill-I: Leggere e progettare le competenze del futuro
- Personal skill-II: Become a change-maker. Un'altra tappa del cammino verso l’authentic
leadership - Press: Diversità e performance organizzative Prospettive organizzative-I: Saper innovare è un problema di competenze manegeriali Prospettive organizzative-II: ECCE Customer: uno su mille ce la fa Pay for…: Storia di un banker
Lo spillo
Numero XXI
Settembre 2011
Cosa mi resta
per sperare?
di Pierluigi Celli*
S
ono disorientato,
e non me ne vanto.
Fino a qualche tempo fa pensavo di
capire: avevo le mie idee, un po’ di studi ben
fatti. Sapevo persino l’inglese. Non tanto,
quello che bastava a farsi capire.
Editoriale
di Gabriele Gabrielli
Cosa sto facendo?
Per coltivare leadership e
management più consapevoli
“… è proprio vero che nell’agire non possiamo mai sapere
che cosa stiamo facendo …”
Hannah Arendt
I
contesti organizzati, ossia quei fenomeni sociali che prendono forma attorno a una visione
e per conseguire finalità di diversa natura
(politiche, economiche, sociali, culturali ecc.),
sono sistemi complessi di fitte trame in cui si
intrecciano relazioni. Possono riguardare persone, strutture organizzative e ruoli, gruppi. Possono
essere reali e virtuali, locali o globali, strettamente connesse o tenute insieme da “legami deboli” [Zan, 2011].
Oppure interessare noi e gli oggetti che ci circondano, i
beni e la ricchezza della natura, l’ambiente che ci ospita.
“Dal momento che agiamo sempre entro questa rete di
rapporti”, scriveva con straordinaria lucidità Hannah
Arendt, “le conseguenze di ogni atto sono sconfinate” [Arendt, 1997].
L’intraprendere organizzando attività di ogni genere (che
siano economiche e produttive o altro non fa molta differenza in questa prospettiva), e il fare management, ossia
far funzionare l’organizzazione combinando risorse e
gestendo i molteplici processi decisionali che esso coinvolge, condividono entrambi -a qualunque livello- questa natura ineluttabile sulla portata delle conseguenze.
segue a pag. 2
Ma poi i ricordi e quello che si è venuto accumulando in questi anni mi hanno
fregato.
E allora ho maturato la mia richiesta: concedetemi almeno l’oblio; la
possibilità di dimenticare.
Vorrei cancellare questi anni,
condannarli al non ricordo. Provare a
ripulire il quadro per cominciare a disegnare qualcosa che possa durare.
Non chiedo molto, in fondo.
Un soprassalto di dignità e la
possibilità di avviare al silenzio le voci
della vergogna che hanno avuto diritto di
E’ l’angoscia che sta montando, e non
cittadinanza a nostro carico, senza che
riesco a liberarmene.
noi potessimo scegliere.
Le cose si sono venute complicando,
ma non perché incomprensibili in sé, forse
molte confuse, questo sì; il peggio, però, lo
hanno dato le persone, quelle al comando, in
particolare.
Meglio ricominciare senza tributi da
pagare.
La rivolta avrebbe forse più senso, ci
renderebbe più eroici.
Mi hanno scaricato addosso di tutto, Ma con i tempi che corrono anche l’oblio
e nulla che valesse la pena. dei detriti accumulati intorno è una buona premessa che consente di tornare a
Così mi è rimasta questa sensazione
credere, per poter sperare.
di disagio profondo: la testa che gira a vuoto,
senza punti di riferimento e il cuore che ha
perso le sue passioni.
*Direttore Generale LUISS Guido Carli
Sono giovane, vorrei gridare. Non ho
ancora trent’anni.
Pagina 2
Cosa sto facendo? Per coltivare leadership e management più consapevoli
(segue da pag. 1)
Non si può scivolar via da questo terreno
schivando decisioni, preoccupazioni, conflitti. Cosa stiamo facendo? E’ questa allora la
domanda che leader e manager esigenti si
fanno cercando punti di orientamento e ancoraggi alla propria azione. In effetti, guidare
organizzazioni e uomini, tracciare una visione, marcare lo spazio organizzativo e relazionale dove si opera con la propria azione significa sempre orientare un fascio di luce potente sulla responsabilità, sulle azioni e sulle sue
conseguenze. Ogni leadership, buona o cattiva che sia [Kellerman, 2005], da valorizzare o
rottamare insieme a tutte le sue mistiche e
ideologie [Vitullo, 2011] è “sconfinata” in questo senso, proprio perché inevitabile e difficilmente addomesticabile; non la si può esorcizzare -sono ancora parole della Arendt“restringendo la propria azione entro una
cornice o entro circostanze delimitate e controllabili …”. Se non fosse anche che per questo, fare intrapresa e management meriterebbero un gran rispetto. E andrebbero anche
incentivati con una strategia e un impegno
conoscenza e l’innovazione, le applicazioni
della tecnica. Ogni epoca ha quindi anche la
sua responsabilità. Questa è condensata
nelle storie e nell’agire di quanti la popolano
e, nel mondo delle organizzazioni complesse, in primo luogo di chi le guida segnandone il cammino, tessendo o riducendo legami,
valorizzando o dissipando risorse. Ogni epoca, insomma, lascia tracce indelebili segnate
dalle impronte delle donne e degli uomini
che l’hanno attraversata.
Riflettere sul fenomeno organizzativo come
tessuto di legami e percorsi narrativi fatti di
trame diverse e variopinte e intrecciato da
azioni umane e dalle loro conseguenze esige,
dunque, porsi sempre nella prospettiva futura. Il peso della “sconfinatezza”, infatti, non
si accontenta dello sguardo rivolto al passato. In termini educativi, non bisogna lasciarsi distrarre dall’invito che può esserci rivolto
a indirizzare preminentemente l’attenzione
verso la “ricerca” delle responsabilità che ci
sono e che rimangono. La prospettiva educa-
L’aforisma
proposto da Franco Fontana*
“I
l futuro dell’azienda è il frutto della fusione tra visione e valori
individuali ed aziendali; essa genera creatività, impegno ed
orientamento al cambiamento e garantisce l’evoluzione del business.”
