Anno II – numero 46 del 25 febbraio 2010
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Anno II – numero 46 del 25 febbraio 2010
la voce rossa a cura di Andrea Genovali Anno II° - numero 46 del 25 febbraio 2010 Thomas Sankarà: un Rivoluzionario del nostro Tempo “Per ottenere un cambiamento radicale, bisogna avere il coraggio di inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire. Tutto quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è per l’uomo realizzabile. Di questo sono convinto” 1 www.comunisti-italiani.org – [email protected] Anno II – numero 46 del 25 febbraio 2010 ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- S O M M A R I O: La Voce dei Protagonisti “Intervista a Sergio Marinoni – Presidente Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba” a cura di Andrea Genovali La Copertina “Thomas Sankara: la coerenza e la dignità di un Rivoluzionario. Un esempio anche per tutti noi” di Andrea Genovali “Sankara: vivo nella gente” di Gino Barsella “Un ricordo di Sankara” di Campagna internazionale giustizia per Sankara Grandangolo “Caso Zapata. Basta con le menzogne su Cuba” di Andrea Genovali “Afghanistan. Ultimo atto “ di Marco Zoboli “Erdogan-Ergenekon: un serpente che si morde la coda” di Yuri Carlucci “Via le atomiche USA dalle basi in Europa. A dirlo questa volta è il governo belga. Si accentua la crisi della NATO?” da Redazione Contropiano “La crisi olandese scuote l’Alleanza Nato, attenzione al due di briscola!” di Stefano Silvestri Haiti. E se sotto il mare ci fosse petrolio?” di Alessandro Grandi “La presecelta” di Stella Spinelli “L’Italia ha perso il suo “storico” ruolo in Medio Oriente” di Giuseppe Cassini 2 L’Africa Vicina (a cura di Gino Barsella) “L’Africa parta dall’Africa” di Gino Barsella Mondo in Crisi (a cura di Marco Zoboli) “Lettonia. Crisi nella repubblica delle Banane di ghiaccio” di Marco Zoboli “Stati Uniti. Ispanici sotto sfratto giudiziario” da IPI “Da Marx a Minsky” di Alejandro Nadal La Vignetta della settimana “Don Chisciotte” di Mel Le donne nel Mondo “Storie di badanti”di Ada Donno Dal Mondo in Lotta “Non in nostro nome” Appello per il popolo per Gaza e il popolo palestinese “Pertini si commosse di fronte all’orrore da Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila di Sabra e Chatila” “Cuba quarta al mondo per donne parlamentari” da AIN “E’ credibile Human Rights quando parla di Cuba?” di Tim Anderson “Complicità europea con il terrorismo del Mossad” di Abd al-Bari Atwan “Rifiutarsi di uccidere in Afghanistan” Leggere per Non Dimenticare “Faustino Perez: paradigma di un rivoluzionario” di Armando Hart Davalos Per leggere i numeri arretrai di Oltre Confine vai su: www.comunisti-italiani.it e clicca sul banner in homepage di Oltre Confine Le responsabilità delle opinioni e delle idee espresse sono solo ed esclusivamente riconducibili all’autore dell’articolo 3 particolarmente difficili, dal crollo del campo socialista alla malattia di Fidel Castro, e le ha superate tutte grazie all’unità del suo popolo. José Martí, il grande patriota cubano del secolo XIX, affermava che “un popolo diviso è un popolo sconfitto”, e senza dubbio la forza della Rivoluzione ha le sue radici in questo prezioso insegnamento. La Voce dei Protagonisti Intervista a Oltre Confine di Sergio Marinoni (a sinistra nella foto), Presidente Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba Oggi il mondo è pervaso da una grande quantità di contraddizioni, il sistema di libero mercato e la logica del profitto fanno aumentare sempre di più il divario tra ricchi e poveri, il saccheggio delle risorse naturali sta trascinando il mondo in un caos ecologico e sociale, si moltiplicano i conflitti militari e le azioni di terrorismo, i valori morali sono calpestati da razzismo, egoismo ed esclusione. D) Che giudizio dà oggi l'Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba sulla validità della Rivoluzione cubana? Credo che per esprimere un’opinione – e questo non solo riguardo a Cuba occorra innanzitutto avere ben chiaro il contesto in cui una situazione si evolve. Nel caso di Cuba, bisogna fondamentalmente tenere presente due aspetti: è un paese del Terzo Mondo ed è un paese la cui storia ha sempre dovuto fare i conti con l’arroganza e con l’ingerenza degli Stati Uniti. Ed è bene ricordare che gli Stati Uniti non sono una nazione qualsiasi, sono la più grande potenza economica e militare mai esistita sulla faccia della Terra. In questo contesto Cuba, che non vive all’interno di una teca di cristallo, non solo ha saputo preservare i traguardi raggiunti dalla Rivoluzione per il proprio popolo – lavoro, salute, educazione, protezione sociale e ambientale – ma nonostante le limitazioni causate dal blocco ha intrapreso una politica di solidarietà verso popoli meno fortunati e ha inviato gratuitamente diverse decine di migliaia di medici e di insegnanti per combattere malattie e analfabetismo che attanagliano molti paesi del Terzo Mondo. La Rivoluzione cubana non solo ha resistito per oltre cinquanta anni a qualsiasi tentativo di annientamento ma, allo stesso tempo e senza sfruttare nessuno, ha saputo costruire un tipo di società che non ha paragoni tra le altre nazioni del Terzo Mondo per i risultati ottenuti, riconosciuti anche da varie organizzazioni internazionali come la FAO, la OMS, l’UNESCO e l’UNICEF, solo per citare le più importanti. Pertanto il nostro parere sulla validità della Rivoluzione cubana non può essere che positivo ed è reso concreto dal costante impegno di tutta la nostra Associazione nel portare avanti la solidarietà con Cuba. Aiutare Cuba significa per noi aiutare anche altri popoli del mondo. Nel corso degli ultimi vent’anni Cuba ha dovuto affrontare diverse situazioni 4 l’azienda messicana che lo produceva l’unica da cui Cuba poteva acquistarlo è diventata a capitale nordamericano e, per le leggi del blocco, non può più commerciare con Cuba. E’ possibile darci una mano nella lotta contro il blocco sia sostenendo l’Associazione nelle sue attività sia favorendo la possibilità di nostri contatti – in particolare quelli con le istituzioni – per vedere se è possibile il finanziamento, anche parziale, di progetti che siano utili a Cuba. D) Le campagne per la fine del blocco e per la liberazione dei Cinque eroi cubani sono sempre di grandissima attualità per la solidarietà. Cosa possiamo fare per sostenere Cuba in queste due difficilissime lotte? Queste due lotte sono completamente diverse tra di loro, ma hanno uno stesso denominatore comune: la politica degli Stati Uniti nei confronti di Cuba. Il blocco economico, commerciale e finanziario è ufficialmente iniziato nel 1962, ma già nei primi mesi del 1959, il Governo statunitense aveva allo studio azioni per impedire lo sviluppo della Rivoluzione cubana. Dal 1992, per 18 anni consecutivi il blocco è stato condannato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’ultima volta nell’ottobre 2009 con 187 voti a favore della mozione cubana, 3 contrari (Stati Uniti, Israele e Palau) e 2 astensioni. Per quanto riguarda i Cinque cubani che da undici anni sono imprigionati negli Stati Uniti per aver combattuto il terrorismo, dopo un processo definito illegale dal Gruppo di Lavoro dell’ONU sulle Detenzioni Arbitrarie, occorre rompere il muro di silenzio che gli Stati Uniti hanno innalzato attorno a questo caso. Questa barriera serve per non fare emergere le connivenze, le protezioni, i finanziamenti e altri sostegni di vario genere che praticamente tutti i Governi statunitensi hanno offerto a organizzazioni terroristiche che operano contro Cuba. Per sostenere Cuba contro questa macroscopica illegalità, la nostra Associazione ha condotto una solidarietà politica e materiale, coinvolgendo istituzioni a vari livelli (regionali, provinciali e comunali) nello sviluppo di progetti nei campi più diversi, promuovendo gemellaggi tra i nostri Circoli di una regione italiana e una provincia cubana, finanziando direttamente progetti concordati con le autorità cubane. L’ultimo di questi è la campagna che abbiamo lanciato quest’anno per l’acquisto di un farmaco antitumorale ad uso pediatrico (Actinomicina-D, di cui troverete la locandina che pubblicizza la campagna nella sezione Dal Mondo in Lotta di questo numero di Oltre Confine, Ndr) che Cuba non può più ottenere perché 5 Per gli Stati Uniti diventerebbe veramente imbarazzante che l’opinione pubblica mondiale sapesse che essi, che si erigono a portabandiera della lotta al terrorismo, in realtà praticano gli stessi metodi. D) Nel 2010 ci sarà il X Congresso dell'Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba, con quali risultati ottenuti dal precedente Congresso e quali prospettive? La nostra Associazione è un’organizzazione democratica, che tessera i propri 4.500 soci, che attualmente svolge la sua attività di solidarietà attraverso 82 Circoli presenti in 16 regioni italiane. Ogni tre anni i Circoli eleggono i propri delegati a un Congresso dove si dibattono le varie proposte presentate, vengono azzerate tutte le cariche e si elegge un nuovo Direttivo Nazionale, che a sua volta elegge la Segreteria Nazionale e il presidente. E così sarà anche quest’anno. E’ una lotta nel campo della comunicazione, che va combattuta contro il tombale silenzio dei colossi mondiali dell’informazione, che hanno a disposizione catene televisive e carta stampata per riversare fiumi di parole e di inchiostro con cui diffondono le più incredibili menzogne contro Cuba, ma poi tacciono di fronte a un caso come quello dei Cinque, anche se dieci Premi Nobel e migliaia di intellettuali di tutto il mondo hanno manifestato la loro solidarietà nei confronti dei cinque cubani. In questi ultimi tre anni è stato completato il lavoro per il riconoscimento ufficiale di tutti i nostri Circoli presso il Ministero del Lavoro e della Promozione Sociale. Questo fatto ci ha permesso di poter concorrere all’assegnazione del Cinque per Mille (il nostro codice fiscale è 96233920584), le cui entrate ci hanno consentito di aumentare la solidarietà verso Cuba. Abbiamo avuto l’onere e l’onore di organizzare a Terni nell’ottobre 2008 l’Incontro Europeo di Solidarietà con Cuba, al quale hanno partecipato organizzazioni provenienti da 28 paesi europei, che ci hanno rivolto il loro apprezzamento per il livello dell’evento. E’ importante il contributo di ciascuno di noi, per piccolo che sia, per promuovere in ogni ambito la conoscenza di questo caso. Come affermava Gramsci “la verità è rivoluzionaria”, e noi abbiamo tutto l’interesse che la verità possa un giorno trionfare e arrivare alla liberazione dei Cinque. Nell’ottobre 2009 abbiamo organizzato a Milano una riuscitissima manifestazione per la liberazione dei Cinque, alla quale hanno partecipato circa 4.000 persone provenienti da tutta Italia. 6 Ma con lo stesso spirito della Rivoluzione cubana, affronteremo tutte le difficoltà che si presenteranno e grazie all’unità della nostra Associazione sapremo superarle. La rivista bimestrale che pubblichiamo El Moncada - è sempre più apprezzata dai suoi lettori e da un anno è inviata anche in oltre 700 biblioteche italiane. A una già dettagliata informazione sull’Associazione e su Cuba che forniamo attraverso il nostro sito Internet, abbiamo affiancato la pubblicazione di un bollettino digitale – Amicuba – che viene inviato a una lista di oltre 6.000 indirizzi di posta elettronica. Inoltre abbiamo ripreso la pubblicazione nel sito di articoli che si riferiscono anche ad altri paesi dell’America Latina, in particolare riguardanti l’Honduras e, ultimamente, Haiti. L’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba rappresenta l’Italia in mediCuba-Europa, un’organizzazione a livello europeo formata da organizzazioni di solidarietà con Cuba di 11 paesi europei, che sviluppa importanti progetti di solidarietà con Cuba nel campo della salute. Con questa organizzazione la nostra Associazione ha contribuito a realizzare diversi importanti progetti. Grazie al lavoro dei nostri Circoli e dei Coordinamenti regionali sono state organizzate centinaia di conferenze, mostre, attività culturali di vario tipo, viaggi di conoscenza e brigate di lavoro. Tutta questa mole di lavoro viene svolta a tutti i livelli in modo assolutamente volontario. Le prospettive per il futuro sono quelle di rendere questo lavoro più organico e ancora più efficace, sia nel campo della comunicazione sia in quello dei progetti di solidarietà, nonostante la disastrosa situazione della sinistra in Italia, che continua a persistere e che di certo non favorisce la nostra attività. 7 popolo. Sofferenze e dolore che erano le dirette conseguenze di un sistema di sfruttamento capitalistico che dissanguava e depredava il suo popolo. Questo rivoluzionario africano, che non era un marxista classico ma molto di più di molti sedicenti tali che circolano nella sinistra in Europa, affermava che “l’imperialismo è un sistema di sfruttamento che non si presenta solo nella forma brutale di coloro che vengono con dei cannoni a occupare un territorio, ma più spesso si manifesta in forme più sottili, un prestito, un aiuto alimentare, un ricatto”. E in questa analisi è condensato ancora tutto il problema dei popoli del Sud del mondo, e non solo. La Copertina Andrea Genovali* “Thomas Sankara: la coerenza e la dignità di un Rivoluzionario. Una lezione anche per tutti noi” Thomas Sankara, un nome sconosciuto, per molti anche a sinistra, è stato il protagonista dell’ultima Vera rivoluzione che si è avuta. Per questo gli abbiamo voluto dare la copertina del nostro nuovo numero di Oltre Confine. Thomas Sankara comprese che l’imperialismo si batte unendo la implementazione di politiche altre rispetto a quelle del capitalismo e lo si sconfigge definitivamente sul piano culturale. Il messaggio che questo uomo trasmise al suo popolo e a tutti i popoli della terra era, ed è, quello di una decolonizzazione della nostra mentalità. Sankara negli anni Ottanta, era il 1983, effettuò una rivoluzione nell’allora Alto Volta, che restituì dignità, coraggio e speranza al “Popolo degli Uomini Integri”, appunto il Burkina Faso. Sankara restituì dignità al popolo burkinabè e ai popoli d’Africa riscattandoli dal tradimento delle elites politiche, che avevano studiato in Europa e negli USA, e delle borghesie africane che si erano asservite alle multinazionali e all’imperialismo di matrice statunitense ed europea. Un messaggio rivoluzionario dirompente. Un pensiero che ancor oggi è attuale, anche per l’Italia se solo pensiamo al sistema autoritario del berlusconismo sostenuto e foraggiato dal sistema dei media che hanno omologato il pensiero e il senso comune di quasi 60 milioni di persone. Egli fece una battaglia reale per l’egemonia culturale e non chiacchiere intellettualoidi. Sankara si battè contro il cappio mortale del debito estero affermandone il carattere criminale e oppressivo per i popoli che lo subivano e condannò, senza il minimo tentennamento, le organizzazioni criminali, come lui le descriveva, del FMI e della Banca Mondiale. Sankara assunse come suo fondamentale compito quello di lottare per alleviare e sconfiggere il dolore e le sofferenze che affliggevano il suo Dunque lotta politica contro il sistema di sfruttamento capitalista e decolonizzazione della mentalità. Ma egli, proseguiva nella sua analisi, contestava anche le politiche di cooperazione che dal Nord arrivavano al Sud del mondo. Infatti, denunciò che la politica degli aiuti serviva, e serve ancora basti guardare ad Haiti, solo per 8 asservire i popoli, a distruggere le loro economie. Contro tutto ciò, egli affermò, che la risposta non può che essere politica di fronte allo scandalo, che prosegue anche oggi, di funzionari delle agenzie internazionali che all’epoca citando la FAO, asserì che con i loro stipendi mensili si sarebbero potute far aprire mensilmente OTTO scuole!! residenze per ospitare diplomatici stranieri. Egli visse senza privilegi, li rifiutava perché che credibilità poteva avere un politico del Burkina se avesse avuto privilegi che i suoi abitanti non potevano avere? Egli girava da solo, senza scorta, con la sua R4 scassata, portava i diplomatici a vedere il suo paese, a far conoscere la sua gente perché con essa dovevano parlare e non con funzionari ben vestiti e in uffici con l’aria condizionata. Sembrano gesta di tempi lontani ed eroici mentre invece parliamo del 1987 e di uomini normali, ma con grande dignità e coerenza fra ciò che dicono e ciò che fanno realmente. Merce rara anche ai nostri giorni! Ma Sankara andava eliminato perché stava dimostrando che anche in Africa, dopo Cuba e vari paesi asiatici, si poteva costruire un futuro completamente diverso da quello prospettato dal capitalismo. Egli si pose la questione dell’autosufficienza alimentare e della decolonizzazione della mente come pilastri centrali del nuovo paese degli “uomini integri”. Attraverso questi due capisaldi era riuscito in pochissimi anni, non più di 4, a sganciare il Burkina dal cappio del debito, e riuscì a compiere il “miracolo”, che miracolo non era ma solo politiche adeguate