Arie de Geus, L’azienda del futuro (The Living Company)
maggiore, coltivando con più convinzione e
energie il terreno dei sistemi educativi e formativi, laddove cioè si discutono e testimoniano sempre la visione dell’uomo, quella del
mondo in cui viviamo e si formano i modelli
sociali con cui approviamo i comportamenti
umani.
Ogni epoca per questo è riconoscibile, grazie
al lavoro e alla riflessione distaccata dello
storico, da tratti propri che ne caratterizzano
la cultura, la società con i suoi suoni e colori,
l’economia che danza tra picchi e crolli, la
tiva e l’esigenza di formare cittadini responsabili, prima ancora che uomini d’affari
[Nussbaum, 2011], richiede di coltivare piuttosto spazi crescenti di consapevolezza per
collocare il futuro, ancorandolo su fondamenta più solide perché poggiate sulla libertà della responsabilità.
Fare tutto questo, però, non è facile. Perché
questa è soprattutto un’epoca di frastuono e
fracasso, disorientata dall’ideologia del fare,
lasciata troppo spesso alla guida ondivaga
dell’ideologia della crescita e dei suoi miti
[Mancini, 2011] e degli automatismi che dissipano energie senza ricostruire le forze
[Rullani, 2010]. Sta crescendo però la consapevolezza che adagiarsi supinamente (o
galleggiare) in una società dominata
dall’economia è come coltivare in casa piante necrofore che ti tolgono ossigeno e respiro. Quando l’economia prende questa forma
“diventa una macchina che produce morte” e
che non lascia intravvedere futuro [Mancini,
2010]. In quest’epoca di automatismi che
riducono “la libertà umana e la responsabilità degli uni per gli altri” si corre anche il
rischio, nella società e nelle organizzazioni,
di perdere non soltanto “l’opportunità di
sintonizzarci l’uno con l’altro”, ma anche
quello di ridurre significativamente o annullare del tutto il tempo “per sintonizzarci con noi stessi” [Siegel, 2009].
Il valore di una leadership e di un
management responsabili, allora, può ricominciare proprio da qui. Da una strategia e
da un percorso personale di consapevolezza che rivendichi, scrollandosi di dosso le
distorsioni procurate da mitologie false
sull’uomo e sullo sviluppo, il diritto a riconquistare innanzi tutto il terreno dove
coltivare relazioni con gli altri, riducendo la
distanza a prossimità, e con gli oggetti che
popolano l’ambiente. Gli uni e gli altri, le
persone e le cose, meritano rispetto e devono avere futuro. In fondo sono ciascuno a
suo modo soggetti e oggetti “intelligenti” di
quest’epoca aperta e interconnessa [Mark,
2011].
Per approfondire
Arendt H., Lavoro, opera, azione. Le forme della vita
attiva, Ombre Corte, Verona, 1997
Kellerman B., Cattiva leadership. Quando il lato oscuro della natura umana prende il comando, Etas, Milano, 2005
Mancini R., Idee eretiche. Trentatré percorsi verso
un’economia delle relazioni, della cura e del bene comune, Altraeconomia, Milano, 2010
Mark P., “Oggetti intelligenti in Rete”, Corriere
della Sera, 9 luglio 2011
Nussbaum C. M., Non per profitto, Il Mulino, Bologna, 2011
Rullani E., Modernità sostenibile. Idee, filiere e servizi
per uscire dalla crisi, Marsilio, Venezia, 2010
Siegel D. J., Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009
VIitullo A., Leadershit, Ponte alle Grazie, Milano
2011
Zan S., Le organizzazioni complesse, Carocci, Roma
2011
Prossimità
Learning 2.0?
E
nzo Rullani, il padre italiano
dell’Economia della Conoscenza, è
stato di recente ospite di “Architetti
di Apprendimento”, l’atelier formativo dedicato alla community dei
formatori aziendali che l’Area
Executive Education & People
Management della LUISS Business School promuove in partnership con Amicucci Formazione. Nel corso della sessione di lavoro dedicata
all’apprendimento in rete, il Professore ha evidenziato (tra le tante suggestioni offerte) la
nuova centralità della dimensione sociale dei
processi di apprendimento e, quindi, il passaggio da una economia della scarsità (basata sulla
produzione di beni materiali) ad una economia
della conoscenza (basata su un prodotto riutilizzabile e, perciò moltiplicabile virtualmente
all’infinito come il sapere). Un sapere modulare
(e quindi critico e autonomo) che si contrappone al pensiero “esecutivo” (e perciò passivo)
proprio della formazione sequenziale tradizionale.
Chiedo scusa al lettore per la digressione, ma
alle volte mi chiedo dove vivano (e cosa leggano) i politici, gli “autorevoli esponenti” del
mondo dell’impresa e gli opinion maker che,
nonostante tutte le evidenze, continuano a pensare che “con la cultura non si mangia” e prefigurano per l’Italia un “futuro” da anni ’50, basato sul lavoro manuale e su un approccio veterofordista alla produttività aziendale. Ad ogni
modo, per chi invece pensa che la formazione
Pagina 3
A CURA DI FABRIZIO MAIMONE
possa svolgere (ancora) un ruolo centrale per la crescita dell’impresa e
dell’intero sistema economico, può essere utile confrontarsi con l’ultima novità
del panorama dei modelli formativi, che
rappresenta un applicazione concreta di
alcuni principi dell’apprendimento in
rete: il Learning 2.0. Il Learning 2.0 è una
utile metafora per indicare quegli approcci formativi che applicano i principi
del web 2.0 ai processi di apprendimento.
Si passa, quindi, da un paradigma trasmissivo, verticale e “chiuso” (esiste un
solo modo giusto per affrontare un problema e la soluzione viene calata
dall’alto) ad una prospettiva collaborativa, partecipativa e “aperta” (che attribuisce particolare rilevanza ai processi
di costruzione sociale della conoscenza
e alla capacità di imparare ad imparare).
Le logiche del Learning 2.0: orizzontalità, collaborazione, rete sociale, coproduzione delle conoscenze, logica
distributiva. Secondo il JRC EU 2009
Report (Learning 2.0 -The Impact of
Web 2.0 Innovations on E&T in Europe) il valore aggiunto apportato dal Learning 2.0 è dato da: sviluppo delle competenze informatiche e di utilizzo dei
multimedia, crescita delle competenze
di comunicazione e networking, sviluppo del multitasking e della capacità di
gestire la complessità, sviluppo delle
competenze meta-cognitive (imparare
ad imparare in rete), crescita della motivazione.
Lasciamo decidere ai posteri se si tratti
effettivamente di un nuovo paradigma
formativo o semplicemente di una riproposizione “glamour” del vecchio modello
dell’apprendimento collaborativo. La
cosa interessante è che, al contrario di
molte mode formative del recente passato, si tratta di un
modello a costo zero, perché la
filosofia di fondo del Learning
2.0 è quella che si possono raggiungere obiettivi importanti
migliorando quello che già c’è e
implementando degli strumenti che ormai sono disponibili in
qualunque intranet aziendale.
La parte veramente difficile è
quella di ridisegnare le attività
formative in modo da trasformare il singolo evento (il modulo formativo tradizionale) in
un ambiente o, per meglio dire,
in una “architettura formativa”,
che si integri con i processi
aziendali e vada ad intercettare
le comunità e le reti già esistenti in azienda, favorendo magari
anche la nascita di nuove. In
Metafora visiva del Learning 2.0, tratta da Seely Brown
e Adler(2008), EDUCAUSE Review, vol. 43, no. 1
una logica aperta anche agli scambi con
l’esterno.
Gli strumenti web 2.0 come il blog, il wiki, il
social network, ecc. possono contribuire alla
creazione di un ambiente integrato di apprendimento, ma il primo obiettivo del Learning 2.0
non è quello di adottare lo strumento più sofisticato ma di facilitare, anche utilizzando le
tecnologie, lo sviluppo e la manutenzione delle
reti sociali e delle comunità, fornendo il supporto per favorire la condivisione, la crossfertilization delle conoscenze e quel processo di
“traduzione” della conoscenza che secondo
Nigel Holden è vitale per favorire lo scambio di
conoscenze tra gruppi e culture (nazionali,
aziendali e professionali) diversi.
Vi sono dei casi di successo che dimostrano che
l’apprendimento in rete, che si chiami o meno
2.0, può essere facilitato anche nelle imprese e
nei contesti produttivi più competitivi. IBM, ad
esempio, è stata indicata dal Rapporto UE prima citato tra le best practice nella categoria
aziende.
segue a pag. 4
Pagina 4
Learning 2.0?
individuali. I fattori di successo: una cultura anche per l’impresa, l’integrazione dei sisteorganizzativa aperta, la creazione di valore mi negli ambienti software pre-esistenti, la
aggiunto per i dipendenti che crea valore partecipazione volontaria e l’offerta di linee
guida per la collaborazione in
rete. Le barriere: le restrizioni
di accesso e le policy di sicurezza della rete aziendale, la
cultura organizzativa inadeguata e la mancanza di flessibilità.
Il Learning 2.0 non è semplicemente una metodologia
formativa, ma è un vero e
proprio
a pproc c io
all’apprendimento individuale e organizzativo che può
integrare diversi strumenti e
metodologie. Provare per
credere.
(segue da pag. 3)
Gli strumenti Web 2.0 sono
usati da IBM in maniera estensiva (580.000 profili in
‘bluepages’; 1,400 Communities;150,000 thread in nei forum
di discussion, 13,000 blog;
12,000 wiki con 190,000 pagine,
550.000 social bookmark). Secondo i ricercatori che hanno
scritto il Rapporto, Il valore
aggiunto per I dipendenti è
legato al riconoscimento delle
competenze (reputation, career
development), alla facilitazione
del processo di ricerca delle
informazioni e della comunicazione, al miglioramento della
collaborazione nei gruppi di
progetto, alla creazione e la
condivisione delle conoscenze,
alla crescita delle competenze
Le principali attività del Learning 2.0 (fonte JRC EU 2009 Report)
Professioni
Mercato del lavoro,
occupazione e
flexicurity
N
ell'ambito della più
grande crisi economico
finanziaria -e socialedella storia dell'UE, la
ripresa economica è
irregolare, con tassi e
modalità di crescita
fortemente differenziati. La sfida comune
è quella di assicurarsi che la ripresa economica sia in ogni caso “job-rich”, come
affermato recentemente da László Andor,
Commissario EU della Direzione
“Employment, Social Affairs and Inclusion”. La
necessità di assicurare uno stretto legame
tra crescita economica ed occupazione
risponde agli obiettivi di competitività,
inclusione e sostenibilità propri della
strategia EU. In particolare, il quadro
strategico programmatico “Europa 2020”,
fornisce la base di tutte le politiche comunitarie e nazionali e definisce gli impegni per raggiungere entro il 2020: un tasso di occupazione del 75%; un tasso di
completamento dell'istruzione terziaria
del 40%; una riduzione dell'abbandono
scolastico inferiore al 10%; l'abbassamento del rischio di povertà ed esclusione
sociale.
A CURA DI VALENTINA CASTELLO
Nella recente pubblicazione del rapporto
europeo sulle politiche per l'impiego,
nell'ambito della più ampia “Social Europe
Guide” (http://ec.europa.eu/social/), sono
riportati i filoni di azione e programmatici in
materia di lavoro e politica sociale, strumentali al raggiungimento dei predetti obiettivi e
della più ampia finalità di crescita inclusiva.
Il tema del funzionamento del mercato del
lavoro torna ad essere snodo principale in
tema di occupazione, crescita e sviluppo,
anche in riferimento ad alcuni driver di esclusione (per età, sesso, livello di skills). La centralità assoluta del tema è anche confermata
dall'assegnazione del Premio Nobel 2010 in
Scienze Economiche a Pissarides, Diamond e
Mortensen per le loro analisi
sugli attriti dei mercati del
lavoro.
Le frizioni del mercato del
lavoro sono di diversa natura
(di competenze, di mobilità,
di informazioni) e non c'è una
'mano invisibile' che governa
l'allineamento di domanda ed
offerta di lavoro e competenze. Tali fattori strutturali ed
inerziali hanno spinto verso il
ripensamento, consolidamento e valorizzazione (oltre che
di armonizzazione tra Paesi)
de:
• i sistemi e processi dei servizi pubblici per l'impiego, e
la cooperazione tra i diversi
attori del mercato, di cui al
programma EU PARES
•
(Partnership between Employment Services);
la ridefinizione dei contenuti e delle azioni di
flexicurity, rinforzandone la necessaria azione congiunta nelle diverse dimensioni fondanti, quali: l'evoluzione delle forme contrattuali (come l'esperienza tedesca del kurzarbeit
e le ipotesi di contratti “open-ended”); i programmi di apprendimento permanente; le
politiche attive del lavoro; i sistemi di sicurezza sociale.