ai bisogni del suo popolo, di poter dare ad ogni abitante del Burkina due pasti e dieci litri di acqua al giorno. Quella rivoluzione degli “Uomini Integri” fu stroncata nel momento giusto dal traditore Blaise Compaoré, allora braccio destro di Sankara, che lo fece assassinare e d’allora prese il suo posto per conto degli Stati Uniti. Il Burkina fu “normalizzato” dopo l’assassinio di Sankara, il cui corpo non è mai stato ritrovato come volerne annullare anche la memoria. Oggi in pochi sanno, anche a sinistra e nel mondo della cooperazione, che Compaoré fu il mandante e che il Burkina è di nuovo un paese poverissimo perché l’imperialismo lo ha di nuovo fatto rotolare nella polvere grazie a questo lacchè! Costruì una infrastruttura sociosanitaria dal niente in cui versava l’Alto Volta, aumentò la scolarizzazione, lottò con evidenti successi contro la desertificazione e portò le donne ad assumere incarichi di grande responsabilità nel nuovo paese che si stava creando. Con grande coraggio e nettezza disse in faccia ai signori del FMI che non avevano niente da insegnare ai burkinabè perché loro in pochi anni avevano creato un vero stato dalle macerie che Lor Signori avevano fatto del suo paese. Ma la forza di Sankara, la sua credibilità come uomo e come rivoluzionario, fu quella di applicare il rigore anche a sé stesso. Niente lussi, niente scorte, niente auto blu, niente aerei, niente 9 Sankara ha dimostrato che anche in Africa vi è la possibilità di poter vivere in modo degno e umano. Il capitalismo ha dimostrato la sua barbarie e ci fa ogni giorno capire che esso non si può riformare perché i suoi cromosomi sono di morte, sopraffazione, violenza e dominio del più forte sul più debole. Gino Barsella “Sankara: vivo nella gente” 13 dicembre 1998 a Sapouy, 100 chilometri dalla capitale del Burkina Faso: nella carcassa bruciata di un’automobile ci sono quattro corpi senza vita. La mattina dopo, nelle strade di Ouagadougou le voci si rincorrono: Norbert Zongo è morto… Impossibile… Un incidente? o forse un omicidio… Dopo dodici anni il mistero sembra ancora irrisolto. Sankara diceva che “per ottenere un cambiamento radicale, bisogna avere il coraggio di inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire. Tutto quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è per l’uomo realizzabile. Di questo ne sono convinto”. Il nostro compito è allora quello di fare in modo, o almeno di provarci veramente, a non far essere la morte di Thomas Sankara una nuova, ennesima, morte inutile. Chissà se ne saremo capaci molto più che finora. *Resp. Relazioni Internazionali PdCI Giornalista per vocazione, Norbert Zongo aveva 49 anni il giorno della strage. Ma non solo giornalista: fondatore e direttore del giornale l’Indépendant, scrittore, sceneggiatore, conferenziere, militante per i diritti umani, leader di associazioni, fotografo… Estremamente popolare, ha lasciato un segno per il suo spirito d’indipendenza e la sua fede in tutte le libertà. Per approfondire la conoscenza di questo grande rivoluzionario africano vi suggeriamo la lettura di: “L’Africa di Thomas Sankara Le idee non si possono uccidere” di Carlo Batà Edizioni Achab Verona «Era diventato in qualche maniera, e solo lui, un potere, la speranza per tutti – dice Abdoullahi Djallo, direttore del Centro Zongo –. Si diceva, tutti i martedì, leggendo l’Indépendant, che almeno c’era qualcuno che cercava di riflettere su come il paese doveva progredire. Zongo era divenuto un’icona, per le virtù che incarnava, per 10 adorazione, il suo bisogno di protezione. I pesci siluro, pesci sacri che vivono in laghetti santuario, con la loro accettazione del cibo mediano la benevolenza divina sull’offerta presentata. Mentre nel lago di Sabou sono i coccodrilli sacri, ai quali si sacrificano i polli votivi, a fare da intermediari con la divinità. Il mistero della natura avvicina inevitabilmente al mistero di Dio. Così la falesia di Sindou, formazioni rocciose magiche e spettacolari, oggi patrimonio dell’Unesco, sono anche il luogo sacro dove i giovani, per due settimane, affrontano le asperità dell’iniziazione alla vita. la qualità del suo lavoro giornalistico professionale e inattaccabile». Zongo puntava il dito contro i mali delle società africane: corruzione, affarismo, intolleranza, esclusione e culto della personalità. Si era trovato a indagare su una morte per tortura: quella dell’autista del fratello del presidente della Repubblica Blaise Compaoré. E non mollava la presa, al punto che il dossier aveva cominciato a fare troppo rumore. «E dato che non lo si poteva né intimidire né corrompere – continua Djallo –, la sola soluzione che restava era l’eliminazione fisica. Come dice in ogni caso il rapporto della commissione d’inchiesta, Norbert Zongo è stato assassinato a causa delle sue inchieste, in particolare quella che disturbava il sistema politico al potere». È la profondità del mistero che da forza ed energia a chi, nonostante incancrenite povertà e difficoltà, sa essere vivo e ripartire verso la vita. Lo mostra la leggenda del saggio che, quando muore, avrebbe ancora molte cose da raccontare. La sua energia si sprigiona e fa crescere il gwinni, l’albero dal quale si costruisce il balafon. Ogni striscia di legno è la lingua di un saggio; e ogni volta che suona il balafon, sono i saggi che parlano e attraverso la musica diffondono la loro saggezza. La morte di Norbert Zongo provocò un’ondata di protesta. Una marea di gente ha accompagnato gli undici chilometri del suo corteo funebre, esprimendo lo sdegno contro le insegne del partito al potere e reclamando giustizia. Il caso è comunque tutt’altro che risolto: infatti, colpevoli e mandanti sono ancora sconosciuti, e il processo si è insabbiato. Il balafon è il simbolo di un popolo che vive della musica tradizionale ma non frena la sua vivacità culturale. Un popolo che sa essere capace di inventiva e creatività, per esempio organizzando rassegne internazionali di cinema e artigianato; ma che al tempo stesso sa tenere ben salde le radici nella propria terra, non disdegnando l’agricoltura come base per la sussistenza e lo sviluppo. Ma questo omicidio ha lasciato il segno, e da allora qualcosa ha cominciato a muoversi. Piccolo, soprattutto perché povero e poco conosciuto, il Burkina Faso è innanzitutto un paese di misteri, un paese intenso e creativo dal punto di vista culturale e religioso. Il fascino delle sue bellezze naturali fanno sempre da sfondo alle ataviche tradizioni rituali nelle quali l’umano cerca il contatto con il divino e gli presenta i suoi problemi, la sua 11 Il mistero, l’integrità, la capacità di ripartire… Il Burkina Faso sembra averle dentro da sempre. Anche la storia ne è testimone. Sankara rendeva concreti i suoi sogni: «Per un cambiamento radicale – diceva – dobbiamo osare inventare l’avvenire. Ma per essere credibili non possiamo essere la classe dirigente ricca di un paese povero». 15 ottobre 1987, giovedì. È il giorno dello sport di massa. Sankara corre con la scorta. In un agguato sono uccisi tutti e tredici. La mano che colpisce il giovane capitano si affretta anche ad assumerne il potere. 4 agosto 1983: la rivoluzione guidata dal capitano Thomas Sankara trasforma l’Alto Volta, vecchio nome coloniale, nel Burkina Faso, “la terra degli uomini integri”. L’anno seguente, di fronte all’Assemblea generale dell’Onu, Sankara dirà: «Vi porto i saluti di un paese dove sette milioni di bambini, donne e uomini si sono rifiutati di morire di fame, di sete e di ignoranza». Aveva descritto il proprio paese come «il concentrato di tutte le disgrazie dei popoli, una sintesi dolorosa di tutte le sofferenze dell’umanità». Dopo quattro anni la rivoluzione di Sankara si interrompe bruscamente, ma era riuscita a dare due pasti e dieci litri di acqua al giorno ad ogni burkinabè, aveva fatto costruire dighe, scuole, postazioni di pronto soccorso, e aveva fatto vaccinare tutti i bambini. È il percorso che porterà anche all’eliminazione di Norbert Zongo, ad opera della stessa classe politica oggi al potere. Un percorso che passa attraverso tredici tombe nel cimitero di Dagnoen, un vasto spazio aperto, quasi una discarica, nella periferia di Ouagadougou. «Thomas Sankara – afferma Felix Koffi Amétépé, giornalista del Journal de Jeudi – è il simbolo, qui in Burkina, della volontà dell’africano che vuol prendere in mano il proprio destino. E non solo in Burkina, ma ovunque in Africa dove si è sentito parlare di quest’uomo. Adesso, dato che quelli che hanno messo fine alla sua azione in Burkina Faso sono gli stessi ancora al potere, è un po’ difficile fare il suo elogio. Perché parlare oggi di Thomas Sankara è come fare ombra al presidente Blaise Compaoré». Ecco di nuovo il mistero da cui sgorga nuova vitalità… Così ogni anno, il 15 ottobre, uomini e donne, anziani e bambini, giovani e studenti vanno in pellegrinaggio dal capitano Sankara. Oggi Blaise Compaoré, l’amico fidato e numero due di Thomas Sankara, l’orchestratore occulto della strategia delle stragi, è ancora al potere. La sua parola d’ordine era “rettificazione”. Le sue scelte di riallineamento alle politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale e di accettazione delle condizioni imposte Sankara è stato il precursore di un nuovo modello di sviluppo fondato sulle risorse africane. Sognatore e visionario, 12 i partiti politici tangenti». – dai programmi di aggiustamento strutturale alle privatizzazioni selvagge – vengono pagate dalla gente. Tornano in forza corruzione, nepotismo, concussione, affarismo di stato… E nel novembre 2005 Blaise Campaoré, presidente della repubblica uscente della “Terra degli uomini integri” ha vinto nuove, ulteriori elezioni. «D'altronde – puntualizza Felix Koffi Amétépé –, tra i tredici candidati che si erano presentati, Blaise Compaoré era l’unico che veramente aveva i mezzi per fare una vera campagna e vincere le elezioni». che ricevono le È un mistero di tenebra… Ma tra le righe della storia una luce emerge sempre più brillante. La strada, in salita, porta verso la libertà e la democrazia. Ed è pavimentata con le esperienze concrete di molti. Thomas Sankara e Norbert Zongo vivono oggi in un ritrovato coraggio, da parte dei giornalisti in particolare, ma anche di tutta la società civile. «Bisogna dire che in Burkina – riprende Felix Koffi Amétépé – i giornalisti godono di una relativa libertà di stampa e d’espressione. Giusto nel 1998 siamo arrivati al colmo, cioè per la prima volta un giornalista è stato ucciso nell’esercizio della propria professione. A partire da quell’assassinio orribile molti giornalisti hanno preso coscienza del loro potere e, dunque, quel momento ha permesso veramente ai giornalisti di riorganizzarsi attorno alla Casa della stampa, ribattezzata Centro Norbert Zongo dopo l’assassinio del giornalista». «Gli altri candidati – interviene Cheriff Sy, presidente degli editori della stampa privata – non avevano i mezzi per fargli concorrenza. Bisogna uscire dagli schemi occidentali per apprezzare le problematiche delle elezioni in Africa. Qui c’è una popolazione di cui il 90% sono analfabeti; c’è una miseria, un livello di vita così miserabile che per meno di un euro si può acquistare un voto. Dunque, il candidato del potere ha i mezzi dello stato… dunque è colui che ha il potere di vincere». Usciamo pure dal modo di pensare occidentale; ma è la corruzione, su cui Sankara e Zongo puntavano con chiarezza il dito, il vero cancro universale, ieri come oggi e, se non lo combattiamo, anche domani. «La corruzione – dice Ali MontRose, disegnatore satirico ciadiano da dieci anni in Burkina Faso – è un vero problema, anche nella vita di tutti i giorni. Come giornalisti, a volte vengono dati dei soldi non richiesti… quando ci sono dei reportage da fare ci chiamano e ci danno delle buste. Non ha un altro nome e si chiama corruzione. E in questo momento tocca anche la politica; e in questo caso sono Ma non sono solo i giornalisti ad avere un ruolo come vere e proprie sentinelle della democrazie. «Renlac – dice Damiba Luc, coordinatore della Rete nazionale contro la corruzione – è una rete di più organizzazioni della società civile che cerca di portare il proprio contributo nella lotta contro la corruzione in Burkina Faso. Noi denunciamo, sensibilizziamo e proponiamo le soluzioni per lottare contro la piccola e grande corruzione, ma anche per fare delle riforme strutturali per rinnovare l’amministrazione pubblica, le ong e il settore privato. Ogni anno produciamo un rapporto per conoscere lo stato della corruzione nel paese e trasmettere 13 d’alternanza. Ma finché il dossier Zongo – così come quello Sankara – non si risolve, continuerà a tornare ogni volta». raccomandazioni». La libertà di espressione e stampa non è scontato in un paese dove il 90% delle persone sono analfabete e solo il 3% può acquistare regolarmente un giornale. «Questo significa – sottolinea Cheriff Sy – che la libertà di espressione è relativa, e bisogna lavorare per allargarla. Per questo inviamo i giornali in ogni villaggio in Burkina, nonostante i costi di questa operazione a fronte dei pochi giornali venduti. Basta che ci sia una scuola nel villaggio, il che significa che ci sono almeno sei insegnanti e un infermiere, cioè almeno sette persone che sanno leggere e che passeranno agli altri le informazioni». «Blaise Compaoré – conclude Cheriff Sy – è stato rieletto e continuerà a tenere le mani saldamente sul potere. Ma questo, in qualche maniera, fa anche avanzare la democrazia. Perché non si può abusare della sovranità della popolazione. Si può guadagnare oggi, si può rubare voti oggi, si può dominare oggi, ma io mi dico che ogni volta che spingete un uomo verso un muro, a un certo momento, arrivato spalle al muro, questo uomo non potrà più arretrare e dovrà per forza avanzare. A un certo momento la popolazione reagirà. Ci vorranno anni, ma a un certo momento la gente avrà le spalle al muro e dovrà avanzare per forza, e questo è il momento che il popolo affermerà la sua sovranità; e sarà bello vedere questo giorno». Così il paese degli uomini integri è più che mai in fermento e il dossier Zongo rimane aperto. «È sempre là – ricorda Djallo –, e conserva la sua carica esplosiva. I politici non hanno saputo recuperarlo e utilizzarlo contro il potere. Non abbiamo una buona classe politica capace di proporre un progetto 14 morte (…). Il comitato considera che il rifiuto di portare avanti un’inchiesta sulla morte di Sankara, il non riconoscimento ufficiale del luogo di sepoltura e la mancata rettifica dell’atto di morte costituiscono un trattamento disumano verso Mme Sankara e i suoi figli…» e al paragrafo 12.6. «…il Comitato considera che, contrariamente agli argomenti del partito di Stato, nessuna prescrizione porterebbe alla nullità del procedimento dinanzi al giudice militare, e pertanto la responsabilità della mancata denuncia del caso al Ministero della Difesa spetta al Procuratore, il solo abilitato a farlo...» www.resistenze.org 22° Commemorazione della morte di Thomas Sankara e l’iniziativa della Campagna internazionale di giustizia per Sankara L’assassinio di Sankara e di una dozzina di suoi compagni e la serie di crimini politici che si sono succeduti, hanno chiuso in modo sanguinoso una delle ultime esperienze rivoluzionarie in Africa. In questo periodo di crisi economica, finanziaria, alimentare, ambientale caratterizzata da instabilità politica e svendita delle risorse del continente africano, lo sviluppo autonomo e il panafricanismo di Sankara non sono più di attualità. Il popolo del Burkina, la popolazione africana e la comunità internazionale aspettano ancora di conoscere le circostanze di questo assassinio ed il suo o i suoi responsabili. L’impunità eretta a sistema in Burkina è stata intaccata da dodici anni di sforzi della CIGS (Campagna Internazionale di Giustizia per Sankara) e di combattività del popolo burkinabé. Si ricorda che dopo aver esaurito tutti i ricorsi giudiziari in Burkina Faso, il suo Collettivo giudiziario aveva portato il caso davanti al Comitato dei Diritti dell’Uomo dell’ONU. Quest’ultimo aveva creato un precedente in Africa e in seno all’ONU riconoscendo le violazioni del partito di Stato: «il rifiuto di condurre un’inchiesta sulla morte di Thomas Sankara, il non riconoscimento ufficiale del luogo di sepoltura e la mancata rettifica dell’atto di morte costituiscono un trattamento inumano verso Mme Sankara e i suoi figli, contrario all’articolo 7 del Patto (par. 12.2). La famiglia di Thomas Sankara ha il diritto di conoscere le circostanze della sua Tuttavia il Comitato dei Diritti dell’Uomo non chiedeva espressamente il diritto di inchiesta, ma pretendeva una compensazione economica e il riconoscimento del luogo di sepoltura. Il Burkina Faso dal canto suo non ha portato nessuna prova a riguardo. Inoltre la somma offerta come risarcimento alla famiglia ammontava appena a 43.445.000 Franchi CFA, ossia 66.231,475 euro, o 65.000$, una somma equivalente alla pensione del defunto Sankara ai suoi aventi diritto. Mentre alcuni esperti si sbagliavano nella conversione aggiungendo uno zero all’indennità (650.000 $ - 434.450.000 FCFA), altri consideravano che il partito di Stato aveva fatto molti sforzi nel depennare la parola « naturale » dai falsi certificati di morte che dichiaravano che il Presidente Sankara era deceduto appunto di morte naturale. Nonostante la rettifica della cifra da parte degli avvocati e l’evidenza che il pellegrinaggio dei sostenitori di Sankara alle presunte tombe non potesse servire da prova, il Comitato dei Diritti dell’Uomo nell’aprile 15 ha sparato personalmente a Sankara e che questo colpo di Stato è stato un complotto internazionale che ha beneficiato anche dell’appoggio della CIA. Un altro giornalista, Keith Harmon Snow, in un’intervista con il suo collega Norbert Zongo assassinato poi dal regime di Compaore, aveva anche lui confermato l’implicazione del Mossad e della CIA nell’assassinio: www.allthingspass.com/journalism.php ?jid=4 2008 si dichiarava soddisfatto «al termine di ininterrotti accertamenti… e senza l'intenzione di esaminare oltre tale questione». Ma la CIGS persiste nella sua lotta contro l'impunità tanto più che il Burkina Faso ha continuato ad accumulare altre violazioni, passibili di essere perseguite, e nuove rivelazioni di alcuni protagonisti su questo tragico caso avrebbero dovuto portare il Paese ad aprire un'inchiesta o almeno a fornire finalmente la versione ufficiale dei fatti. In realtà alcune confessioni inedite che rinforzano le affermazioni del Generale Tarnue, già considerate come prove dalla CIGS, il Senatore liberiano Johnson, davanti alla Commissione di Riconciliazione, ha imputato l'omicidio di Sankara al Presidente Compare, al suo regime ed alle connivenze con l’ex-Presidente Taylor. Quest’ultimo, contro-interrogato dal Tribunale Penale de L’Aia il 25 agosto 2009 (pagina 270632), ha negato sostenendo che in quel periodo era agli arresti in Ghana, ma si è smentito sulla colpevolezza di Campaore, prima di ritrattare (Ero ancora rinchiuso in prigione quando Blaise Compaoré ha ucciso tutti durante l'assassinio di Thomas Sankara, perché non posso dire che ha ucciso, ma non lo ha fatto da solo. Io ero in prigione in Ghana…) Tutti questi testimoni dicono di temere per la loro vita e rifiutano di fornire maggiori dettagli su questo caso. Quest’ultimo, più che mai, preme affinché i paesi coinvolti aprano i loro archivi e i testimoni diano la loro versione per permettere che la verità emerga e che i burkinabé possano “voltare la pagina dell’impunità”. Il Presidente Blaise Compaore, il presunto responsabile di questo assassinio, è stato recentemente nominato Mediatore della crisi in Guinea dopo la sanguinosa repressione dei manifestanti. Al microfono di RFI, Compaore dichiara senza battere ciglio: «non possiamo tollerare che in Guinea ci siano ancora discussioni su persone disperse di cui non si trovano i corpi» Però il corpo di Thomas Sankara non è mai stato ritrovato, ed è per questo che è stata fatta una denuncia di sequestro da Dieudonné Nkounkou, avvocato al Tribunale di Montpellier che non ha ancora ricevuto risposta dalle autorità giudiziarie del Burkina Faso. In un documentario della RAI «Ombre Africane» un altro liberiano, il Generale Momo Jiba, che è stato la guardia del corpo di Blaise Compaore, conferma le opinioni di Tarnue e di Johnson, riportando chiarimenti inediti sull’assassinio di Thomas Sankara. Sostiene, davanti ad una telecamera nascosta, di aver assistito all’omicidio e soprattutto che il Presidente Campaore Il Collettivo della CIGS [1], oltre che la famiglia Sankara, riferendosi alla decisione dell’ONU, vogliono sapere se la tomba costruita dallo Stato burkinabé è veramente quella di Thomas Sankara. È la ragione per cui, il 15 ottobre 2009, 16 Chavez lo ha presentato citando a lungo Thomas Sankara e il suo discorso del 1984, per spronare i suoi ospiti africani e promuovere l’esperienza bolivariana: «potremmo cercare forme di organizzazione migliori, più adatte alla nostra civiltà, rifiutando in modo chiaro e definitivo ogni forma di imposizione esterna, per creare condizioni degne, all’altezza delle nostre aspirazioni. Porre fine alla condizione di sopravvivenza, liberarci dalle pressioni, liberare le nostre campagne dall’immobilismo medievale, democratizzare la nostra società, innalzare gli spiriti ad un universo di responsabilità collettiva, per osare inventare il proprio futuro». il Collettivo, rappresentato da Me Djammen Nzépa, avvocato al Tribunale di Tolosa, sta per aprire una procedura giudiziaria per sottoporre a perizia le tracce genetiche del corpo sepolto al fine di compararle con quelle prelevate ai due figli di Sankara. In una nota di ringraziamento al GRILA [Group for Research and Initiatives for the Liberation of Africa] e agli avvocati, Mariam Sankara, vedova di Thomas, ha dichiarato: «siete i pionieri della difesa della memoria del mio sposo. Se molti altri hanno ripreso ad interessarsi a lui è grazie a voi. Avete il merito e il coraggio d’avere portato avanti la mia richiesta di verità sull’omicidio di Thomas Sankara…». Questa frase di Seneca lo illustra: «Non è perché è difficile che non si osa. È perché non si osa che è difficile». Questa lotta, il popolo del Burkina Faso l’ha capita e può contare sull’appoggio della CIGS perché come sosteneva Sankara: là dove si sconfigge lo scoraggiamento, si eleva la vittoria dei perseveranti! In un messaggio rivolto al suo popolo in occasione della 22° commemorazione, Mariam Sankara, riprendendo il detto popolare: «qualunque sia la lunghezza della notte, il giorno apparirà», ha lanciato un appello all’unità, alla resistenza e alla determinazione ricordando come il messaggio e l’obiettivo di Sankara sono ancora attuali. Recentemente, in vista del Summit dell’Africa e dell’America Latina, il Presidente venezuelano Hugo Note [1] Collettivo della CIGS: (Maîtres Nargess Tavassolian, Aïssata Tall Sall, Jean Abessolo, Catherine Gauvreau, Charles Roach, Dieudonné Nkounkou, Gaston Gramajo, Ferdinand Djammen Nzépa, John Philpot, Vincent Valai, Neda Esmailzadeh, Patricia Harewood, William Sloan e l’Ufficio Sankara) 17 anche riconosciuto dalla madre Reyna Luisa Tamayo, che nel frattempo dal 2003 si è vincolata alla cosiddetta “dissidenza” e riceve denaro da fondazioni controrivoluzionarie che hanno la loro sede negli Stati Uniti e che hanno come scopo la caduta dell’attuale repubblica cubana anche attraverso attentati terroristici, tanto per essere chiari. Grandangolo Andrea Genovali* “Caso Zapata. Basta con le menzogne contro Cuba” Basta con le solite menzogne su Cuba. Ieri è arrivata la notizia della morte in carcere per sciopero della fame di un sedicente “dissidente” tal Orlando Zapata Tamayo e questa notizia è bastata per alzare un polverone contro Cuba a prescindere dalla realtà. Il 3 di febbraio del 2010 egli ha un attacco di febbre che scompare dopo un giorno. Gli viene accertata una polmonite che viene curata con antibiotici e con tutte le terapie più avanzate. Quando la malattia degenera e colpisce entrambi i polmoni viene assistito con la respirazione artificiale fino a quando il suo cuore non regge più. Noi adesso cerchiamo di ristabilire un po’ di verità. Chi è Orlando Zapata? Egli è un criminale comune, non uno dei “famosi” 75 dissidenti del 2003, che quando nel 2001, che dopo aver già fatto un bel po’ di carcere per reati come la detenzione di armi, atti osceni in luogo pubblico, lesioni a pubblico ufficiale, destabilizzazione dell’ordine pubblico ecc. ecc, è stato contattato dai contro rivoluzionari di Miami. Noi non pensiamo che chi odia Cuba e la sua rivoluzione crederà a questo ma speriamo che questi signori credano almeno alla madre di Zapata che ha affermato che suo figlio è stato assistito al meglio. E dato che lui era un criminale ma non uno stupido deve aver pensato che quello era un bel modo per fare un bel po’ di denaro. Inoltre, lui non aveva niente da perdere. Dopo di che a nessuno di questi signori, politici e giornalisti che odiano Cuba, frega niente che in Italia siano già morti da gennaio suicidi nelle patrie carceri almeno 10 persone. Perché questo imporrebbe una riflessione su noi stessi e sulla nostra democrazia che vogliamo invece nascondere e rimuovere. Ma la sua indole di provocatore e violento non lo lascia e nel 2003 rientra in carcere ed è di nuovo protagonista di violenze contro i funzionari delle carceri che aggredisce fisicamente. Gli Stati Uniti poi dovrebbero solo stare zitti e vergognarsi della loro crudeltà contro Cuba ad iniziare dal più longevo e ingiusto blocco economico del mondo. Il 18 dicembre del 2009 inizia uno sciopero della fame e rifiuta qualsiasi tipo di assistenza medica. Ma Cuba nonostante il suo diniego lo trasferisce prima nel centro di soccorso del carcere e poi in un ospedale di Camaguey e poi all’ospedale dei detenuti dell’Avana. Essi, inoltre, hanno ancora aperta l’aberrazione del lager di Guantanamo dove hanno torturato decine e decine di innocenti e che detengono illegalmente da 11 anni, in violazione dei loro diritti umani e dello stesso diritto statunitense e internazionale, 5 cubani che agivano per sventare attacchi terroristici contro Cuba organizzati dai contro rivoluzionari Egli viene sottoposto alle analisi del caso e gli viene prestata tutta l’assistenza medica del caso fino alla sua scomparsa. E questo fatto viene 18 di Miami. Gli stessi che pagavano Zapata e che pagano ancora la madre del deceduto. anche i motivi per cui esso può essere sorto. *Resp. Relazioni Internazionali PdCI Ma come si sa per gli Stati Uniti e i media ruffiani che li sorreggono esiste un terrorismo buono, che difende gli interessi Usa, che va difeso e sostenuto e uno cattivo, che va contro gli interessi Usa, che va perseguito e distrutto. Noi pensiamo, come i cubani, che il terrorismo è sempre un male che va combattuto e sradicato, affrontando 19 congiunte d’occupazione sono impossibilitate a ottenere il minimo risultato. Inoltre il portavoce dei talebani, Qari Youssuf Ahmadi, ha annunciato lo spostamento di 2000 combattenti nell’area a rinforzo dei propri capisaldi. Marco Zoboli* “Afghanistan: Ultimo atto” L’offensiva statunitense e degli alleati prende corpo nel distretto di Marjah, nella provincia dell’Helmand, l’azione congiunta delle forze di occupazione assieme alle forze della corrotta oligarchia di Karzai semina le prime stragi di civili nel presunto tentativo di strappare terreno alla resistenza. Nelle truppe regolari dell’Ena (Esercito Nazionale Afghano) impiegate nell’Helmand appena i 3 – 4% dei militari è di etnia pashtun, il 96% è rappresentato da truppe selezionate tra la minoranza tagika e altre etnie del nord legate a signori della guerra oggi alleati di Karzai e che siedono al suo fianco in quel teatro dell’assurdo che qualcuno chiama governo. L’operazione Moshtarak si preannuncia come un’operazione di pulizia etnica, punta a colpire la popolazione civile e a eliminare le fonti di sostentamento dell’area; nell’impossibilità di pescare i talebani con le proprie reti la politica genocida imperialista ancora una volta si rivolge sulla fauna e la flora del territorio. I corpi straziati dei bambini afgani colpiti dai bombardamenti non sono vittime o errori collaterali ma obiettivi militari, come testimoniano anche le diverse “regole d’ingaggio” adottate per l’occasione, dove i bombardamenti non rientrano in interventi straordinari regolati da richieste motivate sul campo di battaglia, ma come routine a discrezione dell’ufficiale richiedente. Sul terreno, oltre alle tredici vittime Isaf dichiarate, cade anche il governo olandese. Dopo una interminabile seduta di 16 ore il primo ministro Balkenende annuncia le dimissioni dall’esecutivo dei ministri laburisti per il mancato accordo sul ritiro del proprio contingente dal teatro di guerra. La forza politica del primo ministro, il CDA, faceva propria la richiesta Nato di mantenere sul terreno afgano una forza ridotta sino all’agosto 2011, viceversa il partito laburista chiedeva di onorare l’impegno del ritiro del proprio contingente entro fine anno… ciò che è accaduto all’Haya è un segnale dei tempi; la guerra in Afghanistan è persa e considerata tale in seno a molti alleati e membri dell’Alleanza Atlantica. L’operazione militare “Moshtarak” iniziata il 13 di febbraio e voluta dal generale in capo dell’Isaf McChrystal e che vede la partecipazione di 15.000 effettivi è votata alla sconfitta, per sua natura comporta un dispiegamento di uomini e energie ingenti da un lato quanto inadeguate dall’altro; se calcoliamo che in questi scontri asimmetrici il rapporto tra truppe regolari e insorti deve essere di 15 a 1 (come insegnano gli stessi manuali contro insorgenti redatti dalla CIA) e che i talebani stimati per difetto contano sulle 3.000 unità, le forze Il problema per gli Stati Uniti è che il tempo corre, galoppa, le truppe d’occupazione non hanno risorse illimitate, l’impegno bellico statunitense esce dai confini afgani, tocca oltre all’Iraq altre aree strategiche che richiedono un costante impegno di risorse e mezzi, potremmo citare il corno d’Africa e Puntland, cosìcome le 20 nuove basi militari in Colombia in chiave antibolivariana; nel contempo la crisi inesorabilmente avanza, i buoni del tesoro statunitensi non vengono più acquisiti da paesi terzi a copertura del debito e le finanze di guerra dissanguano la fragile economia con un dollaro che sempre meno egemone non conosce il proprio futuro più prossimo. azioni militari contro l’Iran divenuto partner fondamentale per i paesi asiatici e non solo nella guerra dei tubi… il generale Makarov in una lucida riflessione considera la minaccia bellica su Teheran esercitata in chiave antirussa e dalle conseguenze catastrofiche per tutta l’area ma anche per gli Stati Uniti stessi che ritiene impossibilitati a sostenere un terzo fronte senza vedere sotto i propri occhi implodere la propria debilitata macchina militare. Tutti i giornali hanno parlato del tentato golpe in Turchia risalente al 2003, ma poco si è detto su l’organizzazione interna all’esercito che l’ha promossa e sulla sua natura: Ergenekon è una Gladio turca, operativa e ramificata nei centri di potere e dell’esercito, la sua natura eversiva rientra nella simbiosi con gli apparati d’intelligence statunitensi tuttora attivi sebbene ridimensionati nel teatro europeo. Il golpe in Turchia era funzionale al ripristino di un’alleanza con un paese parafascista che per propri interessi sotto le vesti dell’attuale governo filo islamico AKP ha ricercato in questi ultimi anni una politica estera smarcata dagli interessi Usa e nella ricerca di un equilibrio che garantisse il proprio ruolo di potenza regionale cui ambisce. Anche questi retroscena sono relazionati agli eventi del gioco asiatico e alle pieghe che prenderà nei prossimi mesi… il movimento è totale certo è che in Afghanistan si stanno in un modo o nell’altro giocando i destini e gli equilibri del pianeta. L’Afghanistan rappresenta oggi la piccola grande guerra che determinerà i tempi e le modalità dello scemare dell’influenza geopolitica statunitense nel continente e non solo. Nei prossimi mesi si giocano i destini degli attuali precari equilibri geopolitici mondiali, la neosessantenne Nato potrebbe uscirne a pezzi, la stessa Europa con tutte le sue contraddizioni potrebbe aprire gli occhi e la mente e ricercare (finalmente?) una propria politica estera autonoma (ma non troppo) e infilare un piede in una staffa che si intravede tra Mosca e Pekino… intanto minacciosi tamburi sionisti scandiscono minacce di guerra su Teheran, Israele con la sua diplomazia sta cercando di convincere Cina e Russia ad accettare *Resp. Asia PdC 21 gole profonde pronte a rompere il gioco. Una classe di gerarchi politicomilitari messa nell’angolo da un’altra classe di gerarchi più giovane oggi influente con amici al governo? Tutto qui? Un uomo come il premier Erdogan che gioca d’anticipo muovendosi come un elefante nella cristalleria, preso da un atto isterico, temendo di essere fuori tempo massimo, ormai politicamente inviso in patria e fuori? Yuri Carlucci* “Erdogan-Ergenekon: un serpente che si morde la coda” Sappiamo e sapremo sempre poco di ciò che e’ realmente accaduto in Turchia negli ultimi trenta anni. Una rete di servizi ben qualificati ha quasi sicuramente utilizzato lo stato ufficiale per comporre un altro schema non democratico, forte, sfruttando le risorse che giungevano da altre democrazie purtroppo colluse e compiacenti. La ramificazione e’ stata quella ideale, la più utile al fine di tenere a guinzaglio tutto e tutti, già provata in sud-america o in Italia: dagli imprenditori, alle banche , dai ministeri all’esercito fino ai giornalisti e agli studenti. Destabilizzare senza dar nell’occhio. La montagna di arresti messo in piazza oggi dice per ora che alcuni magistrati turchi e la polizia politica prendono per buona l’ipotesi di un colpo di stato di lungo respiro, già preparato da tempo, da militari addestrati ed organizzati, sia metodologicamente che praticamente con attentati e omicidi mirati. La qualità degli arresti e’ forse la notizia