Personal Skills
Pagina 5
Leggere e progettare
le competenze del
futuro
L’
altro giorno ho ripreso casualmente un libro di Edgar Morin
di 10 anni fa, “I sette saperi necessari all’educazione del futuro” . Mi
sono divertito a rileggere solo
le parti che avevo ben evidenziato e sottolineato anche più
volte ed ho subito vissuto
quella sensazione rassicurante di un territorio
familiare, conosciuto, perché attraversato più
volte.
Ho subito ritrovato uno dei saperi fondamentali
per il futuro, cioè la necessità di affrontare le cecità della conoscenza: ”E’ sorprendente che
l’educazione, che mira a comunicare conoscenza,
sia cieca su ciò che è la conoscenza umana, su ciò
che sono i suoi dispositivi, le sue menomazioni, le
sue difficoltà, le sue propensioni all’errore e
all’illusione, e che non si preoccupi affatto di far
conoscere che cosa è conoscere”.
Poi, saltando alcune pagine, ho ritrovato ben in
vista: “E’ necessario sviluppare l’attitudine naturale della mente umana a situare tutte le informazioni in un contesto e in un insieme.
E’ necessario insegnare i metodi che permettano
di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti e il tutto in un mondo complesso”.
Per quello strano meccanismo della mente di
lasciarsi andare, sospendendo la lettura, mi sono
ritrovato dentro le rappresentazioni di questi
giorni dei problemi del paese e di come si stanno
affrontando i molti, moltissimi problemi che si
sono accumulati.
Becoming a
change-maker.
Un’altra tappa del
cammino verso l’authentic
leadership
di Antonella Materano
L
a IYLC: “International Youth Leadership
Conference”. Avevo letto di questo evento internazionale su blogs e siti web, e
subito avevo iniziato a viaggiare con la
fantasia, pensando all’incredibile opportunità dei partecipanti (con un po’
di invidia, devo ammetterlo): giovani ragazzi impe-
A CURA DI FRANCO AMICUCCI
Purtroppo mi sono ritrovato in una diversa
condizione emotiva, certamente meno gradevole rispetto a quella iniziale.
Ho provato a trovare il motivo di questo
sconforto. Forse la consapevolezza della gravità della crisi ed i suoi impatti sulla mia vita?
Oppure?
Pian piano, riprendendo i brevi passi del libro
che avevo letto, mi si è chiarito il motivo delle
sensazioni negative che erano emerse. Mi si è
formata l’immagine di una società disorientata, con tanti frammenti chiusi nel proprio
particolare, dove il tutto è letto con le lenti del
proprio microcosmo, parziale e miope. Proprio quella cecità della conoscenza che Morin
analizza nelle sue componenti fondamentali:
Errori mentali. La possibilità di mentire a noi
stessi, per bisogno di autogiustificazione, egocentrismo, la tendenza a proiettare sugli altri
le cause delle cose che non vanno.
Errori intellettuali. Teorie scientifiche, dottrine politiche, ideologie, sono spesso convinte
della propria “verità” e quindi chiuse in se
stesse e invulnerabili ad ogni critica. Anche
modelli aziendali, scuole e correnti di pensiero corrono questo rischio.
Errori della ragione. La razionalità è la migliore barriera contro l’errore e l’illusione, se rimane aperta alle contestazioni e al continuo confronto con i dati della realtà con cui si confronta. Quando si chiude alla verifica, diventa
razionalizzatrice, determinista e meccanicista.
Accecamenti paradigmatici. Il paradigma può
essere definito come la promozione e selezione dei concetti dominanti. Ha un ruolo sotterraneo, che, come sottolinea Morin, irriga il
pensiero cosciente, domina i discorsi e le teorie.
A questi rischi Morin aggiunge i pericoli delle
“specializzazioni chiuse” e della frammentazione del pensiero: “Di fatto
l’iperspecializzazione impedisce di vedere il
globale (che frammenta in particelle) nonché
l’essenziale (che dissolve). Essa impedisce
anche di trattare correttamente i problemi
particolari che possono essere posti e pensati
solo nel loro contesto…”
La conseguenza è: “L’intelligenza parcellare,
compartimentata, meccanicista, disgiuntiva,
riduzionista, spezza il complesso del mondo
in frammenti disgiunti, fraziona i problemi,
separa ciò che è legato…
E’ un’intelligenza miope che il più delle volte
finisce per essere cieca”.
Frammentazioni disciplinari, culture chiuse,
autoreferenzialità, portano a difficoltà di
comunicazione interna, a conflittualità diffuse, ad inefficienze organizzative e moltiplicazioni di costi.
Educare il pensiero a cogliere le interconnessioni, le priorità, i segnali deboli è un imperativo per acquisire strumenti per affrontare e
gestire la complessità delle organizzazioni.
Per questo ogni tanto è necessario allontanarsi, vedere da lontano e dall’alto processi e
vita sociale ed organizzativa, perché solo così
sarà possibile cogliere gli elementi essenziali,
le tendenze, gli ostacoli principali, ma anche
nuovi spazi ed opportunità.
In questo modo si allena un pensiero di sintesi, un pensiero strategico che aiuta sì alla
visione di insieme, alla sintesi, ma al tempo
stesso non è distacco dal quotidiano, dal
dettaglio, dall’operativo.
“Più potente è l’intelligenza generale, più
grande è la sua capacità di trattare problemi
specifici”.
gnati a discutere su temi a impatto globale, a
confrontarsi sulle diverse culture, a vivere
un’esperienza unica, di quelle che cambiano
non soltanto il proprio modo di pensare, ma
anche quello di vivere sé stessi e gli altri.
Non avrei mai immaginato di essere uno dei
63 studenti delegati che hanno preso parte
alla ventiduesima edizione della Conferenza.