vera. Sono alti generali o ex generali di esercito e marina. Costoro ordivano da una decina d’anni o forse anche di più al fine di rovesciare governi legittimi operando in campo aperto con attentati, simulazioni e coercizioni. Un piano “Balyoz” a “martello”, martellare dunque colpo su colpo, poco chiasso ma continuo. Erdogan potrebbe essere un doppiogiochista: parla, mentre e’ in visita all’estero, di un vecchio colpo di stato e dice che arresteranno 40 generali e alti ufficiali, poi avvisa che il pericolo non e’ finito, che ci si deve attendere qualcosa d’altro, che bisogna accelerare sulle riforme, che il cancro non e’ estirpato con gli arresti e che anche lui e’ in pericolo di vita, tanto da girare con una divisa a pelle antiproiettile. Le manifeste infiltrazioni che vengono alla luce oggi, che viene arrestato mezzo paese che conta, dopo che alcuni piani ben precisi erano stati pubblicati in gennaio senza destare in Europa tutto lo sgomento possibile, non possono raccontare esattamente ciò che e’ avvenuto in passato, ciò che lor signori, e i loro amici di mezzo mondo hanno creato. Sono verità parziali per ora, inesatti sono i giudizi che corrono nelle agenzie, ammesso che vi siano Edogan governa un partito filo-islamico in un Paese che e’ stato consegnato da 22 presidente, che significa il popolo turco si era ribellato ai “padroni dello stato” attraverso il voto. Ataturk ai militari affinché lo proteggessero dalle derive confessionali, e che é al 99% musulmano. Mentre parla dalla Spagna in visita a Zapatero presidente UE di turno, per perorare la causa europea della Turchia, aggiunge che la “riforma” più urgente e’ togliere all’esercito il compito costituzionale della difesa dello Stato laico, per cui si farà presto un bel referendum. Contro-golpe? Dopo questa sfilza di attacchi al Governo, alcuni controproducenti, si volevano chiudere i conti. I militari decisero di appoggiare la Corte Costituzionale contro il partito AK al governo. Erdogan si vide spacciato nel 2008 ma l’accusa si rivelò inconsistente e il verdetto fu positivo per l’AKP. Golpe, parola che si estende dal sudamerica fino all’Africa e alla Turchia. Normalmente sono azioni militari preparate per rovesciare, una tantum o quando serve, un governo in un tale paese, eletto legittimamente, che intende occupare tutte le posizioni di scelta compresa il controllo del potere militare. In Turchia la storia ci racconta del golpe del 1960 con l’impiccagione l’anno seguente sull’isola di Imrali del premier Adnan Menenderes fondatore del Partito Democratico messo sotto processo anche per i pogrom di Istanbul contro i greci ma inviso ai militari; poi il colpo di stato del 1980 che ebbe larga eco in tutto il mondo sfruttato dai militari turchi per cementare il loro primato formulando una nuova Costituzione tuttora in vigore. Nel 1997 i generali si servirono della classe imprenditoriale e dei giornali per opporsi al governo in carica per paura di che questi introducesse una forma di sharia alla turca. Poi nel 2007 cambiò la forma del golpe si tramutò in telematico: un avvertimento, un “avviso ai naviganti”, da parte dei militari scosse la rete: la minaccia fu chiarissima, “No a Gul presidente della Repubblica” per via di una moglie velata… Errore che i militari pagarono perché il governo in carica ricevette un mandato più forte e Gul divenne Ergenekon viene fuori proprio a partire dall’audizione del generale di Corte di Cassazione Abdurrahman Yalcinkaya nell’ambito del processo all’AKP. Se ne parlava già da alcuni mesi ma proprio nel luglio del 2008 i fermi di sospetti si tramutano in arresti eccellenti. Ergenekon e’ il racconto di uno stato nello stato, un sottobosco mafioso e d’apparato, massone, che trama, interviene e si rende inossidabile nel tempo (tanto e’ vero che nessun processo e’ passato in giudicato ad oggi). La polizia continua per tutto il 2009 ad arrestare grandi industriali e persone della intellighenzia turca. Sempre con lo stesso timbro: appartenenza ad Ergenekon. Oggi arriviamo gli arresti ai generali in pensione e non. Il capo di Stato maggiore Ilker Başbuğ non se la sente 23 amico dei servizi segreti di mezzo mondo, italiano compreso: e’ l'ex comandante della Prima Armata turca, tenente generale Engin Alan, che ha curato le operazioni che hanno portato alla cattura di Abdullah Ocalan, il leader del popolo kurdo che nel 1998 risedette in Italia in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato, poi costretto a partire con meta ignota sino al momento in cui nel febbraio 1999 fu tratto in arresto granché ti fare una tirata su ciò che pensa di questa storiaccia: sono agli arresti dei suoi colleghi e lui, intransigente militare (e politico) da mesi urla che chi sporca poi deve pulire bene, con la carriere. Oggi non sbraita e questo fa pensare che in qualche modo stia proteggendo l’azione di Erdogan (e se stesso). Una curiosità non da poco. A guardar bene tra i nomi dei gendarmi arrestati con varie accuse tra cui aver diffuso dossier protetti o segreti c’e’ un *Associazione Nazionale Azad 24 premier Jean Luc Dehaene, cristianodemocratico, e Guy Verhofstadt, liberale, insieme agli ex ministri degli Esteri Luis Michel, liberale, e Willy Claes, socialista e anche ex segretario generale della Nato. ''E' impossibile rifiutare agli altri Stati di acquisire armi nucleari se ne abbiamo noi'', argomentano i quattro esponenti politici belgi secondo i quali ''le armi nucleari tattiche americane in Europa hanno perduto tutta la loro importanza militare''. Il riferimento alla crisi con l'Iran sulla questione nucleare appare piuttosto evidente. Ad essere favorevole allo smantellamento da tempo è anche il cancelliere tedesco Angela Merkel che già nell’ottobre scorso, dopo la sua rielezione, pose come uno dei primi obbiettivi lo stoccaggio delle armi nucleari ancora presenti sul territorio tedesco. Proprio l’impegno della Germania potrebbe avere un peso importante, dato che ospita un gran numero di quelle armi. La richiesta prevede la rimozione delle armi nucleari dal territorio europeo “appartenenti ad altri Stati membri della NATO" cioè gli USA. a cura della redazione di www.contropiano.org “Via le atomiche USA dalle basi in Europa. A dirlo questa volta è il governo belga. Si accentua la crisi della NATO?” Si accentua la crisi della NATO? Prima l'impasse in Afghanistan, poi la crisi di governo in Olanda proprio sulla missione in Afghanistan. Adesso si sta aprendo un altro capitolo rilevante nelle relazioni tra Europa e USA nell'ambito dell'Alleanza Atlantica. Il governo belga di Yves Leterme, con una lettera aperta si è fatto portavoce di altri 4 paesi aderenti al Patto Atlantico: Olanda, Germania, Norvegia e Lussemburgo ed ha posto il problema dello smantellamento di circa 200 bombe atomiche della USA presenti nelle basi militari NATO sparse in Germania, Belgio, Italia, Turchia. L’obbiettivo principale del documento è quello di aprire un dibattito sulla denuclearizzazione in vista della conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare che si terrà a maggio a New York. L’iniziativa del Belgio è molto importante per fare un passo in direzione del disarmo nucleare. A doversi pronunciare su questo è anche il governo italiano che ospita alcuni ordigni nucleari nelle basi militari NATO di Ghedi ed Aviano. Sono preoccupate infatti le reazioni dei circoli atlantici italiani. "Queste armi sono troppo obsolete ed inadatte allo scopo, e potrebbero quindi essere ritirate, Ma non propongono di sostituirle con altri sistemi offensivi, bensì con maggiori sistemi difensivi antimissili ed antiaerei" commenta piuttosto preoccupato La richiesta resa pubblica dal governo del Belgio, ha preso le mosse da una lettera aperta pubblicata sui giornali belgi e nella quale due ex premier e due ex ministri degli esteri di schieramenti diversi sollecitano la necessita' di adattare la politica nucleare alle nuove circostanze, vista la fine della guerra fredda. Paesi come l'India, il Pakistan e la Corea del nord si sono gia' affacciati sullo scenario degli armamenti nucleari e altri come l'Iran potrebbero unirsi, affermano gli ex 25 Stefano Silvestri il presidente di un organismo filo-NATO l'Istituto Affari Internazionali. "In una situazione in cui le divergenze politiche tra europei ed americani si allargano, a cominciare proprio da quell’Afghanistan dove la Nato si sta giocando la propria credibilità e forse il proprio futuro, siamo sicuri di poter tranquillamente rinunciare anche solo ad un due di briscola?". Il "due di briscola" in questione sarebbero proprio le armi nucleari presenti nelle basi disseminate in Europa e il ritiro del contingente olandese. L'allarme di Silvestri è emblematico della crisi che si va accentuando dentro la NATO anche alla luce della crisi di governo in Olanda avvenuta proprio sul mantenimento del contingente militare nell'operazione militare della NATO in Afghanistan. da www.affarinternazionali.it Stefano Silvestri* “La crisi olandese scuote l’Alleanza Nato, attenzione al due di briscola!” Due notizie gettano una nuova luce sul dibattito in corso sul nuovo concetto strategico della Nato. La prima: il governo olandese del democristiano Peter Balkenende è caduto per l’uscita dalla coalizione dei laburisti, contrari ad estendere oltre il prossimo agosto la presenza del contingente olandese in Afghanistan (circa 2000 soldati). Ciò porterà a nuove elezioni politiche, probabilmente in autunno, e potrebbe di fatto rendere inevitabile il ritiro di quelle forze dal teatro afgano, malgrado le esortazioni contrarie del Segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen. La seconda, il premier belga Yves Leterme ha annunciato che il Belgio, assieme al Lussemburgo, all’Olanda e alla Germania, prenderà l’iniziativa di chiedere al Consiglio Atlantico il ritiro definitivo delle ultimi testate nucleari americane presenti sul territorio europeo. Se l’Aja vacilla Si tratta di questioni molto diverse tra loro, che però confermano un clima di grande incertezza sul futuro dell’Alleanza e sulle sue scelte strategiche. Per molto tempo, per la stragrande maggioranza delle opinioni pubbliche europee, la guerra in Afghanistan era stata considerata come giusta e necessaria, in contrapposizione con quella incompresa, dannosa e forse persino illegale, condotta contro l’Iraq. Ora però, dopo otto anni di impegno militare crescente, molte centinaia di caduti tra i soldati occidentali (e molte migliaia di morti afgani, combattenti e non), nonché molti miliardi di euro di spese affrontate dai paesi impegnati nel conflitto, anche quella convinzione vacilla, 26 paesi che vogliano dotarsi di armamento nucleare. Tuttavia, una rinuncia unilaterale ad una determinata classe di armamenti, come le armi nucleari montate su vettori aerei a medio raggio, non equivale ad un disarmo bilanciato: proprio l’altro giorno il ministro russo della difesa sosteneva la possibilità per Mosca di installare missili nucleari a breve o medio raggio a Kaliningrad, come eventuale risposta ad un rafforzamento unilaterale della difesa anti-missile dell’Alleanza. Se si pensa ad una trattativa di controllo e riduzione degli armamenti sarebbe più logico proporre una rinuncia bilanciata da ambedue le parti. Nello stesso tempo, non si capisce bene quale segnale si intenderebbe dare contro la proliferazione nucleare se si aggiunge come giustificazione che si vuole così rinunciare semplicemente ad armi obsolete, inutili e forse pericolose per noi più ancora che per eventuali avversari. Questo non sarebbe certo un messaggio di alto valore morale e politico, ma solo di buon senso e di difesa dei propri interessi. specialmente perché non si capisce bene quale guerra staremmo combattendo e in vista di quali risultati. Il probabile ritiro dell’Olanda dal conflitto non è un segnale indifferente se si pensa che quel paese è considerato da sempre uno dei più fedeli e saldi baluardi dell’alleanza transatlantica. Se vacillano all’Aja in altre capitali può scatenarsi un fuggi fuggi generale. Altrettanto interessante è il segnale sulle cosiddette armi atomiche “tattiche” dell’Alleanza. Innanzitutto perché a inviarlo è anche in questo caso un gruppo di paesi estremamente rappresentativi del sentire europeo “medio” e centrali per il futuro dell’Alleanza stessa. Chi potrebbe immaginare una Nato senza il Benelux o la Germania? E poi perché tocca uno dei più delicati argomenti “tabù” della strategia alleata, quello della dissuasione nucleare e delle garanzie ultime americane per la difesa del vecchio continente. Disarmo unilaterale o bilanciato? Le argomentazioni avanzate dal primo ministro belga e dal governo tedesco non sono peregrine. È ad esempio ormai chiaro a tutti che la validità operativa di quel paio di centinaia di testate nucleari americane ancora presenti in Europa e montate su bombe da aereo, è molto bassa. Anzi, in caso di conflitto con un avversario tecnologicamente avanzato (come era la vecchia Urss e come potrebbe essere oggi la Russia) esse presenterebbero gravi problemi di credibilità (per la loro bassissima prontezza operativa, e per la loro altissima vulnerabilità ad attacchi di sorpresa) e potrebbero costituire più una debolezza che un punto di forza. Inoltre si comprendono bene le argomentazioni di coloro che ritengono che dovrebbero essere sacrificate per favorire il processo di disarmo nucleare e per accrescere le pressioni politiche nei confronti di altri Il problema della dissuasione Ma la questione centrale resta quella sulla natura e credibilità della strategia alleata. Per anni, la presenza di queste armi nucleari sul territorio europeo è stata considerata come l’ultimo anello che garantiva la credibilità della dottrina americana della dissuasione allargata in base alla quale gli Usa assicuravano la difesa dell’Europa sino al limite della guerra nucleare, ed oltre. Oggi, - molti sostengono con buoni argomenti - che queste armi sono troppo obsolete ed inadatte allo scopo, e potrebbero quindi essere ritirate, Ma non propongono di sostituirle con altri sistemi offensivi, bensì con maggiori sistemi difensivi antimissili ed antiaerei. Ma non è la stessa cosa. Certo, sullo sfondo rimarrebbe anche la possibilità che gli Usa utilizzino qualcuna 27 delle loro armi nucleari strategiche per continuare a garantire la sicurezza europea, ma gli alleati non avrebbero più neanche la parvenza di un controllo sul loro impiego, né un sostanziale diritto di parola sulla strategia e sulla dottrina operativa, né infine la possibilità di discutere delle caratteristiche tecniche e del dispiegamento di quei sistemi. E poi, se i nuovi sistemi difensivi non dovessero funzionare al cento per cento (e qui i dubbi dei tecnici sono altissimi) o se l’arma nucleare dovesse arrivare sul nostro territorio per altre strade meno “convenzionali”, quale sarebbe la capacità di risposta del paese attaccato (e quindi la sua forza di dissuasione)? Dovrebbe forse affrontare con armamenti convenzionali un avversario nucleare? O potrebbe contare su una pressoché automatica risposta del governo americano? cominciare proprio da quell’Afghanistan dove la Nato si sta giocando la propria credibilità e forse il proprio futuro, siamo sicuri di poter tranquillamente rinunciare anche solo ad un due di briscola? Si alimentano grandi aspettative sul futuro concetto strategico dell’Alleanza. Alcuni dicono che dovrà avere il peso di quello che fu, nel 1967, il “rapporto Harmel”, che riuscì a rafforzare la solidarietà transatlantica e allo stesso tempo ad aiutare il processo di distensione tra Est ed Ovest. Ma il clima politico è mutato profondamente, e oggi sarebbe bene che questo documento dicesse con chiarezza quale sarà realmente il ruolo degli Usa nel futuro della sicurezza e della difesa europea. Senza abbandonarsi a sin troppo facili scappatoie di comodo. *Presidente dello Iai AffarInternazionali. Ripensamento strategico In una situazione in cui le divergenze politiche tra europei ed americani si allargano, a 28 e direttore di americani, militari e non, a Haiti. Non solo. L'articolo mette in evidenza come nel biennio 2004/2005, ovvero quando esercito Usa e francese deposero il presidente Jean Bertrande Aristide (democraticamente eletto dalla popolazione), sull'isola arrivò una delegazione dell'Institute for Geophysics dell'Università del Texas che iniziò un progetto di mappatura geologica del Bacino dei Caraibi. Un progetto ambizioso e per nulla semplice da portare a termine che ha visto fra i maggiori finanziatori compagnie petrolifere multinazionali come Chevron, ExxonMobil e Shell. Alessandro Grandi “Haiti, e se sotto il mare ci fosse petrolio? “ Un'importante articolo di Global Research mette in discussione la presenza di greggio nei mari caraibici e soprattutto a HaitiSulla terra ferma a Haiti non è più possibile sfruttare nulla. Legni pregiati, argento, oro e rame, sono stati saccheggiati nei decenni passati. Ora non resta che rivangare nel passato e ricordare quante risorse erano presenti nell'isola prima che il liberismo e le sue regole arrivassero a spazzare via tutto. Poi ci si è messa la lunga lista di dittatori, su tutti la famigerata famiglia Duvalier, spietati e sanguinari, che hanno portato all'estero decine di milioni di dollari di proprietà della nazione e quindi degli haitiani stessi. E c'è voluto un terremoto di una forza devastante per far ricordare al mondo che nei fantastici Caraibi esiste una nazione fra le più povere del pianeta. Ma c'è una novità che se confermata e supportata da analisi tecniche potrebbe far riscattare l'intera nazione. Haiti infatti, si trova appoggiata su una delle zone geologiche maggiormente attive dove si incontrano le piattaforme tettoniche del Nord America, del Sud America e quella dei Caraibi. Esattamente come avviene per la regione del Golfo persico, ricchissima di greggio, dove si incontrano altrettante piattaforme. Insomma se uno più uno fa sempre due allora è possibile che nel sottosuolo haitiano si possa concentrare una quantità tale di greggio da far invidia alle riserve venezuelane. Sì, perchè secondo gli studiosi è proprio nelle aree dove convergono piattaforme tettoniche che si concentrerebbero enormi masse di gas e petrolio. E per la possibile presenza di greggio che Global Reseach spiega l'ampia presenza di Ma la domanda inquietante che si pone l'autore dell'articolo lascia sgomenti: e se gli Usa e le grandi aziende multinazionali del settore fossero a conoscenza della possibile esistenza di questi enormi giacimenti? O, ancora peggio, se avessero saputo in anticipo del possibile arrivo del terremoto? Sta di fatto che in modo molto serio e competente l'articolo mette in fila una serie di eventi che potrebbero aver a che fare con l'ipotesi che esista petrolio, tanto petrolio, sotto i mari haitiani. E dunque si potrebbero guardare con diverso punto di vista le visite dei capi di Stato occidentali che negli ultimi mesi si sono verificate nell'area. Come quella di Medvedev a Cuba, non distante da Haiti. E pare che proprio in questi mari la multinazionale spagnola Repsol abbia trovato uno dei dodici maggiori bacini petroliferi più grandi scoperti finora. Insomma, nonostante il mondo si stia dirigendo 29 sempre più verso frontiere ecologiche, il petrolio fa sempre gola a molti. ponderate e razionali, che mettano in secondo piano quell'istinto così caratteristico di un popolo tanto passionale. ******************************* da Peacereporter.it Ma Dilma Rousseff è anche altro. Innazitutto non è mai stata eletta ai pubblici uffici, entrando sempre al Plenalto dietro invito del presidente. Altro elemento che fa titubare i suoi detrattori: come potrà assurgere a capo di un paese con oltre 190 milioni di persone senza aver scalato la gavetta elettorale? Eppure Lula non ha dubbi: ha scelto lei e su di lei si è fermato. Perché è lei la madrina del fiore all'occhiello della politica economica del governo: il Pac, il programma di accelerazione economica che traina il Brasile verso le vette. E su di lei è pronto a scommettere tutto. "E' stata la scelta di Lula, non la scelta del Pt - ha commentato alla Bbc Joao Pedro Ribeiro, critico ed esperto - E' stata la sua scelta in uno scenario dove non c'erano molte altre opzioni. Lula doveva costruire un candidato, un politico dal nulla. Ed è quello che ha fatto con Rousseff, l'ha esposta e fatta entrare in tutti i mass media. E questo non significa che lei sia la sua scelta per qualche specifica forza politica. Non c'erano altre opzioni possibili nel Partito dei lavoratori". Stella Spinelli “La prescelta” Il Partito dei lavoratori ha scelto: Dilma Rousseff, la prescelta di Lula, sarà la candidata per le presidenziali di ottobre. È ormai ufficiale. Le voci circolavano già da tempo. Il presidente uscente non aveva mai nascosto la sua preferenza per quella che da sempre è il suo braccio destro: ex ministro, capo dello staff della presidenza, Rousseff ha sempre affiancato Lula in ogni passo, in ogni decisione, in questi otto anni al potere. Ma, nonostante sia considerata tecnico esperto e arguto, sono in tanti a pensare che non abbia il carisma necessario a raccogliere l'eredità di un personaggio tanto amato dalle folle. E in un paese dove il fascino e l'appeal giocano un ruolo predominante nelle scelte di voto, si tratta di una mancanza pesante e pericolosa. Al di là di tutto quello che ha fatto o non ha fatto Lula in questi anni. Quindi una donna, un tecnico capace, un compagno leale e fedele, attraverso il quale continuare a governare, dietro le quinte. Questo il succo della mossa di Lula. Assicurare alla guida del paese, visto che la Costituzione brasiliana gli impedisce di candidarsi per la terza volta, una fedelissima che porti avanti la strategia iniziata otto anni fa. Il tutto con un Serra che tenterà in ogni modo di dimostrare di essere un manager molto più capace. Perché in fin dei conti la partita si gioca sull'economia. Che negli ultimi anni sta crescendo a buon ritmo in Brasile. Il gigante sudamericano è stato uno degli ultimi a entrare nella crisi globale e uno dei primi a rialzare la testa. Quest'anno si Unica consolazione per il Pt, il nome del rivale più temibile, Jose Serra, governatore dello stato di San Paolo, sconfitto da Lula al ballottaggio nel 2002, e certamente privo di qualsiasi savoir faire che incanti l'elettorato. Sarà dunque una campagna tutta all'insegna dei programmi, durante la quale i brasiliani saranno chiamati a scelte 30 calcola una crescita del cinque percento. E sarà questo il tema che più peserà. Lula come suo primo ministro dell'energia e poi quale capo del suo staff. È lei la figura che è riuscita a Ma chi è Dilma Rousseff. Sessantadue anni, è nata a Belo Horizonte da madre brasiliana e padre bulgaro. Cresciuta nell'agiata classe media, grazie al padre avvocato, ha decisamente un'estrazione differente da Lula, figlio della povertà e dello sfruttamento dei lavoratori. Da studentessa venne coinvolta dalla politica di sinistra e prese parte attiva alla resistenza contro la dittatura militare che piegò il Brasile dal 1964 al 1985. Nel 1970 venne catturata e torturata per 22 giorni, perfino con l'elettro-shock. Restò in carcere tre anni. "Dopo le percosse venivo gettata nuda in un bagno pieno di urine e feci e restavo lì, tremante, fino a che non tornavano a prendermi per torturarmi nuovamente", ha raccontato al magazine Marie Claire. Economista qualificata, è stata scelta da tener saldo l'establishment nonostante gli scandali che hanno travolto il Pt, senza lasciarla fuori. Nel 2008 venne infatti accusata di essere una sorta di infiltrata dell'ex presidente Cardoso, per il quale avrebbe stilato dei dossier finanziari. Accusa che ha sempre respinto. Poi è arrivata la malattia, il cancro, e la sua battaglia per sopravvivere. Che ancora non è finita e che la forte combattente ha deciso di unire alla lotta per entrare nei cuori di quel popolo solare e istintivo che dovrà vedere in lei la madrina di un Brasile dalle tante carte vincenti e straripante di speranze, proiettato verso il futuro. Che sia lei la donna del destino. 31 da Contropiano.org Nessun arabo, infatti, neppure chi detesta gli «scismatici» al potere a Tehran, giustifica la bomba atomica in mano israeliana. Di più: l'intero mondo arabo si aspetta che Obama - dopo aver fatto del disarmo nucleare il suo cavallo di battaglia - non si limiti a negoziarlo con la Russia ma lo estenda al Medio Oriente allargato. Perché è lì che si annidano i veri pericoli. Giuseppe Cassini * L'Italia ha perso il suo «storico» ruolo in Medio Oriente La speranza di molti italiani è che la missione effettuata da Berlusconi in Israele ai primi di febbraio sia presto dimenticata. Noi temiamo invece che un tale episodio d'ipocrisia diplomatica, contrabbandato per audace iniziativa di politica estera, avrà pesanti strascichi a lungo. Quella visita, infatti, ha giovato enormemente agli interessi dell'attuale governo israeliano, molto meno agli interessi europei e italiani. L'Iran non è l'unico dossier goffamente gestito dal Premier durante la sua visita. Nella prima notte trascorsa al King David, lui ha fatto un sogno: quello di «annoverare Israele tra i paesi dell'Unione Europea». Ma a differenza del sogno di Martin Luther King, che era destinato ad avverarsi, quello del Nostro no. Per il semplice motivo che Israele non ha alcun interesse a entrare nell'UE: vi lo immaginate costretto ad adeguarsi alla normativa comunitaria, incluso il diritto di ogni cittadino europeo - ebreo o non - a insediarsi liberamente nel suo territorio? Il sogno berlusconiano rivela piuttosto un altro desiderio, inconfessato: spalmare l'Unione in un'area di libero scambio, in modo da slegare l'Italia da certi vincoli che i trattati impongono a ogni paese membro. La spina del nucleare iraniano? Tutti, inclusi russi e cinesi, vorrebbero sfilarsela dal piede. Però, a differenza di europei e americani, russi e cinesi giudicano irrealistico sperare che le sanzioni arrechino seri danni a una nazione grande e orgogliosa come l'Iran; reputano anzi che rafforzeranno il regime, e chissà che non abbiano ragione. Che fare allora? Va premesso che solo gli iraniani possono scrollarsi di dosso il regime che li opprime; non si aiuta l'opposizione interna finanziando i nostalgici dello Scià o inserendo i Guardiani della Rivoluzione nella lista dei gruppi terroristici - come ha proposto Berlusconi. Ma per sventare alla radice la minaccia di proliferazione nucleare in Medio Oriente c'è un solo rimedio: costringere Israele a sedersi a un tavolo per il disarmo nucleare del Medio Oriente. Maggior entusiasmo il Nostro ha infuso nei suoi anfitrioni quando ne ha esaltato la democrazia e li ha assolti dalle accuse dell'Onu di aver condotto contro Gaza «attacchi sproporzionati» (parole della Commissione Goldstone). Secondo Berlusconi, l'aver fatto 1387 vittime per vendicare la morte di 3 israeliani costituisce una «giusta reazione». Soltanto la scarsa voce dei palestinesi sui media internazionali ci ha impedito 32 di ascoltare gli improperi con cui gli abitanti di Gaza, prigionieri in casa propria, hanno accolto quest'affermazione. Gerusalemme e Ramallah in minor tempo di quanto ho impiegato ultimamente in auto con targa diplomatica. Negli anni '60 - un altro ricordo - visitai Dachau: il lager dista solo 15 chilometri da Monaco e un tiro di schioppo dal suggestivo villaggio da cui prende il nome. Ingenuamente chiesi a un locale che cosa aveva provato a convivere accanto a quel lager durante tutta la guerra; la sua risposta fu: «Ma noi del villaggio non ce ne accorgevamo». Per dare loro un contentino, il capo del governo italiano ha rispolverato la sua proposta di un Piano Marshall per la Palestina, con parecchi miliardi di dollari. L'Onu dovrebbe prenderlo in parola e chiedergli, in quanto proponente, di mettere sul piatto il primo cospicuo contributo: pari all'ammontare dei tagli di bilancio che dal 2001 a oggi Giulio Tremonti ha operato sulla Cooperazione, che hanno precipitato l'Italia all'ultimo posto tra i fornitori di aiuti ai paesi in via di sviluppo. Solo così Berlusconi si laverebbe dalle infamanti accuse di «rubare ai poveri» lanciategli da Bill Gates, Bono e Bob Geldof prima e dopo il G8 dell'Aquila. Quali conseguenze avrà per l'Italia questa «storica» visita all'insegna dell'opportunismo più marcato? Probabilmente quella di abdicare trent'anni dopo la Dichiarazione (questa sì, storica) del Consiglio Europeo di Venezia del 1980 - al ruolo italiano di honest broker in Medio Oriente, avviato da Fanfani e proseguito da Craxi con grande energia negli anni '80. A conclusione di questa missione in Israele il ministro degli esteri Franco Frattini ha reagito alle critiche piovute da Tehran affermando: «Noi siamo al servizio dei nostri ideali e dei nostri valori». Pochi giorni prima, però, si era recato in pellegrinaggio a Hammamet a raccogliersi sulla tomba di Craxi e non si era accorto che per servire i nuovi «ideali» e i nuovi «valori» stava tradendo quelli del suo mentore defunto. Requiescat In Pace. In effetti, neppure l'Autorità Palestinese - schierata a Ramallah per ricevere il Premier italiano - sperava in elargizioni finanziarie. Non si aspettava però di essere ferita platealmente, quando Berlusconi ha risposto a un giornalista di «non essersi accorto del muro» eretto dagli israeliani: quel muro alto otto metri che soffoca i Territori Occupati, separa i contadini dai loro campi, i villaggi dalle prese d'acqua, e incombe in modo spettrale su chi viaggia verso Ramallah. Di quel muro condannato dalla Corte Internazionale di Giustizia lui non si era accorto. Nel 1965 - un ricordo personale - percorsi a piedi quelle colline tra Betlemme, *ex ambasciatore italiano Da Il Manifesto del 21 febbraio 33 in Libano sia finanziarie – banche, istituti di credito – che produttive e politiche. Soprattutto i governi devono fare scelte che vanno nella direzione di uno sviluppo vero – industriale, tecnologico e agricolo –, ma che sappia partire dalle esigenze e dalle potenzialità delle diverse realtà locali e sdoganarsi dalla dipendenza dall’esportazioni di materie prime. «I paesi africani – conclude perciò l’economista – devono poi gestire in maniera trasparente le risorse naturali e investire i soldi che vengono dal sottosuolo sul suolo. D’altra parte, un’uscita rapida della crisi in Africa implica più che mai la riabilitazione del ruolo dello Stato come propulsore e promotore dell’economia». L’Africa Vicina Gino Barsella “L’Africa parta dall’Africa” «Contrariamente a quello che vuol far credere il Fondo monetario internazionale (Fmi) l’aggiustamento strutturale voluto dagli organismi finanziari internazionali ha contribuito alla deindustrializzazione dell’Africa. Il contributo dell’industria al Prodotto interno lordo (Pil) del continente, infatti, è passato dal 15,9% del 1965 al 14,9% del 2006». Lo ha detto – come riporta l’agenzia Misna in un lancio dell’11 febbraio – il Premio Nobel per l’economia nel 2001 e presidente della Commissione d’esperti per la riforma del sistema finanziario internazionale, Joseph Stiglitz, in una lunga intervista realizzata dal settimanale “Les Afriques” e intitolata “L’Africa deve contare solo su se stessa”. Il cantiere Africa, nonostante tutto, è incamminato su questo percorso, e la sfida di uscire dalla crisi con un generale progetto di sviluppo endogeno è reale. Anche perché i paesi emergenti asiatici – certamente liberi da pesanti retaggi coloniali e relativi complessi di superiorità – sembrano i più in grado di assicurare una controparte credibile e accettabile. Cosa che l’Europa, e l’Occidente in generale, non sembrano capaci di fare. È quindi l’ora che l’Africa cominci a fare di testa sua, approfittando della nuova situazione geopolitica economica che si è venuta a creare con la crisi globale attuale. Infatti, spiega Stiglitz, «L’Africa è una vittima innocente della crisi e deve orientarsi verso i mercati emergenti asiatici (e non solo la Cina, ndr), dove la crescita resta forte. Il rafforzamento del partenariato con questi paesi emergenti può permettere al continente di massimizzare le rendite delle sue risorse naturali, sfruttando la concorrenza mondiale e attirando investimenti importanti». D’altronde si sapeva come i «mercati finanziari non abbiano certo la vocazione di promuovere lo sviluppo», il quale può venire solo da un maggiore e più chiaro impegno delle realtà locali, 34 anacronistico nonostante le dolorose misure adottate dalla Banca Centrale Lettone per salvare il valore della propria divisa e che hanno tolto ossigeno all’economia del paese. “Il Mondo in Crisi” Marco Zoboli “Lettonia: Crisi nella Repubblica delle Banane di ghiaccio.” In Lettonia, così come avvenuto nelle altre repubbliche baltiche con il plauso del FMI e di Bruxells, la strategia perpetuata dagli sciacalli della finanza è sempre stata la medesima: smantellare il pubblico e influire con l’instaurazione di nuovi rapporti di forza all’interno dei processi decisionali politici nel paese. Come accaduto in Argentina con Menem, le imprese pubbliche sono state vendute velocemente a investitori occidentali dalla nascente oligarchia locale che ha provveduto a trasferire i propri bottini nei paradisi fiscali anglofoni. Va inoltre ricordato che l’Europa ha promosso l’installazione di propri istituti di credito anziché stimolare i paesi baltici a dotarsi di una propria rete finanziaria autonoma: la contraddizione è chiara, venivano contratti debiti in valuta forte e onorati ratealmente in divisa debole arrivando così a un saldo da strozzinaggio. Senza nulla togliere alla gravità della crisi economica ellenica che ha rapito l’attenzione dei mezzi di comunicazione europei, poco si parla di altre situazioni altrettanto preoccupanti e ben più importanti per il loro peso economico quali Spagna, Irlanda e Portogallo; inoltre nulla si dice della devastante crisi che sta spazzando via le economie dei paesi baltici, paesi ex sovietici che avevano avviato il loro percorso di avvicinamento all’eurozona e che oggi sono sull’orlo del fallimento economico e istituzionale, e che mette a nudo la distruzione selvaggia del neoliberismo, calato dall’alto come strumento di conquista, con risultati di impatto sociale molto simili a quelli ottenuti in America Latina negli anni novanta… Per compensare tutti quegli “oscuri anni” trascorsi sotto l’ombrello sovietico di giustizia sociale, la tassazione lettone è stata formulata non progressiva in base al reddito, come negli altri paesi capitalisti occidentali, ma fissa al 50% per tutti i cittadini, siano essi salariati, dipendenti pubblici, piccoli o grandi imprenditori, oligarchi… indipendentemente dal patrimonio accumulato.. un vero sogno americano, che si infrange con la realtà e le contraddizioni del capitalismo in versione neoliberale, neocoloniale… della Repubblica delle Banane di Ghiaccio.