Selezionata per rappresentare la Exeter
University -dove sono stata studente erasmus - e la LUISS Guido Carli -di cui faccio
parte da ormai tre anni, e dove quest’anno
inizierò il corso di laurea magistrale in General Management .
E’ stata la magica città di Praga, cuore geografico e culturale dell’Europa, a fare da scenografia alla ventiduesima IYLC, svoltasi da
domenica 24 a venerdì 29 luglio 2011.
“Cinque giornate per ammirare le bellezze
della città”, starete pensando (è ciò che pensavo anch’io prima di arrivare). Sbagliato:
sono stati i cinque giorni più impegnativi e
fitti di lavoro che io abbia mai vissuto. Le attività, sempre innovative e ‘challenging’, sono
state le più disparate: dai giochi ‘ice-breaker’
alle simulazioni del UN Security Council,
dell’International
Criminal
Court,
dell’European Parliament, dalle visite alle
ambasciate ai meeting fino a notte tarda, dalle
colazioni di gruppo alla ‘cultural night’.
I protagonisti siamo stati noi, 63 studenti
provenienti da tutto il mondo, accompagnati
dal proprio background, cultura e personalità. Eccoci, giovani tanto diversi quanto desiderosi di confondersi e fondersi in un'unica
atmosfera fatta di curiosità e stimoli: è stato
questo il vero motore dell’intera settimana.
segue a pag. 6
Pagina 6
Personal Skills
Becoming a change-maker.
Un’altra tappa del cammino verso
l’authentic leadership
(segue da pag. 5)
Ciò che più di ogni altra cosa mi ha stupito, è
stato conoscere studenti di ogni facoltà: a fare da
‘fil rouge’, infatti, ci ha pensato la Leadership, in
termini di capacità, voglia e coraggio di essere
‘change-maker’ in un mondo che ha sempre più
bisogno di figure che ispirino, coinvolgano e motivino il prossimo. Divisi in gruppi composti da 15
‘delegates’, abbiamo lavorato a stretto contatto
tanto da riuscire a creare degli ottimi equilibri di
gruppo, trasformando le diversità da difficoltà in
valore aggiunto.
A rendere possibile la Conferenza sono stati organizzatori, ‘facilitators’ e ‘observers’, che, prima di
essere seri professionisti, sono persone fantastiche, disponibili e ‘open minded’. Tra questi, William Webster-Executive Director of IYLC, che,
durante la cerimonia di benvenuto, ci ha invitato
a riflettere sul fatto che noi partecipanti abbiamo
rappresentato il 10% dei giovani che vogliono fare
la differenza nel mondo, diventare leaders e met-
tere sempre un po’ di sé stessi in ciò che fanno. dendo in prestito le celebri parole di MaE’ stato uno dei momenti più memorabili di hatma Gandhi, “Be the change you want to
see in the world”.
quest’esperienza.
Da un po’ di tempo a questa parte, al termine di
qualsiasi esperienza rilevante, mi domando
“Cosa sto portando via con me?” ma anche
“Cosa sto lasciando agli altri di mio?”. Iniziando dal secondo interrogativo,
ciò che credo di lasciare alle
persone che ho incontrato
durante questa avventura la
voglia di credere in sé stessi,
il desiderio di motivare i
collaboratori e soprattutto la
consapevolezza del valore
delle persone, non importa
quanto diverse tra loro e da
noi stessi esse siano. Tornando al primo, senza dubbio
dalla ventiduesima IYLC
porto via la voglia di cambiare qualcosa nel mondo, qualcosa per cui valga la pena di
impegnarsi e coinvolgere il
Un gruppo durante le sessioni della
prossimo, qualcosa in cui
International Youth Leadership Conference
credere fermamente. Pren-
Press
Diversità e
Performance
organizzative
L
a diversità rappresenta un dato
ineludibile per le organizzazioni,
sempre più alle prese con
l’internazionalizzazione delle
popolazioni organizzative e le
conseguenze dei mutamenti demografici. La domanda di riconoscimento della diversità è ormai un tema ricorrente nelle agende della funzione HR,
chiamata per missione a promuovere una cultura organizzativa e degli strumenti capaci di
far convivere produttivamente differenti
strutture motivazionali e sistemi di attesa
(Gabrielli, 2010).
Come spesso accade con fenomeni complessi
“non è tutto oro quel che luccica” e la diversità nei contesti lavorativi se da un lato alimenta creatività e problem solving, dall’altro può
essere fonte di conflitti e tensioni. La relazione tra diversity e performance rappresenta,
infatti, un tema aperto che anima il dibattito
di ricercatori e practitioner.
Jakob Lauring e Jan Selmer, in un recente
studio apparso sull’European Management
Review, si sono posti l’obiettivo di arricchire
questo confronto con evidenze empiriche. La
novità dell’approccio proposto dai due autori
consiste nell’ aver esteso l’analisi oltre la relazione diretta tra diversità e performance orga-
A CURA DI FRANCO AMICUCCI
A CURA DI LAURA INNOCENTI
nizzative, includendo nell’osservazione alcuni
possibili meccanismi di supporto.
L’attenzione degli autori si concentra in particolare sul concetto di Diversity climate, nella convinzione che un comune sentire a livello di gruppo di
lavoro sul tema della diversità accresca il legame
tra eterogeneità e performance. L’apertura alla
diversità linguistica, di apparenza esteriore e di
valori sono i tre indicatori adottati per rilevare il
Diversity climate
La ricerca, che ha coinvolto tre importanti università danesi, conferma le ipotesi formulate. Ma è
interessante notare che non tutte le forme di apertura agiscono nello stesso modo. Sono i gruppi in
cui è più elevata la tolleranza a valori diversi ad
avere migliori performance e maggiore soddisfazione, mentre la apertura verso condizioni più
superficiali, come l’apparenza fisica, risulta meno
rilevante. Ciò conferma che solo l’accettazione
delle differenze più profonde consente realmente
di superare le barriere tra persone.
Lo studio offre alcune interessanti implicazioni manageriali. Emerge, infatti,
l’importanza di promuovere
l’apertura alla diversità ad
un duplice livello, individuale ed organizzativo. Attraverso la formazione si può
favorire l’acquisizione di
una maggiore consapevolezza individuale dei meccanismi psicologici e sociali che
sottendo ai pregiudizi ed
agli stereotipi. Al tempo
stesso, è fondamentale agire
a livello organizzativo attraverso politiche
e strategie che diffondano una cultura del
rispetto e della valorizzazione dell’unicità
di ogni persona.