… Il tasso di disoccupazione ha toccato il 22% della popolazione, e La Lettonia è sull’orlo del fallimento come stato, come organizzazione sociale ed economica. Alla diminuizione del PIL del 25% in due anni (alcune fonti più severe di quelle ottimiste del FMI parlano del 29%) si aggiunge una stima di caduta di un’ulteriore 9% nel 2010… il debito pubblico in crescita esponenziale dal 7,9% del 2007 raggiungerà il 74% del PIL nell’anno in corso… inutile dire che i parametri di Maastricht si allontanano assieme all’Europa, all’euro divenuto oramai 35 sta emigrando in massa verso paesi europei nonché in Russia… che inevitabilmente non può che sogghignare al procedere degli eventi. Le Repubbliche baltiche dovevano essere il cordone sanitario per eccellenza verso Mosca, paesi membri Nato che dovevano rappresentare la minaccia geopolitica più significativa alla rinascita delle ambizioni multipolari russe. Con l’implodere delle economie baltiche e delle loro strutture sociali in una fase dove ben pochi paesi possono accollarsi l’onere di sostenere ciò che non è sostenibile, anche la geopolitica sul Mar Baltico muta… La Lettonia scivola lontano dall’euro, assieme alle sue sorelle di sventura, e Mosca a pensarci bene, con il suo gas, non è poi così. Stati Uniti: Ispanici sotto sfratto giudiziario. Approssimatamente 1,3 milioni di ispanici perderanno la proprietà delle proprie abitazioni da quà al 2012 a causa della crisi esplosa dalla bolla immobiliaria negli Stati Uniti, ha rivelato questo martedì uno studio della principale organizzazione latina, La Raza. La crisi rappresenterà per i 45 milioni di ispanici del paese una perdita nell’ordine dei 98 mila milioni di dollari, secondo lo studio. In totale circa 8 milioni di famiglie statunitensi corrono il rischio di perdere la propria abitazione, e per ogni famiglia ispanica, la perdita media si valuta in circa 90 mila dollari, secondo lo studio, che cita informative ufficiali e di analisti del mercato. Gli ispanici, la minoranza più importante negli Stati Uniti e quella con la maggior crescita demografica da qui al 2050, si vedono particolarmente colpiti dall’ondata di sfratti di ordine giudiziario, dopo l’eccessivo indebitamento dell’ultima decade. “Gli ispanici e la minoranza di colore avevano due volte la possibilità di ricevere un prestito ad alto rischio”, in questi anni, che il restante della popolazione statunitense. 36 dell’economia reale sono alla radice di questa crisi e, mentre non sono rincarati, l’economia mondiale continuerà a soffrire e un giorno giungerà a una vera ecatombe. Nel 1992, mentre gli economisti ufficiali cantavano lodi al neoliberismo, Hyman Minsky elaborava la sua teoria sull’instabilità finanziaria del capitalismo. Secondo questo autore, in epoche di abbondanza l’ottimismo contamina imprese e famiglie a sovrastimare il valore delle proprie azioni, a considerare che i buoni periodi perdureranno e quindi ad assumersi maggiori rischi. Alejandro Nadal* “Da Marx a Minsky…” Quando l’economia capitalista entra in crisi non è perché una forza esterna la colpisce. E’ perché qualcosa non va bene al suo interno, Quale può essere questo suo malessere endogeno? La domanda non è banale: la diagnosi è la chiave per determinare le misure per uscire dall’emergenza. Oggi predomina l’interpretazione che viviamo una crisi causata dalla mancata regolazione del settore finanziario, bancario e non. Questo debilitamento delle regole avrebbe generato incentivi perversi verso le speculazioni e l’accettazione di rischi smisurati. Questo accade in ogni ciclo di imprese, ma il processo culmina in un ciclo più lungo che finisce per trasformare il regime regolatorio del settore finanziario, suoi mercati e sue pratiche contabili. L’erosione delle istituzioni che dovrebbero controllare la speculazione e dare stabilità termina generando la proliferazione di schemi finanziari di alto rischio, scarse garanzie e grandi livelli di non protetti. Quando si è manifestata la bolla speculativa i settori non finanziari si sono visti colpiti dal collasso della domanda aggiunta. Per questo sono stati applicati stimoli fiscali per riattivarla. Ma la narrativa ufficiale è che i settori non finanziari dell’economia (agricoltura, industria e servizi) andavano bene sino a che non è avvenuto il colpo di coda di una crisi che nasce nel settore finanziario. Questo è sbagliato. I problemi Il modello Minsky rimane incompleto. Non ci sono le analisi che dal settore reale conducono alla crisi. E’ certo che i cicli di impresa dell’economia statunitense a partire dal 1980 i debitori e creditori hanno assunto 37 Di fronte alla discesa delle rendite, il capitale si è rifugiato nelle finanze. L’offensiva contro i salari e l’espansione del settore finanziario sono due facce della stessa moneta: la caduta del tasso d’interesse, un problema con radici profonde nell’evoluzione del capitalismo. sempre maggiori rischi e che durante questo periodo si è eroso il regime regolatore. Secondo questo assioma la crisi si deve a fenomeni psicologici e agli incentivi che perseverano la speculazione incontrollata. I fattori strutturali nelle sfere (non finanziarie) della produzione rimangono al di fuori di questa spiegazione. In contrasto, altre ricerche rivelano che tra il 1973 – 1984 sono avvenuti cambi importanti nell’economia reale degli Stati Uniti e di altre economie capitaliste. Il più importante è che il tasso di crescita è iniziato a ridursi. Sebbene ci sia differenza tra i settori, gli indici elaborati con differenti metodologie non si sbagliano: il tasso d’interesse si riduce negli Stati Uniti, Germania, Giappone e altri paesi. Qui si ascoltano gli echi delle analisi di Marx che sono state sulla difensiva da molto tempo. Il dogmatismo e varie difficoltà teoriche, specialmente il cosiddetto problema della trasformazione di valori in prezzi di produzione (espresso da Marx nel tomo III del Capitale), hanno frenato per anni lo sviluppo critico del pensiero marxista. Oggi prende forza la riflessione del taglio marxista sulla crisi, quantunque continui pendente la soluzione di vari problemi teorici importanti. Questa caduta del tasso d’interesse ha scatenato un’offensiva contro i salari dalla decade degli anni settanta. Sindacati e regole lavorative che avevano mantenuto un’evoluzione favorevole nei salari e prestiti sono stati attaccati su tutti i fronti. La globalizzazione neoliberale è parte di questo attacco, generando forze per comprimere più i salari. Il risultato è stato che i salari sono stagnanti e il potere d’acquisto della classe lavoratrice negli Stati Uniti si è debilitata. Il sovraindebitamento è stato l’unico mezzo per mantenere il livello di vita cui aspiravano le classi lavoratrici. Le bolle speculative hanno mantenuto un livello della domanda aggiunta che richiedeva l’economia statunitense. In queste analisi si articola l’evoluzione del mutamento tecnico, la concorrenza intercapitalista e il conflitto per lo sfruttamento e la distribuzione delle entrate in un impianto analitico coerente. I contributi di Minsky, della teoria di Keynes, si fondono bene con queste interpretazioni marxiste. Il punto centrale è che le radici della crisi sono nell’economia reale e non solo nella sfera delle transazioni finanziarie. La conclusione è chiara: l’economia della globalizzazione neoliberale è mortalmente malata e le sue fondamenta devono modificarsi radicalmente. *La Jornada 38 La Vignetta della Settimana “Guardi vostra merced che ultimamente leggete troppo, dovete guardare di più la televisione” 39 per cercare una possibilità di sopravvivenza. Ma la migrazione dall’est ha caratteristiche proprie e differenze notevoli, per esempio, rispetto agli esodi dal Sud del mondo. Per la repentinità del cambiamento, per l’unicità della vicenda storica che ha investito l’Europa, finché essa stessa ed il mondo erano divisi in blocchi politico-economici e militari contrapposti. Il crollo del sistema economico sovietico ha portato con sé lo sbriciolamento di strutture sociali e culturali. Per tante donne e tanti uomini ha significato lo smarrimento di ogni prospettiva di vita. Le migranti dell’est portano con sé verità più complicate di quelle strillate e sparpagliate ai quattro venti da ovest ad est in questi venti anni senza il muro, quelle verità “facili” della cortina di ferro sfondata, dell’uscita dalla “notte del comunismo”, della democrazia o dei diritti o delle libertà guadagnate. Le migranti dell’est portano con sé racconti e domande sullo sconquasso della loro vita seguito alla demolizione dell’ossatura del sistema produttivo socialista, voluta in nome della cosiddetta libertà economica, ma in realtà per fare il vuoto conveniente ai nuovi impianti “delocalizzati” dall’occidente vincente. Quale democrazia? Le nuove élites dei paesi ex socialisti si sono mostrate più interessate alla gigantesca contesa per la spartizione della proprietà sociale messa in vendita. Quali diritti? La restaurazione legittimista nell’Est europeo si è fatta in una commistione di mafie, affari e poteri antichi riabilitati, sotto lo sguardo compiaciuto dei Talleyrand e dei Metternich del ventesimo secolo. E chi non aveva possibilità di partecipare al bottino? Poteva emigrare. Che democrazia è questa che costringe ad espatriare, ad andare per le strade del mondo ad elemosinare, a piegarsi alla nuova schiavitù del mercato della carne umana, della clandestinità, del lavoro nero e della prostituzione coatta? Donne nel Mondo Ada Donno “Storie di badanti“ (prima parte) Venute dall’est. Curioso, come si somigliano le storie delle donne migranti che vengono dall’est! Sono arrivate portandosi dietro verità complicate, che raccontano con voce sommessa nella lingua stentata di chi ha dovuto imparare in fretta le parole necessarie alla sopravvivenza. Raccontano che nel loro paese, “prima”, avevano una professione, una buona formazione, a volte perfino la laurea. Che non guadagnavano molto, ma almeno avevano la sicurezza. Di un lavoro, una casa, l’asilo nido, l’ambulatorio medico, la tranquillità del domani. Poi, d’un tratto, la crisi, il crollo, il lavoro perduto, l’incertezza del domani. Molte raccontano di mariti disoccupati sopraffatti dall’inerzia, di voglia di separazione da un uomo diventato violento e alcolista, della necessità di pagarsi un avvocato, di mantenere i figli agli studi. Da qui, il coraggio preso a due mani e la decisione di partire per venire a lavorare nell’occidente ricco e luccicante. Per pochi mesi, per qualche anno. Fanno grandi debiti per pagarsi il viaggio, in pullman per lo più, dall’entroterra di Bucarest, di Cracovia, di Chisinau, di Tirana. Dai villaggi di montagna o dalle vallate della Transilvania. Sbarchi silenziosi, spesso clandestini, col cuore stretto per la casa e i figli lasciati laggiù. In genere la migrazione dall’Europa dell’est nell’Europa comunitaria, e in Italia in particolare, è considerata fenomeno “a parte” rispetto alle altre di diversa provenienza geografica. E’, sì, inserita nell’epocale flusso migratorio dalle aree povere verso quelle più produttive e ricche del pianeta. Lo stesso carico umano di sacrificio e speranza, la stessa necessità di vincere la paura dell’ignoto 40 Dal Mondo in Lotta ADERITE ALL’APPELLO: Non in nostro nome Il governo italiano, con la recente visita del premier Berlusconi in Israele, ha reso il nostro paese complice dell’oppressione del popolo palestinese e delle possibili escalation di guerra israeliana in Medio Oriente. L’Italia sta fornendo ufficialmente armamenti, investimenti economici, collaborazioni scientifiche al governo israeliano condannato dalle istituzioni internazionali per la costruzione del Muro di segregazione, per i crimini di guerra a Gaza e l’occupazione coloniale dei Territori Palestinesi Noi, in quanto cittadini italiani, non accettiamo di essere considerati complici di questa politica di oppressione e di guerra Per questi motivi: Chiediamo la revoca degli accordi militari, commerciali, scientifici, culturali tra le istituzioni italiane e quelle israeliane Chiediamo la revoca della partecipazione italiana ed europea al vergognoso embargo contro la popolazione palestinese di Gaza ormai da quattro anni sotto assedio Non c’è pace duratura senza giustizia Nelle centinaia di adesioni all’appello che ci sono già giunte figurano sia intellettuali e personalità conosciute della politica che semplici cittadini o attivisti impegnati a vario titolo nelle attività di solidarietà con il popolo palestinese. Si notano le firme di docenti universitari come Angelo D’Orsi, Domenico Losurdo, o Sancia Gaetani, Nella Ginatempo, Ornella Terracini , attive nei movimenti pacifisti e quelle di dirigenti politici del PRC e del PdCI come Maurizio Musolino, Andrea Genovali, Francesco Francescaglia, Manuela Palermi, Fosco Giannini, Fausto Sorini, Bruno Steri, Roberto Antonaz, c'è il musicista Daniele Sepe ma non mancano gli attivisti del Forum Palestina come Sergio Cararo e Germano Monti o quelli come Paola Canarutto, Marco Ramazzotti, Miryam Marino della Rete Ebrei contro l’Occupazione, c’è l’intellettuale bolognese Alberto Masala e l’operaia Maria Luisa Bisetti, ci sono giornalisti come Michele Giorgio e ricercatori scientifici come Edoardo Magnone o Sara Pozzi. Per le adesioni all’appello “Non in nostro nome” scrivete a: [email protected] 41 Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila “Pertini si commosse di fronte all'orrore di Sabra e Chatila” Roma, 24 feb - "Sandro Pertini fu il Presidente che si commosse di fronte agli orrori di Sabra e Chatila: quando migliaia di palestinesi e libanesi nei miseri campi profughi intorno a Beirut, nel 1982, furono aggrediti e massacrati dagli eserciti israeliani e falangisti, Pertini non esitò ad esprimere la sua condanna e a manifestare il suo sdegno, come mostra un bellissimo filmato disponibile sul http://sabraechatila.wordpress.com. La sua onestà intellettuale ed il suo coraggio da Capo delle Resistenza sono sicuramente ricordati oggi dunque non sono in Italia dove mancano figure in grado di competere con quella dell'ex Presidente Repubblica". 42 www.ain.cu Cuba, quarta al mondo per numero di donne parlamentari La Habana (AIN - Agencia Cubana de Noticias) Cuba occupa il quarto posto mondiale e il primo in America come numero di donne rappresentate nel proprio Parlamento, secondo uno studio diffuso dall'Unione Interparlamentare (UIP). L'Isola appare nell'elenco in quanto sono donne il 43,2% dei membri dell'Assemblea Nazionale del Poder Popular. Esse occupano, infatti, 265 dei 614 seggi. A Cuba, che prepara i comizi per eleggere nel prossimo aprile i delegati di circoscrizione che formeranno le Assemblee Municipali del Poder Popular, la Federazione delle Donne Cubane ha lanciato un appello affinché si prendano in considerazione le capacità dimostrate dalle cittadine nello svolgimento di questa funzione, in accordo con un documento pubblicato dalla stampa locale. L'UIP, creata nel 1889, è l'organizzazione internazionale che rappresenta il ramo legislativo dei governi su scala mondiale e principale interlocutore parlamentare delle Nazioni Unite e, presentando regolarmente le sue risoluzioni all'Assemblea Generale, porta la voce dei parlamenti nei processi decisionali delle Nazioni Unite. Questo Ente segnala che è ancora bassa la partecipazione delle donne nei poteri legislativi del mondo, in quanto raggiunge appena il 18,7% dei posti, secondo dati rilevati fino al 31 dicembre dello scorso anno, indica Efe. Il documento aggiunge che dei 44.214 legislatori registrati a quella data nei parlamenti presi in esame, solo 8.267 sono donne.L'UIP indica che se si tiene conto solo dei parlamenti unicamerali e le camere basse dei bicamerali, la media sale al 18,9% e nel caso delle camere alte o al Senato scende al 17,6%. Le statistiche dell'UIP confermano che il grado di rappresentanza della donna negli organi legislativi di un paese non è direttamente proporzionale allo sviluppo sociale o economico e rivela che il machismo che si attribuisce a molti paesi latini non si riflette nella composizione dei loro parlamenti. Secondo la graduatoria di 187 paesi fatta dall'UIP, se si prendendo in considerazione le regioni, sono i paesi nordici quelli che hanno una maggiore percentuale di donne nei loro parlamenti (42%), tuttavia è il Ruanda il paese leader nel mondo sotto questo aspetto, poiché ha il 56,3% di donne nella camera bassa (Deputati) e il 34,6% nella camera alta (Senato).In America la media è del 22%; in Europa del 21,4%; in Asia del 18,5%; nell’Africa Subsahariana del 18%; nel Pacifico del 15,3% e negli Stati Arabi del 9,6%. A livello mondiale, la Svezia ha il 46,4% di donne nella sua unica camera legislativa; il Sudafrica il 44,5% nella Camera dei Deputati e il 29,6% nel Senato, e le segue Cuba al quarto posto con il 43,2% donne membri dell'Assemblea Nazionale del Poder Popular. Tra altre cifre conosciute, il Costa Rica occupa il 12° posto, la Spagna il 13°, Andorra il 14°, l’Ecuador il 19°, Messico il 27°, il Perù il 30°, seguito dal Portogallo con il 31°. Gli Stati Uniti condividono con il Turkmenistán il 74° posto della tabella, in quanto hanno il 16,8% di persone di sesso femminile nella camera dei rappresentanti e 15,3% in quella dei senatori, mentre la Francia è al 63° posto con il 18,9% e il 21,9%, rispettivamente. 43 proveniente dagli Stati Uniti, un paese con migliaia di prigionieri detenuti in una rete internazionale di carceri segrete, molti di loro sottoposti a torture. Tim Anderson* “E' credibile Human Rights Watch quando parla di Cuba? “ Alla fine del 2009, l’organizzazione Human Rights Watch (HRW), con ragione sociale a New York, ha pubblicato un rapporto dal titolo Un nuovo Castro, la stessa Cuba. Sulla base della testimonianza di ex detenuti, il rapporto condannava in maniera sistematica il governo cubano, qualificandolo come tirannico e accusandolo di usare "il suo apparato repressivo, leggi draconiane e giudizi arbitrari per incarcerare decine di persone che hanno osato esercitare le loro libertà fondamentali". Il gruppo afferma di aver intervistato 40 prigionieri politici e analizzato le leggi straordinarie che permettono che i cubani possano essere incarcerati solo per aver espresso opinioni critiche del loro sistema socialista. E' credibile questa relazione critica su Cuba? Chi rappresenta Human Rights Watch? La risposta all'ultima domanda è un po’ più difficile che nel caso di altre organizzazioni come il National Endowment for Democracy (NED), istituita dal governo degli Stati Uniti, o di Reporter Senza Frontiere (RSF), con sede in Francia e finanziata direttamente dal Dipartimento di Stato USA in alcune delle sue campagne contro Cuba. Alla maniera dei "giornalisti embedded" che viaggiano con le truppe USA, in tutto il mondo, la NED e RSF possono essere considerati "vigilanti embedded" che contribuiscono a legittimare o delegittimare determinati governi in funzione della politica degli Stati Uniti. Human Rights Watch, tuttavia, non è finanziata dal governo degli Stati Uniti, anche se ottiene la maggior parte dei suoi fondi da una serie di fondazioni statunitensi a loro volta sostenute da molte delle grandi corporazioni di questo paese. Queste fondazioni, private e ricche, sono solite vincolare i loro contributi a progetti specifici. Così, ad esempio, le relazioni di HRW sul Medio Oriente spesso sono basate su relazioni di fondazioni pro-israeliane e riceve finanziamenti dalle stesse. Altri gruppi chiedono un focus sui diritti delle donne o HIV/AIDS. Più del 90% dei 100 milioni di $ del bilancio di HRW per il 2009 era "limitato" in questo modo. In A prima vista, si potrebbe pensare che Cuba è uno dei peggiori violatori dei diritti umani nelle Americhe. Ma una più attenta riflessione potrebbe indurci a mettere in discussione tali dichiarazioni 44 paese in Iraq, ciò non è avvenuto in America Latina, dove il gruppo ha seguito alla lettera la linea di Washington. Di tutti i rapporti di Human Rights Watch sull'America Latina, negli ultimi anni, gli unici governi a cui sono state fatte queste critiche sistematiche sono quelli di Venezuela e Cuba. Altre relazioni sul Brasile, Honduras e Messico, hanno trattato di questioni molto più concrete come la violenza della polizia, i diritti dei transessuali o la giustizia militare. Quando si tratta della Colombia, HRW ha pubblicato relazioni su l'uso delle mine terrestri e le “mafie paramilitari". L'ultima relazione riflette il fatto che la Colombia ha il più alto livello di violenza "che quasi nessun altro paese nell'emisfero occidentale." In realtà, la Colombia è prima di qualsiasi altro paese dell'America Latina per numero di assassini di sindacalisti, giornalisti, avvocati e persone comuni. I militari colombiani e i loro alleati delle milizie di estrema destra sono stati responsabili della maggior parte di questi massacri ma ciò nonostante HRW accusa la guerriglia di sinistra e le milizie di destra senza coinvolgere il regime di Álvaro Uribe, il più grande recettore di aiuti USA in America Latina. altre parole, HRW offre una selezione di temi privatizzati e realizzati negli USA che servono agli interessi dei ricchi. Il coordinamento di tutti questi interessi è illustrato in modo chiaro dal nuovo presidente di HRW, James F. Hoge, Jr., editore e giornalista, redattore capo della pubblicazione Foreign Affairs, dal 1992 al 2009, e membro di spicco dello sponsor della stessa, il Council on Foreign Relations (CFR), che si trova a New York. Il CFR, considerato come il più influente Think Tank della politica estera degli Stati Uniti, include gran parte dell’elite imprenditoriale USA (tra altri le banche e i media), così come leader di ieri e di oggi dei due maggiori partiti. Ex segretari di Stato, come Henry Kissinger e Condoleezza Rice, e l’attuale segretario alla Difesa Robert Gates, sono membri del CFR. La sua lista di iscritti è realmente un Who's who dell’elite USA. Il consiglio direttivo di HRW è anch’esso dominato dall'elite corporativa degli Stati Uniti, come banche e grandi mezzi di comunicazione e di alcuni accademici, anche se non da funzionari del governo. Il consiglio direttivo comprende l'ex ministro degli Esteri messicano Jorge Castaneda (accademico che una volta era marxista convertito in politico di destra), mentre l’avvocato di origine cilena José Miguel Vivanco è direttore della Divisione Americhe di HRW. Vivanco è stato oggetto di una grande controversia in America Latina a causa dei suoi attacchi contro il Venezuela e Cuba. Se HRW a volte sembrava agire con una certa indipendenza dalla politica estera degli Stati Uniti, per esempio, quando ha sostenuto la "guerra al terrorismo" ma ha criticato le operazioni di questo Parzialità nelle relazioni Inoltre, la relazione del gruppo di dicembre del 2008 sul Venezuela, dal titolo Una decade di Chávez aveva una chiara motivazione politica. Secondo Vivanco, è stata scritta "perché abbiamo voluto dimostrare al mondo che il Venezuela no è un modello per nessuno". Tale rapporto è stato duramente criticato da più di un centinaio di accademici per non soddisfare "neanche gli standard minimi 45 in materia di qualità accademica, imparzialità, esattezza o credibilità." Piuttosto che una relazione dettagliata sui diritti umani era un tentativo di screditare un governo, soprattutto sulla base di accuse di "discriminazione politica" in materia di occupazione ed il potere giudiziale. Le prove erano scarse e l’approccio in assoluto sistematico. HRW ha respinto queste critiche. Altre leggi sono state utilizzate, dice, a: "... tipificare come delitto l'esercizio delle libertà fondamentali, in particolare le leggi che criminalizzano la disubbidienza, l’insubordinazione e le azioni contro l'indipendenza dello Stato. Infatti, l'articolo 62 della Costituzione cubana proibisce l'esercizio di qualsiasi diritto fondamentale che sia contrario "ai fini dello Stato socialista". Il recente rapporto su Cuba (Un nuovo Castro, la stessa Cuba) é un tentativo di porre alla gogna un intero sistema sociale basandosi su alcuni aneddoti. Come negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno focalizzato la loro strategia sui diritti umani a Cuba sulle poche decine di persone arrestate e imprigionate per ciò che HRW considera si tratti semplicemente di difendere i loro diritti fondamentali. Il governo cubano dice che la maggior parte di queste persone avrebbero accettato denaro proveniente dai programmi degli Stati Uniti per rovesciare il sistema sociale cubano. HRW ignora il diritto di Cuba a proteggersi dai programmi interventisti di Washington. HRW afferma anche che nel gennaio 2009 alcuni giovani, nella parte orientale di Cuba, sono stati accusati di "pericolosità", semplicemente per essere disoccupati. Si è detto che uno di loro era stato imprigionato per due anni, solo per essere disoccupato. HRW ha segnalato che Cuba collegata alcune detenzioni ad "una politica USA volta a rovesciare il governo di Castro ... Ma nelle decine di casi che Human Rights Watch ha esaminato per l’elaborazione di questa relazione, questa affermazione non regge. Per quanto riguarda i 40 ex detenuti che afferma di aver intervistato a Cuba, HRW ha richiamato l'attenzione a ciò che egli chiama una legge: "... che consente allo Stato di incarcerare le persone prima che abbiano commesso un reato, sotto il sospetto che potrebbero commettere un delitto in futuro ... Questa disposizione di "pericolosità" [si riferisce] a qualsiasi condotta che contraddica le norme socialiste. E‘ la più orwelliana delle leggi di Cuba e riflette l'essenza della mentalità repressiva del governo cubano." In primo luogo, l'articolo 62 della Costituzione cubana dice testualmente che "Nessuna delle libertà riconosciute ai cittadini può essere esercitata contro quanto stabilito nella Costituzione e le leggi, né contro l'esistenza e i fini dello stato socialista, né contro la decisione del popolo cubano di costruire il socialismo e il comunismo. L’infrazione di questo principio è punibile. "(1) Questo non è lo stesso" che proibire l’esercizio di qualsiasi diritto fondamentale che va contro 'i fini dello Stato socialista'. La dissidenza non è lo stesso che attaccare l'ordine costituzionale. Esame di alcuni degli giuridici e pratici di affermazioni 46 aspetti queste recentemente da un gruppo legato agli Stati Uniti. Allo stesso modo, Raul Rivero, Hector Palacios, Osvaldo Alfonso Valdes e altri sono stati accusati, perché vi erano prove (comprese le ricevute) che avevano ricevuto il denaro dai programmi USA destinati a rovesciare la Costituzione cubana. Il rapporto di HRW ignora queste prove. Legalmente, vi è certamente il principio della "pericolosità sociale" nella legislazione cubana, ma è un concetto che tipifica i reati penali e di altro tipo. Ad esempio, la pericolosità sociale può aggravare un "atto" che sia un delitto ai sensi della legislazione del lavoro (legge 176). Al contrario, nel Codice Penale (art. 14) l'assenza di "pericolosità sociale" può attenuare la pena per un delitto. Lo "stato pericoloso" definito dal Codice Penale (art. 72) tipifica anche una serie di comportamenti antisociali, come l'ubriachezza. In altre parole, l'attenzione di Human Rights Watch sulla "pericolosità" è solo una montatura. Non c’è un crimine sostantivato di "pericolosità". E’ un qualificativo al comportamento reale. Allo stesso modo, il fatto di essere disoccupato a Cuba non costituisce alcun tipo di reato, è semplicemente assurdo. Gli stessi gruppi di Miami che hanno mandato i soldi a questi cubani (anche se la maggior parte del denaro del governo degli Stati Uniti rimane a Miami, provocando conflitti all'interno di questi gruppi) erano quelli che avevano organizzato gli attentati negli alberghi turistici a Cuba nella decade ’90. Non è sorprendentemente che le autorità cubane siano intolleranti davanti a questo terrorismo. Gli arresti del marzo 2003 furono provocati dai timori di Cuba che il regime di Bush potesse organizzare una invasione stile Iraq facendo uso di questi agenti pagati. Dopo la relazione sul Nuovo Castro, HRW ha proseguito la sua campagna in favore dei "dissidenti" finanziati dagli Stati Uniti. Nel gennaio 2010, ha chiesto che il governo cubano "cessi immediatamente le vessazioni contro il non vedente e difensore dei diritti umani Juan Carlos González Leiva, leader del Consiglio dei Relatori dei Diritti Umani". Gonzalez Leiva capeggia la sezione di Camagüey della Fondazione Cubana dei Diritti Umani, un organismo che è stato finanziato da Washington, attraverso Miami, da almeno dieci anni. I “dissidenti” Tuttavia, nel caso dei famosi "dissidenti" - tra i quali si comprendono molti dei qualificati giornalisti indipendenti e difensori dei diritti umani, finanziati dal Dipartimento di Stato USA e dai programmi USAID per promuovere una "transizione" a Cuba il possesso di grandi quantità di denaro, in una situazione di disoccupazione, può costituire una prova di reato. Ad esempio, il "dissidente” Oscar Espinosa Chepe era disoccupato da dieci anni al momento del suo arresto, nel marzo 2003, però aveva più di 7000 dollari nascosti nella fodera del suo vestito. Questo denaro avrebbe potuto stare nella banca insieme con i suoi altri risparmi, ma lo aveva ottenuto Una parte degli aiuti USA agli agenti cubani passa sopra ai cubani di Miami. Il governo degli Stati Uniti supporta direttamente i “giornalisti indipendenti", 47 su cui tanto Reporter Senza Frontiere (RSF) e Human Rights Watch manifestano la loro santa indignazione. La Sezione di Interesse USA a L'Avana (di fatto l’ambasciata USA) stampa direttamente la Revista de Cuba della Marquez Sterling Journalist Society, mentre la rivista El Disidente è pubblicata in Porto Rico, ma è distribuita attraverso la citata Sezione di Interessi. dissidenti ancora in carcere dall’ondata repressiva del 2003." Se queste richieste non raggiungono il loro scopo, allora, questi paesi, compresi gli Stati Uniti, "devono essere in grado di scegliere individualmente se procedere o non imporre le loro restrizioni su Cuba". In realtà, gli USA sono l'unico paese ad imporre tali sanzioni contro Cuba. Questa informazione si pubblica con un certo dettaglio a Cuba, ma è appena menzionata da HRW o in qualsiasi altro rapporto USA. Dal momento che il "consenso USA" ha squalificato in modo efficace il sistema cubano nel suo complesso, non è preciso prendere in considerazione questo piccolo dettaglio. Tuttavia, non vi può essere alcun dubbio che i paesi indipendenti hanno il diritto all'autodifesa davanti alla sovversione e al terrorismo nordamericani. Questo tipo di intervento con il pretesto dei diritti umani è coerente con la politica estera degli Stati Uniti in America Latina. L'eliminazione dei regimi indipendenti molesti è stata una pratica ad nauseam per tutto il secolo americano ed è stato sempre sostenuta da parte delle elite corporativa statunitensi. Le campagne di delegittimazione sempre hanno preceduto il "cambio di regime", per esempio, in Guatemala e Cile. Human Rights Watch, a quanto pare, non vede un abuso dei diritti umani in questi interventi. HRW non condanna il blocco a Cuba Condividendo il agenti della Cia HRW afferma che i 50 anni di blocco economico degli Stati Uniti contro Cuba sono stati un fallimento, tuttavia, a differenza dei 187 paesi che, nel 2009, hanno votato all’ONU contro il blocco questo gruppo, con sede a New York, non lo condanna come una violazione dei Diritti Umani. Al contrario, HRW sostiene che Cuba utilizza il blocco come pretesto per la repressione. Propone un nuovo programma contro Cuba in cui Europa e America Latina si uniscano a Washington per esigere "la liberazione incondizionata di tutti i prigionieri politici" inclusi "i 53 tavolo con gli Jose Miguel Vivanco ha fatto parte dello staff, con Caleb McCarry, designato dal governo Bush come "amministratore della transizione verso una Cuba libera" senza dire una sola parola circa il terribile abuso dei diritti umani implicito nel fatto che un paese pretenda organizzare la “transizione politica" di un altro. In questo aspetto, HRW deve fare il suo dovere in relazione all'articolo 1 del Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici (2), che recita: "Tutti i popoli hanno il diritto di libera 48 Per questi prigionieri - detenuti dai militari USA nella parte occupata di Cuba, in Guantanamo - HRW ha scritto (nel gennaio 2010) che il presidente Barack Obama deve "rinnovare il suo impegno” a chiudere la prigione. Non vi è alcuna condanna dell’ "abusivo" regime di Washington per questa macchina repressiva. Ma perché dovremmo aspettarci tale sincerità ed autocritica dell’elite degli Stati Uniti? La lezione che c’insegna la relazione sui diritti umani di Human Rights Watch su Cuba è che nulla ha da insegnarci, sulla piccola isola dei Carabi - sia sui punti deboli o di forza -, una sedicente organizzazione di diritti umani che rappresenta l'elite corporativa e la politica estera nordamericana. autodeterminazione". Vivanco ha anche parlato in gruppi di cui facevano parte di ex agenti della CIA come Frank Calzon e Carlos Montaner, soggetti che hanno personalmente organizzato attentati terroristici contro Cuba. In nessun momento si sedette per condannarli per questi attacchi, ma piuttosto era d'accordo con loro sul sostegno ai dissidenti spalleggiati dagli USA. Così flessibili sono le sue posizioni. Come ricompensa per i suoi servizi, nel giugno 2009, Vivanco ha ricevuto un premio dal National Endowment