L’azione congiunta di queste due leve può
davvero consentire all’ “oro” della diversità
di offrire tutto il proprio splendore.
Per approfondire:
Gabrielli G. People Management. Teorie e pratiche per una gestione sostenibile delle persone.
FrancoAngeli, Milano, 2010
Lauring, J. & Selmer J. (2011) “Multicultural
organisations: Does a positive diversity climate
promote performance?” European
Management Review, 8, 81-93
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Prospettive organizzative
A CURA DI ALESSIA SAMMARRA
Perché saper innovare è
un problema di
competenze manageriali
C
ompetere attraverso
l’innovazione è ormai la
parola d’ordine in tutti i
settori dell’economia, dal
Made in Italy all’high tech.
Per molte imprese più che
la chiave del successo innovare è la condizione ‘sine
qua non’ per assicurare la sopravvivenza stessa del business in un contesto di forte competizione internazionale. Ma se tutti sono
pronti a riconoscere la centralità
dell’innovazione, molti falsi miti continuano
a minare la capacità delle imprese di comprenderne il reale significato e soprattutto
le modalità con cui concretizzarla.
Il primo equivoco è che la dimensione
d’impresa sia una variabile determinante
per la capacità di innovazione e che pertanto innovare sia prerogativa pressoché esclusiva delle grandi imprese. Come Shumpeter
sosteneva “la pura dimensione non è necessaria né sufficiente per innovare”. Lo dimostra chiaramente la storia di due ex-piccole
imprese che hanno fatto dell’innovazione la
chiave del loro successo: Microsoft e Apple.
Entrambe le imprese non sono capaci di
innovare perché grandi ma, viceversa, sono
diventate grandi perché capaci di innovare.
Quel che è importante, quindi, è dotarsi di
modelli di gestione dei processi innovativi
in grado di controbilanciare il vincolo dimensionale. In particolare, le piccole imprese possono rafforzare le proprie capacità
innovative “facendo rete”, vale a dire creando un sistema di relazioni con partner ester-
ni che consenta di condividere costi e rischi
e di ridurre i tempi dell’innovazione.
Il secondo equivoco in cui spesso ci si imbatte è che l’innovazione abbia prevalentemente a che fare con la ricerca tecnologica.
In realtà innovare significa saper gestire un
processo complesso che inizia con la percezione di un nuovo mercato e/o di una nuova
opportunità e che passa per lo sviluppo, la
produzione e la commercializzazione,
nell'ottica di un successo commerciale e di
un ritorno economico; pertanto l'innovazione non include soltanto la ricerca (di base e
applicata), ma anche tutte le altre attività
aziendali, fino -ad esempio- alle modalità di
comunicazione, di vendita e ai servizi postvendita. Non tutte le invenzioni diventano
vista organizzativo, ciò pone nuove esigenze in termini di ruoli e competenze. In
passato la responsabilità di guidare i proc essi di innova zione spe ttava
all’imprenditore, nelle piccole imprese, e al
responsabile della Ricerca & Sviluppo
piuttosto che del Marketing nelle imprese
di medio-grande dimensione; oggi la responsabilità per l’innovazione non ha una
collocazione precisa nelle tipiche funzioni
organizzative e richiede di formare nuove
figure manageriali che abbiamo competenze e responsabilità trasversali rispetto alle
diverse aree dell’impresa, dalla strategia
alla progettazione organizzativa, alla gestione delle risorse umane, al marketing e
alla ricerca.
Percorso di Formazione Manageriale in
BUSINESS INNOVATION MANAGER - ADVANCED
Il Percorso in Business Innovation Manager ha l’obiettivo di formare i
nuovi manager dell’innovazione attraverso una preparazione in grado di abbattere i compartimenti stagni tra le diverse discipline. La
finalità è quella di formare manager in grado di comprendere, stimolare e gestire i processi innovativi in tutti i loro aspetti, dalla ricerca
delle fonti di finanziamento e delle collaborazioni con partner esterni, alla progettazione e sviluppo di nuovi prodotti, alle strategie di
valorizzazione commerciale dell’innovazione.
Il Percorso , coordinato dall’Area Executive Education & People
Management della LUISS Business School in collaborazione con Elea
SpA, si rivolge a dirigenti aderenti a Fondirigenti ed iscritti a Federmanager. Il Percorso si svolge a Verona dal 30 settembre al 12 novembre ed è articolato su quattro
moduli formativi della durata
Networks for Innovation:
di 1,5 giornate ciascuno:
Modulo 1
Innovare attraverso le collaborazioni
Modulo 2
innovazioni, ma solo quelle
invenzioni che vengono prodotte, materializzate e sfrutta- Modulo 3
te per fini commerciali. Questo significa che alla base di
quelle imprese che sanno innovare ci sono non solo com- Modulo 4
petenze tecniche ma soprattutto capacità manageriali che
vanno dalla sensibilità organizzativa, alla capacità di motivare
e sostenere la creatività, alle competenze strategiche, finanziarie e
di marketing.
Ecco perché innovare è un problema manageriale e non solo tecnico;
implica cioè la capacità di presidiare e coordinare efficacemente
risorse diverse (umane, finanziarie,
di project management, ecc.) e di
creare un contesto organizzativo
che faciliti lo sviluppo di nuove
idee e la capacità di trasformarle in
valore per l’impresa. Dal punto di
New Product Development:
Ottimizzare lo sviluppo nuovi prodotti
Creative Thinking:
Sviluppare la creatività nelle imprese e
nei team
Marketing dell’Innovazione:
Massimizzare il valore commerciale delle
innovazioni
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Prospettive organizzative
A CURA DI ALESSIA SAMMARRA
ECCE CUSTOMER:
uno su mille ce la fa
di Valentino Salvatore De Pietro
Storia di un giovane italiano che in
Silicon Valley è riuscito a realizzare
la sua idea di business.
A
lle volte per realizzare un
sogno ci si impiega una vita
intera, in altri casi basta
avere un progetto innovativo e una buona dose di tenacia. E’ questo il caso di
Cosimo Palmisano, 33 anni,
laureato in Ingegneria elettronica al Politecnico di Bari che, partendo da una felice
“business idea” ha sviluppato una piattaforma web per il social CRM che permette alle aziende e ai brand di gestire attraverso un unico punto di accesso diversi
account su i social network. Sfruttare il
potenziale inespresso dei social network
(Linkedin, Facebook, Youtube, Twitter)
per monetizzare le informazioni presenti
all’interno dei social network creando un
canale bidirezionale azienda -cliente, questa
l’idea che lo ha portato al successo (si veda
scheda “Innovazione e tecnologia”, p. 175, V
Rapporto Classe Dirigente, AMC, 2011).
Come nasce l'idea di Ecce Customer?
L’idea nasce a Maggio 2009 a Torino dalla
perfetta commistione fra la mia esperienza
lavorativa come consulente CRM e l’attività
svolta come ricercatore in ambito Data Mining. Mi sono reso conto che sia nel CRM
industriale che nella ricerca scientifica mancava qualcosa e si poteva migliorare entrambi unendoli logicamente. In che modo? Attraverso i social network. I social network mi
sembravano come un canale televisivo in cui
il broadcasting è bidirezionale e dove per la
prima volta il potere si fosse spostato verso
gli utenti. Da qui il nome ECCE Customer
(Ecco il cliente) che ora non è più un target
ma le aziende lo sono.
Come ha fatto conoscere la sua idea al
grande pubblico e in cosa pensa sia vincente? In Silicon Valley ho incontrato Franco Petrucci, mio attuale business partner e
imprenditore di prima generazione. Con lui
ho mosso i primi passi per la realizzazione
dell’idea e in Italia mi ha messo a disposizione la sua rete per cominciare a divulgare ECCE. Sempre in Italia ho partecipato
all’evento Working Capital di Telecom che è
diventato il vero volano per far
conoscere il brand ma anche
per trovare i primi clienti tra i
quali Telecom stessa. Le ragioni per le quali l’idea è stata
fino ad esso vincente è perché
nasce completamente orientata al cliente.
Perché ha deciso di andare oltre oceano per
sviluppare questo progetto? In Silicon Valley è nato questo fenomeno e solo lì potevo
andare per capire cosa stava accadendo. Inoltre i miei potenziali competitors erano tutti
lì e dovevo andare a studiarli e conoscerli per
capire che errori avevano fatto e che modello
utilizzavano.
Cosa pensa che manchi in Italia perché un
giovane imprenditore
possa realizzare la
propria idea? Ora non
ci sono più scuse per
non farlo. Ci sono i
capitali di rischio (seed
investors e ventur capitalist) e le strutture
(incubatori). Certo il
mercato degli investitori italiani è ancora
poco competitivo e
fanno la voce grossa dal
punto di vista delle
Cosimo Palmisano
CEO ECCE Customer
condizioni. Forse basterebbe alleggerire la
burocrazia favorendo
meccanismi di creazione di impresa semplici
e dinamici, così da permettere l’accesso ad
investitori stranieri e creare un regime competitivo anche fra gli investitori. Inoltre una
Srl non è la soluzione migliore per far accedere gli investitori. Basterebbe creare delle Spa a
basso costo così come le C-corporation americane. Aziende di semplice costituzione sia
finanziaria che legislativa per agevolare
l’ingresso di investitori, partner e neo assunti
che possano decidere di lavorare per una start
up diventando anche loro degli imprenditori
ricevendo in cambio delle quote.
Di che supporto ha bisogno da parte degli
stakeholder (sistema formazione, finanziario e da parte delle associazioni di categoria, ecc.)? Per dare
il loro contributo
le Università, come spesso fanno
le aziende che si
riposizionano sul
mercato, dovrebbero “resettare” la
loro mission. Non
tanto formare i
ragazzi per imparare a lavorare,
quanto piuttosto
formarli per creare lavoro. Questo
va fatto partendo
dall’accademia per
arrivare ai tanti giovani precari, che
oltre a fare ricerca,
insegnano.
Ci può spiegare il
percorso che deve
fare un imprenditore che arriva nella Silicon Valley per ottenere aiuti e vedere quindi la sua idea basata sulla tecnologia realizzata? Networking e sharing sono le parole chiave. Bussare a tutte le porte, competitors compresi. In
Silicon Valley basta mandare una email per
incontrare qualsivoglia manager o serial
entrepreneur e anche partecipare ad uno
delle centinaia di eventi di networking informali che si svolgono giornalmente.
Qui da noi è difficile farsi ascoltare, sono
tante le idee che non vedono mai la luce;
lì come funziona? In Silicon Valley università, imprese e fondi di investimento spesso
sono così perfettamente collegati che coincidono con la stessa persona. Da non trascurare è la cultura del fallimento. Lì se non
sei mai fallito non sei abbastanza esperto
per essere finanziato. Per loro è importante
che uno ci abbia provato e che abbia minori
possibilità di ricommettere gli stessi errori.
Che consigli può dare ai giovani italiani
che non trovano uno spazio in Italia? Gli
spazi bisogna crearseli a grandi spallate
ovunque si decida di mettere le basi. Se poi
si è in più di uno a dare le spallate tutto
diventa più semplice. Per perseguire una
idea di business bisogna essere almeno in
tre. Il passo logico fondamentale è capire
che possedere il 90% di poco è sempre poco, invece condividere poco di tantissimo è
sempre tanto.
Pay for...
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Storia di un
Banker
di Francesco Pasquale De Mutiis
L’
attuale contesto economico,
ancora
caratterizzato
da
un’estrema fragilità dei mercati,
ha portato una forte contrazione delle attività finanziarie (sia
di natura ordinaria ma soprattutto di natura straordinaria)
riducendo notevolmente le attività di investment
banking di molte banche estere e italiane.
Le nuove normative a livello nazione ed internazionale in materia di mitigazione dei rischi, sono
intervenute pesantemente ponendo paletti normativi circa l’attribuzione e l’erogazione dei bonus dei manager nel settore finanziario.
Alla fine di luglio l’hedge fund Lansdowne Partners, uno dei top al mondo, ha venduto la sua
partecipazione in Goldman Sachs (850 milioni di
dollari) anche sulla base della Volcker rule che ha
posto limiti importante al proprietary trading.