for Democracy per il suo lavoro dal titolo "La democrazia a Cuba" con cui divenne chiaro il suo vincolo con il governo degli Stati Uniti. Le campagne di propaganda USA contro Cuba non sono diminuite in mezzo secolo e HRW è solo uno dei collaboratori più recenti. Rispondendo alle lamentele, da parte degli Stati Uniti, sui "diritti umani e la libertà", un disgustato diplomatico cubano ha dichiarato: "Naturalmente gli USA hanno una lunga storia in questa materia, con Batista, Somoza, Trujillo, Duvalier, Pinochet, Videla" riferendosi al sostegno degli Stati Uniti ai dittatori di Cuba, Nicaragua, Repubblica Dominicana, Haiti, Cile ed Argentina. NB. Alcuni dettagli delle accuse contro i “dissidenti", arrestati nel marzo 2003 sono stati pubblicati a suo tempo dal Ministero degli Esteri di Cuba (MINREX) e sono ancora online. Per maggiori dettagli si veda il libro, pubblicato nel 2003, Los disidentes dei giornalisti Luis Baez e Rosa Miriam Elizalde. Il giornalista franco-canadese Jean-Guy Allard, lo studioso francese Salim Lamrani e la giornalista statunitense Diana Barahona, hanno scritto numerosi articoli sul finanziamento degli Stati Uniti a queste organizzazioni (in maggioranza con sede a Miami, ma anche con sede a Parigi: Reporter Senza Frontiere), che collaborano con il governo degli Stati Uniti contro Cuba. I finanziatori di HRW appaiono nelle relazioni annuali di questa organizzazione, e il finanziamento collegato figura spesso nelle sue relazioni del paese. Tutti i detenuti con i quali Human Rights Watch ha parlato erano stati liberati. Uno si chiede che avrebbe detto, nel suo rapporto HRW, se avesse scoperto una prigione segreta cubana, dove centinaia di persone fossero state detenute senza accuse, fossero state torturate e messe al di là della portata di qualsiasi sistema giuridico. *Monthly Review 49 avevano informato i loro colleghi britannici del fatto che i loro agenti avrebbero utilizzato passaporti del Regno Unito – cosa che conferma che i servizi britannici erano a conoscenza di quanto stava accadendo, e che incoraggiano il terrorismo israeliano contro gli arabi. da Contropiano.org Abd al-Bari Atwan ”Complicità europea con terrorismo del Mossad” * il L’operazione del Mossad che ha portato all’assassinio di Mahmoud al-Mabhouh – uno dei fondatori delle brigate Ezzeddin al-Qassam, braccio armato di Hamas – non solo ha tradito le complicità di alcuni servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese e la collaborazione di alcuni suoi leader con i servizi segreti israeliani (Hamas, pur attribuendo al Mossad la paternità dell’operazione che ha portato all’assassinio di Mabhouh, ha accusato Mohammed Dahlan – membro di Fatah ed ex “uomo forte” dell’ANP a Gaza, prima che Hamas prendesse il potere nella Striscia – di essere coinvolto nell’operazione; i due palestinesi arrestati in Giordania e consegnati alle autorità di Dubai con l’accusa di aver fornito supporto logistico alla squadra che ha commesso l’omicidio, avevano lavorato in passato nei servizi di sicurezza dell’ANP, e secondo Hamas, lavoravano attualmente per una società immobiliare di proprietà di Dahlan a Dubai (N.d.T.) ), ma ha compromesso anche la reputazione di alcuni stati europei, e messo in luce la loro complicità con il terrorismo israeliano, soprattutto nel momento in cui questo terrorismo è rivolto contro gli arabi e i musulmani. E’ vero che il governo britannico si è affrettato a smentire queste notizie, ma il fatto che Londra non ha preso alcun provvedimento contro gli israeliani conferma che la collera ufficiale del governo britannico non è nient’altro che una messinscena malriuscita. La signora Margaret Thatcher espulse 13 diplomatici israeliani e sospese la collaborazione di sicurezza con Israele nel 1987, dopo che il Mossad aveva utilizzato passaporti britannici per compiere analoghe operazioni terroristiche. Ma nutriamo seri dubbi sul fatto che Gordon Brown, attuale primo ministro ed uno dei maggiori sostenitori di Israele, oltre che ex membro di un’associazione di amici di Israele (Labour Friends of Israel (N.d.T.) ), compirà un passo di questo genere. Siamo rimasti sorpresi dal silenzio di alcuni governi europei, che hanno lasciato che il Mossad utilizzasse impunemente i passaporti di alcuni loro cittadini per assassinare Mabhouh a Dubai, e siamo rimasti sorpresi ancor di più dalle inchieste pubblicate da alcuni giornali britannici venerdì scorso, le quali affermano che gli israeliani Queste posizioni vergognose e queste complicità da parte della Gran Bretagna e di altri paesi europei ci confermano che i responsabili israeliani avevano 50 sovranità alla luce del sole, compie i propri crimini confidando nel sostegno degli Stati Uniti e dell’Europa – anche laddove utilizza i passaporti di questi paesi a loro insaputa. I paesi occidentali spendono centinaia di miliardi con il pretesto di combattere il terrorismo arabo-islamico, ma perdono la loro credibilità ed i loro amici – senza i quali non possono raggiungere gli obiettivi sperati – allorché non muovono un dito di fronte al terrorismo israeliano. Ciò fa sì che i soldi che essi spendono siano gettati al vento. ragione quando hanno detto che tutto il polverone mediatico di questi giorni era “una tempesta in un bicchier d’acqua”, che presto le cose si sarebbero calmate, e che tutto avrebbe ripreso il proprio corso naturale entro una settimana al massimo. Per chiudere definitivamente la questione basterà tutt’al più qualche scusa da parte di Israele. Con il Canada e la Nuova Zelanda, Tel Aviv usò lo stesso sistema del “porgere le scuse”, quando utilizzò passaporti di questi due paesi per compiere operazioni analoghe (il fallito attentato a Khaled Meshaal nel 1997 ad Amman). Malgrado queste operazioni, i rapporti fra Israele e il Canada non subirono alcuna conseguenza, anzi si rafforzarono ulteriormente negli anni successivi. Chiediamo ai paesi arabi di punire gli stati che si sono dimostrati complici di questo terrorismo israeliano – con il loro silenzio di fronte alla violazione israeliana della loro sovranità e di fronte all’utilizzo da parte di Israele di passaporti appartenenti a loro cittadini per compiere un’azione terroristica in un emirato pacifico e moderato – minacciandoli di sospendere ogni forma di collaborazione di sicurezza con questi stati se non si affretteranno ad esercitare pressioni su Israele affinché consegni i killer alla giustizia il prima possibile. Tuttavia sappiamo bene che la maggior parte dei governi arabi non possiedono una reale sovranità, sono privi di orgoglio, e si piegano completamente ai diktat ed agli ordini impartiti dall’Occidente. Questo terrorismo israeliano equivale a qualunque altra forma di terrorismo, compreso quello di al-Qaeda. Anzi, forse è ancora peggiore, per un motivo molto semplice: al-Qaeda non è uno stato membro della Nazioni Unite, né pretende di essere l’unica democrazia del Medio Oriente, o un modello di civiltà occidentale nel mondo arabo. Il terrorismo israeliano praticato con la complicità dell’Occidente è quello che fornisce ad al-Qaeda e a tutti gli altri gruppi estremisti la giustificazione per reclutare giovani musulmani oppressi e umiliati allo scopo di portare a termine attentati a bordo degli aerei o all’interno delle stazioni ferroviarie. Diciamo ciò, senza voler per questo approvare alcuna forma di terrorismo. Ci rimane da dire che l’Autorità Palestinese (due suoi ex funzionari sono coinvolti in questo attentato terroristico) avrà perso quel poco che le restava in termini di reputazione e credibilità, e non meriterà di rappresentare neanche un solo palestinese, se non si mobiliterà immediatamente per punire i suoi leader coinvolti e fare pulizia nei suoi Il Mossad israeliano si comporta come se fosse al di sopra della legge, invia sicari nelle capitali di paesi moderati e alleati dell’Occidente, viola la loro 51 *Abd al-Bari Atwan è un giornalista palestinese residente in Gran Bretagna; è direttore del quotidiano “al-Quds al-Arabi” ranghi allontanando tutti coloro che collaborano con il Mossad il prima possibile. Due scandali in meno di una settimana – uno nel quale sono coinvolti i servizi di sicurezza che si presuppone debbano lavorare contro Israele e a difesa del cittadino palestinese, e che si sono trasformati invece in strumenti di spionaggio a scopo di ricatto a danno dei palestinesi e degli stessi responsabili dell’ANP, e l’altro nel quale è emersa una complicità con il Mossad per liquidare uno dei combattenti che hanno posto la loro vita al servizio della questione palestinese e della lotta contro l’occupazione – sono troppi. tradotto e pubblicato www.medarabnews.com 52 dal sito RIFIUTARSI DI UCCIDERE IN AFGANISTAN PARLA LA MADRE DI UN SOLDATO “Ci sono state manifestazioni in Nuova Zelanda, a Mosca e a San Pietroburgo contro l’incarcerazione di Joe e il suo ingiusto trattamento da parte del Ministero della Difesa e del governo britannico. Noi rimaniamo forti, sapendo che Joe è nel giusto.” Sue Glenton alla manifestazione di York Against The War (Regno Unito) Joe Glenton è il primo soldato in Europa a rifiutarsi pubblicamente di combattere in Afganistan. Vi era stato mandato con l’esercito britannico nel 2006: mentre i politici dichiarano che le truppe britanniche erano lì “per aiutarli”, Joe vide che gli Afgani erano contro di loro. Nel 2007 si assentò senza permesso (AWOL), costituendosi nel 2009. Lo scorso novembre Joe fu incarcerato per un mese, venendo poi rilasciato a patto che non parlasse in pubblico. Sua madre Sue e sua moglie Clare hanno continuato a parlare per lui e contro l’occupazione. Il 29 gennaio, come risultato dell’appoggio internazionale dentro e fuori delle forze armate, la corte marziale ha lasciato cadere la maggior parte dei capi d’accusa più seri, che prevedevano un condanna a più di 10 anni. Ma nonostante sia stato diagnosticato come affetto da Disturbo da Stress Postraumatico (PTSD), il 5 marzo Joe verrà processato per AWOL, che prevede una pena massima di due anni. Questo equivale a una tortura psicologica. Joe Glenton è uno delle migliaia di uomini e donne che nel mondo si rifiutano di fare il militare - una parte cruciale del movimento internazionale contro la guerra. Per difendere gli interessi dell’Occidente, le truppe NATO hanno devastato l’Afganistan, uno dei paesi più poveri del mondo. La maggioranza delle vittime della guerra sono donne. Nel 2004, l’ONU ha stimato che del milione e mezzo di persone uccise in vent’anni di conflitti, 300.000 erano bambini. Questo bagno di sangue deve finire. Sono i criminali di guerra che si devono processare, non chi rifiuta di uccidere. RIFIUTARSI DI UCCIDERE NON È REATO! 53 “Leggere per Non Dimenticare” da Ass. Naz. Amicizia Italia-Cuba Armando Hart Dávalos Faustino Pérez: paradigma di rivoluzionario In una modesta casa a Zaza del Medio, nell'antica provincia di Las Villas, che oggi fa parte della provincia di Sancti Spíritus, il 15 di febbraio 1920 nacque Faustino Pérez. Quelli di noi che lo hanno conosciuto e che hanno condiviso con lui una profonda amicizia conservano ricordi incancellabili della sua personalità e sentono la necessità di trasmettere alle generazioni più giovani alcuni fatti salienti della sua vita, dedicata interamento al trionfo della causa rivoluzionaria e progresso del socialismo a Cuba. Come ho segnalato nel ritratto che gli dedico nei mio libro Profili fu un uomo fatto d’un pezzo, rivoluzionario e patriottico. Pulito, autentico, sagace. Era pacato nel parlare e sapeva ascoltare gli altri. Conservava il fuoco di un temperamento ribelle e intransigente di fronte a tutte le ingiustizie. Sviluppammo nel combattimento contro la tirannia un'amicizia profonda; insieme eravamo stati nel Movimento Nazionale Rivoluzionario, e con identica concezione politica avevamo preso parte a diversi eventi. Entrambi dalla metà 1955 ci incorporammo nell'organizzazione del Movimento 26 Luglio. Dopo la partenza di Fidel, di Raúl e di altri compagni verso il Messico rimase a Cuba per organizzare il Movimento e raccogliere fondi per la spedizione che si stava preparando. Viaggiò in Messico in varie occasioni portando a termine le istruzioni di Fidel, e nell’ottobre 1956 assunse la direzione politico-amministrativa di un accampamento dove si preparavano i combattenti e venne a Cuba come spedizionario del Granma. Dopo il combattimento di Alegría de Pío, fu uno dei due spedizionari che restarono insieme al Comandante in Capo fino a quando si ritrovarono con il gruppo di Raúl a Cinco Palmas. Il 23 dicembre 1956 fu inviato a compiere missioni in clandestinità, nelle quali fu protagonista di rischiose azioni, tra queste il trasferimento 54 del giornalista Herbert Matthews nella Sierra Maestra, e il sequestro di Juan Manuel Fangio. Arrivò ad essere Capo del Movimento 26 Luglio di La Habana. Nel tempo Faustino si trasformò nel leader naturale della lotta clandestina a La Habana; era rispettato dai gruppi d’azione e aveva una grande capacità di relazione con tutti i mezzi sociali e politici. Frank in Oriente e Faustino a La Habana sono, secondo me, i simboli più alti della clandestinità in appoggio al combattimento nella Sierra Maestra. Aveva la fibra umana necessaria per mettersi in relazione con le altre persone e avere influenza su di loro. Quest’ultimo era il centro della sua vocazione rivoluzionaria. Era un genuino politico martiano. Anche se manteneva opinioni diverse era capace di discutere, agire e capire gli altri. Niente è più estraneo a qualsiasi settarismo che il suo comportamento e la sua vita come rivoluzionario. Dopo il fallimento dello sciopero dell’aprile 1958, partecipa sulla Sierra Maestra alla riunione con Fidel per analizzare le cause di quel fallimento e Faustino dimostrò ancora una volta la sua onestà e la sua fermezza rivoluzionaria. Ritornò a La Habana per affidare la direzione ad altri compagni e il 28 di giugno 1958 ritornò sulla Sierra Maestra, agli ordini di Fidel, dove termina la guerra. Ecco alcuni punti salienti del suo straordinario percorso rivoluzionario dopo il Primo Gennaio 1959. Quando si costituì il Governo Rivoluzionario esercitò la carica di Ministro per il Recupero di Beni Illegalmente Acquisiti e alla fine di quell'anno era riuscito a recuperare beni per un valore di 400 milioni di pesos. Agli inizi dell'anno 1960 lo si incaricò di organizzare e dirigere il Servizio Medico Rurale sulla Sierra Maestra e rimase al fronte di una zona di operazioni nella lotta contro banditi nell'Escambray. Ricordiamo che Faustino portò a termine i suoi studi di dottore in Medicina durante la dittatura, esercitando senza titolo perché si rifiutava di riceverlo con la firma di un ministro di Batista. Come ministro dell’Educazione ho avuto l'onore di consegnargli nel 1959 il suo titolo di Dottore. Fu fondatore e capo della Sanità Militare dell'Esercito del Centro e in tale ruolo partecipò ai combattimenti contro l'invasione mercenaria a Playa Girón. Nell’agosto del 1962 Fidel gli affidò il compito di organizzare l'Istituto Nazionale di Risorse Idrauliche e sotto la sua direzione si costruirono decine di dighe e altre opere di questo tipo. Tra il 1969 e il 1973 svolse anche la funzione di Segretario del Comitato Regionale del Partito a Sancti Spíritus e quello di Ambasciatore di Cuba in Bulgaria dal 1973 al 1976. Dalla sua costituzione nell’ottobre 1965 è stato membro del Comitato Centrale del PCC e dal 1976 deputato all'Assemblea Nazionale del Potere Popolare. Nel 1977 fu nominato Capo dell'Ufficio di Attenzione agli Organi Locali del Potere Popolare, ascritta al Comitato Esecutivo del Consiglio dei Ministri, carica che occupò fino al 1989. Con la sua salute indebolita e 70 anni compiuti, richiese e assunse la direzione di un programma di sviluppo agro-zootecnito e sociale nella Palude di Zapata. 55 Morì nel dicembre del 1992 con una storia irreprensibile come rivoluzionario. Con una frase eloquente, Pedro Miret lo descrisse davanti alla sua tomba come “umile e sfidante”. Com’è difficile unire in una sola anima queste due virtù! Se alla sfida non si unisce l'umiltà sparisce ogni possibile virtù. Quello che completa questi valori è il senso umano della vita che egli possedeva con tenerezza e fermezza. Uomo retto nel senso più stretto del termine, la sua passione per il lavoro con il popolo era una delle sue principali qualità. È difficile a volte trovare congiunti il carattere combattente e la capacità di comprendere le persone nelle sue varie sfumature. Riescono ad averlo solo coloro che hanno un senso concreto dell’essere umano come la cosa principale e più importante che noi rivoluzionari dobbiamo difendere. Nel novantesimo anniversario della sua nascita rinnoviamo il nostro impegno con la causa che difendemmo insieme, e confermiamo, una volta di più, la massima dell'Apostolo (Josè Martí): “La morte non è vera quando si è realizzata bene l'opera della vita". E Faustino l’ha realizzata più che bene! Per questo il suo esempio rimarrà vivo e darà frutti nella memoria delle attuali generazioni di cubani e in quelle future. Fonte http://www.juventudrebelde.cu 56 57 58