Una misura che ha inciso negativamente sulla
redditività di Goldman di circa il 15%, convincendo Lansdowne a chiudere la propria posizione
nell’investment banking liquidando l'intera partecipazione nella banca americana.
Analizzando alcuni fenomeni che hanno investito
il settore dell’Investment banking negli ultimi
anni verrebbe quasi da dire che sia giunto al capolinea. Ma è proprio così?
Abbiamo provato a trovare una risposta chiedendo un parere ad un ex laureato LUISS, che in quel
settore ci ha lavorato per diversi anni e non solo in
Italia. Federico Colacicchi ad oggi ricopre il ruolo
di Senior Manager in una delle principali società
di consulenza internazionale occupandosi principalmente di operazioni di finanza straordinaria in
Italia e all’estero.
Allora Federico, come è cominciata la tua carriere nel settore dell’Investment Banking?
Dopo la Laurea in Economia presso la LUISS e
una Tesi in Diritto Tributario sono passato, come
molti, dalla revisione contabile, in una delle così
dette Big 4. L’attività di Audit mi ha visto coinvolto per 3 anni in Italia e uno a New York dove ho
avuto modo di certificarmi come CPA (Certified
A CURA DI GABRIELE GABRIELLI
Public Accountant), un titolo non molto diverso media, un Analyst ovvero un neo laureato può
percepire mediamente 40.000 pound l’anno
dal quello del nostro revisore contabile.
Gli Stati Uniti hanno segnato il mio percorso con un variabile del 50&-70% della remuneraprofessionale. Quando arrivai a NYC infatti, era zione fissa.
il 2007, anno del boom per il settore delle opera- Se questo è il trattamento economico per un
zioni di finanza straordinaria (M&A) allora neo laureato posso immaginare il resto.
decisi di far leva sulle competenze sviluppate in Dopo il livello di Associate c’è il VP (Vice Preambito contabile per trasferirmi nella divisione sident) la cui retribuzione fissa si attesta intorno ai 110.000-120.000 pound l’anno
Transaction Services.
ed un variabile superiore al 100%
Dopo circa un anno a NYC ho decidel fisso. Oltre non saprei dire.
so di tornare a scuola, per approfonDirei, enormemente oltre qualsiasi
dire i temi della finanza vera e promedia o mediana di mercato.
pria. Verso la fine del 2007 sono
E’ vero anche che, sebbene sia diffitornato in Europa e più precisamencile trovare persone disposte a lavote alla London Business School dove
rare 15h al giorno per una remuneraho preso un anno sabbatico per
zione inferiore, è la parte variabile
frequentare un master in finanza.
della remunerazione che sembra
Come è stato frequentare un
essere uno degli strumenti di retenmaster in una delle più prestigiose
Federico Colacicchi
tion più appetibili per i banker. Ed è
business school del mondo e so- Revisore Legale, CPA
proprio su quella parte che molte
prattutto che vantaggi ti ha portaauthority internazionali prima e
to?
Beh è stata una esperienza unica che consiglie- italiane poi, hanno focalizzato la loro
rei a tutti. I vantaggi puoi immaginarli, termina- “attenzione regolatoria”.
ti i dodici mesi di corso mi sono ritrovato come Non credi che le nuove disposizioni in tema
associate in una delle principali banche d’affari di remunerazioni, volte a mitigare
l’assunzione di rischio da parte degli istituti
della City.
Ma sono davvero così elevate le remunerazio- finanziari, possano minare le perfomance e il
fascino di un settore come quello
ni nel settore dell’Investment banking?
Se consideri le ore di lavoro ti viene da dire dell’Investment banking?
“congrue”. Solitamente si lavora dalle 8:30 di E’ evidente che, visti alcuni esempi emersi
mattina alle 11:30 di sera in media escludendo i durante la crisi finanziaria, fosse necessario un
periodi in cui si è “sotto deal” dove spesso ti intervento normativo in materia di compensi.
trattieni in ufficio fino alle 2:00 passate control- Detto ciò, lavorando in questo settore, ho colando e ricontrollando gli “information memo- nosciuto molti colleghi che più che dal denaro
randum” per i clienti, è ovvio quindi che a fronte erano spinti da una forte passione in quello che
di questa pressione la remunerazione debba facevano, anche perché la motivazione econonecessariamente essere idonea a sopportare il mica si esaurisce presto.
Concludendo, non credo che il settore
carico di lavoro.
dell’Investment banking sia giunto al capolineSe non sono indiscreto di quanto parliamo?
Chiaramente gli importi cambiano molto in a, ma che piuttosto stia affrontando un periodo
funzione delle dimensioni dell’istituto per cui si transitorio e di adattamento ad un contesto
lavora, ad ogni modo possiamo dire che un livel- normativo non ancora completamente scritto,
lo Associate, con 3-4 anni di esperienza può che permetterà ancora operazioni molto reddiprendere una remunerazione fissa pari a circa tizie, per ridurne, nel contempo i rischi di na70.000 pound l’anno e un variabile spesso pari tura sistemica.
al 100% della retribuzione fissa, in breve può
portarsi a casa quasi 150.000 pound in un anno.
Per quanto riguarda le altre figure?
L’Associate è una figura come ti dicevo, inter-
Newsletter a cura dell’ Area Executive Education &
People Management LUISS Business School
CURANO LE RUBRICHE:
LE PERSONE DI QUESTO NUMERO:
Gabriele Gabrielli
Federico Colacicchi
Cosimo Palmisano
Fabrizio Maimone
Valentina Castello
Franco Amicucci
Laura Innocenti
Alessia Sammarra
Docente LUISS Guido Carli
Responsabile Area Executive Education & People Management
LUISS Business School
Docente Università LUMSA
Docente Università de L’Aquila
Docente LUISS Business School
Docente LUISS Business School
Docente Università de L’Aquila
HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:
Francesco Pasquale De Mutiis
Senior Consultant PriceWaterhouseCoopers Advisory
Valentino Salvatore De Pietro
Associazione Management Club
Antonella Materano
Studente Laurea Magistrale Università LUISS Guido Carli
Coordinamento:
[email protected]
[email protected]
tel. 06 85.225.251
fax. 06 85.225.682